Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

ANNO 2022

I PARTITI

PRIMA PARTE

 

  

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I PARTITI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scissione: vaffanculo a loro stessi.

La Democrazia a modo mio.

Ipocriti.

Son Comunisti…

Beppe Grillo.

Giuseppe Conte.

Luigi Di Maio.

Alessandro Di Battista.

Dino Giarrusso.

Gianluigi Paragone.

Rocco Casalino.

Virginia Raggi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Secessionismo.

La Moralità.

Il Capitano.

Il Senatur.

Giancarlo Giorgetti.

Lorenzo Fontana.

Luca Zaia.

Roberto Calderoli.

Roberto Maroni.

La Bestia e le Bestie.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

La morte del Comunismo.

Comunisti: La Scissione dell’atomo.

Ipocriti.

Razzisti e bugiardi.

Achille Occhetto.

Beppe Sala.

Carlo Calenda. 

Elly Schlein.

Enrico Berlinguer.

Enrico Letta.

Giuseppe Pippo Civati.

Goffredo Bettini.

Luigi De Magistris.

Mario Capanna.

Massimo D’Alema.

Matteo Renzi.

Maria Elena Boschi.

Matteo Richetti.

Monica Cirinnà.

Nicola Fratoianni.

Gianni Vattimo.

Fausto Bertinotti.

Laura Boldrini.

Stefano Bonaccini.

Walter Veltroni.

Vincenzo De Luca.

Le Sardine.

I Radicali.

Quelli …Che Guevara.

I Marxisti d’oltreoceano.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le vittime innocenti degli scontri con la polizia.

Le Primule rosse.

Il Delitto Biagi.

Le Brigate Rosse.

PAC. Proletari Armati per il Comunismo.

Lotta Continua.

La Falange armata. 

Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, NAR (Nuclei armati rivoluzionari).

Gli Anarchici.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

I PARTITI

PRIMA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Scissione: vaffanculo a loro stessi.

La lite Casaleggio - Grillo che segnò il destino del Movimento. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 7 settembre 2022.

L’incontro era andato così male che negheranno a lungo che fosse davvero avvenuto. Alle 13 dell’undici marzo 2016, forse il giorno più importante nell’accidentata storia del Movimento Cinque Stelle, Gianroberto Casaleggio uscì dall’ufficio dell’azienda che portava il suo nome con una faccia ancora più cupa del solito. Ad aspettarlo, c’era una sola persona, un solo giornalista, che gli chiese una dichiarazione. «Mi scusi, non oggi, sarà per la prossima volta» fu la risposta.

Non ci sarebbe più stata una prossima volta. I giorni del cofondatore del M5S erano purtroppo ormai contati. Emanuele Buzzi, che aveva già visto i cinque membri del direttorio, capeggiati da Luigi Di Maio, lasciare la sede con atteggiamento furtivo, sapeva che era successo qualcosa di molto importante. Pezzo per pezzo, una testimonianza dopo l’altra arrivò a scoprire come la rottura tra Casaleggio e Beppe Grillo non sia avvenuta con un «vaffa» indirizzato dal primo all’ormai ex amico genovese durante la loro ultima telefonata, che forse non c’è neppure mai stata.

Tutto era accaduto durante quella riunione, quasi alla luce del sole, quando il progetto dell’ideologo milanese di creare una nuova struttura omnicomprensiva dove sciogliere le diverse anime pentastellate, il logo, una nuova piattaforma web, che prevedeva di fatto una parità di ruolo tra i due fondatori, era stata bocciata da quasi tutti i suoi ragazzi, oltre che da Grillo. Non fu solo una sconfitta, per un uomo orgoglioso come Casaleggio, quella fu anche una umiliazione senza ritorno.

Nel giornalismo esistono gli analisti più o meno dotti, i commentatori professionali, i coloristi. E poi ci sono quelli che hanno le notizie, da cui dipendono tutte le altre categorie sopracitate. Per averle, bisogna stare tanto sul marciapiede, come fece Buzzi quel giorno e come ha fatto in questi dieci anni di lavoro dedicati in modo esclusivo al M5S, occorre creare rapporti confidenziali basati sulla fiducia reciproca, che talvolta prevedono anche la possibilità di non scrivere ogni dettaglio di quel che si sa. Ci vuole tanta fatica, tanta dedizione e altrettanta capacità di sopportazione.

Poi arriva il momento in cui l e storie finiscono, come è finita quella dei Cinque Stelle come li abbiamo conosciuti. E allora diventa possibile scrivere ogni cosa, e fare la storia inedita e segreta di un Movimento di cui si pensa di sapere tutto, che ha vissuto in pubblico sia la propria ascesa che il rovinoso declino. (in libreria dal 9 settembre per Solferino) è il libro sui Cinque Stelle che mancava. Perché se c’è una persona che poteva raccontare la vicenda privata del soggetto politico più controverso e discusso della recente storia italiana, quella è il nostro «Ema», professione cronista. Che con questo libro crea una mappa alternativa e più precisa della geografia intern a di una strana creatura in grado di passare da forza antisistema a forza di governo, da scheggia impazzita a partito di maggioranza. Fino alla mutazione ormai quasi definitiva, dall’uno vale uno al partito di uno solo, Giuseppe Conte, al tempo stesso salvatore e carnefice del vecchio M5S.

Proprio perché il suo autore ci è sempre stato, perché ha visto fiorire e poi appassire ogni protagonista di questa strana vicenda, questo libro non è una raccolta di aneddotica spicciola e inedita sul M5S, ma getta una luce diversa su alcune scelte o decisioni che hanno inciso molto sulla vita di questo Paese. Se davvero l’addio di Luigi Di Maio al M5S è stata la palla di neve che ha innescato la slavina della sfiducia al governo Draghi, non è cosa da poco sapere dell’ultima telefonata dell’attuale ministro degli esteri con Grillo, della sua richiesta di intervenire respinta con perdite.

Sono tantissime in queste pagine le notizie nuove di zecca che da sole varrebbero un titolo di giornale, ma bello grosso. Da una specie di cospirazione per allontanare Virginia Raggi dal Movimento, alle scelte comunicative che tanto hanno pesato nella composizione del controverso governo con la Lega, fino alle discussioni sui soldi, alle feroci faide interne e al sondaggio segreto che obbligò Grillo e Conte a una pace di convenienza. Emanuele Buzzi racconta tutto, con il suo consueto sguardo non giudicante. E disegna così la parabola di un Movimento che doveva volare alto, la rete, le connessioni, il grido onestà-onestà. Ma infine è caduto per sentimenti come la cupidigia, la brama di potere. Molto bassi, e molto umani. 

La lite con Casaleggio e il sondaggio segreto: la verità sul patto Grillo-Conte.

La storia del Movimento 5 Stelle è stata segnata da due eventi cardine: la rottura dei due co-fondatori nel 2016 e il sondaggio segreto che obbligò la tregua tra Grillo e Conte. Luca Sablone su Il Giornale l'8 settembre 2022.

Il Movimento 5 Stelle si è reso protagonista di un processo di trasformazione totale rispetto alle origini. Una serie di metamorfosi che l'ha portato ad assumere connotati per certi aspetti del tutto differenti rispetto alla propria nascita. Lo snaturamento ha toccato diversi ambiti, ma in realtà sono due gli eventi principali che hanno segnato il destino del M5S: la lite tra i due co-fondatori e un sondaggio segreto per evitare la rottura definitiva a luglio 2021.

Di certo una data resterà inscalfibile: l'11 marzo 2016. Il giorno che probabilmente più di tutti ha avuto un impatto sulla storia del Movimento. A raccontarlo è Emanuele Buzzi, che nel suo libro Polvere di stelle (in libreria da domani per Solferino) svela retroscena e dettagli della galassia pentastellata. Tra le altre cose dà conto di un litigio tra Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che sarebbero arrivati ai ferri corti poco prima del decesso del guru.

A marzo di quell'anno si parlava di diverse possibilità. Nello specifico si prendevano in considerazione due strade: un passo indietro formale da parte del comico genovese o un cambiamento (un allargamento) dei vertici. "Casaleggio uscì dall’ufficio dell'azienda che portava il suo nome con una faccia ancora più cupa del solito [...] I cinque membri del direttorio, capeggiati da Luigi Di Maio, lasciarono la sede con atteggiamento furtivo", si legge sul Corriere della Sera che oggi ha anticipato i contenuti del libro di Buzzi. La ricostruzione del giornalista dimostra bene quanto i rapporti fossero ormai non proprio idilliaci. Era accaduto qualcosa di assoluta importanza.

Ai tempi si parlava di una presunta telefonata furibonda tra Grillo e Casaleggio dai toni durissimi. Anche se in tal senso non sono arrivate conferme ufficiali. E dunque si resta alle indiscrezioni di una chiamata in cui si sarebbe consumato il "vaffa", in cui si sarebbe arrivati alla presa d'atto che le posizioni fossero distanti. Alla base della discordia ci sarebbero state alcune decisioni ai vertici del partito.

Nell'ampia ricostruzione di Buzzi trovano spazio anche altri aneddoti: dalle feroci correnti interne ai rapporti con Virginia Raggi passando per le discussioni sui soldi, sono diversi i fronti che hanno fortemente animato il dibattito nel mondo 5 Stelle. Si parla anche di un sondaggio segreto che portò Beppe Grillo e Giuseppe Conte a siglare la pace, evitando così il divorzio definitivo che avrebbe avuto un urto sul nuovo corso del Movimento.

Il 15 luglio 2021 il comico e l'ex premier si erano incontrati a Marina di Bibbona per sancire il patto della spigola. Una tregua dopo settimane di tensioni. Conte aveva elaborato la bozza del nuovo statuto, che però aveva riscontrato le perplessità di Grillo. Che a sua volta aveva accusato l'avvocato di non avere visione politica, capacità manageriali, esperienza di organizzazioni e capacità di innovazione. Poi la pace improvvisa. Quanto reale, nei fatti, non si sa.

(ANSA il 21 giugno 2022) Oltre 60 parlamentari hanno lasciato il M5S e si sono iscritti al nuovo gruppo di Di Maio. Lo riferiscono deputati e senatori coinvolti nell'operazione. 

(Adnkronos il 21 giugno 2022) - Questa "ennesima lacerazione" è "figlia della decisione scellerata di far parte di un governo dove governano tutti". Di Maio ora "si collocherà saldamente al fianco di draghi", mentre se Conte "vuole dare una possibilità" al M5S alle politiche, "deve lasciare immediatamente il governo Draghi". Lo dice Alessandro Di Battista, intervistato in Russia da Rainews24. (Leb/Adnkronos)

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 22 giugno 2022.

A cercare nella memoria del telefono, emergono pezzi di Storia. Con la esse maiuscola, non si tratta di un refuso. Perché stiamo parlando del partito che stravinse le elezioni del 2018, che è stato il principale azionista di un curioso esperimento giallo-verde, e del governo che ha affrontato un evento unico e speriamo irripetibile come la pandemia. 

Adesso che tocca scrivere dello sfacelo, del crollo ormai definitivo di una casa che ha sempre avuto il problema di essere ogni volta costruita dal tetto, da qualche parte bisognerà pur cominciare. 

Lo facciamo da uno scambio di sms che risale a qualche settimana dopo quel trionfo di cui sopra. «Ma tu lo conosci questo Conte?» venne chiesto all'anonimo parlamentare all'epoca fedelissimo dell'allora eroe dei due mondi Luigi Di Maio, vincitore dell'odiato Pd di Matteo Renzi, oggi transfuga dall'altra parte della barricata. «Ma chi c... sarebbe?» fu la risposta. 

L'attuale ministro degli Esteri e l'ex premier non hanno in comune solo grisaglie, ma anche un destino comune da corpi estranei, mai completamente parte dello sfuggevole Dna pentastellato, spesso accettati per convenienza quando il vento soffiava a favore, mai amati.

«Chiamatemi Luigi per favore». Invece non si muoveva una foglia, sotto al palco di Rimini dove Di Maio era stato appena eletto capo politico del M5S. Solo caldo e polvere. Un gruppo di militanti calabresi si allungava oltre le transenne per abbracciarlo, «Gigi, sei grande Gigi» gridavano eccitati. 

Lui allungò il braccio destro per intero, piegandosi in avanti, quasi a evitare quegli abbracci sudati, e chiese per cortesia che il suo nome non venisse sottoposto a diminutivi. Quanta differenza con la leadership fisica di Beppe Grillo, che presentando la prima lista del suo Movimento si era fatto trasportare su un canotto dalle mani di migliaia di militanti fino al palco di piazza Maggiore a Bologna, e che durante i comizi più ispirati dello storico Tsunami Tour del 2013 si buttava tra la folla. 

Sembra che sia passata un'era geologica. Quella kermesse riminese ideata per il passaggio di consegne tra vecchio e nuovo M5S conteneva già gli ingredienti principali di questo romanzo populista che sembra trascinarsi verso la fine. Beppe Grillo aveva già cominciato a fare il pendolo. Andava e veniva ripetendo sempre di essere stanco, e celebrò senza entusiasmo l'incoronazione a freddo di quello che chiamava «il deputatino di Pomigliano d'Arco».

Roberto Fico stava in disparte e dava appuntamento nella hall del suo hotel, dove recitava la consueta parte dell'offeso, del grillino originario che sopravvive in quanto tale e si lamenta, ma tanto alla fine basta dargli un contentino e digerisce tutto, anche il governo con la Lega. 

Mancava Alessandro Di Battista, che proprio in quella occasione, tramite uno struggente messaggio video, inaugurò la sua carriera Erasmus di politico senza politica, di quello che sta fuori perché è diverso ma anche un po' dentro perché non si sa mai, intanto gira il mondo e gli studi televisivi come indignato speciale.

Venne l'incredibile risultato del 2018, e con esso ci fu l'avvento di uno sconosciuto avvocato pugliese, introdotto a Grillo e a Davide Casaleggio proprio da Di Maio quando c'era da trovare la quadra per un governo che sembrava impossibile. Saltiamo a piè pari i rovesci elettorali che portarono alle dimissioni di Di Maio.

Va citata per dovere di cronaca la favolosa trasferta parigina della ricostituita coppia Di Maio-Dibba, i prescelti. Quel febbraio 2019 era una fase di sondaggi calanti. Loro pensarono bene di andare a Parigi in auto per rendere omaggio ai Gilet gialli che all'epoca paralizzavano la Francia incitando alla guerra civile, e rifarsi così una verginità antisistema. Il tutto mentre erano al governo in Italia. La bussola non è stata certo smarrita l'altro ieri. 

Da allora, gli addetti ai Cinque Stelle non hanno fatto altro che raccontare un'agonia consapevole. Anche qui viene in soccorso l'archivio di WhatsApp e la corrispondenza con attuali parlamentari delle varie fazioni. «Siamo finiti». «Ormai non rimane più nulla».

«Tutti a casa». Un Movimento esausto, prigioniero dei dilemmi esistenziali del fondatore, torno o non torno, mi riprendo tutto oppure abbandono definitivamente.

Quello con Giuseppe Conte è stato un matrimonio di convenienza, nato male per via di appuntamenti mancati che avevano fatto imbestialire Grillo, per via dell'oggettiva difficoltà dell'ex presidente del Consiglio, che ancora oggi si muove come fosse in casa d'altri, recitando slogan che non appartengono alla figura che si è creato con la permanenza a Palazzo Chigi. Da due debolezze non nasce mai una forza. Non è un caso che lo strappo più definitivo avvenga sulla politica estera.

Fino a che era vivo Casaleggio padre, atlantista convinto, uno che quando gli si chiedeva se esistevano alternative alla Nato ti fulminava con lo sguardo, era roba sua. Dopo, tutto e il contrario di tutto. Quel terreno è diventato la prova dell'assenza di ogni direzione comune, di ogni identità, vecchia o nuova che sia. Guardando indietro, rimane da chiedersi come sia stato possibile quel 32,7% del 2018. Bisognerebbe chiederlo a quelli che ieri nell'aula di Montecitorio hanno celebrato la morte del M5S sostenendo giustamente che la politica estera è una cosa seria. Ieri si sono dimenticati di dirlo. Sarà per la prossima volta, forse.

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 22 giugno 2022. 

Istinto primordiale: tuffarsi nella tonnara grillina. Le sinapsi dei cronisti sfrigolano con un mucchio di pensieri malevoli.

I 5 Stelle si dividono, si sfasciano.

Quando? Adesso. Calma. 

Inquadrare la scena, cronaca: il premier Mario Draghi, tra poco, chiederà al Senato di essere autorizzato a mandare altre armi in Ucraina; Giuseppe Conte pretenderebbe invece che ogni spedizione fosse preceduta da un passaggio parlamentare (l’ambasciatore russo Sergej Razov ha già ringraziato, soffiando sulfureo compiacimento); Luigi Di Maio, colpevole di essersi indignato per tanta ostilità nei confronti del governo, è stato sottoposto a brutale processo dal tribunale contiano. Provocazione, sfida, apocalisse. «Giggino sta raccogliendo firme tra i parlamentari del Movimento». Se ne va, prima di essere espulso. 

Dalla buvette di Palazzo Madama arrivano risate cimiteriali. 

Circoletto intorno a Matteo Renzi, che ingoia (letteralmente, tipo fachiro) due pizzette sotto le occhiate adoranti di Francesco Bonifazi, l’amico tesoriere sempre abbronzato come Carlo Conti. L’intervento di Renzi in aula, poco fa, di un’altra categoria (ad alcuni può apparire presuntuoso, egocentrico, spregiudicato: però rispetto alla media dei senatori è legittimato a considerarsi un incrocio tra Churchill e De Gasperi, ma forse più Churchill). Anche oggi è il più veloce di tutti: «I grillini sono finiti. Si stanno dividendo per capire chi entrerà nel prossimo Parlamento». Interviene Pier Ferdinando Casini (che pure si è esibito in un intervento pieno di saggezza): «Io invidio Renzi perché è giovane e bello» (sguardi maliziosi). Il socialista Riccardo Nencini: «Scusate, io vado».

Il botto dei 5 Stelle diffonde un certo, innegabile buon umore (avevano promesso di aprire questo luogo sacro come una scatoletta di tonno, un po’ di rancore ci sta). Portaborse: «Ragazzi, è fatta». Il ministro Federico D’Incà e il sottosegretario Enzo Amendola (gran mediatore) sono riusciti a limare anche l’ultima virgola di una risoluzione che mette d’accordo tutte le forze di governo e consente a Draghi di partecipare al prossimo Consiglio europeo. Il voto, però, sembra ormai un dettaglio. Tutti guardiamo Di Maio: eccolo laggiù, in fondo al corridoio con le pareti foderate di velluto. È livido, teso, gelido. Gira voce che avrebbe arruolato oltre 30 deputati (destinati ad aumentare dopo i ballottaggi delle comunali) e una decina di senatori, ci sono i primi nomi (Castelli, Spadafora), il gruppo si dovrebbe chiamare «Insieme per il futuro», sembra abbiano già una sede. 

Da una porta spunta Giorgio Mulé, sottosegretario alla Difesa: FI, potente, informato.

«Una scissione così non la organizzi in una mattina. È chiaro che Di Maio l’aveva preparata, con cura, da settimane».

Continui.

«Conte umiliato. Ha perso la faccia e la truppa. Dopo aver inutilmente minacciato Draghi, non solo vota la risoluzione di maggioranza, ma si ritrova con mezzo partito. Per il Pd, un disastro. Con chi si allea: con l’avvocato dotato di pochette o con Giggino?».

Salute del governo?

«Cagionevole. Però non sarà ricoverato. Andrà avanti con le pasticche». 

Cercare subito uno del Pd. Ma niente: camminano veloci, sguardi accigliati dietro le mascherine, scuse miserabili: devo tornare in aula, aspetto la telefonata di mia moglie. Si volta il comunista (non è un modo di dire) Marco Rizzo, che parlava con il suo unico senatore rosso, Emanuele Dessì, ex grillino. «Emanuele, dai: fagli vedere la fotocopia». Dessì tira fuori un foglio, è il programma del M5S, con cui fu eletto nel 2018: ripudio della guerra, disarmo, Russia partner economico, riformare la Nato. «All’epoca, il capetto dei 5 Stelle era Di Maio — dice Rizzo — Ma non stupitevi. Questi si dividono su un tema gigantesco come la guerra solo per aggirare il limite del doppio mandato. Ricordo che Bertinotti e Cossutta, un argomento così, lo affrontarono invece con un cipiglio memorabile».

Paragoni con Di Maio e Conte? «Sarebbe come paragonare la compagna di scuola con Sharon Stone» (poi, boh: s’avvicina Stefania Craxi e gli urla: «Rizzo, tu dovevi sposarmi!». E lui: «Ma tu sai che io ho fatto molto di più!»). 

Compare Antonio Razzi: «Nei momenti epocali ci sono sempre». Un fine notista: «Non trovi siano indecenti tutti questi uomini che vengono nel Salone Garibaldi senza calzini?». Un tipo basso, rotondo, sudato, chiede: «S’è per caso visto Matteo Salvini?». Ma oggi Salvini potrebbe presentarsi vestito da Batman, nessuno se lo filerebbe. Piuttosto: notizie di Beppe Grillo?

Allora due cronisti partono e vanno ad aspettarlo all’hotel Forum — suite con vista sui Fori, perché l’Elevato adora il lusso — anche un po’ per vedere se ricomincia con il solito rosario di insulti, «Giornalisti fantasmi/ cadaveri che camminano/ lombrichi destinati all’estinzione», o se ha capito che stavolta è il suo Movimento a rischiare brutto, e noi invece siamo ancora tutti qui, al nostro posto, a raccontare.

 Giampiero Mughini per Dagospia il 22 giugno 2022.

Caro Dago, sono un cittadino della Repubblica che ieri ha ascoltato per intero la conferenza stampa di Luigi Di Maio e che ne è stato contento. Valeva la pena stare lì una ventina di minuti pur di sentirgli dire un’espressione che più o meno contraddiceva l’ennesima bestialità del loro repertorio originario, e cioè che “uno vale uno”. 

Sì, sono contento che Di Maio sia oggi così lontano da quello che andò in Francia per battere la mano sulla spalla a quei gaglioffi che capeggiavano le sfuriate dei “gilet gialli”. Sì, sono contento che la frotta di parlamentari aderenti ai 5Stelle sia scesa di una sessantina di unità. Sì, sono contentissimo che questi 60 parlamentari si dichiarino dei fervidi sostenitori del governo Draghi.

Per un attimo ho addirittura pensato di scrivere qualcosa sull’argomento, e sarebbe stata la prima volta nella mia vita che scrivevo su qualcosa che attenesse al movimento fondato da Beppe Grillo. Ma no, non ne sono proprio capace, non mi viene in mente nulla, proprio nulla. 

Su quel materiale antropologico ci sono gli articoli (magnifici) di un Francesco Merlo, di un Fabrizio Roncone e di tanti altri. Nel ricordarmi che all’avvio del movimento, Beppe Grillo venne portato su un canotto dalla folla esaltata dai suoi “vaffa”, mi viene uno sbadiglio e solo quello. Per me impossibile scrivere di loro. Impossibile. Nemmeno una parola, nemmeno un aggettivo. Mille auguri a Di Maio e ai suoi sodali.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 21 giugno 2022. 

Torna il vaffa, ma della buona creanza, il vaffa di un sottovalutato a un sopravvalutato, un vaffa senza diavoli nascosti, un vaffa tutto napoletano, respinto senza neppure il classico "vacci tu". E va detto subito che solo a prima vista sono divertenti gli ex squinternati d'assalto che ora si mandano a quel paese mordendosi la lingua. 

Qui il solo insulto forte e chiaro, che nel codice dei 5stelle equivale a infame cornuto e sbirro, l'ha lanciato Paola Taverna a Luigi Di Maio: «Sembri Renzi». Ma la porta d'uscita gliel'ha mostrata Roberto Fico, che nel 2017 ne subì la leadership imposta da Grillo per acclamazione. 

E tutti ricordiamo Fico in dolente afonia, agitarsi, ma senza dire neppure una parola, dietro il palco anticasta di Rimini dove gli fu persino impedito di salire: giorno verrà Perciò ora Fico si vendica, si scarica e dice che «Di Maio non è contro Conte, ma contro tutto il Movimento »: tiè. Ma mentre lo dice nega di dirlo: «Non ne voglio parlare».

Lo stile è quello del calcio dell'asino. Ma Di Maio, mimando l'eleganza, gli risponde con una nota in terza persona, che davvero si nega alla risposta: "Il ministro non replicherà a nessuno degli attacchi che sta ricevendo in queste ore. C'è un limite a tutto, ciononostante non si può indebolire il governo italiano davanti al mondo che ci osserva, in una fase così delicata".

Ovviamente non è uno scontro tra apocalittici e integrati, ma tra integrato e integrato, entrambi con il problema del doppio mandato. Fico e Di Maio davvero si somigliano anche se non si pigliano, e il duello tra i due non ci sarà perché in nessun Paese del mondo, neppure nel "Venezuela di Pinochet" (che stava nell'atlante storico ridisegnato dal "Di Maio di prima") un sopravvalutato accetta la sfida di un sottovalutato. Insomma, mai questo "Di Maio di dopo" promuoverebbe Fico ad avversario e dunque: "descansate niño" e riprenditi il guanto.

E però bisogna ammettere che sta diventando davvero epico il romanzo di formazione dell'outsider e brocchetto del populismo Luigi Di Maio, da commesso dello stadio San Paolo a ministro degli Esteri pulitino, perfettino e persino bravino del governo Draghi europeista e atlantista. 

Perciò di nuovo ha sbagliato Fico a sfidarlo passeggiando per le strade di quella Napoli che li unisce mentre li divide. Fico infatti ci è nato mentre Di Maio, che è cresciuto a Pomigliano, non è neppure figlio della provincia, ma di quell'enorme hinterland che per grandezza in Europa è secondo solo a quello di Barcellona.

Di Maio ha dunque il narcisismo compensatorio della periferia, lo sforzo e il bisogno di strafare per poter fare. Fico invece pensa di essere lui Napoli, arruffato per i centri sociali che frequentava in jeans e maglietta come "il terrone" amato e cantato dagli Skiantos, non indumenti da compagno proletario, ma uno stile di vita, quale che sia il vestito che indossa. 

Pure con il cappotto blu di cachemire che lo impaccia quanto l'impaccia l'Istituzione, Fico è ancora il "compagno" arruffato di una volta, è vero, ma è anche Nino D'Angelo, il cui inno è "Nu jeans e 'na maglietta" che è pure il titolo del suo film più di successo.

Il presidente Fico non si sposta più in autobus anticasta come negli esordi ed eccelle nei convenevoli, si inchina, scambia piccoli sorrisi di circostanza. Ma, fedele alla sua natura, concede pochissime parole perché con la lingua si imbroglia - "il vaglio resta vagliato", "non è vero che uso un'auto blu, è grigia" - e si infila le mani in tasca, che è la sua abitudine. 

"Machitofafà" lo chiamavano all'università di Trieste, dove si laureò - 110 e lode - con una tesi sui neomelodici napoletani, "la canzone popolare che non si può giudicare con il codice penale alla mano". E dunque "come Hobsbawm vide la rivoluzione nei briganti", così Fico la vide, prima ancora che in Grillo, in Nino D'Angelo (rieccolo) che appunto canta: "Ma chi to' fa fa".

Di Maio invece ha sempre avuto il look in contrasto ideologico con il grillismo e dunque anche con il se stesso di prima: lo studente fuori corso che sbagliava i congiuntivi era già l'unico nel Movimento - "l'ometto di Grillo" lo insolentiva De Luca con la cravatta, anche prima di esibire qualche bella compagna, di firmare anche lui un'autobiografia da infanzia di un capo, di chiedere scusa per gli eccessi del giustizialismo e perdono per essere stato il "Di Maio di prima".

E ci si può perdere nelle sue gaffe, sulle quali anche io ho così tanto scritto che davvero mi basterebbe ricopiarmi. A partire magari da quel viaggio in Francia e contro la Francia quando insieme con Di Battista riduceva a parodia la politica estera. Di Maio, che era vicepresidente del Consiglio, ministro e capopartito, si offriva infatti come una Marianna di sostegno alla violenza redentrice dei gilet gialli: pugni ai poliziotti e ruspe contro la porta del ministero.

L'idea scema era quella del "qui casca il gallo", con la denunzia del colonialismo francese settant' anni dopo la sua fine, mentre Giorgia Meloni, nel suo più fulgido momento di reginetta di Coattonia, gridava in tv che Macron sfruttava i bambini africani per arricchirsi. 

Le gaffe e le fragilità di Fico sono diverse dalle bêtises accumulate da Di Maio, Di Battista e dai vari Toninelli. Fico, sia nel bene che male, è rimasto un grillino piccolo piccolo che raramente è stato fuori misura. 

Di sicuro sballò quando si lanciò in una sgangherata, calunniosa offensiva contro Umberto Veronesi che Beppe Grillo chiama Cancronesi: «Riceve soldi da una multinazionale che costruisce termovalorizzatori. 

Vergogna!». È vero che riscorrendole oggi tutte le storie di questi grillini hanno la furbizia ruspante del guaglioncello "io speriamo che me la cavo", ma solo Di Maio è ormai arrivato alla prova-miracolo: una prova dura, acre, ammorbante, velenosa, per vincere la quale dovrebbe appartenere - ma chi può escluderlo?- ai fenomeni della politica italiana.

In questa decadenza dei 5 stelle, che non somiglia certo a un'altra caduta degli dei, come furono la morte della Dc, del Pci e del craxismo, come del resto anche quella del fascismo dopo il fascismo, del Movimento sociale di Almirante e Fini, in questo finale di partita di un Movimento 5 stelle slabbrato come un condominio, sono in troppi a sognare un duellissimo: Fico sogna di battere Di Maio, Di Maio sogna di battere Conte, e Conte sogna di battere…Draghi. 

Da repubblica.it il 21 giugno 2022.

Da Sergio Battelli a Laura Castelli, da Primo Di Nicola a Carla Ruocco, e poi Francesco D'Uva, Simone Valente, Daniele Del Grosso, Simona Nocerino, Vincenzo Presutto e tanti altri. L'hotel Bernini è affollato nell'attesa di Luigi Di Maio e della conferenza stampa convocata per ufficializzare la scissione dal Movimento. Parte dal governo, il ministro degli Esteri. Dice che si è rafforzato, dopo la risoluzione di oggi sugli aiuti all'Ucraina, approvata con 219 sì, 20 no e 20 astenuti in Senato. Sostiene che lo scontro nel Movimento - ormai in corso da giorni - è stato alimentato per motivi mediatici. E poi spiega le ragioni dell'addio. 

"Dovevamo scegliere da che parte stare"

Si concentra sulla guerra in Ucraina, Di Maio. "Dovevamo scegliere da che parte stare della storia. I dirigenti del Movimento hanno rischiato di indebolire l'Italia, di mettere in difficoltà il governo per ragioni legate alla propria crisi di consenso, per recuperare qualche punto percentuale, senza neppure riuscirci. La guerra non è uno show mediatico, è da irresponsabili picconare il governo. Di fronte alle atrocità che sta commettendo Putin non potevamo mostrare incertezze". Poi il passaggio sulla risoluzione. Al Senato c'è stato un "voto che delinea la posizione dell'Italia e che ribadisce la nostra appartenenza all'area euro-atlantica" e non poteva essere altrimenti. "No alle ambiguità". 

"Grazie al Movimento per quello che ha fatto per me, ma da oggi inizia una nuova strada", ha detto Di Maio. Quindi l'annuncio, ormai scontato. "Lascio il Movimento, è una scelta sofferta che non avrei mai pensato di fare". E la voce si incrina. Poi la rottura, anche nel linguaggio: "Da oggi inizia un nuovo percorso. Per costruire un futuro servono soluzioni e idee realizzabili. Per avere un modello vincente da nord a sud abbiamo bisogno di aggregare le migliori capacità e talenti. Perché uno non vale uno". 

La citazione di Sassoli

Nel suo discorso Di Maio cita l'esponente di un altro partito, lo scomparso presidente del Parlamento europeo, il dem David Sassoli. "Davanti a questa guerra devastante, l'Europa deve essere più solidale, ce lo ricordava il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, un esempio di grande di correttezza, di senso delle istituzioni e di pacatezza che deve essere da guida per tutti noi". 

L'identikit di "Insieme per l'Italia"

Il nome della nuova formazione parlamentare è già noto dal pomeriggio. Nella conferenza stampa Di Maio ne traccia l'identikit. "Nascerà una forza politica che non sarà personale", dove "non ci sarà spazio per odio, sovranismi e populismi". 

"Il Movimento non è più la prima forza"

Infine, l'ultima stoccata: "Da domani il Movimento non è più la prima forza politica in Parlamento". Di Maio non risponde a domande. Al termine del suo intervento, c'è spazio solo per l'abbraccio ai "suoi" parlamentari.

Nasce il partito di Luigi Di Maio, si chiamerà “Insieme per il futuro”. Ecco chi ne fa parte. Il ministro degli Esteri lascia il Movimento 5 stelle. Al momento con lui una quarantina tra deputati e senatori: «Ma puntiamo a raccogliere consensi anche da altri gruppi parlamentari». Antonio Fraschilla su L'Espresso il 21 Giugno 2022.

Lo strappo era ormai nelle cose, ma in pochi si aspettavano tempi così rapidi. Alla fine le strade dei due leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, si separano. Il ministro degli Esteri prima ha lanciato l’allarme, poi rivelatosi in parte infondato, di un voto contrario del Movimento 5 stelle alla risoluzione della maggioranza in Senato sulla guerra in Ucraina; poi stamani ha raccolto attorno a un tavolo i suoi fedelissimi e lanciato il suo piano: lasciare il Movimento e fondare nuovi gruppi parlamentari che si chiameranno “Insieme per il futuro”. 

Al momento ci sono circa 40 firme tra Montecitorio e Palazzo Madama, per la formazione dei due gruppi di Camera e Senato. Tra i deputati ci sono Gianluca Vacca, Sergio Battelli, Alberto Manca, Caterina Licatini, Luigi Iovino, Andrea Caso, Davide Serritella, Daniele Del Grosso, Paola Deiana, Filippo Gallinella, Elisabetta Barbuto, Iolanda Di Stasio, Alessandro Amitrano, Elisa Tripodi, Laura Castelli, Tiziana Ciprini, Manlio Di Stefano, Nicola Grimaldi, Dalila Nesci, Simone Valente, Andrea Giarrizzo, Marianna Iorio, Marialuisa Faro, Roberta Alaimo, Pasquale Maglione, Luciano Cadeddu e Margherita Del Sesto. I senatori invece sono Emiliano Fenu, Fabrizio Trentacoste, Antonella Campagna, Vincenzo Presutto, Primo Di Nicola, Simona Nocerino, Sergio Vaccaro, Daniela Donno.

Ma, anche da altri partiti potrebbero arrivare ingressi nei gruppi di Di Maio, come quello del deputato Antonio Lombardo che si era iscritto a Coraggio Italia del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.

Dicono dal cerchio magico del ministro degli Esteri: «ll progetto di Di Maio guarda al 2023, a una formazione che parta dai territori, dalle esperienze degli amministratori locali e delle liste civiche. Per questo il primo cittadino di Milano, Beppe Sala, è considerato un interlocutore. L'obiettivo, in Parlamento, è quello di attrarre anche deputati e senatori dei gruppi di centrodestra ma in rotta con le forze di appartenenza. Lo sguardo per eventuali futuri dialoghi è rivolto al centrosinistra».

Coi Cinque stelle finisce l’età della protesta, ma non quella della radicalità. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 21 giugno 2022

Con la scissione del Movimento Cinque stelle e la rottura tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio finisce la stagione della protesta, ma non quella della radicalità. 

Dopo Conte e Di Maio non c’è Di Battista, tutti e tre sono interpreti di una stagione conclusa. 

Ma resta spazio a chi saprà rispondere a quelle domande di equità, redistribuzione e giustizia in modo efficace, competente ma anche netto e coraggioso.   

Con la spaccatura del Movimento Cinque stelle tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio finisce la stagione della protesta, ma non quella della radicalità.

Su Facebook Alessandro Di Battista, da tempo fuori dal parlamento, indica il peccato originario del Movimento: aver deciso di governare, farsi potere invece che rimanere contropotere.

Beppe Grillo, dieci anni fa, era scettico perfino sull’opportunità di correre alle elezioni, difficile denunciare la Casta e i compromessi dall’interno.

Come tutti i populismi e in particolare i populismi di sinistra, quelli che se la prendono con la minoranza forte (l’élite) invece che con la minoranza debole (immigrati, persone con identità sessuali o di genere varie…), i Cinque stelle hanno sperimentato e generato la frustrazione di promettere un cambiamento che non sapevano come generare.

Donald Trump non ha provato a cambiare “il sistema”, si è limitato a imbrogliarlo, a sfasciarlo. I Cinque stelle avevano intenzioni migliori, così come il procuratore generale progressista Chesa Boudin di San Francisco, sfiduciato dai suoi elettori, o a suo tempo Alexis Tsipras in Grecia, Bernie Sanders negli Stati Uniti e così via. Ma per cambiare il sistema servono idee, competenze, radicamento.

I Cinque stelle hanno sempre avuto programmi imbarazzanti, competenze minime, nessun radicamento sul territorio (come dimostrano sconfitte e candidature mancate alle amministrative). Conte e Di Maio, in modo speculare, hanno seguito lo stesso percorso: hanno imparato le logiche della politica, ma non quelle dell’efficacia.

Reddito di cittadinanza a parte (che non è poca cosa), di cosa possono andare fieri? Dei decreti Salvini contro gli immigrati? Del più grande sperpero di denaro pubblico della storia repubblicana, il Superbonus edilizio?

Conte ha sempre avuto la pochette, Di Maio ha imparato l’inglese e a comportarsi in società, uno a suo agio nei palazzi romani come i democristiani di un tempo, l’altro rapido nell’apprendere e nel decidere come Matteo Renzi (ma senza cedere al fascino del denaro). Ma a parte questo sono uguali: hanno interpretato l’evoluzione di un Movimento che ha imparato a gestire il potere senza avere la più vaga idea di cosa farne.

Così finisce quindi la stagione della protesta: nessuno si fiderà più di chi limita l’articolazione del disagio a un “vaffa”.

Non scompare però il bisogno di radicalità nelle proposte e nelle scelte: amministrare l’esistente con diligenza non può essere l’unica alternativa allo scomposto fallimento dei populisti, come ha scoperto a sue spese Emmanuel Macron.

Dopo Conte e Di Maio non c’è Di Battista, tutti e tre sono interpreti di una stagione conclusa che lascia spazio a chi saprà rispondere a quelle domande di equità, redistribuzione e giustizia in modo efficace, competente ma anche netto e coraggioso.   

STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

DAGONOTA il 29 giugno 2022.  

L’altra sera Massimo Cacciari è tornato ospite da “Otto e mezzo”. Dopo i numerosi attacchi al governo Draghi (accusato di essere il governo servo degli americani, del pensiero unico, feroce oppressore delle nostre libertà con il Green pass), il filosofo ha detto all’improvviso “noi staremmo peggio molto peggio se non ci fosse Draghi”. Lo ha detto la débâcle dei grillini alle amministrative e dopo la scissione dei Cinquestelle, con l’uscita di Luigi Di Maio. 

Negli ultimi cinque anni, senza mai dichiarare esplicitamente le sue preferenze politiche, il profeta d’Italia Cacciari ha tirato la volata ai governi gialloverde (Conte1), giallorosso (Conte-bis) e ancor prima con gli attacchi al governo Renzi ha contribuito all’affermazione dei pentastellati. Il giorno dopo la loro scissione, l’ex sindaco di Venezia non ha perso tempo: ha cambiato casacca ed è diventato filogovernativo. Gli intellettuali italiani non si smentiscono mai: tra la destra e la sinistra, scelgono sempre il centro-tavola.

Massimo Balsamo per ilgiornale.it il 29 giugno 2022.  

Fase rovente per la politica italiana, reduce dai ballottaggi delle comunali e pronta a vivere il lungo cammino verso le politiche del 2023. Gli schieramenti sembrano ormai delineati, ma Massimo Cacciari non è di questa opinione. Per il filosofo, intervenuto a Otto e mezzo, presto prenderà forma il partito di Mario Draghi.

“Dopo le ultime suggestive capriole politiche, Di Maio ha detto che chi destabilizza il governo Draghi perde le elezioni. È così?”, la domanda di Lilli Gruber all’ex sindaco di Venezia. Come sempre, la replica è tranchant: “Sono domande superflue. È del tutto evidente che nessuno metterà in crisi il governo Draghi. Si posizioneranno, ma nessuno metterà in crisi l’esecutivo. La cosa interessante è che con la rottura dei 5 Stelle si va delineando un’area possibile”. 

Il riferimento è al cosiddetto “partito di Draghi”: “Non parlo più di sinistra, di centro o di destra perché me ne vergogno, ma vedo un’area possibile con Di Maio, Partito Democratico, Renzi e Calenda”. Cacciari ha sottolineato che l’attuale primo ministro non si presenterà alle prossime elezioni, ma i partiti sopra citati si presenteranno in campagna elettorale promettendo di continuare la linea Draghi.

“Secondo me c’è anche qualche possibilità di successo, potrebbe essere molto attrattiva nei confronti dei componenti di centrodestra”, ha proseguito Cacciari, poi protagonista di un interessante botta e risposta con Marco Travaglio. Dopo le solite critiche del direttore del Fatto Quotidiano, il saggista ha speso parole di elogio per l’ex presidente della Bce: “Senza Draghi, noi staremmo dieci miliardi di volte peggio. Perché senza di lui, non saremmo riusciti a farci dare i soldini dall’Europa. Con Draghi lo spread è sotto controllo e forse ce la possiamo fare, con un altro governo saremmo quasi al default. Lui è l’unica persona in Italia di cui le potenze reali di questo mondo si fidano. Questa è la storia, il resto sono chiacchiere”.

Giada Oricchio per iltempo.it il 29 giugno 2022.  

Senza Mario Draghi, l’Italia sarebbe vicina al default. Ne è convinto Massimo Cacciari che replica a Marco Travaglio che aveva definito l’ex numero uno della Bce “il peggior presidente del Consiglio della storia”. Durante l'ultima puntata di "Otto e Mezzo", il talk show di LA7, martedì 28 giugno, il celebre filosofo ha detto di essere d’accordo con il direttore de Il Fatto Quotidiano sulla nascita di un centro conservatore che si ispira a Draghi per impedire a Giorgia Meloni, leader di FdI, di entrare a palazzo Chigi in caso di vittoria nelle urne, ma di non condividere il giudizio sull’incapacità del premier: “Senza Draghi noi non staremmo meglio, staremmo 10 miliardi di volte peggio. Senza di lui, l’Europa non ci avrebbe dato i soldini e bene o male ci sta parando dalle varie emergenze, prima la pandemia e poi la guerra. Con Draghi lo spread è ancora sotto controllo”.

Ma Travaglio con un sorriso di scettico compiacimento: “Ammazza lo spread è a 240, i puzzoni che c’erano prima glielo hanno lasciato a 90. E’ un governo che non ha fatto niente, nemmeno il tetto al prezzo del gas. Sulla guerra, poi, questo governo ha una posizione folle” e Cacciari: “Ma va, senza Draghi saremmo quasi al default, va bene? Questa è la vera forza di Draghi, è l’unica persona nel ceto politico italiano di cui le potenze reali si fidano. Il resto sono chiacchiere”.

Da ilfattoquotidiano.it il 29 giugno 2022.  

“Scissione di Di Maio dal M5s? È l’ultima cosa che deve preoccuparci. Sono fuochi di paglia, come lo è stato Renzi. Sono personaggi che nascono senza nessun fondamento culturale e senza nessuna storia che ne sostenga l’azione”. Così, ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, su Radio Cusano Campus, il filosofo Massimo Cacciari commenta la spaccatura nel M5s, aggiungendo: “Che i 5 Stelle fossero in caduta libera lo si era capito da tempo, era scritto nel loro genoma. Come poteva durare e funzionare un organismo che nasce senza nessuna strategia o idea, ma solo sull’onda di una protesta, seppure legittima e comprensibile?”.

E sottolinea: “In realtà, quello che drammaticamente dovrebbe preoccuparci è la crisi nera che si sta profilando e nella quale già ci siamo con caratteristiche completamente nuove. A questo dovrebbero interessarsi le residue intelligenze e le forze politiche di questo Paese. Siamo in una situazione di quasi recessione e se le forniture di gas russo andranno sotto il trend del 25%, noi saremo in totale recessione. 

Dovremmo cominciare ad affrontare questa crisi, che è particolarmente dura per noi, a differenza di altri Paesi come la Francia e la Germania – spiega – Abbiamo il debito pubblico più alto di tutti i Paesi avanzati, fatta eccezione per il Giappone. E questo debito sta diventando ingestibile. Qui bisogna fare politiche fiscali nuove, politiche aggressive contro l’impoverimento. Siamo un Paese in netta decadenza ed è ridicolo parlare di altro. Qui c’è un Paese che si sta avvitando in un processo di decadenza economica, politica, culturale, sociale“.

Critico il giudizio di Cacciari sul presidente del Consiglio: “Abbiamo ‘sto Draghi, ma per me è stato una grossa delusione. Ha gestito il covid continuando sulla linea massimalista e terroristica che ha certamente ha reso più difficile la ripresa. Adesso, per la guerra in Ucraina, è sdraiato sulle posizioni americane, tra l’altro in una situazione in cui ci stanno pesantemente sanzionando. La strategia di Draghi manca di equilibrio. Certamente il grande vantaggio di Draghi è dato dalla sua credibilità e dalla sua autorevolezza sul piano internazionale in un Paese con un grande debito pubblico. Ma sul piano squisitamente politico Draghi ogni giorno di più mostra di non avere alcuna autonomia. Non è Macron, ecco”.

Dura riflessione di Cacciari sulle prossime elezioni politiche: “Avremo un governo politico? Ne dubito tantissimo. Intanto, non cambiano la legge elettorale. Il centrosinistra che cosa aggrega? Tolto il Pd, chi c’è? Il nuovo partitino di Di Maio? Calenda? Renzi? E questo sarebbe il campo largo? Il centrodestra dovrebbe avere sicuramente numeri più consistenti, ma poi cosa succede? Non abbiamo ancora capito che non è realisticamente ipotizzabile un governo guidato da Salvini o da Meloni? 

Se vuoi governare un grande Paese dell’Occidente – puntualizza – devi avere forze politiche e personaggi che vanno bene alle grandi potenze internazionali, agli Usa. C’è poco da fare, è pure realismo. Se si mette come presidente del Consiglio Salvini o Meloni, vuol dire fare una crisi nel giro di sei mesi. O questo centrodestra si resetta tutto come si deve e Salvini e Meloni diventano leader europei a 360 gradi, smettendola di giocare ai nazionalisti e agli anti-immigrati, oppure non potranno mai governare”.

Finale staffilata del filosofo al Pd: “Ormai da 15-20 anni a questa parte, ha finito ogni spinta propulsiva sul piano delle riforme. Non ne parla neanche più, c’è una totale afasia sulle grandi riforme costituzionali o della pubblica amministrazione o della scuola. Quando va bene, il Pd fa battaglie sui diritti da Partito Radicale, cioè da partito che nella sua vita non ha mai preso più del 3%. 

E qual è il merito del Pd? – conclude – È quello di presentarsi al Paese dicendo: ‘Io, comunque, garantisco un governo. Io il governo lo faccio con chiunque, anche con Salvini o col M5s. Basta che sia un governo. Io sono quello che fa il governo’. Il Pd, cioè, è diventato un partito assolutamente conservatore. Quelli che lo votano sono coloro che hanno qualcosa da perdere se si va in un casino peggiore di quello in cui siamo. Sono cioè la borghesia, come si sarebbe detto una volta: quelli che hanno da perdere se il Paese va definitivamente a puttane”.

Il Bestiario, il Coerentino. Giovanni Zola il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il Coerentino è un mitico animale con il corpo da comico, il cuore da segretario del PD e la testa da primo della classe che non ti passa i compiti. 

Il Coerentino è un mitico animale con il corpo da comico, il cuore da segretario del Pd e la testa da primo della classe che non ti passa i compiti. Praticamente non è né carne né pesce, tanto che gli scienziati, non sapendo come definirlo tra le specie animali, l’hanno collocato tra i “Rampantes Insapiens”, una sorta di arrampicatore sociale, ma senza le ventose.

Il verso del Coerentino è unico e molto riconoscibile. È un suono tra il ruggire e il belare, tanto che gli scienziati l’hanno chiamato “onestare”. Solo quando si trova in branco, gli animali di questa specie infatti cominciano a ripetere in coro: “Onestà, onestà”. In tal senso c’è grande diatriba tra gli studiosi che non hanno ancora compreso se tale richiamo sia rivolto alle altre specie o a sé stesso.

Il Coerentino è considerato uno scherzo della natura, non solo perché non azzecca un congiuntivo, ma perché non possedendo nessuna capacità, si è trovato ad occupare un importante ruolo nella piramide gerarchica del mondo animale, tanto che gli scienziati ritengono che abbia vinto senza merito il superenalotto darwiniano dell’evoluzione.

La leggenda narra che alle origini, il Coerentino era solito offrire beni di consumo in grandi raduni animali. Tale comportamento sembra sia stato fondamentale nella sua evoluzione e per il ruolo che ricopre in natura attualmente. Oggi infatti il Coerentino ha una sorta di funzione di “assaggiatore a sbafo” (o spazzino) del cibo quando si ritrova con i grandi animali Alpha di tutto mondo.

Ritroviamo il Nostro anche nel mondo classico. Cicerone cita il Coerentino, in una sua famosa orazione al Senato romano nella celebre frase: “Aperimus tibi sicut tuna cut”, “Vi apriremo come una scatoletta di tonno”, sottolineando però che il Coerentino, non possedendo il pollice opponibile, non fosse in grado di farlo.

Il Coerentino cambia pelle grazie ad una sorta di continua muta senza soluzione di continuità. Infatti sostituisce le sue squame così velocemente da passare da essere una preda ad essere un predatore in tempi eccezionalmente rapidi. Inoltre – come una sorta di Zelig animale - si identifica immediatamente nella nuova specie in cui si trasforma acquisendone i modi e i comportamenti. Per questo gli etologi sostengono che in natura il Coerentino abbia abolito la coerenza.

Un po’ come il Panda, il Coerentino è destinato ad auto estinguersi, ma nel suo caso nessun essere umano sembra avere intenzione di curarsene, anzi, molti lo sostengono nel suo intento.

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 2 luglio 2022.

«Previste dichiarazioni di Di Maio in piazza del Parlamento». Ormai è diventato quasi un appuntamento fisso, all'ora dell'aperitivo. Ai giornalisti arriva un messaggio Whatsapp del portavoce del ministro degli Esteri per comunicare luogo e orario. Sempre in tempo per i tg della sera. Sempre in mezzo alla strada, al volo, di solito in zona Montecitorio, ieri fuori programma ad un angolo vicino alla Farnesina. 

Il ministro arriva, dichiara, se è ben disposto risponde a un paio di domande e se ne va. Toccata e fuga. Certo è che, da quando il ministro degli Esteri ha lasciato il Movimento 5 stelle e ha formato i suoi gruppi parlamentari, è diventato piuttosto loquace.

Serve dare visibilità alla sua creatura, Insieme per il futuro, ritagliarsi uno spazio nel dibattito e, soprattutto, tornare a mostrarsi come leader politico autonomo. Alterna lunghe analisi di geopolitica a professioni di fede in Mario Draghi. Ma, in fondo, il repertorio è sempre lo stesso: «Serve responsabilità e serietà», «è assurdo picconare il governo», «non inseguiamo i sondaggi, pensiamo agli italiani». I giornalisti, pazienti, registrano, con il sottofondo di macchine e motorini. Fino al prossimo incrocio.

Carlo Tarallo per “La Verità” il 2 luglio 2022.  

Grillini ed ex grillini sulle montagne russe (si può dire montagne russe?): in poche ore Giuseppe Conte sente al telefono Mario Draghi e i due fissano un incontro per lunedì pomeriggio, tra i grillini si allarga la frattura tra chi vuole passare all'opposizione e chi no, Luigi Di Maio dopo essersi schierato al fianco dei gilet gialli si accasa nel gruppo all'Europarlamento di Emmanuel Macron, e come se non bastasse Beppe Grillo pubblica un post in cui attacca i traditori e il caos cresce a dismisura: «Ce l'ha con Conte o con Di Maio?».

Probabilmente con tutti e due, o forse con sé stesso, perché in fondo il primo ad aver «tradito» la missione originaria del M5s è proprio Beppe, che ha indossato i panni di difensore a spada tratta di Draghi e della stabilità del governo. 

La giornata di ieri è l'ennesima serie di saliscendi da montagne russe. Il Foglio pubblica la notizia che Di Maio ha incontrato Macron e che l'accordo sarebbe cosa fatta: le due europarlamentari scissioniste di Insieme per il futuro, Daniela Rondinelli e Chiara Maria Gemma, entreranno a far parte del gruppo centrista, iper europeista Renew Europe, fondato da Macron, del quale fanno parte i renziani, i calendiani e Sandro Gozi, ex deputato del Pd, poi passato a Italia viva, eletto in Francia per La Rèpublique En Marche, il partito del presidente francese. 

Di Maio nel partito di Macron: sembra incredibile eppure è vero, alla Verità arriva la conferma che la discussione è in corso, pur ancora allo stato embrionale. 

Tre anni fa, non tre secoli fa, lo stesso Di Maio si entusiasmava per i gilet gialli, movimento francese di protesta radicale, che diede vita, tra il 2018 e il 2019, a disordini di piazza gravissimi, ça va sans dire contro Macron, con tanto di scontri con la polizia, arresti, morti e feriti. 

Nel febbraio 2019, in piena tempesta, Di Maio insieme ad Alessandro Di Battista incontrò a Montargis, cittadina a Sud di Parigi, il leader dei rivoltosi francesi, Christophe Chalençon: la foto, a rivederla oggi, non può non fare effetto, anche se lo stesso Di Maio, pochi mesi fa, riflettendo su quella posizione politica ha fatto pubblica ammenda: «Non ho nessun problema a mettere nero su bianco i miei errori del passato».

Dagli errori agli orrori, è diventata una commedia più nauseante che divertente quella che ruota intorno all'ipotesi di un'uscita del M5s dal governo. «Dopo i recenti fatti, primo tra tutti il comportamento ambiguo del premier Draghi sulle proprie dichiarazioni in merito a Conte», scrive su Facebook il senatore grillino Alberto Airola, «la frustrazione e l'insofferenza dei nostri elettori per un governo che smantella sistematicamente i nostri obiettivi politici, nel mio ruolo di portavoce, non posso che rappresentare con forza l'istanza di uscita da questo governo, voluta fortemente dal nostro popolo. Le fragole sono marce».

Airola fa il verso a Grillo, che il 6 febbraio 2021, annunciando il sostegno del M5s al governo Draghi, scrisse un post con la frase: «Le fragole sono mature.

Le fragole sono mature». 

Bel clima, quello che si respira tra i «non grillini», come li chiamerebbe oggi Beppe, che sempre ieri pubblica un post contro «i traditori che si sentono eroi», post letto da molti come riferito a Di Maio, ma che con gli scontri che ci sono stati negli ultimi giorni tra lui e Conte si presta a mille interpretazioni. Giuseppi, intanto, sente al telefono Mario Draghi, i due si vedranno lunedì a Palazzo Chigi: la telefonata viene descritta alla Verità da fonti vicine al leader del M5s come «molto rapida, ogni tipo di discorso è stato rinviato all'incontro».

«Ne parliamo lunedì», commenta lo stesso Conte ai cronisti che gli chiedono come sia ora il suo rapporto con il premier, dopo l'incidente della presunta richiesta da parte di Draghi a Grillo di rimuovere l'ex premier dalla guida dei pentastellati. Richiesta smentita, per quel che può contare una smentita in politica, dal presidente del Consiglio, ma confermata dallo stesso Giuseppi. 

Si sente talmente accerchiato, l'ex premier ciuffato, da sperare in una legge proporzionale, come dichiara lui stesso partecipando a un evento della Cgil, mentre il M5s incassa un altro schiaffone sul reddito di cittadinanza, con l'approvazione dell'emendamento che prevede che anche il rifiuto di un'offerta di lavoro congrua a chiamata diretta da parte di un privato rientrerà nel calcolo dei rifiuti che possono costare la perdita del sussidio.

La saga del M5s che non è di lotta e di governo, in quanto non riesce né a lottare né a governare, raggiunge vette di straordinaria e involontaria comicità con le dichiarazioni di Fabiana Dadone, ministro M5s alle Politiche giovanili, che a Sky Tg24 dice: «Credo che la permanenza nel governo sia la scelta giusta». Ovviamente la scelta giusta per lei, che dovrebbe scollarsi dalla poltrona.

Tutte le volte in cui Luigi Di Maio se l’è presa con i voltagabbana e ha chiesto il vincolo di mandato in Costituzione. Erano due campagne e battaglie storiche del Movimento 5 Stelle, su cui il ministro degli Esteri ha messo spesso la faccia. E invece alla fine ha cambiato partito. Mauro Munafò su L'Espresso il 22 Giugno 2022.

«Basta voltagabbana in Parlamento», «Questa è la legislatura con il maggior numero di cambi di casacca: introduciamo un sistema di vincolo di mandato per i parlamentari», «Il vincolo di mandato è sacrosanto per chi vuole fare politica onestamente. I partiti sono terrorizzati».

Parola di Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri eletto con il Movimento 5 Stelle che ieri ha annunciato il suo addio ai pentastellati e la creazione di un nuovo gruppo parlamentare. Entrambe operazioni che, se nella nostra Costituzione ci fosse davvero finito il vincolo di mandato, lo avrebbero costretto alle dimissioni.

E invece, per fortuna di Di Maio, le sue battaglie storiche sono finite in una nulla di fatto. Così oggi, anno 2022, può tranquillamente lasciare i 5 Stelle per creare “Insieme per il futuro” e puntare ad avere ancora peso nel governo e alle prossime elezioni. Certo, ne è passato di tempo da quando i grillini nei primi anni combattevano contro i cambi di casacca o gli addii al gruppo Parlamentare. Si erano inventati qualunque trucco, ovviamente senza alcun successo: pressioni sui social, improbabili multe da centinaia di migliaia di euro, regolamenti di dubbio valore legale. Ma niente, il “vincolo” per punire gli infedeli non ha mai funzionato e negli anni la diaspora stellata ha alimentato tanti altri partiti e partitelli con i suoi mille rivoli.

Eppure basta mettere in fila tutte le volte in cui Di Maio ha urlato contro i cambi in Parlamento per fare un tuffo nel passato prossimo della politica. Prima di lanciarsi, insieme, per il futuro.

«Attaccato alla poltrona, al mega stipendio e al potere». Cosa avrebbe detto il Luigi Di Maio del 2017 a quello di oggi. L'Espresso il 22 Giugno 2022.

In un video del gennaio 2017 contro i voltagabbana e a favore dell’inserimento del vincolo di mandato in Costituzione, Di Maio attaccava con parole durissime chi cambia partito e non si dimette.

Riproponiamo qui il testo dell’intervento di Luigi Di Maio, senza modifiche redazionali, in seguito all’uscita dell’oggi ministro degli Esteri dal Movimento 5 Stelle, nonostante anni di battaglie contro i cambi di casacca.

In Italia, oltre ai furbetti del cartellino abbiamo i voltagabbana del Parlamento dal 2013 ad oggi ci sono stati 388 cambi di partito alcuni parlamentari, hanno cambiato partito anche 6 volte negli ultimi quattro anni. La terza forza politica del Senato e della Camera pensate è il gruppo misto. Solo alla Camera, siamo partiti all'inizio della legislatura con meno di 10 gruppi ed oggi siamo a oltre 18 e la maggior parte di questi non era neanche sulla scheda elettorale nel 2013. Un vero e proprio mercato delle vacche che va fermato.

Per il MoVimento 5 Stelle, se uno vuole andare in un partito diverso da quello votato dagli elettori si dimette e lascia il posto a un altro come accade ad esempio in Portogallo, ma anche per consuetudine nella civilissima Gran Bretagna. In Italia invece se ne fregano: una volta che sono in Parlamento gli elettori non contano più nulla, quello che conta è la poltrona, il mega stipendio e il desiderio di potere. Molti governi si sono tenuti in piedi e hanno fatto approvare le peggiori leggi proprio grazie ai voltagabbana. Da Monti a Letta a Renzi fino a Gentiloni, le leggi più vergognose della storia della Repubblica si sono votate grazie ai traditori del mandato elettorale: pensate a Fornero, al Jobs Act, alla buona scuola.

Il MoVimento 5 Stelle per evitare tutto questo vuole che si rispetti il voto dei cittadini. Noi abbiamo applicato su di noi una regola chiara, senza aspettare un obbligo di legge. Chi non vuole più stare nel Movimento va a casa. Se non lo fa tradisce gli elettori causa un danno e quindi deve essere risarcito il movimento. È semplice, chiamatelo come volete: vincolo di mandato, serietà istituzionale, rispetto della volontà popolare.

A nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa e ti fai rileggere. Come al solito il Movimento 5 Stelle non ha aspettato una legge per cambiare il modo di fare politica. Anche i partiti facciano come noi. Ciao a tutti.

Quando Di Maio attaccava i voltagabbana del parlamento: «Mercato delle vacche». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 22 giugno 2022

Era il 2017, e per il ministro degli Esteri cambiare casacca era un «mercato delle vacche» e una scelta per cui bisognava «risarcire il Movimento». E aggiungeva: «A nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa»

I social non dimenticano, una verità che vale sempre per tutti: «Chi non vuole stare nel Movimento va a casa» e «deve essere risarcito il Movimento» diceva Luigi Di Maio nel 2017, e adesso che se ne è andato lui gira sui social il video di Di Maio che se la prendeva con forza contro i voltagabbana del parlamento: «Così come abbiamo i furbetti del cartellino abbiamo i voltagabbana del parlamento». E aggiungeva «a nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa».

LA MOSSA DEL MINISTRO

Il ministro degli Esteri ieri ha annunciato che lascerà il Movimento 5 stelle per creare la nuova compagine parlamentare “Insieme per il futuro” portando via con sé una cinquantina di parlamentari, in queste ore si discute sulla formazione dei nuovi gruppi. Cinque anni fa per Di Maio non solo era inaccettabile, era proprio «un mercato delle vacche». E «se uno vuole lasciare il Movimento si dimette e lascia il posto a un altro». E dettagliava. Oltre ai cambi di casacca, non sopportava nello specifico nemmeno le nuove formazioni: «Non erano nemmeno sulla scheda elettorale».

Il video è stato postato dall’account “Confindustria parody” ricevendo oltre un migliaio di like e centinaia di commenti. «Un autodescrizione lucidissima», scrive un utente.

E ancora: «Condividiamo questo post tutti i santi giorni, fa troppo schifo quello che ha fatto»

SALVINI E GIARRUSSO

La posizione di Di Maio non sembrava essere cambiata fino a poco tempo fa. Da capo politico nel 2019 se la prendeva ancora una volta contro il «mercato delle vacche» avviato da Matteo Salvini, al cui confronto, dice, Silvio Berlusconi pare quasi «un pivello». Nei confronti degli «Scilipoti» della nuova stagione politica mostrava indignazione e rabbia.

Fino a poche settimane fa non lasciava presagire di essere pronto alla rottura, anche se le sue parole erano più sfumate. Quando Dino Giarrusso, esponente del Movimento 5 stelle siciliano, ha deciso di abbandonare il Movimento criticando la nuova organizzazione Conte, il ministro Di Maio non se la prendeva con le sue critiche ma commentava: «Io penso che se c'è qualcosa su cui non siamo d’accordo sul movimento,  in generale lo dico, se qualcuno non è d’accordo può restare nel movimento e portare avanti le sue idee». Chi se ne va «sostanzialmente non cambia niente nel Movimento 5 stelle» commentava. Alla fine, ha lasciato anche lui.  

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Federico Capurso per “la Stampa” il 21 giugno 2022. 

Quando Luigi Di Maio ha sentito che persino Roberto Fico, il compagno di battaglie di una vita, lo stava attaccando frontalmente descrivendolo come un «mistificatore», gli è stato chiaro che la sua storia con il Movimento 5 stelle era davvero finita.

Pochi minuti dopo l'uscita di Fico, i parlamentari rimasti fedeli a Di Maio lo martellano di messaggi: «Non si può più restare dentro a questo Movimento». Di Maio li invita alla calma. Si deve procedere un passo alla volta: «Prima votiamo la risoluzione che metta al sicuro il governo». E poi? «Poi arriverà il momento della riflessione». 

La risposta suona come un addio. Sanno tutti che non ha bisogno di altro tempo per pensarci su. Deve solo prendere coraggio e fare il passo decisivo. Forse, già stasera.

Sulle pagine social del ministro degli Esteri non c'è più alcuna traccia della sua appartenenza ai Cinque stelle.

Anche per questo Giuseppe Conte è convinto che il suo acerrimo nemico «abbandonerà entro la fine della settimana». Tra chi lo seguirà potrebbero esserci nomi pesanti, come quella della vice ministra dell'Economia Laura Castelli, del presidente della commissione Ue Sergio Battelli o della sottosegretaria per il Sud Dalila Nesci. 

E se un pezzo della squadra di governo M5S verrà spolpata, Conte chiederà un rimpasto? I parlamentari vicini al ministro degli Esteri si mostrano sereni: «Non succederà nulla», assicurano. La leadership di Conte, ai loro occhi, è già troppo debole. Sono convinti che dovrà preoccuparsi di tenere unito quel che resta del partito e di tenere a bada Beppe Grillo, che giovedì sarà a Roma e - come anticipato da La Stampa - è furioso con Conte e con i suoi vicepresidenti: «Se andiamo avanti così ci biodegradiamo in tempo record», ha detto ad alcuni parlamentari. Per il Garante, infatti, Di Maio andava ignorato e non attaccato: «È stato un errore tattico e comunicativo gigantesco». 

L'ultimo segnale della debolezza interna di Conte arriva proprio dal Consiglio nazionale, che doveva essere il suo fortino e il simbolo di un Movimento che si muove compatto contro il titolare della Farnesina. Ieri mattina, invece, il Consiglio pubblica dopo una riunione fiume una nota per stigmatizzare le parole di Di Maio: «Esternazioni inveritiere e irrispettose, suscettibili di gettare grave discredito», si legge. 

I parlamentari dimaiani la prendono con ironia: «Conte vuole tornare alla vecchia radicalità grillina, ma con questo linguaggio torna all'Ottocento». Sorridono, si aspettavano qualcosa di più violento. Soprattutto alla luce dei toni aggressivi usati dai vice di Conte negli ultimi giorni. Nel corso del Consiglio, anche il collega di governo Stefano Patuanelli aveva sferzato Di Maio con rabbia: «Non ci rappresenta più».

E ancora: «Ho l'impressione di essere stato catapultato nel nostro passato, tra i gilet gialli, posizioni filo Putin e la vendita dei nostri porti ai cinesi. Ma ad accusarci c'è il ministro degli Esteri di oggi, non il nostro capo politico di ieri, che sosteneva quelle posizioni». 

Tutta la cerchia di pretoriani di Conte picchia duro, ma il comunicato finale del Consiglio è senza spine. «Perché c'è stata una mediazione», racconta un partecipante al Consiglio. Chiara Appendino, Lucia Azzolina, Tiziana Beghin, Davide Crippa, Alfonso Bonafede: hanno tutti chiesto di abbassare i toni. Crippa, da capogruppo alla Camera, è sbottato contro i vertici del partito: «Diteci se volete uscire dal governo».

Anche Bonafede non sembra più così convinto che la direzione presa da Conte sia quella giusta. Non gli è piaciuto - raccontano - come ha gestito la nomina dei coordinatori regionali. Neanche un uomo in quota Di Maio. Si dice che proprio in quel momento il ministro degli Esteri abbia capito che non avrebbe avuto alcuno spazio in lista per i suoi alle prossime elezioni e che sarebbe stato meglio abbandonare la nave. Se poi sul limite dei due mandati arriveranno delle deroghe ad hoc per salvare i big, come vorrebbe Conte, molti altri parlamentari che finora non si sono schierati fanno già sapere che lasceranno il Movimento.

Daniele Dell’Orco per ilgiornale.it il 21 giugno 2022.

Le giravolte di Luigi Di Maio sono diventate così tante che se n'è accorto anche Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano, da mesi critico nei confronti del Ministro degli Esteri specie dopo la caduta del secondo governo Conte, si chiede cosa ci faccia ancora Di Maio nel Movimento 5 Stelle. 

"Io non ho nessun titolo per rimproverare niente a nessuno, ma mi domando per quale motivo Luigi Di Maio si ostini a stare in un Movimento 5 stelle che non gli assomiglia più e al quale non assomiglia assolutamente più", ha detto a Otto e Mezzo su La7.

L'invito di Travaglio, insomma, è quello di non aspettare che i vertici del Movimento lo mandino via, ma a fare direttamente le valigie. Dopo che il Consiglio Nazionale straordinario di due giorni fa ha di fatto congelato la posizione del Ministro senza espellerlo definitivamente ( il che provocherebbe una scissione), l’ex capo politico è ormai in un limbo, contrapposto al presidente Giuseppe Conte formalmente sulla scelta di approvare l'invio di armi all'Ucraina, ma di fatto sull'idea stessa della direzione che il Movimento dovrebbe intraprendere. Finché esisterà, visto che come dimostrano i risultati elettorali è ridotto ai minimi termini.

Di Maio sembra aver fiutato la brutta aria che tira intorno al progetto grillino, ed è sempre più proiettato verso la vicinanza a quel Palazzo che una volta diceva di voler combattere. Per questo, Travaglio lo sprona ad inseguire la sua "nuova" natura: "Di Maio da mesi ha preso un’altra strada che è quella di Draghi che lo rende molto vicino ai draghiani, a Giorgetti a Forza Italia e a Italia Viva se non fosse per l’incompatibilità personale con Renzi", e ancora "Di Maio è completamente diverso dal Di Maio leader del Movimento 5 stelle o ministro dei governi Conte, ha preso un’altra strada e mi domando per quale motivo si ostini a stare in un posto dove si trova a disagio e mette a disagio i suoi compagni di ventura", come successo con le consultazioni per il Quirinale.

Immancabile, poi, il riferimento alle piroette dell'ex politico anti-sistema contro la Nato, contro l'Ue e contro l'Occidente a trazione americana. Piroette di cui Travaglio si è reso conto forse con colpevole ritardo: "Ha preso un documento apocrifo per dipingere il suo movimento il suo leader, che lui stesso ha contribuito a far diventare leader, per accusarli di essere contro la Nato e contro l’Ue.

Purtroppo è Di Maio che nel suo passato ha delle dichiarazioni in cui diceva che bisognava superare la Nato e fare un referendum per uscire dall’Euro, non mi risulta che Conte abbia mai detto queste cose". 

La domanda finale di Travaglio, allora, ha un sapore pressoché retorico: "Di Maio che cosa avrebbe fatto di Di Maio se fosse ancora il capo politico del Movimento? L’avrebbe cacciato a pedate come ha cacciato a pedate un sacco di altra gente per molto meno".

La fine di una forza "socio-degradabile". Pier Luigi del Viscovo il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Più che biodegradabili i 5S sembrano socio-degradabili, nel senso che possono disperdersi nelle infinite pieghe degli pseudo-pensieri che attraversano la società. 

Più che biodegradabili i 5S sembrano socio-degradabili, nel senso che possono disperdersi nelle infinite pieghe degli pseudo-pensieri che attraversano la società. Oggi lo scontro vede opposti i governisti e i movimentisti, ma è una polarizzazione che non rende giustizia all'anima stessa dei 5S e dei loro elettori. Potrebbero facilmente moltiplicare i fronti di contrasto, fino ad averne uno su ogni singolo tema sociale, economico e politico. Questo non è un rischio ma piuttosto l'epilogo annunciato e scritto nelle istruzioni originarie di montaggio e installazione del movimento.

Quando non c'è nessuna idea costruita, frutto di un'analisi della società, dell'economia e della politica, è automatico schierarsi pro e contro qualsiasi fattispecie. Del resto, come avrebbero potuto sviluppare un'analisi senza possedere gli strumenti per comprendere, senza una familiarità con l'apprendimento? Tanto fiuto, questo sì, utilissimo per intercettare la direzione del vento. Ma dopo, pur avendo intuito e non compreso appieno certe pulsioni sociali, se non si possiedono le necessarie abilità per gestire le informazioni ed elaborarle, diventa impossibile trasformarle in un tessuto coerente, dove a una posizione sul lavoro ne corrisponda una sul fisco e un'altra sull'energia. Per carità, non si pretende di arrivare a una Weltanschauung, un'idea del mondo e dell'uomo, che del resto non viene neppure richiesta per giocare ai massimi livelli della politica nostrana. Ma almeno un minimo sistema di corrispondenze, per evitare di boicottare ogni fonte di energia e poi andare con la borsa in mano in giro per il mondo ad acquistarla. Un caleidoscopio di posizioni scollegate e intercambiabili, di cui gli unici davvero colpevoli sono i giornalisti e i commentatori politici, che per anni hanno preteso di tirar fuori dal movimento ciò che per definizione non poteva esserci.

I 5s hanno scelto, ab origine e apertis verbis, di essere semplicemente il megafono di chiunque fosse portatore di uno sfogo. Hanno eretto a manifesto l'impreparazione e l'incompetenza, spiegando che uno-vale-uno e che per governare un Paese non serve quella professionalità costruita in anni di studio prima e gavetta dopo. Per questo sono e non possono che essere tutto e il suo contrario. Ogni loro posizione pro o contro non va né collegata alle sue implicazioni fuori dal perimetro stretto né ricordata oltre la sua durata del tempo presente. In senso politico, parliamo esattamente del nulla, di quell'anti che era nel disegno originario. Se nasci e pasci sul vaffa, poi quello sei, un vaffa e nulla più.

Furio Colombo per “la Repubblica” il 27 giugno 2022.

Sono arrivati all'improvviso, come una cavalleria disordinata e giovane che ha fatto una grande frenata nella polvere e ha detto subito che non se ne andava. Giovane, in questo caso, voleva dire gente nuova. Nessuno li aveva mai visti? Bene, così comincia un'avventura. Non si erano mai avventurati sulla scaffalatura detta "Stato" che - dicevano - erano venuti per governare in un altro modo? Meglio, Erano qui per cominciare tutto da capo e lungo percorsi mai visti. 

Coloro che saranno chiamati a raccontare i grillini non avranno una vita facile. Dovranno spiegare come ha fatto una tribù molto vitale ma che fra i bagagli non portava cultura, non portava passato, non portava memorie di cose fatte o ricordi con cui identificarsi, si sia così facilmente insediata in tutte le aree e le attività della vita italiana che in qualche modo avevano tracce di eventi e persone difficili da cancellare. 

Per esempio come racconteremo nei prossimi libri di storia, che un'intera epoca italiana è cominciata quando folle di italiani adulti si sono prestati a dire insieme, affollando piazze illustri, il nuovo grido di battaglia "vaffanculo"? 

Come ha fatto un comico di media grandezza come Beppe Grillo a imporre una simile umiliazione a tante persone che, fino a un momento prima erano stati normali cittadini della Repubblica?

Ha fatto presa un punto, nell'editto dei nuovi arrivati, la lotta alla povertà. Ha fatto presa in un Paese che era stato fino a poco prima, per metà cattolico e per metà comunista. Ma quando tanti dei nuovi leader sono saliti su un balcone di governo illuminato da lampade di scrivania per annunciare la fine della povertà, si è capito che la comicità ha le sue regole crudeli, e una delle regole è rendere ridicolo chi partecipa allo spettacolo. 

Da quel momento la storia dei grillini diventa sempre di più amara e sempre più riflessa in uno specchio ondulato, e segnata dai seguenti caratteri.

Primo: ha un padrone. Quando "Beppe viene a Roma", (frase che comincia presto a circolare in città) si sa che ti impone qualcuno, espelle qualcuno, e lascia tutti gli altri in una triste incertezza. 

Secondo: un personaggio in ombra, (prima padre poi figlio) di nome Casaleggio, è attivo dietro il padrone, ed è stato necessario per molti grillini, battersi a lungo per liberarsene e per togliere di mezzo una strana (e per molto tempo obbligatoria) procedura di sottomissione. 

Terzo: ogni aggregazione grillina prontamente si spacca e prendono forma subito due gruppi rivali con leader contrapposti, che intendono prevalere. Infatti la storia dei grillini è una storia di combattimenti e spesso si deve chiedere a Grillo e alla sua presunta saggezza di venire a Roma per trovare una soluzione. 

Finora, nella storia italiana, nessun gruppo politico era stato costretto a portare in giro a spalle il fondatore, in qualunque viaggio o iniziativa politica o decisione. Ma la storia dei grillini è tutta qui: come accomodare Grillo, le sue scelte, le sue preferenze, le sue decisioni, persino i suoi gusti. Ecco Grillo che arriva a Roma, in uno di quei giorni che cambiano la politica.

La polizia fa largo, i ministri si scostano e il comico di media grandezza visita a sorpresa il comando, se vuole, quando vuole, tocca i tasti che cambiano la composizione del partito e dunque del parlamento e del governo, e tutti (non solo i suoi ) devono subire gli umori che segnano la sua giornata. Naturalmente adesso la figura ingombrante del fondatore è meno agile. 

Lo è da quando il capo del governo è Draghi, che non lascia fessure fra il dentro e fuori del suo lavoro. E molto (il più) è radicalmente cambiato da quando il movimento si è spezzato dopo la conclusione e l'esito del durissimo scontro Di Maio - Conte. Ma attenzione. Grillo ora tace, preda, come ha fatto credere altre volte, di suoi tormenti e ripensamenti di proprietario unico della ditta. 

Quando tace non porta bene perché deve tornare in scena con una trovata che non è mai gentile. Il mondo di Grillo si muove fra multe, espulsioni, requisizione dei vitalizi, denigrazioni, votazioni elettroniche e incontrollabili di pre-iscritti fedeli, magari pochi, ma accettati come volontà compatta e comune del movimento anche dal resto del Paese democratico ("i grillini hanno deciso che"). Ma la scena sarà vuota.

Brave persone per bene mobilitate per fare il nuovo, si sono trovati nel meccanismo stravagante di una macchina immobile, e non ci sarà urlo o seduzione di Grillo, ormai destinato definitivamente allo spettacolo, che la rimetterà in moto.

Adolfo Pappalardo per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.

«Avremo modo di dimostrare che a tradire è chi è rimasto», ragiona Vincenzo Spadafora, ex sottosegretario grillino e appena nominato coordinatore politico di «Insieme per il Futuro», il gruppo parlamentare dimaiano staccatosi dall'M5S. «Ci siamo assunti la responsabilità di tenere più saldo e più fermo il governo», aggiunge.

Uno strappo impensabile sino a qualche giorno fa. Non solo per i modi ma anche per i numeri di chi ha aderito al vostro progetto politico. 

«Ci sarebbe da fare un'analisi su cosa è accaduto nel Movimento nell'ultimo anno da portare 60 persone, ma sono convinto che nelle prossime ore aumenteranno, a lasciarlo. Noi stavamo vivendo una fase di maturità, da un anno a questa parte, dove senza rinnegare quello che ha rappresentato il Movimento per questo Paese, si potesse imparare dagli errori per presentarci in modo più credibile agli elettori».

Ma con chi interloquirete nelle prossime settimane? Si fanno i nomi, oltre che del sindaco Sala come ha detto lei, di Renzi, Toti o Brugnaro o dei moderati di Fi legati alla ministra Carfagna.

«Credo che si facciano troppi nomi: la nostra priorità oggi è costruire un progetto politico, trasformare un'operazione parlamentare in un progetto serio, concreto che parli il linguaggio della verità, proponendo ai cittadini non più slogan ma soluzioni complesse a problemi complessi».

Ma quest' area Draghi, chiamiamola così, questo grande centro, non vede troppi aspiranti leader? Mi riferisco a Di Maio e a quelli che le ho citato prima. Riusciranno a interloquire superando vecchie divisioni? Calenda ha un profilo incompatibile per carattere con Renzi e Di Maio.

«Siamo andati via anche per l'eccesso di autoritarismo e la mancanza di un confronto interno autentico. Luigi Di Maio è un leader maturo a cui però non interessa costruire un partito personale ma un progetto collettivo che superi gli errori del passato». 

Clemente Mastella parla di un centro che, in ipotesi, sarebbe capace di avere un peso del 20 per cento. Ma in politica non sempre si sommano i voti e le avventure al centro spesso si sono rivelate velleitarie. A proposito, lei che è campano: Mastella può essere un alleato in questa avventura?

«Oltre a non dover nascere nel Palazzo, le forze politiche non possono nascere nemmeno in laboratorio, anche perché la ricetta del centro la cercano in tanti da anni senza trovarla. Sono convinto che partendo dai sindaci, dai territori e soprattutto dai temi potremo dare vita ad una forza in grado di attrarre chi ne condivide i principi e i programmi, e la disponibilità al confronto ed al dialogo deve essere ampia». 

Ma come vi regolerete in futuro con i vecchi amici dell'M5S? Conte ad esempio confermava l'alleanza del campo largo con il Pd per le prossime regionali nel Lazio, dove i consiglieri sono rimasti tutti grillini. Voi sareste in quest' alleanza o ci sono preclusioni contro l'M5S?

«Vedremo come evolverà il quadro politico generale che, francamente, credo possa mutare ulteriormente. E poi dovremo verificare la tenuta dell'M5S da qui alle elezioni perché credo che la forza propulsiva del Movimento sia completamente finita e rischia non arrivarci neppure alle elezioni».

E in Campania? Da tempo c'è un rapporto tra Di Maio e De Luca: possiamo immaginare una vostra entrata nella maggioranza della Regione?

«Un passo alla volta, non è un tema all'ordine del giorno. Ma sicuramente dobbiamo lavorare in maniera costruttiva per dare risposte al nostro territorio». 

Ora c'è un cambio di passo: De Luca è passato dagli insulti agli elogi verso il ministro degli Esteri. Eppure ci sono differenze enormi che vi dividono. L'ex sindaco di Salerno, ad esempio, nega l'esistenza della Terra dei Fuochi mentre voi siete nati con quella battaglia ambientale. Si cancella tutto?

«Non è che ora De Luca e Di Maio si sentono tutti giorni. Anche perché non c'è stato né il tempo, né l'occasione: è accaduto tutto molto velocemente. Possono aprirsi nuovi scenari, vedremo, ma a 48 ore dalla nostra nascita è prematuro parlarne. Ovviamente il cambio di passo su Luigi da parte di De Luca lo registriamo con grande piacere. Poi su alcune tematiche, le cose dette restano tali. Il futuro è tutto da vedere». 

Rimarrà il nome Insieme per il futuro o è provvisorio?

«È il nome del nostro gruppo parlamentare. Il progetto politico che ne deriverà avrà senz' altro un nuovo nome che decideremo insieme a chi farà il percorso con noi. Ma prima il progetto politico e poi il nome».

Come si sente dopo quest' addio all'M5S? Quali sono i suoi sentimenti per l'abbandono di un partito dove ha militato per anni? E la feriscono gli attacchi, anche personali verso di voi, da parte dei vecchi compagni di squadra?

«Gli attacchi degli ex compagni erano prevedibili. Anche se poi in realtà molti di loro in privato manifestano comunque l'enorme insoddisfazione per l'incapacità di Conte di avviare un nuovo percorso e sono convinto che presto altri si uniranno al nostro progetto. Invece mi colpisce ovviamente la delusione di quanti pensano che abbiamo tradito un sogno. Avremo modo di dimostrare che a tradire è chi è rimasto». 

Un paio di parlamentari ci hanno subito ripensato e sono tornati con Conte.

«Ma ci sono altri arrivi. Come Lucia Azzolina: sono molto felice della sua scelta. La stimo moltissimo come donna e come politica e so quanto lavoro ha fatto per il bene della scuola. Il paradosso è che quel lavoro gli viene riconosciuto proprio da gran parte di quel mondo ma lei, come me ed altri, non è stata messa in condizione di poter dare il suo contributo ad un nuovo corso mai iniziato».

Come vi regolerete nel vostro gruppo con il vincolo del doppio mandato che è stato un altro motivo di frizione all'interno dell'M5S alla vigilia della scissione?

«È stato creato questo gruppo da appena 48 ore e non c'è stato, ovviamente, il tempo di discutere di diverse cose. Ed è giusto così, altrimenti avrebbe ragione Conte convinto che ne parlassimo nell'ombra da diversi mesi...». 

Non teme che la vostra possa apparire all'esterno come una mera operazione di ceto politico?

«Tutto è nato su un dibattito di politica estera. Ci saranno tempi e modi per tutto. Soprattutto per costruire e radicare il nostro progetto politico».  

"Il Movimento non esisteva più da tempo". Pasquale Napolitano il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il senatore ha seguito il Di Maio: "Siamo 11. Epilogo con le ultime uscite di Grillo".

Il dado è tratto. La scissione è servita. Luigi di Maio molla il M5s e fonda un gruppo parlamentare autonomo «Insieme per il futuro». Dovrebbero essere una sessantina tra Camera e Senato i parlamentari che aderiranno al progetto dimaiano. Vincenzo Presutto è uno di loro. «Al Senato - conferma in un'intervista al Giornale siamo in undici». Delusi da Grillo? «Le sue uscite hanno determinato l'epilogo di oggi», spiega il senatore. E poi ammette: «Il M5S non esiste più».

Senatore oggi si certifica la fine del M5S?

«Il M5s oggi esiste solo come forma associativa e giuridica. Dal punto di vista politico non esiste più da tempo. Il M5s di Fico, Di Maio e Di Battista è morto e sepolto da tempo. Quel Movimento che abbiamo conosciuto negli anni non esiste più. Non esistono più i suoi valori e le sue idee».

E Conte?

«Con Giuseppe Conte non si guarda al futuro».

Insieme per il futuro è semplicemente un gruppo parlamentare nato per puntellare la maggioranza Draghi?

«La priorità oggi è mettere in sicurezza il governo Draghi. Dopo due anni di pandemia e un conflitto militare in Europa non possiamo permetterci passi falsi. Dobbiamo essere compatti al fianco del governo e dare forza al presidente del Consiglio in Europa. Non possiamo permetterci un governo debole ai vertici europei. Non possiamo permetterci continue fibrillazioni».

E dunque Conte vuole mettere in discussione questa unità e compattezza del governo?

«Conte poneva continuamente questioni. Alcune pure condivisibili. Ma il momento ci obbliga a un forte senso di responsabilità. Non potevano andare avanti con i distinguo. Non potevamo aprire il fianco alla propaganda russa».

È ipotizzabile che ora dopo la scissione, il M5s passi all'appoggio esterno?

«Questo va chiesto a Conte. Il M5S non ha i numeri per far cascare il governo. Però ripeto: non potevamo permetterci un'Italia debole seduta ai negoziati di pace».

Veniamo ai vostri numeri. Quanti siete?

«Al Senato siamo 11. È un dato certo. Alla Camera penso una cinquantina. Posso dirle che formeremo un gruppo parlamentare con circa 60 parlamentari. Posso confermarle solo il dato del Senato: 11».

Il regolamento vi impedisce di formare un gruppo autonomo.

«Il numero minimo è 10. Ci siamo. C'è l'ostacolo del simbolo. Posso confermarle che anche questo ostacolo sarà superato. Però ora non è il momento di concentrarci su questi aspetti tecnici».

E su cosa?

«Sul conflitto. Dobbiamo far sentire al governo il pieno sostegno».

E sui territori come siete messi?

«C'è grande entusiasmo».

Ecco, il progetto. Sarete una lista elettorale?

«No, vogliamo essere un movimento trasversale senza barriere ideologiche».

Un partito draghiano?

«No comment».

Ha sentito negli ultimi giorni il ministro di Maio?

«Si certo, molte volte».

E' deluso da Grillo?

«Luigi aveva un rapporto profondo con Beppe Grillo. Anche io sono legatissimo a Beppe. Purtroppo le sue ultime uscite hanno determinato l'epilogo di oggi».

L'ultima suggestione sul post-grillismo: avanza il "partito degli influencer". Francesco Boezi il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dai "Ferragnez" alla blogger che sostiene Calenda, i divi digitali sono pronti a scendere in campo. L'esperto: può arrivare al 30%.

Neanche ventiquattro ore dall'annuncio della partecipazione di Chiara Ferragni al Festival di Sanremo e tra gli addetti ai lavori ci si chiede già se non sia arrivato il momento del «partito degli influencer». Pure perchè nel mondo di internet c'è un fermento. Il contesto è liquido, dunque non c'è da stupirsi: le idee non fanno che ribollire. Al netto dei possibili interpreti, iniziano a circolare progetti di simboli e nomi. Ne abbiamo visto uno: «Rivoluzione» ma con una erre rovesciata. Quasi come se qualcuno, appresa la scomparsa del grillismo, si fosse già messo all'opera per un'evoluzione naturale che possa riempire un vuoto.

Sono almeno tre i fattori capaci di alimentare quella che rischia di smettere d'essere una mera suggestione in breve tempo. Uno riguarda lo spazio: il web, il luogo in cui è nato e cresciuto l'ormai dissolto Movimento 5 Stelle, è privo di una forza dominante. Poi c'è un motivo di opportunità: in questi ultimi anni, ci hanno provato in molti, dai No Vax ai Sì Putin (due mondi spesso coincidenti), ma nessuno si è dimostrato in grado di convogliare i «mi piace» o le visualizzazioni in qualcosa di politicamente rilevante. Il terzo fattore è relativo al piano culturale: le battaglie che trovano eco nell'istantaneità del web fanno fatica a passare in Parlamento. Il Ddl Zan - immaginiamo pensino dalle parti degli «influencer» - ne è la prova. Tanto varrebbe estendere gli orizzonti e fare un tentativo pratico: una formazione partitica che faccia arrivare al grande pubblico le istanze che, almeno per ora, vengono percepite come prioritarie quasi soltanto o quantomeno soprattutto dalle giovani generazioni.

Quanto sarebbe stata evidente la frattura tra i cosiddetti boomer ed i nativi digitali se, al referendum che si è appena svolto, l'Italia avesse avuto anche la possibilità di esprimersi sulla liberalizzazione della cannabis? Insomma qualcuno potrebbe voler sdoppiare lo schema, sgombrando il campo dal limite imposto dalla virtualità: i «seguaci» su internet e la politica nella realtà. Sarebbe troppo facile presentare l'esempio della potenzialità dei Ferragnez. Peraltro l'imprenditrice milanese sarà al Festival della canzone italiana in piena campagna elettorale. Dovesse decidere di scendere in campo (ipotesi che comunque sembra essere peregrina), si porrebbe quantomeno un tema. Fedez sembra avere un profilo più politico della moglie e continua ad intervenire sui temi d'attualità. Però anche il cantante non sembra disponibile ad un vero e proprio impegno in prima persona. Il fatto è che i nomi in questa storia contano eccome: «Il partito degli influencer può valere lo 0% o il 30% - dice al Giornale Tiberio Brunetti, consulente politico ed istituzionale - . Dipende da chi lo rappresenta e dai temi bandiera. Se ci pensiamo abbiamo un precedente: il M5S ha avuto per capo un influencer ante litteram, Grillo».

Claudio Cecchetto, che ha i suoi 83mila followers su Instagram e che proviene dallo spettacolo, si è candidato a sindaco di Riccione arrivando terzo e sfiorando il 9%: può costituire un segnale ulteriore. Cristina Fogazzi, ossia l'«Estetista cinica», ha endorsato Carlo Calenda qualche mese fa: «Mi ha invitato nella sede di Azione, che è popolata di Fagiane (l'appellativo riservato alle Fan) e ho avuto un'ottima impressione. Vi dico che mi piace, così domani i giornali hanno qualcosa da scrivere» ha dichiarato, durante le amministrative, come ha riportato Repubblica. Insomma: se quella in corso è una progressione, i tempi sembrano essere maturi. C'è chi è già al lavoro su quelle che vengono chiamate «anagrafi».

L'obiettivo degli studi certosini è tirare fuori un «capo influencer» dal cilindro entro primavera 2023. Serve qualcuno in grado di fare sintesi. Poi, come molti progetti partoriti nel contesto del web, il «partito degli influencer» può non partire, sparire poco dopo tempo o esplodere contro ogni previsione. Comunque, converrà «seguire» anche questo.

Quella tragedia trasformata in burla. Augusto Minzolini il 21 Giugno 2022 su Il Giornale.

Una volta, ormai tanto tempo fa, ai tempi della prima e della seconda Repubblica, se c'era un argomento su cui non si scherzava, cioè su cui non si inscenavano diatribe per guadagnare qualche voto, quello era la politica estera.

Una volta, ormai tanto tempo fa, ai tempi della prima e della seconda Repubblica, se c'era un argomento su cui non si scherzava, cioè su cui non si inscenavano diatribe per guadagnare qualche voto, quello era la politica estera. Per un motivo semplice quanto sensato: un conto dare spettacolo nel cortile di casa, un altro sul palcoscenico internazionale non fosse altro per non farsi ridere dietro o, alcune volte, per non far piangere il mondo intero. Nella terza Repubblica, caratterizzata dall'approdo dei grillini in Parlamento, anche questa bella abitudine è andata in gloria. In fondo un partito fondato da un comico non può che dar spettacolo, appunto.

Solo che, al solito, i 5stelle a digiuno di politica non sono capaci di scegliere il momento opportuno per la loro tradizionale pagliacciata: un conto infatti è atteggiarsi a rivoluzionari appoggiando il Venezuela di Maduro, nel qual caso si resta nell'ambito della commedia o al massimo rubi il mestiere ai clown; ma se la stessa operazione la tenti mentre è in corso una guerra a poco più di un migliaio di chilometri da noi, mettendo in piedi una sceneggiata sulla fornitura di armi all'Ucraina per intercettare il voto di tutti i putiniani del Belpaese, rischi che la commedia si trasformi in tragedia. Ti ritrovi ad essere lodato solo dall'ambasciatore russo a Roma, con Zelens'kyj che ti tira in ballo implorando il Parlamento italiano a non glissare sul tema degli armamenti e con il tuo ministro degli Esteri Luigino Di Maio, che pure ne ha viste tante vendendo bibite allo stadio San Paolo, che è costretto ad arrossire per la vergogna, a chiudersi in un silenzio imbarazzato e a mettere l'avviso: cercasi partito.

Fin qui la tragedia. Ma l'esperienza insegna che nella cosmologia grillina alla fine la tragedia torna sempre a rincontrarsi con la commedia. Così quando l'ex-premier Giuseppe Conte, che ha abitato per tre anni a Palazzo Chigi, che ha avuto a che fare con le cancellerie e le diplomazie di tutto il mondo, che ha giocato con i servizi segreti, che ha bazzicato magari senza capirci molto l'Alleanza Atlantica (e pensare che Il Foglio lo aveva pure lodato) rammenta il suo passato, si rende conto che in certi frangenti non si può scherzare. A quel punto se non vuole impegnare il resto della sua vita nel ruolo di istrione di piazza ha due strade: o ammette pubblicamente che il suo è stato solo un bluff, che non può chiedere al governo di rimangiarsi la scelta di fornire armi a Kiev, ma la sincerità non è roba da grillini. O si adegua alla tecnica dello struzzo: non pretende il no alle armi nella risoluzione del governo, accetta che non se ne parli, così lui insisterà a predicare il pacifismo disarmato e il governo continuerà a spedire obici e munizioni a Kiev. Insomma, si acconcia al bluff camuffato, al paradosso del doppio bluff. Un'altra burla. L'unica consolazione è che fra meno di un anno, se gli italiani recupereranno finalmente il senno, nel nuovo Parlamento di burle del genere non ne vedremo più.

Un discorso per smentirsi: così Gigino ha rinnegato il suo credo. Andrea Indini il 23 Giugno 2022 su Il Giornale. Tuonava contro i voltagabbana, voleva uscire dall'euro e "superare" la Nato. Aveva scherzato.  

C'era un tempo in cui Luigi Di Maio seguiva pedissequamente la linea barricadera dei 5 Stelle. Mai un pasdaran alla Di Battista, ma sicuramente un duro e puro dei totem grillini. Era uno di quelli, per intenderci, che «entriamo in Parlamento e lo apriamo come una scatoletta di tonno». Poi, però, è arrivato al governo. Una carica via l'altra. Cambiavano alleanze e premier, lui restava sempre in sella. Inossidabile. Una carriera formidabile, invidiatissima dai suoi. Non manca chi gli ricorda ancora lo stadio San Paolo. Ma il passato è passato. Come sono passati tutti i totem in cui credeva quando ha aderito al M5s e che martedì sera in un discorso di pochi minuti per dare l'addio al Movimento ha rinnegato.

VINCOLO DI MANDATO, UN'UTOPIA

Il web non dimentica. Basta spulciare un po' e subito viene a galla tutto. I voltagabbana, per esempio. Di Maio non li poteva proprio sopportare. Nel 2017 su Facebook scriveva: «Se vieni eletto con il Movimento 5 Stelle e scopri di non essere più d'accordo con la sua linea, hai tutto il diritto di cambiare forza politica. Ma ti dimetti, torni a casa e ti fa rieleggere, combattendo le tue battaglie. Chi cambia casacca, tenendosi la poltrona, dimostra di tenere a cuore solo il proprio status, il proprio stipendio e la propria carica». Già. Rileggerlo oggi, a fronte di quanto fatto nelle ultime ore, fa sorridere. E dire che, durante la scorsa legislatura, inveiva contro la creazione di nuovi gruppi parlamentari? «Molti di questi non erano neanche sulla scheda elettorale». E tuonava: «Un vero e proprio mercato delle vacche che va fermato». Voleva addirittura multare chi lo faceva: 100mila euro di ammenda da pagare sull'unghia. Non è andata così.

UNO NON VALE PIÙ UNO

Per anni i 5 Stelle sono stati in piedi su uno degli assunti più qualunquisti della storia della politica: «uno vale uno», i politici sono tutti intercambiabili e il politico di professione (ecco un altro totem scardinato) è un mostro da abbattere. Da qui, altra pietra miliare del grillismo della prima ora, il vincolo del doppio mandato: finito il secondo giro, si va a casa. E, guarda un po', Di Maio è ormai al giro di boa. Da tempo si vociferava che non avrebbe ottenuto la deroga sperata. Col nuovo partito non avrà di questi problemi. Anche perché ha messo in chiaro di non crederci più all'uno vale uno. «Uno - ha detto - non vale l'altro». Nel 2014 ovviamente la pensava diversamente. «Ci sono migliaia di anime in questo movimento, però uno vale uno - spiegava a Che tempo che fa - come Grillo, Casaleggio, io e il gruppo parlamentare e i cittadini che partecipano sul portale».

NESSUNO SPAZIO PER ODIO E POPULISMI

Già nei giorni scorsi, prima che trapelasse la bozza sull'Ucraina, Di Maio si era preoccupato per le sorti del movimento: «Temo che diventi una forza politica dell'odio». Una preoccupazione campata per aria visto che il M5s è da sempre il partito dell'odio. Davvero non ricorda i Vaffa Day, l'antipolitica ingiuriosa, le gogne social, le liste di proscrizione contro i giornalisti, le campagne giudiziarie usate come clava per demonizzare gli avversari politici? Ieri ha promesso che nel suo partito «non ci sarà spazio per i populismi, i sovranismi, gli estremismi e l'odio». E l'impeachment a Mattarella che lui stesso aveva chiesto quando era il capo politico del M5s? Per il capo dello Stato, ieri sera, ci sono stati soltanto elogi. Tutto un altro Di Maio, insomma.

LA POLITICA ESTERA

Tra tutte, però, la più plateale inversione a u fatta da Di Maio attiene la sfera dei rapporti internazionali. C'era un tempo in cui il M5s era profondamente contrario alla moneta unica. Erano i tempi del FirmaDay, #fuoridalleuro. Nel 2014 Gigino sbraitava contro le élite, la Troika e la Merkel. «Se non ci liberiamo dall'euro - diceva - il Mezzogiorno diventerà una terra desolata e spopolata». Tre anni dopo, presentando il «Libro a 5 Stelle dei cittadini per l'Europa», aveva ribadito che l'euro «non è democratico» e che «bisogna prevedere procedure per uscirne». Non deve quindi stupirci se, sfogliando vecchi album, dovessimo imbatterci in fotografie coi Gilet gialli francesi. Era il 2019, neanche troppo in là negli anni. Con lui c'era pure Dibba. Oggi, però, la strada col Che Guevara di Roma Nord si è divisa e Di Maio si professa europeista e pure atlantista, fermamente convinto dell'impegno dell'Italia nella Nato. E dire che, in passato, mai si è opposto alla richiesta del M5s di «superare la Nato». Ma erano altri tempi, appunto.

A Pomigliano bocciano il loro "enfant prodige". "È una furbata per conservare la poltrona". Pasquale Napolitano il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

Pure il parroco si dissocia: "Voglio bene a Luigi ma non condivido più nulla"

Pomigliano d'Arco (Napoli) Nella «Di Maio land» le stelle grilline brillano ancora. La comunità campana boccia la scissione. Nella terra che alle ultime elezioni politiche ha tributato al Movimento percentuali del 70%, la maggioranza dei cittadini non condivide la scelta del ministro degli Esteri di rompere con i Cinque stelle. Quel che resta della base di attivisti si schiera con Conte.

La protesta esplode a Pomigliano d'Arco: nella città d'origine del ministro Di Maio la rabbia è incontenibile. «Il sogno è svanito», «traditi», «venduti», è il tono dei commenti in paese. Un fiume di indignazione. In quel pezzo di terra, a forte vocazione operaia, lo strappo tra Di Maio e il Movimento genera tanta delusione. Basta fare un giro tra la comunità e sulle pagine social per comprendere il malcontento. La pagina Pomigliano Indignata, un tempo cannone per le battaglie grilline, dà sfogo alla rabbia: «Quando una nave affonda i topi scappano. Il buon Luigi sta tentando una ennesima furbata, per qualcuno può sembrare scaltrezza, fatto sta che il suo obiettivo è quello di cercare di uscirne purificato» scrive Antonio Pirozzi.

Più duro Felice Romano, un tempo amico personale del ministro Di Maio: «A giudicare dalla coerenza del ministro è logico attendersi che il suo nuovo partito insieme per il futuro si chiamerà tra un po' divisi per il passato. Ti abbiamo votato e difeso fino all'inverosimile. Hai fatto tutto ed il contrario di tutto pur di conservare la poltrona. Vergognati».

C'è anche chi però difende la mossa di Di Maio: «Luigi non meritava di esser trattato così da Conte», si infervora il titolare di un bar all'angolo in piazza Mercato a Pomigliano d'Arco. Pensiero identico a quello di Antonio Cassese, professore di storia dell'ex capo politico ai tempi del liceo Imbriani di Pomigliano: «Luigi deve fissare nuovi orizzonti politici, fa bene».

La delusione per la scissione non risparmia il prete Don Peppino Gambardella, confessore spirituale di Di Maio: «Ci hanno rubato un sogno. Assicuro il mio affetto a Luigi, che immagino stia soffrendo, ma non condivido più nulla. Che delusione».

Alla rabbia della comunità fa da contraltare l'umore euforico che si respira nel Palazzo della città: il gruppo consiliare del M5s (ormai ex) di Pomigliano d'Arco trasloca in blocco con Insieme per il Futuro. Il M5S si scioglie come neve al sole. Il sindaco di Pomigliano Gianluca Del Mastro potrebbe essere il primo sindaco della Campania in quota Di Maio. Il clima che si respira a Pomigliano è simile con quello percepito in altre zone della Campania: Nola, Afragola, Castellammare, Caivano. In pochi condividono la scissione. Ma anche nelle città di Caserta, Avellino, Benevento, Salerno la scelta del ministro degli Esteri appare incomprensibile.

In Campania pesa il no del senatore Agostino Santillo. Una storia che merita di essere raccontata. Santillo e Di Maio sono i due testimoni di nozze della capogruppo grillina in Regione Campania Valeria Ciarambino (passata con Insieme per Futuro): un rapporto solido e di amicizia che si è rotto nel giorno della scissione. Santillo resta con Conte. Stavolta la delusione (personale) è tutta da parte del ministro Di Maio.

Con il ministro molti campani e siciliani. E quaranta peones alla prima legislatura. Fabrizio De Feo il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

All'Europarlamento il gruppo M5s resta compatto. Ma si era già dimezzato.

Luigi Di Maio è uscito dal gruppo. Anzi ne ha creato uno tutto per sé. Non si parla di band, ma di truppe parlamentari, e del grande divorzio tra i due leader pentastellati, con Giuseppe Conte da una parte e il ministro degli Esteri dall'altra. Un big bang che fa seguito al lento, inesorabile stillicidio di addii che ha segnato la storia dei Cinquestelle nel corso della legislatura e ora si conclude con una operazione strutturata e organizzata, anche se ancora da definire nella sua prospettiva futura. Sì, perché al momento Di Maio ha creato Insieme per il futuro, ma questa creatura è soltanto un gruppo parlamentare e non un partito e la sua collocazione futura è oggetto di ipotesi, congetture e speculazioni.

Insieme per il futuro al momento ha incassato l'adesione di 51 deputati e 10 senatori, ma è possibile che altri parlamentari provenienti dal Gruppo misto possano traslocare nel nuovo contenitore. Tra i big che lasciano i Cinquestelle ci sono il viceministro dell'Economia Laura Castelli, il questore della Camera Francesco D'Uva, l'ex ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri e il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano. Dei 61 parlamentari, 40 sono al primo mandato (30 alla Camera e 10 al Senato) e 21 al secondo. Si fanno già i nomi dei possibili capigruppo: Vincenzo Spadafora per Montecitorio e Primo Di Nicola o Vincenzo Presutto per Palazzo Madama.

Ieri mattina, prima delle comunicazioni di Mario Draghi in vista del Consiglio europeo del 23 e 24 giugno, il presidente della Camera Roberto Fico ha ufficializzato la nascita del nuovo gruppo Insieme per il futuro e ha elencato i nomi dei deputati che ne fanno parte. Le truppe di Luigi Di Maio hanno una fortissima connotazione sudista. Guardando al gruppo della Camera, su 51 iscritti, 16 sono campani; 10 siciliani; 5 pugliesi, 4 sardi; 4 laziali; 2 calabresi. Il Piemonte può contare su 2 eletti. Basilicata, Abruzzo, Marche, Toscana, Umbria e Veneto hanno tutte un solo deputato. Al Senato la situazione è più mobile ed è anche scattata qualche controffensiva. Il senatore Emiliano Fenu, tra i parlamentari che due giorni fa avevano deciso di lasciare il gruppo M5s (ma senza passare a Insieme per il futuro), ci ha ripensato e resta con Conte. Resiste il gruppo a Strasburgo. La delegazione M5s di eurodeputati guidata da Tiziana Beghin non sembra aver risentito della nascita di Insieme per il futuro. Le perdite nel corso della legislatura però non sono mancate. Da 14 eletti si è passati a 7: in 4 sono passati a Greens, uno al Ppe, uno a Renew e un europarlamentare siede invece al Misto.

La cerimonia degli addii, comunque, non sembra conclusa. Manlio Di Stefano, fa capire, parlando con Fanpage, che qualcos'altro potrebbe muoversi. «Se oltre 60 parlamentari di cui due terzi alla prima legislatura, hanno fatto questa scelta, significa che non c'era alternativa. Solo nei due rami del Parlamento sono 61, ma il numero è destinato a crescere senza contare che lo stesso sta avvenendo dal Parlamento europeo fino ai Consigli comunali». E si registrano anche casi particolari e curiosi. Maria Pallini e Giovanni Currò, infatti, si sposeranno sabato ma hanno già divorziato in Parlamento. Lei è di Avellino, è stata eletta con il M5s in Campania, e ha seguito Luigi Di Maio. Lui è di Como ed è rimasto fedele a Conte. Un inno alla pluralità di pensiero. Salvo ripensamenti.

Luigi Di Maio, addio M5s? "Perché la colpa è di Roberto Fico". Libero Quotidiano il 21 giugno 2022

La colpa non sarebbe di Giuseppe Conte, ma di Roberto Fico. Se Luigi Di Maio ha deciso, o forse semplicemente accelerato il passo per la scissione del Movimento 5 Stelle, spiegano gli uomini più vicini al ministro degli Esteri, sarebbe stato per "le parole di Fico", le critiche del presidente della Camera "hanno segnato la rottura definitiva. Sono state il punto di non ritorno...". 

Mentre procede senza sosta lo scouting dei fedelissimi di Di Maio per la formazione dei nuovi gruppi di Camera e Senato, insomma, si procede già allo "scaricabarile" delle responsabilità, un modo come un altro per marcare confini politici e sgravare la coscienza davanti agli elettori per una scelta che, con ogni probabilità, decreterà la fine del Movimento per come l'abbiamo conosciuto fino a oggi. Dal punto di vista parlamentare, la fuoriuscita dei parlamentari è pesante: si parla di una quindicina di senatori e addirittura una cinquantina di deputati. 

Come suggerito all'agenzia Adnkronos dai parlamentari dimaiani che confluiranno, presto, nel gruppo "Insieme per il futuro" (sarebbe questo il nome scelto), Di Maio non avrebbe gradito la difesa di Conte portata da Fico. Una rottura che sembra arrivare sulla scia di una vecchia faida "napoletana", visto che entrambi ambiscono al ruolo di leader in uno dei feudi elettorali a 5 Stelle.  

E Beppe Grillo? C'è chi fa notare, maliziosamente, che i dimaiani sono usciti allo scoperto "bruciando" il fondatore, atteso a Roma giovedì. La scissione è stata annunciata addirittura due giorni prima, segno di quanto ormai il clima nel Movimento sia irrespirabile, anche nei confronti del guru schierato apertamente con Conte. 

L’ira di Fico: «Non è Di Maio contro Conte. Ma Di Maio contro il Movimento». Il presidente della Camera sulla faida M5S: «Siamo con l'Ucraina e la Nato, non capisco perché dice il contrario». Il Dubbio il 21 giugno 2022.

«Non c’è nessun Conte-Di Maio, state sbagliando prospettiva. L’unica cosa che c’è, al massimo, è Movimento-Di Maio, perché attaccare il Movimento su posizioni che non sono in discussione dispiace a tutta la comunità del Movimento». Così il presidente della Camera Roberto Fico entra nella faida che da giorni attraversa il M5S, con il ministero degli Esteri a un passo dall’addio al Movimento.

«Siamo un pò dispiaciuti da questo atteggiamento, non c’è nessun attacco nei confronti di Luigi Di Maio. Non è questo, è solo che non capiamo e non capisco perché si attacca su una cosa che non è in discussione», aggiunge Fico, che preferisce però non parlare dell’ipotesi espulsione.  «Dico solo, perché si deve attaccare il Movimento e metterlo in fibrillazione in un momento in cui queste cose nel Movimento non sono in discussione?», sottolinea Fico con riferimento alle presunte posizioni anti Nato e anti Unione Europea nel M5S. «Mi è incomprensibile e personalmente mi fa anche un po’ dispiacere, e da un punto di vista capisco che la comunità del Movimento, quando c’è un’operazione non aderente alla realtà, si debba anche difendere. Il Movimento non sta attaccando, si sta difendendo da questo».

«Il Movimento 5 Stelle è con l’Europa, siamo all’interno di un Patto atlantico e sosteniamo l’Ucraina in tutti i modi, sarebbe assurdo non esserlo soprattutto e ancor di più in questo momento. Questa discussione interna al Movimento 5 Stelle non c’è», prosegue Fico. «Queste posizioni – aggiunge – vanno in contrasto con il Movimento perché non sono vere. Non c’è un lavoro con Giuseppe Conte o con vicepresidenti e coordinatori dei comitati sulla questione se dobbiamo rimanere in Europa o no, se siamo nella Nato o meno. Da mesi si ribadisce sempre l’Alleanza atlantica e l’Unione Europea, non capisco perché a un certo punto qualcuno si sveglia la mattina e dice che il Movimento è contro la Nato o contro l’Unione europea. Anche il leader attuale del Movimento 5 Stelle è andato a battere i pugni in Europa e ha costruito il Recovery fund con il Next generation Eu, di cosa stiamo parlando? Sono dispiaciuto perché vengono poste questioni non reali, poi i giornali fanno i titoli sulle questioni non reali e sembra che il Movimento sia contro la Nato. È una stupidaggine, tutto qua».

«Di Maio costruisce una sua posizione al di là del M5S? Non ne ho idea, lo vedremo solo vivendo», chiosa il presidente della Camera Roberto Fico. «Quello che mi interessa – dice – è lavorare in modo tranquillo e costruttivo nel Movimento 5 Stelle e oggi ci sono tanti gruppi di lavoro, c’è un consiglio nazionale, abbiamo i comitati, gli organi funzionanti, stiamo completando l’operatività totale dello statuto che oggi è al 100% operativo perché il Tribunale di Napoli ha rigettato la causa degli ex M5S».

Grillo, Casaleggio, Di Maio… Sta a vedere che è Conte il rottamatore. Nel giro di pochi mesi l’Avvocato è riuscito a fare ciò in cui chiunque prima di lui aveva fallito, spianando via vecchie liturgie e avversari interni. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 giugno 2022.

Secondo una vulgata di Palazzo, Giuseppe Conte non brilla per coraggio. Strilla, strilla, ma alla fine non ha mai la baldanza dello strappo. Un’attitudine, quella alla prudenza estrema, sviluppata dopo la lezione del Papeete e abbondantemente utilizzata durante il suo secondo governo. Ma, dicevamo, di vulgata si tratta.

Perché a ben guardare Conte è tutt’altro che un mite avvocato catapultato nel mondo della politica. E per rendersene conto è sufficiente riavvolgere il nastro di un solo anno, l’anno della scalata al Movimento 5 Stelle. Dopo essere stato disarcionato da Palazzo Chigi, infatti, l’ex premier, forte di un consenso popolare ancora alto, ha concentrato ogni sua energia nella ricostruzione di un partito rimasto senza guida. Un percorso accidentato, pieno zeppo di insidie e scogli da aggirare per plasmare un carrozzone lacerato da una guerra fra bande favorita da una “non organizzazione” capace di cristallizzare rendite di potere inamovibili: un pezzo a Beppe Grillo, un pezzo a Davide Casaleggio, un pezzo a Luigi Di Maio. Il tutto retto da un’infinità di non detti, non scritti e consuetudini che solo un profondo conoscitore della grammatica pentastellata avrebbe potuto comprendere.

Insomma, governare quella macchina anarchica e autoritaria allo stesso tempo sarebbe stata impresa ardua per chiunque, figurarsi per un leader estraneo a quella storia e spuntato dal nulla. Ma forse è stata proprio questa la forza di Conte, che invece di perdersi in indistricabili trattative barocche condotte col misurino dei contentini, è entrato come un panzer nella casa grillina spianando via vecchie liturgie e avversari interni. E nel giro di pochi mesi l’avvocato è riuscito a fare ciò in cui chiunque prima di lui, Di Maio compreso, aveva fallito: rottamare l’intero “gruppo dirigente” pentastellato.

Uno alla volta l’ex premier ha “licenziato” Casaleggio, figlio del cofondatore e dominus assoluto di Rousseau, ridimensionato a un ruolo poco più che onorario lo stesso Grillo, accompagnato alla porta Di Maio, il volto politico più noto e potente del Movimento dalla cui fantasia era nata l’idea di trasformare Conte in un presidente del Consiglio. Difficile definire “prudenza” o “indecisione” questo modo di incedere. Nel giro di un anno il presidente grillino è stato in grado di realizzare quel sogno che Renzi nel Pd non è riuscito a portare a termine in un percorso durato oltre sei anni: esautorare la “ditta”.

Senza la spocchia dello «stai sereno», del «Fassina chi?», del «ciaone», ma col passo felpato e brutale dell’avvocato con la pochette. Il senatore di Rignano sull’Arno alla fine ha dovuto fondare un nuovo partito per avere una piccola arena senza avversari interni, Conte ha rifondato il suo. Forse entrambi saranno destinati all’irrilevanza politica ed elettorale. Ma di rottamatore vero, a conti fatti, ce n’è solo uno.

"Da domani i 5 Stelle non più prima forza politica". La scissione di Di Maio, dopo 9 anni rinnega se stesso: “Addio Movimento, nuovo partito senza odio e populismo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Giugno 2022.

“Da domani il Movimento non è più la prima forza politica del Parlamento“. La politica fa miracoli e nel giro di pochi anni porta un suo giovane esponente, Luigi Di Maio, a rinnegare o meglio rivalutare il proprio credo (impeachment di Mattarella, contro l’Euro, contro la Nato) e, incarico dopo incarico (vicepremier, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, capo politico del Movimento, oggi ministri degli Esteri), a salutare quel partito che nel 2013, con appena 189 preferenze online alle cosiddette elezioni parlamentarie dei 5 Stelle, lo portò quasi per miracolo a entrare nella Camera dei deputati.

Nove anni dopo, in un hotel Bernini di Roma affollato di giornalisti e suoi fedelissimi (Sergio Battelli, Laura Castelli, Primo Di Nicola, Carla Ruocco, Francesco D’Uva, Simone Valente, Daniele Del Grosso, Simona Nocerino, Vincenzo Presutto e tanti altri), pronti a convergere in un gruppo parlamentare che dovrebbe chiamarsi “Insieme per il futuro”, Di Maio saluta il Movimento di Beppe Grillo e dell’oramai nemico Giuseppe Conte perché “dovevamo scegliere da che parte stare” in merito al conflitto in Ucraina e alla risoluzione approvata oggi in Senato sugli aiuti, armi comprese, da inviare a Kiev.

Una scelta istituzionale la sua, anche per il ruolo che ricopre, dettata da uno scontro alimentato – a detta del ministro – soprattutto da motivi mediatici riconducibili al ruolo da pacifista che si sarebbe ritagliato l’ex premier per ottenere, o provare a farlo, consensi in vista delle prossime elezioni politiche in programma nella primavera del 2023.

Secondo Di Maio “i dirigenti del Movimento hanno rischiato di indebolire l’Italia, di mettere in difficoltà il governo per ragioni legate alla propria crisi di consenso. La guerra non è uno show mediatico, è da irresponsabili picconare il governo“. L’ex capo politico ringrazia il Movimento “per quello che ha fatto per me, ma da oggi inizia una nuova strada” ma lo “lascio”. “E’ una scelta sofferta che non avrei mai pensato di fare” aggiunge.

Poi lancia la sua campagna acquisti con la solita cantilena che accompagna i nuovi progetti politici: “Da oggi inizia un nuovo percorso. Per costruire un futuro servono soluzioni e idee realizzabili. Per avere un modello vincente da nord a sud abbiamo bisogno di aggregare le migliori capacità e talenti. Perché uno non vale uno”. Poi la chicca: “Nascerà una forza politica che non sarà personale”, dove “non ci sarà spazio per odio, sovranismi e populismi“. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Conte e Grillo non sono uguali: i 5 Stelle esistono perché c’è Beppe. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Lo espelleranno o no? Diciamo pure che comunque vada non sarà uno di quegli avvenimenti che passeranno alla storia. Il problema casomai riguarda la tenuta del governo, se i 5 Stelle dovessero decidere di rompere sulla politica estera. Ma non succederà. Per una ragione molto semplice: i 5 Stelle non sanno molto bene cosa sia la politica estera e invece sanno piuttosto bene che se il governo va a casa e si sciolgono le camere è un bel guaio per i loro stipendi. Che poi Di Maio resti alla corte di Conte o esca e si faccia una sua corticina, o passi alla corte di Letta o di qualche altro spezzone centrista, resta un fatto abbastanza secondario.

La verità è che i 5 Stelle non ci sono più. Per una ragione essenziale. Noi continuiamo a chiamarli 5 Stelle ma loro sono semplicemente “grillini”. Il 30 per cento ed oltre dei voti alle elezioni politiche li hanno presi per quel semplicissimo motivo: erano i ragazzi di Beppe. Grillo è un personaggio di statura politica non molto elevata ma di personalità e carisma esplosive. E un bel giorno ha fatto irruzione nella politica italiana mandando tutto a carte quarantotto. La politica italiana non pensava che potesse esprimere una forza così dirompente e distruggente. E invece lui la possedeva. Aveva messo in piedi un movimento qualunquista tutto costruito sulle sue capacità comunicative e su alcune idee di demolizione del potere.

I movimenti qualunquisti sono una costante nella politica mondiale, ci sono stati in passato in Italia (Giannini), in Francia e altrove. Hanno avuto un peso. Talvolta il qualunquismo si diffonde orizzontalmente infiltrandosi nei i partiti (ce n’era parecchio sia nel Pci, sia nel Msi, sia nella Dc) talvolta si auto-organizza e diventa una spina nel fianco del sistema.

Il qualunquismo di Grillo era speciale, sia perché Grillo era speciale, sia perché conteneva una percentuale di anarchismo non indifferente. Ma i qualunquisti hanno sempre un limite grosso: sono a tempo. In questo caso avevano due limiti: il tempo e l’essere legati a filo triplo alla personalità del capo. Quando il capo si è ritirato, è iniziata la dissoluzione.

Ora possono mantenere qualche voto, ma peso politico, quando sarà eletto il nuovo parlamento, zero. Tutti i partiti che avevano fatto male i conti quando arrivarono i grillini, rischiano oggi di fare lo stesso errore di allora. Aver pensato che Conte fosse un leader politico è stato il più grande abbaglio degli ultimi trent’anni.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 22 giugno 2022.

Draghi è più forte. Conte e Grillo sono più deboli. Il premier incassa la nascita del primo nucleo parlamentare dichiaratamente sostenitore dell'Agenda Draghi, quello dimaiano, e allo stesso tempo vede ridursi le truppe dei malpancisti di Conte («le mosche tze tze», li chiamano i democrat) e registra l'ennesima «figuraccia» - così la chiamano tutti - dell'ex avvocato del popolo incapace di rompere e di dare l'assalto al governo e costretto a innescare la retromarcia automatica e prevedibilissima.

«M'hanno rimasto solo sti quattro cornuti», potrebbe inveire Conte (citando L'audace colpo dei soliti ignoti) riferendosi sia a Salvini, che promette sempre fuoco e fiamme e poi si allinea docilmente a Draghi (altro che Papeete bis!), sia a Di Maio che s' è fatto il suo partito con una velocità, una determinazione e una spietatezza che il leader M5S non aveva previsto e così ha blindato Draghi. 

I fedelissimi dell'ex premier, tutti contenti perché senza i dimaiani ci sono più posti disponibili nelle liste elettorali, non fanno che dirgli: «Giuseppe, no problem. Di Maio farà, con la sua scissione, la fine di Fini e di Alfano. Va a sbattere il muso». Conte però non condivide fino in fondo questo entusiasmo, anche se pubblicamente fa il duro. Ha perso Giuseppi in questa giornata campale.

E ha perso pure Beppe però. Il quale ha dovuto constatare che la sua creatura politica, dopo tanti anni di successi, è arrivata alla fine. E non per colpa di Di Maio ma anche a causa di un leader «senza capacità organizzativa né visione politica» (proverbiale stroncatura di Grillo su Conte). E infatti, il post anti-Di Maio di Grillo non è affatto un post filo- Conte. Ma la constatazione del passato di un'illusione. L'uscita di Grillo ha fatto precipitare tutto. Ovvero ha spinto Di Maio a strappare. Come Crono che divora i suoi figli, l'Elevato, il Garante, il Barbapapà ha visto che le sue creature si scannavano ed è entrato a gamba tesa con tre colpi molto forti.

Il primo contro tutti: siamo delle amebe ormai, non più grilli fritti e scoppiettanti, e dice questo il Fondatore ricorrendo a una immagine scientifica. Quella del Dictyostelium. «Beppe, che stai a di?», vorrebbero chiedergli gli stellati appena arriva sui loro smartphone questa strana parola seguita dal post ancora più criptico ma in realtà molto chiaro. Il Dictyostelium, s' informano tutti appena vedono lo strano fonema, è il sistema delle amebe che si auto-riproducono in maniera asessuata creando altre amebe su amebe, invertebrate e smidollate.

Ossia, secondo Beppe, i grillini oggi. Ma lui dice ancora di più scagliandosi, secondo colpo tremendo, addosso a Di Maio: «Qualcuno non crede più nelle regole del gioco? Che lo dica con coraggio e senza espedienti. Deponga le armi di distrazione di massa e parli con onestà». Di Maio accoglie l'invito alla chiarezza, e strappa. Ma c'è di più e di peggio nel post che fa precipitare tutto. 

C'è la dichiarazione di morte di M5S. Il de profundis. «Siamo tutti qui per andarcene, comunque, ma possiamo scegliere di lasciare una foresta rigenerata o pietrificata». Demolisce e si auto-demolisce l'Elevato, e questo sembra un canto del Grillo. Che cita Steve Jobs: «Disse agli studenti: oggi siete giovani, ma diventerete vecchi e verrete spazzati via». Perciò c'è chi sostiene che Beppe, in tanto crepuscolo, possa rinunciare a venire a Roma domani rischiando di comparire come l'Ameba Beppe.

Le pentacomiche. Cosa c’è dietro lo scontro tra Conte e Di Maio, storia dell’amicizia (che fu) tra due big per caso. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Lo cacciano o non lo cacciano, a Gigi Di Maio? Questa domanda agita il governo si ripercuote sul Paese, mette in crisi l’Unione Europea che secondo Medvedev – il cucciolo di Putin – chissà se fra due anni ancora esiste, scuote i delicati equilibri tra le potenze del Pianeta e potrebbe avere ripercussioni lungo la frontiera indo-cinese.

È una questione divisiva, quindi divide. Io personalmente, sto per Gigino perché seguita a vestirsi come per la prima comunione e poi ha imparato un sacco da quando gli hanno spiegato che per fare il ministro degli Esteri in un governo Draghi deve solo leggere i foglietti già recapitati da Palazzo Chigi via motociclista perché s’è rotta la scatola Wi-Fi., E chi è il nemico di Di Maio, quello che lo vorrebbe espellere? È l’avvocato de noantri Giuseppe Conte. E perché e per come? Ma quante ne volete sapere.

Ricordiamo sommariamente la storia. Si era nel 2018 e il movimento 5 Stelle guidato da Di Maio, e la Lega di Salvini vinsero le elezioni ciascuno per essersi connotato fieramente nemico dell’altro. Quindi decisero di fare insieme un governo di destra, ma al bim-bum-bam nessuno dei due voleva lasciare il posto di primo ministro all’altro, finché l’avv. Bonafede, frequentatore dello studio Conte, disse: “Ho io il tipo che ci vuole” e portò Conte a un appuntamento segreto con Di Maio e Salvini, i quali dissero: “Avvocato, si aggiusti la cravatta, la pochette va bene, prenda il trolley e venga con noi”. E lo portarono da Mattarella che disse: “Avvocato, l’hanno beccata con il curriculum ritoccato, non ci faccia fare altre brutte figure. E adesso ci dica: vuole lei, avvocato Conte, fare il Primo Ministro di questo Paese?”.

Lo sciagurato ripose di sì. Adesso andiamo un po’ alla svelta sennò ci facciamo notte e arriviamo fino al governo Draghi dove Di Maio viene riconfermato ministro degli Esteri, senza sapere che zio Putin stava preparando una delle sue peggio guerre. Il partito, movimento accozzaglia o come vi piace chiamarlo, si sfascia a ogni tornata elettorale e capisce di essere un movimento morto, anche se Enrico Letta l’ha scelto come sposa sperando di riportarsi a casa dei voti che un tempo appartenevano al Pd.

Catastrofe, Tutti per uno e nessuno per tutti, Conte tanto fa e tanto non fa, che si fa bollare da un giudice la patente di guida del partito e poi fra le previsioni del tempo vede che la politica detta del “Non diamo nuove armi agli ucraini, sennò quelli le usano per sparare ai russi”, è molto gettonata e l’assume come sua. Fa un discorso tortuoso che lo impegna a morte su congiuntivi e condizionali ma poi alla fine dice: “Basta nuove armi agli ucraini, finché si tratta di qualche sasso da fionda va bene, ma qui si esagera e annuncio che abbiamo cambiato idea”. La notizia che l’avvocato Conte avesse anche delle idee fa il giro del mondo e torna puntuale da dove era partita.

L’idea che Conte aveva avuto era semplice: dire che il movimento Cinque stelle, benché rappresentato nel governo dal ministro degli esteri, ha cambiato idea sulla fornitura di aiuti anche in armi all’Ucraina invasa dai russi e così andiamo due volte al giorno sui tiggì e sui giornali, che è tutta salute per un movimento politico dichiarato morto dagli elettori. Allora Di Maio si imbufalisce e dice di no, e però arriva certo Grillo detto Beppe, con scafandro e supercazzola, che dice tu piccolo Di Maio hai finito i due mandati e torni a casa. E allora Di Maio risponde con il saluto del movimento che si chiasma “Vaffa”. E allora Conte si presenta ovunque ci siano delle telecamere e diventa simpatico e autorevole di colpo a tutti i pacifisti. E tira e molla, e molla e tira, siamo arrivati ad oggi che non si sa che aria tira. Ma non fa niente perché Di Maio si fa un movimento suo, tanto adesso sono di moda, anche il sindaco Sala se lo fa e Calenda non è mai contento perché vuole essere l’unico movimentista di taglia medio-nana.

La questione delle armi all’Ucraina era già diventata nodale in quel curioso consesso, perché Petrocelli per aver fatto la stessa cosa da Presidente della commissione Esteri, era stato già espulso. Poco male perché tutti i pentastellati sono espulsi o annullati, o sottoposti a verifica giudiziaria. Ora i penta si contano per vedere se ne mette più insieme Conte o Di Maio e si diffondono cifre vistosamente rimaneggiate. Draghi dice di non volerne sapere niente e che già ha molto da fare con l’amico Macron che si è giocato la maggioranza assoluta e che si ritroverà con un primo ministro che ha idee opposte alle sue. Nel più grande imbarazzo resta Enrico Letta che vuole salvare più Pentastellati possibile e vuole vedere come finisce questa storia perché lui, legalitario com’è, deve stare dalla parte di Conte che per sentenza giudiziaria deve essere considerato il leader dei Cinque Stelle, anche se sono pochi a crederci.

L’Italia è dunque appesa a un filo, che è anche la sua condizione naturale. Lo sconcerto è grande, anche se nessuno ci ha capito granché essendo il M5S per sua natura “fluido”: non sa bene come è nato e perché e meno che mai perché si ritrova a capo un tale che un giorno rispose all’avvocato del suo studio, il quale un giorno gli disse vieni, ti porto a conoscere un mio amico che si chiama Luigi Di Maio e se stai buono quello di fa fare anche il capo del governo. Ed era tutto vero. La puntata di oggi finisce qui.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Dai gilet gialli alla fede atlantista. Chi è Luigi Di Maio, il migliore e peggiore della scuderia di Casaleggio. David Romoli su Il Riformista il 22 Giugno 2022. 

“Non è uno scontro tra Di Maio e Conte ma tra Di Maio e l’intero M5S”: parola di Roberto Fico, presidente della Camera, pentastellato di vecchissima data, uno che di solito pesa le parole. Proprio per questo quella dichiarazione secca suona come un de profundis per il Movimento di cui nessuno più di Luigi Di Maio, classe 1986, è stato negli anni il volto pubblico e soprattutto, nel bene e nel male, l’emblema. Il contrario di Conte, arrivato alla presidenza del consiglio su spinta del Movimento ma senza essere neppure mai stato iscritto, esaltato dai media proprio come l’uomo capace di “normalizzare” e istituzionalizzare il Movimento. Insomma di domare quelli come Di Maio.

Il campione dell’atlantismo, il ministro in carica da cinque anni con tre governi diversi, il volto oggi più accettabile e accettato da quelli che per anni i 5S neppure sopportavano di sentirli nominare era all’epoca reprobo quanto e più del gemello e amico/nemico Alessandro Di Battista. E Giggino da Pomigliano d’Arco pareva farlo apposta a calcare la mano, andare fuori dalle righe, esagerare sempre: deputato a 26 anni grazie ai 189 voti online ottenuti nelle parlamentarie online del 2013; vicepresidente della Camera nello stesso anno, il più giovane della storia e probabilmente il meno votato, appena 173 voti furono sufficienti; beniamino di Gianroberto Casaleggio, il solo vero capo che il Movimento abbia mai avuto; capo politico del Movimento, stavolta con 30.936 voti degli iscritti, quasi un plebiscito, l’82,% dei votanti; vicepremier e ministro dello Sviluppo a 32 anni, poi ministro degli Esteri in due governi opposti, uno dei pochissimi a passare indenne nel terremoto che espulse da palazzo Chigi Conte, con il suo silente beneplacito, per rimpiazzarlo con Mario Draghi, di cui oggi è fedelissimo.

Nulla di strano. Sembra la carriera, certo molto brillante, di un politico di professione che in altri tempi, probabilmente, avrebbe tentato la scalata con la tessera dello scudo crociato in tasca. Ciò che rende l’avventura anomala, la scalata improbabile è che l’enfant prodige si è fatto strada nelle istituzioni usando come leva l’anti-istituzionalismo più vibrato, inanellando dichiarazioni roboanti che deliziavano quanti non vedevano l’ora di dimostrare la pericolosità estrema, l’improntitudine insanabile, di quello strano movimento tenuto a battesimo da un comico a colpi di Vaffa. Gigino era quello che nei giorni del braccio di ferro col capo dello Stato che si rifiutava di nominare ministro dell’Economia il no euro Paolo Savona non esitava a chiederne l’impeachment. Quello che incurante del senso del ridicolo, la sera in cui fu varato il reddito di cittadinanza, apostrofava la scarna folla dal balcone di palazzo Chigi annunciando “la fine della povertà”. Peggio ancora era il numero due del governo che nel gennaio 2019 non esitava a incontrare la bestia nera d’Europa in quel momento, i gilet jaunes che mettevano a ferro e fuoco Parigi e poi a dichiarare entusiasta che “le posizioni e i valori comuni sono molti. Il vento del cambiamento ha valicato le alpi”.

Sia chiaro: nonostante il populismo ruggente, la solidarietà con i barricadieri e l’abolizione della povertà, il giovanotto rampante non ha mai cercato di farsi passare per uomo di sinistra. Al contrario, nel gioco delle parti inventato da Casaleggio per foraggiare la leggenda del Movimento “né di destra né di sinistra” a Di Maio toccava la parte del leader in grado di rivolgersi all’area dell’elettorato più tradizionalista: “Da cattolico penso che la famiglia sia quella con un papà e una mamma. Sulle adozioni per le coppie gay bisogna andare con i piedi di piombo”. Del resto nella meteorica esperienza del primo governo Conte, quello retto dalla maggioranza gialloverde, i suoi rapporti con Salvini erano idilliaci mentre proprio quelli con Conte, che avrebbe di gran lunga preferito il Pd alla Lega e non mascherava l’intento di “civilizzare” il Movimento, non sono mai stati davvero rosei.

Nel Movimento Di Maio era l’uomo di sfondamento contro la sinistra. Il capofila della campagna di Bibbiano: “Con il partito che in Emilia toglie i bambini alle famiglie io non voglio avere niente a che fare”. Il primo a lanciare la campagna contro le Ong colpevoli di salvare immigrati nel Mediterraneo: “Sono taxi del Mediterraneo. Quelli che le difendono sono ipocriti che fingono di non vedere il business dell’immigrazione”. Casaleggio aveva occhio. Di Maio era portato naturalmente per quel ruolo. Già al liceo s’era inventato una lista per sconfiggere la sinistra da sempre egemone nella scuola e c’era pure riuscito. La leggenda del “bibitaro” ha un fondo di verità. Di Maio ha fatto davvero un po’ di tutto: tecnico informatico, bravissimo a suo dire, aiutoregista, cameriere e anche steward allo stadio. Ma viene da una famiglia di imprenditori edili e la politica contro la sinistra la ha respirata sin da piccolo, col padre militante del Msi e poi di Alleanza nazionale. È vero che ad Antonio Di Maio il salto in politica come candidato al consiglio comunale di Napoli non era riuscito e anche per questo era contrarissimo alla scelta del figlio di scegliersi proprio quella carriera. È anche vero che tra i due non sempre i rapporti sono stati facili, ma sul pedigree antisinistra del futuro ministro degli Esteri non c’erano dubbi e Gianroberto l’Impresario, in cerca di volti nuovo da lanciare sul palcoscenico della politica, aveva fatto la scelta giusta.

Questione anche d’immagine, che nella politica contemporanea, che di politico ha ben poco, conta eccome. Se Di Battista era l’immagine descamisada del Movimento, il look capace di incendiare le piazze, Gigino è stato sin dall’inizio il doppio petto, la cura dell’aspetto, votato come “il più elegante tra i 5S” quando sbarcò in Parlamento. Quando nel gennaio 2020 lasciò l’incarico di capo politico, non senza denunciare quanti “vengono al fronte solo per pugnalare alle spalle”, si tolse emblematicamente la cravatta. Nessuno dubitò sul fatto che se la sarebbe rimessa prestissimo e così è stato. Tra i tantissimi catapultati in Parlamento dall’ondata grillina Di Maio è certamente quello che ha più testa politica, se per politica s’intende il fiuto per vento temperie e convenienza, la capacità di cogliere al volo l’occasione, le doti strategiche di cui difettano spesso anche le volpi della politica. È stato il primo a capire che il grande momento del populismo barricadero era passato e allo stesso tempo il più astuto e pericoloso rivale di Conte il normalizzatore.

Ha lavorato con diligenza per minare il potere di quell’ultimo arrivato nominato capo di un Movimento del quale non aveva mai fatto parte, collaborando senza mai esporsi alla sua cacciata da palazzo Chigi: quando Conte, sopravvissuto all’uscita di Renzi dalla sua maggioranza pensava già di essersi salvato fu Di Maio a chiarirgli che l’eventuale sfiducia contro il guardasigilli Bonafede avrebbe imposto anche a lui le dimissioni. Non era scritto da nessuna parte e per Conte fu un suicidio. Allo stesso tempo il ministro degli Esteri ha fatto il possibile per sostituire l’ “avvocato del popolo” come figura più affidabile, in Italia e all’estero, del Movimento. Ma dai gilet gialli alla fede atlantista assoluta è un bel salto e quel che resta dei 5S non glielo ha perdonato. In un modo o nell’altro la dipartita dal Movimento è già segnata. Resta solo da vedere il quando e il come. Ma con Luigi Di Maio il migliore e il peggiore tra i pargoli della scuderia Casaleggio, quello che più di ogni altro ha mantenuto e tradito le promesse, finisce il Movimento per come è stato sinora. David Romoli

Il governatore garantista con "Luigino". De Luca corteggia Di Maio: da “coniglio” e “carpentiere” a “interlocutore”: “Meglio tardi che mai…” Redazione su Il Riformista il 22 Giugno 2022.

“Il solo nome di questo soggetto mi procura reazioni d’istinto che vorrei controllare”. E poi ancora. Dalle sfide a fare un dibattito pubblico “dove, come e quando vuole purché in diretta televisiva, spero che non faccia il coniglio” all’apertura delle ultime ore. Dalla lettura in diretta tv, tra una battuta e l’altra, del suo curriculum alla possibilità di averlo come “interlocutore per un comune progetto riformista“. Come cambia la politica nel giro di pochi anni.

Lo sa bene anche Vincenzo De Luca, governatore della Campania, che dopo aver attaccato a testa bassa Luigi Di Maio e l’intero Movimento 5 Stelle, da qualche tempo ha fatto marcia indietro, aprendo al dialogo e, dopo la recente fuoriuscita di “Luigino” (così come lo chiamava, ndr) dal partito di Beppe Grillo, invitando il “carpentiere” mancato di Pomigliano D’Arco a collaborare per la creazione di un’unica grande forza politica che aggreghi il centrosinistra. Di Maio può essere un interlocutore perché – osserva De Luca – “se parla di concretezza, di rifiuto della demagogia, se ricorda a me che uno non vale uno, io che c’ero arrivato dieci anni fa per la verità, forse ci poteva arrivare un po’ prima, ma meglio tardi che mai, dico di sì”.

Per il governatore campano non c’è alcuna preclusione contro quelle componenti politiche che “vivono un processo di maturazione e che escono dall’infantilismo, dalla demagogia e in qualche caso da posizioni di vera e propria stupidità, credo sia un bene per il Paese”. Stessa apertura anche agli esponenti del Movimento 5 Stelle: “Se c’è un’innovazione anche nell’ambito dei Cinque Stelle – spiega – se c’è un processo Di maturazione politica, io credo che debba essere guardato con grande rispetto e anche con grande interesse”.

Già nei mesi scorsi De Luca aveva riposto l’ascia di guerra e provato a dialogare con il mondo pentastellato e con i suoi principali esponenti politici. Pur mantenendo la consueta ironia, “sono molto caritatevole”, in occasione dell’elezione di Gaetano Manfredi a sindaco di Napoli (grazie alla coalizione Pd-5 Stelle) il governatore si fece immortalare insieme a Di Maio e al presidente della Camera Roberto Fico dopo anni di dure polemiche, deflagrate poi durante l’emergenza covid. “C’erano più dirigenti che voti dei 5 Stelle a Napoli” commentò nei giorni successivi, sottolineando che “oggi dobbiamo essere molto aperti con gli amici 5 Stelle. Io sono tra quelli che non hanno un doppio linguaggio in privato e in pubblico. Non ho problemi a dire che ho un rapporto di cordialità e di amicizia con Roberto Fico. Lo considero una persona di grande qualità umana, di grande valore, così come ho apprezzato che Di Maio abbia cambiato la sua posizione. Abbiamo avuto conflitti, ma quando Di Maio ha trovato il coraggio di chiedere scusa al sindaco di Lodi, che era stato incarcerato ingiustamente è un dato di novità di cui prendere atto”.

La diaspora 5 Stelle. Chi sono i 62 parlamentari che hanno seguito Di Maio: i nomi degli iscritti a ‘Insieme per il futuro’. Redazione su Il Riformista il 22 Giugno 2022. 

Ci sono, come ovvio, tanti parlamentari, una quarantina, al secondo mandato, tutti esponenti del Movimento 5 Stelle che per la ‘linea dura’ di Beppe Grillo non sarebbero stati ricandidati tra un anno. Tra i 62 fedelissimi che hanno deciso di seguire la scissione dal Movimento di Luigi Di Maio, aderendo al gruppo parlamentare di ‘Insieme per il futuro’, la maggioranza è composta da deputati e senatori che salvo clamorosi colpi di scena sarebbero ‘in scadenza’.

L’addio del ministro degli Esteri ai pentastellati a guida Giuseppe Conte è un durissimo colpo per il Movimento: nel pomeriggio di ieri fonti vicine all’ex premier davano per certo l’uscita di un massimo di 25-30 parlamentari, diventati invece il doppio nel volgere di poche ore e con una ‘campagna acquisti’ che potrebbe continuare anche nei prossimi giorni.

E i conti in Parlamento sono drammatici per i 5 Stelle. I pentastellati dopo l’uscita di Luigi Di Maio non sono più il gruppo di maggioranza relativa alla Camera: ai 155 di lunedì (erano 227 a inizio legislatura) vanno sottratti i 51 che hanno seguito il titolare della Farnesina nel gruppo ‘Insieme per il futuro’, con la Lega che diventa la forza più presente a Montecitorio con i suoi 132 deputati. Stesso discorso al Senato, dove da 72 i rappresentati dei 5 Stelle scendono a 61, gli stessi del Carroccio, dopo l’addio di undici senatori di fede ‘dimaiana’.

I 51 deputati di IF

A comunicare ufficialmente i membri del gruppo parlamentare del ministro Di Maio è stato questa mattina il presidente della Camera, l’ormai ex compagno di partito Roberto Fico. Nella formazione, ovviamente, vi sono tutti ex 5 Stelle, con l’eccezione di Antonio Lombardo, ex deputato di Coraggio Italia.

Quindi i nomi dei nuovi iscritti a ‘Insieme per il futuro’, che presenta nel lungo elenco alcuni ‘big’ fuoriusciti dal Movimento come la viceministra dell’Economia Laura Castelli, l’ex sottosegretario di Stato Vincenzo Spadafora, Manlio Di Stefano, attuale sottosegretario di Stato al Ministero degli affari esteri, Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia.

Quanto agli altri, nel nuovo gruppo vi sono Cosimo Adelizzi, Roberta Alaimo, Alessandro Amitrano, Giovanni Luca Aresta, Sergio Battelli, Luciano Cadeddu, Vittoria Casa, Andrea Caso, Giampaolo Cassese, Luciano Cillis, Federica Daga, Paola Deiana, Daniele Del Grosso, Margherita Del Sesto, Giuseppe D’Ippolito, Gianfranco Di Sarno, Iolanda Di Stasio, Francesco D’Uva, Mattia Fantinati, Marialuisa Faro, Luca Frusone, Chiara Gagnarli, Filippo Gallinella, Andrea Giarrizzo, Conny Giordano, Marta Grande, Nicola Grimaldi, Marianna Iorio, Luigi Iovino, Giuseppe L’Abbate, Caterina Licatini, Pasquale Maglione, Alberto Manca, Generoso Maraia, Vita Martinciglio, Dalila Nesci, Maria Pallini, Gianluca Rizzo, Carla Ruocco, Manuele Scagliusi, Davide Serritella, Patrizia Terzoni, Gianluca Vacca, Simone Valente, Stefano Vignaroli.

Gli 11 del Senato

A Palazzo Madama le uscite dal Movimento 5 Stelle sono state minori, ma comunque significative. A lasciare Conte per sposare il progetto di Luigi Di Maio sono stati Primo Di Nicola, Vincenzo Santangelo, Pietro Lorefice, Daniela Donno, Sergio Vaccaro e Simona Nocerino.

Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.  

Il trasloco di Luigi Di Maio e della sua brigata di scissionisti e stato veloce ed essenziale: dal M5S si sono portati dietro solo la poltrona e il conto corrente. 

Carla Ruocco, ex grillina dura e pura, in un paio di efferate interviste ha spiegato: «Beh, che volete? Ci siamo evoluti». E-vo-lu-ti? No, aspetti, onorevole Ruocco: e troppo facile chiuderla cosi.

Voi avete responsabilità politiche profonde e tragiche, e sarebbe giusto che ne rendeste conto. Niente puo essere dimenticato. A cominciare dal gigantesco e terrificante inganno con cui nasceste, quel Vaffa progettato a tavolino con la pericolosa astuzia di Casaleggio padre e con la feroce arroganza del suo compare, Beppe Grillo. 

Un tranello nel quale caddero milioni di italiani, che vi spedirono in Parlamento. Dove siete arrivati promettendo di aprire tutto come una scatoletta di tonno e invece tra i velluti rossi e i lampadari luccicanti vi siete trovati subito comodi, rimanendo sedotti da quel potere che avevate promesso di combattere.

Quanta miserabile debolezza. E quanto male avete seminato con la folle bugia dell’«uno vale uno»: inoculando nel tessuto del Paese l’idea malvagia che la competenza fosse inutile, l’esperienza un limite, la modestia un valore. 

Ricorda? Barbara Lezzi, ex impiegata in un’azienda che fa pezzi di ricambio per orologiai, nominata ministro per il Sud. O vogliamo parlare di Danilo Toninelli, il ministro delle Infrastrutture che da Vespa sghignazzava davanti al plastico del ponte Morandi, mentre a Genova le macerie erano ancora fumanti?

Ha dimenticato, onorevole Ruocco, quella memorabile sera in cui vi affacciaste eccitati come bambini dal balcone di palazzo Chigi per urlarci che avevate «abolito la povertà»? Che pena: perchè poi, poco alla volta, ma sempre fingendo cordoglio, avete cambiato idea su tutto. Sulla democrazia diretta e sullo streaming (indimenticabile la pagliacciata di cui fu vittima Pier Luigi Bersani nel 2013), sull’Europa e sulle banche, su Tav e Tap, sulle auto blu (adorate sprofondare nei sedili di pelle) e naturalmente sul limite del doppio mandato. Ora avete mollato lo zatterone di Giuseppe Conte, che inesorabilmente punta gli scogli. E pensavate di farla franca. «Ci siamo evoluti». No, onorevole Ruocco: ormai sappiamo chi siete. Ogni trucco e inutile.

Insieme per il futuro: da Vincenzo Spadafora a Carla Ruocco, ecco chi lascia i 5 stelle per seguire Luigi Di Maio. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 22 Giugno 2022.

Ufficializzata alla Camera e al Senato la lista del nuovo gruppo dei fuoriusciti dal Movimento, guidati dal ministro degli Esteri.

Il presidente della Camera Roberto Fico ha comunicato l’elenco formale dei componenti del nuovo gruppo parlamentare nato dalla scissione del Movimento 5 stelle con l’uscita di Luigi Di Maio e di sessanta tra deputati e senatori.  

Al Montecitorio del gruppo, annuncia Fico, fanno parte i deputati: Cosimo Adelizzi, Roberta Alaimo, Alessandro Amitrano, Giovanni Luca Aresta, Sergio Battelli, Luciano Cadeddu, Vittoria Casa, Andrea Caso, Gianpaolo Cassese, Laura Castelli, Luciano Cillis, Federica Daga, Paola Deiana, Daniele Del Grosso, Margherita Del Sesto, Luigi Di Maio, Giuseppe D'Ippolito, Gianfranco Di Sarno, Iolanda Di Stasio, Manlio Di Stefano, Francesco D'Uva, Mattia Fantinati, Marialuisa Faro, Luca Frusone, Chiara Gagnarli, Filippo Gallinella, Andrea Giarrizzo, Conny Giordano, Marta Grande, Nicola Grimaldi, Marianna Iorio, Luigi Iovino, Giuseppe L'Abbate, Caterina Licatini, Anna Macina, Pasquale Maglione, Alberto Manca, Generoso Maraia, Vita Martinciglio, Dalila Nesci, Maria Pallini, Gianluca Rizzo, Carla Ruocco, Emanuele Scagliusi, Davide Serritella, Vincenzo Spadafora, Patrizia Terzoni, Gianluca Vacca, Simone Valente e Stefano Vignaroli, già iscritti al gruppo Movimento 5 Stelle, e Antonio Lombardo, già iscritto al gruppo Coraggio Italia.

Al Senato ne faranno parte Emiliano Fenu, Fabrizio Trentacoste, Antonella Campagna, Vincenzo Presutto, Primo Di Nicola, Simona Nocerino, Sergio Vaccaro, Daniela Donno.

Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte su Di Maio: “Non si permetta di minare il nostro onore”. Valentina Mericio il 22/06/2022 su Notizie.it. 

Dopo l'abbandono di Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle, il capo politico Giuseppe Conte ha attaccato: "Gli ricordo i gilet gialli". 

Il capo politico del Movimento 5 Stelle ed ex premier Giuseppe Conte, dopo l’uscita di Luigi Di Maio dal partito ha mantenuto una linea inflessibile e categorica. Intervenuto nella trasmissione “Otto e Mezzo” condotta da Lilli Gruber ha affermato che il Movimento continuerà a rimanere al Governo: “Noi nel governo ci siamo e ci saremo fino a che saremo in grado di tutelare gli interessi dei cittadini e continuare le nostre battaglie”.

Sul capo del Viminale: “Non si permetta di minare il nostro onore, gli ricordo i gilet gialli”.

Giuseppe Conte, le parole “al veleno” contro il ministro degli Esteri Di Maio: “Non chiederò le sue dimissioni”

Nel corso della sua intervista a La7, Giuseppe Conte ha puntato l’attenzione su uno degli aspetti più scottanti dell’abbandono di Di Maio ossia il fatto che non abbia voluto lasciare la sua carica da ministro degli Esteri.

Riguardo a ciò ha spiegato che non avrebbe chiesto le dimissioni: “Non le chiederò, interroghi la sua coscienza”.

Alla domanda di Lilli Gruber se Di Maio avesse voluto salvaguardare la sua poltrona, Conte ha spiegato: “Lo spiegherà quando cercherà il consenso elettorale, ieri non si è compreso”. Sulla creazione di un nuovo gruppo parlamentare il capo politico dei Cinque Stelle non crede che sia stata una cosa decisa nel giro di poche ore, ma che anzi, dietro c’è stata della pianificazione: “C’è stato un lavoro dietro, avevamo notizia di questi movimenti […] è stato chiaro che Di Maio perseguiva una sua agenda personale e non lavorava con il Movimento, siamo andati in difficoltà anche per questo”.

Giuseppe Conte ha poi ribadito che il Movimento 5 Stelle si oppone all’invasione della Russia in Ucraina: “Perché c’è chi ha strumentalizzato anche l’ultima risoluzione…”. La giornalista ad un certo punto lo ha incalzato: “Eh, è il suo ex amico Di Maio”.

Il capo politico del Movimento non ci sta e, alla fine, ha rincarato la dose: “Non si deve permettere di minare l’onore del Movimento 5 Stelle, lui per primo dovrebbe essere consapevole del lavoro e della fatica che serve fare per tenere la barra dritta […] Non voglio parlare del passato, ma se parliamo del Conte 1 e del Conte 2, bisogna anche ricordare dei gilet gialli”.

Otto e mezzo, Giuseppe Conte silura Di Maio: "Dimissioni da ministro? La sua coscienza..." Libero Quotidiano il 22 giugno 2022

"Le dimissioni di Luigi Di Maio da ministro degli Esteri? Non le chiederò, interroghi la sua coscienza". Giuseppe Conte sceglie Lilli Gruber e Otto e mezzo, su La7, per la sua prima uscita televisiva dopo il terremoto della scissione nel Movimento 5 Stelle, con Di Maio che ha formato due gruppi autonomi e alla Camera e al Senato con una sessantina di grillini. Il nome del nuovo progetto politico? Insieme per il futuro. 

Al rientro dalla pubblicità, Conte scarica una raffica di velenose riflessioni sul suo ormai ex compagno di partito. "Ha visto la conferenza stampa di Di Maio?", gli chiede la Gruber. "Ho letto le agenzie, non ho capito qual è il suo progetto politico. L'obiettivo è difendere l'euro-atlantismo? Tutti quanti ribadiamo la collocazione euro-atlantica. Seconda obiettivo: appoggiare il governo Draghi. Lo stiamo appoggiando in tantissimi...". 

"Di Maio ha voluto salvare solo la sua poltrona da ministro?", incalza la Gruber. "Lo spiegherà quando cercherà il consenso elettorale, ieri non si è compreso", taglia corto l'ex premier, visibilmente innervosito da quanto accadere in queste ore. "Di questa storia si sa pochissimo - lo stuzzica Antonio Padellaro del Fatto quotidiano -. Cos'è successo negli ultimi giorni?". 

"La creazione di un gruppo non è credibile sia frutto di poche ore - insinua Conte -. C'è stato un lavorio dietro, avevamo notizia di questi movimenti". Secondo il leader M5s tutto risale alla disputa sul Quirinale: "E' stato chiaro che Di Maio perseguiva una sua agenda personale e non lavorava con il Movimento, siamo andati in difficoltà anche per questo". "Qualcun'altro ha contribuito a questo lavorio?", chiede la Gruber. "A chi si riferisce? Sia più esplicita", risponde sornione Conte. Il nome è quello ovviamente di Mario Draghi, considerato il grande sponsor della scissione. "Draghi sarà contento? Lo deve chiedere a lui e a Di Maio. Il Movimento c'era, c'è e ci sarà fino a quando saremo in condizione di tutelare gli interessi dei cittadini. Si sta scatenando uno tsunami economico che colpirà anche il ceto medio". Per la crisi di governo, dunque, appuntamento in autunno.

Controcorrente, Veronica Gentili toglie la parola a Conte: "Questo non si può dire". Libero Quotidiano il 23 giugno 2022

Tutto l'imbarazzo di Giuseppe Conte. Ospite di Veronica Gentili a Controcorrente, su Rete 4, il leader del Movimento 5 Stelle alterna gelo, rabbia e qualche incertezza nel commentare la scissione portata avanti da Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri martedì ha annunciato la sua uscita dal Movimento, con la creazione di due gruppi autonomi in Parlamento, dal nome un po' banale: Insieme per il futuro. Banale, però, non è l'impatto dell'operazione: in aula, perché hanno seguito Di Maio oltre 60 onorevoli, tra deputati e senatori, e fuori, perché è interessante ora capire l'impatto elettorale del nuovo partito sul bacino di voti grillini. 

"Ha parlato con Beppe Grillo?", domanda la Gentili a Conte. "Assolutamente sì, è consapevole del momento che stiamo vivendo e dei problemi più generali che si sono innescati. Siamo anche a fine legislatura - prova a minimizzare l'avvocato - ci sono tante dinamiche complicate, non solo nella nostra politica obiettivamente, anche nelle altre forze politiche. In prossimità delle elezioni spesso si sono create delle formazioni nuove, c'è molto movimento e legittimamente ognuno guarda al suo futuro personale, professionale e politico. Sono cose che possono accadere". 

"Non è arrabbiato con Di Maio, insomma, lo aveva messo in conto", lo pungola ancora la padrona di casa. Conte arranca. "No ma guardi, con Grillo ci siamo scambiati varie considerazione e si siamo tutti e due, da questo punto di vista...". L'ex premier balbetta e la Gentili lo "soccorre" togliendogli la parola: "Tranquilli, perché sereni non si può dire".

Grillo si defila, rabbia tra i 5S: "Perché ci hai abbandonati?". Matteo Macor su La Repubblica il 23 Giugno 2022.

Il fondatore rinuncia al viaggio a Roma programmato. Conte minimizza: "Beppe è umanamente dispiaciuto, ma sta dalla parte del Movimento".

È nella pace apparente di Sant'Ilario, cinquecento chilometri dal terremoto romano di queste ore, che si respira più da vicino il senso di distanza tra le tante anime del M5S (quelle che rimangono, come quelle in fuga) e il suo stesso fondatore. Nelle prime ore del day after della scissione, in questo angolo silenzioso di Genova, la villa vista mare di Beppe Grillo rimane nascosta da cancellate e gelsomini, il figlio Ciro si allontana in moto, la domestica di casa prova a difendere la privacy del fondatore a modo suo, con schema a confusione: "Il signor Grillo non c'è, - assicura alla porta - è in vacanza in Sardegna, non andrà a Roma, rimarrà in Toscana"....

La solitudine di Grillo davanti all’abisso del fallimento. Sebastiano Messina su La Repubblica il 23 Giugno 2022.

Come se stesse colando a picco il Movimento di un altro, Beppe Grillo risulta non pervenuto. È sparito dai radar. Viene a Roma, no non viene, magari la settimana prossima, chissà. È introvabile ma non irraggiungibile, perché quando un cronista dell'Adnkronos lo chiama al telefono per domandargli della scissione dei Cinquestelle, lui si diverte a rispondere come farebbe con la telefonista di un call center: "Attenda un attimo.

Sebastiano Messina per repubblica.it il 23 giugno 2022.

Come se stesse colando a picco il Movimento di un altro, Beppe Grillo risulta non pervenuto. È sparito dai radar. Viene a Roma, no non viene, magari la settimana prossima, chissà. È introvabile ma non irraggiungibile, perché quando un cronista dell'Adnkronos lo chiama al telefono per domandargli della scissione dei Cinquestelle, lui si diverte a rispondere come farebbe con la telefonista di un call center: "Attenda un attimo. 

Paaaarviiin, siamo abbonati? Mi dispiace, non siamo abbonati. Non posso risponderle". Clic. Ed è nascondendosi dietro quel clic che il fondatore, padrone e garante del Movimento che in nove anni conquistò il Parlamento - ormai tocca usare il passato - rivela la sua paura di sprofondare nell'abisso del fallimento, prigioniero del gorgo che sta risucchiando la sua creatura. 

Grillo ombra di se stesso

Perché il Grillo che esce dalla latitanza solo per emettere cervellotici comunicati sul suo blog - firmandosi ancora "L'Elevato" come ai tempi in cui scendeva all'hotel Forum per ricevere il bacio della pantofola degli ambiziosissimi apostoli dell'umiltà grillina - è solo l'ombra del Grillo che fu signore e padrone dei cinquestelle, oltre che proprietario del nome, del simbolo e anche del Movimento (in comproprietà con il nipote e il commercialista, a essere precisi). 

Non è più il Grillo da combattimento del Vaffa-Day, né il Grillo d'assalto che attraversava a nuoto lo Stretto per la conquista (fallita) della terra del Gattopardo, né il Grillo irriducibile che entrava a Montecitorio solo per dire no a Renzi, né il Grillo pacificatore che calava a Roma per mettere d'accordo il governista Di Maio e il guerrigliero Di Battista, il pensoso Fico e la sfrenata Taverna. Non è neppure il malmostoso guru che non si rassegnava a cedere all'avvocato Conte il timone di un bastimento già pieno di falle, e quando quello osava definirlo "padre-padrone" gli rispondeva che lui non aveva "né visione politica né capacità manageriale", accettando infine la cessione dei poteri nella terrazza del "Bolognese" di Marina di Bibbona. 

La disintegrazione dei cinquestelle

Eppure quello che si sta inesorabilmente disintegrando, a otto mesi dalle prossime elezioni, è figlio suo. Un figlio al quale lui ha sempre imposto le scelte decisive. Come quando benedisse l'alleanza con l'ex nemico Salvini. O quando diede l'imprimatur al governo con il Pd, già simbolo di tutti i vizi. O quando ordinò ai suoi di dare il via libera a Mario Draghi, che per "l'Elevato" diventò addirittura "il Supremo". Certo, oggi che il suo ex pupillo lo ha tradito sembra lontano il tempo in cui il settantenne Grillo salì sul palco di Rimini per consegnare lo scettro di "capo politico" al giovane Di Maio che proprio quel giorno - il 23 settembre 2017 - compiva 31 anni. 

"Torno a fare il padre di famiglia e il pensionato" disse. E due mesi dopo, sul palco di Palermo, fu ancora più chiaro. Chiamò sul palco Di Maio, Casaleggio e Di Battista e dichiarò, mettendosi la mano sul cuore: "Queste persone proseguiranno il mio lavoro, sono migliori di me". Proseguire hanno proseguito, peccato che l'abbiano fatto da un'altra parte, tutti e tre. 

Le lodi di Draghi

Allora lui si ritirò nel suo blog come un peccatore in un convento. E mentre Di Maio riscriveva lo statuto con il figlio di Casaleggio, Grillo cercava le nuove frontiere dell'ecologia e tornava in teatro per staccare biglietti. Poi venne la conquista del potere, e tutti cominciarono a chiedersi che fine avesse fatto il fondatore. Nessun problema, garantiva lui. Spiegava di essere diventato "una sorta di padre nobile, un mecenate", e che forse non c'era più la rabbia dell'esordio "ma il vaffa rimarrà, ce l'avremo nel taschino: un vaffino nel taschino". Però confessava la sua nuova solitudine: "Mi aggiro nelle città come una puttana si aggira in una città senza marciapiedi. Non mi sopporta nessuno, ho fatto ridere milioni di persone, ho fatto il comico, mi amano milioni di persone ma sono da solo". 

Ma qualcosa deve essere scattato, in quella solitudine lontana dal potere. Proprio lui che si definiva "un comico governativo" cominciò il fuoco amico. Bacchettava Di Maio. Sfotteva Salvini. Ironizzava su Conte. Più il tempo passava e più era evidente l'insofferenza di Grillo per la versione governativa di un movimento che doveva fare la rivoluzione. Ma Di Maio sorrideva e minimizzava. "È il nostro più grande tifoso", assicurava, abbottonandosi la giacca blu.

Non era solo un tifoso. Quando Salvini affondò il Conte-uno per andare al voto anticipato, Beppe uscì dal suo blog per convincere anche i più riluttanti che bisognava allearsi con lo stesso Pd che fino a poche settimane prima era "il partito di Bibbiano". E quando cadde anche il Conte-due, fu lui a spegnere l'ira dei contiani tessendo le lodi di Draghi: "Pensavo che fosse il banchiere di Dio e invece è un grillino. Ha anche senso dell'umorismo, non pensavo". Fidatevi, disse. E non era un consiglio: era un comando.

Un anno e mezzo dopo, è arrivata la tempesta: un terzo dell'equipaggio abbandona la nave mentre l'azzimato capitano Conte - già marchiato dal fondatore come "l'uomo dei penultimatum" - prosegue imperterrito nella sua rotta a zigzag. Si capisce che tutti si domandino: ma Grillo cosa dice, cosa pensa, cosa fa? Nulla. Non fa nulla. Si tiene lontano da Roma. Non ha chiamato Di Maio, dopo averlo definito "un sedicente Grande Uomo". Non ha dato nessun appoggio pubblico a Conte. E l'altra domenica, a Genova, non è neanche andato a votare per i cinquestelle. Come se si trattasse, appunto, del Movimento di qualcun altro.

DAGOREPORT il 24 giugno 2022.

Questa volta, per la prima volta, Beppe Grillo è ben consapevole di non aver perso una battaglia. Ciò che si ritrova davanti agli occhi sono le macerie di un fallimento. Il suo Movimento 5 Stelle che precipita da 227 deputati eletti nel 2018 a 105 sopravvissuti oggi. Una disfatta, spiffera chi l’ha visto nelle ultime ore, che l’ha fatto uscire di testa: ‘’Il Movimento non esiste più…basta, è finita, me ne vado!’’. E giù vaffa erga omnes.

Era giusto un anno fa quando, rivolgendosi agli elettori M5S, l’Elevato sodomizzò senza vaselina l’avvocaticchio dello Studio Alpa trasformato da Bonafede e Di Maio in un premier: “"Mi sento come se fossi circondato da tossicodipendenti che mi chiedono di poter avere la pasticca che farà credere a tutti che i problemi sono spariti e che dia l’illusione (almeno per qualche mese, forse non di più) che si è più potenti di quello che in realtà si è davvero, pensando che Conte sia la persona giusta per questo perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione. Io questo l’ho capito, e spero che possiate capirlo anche voi".

Ma il “burattino” si è rivelato tutt’altro che un “fuoco di Puglia” e l’ha infinocchiato di quotidiane supercazzole prematurate con doppio scappellamento a destra. Alla biscia con pochette, l’ex comico di Pippo Baudo ha dovuto aggiungere la sorpresa delle sorprese: il calcio nel culo arrivato dal suo pupillo Luigino. 

Sì, proprio colui che perculava come “il deputatino” si è portato via un terzo dei parlamentari (altro che “saranno 20!”, come affermavano facendo spallucce la triade Conte-Travaglio-Casalino). 

Una diaspora consumata nottetempo da perfetto partenopeo e parte-doroteo per evitare di soccombere alla discesa romana di Grillo che, col suo carisma, lo avrebbe biodegradato in una insignificante molecola. E Di Maio si frega le manine: “Finora abbiamo avuto un timing perfetto”. 

Agli strepiti "il Movimento non esiste più…basta, è finita, me ne vado!’’, ha fatto da contraccolpo il raziocinio della moglie Pavrim: “Beppe, cerca di ragionare: dove vai? il simbolo del movimento è tuo! E questi continuano a farsi chiamare grillini!”.

A questo punto, al fu Elevato non rimane che gingillarsi sul vincolo dei 2 mandati per i parlamentari eletti nel Movimento 5 Stelle: ‘’È l'ultima regola identitaria che abbiamo - è il suo messaggio - e non possiamo cambiarla”. Con il probabile risultato di rendere più roseo il futuro di “Insieme per il futuro”.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 24 giugno 2022.

Luigi Di Maio lascia in «mutande» Giuseppe Conte. La scissione grillina svuota le casse del Movimento e costringe il capo politico al taglio di spese inutili e consulenze. La prima consulenza in odore di sforbiciata, che è anche la più onerosa per il portafoglio dell'avvocato del popolo, è quella tra il Movimento e la società BeppeGrillo Srl.

Ecco l'ultima vendetta che il ministro degli Esteri consuma contro il suo (ormai ex) padrino politico. Questo spiegherebbe anche la decisione di Grillo, irritato per le ripercussioni sul proprio conto corrente generate dallo strappo tra Di Maio e Conte, di annullare la visita a Roma in programma oggi. E di mandare tutti a quel paese.

C'è da fare un passo indietro. Nel mese di aprile, il Movimento e la BeppeGrillo Srl, la società che gestisce il Blog del fondatore, stipulano ben due contratti di partnership. «I termini dell'accordo - come riporta il Corriere della Sera - sono coperti da clausole di riservatezza. Ma i ben informati parlano di 200mila e 100mila euro annui per i due contratti.

Entrambi i contratti sono relativi alla comunicazione e al ruolo del garante. In altre parole eventuali spese, come ad esempio un eventuale contratto a Nina Monti, collaboratrice storica di Grillo, graveranno direttamente sulle spalle del fondatore dei Cinque stelle».

Il garante avrebbe incassato la somma di 300mila euro dal Movimento-partito e non dai gruppi parlamentari. L'accordo viene salutato dai vertici con grande euforia. «Il Movimento 5 stelle ha raggiunto un accordo con Beppe Grillo che comprende attività di supporto nella comunicazione con l'ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della Scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche», si leggeva nella nota diffusa dai vertici 5s.

Tra gli obiettivi c'è la promozione delle attività del Movimento all'estero attraverso la partecipazione a convegni, giornate di studio, incontri con personalità scientifiche e istituzionali. L'intesa, a suon di quattrini, segna anche la tregua politica tra Conte e Grillo in una guerra iniziata con lo scontro sullo statuto.

«Quei due contratti, molto onerosi - racconta al Giornale un parlamentare dimaiano - blindano di fatto la leadership di Conte che da quel momento in poi gode di totale protezione politica da parte del garante». 

Una saldatura emersa anche nella faida tra Di Maio e Conte: Grillo ha preso posizione in favore dell'ex premier spingendo Di Maio verso l'addio. Il comico non aveva fatto però i conti con le ricadute economiche che la scissione dimaiana avrebbe provocato sulle casse del Movimento. E anche sui suoi conti correnti.

L'esodo dei 61 parlamentari dal Movimento, passati nel gruppo di Insieme per il Futuro, avrà un impatto economico di circa 2,3 milioni di euro in meno sui fondi dei gruppi di Camera e Senato.

«Per ogni eletto la Camera versa 52.000 euro l'anno» spiega l'Adnkronos. Ma poiché mancano circa 9 mesi alla fine della legislatura, i 52.000 euro scendono a circa 39mila, che moltiplicati per i 61 eletti passati con Di Maio si traducono in oltre 2,3 milioni di euro.

Un ammanco che arriva in un momento di difficoltà economica per il Movimento 5 stelle: le casse del partito sarebbero già vuote tanto che alcuni creditori si sarebbero rivolti agli avvocati per avere ciò che gli spetta. 

Le consulenze di Grillo dovevano essere pagate con i soldi del partito. Quali? Il Movimento non ha un proprio tesoretto economico. Si finanzia con le restituzioni degli eletti: mille euro per ogni parlamentare, il ché moltiplicato per dodici mesi e per 61 parlamentari fa altri 732mila euro.

Ora con la scissione si registra un ammanco di più di mezzo milione di euro per le casse del partito che sarebbero già a secco. Perché vuote? Il Movimento, per via del contenzioso legale sullo statuto, non ha avuto accesso al 2 per mille. E dunque l'unica soluzione, dopo la scissione dimaiana, è tagliare tutto per sopravvivere. 

Si comincia da Grillo. Il primo sacrificio spetta al fondatore. Forza Beppe, rinuncia alle consulenze.

 Matteo Macor per “la Repubblica” il 24 giugno 2022.

Più forte infuria la bufera, più forte è il richiamo dei porti sicuri, ancora meglio se un po' nascosti. Nelle ore in cui tutti cercavano Beppe Grillo, a Roma come a Sant' Ilario, tra post enigmatici e viaggi saltati all'ultimo minuto, il garante del Movimento si trovava dalla parte opposta della città rispetto al suo quartiere, a Pegli, estremo ponente genovese, in poltrona nello studio del suo dentista. 

È nell'abbraccio di Flavio Gaggero, 85 anni, odontoiatra di fiducia ma soprattutto amico di sempre, che in questi giorni il (fu?) Elevato si è rifugiato a discutere del momento della sua creatura in piena crisi. Nessuna otturazione in programma, però. Piuttosto una «ritirata di riflessione», viene definita nel partito, da quei pochissimi che hanno ancora un contatto più o meno diretto con il fondatore, che comunque andrà a finire non gli ha impedito di mandare messaggi «precisi» - si fa capire - a quello che rimane del suo partito.

Amici stretti sin dai tempi in cui la politica faceva solo da sfondo ad altre carriere, il Grillo di passaggio in visita a Gaggero, nello studio dentistico che a Genova è un'istituzione (sono di casa vecchi compagni di scuola come Renzo Piano o Gino Paoli, ma si allunga l'orario e si cura gratis per comunità, centri di accoglienza e richiedenti asilo) viene descritto come «profondamente deluso, quasi distaccato, ancora più che arrabbiato ». 

Non tanto dall'addio di Luigi Di Maio, né dalla scivolata più dolorosa (tra le tante) della pur breve gestione di Giuseppe Conte. Quanto dall'osservare più o meno a distanza un Movimento finito «disperso » per strade troppo lontane da quelle delle origini, e sentire troppa ingratitudine nei suoi confronti. 

«Io c'ero quando è nato il Movimento, a muovere Beppe e chi gli stava vicino era puro spirito francescano, era la convinzione ci fosse bisogno di persone per bene in politica - è l'unica concessione che fa alla richiesta di non parlare della crisi di queste ore Gaggero, che due anni fa si candidò alle Regionali liguri senza troppa fortuna - Poi però è venuto tutto il resto, le elezioni, il posto in Parlamento, gli stipendi, e al posto dello spirito francescano, guardate qua. La politica non è farsi eleggere o prendere parte alle commissioni, la politica è ben altro».

Non una questione di responsabilità personali, insomma. Nessuna colpa particolare attribuita al pur troppo ambizioso Di Maio, né a Conte e alla sua inesperienza, come viene definita. Il problema è cronico, quasi endemico. E riguarda ancora quell'identità irrisolta su cui il mondo grillino si interroga da sempre.

L'eterno cruccio di un Movimento diventato partito, che non a caso potrebbe, vorrebbe "riconquistare" il suo fondatore sul campo della prossima discussione interna all'orizzonte, quella sulla deroga ai due mandati. Viste le implicazioni del caso nelle future primarie siciliane del campo progressista, dove il nome forte del M5S avrebbe dovuto essere Giancarlo Cancelleri, attuale sottosegretario del governo Draghi e già due mandati da consigliere regionale alle spalle, l'idea dei vertici grillini sarebbe quella di ragionare sull'ipotesi di prendere più tempo su un eventuale voto, e lasciare che un tema così sensibile venga affrontato più avanti, a tempesta superata. La sua contrarietà a un rinvio, però, non solo dallo studio del suo dentista, Beppe Grillo l'ha fatta arrivare chiaro e tondo. «È l'ultima regola identitaria che abbiamo - è il suo messaggio - e non possiamo cambiarla». 

La scissione del Movimento costa cara a Beppe Grillo: ecco i contratti di consulenza che saltano. Il Tempo il 24 giugno 2022

La scissione del Movimento Cinque Stelle costa cara a Beppe Grillo. Non bastassero gli effetti in Parlamento, dove il partito non ha più il primato di deputati alla Camera, ora spunta anche il problema dei soldi per mandare avanti il Movimento.

L’esodo dei 61 parlamentari, passati nel gruppo di "Insieme per il Futuro" di Luigi Di Maio, avrà - si legge sul Giornale - un impatto economico di circa 2,3 milioni di euro in meno sui fondi dei gruppi di Camera e Senato. La prima consulenza in odore di essere drasticamente tagliata, che è anche la più onerosa per il portafoglio di Giuseppe Conte, è quella tra il Movimento e la società BeppeGrillo Srl. L'accordo economico è segreto ma si parla di due contratti, uno di 200 mila euro e l'altro di 100 mila all'anno.

"Quei due contratti, molto onerosi - spiega al Giornale un parlamentare dimaiano - blindano di fatto la leadership di Conte che da quel momento in poi gode di totale protezione politica da parte del garante".

Grillo ha preso posizione in favore dell’ex premier spingendo Di Maio verso l’addio. Le consulenze di Beppe dovevano essere pagate con i soldi del partito. Quali? Il Movimento si finanzia con le restituzioni degli eletti: mille euro per ogni parlamentare, il ché moltiplicato per dodici mesi e per 61 parlamentari fa altri 732mila euro. Ora con la scissione si registra un ammanco di più di mezzo milione di euro per le casse del partito che si ritroverebbe già a secco.

Pietro De Leo per “Libero Quotidiano” il 23 giugno 2022.

Ci sono certi giorni che segnano il senso di un'intera fase. È il caso di quelli a cavallo tra la scorsa settimana e l'inizio di quella in corso. La deputata Simona Vietina se ne va da Coraggio Italia, facendo mancare la quota necessaria di componenti, 20, per la sopravvivenza in maniera autonoma della compagine.

E poi l'altroieri, quando Luigi Di Maio rompe gli indugi e se ne va dal Movimento 5 Stelle, fondando il gruppo Insieme per il futuro. Vicende che compongono la radiografia di una legislatura tormentata, al pari se non più di quella precedente, solcata da accelerazioni dei processi politici, il Covid, un governo di unità nazionale, oggi una guerra che fa irrompere nelle dialettiche interne il dossier internazionale.

E così nell'era di partiti quasi tutti di debole identità e di fragili strutture, gli scossoni della storia infieriscono su pareti già assai molli. Che spesso vengono giù. Aggiungiamo l'ultimo tassello, ossia che nella prossima legislatura entrerà in vigore il taglio dei parlamentari, da mille si passerà a 600, e la nube del panico avvolge i tanti che temono di non essere rieletti. Dunque, questa serie di concause fa sì che sugli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama si strepiti, nascano mal di pancia, le fratture si esasperino.

C'è chi si mette in Aventino e chi fa la valigia. O magari all'ultimo ci ripensa. Come nel caso del neo gruppo dimaiano, dove il Senatore Emiliano Fenu già sulla porta è rimasto in casa pentastellata dopo un ripensamento notturno. 

Oppure, quando nacque Coraggio Italia, della deputata Fucsia Fitzgerald Nissoli, che anche lei non compì l'ultimo passo verso l'uscita da Forza Italia. Già, perché andar via è sempre un tormento e un patimento, specie quando si è condiviso un percorso di anni.

In ogni caso, sono circa 400 i cambi di gruppo di appartenenza in questa legislatura (non sempre per spontanea volontà, basti pensare agli ex Movimento 5 Stelle espulsi). Si tratta di 196 deputati e 73 senatori. 

Il totale fa 269, ma si arriva ad un totale ben più alto considerando che molti l'hanno cambiato due o più volte. È il caso, per esempio, del senatore Giovanni Marilotti, che ha all'attivo ben 5 trasferimenti, in una traversata del deserto che lo porta dal M5S al Pd. Di mezzo c'è un passaggio al Misto, alle Autonomie, al Maie, poi di nuovo Misto e, infine, appunto, al Pd.

Segnatevi questo nome: Maie. È la sigla del movimento degli italiani all'estero. Per breve tempo divenne tetto di quell'ipotetica area dei "responsabili" chiamati a sostenere l'altrettanto ipotetico governo Conte 3, ed architrave di un partito personale dell'ex premier, che pareva potesse nascere. 

Al Maie, dunque, transitarono nomi come Mariarosaria Rossi, già strettissima collaboratrice di Silvio Berlusconi, e Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella.

Entrambe, infatti, andarono a supportare l'idea del progetto contiano. Aderì, tra gli altri, anche il comandante Gregorio De Falco, già espulso dal Movimento 5 Stelle. Poi non se ne fece nulla, né del terzo governo né del partito, e il Maie si sciolse a marzo dello scorso anno. 

Nel compulsare la contabilità delle uscite si riassume il travaglio vissuto da alcuni partiti in questi cinque anni di continui cambiamenti. Lo sfaldamento del Movimento 5 Stelle, che prima dell'emorragia Di Maio aveva conosciuto addii su altri rivoli.

Da quello di Gianluigi Paragone, che ha creato Italexit, a quello di Lorenzo Fioramonti, ministro dell'Istruzione nel Conte2, poi andato a cofondare la componente ecologista "Facciamo Eco" nel Misto alla Camera. 

Passando, poi, per qualche sodale di Alessandro Di Battista, contrario all'ingresso di M5S nel governo Draghi. Poi c'è il Pd, che ha subito l'addio della porzione renziana con la nascita di Italia Viva. Infine, Forza Italia. Prima se ne vanno i parlamentari che seguono la scissione di Toti.

Poi si uniscono ad altri eletti e fanno sintesi con il progetto del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro nel gruppo Coraggio Italia, il cui scioglimento è stato decretato ieri. Un paio di parlamentari, peraltro, se n'erano già andati con Azione, di Carlo Calenda, che perla sua pattuglia tra Camera e Senato ha pescato qualcosa anche in Pd e Fi. Perché in questo vorticare di nomi, simboli e numeri c'è sempre la speranza del grande centro che salvi tutti. 

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 23 giugno 2022.

Qualcosa rimarrà. Agonizza il grillismo politico, ma quello culturale è un segno dei tempi, e non riguarda solo i Cinque Stelle. 

Il Movimento è nato il 4 ottobre 2009 e da allora a oggi ha registrato frotte di parlamentari che non hanno pagato la quota, la cassa in rosso, altri che hanno sentito scricchiolare la nave e sono già fuggiti, ora poi si scindono, i più erano prostituiti al governo con chiunque ci stesse (dalla Lega al Pd) e tutto pur di stare al potere: ma presto spariranno assieme a quell’aria severa e ottusa, futile e inconsistente, goffa e imbarazzante, svaporeranno quelle macchinette automatiche che mescolavano a random frasi fatte. 

Rimarrà l’asticella abbassata per tutti, la convalida politica e culturale degli idoli di un minuto, dei loro comici e satiri, dei loro servi di procura, di coloro che seguiteranno a legittimare a posteriori ogni analfabetismo, trasformeranno ogni giudizio in legittimità di giudizio, ogni apparenza in certezza, ogni capra qualunquista in elettore innocente. Rimarranno i social, la democrazia elettronica degli anonimi, dei frustrati, di chi non perdona ciò che non possiede a chi lo possiede.

Rimarranno una destra e una sinistra che per anni sono rimasti a guardare i cantieri grillini come fanno i vecchi, guardare i vacui tentativi di costruire sulle macerie, senza fare fondamenta, senza bonificare, senza abbattere nulla né costruirlo. Per anni abbiamo avuto il niente, e niente, tuttavia, sembra pronto a sostituirlo.

Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 23 giugno 2022.  

Polvere di (5) Stelle: sic transit gloria mundi. Tanto più se la "gloria" e il sogno di palingenesi palesavano già dall'inizio i segni della propria insostenibilità. E mettevano in bella mostra un codice genetico pieno zeppo di paradossi e contraddizioni che, prima o poi, finiscono necessariamente per presentare il conto.

Salatissimo, come quello della capitolazione di fatto di Giuseppe Conte nella "madre di tutte le battaglie" sull'ultima risoluzione di maggioranza. Come, peraltro, era giusto che fosse, vista la posta in gioco (la credibilità dell'Italia nel suo sistema di alleanze internazionali). Insomma - ancora una volta -, tanto rumore pentastellato per nulla sul piano della politica generale. 

Anche se non su quello della propria "politica interna" ed esistenziale, perché stavolta il Magma 5 Stelle ha ribollito così tanto da scindersi (dopo svariate espulsioni ed emorragie preparatorie), portando Luigi Di Maio e i suoi a fare armi e bagagli e a far decadere l'ex Movimento dal trono di partito più rappresentato alle Camere.

La «Supernova» delle origini è esplosa, e si è convertita in uno spettacolo pirotecnico di stelle cadute. Comunque la si pensi, da un paio di giorni a questa parte, le Guerre (penta)stellari hanno - finalmente - prodotto un esito chiaro. Una rottura all'insegna di due (grosso modo) distinte linee politiche, anche se non così "lineari".

E, tra di esse, è quella contiana che continua a presentare (come da consuetudine dell'Avvocato del popolo, sempre colto ma anche "azzeccagarbugliesco") dei caratteri di ambiguità - a cominciare dall'atteggiamento nei confronti del premier Mario Draghi, destinatario da subito di (malriposte) diffidenze e, col passare del tempo, di un'evidente escalation di tentativi di sgambetto.

E, dunque, nel comprensibile - e rispettabilissimo - travaglio privato di alcuni degli attori coinvolti, si è trattato, a tutti gli effetti, di un evento salutare per il nostro affaticato sistema partitico. Oltre che di un passaggio obbligato nel ciclo vitale iper-accelerato (rispetto a quello della forma-partito della modernità) del M5S, «informe-partito» intermittente e postmoderno, che si è gonfiato di voti promettendo l'«insurrezione contro il sistema» e la rottamazione della casta, e ha finito per governare con tutti, nessuno escluso (una specialità politico-olimpionica che trova il proprio imbattuto recordman proprio nell'odierno presidente dei pentastellati).

Del resto, se l'estremismo parolaio è la malattia infantile del grillismo, il trasformismo e il governismo ne rappresentano quelle senili - e, sicuramente, sono i secondi, più recenti malanni quelli che hanno contagiato trasversalmente gli ex descamisados dai quali era stata annunciata al popolo la "lieta novella" dell'apertura del Parlamento «come una scatoletta di tonno». 

Così, mentre gli "ideali di gioventù" tramontavano di fronte alle dure repliche della realtà, l'assenza di un dibattito codificato e "trasparente" - per quanto possibile - fra le correnti ha generato una girandola di personalismi sempre più aggressivi, fino al duello finale in stile cavalleria rusticana tra Di Maio e Conte (supportato da un redivivo Roberto Fico), con i fedelissimi di quest' ultimo, perfino più realisti del re - come assai di frequente accade nelle umane vicende - intenti a ricoprire di contumelie l'ex capo politico.

Un deterioramento e uno scadimento della controversia politica, trascinata sul terreno personale, di cui, in fin dei conti, non ci si deve particolarmente stupire, proprio perché il dna grillino contiene - specie nella sua base, ma non soltanto, per l'appunto - i filamenti originari del «Vaffa» rabbioso (e dell'hate politics). 

Naufragata l'impresa di fondare una «Balena gialla» - che, al momento dei fasti elettorali, sembrava a portata di mano soprattutto dell'attuale ministro degli Esteri -, il M5S diventato partito notabilare si è attorcigliato nelle spire dei suoi numerosi nodi irrisolti. A partire dall'istituzionalizzazione a singhiozzo (oltre che costellata di opportunismi) e da una partitizzazione e strutturazione organizzativa decisamente incompiute.

 E se dismetteva i panni antisistemici, continuava, però, invariabilmente a pascersi della comoda ambivalenza tra partito di governo e movimento di lotta. Dove alcuni figli delle (5) stelle appaiono in odore di essere pure dei «figli di Putin» o, quanto meno, si rivelano alquanto «Putin-comprensivi», in "coerenza" con la fase arrembante della loro storia (antipartitocratica, ma soprattutto antiliberale, antiamericana, anti-Ue). E, infatti, è sempre a quelle radici antioccidentali che rimanda il riflesso pavloviano grillino quando va a caccia di consensi. Ed è su questo richiamo della foresta che il titolare della Farnesina ha voluto (opportunamente) tirare una riga definitiva.

 La formazione politica personale - il Movimento ha rappresentato a lungo il «partito bipersonale» di Casaleggio e Grillo che ostentava la retorica dell'«uno vale uno» - Conte non l'ha costruita, e ora il treno è perduto. Mentre l'antagonista Di Maio, che sapeva di non avere più agibilità - tra clima interno antipatizzante, coordinatori regionali esclusivamente di fede contiana e tabù del doppio mandato -, ha costituito i suoi gruppi parlamentari autonomi.

Quel che succederà, a naso, non lo sa neppure l'«Elevato» Oracolo genovese, il quale continua a sfornare post a metà tra la supposta visionarietà e un certo cerchiobottismo rispetto alle lotte intestine. La sola cosa certa è che la pattuglia dimaiana offre un elemento di stabilizzazione per il lavoro di Draghi, mentre i contiani, se non riusciranno a esercitare un potere di interdizione rivendibile in chiave elettoralistica, potrebbero passare dall'essere una spina nel fianco e un fattore di turbolenza alla fuoriuscita dall'esecutivo. Con la metamorfosi, in tutto e per tutto, di quel che resta del M5S in una bad company.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 23 giugno 2022.

Il gran generatore automatico di nomi e simboli che incessantemente rifornisce la decomposizione del sistema post-partitico all'italiana ha fatto dunque germogliare "Insieme per il futuro". Ma per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti guidati da Di Maio? 

Di sicuro l'ultimissimo scisma a cinque stelle non brilla per originalità evocativa. Così, poche ore dopo l'annuncio Gabriele Maestri, costituzionalista e studioso di diritto dei partiti, ma soprattutto pontefice massimo e super erudito dell'odierna micropolitica, poteva già comunicare sul suo blog, "I simboli della discordia", che quella denominazione era già stata usata la bellezza di 50 volte negli ultimi quattro anni, per lo più in elezioni amministrative.

A riprova, forniva la più scontata e mediocre iconografia elettorale a base di torri, montagnette, strette di mani e girotondi stilizzati. Per concludere con sconsolato distacco che, sempre secondo i precedenti, di solito le esperienze scissioniste battezzate all'insegna dell'unità sono destinate a loro volta a frammentarsi, per poi dissolversi senza lasciare traccia. 

Ma è proprio quando girovaghi e fuoriusciti, speranzosi o furbi che siano, cedono alla retorica del futuro, che il destino si accanisce contro di loro. E qui il pensiero corre a "Italia futura", l'ectoplasmico raggruppamento di Luca di Montezemolo che favorì il sorgere del partitello di Monti, Scelta civica, prima logorato dalle liti intestine e infine trascinato nel dileggio, pure di innominabile risonanza, per cui irresistibilmente tuttora lo si ricorda come "Sciolta civica".

Sempre rispetto al futuro, ancora di più fa riflettere il caso di Gianfranco Fini che, sulla scorta della Fondazione Fare Futuro, volle intitolare "Futuro e libertà" ciò che era riuscito a tirarsi appresso dopo la rottura con Berlusconi e il Pdl. 

In verità Fli durò poco e senza gloria, molti chiesero perdono e rientrarono nei ranghi del centrodestra, così come la fine di Fini - una scomparsa definitiva, senza riscatto né ricominciamento - divenne da allora, più che un monito, un esito esemplare, paradigmatico, proverbiale. 

Anni e anni di osservazione dicono che quasi mai le scissioni - generose od opportunistiche fa poca differenza - riescono a conseguire i risultati per cui vengono pensate e messe in atto, rivelandosi piuttosto come la sconfitta certo della spregiudicatezza, ma anche dell'ottimismo e comunque del pensiero calcolante.

Per rimanere al passato prossimo, se ne può chiedere mesta conferma ad Angelino Alfano, che l'altro giorno è stato nominato Cavaliere di Gran Croce, ma la cui esperienza alla testa di un Nuovo Centrodestra liberatosi del berlusconismo ha lasciato cenere, macerie e amarezze. 

Allo stesso modo, sia pure comprendendo le motivazioni che hanno portato Bersani, Speranza (e D'Alema) a mollare il Pd renziano, non pare così lontana dal vero l'impressione che sia andato decisamente a ramengo anche il progetto di Articolo 1 - di cui peraltro è complesso stabilire quanto abbia a che fare con la sigla Leu. Anche in questo caso all'orizzonte s' intravede un ritorno nel Pd, o se si preferisce l'anticipo di un andirivieni. 

Quanto a Renzi e a Calenda, ennesimi scismatici, boh: vai a sapere cosa hanno in testa, magari fuori dalla politica. Tutto oggi balla, per non dire che sta per crollare, niente è più sicuro. Al centro, dove abbondano i punti esclamativi ("Cambiamo!" di Toti, "Fare!" di Tosi, "Coraggio" di Brugnaro), il formicolio è da emicrania. I cinque stelle, prima di Di Maio, hanno visto "Alternativa" e "Italexit". Difficile appassionarsi dinanzi a "Insieme per il futuro". Di norma, per operare, il Grande Nulla non chiede il permesso.

Mistero buffo. Prendere sul serio il dibattito grillino è la peggiore forma di antipolitica. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 24 Giugno 2022.

Continuare a fare finta di niente, o peggio, a cercare fumose giustificazioni per scelte che non trovano paragoni nell’occidente democratico, potrà anche essere tatticamente astuto, ma è il modo più sicuro di spianare la strada ai Conte, Di Maio e Di Battista di domani

Da qualche giorno in tv e sulla stampa si susseguono analisi, commenti e retroscena sulle vicende interne all’ex primo partito della maggioranza, com’è logico che sia dinanzi a un ministro degli Esteri che guida una scissione perché «uno non vale l’altro», perché «le competenze di ciascuno devono contare» e soprattutto per non «disallineare» l’Italia dalla Nato e dalla Ue.

Il problema è che quel ministro si chiama Luigi Di Maio e quel partito è il Movimento 5 stelle. Di conseguenza, con tutta la buona volontà, è difficile prenderlo sul serio mentre accusa Giuseppe Conte di tradire, sulla politica estera, i valori originari di un movimento che nel 2015 proponeva il referendum per uscire dall’euro, nel 2016 partecipava al congresso di Russia Unita (il partito di Vladimir Putin) e nel 2019 firmava il memorandum sulla via della seta con la Cina.

Come se non bastasse, a seguire Di Maio nella scissione motivata dalla necessità di non «disallineare» l’Italia dalla Nato e dall’Ue è Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri dal 2018, che nel 2016 definiva l’Ucraina uno «stato fantoccio della Nato» e volava personalmente a rappresentare il M5s proprio al congresso di Russia Unita. Mentre ieri, a denunciare sul Corriere della sera il fatto che nel partito «in questi due anni i competenti sono stati messi da parte», era Laura Castelli (essendo Castelli viceministra all’Economia, si sarebbe persino tentati di darle ragione).

Nulla però è paragonabile al sentire Di Maio dichiarare che nel nuovo soggetto «non ci sarà spazio per odio, sovranismi e populismi». Per non parlare di quando, proprio lui, denuncia gli attacchi personali e la politica fondata sull’odio (qui mi rifiuto persino di fare la fatica di andare a ripescare i virgolettati del passato, da Bibbiano in su e in giù, perché c’è un limite a tutto). Per non parlare della diatriba con Alessandro Di Battista, che accusa l’ex compagno di partito di «ignobile tradimento».

Fermiamoci un momento, facciamo un bel respiro e cerchiamo di restare lucidi. Non è questione di coerenza. Non si tratta di contestare questa o quella contraddizione, questo o quel voltafaccia, questa o quella giravolta, anche perché, se davvero lo si volesse fare, non basterebbe una vita anche solo per finirne l’elenco.

La domanda è piuttosto se la peggiore forma di antipolitica non sia invece proprio la pretesa di prenderli sul serio, lo sforzo grottesco di analizzare affinità e divergenze ideologiche tra Di Maio e Conte, tra Di Stefano e Di Battista, tra le ricette economiche di Laura Castelli e le idee geopolitiche di quello che due giorni fa proponeva di mandare pigiami agli ucraini, invece di armi (per non disallinearci dalla Nato, s’intende). Non è una questione di parole, di singole scelte o di singole dichiarazioni, ma del senso che attribuiamo – se ancora un senso vogliamo e possiamo darlo – alla politica e al dibattito pubblico in generale.

Da questo punto di vista la responsabilità storica del Partito democratico, da Nicola Zingaretti a Enrico Letta, senza dimenticare ovviamente il rilevante contributo di Goffredo Bettini, è gigantesca e incancellabile. Avere accreditato come punto di riferimento dei progressisti il capo del governo gialloverde, corresponsabile di tutti i più violenti e illiberali provvedimenti salviniani, non ha contribuito solo al discredito della sinistra, quanto allo svuotamento della politica nel suo complesso di qualsiasi parvenza di senso.

Stiamo parlando, a proposito di «allineamento» alla Nato e all’Unione europea, di chi meno di due anni fa non ha esitato a stendere il tappeto rosso dinanzi alla parata dell’esercito putiniano lungo la penisola, e non molto tempo prima a mettere i vertici dei servizi segreti a disposizione delle manovre paragolpiste dell’amministrazione Trump.

Continuare a fare finta di niente, o peggio, a cercare fumose giustificazioni per scelte che non trovano paragoni nell’occidente democratico, potrà anche essere tatticamente astuto, potrà persino ottenere il risultato di assorbire, consumare ed espellere i malconci populisti di oggi, ma è il modo più sicuro di spianare la strada ai Conte, Di Maio e Di Battista di domani.

Thread di Jacopo Iacoboni su Twitter il 23 giugno 2022.

Forse è il caso, visto che ne parlano tutti, che dica anch’io qualcosa su Conte, Di Maio e il tema della coerenza, agitato strumentalmente da tutte le parti.

In fondo, un po’ mi ero occupato del Movimento fondato da Casaleggio e Grillo. 

Luigi Di Maio è stato a lungo il leader populista, e in certi momenti quasi sovranista, del M5S. Figlio di un dirigente locale del Msi, orientato dall’ambiente di provenienza su posizioni law and order, considerato l’anima conservatrice, e talvolta di destra, del M5S. Gli inizi.

Sono in realtà Casaleggio e Grillo a costruire l’alleanza con Salvini. Che Di Maio accetta con convinzione, giudicando Salvini comunque un anti-sistema con i 5S. In quella fase, Di Maio si dedica però soprattutto a consolidare la presa interna nel M5S. Per lunghi anni lo scala. 

Di Maio si segnala per tanto ultrapopulismo. I gilet gialli (iniziativa di Di Battista). La richiesta di impeachment di Mattarella (iniziativa partorita però dalla comunicazione M5S, oggi fedelissima di Conte). Le ong definite “taxi del mare”. il Pd partito di Bibbiano.

L’incontro politico che lo cambia e apre la sua lunga nuova fase è quello con Augusto Rubei, il suo portavoce. Inizia allora un lungo percorso che vede Di Maio diventare un interlocutore sempre più abile dell’amministrazione profonda italiana, e anche americana. Dura anni

Di Maio, parentesi, capisce l’importanza di dialogare con personaggi come Mario Draghi da ben prima che Draghi arrivi a Palazzo Chigi. Questo cancella il passato che ho ricordato? Ovviamente no. Ma sarebbe erroneo ascrivere quel passato a Di Maio, e scontarlo a Conte. 

Conte esordisce come ignoto professore di diritto pugliese, capitato a Palazzo Chigi perché a Salvini e Casaleggio serviva una figura terza, per trovare l’accordo, come suggerito a Salvini e Casaleggio anche da Steve Bannon. Sì lui, vecchio Steve, il senior strategist di Trump.

In quella stagione Conte si fa fotografare a Palazzo Chigi come volto dei decreti Salvini sull’immigrazione. Al primo vertice internazionale da premier è l’unico premier del G7 a sostenere l’idea di Trump di riammettere Putin nel G8

Concede a Barr (ministro della Giustizia di Trump) di incontrare i capi dei nostri servizi segreti, in una vicenda nebulosa a dire poco, e che mette a serio rischio le procedure della sicurezza nazionale. I capi dei servizi fortunatamente non consegnano ai trumpiani nulla.

Conte celebra a Villa Madama (4 luglio 2019) da premier una cena per Putin in cui la quantità di oligarchi e alti burocrati russi oggi (e alcuni gia alllra) sanzionati è notevolissima. La presenza a quella cena di Savoini è una mera nota di colore.

Conte concede da premier una sfilata di mezzo militari, generali russi e uomini del GRU russi su suolo di un Paese Nato, facendola presentare ai russi (psy ops) come aiuti per il Covid, Dalla Russia con amore 

(una storia che s’intreccia con opache manovre lobbistiche russo-italiane, prima per sviluppare, poi per far adottare il vaccino Sputnik in Europa, usando l’Italia come anello debole e sperimentatore. Un vaccino tuttora non riconosciuto dall’Ema)

Nel frattempo, in una delle torsioni più nebulose imho della storia recente, Conte riesce a passare da volto dell’alleanza con Salvini, a volto dell’allleanza col Pd di Zingaretti. Restando a Palazzo Chigi. Renzi benedice quella operazione, con la necessità di far fuori Salvini 

Ma la benedice soprattutto Trump, col celebre tweet di endorsement a “Giuseppi”. E nonostante questo endorsement, inizia una fase in cui Conte per miracolo viene offerto al pubblico (da un gruppo di politici romani) come “punto di riferimento fortissimo dei progressisti”

Di Maio soffre nel vedersi scavalcato, e sicuramente motivazioni personali tra i due si alimentano. Ma in quel momento, Conte è posizionato addirittura come aspirante candidato leader di tutto il campo progressista. Chi osa criticarlo, va contro un muro compatto. 

Sulla lunga guerra tra i due non aggiungo altro: poco interessante. Interessante invece è che Conte - uscito da Palazzo Chigi perché Renzi ritira la fiducia di IV, e nessuno dei “parlamentari responsabili” si materializza a soccorrerlo in numero bastevole - cambia ancora.

Non è più, ora, il punto di riferimento fortissimo dei progressisti, ma una spina nel fianco di Draghi (vicina alle idee di Travaglio e Di Battista), la cui strategia di fondo è ricavarsi una nicchia di populismo ma stavolta non salviniano-casaleggiano, bensì melenchoniano

Ho riassunto molto, e me ne scuso. Il tratto finale è che, sul no all’invio di altre armi all’Ucraina, Conte si ritrova de facto nella stessa posizione auspicata da Razov, ambasciatore russo, e del Cremlino. Anche Grillo era molto apprezzato, a Villa Abamelek.

Da liberoquotidiano.it il 23 giugno 2022.

Lo chiama "Di Maione" Giuliano Ferrara. Un "politico trasformista e schizofrenico", come "in certa misura" lo sono tutti i politici italiani, scrive nel suo editoriale su Il Foglio. Secondo Ferrara Luigi Di Maio è "emulo di un grandissimo poeta", Arthur Rimbaud. 

Il quale, ricorda, "definì così il manifesto vero di tutta la sua breve, intensa vita di poeta: Je est un autre, Io è un altro". In versione più modesta, il ministro degli Esteri, uscito dal Movimento 5 stelle, ha "sibilato al Sé di ieri, al grillino passato, 'uno non vale l'altro'. Come dire, io sono io e voi non siete un ca***, altro che uno vale uno".

Quindi Ferrara mostra il suo trasformismo: "ha abolito quasi la povertà (e il senso del lavoro) con il Reddito di cittadinanza e il decreto 'Dignità', ha dato una sforbiciata di due, trecento parlamentari alle Camere, con una riforma costituzionale riuscita e convalidata da referendum (miracolo!), è stato ministro in tre governi di segno opposto, ha manifestato con i gilet gialli e ha messo su una pochette da paura alla Farnesina, roba che neanche al vecchio e compianto Giulio Andreotti era riuscita". 

Il punto è che Luigi Di Maio "la sua vita la sta moltiplicando, la salva a ogni angolo, la rende una promessa senza passato e carica di futuro. Insieme per il futuro, infatti. E con questa scelta, che ha tutto di occidentale e di euroatlantico", prosegue Ferrara, "fa un favore al suo paese, ne sia o no cosciente il sublime bibitaro moro di Pomigliano d'Arco, rivelatosi statista non per caso. Tutti sono alla ricerca di un Io convincente per gli elettori smarriti: una è donna, madre, cristiana", scrive riferendosi a Giorgia Meloni, "uno è i pieni poteri, e prima gli italiani e i russi; noi poveri occidentalisti della Ztl diciamo prima gli ucraini e le armi, poi il gas e l'inflazione da domare per proteggere care, effimere libertà".

Insomma, conclude Ferrara, "la sola esistenza di Di Maione" "dimostra che la soluzione non verrà da elezioni politiche semi maggioritarie, ma da un ferreo e funzionante, anzi pienamente efficiente, sistema trasformista, il nostro blasone, il nostro distintivo, il nostro unico fattore di stabilità e governabilità".

«Sulla giustizia M5S immaturo». Parla Macina, figura chiave per Di Maio. Intervista alla sottosegretaria di via Arenula che ha scelto di lasciare Conte e proseguire col ministro degli Esteri. «Spesso si è ceduto alla tentazione della condanna preventiva, a una comunicazione semplificata soprattutto sulle indagini relative alla politica. Poca solidarietà interna per le mie iniziative sul carcere? Forse è un tema che non porta consensi…» Valentina Stella su Il Dubbio il 24 giugno 2022.

L’onorevole Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia, figura tra i nomi di spicco che hanno abbandonato il Movimento 5 Stelle per approdare nel nuovo gruppo parlamentare Insieme per il Futuro, fondato da Luigi Di Maio. I temi della giustizia sono tra quelli in cui dovremmo aspettarci una certa discontinuità rispetto al metodo tradizionalmente adottato dai pentastellati. Abbiamo cercato, in questa intervista, di capire se effettivamente sarà così.

Sottosegretaria Macina, come mai ha lasciato il Movimento ed è entrata nel nuovo gruppo fondato da Luigi Di Maio?

Può sembrare strano dirlo, ma io sono rimasta dov’ero. Se mi giro e guardo il nuovo gruppo vedo che ci sono le stesse persone con cui ho condiviso temi e battaglie per anni, anche fuori dal Parlamento. È il Movimento 5 Stelle invece che ha deciso di tornare indietro. Era stato annunciato un nuovo corso, quello della maturità politica, ma non mi sembra che sia mai partito.

Lei in questo ultimo anno ha lavorato fianco a fianco alla ministra Cartabia. Che bilancio fa? E si è sentita sostenuta, nella sua funzione di governo, dal Movimento?

Il lavoro è complesso, ho deleghe di grande responsabilità. Dalla ministra ho ricevuto da subito una grande apertura di credito che credo di aver ricambiato con l’impegno e la passione che da sempre ho avuto per il diritto e la giustizia, a cui ho dedicato studio e professione. Nell’ultimo anno sono state approvate riforme importanti. E in alcuni passaggi è vero che il Movimento ha scelto la via del consenso facile. Ma governare a mio avviso è una cosa diversa. I valori restano gli stessi ma le questioni, specialmente quando parliamo di giustizia, sono complesse e meritano di passare dal confronto.

È vero che non ha trovato una sponda sul tema del carcere? Lei visita regolarmente gli istituti di pena.

Forse perché il tema carcere non porta consensi. Eppure, il fine rieducativo della pena è un principio garantito dalla Costituzione.

Sia Di Maio che Spadafora hanno ripetuto che sono stati commessi degli errori in passato. Quali, in tema di giustizia?

Si può e si deve essere molto severi ed esigenti sui temi di giustizia e sull’etica in politica, io lo sono. E pretendo trasparenza e comportamenti limpidi da parte di chi amministra la cosa pubblica. Altra cosa invece è la condanna preventiva: su questo occorre il coraggio di saper riconoscere gli errori fatti in passato.

Si riferisce alla gogna mediatica?

Un conto è dare l’informazione di una indagine in corso, soprattutto quando i soggetti coinvolti sono amministratori pubblici, altro è emettere una sentenza di condanna prima ancora che ad esprimersi sia stato il giudice. Certo, da un punto di vista di opportunità politica chi ricopre incarichi pubblici ed è sotto processo dovrebbe fare un passo indietro, ma ciò non equivale a dire che quella persona è colpevole. E soprattutto bisogna stare attenti al tipo di comunicazione utilizzata. Delle volte sono state usate parole eccessive nei confronti di indagati e imputati.

Ricordiamo che infatti il Movimento 5 Stelle non era neanche favorevole al recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, perché sosteneva che bastava il comma 2 dell’articolo 27 della Carta costituzionale.

Anche il governo precedente decise di non recepirla. Però, tornando alla sua domanda, le ripeto quanto dichiarai nel momento in cui la norma di recepimento è stata approvata. Quello raggiunto dal testo a mio parere è un giusto compromesso che tutela sia la libertà di informazione che i diritti degli indagati.

Diciamolo: il Movimento è partito con lo slogan del “Vaffa” che si è riverberato anche sul tema giustizia, dando vita a un populismo estremo. Forse in questi anni il M5S non è riuscito a fare un lavoro di tipo culturale, garantista sulla base elettorale.

Si sarebbe dovuta graduare la forza della comunicazione, argomentare e spiegare approfonditamente le questioni. Qualche volta invece ci si è lasciati andare a facili semplificazioni su temi così sensibili come quelli della giustizia e dell’esecuzione penale.

Dentro Insieme per il Futuro non ci sarà posto per i populismi e per gli slogan, è stato ribadito. Per situazioni complesse occorrono soluzioni complesse. Come si tradurrà questo nuovo metodo sul terreno della giustizia?

Ricordo mesi fa una delle prime riunioni del presunto nuovo corso del Movimento 5 Stelle in cui Conte disse chiaramente che dovevamo modificare certi atteggiamenti politici del passato per orientarli al pieno rispetto della Carta costituzionale. Poi però, nel raccontare alcune posizioni, ha scelto una strada diversa fatta di slogan. Peccato. Io ero d’accordo con quella impostazione e adesso conto di lavorare in quella direzione.

Secondo Lei perché Conte ha sterzato rispetto ai propositi iniziali?

Voglio sperare che non si sia basato sui facili consensi.

Cosa invece non cambierà sempre in tema di giustizia rispetto al passato?

Il nostro Paese è aggredito dalla corruzione e dalla criminalità organizzata. Su questo non ci sarà mai un arretramento di neanche mezzo centimetro. Pochi giorni fa ho contribuito alla realizzazione di un importante risultato per portare a Foggia i magistrati della Dda di Bari che indagano sulla mafia locale. È una piccola grande cosa che può aiutare molto quel territorio sofferente. Ed è la dimostrazione che si possono ottenere molte cose governando bene e senza bisogno di ricorrere a strumenti di propaganda.

Rimane aperto il grande capitolo sui decreti attuativi delle tre riforme di mediazione Cartabia. Quali sono le sfide più importanti?

Dobbiamo dare concretezza ai principi declinati nei testi di riforma. Il ministero è al lavoro da tempo e le posso dire che entro l’estate i decreti saranno inviati all’esame del Parlamento, per il parere delle commissioni di merito. È un traguardo ambizioso ma sono convinta che sia alla nostra portata.

Un anno fa la svolta su Uggetti. Di Maio garantista, chissà se poi è vero. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Giugno 2022. 

Non è nato l’altra sera in un grande albergo di Roma, il nuovo Luigi Di Maio. Aveva fatto capolino giusto un anno fa -era il 28 maggio 2021 e stavamo faticosamente cercando di uscire dalla tragedia del Covid- dalle pagine del Foglio. Un testo inedito e inaspettato a sua firma, sovrastato dal titolo “Mai più gogna, chiedo scusa”. Chissà perché quella svolta da parte di un ex ragazzino nato con il movimento dei “vaffa” ma poi diventato vicepresidente della Camera e poi vicepremier e infine ministro degli esteri in due governi, non ebbe il rilievo politico che meritava.

Eppure, nelle sue parole di quel giorno, c’era già un programma, non sulla giustizia, ma su un futuro fatto di relazioni umane e di reciproco rispetto. Un mondo fatto di persone, prima di tutto, in cui il Parlamento non è una scatola di tonno da aprire e espugnare, dove i partiti non sono un’ accozzaglia di ladri delinquenti da annientare e la giustizia non è la sacra inquisizione chiamata a tagliare teste dopo sentenze mai sfiorate dall’ombra del dubbio. La svolta di un anno fa è stata espressa in modo chiaro due sere fa nell’albergo romano, quando Di Maio ha buttato lì: “Uno non vale l’altro”, così distruggendo l’intero programma politico del movimento di cui lui stesso è stato leader. E accantonando anche il se stesso che, ancora quattro anni fa, si esibiva sui social annunciando, con sprezzo nei confronti degli ex parlamentari, di aver “abolito i vitalizi”, e naturalmente non era vero, come era ridicola la pretesa di “aver abolito la povertà”.

L’abrogazione, nel nuovo corso, di quel finto e demagogico egualitarismo che era lo slogan “uno vale uno”, ha molto a che fare con il rispetto per gli altri. Oggi una deputata storica come Carla Ruocco, che ha scelto di tentare la nuova avventura politica con Di Maio, rivela (non ne aveva mai fatto cenno in passato) di non aver mai condiviso quel concetto, anche perché l’esperienza e la competenza sono importanti. Naturalmente sta parlando di sé, e non saremo certo noi a sospettare, insieme a Di Battista e altri piccoli uomini come lui, che dietro certe scelte ci sia il desiderio di ricandidarsi alle elezioni politiche tra un anno e possibilmente tornare in Parlamento anche alla terza legislatura, cosa vietata dal regolamento del Movimento cinque stelle. Non diremo mai la parola “poltrona”, proprio per una questione di rispetto. Se solleviamo l’argomento è per rimarcare due aspetti, il primo è che occorrono molto tempo e molta fatica per diventare bravi parlamentari, il secondo è che le ambizioni manifestate dai deputati e senatori di oggi potevano essere le stesse di quelli di ieri, della prima come della seconda repubblica. Quelli disprezzati dai “grillini”.

Se questo è il discorso sul rispetto, ed è la prima tappa necessaria per il cambiamento, il secondo è quello del dubbio, e ha molto a che vedere con la giustizia e il circo mediatico-giudiziario. E così arriviamo al giorno di un anno fa, quando Luigi Di Maio scrisse una lettera di scuse a Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, arrestato nel 2016 per turbativa d’asta, poi assolto nell’appello che andrà ricelebrato per volere della cassazione. Le scuse, sulla cui sincerità siamo disposti a scommettere, riguardavano le modalità con cui in occasione dell’arresto il Movimento cinque stelle, con la presenza a Lodi dello stesso Di Maio, aveva manifestato in piazza e condotto una vera campagna persecutoria sui social fino alle dimissioni del sindaco.

“Con grande franchezza vorrei aprire una riflessione –scriveva il ministro degli esteri- che anche credo sia opportuno che la forza politica di cui faccio parte affronti quanto prima”. Perché “Una cosa è la legittima richiesta politica (di dimissioni, ndr), altro è l’imbarbarimento del dibattito, associato ai temi giudiziari”. Di Maio porta anche altri esempi, oltre a quello di Simone Uggetti, come quello della ministra Federica Guidi e il processo Eni. Mostra di essersi preparato. Non tralascia di ricordare l’imbarazzo del suo partito quando, nello stesso periodo, fu indagato il loro sindaco di Livorno Filippo Nogarin. Ma tralascia la sospensione di Pizzarotti, sindaco di Parma, condotto alle dimissioni per un’informazione di garanzia per abuso d’ufficio in un procedimento che finirà archiviato.

Ma vien da chiedersi se la “riflessione”, partita da questi casi e allargata a principi generali, sia stata poi avviata, a partire da un anno fa, nel movimento di Beppe Grillo. Perché sono nobili, frasi come “esiste il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente”. Ma è dovere di un deputato, soprattutto di un leader, dare sempre corpo alle parole. Finora non ci sono stati segnali. Ora forse Di Maio ne ha l’occasione. L’ex ministra Elena Boschi, con la pelle che ancora brucia per le offese ricevute da quelli del Di Maio che fu, ne saluta positivamente l’apertura “a un timido garantismo”. Aspettiamo il semaforo verde. Con l’ottimismo della volontà.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Sarina Biraghi per “la Verità” il 24 giugno 2022.

«La scissione di Luigi Di Maio è il completamento di un cinico voltafaccia e di uno squallido gioco di potere personale. Il cinismo è dato anche dall'aver ucciso Gianroberto Casaleggio e rinnegato il figlio, cosa che fa senza rendersene conto anche Conte». Secco e inclemente il commento di Gianluigi Paragone, leader di Italexit ed ex grillino, sulla scissione del M5s. 

La molla è stata il vincolo del secondo mandato?

«No no, c'è qualcosa di più. Di Maio si sta muovendo perché determinati ambienti stanno lavorando da un po' per creare un contenitore centrista che servirà per la prossima legislatura per rinnovare l'incarico a Draghi o a un altro salvatore della patria tipo l'ex banchiere della Bce». 

Giggino quindi ha giocato d'anticipo?

«Lui è stato bravo a tessere una rete con cui riesce a spostare un gruppo di disperati, una sessantina di deputati molti dei quali al primo mandato, e a collocarli in una comfort zone, cioè in quella zona moderata superaffollata». 

Cambiamento di pelle?

«Gente che era stata eletta sulla spinta di rivendicazioni forti, e forse eccessivi sogni, si ritrova a chiedere il simbolo a Tabacci. Ecco, da Casaleggio a Tabacci c'è l'essenza di Di Maio».

Dallo strappo ne esce meglio Conte?

«Conte è fatto della stessa pasta di Di Maio, semplicemente come si direbbe a Milano, un pirla». 

Perché?

«Di Maio è più furbo, è riuscito a restare attaccato al potere con linguaggio felpato e quirinalizio. Anche Conte è cinico e non può rifarsi una verginità. Non dimentichiamo che l'avvocato di Volturara Appula è quello del Cts e dei Dpcm, è quello che ha fatto diventare Arcuri supercommissario dell'emergenza con le mascherine, la primula vaccinale, l'Ilva di Taranto È quello che durante il lockdown giocava da solo e ora chiede la centralità del Parlamento. Ricordo che mentre oggi fa lo schizzinoso è lo stesso che aveva provato a fare il Conte ter con una scialuppa di scappati di casa. Non è un verginello. Ora non può gestire il potere e dimostra di essere un bidone della politica».

Di Maio resta ministro

«Di Maio ha le spalle coperte dal Quirinale che vive nell'anomalia di un settennato bis che vuole portare fino in fondo. Napolitano nella stessa situazione chiedeva di fare presto, Mattarella continua a stare bene nel suo ruolo e si gode lo spettacolo. Di Maio non ha nulla da temere». 

Del resto ha solo fatto una scissione.

«No, è artefice di una truffa: ha guidato il M5s fino al 33% e ora sovverte la parte politica del Movimento e fa l'opposto, una mossa ideologica autorizzata da Draghi».

Ma se Di Battista torna ci va con Conte?

«Dibba se rientra non trova il M5s. Doveva pensarci prima». 

E gli elettori capiranno questa scissione?

«La gente del M5s non c'è più. Ci sono alcuni disperati che restano attaccati al reddito di cittadinanza ma il sogno è finito. Del resto Conte con questo Movimento si è inventato ministri come Speranza e Lamorgese. C'è poco da sognare. Piuttosto c'è da pensare alla gente che lavora, agli agricoltori dimenticati e in ginocchio per una crisi aggravata dalla siccità. Niente fondi solo promesse compreso il pnrr che sarà un salvadanaio vuoto».

E il silenzio di Grillo?

«Meglio che non parli. Anche il suo ultimo post è incomprensibile, perfino a lui stesso». 

Lite tra Di Battista e Dadone sui social. E arriva in soccorso la moglie Sahra. Il Tempo il 24 giugno 2022

Volano gli stracci nel Movimento Cinque Stelle. E ora inizia la fase dei "rinfacci". "Però quando fece il tuo nome per farti diventare ministra, Alessandro non ti dispiaceva...":. scrive la compagna di Alessandro Di Battista, Sahra Lahouasnia. Con chi ce l'ha?

Andiamo per ordine. La ministra alle Politiche giovanili Fabiana Dadone, con una storia personale nel Movimento iniziata con le battaglie No Tav, scrive un post social in cui dice che resta nel M5S, a fianco a Giuseppe Conte, ma riconosce il lavoro a favore della pace in Ucraina di Luigi Di Maio. Aggiunge infine che è fondamentale che il suo partito resti al governo, senza dar peso alle "sirene degli uomini della provvidenza che ci vogliono fuori dal governo dovrebbero restare in vacanza". Il riferimento è all'ex collega deputato e amico, cioè Di Battista. 

Lo stesso "Dibba" risponde così: "Ancora una volta signora ministro il problema sono io, un libero cittadino che vive del proprio lavoro, senza essere pagato con denaro pubblico a differenza sua. Il problema sono io, sempre io. Mica Renzi con il quale governa. Mica l’ignobile legge Cartabia che ha avuto il coraggio di votare. Mica Brunetta che le siede accanto nel Cdm. Mica l’avvocato di Berlusconi sottosegretario alla giustizia. Siete diventati ciechi. O qualcosa vi ha accecato. Auguri".

Poi si aggiunge la moglie Lahouasnia: "Lo stato del 'vacanziere' non è cambiato da quando lo portavi sul palmo della mano in campagna elettorale nel 2018 né tantomeno quando ha fatto il tuo nome quando si chiedevano consigli per il tuo posto da ministro. E comunque in vacanza non sta, si chiama lavoro". 

La conversione del sottosegretario. Miracolo Di Stefano, ospite di Russia Unita di Putin e anti-Nato diventato euroatlantista: le giravolte del fedelissimo di Di Maio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 24 Giugno 2022 

Di acqua ne è passata sotto i ponti per Manlio Di Stefano. Il sottosegretario agli Esteri, fedelissimo del ministro Luigi Di Maio, è passato col titolare della Farnesina in ‘Insieme per il futuro’ abbandonando la barca in difficoltà del Movimento 5 Stelle.

Di Stefano segue così la svolta euroatlantica e moderata di Giggino, in rotta con Giuseppe Conte, accusato di aver messo a rischio la tenuta del governo Draghi con posizioni ambigue su Ucraina e Russia.

Ma se sulle prossime mosse di ‘Insieme per il futuro’ restano tanti dubbi, a partire dalla possibilità di unirsi in un terzo polo centrista e draghiano, il passato del sottosegretario della Farnesina è invece chiarissimo.

Cambiare idea in politica non è un reato, eppure la svolta di Manlio Di Stefano resta un caso a suo modo impressionante, anche perché ad oggi la giravolta non è stata spiegata dal diretto interessato. Basta tornare a pochi anni fa, siamo nel gennaio 2017, per leggere le parole dell’allora capogruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione Esteri attaccare a testa bassa la Nato sul blog di Beppe Grillo.

Nell’articolo del 12 gennaio Di Stefano chiedeva di ridiscutere la presenza dell’Italia nella Nato, una tesi che per Di Maio oggi sarebbe una bestemmia. Alleanza atlantica che per Di Stefano all’epoca stava “giocando con le nostre vite”, evocando una “immonda strategia della tensione” nei confronti della Russia di Vladimir Putin.

Quella della Nato era una vera ossessione per Di Stefano. Nel 2017 il responsabile esteri dei 5 Stelle organizzava anche un convegno dal titolo “Se non fosse Nato”, dove anche in questo caso di parlava di uscita del Belpaese dall’Alleanza, definita “strumento di aggressione per il perseguimento di tre obiettivi strategici degli Stati Uniti: mantenere il dominio militare in Europa, controllare qualsiasi possibile rinascita della Russia e avere ‘il cappello’ da utilizzare per tutti gli interventi bellici in cui si è voluto ‘esportare la democrazia’ e i diritti umani”.

Lo Zar del Cremlino è un secondo punto chiave della politica estera di Di Stefano. Fu proprio lui nel 2016 a volare a Mosca per rappresentare il Movimento 5 Stelle al congresso di Russia Unita, il partito di Putin, facendosi fotografare anche con due big del movimento come Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak. 

Vicinanza al Cremlino dimostrata anche in occasione dell’invasione russa della Crimea: nel 2014 Di Stefano si era detto contrario alle sanzioni, parlando all’agenzia stampa Sputnik. Ucraina che, sempre sul blog di Grillo, diventata una Paese “violato con un vero e proprio colpo di stato ad opera dell’Occidente, poi si è rimpiazzata la sua amministrazione con una vicina agli Usa e, adesso, la si vuole trasformare in una base Nato per lanciare l’attacco finale alla Russia”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 24 giugno 2022.  

Giuliano Ferrara ha scritto che Luigi Di Maio sarebbe un «politico trasformista e schizofrenico» come «in certa misura» lo sarebbero tutti i politici italiani, e che la sua scelta «ha tutto di occidentale e di euroatlantico». Conclude Ferrara: «La soluzione verrà da un ferreo e funzionante, anzi pienamente efficiente, sistema trasformista, il nostro blasone, il nostro distintivo, il nostro unico fattore di stabilità e governabilità». 

Giusto: ma allora suicidiamoci tutti.Il sistema trasformista, studi alla mano, è quello della Nigeria, del Messico, della Grecia, del Nicaragua, del Costa Rica, del Perù e del Regno delle Due Sicilie: questo spiega ogni studio sul personalismo familiare, sull'«amistad» che batte il civismo, sullo Stato visto come gabellatore, sulla vocazione ai servizi improduttivi. Già lo scrivevano, dell'Italia pre-garibaldina, i Montesquieu, i Nitti e i Farini. 

Cinque anni fa l'ha scritto persino L'Economist. Non è blasone, non è distintivo, non è realpolitik: il trasformismo fa schifo. C'è un Italia ex asburgica che cerca un modus più divincolato dal condizionamento statale, poi c'è un Italia ex borbonica che cerca solo un grande corpo che le dia sicurezza. Anch' io voglio che il governo Draghi duri a lungo: ma Di Maio non è il mio Paese, e la sua scelta non è occidentale o euroatlantica. È la Nigeria.  

La dura legge del contrappasso sui social: piovono insulti e sfottò su Di Maio. Francesco Maria Del Vigo il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

Di Maio travolto dalla furia dei grillini: "Ogni qualunquista è un trasformista in attesa dell'occasione giusta". Beffa per l'ex capo M5s, asceso grazie al web.

Chi di social ferisce di social perisce. E lo sa bene Luigi Di Maio, ex leader del movimento più internettiano d'Italia e forse del mondo, che, dopo la sua giravolta circense è finito trafitto dalla furia del grillini (e non solo) proprio sul web. Chi si avventura nelle pagine social del ministro degli Esteri e di Cinque Stelle, si prepari a una discesa negli inferi tra insulti, prese in giro, battute al vetriolo e citazioni dello stesso Di Maio che, col senno di poi, paiono quanto meno contraddittorie. Sulla pagina Facebook ufficiale del titolare della Farnesina, il tempo sembra essersi fermato. Non è accaduto nulla. La strategia è chiara: silenzio assoluto. L'ultimo post, datato 13 giugno, ritrae un Di Maio, sereno e artatamente concentratissimo che discute ad Addis Abeba con il ministro etiope. Sotto il post, mentre stiamo scrivendo, ci sono più di 12mila commenti. Come è facile immaginare, ahinoi, la politica del Corno d'Africa interessa molto poco gli astanti. Parlano tutti della fuoriuscita di Giggino. E ne parlano malissimo. «Hai dimostrato di essere un miserabile», sentenzia Maria con tono lapidario. Ed è una delle più delicate. «Insieme per il futuro E prevedo che il futuro durerà meno di 10 minuti», ironizza, ma non troppo, un tal Luca. Ma c'è anche chi, tra un insulto e l'altro, dispensa consigli agrodolci al ministro: «Ma perché semplicemente non torni a fare quello che facevi prima di essere un politico? È più dignitoso lo Steward devi continuare ad aprire partiti che valgono lo zero niente %?», si interroga Giulia. E chi, con notevole sagacia, dal particolare degli accadimenti di questi giorni trae massime sempre valide nel mondo della politica: «Ogni qualunquista è un trasformista in attesa dell'occasione giusta. Lei è la conferma di questa regola eterna», stigmatizza Alessandro. Ovviamente spopolano fotomontaggi e meme, la grande fuga di Di Maio dai Cinque Stelle si presta alla perfezione a qualunque forma di satira e sberleffo. C'è chi gli ha appiccicato una gobba sulla schiena, trasformandolo nel nipote di Andreotti (qualcuno lo ha anche prontamente ribattezzato Giggino Pomicino, la Prima repubblica è un sempreverde), chi lo ha inserito in una pubblicità di «Poltrone e sofà» e chi ironizza sulla fondazione di un nuovo partito «Poltrona viva». Quello dello scranno è un altro grande classico che imperversa un po' ovunque, in questi giorni che vedono l'ex steward nell'occhio del ciclone. L'affaticato social media manager del ministro - al quale va tutta la nostra solidarietà -tenta il depistaggio anche su Instagram, dove pubblica una foto di Di Maio a Belgrado intento a stringer mani e distribuire pacche sulle spalle. Ma i commentatori non ci cascano neppure questa volta e parte la lapidazione digitale con parole ed emoticon molto eloquenti. Due i più diffusi: la faccina del pagliaccio e quella di chi, con buona probabilità, ha mangiato del cibo avariato e ora lo sta espellendo... D'altronde da un movimento che ha fatto del «vaffanculo» il proprio slogan fondativo non ci si poteva certo aspettare una prosa elegante ed alata. Sulla pagina ufficiale del Movimento, che conta un milione e mezzo di seguaci, invece è tutto un incitamento a Conte affinché lasci questo «governaccio» e traslochi all'opposizione. Di Maio, nella migliore (e più pubblicabile) delle ipotesi viene dipinto come un traditore che ha accoltellato alle spalle l'avvocato di Volturara Appula. Stesso scenario anche su Twitter dove, per tutta la giornata, l'hashtag DiMaio è il più gettonato. Se il web e i social sono la cartina tornasole della nostra società, beh, allora per il ministro degli Esteri le cose si sono messe davvero male.

Le giravolte di Luigi. Michel Dessì il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

Protagonista di questa settimana Luigi Di Maio e le sue innumerevoli giravolte: in questi anni, ha infatti cambiato idea non una, non due, non tre ma decine e decine di volte. Ospiti speciali della puntata, Vittorio Sgarbi e Andrea Indini.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Settimana movimentata tra i palazzi romani. Tanti, troppi retroscena su chi va con chi e in cambio di cosa. Perché si sa, le elezioni si avvicinano e a pensare male si fa bene. C’è sempre un interesse personale dietro ad ogni “movimento”. Inutile nasconderlo. Potremmo parlare degli umori dei grillini rimasti con Giuseppe Conte, tra chi vorrebbe uscire dal governo e tra chi, invece, vorrebbe restare; delle aspettative per una prossima candidatura dei dimaiani che, finalmente, dopo mesi di guerra interna al movimento, hanno deciso di gettare la maschera; delle preoccupazioni del PD: “e ora, con chi ci alleiamo, con Giuseppe o con Di Maio?”; o delle manovre per la costruzione del grande centro con l’aiuto di Tabacci.

E invece no, parliamo di Luigi Di Maio, delle sue innumerevoli giravolte. Di come, in questi anni, ha cambiato idea non una, non due, non tre ma decine e decine di volte. “Di Maio ha offerto il suo contributo al suicidio assistito del Movimento. Ha pensato di portare verso una buona morte i grillini e Grillo. Dall’albergo di lusso a cinque stelle all’Rsa “casa di riposo per grillini stanchi insieme per il futuro”, ci dice Vittorio Sgarbi. È proprio vero, nulla è per sempre, soprattutto in politica dove è facile dimenticare. Ma fino a che punto? Di Maio sicuramente ha già dimenticato, a partire dal motto che, per anni, lo ha accompagnato alla guida del movimento: “uno vale uno!” a “uno non vale l’altro”.

Ha proprio ragione Andrea Indini, che mi onoro di ospitare a La Buvette: “Se ci mettessimo a rileggere tutte le dichiarazioni rilasciate sei, sette anni fa, a stento riconosceremo il Di Maio di oggi. Ora non schifa più i voltagabbana, ora non crede più che “uno vale uno”. Ora è europeista dopo essere stato anti UE e anti euro. È anche diventato atlantista dopo aver sognato il superamento della Nato”.

E noi, quei momenti della (breve) vita politica di Gigi da Pomigliano li ripercorriamo nel podcast attraverso la sua stessa voce. Quella ancora non è cambiata. È lì, sul web che, sicuramente, è l’unico a non dimenticare. Impietoso, anche con Luigi. Oggi impeccabile nel suo vestito sartoriale il ministro degli Esteri si dice pronto a tutto pur di salvare il governo di Mario Draghi.

“La parte più divertente del trasformismo di Luigi Di Maio è l’abiura all’odio e al populismo. - sottolinea Andrea - Ci arriva dopo anni di gogne sui social, di liste di proscrizione contro i giornalisti nemici, i vaffa day, di campagne mediatiche giustizialiste… se ne accorge solo ora? Meglio tardi che mai, però ora staremo a vedere se ha cambiato davvero o è solo una mossa politica”. Ma Vittorio è severo: “Difficile che Di Maio cambi idea, non ne ha mai avute”.

Da Fini a Bersani, le scissioni infauste finite nel nulla. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 22 Giugno 2022.  

Il nuovo gruppo di Di Maio, "Insieme per il futuro", non brilla per originalità evocativa. Per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti a cinquestelle?

Il gran generatore automatico di nomi e simboli che incessantemente rifornisce la decomposizione del sistema post-partitico all'italiana ha fatto dunque germogliare "Insieme per il futuro". Ma per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti guidati da Di Maio?

Di sicuro l'ultimissimo scisma a cinque stelle non brilla per originalità evocativa. Così, poche ore dopo l'annuncio Gabriele Maestri, costituzionalista e studioso di diritto dei partiti, ma soprattutto pontefice massimo e super erudito dell'odierna micropolitica, poteva già comunicare sul suo blog, "I simboli della discordia", che quella denominazione era già stata usata la bellezza di 50 volte negli ultimi quattro anni, per lo più in elezioni amministrative.

La maledizione del vincitore. Di Maio conferma la regola: da 15 anni il primo partito nelle urne poi va in pezzi in aula. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 23 Giugno 2022.

Dalla scissione finiana del 2010 a quella bersaniana del 2017, nelle ultime tre legislature non è mai accaduto che la forza più votata arrivasse tutta intera alle elezioni successive.

Generalmente in politica, come in ogni altra vicenda della vita, sono le vittorie a unire e le sconfitte a dividere. Eppure nella politica italiana, dal 2008 a oggi, capita sistematicamente il contrario: è il partito più votato a non arrivare intero alla fine della legislatura. Sono infatti quasi quindici anni che la formazione più votata nelle urne, arrivata a metà del percorso, entra in crisi e si spacca clamorosamente in aula, subendo una scissione organizzata o dal leader della precedente stagione (Luigi Di Maio contro Giuseppe Conte oggi, Pier Luigi Bersani contro Matteo Renzi nel 2017) o dal leader di uno dei due partiti fondatori del nuovo soggetto (Gianfranco Fini contro Silvio Berlusconi nel 2010), portandosi dietro decine di parlamentari, ministri e dirigenti storici. È la maledizione del vincitore.

Come si vede, non si tratta di scosse di assestamento, cambiamenti al margine, minime scalfitture, ma di vere e proprie crisi esistenziali, che chiamano in causa l’identità e la sopravvivenza stessa del partito: la scissione finiana del 2010 portò alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi e fece passare il Partito delle libertà dal 37 per cento del 2008 al 21 per cento del 2013 (il partito di Fini, in compenso, totalizzò lo 0,4 e non entrò nemmeno in Parlamento); la scissione bersaniana del 2017 lasciò il Partito democratico di Renzi al minimo storico, dal 25 per cento del 2013 al 18 per cento del 2018 (la formazione di Bersani, in compenso, in parlamento riuscì a entrare, ma solo perché alleata di Sinistra italiana, già accreditata del 2 per cento, con cui superò di un soffio la soglia al 3); la scissione dimaiana dal movimento contiano vedremo quali effetti avrà – al voto non manca molto comunque – ma certo le prospettive elettorali non appaiono particolarmente rosee per nessuna delle due formazioni.

Vista all’interno di questa notevole serie storica, la scissione del Movimento 5 stelle assume quindi un valore diverso, come indicatore di un fenomeno più generale. Al di là delle cause e delle peculiarità della vicenda grillina, quello che emerge è un problema strutturale.

Mi domando se esista un altro paese al mondo in cui per quasi quindici anni di fila è il partito vincitore delle elezioni, non lo sconfitto, ad andare letteralmente in pezzi nel corso della legislatura. Mi domando, soprattutto, se esista una certificazione più lampante della crisi terminale di un sistema politico, e cosa debba ancora succedere perché i suoi protagonisti prendano atto che si tratta di un gioco in cui non può vincere nessuno.

Non ripeterò qui per l’ennesima volta la mia diagnosi (mi limito, per chi non fosse mai passato da queste parti, a ricordare la medicina: ritorno a un vero sistema proporzionale, senza coalizioni pre-elettorali, senza premi di maggioranza, senza nessuna costrizione bipolare). Quello che mi sembra maggiormente degno di nota, infatti, non è tanto la diversità di opinioni circa le ragioni della crisi o le eventuali terapie da adottare, quanto la rimozione del problema.

Ogni volta come se fosse la prima volta, i leader di partito dati per vincitori dai sondaggi, o anche soltanto per migliori sconfitti (tentati quindi dall’idea di poter lucrare una rendita di posizione dal voto utile e dal vincolo di coalizione, sia pure all’opposizione), si immolano in difesa dello «spirito del maggioritario» e del «bipolarismo». Mettono cioè essi stessi la testa sul ceppo, allegri come un bambino a Natale, nella convinzione che il signore incappucciato dietro di loro si appresti a metterci sopra una bella corona.

La domanda è: quante altre leadership dovranno rotolare nella polvere prima che l’ultimo arrivato mangi la foglia? Il bipolarismo all’italiana, con le sue parvenze plebiscitarie e la sua reale ingovernabilità, non è infatti, come credono loro, un palcoscenico per i sogni di gloria e le vanità dei leader. È un patibolo.

·        La Democrazia a modo mio.

Estratto di “Polvere di Stelle”, di Emanuele Buzzi (ed. Solferino) il 9 settembre 2022.

«Allora, ci dimettiamo e andiamo all’opposizione: un governo Draghi non lo possiamo accettare. La linea è: o Conte o morte.» «Sì, questo non si discute.» La riunione in via Arenula, a Roma al ministero della Giustizia, è segretissima, al punto che è rimasta ignota finora. 

 Tra presenti e collegati in videocall ci sono tutti i rappresentanti che contano del Movimento: da Di Maio a Patuanelli, da Bonafede a Crimi, reduce da un’assemblea parlamentare nel pomeriggio. Il reggente ha appena spiegato ai gruppi parlamentari: «Un governo tecnico avrebbe mai potuto fare il reddito di cittadinanza? Avrebbe potuto fare misure costose ma innovative e di rilancio come il superbonus al 110% e le comunità energetiche? Queste sono operazioni che può fare un governo politico, non un governo che ha la necessità di far quadrare i conti. Un premier tecnico non farebbe il bene del Paese, abbiamo già dato».

Sei persone si confrontano e hanno di fronte una grande responsabilità: quella di scegliere se aderire o meno a un governo di unità nazionale. A un certo punto il telefono di Di Maio squilla. È Grillo, che per mezz’ora spiega le novità. Il garante è reduce da una telefonata di un paio d’ore con Mario Draghi, in quel momento premier incaricato. Il colloquio tra i due ha avuto esiti inattesi: Draghi ha mostrato interesse per i temi della transizione ecologica e ha anche registrato le motivazioni del Movimento nel difendere il reddito di cittadinanza.

A propiziare il confronto è stato Fico, che li ha messi in contatto. Quando Grillo conclude la telefonata con Di Maio, il messaggio che viene riferito al gotha del Movimento è chiaro: «Beppe dice che dobbiamo fare il governo». I partecipanti incassano. Tutti, tranne uno. Bonafede, in quel momento padrone di casa, sbotta. 

Lui è il ministro che ha messo in contatto Conte con i Cinque Stelle, lui è quello che Conte ha difeso dagli attacchi di Renzi, il «capro espiatorio» – come dicono nel M5S – su cui si è giocata la stabilità dell’esecutivo. Contatta Fico, che ha fatto da trait d’union tra Grillo e Draghi, e parte una call che coinvolge tutti i presenti. Bonafede, di fronte alle parole del garante stellato e al cambio di rotta dei colleghi, si infuria: «Questa è una resa, è un tradimento nei confronti di Giuseppe. Non possiamo abbandonarlo così». Poi si alza e lascia la riunione e la sede del suo ministero.

L’ (anti)democrazia interna del M5S a guida di Giuseppe Conte. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Agosto 2022 

I più votati alle Parlamentarie rischiano quindi di vedere gli scanni della Camera e del Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste a cause della «comparsa» imposta dei prescelti di Giuseppe Conte o per la sua stessa candidatura in lista in ben 4 regioni.

Nelle chat romane gira uno “schemino” che spiega come chi ha preso ben oltre le mille preferenze sia stato scalzato: Angela Salafia (1.402 voti) dal docente De Santoli, Marco Bella (1139) dal notaio Colucci. I più votati alle Parlamentarie rischiano quindi di vedere gli scanni della Camera e del Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste a cause della «comparsa» imposta dei prescelti di Giuseppe Conte o per la sua stessa candidatura in lista in ben 4 regioni. 

In quelle stesse chat si leggono le contestazioni dei fedeli di Virginia Raggi finiti supplenti o addirittura fuori, anche se per ora nessuno di loro intende ritirarsi. Decisione questa invece adottata da Nicolino Di Michele, molisano slittato al secondo posto per l’alternanza di genere: «Non ho più lo spirito per affrontare la campagna elettorale».

La deputata uscente Francesca Flati, con quasi 1.695 clic, è risultata la più votata del Lazio, ma si troverà davanti in lista il neo capogruppo Francesco Silvestri: “Certo, mi spiace. Sarebbe stato bello essere capolista. Il listino di Conte è una novità, ma è stato votato. Ora è il momento di lavorare ascoltando i cittadini”.

Luca Migliorino, vice presidente della commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi al MPS

Luca Migliorino, vice presidente della commissione d’inchiesta che si occupa della morte di David Rossi ( ex direttore relazioni esterne del MPS), è risultato il più votato nella seconda circoscrizione toscana, ma è stato collocato al terzo posto per la parità a causa della presenza in lista di Ricciardi «paracadutato» da Conte. Certamente non può dirsi soddisfatto ma, contattato, ci tiene a rispondere: «Non rilascio dichiarazioni sul tema».

In molti si stanno chiedendo se, considerata anche l’impostazione dei 5 Stelle, a proposito di legalità…l’ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho non sia imbarazzato a vedersi in lista insieme a Riccardo Tucci, imputato per frode fiscale. Ma quello che in realtà si chiedono, quale sia il senso di queste liste: «Dal secondo posto in poi bisogna prendere percentuali davvero alte per far scattare i seggi», è la consapevolezza dei più. Ad avere reali chance alla fine restano solo i quindici “fedelissini” cortigiani di Conte. Chissà se adesso Beppe Grillo avrà ancora il coraggio di ripetere il suo mantra grillino : “uno vale uno”. Redazione CdG 1947

Giulia Ricci per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.

I più votati alle Parlamentarie rischiano di vedere Camera e Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste per la «comparsa» dei prescelti di Giuseppe Conte (o per la sua stessa presenza in 4 regioni). Nelle chat romane gira uno schemino che mostra come chi ha preso ben oltre le mille preferenze sia stato scalzato: Angela Salafia (1.402 voti) dal docente De Santoli, Marco Bella (1139) dal notaio Colucci.

L'uscente Francesca Flati, con quasi 1.695 clic, è la più votata del Lazio, ma avrà davanti il neo capogruppo Francesco Silvestri: «Certo, mi spiace. Sarebbe stato bello essere capolista. Il listino di Conte è una novità, ma è stato votato. Ora è il momento di lavorare ascoltando i cittadini». 

In quelle stesse chat si sentono i malumori dei fedeli di Virginia Raggi finiti supplenti o addirittura fuori, anche se nessuno (per ora) intende ritirarsi. Lo farà invece Nicolino Di Michele, molisano slittato al secondo posto per l'alternanza di genere: «Non ho più lo spirito per affrontare la campagna elettorale».

Luca Migliorino, vice della commissione d'inchiesta che si occupa della morte di David Rossi, è risultato il più votato nella seconda circoscrizione toscana, ma sarà al terzo posto per la parità e il «paracadutato» Ricciardi. Non può dirsi soddisfatto ma, contattato, ci tiene a rispondere: «Non rilascio dichiarazioni sul tema». 

A proposito di legalità, in molti si stanno chiedendo se, considerata anche l'impostazione dei 5 Stelle, l'ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho non provi disagio a essere in lista con Riccardo Tucci, imputato per frode fiscale. Ma quello che in più si chiedono è il senso di queste liste: «Dal secondo posto in poi bisogna prendere percentuali davvero alte per far scattare i seggi», è la consapevolezza dei più. Ad avere reali chance finiscono per essere solo i quindici fedeli di Conte.

UNO NON VALE UNO. Massimiliano Panarari racconta le strategie comunicative del M5S: dalla piattaforma Rousseau, alla politica della scatola vuota. E a Salvini – Zelig. Michele Boroni su luz.it.

Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, saggista, consulente di comunicazione politica e pubblica, docente della Luiss e della Bocconi, editorialista su La Stampa e su altri quotidiani. Nella neolingua del 2019 “quelli là” direbbero che è uno della casta.

Ultimo libro di Panarari per i tipi di Marsilio: Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi. Il volume smonta e analizza nel dettaglio il gergo populista e sovranista – che chiama in confidenza pop-sov – partendo proprio da uno dei suoi cardini.   

Uno non vale uno: sembra che anche molti attivisti pentiti dei 5 Stelle se ne siano accorti

Il fatto che “uno non vale uno” sta diventando sempre più chiaro anche a coloro che avevano pensato di trovare all’interno del MoVimento 5 Stelle, ma anche di altre formazioni neopopuliste, la possibilità di far valere quest’idea di una totale orizzontalizzazione. In pratica “uno non vale uno” perché, come nella Fattoria degli animali di Orwell, all’interno del MoVimento 5 Stelle esiste un centro di potere, una gerarchia non dichiarata, una filiera di comando che prende le decisioni.

La Casaleggio Associati

Naturalmente. È un inner circle di cui fanno parte dei soggetti privati e questo rende praticamente l’idea dell’impraticabilità dell’orizzontalizzazione. Quindi uno vale uno, tranne che per la Casaleggio Associati.

Però anche nei vecchi partiti c’erano le correnti

Sì, la politica del “correntismo” ha prodotto una serie di degenerazioni; tuttavia negli altri partiti vi erano sempre una condizione di dibattito e di conflitto palesi. Mentre sulla base de l’“uno vale uno” del MoVimento 5 Stelle diventa impossibile poter esprimere il dissenso. Nella discussione del decreto sicurezza e delle politiche migratorie si è visto chiaramente che un dissenso esiste, ma fatica a esprimersi e a trovare una posizione visibile e dichiarata. 

La loro dichiarazione “uno vale uno” è di fatto un rifiuto alla diversità e al pluralismo che sono, per un verso, un dato di realtà e, per l’altro, il fondamento della civiltà occidentale e delle società socialdemocratiche. L’idea forzata, omologatrice e riduzionistica dell’“uno vale uno” intende soffocare tutto questo.  

A proposito di omologazione: se è vero che “uno vale uno”, allora tutti sono sostituibili?

Esatto, i partiti neopopulisti dichiarano l’uno vale uno dei propri eletti in tema di interscambiabilità, ma anche di facile rimozione. Questo rafforza il fatto che il centro di potere che governa il decision making del partito neopopulista – la Casaleggio Associati – risulti ancora più forte e inscalfibile.

E in tutto questo la Lega come si pone?

La Lega, come del resto gli altri partiti della destra radicale a tendenza neocomunitarista e xenofoba che si stanno affermando in tutta Europa, richiama il valore de l'”uno vale uno” e dell’omologazione come forma di opposizione alla tolleranza e convivenza tra i diversi, ovvero il pilastro delle società aperte liberal-democratiche. In questo caso anche sulla base di un’idea di radici etniche e di un “uno vale uno” che si basa su chi sta all’interno di una comunità di sangue o di legami etnici.

Prima gli italiani, quindi?

Esattamente, ma anche prima gli americani. Il fenomeno è decisamente globale.

Il suo libro è organizzato come Miti d’oggi di Roland Barthes, in questo caso legato all’egemonia linguistico-politico e culturale dei pop-sov. Popolo, autenticità, tecnologia, disintermediazione e democrazia diretta sono i “miti” coinvolti. Ho l’impressione però che alcune di queste parole stiano franando, penso agli ultimi cambiamenti di rotta sul referendum. È così?

Nel caso del referendum propositivo deve obbligatoriamente prevedere un quorum: un’occasione di democrazia diretta senza quorum è una mitologia antitetica all’idea della partecipazione civica e mobilitazione delle persone. Tornando alla domanda, qui il mito si sta scontrando con la realtà: in questo confronto-scontro con il dato di realtà, la cronaca politica italiana ci sta restituendo l’immagine strumentale di questi miti – perché, non dimentichiamocelo, stiamo parlando di mitologie strumentali consensus oriented – come appunto la disintermediazione e la democrazia diretta, conseguenza della ipostatizzazione che “uno vale uno”.

Qual è la reazione dell’elettorato di fronte a questo confronto?

Generalmente disillusione e disincanto, un tipico passaggio dall’utopia alla distopia. Gli elettori si accorgono che la mitologia è irrealistica e non praticabile. Ma c’è anche la possibilità che le mitologie vengano rilanciate, ed è quello che vediamo della democrazia diretta nell’evoluzione del pensiero politico del MoVimento 5 Stelle, ovvero il fatto che ogni volta che sono costretti a recedere rispetto all’impianto originario, costruiscono altri miti collaterali o danno vita a una comunicazione che è un elemento strutturale della diversione e distrazione di massa.   

Anche il tema della tecnologia e della piattaforma Rousseau sta traballando: il potere logora la rete?

Il potere logora la rete quando la rete stessa è finalizzata alla conquista del potere. Se tutto emerge nella condizione di strumentalità e nella dimensione consapevole del rifiuto delle regole per impedire la tutela del pluralismo, il risultato è quello di generare alcune forme di disillusione. La vera questione è che nel momento in cui le istanze antisistemiche diventano sistema, comincia a diventare chiaro che una parte significativa di queste istanze avesse un presupposto di conquista del consenso e prescindesse da tutta una serie di dati concreti come il fatto che governare sia molto complicato.  Si è visto bene nella discussione della manovra di bilancio. 

I 5 Stelle sono nella stanza dei bottoni ma comunicano come se stessero ancora all’opposizione, magari schierandosi con i gilet gialli

Già, ma c’è di più. La Casaleggio Associati, soggetto privato detentore della piattaforma Rousseau, attraverso un rappresentante delle istituzioni democraticamente eletto – Luigi Di Maio – ha messo a disposizione la piattaforma a un movimento ribellistico nei confronti di un altro politico alleato e democraticamente eletto – Emmanuel Macron – generando un cortocircuito devastante in maniera lucida e razionale. 

Prima parlava di diversione e distrazione di massa. È in quest’ottica che si spiega il ritorno di Di Battista?

Il richiamo in servizio del riservista Di Battista, essenza del populismo movimentista barricadero, serve per ammaliare l’anima più pseudo-rivoluzionaria e contestatrice del movimento, cioè quella che ha garantito gran parte del consenso al MoVimento 5 Stelle. 

Quale sarà secondo lei il suo ruolo nel futuro?

È difficile capire cosa succede e cosa succederà dentro il MoVimento 5 Stelle, dal momento che non esiste un dibattito pubblico, non ci sono correnti o sensibilità formalizzate. In fondo il Movimento fondato da Grillo è la cosa più vicina a un serial postmoderno. E come nella capacità degli showrunner di costruire caratteri o cambiare la sceneggiatura in relazione all’audience, in questo caso il richiamo di Di Battista corrisponde a un calo di consenso per l’esperienza governativa, così affiancherà il protagonista Di Maio e si dedicherà alla funzione di ristrutturare l’offerta di populismo movimentista e antisistemica del MoVimento 5 Stelle tenendo un piede dentro e un piede fuori.

Di Battista è il cliffhanger…

Esattamente. È precisamente questo, è l’esportatore del modello rivoluzionario ritornato dal sudamerica che si propone ai movimenti dei gilet gialli e rispetto ad altre realtà ribellistiche e insurrezionali. Una sorta di commesso viaggiatore della rivoluzione. 

C’è da dire che tutto questo ha una sua logica perversa: funziona davvero?

Il lavoro che il MoVimento 5 Stelle fa sulla comunicazione, o meglio sull’istantaneità della comunicazione, è estremamente efficace. 

In questo forte mutamento del clima di opinione, di grande confusione collettiva e di riduzione d’impatto del dato di realtà, i partiti pop-sov si propongono come scatole vuote nei quali ciascuno può scegliere l’istanza o l’elemento ritenuto curativo o che può sublimare le frustrazioni individuali. 

In questo il MoVimento 5 Stelle è un esperimento fortemente riuscito che risponde al bisogno di autocomunicazione del narcisismo individualista di massa, come dice Castells, dove ciascun mittente appartenente alla massa elabora in modo autonomo il messaggio e lo trasmette alle sue reti di destinatari attraverso i social. 

L’istantaneità della comunicazione ha contribuito a tagliare le gambe alla sinistra, che ha già i suoi problemi congeniti e assenza di leadership

Questo tipo di comunicazione ha in effetti soffocato il dibattito parlamentare, basato sul dialogo e sul compromesso. La sinistra è strutturalmente in difficoltà perché ha mancato l’appuntamento con la postmodernità. 

Quali sono oggi gli elementi richiesti dalla postmodernità in politica?

Sono principalmente cinque: una leadership adeguata, una capacità di comunicazione in grado di reggere la comunicazione della società, efficacia ed efficienza rispetto ai processi e alle trasformazioni sempre più rapide, capacità di costruire una forma organizzativa e infine capacità di definire l’agenda non da inseguitore ma da precursore. Di fronte a tutte queste trasformazioni della postmodernità la sinistra è rimasta completamente spiazzata e la possibilità di restare oggi nel mercato politico richiede un’offerta che sia in grado di risultare forte rispetto a queste dimensioni. 

Renzi ci aveva provato?

Renzi ha adottato modalità e tecniche di populismo soft. Ha intercettato il cambiamento, però la brevità di questa sua esperienza è legata al fatto che probabilmente il modello progressista in generale non è a proprio agio con queste trasformazioni.

Durante le presentazioni si è mai trovato di fronte interlocutori che confutavano le sue riflessioni e analisi? Penso che un potenziale rischio del suo libro, come altri del genere, sia quello del confirmation bias e che quindi venga letto e commentato da chi già è convinto di questo

Per adesso di presentazioni ne ho fatte davvero poche e tutte abbastanza in una dimensione di confirmation bias. Sono d’accordo con lei. Anche in questo caso l’America è stata l’apripista riguardo a dibattiti pubblici in cui non si riescono a confrontare posizioni differenti. La polarizzazione è la conferma dell’esattezza del direttismo tecnologico e che abita nelle filter bubble, un contesto in cui i partiti neopopulisti costruiscono varie e diverse isole di discorso e dibattito pubblico. Tornando alla domanda, da parte mia ovviamente c’è la massima disponibilità. 

In un suo libro del 2010 L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip lei critica l’ideologia dominante di una sottocultura televisiva formata dai vari Ricci, Signorini, Vespa e Maria De Filippi. Qual è la situazione oggi?

La prima considerazione che mi viene da fare è che gli anni ’80 non sono mai finiti in Italia, e questo confermerebbe la tesi per cui oggi viene utilizzata la rete in una modalità neotelevisiva. L’utilizzo della rete di Grillo specie nel momento antecedente all’ascesa è stato un utilizzo fondamentalmente verticale. La tv degli anni ’80 ingloba il pubblico, ne fa un attore importante ma non primario, cioè lo introietta, ne apprende delle istanze, costruisce un meccanismo di rispecchiamento che però è già scritto, sceneggiato, controllato al suo interno. 

Esiste già un’egemonia mediatica?

La piattaforma Rousseau. È un’apparente dimensione di interazione che è la grande richiesta del web dal 2.0 alle numerazioni successive, ma in cui tutto è particolarmente controllato, dove gli spazi di libertà sono definiti nel loro percorso e rispetto all’esito finale. 

È come il Bandersnatch di Black Mirror, tutto è scritto: quanto meglio è scritto, tanto più è possibile percepire e vivere una dimensione di libertà e di scelta da parte del consumatore /spettatore / fruitore. Non è un caso che Grillo venga dalla tv anni ’80 e che uno dei suoi principali autori sia Antonio Ricci. 

Cosa c’entra Ricci?

Guardi, lungi da me qualunque dimensione vagamente dietrologica e complottistica, che è peraltro tipica dei pop-sov. Tuttavia quello che è avvenuto è una sorta di grande vittoria postuma del situazionismo: la tv berlusconiana è una tv in cui la componente ricciana è puramente situazionista, come ad esempio lo è oggi anche Freccero. 

Il mondo e l’opinione pubblica neopopulista è immersa in una sorta di grande blob dove l’“uno vale uno” e l’orizzontalizzazione danno la sensazione dell’impossibilità di ordinare messaggi e contenuti. 

Ed è quello che accade precisamente sulla rete: potremmo dire che la rete è una sorta di grande realizzazione dell’idea del Rizoma del 1977 e della punta finale del situazionismo. Mi pare che l’ecosistema mediatico odierno vada molto in questa direzione e in questo c’è la realizzazione delle premesse che c’era nella tv anni ’80, berlusconiana in particolare, anche con una dimensione nostalgica. 

Erano gli anni delle grandi aspettative individuali, c’era un ottimismo di fondo

Quella dimensione ottimistica dell’autorealizzazione degli individui porta oggi a un contesto di totale individualizzazione con le premesse che sono venute a mancare, per cui rimane solo rabbia, rancore, l’impossibilità di realizzarsi e la possibilità di comunicare e di autocomunicare. Però secondo me, o meglio, secondo fonti più autorevoli di me, quello è il turning point, cioè non si può pensare l’Italia oggi senza il berlusconismo culturale, la trasformazione profondissima che ha impresso. Oggi l’Italia è il Paese in cui rispetto a certi indicatori la distanza tra realtà e percezione è il più elevato dell’intero UE. Questo è l’inevitabile effetto del berlusconismo.

Chiudiamo: e la comunicazione di Salvini – Zelig con le divise e testimonial-consumatore di prodotti di largo consumo?

In termini di plausibilità possiamo dire che c’è per un verso una dimensione di comunicazione molto attenta e forte e che ha prodotto il consenso che conosciamo. C’è sicuramente un talento individuale e una capacità di interpretare e di essere ricettivi rispetto allo spirito dei tempi. 

È chiaro che il personaggio Matteo Salvini è un personaggio costruito, si capisce dalla sua evoluzione da giovane comunista padano che era fino al campione della destra europea che è diventato. 

La sua caratteristica di Zelig nell’indossare con costanza le uniformi delle forze dell’ordine ci dicono che la forma è sostanza e che la divisa delle forze dell’ordine è la divisa di tutti: questi cortocircuiti comunicativi tendono a far coincidere il ruolo di capi politici, uomini di governo e istituzione. Ma il tema principale è quello del principio maggioritarista, cioè scambiare il governo non per l’esecutivo che ha la responsabilità del “corpo della nazione”, ma l’idea che il governo corrisponda alla maggioranza che lo ha eletto. Questo è il segnale più preoccupante.

(ANSA il 17 giugno 2022) - "E' normale che l'elettorato sia disorientato ma alle elezioni amministrative non siamo andati mai così male". Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (M5S) parlando con i cronisti davanti alla Camera. Secondo Di Maio "non si può risolvere l'analisi del voto facendo risalire i problemi all'elezione del presidente della Repubblica".

"Credo che M5S debba fare un grande sforzo nella direzione della democrazia interna: nel nuovo corso servirebbe più inclusività, anche a soggetti esterni": lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (M5S) aggiungendo, rivolto ai cronisti: "lo dico a voi perché non esiste un altro posto dove poterlo dire".

"Non si può sempre dare la colpa agli altri, non si può risalire all'elezione del Presidente della Repubblica per dire che le elezioni amministrative sono andate così male. Credo che bisogna assumersi delle responsabilità rispetto ad una autoreferenzialità che andrebbe superata". 

Così il ministro 5 Stelle Luigi Di Maio che commenta il risultato delle amministrative, premettendo: "Il corpo diplomatico italiano lavora 7 giorni su 7 dal primo giorno di questa guerra, anzi da prima che scoppiasse: non lavora solo la domenica. E in questi giorni molte persone mi hanno chiesto un commento sulle elezioni". "Non abbiamo mai brillato nelle elezioni amministrative: io ne sono testimone. Ma non siamo mai neanche andati così male. E questo succede quando l'elettorato è disorientato. Credo che il M5s debba fare un grande sforzo di democrazia interna".

(ANSA il 17 giugno 2022) - "Il mio telefono non è mai squillato". Così il presidente del M5s Giuseppe Conte risponde a chi gli fa notare le parole di Di Maio sulla mancanza di democrazia interna nel M5s. "La posizione del Movimento è stata ribadita nel consiglio nazionale e Di Maio si è anche dimesso dal comitato di garanzia".

"Di Maio intende fondare un nuovo partito? Non mi faccia entrare nella testa altrui: questo ce lo dirà lui in queste ore". Così il leader M5s Giuseppe Conte. 

 "Negli ultimi giorni ho riunito un consiglio nazionale e ho fatto due conferenze stampa in cui abbiamo analizzato il risultato del voto: io so come assumermi le responsabilità". Lo ha detto il presidente del M5s Giuseppe Conte, parlando con i giornalisti

 Con l'avvio del voto sul doppio mandato "siamo alla vigilia di momenti molto importanti per il M5s. Fibrillazioni erano prevedibili perché ci sono in campo questioni che riguardano le sorti personali di tanti nel M5s". Lo ha detto il presidente del M5s Giuseppe Conte, parlando con i giornalisti. "Su questo punto, io l'ho detto subito: decidono gli iscritti. Invito tutti ad affrontare questo snodo con serenità".

"Quando era leader Luigi Di Maio come organismo del M5s c'era solo il capo politico: che ci faccia lezioni lui oggi fa sorridere". Lo ha detto il leader M5s, Giuseppe Conte, a Roma, parlando con i giornalisti.

"E' una stupidaggine dire che in politica estera il M5s sia anti-atlantista. La nostra posizione è chiara e non è mai stato messo in discussione il nostro atlantismo". Lo ha detto il presidente del M5s Giuseppe Conte, parlando con i giornalisti.

(ANSA il 17 giugno 2022) - "Noi non stiamo guardando al 2050 ma è una forza politica che sta guardando indietro. Che senso ha cambiare la regola del secondo mandato? Io invito a votare gli iscritti secondo i principi fondamentali del Movimento perché questa è una forza che si sta radicalizzando all'indietro". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in dichiarazioni alla stampa a Castellamare sul tema del secondo mandato.

"Mi sono permesso semplicemente di porre dei temi per aprire un dibattito su questioni come la Nato, la guerra in Ucraina, la transizione ecologica e ho ricevuto insulti personali come quello che ho visto sui giornali stamattina. 

Temo che M5s rischi di diventare la forza politica dell'odio, una forza politica che nello statuto ha il rispetto della persona. Credo che dobbiamo parlare dei temi, il nostro elettorato è disorientato perché quando si pongono dei temi ci sono attacchi personali e questo non è accettabile". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, parlando con i giornalisti a Castellamare, sullo scontro con Conte.

"Siamo alla vigilia di un importante Consiglio Ue, noi faremo di tutto perché Draghi vada al tavolo con la massima forza e con la massima possibilità di rappresentare il Paese con una coalizione compatta. Leggo in queste ore che una parte di M5s vuole inserire nella risoluzione frasi e parole che disallineano l'Italia dalle sue alleanze storiche, la Nato, l'Ue e da quella che è la sua postura internazionale. Noi non siamo un Paese neutrale, siamo un Paese che ha alleanze storiche. Non diamo grande prova di maturità politica quando strumentalizziamo il presidente del Consiglio". Così il ministro Luigi Di Maio a Castellamare.

"Non è chiara la nostra ricetta per il Paese e questo spiega perché nella nostra coalizione il Pd sale e noi scendiamo. Forse perché non abbiamo ben chiare le ricette per il nostro Paese". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio parlando con i giornalisti a Castellamare.

Stefano Folli per “la Repubblica” il 17 giugno 2022.  

Allora sembra che siano i Cinque Stelle i primi a esplodere. Dopo la disfatta di domenica era solo questione di tempo, ma c'era la curiosità di capire chi dei due, Conte o Salvini, avrebbe inaugurato la resa dei conti. Salvini è riuscito a guadagnare tempo con l'espediente di rinviare a settembre un'improbabile "verifica" sull'agenda di Draghi. 

Viceversa i 5S, molto meno strutturati e organizzati della Lega, sono subito andati in cortocircuito. Da tempo Di Maio ha ben poco in comune con l'avvocato pugliese e anche con quel che resta dello spirito originario del "grillismo". Tuttavia egli è il responsabile degli Esteri in una situazione di crisi internazionale, con la guerra che lambisce l'Europa: fa parte a tutti gli effetti dell'establishment e agisce da ministro in stretto raccordo con il presidente del Consiglio e il capo dello Stato.

È credibile che le manovre tattiche di Conte, peraltro impacciate, possano incrinare il governo in un momento come questo? In un certo senso è possibile, tanto che Di Maio è uscito dai suoi silenzi e ha attaccato il rivale, pur senza nominarlo. Ha capito di essere lui la vittima designata: lui e il suo incarico alla Farnesina che rappresenta la garanzia di tenere il M5S, il gruppo più forte nell'attuale Parlamento, ancorato alla politica estera europea e atlantica (testimoniata giusto ieri dalla visita a Kiev di Draghi insieme a Macron e Scholz). 

Non a caso nei 5S si parla adesso di un'ipotesi bizantina, forse troppo per essere credibile: uscire dal governo, ma restare nella maggioranza parlamentare. Sarebbe un'operazione tipica degli anni lontani della Prima Repubblica, proprio quel mondo che i "grillini" dicevano di voler contestare. Va detto che Conte ieri a Bologna, a Repubblica delle Idee, l'ha smentita in modo abbastanza netto. Peraltro, messa in atto oggi, questa manovra danneggerebbe il governo Draghi in forme quasi irreparabili.

Lo indebolirebbe, proprio per il peso rilevante dei 5S alle Camere. E al tempo stesso costringerebbe il premier ad assumere l'interim degli Esteri oppure ad assegnare quel ruolo delicato a un altro partito della coalizione. Ma a chi? Qualunque scelta creerebbe uno squilibrio che di questi tempi è consigliabile evitare. 

Ecco allora che Di Maio difende se stesso, ed è inevitabile che lo faccia anche pensando al rischio di non essere candidato per il terzo mandato. Ma difende altresì un assetto generale in politica estera che Draghi e Mattarella vogliono tutelare. In altre parole, le mosse di Conte tendono a creare una certa instabilità, a cominciare dal tema cruciale della lealtà atlantica in uno scenario di guerra.

Ora, è evidente che l'alleanza con il Pd asse portante del famoso "campo largo" - impone ai Cinque Stelle il dovere di chiarire chi sono e dove vogliono andare. In questo momento tutto lascia pensare che Conte e Di Maio non siano più in grado di convivere. E la spaccatura è proprio sulla politica estera, benché l'ex premier - forse non del tutto a torto - abbia insistito a Bologna nel dire che il problema urgente del ministro è più che altro l'incertezza sul terzo mandato.

In realtà l'ambiguità del partito "contiano" sull'Ucraina e su altro è oggi un tema cruciale che Letta non potrà mettere tra parentesi. A maggior ragione se si arrivasse alla frattura finale con l'ala governativa rappresentata da Di Maio.

Federico Capurso per “la Stampa” il 17 giugno 2022.

Deve aver vissuto un déjà vu, Giuseppe Conte, quando ieri mattina ha visto le immagini di Luigi Di Maio attorniato dai cronisti in piazza del Parlamento. Lo stesso luogo in cui, nel gennaio scorso, dopo la rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, si era consumato il primo strappo tra i due. Stesso luogo, stessi toni incendiari. 

Ma stavolta nessuno intorno a Di Maio, nemmeno tra i suoi fedelissimi, si spinge a dire: «Luigi non lascerà mai il Movimento». Una frase che negli anni più turbolenti vissuti dall'ex capo politico M5S era diventata un punto fermo di ogni prospettiva politica, una convinzione incrollabile su cui si infrangevano polemiche e schermaglie interne. E che in queste ore, invece, non si vuole ripetere.

Conte è spiazzato, «ma non lo cacciamo via», assicura parlando con La Stampa, perché «in realtà Di Maio si sta cacciando da solo». Aveva notato, in mattinata, la dichiarazione con cui il senatore del Pd Andrea Marcucci benediva la possibilità di un'alleanza con «un Movimento di Di Maio». I suoi collaboratori gli avevano portato l'agenzia e Conte, adesso, unisce i puntini: «È un assist centrista, un bacio telematico. Si parla di movimenti al centro, si vedrà cosa succederà». 

L'ex premier è convinto che Di Maio elettoralmente non abbia peso. Potrebbe entrare nel grande centro, è vero, ma un conto è farlo al fianco di Carlo Calenda, Giancarlo Giorgetti e Mara Carfagna, con cui - sostiene Conte - non avrebbe davanti a sé floridi orizzonti elettorali. Diverso, invece, sarebbe se in questa forza politica entrassero anche governatori di peso come i leghisti Massimiliano Fedriga e Luca Zaia. 

L'ipotesi di una scissione è davvero concreta. Si potrebbe consumare il 21 giugno, quando Mario Draghi sarà in Parlamento e la maggioranza dovrà votare una risoluzione in cui Conte vorrebbe inserire lo stop all'invio di altre armi all'Ucraina. Qualcuno ventila anche l'ipotesi che i Cinque stelle, in quell'occasione, possano provocare una crisi, ma l'ex premier allontana certe suggestioni: «Macché usciamo! È vero, tutti mi chiedono di farlo, ma io non sono uno che gioca partite doppie. E vi sembro poi un antiatlantista e antieuropeista? Non lo sono affatto e non lo sono mai stato».

 I rapporti con palazzo Chigi però sono ridotti all'osso, lo riconosce lo stesso leader M5S: «Il problema vero, con Draghi, è che manca una dialettica politica.

Noi abbiamo un gigantesco problema di politica economica, ma che cosa vuole fare il governo, qualcuno lo ha capito? Io no, perché Draghi non lo spiega».

Per Conte, sopra ogni cosa, «manca un luogo nel quale discutere. Ormai sono saltate anche le cabine di regia, mentre c'è una recessione alle porte. È questa una sana democrazia?». 

Niente di personale, assicura, «io non ce l'ho con Draghi, ma lui deve ascoltarci e trovare luoghi nei quali questa dialettica politica si deve sviluppare, perché altrimenti, così, non possiamo andare avanti».

L'ex premier è concentrato sull'attività di governo e sulle risposte che il Movimento deve dare ai cittadini, perché anche da qui passa il risultato deludente delle Amministrative. Conte a La Stampa non nasconde che «abbiamo avuto una scarsa performance elettorale alle Amministrative, su questo non ci sono dubbi». 

Lo ripete anche per scacciare l'accusa di non volersi assumere la responsabilità della sconfitta, lanciata ieri da Di Maio. Però, aggiunge, «abbiamo studiato un'analisi molto approfondita del voto e quello che viene davvero fuori con forza è il peso dell'astensionismo», dice. Un peso che grava soprattutto sulle spalle dei Cinque stelle: «I nostri elettori sono i più astensionisti, rispetto a tutti gli altri partiti, ma questo è un problema che riguarda tutta la nostra democrazia».

L'astensione in alcune città, come a Palermo, «è arrivata al 60% - fa notare ancora Conte -. Dobbiamo tutti fare una grande riflessione». Nel frattempo, i tentativi di riallacciare i fili tra Conte e Di Maio falliscono, uno dopo l'altro. Interviene anche Beppe Grillo, ma il Garante non ha certo il carattere più adatto a smussare gli angoli e ricomporre le fratture. Ieri mattina ha cercato Di Maio, senza riuscire a parlarci.

Poi nel primo pomeriggio ha chiamato Conte e il senso del messaggio recapitato è questo: «Se non vuoi ricucire con Luigi, ne hai tutto il diritto, ma preparati alle conseguenze. La responsabilità è tua». Un via libera ruvido, in cui resta sommersa una marea di obiezioni, ma il leader M5S di più non poteva chiedere.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 17 giugno 2022.

Quello di ieri è solo il gong: è l'inizio di un duello che potrebbe protrarsi a lungo (e che ha radici antiche, che partono dal governo gialloverde). Giuseppe Conte e Luigi Di Maio sono metaforicamente come due pugili pronti a darsele di santa ragione, tutti e due in nome del Movimento. 

Stavolta il ministro degli Esteri ha atteso, non ha agito d'impulso come fu a gennaio per il Quirinale: ha soppesato le parole del presidente. Ha guardato i risultati elettorali, ipotizzato l'andamento dei Cinque Stelle, sentito le giustificazioni del leader (comprese le interferenze dovute alle tensioni interne), ascoltato i parlamentari a lui vicini. E si è mosso.

I vertici sono rimasti «sorpresi» dalla tempistica, visto che le dichiarazioni del ministro sono state rilasciate in un «giorno importante» per la politica estera e sottolineano anche come siano sembrate inappropriate le frasi sulla democrazia interna. 

Secondo l'inner circle che guida il M5S a spingere il titolare della Farnesina sono le votazioni sul tetto dei due mandati (la norma che vincola gli stellati a fare solo due legislature da politici di professione, limite che molti M5S hanno raggiunto) e il fatto che Conte non abbia voluto esprimersi in difesa dei big. I dimaiani fanno spallucce: sorridono all'idea che Di Maio possa essere spaventato dai due mandati. E aprono una questione politica: c'è chi parla di visione del Paese, chi di mancata inclusività, chi di «progettualità assente».

La sensazione che circola nel Movimento è che ci siano due idee radicalmente diverse, inconciliabili, della rifondazione stellata (voluta anche da Di Maio).«Luigi ha detto cose giuste, ma nel modo sbagliato», dicono alcuni insospettabili. Di sicuro il tema dei due mandati infiamma anche chi si è schierato con Conte ed è alla seconda legislatura. Diversi sono i big a rischio. Il presidente è deciso ad andare avanti: vuole un partito compatto con volti nuovi e una nuova identità. Il ministro, invece, teme che gli stellati si stiano infilando in un vicolo cieco, con una identità indefinita e con un blocco monolitico ai vertici miope nei confronti delle altre sensibilità.

Cosa accadrà ora? Le espulsioni non sono una carta sul tavolo. E poi, viste le controversie legali in atto che indirettamente limitano l'azione dei probiviri, al momento la sanzione più probabile potrebbe essere una sospensione per eventuali dissidenti. La scissione è una carta che va tenuta in considerazione, ma non con tempi rapidi. Ciò che è certo è che una scissione spaccherebbe in modo irrimediabile il Movimento. 

Ci saranno altri round. Il primo, che potrebbe far precipitare la situazione, è tra soli quattro giorni. La risoluzione sull'Ucraina del 21 giugno potrebbe essere uno spartiacque. Le frasi sull'antiatlantismo contiano sono solo l'antipasto.

Le due visioni si scontreranno e potrebbero nascere polarizzazioni con percorsi opposti. «L'Italia ha bisogno di un sistema politico che sappia mettersi in discussione per dar vita a una fase costituente e affrontare le riforme di cui il Paese ha bisogno. Il leaderismo ha fallito», dice Vincenzo Presutto. Per il senatore «il Movimento è morto, quello che sta nascendo è qualcosa di anacronistico».

Il round successivo potrebbe arrivare una settimana dopo proprio con la votazione sul limite dei due mandati. Al momento, secondo le indiscrezioni, l'ipotesi più probabile è che agli attivisti venga prospettata una possibilità di inserire eventuali deroghe per meriti. «Una lista di nomi ancora non c'è», assicurano nel partito.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 17 giugno 2022.  

Dice Di Maio che "il nostro elettorato è disorientato e non ben consapevole di quale sia la visione". E noi, per quel che vale, siamo totalmente d'accordo con lui. Basti pensare che c'è un ministro M5S che, mentre la base respira di sollievo per la vittoria di Conte al Tribunale di Napoli, si affretta a riaprirgli la guerra in casa e a regalare ai media il pretesto per parlare di nuovi casini interni, anziché di salario minimo e stop al riarmo.

Lo stesso ministro che disorienta gli elettori scattando come un misirizzi al solo annuncio del voto degl'iscritti sui 2 mandati dopo averli sempre difesi: "Dopo il secondo mandato lascio la politica. Da noi c'è una regola: dopo due mandati, a casa. Non solo per la corruzione, ma per la perdita di entusiasmo. Perciò ci votano: siamo persone serie" (6.2.2017);

"La regola dei due mandati non si tocca, né quest' anno né il prossimo né mai. È certo come l'alternanza delle stagioni e come il fatto che certi giornalisti continueranno a mentire scrivendo il contrario" (31.12.18); "I due mandati mai messi in discussione, ma si fa politica anche senza cariche" (21.11.19). 

Di Maio aggiunge che "i nostri elettori sono molto disorientati per l'ambiguità sulle alleanze internazionali". Sante parole: deve avercela con l'ex capo politico che nel 2019, da ministro e da vicepremier, abbracciava i Gilet gialli e ora si scappella ai piedi di Macron.

E come non condividere il disorientamento degli elettori per la minaccia contiana di dire basta alla cobelligeranza con invii di armi sempre più pesanti all'Ucraina "mettendo nella risoluzione, che impegna il premier in Consiglio Ue, frasi o contenuti che ci disallineano dalle nostre alleanze storiche", magari con la scusa dell'art. 11 della Costituzione?

Queste magliarate può farle solo quell'ex capo politico disallineato che il 15.4.18 condannò il raid missilistico di Usa, Uk e Francia contro la Siria: "Bene ha fatto Gentiloni a non partecipare all'attacco, bisogna continuare con la diplomazia. Per me il faro rimane l'articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra".

Da applausi poi le parole di Di Maio sull'assenza di un organo democratico del M5S per discutere la sconfitta alle Comunali. Ma, più che a Conte che di organi e comitati ne ha creati fin troppi, la polemica pare rivolta a quell'ex capo politico che, mentre il M5S crollava dal 33 al 17%, ne discuteva nella sede più democratica mai vista: lo specchio. 

È lo stesso che prima attaccava Draghi e ora lo idolatra. Che a gennaio ha sabotato la trattativa del suo leader per il Quirinale con Renzi e Guerini. E che, quando non è in pizzeria con Giorgetti, comizia con la signora Mastella. È una fortuna, per Di Maio, che quel capo politico si sia dimesso: sennò l'avrebbe già espulso da un pezzo.

La vergogna di Travaglio messa a nudo da Crosetto. Francesco Storace Il Tempo il 29 dicembre 2020

Merita davvero applausi Guido Crosetto. Per il suo tweet in cui svergogna Marco Travaglio che istiga Giuseppe Conte a fare incetta di parlamentari “dall’altra parte” pur di mandare al diavolo Matteo Renzi e continuare a stare a Palazzo Chigi a gestire potere.

Etica addio, potrebbe essere il titolo ideale di un articolo come quello che ha messo su Il Fatto Quotidiano. Crosetto non si è fatto sfuggire l’occasione di dire pane al pane e vino al vino e le ha cantate come si deve: “Travaglio auspica che Conte trovi 10 parlamentari dell’opposizione, in vendita. Chiaramente non pensa a gente come Razzi o Scilipoti che lui ha insultato per mesi. No, giammai! Quelli non aiutavano un suo protetto. Lui è tutto ciò che ha sempre criticato, solo più in grande”.

Ha fatto bene, Crosetto, perché dovrebbe esserci un limite a tutto. Il giornale campione della lotta alla vecchia politica si è trasformato peggio dei Cinque stelle – pari sono – e ora vorrebbe dare una ripassatina di campagna acquisti alla politica per salvare Conte. Ma non vi facevano schifo questi metodi, Travaglio? E poi, perché un quotidiano deve scrivere certe cose? La “politica” fagliela fare al clan di Palazzo Chigi, non ti mischiare ancora con loro.

M5S, Grillo si getta nella mischia. Tra Conte e Di Maio sacrifica il ministro: "La regola del secondo mandato non va toccata". Il Tempo il 17 giugno 2022

Alla fine anche Beppe Grillo si getta nella mischia della contesa tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. E pare scegliere il primo. Il garante del M5S interviene sul suo blog e parla della necessità di non rinunciare alla regola del secondo mandato. E Di Maio è proprio al secondo mandato, quindi stando alle regole del Movimento non potrebbe ricandidarsi alle prossime elezioni politiche.  "Negli Stati Uniti, per esempio - scrive Grillo - ci sono diverse regole che favoriscono il ricambio dei gestori nelle società quotate, da quelle sulle offerte pubbliche d’acquisto, a quelle sulla raccolta di deleghe, a quelle sul cosiddetto attivismo societario, e così via. Regole che favoriscono il ricambio dei gestori esistono, in teoria, anche nei sistemi politici democratici. Tuttavia in questi casi l’interesse dei cittadini è troppo parcellizzato rispetto allo sforzo necessario per sostituire i governanti, sicché accade che gli unici a farlo siano i cittadini il cui unico obiettivo è di sostituire sè stessi ai governanti di cui si chiede il ricambio, e non di tutelare meglio l’interesse dei cittadini".

Poi, dopo questa premessa, Grillo continua: "Per questa ragione appare sempre più opportuno estendere l’applicazione delle regole che pongono un limite alla durata dei mandati. Il dilemma può essere superato in altri modi, senza per questo privarsi di una regola la cui funzione è di prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo". Fonti parlamentari "contiane" vicine al garante M5S sottolineano come quest’ultimo passaggio di Grillo sia un riferimento al "sacrificio" di Di Maio per il doppio mandato. 

Dagospia 16.06.2022.

Matteo Macor e Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 16.06.2022.

La domanda a questo punto sorge spontanea: se non ci crede più neanche il creatore, fondatore e garante, perché dovrebbero farlo gli elettori? Sì, perché Beppe Grillo domenica scorsa non è andato a votare il Movimento 5 Stelle alle elezioni comunali. Nel seggio 617 di Genova, quello dove si recano i residenti della bella collina a ridosso del mare di Sant' Ilario, tra gli otto voti ai 5 Stelle (ovvero il 2,5 per cento delle preferenze in quella sezione) non c'era il suo. Il comico da giorni è fuori città e a confermarlo, più o meno direttamente, sono gli stessi portavoce locali del M5S.

Cinque anni fa Grillo si presentò fuori dall'istituto di agraria non molto distante dalla sua villa in scooter, assieme alla moglie Parvin Tadjk; plateale come sempre, entrò nella cabina elettorale col casco in testa. «Invito tutti ad andare a votare: è importante!», scrisse quel giorno sui social. Nel 2017 il comico fece un comizio davanti a Palazzo Ducale, ma soprattutto intervenì direttamente sulla competizione genovese quando d'imperio decise di annullare il voto online delle comunarie perché aveva vinto una candidata sindaca non di suo gradimento, Marika Cassimatis.

Un protagonismo anche eccessivo, con quel colpo di spugna che in un tratto solo cancellò tutte le ripromesse sulla democrazia diretta della rete. Ma comunque, nel frattempo è cambiato qualcosa, anzi parecchio. Come detto ne sono accorti gli stessi attivisti locali del Movimento: Grillo in campagna elettorale non s' è mai fatto vedere, neanche quando Giuseppe Conte e il presidente della Camera Roberto Fico, nella sua prima e vera uscita pubblica non istituzionale di questi mesi, sono venuti a Genova per tirare la volata alla lista.

Oggi il candidato scelto nel 2017 al posto della candidata sindaca nominata dalla base sul blog e destituita da Grillo, cioè Luca Pirondini, è rimasto l'unico reduce in Consiglio comunale, l'ultimo nella città del (fu) "elevato": «Beppe non ha votato? Il problema è un altro - taglia corto sul tema, senza smentire la notizia sul voto mancato del garante - Mai come ora ci serve con urgenza questa benedetta riorganizzazione sul territorio del Movimento, sennò saremo condannati a dire per sempre che le amministrative non sono il nostro terreno elettorale più adatto, e commentare sconfitte».

In alleanza con il Pd, nella tornata appena conclusa i 5 Stelle sostenevano la corsa di Ariel Dello Strologo, il candidato sindaco scelto in accordo con i dem per allargare e testare il fronte anche in vista delle Politiche del prossimo anno. È andata parecchio male: il sindaco uscente del centrodestra Marco Bucci ha vinto al primo turno, e il M5S ha racimolato il 4,4 per cento, sorpassato anche da Europa verde- Linea condivisa di Ferruccio Sansa (5,2 per cento).

Certamente almeno al momento del voto l'"uno vale uno" per davvero e quindi la preferenza di Grillo avrebbe cambiato di niente l'esito finale, ma in fondo Genova non è più la città culla del Movimento ormai da tempo. A raccontarlo, in questi anni, è stata anche la diaspora continua dei parlamentari di casa, passati - tra espulsioni e fuoriuscite, le ultime dopo la nascita del governo Draghi - da otto a tre. Come dimenticare l'addio di una delle preferite di Grillo, la ormai ex plenipotenziaria Alice Salvatore che fu candidata alla presidenza della Liguria nel 2015? Oppure quello di Paolo Putti, exploit alle Comunali del 2012, poi transitato nella sinistra radicale?

Così oggi la valenza della diserzione del fondatore, proprio in una tornata che certifica l'affossamento elettorale delle cinque stelle nelle varie salse, è tutta politico-simbolica. Nonostante l'accordo da 300 mila euro l'anno con il suo (?) M5S per veicolare attraverso beppegrillo. it materiali politici e di propaganda proprio del M5S, il fondatore pare freddo rispetto al cosiddetto nuovo corso. "Corea del Sud: sempre più aziende sostituiscono i lavoratori con i robot", è l'ultimo articolo pubblicato sul blog. Prima ancora, altri post su pannelli solari, fertilizzanti e «il controllo di dispositivi tramite segnali elettrici del cervello».

C’era una volta. Le baruffe chiozzotte tra Di Maio e Conte per quel che resta del Movimento (cioè nulla). Mario Lavia su L'Inkiesta il 17 Giugno 2022.

Dopo la batosta alle amministrative, il ministro degli Esteri si è svegliato e ha deciso di riprendersi la leadership dei grillini. L’avvocato teme una scissione e non può permettersi in questo momento di far cadere il governo.

Primo effetto delle amministrative: si apre ufficialmente la guerra civile nel Movimento 5 stelle, il partito-fantasma che si aggira nei meandri della politica come un vecchio Re abbandonato da tutti. Non sarà un caso che proprio nel giorno in cui il detestato successore a Palazzo Chigi, Mario Draghi, si conferma con il viaggio a Kiev più che mai un punto di riferimento fortissimo a livello mondiale, sulla testa di Giuseppe Conte, ormai non più punto di riferimento di nessuno, piombi la botta di Luigi Di Maio. 

Ha bruciato i tempi, il ministro degli Esteri, di cui si attendeva lo sgancio della bomba dopo i ballottaggi. Ma ha scelto di parlare subito, ora che la cenere è ancora calda nel braciere della disfatta di domenica scorsa, tagliando la strada all’avvocato così che egli non possa avere tempo di riprendere fiato (d’altronde la sentenza di Napoli che lo ha confermato presidente del Movimento non ha avuto alcun peso).

Il momento è adesso, almeno per un primo uppercut per farlo vacillare, il tempo per mandarlo al tappeto verrà. Giunge dunque a maturazione, nel senso che ormai è squadernato, il conflitto tra Di Maio e Conte, uno scontro che non nasce certo oggi ma che già era evidentissimo nei giorni del Quirinale quando il legale della provincia di Foggia ne aveva combinate più di Carlo in Francia, in tandem con Salvini, prima di essere sbattuto fuori dalle trattative grazie al consenso crescente per la conferma di Sergio Mattarella. 

«Bisognerà discutere…», aveva detto allora Di Maio, ma poi non se n’era fatto niente almeno pubblicamente pur essendo sempre stato chiaro a tutti che il punzecchiamento pacifista di Conte mirava a creare problemi alla linea pro-Ucraina del governo italiano. Ed è questo il punto politico sul quale avviene la rottura.

Di Maio non ne può più di un Conte antigovernativo. Meglio regolare subito i conti con il Mélenchon de’ noantri. E infatti è da mesi che il ministro degli Esteri attendeva passare sul fiume il cadavere di Giuseppi anche se forse nemmeno lui si attendeva una disfatta così clamorosa: «Non abbiamo mai brillato alle amministrative ma non siamo mai andati così male». 

L’altro punto dolente è questo: che nel Movimento c’è «troppa autoreferenzialità», cioè non c’è neppure «un posto in cui dire queste cose», il che è vero ma suona singolare che Di Maio si ricordi solo adesso di questa a-democraticità che è un aspetto intrinseco alla natura antipolitica e populista del M5s di cui lui stesso è stato per anni il numero uno. Forse a furia di frequentare le cancellerie di Paesi democratici effettivamente ha maturato un’idea diversa da quella che condivideva con Beppe Grillo e Alessandro Di Battista fatta di politica-spettacolo, insulti a mezzo mondo («Il partito di Bibbiano» è opera sua) e una pratica della democrazia interna a colpi di clic e di formazione di cordate di potere.

A ogni modo meglio tardi che mai, ma Conte su questo ha avuto gioco facile: «Che faccia lezioni democrazia interna fa sorridere». E lo ha invitato a una «audizione» in consiglio nazionale. È sdegnato, l’avvocato. Colpito duro.

Il succo dello scontro che suggerisce alcune interpretazioni.

La prima l’abbiamo accennata: si va verso una crisi irreversibile della leadership di Giuseppe Conte. Vedremo come reagirà l’avvocato, che teme una scissione dimaiana che non è impossibile, ma obiettivamente egli non ha molte frecce al suo arco: fare un suo Papeete non sembrerebbe facilmente spiegabile agli italiani in un momento in cui preme la crisi economica ma al tempo stesso l’Italia è guidata da un leader di caratura mondiale. 

È possibile che nei prossimi mesi Conte darà sempre maggiori segni di nervosismo ma dovrà combattere non solo contro Di Maio (e Beppe Grillo che nemmeno è andato a votare di fatto separandosi dall’avvocato nel momento del bisogno, quello del voto) ma contro un sentiment dell’opinione pubblica di quelli che non perdonano, cioè l’aleggiare dell’odore acre del fallito, il «cadavere che putre», come scriveva Dostojevskji.

La gente non perdona. Da un momento all’altro i contiani possono squagliarsi come dopo il 25 luglio. 

Una seconda considerazione è questa, persino ovvia: i leader antidraghiani per eccellenza, Conte e Salvini, sono ormai messi in discussione nei rispettivi partiti, ma anche nel Partito democratico c’è da notare che un forte sostenitore di Draghi come Enrico Letta si è rafforzato – e di converso i più insofferenti, quelli della sinistra, sono costretti a tacere e acconsentire – e persino nel minuscolo Articolo Uno i filo-contiani vicini a Pier Luigi Bersani hanno molto meno forza del più fedele al governo, cioè Roberto Speranza. 

È una fase molto complicata, insomma, ma nella quale il draghismo sembra prevalere un po’ in tutti i partiti (lasciamo ovviamente stare Fratelli d’Italia che vive in un mondo suo). È un’ipotesi, una lettura. 

Quello che è sicuro è che l’azzeccagarbugli di Volturara Appula, cioè il meno draghiano di tutti, è all’ultima spiaggia e forse si trascinerà appresso chi lo cantò come leader dei progressisti italiani, i quali fischiettano ma prima o poi qualcosa dovranno pur dirla, ora che insieme all’ex punto di riferimento dei progressisti anche l’alleanza strategica con lui è tramontata.

È "guerra civile" tra i Cinque stelle sugli armamenti da inviare a Kiev. Pasquale Napolitano il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Spunta una bozza della risoluzione "pacifista" che i 5s intendono portare al Senato martedì. Di Maio si infuria: "Così ci allontaniamo da Nato e Ue, odio contro di me". L'irritazione del Pd.

I contiani preparano l'offensiva finale contro Di Maio e Draghi. La trappola per far cascare il governo e liberarsi del ministro degli Esteri è nascosta nella risoluzione che i senatori grillini stanno scrivendo in vista del 21 giugno, quando il presidente del Consiglio Mario Draghi interverrà a Palazzo Madama e alla Camera, prima del vertice europeo sull'Ucraina del 23 e 24 giugno.

Da ieri circola una bozza del documento grillino, che basta per far esplodere la «guerra civile» in maggioranza e nel Movimento. Una mossa della coppia Casalino-Conte per mettere spalle al muro Di Maio e costringerlo allo strappo? Per la prima volta i Cinque stelle, partito di maggioranza relativa, mettono nero su bianco il no a un nuovo invio (il quarto) a Kiev: «Si impegna il governo a non procedere, stante l'attuale quadro bellico in atto, a ulteriori invii di armamenti che metterebbero a serio rischio una de-escalation del conflitto pregiudicandone una soluzione diplomatica».

Nella bozza della risoluzione, che sarà messa ai voti in Senato, i senatori 5s chiedono di insistere sull'azione diplomatica dopo tre invii di armi. La bozza scatena un terremoto politico. Il ministro degli Esteri Di Maio avverte: «Ho letto che c'è una parte dei senatori M5s che avrebbero proposto una bozza di testo della risoluzione che di fatto ci disallinea dall'alleanza Nato e dall'Ue. La Nato è un'alleanza difensiva e se ci disallineiamo dalla Nato mettiamo a repentaglio la sicurezza dell'Italia, non ce lo possiamo permettere». Per Di Maio «il presidente del Consiglio che deve andare a un tavolo europeo così importante deve avere il Paese dalla sua parte, deve avere la coalizione di maggioranza compatta dalla sua parte e aggiungerei anche l'opposizione».

L'ex capo dei Cinque stelle è certo: «Non possiamo fare cose che possono essere utilizzate dalla propaganda russa per dire che l'Italia sta più con la Russia che con la Nato. Ci sono molti parlamentari che non sono d'accordo con questa linea e io credo da ministro degli Esteri di dover difendere la collocazione geopolitica del nostro Paese».

E infatti l'ambasciatore russo a Roma Sergey Razov si infila nella polemica: «Non tutti in Italia d'accordo su invio armi a Kiev» gongola il diplomatico.

Al ministro degli Esteri, replica la contiana Alessandra Todde, viceministro allo Sviluppo economico: «Se stiamo per cacciare Di Maio? Parlando in una certa modalità credo si stia ponendo fuori dal movimento. Abbiamo organi interni in cui dibattere, il consiglio nazionale». I dimaiani affilano le armi. Laura Castelli, viceministro all'Economia, avvisa i colleghi di partito: «Non voto la risoluzione». Il capogruppo al Senato, Mariolina Castellone (vicina a Di Maio) prova a gettare acqua sul fuoco: «Stiamo lavorando a una risoluzione di maggioranza, sono in corso riunioni tra capigruppo, presidenti delle commissioni Politiche Ue di Camera e Senato con il sottosegretario Amendola sulla risoluzione di maggioranza. Il punto Ucraina sarà inserito lunedì. Ma non è quella la risoluzione a cui stiamo lavorando».

L'uscita dei senatori grillini, però, irrita anche il Pd. «Tutte le forze di maggioranza stanno lavorando per una risoluzione, in vista delle comunicazioni del Presidente Draghi, che abbia come principale obiettivo la costruzione di un percorso condiviso per il raggiungimento, attraverso lo sviluppo dell'azione diplomatica, del cessate il fuoco e del rilancio dei negoziati. Per questo qualsiasi fuga in avanti o iniziative parziali rischiano di complicare il lavoro» recita una nota fatta circolare da fonti Pd. La guerra civile durerà altre 48 ore. Poi si andrà in Aula.

Il post di Beppe Grillo. Un killer di nome “Terzo Mandato”: chi sono i big del Movimento 5 Stelle che sarebbero trombati dalla regola. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

“No al terzo mandato”, lo ha ribadito il garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo in un post messianico e articolato quanto chiaro mentre infuria la faida interna tra il leader politico Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il regolamento del M5S prevede ancora oggi che un parlamentare non possa essere eletto per più di due volte, un principio fondante del Movimento che Grillo argomenta come misura di prevenzione al “rischio di sclerosi del sistema di potere” o a una “deriva autoritaria”.

È nel pieno dello scontro Conte-Di Maio, scaturito dalla debacle storica alle amministrative, che esplode il caso in casa 5 Stelle. “Quando era leader Di Maio quello statuto prevedeva un solo organo, il capo politico. Che ora faccia lezioni di democrazia interna a questa comunità fa sorridere. Di Maio vuole fondare un nuovo partito? Ce lo dirà lui in queste ore. Siamo alla vigilia di un appuntamento importante con la valutazione sul doppio mandato. Quindi è un momento di fibrillazione preventivabile per le sorti di moltissime persone del movimento”, ha detto l’ex presidente del Consiglio piccato dalle parole del ministro degli Esteri. “Alle elezioni amministrative non siamo andati mai così male. Credo che M5S debba fare un grande sforzo nella direzione della democrazia interna: nel nuovo corso servirebbe più inclusività, anche a soggetti esterni. Lo dico a voi perché non esiste un altro posto dove poterlo dire”, erano state le parole di Di Maio

Non un bell’ambientino insomma. La regola del secondo mandato potrebbe essere il viatico a una fase tanto nuova quanto incerta del nuovo Movimento. Al momento sui 227 parlamentari pentastellati stanno completando il secondo mandato in 66. E tra questi ci sono anche diversi big del Movimento tra Montecitorio e Palazzo Madama. L’“avvocato del popolo” ed ex premier aveva provato a gestire la situazione pronosticando un voto online degli iscritti. Poi è arrivato il post inequivocabile dell’“Elevato” sul Blog.

“Alcuni obiettano – soprattutto fra i gestori che si arroccano nel potere – che un limite alla durata dei mandati non costituisca sempre l’opzione migliore, in quanto imporrebbe di cambiare i gestori anche quando sono in gamba: ‘cavallo che vince non si cambia’ sembrano invocare ebbri di retorica da ottimati. Ciò è ovviamente possibile, ma il dilemma può essere superato in altri modi, senza per questo privarsi di una regola la cui funzione è di prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo”.

A essere tagliati fuori dalle candidature sarebbero tra gli altri lo stesso Di Maio, il presidente della Camera Roberto Fico e la vicepresidente del Senato Paola Taverna. Sarebbe già così una strage di volti e nomi di primo livello del Movimento. Fuori anche i ministri Fabiana Dadone e Federico D’Incà, la viceministra dell’Economia Laura Castelli e altri protagonisti degli anni pentastellati Danilo Toninelli, il capogruppo alla Camera Davide Crippa, il sottosegretario Manlio Di Stefano, il probiviro Riccardo Fraccaro, l’ex capo reggente Vito Crimini, l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

Altri esclusi eccellenti sarebbero il deputato Sergio Battelli e il tesoriere Claudio Cominardi. La regola non riguarda chi dei due mandati ne ha fatto uno a livello locale. “Noi non stiamo guardando al 2050 ma è una forza politica che sta guardando indietro. Che senso ha cambiare la regola del secondo mandato? Io invito a votare gli iscritti secondo i principi fondamentali del Movimento perché questa è una forza che si sta radicalizzando all’indietro”, ha dichiarato Di Maio prima dell’affondo: “Mi sono permesso semplicemente di porre dei temi per aprire un dibattito su questioni come la Nato, la guerra in Ucraina, la transizione ecologica e ho ricevuto insulti personali come quello che ho visto sui giornali stamattina. Temo che M5s rischi di diventare la forza politica dell’odio, una forza politica che nello statuto ha il rispetto della persona”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Emanuele Buzzi per corriere.it il 29 giugno 2022.

Paola Taverna contro Beppe Grillo. la vicepresidente vicaria dei Cinque Stelle attacca duramente il garante: «Perché stai delegittimando il nostro capo politico? Il Movimento non è di tua proprietà, il Movimento lo abbiamo costruito tutti insieme mettendoci tempo, fatica, denaro». «Succedono cose inverosimili», scrive su Facebook Taverna. «Succedono cose inimmaginabili e spesso senza un perché». «Perché sta succedendo questo Beppe?», domanda Taverna che posta l’immagine dell’intervista di De Masi al fatto, intitolata « Draghi chiede a Grillo di far fuori Conte».

Dopo pochi minuti, mentre l’intervento inizia a giare tra gli stellati, il post viene rimosso. «Ho allontanato chi ha pubblicato per errore sulla mia pagina una sua personale opinione che non rispecchia assolutamente il mio pensiero». «Ho chiamato Conte, ora sentirò Beppe, ma sono disperata - si sfoga in lacrime con l’Adnkronos - mai avrei fatto o pensato nulla di simile, perché, mi chiedo, perché è successe questa cosa?». Sono giornate molto convulse con il garante ancora a Roma per decidere su eventuali deroghe al tetto dei due mandati.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 30 luglio 2022.

Un po' istrione, un po' guastatore. Beppe Grillo nelle sue giornate romane si è ripreso la scena e lo ha fatto a modo suo. Ha detto tutto e il contrario di tutto disorientando eletti e vertici Cinque Stelle. «Il Movimento non esce dall'esecutivo». «Valutiamo l'appoggio esterno». 

«Il limite dei due mandati è un totem? Sì, certo». Eppure: «Si potrebbe pensare a qualche eccezione, ma vediamo ora i dettagli con Giuseppe». L'ex premier è anche il bersaglio di battute pubbliche: «Avevo un progetto» sulle tecnologie digitali, «l'ho dato anche a Conte, ma darlo a Conte è come buttarlo dalla finestra».

E di sfoghi privati, come quello raccontato da Domenico De Masi. «Secondo Grillo, Draghi gli ha chiesto di rimuoverlo dal M5S, perché inadeguato», racconta il sociologo al Fatto parlando di Conte. 

Proprio questo episodio però diventa il caso incendiario del giorno. E Grillo ancora una volta spiazza i cronisti: «Storielle». Ma in realtà il caso lascia il segno. «Ogni volta vengo strumentalizzato e raccontano ca...ate su di me e su Draghi...». Le parole raccolte dall'Adnkronos e il fatto che il leader abbia scelto di far saltare la riunione con i ministri M5S hanno l'effetto di riaccendere il dibattito interno. E innescare congetture.

«Beppe è una furia. Per tutto», dicono gli stellati. «Ora farà sentire il suo dissenso ogni volta che potrà: è stato un errore cercare di metterlo all'angolo». «Ma no, è solo stanco», controbattono esponenti contiani commentando gli impegni disdetti all'ultimo dallo showman. E anche fonti vicine al garante ribadiscono: «Ha avuto giornate pesanti». 

Sta di fatto che il garante riesce nel giro di 72 ore a destabilizzare qualsiasi certezza e a trascinare anche Conte in uno show dove solo lui è mattatore. «Ci sta triturando e noi siamo qui ad applaudirlo come pagliacci», masticano amaro alcuni Cinque Stelle al secondo mandato. 

«Conte e Grillo sono inconciliabili: che ne prendano atto», dicono ai piani alti del Movimento. Insomma, l'uragano Grillo, anche se velato di amarezza riesce comunque a scombinare i piani.

E così l'unica certezza è che salta la candidatura alle primarie in Sicilia di Giancarlo Cancelleri: uno stellato che Grillo lanciava dieci anni fa sul palcoscenico della politica attraversando a nuoto lo Stretto, uno stellato che nel 2021 si è schierato al fianco di Conte proprio contro il garante. 

Lo stop a Cancelleri - che ieri ha annunciato il suo passo indietro alla candidatura dopo che Skyvote ha reso noto che era impossibile procedere a una votazione entro i tempi richiesti - potrebbe dare il la a nuovi addii nei prossimi giorni. Ma l'Elevato, come si fa chiamare, è irremovibile.

Grillo non accetta di metterci la faccia sulle deroghe. La partita per ora è sospesa, ma molto probabilmente sarà il presidente M5S a doverci mettere la faccia, salvando i big storici «in nome delle competenze». 

Conte ieri in serata ha poi fatto il punto al Quirinale con il capo dello Stato sull'affaire De Masi. Il colloquio con Sergio Mattarella è durato un'ora. Scossoni in vista per il governo al momento non ce ne sono, ma tra gli stellati c'è chi sottolinea come «luglio sia un mese complicato» e come «le situazioni possano evolversi in fretta, anche nel giro di poche settimane».

E suona come un campanello d'allarme il fatto che sia stato bocciato ieri l'emendamento del Movimento al dl Aiuti che puntava a bloccare la realizzazione dell'annunciato termovalorizzatore a Roma. 

La proposta è stata respinta dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, con 22 voti favorevoli e 14 contrari. Se sul decreto ci sarà la fiducia, potrebbe aprirsi uno squarcio nell'esecutivo. Sempre che Grillo istrione-guastatore lo permetta. Non a caso la questione del termovalorizzatore è stata una delle prime affrontate dal garante nel corso della sua trasferta romana. «Non esco dal governo per un c... di inceneritore», ha detto Grillo. Un avvertimento, forse, o il preludio del prossimo show. 

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 30 luglio 2022.

Mario Draghi che chiama Beppe Grillo e gli chiede di fare fuori Giuseppe Conte. Un velenoso retroscena, smentito da Palazzo Chigi, rende ancora più scomoda la posizione del Movimento 5 stelle nella maggioranza di governo. Un caso che scoppia proprio mentre il fondatore si aggira per i palazzi romani, provando a mettere ordine dopo l'addio di Di Maio e lo scontro sulla regola dei due mandati. Il presunto intervento del premier per sollecitare la rimozione di Conte viene rivelato da un articolo de La Stampa a firma di Federico Capurso e ribadito da un'intervista radiofonica al sociologo Domenico De Masi a Un giorno da pecora. 

Uscendo dal Senato, dopo l'ennesima riunione, il comico cade dalle nuvole: «Ma cos' è questa storia, ma cosa state dicendo...», replica ai giornalisti che gli chiedono spiegazioni.

Con i suoi collaboratori, invece, si sarebbe sfogato, perché «ogni volta vengo strumentalizzato e raccontano cazz... su di me e su Draghi». Ma ormai il sospetto è instillato e per Conte, che fin dall'inizio ha avuto con il suo successore un rapporto complicato, è un sospetto più che fondato. Tanto che, subito dopo aver letto le dichiarazioni di De Masi, il presidente Cinque stelle si dice «sconcertato», perché è «grave che un premier tecnico, che ha avuto da noi investitura, si intrometta nella vita di forze politiche che peraltro lo sostengono».

E poi precisa che «Grillo mi aveva riferito di queste telefonate, vorrei chiarire che siamo una comunità, lavoriamo insieme». Comunque il governo non rischia contraccolpi, assicura Conte, che in serata va al Quirinale, per un colloquio di un'ora con il presidente Mattarella: «Il nostro atteggiamento non cambia neppure di fronte a episodi così gravi - dice - Perché il nostro obiettivo non è sostenere Draghi, ma tutelare gli interessi degli italiani». 

Parole rimbalzate in tempo reale a Madrid, dove il presidente del Consiglio è impegnato nel vertice Nato. E cerca di spegnere sul nascere le polemiche: «Ci siamo parlati con Conte, abbiamo cominciato a chiarirci, ci risentiamo domani (oggi, ndr) per vederci al più presto. Il governo non rischia», taglia corto. «Non mi pare ci sia stata una smentita», fa notare il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, capo delegazione M5s al governo.

Poi in serata, da Palazzo Chigi arriva la precisazione: «Il presidente del Consiglio non ha mai detto o chiesto a Beppe Grillo di rimuovere Giuseppe Conte dal M5s». Ma l'episodio è destinato ad avere strascichi pesanti e fa passare in secondo piano il caso interno scoppiato in mattinata, per un post su Facebook di Paola Taverna, poi cancellato e rinnegato dalla vicepresidente del Senato. «Beppe, perché stai delegittimando il nostro capo politico? Il Movimento non è di tua proprietà, il Movimento lo abbiamo costruito tutti insieme - si leggeva nel testo - Questa volta ci devi dare delle spiegazioni valide. Noi siamo con Giuseppe Conte».

Poi Taverna si è disperata, dando la colpa a «uno dei miei assistenti, che ha pubblicato per errore». E precisando che «il post ovviamente non rispecchia in alcun modo le mie opinioni: sto dando la vita per il M5S, mai lo danneggerei con un affondo simile». Peraltro, un affondo anch' esso verosimile, visto che molte fonti Cinque stelle hanno raccontato di una Taverna inferocita con Grillo per il suo balletto sulle deroghe al tetto dei due mandati, su cui aveva aperto, salvo poi fare marcia indietro, gelando le speranze della senatrice di restare in Parlamento. Un muro che ha fermato anche le ambizioni di Giancarlo Cancelleri, che con due mandati da consigliere regionale alle spalle avrebbe voluto partecipare alle primarie del campo progressista per le elezioni d'autunno in Sicilia. «Per il bene del Movimento sono pronto a fare un passo indietro», fa sapere, anticipando la decisione di rinunciare.

Federico Capurso per “la Stampa” il 30 luglio 2022.

Giuseppe Conte, intorno alle 7 di sera, prende la strada che porta al Quirinale. Ha chiesto un incontro con il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per riportare al Capo dello Stato «la gravità» delle parole di Mario Draghi, che in alcune telefonate con Beppe Grillo avrebbe chiesto al fondatore dei Cinque stelle - come rivelato ieri anche da La Stampa - di scaricare l'ex premier e di appoggiare invece il progetto di Luigi Di Maio. Il leader del Movimento aveva sentito Mattarella già i giorni scorsi, dopo la scissione, e avevano concordato un confronto, senza però fissare una data.

Poi ieri, dopo le notizie apparse sui giornali, la necessità di un faccia a faccia si è fatta impellente. Durante il colloquio di un'ora e mezza con il Capo dello Stato, Conte ha comunque assicurato che non ci saranno reazioni di pancia: «Continueremo a sostenere il governo». 

L'intromissione del premier nella vita interna del Movimento, per il leader grillino, non è qualcosa che può passare in silenzio. Mentre è al Quirinale, da Palazzo Chigi e da Grillo partono due smentite, quasi in simultanea, «mai chiesto di abbandonare Conte», ma sono passate ormai dodici ore dalla deflagrazione del caso Grillo-Draghi. Troppo tardi per spegnere l'incendio.

La strada dei Cinque stelle per uscire dal governo nei prossimi mesi, tra fine luglio e inizio settembre, garantendo solo un appoggio esterno, adesso è in discesa. Le spinte interne al partito sono fortissime. Conte resiste, ma «come possiamo fidarci ancora del premier?», è la domanda che rimbomba da ieri nel suo studio. Anche con Grillo, però, si è aperto un problema di fiducia. Non c'è nulla al mondo, infatti, che faccia infuriare il Garante del Movimento come una fuga di notizie. 

Martedì aveva rivelato a Conte il contenuto delle telefonate con Draghi. Lo aveva confidato a lui, a due big del Movimento e al sociologo Domenico De Masi, ma non ne aveva messo a conoscenza anche i parlamentari. «La notizia è trapelata, succede», alzano le braccia dal Movimento. «È stata usata contro di me», sbotta invece Grillo che ieri mattina, dopo aver aperto i giornali, ha chiamato l'ex premier furibondo: «Sono stato strumentalizzato».

Il sospetto del Garante è che la storia delle sue telefonate con Draghi sia stata veicolata proprio dai vertici del Movimento per delegittimarlo agli occhi delle truppe parlamentari. 

Chi è vicino al fondatore ne è quasi certo: «Si è voluta dare l'impressione che Beppe stesse facendo il doppio gioco, dicendosi vicino a Conte e trattando dietro le quinte con Draghi. L'ha presa molto male». Molto male è un eufemismo. Ma perché ai piani alti del partito vorrebbero screditare Grillo? I motivi vengono elencati con facilità da chi ha sentito il Garante: perché non vuole modificare la regola dei due mandati (che Conte ha invece promesso ai suoi fedelissimi); perché preme per restare al governo mentre la maggioranza dei parlamentari chiede di uscire e, soprattutto, dopo il suo arrivo a Roma ha di fatto commissariato il leader, riprendendo in mano le redini del partito e togliendo di colpo a tutti i pretoriani contiani il loro piccolo pezzo di potere interno.

Conte è costretto a convocare un punto stampa sotto la sede del partito: «Grillo mi aveva parlato delle telefonate di Draghi», assicura ai cronisti. Un tentativo in corner di scacciare l'immagine del fondatore intento a tenere i piedi in due staffe, ma non è abbastanza. Una volta terminato il giro di incontri programmato in mattinata con i senatori, Grillo fa saltare la riunione con i membri M5s del governo e l'appuntamento fissato con Conte per prendere una decisione su eventuali modifiche alla regola dei due mandati: «Parto, me ne vado. Cavatevela da soli». E il limite del doppio mandato «è un nostro totem».

Di un voto online per modificarlo, dunque, non se ne parla. Panico nella sede del partito. «Decide il presidente, non il Garante», protestano i fedelissimi di Conte. Si cerca disperatamente di far trapelare la notizia che l'incontro con Grillo sarebbe saltato perché era «stanco», qualcuno parla di «un malore dovuto al caldo». Lui, il malato, esce dal taxi in splendida forma, sale in hotel e un'ora dopo, valigia in mano, riprende la strada verso casa. Senza guardarsi indietro.

Tommaso Labate per corriere.it l'1 luglio 2022.

Racconta nelle ultime ore un ministro dei suoi vecchi governi, che gli è rimasto affezionato e con cui si sente spesso, che «il problema di Conte non è Draghi ma Grillo». Racconta che «Draghi è finito in mezzo» a una faida politica tra omonimi, Giuseppe contro Beppe e viceversa; che «se Grillo avesse dato il via libera al terzo mandato dei parlamentari, le nuove tensioni tra il M5S e il governo sarebbero riesplose semmai dopo l’estate»; insomma, che «tenere sulla corda il presidente del Consiglio e l’esecutivo, a cui Grillo tiene tantissimo, è l’ultima strada per provare ad avere finalmente mani libere da capo politico».

Che abbia tutte le ragioni del mondo, come sostengono gli amici, oppure che non ne abbia neanche mezza, come ripete la pletora di nemici, il Giuseppe Conte delle ultime settimane abbandona la strada di quel «governismo dolce» quasi oltre i limiti del buonismo, che ne aveva accresciuto gli indici di popolarità prima, durante e anche dopo l’esperienza di Palazzo Chigi; e veste i panni del barricadero socio di una maggioranza di governo che passa il tempo a tenere l’esecutivo sul filo del rasoio, minacciando dietro le quinte l’appoggio esterno salvo poi smentirlo (ieri), ventilando voti contrari che all’ultimo minuto diventano a favore (nell’ultima risoluzione sull’Ucraina), appiccando politicamente incendi che forse si spengono e forse no, di certo lasciano cenere e macerie.

Del cinquantenne bonario autoproclamatosi «avvocato del popolo italiano», di quel «Giuseppi» che evocava tenerezza anche se evocato da una personalità come Donald Trump, del compagnone che davanti a una birra raccontava l’Italia a un’Angela Merkel che lo ascoltava assorta, del presidente del Consiglio che annunciava i lockdown accarezzando con le parole i titolari dei «negozi di prossimità» e promettendo loro «i ristori che arriveranno», di tutto questo resta adesso poco o nulla. 

Avvicinatosi più per vocazione umana che per professione di fede politica a uno stile che faceva gridare all’avvento del messia di una nuova Democrazia cristiana — con ex dc devoti come Gianfranco Rotondi e Bruno Tabacci che sognavano di costruire attorno a lui uno Scudo crociato nuovo di zecca — Conte è diventato una specie di Mr.Hyde di se stesso, con movenze stilistiche che ricordano tanto il Matteo Salvini che si avvicinava pericolosamente al Papeete e poco, pochissimo, il morigerato uomo di fede che di fronte alle insistenze di Bruno Vespa («Vogliamo vederla questa immagine?», «Andiamo proprio sul personale, allora?») tirava fuori dal taschino della giacca l’immaginetta di Padre Pio, perché «io ho una via personale religiosa e quindi prego anche, e penso spesso a Padre Pio».

Quella strana sintesi tra l’ultra-cristiano dovere di porgere l’altra guancia e l’ultra-laico approccio da chi il pugno di ferro lo riveste saggiamente con un guanto di velluto, un mix che era stato la sua fortuna, cede terreno al rancore che l’ex presidente del Consiglio ha riversato pubblicamente su Draghi, a quello «sconcerto per le parole che ha rivolto contro di me» nella vicenda della presunta richiesta del presidente del Consiglio a Grillo di togliergli i galloni di capo politico del M5S. 

 La circostanza è stata smentita da Palazzo Chigi e da Beppe Grillo, confermata dal sociologo Domenico De Masi al Fatto quotidiano e da Conte stesso ma, vera o falsa che sia la storia, il punto è forse un altro: l’uomo che a ragione o a torto era stato baciato da un gradimento che evocava cose grandi ed epocali come «pandemia» ma anche «vaccini», «sacrifici» ma anche «ristori», «chiusure» ma anche «riaperture di massa», adesso rischia di diventare una maschera che rimanda a questioni piccole come possono esserlo terzi mandati di parlamentari e consiglieri regionali, deroghe a statuti, cavilli, regolamenti, governi sostenuti a metà, appoggi esterni. 

È l’universale che si fa particolare, il senso di una storia grande che si fa cronaca piccolissima, in fondo l’opposto del Conte che sceglieva la piccola storia dei migranti tenuti a Malta nel gennaio del 2019 e che rispondeva a Salvini, suo ministro dell’Interno, con una grande lezione di umanità: «Se lui tiene i porti chiusi, vorrà dire che andrò a prenderli io con l’aereo». 

Non tornerà a essere «il punto di riferimento dei progressisti», com’era stato salutato anche nel Pd, e forse rischia una fine politica da Totò Schillaci nei Mondiali di calcio del ’90, eroe indiscusso di una grande partita finita male. Nel suo presente c’è lo strano destino del personaggio tormentato della vecchia canzone di Tonino Carotone, «vita intensa / felicità a momenti /e futuro incerto». Domani chissà. 

Beppe Grillo tradito dai suoi "miracolati". Il M5S consuma l'ultimo parricidio. Carlantonio Solimene su Il Tempo l'01 luglio 2022

E poi viene il giorno in cui cominci a sentirti un estraneo in casa tua. E non importa se quelle mura le hai edificate tu. Conta solo che i tempi sono cambiati e non sei riuscito a stare al passo. Sei solo una presenza ingombrante e fastidiosa. Come quei nonni che parlano, parlano, ma nessuno più li ascolta. Ognuno, ormai, fa di testa sua.

Dev’essersi sentito così Beppe Grillo al termine della sua paradossale, confusa e inconcludente tre giorni romana. Era arrivato per riportare ordine nel Movimento, se ne è ripartito con la consapevolezza che la sua moral suasion non sortisce più alcun effetto. Peggio: nella sua creatura politica il sentimento più diffuso è l’insofferenza nei confronti del fondatore. Perché dopo le giravolte, l’attaccamento alla poltrona, le faide e le scissioni, il Movimento 5 stelle ha introiettato anche il vizio peggiore della politica tradizionale: l’ingratitudine.

Il post comparso sui social di Paola Taverna (e addebitato a un «errore di un collaboratore»...) ha rappresentato un flash di verità: «Il Movimento non è tuo, Beppe. Noi siamo tutti con Conte». I fatti hanno confermato con crudezza quelle parole. A partire dal «complottone» ordito ai danni del fondatore: le sue frasi usate da De Masi in un’intervista al Fatto per mostrare plasticamente ai militanti chi fosse il vero responsabile delle umiliazioni subìte da Draghi e per riportare Conte al centro della scena.

Così Grillo, dopo essersi sentito tradito da chi credeva amico (lo stesso De Masi, il direttore del Fatto Travaglio) e dai suoi «miracolati», furiosi per la conferma del tetto dei due mandati, ha abbandonato il campo. Ha rinunciato alla riunione con i membri pentastellati del governo e ha tolto il disturbo. Ferito anche nell’orgoglio: all’incontro con i senatori ad attenderlo nell’anticamera c’era il solo Cioffi. Gli altri erano distratti o in ritardo. Che differenza con i «bei tempi», quando c’era la fila per un selfie o solo per una battuta. Anche perché, va detto, pure del repertorio comico non è che sia rimasto un granché. Le solite stilettate ai giornalisti, sempre più stanche e ripetitive, qualche guizzo isolato («Conte se ne va con Di Maio»), altre uscite che hanno strappato giusto risate di circostanza («scusate, squilla il telefono, è Draghi»).

La stessa diatriba sul doppio mandato è significativa. Lo strumento che, ufficialmente, dovrebbe servire a evitare che nascano dei professionisti della politica più attenti a quello che avviene nel Palazzo che nella società, aveva nelle intenzioni del fondatore soprattutto un’altra funzione: quella di evitare che si affermassero nuove leadership in grado di fare concorrenza alla sua. Ora, però, nessuno più condivide la regola. E tutti contestano il potere di Grillo di decidere vita e morte di intere carriere istituzionali.

È lo stesso motivo, peraltro, che causò lo scontro con Conte un anno fa. L’avvocato aveva varato uno statuto in cui a Grillo restava sostanzialmente la funzione di soprammobile. Il comico andò su tutte le furie e strappò qualche potere in più. Oggi quella struttura che creava una sorta di «diarchia» sta dimostrando tutta la sua inadeguatezza. Conte si sente imbrigliato in un meccanismo che non gli consente di condurre l’azione politica come vorrebbe. Non può mollare il governo e non può garantire ai fedelissimi la rielezione per il terzo mandato. Il gioco ha retto fino a quando l’ex premier non vantava neanche il controllo dei gruppi parlamentari. Ora che Di Maio ha levato le tende e i superstiti sono al 90% dei contiani di ferro, tutto è cambiato. Conte reclama un potere a 360 gradi e il gruppo parlamentare si fida molto più di lui che di Grillo. Il fondatore, preso atto della situazione, deve decidere come concludere la sua avventura politica. Se accontentarsi del contratto di comunicazione siglato col Movimento o provare a far saltare il banco e giocarsi l’ultima carta rimasta nel mazzo, il barricadero Di Battista. Un tempo sarebbe bastato un suo schiocco di dita per cambiare tutto. Ora gli tocca trattare senza truppe. Sic transit gloria mundi.

Estratto dell’articolo di Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 2 luglio 2022.  

[…] Nel M5s c'è anche chi sostiene che il post di Grillo contro i traditori pubblicato ieri pomeriggio sul Blog sia un messaggio rivolto a Conte, De Masi e Marco Travaglio, più che al ministro degli Esteri scissionista. «Su Di Maio non avrebbe reagito così a scoppio ritardato, su quello ha già commentato», dicono da un Movimento in ebollizione. Resta il fatto che nessuno, né Grillo né Draghi, abbia mai smentito che ci siano state delle telefonate. Mentre, per quanto riguarda i messaggini, il presidente del Consiglio ha sfidato Conte: «Se ha le prove vediamole». […]

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 2 luglio 2022.  

La pace tra Mario Draghi e Giuseppe Conte appare lontana. I due si vedranno lunedì pomeriggio a palazzo Chigi, un incontro che forse servirà a chiudere il caso delle presunte intromissioni del premier nella vita del M5S […]. Ieri si sono sentiti brevemente al telefono e hanno convenuto che si incontreranno di persona.

A sera Conte è tornato però a punzecchiare il presidente del Consiglio. «Draghi deve essere conseguente se davvero per lui l'M5S è importante». E poi ha reso pubblici i sospetti, che circolano nel Movimento, su una regia dell'ex banchiere nell'abbandono di Luigi Di Maio: «Una scissione così non si coltiva in poche ore. Da un po' c'era un'agenda personale al di fuori della linea politica del Movimento. È stato Draghi a suggerirlo? Ne parlerò con lui lunedì». Bum!

[…] I grillini continuano a dire che esistono anche dei messaggi scritti tra Grillo e Draghi: la riprova che non intendono far chiudere mediaticamente il caso. Del resto le parole del premier in conferenza stampa giovedì («non governo senza l'M5S»), non hanno placato gli animi, anche perché sono state lette come un aut aut più che come una mano tesa.

Ed è dell'altra notte un altro fatto che rischia di gettare benzina sul fuoco: alla Camera è passato un emendamento presentato dal centrodestra al Dl Aiuti che pone una stretta al reddito di cittadinanza. Ora bastano due no ad un'offerta congrua a chiamata diretta da un datore di lavoro privato per far perdere il beneficio. 

[…] Conte e Draghi sono troppo diversi. Conte reputa Draghi uno che gli ha portato via il posto. Il feuilleton riserverà altre puntate. Anche perché la pattuglia parlamentare grillina preme per uscire dalla maggioranza. «L'intromissione è una sgrammaticatura», insistono. […]

Da repubblica.it il 2 luglio 2022.

Da una parte la "fenomenologia del traditore", un testo senza riferimenti diretti ma che, dalle colonne del blog di Grillo, attacca gli scissionisti M5S. Dall'altra Luigi Di Maio, il protagonista dello strappo che ha decimato il gruppo grillino in Parlamento, che tuona contro i "picconatori del governo che indeboliscono il Paese". Non si placa la polemica tra i 5 Stelle e i suoi ex parlamentari che fa traballare la tenuta dell'esecutivo Draghi. 

Inizia Grillo, con un post non a sua firma in cui si parla di un "traditore", senza citare Luigi Di Maio. Eppure il testo apparso sul blog di Beppe Grillo sembra indubbiamente un attacco diretto al ministro degli Esteri dopo la scissione dai 5S che lo ha portato all'addio al partito di Conte.

Proprio oggi il presidente del Movimento ha avuto un colloquio telefonico con il premier Draghi dopo i dissidi degli ultimi giorni. "Questo nostro è forse il tempo in cui tradire non lascia traccia nell'animo del traditore che con ogni probabilità non si sente neanche tale", si legge nell'intervento del professor Pasquale Almirante sulla "fenomenologia del tradimento e del traditore" pubblicato sul blog di Grillo. "Talvolta il traditore - prosegue - può perfino tendere a sentirsi un eroe, ma agli occhi solo di qualche suo compare Jago, giammai nell'animo di chi ha fatto della lealtà e della schiettezza la sua bandiera e la sua ragione di vita".

L'articolo, che come si evince dal link originale è un testo pubblicato due anni fa sul sito "Tecnica della scuola", passa in rassegna personaggi simbolo del tradimento, da quelli collocati da Dante nel IX cerchio dell'Inferno, ai "traditori seriali" come Uriah Heep nel David Copperfield di Dickens. 

"In ogni caso i traditori più tradimentosi - si sottolinea nel post - sono quelli depositati nella Giudecca infernale, coloro che hanno violato il sacro principio di bene dovuto ai benefattori e che sono i più vicini a Lucifero che è poi il prototipo di colui ha ingannato la persona a cui è stata affidata la massima fiducia. Come fece Bruto o Efialte di Trachis che tradì gli Spartani in guerra. E come tradirono il buon Dantes, nel Conte di Montecristo, Fernando, Danglars e Cauderousse".

Nel pomeriggio è lo stesso ministro degli Esteri a definire "surreale" il dibattito che "c'è stato rispetto a presunti e non verificati scambi di messaggi nel mezzo di un vertice storico della Nato". "È surreale - aggiunge Di Maio - che ci siano forze politiche che passino il tempo a parlare di se stesse anche nei giorni in cui il governo, al massimo livello, sedeva a un tavolo importantissimo". Poi un attacco diretto contro chi, quotidianamente in questa fase tiene sulla corda l'esecutivo Draghi, dunque non solo M5S ma anche Lega: 

"In un momento così difficile per l'Italia non si può proseguire a picconare il governo", sottolinea il fondatore di Insieme per il Futuro (Ipf), incontrando i giornalisti. "In questo momento servono serietà e stabilità al Paese. Chi fa propaganda parla di pace la mattina e poi la sera trama per crisi di governo. Dobbiamo andare avanti e occuparci dei problemi seri. Faccio un appello a quelle forze politiche che hanno messo al centro della loro azione la loro crisi di voti: non si possono seguire i sondaggi o il calo di consensi in questo momento". 

Grillo e i traditori? "Si riferiva a Conte e Travaglio", cosa spunta nella chat 5s. Libero Quotidiano il 02 luglio 2022

Nelle chat del Movimento 5 stelle non sono pochi a sostenere che il post di Beppe Grillo contro i "traditori" in realtà non sia rivolto a Luigi Di Maio - sul quale l'Elevato si è espresso a suo tempo - ma a Giuseppe Conte e a Marco Travaglio. Insomma, si tratterebbe di una sorta di messaggio al leader del M5s, al direttore del Fatto quotidiano e anche a Domenico De Masi, il quale, proprio sul quotidiano di Travaglio aveva parlato della telefonata tra Draghi e Grillo in cui il premier avrebbe chiesto la testa di Conte. "Su Di Maio non avrebbe reagito così a scoppio ritardato, su quello ha già commentato", dicono al Giornale alcune fonti grilline. Nessuno dei diretti interessati ha smentito la telefonata ma sui messaggini, il presidente del Consiglio ha sfidato Conte: "Se ha le prove vediamole". 

Tant'è. Ieri primo luglio Beppe Grillo scrive sul suo blog un post intitolato appunto "Fenomenologia del traditore e del tradimento". Dopo aver passato in rassegna alcuni traditori storici e letterari, da Giuda a Jago a Uriah Heep, l'Elevato, nell'ultimo capoverso, dedicato ai nostri giorni, si chiede: "Ma perché ci siamo intrattenuti nel tradimento e nel traditore? Perché questo nostro è forse il tempo in cui tradire non lascia traccia nell'animo del traditore che con ogni probabilità non si sente neanche tale. Talvolta può perfino tendere a sentirsi un eroe, ma agli occhi solo di qualche suo compare Jago, giammai nell'animo di chi ha fatto della lealtà e della schiettezza la sua bandiera e la sua ragione di vita". 

M5S e il post di Grillo sul "traditore". De Masi: "Non sono io, ho solo rivelato cose che già si sapevano". La Repubblica il 2 Luglio 2022.  

Il sociologo nei giorni scorsi ha rilasciato un'intervista in cui ha fatto sapere che il fondatore del Movimento gli aveva detto che Draghi voleva la rimozione di Conte.

"Non ho svelato nulla di segreto, non sono un pettegolo e non faccio politica. Non ho tradito Grillo". Dice di non sentirsi colpito dalle parole del fondatore del Movimento il sociologo Domenico De Masi ma, sentito al telefono dall'Adnkronos, commenta, quasi per difendersi, il post apparso ieri sul blog di Beppe Grillo contro "il traditore che si sente un eroe". In molti hanno pensato che le parole del Garante dei 5S fossero in realtà rivolte a Luigi Di Maio, responsabile della scissione dopo l'addio ai pentastellati. De Masi risponde a chi ipotizza che il post fosse contro di lui, dopo le rivelazioni dei giorni scorsi secondo cui Grillo gli avrebbe detto che Draghi aveva chiesto la rimozione di Conte dalla presidenza del Movimento. "Il post di Grillo - spiega De Masi - parla di persone a cui è stato dato molto e che hanno tradito. Sicuramente tra queste non ci sono io, perché non ho ricevuto nulla e non ho mai tradito. Credo si riferisse a Di Maio".

"Se volessi potrei dire chissà quante cose, ma non lo faccio - aggiunge - La riservatezza è un elemento fondamentale tra galantuomini. Non avrei mai fatto quell'intervista al Fatto Quotidiano se Grillo non avesse già detto tutto ai deputati e ai senatori. Inoltre sottolineo che Conte ha dichiarato che Grillo aveva parlato delle pressioni di Draghi anche a lui. Grillo lo ha detto a Conte e a vari parlamentari, ben prima che uscisse la mia intervista". 

Commentando il rapporto con Grillo, De Masi sottolinea: "Ho sempre avuto legame positivo con lui, se quanto successo incrina l'amicizia beh... pazienza". E rispetto alle parole di Draghi che ha negato di aver fatto pressioni sul fondatore del Movimento per chiedere la rimozione di Conte, il sociologo osserva: "Se è una bugia, è una bugia che Grillo ha detto a me, ai deputati e a Conte".

Mattia Feltri per “La Stampa” il 2 luglio 2022.

Audace tentativo di ricapitolazione con domanda finale. In una conversazione con Beppe Grillo, di cui conosce la riservatezza ai confini dell'omertà, pare che Mario Draghi abbia caldeggiato la rimozione di Giuseppe Conte. Pare, perché Draghi nega. 

Grillo è nuovamente riparato nel tradizionale mutismo, tranne la diffusione di note dantesche su traditori e tradimenti, ma a confermare sono lo stesso Conte e una settantina di parlamentari e amici dei cinque stelle, destinatari della confidenza dell'Elevato. 

Del resto, a chi non è capitato di rivelare un segreto a una settantina di interlocutori? Della settantina, l'unico a essere scosso da un moto di ribellione è il sociologo Domenico De Masi che, contattato dal Fatto, rivela l'ignobile manovra. Letta l'intervista, gli altri sessantanove colgono l'entità del sabotaggio e gridano allo scandalo. Abbiamo le prove, dicono. E noi: fatecele vedere. E loro: no. Intanto il premier, impegnato all'estero, ma grazie al cielo in un'assise di modesto rilievo come il summit della Nato, dove le leadership planetarie ingannano il tempo con frivolezze tipo la guerra mondiale, è richiamato alle più gravose responsabilità da una vibrante telefonata con Conte.

Decide di affrettare il ritorno a Roma. Per altri motivi, dirà, ma comunque ce lo si immagina così: scusate tanto, ma De Masi Non dire altro, Mario: vai! Ieri Conte annuncia il drammatico faccia a faccia: ci vediamo oggi. Draghi ha un'idea diversa: non ne so nulla. Serve almeno un'altra delicatissima telefonata: è ok se ci vediamo lunedì? Sì, per me è ok. Rimane la domanda: siamo sicuri che un po' di Putin non ci servirebbe?

Da “Posta & Risposta – la Repubblica” il 2 luglio 2022.

Caro Merlo, io non ci credo che Draghi mandasse WhatsApp a Grillo - "dimettilo, dimettilo" - per convincerlo a cacciare Conte, né che mai gliel'abbia chiesto a voce. Chiara D'Amico - Milano

 Risposta di Francesco Merlo:

A me pare che la caccia ai "pizzini fantasmini" di Draghi a Grillo, "prove inconfutabili del complotto" contro Conte, con quel titolo da noir comico di Neil Simon, "il conticidio", sia il canovaccio di un'opera buffa, nella quale Draghi è tirato in mezzo, come Gulliver a Lilliput, dove "i tramecksan, tacchi alti" (Di Maio) contendono il potere agli "stamecksan, tacchi bassi (Conte)".

E Gulliver-Draghi quasi si smarrisce sulla panca del Prado, dove è solo sì, ma col suo telefonino (la foto sembra uno spot della Tim): "Di cosa parlava e con chi?". "Ero stanco, non ricordo".

E tutti pensano che non sospirasse per la signora Serenella, ma per Domenico De Masi: Who' s this De Masi? chiede Biden a Macron quando Draghi se ne scappa a Roma. È il più mattacchione dei professori "prestati alla politica". Infatti nei 5 Stelle omericamente dirige la "squola", e non si offenda per la "q": anche l'aceto è prodotto dal vino. In radio al Giorno da Pecora (che ormai è il nostro New York Times ) De Masi, che, pensate, da ragazzo riordinava la libreria di Jean Paul Sartre, nel ruolo di Balanzone riferisce che Draghi "continuamente" parla male di Conte.

E l'indomani al Fatto Quotidiano aggiunge che Draghi, il quale "manda a Grillo messaggi sulle cose da fare", ha chiesto a Grillo di "rimuovere Conte perché è inadeguato". Così i pizzini fantasmini diventano "aforismi telefonici" che nessuno vede, ma tutti analizzano come le lettere di Moro. 

Conte, quasi offeso, va da Mattarella e quasi fa una crisi. Dice Draghi: "Mi dicono che ci sarebbero dei riscontri oggettivi, come sono stati definiti, beh, vediamoli, li aspetto". E il giornale grillino scrive: "lo scandalo tracima". Urca. Non ce la dai a bere, caro Gulliver. Qui a Lilliput, solo quando nessuno la vede, siamo sicuri che esiste la prova. Si assolve per insufficienza di prova e si condanna per assenza di prova.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 2 luglio 2022.

«Abbiamo le prove», insistono dallo staff di Giuseppe Conte. «Macché, è l'ennesimo bluff», ribattono i tanti grillini - anche contiani - che non credono alla storia dei messaggi whatsApp tra Beppe Grillo e Mario Draghi. 

Dopo il giallo delle telefonate, il mistero delle chat. E sì perché, stando alle voci che filtrano dall'entourage dell'ex premier, non ci sarebbero soltanto le chiamate tra l'Elevato e il presidente del Consiglio, ma gli sherpa dell'ex avvocato del popolo italiano custodirebbero anche gli screenshot dei presunti messaggini che si sarebbero scambiati Draghi e Grillo.

Contatti durante i quali il premier, addirittura, avrebbe chiesto al Garante di aderire alla scissione di Luigi Di Maio con l'obiettivo di isolare Conte. Almeno è questa la ricostruzione pubblicata dal Fatto Quotidiano di giovedì mattina.

Un'ampia fetta dei 5 Stelle reagisce alle indiscrezioni con una grassa risata. Una fonte pentastellata di primo livello, con entrature a Palazzo Chigi, commenta la storia dei messaggi con un misto di sarcasmo e indignazione. 

«Secondo me si tratta dell'ennesimo spin - riflette la fonte del Giornale - ma il problema principale è che sarebbe molto grave se Conte avesse queste conversazioni, perché saremmo in presenza di una violazione della privacy e di un'intrusione nella corrispondenza privata del presidente del Consiglio».

Quel che è certo, in ambienti pentastellati, è che Draghi e Grillo si sentono regolarmente. Una o due volte al mese, a seconda dell'attualità politica e delle fibrillazioni all'interno del Movimento. E quel che è sicuro è anche che tra i due ci sia una certa intesa. E nel M5s non ci sono dubbi nemmeno su un altro fatto: «Beppe non vuole uscire dal governo e non vuole l'appoggio esterno». Eccola, la voce che arriva dai gruppi stellati. Una truppa ancora divisa tra governisti e anti-Draghi. 

In Parlamento i grillini raccontano che Grillo, durante tutti e tre i giorni di permanenza a Roma, è stato continuamente oggetto di pressioni intense da parte di molti parlamentari, in maggioranza senatori, che durante gli incontri gli hanno chiesto di uscire dal governo. Richieste a cui il fondatore ha sempre risposto picche.

Fino a quando si è inferocito per l'intervista del sociologo Domenico De Masi al Fatto Quotidiano e poi per la storia delle prove e dei messaggi. Una spy story che disturba e non poco il comico genovese, perché rischia di minare il rapporto di fiducia costruito con Draghi. 

«È ovvio che se Conte continua a dire che ha le prove dei messaggi vorrebbe dire che sarebbe stato Beppe a fornirgli queste prove», chiosa un parlamentare vicino al Garante. Ma l'Elevato è già nero con l'avvocato di Volturara Appula perché ritiene di essere stato utilizzato come una pedina nello scontro tra l'ex premier e il suo successore a Palazzo Chigi.

Nel M5s c'è anche chi sostiene che il post di Grillo contro i traditori pubblicato ieri pomeriggio sul Blog sia un messaggio rivolto a Conte, De Masi e Marco Travaglio, più che al ministro degli Esteri scissionista. «Su Di Maio non avrebbe reagito così a scoppio ritardato, su quello ha già commentato», dicono da un Movimento in ebollizione. Resta il fatto che nessuno, né Grillo né Draghi, abbia mai smentito che ci siano state delle telefonate. Mentre, per quanto riguarda i messaggini, il presidente del Consiglio ha sfidato Conte: «Se ha le prove vediamole».

E poi ci sono i buchi nella storia di De Masi. Il sociologo, contattato dal Giornale, non risponde né alle telefonate né alle richieste di chiarimento su whatsApp. All'interno del multiforme universo pentastellato non manca chi nota le discordanze nelle versioni fornite dal professore al Fatto Quotidiano e a Un Giorno da Pecora. Al quotidiano di Travaglio De Masi ha spiegato che Draghi avrebbe chiesto a Grillo di rimuovere l'ex premier e che gliel'avrebbe detto il comico. Su Rai Radio1, il giorno prima, De Masi ha chiamato in causa i senatori, che gli avrebbero riferito che il Garante negli incontri con i parlamentari avrebbe rivelato: «Draghi parla male di Conte».

Da uno vale uno a un pettegolezzo tira l'altro. 

Nic. Car. per “La Stampa” il 3 luglio 2022.

Dopo aver sganciato la bomba, Domenico De Masi si è inabissato. Non ha più detto una parola, non ha risposto al telefono. Non ci sta a passare per quello che ha messo nei guai Beppe Grillo, per aver rivelato la confidenza del fondatore del Movimento 5 stelle, la telefonata in cui Mario Draghi gli avrebbe chiesto di disarcionare Giuseppe Conte dalla poltrona di presidente. 

«Le cose che ha detto a me Grillo le aveva già raccontate ai parlamentari, erano già di dominio pubblico - spiega il sociologo -. Non ho svelato nulla di segreto, non sono un pettegolo e non faccio politica».

De Masi ricorda l'articolo uscito su La Stampa lo stesso giorno della sua intervista al Fatto Quotidiano, in cui si fa riferimento alla presunta sollecitazione del premier nei confronti di Grillo a «mollare Conte», raccontata dal comico ad alcuni parlamentari. 

«Io sarò stata la quindicesima, forse la ventesima persona a cui lo ha detto - ricostruisce De Masi - dopo il nostro incontro all'Hotel Forum, ci siamo lasciati promettendoci di tenere tutto riservato e invece lui è andato a parlare con i gruppi e ha detto le stesse cose che ha detto a me. E da quel momento sono diventate pubbliche».

Nessuno, però, ha raccontato il retroscena mettendoci la faccia su un giornale: «La riservatezza è un fondamentale tra galantuomini. Non avrei mai fatto quell'intervista se Grillo non avesse già detto tutto ai deputati e ai senatori. Inoltre, Conte ha dichiarato che Grillo aveva parlato delle pressioni di Draghi anche a lui, ben prima che uscisse la mia intervista». 

Poi il fondatore del Movimento ha detto di essere stato «strumentalizzato» e ha bollato come «cazzate» i dettagli usciti. Lo stesso premier ha smentito di aver fatto pressioni su Grillo per rimuovere Conte. 

«Se è una bugia, è una bugia che Grillo ha detto a me, ai deputati e a Conte», precisa De Masi, che esclude che il post apparso sul blog di Grillo contro i «traditori» fosse diretto a lui: «Ce l'aveva con Di Maio», spiega. 

Ma il futuro della loro amicizia è in dubbio: «Non ci siamo sentiti, ho avuto sempre un rapporto positivo con Beppe, ma se questo incrina l'amicizia, beh, pazienza».

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 3 luglio 2022.  

Caro Merlo, dall'estero dove vivo, mi domando perché in Italia nessuno spiega a Conte, per il suo bene, che sta facendo proprio una brutta figura e che sarebbe il caso che la smettesse. Da quando è alla guida del Movimento, continua a prendere batoste e accusa sempre gli altri. È possibile che qualcuno lo consigli male, ma un dubbio mi assale Giuseppe Palmiotta - Ginevra 

Risposta di Francesco Merlo

Tutti sanno che Conte ha dei consiglieri, da Casalino a Travaglio, e più segretamente, da Bettini a D'Alema. Ma lei qui si chiede se Conte ci fa o ci è. Ebbene, se ripercorre i cinque anni della sua confusa storia politica, si accorgerà che è stato via via scavalcato, messo tra parentesi, trattato con alzate di spalle e sguardi al cielo, ma è ancora là, sempre più rimpicciolito ma ancora là, come quel personaggio di Longanesi che diceva di sé: "Sono passato attraverso ogni specie di tendenza per cercarmi. E non riesco a trovarmi".

Il viaggio infernale di Beppe Grillo nel girone dantesco dei traditori. Il “Garante” ha riprodotto sul suo blog un articolo di Pasquale Almirante di due anni fa proprio sul tradimento. Francesco Damato su Il Dubbio il 5 luglio 2022.

Scherzo ma non troppo. L’avevo scritto – qui, sul Dubbio – che per esplorare il MoVimento 5 Stelle, specie dopo la scissione di Luigi Di Maio, occorresse ripetere il viaggio di Dante nell’Inferno della sua Divina Commedia. E Beppe Grillo in persona, il fondatore, il “garante”, tornato a casa dopo una fuga da Roma, dove aveva concluso una missione di ricognizione e d’ordine aumentando il disordine nel suo movimento, si è immerso proprio nell’opera dantesca facendosi accompagnare da un Virgilio dei nostri tempi. Che sarebbe l’autore di Marsilio e insegnante di liceo Pasquale Almirante, un cui articolo di due anni fa egli ha riprodotto sul suo blog con tanto di ringraziamenti finali e titolo – “Fenomenologia del tradimento e del traditore”- sovrastato da un’illustrazione di Gustave Dorè del nono cerchio dell’Inferno dantesco: quello dove Lucifero si gode la compagnia dei suoi simili.

Dal singolare della fenomenologia Grillo è passato al plurale dei traditori, andando anche oltre quelli sistemati da Dante nelle quattro zone del nono cerchio dell’Inferno: Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca, da Giuda, “il più famoso che si vendette per trenta denari, tradendo la fiducia”. E tutti hanno pensato a Luigi Di Maio scrivendone sui giornali, qualcuno cercando anche di raccoglierne le reazioni. Che sono state infastidite, ma non rancorose.

Oltre ai nove cerchi dell’Inferno dantesco l’erudito Pasquale Almirante ha accompagnato Grillo in una sommaria rilettura di Shakespeare, di Dickens ed altri che hanno prodotto nelle loro opere figure di traditori e occasioni di tradimento.

Di Charles Dichens, nel famosissimo David Copperfield che i meno giovani ricorderanno nella traduzione televisiva della Rai sceneggiata e diretta nel 1965 da Anton Giulio Majano, è la figura che sembra avere maggiormente colpito Grillo: Urial Heep, recitata in quello sceneggiato dal compianto Alberto Terrani. “Mani sempre umide e appiccicaticce, che non guarda mai negli occhi il suo interlocutore, che si contorce e che alla fine, dopo aver carpito tutti i segreti del suo benefattore, ne diventa socio attraverso sempre il tradimento e il mescolamento delle carte”, racconta Pasquale Almirante a Grillo.

Oddio – mi sono chiesto – chi può essere scambiato per Urial Heep fra i tanti pentastellati, usciti o rimasti nel movimento, che Grillo ha conosciuto, persino allevato, e dai quali si è sentito tradito anche nella sua recente missione a Roma, interrotta dalla delusione e dalla rabbia per essersi sentito “strumentalizzato” – ha detto lui stesso – nelle confidenze fatte loro sui rapporti prevalentemente telefonici con Mario Draghi. Che, condividendo evidentemente il giudizio di “inadeguato” affibbiatogli una volta dallo stesso Grillo, gli avrebbe chiesto di “farlo fuori” dalla guida del movimento. Ne è seguita una tragedia, anzi una tragicommedia da cui si è capito solo che il problema di Conte, più che Draghi, è Grillo stesso.

Purtroppo, almeno per soddisfare la mia curiosità, ho scarsa dimestichezza col mondo, parlamentare e non, delle 5 Stelle. Non ho mai stretto “mani sempre umide e appiccicaticce” o notato occhi “sfuggenti” nelle interlocuzioni avute. L’unico col quale mi sono scontrato una volta alla Camera – il non ancora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per avere lui indicato anni fa alla tv nei giornalisti parlamentari in pensione i più sospettabili di lobbismo per far passare modifiche alle leggi utili a piccoli e grandi pseudocorruttori- mi guardò fisso negli occhi per dirmi che avrebbe continuato a sostenere quella convinzione che io gli avevo contestato.

Un autorevole amico reduce dal ricevimento di giovedì scorso fa a Villa Taverna per la festa americana dell’Indipendenza, e che ha avuto modo di salutare e parlare col ministro degli Esteri Luigi Di Maio, accompagnato dalla bella fidanzata Virginia Saba avvolta in un lungo abito colore avorio, mi ha assicurato di averne raccolto uno sguardo ben diretto e di non avere stretto mani in qualche modo umide. E mi ha anche detto di non avere visto fra i grillini presenti il pur ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Dalla lista dei presunti responsabili della delusione e della rabbia di Grillo confermo – dopo il disconoscimento di un post d’attacco sul suo sito internet all’amico Beppe e la punizione del responsabile- l’esclusione di Paola Taverna. Con la quale mi scuso peraltro di averla distrattamente indicata qualche giorno fa come vice presidente della Camera, anziché del Senato.

Quando Grillo diceva: "Conte? Incapace. Non ha visione politica". Francesca Galici il 3 Luglio 2022 su Il giornale.

Era il 29 giugno 2021 quando nel M5s sembrava compiersi la rottura tra Beppe Grillo e Conte, colpevole di voler mettere da parte l'Elevato. 

Esattamente un anno fa, o poco più in là, Beppe Grillo certificava la rottura del Movimento 5 stelle. Ma con la parte sbagliata. O, per lo meno, con quella che un anno fa si sarebbe dimostrata la parte sbagliata per una serie di reboanti congiunture che si sono dimostrate fatali per il M5s. Era il 29 giugno del 2021 e Giuseppe Conte, investito della carica di leader politico, stava riscrivendo lo statuto del MoVimento, creandone uno quasi ad personam, nel quale la figura di Beppe Grillo veniva resa fin troppo marginale, come dire, "ora che ci sono io, tu non servi più. Tante belle cose".

"Vi dico io perché Grillo si è ripreso il M5S"

Beppe Grillo poteva mai accettare di buon grado un simile smacco? No di certo. Colto dalla sindrome di "nessuno mette Baby in un angolo", Beppe Grillo ebbe una reazione piuttosto veemente contro Giuseppe Conte. "Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco", tuonò l'Elevato dalle righe del suo blog, unico pezzetto d'orticello che Giuseppe Conte gli stava lasciando per esprimersi. E preso da un rigurgito di coscienza davanti alla sua creatura, diventata ormai incontrollabile, e sicuramente tramortito da un travaso di bile, Beppe Grillo diede quello che per molti sembrava essere il colpo ferale alla carriera politica dell'avvocato con la pochette: "Conte, mi dispiace, non potrà risolvere i nostri problemi perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione". Crack, il rapporto con l'ex premier sembrava essersi definitivamente rotto e Grillo meditava di azzerare i vertici del partito. Alle spalle di Conte scalpitava un intrepido Di Maio, pronto all'investitura da leader.

M5s in tilt, Conte evoca l'appoggio esterno. Grillo smentisce ancora

Il canto del Grillo s'era compiuto ma senza mai dare il colpo di grazia a Giuseppe Conte. E infatti, pochi giorni dopo, tra l'Elevato e l'avvocato ci fu un riavvicinamento. Ma le pezze, si sa, non riparano il buco. Si limitano a coprirlo alla bell'e meglio. E a Beppe Grillo non è mai andato giù lo strappo creato da Giuseppe Conte, convinto di poterlo mettere da parte. Tra i due i rapporti non si sono mai del tutto sanati e quando l'Elevato parla di Luigi Di Maio appellandolo come traditore, forse c'è dell'altro oltre alla semplice rabbia per l'uscita dal Movimento insieme a buona parte dei suoi parlamentari.

Forse Grillo si è sentito tradito dal ministro degli Esteri, che così facendo ha lasciato il partito interamente nelle mani del suo più acerrimo nemico interno, quello che un anno fa lo voleva far fuori dal suo movimento. Beppe Grillo e Mario Draghi hanno smentito lo scambio di corrispondenza virtuale che vedeva Conte come protagonista, ma a rileggere la storia non sarebbe stato poi così assurdo se l'Elevato si fosse davvero sfogato sulle (mancate) reali capacità di Giuseppe Conte. Il 2050 è sempre più lontano per il Movimento.

Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 3 luglio 2022.

Nel Movimento 5 Stelle, si sa, c'è sempre stato qualcuno più uguale degli altri. A dispetto del motto favolistico-strumentale per cui «uno vale uno» (sconfessato pubblicamente, in finale di partita, dal fuoriuscito Luigi Di Maio). 

Così, adesso che il M5S si rivela - letteralmente - il Movimento 5 Schegge si può dire che c'è qualcuno più "scheggia" itinerante - o pallina ad alta velocità - degli altri (che pure non scherzano...). Una scheggia «super-Elevata» e turbinosa che, di recente, è transitata da una parte all'altra dello spettro di tutte le posizioni politiche possibili e immaginabili. 

Si tratta, ça va sans dire, di Beppe Grillo, tornato prepotentemente al centro della scena nelle ultime settimane di passione del "suo" Movimento travolto dall'ennesima disfatta alle amministrative e dalla scissione dei dimaiani, e percorso dall'irrefrenabile tentazione di andare all'opposizione. Un contrappeso rispetto a questa spinta i vertici 5 Stelle lo incontrano proprio in Grillo, che sta puntellando il governo di unità nazionale di Mario Draghi, con il quale - stando a cronache e rumors - nel corso del tempo si è costruita una "strana alchimia".

Nondimeno, da ultimo, anche per responsabilità sua è esploso un incidente di percorso largamente cavalcato (e ingigantito) dagli spin doctor di Conte per innalzare ulteriormente il tasso di fibrillazione e far mettere al M5S un piede fuori dalla maggioranza. 

Una slavina tamponata in queste ore anche in virtù delle parole di apprezzamento tributate dal presidente del Consiglio al contributo pentastellato all'azione di governo, ma che continua a incombere come una spada di Damocle su Draghi e, in qualche modo, come un supplizio di Tantalo per le stesse frenesie "antisistemiche" di ritorno di molti dirigenti 5 Stelle. Un rischio per il futuro anche ravvicinato, dati i prossimi passaggi del decreto aiuti (che potrebbe prevedere la riattivazione delle trivellazioni) e di quello sugli aiuti militari all'Ucraina.

Di sicuro, dunque, a non aiutare il clima generale e la stabilità è anche il comportamento di Grillo: "trottolino amoroso" dell'organizzazione che considera come una sua creatura - e della quale si sente per molti versi defraudato -, ma con atteggiamenti da "trottola impazzita" fattisi così frequenti da destabilizzare anche quello che vorrebbe, invece, consolidare. 

Le traiettorie molto ellittiche e le geometrie variabili (applicate con una considerevole dote di furbizia e più di un pizzico di cinismo) sono una delle specialità di Grillo. Uno dei pilastri, insieme all'ambiguità e all'ambivalenza spacciate anche come visione postideologica, del successo avuto in passato, oltre che una maniera per levarsi di torno varie gatte da pelare, cambiando repentinamente posizione senza pagare dazio. 

Quelli erano, però, i bei tempi (andati) degli applausi scroscianti. Il performer c'è ancora (sebbene sempre più «stanchino», per citarlo). Ma è obbligato ad agitarsi tantissimo alla ricerca di una qualche agibilità politica (che Conte, da leguleio di prim' ordine, gli ha ristretto meticolosamente). 

Così, il gioco del fool-giullare impunito gli riesce sempre meno, e della figura del trickster che ha a lungo incarnato rimane più la componente del "briccone" che quella del "divino". Le contraddizioni risultano sempre maggiormente appariscenti e, alle strette, il già Cofondatore e Garante si è dovuto riciclare in consulente (lautamente retribuito) per la comunicazione.

Un destino piuttosto inglorioso, se osservato dall'esterno, per chi - in simbiosi con Gianroberto Casaleggio - ha costruito il M5S come un partito bipersonale a tutti gli effetti, orientandone e guidandone in modo incontestato ogni passo. Per poi ritrovarsi costretto ad assistere a una sequenza incessante di metamorfosi, che hanno condotto il «partito-non partito» ad allontanarsi alla grande da quell'ortodossia originaria di cui il già capo-comico trasformatosi in capo politico continua a sentirsi il custode per antonomasia. 

Come nella riaffermazione del dogma del divieto del terzo mandato, che - naturalmente - ha fatto infuriare parecchi dei «suoi (ex) ragazzi», prontamente innamoratisi di quel professionismo politico che maledivano sui social. Oggi l'Oracolo (volutamente) incomprensibile - e, pertanto, buono per tutti gli usi - non c'è più, al pari del Joker populista-antagonista.

Resta un supporter - a corrente alternata - della «formula Draghi» che, peraltro (e malauguratamente), non riesce più a trascinare i suoi «portavoce» (i quali, per inciso, gli devono molto, se non tutto). Una stagione appare finita, e l'impressione è che ne rimarrà una manciata di polvere di stelle. O, se si preferisce, di cocci a 5 Stelle.

Pier Ferdinando Casini, l’uomo che sussurra al neodemocristiano Luigi Di Maio. I due politici si insultavano fino a pochi anni fa. Ma nelle ultime mosse dell’ex 5 Stelle pare ci sia stata proprio l’influenza del centrista con cui ormai si sentono quotidianamente. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 4 luglio 2022.

«Dici sciocchezze…dilettante». Correva l’anno 2018 e Pier Ferdinando Casini si rivolgeva con questi toni a Luigi Di Maio, l’allora barricadero leader del Movimento 5 stelle che si era appena insediato al ministero dello Sviluppo economico nel primo governo Conte, sostenuto anche da Matteo Salvini. I due, Di Maio e Salvini, a Casini non piacevano proprio. E il sentimento era reciproco: come dimenticare l’intemerata di Di Maio durante la campagna elettorale delle scorse Politiche proprio nella città del fondatore dell’Udc, Bologna, contro «quel Casini che ha affossato la commissione sulle banche e ora viene candidato non a caso dal Pd»?

Ma se con il segretario della Lega anche oggi, a quattro anni di distanza, i rapporti sono a dir poco freddi, specie dopo il “tradimento” di Matteo che non ha più sostenuto la corsa al Quirinale dell’eterno democristiano, tra Casini e Di Maio qualcosa è cambiato. I due adesso si sentono giornalmente e di solito la discussione va così: uno parla (Casini) l’altro ascolta e prende appunti ( Di Maio). Per molti, le mosse del ministro degli Esteri da un anno a questa parte sono di «puro stampo casiniano». Lo scorso novembre Di Maio ha aperto all’ingresso del Movimento 5 stelle nel gruppo del Partito socialista europeo: «Una grande intuizione di Luigi», diceva entusiasta il suo (ex) delfino, Giancarlo Cancelleri. Ma chi è sempre stato un forte sostenitore dell’aggancio dei partiti nazionali a famiglie storiche del Parlamento Europeo? Lui, Casini. Poi sono arrivati il sostegno al governo Draghi e all’atlantismo, diventati da mesi due tasselli fondamentali della politica del ministro degli Esteri. E chi c’è dietro questo cambio di rotta? Sempre lui, Casini.

Resta una domanda: come ha fatto l’ex presidente della Camera a prendere il ruolo di gran suggeritore politico di Di Maio? La risposta sta tutta in un luogo: la Farnesina. Un palazzo nel quale Casini è sempre stato di casa e che conosce stanza per stanza, dirigente per dirigente, diplomatico per diplomatico. Tanto che una funzionaria di peso oggi è anche la sua fidanzata, Maddalena Pessina, responsabile della promozione culturale del ministero. È stata lei la chiave di volta per ammorbidire certe rigidità del ministro nei confronti del fidanzato eccellente. Di certo anche grazie a lei i rapporti tra i due sono migliorati fino a diventare idilliaci. Sembra passata un’era geologica rispetto al dicembre del 2019 quando Casini, proprio grazie ai suoi buoni uffici alla Farnesina, portava a segno un colpo mediatico che metteva a dir poco in ombra il titolare del dicastero, cioè Di Maio, facendolo infuriare: Casini in quei giorni era volato a Caracas per parlare direttamente con il comunista Maduro e liberare dei deputati dell’opposizione venezuelana che rischiavano il carcere a vita perché accusati di un fallito colpo di Stato. Missione compiuta con tanto di complimenti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma non di Di Maio, che però aveva già capito che se voleva fare strada, soprattutto in quelle stanze, doveva per forza avvicinarsi a Casini.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 4 luglio 2022.

La borsa con i soldi di Ipf, il nuovo movimento politico fondato dal ministro degli Esteri Luigi di Maio, è nelle mani di un ex gelataio napoletano. Il senatore Sergio Vaccaro è l'uomo prescelto da Di Maio e Spadafora per gestire la cassa dei gruppi parlamentari «Insieme per il Futuro». 

Sarà lui a ricoprire l'incarico di tesoriere del gruppo a Palazzo Madama. Nel suo passato Vaccaro aveva il compito di dosare bene gli ingredienti del gelato artigianale napoletano. Ora avrà una sfida più ardua da vincere: far quadrare i conti del gruppo Ipf. Chi è Vaccaro? Il misterioso senatore individuato da Di Maio per un incarico così delicato.

Il neo tesoriere del gruppo è un senatore della provincia di Napoli: nel 2018 è stato eletto nel collegio di Volla, comune noto per l'abusivismo edilizio e confinante con Pomigliano d'Arco. Fu piazzato in quarta posizione nella lista del M5S. Ma grazie al boom riuscì a centrare un'elezione storica. In Parlamento fa coppia fissa con Andrea Caso, altro deputato di fede dimaiana. 

Vaccaro è un fedelissimo del ministro degli Esteri. Al punto da seguirlo nella scissione: una scelta premiata con la nomina a tesoriere del gruppo. Un bel po' di milioni di euro, staff e consulenze da gestire nel prossimo anno. Vaccaro inizia la carriera politica a Volla, dove tenta (senza successo) anche la scalata per la poltrona di sindaco.

Sul sito del Senato non figura alcun curriculum vitae e nessun cenno ai titoli di studio. Master alla Bocconi in Economia? Studi londinesi in finanza pubblica? Nulla di tutto ciò. Vaccaro è un ex gelataio. A Volla gli attivisti del Movimento lo ricordano bene, prima dell'ingresso in Parlamento. 

Vaccaro aveva una gelateria all'interno del noto centro commerciale le «Ginestre»: coni, coppe e crepes. Sembrava quella la sua vera passione prima di essere folgorato sulla strada grillina. «Bravissimo nell'abbinare i gusti più strani», ricordano i suoi clienti. Il pezzo pregiato? Cono pistacchio e limone. 

Un gelataio a 5stelle, insomma. Ma prima di tentare fortuna con i gelati, Vaccaro aveva svolto il lavoro in una pescheria all'interno dell'Auchan, altra catena commerciale. 

Mansione mollata per abbracciare la prima passione: i gelati. Lavoro che ha svolto fino al 2018, quando nella notte del 4 marzo il boom grillino gli regala un seggio in Parlamento. Si è subito avvicinato alla linea dell'ex capo politico Di Maio. 

Al punto da seguirlo anche nelle missioni all'estero. Sempre in compagnia del suo fido Andrea Caso. Ora la «ricompensa» con la nomina a tesoriere. Nella nuova avventura Vaccaro punta in alto. L'incarico di tesoriere è arrivato grazie all'aiutino di Bruno Tabacci. I dimaiani a Palazzo Madama non potevano formare il gruppo.

Tabacci ha messo a disposizione il simbolo. Sono 10 i senatori di Ipf che hanno scelto come capogruppo l'ex M5s Primo De Nicola. L'Ufficio di presidenza è formato invece da Vincenzo Presutto, vice presidente vicario; Antonella Campagna, Daniela Donno, Raffaele Mautone, Simona Nocerino Vice-presidenti; Sergio Vaccaro, tesoriere. Gli altri componenti sono Loredana Russo, Pierpaolo Sileri, Fabrizio Trentacoste.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.

Claudio Messora, nella palude dell'informazione - soprattutto della controinformazione italiana è un caso da studio, simile a quello delle radio libere anni '70. Nato ad Alessandria d'Egitto in un anno imprecisato, quest' ex musicista (ha vinto perfino Castrocaro) è partito come Mazarino della Comunicazione del M5S, pioniere del citizen journalism dinamitardo, vessillifero del sovranismo, nonché tenutario di un sito, ByoBlu, che, solo su Youtube, faceva 100 milioni di visualizzazioni frequentando politica e grandi inchieste spesso a senso unico. Dopo la rottura col M5S, Messora è a oggi a capo di un piccolo impero mediatico che tra, radio, tv e digital sta spazzando via la concorrenza. Il suo de profundis per i 5 Stelle è un po' venato da nostalgia. Un po'. Tra i 5 Stelle s' avverte un delirio diverso.

Grillo che dice a Draghi di licenziare Conte, la crisi di governo. Cosa accadrà? Non è che se i 5 Stelle vanno al voto spariscono (alle elezioni hanno fatto il 2,5%)?

«I 5 stelle sono già spariti. Sono anni che non esistono più per chi li ha eletti. Continuano ad esistere solo nei palazzi. Sono quello che resta di un sogno, come quando la mattina ti svegli a letto tutto sudato». 

La scissione di Di Maio. Grillo gli dà del "traditore". Cosa è successo? Chi lo seguirà? Perché tutto questo, diomio?

«Conte aveva ereditato il M5S, capendo che, così come era diventato, alle prossime elezioni non avrebbe più preso un voto. Così ha tentato di riconquistare una fetta di elettorato priva di rappresentanza, contraria all'invio delle armi in Ucraina. Ma questo rischiava di far cadere il governo. Che, se cade, significa che i M5S vanno tutti a casa. Di Maio ha atteso l'esito delle elezioni, e poi si è "messo in proprio" in salvataggio di Draghi. Promettendo un terzo mandato a chi non aveva più speranze...». 

È il caos. Qual è la differenza col M5s delle origini? Questo M5S non ha esaurito la sua mission, diventando parte del sistema?

«I 5 stelle di Casaleggio volevano democrazia diretta, trasparenza nei palazzi, erano contro la finanza speculativa e i finanziamenti statali. La mossa dell'Alde al Parlamento Europeo, con M5S che voleva entrare nel partito più europeista in cambio di poltrone e potere, fu l'inizio. Poi fu proprio Di Maio a dare il colpo di grazia, inaugurando la stagione degli incontri con le lobby a porte chiuse, dei pranzi con la Trilaterale, delle rassicurazioni alle banche sui pignoramenti più rapidi. E adesso finisce di smembrare i 5Stelle, per guadagnarsi la gratitudine di Draghi. Per questo Grillo lo chiama traditore». 

Hai detto che Rocco Casalino, ti deve molto. In che senso? Cosa consiglieresti nella comunicazione di Conte, ora?

«Lo ha detto lui. In effetti fui io ad assumerlo e a dargli il ruolo di gestione dei rapporti con le tv, a difenderlo da Casaleggio che non lo voleva e poi a caldeggiarlo in sostituzione mia, quando andai in Europa. Il resto lo ha fatto tutto da solo. Era un "grillino" sui generis. Noi predicavamo la semplicità, lui veniva in Senato con abiti firmati e cinture di Gucci. Però è un lavoratore infaticabile e - a differenza mia - ha un'ambizione senza freni. Se vuole aiutare Conte e il M5S ad invertire la parabola, gli consiglierei la comunicazione degli inizi: umiltà e tornare a picconare il sistema da fuori».

Come vedi Di Battista e i duri e puri del M5S? C'è un'altra possibilità per loro?

«Di Battista è stato molto in gamba, uscendo dai palazzi dopo il primo mandato. Si è riservato la possibilità di farne un secondo, e non si è reso corresponsabile del declino. Lui ha l'immagine, i contenuti e la credibilità per rilanciare un Movimento sull'orlo dell'estinzione».

Quell’inevitabile “cupio dissolvi” del Movimento nato per sparire. L’arrivo di Draghi ha accentuato il carattere populista dei partiti alla ricerca del consenso facile. Aldo Varano su Il Dubbio il 7 luglio 2022.

Partiamo dall’inizio. Il termine populismo col quale vengono indicati in Italia i 5s e la Lega di Salvini, non ha nulla a che fare col movimento politico e culturale che si affermò alla fine dell’Ottocento in Russia. In Italia, oggi, populista è usato in senso dispregiativo. Secondo il Grande dizionario dell’uso di Tullio De Mauro, indica un “atteggiamento politico di esaltazione velleitaria e demagogica dei ceti più poveri”. Non a caso né i 5s né la Lega si sono mai autodefiniti populisti. Definizione cucitagli addosso dai loro avversari o comunque da chi vuole attaccarli e indebolirli.

Il termine si è imposto in Italia quando le elezioni politiche del 2018 (che registrarono l’affluenza più bassa nella storia repubblicana) consegnarono al paese un Parlamento dove Lega e 5s, le forze destinate a cavalcare e rappresentare il populismo, insieme raggiungevano un’ampia maggioranza assoluta. Insomma, nessuno dei due blocchi tradizionali della politica italiana, centrodestra e centrosinistra, sarebbe stato in grado di fare un governo. I 5s, il partito del “visionario” Casaleggio e del comico Beppe Grillo, era forte alla Camera di 225 seggi con oltre il 32%. Il partito di Salvini si era fermato a 123 diventando il più forte partito del centrodestra, coalizione che comunque non aveva la maggioranza. Insieme, 5s e Lega avevano alla Camera una maggioranza schiacciante di 348 seggi su 630. Mattarella si trovò a fronteggiare una situazione drammatica. O prendere atto dell’impossibilità di fare un qualunque governo rispedendo gli italiani al voto, con tutti i guasti che questa scelta avrebbe provocato; o promuovere un governo dei vincitori per il quale la Lega di Salvini (mollando i suoi alleati storici col retropensiero di impadronirsi del patrimonio elettorale del Cavaliere ormai al tramonto), apparve immediatamente disponibile. Entusiasti, quasi e forse più della Lega, i 5s.Conte emerse dall’anonimato, quindi, perché nessuno dei due leader dei partiti populisti (Di Maio e Salvini) avrebbe concesso all’altro la carica di Presidente del Consiglio. Conte (che non mise mai bocca nelle decisioni del ministro dell’Interno Salvini), lo cacciò poi dal governo solo quando ebbe la certezza che Salvini volesse cacciare lui e capì di poter sostituire il leader leghista col Pd.

L’operazione gestita con maestria movimentista e spregiudicata venne diretta dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (allora Pd) che portata a termine l’operazione uscì dal Pd. Del resto, sempre di più sia Salvini che Di Maio avevano continuato ad alimentare le proprie strategie populiste convinti entrambi di far crescere i propri consensi e di poter trionfare, da soli, il giro successivo. Il Covid bruciò i sogni di entrambi. Conte, sballato Salvini dal governo e immaginando di essersi rafforzato, faceva confusione come presidente del Consiglio dirigendo un governo opposto a quello che aveva diretto in precedenza. Intanto Salvini occhieggiava con tutti i malumori che, anche grazie al Covid, iniziarono a crescere nel paese. Quando successivamente Renzi ritirò la delegazione del suo partito dal governo, aprendo di fatto la crisi, Mattarella, incaricato il 5s Fico, presidente della Camera, di esplorare la situazione, fu costretto a prendere atto che tutti i ponti tra 5s e Pd e tra 5s e Lega erano ormai consumati. Tutti immaginavano lo scioglimento delle Camere (il Covid sempre a infuriare) ma Mattarella, convinto dell’impossibilità del voto proprio per il pericolo di far crescere il Covid, ma anche per l’urgenza di metter fine alla confusione, diede l’incarico di formare il governo a Mario Draghi.

Con quest’ingresso la partita della politica italiana si modificò profondamente. Trucchi, furbizie e rinvii sparirono all’improvviso. Draghi chiese a tutti i partiti in parlamento di entrare nel governo. Rinunciò a farne parte soltanto Giorgia Meloni che, partita da irrilevante 4 e rotti per cento del 2018, era ormai in competizione con Salvini (in arretramento) per diventare il partito più pesante dell’area di centrodestra. Né è una forzatura pensare che la stessa Meloni non spinse per entrare nel governo per favorire Draghi (con cui ha mantenuto un ottimo ed equilibrato rapporto) date le sue posizioni antieuropeiste e gli antenati politici ritenuti (a ragione o a torto) ancora imbarazzanti. Problema: l’arrivo di Draghi ha accentuato il carattere populista dei partiti populisti? È evidente che è accaduto. Forse era inevitabile. Draghi ha spinto più in alto l’impegno politico ed ha quindi accentuato le spinte populiste alla ricerca di consenso tra le fasce meno evolute politicamente e meno attrezzate culturalmente nel paese. Si tenga conto che i 5s, ad ognuno dei passaggi che abbiamo ripercorso, hanno perso peso con un ritmo sempre più imbarazzante. Inevitabile perché i 5s per definizione sono un partito che ha puntato ad annullare la politica. Se uno vale uno, ed è questo il convincimento vero che ha consentito la molla del 32% nel 2018, non c’è bisogno di alcun partito e di alcun politico. Il M5s è il solo partito della storia d’Italia nato consapevolmente col lucido obiettivo di evaporarsi senza lasciar traccia.

A seguire la logica dei 5s la propria scomparsa sarebbe il segno del proprio trionfo. Ma quando ha iniziato a indietreggiare, essendo ormai finita la chiacchiera dell’uno vale uno, sostituita dai vantaggi del seggio parlamentare per la totalità dei quasi sconosciuti rappresentanti eletti tra i 5s, sono nate nuove dottrine. I 5s si sono sempre più spaccati tra una fascia che s’è interamente allontanata dalle teorie iniziali del Movimento, che avrebbe poi rappresentato Di Maio fino alla scissione, e un’altra che apparentemente segue le vecchie teorie ma che si guarda attorno con attenzione e non ha ancora deciso se restare sotto la guida di Conte o se richiamare in servizio il rumoroso e fantasioso Di Battista. Il guaio per il paese è che sia la Lega di Salvini, ormai ampiamente surclassata da FdI della Meloni, che l’ormai 5s di Conte si sono radicalizzati nella propria parte. Salvini è convinto che alla fine, anche grazie a Berlusconi, e piegando la parte più moderata di Fi, potrebbe riacciuffare la supremazia nel centrodestra. Tiene conto che la Meloni continua ad avere una difficoltà d’immagine e ad ogni buona occasione punta a metterla in difficoltà. Il punto più alto di questa strategia s’è giocato durante l’elezione del presidente della Repubblica con l’emarginazione della alleata/avversaria. Intanto Salvini rilancia tutti i punti politici delle vecchie impostazioni leghiste: dal regionalismo differenziato (preteso dai presidenti di Regione del Nord, e non solo del nord) alle spinte per favorire i padroncini della vecchia area leghista. P

er non dire delle pulsioni internazionali che lo hanno imbarazzato e indebolito per la sua storica vicinanza al putinismo e a Putin, che in passato, quando girava indossando le magliette col volto del dittatore russo, avrebbe volentieri barattato offrendo in cambio almeno due Mattarella. Ancora più in crisi il populismo necessario a Conte per giustificare la sua presenza nella politica italiana. La sua situazione s’è aggravata dopo la scissione dai 5s di Di Maio, che del Movimento fu a lungo il maggior leader e interprete. Conte in questo momento appare privo di strategia politica specie dopo il raffreddamento del Pd nei suoi conformi. Una difficoltà di rapporto che potrebbe perfino far restare i 5s senza rappresentanza se le cose dovessero ancor di più aggrovigliarsi senza arrivare al 2023 per le elezioni (possibilità comunque abbastanza difficile perché i 5s scissionisti o no temono le prossime elezioni).

Una poco divina commedia di quel che fu il MoVimento 5 Stelle. Beppe Grillo a Roma per tentare di mettere ordine tra i suoi, dopo l’uscita di Di Maio, ha raccolto una voglia di crisi rigeneratrice, e di Governo…Francesco Damato su Il Dubbio l'1 luglio 2022.

Ci vorrebbero Dante e la sua divina commedia, in qualcuno dei gironi dell’inferno, per rappresentare ormai la vicenda umana e politica del MoVimento 5 Stelle. Che nacque nel giorno della festa di San Francesco del 2009 col proposito del compianto Gianroberto Casaleggio e del sopravvissuto Beppe Grillo per farci vivere tutti nella povertà felice cercata dal patrono d’Italia e al tempo stesso per mandare a quel paese tutti i renitenti a quell’antico e rigenerante modello di vita.

Arrivato addirittura nel giro di soli quattro anni a sfiorare nel 2013 la vittoria sul malcapitato Pier Luigi Bersani, del Pd, che prendendoli in parola pensò di poterne ottenere l’aiuto ad un governo “di minoranza e di combattimento” di spirito appunto francescano, il movimento arrivò in altri quattro anni a conquistare, nel 2018, con la maggioranza relativa la posizione “centrale” in Parlamento che era stata per tanto tempo della Democrazia Cristiana.

In soli quattro anni tuttavia di governo, nel quale ha avvicendato come alleati o soci occasionali quasi tutti i partiti, presiedendo addirittura con Giuseppe Conte, presentatosi al pubblico come “avvocato del popolo”, due dei tre esecutivi avvicendatisi in questa legislatura, il movimento ha perso per strada un po’ di pezzi. L’ultimo dei quali, uscitone al seguito di Luigi Di Maio, gli ha dato il penultimo colpo facendogli mancare la maggioranza relativa in entrambe le Camere, a vantaggio della Lega di Matteo Salvini.

L’ultimo colpo in questa commedia un po’ meno divina di quella di Dante se lo contendono curiosamente – sotto gli occhi immagino sgomenti di Mario Draghi a Palazzo Chigi, fra un summit internazionale e l’altro cui partecipa nel contesto di una guerra vera, quella in Ucraina con tutti gli effetti collaterali- il segretario del Pd Enrico Letta e il fondatore residuo e garante dello stesso movimento, Beppe Grillo. Il segretario del Pd succhiandone le ultime risorse elettorali in quello che doveva essere il “campo largo” dei progressisti ma sta diventando solo il campo più largo semplicemente di quello cui Matteo Renzi aveva ridotto il partito nel 2018. L’altro, Grillo, correndo a Roma non per soccorrere l’infortunato Conte ma per dare praticamente ragione a chi l’aveva di fatto investito con la scissione, cioè di Di Maio.

Guardate che non vi sto raccontando una balla prendendola per spirito di gruppo o di redazione come preferite, dalla prima pagina di ieri del Dubbio. Dove si gridava lo stop di Grillo a Conte per lasciare ben saldo Draghi a Palazzo Chigi, minacciato secondo Di Maio dalle tentazioni pur negate dallo stesso Conte di “disallineare” l’Italia dall’alleanza atlantica e dall’Europa nel fronteggiare la guerra di Putin all’Ucraina. E per negare agli aspiranti sotto le stelle un terzo mandato con apposita deroga al divieto voluto alla nascita del movimento, come se veramente tra i tagli apportati ai seggi con una riforma autoflagellante e la crisi elettorale sopraggiunta ci fossero le condizioni per fare arrivare ancora qualcuno in Parlamento sotto quelle insegne o simili.

Vi giuro che, nonostante l’amicizia, la colleganza e quant’altro con i colleghi di questo giornale, e fedele alla sua stessa testata, che è appunto Il Dubbio, ho diffidato dei primi lanci di agenzie e simili che rappresentavano Grillo più vicino a Di Maio che a Conte. Mi sono arreso alla realtà, decidendomi a scriverne, solo dopo avere letto, stropicciandomi gli occhi di prima mattina, il titolo di prima pagina dell’insospettabile Fatto Quotidiano dell’ancor più insospettabile Marco Travaglio, da mesi impegnato a consigliare a Conte, quando ancora disponeva sulla carta della maggioranza relativa in Parlamento, di staccare la spina a Draghi per perdere il meno possibile – a suo avviso- alle prossime elezioni politiche. Eccovelo il titolo, di apertura per quanto modesta, del Fatto: “Grillo aiuta Di Maio: sì Draghi e 2 mandati”. “Il Garante completava il messaggio nel cosiddetto occhiello- mette in difficoltà Conte” nella gestione di quel che è rimasto delle 5Stelle, stampate in rosso.

Alla luce delle “difficoltà” certificate da chi lo difende sino ad averne scritto come del migliore presidente del Consiglio avuto dall’Italia e averne denunciato la sostituzione a Palazzo Chigi come un omicidio, inferiore solo al “regicidio” lamentato dal mio amico e compianto Enzo Bettiza sul Giornale di Indro Montanelli quando fu costretto alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon; alla luce, dicevo, delle “difficoltà” procurategli da Grillo ho avvertito persino qualche moto di solidarietà umana vedendo la foto di Conte in arrivo a piedi, temo con un filo di sudore col caldo che fa in questi giorni anche a Roma, nell’albergo dove gli aveva dato appuntamento Grillo. E non credo, visto il racconto anche del Fatto, solo per contemplare il solito, pur suggestivo spettacolo dei resti dei Fori Imperiali: imponenti rispetto a quelli ormai del movimento fondato nel 2009.

C’è tuttavia da aggiungere che le rovine del movimento debbono essere poi apparse al garante superiori al previsto se ha raccolto dai parlamentari rimasti una voglia tale di crisi rigeneratrice di governo da avere concesso che si potrebbe, se proprio necessario, passare all’appoggio esterno a Draghi: non comunque all’opposizione.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 29 giugno 2022.

Il numero uno è sempre lui, ma non è più uguale all'uno che era, anche perché ce n'è un altro che non è più uguale a uno neanche lui, perché non c'è più, ha fatto una scissione, mentre un altro ancora, di fatto, è un imbucato di Volturara Appula e pensa di valere tre, ma non ha neanche un mandato, e in compenso, appunto, ne vuole tre per alcuni altri, neanche tutti, solo alcuni, ma gli altri - tutti gli altri - vorrebbero essere loro quelli che valgono tre, e così il numero uno non sa che cosa fare, o così sembra, e manda messaggi contraddittòri, manda affanculo i giornalisti che dieci anni fa dovevano essere morti e però sono vivi, ma non pendono più dalle sue labbra, non pensano più che «vaffanculo» sia un dirompente messaggio politico, pensano solo che sia un vaffanculo alla vecchia maniera che il numero uno non riesce più a dirsi neanche da solo, allo specchio, anche perché lo specchio è frantumato in mille pezzetti come succede ai vetri di sicurezza delle auto, i pezzetti si sparpagliano ovunque ma non tagliano, non incidono, non servono, si sa soltanto che il vetro non è più trasparente (da anni) e che andrebbe sostituito per intero, perché così non serve a niente, ed è l'unica certezza: niente è uguale a niente, zero è uguale a zero, ci sono due forze «politiche» che si sono separate ma potrebbero restare nello stesso governo, ed è un'agonia, un'autoconsunzione in diretta, una decomposizione a cielo aperto, un tramonto dopo una notte polare col sole che non ha neppure fatto in tempo ad alzarsi.

Che pena anche solo scriverne, cercare qualche parola per l'orazione funebre, leggere le «invenzioni» di quei «morti» che sarebbero i giornalisti ma i cui necrologi sembrano tutti plausibili, i morti fanno l'autopsia a un cadavere, con Beppe Grillo che è legato al tetto dei due mandati per affetto verso un morto vero (Gianroberto Casaleggio) e che però si dice disposto, Grillo, a riciclare i suoi 49 parlamentari in una sorta di scuola di formazione grillina: quando basterebbe una qualsiasi scuola media. Questi parlamentari grillini, cioè, dovrebbero insegnare qualcosa a qualcuno. 

Poi Grillo che biascica improbabilissimi attestati di stima per Giuseppe Conte («Abbiamo caratteri diversi, ma un ottimo rapporto»: manco ai tempi di Gava) mentre lui, Conte, non si capisce neppure se voglia restare al governo oppure no, e in ogni caso, come detto, vorrebbe una deroga di mandato almeno per alcuni parlamentari amici suoi, all'apparenza i più stupidi.

Si legge di trattative per deroghe da calcolare in percentuale tipo un dieci per cento (manco in Piazza del Gesù) e insomma l'idea di ricandidarne non più di cinque per le prossime elezioni politiche: ma sarà vero? 

E se anche fosse, in concreto, che cosa ce ne frega? Sino a che punto equivale a scrivere di «politica» il descrivere un vivido e impietoso funerale di gruppo?

Peraltro le urla delle prefiche più disperate devono ancora venire, ne scriveremo e scriveranno nei prossimi giorni, quando cominceranno le epurazioni e il fuggi-fuggi generale, e la conta anche dei soldi rimasti in cassa, e le voci sul cambio di una sede troppo esosa, e la stra-conferma dell'irrilevanza politica e manageriale di Giuseppe Conte e relativi consigliori porta-sfiga, soprattutto la prospettiva di lotte titaniche (rendetevi conto) tra soggetti come Paola Taverna, Vito Crimi, Alessandro Di Battista e altri ancora, questo mentre Grillo è stato visto scendere dall'auto (e l'Ansa lo rileva) con in mano una banana.

A chi importa che cosa farà, a chi frega delle primarie per le regionali in Sicilia, se Conte resterà presidente del Movimento? Importa solo chi resterà al governo, ma sino a un certo punto: Mario Draghi rimarrà in piedi lo stesso, e il Movimento è destinato alla tomba lo stesso.

Neanche lo scissionista trasformista, del resto, riuscirebbe a garantire niente a transfughi di una forza ridotta a meno di un quarto dei voti (a scendere) rispetto a quando il Paese fu così stupido da votarli in gran massa. Poi raccontano che Grillo sul tetto dei due mandati sarebbe irremovibile come una salma, e che abbia incontrato l'ex guardasigilli Alfonso Bonafede che andrebbe a casa pure lui: «Alfonso, dai, tornerai a fare l'avvocato». 

Dicono pure che stia puntando al foro di Milano, Bonafede: che per uno come lui suonerebbe probabile come se diventasse, chessò, ministro della giustizia. Insomma è triste, è tutto triste, come quei giornalisti che iniziano la carriera scrivendo necrologi, e ora, in fondo, ne stanno solo scrivendo un altro.

Stefano Folli per “la Repubblica” il 29 giugno 2022.  

L’ultimo paradosso italiano è anche il più spettacolare. Da un lato, Mario Draghi che si muove da protagonista al G7 e subito dopo al vertice della Nato convocato per ridisegnare, in tempi di guerra, le priorità geopolitiche e militari dell'Occidente: un momento che potrebbe diventare storico, o quantomeno in grado di essere riconosciuto come tale fra qualche anno. Per adesso viene ribadita la solidarietà attiva con l'Ucraina e anche su questo punto il presidente del Consiglio è esplicito.

Dall'altro lato, c'è lo spettacolo provinciale di una politica domestica che non riesce a sollevarsi dalle sue beghe. Draghi sembra muoversi sulla scena internazionale ostentando indifferenza, cioè senza curarsi delle convulsioni dei partiti che pure fanno parte della maggioranza di quasi unità nazionale. Dietro il rispetto formale del protocollo politico e parlamentare, s' indovina un distacco che un tempo sarebbe stato impensabile. Non è l'effetto dell'"arroganza tecnocratica", come dice qualcuno, bensì del collasso della politica.

O almeno di quei segmenti che hanno dominato la scena negli ultimi quattro anni. Forse non è un caso se Draghi ha scelto di fare una valutazione molto politica quando ha insistito, a margine del G7: "La crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo". Frase che definisce una linea discriminante: e ciò proprio nei giorni in cui si misura il cortocircuito dei movimenti, appunto, populisti.

Ne è conferma il fenomeno più clamoroso: i Cinque Stelle dopo la scissione del gruppo Di Maio. È comprensibile che Conte e i suoi si sforzino di sopravvivere, tuttavia è evidente che sono privi di qualsiasi idea che non sia la guerriglia pressoché quotidiana, ma di corto respiro, nei confronti del governo e del premier. 

Del resto, l'antico padre carismatico, Beppe Grillo, maschera a malapena il fastidio, se non il disprezzo, per la sua creatura. Lungi dall'essere venuto a Roma per dare una mano a Conte - a parte le frasi di circostanza - , egli si preoccupa di far capire a tutti di essere ancora la "guida suprema" di quel che resta del M5S. E di aver deciso che si continua ad appoggiare Draghi, quindi si resta nel governo. Collocazione che in verità Grillo, per motivi pubblici e privati, non ha mai messo in dubbio. Si dirà che un giorno o l'altro i "contiani" vorranno liberarsi dalla tutela del padre-padrone.

Può darsi, ma non siamo certo a quel punto. Per ora l'avvocato del popolo si trova stretto nella solita tenaglia. Se sospende le ostilità verso Palazzo Chigi delude i più accesi tra i suoi sostenitori e si espone alla domanda ovvia: ma allora perché avete rotto con Di Maio sulla politica estera, se poi continuate a votare nello stesso modo? Se viceversa ascolta i consiglieri più bellicosi, deve preparare l'uscita dall'esecutivo e il reingresso nel movimento dell'irrequieto Di Battista, simbolo stesso della deriva massimalista.

La mossa avrebbe una sua logica, visto che già oggi la scissione tende a spingere i 5S verso i confini della maggioranza. Ma esige una tempra che Conte non ha mai dimostrato di avere, tant' è che al momento il suo impegno è dedicato a introdurre eccezioni alla regola dei due mandati, nella speranza di costruirsi un piccolo cerchio di fedeli. Non proprio un orizzonte rivoluzionario. Ecco perché gli stessi che vogliono i 5S fuori dal governo desiderano anche affidare la risalita elettorale alla verve demagogica di Di Battista. Per Conte si preparano tempi cupi.

DAGOREPORT il 28 giugno 2022.

Lo show romano di Beppe Grillo è stata la prova verificata che di Elevato, in mezzo a questa ammucchiata di pipparoli a 5 stelle, ce n’è uno solo. Il solo a possedere un intuito politico e una leadership sociale: con quattro lazzi ha messo termine alla ricreazione dell’asilo Mariuccia messo su dall’irrilevanza di Giuseppe Conte. (E bene ha fatto Di Maio a tagliare la corda 24 ore prima dell’arrivo di Beppemao all’Hotel Forum: l’ex bibitaro sarebbe stato travolto dal carisma del Fondatore).

Così la pochette di Peppiniello Appulo si è rivelata utile a Grillo per pulirsi gli occhiali. 

Primo punto: Caro Giuseppe, si resta al governo. Anche se noi usciamo, e facciamo felici Travaglio e Di Battista, Draghi rimane in piedi a palazzo Chigi, quindi diventiamo ininfluenti, il Pd ci ripudia e conteremo meno di quel poco che contiamo adesso.

Secondo punto: Caro Conte, il limite ai due mandati deve restare "un tema identitario imprescindibile" e "senza deroghe". Qual è il criterio per fare una distinzione sulle deroghe: l’anzianità, l’amicizia, la simpatia? Tu dici che, senza deroghe, ci sarebbe un esodo verso Di Maio? Ma anche Luigino non riuscirà mai ad eleggerli tutti: siamo passati dal 32% all’8, meno di un quarto, a cui si deve aggiungere anche il taglio dei parlamentari (200 senatori, 400 deputati), previsto dalla nostra legge. Anche Di Maio avrà presto i suoi problemi. 

Terzo punto: Caro avvocato, una deroga al limite dei due mandati per sbloccare la candidatura di Giancarlo Cancelleri in Sicilia, te la puoi sognare. Griillo si ricorda benissimo che quando si aprì uno scontro contro di lui, il comitato di garanzia era formato da Cancellieri, Roberta Lombardi e da Crimi.

Permaloso com’è, l’Elevato non permetterà mai a Cancellieri di ricandidarsi al terzo mandato. Non solo: se Cancellieri non verrà candidato, Conte prende l’1% in Sicilia. Ancora: malgrado le supercazzole che spara dalla Gruber, Conte non vuole il ritorno di Dibba perché andrebbe ad oscurare Taverna e Crimi. 

Ultimo punto: Egregio avvocato, se ti interessa ancora fare il presidente del Movimento, devi seguire quello che ti dico io. Amen.

(ANSA il 28 giugno 2022) - "Ma siete esaltati, coprite con non cose le cose vere. Quando vi comporterete bene con me, con noi, con il Movimento faremo delle belle interviste". Lo ha detto il garante del Movimento Beppe Grillo arrivando in Senato, rispondendo a chi gli domandava se il M5s sta valutando l'appoggio esterno al governo. Grillo è sceso dall'auto con in mano una banana.

(ANSA il 28 giugno 2022) – È assolutamente necessario presentare un candidato del M5s alle primarie per le Regionali in Sicilia: è la richiesta ribadita dai deputati del Movimento a Beppe Grillo, nelle riunioni con il garante in corso alla Camera. 

Per sbloccare la candidatura di Giancarlo Cancelleri - spiegano fonti parlamentari dei 5 stelle - servirebbe in tempi strettissimi una deroga al limite dei due mandati, regola che deve restare "identitaria" per il Movimento, secondo quanto ha ribadito anche oggi Grillo. L'altra candidatura forte, secondo le stesse fonti, è quella di Nuccio Di Paola, capogruppo 5 stelle all'Ars.

Simone Canettieri per ilfoglio.it il 28 giugno 2022.  

Il Grillo-tour fra i parlamentari M5s in ansia per la ricandidatura continua. Questa mattina, prima di trasferirsi in Senato, il garante ha continuato ad ascoltare "i miei ragazzi". Salvo ribadire, ancora una volta, che "il tetto dei due mandati è imprescindibile". Stesso discorso in Sicilia, dove per le regionali Giancarlo Cancelleri chiede la deroga: "Per me non se ne parla". E allora bisogna ricostruire queste sedute di autocoscienza di Grillo con i parlamentari nel panico, al chiuso della Sala Tatarella, secondo piano di Montecitorio.

Quelli al primo mandato si fanno paladini dei principi inderogabili: "Beppe siamo con te!". Quelli al secondo tacciano, mettono sguardi vaghi e parlano di temi. Il siparietto che più merita è quello fra Grillo e Alfonso Bonafede. L'ex ministro della Giustizia, arrivato al secondo giro di boa, prende la parola: "Come ti ho già detto in privato, sono a favore del rispetto della regola. Non bisogna derogare". E Grillo: "Ma certo, Alfonso, dai. Tornerai a fare l'avvocato". L'ex ministro del Conte I e II la prende a ridere, ma pare che si stia davvero attrezzando per il futuro puntando al foro di Milano.

Giuseppe Brescia, anche egli al secondo mandato, racconta l'incontro così: "Sono intervenuto per parlare di temi e collocazione politica. Non di mandati". Perché? "Ero in conflitto d'interessi, come d'altronde i miei colleghi che si trovano alla prima legislatura". Il Grillo tour continua nel Palazzo anche nel pomeriggio. Parola d'ordine: non vi lascerò soli ragazzi, sarete i prof. della nostra scuola di formazione. Una sistemazione che sembra non interessare agli eletti: "Sì, va bene ma quanto si guadagna?".

 Marcello Veneziani per “la Verità” il 26 giugno 2022.

Se fossi Beppe Grillo scioglierei il Movimento 5 Stelle. Non ha più ragione di esistere, ha perso tra scissioni, defezioni ed espulsioni più della metà dei suoi rappresentanti eletti in Parlamento, è destinato a un'ingloriosa decimazione e il trasformismo lo ha divorato, snaturato e svuotato. Pensare che il più camaleonte di tutti Giuseppe Conte debba oggi rappresentare e difendere l'identità del Movimento dai traditori voltagabbana come Luigino Di Maio, è qualcosa che va oltre il teatrino dell'assurdo.

La cosa peggiore che si può dire di loro è che a ruoli invertiti farebbero ambedue la stessa cosa: Conte al governo avrebbe le stesse posizioni di Di Maio in tema di euroatlantismo, guerra, Mattarella, Mastella e compagnia bella. E Di Maio fuori dal governo sarebbe il leader dei grillini veraci e risentiti. Sono situazionisti, per non dire paraculi.

Conte e Di Maio hanno insieme vissuto, promosso e condiviso tutte le quattro stagioni del transgrillismo: identitari quando non sono al governo, alleati con Salvini per andare al governo, alleati ai dem per restare al governo, infine sostenitori di Draghi, della Nato e delle Vecchie Zie euroamericane per restare al governo. E ambedue hanno fatto di tutto per non andare alle urne: lo chiedevano i loro stessi parlamentari che a loro volta, come i loro capi, hanno a cuore solo la sopravvivenza personale. E perciò votano qualsiasi governo sia in carica, pur non di tornare al voto.

Sintetizzo così la situazione del divorzio tra Volta&Gabbana: il trasformista Di Maio si è separato dal contorsionista Conte. Giuseppe Zelig sposa da avvocato la causa del Movimento 5S ma non s' azzarda a rompere col governo, altrimenti il voto sbaracca i grillini. E Fregoli Di Maio si fa euro-atlantico, draghino e centrista, tra Mastella e Mattarella e si piazza al centro. 

Sono statisti acrobatici, specialisti nel salto multiplo della quaglia. Uno vale uno quando non sei nessuno; altrimenti pussa via, non sapete chi sono io.

Quando Giggino apparve da cucciolo di Grillo in tv, ascoltandolo e vedendo i suoi modi poco grillini, le sue mani di fata, il suo argomentare e il suo abitino, gli predicemmo il futuro: diventerà democristiano, senza offesa per i dc. Così è stato. E così sarà.

Solo un paio di settimane fa ipotizzavamo un Cartello Surreale costituito da Di Maio, Mastella, Renzi, Carfagna e i centristi sparsi e oggi quello scenario dell'assurdo è l'ipotesi più probabile su cui stanno lavorando gli stessi interessati, salvo non riuscire nell'intento e allora invocare la loro purezza: non saremmo mai andati con lui. Dal canto suo Conte, stando fuori dal governo, serbando rancore per la sua cacciata da Palazzo Chigi e dovendo rappresentare la clientela grillina, ha recitato per poche ore la parte dell'Intransigente per poi squagliarsi come burro e calarsi le braghe, uscendo con la coda tra le gambe.

Alla fine è rimasto nel governo e nella maggioranza pure lui come il suo rivale transgenico, votando pure il via libera per le armi all'Ucraina e rimandando ancora una volta la rivoluzione, causa maltempo, a data da destinarsi. E allora per cosa si sono divisi? Per la sola e ridicola ragione del secondo mandato? 

Ma dai, fatela finita con questa pagliacciata. Alla fine, l'unico grillino coerente è Ale Di Battista, purissimo grillissimo, che è fuori dal Movimento ma rappresenta lo spirito originario, confusionario ma coerente. Dovrebbe essere lui l'ultimo leader del Movimento, pur ridotto a partitino d'opposizione almeno per concludere in bellezza con la sigla di chiusura. Lui è l'unico in questa vicenda a uscirne a testa alta; magari vuota ma alta.

L'unica argomentazione seria a queste mie osservazioni è sempre la solita: ma gli altri partiti sono forse meglio? No, non sono meglio, ma questi sono peggio. 

Trasformisti ce ne sono, eccome, anche dalle altre parti, gente che si rimangia quel che dice il giorno prima ce ne sono a iosa, ma nessuno è riuscito a essere così trasformista come loro e a vivere tutte le stagioni passando dal bianco al nero, dal rosso al verde, dal giallo al grigio, dall'antipolitico al peggior politicante. Ma un amico grillino mi incalza: e allora per te chi dovremmo votare? Le soluzioni sono due: se siete coerenti, per nessuno. 

Se siete realisti e pensate al male minore, a tutti gli altri, uno a vostra scelta, ciascuno secondo le sue preferenze. I grillini sono riusciti nell'arco di questi quattro anni di governo e di movimento maggioritario a dimostrare due cose opposte: quanti danni, errori, sciocchezze può commettere un movimento antipolitico di dilettanti arrabbiati al governo, dal reddito di parassitanza in poi.

E quanto accomodante, servile, trasformista, poltronista può diventare un movimento del genere, superando in queste specialità tutti gli indecenti politicanti delle due repubbliche precedenti. Se fossi Beppe Grillo annuncerei di sciogliere il movimento, magari col consenso del ritrovato sodale Casaleggio, pur avendo la certezza che i suddetti grillini, grilloidi e grillacchioni se ne fregherebbero e resterebbero attaccati all'ultimo straccio di Movimento e di seggiola fino a che non saranno cacciati dall'elettorato.

Ma per lui sarebbe perlomeno un modo per scindere la sua immagine e la sua responsabilità di leader e ora di garante da quel circo penoso. E se non vuole dichiarare fallimento del progetto, se non vuole dirsi veramente sinceramente deluso dalla sua creatura, potrebbe perfino chiudere con un colpo di teatro, dicendo che la missione dei grillini è compiuta e perciò può dirsi soddisfatto e ora non hanno più ragion d'esistere: ha dimostrato che dal nulla un movimento può diventare il primo partito e andare al governo, e ha dimostrato pure il contrario, che un partito di governo, primo per consensi, può ridursi al nulla. Dal nulla al nulla, passando per il potere. Sarebbe il vero ritorno alle origini.

Il doppio mandato e il trasloco dal Palazzo: l'incubo per le settanta anime perse grilline. Francesco Boezi il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Salvo deroghe, dovrebbero mollare pure Fico, Taverna, D'Incà e Bonafede.

Alessandro Di Battista ha svolto, prima di optare per uno stop, un solo mandato ed essendo anti-sistemico in geopolitica - proprio come piace alla versione attuale di Giuseppe Conte - potrebbe rientrare in Parlamento e nel MoVimento 5 Stelle. Quello che potrebbe valere per «Dibba», però, non varrà, con ogni probabilità, per tanti storici grillini che sono rimasti. Quelli che dovranno scegliere tra il buen ritiro, la speranza in deroghe (quelle che magari scatteranno per qualche contiano di ferro) ed il riposizionamento partitico, che potrà essere facilitato dalla sempre più ventilata scissione.

Quanti sono, però, i parlamentari pentastellati che, per via della regola del limite dei due mandati, saranno quantomeno costretti a saltare un giro? Più o meno una settantina. Tutti esponenti che, grazie al crollo della creatura nata sull'onda delle «piazze del Vaffa» ed al taglio degli scranni imposto dalla riforma targata proprio M5S, sono in predicato di salutare la politica, oltre che il Parlamento. L'idea di Beppe Grillo, che sui due mandati ha ribadito d'essere indisponibile a trattare, sarebbe quella di aprire alle candidature nei Consigli regionali o al Parlamento europeo, ma il M5S non può più contare sui voti di qualche anno fa. La discesa fotografata dalle recenti amministrative non ha bisogno di interpretazioni: il nervosismo non può che circolare tra chi sta per varcare di nuovo le porte di casa. Se non altro perchè, ora come ora, correre a preferenze non può che essere considerato chimerico. Al netto della narrativa sulla distanza siderale dai palazzi - quella che è ormai in disuso - resta comunque difficile rintracciare un parlamentare grillino disposto a mollare la politica.

Il nervosismo ed i tumulti dei settanta sono percepibili con facilità. Di nomi se ne potrebbero fare tanti. Quello che pesa di più, sia in termini storico-politici sia in chiave istituzionale, è quello del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. L'Inquilino della Farnesina, che per le norme interne non potrebbe fare parte delle liste per le prossime elezioni politiche, è il candidato principe a fare la mossa capace di spaccare a metà l'universo pentastellato: la scissione, appunto. Anche il presidente della Camera Roberto Fico non sarebbe ricandidabile. Per lui, come per il ministro Federico D'Incà e per l'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, Conte potrebbe fare qualche eccezione.

Poi un lungo elenco di volti storici: Paola Taverna, Vito Crimi, Carlo Sibilia, Roberta Lombardi (al secondo mandato in Regione Lazio), Giancarlo Cancelleri, Manlio Di Stefano, Riccardo Fraccaro, Luca Frusone (che guida la delegazione italiana del Parlamento alla Nato), Gianluca Vacca, Nunzia Catalfo, Danilo Toninelli, Giulia Grillo, Marta Grande, Giulia Sarti, Sergio Battelli, Fabiana D'Adone (ministro in carica), e tanti altri.

Qualcuno seguirà il destino di Di Maio. Altri, come premesso, spariranno dalle scene. Il MoVimento 5 Stelle si prepara alla trasformazione in «MoVimento anime perse». E non sarà indolore.

"Si pone fuori dal M5s". La Todde "spara" su Di Maio. Francesca Galici il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

La critica della risoluzione di Luigi Di Maio non è piaciuta al M5s. E il vicepresidente Todde coglie l'occasione per un nuovo attacco al ministro.

La rivelazione della bozza di risoluzione del Movimento 5 stelle ha aperto un ulteriore fronte di rottura all'interno del M5s. Il primo attacco diretto è arrivato proprio da Luigi Di Maio: "Ho letto in queste ore che c'è una parte dei senatori della forza politica cui appartengo che avrebbe proposto una bozza di testo da inserire nella risoluzione, che di fatto ci disallinea dall'Alleanza Nato e ci disallinea dall'Ue". Parole che hanno creato ulteriore tensione all'interno del partito guidato da Giuseppe Conte.

L'affondo di Di Maio contro il suo partito è stato totale: "Se è un'Alleanza difensiva e ci siamo tutti quanti dentro, lavoriamo tutti quanti insieme per una soluzione pacifica. Non è che ci sganciamo e cominciamo a fare cose che magari possono essere utilizzate dalla propaganda russa per dire che l'Italia sta un po' di più con la Russia che con la Nato: questo non ce lo possiamo permettere". Ma alle sue parole sono seguite a stretto giro quelle di un altro esponente governativo, Alessandra Todde, viceministro allo Sviluppo economico e vicepresidente del M5S.

"No ad altri invii di armi". Spunta la bozza di risoluzione del M5s

"Chiunque dica che noi facciamo una politica che non è all'interno del contesto europeo e della Nato, che è anti-atlantica, non lo sta dicendo in buona fede. In realtà stiamo semplicemente ponendo al governo dei temi democratici e necessari in una dialettica politica", ha tuonato il viceministro, in riferimento alla critica mossa da Di Maio sulla bozza di risoluzione. Ma il punto di vista di Alessandra Todde non incontra nemmeno quello di Laura Castelli, viceministro dell'Economia: "Io di sicuro non voterei una risoluzione, qualora presentata dal mio gruppo, in cui si chiede di non inviare armi all'Ucraina. Un punto che va fuori dalla collocazione storica dell'Italia".

"Discutiamo se ci rappresenta...". Bomba contro Di Maio

Ma ancora una volta, il ministro degli Esteri è stato preso di mira per le esternazioni pubbliche contro il partito. Prima, Alessandra Todde ha ribadito la posizione già espressa da Giuseppe Conte: "Credo che Di Maio, parlando in una certa modalità, si stia ponendo fuori dal Movimento. Abbiamo degli organi interni in cui dibattere, come il Consiglio nazionale. La discussione deve essere fatta lì, se viene fatta a mezzo stampa ci assume la responsabilità di quello che si fa". Poi, Michele Gubitosa, vice presidente M5s, ha rincarato la dose: "Oggi Di Maio è un ministro della Repubblica perché è espressione della prima forza politica, non perché si chiama Luigi Di Maio, e mi domando quanto al governo rappresenti ancora il M5s, o se stia rappresentando solo sé stesso o qualcun altro".

"Quel movimento con le ruote a terra". Francesco Boezi il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il sociologo: "Era un'auto, ora è una bici. E in futuro vedo una scissione".

Il sociologo Domenico De Masi, che ha seguito il MoVimento 5 Stelle sin dalla comparsa sul palcoscenico politico, parla di rischio «deflagrazione» ed analizza le cause del crollo dei pentastellati.

Il MoVimento 5 Stelle è in via di sparizione. Come se lo spiega?

«Beh, il M5S può ancora contare sul 14%. Sono dati di sondaggi che non sono stati commissionati dai grillini. Se Bettino Craxi avesse mai avuto il 14%...».

Sì, però Craxi non guidava un partito a vocazione maggioritaria in un sistema bipolare.

«Vero. Resta che Conte e Di Maio sono le uniche due novità della politica italiana degli ultimi dieci anni, e non vanno d'accordo tra loro. Anzi, sono in contrapposizione frontale, pensi!».

Ripercorriamo la parabola grillina?

«Hanno avuto un exploit nel 2018. Poi il M5S ha perso metà elettorato con il governo gialloverde. Matteo Salvini, ai tempi, è cresciuto, in percentuale, tanto quanto è sceso il M5S. Poi i pentastellati sono rimasti attorno al 16-18% per ventisei mesi, in una situazione cristallizzata. Dopo il Quirinale, con il primo diverbio tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, sono scesi al 14%».

Una parabola discendente esiste.

«Certo, non c'è dubbio».

Inoltre, c'è un caos interno. Come lo spiega?

«Un caos è un caos. Come si può spiegare un caos? Le ripeto che gli unici due esponenti politici definibili nuovi, almeno rispetto all'ultimo decennio, sono nemici tra di loro».

Il MoVimento non è più antisistemico: questa è la causa della crisi?

«Tutti i movimenti tendono a diventare partiti. Un movimento è come un mucchio di sabbia, con tanti granelli diversi al suo interno. In questo caso, i granelli erano uniti dal rancore contro la casta. I mucchi di sabbia, però, tendono a diventare come un mattone. Non tutti ci riescono e spesso qualcosa viene perso per strada. Con il governo giallorosso, la situazione elettorale grillina era rimasta uguale a se stessa. Adesso, con l'animata dialettica tra Conte e Di Maio, rischiano la deflagrazione finale».

C'è solo questo aspetto?

«Il M5S aveva quattro ruote. Una era il movimentismo antisistemico, che era impersonato soprattutto da Alessandro Di Battista. C'era l'ala governativa, che era incarnata da Di Maio. Poi c'erano il carisma dei due fondatori e la piattaforma. Di queste quattro ruote, ne sono rimaste soltanto due: quella governativa e quella della linea di protesta, per cui ora c'è Conte. Il MoVimento era un'automobile, ora è una bicicletta. In una bicicletta, se le due ruote non concordano, è un bel problema».

Lei prevede una scissione?

«O si mettono d'accordo, e non lo vedo probabile, oppure si scindono. Se dovessero scindersi, tre quarti resterebbero con Conte, mentre un quarto andrebbe con Di Maio. I due tronconi, comunque sia, non corrispondo al tutto. Ovvio che il potere di due partiti non sarebbe quello avuto da un movimento unico ed unito».

La fase finale del grillismo tra profezie e decrescita. Casaleggio senior diceva: attivi o sarà inutile votarci.

Domenico Di Sanzo il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dal boom del 2013 al disastro delle Comunali, i fondatori avevano previsto il declino.

E se i fondatori avessero previsto tutto questo? Se davvero il Movimento non fosse altro che un «virus» destinato a estinguersi col tempo, come suggerito da Beppe Grillo? Oppure, se come scrisse Gianroberto Casaleggio, alla fine dei conti «i movimenti in Rete nascono spesso per ottenere un obiettivo. Informano, coinvolgono, fanno proseliti»? Possiamo anche non credere alle profezie, ma sembra proprio che, a tredici anni dalla sua fondazione, il M5s abbia raggiunto il suo scopo di spalancare le porte delle istituzioni ai cittadini e sia pronto per autodistruggersi. Come un messaggio di una chat di Telegram che, una volta arrivato a destinazione, scompare da solo e non se ne ha più traccia.

A proposito di predizioni, ce n'è una ancora più esplicita. Una dichiarazione che, letta oggi attraverso le lenti dello scontro tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, suona ancora più profetica. La pronuncia Grillo alla fine del 2012, proprio prima dello sbarco in Parlamento dei grillini. Il comico è in giro per l'Italia con il #Massacrotour, alle prese con la raccolta firme per presentare le liste delle elezioni politiche che si svolgeranno a marzo del 2013, quando un attivista gli chiede quale sarà il futuro dei Cinque Stelle. Questa la risposta del Garante: «Il futuro del M5s è sciogliersi. Quando noi avremo anziché il 20% dei consensi il 100%, quando i cittadini saranno diventati istituzioni, noi non avremo più senso». E i due esempi più lampanti di cittadini diventati istituzioni sono Conte e Di Maio. L'avvocato sconosciuto ai più che si è ritrovato presidente del Consiglio di due governi, l'ex studente fuori corso della provincia napoletana che a 35 anni può vantare il cursus honorum di un veterano della politica. Vicepresidente della Camera, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, vicepremier, ministro degli Esteri.

Suona come una profezia anche un'altra frase di Casaleggio senior, contenuta nel libro «Il Grillo canta sempre al tramonto», pubblicato nel 2013. «Non basta osservare quello che il MoVimento fa o non fa. Se uno ci crede deve diventare attivo, altrimenti perderemo, altrimenti è inutile votarci. In parlamento saremo magari cento, ma saremo dieci milioni fuori», la riflessione del cofondatore del M5s. Nove anni dopo ci troviamo di fronte a un partito fortissimo in Parlamento, con 227 eletti, ma i sondaggi sono in calo costante e il ricorso alla democrazia diretta digitale è sempre più raro.

Ma come siamo arrivati al big bang? L'impressione è che l'unica decrescita propiziata da Grillo sia stata quella infelice dei voti del Movimento. E se è stato lui, al battesimo del fuoco del 2013, a trascinare la sua banda di carneadi verso un sorprendente 25%, è stato sempre lui a benedire tutti i salti della quaglia del M5s al potere.

Dopo l'altro boom del 2018, il demiurgo del Vaffa, il profeta dell'antipolitica, ha dato il via libera prima alla creazione di un governo con la Lega e poi di uno con i nemici storici del Pd. Infine il capolavoro: entrare in un esecutivo di larghissime intese con a capo l'ex governatore della Bce Mario Draghi, definito per l'occasione un «grillino» dall'uomo che mandava a quel paese le banche, l'Europa e tutti i partiti. Per questo non deve meravigliare la dissipazione del consenso pentastellato a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Dal 32% delle politiche del 2018 al 17% delle europee dell'anno successivo. Fino alle migliaia di voti persi alle comunali, con la caduta delle due roccaforti di Roma e Torino conquistate nel 2016 e passate al Pd nel 2021.

La storia del grillismo è da manuale di Scienza delle distruzioni. Anche se, come spiega al Giornale Nicola Biondo, ex spin doctor dei Cinque Stelle alla Camera, giornalista e autore dei libri Supernova e Il Sistema Casaleggio, «per quanto riguarda la comunicazione la profezia dello scioglimento del M5s in altri partiti si è già avverata, basti pensare alle tecniche di Luca Morisi per Salvini, a Tommaso Longobardi, guru social di Giorgia Meloni che ha iniziato alla Casaleggio Associati e all'influenza che in un certo periodo ha avuto la comunicazione di Rocco Casalino persino su una parte del Pd».

Analfabetismo politico. Augusto Minzolini il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

La fine dei 5stelle diventerà un fenomeno di studio per i posteri, come l'epilogo dell'"uomo qualunque".

C'è un a,b,c della politica che probabilmente si è perso negli ultimi anni. Si può parlare di regole, culture, chiamatele come volete, venute meno, che hanno lasciato il campo ad un analfabetismo dilagante. A sinistra come a destra. L'esempio più lampante sono i grillini, ma non solo. La fine dei 5stelle diventerà un fenomeno di studio per i posteri, come l'epilogo dell'«uomo qualunque». Il Movimento si è trasformato in una supernova, è esploso e il detonatore è stato quel Giuseppe Conte che è approdato alla guida dei 5stelle quasi per caso. Ormai è una guerra di tutti contro tutti. L'ex premier contro Giggino Di Maio, ma pure Beppe Grillo che la pensa diversamente da Casaleggio, mentre il Dibba imperversa sull'uscio. Il punto è che i grillini si sono liquefatti per autocombustione. Per un'assenza di guida, di professionalità sono affogati nel giro di qualche anno nelle loro stesse contraddizioni. L'ultima è clamorosa: come fa un ex premier che ha trascorso tre anni a Palazzo Chigi, a prendere le distanze in politica estera da un governo che ha come inquilino della Farnesina il principale esponente politico del suo partito?

È chiaro che quella polemica avrebbe contrapposto Giuseppi a Giggino. Ma l'assurdo è che lo scontro, che probabilmente sarà la premessa di una scissione, era scontato, era nelle cose ma Conte non solo non ha fatto nulla per evitarlo ma ha acceso la miccia. Ha trascurato un'ovvietà e cioè che la scelta di mettere in discussione la linea di politica estera - perché porre il problema della fornitura delle armi a Kiev significa questo - si sarebbe trasformata in una sfiducia al titolare della Farnesina prima che a Draghi.

Di Maio, punto sul vivo, messo sul banco degli imputati da chi sulla carta è il leader del suo partito, non poteva non rispondere. Al netto degli altri contrasti che scuotono il Movimento, a cominciare dal tetto dei due mandati parlamentari.

Appunto, Conte per l'ennesima volta ha dato prova di analfabetismo politico, perché ha messo a dura prova pure il suo rapporto privilegiato con Enrico Letta che ora probabilmente, volente o nolente, sarà costretto a scegliere Di Maio come interlocutore.

Una débâcle.

Un altro esempio di analfabetismo politico rischia di andare in scena a Verona sul versante del centrodestra. Il sindaco uscente e candidato di Fdi e della Lega, Federico Sboarina, arrivato al ballottaggio contro il candidato di sinistra, ha avuto la bella idea di rifiutare per ora l'apparentamento al secondo turno con Flavio Tosi, neo-esponente di Forza Italia. Probabilmente il nostro personaggio ignora che per vincere l'apparentamento è quasi un obbligo dal punto di vista strategico. Invece, Sboarina o per risentimenti personali, o per egoismo politico, ancora dice no ad un'alleanza alla luce del sole. Preferirebbe un inciucio sotto traccia con Tosi. Un modo per umiliarlo. L'atteggiamento, però, rischia di condannarlo alla sconfitta e dimostra il masochismo di un centrodestra che riesce a perdere anche partite già vinte. Giorgia Meloni, leader di Sboarina, parla di ritorno al bipolarismo, ma a quanto pare il suo candidato ne ignora completamente le logiche. Ma, soprattutto, se in vista delle elezioni politiche esiste un disegno, perseguito da qualcuno nel centrodestra, che punta a non allargare l'alleanza per paura di spostarne il baricentro, be', va detto subito, che sarebbe la solita sciocchezza dalle conseguenze letali.

Il M5s è sempre stato "una forza d'odio". Andrea Indini il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

Di Maio preoccupato per il M5s: "Temo diventi una forza d'odio". Ma, dalle gogne social alla giustizia usata come clava, il partito del vaffa da sempre fomenta la base contro gli avversari politici.

Colpisce sentire Luigi Di Maio preoccupato per le sorti del Movimento 5 Stelle. "Temo che diventi una forza politica dell'odio", ha esternato all'apice di un botta-e-risposta a distanza col capo Giuseppe Conte e col consulente massimo Beppe Grillo. Colpisce perché il rischio paventato dal ministro degli Esteri non esiste: non deve preoccuparsi che il M5s diventi "una forza politica dell'odio" perché lo è già, e da sempre per giunta.

Il Movimento 5 Stelle nasce col vaffanculo in bocca. Gli spettacoli sboccati del comico genovese, i meet up e i "Vaffa Day" sono l'origine di una forza politica che ha sempre usato la violenza verbale, la demonizzazione dell'avversario e la gogna social come armi per sbaragliare i partiti tradizionali e arrivare in parlamento e nei palazzi della politica. Senza queste continue aggressioni non esisterebbe il grillismo. "Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno", prometteva Grillo nel 2013. "Scopriremo tutti gli inciuci, gli inciucetti e gli inciucioni: quando illumini un ladro il ladro non ruba più!". I Cinque Stelle sono nati come forza anti sistema. Per farlo a pezzi, il Sistema, lo hanno infangato, calpestato e, infine, bistrattato finché non hanno capito che tutto sommato gli calzava a pennello. La loro è una parabola con infiniti cortocircuiti, cambi di casacca e dietrofront. La "scatoletta di tonno", tanto per intenderci, è stata sì aperta, ma poi ci si sono trovati tanto bene che vi si sono accomodati e, in barba alle regole contro i politici di professione, non vogliono più schiodarsi. Adesso che hanno tutti quanti indossato giacca e cravatta, fanno volare qualche vaffanculo in meno ma la solfa non è cambiata.

Per esempio. Oggi inorridiscono (giustamente) contro le spregevoli liste dei filo Putin. Si sono forse dimenticati delle liste di proscrizione che quotidianamente pubblicavano sul blog di Grillo? Il giornalista del giorno. Si chiamava così, la rubrica. Il post era breve: nome e cognome del giornalista da impallinare, testata, breve descrizione del "reato" commesso. A scorrere una selva di commenti (e insulti) dei lettori. A fine anno, poi, maxi lista finale per nominare il giornalista (peggiore) dell'anno. Gogna social. I grillini, dopotutto, sono da sempre campioni di sputtanamento. Soprattutto quando ci sono le Procure di mezzo. La sete di giustizialismo li ha spinti a gettare nelle galere virtuali del web politici indagati o rinviati a giudizio. Poco importa se poi, a distanza di anni, si sono rivelati innocenti. Nessuno, per certe campagne d'odio, hai mai chiesto scusa. Li hanno letteralmente massacrati, infischiandosene bellamente della presunzione di innocenza. Hanno sempre avuto un solo obiettivo: fare a pezzi l'avversario. E ci sono sempre riusciti.

I grillini incanalano l'odio del web contro i propri avversari sin dagli albori del Movimento. È una costante. Nel 2014 era stato Grillo in persona a scatenare l'assalto all'allora presidente della Camera, Laura Boldrini, chiedendo ai propri follower: "Che fareste in auto con Boldrini?". Non serviva un professorone della comunicazione a suggerire che un post di tale ambigua portata avrebbe scatenato commenti violenti. L'intento - possiamo facilmente immaginarlo - era proprio quello. Per questo fa sorridere sentire Di Maio preoccuparsi. Il M5S è sempre stato "una forza politica dell'odio". L'unica differenza è che da movimento d'odio è diventato partito d'odio. Ora che incassa i finanziamenti pubblici, che inciucia a destra e a manca pur di conservare la poltrona, che alle elezioni non disdegna apparentamenti per non soccombere, ora che vanta uomini nei ministeri che contano si è solo fatto più istituzionale. Non tema, dunque, Gigino. Il M5S continuerà a odiare. E continuerà a riversare questo odio contro gli avversari politici e contro quella Casta che, oggigiorno, anche loro rappresentano.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 19 giugno 2022.

Una domenica sul filo della tensione. I vertici M5S riuniscono il Consiglio nazionale in serata. Tema del giorno le dichiarazioni pubbliche di Luigi Di Maio. «Ora basta», dicono i contiani facendo intuire che il presidente del Movimento punta su una linea dura per chiarire l'affaire Di Maio. 

Alle 21,30 inizia la riunione dei big stellati per decidere che linea adottare. Giuseppe Conte pone la questione subito su un piano politico, cercando di evitare toni da processo. Una possibile espulsione, insomma, non è sul tavolo. 

Tra i quattordici al tavolo il dibattito è acceso, movimentato. Dopo due ore di conciliabolo non trapela nulla. In piena notte, nella nota conclusiva, i vertici m5s ribadiscono la collocazione euro-atlantica dell'Italia, bollando come «immotivate» le accuse del ministro.

«Comunicheremo le nostre decisioni per tempo», dicono nel Movimento. Quello che viene ripetuto come un mantra dai contiani è che il ministro «ha passato il segno». I dimaiani, invece, ostentano sicurezza. «Noi abbiamo agito per il bene del Paese e per il bene del partito: se ci devono processare per questo facciano pure», è il ragionamento che viene ripetuto da più parti. 

Eppure il filo conduttore della giornata è scandito dalle voci in merito a una possibile espulsione dell'ex leader dal M5S. I vice di Giuseppe Conte sono sul piede di guerra. «Trovo gravissimo che un ministro degli Esteri si esprima in questo modo, a fronte forza politica che ha sempre rivendicato di essere all'interno di una compagine euro atlantica e della Nato e che, peraltro, è rappresentata da un ex presidente del Consiglio», attacca Alessandra Todde a Sky tg24 . I dimaiani si schierano compatti a fianco del titolare della Farnesina: sono almeno una dozzina gli interventi a sostegno di Di Maio. 

In realtà, la strada per l'espulsione è in salita. E molto. Il Consiglio nazionale non ha il potere di cacciare gli eletti, ma può segnalare il caso al collegio dei probiviri. Qui entrano in gioco una serie di complicazioni non indifferenti. 

Anzitutto, l'opportunità politica. Due esponenti su tre del collegio (Fabiana Dadone e Barbara Floridia) fanno parte del governo: «Espellere un ministro che cerca di difendere l'esecutivo non sarebbe un gran segnale d'immagine», commenta uno stellato. Il terzo componente del collegio, Danilo Toninelli, non potrebbe comunque deliberare da solo. In secondo luogo, c'è una questione legale. 

Le cause aperte - in particolar modo il reclamo presentato a Napoli sulla votazione per lo statuto contiano - pendono come spade di Damocle sulle decisioni interne. Intanto Lorenzo Borré, il legale storico degli espulsi M5S, dice all'Adnkronos : «Sarei disponibile a difendere Di Maio».

Se la strada per l'espulsione è tortuosa, la «convivenza interna» tra contiani e diamaiani appare ancora più ostica. Gli ostacoli sul percorso vanno ben oltre la risoluzione sull'invio di armi in Ucraina. Dovesse Beppe Grillo riuscire a far rientrare temporaneamente la crisi interna, ci sono altri fronti pronti ad accendersi, a partire dalla questione dell'inceneritore di Roma. 

Intanto L'ex M5S Vito Petrocelli punge i Cinque Stelle: «Martedì e mercoledì prossimi il Parlamento può togliere la delega in bianco conferita al governo sulle armi all'Ucraina. Io non l'ho votata e mi hanno espulso dal M5S. Ora hanno l'occasione di agire oppure è meglio che tacciano per sempre?», twitta il senatore. Intanto i dimaiani serrano le fila ed è partita la guerra dei numeri.

Secondo i contiani con il ministro sono schierate poche persone, «al massimo una ventina», mentre nell'inner circle dell'ex capo politico si danno cifre diverse. Si parla di 30-40 parlamentari schierati al fianco dell'ex capo politico e - assicurano fonti qualificate - «la cifra è destinata a crescere ulteriormente se Conte continuerà a tenere posizioni troppo radicali». Insomma, si ha l'idea di assistere a una partita che è solo al calcio d'inizio e che si preannuncia piena zeppa di tatticismi.

Antonio Bravetti per “La Stampa” il 19 giugno 2022.  

La notte delle stelle cadenti. È iniziato il processo a Luigi Di Maio: ieri sera l'ex capo politico è ufficialmente finito sul banco degli imputati per le sue «accuse strumentali» al Movimento 5 stelle. La resa dei conti si consuma col buio, fin dopo la mezzanotte, in una riunione fiume del Consiglio nazionale del partito convocata da Giuseppe Conte.

Il leader M5S esprime «forte rammarico» per le parole del ministro degli Esteri e ribadisce «i cittadini non vogliono vedere l'invio di altre armi all'Ucraina». Vuole schierare tutto il Movimento contro di lui, chiedendo un chiarimento pubblico di fronte agli iscritti, nessuno chiede la sua espulsione, ma «è un problema che va risolto», fanno sapere i fedelissimi di Conte. 

Quando ormai è notte e il Consiglio nazionale è ancora riunito, però, sono in tanti a protestare con il leader e i suoi vice per «la guerra comunicativa di questi giorni». Il partito che l'ex premier sognava muoversi granitico contro Di Maio, si rivela essere pieno di sfumature e di colombe che chiedono una tregua.

Quella di ieri, d'altronde, è stata una giornata di cannoneggiamenti, l'ennesima. Durissimi i vicepresidenti pentastellati. Per Michele Gubitosa «siamo a un punto di non ritorno». Riccardo Ricciardi sostiene che il ministro «da tempo è un corpo estraneo al Movimento». Quanto alla sua possibile espulsione, «vorrei ricordare che da capo politico Di Maio ha espulso persone per cose molto, molto meno gravi». La colpa di Di Maio, per Ricciardi, è di aver «detto che il M5S ha una posizione anti-atlantica o anti-europea. Non è così». 

Stesso giudizio da Alessandra Todde, che ricorda che il M5S ha «una sola linea» e giudica così le critiche dell'inquilino della Farnesina: «Dichiarazioni forti, neanche supportate dai fatti, perseguendo obiettivi personali, delegittimando la forza politica che rappresenta». L'atteggiamento di Di Maio, all'interno del partito, non è piaciuto a nessuno, ma in molti durante la riunione chiedono di evitare una guerra fratricida. Gli stessi vertici M5S, nel pieno della riunione, percepiscono che se si continuerà su questa strada verranno messi nel mirino i vicepresidenti. Primo tra tutti, Ricciardi, che ha guidato l'assalto più violento.

Di Maio, da parte sua, non desiste. Risponde a metà giornata con una lunga nota. Si aspettava dai dirigenti pentastellati che facessero «autocritica» e invece, sottolinea, «decidono di fare due cose: attaccare, con odio e livore, il ministro degli Esteri e portare avanti posizioni che mettono in difficoltà il governo in sede Ue. 

Un atteggiamento poco maturo che tende a creare tensioni e instabilità all'interno del governo. Un fatto molto grave». Per il titolare della Farnesina «l'Italia non può permettersi di prendere posizioni contrarie ai valori euro-atlantici. 

Valori di democrazia, di libertà, di rispetto della persona e di difesa degli Stati. In ballo c'è il futuro dell'Italia e dell'Europa». Con lui Francesco D'Uva, che accusa i vertici stellati di essere «di giorno atlantisti ed europeisti, di notte attenti accusatori pronti a puntare il dito contro Di Maio». Sergio Battelli, altro deputato di area, chiede conto di un «fuoco incrociato sui giornali con parole di una violenza e un odio senza precedenti». 

In una situazione già di per sé rovente, s' inserisce l'avvocato Lorenzo Borrè, il legale che ha assistito i militanti che con i loro ricorsi al tribunale di Napoli hanno fatto vacillare la leadership di Conte. «Non compete al Consiglio nazionale espellere Di Maio», precisa. Per cacciare dal Movimento il titolare della Farnesina «deve essere avviato un procedimento disciplinare ad opera del Collegio dei probiviri su istanza motivata del presidente, cioè di Conte». 

All'articolo 13, comma C, del nuovo statuto pentastellato si legge infatti: «Il Consiglio nazionale esprime un parere circa la decisione da assumere nei confronti di un eletto che non abbia rispettato la disciplina di gruppo in occasione di uno scrutinio in seduta pubblica o non ottemperi ai versamenti dovuti al M5S». Per Borrè, quindi, «non ci sono i presupposti per l'avvio di una sanzione disciplinare. Perché al momento sono state espresse solamente delle opinioni».

Dagonota il 19 giugno 2022.

Benvenuti all’ennesimo Casalino fuffa show! Ma quale scissione: Di Maio non esce e Conte non può cacciarlo dal M5S per il semplice motivo che non e stato ancora istituzionalizzato il collegio dei probiviri (tant’è che Petrocelli non è stato espulso ancora). Conte, per esistere come leader, può continuare ad attaccarlo con le sue supercazzole. E martedì, vedrete, in parlamento si rimangerà la risoluzione politica, che porta all’uscita dal governo, in una semplice mozione di comunicazione critica sull’invio di armi a Kiev. Altrimenti, Conte sa benissimo che verrebbe “cancellato” da Mattarella e Usa. Finirà nella solita manfrina acchiappa-titoli di Tarocco Casalino…

Dagospia il 20 giugno 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Le ricostruzioni fatte dal sito Dagospia, in un articolo in cui si parla di “Casalino show”, sono prive di fondamento. È inaccettabile che io venga puntualmente tirato in ballo per cose in cui non c’entro nulla” Lo afferma Rocco Casalino Dott. Ing. Rocco Casalino 

(ANSA il 20 giugno 2022) - "Siamo arrabbiati e delusi. Non riesco a comprendere che il ministro degli esteri Di Maio attacchi su delle posizioni rispetto alla Nato e all'Europa che nel Movimento non ci sono e non se ne dibatteva prima". Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico, commentando a Napoli le frizioni all'Interno del M5S.

"Non capisco perché nel Movimento ci sono questi attacchi su Ue e Nato in questo momento. Subiamo una cosa che secondo me è mistificatrice, non aderente alla realtà del M5S rimasto sempre legato a Ue e Nato". Lo ha detto il presidente della Camera, Roberto Fico, a Napoli, commentando la parole del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. 

Fico, tensioni? Non sono Conte-Di Maio ma M5s-Di Maio (ANSA il 20 giugno 2022)  - "Non c'è nessun Conte-Di Maio, state sbagliando prospettiva". Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico a Napoli sulla tensione nel M5S. "L'unica cosa che c'è è, al massimo, Movimento-Di Maio - ha aggiunto - perché attaccare il M5s su posizioni che non sono in discussione dispiace a tutta la comunità del Movimento. È questo il punto"

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 20 giugno 2022.

L'addio è già nei fatti, mancano solo i dettagli notarili a futura memoria, il chi-lascia-chi e come; ma a chi in queste ore sta telefonando e lasciando messaggi di vicinanza al ministro degli Esteri, ex capo politico del M5S portato al record del 33 per cento nel 2018, lui risponde di essere «assolutamente sereno».

La serenità di chi «in piena libertà ha espresso le proprie idee, si chiama democrazia, non potevo più censurare il mio pensiero».

 Dopo quasi quattro mesi di silenzio sui fatti di politica interna al Movimento, il giovedì di fuoco di Luigi Di Maio - quando disse che gli sembrava assurdo far finta di nulla dopo il flop dei 5 Stelle alle Amministrative, inchiodati a una media del 3 per cento - ha dato il via a una carambola di reazioni e controreazioni il cui esito era stato messo in conto dal ministro.

E se fino a qualche tempo fa tra gli obiettivi, o perlomeno le possibilità sul piatto, c'era quello di provare a riprendersi i 5 Stelle, oggi Di Maio ha la testa altrove. Anche perché, a maggior ragione dopo il voto della settimana scorsa, il Movimento appare sempre più una specie di bad company a corto di un qualsiasi appeal . Se un'epoca è davvero finita, perché lasciarsi confinare dentro a un guscio inospitale?

Così il più giovane vicepresidente della Camera della storia (nella scorsa legislatura), poi diventato vicepremier, ministro del Lavoro e due volte ministro degli Esteri (in questa), comprovate capacità politico- camaleontiche che sanno di antica e innata sapienza democristiana, a neanche 36 anni ha potenzialmente ancora una lunga strada davanti che limitare nei dogmi e nelle beghe del M5S non aveva più senso, perlomeno dal suo punto di vista. 

La "serenità" di cui prima è anche figlia della consapevolezza che a differenza di altri (ex) compagni di partito, Di Maio non ha alcun assillo di dover rientrare in Parlamento nel 2023. Probabilmente succederà, ma non è ciò che ne decreterà la fine o il prosieguo di carriera. Ha un curriculum spendibile a 360 gradi e il suo standing, perlomeno ormai dall'autunno 2019, è di quelli che funzionano nel mondo che conta, tra economia e relazioni internazionali.

La scommessa di Di Maio e dei suoi fedelissimi è che anche dopo il 2023 rimarrà in campo Mario Draghi, se non come presidente del Consiglio di sicuro come "metodo". «Davanti a problemi complessi occorrono soluzioni complesse », ha spiegato il ministro ai suoi. Ai partiti di stampo personale non crede più, lo va ripetendo nei vari colloqui trasversali che ha da tempo, e perciò l'idea di un nuovo soggetto politico incentrato sulla sua figura non rientra nell'ordine delle idee («perché non ha più un voto», è la spiegazione acida che danno alla cosa i vecchi compagni di Movimento, peraltro alcuni tornati in Parlamento grazie al Di Maio che aveva i voti).

Le interlocuzioni per costruire qualcosa d'altro però ci sono: col sindaco di Milano Giuseppe Sala, posizionato su sponde liberalsocialiste ed ecologiste; col sindaco uscente di Parma Federico Pizzarotti, un altro ex 5 Stelle oggi a pieno titolo in uno schema moderatamente progressista. E poi: Dario Nardella sindaco di Firenze, Luigi Brugnaro sindaco di Venezia, Stefano Bonaccini presidente dell'Emilia Romagna, Giovanni Toti presidente della Liguria. 

Una terra di mezzo che messa assieme potrebbe contare qualcosa, specie perché avrebbe un posizionamento utile un po' per tutte le stagioni. «Non c'è nulla di scritto o programmato », assicurano le persone più vicine al ministro. Si dovrà procedere a tappe. Ufficializzato il distacco dal M5S, si formeranno dei gruppi parlamentari o delle componenti. L'estate servirà per mettere a frutto e a compimento relazioni e imboccamenti in corso, per poi - se ci saranno le condizioni - lanciare la proposta politico-elettorale in autunno.

Guardando ancora più in là, lo schema ideale dei (possibili) promotori sarebbe una coabitazione con il Pd e Azione, magari pure con i verdi e la sinistra, ma senza il M5S. Convincere insomma Enrico Letta che il Movimento sia ormai elettoralmente inconsistente e politicamente inaffidabile, ragione per cui sarebbe necessario sostituirlo col rassemblement neocentrista. Alchimie di palazzo, per adesso. La scommessa sarà trasformarle in consenso. 

Federico Capurso per “La Stampa” il 20 giugno 2022.

Per tutto il tempo dell'intervista, la vicepresidente vicaria del Movimento, Paola Taverna, non vuole mai chiamarlo «Luigi», ma sempre e solo per cognome, «Di Maio», come fosse un estraneo. E in effetti, «non lo riconosco più - ammette Taverna -, sembra di sentir parlare Renzi, si comporta come un centrista qualunque». 

Il Consiglio nazionale si riunirà in piena notte, con il favore delle tenebre - per dirla con Giuseppe Conte - e deciderà la linea da tenere nei confronti del ministro degli Esteri, anche se l'epilogo sembra già scritto nelle pieghe delle accuse che gli vengono rivolte: «Sta cercando di distruggere il nuovo corso del Movimento. Lo vuole terremotare».

Arriverete mai all'espulsione di Di Maio?

«Prima ancora di chiedere se Di Maio deve essere espulso, bisognerebbe chiedere a lui perché fa di tutto per uscire. Ha mentito sulla risoluzione, sapeva benissimo che era un testo vecchio e superato, eppure l'ha usata per attaccarci. 

Fa un danno enorme al Movimento e non offre nessun servizio al Paese. Per me è solo tattica: le sue critiche sono iniziate subito dopo l'annuncio di Giuseppe Conte di voler chiedere alla nostra base un voto per modificare o meno il limite dei due mandati». 

Continuate a ripetere che Di Maio fa di tutto per uscire, ma perché non lo espellete? Perché aspettate che sia lui ad andarsene?

«Ripeto, al momento mi sembra che sia stato lui a dirsi fuori dalla casa che lo ha ospitato per anni e che lui stesso ha contribuito a costruire. In ogni caso decisioni così importanti vanno discusse negli organi preposti e previsti dallo Statuto.

Deve prima dare delle spiegazioni alla comunità del Movimento. Innanzitutto, sul motivo per cui ha deciso di mentire sulla risoluzione. Le sue parole non mi hanno provocato rabbia, ma tristezza. Ci dice che stiamo tornando al vecchio movimento radicale, ma la sua è una politica da anni Ottanta».

L'ambasciatore russo in Italia Sergej Razov sottolinea con soddisfazione le spaccature in Italia sugli aiuti militari. Non ne avete alcuna responsabilità?

«Si sta ancora lavorando in Parlamento al testo della risoluzione. Noi stiamo ponendo una questione politica. Abbiamo già inviato delle armi, questo conflitto rischia di essere lunghissimo, e ora serve un'escalation diplomatica nell'interesse dell'aggredito, non di questa folle guerra. Il Parlamento deve restare centrale». 

Se nella risoluzione punterete su una de-escalation militare e in Consiglio europeo si chiederà un ulteriore invio di armi a Kiev, non si verrà a creare quel pericoloso disallineamento rispetto all'Europa e alla Nato di cui parla Di Maio?

«Io mi aspetto che l'Italia si faccia promotrice di questa posizione in Europa. Dopodiché, saremo sempre aderenti rispetto alle decisioni che si prenderanno al Consiglio europeo. L'Italia però deve avere questo ruolo, in favore della diplomazia». 

Sfiduciando Di Maio non temete che si possano creare fibrillazioni sul governo?

«È lui che sta provocando fibrillazioni. Il nostro problema interno non deve influire in nessuna maniera sulla tenuta dell'esecutivo. Se si scusa con la sua comunità si può aprire un dialogo, ma credo che lui abbia già deciso di lasciare il Movimento 5 stelle.

Forse sta guardando al centro, si comporta come un centrista, come qualche senatore fiorentino che usa la politica come se stesse giocando una partita di Monopoli». 

Crede alla suggestione che possa unirsi al sindaco di Milano, Beppe Sala, per fondare una nuova forza politica?

«Se ne parla tanto in questi giorni, ma non ho visto da parte sua nessuna smentita. Lo vedrei bene in quell'area, poi sceglierà lui. Di certo non lo riconosco più come grillino, non è più il Di Maio dei primi tempi del Movimento». 

E voi resterete nel partito? Se resterà intatta la regola dei due mandati, in tanti, lei compresa, non potrete più candidarvi.

«Decideranno gli iscritti. Io sarò sempre a disposizione del Movimento, qualunque cosa accadrà. La politica deve essere al servizio dei cittadini».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 20 giugno 2022.  

Giggino 'o atlantista. "I dirigenti della prima forza politica in Parlamento, invece di fare autocritica, attaccano con odio e livore il ministro degli Esteri e portano avanti posizioni che mettono in difficoltà il governo in sede Ue. Un fatto molto grave.

Vengo accusato dai dirigenti della mia forza politica di essere atlantista ed europeista.

.. Rivendico con orgoglio di essere fortemente atlantista ed europeista. Abbiamo precise responsabilità: in ballo c'è il futuro dell'Italia e dell'Europa" (Luigi Di Maio, M5S, 19.6.2022). 

"La nostra posizione sulla Nato è sempre stata coerente: andare oltre la Nato. Cambiare il livello di impegno. In questo momento siamo dei pazzi a portare le nostre truppe al confine con la Russia. Questo è un dibattito che non abbiamo scatenato noi, ma addirittura il presidente degli Stati Uniti d'America, mettendo anche lui in dubbio la Nato.

Quindi noi, nel nostro piccolo, siamo stati precursori di un dibattito che ci sarà a livello planetario sulla Nato e nello specifico tra i Paesi membri. Vi ricordo che la Nato in questo momento sta portando truppe al confine della Russia quando noi crediamo che non sia assolutamente indicato. È da folli fare questa cosa. Quello che chiediamo noi è rivedere quello che è l'impegno dell'Italia nella Nato. E ci fa piacere che anche Trump venga su questa linea" (Di Maio, vicepresidente M5S della Camera, Lapresse, 13.1.2017).

"L'Euro non è democratico. Bisogna prevedere procedure per uscirne con un referendum consultivo per chiedere ai cittadini italiani se vogliono uscire della moneta unica: uno Stato sovrano deve poter gestire la propria moneta. 

In caso di esito favorevole, ci si potrà organizzare con altri Stati usciti dall'Euro oppure prevedere un ritorno alla Lira. Servirà prima una legge costituzionale che ci impegneremo a realizzare nella prossima legislatura"

Da lastampa.it il 20 giugno 2022.

E' arrabbiato, furente, per gli stracci che volano tra i suoi e finiscono dritti sui giornali. A quanto apprende l'Adnkronos da autorevoli fonti, ieri Beppe Grillo avrebbe espresso tutto il proprio disappunto con diversi esponenti M5s. Per i toni usati e per i titoli che parlavano di una possibile ''espulsione'' di Luigi Di Maio. Una guerra interna che non piace al garante del Movimento: «così ci biodegradiamo in tempi record», si sarebbe sfogato il fondatore dei 5 Stelle. 

Il termine espulsione usato contro l'ex capo politico e attuale ministro degli Esteri lo avrebbe mandato su tutte le furie: per Grillo, spiegano le stesse fonti, le 'punture' di Di Maio andavano ignorate, non cavalcate in tempi comunque complessi come non mai per il Movimento. 

Grillo, giovedì atteso a Roma, già nei giorni scorsi aveva fatto trapelare nervosismo per la questione 'morosi', ovvero per la mancata restituzione di parte delle entrate dei parlamentari, altra regola aurea -assieme a quella del limite del due mandati- che per il garante del M5S non si può ignorare.

Ora la guerra sui giornali, senza esclusione di colpi, e con alcune dichiarazioni -vedi l'intervista di Riccardo Ricciardi su Di Maio bollato come 'corpo estraneo'- che Grillo fatica a mandar giù. Quanto al dossier Ucraina, assicurano fonti vicine al leader Giuseppe conte, i contatti tra Grillo e l'ex premier sarebbero continui, concordi sulla necessità di una de-escalation militare e su una riflessione che coinvolga il Parlamento su nuovi invii di armi a Kiev. 

L'attesa per l'arrivo di Grillo sale tra Camera e Senato, anche perché in molti confidano che questo nuovo blitz possa sciogliere una volta per tutti i dubbi sulla regola del limite ai due mandati, che Conte ha per ora messo in freezer. 

Il fondatore e garante del Movimento, che sulla questione è intervenuto venerdì scorso con un post sul suo blog in cui ha ribadito la ratio di una regola aurea del Movimento, sembra aver aperto spiragli per una possibile soluzione. Che potrebbe essere trovata nel cosiddetto principio di 'rotazione', ovvero consentire a chi ha già due mandati alle spalle di candidarsi ad altre cariche pubbliche, leggi Parlamento europeo e Regioni. 

Era stato lo stesso Grillo a scherzare coi suoi nei mesi scorsi sulla questione, incitandoli con la solita ironia a non mettersi di traverso: «dai che guadagnate anche di più...», lo sfottò usato con alcuni fedelissimi, come riportato dall'Adnkronos. Ma in realtà, chi è davvero vicino al garante del Movimento assicura che a Grillo neanche l'espediente del 'due più due' andrebbe giù, convinto di dover preservare la regola dei due mandati -cara anche a Gianroberto Casaleggio- a oltranza, senza deroghe di sorta.

Ma un punto di caduta va trovato, ne va della tenuta stessa del Movimento. Su cui, tra l'altro, l'ascendente di Grillo sembra essersi in parte 'offuscato' per via del contratto stretto col Movimento sulla comunicazione, dietro compenso: molti parlamentari non lo hanno infatti mandato giù. 

Simone Canettieri per ilfoglio.it il 19 giugno 2022.

E' una guerra di nervi, quella che sta vivendo il M5s. Un remake di quanto già visto a gennaio per l'elezione del capo dello stato. A differenza da cinque mesi fa, però, qualcosa questa volta dovrà accadere. Lo dicono, con toni diversi, entrambe le fazioni in guerra  che fanno capo a Luigi Di Maio e a Giuseppe Conte. 

Alle 21 il capo politico del M5s ha riunito d'urgenza (su Zoom) il Consiglio nazionale dei grillini, l'equivalente della direzione Pd, per trovare un metro di paragone. 

Statuto alla mano, è impossibile che questo organismo (composto dal capo politico, dai suoi vice, dai capigruppo di Camera e Senato, dal capo delegazione al governo, al Parlamento europeo e dai coordinatori dei principali comitati tematici) possa decidere d'imperio l'espulsione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio dal M5s. 

Lo dice appunto la costituzione bizantina dei pentastellati, ancora in balia di ricorsi e quindi sotto la scure del tribunale di Napoli. 

Lo statuto, all'articolo 13 comma C, dà al Consiglio nazionale il "potere di esprimere un parere circa la decisione da assumere nei confronti di un eletto che non abbia rispettato la disciplina di gruppo in occasione di uno scrutinio in seduta pubblica o non ottemperi ai versamenti dovuti al MoVimento per lo svolgimento delle attività associative o alla collettività, così come disciplinato dal presente Statuto e dal relativo Regolamento". Non è il caso di Di Maio. 

Al massimo il Consiglio nazionale pentastellato potrà decidere di deferire ai probiviri il titolare della Farnesina per aver contrastato la linea politica del leader e per avere creato una corrente. Tuttavia, per attivare questa procedura disciplinare servirà l'input di Conte. Ma i tempi, prima di arrivare a un fatto politico, sono lunghi. 

E comunque, in via molto teorica, dovranno essere i probiviri grillini a emettere la sentenza dopo novanta giorni nei confronti dell'ex capo  del MoVimento.

Dato di cronaca: Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia da quando sono si sono insediati ai vertici del tribunale interno del M5s non hanno ancora espulso nessuno. Non solo: nemmeno hanno attivato le procedure propedeutiche per farlo. Basti pensare che il cartellino rosso non è stato sfoderato neanche per Vito Petrocelli, l'ex presidente della commissione Esteri del Senato decaduto per via della sua posizione filoputiniste, il quale è stato solo allontanato sì dal gruppo parlamentare, ma non dal partito.

Perché? Si ritorna sempre alla vicenda legale dello statuto in preda ai ricorsi degli ex iscritti in quel di Napoli. In attesa che la faccenda si chiuda, qualsiasi decisione presa ora se venisse ribaltata dai giudici permetterebbe all'espulso di rifarsi legalmente e civilmente sui probiviri. Un rischio che nessuno si vuole prendere. Ecco perché Petrocelli, il compagno Petrov, fa parte ancora a tutti gli effetti del M5s, inteso come associazione. 

Finora ad agitare l'espulsione di Di Maio in maniera netta sono stati due dei cinque vicepresidenti del M5s: Riccardo Ricciardi e Michele Gubitosa, con altrettante interviste.

Alessandra Todde, invece, ha ribadito la linea pro Ucraina e la vicinanza al patto atlantico del M5s, senza risparmiare dure critiche al titolare della Farnesina, accusato di "inseguire obiettivi personali"  

Paola Taverna, al contrario, è l'unica vicepresidente a non essere ancora intervenuta (forse perché in conflitto d'interessi: della compagnia di vertice si trova nella posizione di essere al secondo mandato, altro tema che sarà affrontato a fine mese). 

Di Maio li chiama "dirigenti" per indicarli come burocrati polverosi, coloro che con "parole d'odio" continuano ad attaccarlo perché "europeista e atlantista". Il Consiglio nazionale M5s però potrebbe sfiduciare politicamente il suo ministro degli Esteri spiegando che interpreta la linea del partito: operazione complicata da spiegare perché porrebbe subito l'ex premier dall'altra parte, quella dei simpatizzanti di Putin.

C'è poi un argomento ancora più complesso che fa interrogare i vertici contiani: "Siamo sicuri che se anche riuscissimo a espellere Luigi, Draghi lo toglierebbe da ministro degli Esteri?". 

La domanda non è peregrina, anzi. Soprattutto in questa fase così delicata della guerra in Ucraina. C'è chi è convinto, infatti, che il premier non muoverebbe comunque il suo ministro degli Esteri nemmeno davanti a una sfiducia formale del partito da cui proviene. 

Sarebbe una figura barbina davanti agli altri paesi della Nato, un favore alla Russia, a pochi giorni dal viaggio a Kyiv con Macron e Scholz. Una destabilizzazione del quadro istituzionale su un argomento così strategico come la geopolitica, posto che con un premier che si chiama Mario Draghi è naturale che la politica estera sia diretta dal capo del governo.  

Di sicuro a Palazzo Chigi non entrano nel dibattito interno al M5s, anche se si tratta del partito di maggioranza relativa. Ma va anche detto che il premier è stato informato dal primo giorno delle intenzioni del suo ministro di indicare la rotta sulla risoluzione in programma martedì in Parlamento. Una linea che li accomuna, fino a sovrapporli. 

Se è forte e forse fuoriluogo dire che ci sia uno scudo di Draghi per Di Maio e altrettanto approssimativo pensare che il governo si faccia trascinare in un rimpasto o "peggio ancora nella guerra interna dei partiti", riflettono nelle stanze di Palazzo Chigi. 

 Dunque questa sera, al di là di un profluvio di agenzie, difficilmente si arriverà a una svolta. Prima c'è il passaggio parlamentare di martedì. Domani le forze di maggioranza si incontreranno per cercare un'intesa su un documento condiviso. Manca la parte più complicata: quella sull'Ucraina.

I grillini spingono per ottenere nel testo "il no alle armi" da inviare a Zelensky.  Sarà quello il primo test per il M5s, propedeutico a seconda della piega che la risoluzione prenderà in Aula, a una scissione. Il giorno dopo, mercoledì, è prevista l'assemblea congiunta dei parlamentari: l'ora del chiarimento, ma forse nemmeno quello definitivo. Giovedì ecco Beppe Grillo, chiamato a Roma per motivi legati al suo contratto da 300mila euro con il Movimento ma costretto a intervenire su un fronte a dir poco infuocato. Con la scissione di Di Maio data ormai come un fatto più che possibile. Nei corridoi della Farnesina si fanno i calcoli: sarebbero una sessantina i parlamentari pronti a seguire di Di Maio.

Da open.online il 19 giugno 2022.

Con una nota il ministro degli Esteri Luigi di Maio risponde in «via ufficiale» agli attacchi sempre più diretti che sta ricevendo in questi giorni dai vertiti del suo partito, il Movimento 5 Stelle, la cui unità si è progressivamente frantumata attorno a diversi temi, uno su tutti l’invio di armi all’Ucraina. In uno scenario globale complicato, scrive Di Maio, «i dirigenti della prima forza politica in Parlamento, invece di fare autocritica, decidono di fare due cose: attaccare, con odio e livore, il Ministro degli Esteri e portare avanti posizioni che mettono in difficoltà il Governo in sede Ue», ha detto Di Maio, definendo quello dei leader del partito «un atteggiamento poco maturo».

«È un fatto molto grave che tende a creare tensioni e instabilità all’interno del Governo. Vengo accusato dai dirigenti della mia forza politica di essere atlantista ed europeista. Lasciatemi dire che, da Ministro degli Esteri, davanti a questa terribile guerra rivendico con orgoglio di essere fortemente atlantista ed europeista», ha scritto. Poi ha concluso: «Ricordo innanzitutto a me stesso che abbiamo precise responsabilità: in ballo c’è il futuro dell’Italia e dell’Europa».

La spaccatura interna al partito, che vede Di Maio e Conte ai poli opposti da ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina, sembra ormai insanabile: con il risultato disastroso delle elezioni comunali i toni sono precipitati rapidamente, con un botta e risposta tra i due che ha portato a parlare addirittura di espulsione per il ministro degli Esteri che, se dovesse scegliere di andarsene di sua spontanea volontà, potrebbe essere seguito da molti fedelissimi. La prossima attesissima puntata è il Consiglio Nazionale convocato con urgenza per oggi da Giuseppe Conte che, finora, non ha commentato l’ipotesi, sempre più concreta, di una scissione definitiva del partito.

La Balena gialla. Il Movimento 5 Stelle è così spiaggiato che neppure nella notte fatale è successo qualcosa. Mario Lavia su l'Inkiesta il 19 Giugno 2022 

Il Consiglio nazionale del M5S si è sgonfiato. Troppo complicato cacciare il ministro degli Esteri, troppo pericoloso giocare con le armi a Kiev. Tutti a casa. Ma il giocattolo grillino si è rotto per sempre

È l’8 settembre del Movimento, tutti a casa, il formicaio che definitivamente impazzisce all’ombra della maxi-rissa tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. E, anche se al conclave di ieri sera non è successo nulla di serio (nessuna espulsione, nessuna rottura con Mario Draghi sull’Ucraina), c’è da dire che da qualche ora i M5s sono almeno due – contiano e dimaiano – più un pulviscolo di posizioni individuali, tutte accomunate dal terrore di quelli che quelle posizioni mantengono di essere finiti nel labirinto che conduce all’inferno della politica: la sconfitta, l’irrilevanza, infine l’estinzione.

L’improvviso Consiglio nazionale del M5s, organo mai riunitosi prima, più che essere un 25 luglio – in fondo non è stato deposto il Capo e nemmeno cacciato l’antagonista Di Maio – ha decretato l’addio ai giorni felici dell’Italia ai piedi del grillismo. Doveva essere il giorno del diluvio, non hanno combinato niente. Troppo complicato cacciare il ministro degli Esteri, troppo pericoloso giocare con le armi a Kiev. Tutti a casa.

Ora importa relativamente il futuro del ministro degli Esteri, vittima di quello stalinismo alle vongole da egli co-fondato, che comunque resta dov’è, e ancor meno quello di Giuseppe Conte, un uomo senza qualità che ancora una volta ha sparato ad acqua, sull’Ucraina il governo non rischia perché Giuseppi sa bene che i parlamentari grillini vogliono far passare (domani in Senato, il giorno dopo alla Camera) una mozione di maggioranza sufficientemente di mediazione per essere votata da tutti.

Oggi si stenderà il testo della mozione che ricalcherà le comunicazioni di Mario Draghi senza andare a sbattere sul tema delle armi, in questi casi i professionisti della politica sanno come si scrivono questi documenti. E tuttavia il senso di queste ore è chiaro: adesso non c’è solo un Movimento ma due, tre, quattro, nessuno, vattelappesca. Il giocattolo si è rotto per sempre.

Ma vi ricordate? «Siamo indistruttibili!», urlò Beppe Grillo quel lontanissimo 4 ottobre 2009 al teatro Smeraldo di Milano. Si sbagliava. Sono passati tanti anni ma oggi il suo Movimento Cinque stelle è distrutto: un balenottero spiaggiato. Ne hanno combinate di tutti i colori, hanno rinverdito la tradizione del populismo e del qualunquismo italiano, hanno abbaiato alla luna di una immaginaria nuova politica, hanno illuso grandi masse, si sono alleati con gli xenofobi e con i progressisti, hanno occupato pezzi di Stato e cambiato il lessico politico intrecciandolo con la celebrazione dei clic, sono rimasti sostanzialmente degli ignoranti della sintassi democratica: e oggi eccoli lì nel loro ultimo rantolo finale, il che è un’ottima notizia per la qualità della politica sebbene gli ultimi sbuffi della balena potrebbero essere imprevedibili.

Alla lunga, però, la Moby Dick grillina è destinata a una fine ingloriosa, senza più voti, in preda a una guerra civile interna, un incubo che svanisce dopo l’ubriacatura dell’antipolitica lasciando sullo sfondo la figura di un uomo dalle idee vaghe, quell’avvocato del popolo che ha dilapidato qualsiasi cosa sull’altare del potere, un personaggio in sé effimero e conformista come il Marcello Clerici di Moravia.

Conte è ormai un ex leader che solo la rozzezza intellettuale di qualche dirigente romano del Partito democratico ha tenuto in vita, elevandolo a punto di riferimento dei progressisti, quando lui, l’avvocato, non sa neppure cosa voglia dire progressismo altrimenti non avrebbe firmato i decreti Salvini che avrebbero potuto portare a morte decine di immigrati. Ieri sera l’azzeccagarbugli della provincia di Foggia ha capito che rompere sull’Ucraina avrebbe sgonfiato l’unico salvagente che ha, cioè l’alleanza con il Pd che malgrado tutto potrebbe garantirgli un seggio parlamentare, e però non rompere equivale a dare ragione a Di Maio, ormai punto di riferimento fortissimo dei grillini con un po’ di sale in zucca in procinto forse di fare un M5s 2.0 di governo – e comunque in ogni caso lui resta ministro degli Esteri.

Dunque è l’ora di un de profundis che non si nega nemmeno ai ribaldi, e dunque neppure al partito dei Toninelli e delle Taverna, dei Giarrusso (Michele o Dino fa lo stesso), del vecchio Di Battista che, chissà, forse raccoglierà il testimone del peronismo-guevarismo del “primo” Movimento imbevuto nella vodka di Vladimir Putin e Sergej Lavrov.

Di Maio magari andrà altrove a coltivare il suo orticello – nell’Ulivetto di Enrico Letta uno spazio si trova – mentre sul futuro di Conte cala il buio. Ci ha messo molto del suo, Giuseppi, per suicidarsi. Ma va anche ricordato l’impegno di tutti coloro che in questi anni hanno impedito il prolungarsi di un’esperienza umiliante per la nostra democrazia, da Matteo Renzi a Carlo Calenda, per fare due nomi di politici che hanno guidato la resistenza al populismo grillino vezzeggiato invece dagli eredi della Ditta e dai campioni della destra anch’essa populista ma in chiave più reazionaria, per finire al razionalismo politico di Mario Draghi che del grillismo ha definitivamente svelato la pochezza.

Demolita dopo anni e anni di lavoro la gamba più “di massa” del bipopulismo italiano si apre di conseguenza uno spazio nuovo, se non altro perché nel 30 per cento ottenuto dal Movimento alle ultime elezioni c’è sicuramente qualcosa di salvabile da estrarre dalla palude contiana per tenerla dentro l’area del riformismo di governo. Dove andranno i consensi di quattro anni fa, questo è il problema. Non è facile dare una risposta adesso. Ma dopo la lunga notte del Movimento diventa più facile immaginare un nuovo giorno per l’avvenire della politica italiana.

Da Conte a Taverna e Bonafede: ecco il tribunale che "giudica" Di Maio. Federico Garau il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Sul tavolo il tema Di Maio e la questione relativa alle posizioni da assumere per quanto concerne il conflitto in Ucraina.

La questione Ucraina e le posizioni da assumere nei confronti di Luigi Di Maio sono al centro del Consiglio nazionale del Movimento CinqueStelle che si riunirà nella serata di oggi.

Il clima teso in casa grillina, esacerbato dai deludenti risultati elettorali e dalle recenti esternazioni del ministro degli Esteri in carica, è evidente da giorni e all'orizzonte pare delinearsi una frattura difficile da ricomporre. I membri del Consiglio nazionale del M5S chiamati a pronunciarsi sui due delicati temi sono, oltre il presidente del partito Giuseppe Conte, i capigruppo di Senato, Camera e Parlamento europeo Mariolina Castellone, Davide Crippa e Tiziana Beghin, i quattro vicepresidenti del Movimento Michele Gubitosa, Mario Turco, Alessandra Todde e Riccardo Ricciardi, il capo della delegazione al governo, il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli. Prenderanno parte al delicato incontro anche il coordinatore del Comitato nazionale progetti Gianluca Perilli, il coordinatore del comitato per la formazione e l'aggiornamento nonchè ex primo cittadino di Torino Chiara Appendino, il coordinatore del Comitato per i rapporti europei e internazionali Fabio Massimo Castaldo e il coordinatore del Comitato per i rapporti territoriali, nonché ex ministro della Giustizia del governo Conte con la Lega, Alfonso Bonafede. Secondo le normative previste dallo statuto del Movimento dovrebbe essere presente anche un rappresentante dei parlamentari pentastellati eletti nelle Circoscrizioni estere.

Lo scontro

"Oggi Di Maio è un ministro della Repubblica perché è espressione della prima forza politica, non perché si chiama Luigi Di Maio", aveva affondato in un'intervista concessa a Fanpage il vicepresidente del Movimento Michele Gubitosa senza troppi giri di parole, "e mi domando quanto al governo rappresenti ancora il M5s, o se stia rappresentando solo sé stesso o qualcun altro". Sollecitando una riflessione interna per comprendere come comportarsi, Gubitosa aveva toccato anche il tema di una probabile scissione da parte di Di Maio, minimizzando tuttavia la portata che un evento del genere avrebbe potuto avere per il partito: "Più semplicemente uscirà dal movimento con alcuni parlamentari perseguendo un interesse personalistico".

"Discutiamo se ci rappresenta...". Bomba contro Di Maio

La questione ucraina, specie dopo l'affondo del ministro degli Esteri, continua a tenere banco nelle ultime ore." Ritengo inopportuno che una forza politica di maggioranza attacchi, con particolare livore, il suo ministro degli Esteri per posizioni che proprio oggi alcuni esponenti dicono di sostenere", ha infatti spiegato in una nota ufficiale il deputato pentastellato Francesco D'Uva, accusando i suoi di manifesta ambiguità sul tema. "Sono stati gli stessi vertici M5s a dichiarare oggi di essere atlantisti ed europeisti e che il Movimento 5 Stelle non vuole mettere a rischio la collocazione atlantica del nostro Paese", ha proseguito il parlamentare grillino, dicendosi per questo motivo stupito per gli attacchi subiti da Di Maio. "Non si possono accettare queste continue ambiguità su un tema delicato come la politica estera", ha aggiunto, "soprattutto se lo si fa per meri fini propagandisti o per questioni legate a equilibri interni al Movimento 5 Stelle".

Da “Un giorno da Pecora – Radio1” il 17 giugno 2022.

La compagna di Davide Casaleggio e membro Rousseau a Un Giorno da Pecora: Conte? Ha idea di democrazia narcisistica ed autoreferenziale. 

“La distanza tra il M5S pensato da Gianroberto Casaleggio e quello attuale è siderale, è un'altra cosa. Rousseau? Era un'architettura per la partecipazione, è stata premiata come una delle migliori piattaforme al mondo, SkyVote sostanzialmente offre un servizio per il voto”.

Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Enrica Sabatini, membro dell'associazione Rousseau, attivista della prima ora del M5S e compagna di Davide Casaleggio. Come valuta i contrasti tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte? “Il movimento è liquido e si adatta al contenitore, questi dissidi mi fanno più sembrare i due come Calenda contro Renzi. 

L'idea di democrazia diretta di Conte è totalmente autoreferenziale e narcisistica, pensa che democrazia voglia dire votare per lui e parlare con lui”. Chi dei due leader Cinquestelle pensa di più al bene del Movimento? "Nessuno dei due - ha detto Sabatini a Un Giorno da Pecora - lo utilizzano per le carriere personali”. 

Voi di Casaleggio farete un nuovo movimento con Di Battista? “Stiamo lavorando e studiando alcune prospettive future e mi fermo qua”. Si sente di escludere che creerete un nuovo soggetto politico? “Io nella vita non escludo niente”.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 25 giugno 2022.  

Davide Casaleggio, lei ha bollato come disastrosa la gestione di Conte.

«Lo dicono i risultati. Con la guida Conte si sono persi l'80% degli elettori rispetto al 2017, si sono candidati 10 sindaci contro i 224 nel 2017, i gruppi locali sono scomparsi, si è persa la vicepresidenza in Europa, sono rimasti 5 europarlamentari su 14, e solo 167 parlamentari sui 339 iniziali perdendo anche la maggioranza relativa in Parlamento.

Per molto meno un amministratore delegato di una azienda verrebbe licenziato in tronco o si dimetterebbe».

La scissione era evitabile?

«Oggi il processo è accentrato in una persona nominata che si consulta con organi nominati da lui stesso e che stranamente decidono tutto all'unanimità. Se non ci sono spazi di confronto è fisiologico che le persone escluse, che siano parlamentari, attivisti o elettori, ti abbandonino». 

Che errori imputa a Conte?

«Aver distrutto in soli 15 mesi un progetto politico costruito con grandi successi in 15 anni. Come già detto da Grillo credo che Conte sconti la sua totale inesperienza manageriale e anche l'assenza di una visione innovativa. Ha accentrato potere nelle stanze romane cancellando con un tratto di penna i gruppi locali che erano la rete strategica per promuovere i territori, e decidendo di non utilizzare un'architettura della partecipazione unica al mondo che consentiva di creare valore tra oltre 200 mila persone e che custodiva un know how decennale fondamentale». 

Ha detto che Di Maio è stato costretto ad andarsene, ma non ha delle responsabilità se si è arrivati a questo punto?

«Se vedo una responsabilità da parte delle persone che non hanno gestito direttamente questo nuovo corso è il non rendersi conto che i grandi risultati raggiunti dal M5S fossero conseguenza di questo importante progetto di partecipazione e di consapevolezza popolare». 

Come valuta il progetto di Di Maio?

«Per ora mi sembra solo un gioco di palazzo in cui sono stati spostati parlamentari in un altro contenitore. Alle prossime elezioni al centro potrebbero esserci più partiti che elettori».

Il M5S può risollevarsi?

«Credo si sia andati oltre il punto di non ritorno. Mi fa pensare a quel film comico in cui per poter prendere la pensione della nonna deceduta, i nipoti la mettevano nel congelatore facendo finta che fosse ancora viva. Tuttavia la pensione è sempre più magra vedendo il 2,2% di voti delle ultime amministrative». 

Di Battista ha detto che è pronto a rientrare se lasciasse il governo Draghi. Il M5S dovrebbe uscire dal governo?

«Il M5S dovrebbe avere il coraggio di chiedere se rimanere o meno al governo ai propri elettori. Perché la premessa e la promessa fatte a chi votato il M5S erano di coinvolgerli nelle scelte politiche importanti e non arrogarsi il potere di farlo in qualche stanza con quattro persone nominate dall'alto».

Come è possibile che il M5S si sia così logorato? Sente di aver sbagliato qualcosa?

«Una comunità per funzionare deve reggersi su principi, metodi, valori e regole condivise. Forse avrei dovuto denunciare pubblicamente prima la loro violazione evitando di fidarmi in buona fede che chi aveva la responsabilità di farle rispettare lo facesse». 

Se potesse ricostruire un nuovo M5S chi vorrebbe?

«Coloro che pensano che "utopia" sia una parola inventata da chi non ha la voglia o capacità di immaginare un nuovo mondo e che non hanno l'ambizione di una carriera politica».

Elena G. Polidori per “La Nazione” il 19 giugno 2022.

«Il M5s è un’esperienza finita. Varrebbe la pena che si prendesse atto serenamente di questa realtà. È inutile l’idea di poter risollevare qualcosa che ormai è rifiutato dall’elettorato. Persino il simbolo è ormai un brand svuotato di tutti i contenuti positivi, che evoca solo un tradimento e smuove solo rancorosità. Insomma, sarebbe meglio prendere quel che resta del Movimento, metterlo in una bottiglia e buttarla nell’Oceano…». 

Chi parla è lei, Lady Rousseau, Enrica Sabatini, moglie di Davide Casaleggio e madre dei suoi due gemelli che davanti allo scontro che si sta consumando nel partito di maggioranza relativa tra il leader Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, alza lo sguardo al cielo: «Io però l’avevo detto che sarebbe finita così, cioè male…».

Peggio di così…

I problemi sono cominciati quando il potere si è accentrato nelle mani di alcune persone, ma in particolare con Conte che non è uomo che nasce nel Movimento, è un estraneo e anche oggi dice e fa cose che connotano chiaramente questa estraneità. È stato bravo nel suo ruolo istituzione ed ha saputo gestire il governo in pandemia, ma un conto è essere un soggetto di garanzia, un altro è essere un leader. E per essere un leader devi avere la tua visione».

Invece?

«Invece lui non ce l’ha, è incastrato nella ricerca del consenso personale, mentre sul Movimento ha problemi politici, organizzativi ed elettorali e prima delle amministrative hanno pensato di risolverli prendendo il bacino di elettori di Conte. I risultati parlano da soli ed è emerso chiaramente che Conte non è il Movimento e gli elettori non lo votano. Sarebbe meglio che si facesse il suo partito, un partito personale anziché personalizzare il movimento». 

E Di Maio, invece? Che farà?

«Luigi combatterà sino alla fine. Per come lo conosco, penso che difficilmente mollerà il Movimento, ma poi alla fine anche lui si dovrà rendere conto che il M5s è ormai una bad company e che sarà meglio mettere in naftalina questo soggetto politico per costruire qualcosa di nuovo,  con un simbolo diverso e con una visione diversa da quella che ha contrassegnato i 5 stelle degli esordi. Non credo si siano altre possibilità». 

Che senso ha allora votare per il vincolo del secondo mandato?

«Ci sono dei capisaldi che potrebbero, e dovrebbero, resistere anche in un n uovo soggetto come l’idea che la politica non deve essere un lavoro. In Gianroberto c’era questo, la necessità di garantire un rinnovamento sempre, altrimenti la politica diventa lavoro: uno dei problemi che ha distrutto il M5s».

Report: Casaleggio conferma l'incontro per non far diventare Di Battista capo del M5s. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 05 giugno 2022

Davide Casaleggio e la compagna Enrica Sabatini confermano per la prima volta alla Rai un incontro nel 2020 che ha fatto sì che lo storico attivista già parlamentare Di Battista non prendesse il sopravvento e diventasse leader del Movimento.

L’ex reggente Vito Crimi: «Grillo ci disse di non far partire la guerra per la leadership». Nella puntata di lunedì gli affari di Grillo con Onorato, gli interessi di Casaleggio e le ricostruzioni dell’arrivo del nuovo capo Conte.

Di Battista dice a Domani di non voler avere più niente a che fare con i pentastellati: «Di Movimento parli chi fa parte del Movimento».

Cosa sarebbe accaduto se Alessandro Di Battista fosse diventato il nuovo leader del Movimento 5 stelle? Lunedì sera Report ne parla nella puntata chiamata “Stelle cadenti” e si scopre che la possibilità c’è stata e non è stata voluta da qualcuno all’interno.

Il Movimento è passato dal 32,7 per cento dei consensi nel 2018 ai sondaggi che lo danno al 13, con il fondatore e garante Beppe Grillo indagato per traffico di influenze illecito e il presidente Giuseppe Conte in attesa dell’esito di un ricorso sulla sua investitura.

Prima dell’addio alla piattaforma Rousseau che ha segnato i passaggi storici del gruppo, uno dei pilastri del Movimento era Davide Casaleggio, presidente dell’omonima associazione, che insieme alla compagna, Enrica Sabatini, conferma per la prima volta alla Rai un incontro nel 2020 che ha fatto sì che Di Battista non prendesse il sopravvento e diventasse leader dei grillini.

LA VERSIONE DI CASALEGGIO

La rivelazione arriva da Sabatini. Luigi Di Maio si era dimesso dal suo ruolo di capo politico a gennaio 2020. La socia di Rousseau e compagna di Casaleggio, nel suo libro Lady Rousseau. Cosa resta dell’utopia di Gianroberto Casaleggio?, parla di una riunione a luglio 2020.  

Si presentarono ministri e sottosegretari del Movimento e decisero di non procedere con le votazioni per il nuovo capo politico, proseguendo invece con la reggenza di Vito Crimi: «In questa riunione – spiega lei – fu evidente a Davide che le persone avevano deciso di non votare il capo politico e le motivazioni emersero, anzi la motivazione: il fatto che Alessandro Di Battista avrebbe potuto raggiungere un risultato anche eclatante e diventare il nuovo capo politico», racconta. Casaleggio conferma: «È stato detto» di non votare, perché altrimenti sarebbe potuto diventare nuovo capo politico.

LA POSIZIONE DI CRIMI

Crimi, rispondendo al giornalista di Report Danilo Procaccianti, conferma che la riunione c’è stata e anche che qualcuno avrebbe sollevato obiezioni su Di Battista: «Ognuno ha le sue idee e ci sarà stato qualcuno che avrà detto questo». Qualcun altro, assicura, avrà detto «invece votiamo subito». A quel punto, racconta, è intervenuto Beppe Grillo che gli avrebbe detto di non «portare a una guerra sulla leadership» in piena pandemia: «Era una follia». Crimi non ha detto di no per Di Battista: «E se qualcuno lo dice sta dicendo il falso».

Che i problemi ci fossero, poco prima, lo aveva raccontato in pubblico lo stesso Di Battista. A giugno aveva esplicitato una divergenza di vedute, bisognava «organizzare un congresso, un’assemblea costituente».

E criticava i suoi colleghi senza risparmiare Giuseppe Conte. Per diventare nuovo capo, spiegava, «si deve iscrivere al M5s e partecipare al prossimo congresso». Così non è stato e dopo la caduta del Conte II a inizio 2021. Di Battista era già fuori dal parlamento dal 2018 e ha deciso di lasciare il Movimento dopo l’adesione di quest’ultimo al governo Draghi.

Da lì si è aperta la strada per la leadership di Conte, sancita poco dopo da un altro incontro, questa volta in presenza, a Roma, all’hotel Forum. Pochi mesi dopo, anche Casaleggio romperà con i pentastellati e, solo dopo, il voto nell’estate del 2021 sulla nuova piattaforma del Movimento consacrerà il nuovo presidente.

Di Battista oggi si limita a ribadire di non voler avere più niente a che fare con la questione e contattato da Domani non vuole commentare: «Di Movimento parli chi fa parte del Movimento». Eppure molti dei fuoriusciti continuano a vedere lui come punto di riferimento.

LE QUESTIONI IRRISOLTE

Intanto, nella puntata vengono raccontate tutte le questioni irrisolte che accompagnano i pentastellati. Beppe Grillo, il garante del Movimento è indagato, insieme all'armatore Vincenzo Onorato, per traffico di influenze illecite dalla procura di Milano.

Onorato, infatti, ricorda il programma Rai, secondo le ipotesi della procura dopo aver pagato Grillo attraverso alcuni contratti commerciali ha richiesto al garante dei 5 stelle una serie di interventi in favore di Moby spa che Beppe Grillo avrebbe poi veicolato a esponenti politici, incluso l’allora ministro Danilo Toninelli. Toninelli finora ha sempre replicato di non aver mai subìto pressioni ma non si espone sull’ipotesi che il suo nome non sia stato confermato nella rosa dei ministri apposta.

Nell'ambito della stessa inchiesta della procura, sono state eseguite perquisizioni anche nella sede della Casaleggio Associati. Anche Davide Casaleggio ha preso soldi da Onorato per un contratto da 600mila euro all’anno per la stesura di un piano strategico per sensibilizzare gli stakeholder alla tematica dei benefici fiscali.

Mentre al nord si cerca di fare chiarezza sui fondatori del Movimento, al sud traballa la nuova leadership. Da presidente del Movimento Conte è stato colpito dal ricorso dell’avvocato Lorenzo Borré e di alcuni iscritti sulle votazioni che hanno decretato la sua ascesa, il 7 giugno arriverà dopo mesi di incertezza il verdetto del Tribunale di Napoli. Una situazione tutt’altro che pacifica a meno di una settimana dal voto per le amministrative, e poco prima delle primarie in Sicilia organizzate per la prima volta con il Pd.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Dagospia il 21 maggio 2022. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”

Meglio Salvini o Conte? “Sicuramente Salvini. Lui ha un rapporto umano coi suoi parlamentari molto meglio di quello di Conte, che ho trovato estremamente spiacevole sul piano personale”. 

A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Ugo Grassi, senatore appena passato al Misto, che in questa legislatura ha militato anche con Cinquestelle e Carroccio. “Conte nei miei confronti non si comportò in modo corretto. Mi chiamò a Palazzo Chigi e mi chiese: caro Ugo, vuoi qualche incarico? Sembrava quasi mi volesse comprare per farmi restare nel Movimento, fu di cattivo gusto”.

Cosa le offrì? “Nulla, mi chiese se volessi un incarico e gli risposi che volevo solo un progetto politico”. Lei però fu eletto con il M5S, che ha lasciato dopo circa un anno e mezzo. “Me ne sono andato perché i 5S non hanno mai utilizzato quasi tutti gli eletti della società civile, che infatti poi hanno lasciato il Movimento”. 

Poi è approdato alla Lega. “Che in quel momento mi sembrò il partito più vicino alle posizioni moderate, Salvini voleva farne un aggregatore dei conservatori più moderati. E poi avevo legato molto con alcuni leghisti, in particolare Calderoli”.

Nella Lega ci è rimasto più di due anni. Prima di lasciare anche questa...”Me ne sono andato prima perché non mi è piaciuta la politica nazionale sui vaccini, troppo indecisa. E poi, recentemente, per la posizione della Lega sulla guerra”. 

Come mai non si è dimesso invece di cambiare gruppo? “Perché ho provato rabbia, mi sono accorto di esser caduto in trappola ma voglio ancora provare a cambiare le cose. Finché il mandato dura proverò fare qualcosa di positivo”.

Nel Gruppo Misto, tuttavia, lei non deve restituire nulla del suo stipendio, a differenza di quanto doveva fare nei 5S e nella Lega...”Allora - ha spiegato a Rai Radio1 Grassi - viene erogato uno stipendio di circa 13.500 da cui vanno tolte tutte le spese. Tra dipendenti, segreteria, addetti stampa....” Lei quanti dipendenti ha in questo momento? “Ho un addetto stampa”. E quindi quanto le rimane dello stipendio da parlamentare? “Circa la metà di quella cifra”. Potrebbe passare in qualche altro partito in futuro? “No, non vedo nessun partito vicino alle mie idee", ha concluso il senatore a Un Giorno da Pecora. 

ALLE ORIGINI DI UN FALLIMENTO. Romanizzare i “barbari” del M5s non era un’operazione da fare in fretta. MARCO FOLLINI su Il Domani il 14 maggio 2022

Comincia a essere matura la possibilità di giudicare costi e benefici, o se vogliamo ascesa e declino, di quella parola d’ordine – civilizzare i barbari – con cui i detentori dell’antico sapere politico hanno accompagnato l’ascesa del Movimento 5 stelle.

L’operazione sembrava avesse senso: il M5s, nel volgere di qualche mese, si è acconciato a governare con l’odiato Pd, e poi perfino a camminare sul tappeto rosso in compagnia del tecnocrate Mario Draghi.

Ma non appena con la crisi ucraina s’è aperto un varco abbiamo visto subito riaffiorare come per incanto quello che avevamo pensato di avere seppellito: per intenderci, quell’asse gialloverde di cui son piene le cronache degli ultimi giorni.

MARCO FOLLINI. È un politico e giornalista italiano. È stato un esponente di spicco dell'Udc, che ha abbandonato per fondare il movimento politico Italia di mezzo, confluito nel processo costituente del Partito democratico. Nel giugno 2013 ha abbandonato il Pd. È stato vicepresidente del Consiglio dei ministri nel governo Berlusconi II dal 2 dicembre 2004 al 15 aprile 2005.

DAGONOTA il 23 maggio 2022.

Attenzione: si può dire “Casalesi e associati”, anziché “Casaleggio e associati”. Lo ha stabilito un giudice di Trani, che ha assolto il giornalista del “Corriere della Sera”, Carlo Vulpio. 

Vulpio era stato denunciato per aver detto, durante la trasmissione televisiva “Speaker’s Corner” su Tele Dehon, che il M5S è ‘proprietà privata di una ditta commerciale’, accostando la Casaleggio Associati al clan dei Casalesi, aggiungendo: “Politicamente i casalesi stanno lì e da lì profilano tutti i loro adepti, come una setta quale può essere Scientology”.

Ebbene, per il tribunale pugliese non è diffamazione, ma Vulpio ha solo descritto “con un linguaggio colorito fatti sostanzialmente veri”. 

E chissà che non ci sia almeno uno dei 350 giornalisti di Via Solferino che si degnerà di dare spazio a questa notizia, come scrive in una mail inviata ai colleghi Vulpio: “Non dico due pagine, come fanno con Saviano, ma almeno un pezzullo…” (Stoccata a Cairo che ha portato lo “sgomorrato” al “Corriere”).

Da lagazzettadelmezzogiorno.it il 23 maggio 2022.

Non è diffamatorio affermare che i Cinque Stelle sono «proprietà privata di una ditta commerciale che attraverso una piattaforma informatica […] comandano come dei burattini 338 parlamentari», nè tantomeno paragonare la Casaleggio Associati al clan camorristico dei Casalesi o descrivere i grillini come una «setta». 

Lo ha stabilito il Tribunale civile di Trani, cui la società milanese (che nel 2005 ha contribuito a inventare il fenomeno di Beppe Grillo) si era rivolta chiedendo un risarcimento da 100mila euro a Carlo Vulpio, inviato del «Corriere della Sera», e all’emittente Tele Dehon. 

Durante il programma «Speaker’s corner» del 30 gennaio 2019 il giornalista ha parlato della Casaleggio come una «setta» che imporrebbe ai parlamentari grillini il pagamento di 300 euro al mese e - «in caso di dissenso dall’indirizzo politico del Movimento» - anche «la somma di 100.000,00 euro». 

Ma il Tribunale (giudice Elio Di Molfetta) ha ritenuto che il giornalista (difeso dall’avvocato Vincenzo Giancaspro) abbia esposto «con un linguaggio colorito» fatti sostanzialmente veri attraverso «una narrazione dei fatti inestricabilmente legata ad opinioni personali».

Il giudice ha infatti osservato che il rapporto tra Casaleggio, associazione Rousseau e partito politico è stato analizzato negli anni da articoli di giornale e libri, e che lo stesso statuto dell’associazione (che gestiva il blog grillino) prevede in effetti «che tutte le decisioni formalmente ascrivibili al “Movimento 5 Stelle” sono o sono state vagliate e assunte attraverso la piattaforma Rousseau» di cui sarebbe dominus Davide Casaleggio, «al contempo legale rappresentante della Casaleggio Srl e creatore della piattaforma».

Stesso discorso per i 100mila euro, previsti dal codice etico del Movimento «(anche) in caso di dimissioni anticipate dalla carica determinate da “motivi di dissenso politico”». 

Il Tribunale ha poi ritenuto legittimo l’accostamento tra la Casaleggio e il clan dei Casalesi. Vulpio aveva parlato di «un’associazione che ha fini politici», che «fa capo alla società privata dei Casalesi, la Casalesi e Associati», e aggiungendo che «politicamente per me i veri Casalesi in Italia sono questi della Casalesi e Associati.

Gli altri sono un gruppo cruento, sanguinario, pericoloso, ma ormai anche fuori gioco, ma politicamente i Casalesi d’Italia stanno lì e da lì profilano tutti i loro adepti come una setta quale può essere Scientology». 

La Casaleggio aveva ritenuto diffamatorio l’accostamento con la mafia, ma la sentenza ha inquadrato il discorso in un quadro più ampio: Vulpio, ha scritto il giudice, «non ha usato il nome dei Casalesi in assenza di qualsiasi elemento di verità a suo sostegno e in assenza di alcuna giustificazione, ma ha ben circostanziato tale uso al modo di agire della Casaleggio nel rapporto con i parlamentari e gli esponenti politici del “Movimento 5 Stelle”, nel senso di ritenere strettamente verticistico tale rapporto e quanto meno discutibile da parte di questi ultimi una qualsiasi forma di dissenso dalle direttive asseritamente loro imposte dalla società attrice». Casaleggio dovrà pagare 5mila euro di spese legali.

Camilla Conti per “La Verità” il 13 aprile 2022.

Milano, addio. La Casaleggio associati trasloca a Ivrea. Lo scorso 28 marzo, nello studio di Largo Donegani del notaio Valerio Tacchini, l'assemblea dei soci ha infatti approvato il trasferimento della sede legale dell'srl dalla meneghina via Uberto Visconti di Modrone a via Palestro, nella città in provincia di Torino.

Come nuovi vicini, due studi legali, un odontoiatra e gli uffici di una banca. Sono stati quindi lasciati gli oltre 450 metri quadrati nel cuore del capoluogo lombardo, a due passi da corso Monforte, che erano stati inaugurati pochi mesi prima delle Politiche del 2018.

Prima rimasta orfana del governo di Giuseppe Conte, con cui si è ormai consumata la rottura, e poi bastonata dal Covid, la società fondata dal guru M5s Gianroberto Casaleggio e oggi presieduta dal figlio Davide - che è anche l'azionista di maggioranza - ha chiuso il bilancio 2020 (l'ultimo disponibile nella banca dati della Camera di Commercio) con un rosso di 320.295 euro ripianato grazie all'utilizzo delle riserve.

A picco anche il fatturato che è sceso di quasi il 25% a quota 1,7 milioni. Tanto che girano già voci di messa in liquidazione. Di certo, sono lontani i tempi della vittoria elettorale del Movimento 5 stelle e della nascita del governo gialloverde quando i ricavi della società attiva nel settore della consulenza strategica e dell'innovazione digitale per le imprese erano passati da 1,17 milioni del 2017 ai 2,24 milioni del 2019 e i profitti erano stati di 181.000 euro nel 2018 e di 100.346 euro nel 2019.

A pesare sono state la svalutazione per 260.000 euro dei crediti verso clienti, in ragione della loro possibilità di recupero, e anche il fatto che nel frattempo, i costi sono lievitati da 2,08 a 2,17 milioni. 

Al netto dei conti, che un'epoca sia davvero finita lo si era capito anche qualche settimana fa quando la sesta edizione dell'evento Sum organizzato dalla società è stata un mezzo flop. Non più fan grillini e big del Movimento che riempivano le vecchie strutture industriali dismesse della Olivetti, a Ivrea, per commemorare Gianroberto parlando di futuro e nuove tecnologie.

Al cinema teatro milanese del Meet di fondazione Cariplo, la sala di duecento posti era forse occupata a metà. Pochi anche i politici presenti (solo l'ex ministra della Difesa nel Conte 1, Elisabetta Trenta, e il deputato eletto con il M5s e oggi in Coraggio Italia, Emilio Carelli, assente pure Alessandro Di Battista). Lo stesso giorno, in un'intervista pubblicata sul Corriere della Sera, Casaleggio jr aveva ammesso che «il Movimento che abbiamo conosciuto non esiste più.

Si ha paura di chiedere agli iscritti anche solo una rosa di nomi per il Quirinale, consultarli per cambiare il programma sulla politica estera o per capire chi candidare in un Comune come a Palermo o in una regione come la Sicilia o ancora di permettere le candidature dal basso inventando addirittura consultazioni con un monocandidato.

Questa paura delle decisioni dei cittadini sta annichilendo il consenso ai minimi storici e penso che il trend sia ormai irreversibile». Quanto al futuro, aveva aggiunto, «la partecipazione e la cittadinanza digitale rimarranno sempre al centro dei miei interessi». Proprio ieri, a sei anni dalla sua morte, il M5s ha ricordato Gianroberto Casaleggio, che fondò il Movimento assieme a Beppe Grillo. Su Twitter il M5s ha pubblicato una sua foto con citazione: «Un'idea non è di destra né di sinistra. È un'idea. Buona o cattiva». Forse ne servono di nuove. 

Il Movimento ai minimi termini. La caduta dei 5 Stelle traditi dalla banalità e dalla stupidità del verbo utilizzato da Grillo. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

Giuseppe Conte fa il suo possibile per riaccendere il seguito per i 5 Stelle (tentando, con le sue ultime posizioni di conquistare, almeno in parte, il consenso di quel 35% di italiani – fonte Eumetra – che è contrario all’incremento degli strumenti di difesa e reputa che abbiamo fatto male a inviare armi in Ucraina), ma, probabilmente, non c’è molto da fare: i grillini sono politicamente (e, quel che più conta, elettoralmente) sempre più irrilevanti. Ma, si badi, non lo sono le posizioni di populismo: quest’ultimo è tutt’altro che finito e le sue sirene sono tuttora assai diffuse nel nostro paese (e in diverse altre nazioni europee e non).

Che il partito dei grillini sia in crisi di consensi è un fatto noto a tutti e rilevabile quotidianamente dai sondaggi. Oggi i Cinque Stelle sono valutati al poco più del 13%, a fronte del 32% ottenuto in occasione delle elezioni politiche del 2018: il 60% dell’elettorato di allora ha abbandonato il Movimento. I motivi del successo ottenuto a suo tempo sono stati più volte sottolineati. Si collegano al distacco e all’insoddisfazione (peraltro ancora presenti a tutt’oggi) per i partiti politici tradizionali, alla protesta e, non ultimo, alla capacità di trascinamento di Beppe Grillo. Gli argomenti usati allora da quest’ultimo erano, come si sa, spesso banali e superficiali, ma, proprio per questo, alla portata di molti, senza troppa fatica o impegno nel riflettere. Erano cioè “facili” e, proprio per questo, attrattivi. Talvolta anche stupidi. Ma si sa, come scrive Marais nel suo ultimo romanzo, che la stupidità e la rabbia sono contagiose. Proprio la facilità e la semplificazione degli argomenti ha condotto in Parlamento persone spesso poco preparate e sovente completamente inadatte a quel ruolo. E, infatti, l’esperienza di governo dei Cinque Stelle è stata disastrosa.

Di fronte alla complessità dei temi e delle scelte, molti eletti grillini hanno mutato le loro idee originarie. E, al tempo stesso, non pochi, una volta assaggiati i piaceri del potere, si sono prontamente adeguati a quest’ultimo. Di qui la caduta di appeal del Movimento e il calo drammatico di voti, causato anche dai persistenti conflitti interni. Per questo, è ragionevole prevedere che, in occasione delle prossime elezioni, nel 2023, il declino dei grillini sarà ancora maggiore. Mutatis mutandis, anche la Lega ha visto un calo di consensi nei sondaggi sulle intenzioni di voto, quando ha usato argomenti di stampo populista, nel tentativo di creare il partito nazionale. Anche quell’esperimento è in larga misura fallito e il Carroccio si deve ora rifugiare nel tradizionale e consolidato consenso storicamente ottenuto nel nord del paese. Il fatto che i temi populisti paiano aver comportato il declino dei partiti che li hanno maggiormente sostenuti, non significa però che l’appeal di queste tematiche sia decaduto per sempre.

Lo vediamo oggi nel dibattito sulla guerra in Ucraina. Sempre più spesso, al confronto tra argomentazioni serie e ponderate, basate su fatti e ragionamenti, si contrappongono parole d’ordine e slogan semplicistici e superficiali (spesso enfatizzati dai programmi televisivi che sovente li ospitano per allargare l’audience). Come mostrano i sondaggi più recenti, tuttavia, queste argomentazioni “facili” trovano un terreno di coltura in una parte significativa della pubblica opinione. Specie in quegli strati che Paolo Natale (in un articolo su Gli Stati Generali) chiama i “perdenti della globalizzazione”. Si tratta di persone deboli socialmente, con basso titolo di studio, che, sovente a causa del loro disagio sociale, guardano spesso con favore ai movimenti e alle contestazioni “antisistema”, come i no vax, i no green pass e oggi i sì Putin (Lo stesso Natale rivela che tra le suddette posizioni si registra una sovrapposizione enorme, oltre l’80%). Tutto ciò suggerisce che lo spazio per temi populisti ci sia ancora, tanto che alcune forze politiche tentano ancora oggi di raccoglierli e farli propri, in modo da allargare i propri consensi.

Come si sa, molti elettori che erano stati attratti nel 2018 dal populismo si sono oggi rifugiati nelle astensioni che, come è noto, hanno sempre più caratterizzato le ultime consultazioni elettorali amministrative. Ma non è detto che sia sempre così. Nei prossimi mesi potrebbe rinfocolarsi, anche a seguito della guerra, un’offerta politica di carattere populista, capace di raccogliere, forse, le simpatie di almeno una parte di coloro che oggi disertano le urne. E condizionare così, ancora una volta, i prossimi risultati elettorali.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Annalisa Cuzzocrea per "la Stampa" il 21 Febbraio 2022.  

Giuseppe Conte?

«Un temporeggiatore seriale». 

Vito Crimi?

«Un debole vestito di protervia». 

Il nuovo Movimento 5 stelle?

«Un'operazione di trasformismo politico, dovuta all'irriconoscenza e alla smania di potere delle persone più insospettabili: quelle a cui Gianroberto Casaleggio aveva dato più fiducia e che, per interessi personali, sarebbero state le più feroci nel tradirlo».

Lady Rousseau, il libro di Enrica Sabatini, compagna oltre che socia di Davide Casaleggio, più che un'autobiografia è un lungo J'accuse. L'ex consigliera comunale di Pescara, diventata responsabile degli affari interni del Movimento nei giorni in cui Luigi Di Maio ne lasciava la guida, lo ha scritto mentre aspettava i gemelli che ora hanno tre mesi e che non la fanno dormire la notte («Quando uno si addormenta, l'altro si sveglia!») e lo ha fatto soprattutto per una ragione: dimostrare che il progetto di Casaleggio non è fallito, è stato tradito. 

Chiedere - come fa in quest' intervista - che chi ha preso la guida del Movimento lasci andare la sua storia, rinunci al suo simbolo: «Faccia come si fa con i messaggi in bottiglia affidati alle onde dell'oceano. Lo restituisca, perché quel logo lo aveva disegnato Gianroberto seduto alla sua scrivania e nulla ha a che fare con chi adesso lo detiene».

Giuseppe Conte si è assunto la responsabilità di rinnovare una forza politica in crisi di leadership e consensi in uno dei momenti più difficili della sua storia. Cosa gli imputa?

«Ha una visione diversa da quella che ha sempre mosso i 5 stelle. Invece di farsi un partito personale, ha pensato di personalizzare il Movimento e provare a trasformarlo in un partito. Un'evoluzione che diventa trasformismo e infine aberrazione. Per questo secondo me oggi il M5S è al minimo storico del consenso: non risponde più a quel patto di fiducia che aveva fatto con i cittadini».

Perché dice che temporeggia? Su Rousseau una decisione l'ha presa e in modo netto.

«Lo fa perché le persone attorno a lui sono paralizzate dalla paura del futuro. Si è creato un meccanismo per cui si lancia la palla sempre in avanti, come sul ricorso di Napoli».

Cosa pensa accadrà?

«Quella causa è emblematica perché invece di affrontare la situazione facendo quel che si doveva per statuto, votare su Rousseau l'organo collegiale e poi far discendere tutto il resto, si è cercata una scorciatoia che non ha rispettato le decisioni degli iscritti. Una forzatura che ha portato il Movimento in un vicolo cieco. La magistratura non sta facendo un indebito intervento in politica, sta tutelando i diritti degli associati. Conte ha cercato per sé una strada che potesse controllare, la nuova struttura è composta da persone nominate». 

Com' erano il direttorio, i primi probiviri. Lei sembra dimenticare che il Movimento di Grillo e Casaleggio è sempre stato verticistico, non era affatto orizzontale quando si trattava di grandi decisioni.

«Nel libro ammetto questo errore. Soprattutto nei momenti di difficoltà c'è spesso stato il ricorso a una centralizzazione improvvisa. Per questo Gianroberto aveva immaginato Rousseau: per distribuire il potere rendendo chiari i processi».

Ci ha provato a lungo, ma i risultati non sono arrivati. Non è che è sbagliata l'idea di partenza: cioè che la politica per funzionare debba indebolire la delega e rafforzare i meccanismi di democrazia diretta?

«Il Movimento ha sofferto il fatto di essere una macchina in corsa, ha dovuto procedere per prove ed errori, ma secondo me il modello funziona e stiamo pensando a come sia possibile utilizzarlo in altri ambiti». 

Dalle sue accuse sembra salvare Beppe Grillo, che pure sta sostenendo la nuova strada. Anzi, l'ha indicata.

«Sono molto legata a Beppe, gli riconosco il grande merito di aver costruito tutto, di essersi scarificato per i 5 stelle. Lui come Davide e Gianroberto sono rimasti fuori consentendo a migliaia di persone di entrare nelle istituzioni».

Indirizzandone le scelte però. Come può non attribuire anche a Grillo le responsabilità del nuovo corso?

«Il ruolo del Garante è delicato quando dall'altra parte hai persone che fanno parte del governo. Ha dovuto affrontare l'assenza di Gianroberto, che lo compensava. Lo sforzo che ha fatto è stato notevole e ha spinto affinché certi principi e metodi non fossero traditi». 

Pare pronte a deroghe sul vincolo del doppio mandato.

«Per ora si tratta di indiscrezioni fatte uscire da chi vorrebbe quelle deroghe. Senza il divieto di superare i due mandati viene giù tutto. Il Movimento è stato creato perché fosse aperto al rinnovamento, non per generare nicchie di potere e opportunità di carriere».

Forse segna un principio di maturazione, la comprensione che in politica servono esperienza e competenza.

«Come in una staffetta, si può dare una mano passando il testimone». 

Lei non è d'accordo sul fatto che la selezione dei candidati in rete non funzioni, ma le parlamentarie hanno portato nelle istituzioni persone come Sara Cunial, deputata no vax poi espulsa e famosa per uscite a dir poco irrazionali.

«Rousseau dovrebbe essere l'ultimo step per votare persone che sono già state selezionate per alcune caratteristiche. I processi devono essere ben più lunghi, gli attivisti coinvolti anni prima delle elezioni».

Davvero crede che non si sia votato per un anno il successore di Di Maio per paura che vincesse Di Battista?

«È stato detto alla riunione di cui scrivo ed è quello che ha fatto sobbalzare Davide sulla sedia: "Violiamo lo statuto perché non ci piace il possibile risultato di una votazione? " ha chiesto. Crimi ha fatto di tutto per mantenere un potere per cui non aveva titolo. Se il comitato di garanzia non rispetta lo statuto, è normale che gli altri si sentano legittimati a violare ogni regola». 

Crede che Rousseau possa lavorare ancora con Di Battista?

«Alessandro ha come noi una forte passione per la partecipazione, si sta interessando ai referendum e crede si possa incidere anche non stando dentro le istituzioni. A legarci c'è un'enorme sintonia oltre che un'amicizia personale».

E con gli altri, l'amicizia?

«Quando si prendono strade così diverse è impossibile mantenerla». 

Di Battista con Conte è molto meno duro di lei, sembra quasi pronto a rientrare, una volta conclusa l'esperienza del governo Draghi.

«Non lo so, è una decisione che prenderà Alessandro». 

Davvero hanno offerto a Davide Casaleggio un ministero?

«Sì, ha rifiutato, così come io ho rifiutato una candidatura alle elezioni europee, alle regionali, una nomina pubblica. Eravamo concentrati sul progetto, mentre erano pronti a usarci come capro espiatorio di ogni fallimento.

Nella controstoria del M5s di Lady Rousseau si salvano solo Grillo e Di Battista. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 18 febbraio 2022

Enrica Sabatini racconta la sua versione sui primi dieci anni del Movimento 5 stelle e la risoluzione del rapporto con Rousseau, alla fine di una lunga serie di scontri interni. Le valutazioni dei vertici dei Cinque stelle sono impietose

Il nuovo libro Lady Rousseau di Enrica Sabatini (Piemme), socia di Rousseau insieme al suo compagno Davide Casaleggio, racconta la “verità” della pasionaria della piattaforma inventata da Gianroberto Casaleggio sugli scontri con i vertici politici dei Cinque stelle. Gli screzi hanno portato al divorzio con la piattaforma, fino a qualche mese fa indivisibile dal Movimento 5 stelle. 

“Lady Rousseau” dà la sua versione su come il Movimento si è allontanato progressivamente dai presupposti con cui era nato nelle menti di Beppe Grillo e Casaleggio. Le vittime della storia  sono lei e gli altri soci di Rousseau, oltre a Casaleggio, Pietro Dettori, che ha sempre curato i rapporti con Luigi Di Maio, e Max Bugani, consigliere comunale a Bologna e capo dello staff di Virginia Raggi quando era sindaca. 

I CASALEGGIO

Gianroberto prima e Davide poi hanno segnato il percorso nel Movimento di Sabatini. Fin dalle prime pagine viene ribadito più volte quanto l’idea di Casaleggio senior abbia cambiato la vita di Sabatini: «Quando la notizia della scomparsa di Gianroberto irruppe nelle nostre vite, ci sentivamo così: cittadini chiamati a svolgere la nostra piccola, ma importante, missione per cambiare quello che ritenevamo ingiusto».

Lady Rousseau racconta come, dopo qualche anno da consigliera comunale in Abruzzo, insieme a Nicola Morra («che mi sorride, mentre la metro gialla sfreccia a tutta velocità») aveva proposto a Davide Casaleggio la riorganizzazione di Rousseau per condividere le esperienze di ciascun portavoce.

Davide è anche il principale protagonista degli scontri, negli ultimi mesi sempre più frequenti, con i vertici del Movimento. Sabatini racconta quello con il capo politico reggente Vito Crimi, che aveva proposto di far votare agli iscritti un quesito per estromettere Rousseau dalla vita del Movimento. 

Ma Casaleggio e la sua socia si sono scontrati anche con Di Maio quando si è trattato di tagliare definitivamente i ponti con il Movimento. Casaleggio e Sabatini sono presentati come custodi della missione originaria del M5s, mentre i politici romani lottano solo per i propri interessi: ricorre più volte la questione sull’abolizione del vincolo dei due mandati, tasto dolente soprattutto per Di Maio e i suoi. 

GIUSEPPE CONTE

Al nuovo leader politico del Movimento, Sabatini non riserva parole gentili. Gli rinfaccia di essersi appropriato di un’associazione non sua a di aver ridotto, con il suo atteggiamento da «temporeggiatore seriale»,  un sogno visionario in un partito come tutti gli altri.

Lady Rousseau rimprovera a Giuseppe Conte di non aver studiato la struttura del Movimento e di Rousseau né di averla voluta conoscere quando i due soci glielo avevano proposto.

I due nutrivano sospetti nei confronti dell’ex premier fin da quando la sua popolarità era diventata la ragione per disattendere le indicazioni degli Stati generali, che avevano chiesto una guida collegiale per il Movimento.

La disistima si era aggravata con la fine del governo Conte II e la ricerca disperata di numeri per il Conte III e li aveva portati a disertare la riunione all’hotel Forum di fine gennaio in cui i vertici avevano chiesto a Conte di diventare capo unico del M5s.

L’ultimo atto arriva quando Conte in riunione chiede: «A che titolo parla la dottoressa Sabatini?». Attacco imperdonabile. 

LUIGI DI MAIO

Per Sabatini, Di Maio è il traditore. Di lui scrive che nei primi anni nei palazzi aveva rappresentato al meglio i grillini, ma che poi era entrato a pieno titolo nella campagna dei vertici Cinque stelle contro Rousseau. Una presa di posizione che Sabatini non gli ha mai perdonato.

Il ministro degli Esteri appare come un ingrato che non ha più rispetto di chi gli ha dato quel che ha oggi e come uno dei protagonisti dello smantellamento del Movimento delle origini.

In uno degli episodi Sabatini racconta di aver subodorato che nella creazione del team del futuro, che avrebbe dovuto sostituire Di Maio dopo le sue dimissioni e rispondeva in parte alla stessa Lady Rousseau, c’erano già i presupposti per far diventare la piattaforma il capro espiatorio di tutti i problemi dei Cinque stelle. 

«Quello che però non avevo compreso era che tra le persone che questo meccanismo (l’accentuazione della controversia, ndr) lo avrebbero sostenuto ci sarebbe stato anche chi avevo lasciato alle mie spalle uscendo da quella saletta quel giorno: Luigi Di Maio». 

BEPPE GRILLO

Il fondatore del Movimento appare solo marginalmente, ma sempre sotto una luce positiva. Sabatini enfatizza questa rappresentazione raccontando episodi in cui Grillo appare con un’aura paterna e bonacciona.

Come quando lui e i soci di Rousseau giocano insieme a calcio balilla vicino a Ivrea nel 2018, occasione in cui «si aggiusta i capelli con quel gesto tipico con cui scuote la sua chioma caratteristica». Lady Rousseau passa poi a celebrare «la sua potenza comunicativa» che «è pari alla sua conoscenza dei media». 

Sabatini è più pragmaticamente entusiasta di Grillo quando stralcia il quesito di Crimi sull’estromissione di Rousseau dalla vita del Movimento o quando nell’ultimo scontro tra Rousseau e M5s interviene per far saldare almeno una parte dei debiti che i Cinque stelle hanno nei confronti della piattaforma. «L’intervento di Beppe Grillo fu determinante, ma non risolutivo, nonostante le roboanti dichiarazioni di Giuseppe Conte».

ALESSANDRO DI BATTISTA

Se Di Maio ha tradito l’impostazione originaria del Movimento e Conte è un usurpatore, Alessandro Di Battista è il leader che Il M5s avrebbe meritato. Puro di sentimenti e appassionato, Sabatini fa di lui il protagonista di uno dei capitoli centrali del libro.

A metà 2020, racconta, una tesa conversazione con Casaleggio la mette a parte del fatto che i vertici del Movimento si sono messi d’accordo per non votare il successore di Di Maio come capo politico per paura che possa vincere proprio Di Battista, considerato un ostacolo sulla strada di Conte.

Lady Rousseau condivide anche la decisione dell’ex parlamentare di lasciare i Cinque stelle dopo l’adesione al governo Draghi, unica mossa possibile per quello che secondo Sabatini era diventato «un obiettivo da eliminare» per il Movimento. 

VITO CRIMI

Secondo Sabatini, il capo politico reggente Vito Crimi ha contribuito come ha potuto a mettere il Movimento sulla via della trasformazione in partito e da responsabile di quesiti e votazioni ha anche avuto un ruolo nel progressivo allontanamento di M5s e piattaforma, approfittando della «nostra buona fede».

Secondo lady Rousseau, ha ignorato la volontà degli iscritti, forzato la mano rispetto alle decisioni dei tribunali sul destino del M5s ed è stato responsabile di una delle peggiori performance elettorali del Movimento nel voto del 2020.

Ma la sua colpa più grave, per Sabatini, è quella di non aver mai definito il rapporto tra il Movimento e Rousseau: un vuoto che poi è costato alla piattaforma la possibilità di far valere le proprie ragioni in maniera più efficace sulla base di accordi scritti. 

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Alessandro D’Amato per open.online il 17 febbraio 2022.

Il 5 luglio 2020 una riunione tra i maggiorenti del MoVimento 5 Stelle bloccò il voto sul nuovo capo politico per fermare l’ascesa di Alessandro Di Battista alla leadership. Dieci eletti M5s al secondo mandato stabilirono di violare la carta fondativa del Movimento perché non era utile ai loro interessi. 

Parola di Enrica Sabatini, socia della piattaforma Rousseau e compagna di Davide Casaleggio. E oggi pronta ad anticipare in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera questa e altre verità. Come quella che vuole una “rete invisibile” all’opera nel 2018 per decidere le candidature in barba all’«uno vale uno» di Beppe Grillo. E la nascita di un Movimento ControVento per raccogliere le istanze perdute del grillismo.

Chi è Enrica Sabatini

Pescarese, 39 anni, Sabatini ha cominciato l’avvicinamento al mondo 5 Stelle grazie ai meet-up e al Movimento. Nella primavera del 2014 è stata candidata sindaca dei Cinque Stelle a Pescara, arrivando terza (con 11.152 voti e il 16,1% delle preferenze). Ph.D. in Scienze, laurea specialistica con lode in Psicologia e un Executive Master in Innovation Strategy & Digital Transformation sono i suoi titoli di studio. 

È stata docente a contratto all’Università “G. D’Annunzio” di Pescara-Chieti e si è definita “consulente per la creazione, realizzazione e monitoraggio di interventi formativi basati sull’utilizzo di metodi simulativi (virtualgame, DGBL, serious game etc) e/o di attività finalizzate al brand engagement”.

In Rousseau è entrata per fare e-learning sulle potenzialità della piattaforma e presto ha sostituito come socia Massimo Bugani. Da quel momento è cominciata la sua ascesa. Arrivata in un momento in cui il M5s partiva dalla vittoria alle elezioni del 2018 e affrontava i due governi di Giuseppe Conte. Oggi, dice nell’intervista, è disponibile a lasciar votare su Rousseau i grillini ma «ai prezzi di mercato».

Ma avverte: «Se i contiani credessero davvero nella leadership di Conte gli consiglierebbero di affrontare la situazione e non di fuggire. Evitare il voto dell’organo collegiale per paura che Giuseppe Conte non venga poi scelto come capo politico rende lo stesso Conte un leader debole agli occhi di tutti. E se ottieni la leadership solo perché hai fatto in modo di essere l’unico a concorrere, è ovvio che la tua guida verrà sempre messa in discussione». 

La querelle su Di Battista

Poi parla del suo libro, “Lady Rousseau”, in uscita il 22 febbraio per Piemme. E delle rivelazioni sulle candidature. Come quelle del 2018: «Per la selezione dei candidati nelle liste proporzionali alle Politiche nel 2018 venne creata una rete invisibile di referenti regionali che decisero, attraverso un potere discrezionale e illimitato, chi poteva candidarsi e chi no.

Venne così creato un sistema di valutazione delle candidature arbitrario, privo di standard oggettivi, viziato da interessi personali, non legittimato dalla comunità e, soprattutto, ignoto a tutti». Infine racconta che il 5 luglio 2020 si tenne una riunione per bloccare il voto sul nuovo capo politico. Con l’unico scopo di impedire l’elezione di Alessandro Di Battista. 

«E venne esplicitamente dichiarato che il reale motivo per non votare il capo politico era la possibile elezione di Alessandro in quel ruolo. Una decina di persone al secondo mandato e neanche legittimate a prendere decisioni stabilì di violare la carta fondativa del Movimento. Perché fare la cosa giusta non era utile ai loro interessi». Non solo: Sabatini profetizza anche un allontanamento di Grillo dal M5s.

«È un fatto incontrovertibile che il nuovo statuto, ora sospeso dal tribunale e bocciato dall’organo di garanzia sui partiti per carenza di democraticità, volesse relegare la figura del garante alla periferia del Movimento. Il garante è lì per ricordare da dove si viene e dove si è promesso di andare. Eppure a qualcuno fa comodo dimenticarlo».

Anticipazione da “Oggi” il 16 febbraio 2022.  

Su OGGI, in edicola domani, il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, eletto nel 2012 con i 5 Stelle e poi isolato dai grillini fino alla decisione di lasciarli e correre per la rielezione senza di loro, parla del passato e del presente del Movimento. 

«È stata una grande occasione persa. Enorme. Irripetibile… È stato imbarcato chiunque senza manco ci si ponesse il problema di una selezione vera. Uno spreco mai visto di intelligenze». 

E poi: «Riportare i cittadini a sperare in un rinnovamento della politica, ora, dopo aver visto come è andata anche in queste ultime settimane di scontri e veleni, mi pare dura». Nell’intervista a Gian Antonio Stella, Pizzarotti ricorda il “trattamento” subito: «Prima la vaghezza delle accuse. Poi un ordine di scuderia: mai più rapporti con Pizzarotti. La cosa più dolorosa è che fu applicata direi quasi militarmente.

Vecchi amici che non salutavano più… La verità è che al di là della politica, la cosa più deludente è stata la qualità umana di tanti ex compagni di strada». Poi alcuni giudizi. Di Battista: «Per carità, visti gli altri gli do atto d’aver conservato una sua coerenza». Di Maio: «Gli riconosco, dal suo punto di vista, un capolavoro: è riuscito a scalare un partito non scalabile». 

E sul proprio futuro dice: «Non so bene cosa fare. Sono ancora dipendente, in aspettativa, della banca in cui lavoravo come informatico. Vedremo. Certo vorrei portare avanti un piccolo progetto mio e di mia moglie. Abbiamo comprato un ciuffo di casette abbandonate in un posto bello sull’Appennino, a castello di Casola, sulla via Francigena, e lo stiamo un po’ alla volta sistemando. Vorremmo attrezzare qualche spazio per un po’ di accoglienza diffusa e produrre dei liquori fatti in casa con le bacche dei dintorni». 

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.  

I sospetti, i cavilli e il garante. Il Movimento ripiomba nel caos. 

«Siamo fermi a un anno fa: è un disastro», commentano all'unisono nelle diverse ali dei Cinque Stelle. Certo, poi responsabilità e punti di vista continuano a divergere. «Supereremo in fretta la questione», dicono i contiani.

Ma anche per i più fedeli all'ex premier, la decisione del tribunale di Napoli è stata una doccia fredda: non si aspettavano un esito diverso nel reclamo rispetto a quanto deliberato dai magistrati alla vigilia di Natale. 

Frenetici sono i contatti tra i vertici, l'avvocato che guida i Cinque Stelle consulta altri legali, si riunisce con Vito Crimi. Due ore circa di summit per decidere la linea: far votare chi era rimasto tagliato fuori dalla precedente consultazione. I vertici escono dal confronto decisi e più sollevati, convinti che si tratti dell'opzione migliore.

Ma la decisione scatena altre polemiche. «Si sono consultati con noi parlamentari?», dicono diversi esponenti. C'è chi attacca in modo più veemente: «Conte non può fare questa mossa. 

Una votazione sullo statuto la può indire solo il presidente del comitato direttivo o del comitato di garanzia»: figure tecnicamente vacanti. La decisione del tribunale di Napoli ha quindi come effetto-domino quello di rimettere in discussione gli equilibri , di inasprire il fronte della guerra interna. Ecco perché la decisione dei vertici di accelerare, tentare subito un nuovo voto.

«Non ci faremo trascinare in mezzo a discussioni che hanno come solo scopo quello di ledere il futuro del Movimento», ribattono i contiani. Conte decide di confermare il suo appuntamento in tv a Otto e mezzo su La7 anche per ribadire il concetto. 

Tuttavia la discussione presenta anche tecnicismi che non si possono eludere. Uno dei principali è su chi sia titolato o meno a usare i dati personali degli iscritti. 

C'è chi ipotizza di sondare il garante della privacy per evitare eventuali sanzioni e ricorsi. «Non possiamo sbagliare: c'è il rischio di un danno finanziario ingente». 

La situazione, insomma, è molto scivolosa. E va presa con le pinze. La chiave di volta, l'uomo che potrebbe essere determinante per sbloccare l'impasse torna a essere Beppe Grillo. Il garante, infatti, è sempre stato in carica e da lui il Movimento si aspetta una mossa. Da ambienti vicini allo showman, però, filtra la notizia che Grillo non ha al momento intenzione di incontrare a Roma parlamentari e big.

Il garante si sta informando sul da farsi, proprio perché è consapevole che la situazione non permette ulteriori ritardi o errori. Il Movimento è in attesa di una sua mossa. Le varie anime lo stanno tirando per la giacca, ma ora Grillo si trova d'un tratto di nuovo plenipotenziario del destino di tutti: da Conte ai vice, dai malpancisti al secondo mandato a Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri, intanto, non si muove. 

Di Maio ha scelto in queste prime ore un profilo attendista: non ha intenzione di gettare benzina sul fuoco in una fase delicatissima. Il titolare della Farnesina non ha fretta nemmeno di risolvere il conflitto con Conte. «Il tempo è un problema dell'ex premier», dicono i dimaiani. 

E se Di Maio tace, Alessandro Di Battista punge. L'ex deputato, una pedina importante nelle ultime settimane (si parla di un suo riavvicinamento), evoca Gianroberto Casaleggio sui social, facendo scattare la reazione rabbiosa del gruppo parlamentare. «Come si permette?», è uno dei commenti più teneri nei confronti dell'ex esponente del direttorio.

Se non è l'anno zero per il Movimento poco ci manca: diviso al suo interno, con un leader «congelato» dal tribunale e con un orizzonte poco chiaro. Non a caso in serata, cominciano a farsi più insistenti voci di addio di alcuni pentastellati. Pronti all'addio sarebbero tra i 5 e i 10 parlamentari, tutti però solo in via ipotetica. Ma c'è il timore che la discussione possa proseguire (e allargarsi) nei prossimi giorni. «Ormai viviamo alla giornata», commenta amaro un parlamentare.

Dal "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.

Avvocato Lorenzo Borrè, attendeva questo esito? Ha decapitato il M5S.

«L'esito era già scritto nello statuto che il M5S si era dato nel febbraio del 2021. Se la norma prescrive che il voto per modificarlo abbia un quorum di almeno metà degli iscritti non puoi pensare che se ne escludi indebitamente oltre un terzo la votazione sia valida, né puoi sostenere di aver raggiunto il quorum con la partecipazione al voto della metà degli ammessi all'assemblea anziché, appunto, della metà degli iscritti. I decapitati hanno messo la testa da soli sulla ghigliottina e quando gli è stato detto, hanno risposto "facciano pure"».

Cosa rappresenta questa ordinanza?

«Rappresenta la riaffermazione del principio di legalità, correlato a quello di democraticità. Non si può escludere dal voto un numero di iscritti superiore a quello di quanti hanno votato». 

Il Movimento ha annunciato che vuole sottoporre a ratifica le delibere sospese.

«Lo devono fare secondo le procedure del vecchio statuto e non lo può fare certamente Conte, ormai privo di poteri». 

Quindi l'esito sarebbe impugnabile?

 «Assolutamente sì».

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 7 febbraio 2022.

La domenica dopo il «mezzogiorno di fuoco» scatenato dalle dimissioni di Luigi Di Maio dal comitato di garanzia è di calma apparente nel M5S. La quiete prima di una nuova tempesta, che il meteo pentastellato prevede nel corso della settimana (quando è previsto anche l'arrivo di Grillo a Roma). 

Perché è in questi giorni che si terrà l'assemblea pubblica chiesta dal ministro per confrontarsi in maniera schietta con il leader Giuseppe Conte. Entrambi i contendenti, in vista del primo redde rationem , stanno schierando le truppe e studiando gli interventi. 

Ma è chiaro a tutti che Di Maio, dopo aver risposto picche alle sirene che gli chiedevano di aderire al nuovo partito di centro, abbia lanciato il guanto di sfida per tentare di riconquistare la leadership del partito.

«Assolutamente niente scissione», assicurano dalla Farnesina, ma battaglia politica a viso aperto. Visioni politiche opposte a parte, uno dei nodi chiave su cui si incentra il duello sarà chi deciderà le prossime candidature, alle Comunali prima e alle Politiche poi. 

Su 230 parlamentari rimasti nel M5S (73 senatori e 157 deputati) ben 66 stanno per completare il secondo mandato. Un parlamentare su tre, secondo le regole interne in vigore, oggi non sarebbe ricandidato nel 2023. 

È una lista lunga e con tanti big. Conte tra pochi mesi, nonostante un'organizzazione partitica rigida (con pesi e contrappesi), avrà il potere maggiore di decidere le candidature. Sarà un momento chiave per la «rifondazione» avviata dall'ex premier, che, avendo preso in corsa il timone dei 5S, oggi non può contare su un numero così ampio di «fedelissimi». 

Le truppe sono molto frammentate e una discreta fetta di eletti è controllata appunto da Di Maio. A breve, quindi, i vertici del Movimento dovranno decidere come muoversi sulla delicatissima questione del terzo mandato. Il regolamento pentastellato, specchio della strategia «anticasta» delle origini, afferma che un parlamentare non può essere eletto per più di due volte. 

Ma in base a questa norma rimarrebbero fuori una folta schiera di volti noti. Il primo è appunto Di Maio. Ma ci sono anche deputati a lui vicini come Sergio Battelli o la viceministra dell'Economia Laura Castelli. 

In cima alla lista dei non ricandidabili ci sono anche vertici istituzionali come il presidente della Camera Roberto Fico (capo degli ortodossi) e la vicepresidente del Senato Paola Taverna, oggi fedelissima di Conte. 

Sul fronte Palazzo Chigi, oltre a Castelli, rimarrebbero esclusi anche tutti i membri M5S del governo, come Fabiana Dadone e Federico D'Incà.

Si salverebbe invece Stefano Patuanelli, che potrebbe sfruttare il «mandato zero», che non conta il suo mandato da consigliere comunale. 

Altri grandi esclusi sarebbero Danilo Toninelli, il capogruppo alla Camera Davide Crippa (avverso a Conte), il sottosegretario Manlio Di Stefano, il probiviro del partito Riccardo Fraccaro. 

Ci sono anche diversi fedelissimi di Conte, come l'ex capo reggente Vito Crimi. C'è pure un «mediatore» come l'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede.

Ma anche, e sopratutto, Claudio Cominardi: il deputato ha fatto due mandati, non si è mai esposto mediaticamente, ma oggi è il tesoriere che gestisce tutti i soldi per le attività del Movimento. 

Conte come gestirà la patata bollente del terzo mandato? Difficile che lo abolisca in blocco, perché così il Movimento perderebbe la presa sulla macchina politico-istituzionale, traguardo raggiunto solo grazie all'esperienza accumulata dai parlamentari di lungo corso. Più probabilmente verrà scelta la strada di un pacchetto di deroghe per il 2023.

Ma quanti posti verranno concessi per rimettere in lista chi non potrebbe? E quali saranno i nomi? La strada è sempre più stretta per due motivi. La prossima legislatura, proprio con il taglio dei parlamentari, avrà 345 posti in meno e il partito molto difficilmente conquisterà la valanga di seggi del 2018. Inoltre, proprio nelle ultime ore, il fondatore Grillo ha rilanciato un monito chiaro: «Limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione».

Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 7 febbraio 2022.

Quella che arriva dal tribunale di Napoli è una notizia che, di fatto, manda in frantumi tutto il percorso fatto in questi mesi da Giuseppe Conte. Il quale nei fatti non è più presidente del M5S, né esistono più sul piano formale i vicepresidenti e i responsabili dei comitati (compreso quello di garanzia dal quale si è dimesso Luigi Di Maio) e lo Statuto stesso. Rimane solo il garante che c'era prima, cioè Beppe Grillo. Ma l'ex premier non ci sta e annuncia: "La mia leadership del M5S è un legame politico prima che giuridico, non dipende dalle carte bollate". 

Gli attuali vertici del Movimento da oggi sono tali ma non sul piano formale, però. Questo perché sono il nuovo Statuto e poi la nomina stessa del presidente votate e adottate lo scorso agosto a non essere più valide. Il giudice Gian Piero Scoppa scrive che "l'adozione della presente cautela (cioè il ritorno alla vecchia struttura, ndr) non potrebbe dirsi preclusa dall'asserita potenziale insorgenza di problematiche di ordine tecnico connesse al funzionamento della pregressa 'piattaforma', trattandosi di eventuali aspetti di carattere meramente operativo suscettibili di svariate possibili soluzioni la cui individuazione resta concretamente riservata agli organi della associazione". Tradotto: non ci sono scappatoie per non far decadere tutta la struttura politica. 

Lo stop è avvenuto perché dalla votazione di modifica sono stati esclusi 81 mila iscritti al M5S, ma l'errore originario è stato quello di non modificare il vecchio statuto passando dalla vecchia piattaforma, cioè Rousseau. Peraltro di questo rischio di futura invalidazione se non si fosse rimasti sul vecchio sito aveva parlato proprio Grillo (oltre che Davide Casaleggio): "Sarebbe proprio il votare su una piattaforma diversa che esporrebbe il movimento, e te in prima persona, ad azioni anche risarcitorie da parte di tutti gli iscritti. Come ti ho sempre detto prima di poter votare su un'altra piattaforma è, infatti, necessario modificare lo statuto con una votazione su Rousseau", scrisse il fondatore lo scorso giugno rivolgendosi a Vito Crimi. Che nel pomeriggio, insieme al notaio, ha incontrato Conte nella sua casa romana per studiare le contromosse annunciando alla fine: "La nostra comunità è stata chiara su Conte. Ora si procederà ad una nuova votazione secondo le indicazioni del giudice di Napoli".

Non essendo più valido lo Statuto a cui ha lavorato per mesi Conte, adesso sarà necessario far eleggere i cinque membri del Comitato direttivo, ovvero l'organo collegiale che - si era deciso, prima che si virasse su Conte - doveva prendere la guida del Movimento dopo la fine della figura del Capo politico. 

M5S: dal tribunale solo sospensione delibere, le rivoteremo

Ma ora il Movimento con una nota annuncia che le delibere saranno rivotate a breve anche dagli iscritti con meno di 6 mesi di anzianità: "Il provvedimento del Tribunale di Napoli non ha accertato l'invalidità delle delibere adottate, ma dispone, in via meramente provvisoria, la sola "sospensione" delle suddette delibere" sulla base del nuovo Statuto del M5S. E ancora. 

"Il Tribunale di Napoli - si legge sempre nella nota - che in prima istanza aveva respinto il ricorso cautelare per la sospensione delle delibere dell'agosto 2021 di approvazione del nuovo statuto e di elezione del Presidente, ha accolto in seconda istanza il suddetto ricorso". "Nonostante le varie eccezioni sollevate, riguardanti anche l'incompetenza territoriale Foro di Napoli, il Tribunale ha accolto il ricorso fornendo una specifica interpretazione del vecchio statuto secondo cui avrebbero avuto diritto di partecipare al voto anche gli iscritti da meno di sei mesi. 

L'interpretazione fornita dal Tribunale di reclamo, peraltro - prosegue la nota - contrasta la prassi consolidata nelle votazioni seguite dal Movimento e un indirizzo che mirava a scongiurare che la comunità fosse infiltrata da cordate organizzate ad hoc al fine di alterare le singole votazioni, complice anche la gratuità e semplificazione dell'iscrizione". E ribadisce al nota che "il provvedimento del Tribunale di Napoli non ha accertato l'invalidità delle delibere adottate, ma dispone, in via meramente provvisoria, la sola "sospensione" delle suddette delibere. Il Movimento aveva già in programma, proprio in questi giorni, la convocazione di un'assemblea per sottoporre al voto degli iscritti alcune modifiche statutarie in adesione ai rilievi della Commissione di garanzia per gli statuti e la trasparenza dei partiti politici. Sarà questa l'occasione per proporre agli iscritti - anche con meno di sei mesi di anzianità - la ratifica delle delibere sospese in via provvisoria". 

Rousseau: denunciati più volte vizi tribunale

Sembrava già aver previsto tutto l'associazione Rousseau. Che ora, dopo l'ordinanza del Tribunale di Napoli che sospende, in via cautelativa, il nuovo statuto del M5S e la nomina di Giuseppe Conte a presidente, con un  post sul blog delle stelle spiega: "Come molti ricorderanno, per mesi abbiamo sollecitato i dirigenti che si erano autoproclamati tali a capo del Movimento a seguire la legge e ad adempiere alle decisioni degli iscritti durante gli Stati generali ossia a procedere a un voto su Rousseau per definire la governance del M5S composta da un organo a 5 componenti chiamato Comitato direttivo in sostituzione della figura del capo politico. Anche il Garante Beppe Grillo ribadì in due comunicazioni pubbliche - ''Una bozza e via'' pubblicata il 29 giugno e una comunicazione il giorno successivo - la necessità di votare, nel rispetto dello Statuto del Movimento 5 Stelle, il Comitato direttivo su Rousseau".

"Purtroppo quello che accadde successivamente è cosa nota a tutti: gli autoproclamatosi dirigenti del M5S decisero, invece, di proseguire la loro azione in violazione delle regole associative e delle decisioni degli iscritti e avviarono le votazioni su Sky Vote che oggi sono state di fatto invalidate accogliendo il ricorso proposto da diversi attivisti del MoVimento 5 Stelle in tutta Italia. In più occasioni abbiamo evidenziato quanto la gestione delle votazioni e della comunità degli iscritti richiedesse un livello di attenzione e professionalità che non possono essere improvvisati con modelli di gestione, invece, approssimativi e dilettantistici così come, invece, avvenuto. In un post del primo giugno 2021 Davide Casaleggio consigliava al Movimento 5 Stelle di operare nel pieno rispetto delle regole avvertendo: 'Gli scogli sono vicini. Ripeto. 

Gli scogli sono vicini'. E oggi il Movimento è tristemente andato a sbattere su quegli scogli e sarà costretto ad effettuare nuove votazioni indette dal Garante Beppe Grillo - unico organo in grado oggi di convocare gli iscritti - per individuare un guida collegiale al posto del decaduto presidente e capo politico Giuseppe Conte e dovrà farlo, questa volta, nel rispetto delle regole e delle modalità previste dal precedente Statuto e che da ora è di nuovo in vigore", conclude l'associazione Rousseau.

M.Pucc. per "la Repubblica" il 7 febbraio 2022.  

«Conte ha un problema: se il migliore dei goleador, e lui lo è, è in una squadra senza gioco o con qualche brocco, non segna mai», dice Dino Giarrusso, eurodeputato dei 5 Stelle da 116mila preferenze e che valuta di candidarsi alla presidenza della Sicilia in ottobre.

"Squadra senza gioco", "qualche brocco": si riferisce ai vice di Conte?

«No: penso a tutte le possibili scelte di Conte, passate, presenti e future, se non prenderà in considerazione alcuni elementi. Il M5S è nato come forza di partecipazione popolare e democrazia diretta. Se perde l'entusiasmo della base, riduce la partecipazione degli iscritti limitandoli a ratificare decisioni già prese e non valorizza quegli esponenti con un reale consenso personale, rischia l'irrilevanza. In passato sono stati commessi errori, da evitare: penso per esempio agli uninominali dove c'è chi scelse persone non votate dalla base che hanno abbandonato il Movimento». 

Ma lei nella discussione tra Conte e Luigi Di Maio come si pone? Davvero il ministro ha tramato contro il presidente?

«Non amo parlare di cose di cui non ho certezza e non voglio avallare assunti fatti da altri, certamente è un peccato non aver eletto un nuovo presidente ma ancor più grave è che una lite interna trasformi la clamorosa debacle del centrodestra nella nostra autoflagellazione, per questo invoco pacificazione».

Ma Conte e Di Maio sono ancora politicamente compatibili?

«Questo lo sanno solo loro due». 

Gli attivisti come la vedono?

«Vogliono essere coinvolti, ma seriamente, nelle discussioni e nelle scelte. Se ci sono controversie vogliono essere ascoltati. Che poi è stata la ragione del successo del M5S. Capisco che Conte curi molto il rapporto coi nostri gruppi parlamentari, e con alleati come Letta, ma deve anche valorizzare chi sta sul territorio, che per noi è fondamentale». 

Ma anche lei percepisce l'esistenza di due Movimenti?

«Io ritengo mortale creare fazioni e tifoserie. Conte ha ribadito che nel M5S le correnti non sono ammesse, ottimo. Però sappia che c'erano e ci sono ancora, eccome, e c'è chi ha dovuto subirle. Personalmente posso dire di subire da tempo ostracismo e attacchi indegni da colleghi di partito e persino da nostri dipendenti, rimasti impuniti. Dunque se si punisce chi fa correnti, si puniscano tutti i comportamenti del genere». 

Conte è presidente da diversi mesi, è una critica anche per lui.

«Assolutamente no: ha avuto diverse matasse da sbrogliare, anche di carattere formale, poi c'è stata l'elezione del Capo dello Stato. È uno sprone, piuttosto: ora è il momento di fare i referenti locali e farli votare dagli iscritti, che sanno bene chi si è impegnato e chi no. Conte ha molti che gli sorridono e poi gli remano contro, mentre chi è fedele davvero sono iscritti e attivisti: deve ridare loro un peso reale. Ricominciamo a parlare di temi sentiti e facciamolo coinvolgendo la base, altrimenti diventeremo una forza marginale». 

Senta ma lei sul limite dei due mandati cosa pensa?

«Una delle ragioni per la quale ci hanno votato milioni di persone fu che gli avevamo promesso che non saremmo diventati dei politici di professione. Sono contrario a modificare il principio. Dopodiché anche questo è giusto farlo votare ai nostri iscritti, così come la legge elettorale, che vorrei proporzionale e con le preferenze».

Estratto dell’articolo di Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa" il 7 febbraio 2022.

«Nel Movimento nessuno deve sentirsi indispensabile, nemmeno io». Giuseppe Conte dice di aver preso in mano i 5 stelle «per costruire, non per favorire scissioni». Ma anche che «le correnti non possono esistere, si decide la linea insieme, poi la si rispetta». Presidente, il caso Belloni è diventato una sorta di giallo. 

Davvero pensava, quando ha chiamato Beppe Grillo, che su di lei ci fosse un accordo pronto e già avallato dalle altre forze politiche? E non, come ha detto il Pd, un'intesa di massima su una rosa che andava ancora vagliata?

«Ho già chiarito che su quel nominativo non si è arrivati all'ultimo. Quando l'abbiamo proposto a Salvini con Letta eravamo consapevoli che era un nome solido e super partes, lo stavamo vagliando da giorni, fermi restando i passaggi finali interni che ciascun partito si riservava di fare. Il sì di Salvini è stata una svolta importante, insieme a quello della Meloni, eravamo a un passo. Poi è intervenuto il partito trasversale che non vuole il cambiamento nel Paese».

Si è molto arrabbiato per la dichiarazione arrivata dal ministro degli Esteri a trattativa in corso. È stata però proprio Belloni a definire Di Maio sempre leale. Questo smentisce i vostri sospetti?

«Tanto Elisabetta Belloni quanto Paola Severino rispondevano all'identikit che ci eravamo dati: personalità di alto profilo, super partes. In aggiunta, entrambe offrivano l'occasione storica di introdurre un elemento di forte innovazione nel sistema politico italiano eleggendo al Colle una donna per la prima volta». 

Ma Di Maio già il giorno prima del fatidico venerdì aveva detto: «Elisabetta è mia sorella, si stia attenti a non usare il suo nome per spaccare la maggioranza». Lei sapeva che quel nome avrebbe creato problemi.

«Quelle dichiarazioni mi hanno sorpreso, visto che Di Maio stesso ha sempre sostenuto che i nomi non vanno bruciati. Infatti io in pubblico ho sempre evitato di farli. E non mi sono mai arrivate, all'interno del Movimento e della cabina di regia, obiezioni di sorta. Anzi». 

Non teme che quest' insistenza sulla necessità che al Colle andasse una donna sia irrispettosa nei confronti di Sergio Mattarella?

«Il nostro gruppo parlamentare ha sempre apprezzato Mattarella ma all'inizio non c'era la disponibilità del capo dello Stato e non c'era una sufficiente maggioranza numerica. Siamo un movimento che osa, prova a cambiare le cose. 

Abbiamo tentato la strada di una donna autorevole al Colle, ce l'hanno sbarrata. Non è mai stata una linea irriguardosa nei confronti del presidente, un'opzione di garanzia che come Movimento abbiamo fatto crescere costantemente nelle votazioni». 

Non è stato Di Maio?

«Non so cosa abbia fatto concretamente Di Maio. So solo che con i capigruppo abbiamo sempre vigilato perché quest' opzione crescesse giorno dopo giorno e rimanesse valida sino alla fine. E aggiungo che la mia più forte premura è che ci fosse un'ampia maggioranza numerica. Condizione che si è realizzata solo la mattina del voto finale, con l'apertura della Lega».

Quando ha preso in mano il Movimento ha promesso meno verticismo rispetto al passato. Ma il conflitto nato sembra dimostrare il contrario. Non è che il padre padrone lo sta facendo lei?

«Mi dicono che nella storia del Movimento non ci siano mai stati tanti incontri e cabine di regia come in questi mesi. Questo sforzo serve a mettere a punto in maniera collegiale una linea politica che spetta a me riassumere e portare avanti. Seguire un diverso indirizzo, andare in direzioni opposte, non significa tanto indebolire una leadership quanto creare confusione e danneggiare il Movimento».

Quindi non può esserci un'idea di minoranza?

«Quando una linea passa in assemblea congiunta e viene costantemente aggiornata in cabina di regia va rispettata. Non possono esserci agende personali, doppie o triple». 

È consapevole che dire no alle correnti possa significare anche vietare il pluralismo delle idee?

 «La forza del Movimento è sempre stata quella di non cedere al correntismo della vecchia politica. I nostri iscritti si possono esprimere online sui passaggi più salienti. La possibilità di discutere progetti e idee e di elaborare proposte anche nella varietà di opinioni è per noi fondamentale.

Preannuncio anzi che con la nuova piattaforma della Scuola di formazione, che inaugureremo tra breve, moltiplicheremo i luoghi di discussione. Ma certo non potrò permettere che mentre prima si andava in piazza a fare battaglie civili e politiche, oggi si vada in piazza a palesare correnti. 

Quella mossa ha creato dolore e malumori nella nostra comunità. Anche per questo ho valutato come doverose le dimissioni di Di Maio dal comitato di garanzia».

Vincenzo Spadafora ha chiesto un congresso, non un processo pubblico. Che cosa ha in mente?

«Ci saranno dei momenti di confronto dove potremo analizzare quanto successo anche al fine di evitare che questi errori si ripetano. Né possiamo tollerare per il futuro guerre di logoramento interno: la nostra comunità è sana e si opporrà in modo compatto a queste degenerazioni della "mala politica" da chiunque provengano». 

Preferirebbe che Di Maio uscisse dal M5S?

«Io sono qui per costruire e rilanciare il Movimento, non ho mai lavorato per distruggere o provocare divisioni».

Dovrebbe dimettersi anche da ministro degli Esteri? Possono esserci conseguenze sul governo?

«Ho chiarito anche al presidente Draghi che il Movimento vuole contribuire a realizzare un patto per i cittadini per rafforzare l'azione di governo: nel nostro orizzonte non ci sono rimpasti o discussioni sulle caselle di governo». 

L'ex capo politico M5S l'ha chiamata nella sua squadra. Ha rinunciato a fare il premier per non accettare un accordo con Berlusconi e ha proposto lei al suo posto. Non è che la vera battaglia riguarda le liste delle prossime politiche e la necessità di superare il vincolo del doppio mandato?

«Lavorerò perché tutti nel Movimento possano sentirsi parte di una medesima comunità, possano condividere principi e valori, siano generosi e non si lascino distrarre dai propri destini personali. Tutti devono sentirsi importanti ma nessuno, a partire da me, deve mai sentirsi indispensabile». 

Non ha ancora preso una decisione sul terzo mandato?

«Non è ancora all'ordine del giorno, ma comunque nella decisione saranno coinvolti gli iscritti».

(…) La pensa come Salvini, che preme per nuove misure. Dopo il gelo seguito alla caduta del suo primo governo, avete trovato una nuova intesa nella trattativa sul Quirinale?

«Si è molto fantasticato su questo dialogo che ho intrattenuto con il centrodestra e Salvini in particolare anche a nome del Pd e di Leu. Ma dialogo non significa sotterfugi né accordi inconfessabili. Le trattative si sono svolte con costante coinvolgimento di Enrico Letta e Roberto Speranza e nella consapevolezza che non essendoci numeri sufficienti, come abbiamo sempre detto, sarebbe stato necessario puntare a personalità super partes e cercare un'ampia condivisione a garanzia di tutti».

Di Battista, che si è riavvicinato a lei, dice che perché rientri deve togliere l'appoggio a Draghi. Che non si fida di Letta e che l'alleanza con il Pd è la morte nera. Che farà?

 «Rispetto le opinioni di Alessandro Di Battista, ma il Movimento è entrato in questo governo consapevole di assumersi una responsabilità che va portata avanti sino a quando non verranno raggiunti gli obiettivi che ci siamo prefissati. Quanto al Pd il dialogo andrà coltivato nel rispetto reciproco».

(…)  L'inchiesta sul traffico di influenze che ha coinvolto Grillo dimostra che il Movimento è permeabile a interessi privati?

«Sono fiducioso che le verifiche in corso dimostreranno la piena correttezza dell'operato di Beppe Grillo». (…)

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per "la Repubblica" l'8 febbraio 2022.  

La battuta che è andata per la maggiore nella ridda di telefonate, messaggi, vocali e caffè amari, in una ennesima giornata di impazzimento generale per i 5 Stelle, è stata una: «E menomale che è pure un grande avvocato...». 

La faccenda a colpi di ricorsi, cavilli e legalese è in realtà tutta politica e comunque verrà risolta Giuseppe Conte ne esce un po' più ammaccato di quanto già non lo fosse.

C'erano voluti dei mesi per arrivare a concludere la transizione, ed era stata piena di affanni: la rottura con Davide Casaleggio, la creazione di una nuova piattaforma neutra, il lavoro sullo statuto riscritto daccapo, la lite a un passo dalla rottura totale con Beppe Grillo e poi la riappacificazione. Ora, nel mezzo di una nuova bagarre - stavolta con Luigi Di Maio, l'ex capo politico - rieccoci punto e a capo, tutto da rifare.

Appena uscita la notizia del provvedimento cautelare, l'ex presidente del Consiglio ha riunito i cinque vice e i fedelissimi, poi s' è visto con Vito Crimi e il notaio di fiducia Alfonso Colucci e sono questi ultimi due, si vocifera, ad aver sbagliato alcuni riferimenti normativi nell'amministrare il passaggio; ma insomma, al netto dei perché e dei per come, c'è anche chi al presidente ha consigliato a mezza voce, «Giuseppe cogli la palla al balzo, rifacciamo una cosa tutta nuova e daccapo ».  (…)

Antonio Atte e Ileana Sciarra per adnkronos.com il 7 febbraio 2022.  

Da Napoli arrivano nuove grane per il Movimento 5 Stelle. Secondo quanto apprende l'Adnkronos, il Tribunale del capoluogo partenopeo ha sospeso le due delibere con cui, lo scorso agosto, il M5S ha modificato il suo statuto e 'incoronato' Giuseppe Conte come presidente dei pentastellati. 

I provvedimenti (che risalgono rispettivamente al 3 e al 5 agosto 2021) sono stati sospesi in via cautelare per la sussistenza di "gravi vizi nel processo decisionale", in primis l'esclusione dalla votazione di oltre un terzo degli iscritti e il conseguente mancato raggiungimento del quorum, nell'ambito del processo intentato da un gruppo di attivisti del Movimento, difesi dall'avvocato Lorenzo Borrè.

Tra i militanti: Steven Hutchinson, Renato Delle Donne e Liliana Coppola, i quali hanno presentato il ricorso supportati da centinaia di attivisti che hanno contribuito al pagamento delle spese legali.

Da adnkronos.com l'8 febbraio 2022.

"Prima Di Maio andava in piazza per sostenere le nostre battaglie civili, oggi per esibire una corrente e attaccare la leadership". 

Così Giuseppe Conte, ospite di Lilli Gruber a 'Otto e mezzo' su La7. "Nella lettera di dimissioni ha scritto diversi buoni propositi per alimentare il dibattito e le idee. 

L'ho sentito per telefono e mi ha detto che é desideroso di esprimere idee e progetti. E' vero, un passaggio difficile c'è stato ma l'interesse del Movimento viene sempre prima delle persone", ha aggiunto. 

"Non è nell'orizzonte delle cose -ha aggiunto l'ex premier- che Di Maio venga espulso ma è ovvio che lui - che è l'ex leader - ha delle responsabilità in più. Una leadership vera non ha mai paura del confronto sulle idee ma di fronte a un attacco così plastico, in televisione, non si può fare finta di nulla".

Federico Capurso per "la Stampa" l'8 febbraio 2022.  

Ex presidente del Movimento 5 stelle: deve suonare strano anche a Giuseppe Conte, eppure è così, almeno per il momento. 

Dopo sei mesi e un giorno di leadership, l'avvocato si ritrova all'improvviso senza più scettro né trono, per mano di un tribunale. Lui rivendica la sua leadership, sostiene che «non dipenda dalle carte bollate», perché va distinto il «piano politico-sostanziale» da quello «giuridico formale». 

Ma la verità è che i due piani non si possono separare, neanche volendo. Perché dopo la sentenza del tribunale di Napoli, Conte non ha più alcun potere.

E perché insieme a lui è crollata tutta la struttura gerarchica che aveva costruito, dai vicepresidenti ai comitati. Tabula rasa. Un colpo che viene inferto nel momento più delicato per l'ex premier. 

Da una parte costretto a difendersi da Luigi Di Maio, dall'altra intento a sedare le preoccupazioni che arrivano dal Pd, con cui i rapporti vengono vissuti - specie dopo la partita del Quirinale - in una nuova atmosfera di tensione. Il leader M5S si sente sotto attacco, nonostante continui ad attestare la sua «fiducia in Enrico Letta».

Teme la sponda dei Dem con Di Maio e che questa venga usata per rafforzare l'idea di subalternità dei Cinque stelle rispetto al Pd. Non a caso chiede di nuovo «chiarezza e autonomia», utili a ridefinire i confini del loro rapporto. Ma prima degli alleati, Conte deve risolvere le grane interne. 

Dopo aver parlato con il suo avvocato, Francesco Astone, nutre la speranza che il 1 marzo venga respinto il ricorso a Napoli e che tutto possa tornare come prima.

Ma è una speranza e come ogni speranza nasconde un rischio. L'ex premier vuole quindi muoversi in fretta e rispondere alla sospensione dei suoi poteri «con un bagno di democrazia». Insomma, si ripeterà la votazione - annuncia ospite di Otto e mezzo -, «senza aspettare i tempi di un giudizio processuale». 

Conte avrebbe voluto affidare la pratica a Vito Crimi, che prima ricopriva il ruolo di reggente del partito, ma Crimi si è dimesso dalla carica e dunque nemmeno lui può più nulla. La ratifica che dovrebbe essere richiesta da Beppe Grillo, unico rimasto in carica. Conte lo ha sentito telefonicamente nella convulsa giornata di ieri, ma nonostante il desiderio di entrambi di superare l'impasse, non è ancora stata presa una decisione definitiva.

E aleggia qualche preoccupazione per le pressioni interne al Movimento, soprattutto dal lato Di Maio, che potrebbero arrivare sul Garante per convincerlo a scegliere un'altra strada. Ci sono infatti delle alternative. Una di queste prevedrebbe la nomina di un comitato direttivo di cinque membri a cui affidare il potere - così come era stato deciso prima della nomina di Conte. 

I cinque, una volta eletti, dovrebbero stabilire un nuovo voto per la modifica dello Statuto e un altro per l'elezione di Conte a presidente del partito. Ma è una strada che i vertici del Movimento vorrebbero evitare. Hanno paura che si creino di cordate, legate a Di Maio e a Virginia Raggi, in grado di prendere la maggioranza del direttivo e di rendere più complicata la transizione. 

Anche se un deputato considerato molto vicino al ministro degli Esteri si affretta a smentire qualunque volontà di interferire: «In questo caos nessuno vuole entrarci. Restiamo a guardare. Abbiamo già preso i popcorn», scherza. L'altra opzione prevede la nomina di un nuovo comitato di garanzia, con un nuovo reggente, che indica le due votazioni.

Ma dove votare? Sulla nuova piattaforma di voto online Sky Vote? Anche qui, sorge un dubbio agli avvocati M5S, legato ai ricorsi a cui sarebbero pronti gli attivisti in caso di mancato utilizzo di Rousseau, l'unica piattaforma citata dal vecchio statuto grillino. Certo, nonostante i pessimi rapporti con Davide Casaleggio, i vertici grillini si dicono sicuri che una soluzione, nel caso, si troverebbe: «Basterebbe pagarlo». Resterebbe lo smacco di dover tornare in ginocchio da Casaleggio, ancora ieri definito «un problema». Ma vie indolori per Conte, in questo momento, non ce ne sono.

(ANSA l'8 febbraio 2022) - "A seguito dell'Ordinanza del Tribunale di Napoli", "ha acquisito reviviscenza lo Statuto approvato il 10 febbraio 2021. Le sentenze si rispettano. La situazione, non possiamo negarlo, è molto complicata". Lo scrive sui social Beppe Grillo in riferimento alla situazione del Movimento 5 Stelle.

(ANSA l'8 febbraio 2022) - "In questo momento non si possono prendere decisioni avventate. Promuoverò un momento di confronto anche con Giuseppe Conte. Nel frattempo, invito tutti a rimanere in silenzio e a non assumere iniziative azzardate prima che ci sia condivisione sulla strada da seguire". Lo scrive Beppe Grillo sui suoi canali social facendo riferimento alla situazione dei 5 Stelle.

L'ultima beffa per i giustizialisti. Ora la palla passa all'indagato Grillo. Pasquale Napolitano l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il comico torna al timone. Defilato per le inchieste, tocca a lui sbrogliare la matassa.

Il Tribunale di Napoli rimette in pista un «Grillo azzoppato». La sentenza, pronunciata sul ricorso di un gruppo di attivisti che demolisce la leadership di Giuseppe Conte, riconsegna le chiavi del Movimento al «riservista» Beppe Grillo (nella foto). E riabilita Casaleggio. Si ritorna al 2013. Alle origini. Ai giorni in cui il Movimento fu saldamente nelle mani del comico. Immune da correnti, contese per la leadership e guerre di potere.

Otto anni azzerati in tre minuti: il tempo impiegato dal giudice del Tribunale di Napoli per la lettura del dispositivo che spazza via Conte, Casalino e la sua corte. Tre minuti che segnano la resurrezione del fondatore. Ma non è più il leader spavaldo di otto anni fa. Che marciava incontrastato, con la spinta del popolo, verso i Palazzi romani. Oggi è un capo al tramonto. Azzoppato. Un padre nobile triste e deluso. Che si ritrova (di nuovo) alla testa del Movimento nel momento più difficile: i sondaggi in picchiata e la guerra Conte-Di Maio hanno trasformato il sogno pentastellato in un incubo. La sentenza cancella gli ultimi sei mesi: via Crimi (il reggente), via Conte (il leader) e via i vicepresidenti.

Un assist inaspettato per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e la sua pattuglia schiacciati dalla leadership contiana. Riecco Grillo. Unico e solo al comando. Il comico, travolto dalle due inchieste (sul figlio per violenza sessuale e l'altra sui presunti favori al gruppo Moby), viene ri-catapultato al centro della scena politica. Lo showman era già pronto al passo d'addio. L'ultimo tentativo di mediazione, nei giorni scorsi, per siglare la tregua tra Di Maio e Conte era fallito. Ai suoi più stretti collaboratori aveva confidato la tentazione di gettare la spugna. Soprattutto dopo la gaffe su Belloni. Nelle ore calde della trattativa per l'elezione del Capo dello Stato, Conte aveva chiesto l'aiuto di Grillo sull'operazione che doveva portare al Colle la numero uno del Dis. Il suo tweet («Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo. #ElisabettaBelloni») si rivela un clamoroso autogol: la candidatura della Belloni salta. A Grillo restano la figuraccia e l'irritazione verso Conte. Epilogo di un declino.

Negli ultimi due anni a spingere Grillo verso il passo di lato sono state le inchieste. Le due indagini. La prima che coinvolge il figlio Ciro sulla presunta violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza. La seconda inchiesta, quella sui presunti favori ricevuti da Moby, è stata la mazzata finale. Grillo risulta indagato per traffico di influenze illecite. Ora il colpo di scena. Grillo si ritrova al timone di una nave che rischia il naufragio. Solo e senza vice. Monarca assoluto. Ma è un re nudo. Debole. Accerchiato. La sentenza impone a Grillo di convocare la votazione del direttorio. Votazione già indetta, e poi revocata, ad agosto quando entrò in rotta di collisione con Conte sulle modifiche dello Statuto. Da un lato, Grillo dovrà guidare l'azione politica del partito di maggioranza relativa in Parlamento e primo socio del governo Draghi. C'è subito il dossier nomine: 350 poltrone da assegnare o rinnovare per i prossimi mesi. Chi tratterà in nome e per conto del Movimento? I grillini di governo spaccati nelle due correnti (dimaiana e contiana)? O sarà Grillo in quanto leader di fatto dei 5s?

E poi il dossier Giustizia. Chi darà la linea al Movimento su un tema così caro? Grillo, Di Maio o Travaglio? Dall'altro dovrà sbrogliare la matassa sull'organizzazione del Movimento. Non è in programma alcuna visita a Roma. L'ipotesi più gettonata nelle chat è che il comico possa optare per un vertice collegiale tenendo dentro Di Maio e Conte. Ma è difficile che l'ex premier possa accettare un ridimensionamento. C'è chi azzarda. In una situazione di totale caos non si esclude che Grillo possa tenere in mano le redini del Movimento. Bloccare tutto: votazione del direttorio ed elezione del nuovo capo politico. Un colpo di scena che riporterebbe Di Maio al suo originario ruolo di figliuol prodigo. E metterebbe Conte fuori gioco. Un colpo di teatro. Da parte di un comico. Pasquale Napolitano

Annalisa Cuzzocrea per "La Stampa" l'8 febbraio 2022.  

Sarà forse Nemesi, figlia dell'oceano e della notte, a perseguitare il Movimento 5 stelle. Una forza politica cresciuta nelle piazze negli ultimi quindici anni urlando, insieme al suo Vaffa, che «i partiti sono tutti morti». 

Lo ha ripetuto per anni Beppe Grillo, mentre la forza politica cui aveva dato vita insieme a Gianroberto Casaleggio cominciava a entrare nelle istituzioni.

Lo hanno rivendicato i suoi adepti, ogni volta aggiungendo insulti verso questo o quel leader politico con cui - dicevano - non si sarebbero alleati mai. 

Così, dacché le cose hanno cominciato a farsi serie, con l'ingresso nei consigli regionali, in quelli comunali, infine in Parlamento, c'è sempre stata una causa legale che chiedeva di invalidare una qualche decisione del Movimento che si faceva partito senza ammetterlo neanche con se stesso.

È toccato a Beppe Grillo, a Genova, quando decise di annullare il voto sulla candidata sindaca Marika Cassimatis semplicemente perché non era quella per cui tifavano lui e Casaleggio. Anche allora ci furono un procedimento perso e un'associazione da rifondare, per evitare di dover dare ragione a chi pretendeva di stare alle regole dello Statuto. E non all'arbitrio del capo. Ma nessuno ha imparato la lezione, sebbene l'avvocato che indice le cause per conto dei ribelli sia sempre lo stesso.

Dopo una primavera trascorsa dagli iscritti a fare Stati generali on line per decidere che alla guida del Movimento doveva esserci un comitato direttivo, gli stessi dirigenti che avevano guidato quella decisione cambiano idea. Vogliono dare le chiavi dei 5 stelle a Giuseppe Conte e solo a lui. Grillo - tra un gamberetto e una tartina sul terrazzo dell'hotel Forum - fa lo stesso.

A un certo punto ci ripensa, vede troppi poteri nelle mani dell'ex premier, ma Luigi Di Maio e Roberto Fico corrono a Bibbona per calmarlo e di nuovo prevale l'arbitrio, si cancella la regola. Così non si fa, dice un tribunale a Napoli. Così si è sempre fatto, risponde il Movimento. 

Perché è vero, da sempre alle votazioni on line possono partecipare gli iscritti solo fino a una certa data: una vecchia fissazione da "democrazia diretta" in stile Casaleggio per evitare truppe cammellate e cordate in entrata. Non basta però che una cosa si sia sempre fatta, perché sia giusta. E così, il Movimento che voleva distruggere i partiti sta riuscendo a distruggere solo se stesso nel continuo e maldestro tentativo di imitarli.

L'immagine dello stallo odierno vede l'avvocato del popolo sommerso da quelle che egli stesso definisce «carte bollate», senza più né un ruolo né un potere. Senza più vice, perché tutto è decaduto insieme a lui. Mentre resta - eterno motore immobile dei 5 stelle - Beppe Grillo. Cui Conte pensava di aver tolto la guida politica, ma da cui dovrà di nuovo tornare per chiedere: «Scegli me». Sempre che i nemici interni, a partire da Di Maio, non convincano il Garante a cercare un'altra strada. E che quella strada non porti, in questo assurdo gioco dell'Oca, a un altro ritorno: quello della dismessa piattaforma Rousseau.

"Menomale che è un avvocato...". Giuseppe Conte è lo zimbello dei grillinI: il retroscena ad Omnibus. Il Tempo l'08 febbraio 2022.

Un brutto colpo per Giuseppe Conte e la sua leadership del Movimento 5 Stelle dopo la decisione del tribunale di Napoli di sospendere il nuovo statuto e la conseguente nomina dell’ex presidente del Consiglio a numero uno del partito. Francesco Specchia, giornalista ed ex capo-redattore di Libero, è ospite della puntata dell’8 febbraio di Omnibus, programma mattutino di La7 con Alessandra Sardoni alla conduzione, e non risparmia feroci critiche a Giuseppi: “Si sapeva che c’era questa situazione, Grillo e Casaleggio avevano avvertito tutti nei giorni precedenti al distacco dalla piattaforma Rousseau. Conte ha seguito delle procedure del tutto irregolari, meno male che è avvocato… Lo ha detto qualcuno all’interno del Movimento. Conte si è lasciato prendere dal fatto della presa del comando del M5S il prima possibile e poter procedere con i suoi piani. Ma questa cosa ha determinato una spaccatura maggiore all’interno di un Movimento che è già balcanizzato. Di Maio si è dimesso due giorni prima dal comitato di garanzia e poi è arrivata questa decisione dal Tribunale di Napoli, ci sono delle strane coincidenze. Adesso ci troviamo in un gioca dell’oca, si riparte dall’inizio, Conte rimette in discussione la leadership”.  “Di Maio - prosegue Specchia - sta lavorando da più settori contro Conte, lavora all’interno del governo e quindi continua ad aumentare il proprio network e la propria credibilità, è in attesa molto democristiana, il suo attendismo si vede in ogni mossa, sul referendum della giustizia e della cannabis e soprattutto le elezioni amministrative, che per il M5S saranno un bagno di sangue senza le alleanze con il Partito Democratico. Ci sarà - la fosca previsione del giornalista sul destino dei pentastellati - la morte politica sul territorio, a lungo andare si rischia l’annientamento completo”. Tra la stangata dalla giustizia e le mosse del ministro degli Esteri non è un bel momento per Conte.

Crimi e misfatti. Adesso i Cinquestelle hanno bisogno di un avvocato bravo. Mario Lavia su l'Inkiesta l'8 Febbraio 2022. Giuseppe Conte è stato scalzato dalla guida del partito poi lista da una sentenza di tribunale (e già questo fa ridere) e la colpa è proprio sua, che ha redatto uno statuto sbagliato. Ma il provvedimento del magistrato è solo il suggello formale della fine di una leadership che di sostanziale non aveva nulla. 

All’avvocato che cade a causa delle sue leggi verrebbe da dire: ben ti sta. Scivola, l’avvocato, Giuseppe Conte, sulle scale della giustizia e della correttezza delle norme, e dai ieri non è più presidente del M5s. Altro che «rivoluzione divora i suoi figli» come gridò il girondino Pierre Victurnien Vergniaud davanti alla ghigliottina: quella era tragedia, qui è pura farsa.

La tristezza dello spettacolo di un leader politico scalzato da un’ordinanza di un tribunale civile è evidentemente in se stessa: bei tempi quando un segretario di partito cadeva in un congresso democratico!

Ma la colpa non è attribuibile al dottor Gian Piero Scoppa, presidente della settima sezione civile del Tribunale di Napoli, che ha emesso l’ordinanza che cancella la nomina di Giuseppe Conte a presidente del M5s, la colpa è proprio di Conte avvocato Giuseppe che ha impiegato cinque mesi per scrivere uno Statuto sbagliato, come le sue ambizioni, e del M5s che si inventò il plebiscito pro-Conte su una piattaforma diversa dalla mitica Rousseau e dunque monca di ben 81.839 iscritti che avrebbero dovuto votare (di qui il reclamo degli esclusi accolto dall’ordinanza napoletana).

Un pasticcio cui la fantastica prosa azzeccagarbugliesca dell’ordinanza aggiunge un sublime tocco settecentesco, come in un’opera di Cimarosa: «L’adozione della presente cautela non potrebbe dirsi preclusa dall’asserita potenziale insorgenza di problematiche di ordine tecnico connesse al funzionamento della pregressa “piattaforma”…».

Ma al di là del latinorum dei magistrati, la sostanza è che il tribunale ha in sostanza dato ragione a Beppe Grillo e Davide Casaleggio che avevano messo in guardia l’avvocato del popolo dall’utilizzare una piattaforma diversa da Rousseau senza aver prima modificato lo statuto: una bagatella di paese che nulla a prima vista avrebbe a che fare con la politica, addirittura con il partito più votato dagli italiani (quattro anni fa però), parendo invece una commedia degli equivoci da film minore di Risi o Monicelli, o meglio una farsa di Armando Curcio o Eduardo Scarpetta – non può essere un caso che l’ordinanza sia stata emessa a Napoli – e tanto per aggiungere ridicolo al ridicolo c’è il fatto che la “vittima” del marchingegno sia l’avvocato già presidente del Consiglio, incapace di regolare la vita del suo partito, figuriamoci quella del suo Paese.

Colpito ai fianchi dal rampante ministro degli Esteri adesso sulla testa di Giuseppi è piombata la forza della legge, proprio quella legge di cui egli si picca di esser cantore (e in nome del popolo!), quando invece ha dimostrato di non essere capace nemmeno di farsi eleggere con regole trasparenti. Così il punto di vista formale in un certo senso anticipa quello sostanziale, visto che non passa giorno senza che la leadership di Giuseppe Conte venga in qualche modo minata.

Ora lui minimizzerà, derubricherà il fattaccio a problema tecnico, anzi forse griderà al complotto o che altro. Della questione formale interessa tutto sommato poco: chi ha mai creduto alla forza di legge di un clic, alla pantomima della democrazia sottoforma di plebiscito telecomandato, alle leadership fabbricate nelle stanze di una srl incontrollabile?

Il fatto di oggi è politico e cioè che il drappo telematico posto dai grillini sulla faccia della democrazia è squarciato dalla logica prima ancora che dalla legge; che quella che era parsa a molti una cattedrale della nuova politica appare per quel che è, una baracca per sbandati, un circo equestre di quart’ordine, una moneta fuori corso.

Lui, Conte avvocato Giuseppe, a questo punto dovrà cercarsi un avvocato vero, mentre sul M5s incombe il ritorno di Vito Crimi, un altro statista, chiamato a riparare – lui, Crimi – i misfatti che ha contribuito a generare, mentre scommetteremmo che in queste ore il ministro degli Esteri Di Maio stia godendo per l’ennesimo inciampo quanto mai simbolico del rivale avvocato, infilzato dalla legge.

Simona Brandolini per "il Corriere della Sera" il 9 febbraio 2022.

Steven Brian Hutchinson. E subito si sognano le strade della California dove Starsky&Hutch scorrazzavano a bordo di una fiammante Gran Torino. Invece no. Steven Brian Hutchinson (padre americano) è il capotreno che ha fermato il vagone Cinque Stelle. È uno dei tre attivisti napoletani che hanno fatto ricorso contro le modifiche dello statuto, azzerando (temporaneamente?) le nomine e l'incoronazione del leader Giuseppe Conte.

Eppure la vita di Hutchinson è una serie di incastri, coincidenze e sliding doors all'ombra del Movimento.

Un esempio? Ha un volto conosciuto agli appassionati di quell'«esperimento sociale» che è stato Matrimonio a prima vista Italia. Un cult. Due sconosciuti s' incontrano il giorno delle nozze e iniziano una vita di coppia. L'attivista ha partecipato alla seconda edizione con Sara. Per otto mesi sua moglie.

«Ma non sono proprio uno da reality. Quella è stata un'esperienza diversa, unica, intensa, vera. Quando è finito il programma mi hanno offerto di partecipare al Grande fratello Vip . A parte che non sono un vip, ma non fa proprio per me».

Praticamente avrebbe potuto avere una carriera come Rocco Casalino.

«Fa sorridere, non ci avevo mai pensato, ma non abbiamo molto in comune». Dice ironico. La sua militanza politica inizia, invece, nel 2007 «tra Pomigliano e Napoli», nei meetup, i germogli grillini su cui è cresciuto il Movimento. Pomigliano, sua città d'origine, ha dato i natali a Luigi Di Maio, il potente ministro degli Esteri ora avversario diretto di Conte. Napoli è la città di un altro pezzo da novanta, Roberto Fico, attuale presidente della Camera che nella lotta intestina ai 5 Stelle s' è ritagliato la casella di Svizzera neutrale.

«In realtà conosco più Luigi di Roberto». 

E cosa ne pensa?

«La domanda è: quale versione dei due? Sono cambiati molto negli ultimi tempi, da quando siamo al governo è impossibile parlare con loro». 

Ecco il noi, è un'altra caratteristica.

Perché «il Movimento siamo noi», par di sentire migliaia di attivisti delusi nelle sue parole. «Con Grillo ci siamo visti a luglio dell'anno scorso, io gli ho consegnato una lettera sottoscritta da 400 attivisti in cui chiedevamo di andare avanti con la strada da lui indicata nel post "Una bozza e via" (post del garante del 30 giugno 2021). Invece le modifiche sono state fatte». 

E con Di Battista? Girano foto in cui ci siete voi dissidenti con lui: «Incontri pubblici, non ci conosciamo proprio. Non ho neanche il suo numero di telefono». 

Tra una ventina di giorni il Movimento contiano torna in tribunale, Hutchinson che è ancora un iscritto la butta in politica: «L'unica possibilità di sopravvivere è decentralizzare il potere. Si torni a far decidere gli iscritti, si torni alla democrazia». 

Si torni al Movimento originario, questo è il succo: «Il più bel ricordo resta il Cozza day». Era il 2011, in ogni mollusco c'era il nome di un «parlamentare abusivo» chiuso nel Palazzo. «Attualissimo, direi». 

Da liberoquotidiano.it il 7 febbraio 2022.

La partecipazione a programmi televisivi sembra essere un filo rosso che unisce tutti gli uomini più "vicini" a Giuseppe Conte. La provenienza dal mondo della tv non riguarda solo Rocco Casalino, che partecipò alla prima edizione del Grande Fratello, ma anche Steven Hutchinson, uno degli attivisti che sta cercando di affossare (con successo) il leader del Movimento. 

Hutchinson è infatti una delle persone che ha depositato il ricorso contro l'avvocato al tribunale di Napoli, ottenendo anche un primo riscontro positivo. Insomma, è sua la "manina" dietro la detronizzazione del presunto avvocato del popolo. 

Il Tribunale di Napoli, infatti, ha sospeso la modifica allo statuto e l'elezione di Conte leader, rendendo nulli di fatto due provvedimenti dello scorso agosto. La decisione è arrivata a seguito di un ricorso presentato da un centinaio di attivisti guidati, tra gli altri, da Hutchinson. Cosa c'entra lui con la tv? Come ricorda il Tempo, si tratta del protagonista del programma tv Matrimonio a prima vista Italia: "Da un reality show veniva Rocco Casalino, l'uomo che ha creato Giuseppe Conte. E da un reality viene Steven Hutchinson, l'attivista grillino che può distruggere l'avvocato del popolo assurto a capo del Movimento 5 Stelle". 

Nella trasmissione da cui arriva Hutchinson, i concorrenti sposano "al buio" un perfetto sconosciuto e dopo sei mesi devono decidere se continuare la relazione oppure no. Steven, oggi capotreno di Trenitalia, vi ha partecipato ormai due anni fa sposando una donna di nome Sara. Alla fine, però, avrebbe chiesto il divorzio. All'epoca lui raccontò: "E’ stata un’esperienza molto forte, emozionante e le cause della rottura sono da attribuire a entrambi, soprattutto per i problemi derivati dal trasferimento di lei a Napoli, una cosa non facile da superare".

Insieme ad altri 2 napoletani ha raccolto il malcontento e ha portato le carte in Tribunale. Chi è Steven Hutchinson, l’attivista che ha scatenato la tempesta M5S: “Non siamo stati noi, lo hanno fatto da soli”. Rossella Grasso su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Nelle ore in cui la tempesta sconquassa gli ordini e gli equilibri nel Movimento Cinque Stelle, parla Steven Hutchinson, uno dei firmatari del ricorso al tribunale di Napoli contro il nuovo statuto dei pentastellati. Una decisione, quella del Tribunale, che ha di fatto azzerato le nomine delle cariche del Movimento. “Una vittoria sofferta come la decisione di portare le carte in tribunale – ha spiegato Hutchinson, attivista del Movimento 5 Stelle – Nel momento in cui bisogna ricorrere alla Giustizia per fare politica credo che sia un fallimento per tutti”.

Hutchinson è uno dei tre attivisti napoletani ad aver firmato il ricorso al tribunale di Napoli che ha scatenato il terremoto all’interno del Movimento. Accanto a lui nella battaglia contro lo statuto, Renato Delle Donne, 32 anni, e Liliana Coppola, 62 anni. Steven Hutchinson è un quarantenne napoletano, di mestiere fa il capotreno ma ha sempre partecipato attivamente alla vita del Movimento 5 Stelle. È diventato famoso in Tv per aver partecipato al programma “Matrimonio a prima vista”. Sposò una sconosciuta davanti alle telecamere per divorziare 6 mesi dopo.

Hutchinson è un grillino della prima ora, che ha sempre creduto nei valori fondanti del Movimento, nella democrazia e nella partecipazione dal basso. Ed è per questo che ha raccolto il consenso del malcontento generale di una parte degli attivisti, ha raccolto firme e ha deciso di portare in tribunale le carte. Ha anche avviato una raccolta fondi per pagare le spese legali di questa operazione a cui hanno partecipato in tanti raggiungendo già 9mila euro sul traguardo degli 11mila proposto.

“Il malcontento andava avanti da troppo tempo – ha spiegato – La reggenza di Vito Crimi che doveva durare un solo mese dopo le dimissioni di Luigi di Maio in realtà è durata un anno. Beppe grillo a causa del Covid ha temporeggiato, quell’anno è stato devastante sostanzialmente. Forse anche lo stesso Crimi non si aspettava di dover gestire tutte queste problematiche. Le voci sono arrivate e abbiamo cercato di accelerare e cercare di fare gli stati generali quanto prima, cosa che poi siamo riusciti a fare. Forse gli stati generali sono stati il momento più democratico del Movimento 5 Stelle. Ci sono stati mesi di riunioni e incontri fatti online alle quali hanno partecipato tutti gli attivisti compresi i portavoce. C’era una rappresentanza di tutte le categorie all’interno dell’associazione”.

“A febbraio 2021 c’è stato questo nuovo Statuto – continua l’attivista – che però non è piaciuto. Invece di andare a riempire questo nuovo contenitore che prevedeva nuovi organi, una collegialità nella gestione dell’associazione, è stato cancellato con questa votazione fatta ad agosto dove anche Beppe Grillo, il nostro garante, aveva messo in guardia Crimi perché ci sarebbero potuti essere dei ricorsi. E così è stato ma loro non ci hanno ascoltati. Grillo ha ricevuto forti pressioni dai gruppi parlamentari che gli hanno chiesto di andare vanti per la modifica statutaria e di incoronare Giuseppe Conte come Presidente. Tutto questo abbiamo ritenuto che fosse illegittimo e il Tribunale ci ha dato ragione”.

In sostanza per Hutchinson era venuta meno la democrazia e così è partito il terremoto. “A chi ci accusa di aver decapitato il Movimento rispondiamo che lo hanno decapitato loro. I responsabili, la classe dirigente, hanno portato a tutto questo. Ricordiamoci che nel 2018 grazie a una maggiore partecipazione degli iscritti e alla vita associativa, il Movimento aveva raggiunto il 33%. Oggi se andiamo a guardare i sondaggi il Movimento ha perso circa il 60% dei consensi quindi io qualche domanda me la farei su chi è veramente il responsabile”.

Hutchinson e il manipolo di dissidenti nonostante la delusione non è intenzionato a lasciare il Movimento. “Abbiamo intrapreso questa battaglia perché ci teniamo a cambiare le cose e ci auguriamo che il nostro garante, che fin ora è stato molto rispettoso delle ordinanze, non faccia gli stessi errori del passato”.

Rossella Grasso.  

Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

"Basta con la cupola 5S a cui bisogna obbedire". Edoardo Sirignano il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'autrice del ricorso: "I vertici continuano a incartarsi sulle regole troppo complesse".

«Il M5s può esistere, ma non deve esserci più un cerchio magico. Gli attuali vertici continuano a incartarsi sulla complessità delle loro regole». Non usa giri di parole Liliana Coppola, che insieme ad altri due attivisti ha presentato il ricorso che ha costretto Giuseppe Conte alle dimissioni.

Cosa c'era di illegittimo?

«Non si possono escludere 81mila iscritti tutto d'un colpo. Pur essendo previsto un preavviso di 15 giorni, ad agosto, sotto l'ombrellone, siamo stati costretti a votare, senza avere il tempo di pensare, sul cellulare, uno statuto stravolto, di 40 pagine e non più di 15 e dove appunto si parlava di capo unico. Le persone votarono solo perché lo disse Conte. La cosa grave è che tutti eravamo d'accordo per un direttivo composto da 5-7 persone».

Perché è contraria al capo unico?

«Una persona sola al comando non funziona. Dopo Crimi e Di Maio si poteva fare solo peggio. Ci saremmo aspettati almeno un confronto tra due soggetti».

Come si chiuderà la vicenda?

«Deve agire il garante Grillo con i suoi avvocati. Scopriremo con il corso degli eventi se il M5s esisterà».

Ci crede ancora?

«Ho creduto nel primo M5s, quello che partiva dal basso, dove non c'erano stanze chiuse e vertici e dove davvero ognuno vale uno».

È la prima volta che i 5 Stelle si incartano sulle loro regole?

«È successo altre volte, pur non essendo coinvolta in modo diretto. A Napoli gli errori sono stati diversi. Basti pensare alle espulsioni o alla gestione delle amministrative».

Dopo che ha firmato il ricorso, quale la reazione degli amici 5 Stelle?

«Poiché le spese legali sono state cospicue, c'è stata una raccolta fondi. Abbiamo ricevuto donazioni provenienti da tutta Italia. Quando si è saputo dell'ordinanza di sospensione dello statuto, migliaia i messaggi e le telefonate di persone che ci ringraziavano per il coraggio».

È favorevole alla proposta di superare la regola del secondo mandato?

«Contraria perché i portavoce terminato il secondo mandato possono mettersi a disposizione in altro modo. Fare il deputato o il senatore non è lavoro a tempo indeterminato».

L'attuale vertice avrebbe come priorità solo conservare la poltrona

«Sui territori non c'è più nessuno di loro. A Napoli hanno eletto persone provenienti da altri partiti. Il problema non è Conte, ma l'esistenza di una cupola a cui bisogna solo ubbidire».

Edoardo Sirignano. Sono nato a Mirabella Eclano il 4 gennaio 1990, in tempo per le “notti magiche”, che pur non ricordandole, ho sempre portato dentro di me. Sono diventato giornalista professionista a 22 anni, ma ho iniziato a scrivere molto tempo prima di politica locale. La mia palestra è stata il Mattino e in Irpinia mi sono allenato per dieci anni mangiando pane e politica, infatti, non è conferenza quella dove dopo non c’è cena. Da pochi mesi, su intuizione della Macchioni, sono sbarcato a Roma in quel di Spraynews. Adesso mi ritrovo nel Giornale.it e spero di rimanerci ancora per un po'…

L'ospitata "chirurgica". Faida nei 5 Stelle, Conte torna a casa-Gruber dopo la mazzata in Tribunale. Marco Zonetti su Il Riformista il 7 Febbraio 2022.

Su giornali e in Tv si parla solo dell’ospitata di Papa Francesco a Che tempo che fa, che ha fruttato a Fabio Fazio un record di ascolti mai visto nella storica trasmissione di Rai3, distaccando anche Rai1 e infrangendo in un sol colpo “l’effetto Sanremo“. Ma le emozioni non sono finite, perché è in arrivo un’altra ospitata d’eccezione prevista per questa sera su La7 a Otto e mezzo. Se Fazio è riuscito ad avere nientemeno che Papa Bergoglio, ecco che Lilli Gruber risponde con il leader del M5s Giuseppe Conte.

Una presenza che non rappresenta una novità nello studio di Otto e mezzo, nel quale Conte è già stato ospite per ben due volte. La prima con record di ascolti, la seconda con riscontri ben più sottotono, battuto nei dati Auditel anche da Carlo De Benedetti, ospite la sera precedente. Ma le mere e fredde cifre non hanno alcuna importanza perché Giuseppi questa sera tornerà in pompa magna nella trasmissione televisiva che più ne ha tessuto le lodi, che più ne ha alimentato il mito, che più ha resistito strenuamente accanto a lui quando, un anno fa, il governo giallo-rosso cadeva sotto i colpi del nemico e l’usurpatore Mario Draghi s’impossessava di Palazzo Chigi.

A fargli da agguerritissimo contraddittorio, assieme al direttore de La Stampa Massimo Gianni e a Monica Guerzoni del Corriere della Sera, chi se non il suo principale aedo con Travaglio, ovvero Andrea Scanzi del Fatto Quotidiano?

Proprio nel momento in cui la sua posizione vacilla all’interno del Movimento, dilaniato dalla faida con Luigi Di Maio, ecco che Otto e mezzo invita Conte. “Coincidenza? Non credo!” avrebbero scritto qualche anno fa sui social pentastellati, ora divisi tra chi sostiene Giggino e chi invece parteggia per Giuseppi. Offrendo uno strategico e tempistico palcoscenico a quest’ultimo, Otto e mezzo almeno si dimostra coerente.

Chissà se la Lilli nazionale chiederà al leader grillino cosa ne pensa della sentenza del Tribunale di Napoli, che proprio oggi ha sospeso le delibere con cui, lo scorso agosto, il M5s ha modificato lo statuto ed eletto Conte presidente pentastellato, e che di fatto ha sospeso il provvedimento che lo ha incoronato leader. Seppur rampante, sarà a tutti gli effetti un Conte dimezzato quello che la Gruber avrà stasera in trasmissione… Marco Zonetti

Otto e Mezzo, Giuseppe Conte pugile suonato: Lilli Gruber lo assedia, 100 difficilissimi secondi per il grillino. Libero Quotidiano l'08 febbraio 2022.

Nel giorno in cui il tribunale di Napoli ha de facto sospeso la sua leadership nel M5s, Giuseppe Conte si ritrovava nel salottino di Lilli Gruber, a Otto e Mezzo su La7. Tempismo perfetto, insomma. E l'ex premier ribadisce quanto detto nel pomeriggio, ossia che la leadership non si decide a carte bollate e che il capo resta lui (anche se, formalmente, ora non lo è più: probabile che si ricorra a un nuovo voto). E al netto della spavalderia, Conte appare un pugile suonato. E i 100 secondi mal contati di video che potete vedere qui in calce lo dimostrano in modo piuttosto lampante.

La Gruber, infatti, sente il metaforico odore del sangue e non gli dà tregua. Lo incalza sulla possibilità da lei vista come il demonio che il M5s contiano possa riallearsi con la destra, con i sovranisti. "Creare l'ipotesi gialloverde, che Conte si alleava segretamente con Salvini, è una bella e fantasiosa ricostruzione", si difende il presunto avvocato del popolo che parla di sé in terza persona. E ancora: "L'ho smentita tre, quattro, cinque, sei volte... è l'ottava volta che la smentisco".

Ma Lilli la rossa non molla. "Voglio solo capire se ho capito bene: il M5s di Giuseppe Conte che verrà rieletto alla grande presidente del M5s, sarà un movimento che si collocherà nel fronte di centrosinistra". Apriti cielo, Conte non tollera la parola "centrosinistra" e corregge la Gruber: "Progressista, accidenti". E Lilli, sbrigativa: "Nel fronte progressista. E comunque non si alleerà più con la destra". "Guardi...". A quel punto Gruber lo incalza in modo selvaggio: "No... o sì o no". E l'avvocato: "La nostra carta dei valori mi sembra che sia molto distante". "Le sembra o lo è?". "C'è distanza, c'è disatanza. Saremo la forza trainante e propulsiva del fronte di centrosinistra".

Ma il cannoneggiamento è continuo, serratissimo, Conte sempre più in difficoltà. "Sarà contento Enrico Letta...", lo dileggia la conduttrice. L'ex premier sorvola, e riprende: "Ritornando alla fiducia nei confronti del Pd, attenzione: è un discorso personale. Non funziona bene tra forze politiche, funziona tra le persone. Certo che mi fido di Enrico Letta". "E Letta si fida di lei?". Ancora nessuna risposta. "Ma il dialogo col Pd è da declinare nel segno della chiarezza, della reciproca autonomia e riconoscimento", aggiunge Conte. E la Gruber infierisce: "Va bene, ma Enrico Letta si fida di lei?". "Lo ha dichiarato anche, non avrebbe motivi per non fidarsi", risponde (finalmente) un Giuseppe Conte sempre più in affanno.

L'ex premier in caduta libera...Aiutate Conte: non espelle Di Maio, apre a deroghe sui due mandati e attacca i giornaloni. Redazione su Il Riformista il 7 Febbraio 2022. 

Da presidente “sospeso” del Movimento Cinque Stelle, dopo la decisione della settima sezione civile del Tribunale di Napoli che ha accolto il ricorso presentato dagli attivisti del partito (sulle modifiche dello Statuto e la nomina, oggi illegittima, dell’ex premier), Giuseppe Conte prova a mediare all’interno di un partito oramai spaccato e, ancora una volta, cambia le carte in tavola. Dalla espulsione di Di Maio, che non avverrà, al vincolo dei due mandati, sui quali sarà possibile intervenire con qualche deroga.

I 5 Stelle sono sempre di più nel caos e il loro leader, al momento non riconosciuto dopo la decisione dei giudici napoletani, cerca di salvare il salvabile ma continua a fare un passo in avanti e due indietro. Al termine dell’ennesima giornata da dimenticare, l’ex premier, ospite a Otto e Mezzo su La7, prova a ricucire, mediare, trattare. “La discussione sul limite di mandati produce maldipancia comprensibili. E’ un principio forte e un’intuizione giusta e Beppe Grillo lo ha ribadito in un post. Ma resta un principio ispiratore – osserva – che la politica non è una professione ma una vocazione. Secondo me questa regola ha un fondamento che va mantenuto, ne vorrei discutere con Grillo, ma ragionerei sul trovare qualche volta delle deroghe… Una deroga a Di Maio? Adesso non personalizziamo, a tempo debito faremo le valutazioni del caso”.

Sulla posizione del ministro degli Esteri, che dopo la scellerata settimana delle elezioni del Capo dello Stato ha di fatto disconosciuto la leadership di Conte annunciando una riflessione interna al partito, l’ex presidente del Consiglio è morbido: “Non è nell’orizzonte delle cose che Di Maio venga espulso ma é ovvio che lui – che è l’ex leader – ha delle responsabilità in più. Una leadership vera non ha mai paura del confronto sulle idee ma di fronte ad un attacco così plastico, in televisione, non si può fare finta di nulla”. Insomma va bene una tiratina d’orecchie ma nonostante l’attacco e la fuoriuscita di Di Maio dal comitato di garanzia nei giorni scorsi, l’ex leader politico (bocciato dopo una serie di flop, ndr) è diverso dai suoi predecessori: ragion per cui, secondo Conte, non rischia l’espulsione e, forse, potrebbe addirittura rientrare in quelle ‘deroghe’ per aggirare il vincolo dei due mandati.

Altro che leader, Conte prova a mediare perché probabilmente preoccupato di un ulteriore ridimensionamento del suo partito dopo le recenti figuracce. “Prima Di Maio andava in piazza per sostenere le nostre battaglie civili, oggi per esibire una corrente e attaccare la leadership” ha ammonito Conte salvo poi addolcire il tutto: “Nella lettera di dimissioni ha scritto diversi buoni propositi per alimentare il dibattito e le idee. L’ho sentito per telefono e mi ha detto che è desideroso di esprimere idee e progetti. E’ vero, un passaggio difficile c’è stato ma l’interesse del Movimento viene sempre prima delle persone”.

Sullo scenario politico post Mattarella-bis, l’ex premier allontana Salvini dopo la figuraccia relativa al caso Belloni (con lo stesso Grillo lanciato allo sbaraglio con quel tweet ai quattro venti) e annuncia fiducia in Letta: “Rispetto i tormenti del giovane Renzi, non so quale prospettiva politica si darà, se starà a destra o starà a sinistra… L’Asse gialloverde? Una sciocchezza, in vari momenti abbiamo pubblicamente detto di volerci confrontare con l’opposizione, quindi è ovvio che poi ci fossero questi incontri, in accordo con Letta e Speranza”. Sul segretario del Pd chiosa: “Certo che mi fido di Enrico Letta ma il dialogo con i Dem è un dialogo nel segno della chiarezza e della reciproca autonomia”. 

Per Conte “non è vero che sull’azione di questo governo o che sul Quirinale non abbiamo toccato palla, dal bonus casa al rinnovo del Presidente Mattarella siamo stati determinanti. Dal primo giorno, insieme a Letta e Speranza abbiamo fatto crescere la sua candidatura”. “Ho lavorato con i parlamentari, con i capigruppo, in cabina di regia – dove c’era anche Di Maio – e abbiamo portato 230 parlamentari a votare uniformemente ma nessun giornale ce lo ha riconosciuto”. Avete capito bene? Dopo una settimana di candidature bruciate e veti incrociati, alla fine Conte si compiace di aver portato 230 parlamentari grillini a votare uniformemente al settimo scrutinio per il Mattarella bis.

Poi rincara la dose contro i media: “Non è vero che usciamo sconfitti noi ma escono sconfitti i giornaloni, i principali quotidiani che sostenevano che fosse meglio avere Draghi al Quirinale”.

Infine sulla decisione del Tribunale di Napoli si mostra sereno: “C’e’ un piano politico-sostanziale e uno giuridico-formale, che segna questa sospensione. Sospensione a cui si risponde con un bagno di democrazia. Erano già in programma delle modifiche dello statuto, si aggiungerà una ratifica da parte di tutti gli iscritti, anche quelli da meno di sei mesi, senza aspettare i tempi di un giudizio processuale. Curioso che si era sempre votato così, con il vecchio statuto, e ora viene impedita questa cosa”.

Estratto dell'articolo di Pasquale Napolitano per "il Giornale" l'8 febbraio 2022.

Il Tribunale di Napoli rimette in pista un «Grillo azzoppato». La sentenza, pronunciata sul ricorso di un gruppo di attivisti che demolisce la leadership di Giuseppe Conte, riconsegna le chiavi del Movimento al «riservista» Beppe Grillo. […] 

Unico e solo al comando. Il comico, travolto dalle due inchieste (sul figlio per violenza sessuale e l'altra sui presunti favori al gruppo Moby), viene ri-catapultato al centro della scena politica. Lo showman era già pronto al passo d'addio. […]

Negli ultimi due anni a spingere Grillo verso il passo di lato sono state le inchieste. Le due indagini. La prima che coinvolge il figlio Ciro sulla presunta violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza. La seconda inchiesta, quella sui presunti favori ricevuti da Moby, è stata la mazzata finale. Grillo risulta indagato per traffico di influenze illecite. Ora il colpo di scena. Grillo si ritrova al timone di una nave che rischia il naufragio. Solo e senza vice. Monarca assoluto. Ma è un re nudo. Debole. Accerchiato.

La sentenza impone a Grillo di convocare la votazione del direttorio. Votazione già indetta, e poi revocata, ad agosto quando entrò in rotta di collisione con Conte sulle modifiche dello Statuto. Da un lato, Grillo dovrà guidare l'azione politica del partito di maggioranza relativa in Parlamento e primo socio del governo Draghi. C'è subito il dossier nomine: 350 poltrone da assegnare o rinnovare per i prossimi mesi. 

Chi tratterà in nome e per conto del Movimento? I grillini di governo spaccati nelle due correnti (dimaiana e contiana)? O sarà Grillo in quanto leader di fatto dei 5s? E poi il dossier Giustizia. Chi darà la linea al Movimento su un tema così caro? Grillo, Di Maio o Travaglio? Dall'altro dovrà sbrogliare la matassa sull'organizzazione del Movimento. […]

Estratto dell'articolo di Sebastiano Messina per "la Repubblica" l'8 febbraio 2022.

E così il destino cinico e baro ha voluto che il Movimento nato incitando i giudici a giustiziare i vecchi partiti scoprisse, un lunedì di febbraio, di essere stato decapitato da un tribunale civile. È nullo il nuovo statuto, così faticosamente partorito l'estate scorsa dalla fantasia giuridica dell'avvocato professor Giuseppe Conte, e quindi è nulla anche la sua successiva, trionfale elezione senza concorrenti alla carica di presidente, che purtroppo non era prevista nello statuto precedente. Tutto azzerato: lui, i suoi vicepresidenti, il suo organigramma, le sue delibere.

L'«avvocato degli italiani» è riuscito a combinare un pasticcio legale senza precedenti nella storia della Repubblica. Riuscendo a farsi cancellare tutti gli atti della Grande Svolta solo perché l'assemblea degli iscritti del 3 agosto 2021 ha deliberato «in prima convocazione» senza la partecipazione della metà più uno degli iscritti, violando cioè quella regola che conosce a memoria ogni amministratore di condominio. 

[…] l'astutissimo Conte perde il suo regno per un cavillo, detronizzato da un altro avvocato che lo ha trascinato in tribunale per conto di un pugno di iscritti napoletani ai quali era stato negato non un seggio, una carica o una poltrona ma solo il diritto di votare. È la prima volta che un partito - sia pure mascherato da movimento - si vede destituire il suo quartier generale non per una battaglia politica ma per una semplice disputa legale, per una questione di principio.

[…] un gigantesco pasticcio giuridico creato dagli stessi protagonisti. C'è l'idea folle che si potesse organizzare un non-partito con un non-statuto. Ci sono gli atti stipulati in gran segreto, tante associazioni fondate tutte con lo stesso nome, «Movimento 5 Stelle», da quella con cui Beppe Grillo acquisì la proprietà del simbolo presentandosi davanti a un notaio di Cogoleto con suo nipote Enrico e con il suo commercialista Enrico Maria Danasi a quella con cui - la notte del 20 dicembre 2017, nello studio del notaio Tacchini - Luigi Di Maio e Davide Casaleggio riscrissero da soli lo Statuto assegnando al primo tutto il potere politico e al secondo il controllo dell'unico luogo virtuale dove sarebbe stato possibile prendere qualunque decisione, la Piattaforma Rousseau.

È da questo garbuglio di carte bollate che nasce la grana di oggi. La cui colpa ricade anche su Conte, che l'estate scorsa aveva l'occasione e la competenza - da esperto avvocato di cause civili - per rimettere in ordine la struttura giuridica del Movimento. Invece ha commesso, dicono i giudici, un errore dietro l'altro. Ed è dunque l'ex premier, che fino a ieri mattina pensava alla resa dei conti con Di Maio, lo sconfitto del giorno: lui che non si dimette dopo essere stato dimesso, mentre l'altro si è dimesso prima di essere dimesso.

Giada Oricchio per iltempo.it l'8 febbraio 2022.

Scontro tra Giuseppe Conte, presidente “sospeso” del M5S e i giornalisti a “Otto e Mezzo”, il talk politico di La7, lunedì 7 febbraio. Il Quirinale, il duello con Luigi Di Maio (“Non è nell'orizzonte una sua espulsione ma è ovvio che da ex leader ha delle responsabilità in più. Davanti a un attacco così plastico, in televisione, non si può fare finta di nulla e in passato altri sono stati espulsi per molto meno”), il Tribunale di Napoli che accoglie un ricorso sulla leadership dell’avvocato, il terzo mandato, l’ipotetico asse gialloverde (“una sciocchezza” secondo Conte) e infine la critica alla stampa.

C’è tutto nell’intervista tambureggiante di Gruber e colleghi a Conte che esce dal confronto un po’ come un pugile suonato. Il presidente dei 5 Stelle ha precisato che il Tribunale di Napoli non ha emesso una sentenza, ma un provvedimento cautelare: anche gli iscritti al Movimento da meno di sei mesi devono poter votare la sua leadership.

Così, in attesa della causa civile, tra qualche settimana i 5 Stelle torneranno al voto. In politichese però Conte aggiunge: "Non mi permetto di pensare o dire che è giustizia a orologeria, ma è curioso che una regola sempre applicata in quel modo con il vecchio Statuto, ora non vada bene per me”.

Poi rassicura che i rapporti con Draghi non sono “imbarazzanti” dopo che gli ha sbarrato la strada per il Quirinale, ma il direttore de “La Stampa”, Massimo Giannini, dice tondo e chiaro: “Non avete toccato palla”. Un’osservazione che fa rifugiare l’ex premier nel più trito e ritrito dei cliché: è colpa dei giornali.

Il capo del Movimento replica: “Forse Giannini è stato fuorviato dai giornali nei giorni delle Quirinarie scrivevano che Di Maio controllava i parlamentari e io no, non era così, sono teste pensanti che decidono.

Ho lavorato con loro, con i capigruppo, in cabina di regia - dove c'era anche Di Maio - e abbiamo portato 230 parlamentari a votare uniformemente ma nessun giornale ce lo ha riconosciuto e ho dimostrato che i 230 del nostro gruppo hanno votato compatti. Il Mattarella bis è da intestare a noi” e poi lo scivolone: “Possiamo ripetere ai telespettatori delle litanie, ma non esce sconfitto il M5S, escono sconfitti i giornaloni che sostenevano che fosse meglio avere Draghi al Quirinale”.

Monica Guerzoni del “Corriere della Sera” esplode in un “Nooo, questo no”, Giannini si ribella e punge: “Non è da lei, lei è stato premier, non può parlare di giornaloni”. Ma Conte insiste con l’appellativo: “Beh c’era una linea abbastanza condivisa dai giornaloni a un certo punto hanno sostenuto che fosse meglio Draghi al Quirinale, il M5S invece compattamente ha ritenuto non fosse soluzione nell’interesse nazionale”.

Gruber lo invita a una maggior grammatica politica: “Togliamo dal tavolo la parola ‘giornaloni’” e Conte: “Va beh, grandi giornali? I giornali principali?”. E avanti con tanta confusione.

Quando mi disse "io da avvocato..." Belpietro fa a pezzi il Conte decaduto. Il "capolavoro" del giurista M5s. Il Tempo l'08 febbraio 2022

Il terremoto del Movimento 5 Stelle è al centro del dibattito, martedì 8 febbraio, a #Cartabianca, il programma condotto da Bianca Berlinguer su Rai3. Il tribunale di Napoli ha di fatto dichiarato illegittima l'elezione di Giuseppe Conte a capo politico dei 5Stelle accogliendo il ricorso di tre attivisti ai quali non è stato consentito di partecipare al voto in quanto iscritti meno di sei mesi prima della votazione online. 

Il direttore della verità Maurizio Belpietro non si capacita come un giurista come l'ex premier sia potuto cadere in questo modo, una vera e propria nemesi. E racconta di quando Conte "mi ha detto che da avvocato aveva vinto il 99 per cento delle cause - ricorda il giornalista - Ebbene, ha perso quella fondamentale: questa". 

In collegamento c’è anche Candida Morvillo del Corriere della sera. "Non credo che l'implosione de 5stelle metterà in crisi il governo di Mario Draghi", il caos nella galassia grillina fa parte dei "problemi interni ai partiti". poi c'è Luigi Di Maio che si è intestato la rielezione di Sergio Matteralla al Quirinale, argomenta la giornalista, per non mettere in difficoltà Draghi e avrebbe ora qualche problema a giustificare una crisi per l'esecutivo. "Ne perderebbe di credibilità . dice la Morvillo - e neanche Matteo .Salvini ha interesse a mettere in difficoltà il governo con una Giorgia Meloni molto più forte di lui in questo momento". 

Ma Conte come uscirà dalla vicenda del ricorso, accolto, che annulla la sua elezione a presidente del Movimento?  L'ex premier "era già ammaccato prima dall'opposizione con Di Maio, ma parliamo di cavilli...  - conclude Morvillo - se tornano a votare con tutti gli iscritti", anche quelli dell'ultim'ora, "verrebbe comunque rieletto, Ma è innegabilmente un  colpo all'immagine, da avvocato è riuscito a scrivere un non statuto".

E Beppe Grillo? Il co-fondatore del Movimento ha congelato tutto adducendo la motivazione che le sentenze vanno sempre rispettate. In studio c'è Luca Telese che entra a gamba tesa sul comico genovese: "Quando hanno indagato il figlio ha detto 'venite a prendere me' - attacca il giornalista - ora dice che le sentenze vanno rispettate... Comunque è folle - conclude Telese - che un giudice annulli l’elezione di un leader politico". 

M5S, la faccenda tragicomica che paralizza un partito da commedia. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 9 Febbraio 2022.

L’Italia è così e molti grillini sono buffi, ma ogni giorno che passa lo sono di più.

Un paio di settimane fa è arrivato un pacco a casa Grillo. Aiuto! Allarme! Artificieri! Non è una barzelletta, ma quando l’hanno aperto c’erano dentro dei carciofi, delle orecchiette e delle cime di rapa, recate in dono da un devoto benefattore.

Inutile, prima che disonesto, fingere sussiego. Ma dagli involti pseudo-esplosivi ai gran pasticci legali, le avventure dei Cinque stelle fanno ridere.

M5S, Pizzarotti: "Conte leader azzoppato. Nel Movimento le regole valgono per i nemici". Giovanna Casadio su La Repubblica l'8 Febbraio 2022.

Intervista al sindaco di Parma, ex esponente grillino. "L’avvocato d’Italia, come si definì, non ha verificato che dal punto di vista formale fosse tutto a posto. Già questo non dà molta credibilità per il futuro". “Nel Movimento 5Stelle le regole valgono per i nemici ma vengono interpretate per gli amici. Io non feci ricorso perché non volli rimanere in un contesto in cui le norme si sbandierano, ma non si applicano”. Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, ex grillino della prima ora, riavvolge il filo della scommessa pentastellata: “La democrazia diretta per i 5Stelle è come la secessione per la Lega: fuori moda”.

L'azzeccagarbugli Conte vittima dei suoi stessi errori. Andrea Indini l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Statuto M5S bocciato dal tribunale di Napoli. Renzi inchioda Conte: "Scritto con la stessa chiarezza con cui scriveva i Dpcm". E infatti quei Dpcm a inizio pandemia a fecero schiantare l'Italia.

Ha perfettamente ragione Matteo Renzi quando sui social inchioda il "professor" Giuseppe Conte alle sue colpe: "Ha scritto lo Statuto dei Cinque Stelle con la stessa chiarezza con cui scriveva i Dpcm". Ironizza, il leader di Italia Viva. Perché, se sui Dpcm partoriti in malo modo dal governo giallorosso durante il primo anno di pandemia si è incartato l'intero Paese, sullo statuto del movimento si è schiantato il Movimento 5 Stelle. Meglio loro che noi, viene da dire ora che l'esperienza del governo Conte bis ce la siamo bella che messa alle spalle. Resta, però, l'evidenza dell'incapacità dell'avvocato del popolo, un azzeccagarbugli in piena regola, non solo a gestire l'Italia, ma anche solo a mandare avanti un condomino a Cinque Stelle (laddove tutto quel firmamento lì non è certo sintomo di lusso).

Ce li ricordiamo ancora i guazzabugli di errori infilati nei Dpcm. E chi se li dimentica. Uscito indenne dalla crisi scatenata da Matteo Salvini nell'estate del Papeete e conservata la poltrona di Palazzo Chigi, Conte si è ritrovato, da lì a pochi mesi, a dover affrontare un'emergenza senza precedenti: lo scoppio di un morbo pandemico che, nel giro di un paio di mesi, ha messo tutto il pianeta in ginocchio. Per carità, nessun premier, nessun capo di Stato, nessun leader era preparato a gestire uno scossone simile. I piani per contrastare una pandemia c'erano, ma erano vecchi e, il più delle volte, lontani dalla realtà. E così i governi hanno dovuto improvvisare. C'è chi lo ha fatto meglio. I giallorossi no: hanno fatto tutto il peggio possibile. Oltre agli errori di valutazione, agli strafalcioni politici, ai continui ritardi e soprattutto alle tempistiche cannate, Conte e compagni sono riusciti a peggiorare la situazione scrivendo male i decreti che avrebbero dovuto cavar fuori il Paese dai guai.

L'ultimo esempio in ordine temporale è la maxi truffa (oltre 440 milioni di euro!) sugli aiuti stanziati dai giallorossi (in particolare il superbonus edilizio e il bonus sugli affitti). Uno dei tanti furbetti, che si era inventato un sistema fittizio per intascarsi i soldi attraverso operazioni inesistenti, si vantava bellamente della facilità con cui riusciva a metterla in quel posto (scusate il francesismo) allo Stato. "Lo Stato italiano - diceva al telefono - è pazzesco, praticamente vogliono essere inculati...". Non era certo l'unico ad essersene accorto. In molti hanno approfittato dei vuoti lasciati dal governo. "Su 'sti crediti - commentava un altro - non se capisce un cazzo... faccio un po' come mi pare...". Farabutti, per carità. Ma anche i giallorossi ci hanno messo del loro. Perché, come giustamente annotava Franco Bechis giorni fa sul Tempo, "quando le leggi vengono scritte con i piedi da chi non sa farlo il risultato è identico a quello in cui le leggi vengono scritte fin dall'inizio con intento criminale".

Oggi, dopo due anni di pandemia, l'Italia sembra vedere (finalmente) la luce alla fine del tunnel. Da venerdì prossimo non si dovrà più uscire con la mascherina, a fine marzo verrà tolto lo stato di emergenza e anche il Cts potrebbe avere le settimane contate. Ma noi, che abbiamo la memoria lunga, ce li ricordiamo ancora molto bene tutti gli strafalcioni dei giallorossi che ci hanno tristemente trasformati nella "Repubblica delle Faq". Portano tutti la firma del premier Conte: le zone rosse annunciate nottetempo e le rocambolosche fughe sui treni, le autocertificazioni che cambiavano ogni due giorni, le chiusure assurde (bar off limits dopo le 18 come se all'aperitivo il virus fosse più contagioso), il computo degli invitati sotto le festività natalizie e l'indimenticabile carta dei "congiunti". La lista è sterminata. Se dovessimo poi estenderla ai decreti cha avrebbero dovuto essere fatti ma che per mancanza di coraggio sono saltati e alle numerosissime ordinanze firmate dai suoi ministri (Roberto Speranza in primis), non la finiremmo davvero più.

Con la stessa approssimazione con cui sono stati "partoriti" i Dpcm, Conte sembra aver scritto anche lo statuto su cui si regola il Movimento 5 Stelle e che è stato ratificato lo scorso 3 agosto. Giusto ieri il Tribunale di Napoli ne ha disposto la sospensione facendo di fatto saltare anche la sua nomina a presidente. Un durissimo colpo per i grillini ormai da mesi in balia di uno tsunami politico che vede l'avvocato del popolo ormai in guerra aperta con Luigi Di Maio. "La mia leadership non dipende dalle carte bollate", ha commentato l'azzeccagarbugli dopo che i giudici partenopei gli hanno portato via la carica. Ma Beppe Grillo lo ha subito rimesso in riga: "Le sentenze si rispettano". Si consuma così l'ultima beffa di un partito profondamente giustizialista che ha fatto la propria fortuna a suon di "vaffa" e di persecuzioni manettare e che oggi si trova a doversi inchinare ad un cavillo giuridico che lo inchioda al suo stesso errore: aver scritto con i piedi le regole del gioco.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Morire in tribunale. Augusto Minzolini l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A volte la Storia è spietata, ti mette davanti alle bugie che hai raccontato, alle follie che hai coltivato, alle menate che hai dichiarato, alle contraddizioni che hai celato.

A volte la Storia è spietata, ti mette davanti alle bugie che hai raccontato, alle follie che hai coltivato, alle menate che hai dichiarato, alle contraddizioni che hai celato. È quello che sta capitando ai 5 Stelle e ai loro vertici. Immaginate un soggetto politico nato sul giustizialismo, sul fiancheggiamento senza «se» e senza «ma» dei magistrati (basta guardare alle riforme di Bonafede), sullo slogan «onestà, onestà» come se le persone probe fossero solo i suoi militanti e tutti gli altri dei delinquenti, che muore in Tribunale. Di carte bollate. Per le regole che autonomamente si è dato e che inopinatamente ha violato.

È la vendetta della Storia. Il fallimento di un modo di vedere la politica, di interpretarla, di farla. Non è più il movimento dell'uno vale uno, ma un meccanismo che tritura leadership, personalità, principi e valori. In questa prospettiva Giuseppe Conte, l'avvocato d'affari che dovrebbe cibarsi di cavilli - sospeso dal vertice dei 5 Stelle per una decisione del tribunale di Napoli - per i giudici sul piano delle regole è a tutti gli effetti un usurpatore. Una condizione che lo trasforma anche in una figura tragica sul piano politico. E chi ne prende il posto, o meglio chi torna al vertice? L'indagato Beppe Grillo: anche qui per qualsiasi garantista non ci sarebbe nulla da eccepire, ma i sacerdoti del giustizialismo ad oltranza dovrebbero imporsi almeno una riflessione sul veleno che hanno sparso in passato.

La verità è che sta venendo giù tutto un mondo. E il granellino di sabbia che ha mandato in tilt il meccanismo perverso sono gli esposti o le querele di semplici militanti, per lo più sconosciuti, espulsi dal movimento. Quelli che hanno creduto davvero al teorema dell'uno vale uno e lo hanno messo in pratica mandando in crisi quelli che lo avevano solo teorizzato. Ora c'è da chiedersi se qualcosa nascerà da queste macerie, o se qualcosa almeno resterà. La crisi appare irreversibile e, per alcuni versi, letale. La metamorfosi profonda è per alcuni versi paradossale: Luigi Di Maio, il personaggio delle origini, il primo leader, è diventato l'immagine del grillismo di governo, di quello che si è abituato alle regole del Palazzo e forse ne è stato inghiottito; mentre Giuseppe Conte, l'avvocato d'affari, il professionista della società civile, scelto anche da Di Maio come nome potabile per Palazzo Chigi, ora tenta di rappresentare, con tutti i suoi limiti, il grillismo d.o.c. Più che uno scambio di ruoli è la rappresentazione del caos che regna nel movimento o in ciò che ne resta. Un movimento che, invece, di avviarsi verso un nuovo inizio, sembra che si stia contorcendo in una lunga agonia. Augusto Minzolini

L'intervento a Riformista Tv. “Conte è un avvocaticchio di quartiere, Grillo riprende in mano il M5S”, Attenti a quei due di Liguori e Sansonetti. Redazione su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

“Basta con questa magistratura che mette i piedi anche negli affari della politica“, afferma il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti in una discussione a due con il direttore del TgCom Paolo Liguori davanti alle telecamere del Riformista Tv, intervenendo sulla sentenza del tribunale di Napoli che sta scuotendo le fondamenta del M5S.

Le attenzioni tornano tutte su Beppe Grillo, che ora diventa “nuovamente plenipotenziario grazie alla squalifica di Giuseppe Conte“, dice Liguori che sottolinea come il fondatore del Movimento sia tornato con “un suo diktat“, per cui nessuno dei pentastellati può esprimersi sul M5S tranne lo stesso Grillo.

“Se si prova adesso a chiedere un’intervista o semplicemente un giudizio a qualcuno dei cinque stelle i più affettuosi rispondono di non poter parlare“, afferma Liguori, facendo riferimento al silenzio con i media cui sono costretti i pentastellati. In questo modo, sottolinea il direttore del TgCom, “torna il vecchio leader libertario in veste autoritaria“. “Ma Grillo – replica Sansonetti – si è trovato di fronte a un problema che segnalavo da tempo: hanno certificato che Conte non esiste“. “Ma è la stessa magistratura a dire che Conte non esiste“, ribatte Liguori.

Ponendo in un angolo l’ironia, Sansonetti incalza sul ruolo che la magistratura ha avuto in un caso politico. “La magistratura ha fatto a mio parere una cosa gravissima“, afferma il direttore de Il Riformista che ricorda come in passato sia già intervenuta per stabilire se una certa fondazione politica è effettivamente una fondazione o invece è il partito di Matteo Renzi.

“Chi piange, in questo caso, è il Pd che aveva scommesso su un’alleanza con un leader che è stato squalificato“, prende le parola Liguori. “Ma Bettini non si ricorda cos’è la politica?“, domanda Sansonetti. “Questo è un avvocaticchio di quartiere“, afferma Sansonetti, che ricorda come l’Italia per cinque anni sia stata in mano “a questa banda di scapocchiati“. “Era un movimento che aveva come caratteristica precipua l’ignoranza“, sentenzia Liguori. E Sansonetti incalza: “Questo è un partita stalinista, populista e ignorante“.

"L'abolizione" dell'avvocato del popolo. Conte sospeso per decreto del giudice, una follia su cui i grillini hanno responsabilità gigantesche. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Un giudice della settima sezione civile del tribunale di Napoli ha dichiarato illegittima la nomina di Conte a presidente dell’M5S e ha decretato l’illegittimità anche del nuovo statuto dei poveri grillini. Conte è stato sospeso dall’incarico e anche la pletora di vice presidenti che si era messo attorno vanno a casa. Ora una cosa è chiara: se voi di solito leggete il Riformista sapete che noi abbiamo sempre sostenuto scherzosamente un paradosso forse mica tanto fantasioso: che Conte non esista. Beh, vedete che non ci eravamo andati lontano…

La notizia dell’“abolizione” di Conte spinge a due riflessioni. La prima è a suo favore: ma voi mi sapete spiegare perché la magistratura deve impicciarsi di cose che non la riguardano? Possibile che debba essere un giudice a stabilire chi debba essere il capo dei 5 Stelle (così come un giudice è stato chiamato a stabilire se una certa fondazione politica è effettivamente una fondazione o invece è il partito di Renzi)? Vi immaginate se nella prima Repubblica, quando vigeva ancora il Diritto, un giudice si fosse azzardato a decidere chi fossero i vicesegretari di Berlinguer o il segretario del Psi, o il ministro designato della Dc? Vabbé, chiaro che su questa degenerazione totalitaria esistono responsabilità gigantesche proprio dei 5 Stelle, ma questo non giustifica la follia di deporlo per decreto del giudice.

La seconda considerazione riguarda i 5 Stelle. Partito che già da tempo era allo sbando e ora lo è sempre di più dopo che proprio Conte ha tentato una spericolata operazione di alleanza con Salvini e Meloni per imporre al Quirinale il capo dei servizi segreti. Seguendo chissà quale disegno non proprio limpido, sventato, per fortuna, dall’intervento di Berlusconi, di Renzi e alla fine anche del Pd. Una cosa è certa. Un ridimensionamento dei 5 stelle non nuocerà all’Italia. Questo non vuol dire che i giudici possono fare quello che vogliono. Qualcuno, in Parlamento, reagirà?

Piero Sansonetti.  Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

DagoFLASH! - QUALCUNO AVVISI MARCO TRAVAGLIO CHE IL GIUDICE CHE HA "DECAPITATO" L'AMATO GIUSEPPE CONTE SI CHIAMA EDUARDO SAVARESE. E ALLORA? E QUI VIENE IL BELLUM: SAVARESE SCRIVE SUL "RIFORMISTA" DI PIERO SANSONETTI...

DAGOREPORT l'8 febbraio 2022.

A Grillo non è sembrato vero che lo statuto di Conte finisse nel cestino della Procura Di Napoli. Fin dall’inizio – correva il 20 giugno del 2021 – l’Elevato aveva bruciato così la bozza e il suo autore con pochette a tre punte: “Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco…E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione”.  

Certo, mai poteva pensare che l’azzimato avvocato dello studio Alpa fallisse sulla stesura dello Statuto e si è imbufalito, come al solito. Da parte sua, Conte, conoscendo del movimento solo Ta-Rocco Casalino, non si aspettava grillini così puntigliosi. Saltati tutti gli organi, decapitato il vertice, Di Maio che sapeva come sarebbe andata a finire fin dal momento delle sue dimissioni da garante, ride sotto i baffi: adesso Peppiniello Appulo non può neanche permettersi quello che minacciava fino a ieri: abbandonare l’alleanza di governo.

Ora, delegittimato così dalla Magistratura, l’ex presidente ha messo in ambasce Enrichetto Letta. Dentro il Pd, lo perculano così: “Che facciamo ora, parliamo con Crimi?”

Intanto, Franceschini e l’amico Fassino stanno muovendosi per fondersi con la corrente di Orlando per guerreggiare ad armi pari con la fortissima corrente di ex renziani, Base Riformista, guidata da Guerini e compagni. 

Simone Canettieri per ilfoglio.it l'8 febbraio 2022. 

Se si votasse fra un mese, oggi il M5s non potrebbe presentare le liste elettorali. L'ordinanza del tribunale di Napoli di fatto azzera tutti i poteri di firma di Giuseppe Conte, che non è più il legale rappresentante del partito. 

La situazione è così "complicata" che Beppe Grillo è sceso in campo questa mattina con un post molto netto: blocca qualsiasi iniziativa e fuga in avanti dell'ex premier, invita tutti al silenzio. E torna a ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, che il vero capo è lui. E si fa come dice lui. 

Perché? Gli avvocati dell'ex comico sono al lavoro per cercare di fare luce in questo caos. Ci sono anche diverse interpretazioni sul fatto che oggi il primo partito del Parlamento e principale partner del governo Draghi sia senza un rappresentante legale. Sotto un certo punto di vista, ma ci sono pareri discordanti, l'unico titolato è Grillo. 

Che in questa fase ha congelato tutto. Sul suo capo potrebbero pendere una serie di richieste di risarcimento e di spese gestionali non da poco: dalla sede del Movimento (12mila euro al mese), all'affitto della piattaforma Skyvote (che ha sostituito Rousseau).

Anche per evitare di finire impigliato in questioni economiche gravose, Grillo ha deciso di tirare il freno a mano. Non parla nessuno. E chissà se anche Conte rispetterà il diktat del Garante (questa sera doveva andare a Porta a Porta da Bruno Vespa). 

Le anime del Movimento sono confuse e senza bussola. Tutti cercano Luigi Di Maio che sabato scorso, con un tempismo che alimenta veleni, ha deciso di dimettersi da presidente del comitato di garanzia (organismo decaduto con l'ordinanza del tribunale, così come le nomine dei vicepresidenti).

Il ministro degli Esteri non parla. La sua agenda oggi prevede una full immersion nel caso Russa Ucraina: in mattinata sarà audito dal Copasir, nel pomeriggio dalla commissione congiunta Esteri-Difesa.

Brogli e buoi. Che cosa insegnano le opposte parabole di Boris Johnson e Trump (per non parlare di Conte). Francesco Cundari Linkiesta l'8 Febbraio 2022.

I conservatori inglesi mettono sotto accusa il loro leader per aver partecipato a delle feste durante il lockdown, i repubblicani difendono l’ex presidente persino dopo un tentato colpo di stato

La grande domanda della politica mondiale è se l’onda populista rappresentata da Donald Trump, Boris Johnson e i loro epigoni – ma in Italia dovremmo parlare piuttosto di precursori, a cominciare ovviamente dal Movimento 5 stelle – sia destinata a rivelarsi la fiammata di un momento o invece l’inizio di un incendio che continuerà a bruciare Stato di diritto, divisione dei poteri, razionalità e correttezza del dibattito pubblico, fino a ridurli in cenere. Cioè fino a quando, in pratica, anche le più antiche democrazie del pianeta appariranno pressoché indistinguibili dai peggiori regimi autoritari.

A questa grande domanda si collegano naturalmente diverse domande ulteriori: esistono degli anticorpi (nei partiti, nelle leggi, nella cultura)? E laddove scarseggiano, è possibile introdurli, riattivarli, rafforzarli? Con queste domande in testa, guardate un po’ che cosa sta accadendo, giusto in questi giorni, ai diversi protagonisti dell’onda populista partita nel 2016, nei loro rispettivi paesi e soprattutto nei loro rispettivi partiti.

Da un lato abbiamo il caso di Trump: nonostante la secca sconfitta elettorale e nonostante tutto quello che è stato capace di fare da allora in poi, il suo partito non ha esitato a censurare gli unici due repubblicani che hanno avuto il coraggio di denunciarne il delirio golpista, accusandoli di essersi uniti alla persecuzione di «semplici cittadini impegnati in un legittimo dibattito politico» (quelli che hanno assaltato il parlamento nel tentativo di impedire la convalida del risultato elettorale). Insomma, in America, persino l’aperta istigazione al colpo di stato non è ragione sufficiente per vedersi scaricare dal proprio partito, perlomeno se quel partito è il partito repubblicano.

Negli stessi giorni, tuttavia, uno spettacolo ben diverso si sta svolgendo a Londra, dove al contrario Johnson è sottoposto ad attacchi sempre più pesanti dai parlamentari conservatori, e per responsabilità decisamente imparagonabili a quelle del suo amico americano (del quale non condivide solo l’hair stylist).

Una settimana fa la baronessa Ruth Davidson, già leader dei conservatori scozzesi, è scoppiata in lacrime in diretta televisiva per l’indignazione, parlando dei festini di Johnson a Downing Street durante il lockdown (quando cioè tutti gli altri cittadini non potevano vedere nessuno).

Se vi fosse una regola o almeno una proporzione fissa tra azioni e reazioni, cosa dovrebbero fare a Washington i repubblicani, strapparsi i capelli davanti alle telecamere? Le riunioni del loro partito, come minimo, dovrebbero assomigliare a una telenovela brasiliana.

Si potrebbe osservare che Johnson ha fatto assai di peggio che partecipare a qualche festicciola, anche durante il lockdown, ad esempio quando si è ostinato a non prendere alcuna seria misura restrittiva, finché in terapia intensiva non c’è finito pure lui; ma niente di quello che ha fatto o detto è ovviamente paragonabile a istigare i propri sostenitori ad assaltare il parlamento per rovesciare l’esito del voto, come ha fatto Trump.

Né vale argomentare che i conservatori hanno cominciato a criticare Johnson quando hanno visto calare i suoi consensi, semplicemente perché temono di perdere le elezioni. Trump infatti le elezioni le ha già perse, e di brutto. Eppure è ancora lì, anzi se possibile sembra persino peggiorato, ma soprattutto è peggiorato enormemente il suo partito.

L’ipotesi più inquietante è che la vera differenza tra Johnson e Trump stia nel fatto che alla fine, per quanto controvoglia, in modo insufficiente e tardivo, Johnson qualche misura restrittiva è stato costretto a prenderla, e che sia quello, in verità, che il suo partito non gli ha perdonato. Dunque che a fregare i leader populisti non siano mai i loro eccessi, ma l’esatto contrario.

A fronte di tutto questo, comunque, la lenta e inesorabile agonia dei Cinquestelle appare da noi decisamente rassicurante. Il fatto poi che a mettere fuori gioco Giuseppe Conte sia stato ieri un tribunale, per questioni di quorum e norme statutarie, è una doppia nemesi, considerando che l’Avvocato del popolo ha passato praticamente tutto il suo tempo a occuparsi di regolamenti. È stato un anno a parlare solo di statuto, norme e codicilli, e prima si è visto respingere la richiesta di accedere al finanziamento pubblico, perché non aveva pensato a iscriversi per tempo all’apposito registro dei partiti, e adesso questo.

Vale dunque più che mai il commento twittato da Sebastiano Messina all’indomani del primo incidente: «Il Movimento avrebbe bisogno di un avvocato, ma uno bravo».

Forse, infatti, la vera regola generale che si può trarre da tutte queste vicende è che ciascuno deve fare il suo mestiere: se ti sei conquistato la leadership con discorsi degni del dittatore dello Stato libero di Bananas, il minimo che i tuoi sostenitori si attenderanno da te, come segno di coerenza, è un tentato colpo di stato; non certo che all’improvviso tu ti metta a fare il leader responsabile che impone a tutti di stare chiusi in casa e andare a letto presto (tanto più se nel frattempo tu ti sbronzi coi colleghi, per di più).

Se il tuo movimento ha conquistato i suoi maggiori consensi gridando che i partiti facevano tutti schifo, non li recupererai passando il resto del tempo a illustrarne gli organigrammi, lo statuto, i cinque vicepresidenti, i molteplici dipartimenti e gli immancabili forum tematici.

La nostra fortuna è che mentre nella war room di Trump si discuteva l’ipotesi di chiamare l’esercito, a Palazzo Chigi, nel momento culminante della crisi, Conte telefonava a Ciampolillo.

Comma M5S. La sentenza di Napoli su Conte e il rischio del diritto penale totale. Giuliano Cazzola su Linkiesta il 9 Febbraio 2022.

La magistratura civile che entra nel merito di un regolamento congressuale è un abominio. Nei partiti sono già operativi ordinamenti che gestiscono la propria vita interna con forme di giurisdizione autonoma. Vogliamo davvero che il confronto politico interno sia condotto nelle aule giudiziarie?

Potrei cavarmela ricorrendo alla saggezza contenuta in un proverbio: chi la fa l’aspetti. Anzi, potrei persino compiacermi della decapitazione per via giudiziaria del vertice del Movimento 5 Stelle, proprio perché quel movimento è nato e cresciuto da una costola della magistratura deviata. Ma sarebbe una manifestazione del medesimo istinto dei polli di Renzo Tramaglino, ché di natura è frutto ogni loro vaghezza.

Invece è venuto il momento di resistere, resistere, resistere. E di cominciare a reagire, anche se è un avversario ad aver subito l’abuso della sospensiva delle cariche, creando così problemi per l’azione di uno dei poteri fondamentali dello Stato, essendo il primo partito (già scombinato di suo) presente nell’attuale assetto politico ora privato di una guida che possa svolgere il ruolo di interlocutore nelle decisioni da assumere, nell’interesse del Paese.

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario di Tangentopoli, l’inchiesta che ha dato il via alla Grande Purga di quella parte della classe politica che aveva governato – con alterne vicende – dal dopoguerra fino ad allora. Da quel momento le forze politiche – che avevano ricevuto il potere per via giudiziaria – si sono messe al servizio delle procure garantendosi così la possibilità di tenere sotto scacco gli avversari (verso i quali si era indirizzata la nuova offensiva togata) continuando la lotta politica su quel terreno.

I partiti, poi, sono arrivati persino a soffrire della sindrome di Stoccolma, anticipando le mosse dei loro aguzzini. Praticamente si sono suicidati: rinunciando alle guarentigie costituzionali per i rappresentanti del popolo; privandosi volontariamente del finanziamento pubblico e delle risorse necessarie per fare politica; abbandonando a se stesse le persone inquisite (vi sono stati casi clamorosi per la loro testimonianza di viltà). E hanno spalancato, in questo modo, le porte alle scorribande delle procure di cui ricordiamo le campagne che si sono susseguite per un lungo periodo contro gli amministratori locali e regionali (le cosiddette spese pazze), i manager pubblici e le fondazioni dei partiti.

In sostanza la politica – per sua stessa volontà – si trova alla mercé di una sorta di comma 22: una norma in base alla quale un aviatore che cerca in tutti i modi di evitare le missioni spacciandosi addirittura per pazzo, non può considerarsi pazzo in quanto è razionalmente giusto aver paura per la propria vita e sicurezza; al contrario potrebbe essere dichiarato pazzo se volesse affrontare le missioni spontaneamente.

Ai partiti viene consentito di ricevere finanziamenti da privati purché sia conformi a regole di trasparenza. Capita però che le procure si riservino il diritto di giudicare il loro corretto utilizzo o la presenza di una forma indiretta di corruttela o di altri illeciti. Insomma, ne abbiamo viste di tutti i colori, anche se, per fortuna, la magistratura giudicante – magari dopo anni – smonta i teoremi costruiti dalle procure. Vi sono casi però di una gravità assoluta come quelli della trattativa Stato/Mafia o, più recentemente, del processo sulla presunta corruzione internazionale Eni/Nigeria.

Non era ancora capitato, però, di assistere a una vicenda nella quale è la magistratura civile a entrare nel merito di un regolamento congressuale: perché di questo si è trattato nella sentenza del tribunale di Napoli. Chi ha fatto esperienze di vita associativa sa che, nel momento delle verifiche interne per la scelta della linea di azione e l’elezione dei gruppi dirigenti, la gestione delle iscrizioni è un passaggio fondamentale, proprio per evitare le campagne di iscrizioni fasulle al solo scopo di consentire ai leader e alle correnti di aumentare la loro influenza, facendo valere tessere di anime morte.

Una delle misure più ragionevoli che si adottano in tali eventi è quella di porre un limite temporale alle iscrizioni con diritto di voto. Poi siamo tutti troppo scafati per non conoscere le manovre che si compiono prima e durante i congressi, non solo quelli delle associazioni di fatto (come sono i partiti e i sindacati e tante altre organizzazioni della vita civile), ma anche in enti dotati di personalità giuridica o nelle società di capitali.

Ovviamente non tutte le situazioni sono uguali. Ma in una libera associazione (ex articolo 36 e seguenti del codice civile) come i partiti sono operativi ordinamenti (senza scomodare le teorie di Santi Romano) che gestiscono la propria vita interna con forme di giurisdizione autonoma. Pensiamo, per esempio, alla parte disciplinare degli Statuti: se un iscritto viene espulso o radiato per questioni ritenute attinenti al suo comportamento o alle sue convinzioni in contrasto con i valori e la linea del partito, può appellarsi al giudice ordinario per valutare la conformità della sanzione dei collegi dei probiviri o degli organi interni di garanzia?

Ammettiamone anche la possibilità teorica, ma il buon senso dovrebbe avere il posto che gli spetta nella vita quotidiana. Ce lo immaginiamo un confronto politico interno ai partiti condotto nelle aule giudiziarie, fino a quando la sentenza non passa in giudicato? Nel frattempo spetterebbe al tribunale nominare un commissario giudiziale?

Vogliamo arrivare al punto in cui un segretario uscente, criticato dagli oppositori interni per gli errori nella direzione del partito, li accusa di diffamazione e li querela? Considerando proprio il prorompere di una volontà di fare giustizia – presunta – nella vita delle persone e delle comunità (Filippo Sgubbi lo ha definito il «diritto penale totale») io sono totalmente contrario all’idea, a mio avviso peregrina e penitente, di dare applicazione (non prevista) all’articolo 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

La Carta non richiama, in questo caso, l’esigenza di una legge ordinaria attuativa. Dove lo ritiene opportuno non esita a scriverlo come, per esempio, nell’articolo 39 riguardante l’organizzazione sindacale (i sindacati si sono guardati bene – in via di fatto – dal chiederne l’attuazione); nell’articolo 40 sul diritto di sciopero; nell’anacronistico comma 2 dell’articolo 41; nell’articolo 98 sulle limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. Per come è formulato, l’articolo 49 non lascia dubbi: vi è incluso tutto ciò che serve. 

ENTI DI FATTO ASSOCIAZIONI NON RICONOSCIUTE. Da dirittoeconomia.net:

Le associazioni non riconosciute sono enti di fatto che si prefiggono scopi culturali, sportivi, ricreativi, filantropici, ecc..

Esse non sono persone giuridiche, proprio perché manca il riconoscimento.

Il fenomeno è piuttosto diffuso: partiti politici, sindacati, associazioni culturali e sportive sono spesso privi di personalità giuridica. In particolare, per quanto riguarda i partiti e i sindacati, spesso la scelta di non chiedere il riconoscimento è dettata dal desiderio di non essere soggetti ai controlli governativi sulla loro normativa e sulla loro organizzazione, controlli che sono previsti, invece, in caso di riconoscimento da parte dello Stato.

Il nostro ordinamento giuridico fissa alcune norme generali per la disciplina delle associazioni non riconosciute.

EFFICACIA DEGLI ACCORDI TRA GLI ASSOCIATI

L'associazione non riconosciuta nasce da un gruppo di persone che si uniscono tra loro e stipulano un accordo al fine di raggiungere uno scopo comune.

Gli accordi stipulati tra gli associati, per ciò che concerne l'ordinamento interno dell'associazione e l'amministrazione dei beni sono pienamente efficaci e vincolanti tra gli associati.

L'associazione non riconosciuta può stare in giudizio nella persona che ne ha la presidenza o la direzione, secondo quanto stabilito dagli accordi degli associati (art.36 Codice civile).

FONDO COMUNE

I contributi versati dagli associati e i beni acquistati con tali contributi vanno a formare il fondo comune dell'associazione (art. 37 Codice civile).

Fino a quando dura l'associazione, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune, né possono chiedere la loro quota in caso di recesso (art.37 Codice civile).

AUTONOMIA PATRIMONIALE IMPERFETTA

Le associazioni non riconosciute hanno una minore protezione rispetto alle persone giuridiche: esse, infatti, godono come le persone giuridiche, di autonomia patrimoniale, ma tale autonomia patrimoniale è imperfetta.

L'autonomia patrimoniale esiste: di conseguenza i creditori dell'associazione di fatto possono far valere i loro diritti sul fondo comune dell'ente e non sul patrimonio dei singoli associati. Inoltre i creditori del singolo associato non possono far valere i loro diritti sul fondo comune.

Tuttavia l'autonomia patrimoniale è imperfetta, la distinzione del patrimonio dell'associazione e di quello degli associati presenta un limite: infatti, i creditori dell'associazione di fatto possono far valere i loro diritti, oltre che sul fondo comune dell'ente, anche sul patrimonio personale delle persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione (art.38 Codice civile).

La responsabilità personale di coloro che agiscono in nome e per conto dell'associazione non riconosciuta è prevista dal legislatore in quanto, non essendovi il riconoscimento, non è possibile stabilire a priori se l'associazione dispone dei mezzi necessari per realizzare lo scopo dell'ente e garantire i futuri creditori di esso.

Associazioni non riconosciute: la guida completa. Costituzione, organi, finanziamento e responsabilità. Di Marcella Ferrari, Professionista - Avvocato, su altalex.com il 19/04/2021

L’associazione non riconosciuta è un’associazione priva della personalità giuridica, questo non significa che essa non abbia una propria soggettività ed una correlativa capacità. Infatti, un’associazione può liberamente costituirsi ed operare anche senza il riconoscimento. Si pensi ai partiti politici o ai sindacati che esprimono le massime forze sociali del Paese e sono associazioni non riconosciute (C. M. BIANCA, Diritto Civile. La norma giuridica. I soggetti, 1, Milano, Giuffrè, 2002, 380).

Le associazioni sono organizzazioni collettive aventi come scopo il perseguimento di una finalità non economica; possono essere dotate di personalità giuridica (associazioni riconosciute) oppure no (associazioni non riconosciute).

Nella presente trattazione, ci soffermeremo sulle seconde, analizzando la disciplina normativa, i costi e la documentazione necessaria. Si farà cenno anche al Codice del Terzo settore, a tal proposito si ricorda che, a causa dell’emergenza da Covid-19, il termine assegnato alle associazioni e gli altri enti per adeguare i propri statuti alle disposizioni del Codice è stato prorogato al 31 marzo 2021 (d. l. 125/2020 art. 1 comma 4 novies che ha modificato l’art. 101 c. 2 del d. lgs. 117/2017).

Sommario

1. Premessa: le organizzazioni

2. Che cosa sono le associazioni non riconosciute?

3. Cos’è la personalità giuridica e cosa comporta

4. La normativa di riferimento

5. Differenza tra associazione riconosciuta e non riconosciuta

6. Le varie tipologie di associazione

7. Gli Enti del Terzo settore

8. Iscrizione nel Registro del Terzo settore

9. Perché costituire un’associazione non riconosciuta?

10. Come si crea un’associazione non riconosciuta?

11. Il patrimonio dell’associazione non riconosciuta: il fondo comune

12. La documentazione necessaria per creare un’associazione non riconosciuta

13. I costi per creare un’associazione non riconosciuta

14. I tempi per creare un’associazione non riconosciuta

15. Gli organi dell’associazione non riconosciute

16. Come si finanziano le associazioni non riconosciute?

17. Le responsabilità delle associazioni non riconosciute?

18. Diritti e obblighi degli associati

19. La durata di un’associazione non riconosciuta

20. Il recesso e l’esclusione degli associati

21. La trasformazione di un’associazione non riconosciuta

22. L’estinzione di un’associazione non riconosciuta

1. Premessa: le organizzazioni

Il Codice civile distingue le organizzazioni in tre macro-gruppi. Vediamo, in breve, di cosa si tratta.

Le associazioni sono organizzazioni collettive aventi come scopo il perseguimento di una finalità non economica; possono essere dotate di personalità giuridica (associazioni riconosciute) oppure no (associazioni non riconosciute). Ad esempio, un gruppo di amici può decidere di fondare un’associazione con finalità umanitaria oppure di istituire un’associazione per aiutare i cani randagi.

Le fondazioni sono organizzazioni che si avvalgono di un patrimonio per il perseguimento di uno scopo non economico; sono dotate di personalità giuridica. Tra le più note al pubblico, si citano, a titolo di esempio, la fondazione per la ricerca sul cancro (AIRC) o alla fondazione Umberto Veronesi per il progresso delle scienze o la Cassa Nazionale di Previdenza Forense (CNPF)

I comitati sono organizzazioni di più persone che, attraverso una raccolta pubblica di fondi, costituiscono un patrimonio con cui realizzare finalità altruistiche; solitamente, sono privi di personalità giuridica, ma possono chiedere il riconoscimento, per quanto si tratti di un’ipotesi rara, stante la durata temporanea dell’ente. Ad esempio, si pensi ai comitati di beneficienza, di soccorso, di promozione di opere pubbliche.

2. Che cosa sono le associazioni non riconosciute?

Le associazioni sono organizzazioni collettive aventi come scopo il perseguimento di una finalità non economica; le associazioni prive di personalità giuridica sono dette non riconosciute.

Le associazioni non riconosciute sono enti collettivi che nascono tramite un atto di autonomia. Il contratto concluso tra i fondatori è detto atto costitutivo. Il suddetto atto non è soggetto ad alcun vincolo di forma. Pertanto, potrebbe essere redatto tramite una semplice scrittura privata o addirittura oralmente. Questa caratteristica rappresenta la prima differenza rispetto alle associazioni riconosciute ove l’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico (cioè da un notaio). Infatti, le associazioni non riconosciute non chiedono il “riconoscimento”, per questa ragione non è necessaria alcuna specifica formalità per la loro creazione.

L’associazione non riconosciuta non dispone della personalità giuridica, ma è in ogni caso un soggetto di diritto. Infatti, può essere titolare di un immobile, può concludere un contratto di locazione o comodato, può essere titolare di un conto corrente e così via.

Ricordiamo che:

la soggettività giuridica appartiene a tutte le organizzazioni,

la personalità giuridica appartiene solo agli enti che chiedono e ottengono il riconoscimento.

Cerchiamo di capire cosa sia la personalità giuridica.

3. Cos’è la personalità giuridica e cosa comporta

Il concetto di personalità giuridica è connesso a quello di autonomia patrimoniale.

Le persone giuridiche godono di un’autonomia patrimoniale perfetta, in buona sostanza, le vicende dell’organizzazione incidono solo sul patrimonio dell’ente e non su quello delle persone fisiche che lo compongono. Ad esempio, in una società per azioni, se la compagine sociale ha un debito, il creditore non può aggredire il patrimonio del singolo socio, ma può attaccare solo il patrimonio della società. Lo stesso accade in un’associazione riconosciuta: se l’ente non paga il canone di locazione, il proprietario può rivalersi solo sul patrimonio associativo e non su quello dei singoli associati.

Viceversa, le associazioni prive di personalità giuridica godono di un’autonomia patrimoniale imperfetta, per cui le vicende dell’organizzazione producono effetti anche sul patrimonio delle persone fisiche che ne fanno parte. Ad esempio, in una società semplice, il creditore sociale può rivolgersi anche al socio, che risponde con il suo patrimonio personale, salvo il beneficio di preventiva escussione (art. 2268 c.c.).

Come vedremo, le associazioni non riconosciute hanno un patrimonio detto fondo comune; non tutti gli associati rispondono solidalmente e personalmente delle obbligazioni sociali, ma solo quelli che hanno agito in nome e per conto dell’ente (art. 38 c.c.).

4. La normativa di riferimento

Innanzitutto, occorre menzionare la Costituzione:

art. 18 Cost, prevede la libertà di associazione, che concretamente consiste nella possibilità per i privati di costituire e aderire ad enti, come le associazioni, le fondazioni e i comitati.

Le organizzazioni non riconosciute trovano una disciplina nelle norme del Codice civile, in particolare:

art. 36 c.c. sull’ordinamento e amministrazione delle associazioni non riconosciute,

art. 37 c.c. sul fondo comune,

art. 38 c.c. sulle obbligazioni,

art. 42 bis c.c. trasformazione.

Inoltre, si occupa delle organizzazioni anche il Codice del Terzo settore (d. lgs. 117/2017). La riforma del Terzo settore comprende un insieme di norme che ha disciplinato ex novo il no profit e l'impresa sociale. Tale intervento innovativo non è stato ancora completato, in quanto non sono stati emanati tutti gli atti previsti dai decreti legislativi di attuazione della legge delega 106/2016. In considerazione del contesto emergenziale, è stato rinviato al 31 marzo 2021, il termine entro il quale le Onlus, le organizzazioni di volontariato (Odv) e le Associazioni di promozione sociale (Aps) devono adeguare i propri statuti alle disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore (art. 101 c. 2 come modificato dal d. l. 125/2020 art. 1 comma 4 novies).

5. Differenza tra associazione riconosciuta e non riconosciuta

Le associazioni:

riconosciute hanno chiesto e ottenuto il riconoscimento,

non riconosciute non hanno chiesto (oppure lo hanno chiesto ma non ottenuto) il riconoscimento.

Per ottenere la personalità giuridica occorre formulare un’apposita domanda da depositare presso la Prefettura. Il riconoscimento della personalità giuridica comporta che l’ente sia titolare di un’autonomia patrimoniale perfetta e che i creditori sociali non possano aggredire il patrimonio dei singoli associati. Nel periodo di tempo in cui l’associazione attende il riconoscimento, essa è già attiva ma opera come associazione non riconosciuta (A. TORRENTE - P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, 153).

Sono associazioni non riconosciute i partiti e i sindacati.

Differenze

Associazioni riconosciute

Associazioni non riconosciute

Personalità giuridica

No personalità giuridica

Autonomia patrimoniale perfetta

Autonomia patrimoniale imperfetta

Requisiti di forma: atto pubblico

Nessun requisito di forma

6. Le varie tipologie di associazione

Le associazioni rappresentano un gruppo eterogeneo caratterizzato dall’assenza dello scopo di profitto. Tra le varie tipologie associative si ricordano:

le Aps, ossia le associazioni di promozione sociale (associazioni riconosciute o non riconosciute),

le Odv, ossia le organizzazioni di volontariato (associazioni riconosciute o non riconosciute).

Le Associazioni di promozione sociale (art. 35 d. lgs. 117/2017) sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre associazioni di promozione sociale per lo svolgimento in favore dei propri associati, di loro familiari o di terzi di una o più attività di cui all'articolo 5, avvalendosi in modo prevalente dell'attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati.

Le Organizzazioni di volontariato (art. 32 d. lgs. 117/2017) sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre organizzazioni di volontariato, per lo svolgimento prevalentemente in favore di terzi di una o più attività di cui all'articolo 5, avvalendosi in modo prevalente dell'attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati.

Per completezza espositiva, si ricordano anche gli Enti filantropici (art. 37 d. lgs. 117/2017) che possono assumere la natura di associazione riconosciuta o di fondazione al fine di erogare denaro, beni o servizi, anche di investimento, a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di attività di interesse generale.

7. Gli Enti del Terzo settore

Si ricorda che sono enti del Terzo settore (art. 4 c. 1 d. lgs. 117/2017):

le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali,

le reti associative, le società di mutuo soccorso,

le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.

L’art. 5 del Codice del Terzo settore individua le attività di interesse generale esercitate per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l'esercizio, le attività in ambito socio-sanitario, educative e formative, valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio culturale, ricerca scientifica, sviluppo economico dei paesi svantaggiati e così via.

Non sono enti del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, nonché gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dai suddetti enti (art. 4 c. 2 d. lgs. 117/2017).

8. Iscrizione nel Registro del Terzo settore

Il Codice del Terzo settore ha previsto l’istituzione di un Registro unico nazionale (RUNTS). Tale registro è così suddiviso:

Organizzazioni di volontariato (Odv);

Associazioni di promozione sociale (Aps);

Enti filantropici;

Imprese sociali, incluse le cooperative sociali;

Reti associative

Società di mutuo soccorso;

Altri enti del Terzo settore.

Quindi, le associazioni non riconosciute, sono Enti del Terzo Settore, se iscritte al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore. Inoltre, la denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l'indicazione di ente del Terzo settore o l'acronimo ETS. Di tale indicazione deve farsi uso negli atti, nella corrispondenza e nelle comunicazioni al pubblico (art. 12 d. lgs. 117/2017).

Le associazioni e gli altri enti hanno tempo sino al 31 marzo 2021 per adeguare i propri statuti alle disposizioni del Codice del Terzo settore. Infatti, l’art. 101 c. 2 del d. lgs. 117/2017 (come modificato dal d. l. 125/2020 art. 1 comma 4 novies) dispone che “Fino all'operatività del Registro unico nazionale del Terzo settore, continuano ad applicarsi le norme previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall'iscrizione degli enti nei Registri Onlus, Organizzazioni di Volontariato, Associazioni di promozione sociale che si adeguano alle disposizioni inderogabili del presente decreto entro il 31 marzo 2021. Entro il medesimo termine, esse possono modificare i propri statuti con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell'assemblea ordinaria al fine di adeguarli alle nuove disposizioni inderogabili o di introdurre clausole che escludono l'applicazione di nuove disposizioni derogabili mediante specifica clausola statutaria”.

Si segnala che è stato pubblicato il decreto istitutivo del RUNTS (decreto 15.09.2020), operante presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ma gestito operativamente e con modalità informatiche su base territoriale da ciascuna Regione e Provincia autonoma. “Oltre alle modalità di iscrizione, aggiornamento dei dati, cancellazione e migrazione in altra sezione degli enti interessati, la disciplina assoggetta ciascuno degli enti iscritti al Registro ad una revisione periodica almeno triennale finalizzata alla verifica della permanenza dei requisiti richiesti. Pertanto, le Regioni e le Province autonome entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale dovranno disciplinare le procedure per l'emanazione dei provvedimenti di iscrizione e di cancellazione degli ETS nelle sezioni regionali. I primi ETS ad accedere al nuovo Registro unico saranno le organizzazioni di volontariato (ODV) e le associazioni di promozione sociale (APS), che verranno trasmigrate nelle corrispondenti sezioni regionali del RUNTS, con l'eliminazione contestuale dei registri attuali delle APS e delle ODV. Ogni sezione del Registro prevede infatti specifici requisiti di accesso e diversi benefici fiscali ad essa connessi. Per quanto riguarda le ONLUS, che costituiscono una qualifica fiscale (e non una specifica categoria di ETS) e che risultano quindi iscritte nell'apposita Anagrafe tenuta presso l'Agenzia delle entrate, si ricorda che con la Riforma del Terzo settore, la normativa sulle ONLUS sarà definitivamente abrogata a decorrere dal periodo di imposta successivo al parere favorevole della Commissione Europea sulle norme fiscali introdotte dal Codice del Terzo Settore e dal periodo di imposta successivo all'operatività del RUNTS. Fino a quel momento continueranno ad applicarsi le norme del D.Lgs 460/1997” (Fonte: camera.it, pagina 6).

9. Perché costituire un’associazione non riconosciuta?

Le associazioni non riconosciute rappresentano un fenomeno molto diffuso, sia per i costi contenuti che per le formalità ridotte. Soprattutto, a livello locale, nelle piccole realtà, rappresentano un istituto molto utilizzato per il perseguimento di uno scopo comune, culturale, ideale o altruistico.

10. Come si crea un’associazione non riconosciuta?

Come abbiamo visto, l’associazione non riconosciuta non postula alcuna formalità. Essa nasce semplicemente tramite l’accordo tra i fondatori. L’atto costitutivo e lo statuto hanno natura contrattuale e non sono soggetti a vincoli di forma. Nondimeno, sotto il profilo fiscale, se si vuole approfittare delle agevolazioni previste, è necessaria la forma scritta. Il contratto associativo è un contratto aperto, tuttavia, ciò non significa che esista un diritto del soggetto ad entrare nell’associazione e un correlato dovere dell’ente di accogliere la domanda di qualsiasi soggetto dotato dei requisiti necessari. Si rinvia la paragrafo sui diritti e doveri degli associati.

L’atto costitutivo delle associazioni non riconosciute (e riconosciute), secondo quanto previsto dal Codice del Terzo settore (art. 21), deve recare il seguente contenuto:

la denominazione dell'ente;

l'assenza di scopo di lucro,

le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite;

l'attività di interesse generale che costituisce l'oggetto sociale;

la sede legale,

le norme sull'ordinamento,

l'amministrazione e la rappresentanza dell'ente;

i diritti e gli obblighi degli associati, ove presenti;

i requisiti per l'ammissione di nuovi associati, ove presenti, e la relativa procedura, secondo criteri non discriminatori, coerenti con le finalità perseguite e l'attività di interesse generale svolta;

la nomina dei primi componenti degli organi sociali obbligatori e, quando previsto, del soggetto incaricato della revisione legale dei conti;

le norme sulla devoluzione del patrimonio residuo in caso di scioglimento o di estinzione;

la durata dell'ente, se prevista.

Inoltre, secondo il Codice del Terzo settore, lo statuto contenente le norme relative al funzionamento dell'ente, anche se forma oggetto di atto separato, costituisce parte integrante dell'atto costitutivo. In caso di contrasto tra le clausole dell'atto costitutivo e quelle dello statuto prevalgono le seconde.

11. Il patrimonio dell’associazione non riconosciuta: il fondo comune

L’associazione non riconosciuta, anche se priva di personalità giuridica, gode di una propria soggettività. Essa è titolare di un fondo comune (art. 37 c.c.). Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione (art. 38 c.c.).

Il fondo comune è un patrimonio distinto da quello degli associati, i quali non possono chiedere la divisione per tutta la durata dell’associazione né pretenderne la quota parte in caso di recesso (art. 37 c.c.).

Per le obbligazioni del singolo associato non risponde l’associazione con il suo fondo,

per le obbligazioni dell’associazione non risponde l’associato con il suo patrimonio, ma risponde solidalmente e personalmente chi ha agito in nome e per conto dell’associazione (art. 38 c.c.).

Così, ad esempio, l’iscritto ad un partito non risponde dei debiti dell’associazione. Oppure, nel caso in cui l’associazione non abbia pagato il canone di locazione, il proprietario potrà rivalersi sul fondo comune o su chi ha concluso il contratto. Nonostante il debito sia dell’associazione, il locatore – come qualsiasi creditore – può rivolgersi immediatamente verso il rappresentante, senza dover agire contro il fondo comune. Si tratta di una sorte di garanzia ex lege assimilabile alla fideiussione (A. TORRENTE - P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, 158).

12. La documentazione necessaria per creare un’associazione non riconosciuta

La documentazione necessaria è la seguente:

atto costitutivo e statuto,

modello per la richiesta del Codice fiscale (modello AA5/6 per codice fiscale; modello AA7/10 per Partita IVA),

modello per la richiesta di registrazione (modello 69),

La richiesta del Codice fiscale non è obbligatoria ma risulta necessaria nel caso in cui si compiano atti giuridici, come prendere in locazione l’immobile da destinare a sede dell’associazione. Ad esempio, la nota di trascrizione, in relazione all’acquisto di un immobile, deve recare la denominazione, la sede e il numero di codice fiscale delle associazioni non riconosciute, con l'indicazione, per queste ultime anche delle generalità delle persone che le rappresentano secondo l'atto costitutivo (art. 2659 c.c.).

L’associazione deve chiedere l’attribuzione di Partita IVA se intende svolgere l’attività commerciale.

13. I costi per creare un’associazione non riconosciuta

I costi da sostenere per la creazione di un’associazione non riconosciuta sono più bassi rispetto a quelli previsti per un’associazione riconosciuta. Infatti, è previsto il pagamento per la registrazione dell'atto costitutivo e dello statuto presso l'Agenzia delle Entrate. L’imposta di registro è pari a 200,00 euro, a cui vanno aggiunte le marche da bollo da 16,00 euro per ogni 4 pagine o 100 righe. Per talune categorie di associazioni è prevista l’esenzione dal pagamento dell’imposta di registro.

Non sono previsti i costi notarili per la redazione dell’atto costitutivo e dello statuto come, invece, accade per le associazioni riconosciute.

Se l’associazione svolge un’attività commerciale subordinata a quella istituzionale, bisogna considerare le competenze del commercialista.

Per la sede dell’associazione, occorre concludere in contratto di locazione, quindi, tra le spese, bisogna considerare il canone locatizio e le utenze.

In linea generale, le spese possono così riassumersi:

pagamento dell’imposta di registro (200 euro) da pagare tramite modello F23 (salvo esenzioni),

imposta di bollo da applicare ad atto costitutivo e statuto, 16 euro ogni 4 facciate scritte e, comunque, ogni 100 righe,

competenze del commercialista per la compilazione dei modelli indicati nel paragrafo precedente (F23, modello 69, modello AA5/6)

14. I tempi per creare un’associazione non riconosciuta

I tempi per la creazione di un’associazione non riconosciuta sono piuttosto brevi. Nel momento stesso in cui le parti redigono l’atto costitutivo, l’associazione esiste già. Sono, poi, necessari i tempi tecnici per la registrazione presso l’Agenzia delle Entrate.

Nel caso in cui l’associazione non riconosciuta voglia ottenere la qualifica di ETS (Ente del Terzo Settore), occorre considerare le tempistiche per l’iscrizione del relativo registro (RUNTS).

Di seguito, si ricorda, in breve, la procedura (art. 47 d. lgs. 117/2017).

L'ufficio del Registro, entro 60 giorni dalla presentazione della domanda, può:

iscrivere l'ente;

rifiutare l'iscrizione con provvedimento motivato;

invitare l'ente a completare o rettificare la domanda ovvero ad integrare la documentazione.

Decorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda o dalla presentazione della domanda completata o rettificata ovvero della documentazione integrativa, la domanda di iscrizione s'intende accolta.

Se l'atto costitutivo e lo statuto dell'ente del Terzo settore sono redatti in conformità a modelli standard tipizzati, predisposti da reti associative ed approvati con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l'ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore, verificata la regolarità formale della documentazione, entro 30 giorni dalla presentazione della domanda iscrive l'ente nel Registro stesso.

15. Gli organi dell’associazione non riconosciuta

L’ordinamento interno dell’associazione non riconosciuta è rimesso agli accordi tra gli associati (art. 36 c.c.). Nel caso in cui l’associazione non riconosciuta rientri negli enti del Terzo settore, bisogna rispettare quanto previsto dagli artt. 23 e seguenti d. lgs. 117/2017.

L’organo deliberante è l’assemblea (art. 24 d. lgs. 117/2017). Hanno diritto di voto tutti coloro che sono iscritti da almeno tre mesi nel libro degli associati, salvo che l'atto costitutivo o lo statuto non dispongano diversamente. Ciascun associato ha un voto e può farsi rappresentare nell'assemblea da un altro associato mediante delega scritta, anche in calce all'avviso di convocazione. Ogni associato può rappresentare sino ad un massimo di:

3 associati nelle associazioni con un numero di associati inferiore a 500,

5 associati in quelle con un numero di associati non inferiore a 500.

L'atto costitutivo o lo statuto possono prevedere l'intervento all'assemblea mediante mezzi di telecomunicazione ovvero l'espressione del voto per corrispondenza o in via elettronica, purché sia possibile verificare l'identità dell'associato che partecipa e vota.   

Le competenze dell’assemblea (art. 26 d. lgs. 117/2017) sono le seguenti:

nomina e revoca i componenti degli organi sociali;

nomina e revoca, quando previsto, il soggetto incaricato della revisione legale dei conti;

approva il bilancio;

delibera sulla responsabilità dei componenti degli organi sociali e promuove azione di responsabilità nei loro confronti;

delibera sull'esclusione degli associati, se l'atto costitutivo o lo statuto non attribuiscono la relativa competenza ad altro organo eletto dalla medesima;

delibera sulle modificazioni dell'atto costitutivo o dello statuto;

approva l'eventuale regolamento dei lavori assembleari;

delibera lo scioglimento, la trasformazione, la fusione o la scissione dell'associazione;

delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto alla sua competenza.

Oltre all’assemblea, deve essere nominato un organo di amministrazione (art. 26 d. lgs. 117/2017):

Nelle associazioni, riconosciute o non riconosciute, del Terzo settore deve essere nominato un organo di amministrazione. La nomina degli amministratori spetta all'assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori che sono nominati nell'atto costitutivo. La maggioranza degli amministratori è scelta tra le persone fisiche associate ovvero indicate dagli enti giuridici associati.

Non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio (art. 2382 c.c.):

l'interdetto,

l'inabilitato,

il fallito,

chi è stato condannato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi.

L'atto costitutivo o lo statuto possono subordinare l'assunzione della carica di amministratore al possesso di specifici requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di rappresentanza o reti associative del Terzo settore.  L'atto costitutivo o lo statuto possono prevedere che uno o più amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie di associati.

Gli amministratori, entro 30 giorni dalla notizia della loro nomina, devono chiederne l'iscrizione nel Registro unico nazionale del terzo settore, indicando per ciascuno di essi il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza, nonché a quali di essi è attribuita la rappresentanza dell'ente, precisando se disgiuntamente o congiuntamente. Il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori è generale. Le limitazioni del potere di rappresentanza non sono opponibili ai terzi se non sono iscritte nel Registro unico nazionale del Terzo settore o se non si prova che i terzi ne erano a conoscenza.

Nelle associazioni, riconosciute o non riconosciute, del Terzo settore, la nomina di un organo di controllo, anche monocratico, è obbligatoria quando siano superati per due esercizi consecutivi due dei seguenti limiti:

totale dell'attivo dello stato patrimoniale: 110.000,00 euro;

ricavi, rendite, proventi, entrate comunque denominate: 220.000,00 euro;

dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 5 unità.

Tale obbligo cessa se, per due esercizi consecutivi, i predetti limiti non vengono superati.

16. Come si finanziano le associazioni non riconosciute?

L’associazione non riconosciuta dispone di un proprio patrimonio, detto fondo comune. In esso sono compresi:

i cespiti conferiti dai fondatori (ad esempio, un immobile),

le quote di iscrizione degli associati,

i proventi dell’attività svolta (attività commerciale secondaria o attività istituzionale primaria),

le donazioni provenienti da privati,

i contributi delle istituzioni (comune, provincia, regione, enti pubblici et cetera),

le raccolte fondi.

Dal momento che le associazioni non hanno scopo di profitto, è vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominate a fondatori, associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di ogni altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo (art. 8 c. 2 d. lgs. 117/2017).

Si ricorda che, secondo l’attuale disciplina normativa, le associazioni non riconosciute (al pari di quelle riconosciute) possono effettuare acquisti immobiliari, ricevere eredità e donazioni senza necessità di alcuna autorizzazione (in passato, non era così). Circa gli acquisti immobiliari, l’art. 2659 c.c., in materia di nota di trascrizione, indica espressamente i dati da inserire per le associazioni non riconosciute: la denominazione, la sede e il numero di codice fiscale delle associazioni non riconosciute, con l'indicazione, per queste ultime anche delle generalità delle persone che le rappresentano secondo l'atto costitutivo (art. 2659 c.c.).

L’eredità devoluta ad un’associazione non riconosciuta (come ad una riconosciuta) si può accettare solo con beneficio di inventario (art. 473 c. 1 c.c.).

17. Le responsabilità delle associazioni non riconosciute?

Come abbiamo visto, le associazioni non riconosciute non hanno la personalità giuridica, quindi, godono di un’autonomia patrimoniale imperfetta (art. 38 c.c.).

Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione:

i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune;

rispondono personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione.

Quindi, i rappresentanti legali dell’associazione rispondono solidalmente delle obbligazioni sociali; tale responsabilità ha carattere accessorio rispetto all’obbligazione principale, come accade nella fideiussione (Cass. 29733/2011; Cass. 12508/2015).

La responsabilità solidale e personale di chi agisce in nome e per conto dell’associazione non è riferibile all’obbligazione propria dell’associato ma ha carattere accessorio rispetto alla responsabilità primaria dell’associazione (Cass. 455/2005).

I creditori del singolo associato non possono aggredire il fondo comune.

L’associazione non riconosciuta è responsabile del fatto illecito commesso da persona del cui operato debba rispondere e al terzo non possono essere opposti accordi statutari che limitino la suddetta responsabilità (Cass. 15394/2011).

18. Diritti e obblighi degli associati

Nelle associazioni, siano esse riconosciute o non riconosciute, l’elemento personale assume un rilievo determinante. Vige il principio della porta aperta, ossia ciascuno ha diritto di chiedere di entrare a far parte dell’associazione, ma non gode del diritto di entrarvi. Il Codice del Terzo settore non muta tale orientamento (art. 23), infatti, si limita a disciplinare il procedimento di ammissione. Se l'atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, l'ammissione di un nuovo associato avviene con deliberazione dell'organo di amministrazione su domanda dell'interessato. Entro 60 giorni l’organo deliberante deve motivare la deliberazione di rigetto della domanda di ammissione e comunicarla agli interessati. Il soggetto destinatario del rifiuto può formulare un’istanza affinché sulla sua domanda si pronunci, l'assemblea o un altro organo eletto dalla medesima, che deliberano sulle domande non accolte.

Nelle associazioni vige il principio di uguaglianza sociale, pertanto, tutti gli associati godono di medesimi diritti e doveri.

Per quanto riguarda i doveri degli associati, si sostanziano nel rispetto dell’atto costitutivo e dello statuto, e nel versamento della quota associativa.

19. La durata di un’associazione non riconosciuta

La durata dell’associazione è prevista dallo statuto. È possibile stabilire una durata precisa (ad esempio, 30 anni) oppure una durata illimitata.

20. Il recesso e l’esclusione degli associati

La giurisprudenza considera applicabili alle associazioni non riconosciute la stessa disciplina dettata per le associazioni riconosciute. In particolare, trova applicazione l’art. 24 c.c. (Cass. 18186/2004). Naturalmente, si tratta di una norma derogabile e, in quanto tale, lo statuto può stabilire diversamente (Cass. 6554/2001).

Si rimanda a quanto detto nella guida sulle associazioni riconosciute.

21. La trasformazione di un’associazione non riconosciuta

Il Codice del Terzo settore ha inserito nel Codice civile il nuovo art. 42 bis in materia di trasformazione, fusione e scissione. La norma dispone che, salvo l’esclusione nell'atto costitutivo o nello statuto, le associazioni riconosciute e non riconosciute e le fondazioni possono operare reciproche trasformazioni, fusioni o scissioni.

La trasformazione produce gli effetti previsti in ambito societario (2498 c.c.), ossia l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione. In buona sostanza, si realizza la continuità dei rapporti giuridici. L'organo di amministrazione deve predisporre una relazione relativa alla situazione patrimoniale dell'ente in via di trasformazione contenente l'elenco dei creditori, aggiornata a non più di 120 giorni precedenti la delibera di trasformazione, nonché la relazione indicante le motivazioni e gli effetti della trasformazione, prevista in materia di società di capitali (art. 2500 sexies c. 2 c.c.).

Si applicano, inoltre, le seguenti norme in materia societaria: gli articoli 2499, 2500, art. 2500 bis del c.c., 2500 ter, secondo comma, 2500 quinquies e 2500 novies, in quanto compatibili.

Gli atti relativi alle trasformazioni, alle fusioni e alle scissioni per i quali è necessaria l'iscrizione nel Registro delle imprese sono iscritti nel Registro delle Persone Giuridiche ovvero, nel caso di enti del Terzo settore, nel Registro unico nazionale del Terzo settore.

22. L’estinzione di un’associazione non riconosciuta

L’associazione si estingue per le cause previste nell'atto costitutivo e nello statuto.

Inoltre, l’ente si estingue:

quando lo scopo è stato raggiunto o è divenuto impossibile,

quando tutti gli associati sono venuti a mancare.

Dichiarata l'estinzione dell’associazione o disposto lo scioglimento, si procede alla liquidazione del patrimonio. Il Codice del Terzo settore (art. 9) dispone che, in caso di estinzione o scioglimento, il patrimonio residuo è devoluto, previo parere positivo dell'Ufficio regionale del Registro unico nazionale del Terzo settore, e salva diversa destinazione imposta dalla legge, ad altri enti del Terzo settore secondo le disposizioni statutarie o dell'organo sociale competente o, in mancanza, alla Fondazione Italia Sociale. Il parere è reso entro 30 giorni dalla data di ricezione della richiesta che l'ente interessato è tenuto a inoltrare al predetto Ufficio con raccomandata a/r o secondo le disposizioni previste dal Codice dell’Amministrazione Digitale (d. lgs. 82/2005) decorsi i quali il parere si intende reso positivamente. Gli atti di devoluzione del patrimonio residuo compiuti in assenza o in difformità dal parere sono nulli.

L’art. 49 del Codice del Terzo settore dispone che l'ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore accerta, anche d'ufficio, l'esistenza di una delle cause di estinzione o scioglimento dell'ente e ne dà comunicazione agli amministratori e al presidente del tribunale ove ha sede l'ufficio del registro unico nazionale presso il quale l'ente è iscritto affinché provveda ai sensi dell'articolo 11 e seguenti delle disposizioni di attuazione del codice civile.

Chiusa la procedura di liquidazione, il presidente del tribunale provvede che ne sia data comunicazione all'ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore per la conseguente cancellazione dell'ente dal Registro.

Scontro tra grillini, il garante riprende in mano il Movimento. “Conte non esiste più per l’intervento di Grillo, il Pd perde un alleato”, l’editoriale di Paolo Liguori. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

“Giuseppe Conte che per tanto tempo è stato presidente del Consiglio, anche al di sopra delle sue possibilità, ha finito per il momento la sua carriera politica” – il direttore Paolo Liguori commenta così la presa di posizione d Beppe Grillo dopo la sentenza del Tribunale civile di Napoli che ha sospeso Conte dal ruolo di capo politico del Movimento.

“Beppe Grillo oltre ad aver decretato che Conte, dichiarato fuori legge da un Tribunale, non deve più comparire, ha anche mandato un messaggio che vale per tutto il Movimento: nessuno deve comparire più senza l’autorizzazione del garante”.

Il direttore di Tgcom si chiede se questa decisione valga “oggi o anche a futura memoria”. Occhi puntati dunque sulla durata del diktat di Grillo che “probabilmente varrà per sempre e cioè, finché Conte non sarà eletto in qualche carica istituzionale, non avrà più agibilità politica nei mezzi di informazione, pena finire in scontro con tutto il resto del Movimento che obbedisce a questo diktat del garante Grillo”.

“Non solo, ma anche per le prossime scadenze elettorali non sarà lui a fare le liste” – ha proseguito Liguori – “naturalmente può darsi che a Conte non importi molto di questo, aveva un suo lavoro prima, c’è finito per caso in politica grazie all’accordo tra Salvini e Di Maio e se ne esce e torna a fare il suo lavoro e i suoi affari, perché ne faceva tanti, legittimi, ma abbastanza consistenti”.

Una decisione, quella di Grillo, che cambia le carte in tavola nel mondo della politica, soprattutto per il Pd che “aveva puntato molte carte sull’alleanza con Conte e ancora adesso sta cercando di rimettere in piedi quel rapporto. Purtroppo per il Pd, Conte è sfumato e non solo per l’effetto della sentenza di Napoli, ma soprattutto per l’intervento di Beppe Grillo che ha detto ‘basta’. E se Crimi si azzarda a intervenire e a sostenere quello che ha sostenuto finora, anche Crimi farà la stessa fine perché neppure lui è autorizzato a parlare”.

“Quindi il Movimento cambia faccia, ora torna quella di Grillo e solo di quelli autorizzati da Grillo, e Conte cambia lavoro, torna cioè a fare l’avvocato, non del popolo, quello privato. Conte è esistito forse, certo ora non esiste più”, ha concluso Paolo Liguori, direttore di Tgcom24.

Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 9 febbraio 2022.  

«L'ho fatto per proteggervi», dice Beppe Grillo. È per proteggere il Movimento, che il Garante è tornato e si è ripreso tutto. Il potere di dire: «Da oggi state zitti fino a nuovo ordine». Quello di fermare ogni decisione azzardata, intravista nelle parole di Giuseppe Conte e Vito Crimi.

«L'idea di indire una nuova votazione con l'assemblea degli iscritti al completo per rivotare il nuovo Statuto dimostra come non abbiate capito quanto la cosa sia seria. Adesso bisogna trovare il modo di uscirne seguendo le regole», ha detto il fondatore dei 5 stelle a tutti coloro che lo hanno chiamato.

Grillo è a Genova. Chiuso nella sua casa in collina, costantemente al telefono con gli avvocati che cercano di trovare un modo per uscire dall'ennesima impasse creata dal groviglio di regole dentro cui da anni si dibatte il Movimento. Potrebbe spostarsi nelle prossime ore, andare a Roma nel consueto quartier generale dell'hotel Forum, o chiedere ai dirigenti 5 stelle di vedersi a metà strada, a Marina di Bibbona, la villa delle grandi decisioni. Il santuario dell'ultima tregua.

Perché di una tregua, ancora una volta, c'è bisogno. Un pezzo di Movimento spera che il Garante approfitti di quanto successo per tornare a otto mesi fa. Quando Grillo aveva deciso di fermare Conte e la sua voglia di pieni poteri chiedendo che si votasse quel che era stato stabilito in primavera agli Stati generali: un comitato direttivo.

Cinque persone in grado di rimettere i 5 stelle sulla strada giusta, prendendo tutte le decisioni che c'erano da prendere. Nel caso, anche quella di avere un nuovo capo politico. Di Maio e Fico lo avevano convinto a tornare indietro. Conte e Crimi - gli stessi che oggi il fondatore ha voluto bloccare - avevano insistito per fare diversamente.

«Ma hanno fatto un pasticcio - spiega chi ha parlato con Grillo - perché per permettere che a votare fossero solo gli iscritti fino a sei mesi prima, come abbiamo sempre fatto, serviva un parere che il comitato di garanzia non ha mai prodotto. E che in realtà non poteva produrre: avrebbe dovuto stabilirlo di concerto con il comitato direttivo, che nel frattempo non è stato mai eletto».

E quindi è da lì che bisogna ripartire. Chi è ostile a Conte, preme perché Grillo segua ora tutti i passaggi saltati. Che addirittura torni a votare sulla piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio, in modo che l'avvocato dei ribelli Lorenzo Borrè non abbia più nulla a cui appellarsi. Ma questo sarebbe, per l'ex premier, uno scenario inaccettabile. 

Grillo lo sa, è stata una delle ragioni della lite che in estate ha segnato una frattura profonda tra i due. Quando volarono parole grosse: «Non sono un prestanome», diceva Conte; «Non hai visione politica né capacità manageriali», ribatteva il Garante.

Adesso le strade di cui Grillo ha parlato con chi lo sta consigliando in queste ore sono due: la prima e più sicura sarebbe quella di indire la votazione per un nuovo comitato di garanzia, tre persone che vanno scelte stavolta tra i non eletti (non possono essere parlamentari, né consiglieri regionali o comunali). Il nuovo organo avrebbe il compito di stabilire le regole per la votazione del comitato direttivo, nella prima ipotesi. 

O per far rivotare daccapo lo statuto voluto da Giuseppe Conte per poi incoronarlo di nuovo presidente, nella seconda. Quella per cui l'ex premier tifa apertamente. 

Conte non ha infatti alcuna intenzione di mettersi a gareggiare con avversari pronti a correre, come l'ex sindaca di Roma Virginia Raggi o - seppure con una posizione meno ostile rispetto a lui - l'europarlamentare Dino Giarrusso. Né tanto meno se a decidere di entrare di nuovo nell'agone fossero Luigi Di Maio o qualcuno dei suoi fedelissimi, che avrebbero così un posto nella "segreteria" M5S. 

È vero che potrebbe approfittare dell'occasione per riaffermare il suo consenso tra gli iscritti, ma il rischio che le cose si complichino ancora di più è troppo alto per decidere di correrlo. «La verità - diceva già nei giorni scorsi Roberta Lombardi, assessora alla Transizione della Regione Lazio - è che doveva fare quello che gli era stato consigliato a giugno. Creare un soggetto politico tutto suo e liberarsi da tutti questi bizantinismi. Era quasi convinto, poi lo hanno fermato». 

È a questa possibilità che, anche senza nominarla, Conte fa riferimento quando - nelle interlocuzioni di queste ore - pone le sue condizioni. Vuole risolvere le cose, la decisione di dare retta a Grillo e di non forzare annullando il suo impegno in tv con Porta a Porta va in questa direzione, ma non resterà a tutti i costi. Ed è certo che, se decidesse di strappare, non resterebbe solo.

"M5S? Momento molto difficile" "Sì, ma non è morto. Ha il 15%". Francesco Curridori il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il M5S è in forte crisi. Per la rubrica Il bianco e il nero, abbiamo interpellato il sociologo Domenico De Masi e Carlo Buttaroni, presidente di Tecnè.

Giuseppe Conte e Luigi Di Maio sono alla resa dei conti. L'arrivo di Beppe Grillo a Roma servirà a calmare le acque, dopo la sentenza del tribunale di Napoli. Sulla crisi del M5S, per la rubrica Il bianco e il nero, abbiamo interpellato il sociologo Domenico De Masi e Carlo Buttaroni, sociologo e presidente di Tecnè.

Alla luce della sentenza del tribunale di Napoli, crede che la leadership di Conte si sia ulteriormente indebolita?

De Masi:"Non so se sia più o meno debole però, di sicuro, è una leadership confermata dalla base, dai social e anche dagli ultimi sondaggi: il 75% è per Conte e il 10% per Di Maio. Credo che entrambi resteranno due personalità di spicco del Movimento".

Buttaroni: "Sicuramente è indebolita la leadership di Conte che derivava da un percorso che è stato anche molto enfatizzato dal M5S. È indebolita sia nei confronti degli attivisti del M5S, parlamentari compresi, sia nei confronti dell'opinione pubblica".

Che futuro si prospetta per il M5S?

De Masi: "Il Movimento nel 2018 aveva ottenuto il 32%, poi è piombato intorno al 15% durante il governo con Salvini e dall'ottobre del 2019 è rimasto intorno a queste percentuali. Il 15% è, quindi, il suo zoccolo duro. Tutti i giornali, da due anni, continuano a dire che è morto, ma la sua forza reale è questa".

Buttaroni: "Il M5S deve attraversare un guado. Diciamo che questa prova è una sorta di esame di maturità perché deve dimostrare di sapersi risollevare davanti a una situazione difficile seppur la vicenda riguardi aspetti di natura giuridica e non politica. Questa vicenda, poi, rende il Movimento opaco e meno vincente agli occhi dell'opinione pubblica e apre una frattura al suo interno. Il futuro dipenderà molto da come risovelleranno questa crisi e non sarà facile. Il M5S del 2018 è totalmente diverso da quello attuale perché quattro anni fa non vi erano divisioni e anche la linea politica sembra molto diversa. Oggi il M5S appare un partito istituzionale meno in grado di attuare un cambiamento rispetto al 2018 e gli sarà molto difficile mantenere anche l'attuale 13%".

Mesi fa circolavano dei sondaggi che attribuivano percentuali superiori al 20% a un M5s guidato dall'ex premier. Secondo lei, perché l'effetto Conte non c'è stato?

De Masi: "Era il periodo in cui Conte aveva appena lasciato la presidenza del Consiglio e aveva ancora un ottimo consenso, ma è stato ostacolato da Davide Casaleggio che non voleva dargli i nominativi degli iscritti. Ci sono voluti 7 mesi perché Conte diventasse leader e, ormai, non aveva più quel tesoretto di voti che aveva a febbraio del 2021".

Buttaroni: "Anche se io non avevo segnalato un incremento così significativo, Conte mesi fa godeva sicuramente di un'ampia popolarità e fiducia nell'opinione pubblica. Fiducia che è andata via via scemando. Il problema è che spesso non si tiene conto del fatto che quel consenso possa non essere solubile con il consenso della base elettorale che oggi è ben diversa da quella del 2018. All'epoca l'elettorato grillino era composto da persone che nel M5S cercavano un riscatto alla propria condizione sociale ed economica. Il M5S del 2021 ha cambiato la propria base elettorale e spesso risulta in conflitto con quella presente. I Cinquestelle, alle amministrative, hanno perso voti proprio nelle periferie. Conte è stato un bravo mediatore come premier però questa capacità di mediazione si scontra con la base elettorale storica del M5S che non accetta mediazioni".

Cosa pensa di Luigi Di Maio e di Giuseppe Conte?

De Masi: "Sono due fuoriclasse, gli unici due uomini politici nuovi usciti fuori negli ultimi 10 anni. Tutti gli altri, c'erano già. Di Maio è una personalità molto interessante per un sociologo come me perché a 26 anni era vicepresidente della Camera, ruolo che ha svolto in maniera inappuntabile. Poi ha portato il suo partito dal 23 al 33% alle Politiche del 2018, poi è stato vicepremier, capo del Movimento e ministro degli Esteri. Tutto questo a soli 35 anni. Tutto questo è straordinario se si pensa che io, all'univerisità ho vari allievi che, a 35 anni, non si sono ancora laureati. Conte, a sua volta, ha fatto un'ottima carriera universitaria e un'ottima carriera da avvocato. Poi si è innamorato della politica, è riuscito a fare per due volte il presidente del Consiglio con compagini completamente diverse e, a mio avviso, ha affrontato bene la pandemia".

Buttaroni: "Sono due leader che hanno entrambi delle qualità, ma sono l'uno l'opposto dell'altro ed è difficile che trovino un punto d'incontro. Hanno competenze e storie diverse. Di Maio ha un'indubbia capacità oratoria e ha le radici nella parte dell'elettorato del 2018 che ha così ben rappresentato come difensore degli ultimi e degli sconfitti. Conte, invece, è una persona molto colta, cresciuta in ambienti d'elitè. I difetti dell'uno e dell'altro si compensano e non sono due facce della stessa medaglia, ma proprio due medaglie diverse. Si rivolgono a pubblici diversi".

Tra i due chi avrà la meglio?

De Masi: "Conte ha 57 anni, Di Maio 35 e, quindi, penso che nel M5S ci sia spazio per entrambi. Se fossi in Di Maio, io sarei molto alleato di Conte. Insieme potrebbero essere una forza. Separati, invece, si sottraggono forza a vicenda".

Buttaroni: "Di Maio, dentro il M5S, ha più capacità di resistenza perché Conte, pur essendo stato eletto da un'ampia maggioranza, è sempre stato vissuto come un leader venuto da fuori tant'è vero che Di Maio è più forte tra gli attivisti e tra i parlamentari. Di Maio, dunque, sembra destinato a vincere questa sfida. Chiunque vinca, credo che difficilmente lo sconfitto rimarrà nel Movimento". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono

Il ruolo della giustizia. Il grande equivoco sulla sentenza anti Conte e il canone dell’onestà grillina. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 10 Febbraio 2022.

Portare una persona a giudizio non è uno sgarbo mafioso, ma una scelta che ogni cittadino può fare se ritiene che il suo diritto sia stato violato. Per questo motivo il tribunale di Napoli ha fatto bene a risolvere civilmente la controversia sullo statuto del Movimento 5 stelle che non poteva essere decisa da un talk show.

C’è un malinteso – lo definisco sofficemente in questo modo – a proposito della presunta interferenza giudiziaria nei pasticci statutari e deliberativi del Movimento 5 Stelle affidato alle cure dell’avvocato professor Giuseppe Conte. 

Dal complesso garantista – lo definisco vagamente in questo modo – viene  la denuncia secondo cui quel procedimento civile, instaurato da pregressi affiliati a quel movimento, sarebbe appunto lo strumento di una indebita intromissione della magistratura nella politica (categoria sociologica, o per meglio dire da talk, che ormai sta a partiti come Chigi sta a governo). 

E il malinteso non è per il fatto che in realtà non si tratta di intromissione, ma per il fatto che essa non è in nessun modo indebita. Salvo credere che la legalità statutaria e deliberativa di un movimento politico sia presidiata dallo Spirito Santo, o dal canone dell’Onestà amministrato senza appello dal legale rappresentante pro tempore, chi partecipi alla vita di quella realtà associativa e ritenga violata quella legalità dove va a lamentarsene e a chiedere che sia ripristinato il diritto: a Telecinquestelle aka la7? E a chi rimette la decisione: a Marco Travaglio?

Gioca sicuramente, a determinare questo fraintendimento, il caso di diverse iniziative giudiziarie – queste sì indebitamente interferenti – con cui la magistratura pretende di monitorare, intralciandolo, il corso politico delle associazioni partitiche, frugando nelle tasche e nella corrispondenza di chi le rappresenta: una pratica inaugurata dal manipolo meneghino che intimava a chi avesse scheletri negli armadi di non candidarsi, e continuata bellamente dagli epigoni della magistratura televisiva che davano istruzioni sui criteri di composizione delle liste elettorali. 

Ma tutto questo non c’entra proprio nulla con il ricorso di un privato cittadino che – fondatamente o no, questo è un altro discorso – assuma che nel proprio partito si siano registrate violazioni meritevoli di sanzione. 

Ma non basta. Perché a dar corpo a quel fraintendimento c’è poi il pregiudizio – frutto di una cultura da clan di cui probabilmente è inconsapevole proprio chi la esprime – secondo cui portare qualcuno in tribunale equivale a una specie di sgarbo mafioso, e che meglio, più leale, sarebbe la rissa in sezione o il match nella bolgia dei talk sopraddetti, gli equivalenti del duello rusticano in luogo dell’aula di giustizia: dove i gentiluomini non vanno. 

Magari non sempre e magari, come ripeto, inconsapevolmente, ma c’è quello, a muovere la presunta obiezione garantista e anti-giustizialista cui stiamo assistendo: c’è l’idea che solo gli spioni, solo gli infami chiamano la gente per bene in cibbunale. 

Si tratta invece della sede in cui risolvere civilmente una controversia facendo appello a un diritto che – a torto o a ragione – si ritiene violato. Non si tratta di giudici che fanno politica. Si tratta di cittadini che chiedono – a costo di apparire noioso lo ripeto ancora: che chiedono a torto o a ragione – che quell’associazione politica rispetti la propria legalità, come il Tizio del piano di sotto chiede all’amministratore del condominio di far rispettare il regolamento o come un creditore reclama quel che gli è dovuto.

L'attrazione dei grillini per le carte bollate. Conte, l’azzeccagarbugli colpito dai garbugli…Roberto Cota su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.

I Cinque Stelle hanno sempre avuto una passione smodata per le carte bollate ed in generale per i tribunali. Secondo la linea più ortodossa, in ambito penale, basta l’esistenza di un’indagine per fermare tutto, l’indagato si deve dimettere. Non sempre tutto però va secondo i piani: le inchieste hanno cominciato a riguardare anche loro esponenti (la ex Sindaca di Torino Appendino, ad esempio, ha riportato in primo grado due condanne). Inoltre, una icona del giustizialismo come Piercamillo Davigo si trova sotto processo e nubi minacciose si avvicinano al fondatore del movimento Beppe Grillo.

L’ attrazione per le carte bollate ha influito anche nella scelta del leader . Giuseppe Conte era sconosciuto ai più, ma era “professore e avvocato”. Tanto che subito si è autodefinito “l’ avvocato del popolo”. Anche su questo, qualche contraddizione è emersa. Ciò in quanto Conte come avvocato non aveva certo clienti del popolo, ma staccava parcelle per consulenze da centinaia di migliaia di euro al colpo. Il professor Conte potrebbe dire che, in fondo, lui non è l’ultimo arrivato e per questo gruppi importanti lo cercano e (lautamente) lo pagano. Può essere, però, non potrà evitare di attirarsi l’invidia di molti suoi colleghi forse più “ avvocati del popolo” che non hanno la capacità di essere così ben retribuiti per un’attività consulenziale. Invidia, appunto, perché Conte avrà certamente speso molto impegno e molte ore di lavoro.

Tutto questo, per dire che le carte bollate non sempre si sono rivelate utili alla politica dei Cinque Stelle. Dell’altro giorno, la notizia che il Tribunale di Napoli ha sospeso la delibera con cui lo scorso agosto il movimento aveva indetto l’elezione di Giuseppe Conte. Il contrappasso è compiuto, Il capo è stato disarcionato proprio dalle carte bollate. I detrattori potrebbero dire che l’azzeccagarbugli si è incartato in un garbuglio. Agli amanti del genere, al di là delle posizioni politiche, va detto che è assurdo che la politica venga decisa nei tribunali. Questo vale sia in sede penale che civile o amministrativa. La leadership di Conte ( esistente o meno) è un fatto politico, non è questione da risolvere in un’aula di giustizia. Roberto Cota

Accuse a Grillo, siluro a Conte: due colpi che travolgono il patto fra toghe e politica. Da Tangentopoli in poi in tanti hanno teorizzato il primato del controllo giudiziario sui partiti. Ma le indagini su Grillo e le vicende di Conte potrebbero aver chiuso un’epoca. Paolo Delgado su Il Dubbio il 10 febbraio 2022.

Ancora pochi giorni e sarà il giorno della trentesima candelina. Il 17 febbraio 1992 finì in manette Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Fu colto in flagrante mentre intascava 7 milioni di lire, metà della tangente pattuita, il 10 per cento di un appalto da 140 milioni. I giornali diedero alla notizia un certo risalto. Comparve su molte prime pagine mai però in apertura. Non era la prima volta che un’indagine sfiorava o toccava il Psi di Bettino Craxi, ma se nessuno s’immaginava uno tsunami epocale molti profetizzavano guai per la Milano da bere dell’ex sindaco socialista Paolo Pillitteri. Craxi cercò di minimizzare: «Mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito».

Il “mariuolo” si sentì abbandonato, vuotò il sacco, il sasso diventò frana, travolse la prima Repubblica, spazzò via un’intera classe politica, passò come lava ribollente su partiti che si credevano intoccabili, rivelò anche la fragilità di un edificio le cui fondamenta erano marcite senza che gli abitanti dei piani alti ne avessero il minimo sentore. La catastrofe fu accolta dai più, a partire all’intero apparato dei media, con entusiasmo, speranza, spesso partecipazione attiva. Sulle rovine del palazzo crollato si andava a costruire un nuovo edificio: moderno, trasparente, dinamico, efficiente. Poco più di un anno dopo quell’arresto, il referendum sulla legge elettorale caricatosi di valenze molto più vaste del suo già fondamentale merito, diede il colpo di grazia alla prima Repubblica.

Le cose, si sa, non sono andate proprio come auspicato. Soprattutto tra i politici e i giornalisti le battute sulle meraviglie di quella Repubblica già dipinta come sentina di corruzione sono da un bel pezzo luogo comune, pane quotidiano, ovvietà condivise. I giudizi caustici sul presente e sul passato prossimo sembrano dire che la nuova magione si è rivelata peggiore di quella travolta dalla tempesta di tangentopoli. Però non è così e il problema è diverso. Su quelle rovine non è stato costruito nessun nuovo Palazzo: piuttosto tendopoli e casette prefabbricate destinate a resistere giusto un paio di stagioni. La domanda è dunque perché in una trentina d’anni la politica è rimasta in mezzo al guado, senza mai ricostruire davvero ma limitandosi a soluzioni provvisorie.

Una delle ragioni principali, pur se certamente non l’unica, è nel vizio originario costituito da un terremoto politico quasi senza precedenti provocato in ampia misura da un’inchiesta giudiziaria. Forse, anzi probabilmente, la prima Repubblica era destinata a concludere comunque la propria esperienza. L’avanzata che sembrava irrefrenabile della Lega a nord, il referendum che avrebbe comunque sferrato un colpo fatale a quel sistema erano segnali chiari in quella direzione. Di fatto però fu un’azione giudiziaria a mettere traumaticamente fine alla prima Repubblica e da allora la politica non ha mai smesso di essere considerata, e di considerarsi, una specie di sorvegliata speciale, paralizzata dall’ipoteca del controllo della magistratura.

È possibile che quella lunga fase si avvii al tramonto e da questo punto di vista la parabola del M5S è molto eloquente. Nel Movimento erano confluite disordinatamente varie spinte ma il terreno unificante era stato proprio il primato del controllo giudiziario sulla politica e la riduzione della politica a questione di legalità e onestà. Sin dall’approdo in Parlamento, «la scatoletta di tonno», sono stati evidenti sia il feticismo dei regolamenti che i guasti che questo induceva. La vicenda della leadership di Conte revocata dalla magistratura, come se la politica si potesse ridurre a una lite di condominio, segna il fallimento di quella visione perché porta alle estreme conseguenze uno smarrimento del Movimento nel labirinto costituito dai suoi stessi feticci, coincidenti però con la fede illimitata del primato del potere giudiziario su tutti gli altri.

L’indagine su Grillo da un lato, la scelta dei 5S di chiudere gli occhi sulla valanga di truffe pur di difendere il Superbonus dall’altro, segnano probabilmente la fine di un’epoca. Non solo per quanto riguarda i 5S ma per l’intera visione della politica della quale i 5S sono stati massima e più esplicita espressione e che ha contribuito più di qualsiasi altro elemento a tenere il Paese immobile per tre decenni.

Come può essere chiamata questa azione? Persecuzione. La prepotenza della magistratura: in due giorni impallinati Renzi e Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

Non è che noi abbiamo l’ossessione della magistratura, e perciò ogni giorno finiamo col parlare della magistratura, e lamentarci per la sua invadenza. È che l’invadenza della magistratura ha superato ogni possibile limite di ragionevolezza. Prendete gli ultimi due giorni. Cosa è successo in politica negli ultimi due giorni? Solo due cose. Che lunedì la magistratura ha impallinato l’ex premier Conte – eliminandolo dalla scena – e mercoledì ha impallinato l’ex ex premier Renzi – che però è un po’ più difficile da eliminare-.

Non li ha impallinati perché essi abbiano commesso qualche reato o qualche infamia, ma semplicemente perché alla magistratura non sono piaciute alcune iniziative politiche realizzate dai due ex premier. Non è piaciuto il modo nel quale i 5 Stelle hanno modificato il proprio statuto e hanno eletto Conte loro capo, e non è piaciuta la Fondazione messa in piedi da Matteo Renzi, e anzi hanno stabilito che questa fondazione non era una fondazione ma era un partito politico del quale Renzi era il capo e quindi era finanziata illegalmente. Perché illegalmente? Perché alcune leggi molto strampalate, approvate da geniali partiti suicidi (praticamente tutti), hanno recentemente stabilito che i partiti non devono né essere finanziati dallo Stato né dai privati, cioè devono morire. Qualunque associazione di qualsivoglia genere può essere finanziata sia dai privati che dallo Stato, ma i partiti no, probabilmente perché sono considerati pericolosi. E quindi chi viene beccato a farsi finanziare o a finanziare un partito, zac scatta l’incriminazione. Spiego meglio.

La magistratura ha stabilito che tocca a lei (a lei magistratura, dico) decidere come si fanno gli statuti dei partiti, e non agli iscritti ai partiti. E che spetta sempre a lei stabilire chi è un partito e chi no. Se per esempio io fondo una società di pasticceri con lo scopo di far pressione per detassare le uova, e poi mi faccio finanziare dagli allevatori di polli, e un magistrato decide che il mio non è un libero sindacato o qualcosa del genere, ma è il partito dei pollari, zacchete mi incriminano e mi sequestrano i soldi, le uova e i bignè. Forse anche i polli. La storia di oggi, quella di Firenze, è clamorosa. Credo che nessuna persona ragionevole possa ignorare che si tratta non di una iniziativa giudiziaria ma di una autentica persecuzione contro Matteo Renzi e i suoi. Le indagini, oltretutto, sono state realizzate in spregio delle leggi. Cioè violando le leggi e i diritti dell’indagato. Possiamo anche dire che in tutta questa vicenda un reato c’è, ed è quello commesso dai sostituti procuratori che hanno deciso di provare a eliminare Renzi dalla scena politica. Con l’avallo del loro Procuratore, che peraltro non si capisce bene neppure perché sia ancora Procuratore di Firenze, visto che il Csm ha accertato che si è reso responsabile di un reato piuttosto grave, anche se non perseguibile penalmente perché non denunciato entro un anno dalla vittima (che però lo ha confermato).

Vedete bene che non è una ossessione, la nostra. È solo il timore che l’Italia, giorno dopo giorni, scivoli in un catino dove vigono le regole di una società autoritaria, una sorta di repubblica giudiziaria dove tutti i poteri democratici sono sottomessi a una piccola oligarchia composta da un certo numero di Procuratori, e sostituti e Gip, riuniti in correnti, o forse anche il Logge segrete, e ai quali è riconosciuto il potere assoluto sulla vita dei sudditi, cioè quella forma di potere che in Europa era stato cancellato ai tempi del passaggio alle monarchie costituzionali e dell’avanzare timido dell’illuminismo. La vicenda Renzi mi pare limpida. Non c’è molto da spiegare. Il copione è sempre lo stesso: quello della persecuzione politica che si realizza anche grazie al sostegno legislativo fornito dalla stessa politica la quale – per ragioni in parte spiegabili, e riconducibili fondamentalmente alla vigliaccheria, e in parte inspiegabili – lo ha fatto sempre in modo sereno e ossequioso.

L’esempio più chiaro e conosciuto del meccanismo della persecuzione è quello che dura da quasi trent’anni nei confronti di Berlusconi. Ma ce ne sono tanti altri. Butto lì un po’ di nomi alla rinfusa: Bassolino, Mannino, Mancino, Lombardo, Penati, Del Turco, il generale Mori, Nunzia De Girolamo, Federica Guidi… E se vogliamo andare indietro negli anni, c’è un nome più pesante di tutti, perché è quello di uno statista socialista che fu perseguitato per colpire le idee che incarnava: appunto l’essere statista e l’essere socialista. Forse non c’è bisogno che io scriva il nome, però lo scrivo: Craxi. Anche perché penso che soprattutto noi di sinistra, anche i più garantisti tra noi, siamo un po’ in debito con Craxi, quantomeno per non averlo difeso abbastanza e per aver assistito piuttosto indifferenti all’accanimento col quale fu portato alla morte. È stato uno dei capitoli più vergognosi della politica italiana.

Dicevo di Renzi, occhei, tutto prevedibile. Ma Conte? Come è potuto succedere che la magistratura abbia deciso di eliminare dalla scena politica il capo del movimento, anzi del partito, che è stato la clava e la baionetta e il cannone e la mitragliatrice che hanno sostenuto, chiesto, ottenuto e difeso la sua avanzata (l’avanzata della magistratura, dico)? Ecco, questo è quasi inspiegabile. Ha lasciato tutti attoniti. E vero che con ogni probabilità Conte sarebbe comunque sparito dalla ribalta senza bisogno della magistratura, per inconsistenza politica evidente e ormai a tutti nota. Però colpisce il fatto che dei magistrati abbiano voluto mettere la firma sull’atto di scomparsa. Il povero Travaglio è rimasto senza parole. L’altro giorno sulla “7”, con Lilli Gruber, balbettava a braccia conserte. Diceva: “ma guardate che se si vota altre cento volte Conte sarà sempre rieletto, e invece del 92 per cento prenderà il 99”.

Travaglio era fiero del successo del suo protetto: il 92 per cento! Dunque amatissimo, amatissimo davvero? Non diceva niente Travaglio su come era fatta la scheda per votare Conte. Sulla scheda c’era solo il suo nome. C’era scritto: volete voi Conte come vostro capo? Poi c’era un Si o un No da metterci la croce. Diciamo pure che un sistema di voto come questo non ha precedenti. Però resta il fatto che ogni partito ha il diritto di scegliersi il sistema di voto che vuole. Almeno, era così prima che fosse instaurata la repubblica giudiziaria. Anzi no. C’è un precedente: le elezioni politiche del 1938. Allora sulla scheda c’era un elenco di nomi, ed erano i nomi da mandare al Parlamento. Una lista unica. Non si poteva scegliere Chiedeva la scheda: Vi va bene questa lista Si o No? Vinsero i Sì col 99,85%. Pazzesco. Un risultato fantastico, migliore, addirittura, di quello di Conte…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il caos 5 stelle. Grillini vittime dei propri pasticci, nessuna ingerenza dei Pm. Salvatore Curreri su Il Riformista il 10 Febbraio 2022. 

Le reazioni suscitate dalla ordinanza del Tribunale di Napoli che, a seguito dell’illegittima esclusione dall’assemblea degli iscritti al M5S da meno di sei mesi, ha sospeso le modifiche dello Statuto approvate nell’agosto scorso e la conseguente nomina di Giuseppe Conte a suo Presidente, meritano qualche puntualizzazione anche ai fini di una riflessione più generale sull’annoso tema sulla democrazia all’interno degli attuali partiti politici.

In primo luogo si lamenta la mancata attuazione dell’art. 49 Cost. sui partiti politici quando invece esso non contiene un espresso riferimento né ad una legge in tal senso né alla natura democratica della loro organizzazione interna. Quella a favore dell’autonomia dei partiti fu una precisa scelta dell’Assemblea costituente, la quale respinse le proposte per un riferimento esplicito alla democrazia nei partiti per il timore, specie del Partito comunista, che il Governo avrebbe potuto in tal modo ingerirsi nei loro affari interni fino al punto da metterli fuori legge. E del resto, quando la Costituzione ha voluto imporre la democrazia all’interno di una associazione, l’ha fatto espressamente, imponendo ai sindacati di avere “un ordinamento interno a base democratica” per potersi registrare (art. 39 Cost. rimasto inattuato a causa degli stessi timori da parte principalmente della CGIL). Non c’è, dunque, alcuna inadempienza costituzionale da parte del legislatore.

Peraltro, è parimenti inesatto affermare che oggi non esista una legge sui partiti politici. In occasione della riforma del finanziamento pubblico dei partiti (2012), fu stabilito che vi potessero accedere solo i partiti dotati di uno statuto che contenesse taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori, soggetti alla verifica di una apposita Commissione di garanzia ai fini della loro iscrizione nel Registro nazionale dei partiti. Si tratta, invero, di contenuti minimi e esteriori (composizione e attribuzioni degli organi interni, cadenza delle assemblee, diritti e doveri degli iscritti, modalità di selezione delle candidature, ecc.), privi di specifiche indicazioni sull’effettivo funzionamento democratico dei partiti. Una disciplina dunque basilare, molto soft e per questo poco incisiva, come confermano gli statuti finora adottati, improntata al massimo rispetto dell’autonomia organizzativa e procedurale dei partiti.

Il M5S si è sempre potuto sottrarre al rispetto di tali pur minimi contenuti democratici interni imposti per legge poiché ha finora rinunciato ad accedere al finanziamento pubblico indiretto tramite il c.d. due per mille e le donazioni fiscalmente agevolate (salvo comunque continuare a fruire dei contributi erogati dalle camere ai gruppi parlamentari per le loro attività latamente politiche). Per partecipare alle elezioni politiche il M5S non deve dunque dotarsi di uno statuto conforme alla legge (come in modo più efficace prevedeva la precedente legge elettorale, sul punto improvvidamente abrogata dalla attuale) ma solo presentare una dichiarazione minimale che indichi il legale rappresentate del partito e la composizione e le relative attribuzioni dei suoi organi.

La recente decisione di accedere al finanziamento pubblico (sembra però non destinata a produrre effetti per il corrente anno) impone dunque al M5S di affrontare una volta e per tutte il tema della sua organizzazione interna. Una struttura particolarmente complessa, in cui la distribuzione dei poteri tra Garante, Presidente, Comitato direttivo e Comitato di garanzia determina un precario equilibrio e che esprime l’irrisolta, e forse irrisolvibile, esigenza di conciliare l’anima assembleare/movimentista dell’“uno vale uno” e l’istanza fortemente dirigista che ne caratterizza i vertici. Il risultato è tutta una serie di decisioni calate dall’alto che la base degli iscritti è chiamata solo a ratificare, pronunciandosi su quesiti formulati talora in modo volutamente tendenzioso e con percentuali di partecipazione al voto quasi sempre risibili rispetto sia al numero degli aventi diritto sia, soprattutto, degli (ormai in gran parte ex) elettori.

Che questa ossessiva, leguleia pretesa di disciplinare tutto e tutti si sia tradotta in regole incerte, che lo stesso M5S non ha potuto o voluto rispettare, “incartandosi”, lo dimostra la lunga sequenza di sentenze che l’hanno visto soccombere, grazie alla asfissiante “marcatura a uomo” dell’ormai mitico avv. Borré e di cui l’ordinanza del Tribunale di Napoli costituisce solo l’ultimo anello. Sotto questo profilo, i timori espressi da taluni commentatori a seguito di tali sentenze circa un’eccessiva ingerenza dei giudici sull’attività interna ai partiti non hanno ragione d’essere. Premesso che il rispetto delle regole interne, poste a garanzia di tutti, e specialmente delle minoranze, non può essere interamente affidato alla lotta politica dove prevale la forza dei numeri e non la forza del diritto, i giudici si sono potuti pronunciare grazie ai varchi loro offerti da regole organizzative e procedurali non ben coordinate tra loro e talora volutamente oggetto di forzature, come nel caso in specie della mancata approvazione del regolamento per escludere dal voto gli iscritti da meno di sei mesi, frutto della diffidenza da sempre nutrita verso chi avrebbe potuto “inquinare” il risultato elettorale atteso.

In tutte queste occasioni, il giudice si è sempre potuto pronunciare non tanto invadendo la legittima autonomia decisionale dei partiti in nome di un’astratta assenza di loro democraticità interna, quanto piuttosto in forza della difformità dei provvedimenti impugnati rispetto alle regole che lo stesso M5S si era dato. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. L’incidenza dei giudici non dipende quindi dalla natura legislativa o statutaria delle regole interne quanto dalla loro chiarezza, coerenza e, non ultimo, dalla capacità di rispettarle, anche quando questo intralci i piani prestabiliti, senza ricorrere a inutili quanto – alla resa dei conti – controproducenti forzature procedurali.

Quello della democrazia interna ai partiti politici è certamente uno dei tasselli fondamentali – insieme alla legge elettorale, alle norme regolamentari sui gruppi parlamentari ed alla riforma del finanziamento pubblico – se si vuole rimediare alla attuale debolezza dei partiti, rendendo le loro necessarie leadership criticabili e contendibili, anche attraverso i canali digitali.

L’importante è che, nel superare l’attuale disciplina legislativa – chiaramente inadeguata nel considerare i partiti mere associazioni non riconosciute, ignorandone il fondamentale ruolo di partecipazione democratica – si trovi un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti dei singoli e l’autonomia del partito, così da evitare il rischio di “giuridicizzare” eccessivamente dispute per loro natura intrise di politicità. In tal senso, quello del M5S è esempio da non seguire. Salvatore Curreri

Lo scontro fratricida. Di Battista, sponda a Conte e attacco a Di Maio: “Da bibitaro a sommelier, è un uomo di potere”. Redazione su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

C’eravamo tanto amati. Il rapporto tra Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio, ex compagni di ‘partito’ nel Movimento 5 Stelle fino alla fuoriuscita del primo, il ‘Che Guevara di Roma nord’, è ormai ridotto ai minimi termini.

Una ulteriore riprova è arrivata venerdì sera dalle parole di Dibba ospite di ‘Accordi&Disaccordi’, il talk politico del Fatto Quotidiano condotto da Luca Sommi e Andrea Scanzi su Nove. 

Nella lotta tra il titolare della Farnesina e Giuseppe Conte, che si è appena visto sfilare la leadership del Movimento dopo una clamorosa ordinanza del Tribunale di Napoli a seguito del ricorso presentato da alcuni attivisti contro la modifica dello Statuto e della conseguente ‘incoronazione’ dell’avvocato di Volturara Appula a presidente pentastellato, Di Battista pur non prendendo apertamente posizione per quest’ultimo usa parole al vetriolo per Di Maio.

Così Dibba azzarda un paragone ‘tremendo’ per Di Maio per quelle dichiarazioni rilasciate alla stampa dopo la rielezione di Mattarella al Quirinale, in cui il ministro degli Esteri parlava di “leadership che hanno fallito” e della necessità di “aprire una riflessione politica interna”. Per l’ex pasdaran grillino quelle parole “erano indirizzate a Conte, con tutta quella claque dietro. Mi sembravano, ora si incazzeranno, ma non me ne frega niente, mi sembravano i forzisti che occuparono il tribunale di Milano, per protestare”. Un riferimento alla giornata, dell’11 marzo 2013 in cui i parlamentari dell’allora Pdl fecero un’azione dimostrativa durante una delle udienze del processo Ruby sfilando davanti al tribunale di Milano.

Di Maio che ora “è diventato un uomo di establishment, di potere. È cambiato, oggi è un uomo di sistema, pensa alla prosecuzione della sua carriera politica nonostante avesse giurato più volte ‘due mandati e poi a casa, torno alla mia vita’”, lo etichetta Di Battista.

“Un tempo dai giornali di sistema come Repubblica veniva sbeffeggiato”, ricorda Di Battista, “veniva considerato il ‘bibitaro’ ora è Luigi il sommelier…”.

Secondo l’ex parlamentare, che da tempo viene dato in predicato di rientrare nel Movimento in caso di definitiva rottura con l’ala fedele al ministro degli Esteri, quest’ultimo “pensa a collocare sé stesso, ma anche il Movimento perché io dubito voglia lasciarlo. Secondo me – aggiunge Di Battista – vorrebbe spostarlo soltanto il più possibile al centro. Cosa che ha sempre fatto dicendo ‘siamo liberali, moderati’, chiedendo scusa per ogni cosa“.

Poi, nascosti, da complimenti, altri affondi all’ex amico: “È scaltro, è preparato, è un grande lavoratore e una persona onesta. Se si è innamorato della politica o della poltrona? Nel caso di Luigi non c’è molta differenza in questo momento“, prosegue Di Battista, che pure confessa di sentirsi con Di Maio “ogni tanto”.

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.

«Amiche mai», sintetizzano quelli che giurano di conoscerle bene entrambe, le due protagoniste «local» del Movimento Cinque Stelle dei bei tempi andati, rimando nostalgico all'epoca gloriosa in cui il successo nelle urne nazionali veniva accompagnato dalle clamorose conquiste delle Capitali d'Italia del passato remoto e del presente, Torino e Roma. 

E adesso che «l'opzione donna» per la leadership si affaccia tra le ipotesi allo studio di Beppe Grillo per uscire dal pantano di carte bollate che ha portato alla destituzione di Giuseppe Conte, tutti tornano a guardare verso di loro. Loro sono Virginia Raggi e Chiara Appendino, le «amiche mai», due rette parallele che parevano destinate a non incontrarsi. Roma di qua, Torino di là; lo studio Previti dove si è fatta le ossa la prima da una parte, la Juventus, dov' era professionalmente cresciuta la seconda, dall'altra; gli studi di Diritto della prima, la laurea in Economia internazionale e management della seconda.

Gelida e diffidente l'una, decisamente più empatica l'altra, Raggi e Appendino sono state divise da un destino che ha sorpreso tutti i loro compagni di strada del Movimento e forse, nel bene e nel male, anche loro stesse. Nell'efficace sintesi di un grosso calibro del gotha grillino, «all'improvviso è successo quello che nessuno di noi aveva messo in preventivo: abbiamo pensato per anni che la poltrona da primo cittadino avrebbe portato Virginia a una condanna in primo grado e invece è finita che la condanna è arrivata per Chiara». 

Quella condanna in primo grado per falso in atto pubblico che aveva spinto l'allora sindaca di Torino a non ricandidarsi per un secondo mandato; cosa che invece Raggi ha fatto a Roma, arrivando addirittura fuori dal podio. Il 25 ottobre scorso, poco prima delle elezioni amministrative, eccole insieme in uno dei rari momenti trascorsi fianco a fianco, corredati dall'immancabile foto pubblicata sui social. «Credo che quello con Virginia sia stato il primo pranzo senza guardare l'orologio», annotava Appendino. «Un'occasione per confrontarci e parlare anche di tanti progetti per il nostro futuro», aggiungeva Raggi. Le condanne in primo grado della prima, al momento, sembrano sbarrarle la strada della possibile leadership pentastellata a cui ambisce la seconda, decisamente più popolare nel popolo del M5S che nel Palazzo.

Nella guerra di nervi contro Giuseppe Conte, iniziata dopo lo scontro sulla candidatura al Quirinale di Elisabetta Belloni, Luigi Di Maio le ha coinvolte entrambe; Raggi incontrandola alla Farnesina, Appendino sentendola per telefono e dandone notizia alla stampa. L'ex sindaca di Roma ha la stima di Beppe Grillo, un legame antico con Alessandro Di Battista (che oggi è fuori dal Movimento), un rapporto stretto con alcuni calibri del Movimento che non vivono a Roma (l'europarlamentare Dino Giarrusso era stato invitato a salire sul palco nel comizio finale della sua campagna elettorale per le Comunali di Roma, alla Bocca della Verità); l'ex prima cittadina di Torino, che sta alla finestra, ha una rete di rapporti interni al Cinque Stelle ugualmente consolidata e la stima di Giuseppe Conte, che l'ha voluta nella segreteria nazionale poi decaduta appresso alla sua leadership.

Entrambe, come base d'asta, sognavano e sognano di proseguire in Parlamento la carriera istituzionale interrotta nell'autunno scorso (anche se Raggi è consigliera comunale di Roma). La storia dei prossimi giorni potrebbe prevedere, chissà, un salto in avanti. L'«opzione donna» è una formula che passa di bocca in bocca. Anche se l'uscita dal tunnel non s' intravede. Neanche all'orizzonte.

Mario Ajello per "il Messaggero" l'11 febbraio 2022.

«Ah, Virginia, ce ne fossero di avvocati bravi come te...». Grillo dice così a Virginia. Con chiara allusione a Conte che pur essendo giurista ha sbagliato a fare lo statuto inguaiando se stesso e tutti gli altri? Quel che è certo è che, nella sua sortita a Roma, il Fondatore si è rivolto alle doti politiche - lui gliene riconosce tante - e alle qualità professionali della Raggi. Beppe la chiama al telefono mentre lui sta con gli altri big (ma lei no, perché sprovvista di green pass) all'Hotel Parco dei Principi per salvare il salvabile, poi eccola con Grillo e Conte nello studio del notaio Luca Amato che sta a via Po.

Non fidandosi tecnicamente di Giuseppi, Grillo si è affidato a Virginia. A lei ha chiesto più volte spiegazioni e aiuto: «Vedi, cara, qui mi sembrano tutti impazziti...». Ha bisogno di una donna Grillo, tra tante comari maschi che litigano sul ballatoio, e la donna affidabile per lui non da oggi è Virginia: «Una tosta che sa resistere agli attacchi e non perde mai lucidità». No, ora Beppe non può scalzare Conte a favore della sua pupilla. Un Piano B, o Piano V, che a Di Maio non sarebbe dispiaciuto affatto. Non è questa l'aria, e tuttavia le donne del movimento - Raggi ma anche Chiara Appendino, ex sindaca di Torino - sono quelle su cui Grillo ripone molte speranze. Le giudica, tra tutte le sue creature, le migliori, sicuramente le più capaci a coniugare il messaggio grillino delle origini con una duttilità politica tipica di chi, nel bene o nel male, si è trovata a gestire la Capitale e una delle città più importanti del Nord.

LE MOSSE Appena Beppe vide che Conte annaspava nella guida del movimento, già da dopo l'estate aveva pensato: Raggi e Appendino come vice, ecco l'unico modo per rilanciarci. Non se ne fece nulla, e Grillo ancora si morde le mani. Ora la carta Chiara sarebbe una carta di pacificazione. Nella nuova leadership, quale che ne sarà la forma, la Appendino è destinata ad esserci. Perché è un outsider, non è mai stata trascinata nella guerra civile tra stellati e ha fatto la mossa abile, quando pareva che Conte potesse diventare il padrone del movimento, di non farsi cooptare in alcun modo da lui. Che il suo mentore (ossia Grillo) giudica «senza visione politica né capacità organizzative».

Rispetto alla Appendino (su cui però pendono due condanne), il peso della Raggi è superiore. Cattivi rapporti con Conte (non gli ha mai perdonato il blando appoggio nella corsa al bis come sindaca e la sparizione al momento della sconfitta) e ottimi con Grillo (la chiama «la nostra gran guerriera»), con Di Maio e anche con Dibba. E' un trait d'union tra il grillismo delle origini e il post-contismo Virginia. «Prima o poi si arriverà a lei, perché Conte è cotto», assicurano i dimaiani. Non è detto che sbaglino.

Claudio Bozza per corriere.it l'11 febbraio 2022.

«Va tutto bene. Mi usano un po’ come condom per la protezione del Movimento. Devo dire che inizia bene e finirà ancora meglio». Questa la battuta con cui Beppe Grillo, uscendo dall’hotel Parco dei Principi a Roma, riassume il senso della raffica d’incontri avuti con tutti i big del suo partito, la cui leadership è stata di fatto destituita dalla sentenza del tribunale di Napoli.

E il fondatore del Movimento, dopo le stilettate che gli aveva riservato negli ultimi giorni, torna ad a sostenere l’ex premier: «Io non ho mai messo in dubbio la leadership di Conte. Assolutamente non l’ho mai fatto. Non scherziamo». I due, giovedì sera, si erano abbracciati davanti alle telecamere uscendo dal ristorante ai Parioli dove avevano cenato.

La strategia scelta, adesso, potrebbe segnare per sempre la storia e la sopravvivenza dei Cinque stelle, così come sono oggi. Secondo quanto emerso al termine degli incontri con legali e il notaio di fiducia Luca Amato, il Movimento presenterà ricorso a Napoli contro la sospensiva stabilita dal tribunale. 

Fonti pentastellate fanno sapere come tutti i legali concordino sul fatto che le delibere approvate dall’assemblea degli iscritti sono valide alla luce del regolamento interno che fa data al 2018, per cui l’attesa è che la decisione dei giudici venga revocata tempestivamente.

Beppe Grillo era arrivato a Roma giovedì ed ha incontrato i vertici di M5s (oltre un’ora con Luigi di Maio) poi l’incontro sui nodi giuridici sollevati, infine la cena con Conte. Una giornata di attesa per gli eletti M5s e fatta di appostamenti per i giornalisti in cerca di scoprire il luogo scelto dal cofondatore del Movimento per i suoi colloqui.

Con i cronisti, Grillo ha scherzato: «Abbiamo fatto una riunione antibiotica per ripristinare il sistema immunitario di M5s. Quindi state tranquilli». 

Secondo chi, in punto di diritto, non condivide la strada legale che si vuol fare intraprendere, viene, fra l’altro, sottolineato che la revoca del provvedimento può essere richiesta solo su fatti sopravvenuti e non sulla base del regolamento «ritrovato», mentre resta rilevante anche il presupposto sul quale l’oradinanza è stata emessa: la mancanza del quorum sulle decisioni assunte attraverso la rete.

«Abbiamo avuto una riunione dove abbiamo analizzato tutti gli aspetti giuridici. Siamo fiduciosi, offrendo al tribunale un nuovo documento, che potrà essere riconosciuta la piena validità delle delibere assembleari», spiega Conte. E poi: «Noi la piattaforma ce la abbiamo», ha risposto l’ex premier a chi gli chiedeva se il M5s tornerà sulla piattaforma Rousseau.

Il caos in M5s? «Non sono solito commentare i problemi e i litigi altrui e spero che le loro fibrillazioni non incidano sul governo e non rallentino l’azione riformatrice», commenta invece il leader della Lega Matteo Salvini.

Sebastiano Messina per la Repubblica il 12 febbraio 2022.

«Mi usano come un condom per la protezione del Movimento». Tra le mille similitudini che aveva a disposizione, Beppe Grillo ha scelto quella che raffigura il M5S con un'immagine che neanche i suoi peggiori nemici si sono mai azzardati a usare. Il Grillo di una volta si sarebbe querelato da solo.

Mattia Feltri per la Stampa il 12 febbraio 2022.  

Beppe Grillo, che prometteva una rivoluzione stellare, la cancellazione dei partiti e delle leadership ovvero degli sfruttatori maledetti, realizzata attraverso la rete, strumento post-rousseauiano della democrazia diretta, con la conseguente abolizione dei parlamenti, i probi cittadini come costanti legislatori e detentori del potere per il bene del popolo, e tramite loro sarebbero state cancellate le abnormi ricchezze,

sconfitta la povertà, sbaragliata la disonestà, il mondo trasformato in un villaggio verde coi mulini a vento, una detonazione d'amore senza gas e petrolio, tutti a curarsi con erbe di campo coltivate da ex vampiri di Big Pharma, e aveva affidato questa rivoluzione, che in confronto Robespierre sembrava un impiegato dell'anagrafe, a un gruppo di senzatetto vagamente alfabetizzati, pressoché estratti a sorte e capaci - si è scoperto ieri - di scrivere una legge sul superbonus con un tale ingegno che i suddetti probi cittadini si sono rubati quattro miliardi di euro, di cui due e mezzo ormai irrecuperabili - due miliardi e mezzo di euro!

Che non basterebbero le tangenti di ottanta Psi per assommarli - ed è finito nottetempo con lapis, visiera e mezze maniche a cercare il comma da opporre a un tribunale di Napoli per tenere in piedi questa combriccola di titani, e soprattutto per salvarsi le tasche, dopo avere devastato di scemenze un Paese che quanto a scemenze se la cavava benissimo senza il suo definitivo contributo, ecco, Beppe Grillo ieri ha detto senza pentimenti e senza imbarazzi di sentirsi il condom dei cinque stelle. In quanto fondatore, la testa giusta al posto giusto.  

Giuseppe Conte, lo sfogo più duro contro Luigi Maio: "Sapeva, ma non ha fatto niente". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2022

Il M5S si aggrappa a una norma interna del 2018 per mettere al riparo Giuseppe Conte. Si tratta dell'atto che ammette alle votazioni online solo gli iscritti con almeno 6 mesi di anzianità. All'interno del Moviento però rimane un clima di diffidenza: perché il regolamento salta fuori solo ora? Le congetture dei contiani si dirigono verso Luigi Di Maio, già accusato di avere remato contro nel match Quirinale. "Qui il tema non è politico, è solo giudiziario. Dispiace per chi in maniera subdola avrebbe forse voluto sfruttare questo momento per riaprire fronti politici interni", si è sfogato Conte. "Nelle chat M5S circola da ieri una mail che, sostengono i contiani, inguaierebbe il ministro degli Esteri", rivela Repubblica.

In una mail, datata 8 novembre 2018, Di Maio chiede al comitato di Crimi di ratificare un principio: che alle votazioni "possano prendere parte gli iscritti con più di 6 mesi di anzianità". Crimi dà "parere favorevole". Le beghe giudiziarie "rischiano di compromettere i passaggi formali che ci portano verso le amministrative", spiega sempre Conte. Beppe Grillo si è definito "il condom a protezione del M5S. La leadership di Conte non è in discussione", ha anche ribadito.

I dissidi, dentro al M5S, covano, ma anche fuori dal Movimento, un ex come Alessandro Di Battista continua ad attaccare. Ha il dente avvelenato con Di Maio: «Un uomo di potere vuole portare il M5S al centro", Non risparmia neanche Conte: "Non trovo ragioni per tornare. Conte me lo ha chiesto? In un certo senso...". Insomma le acque, fuori e dentro il mondo grillino, sono molto agitate.

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.  

Che lo spettro di Rousseau agiti e divida le diverse anime dei Cinque Stelle lo si capisce quando Enrica Sabatini, una dei due soci dell'associazione milanese, pubblica su Instagram una foto romana proprio nel giorno degli incontri di Beppe Grillo nella capitale. 

Lo scatto manda in tilt i parlamentari: «Che ci fa qui?». Dietro alla domanda, si nasconde però il ritorno della guerra delle piattaforme. Rousseau contro Skyvote, il secondo atto. Una parte (importante) della partita che divide i legali di Beppe Grillo da quelli di Giuseppe Conte si gioca proprio nell'utilizzo di Rousseau.

Per uscire dall'impasse c'è chi ipotizza un ritorno (temporaneo) alla vecchia piattaforma. Un passaggio che anche i legali di Beppe Grillo reputano fondamentale per evitare di nuovo ricorsi (e cause che potrebbero bloccare il Movimento a ridosso delle prossime Politiche).

La frase-chiave, quella che secondo alcuni avvocati, inchioda i Cinque Stelle a richiedere i servizi di Davide Casaleggio è nell'articolo del vecchio statuto (tornato vigente) dedicato all'assemblea. «La verifica dell'abilitazione al voto dei votanti ed il conteggio dei voti sono effettuati in via automatica dal sistema informatico della Piattaforma Rousseau», si legge nel testo. 

Parole che i contiani invece sostengono si possano bypassare, sia per velocizzare l'iter (più è lungo più i fedelissimi dell'ex premier temono una guerra di logoramento al leader) sia per risparmiare una cifra importante. «Di sicuro Rousseau non si farà pagare meno di quanto il M5S dia a Skyvote», sostengono fonti vicine all'associazione milanese. Un ritorno comporterebbe cifre a cinque zeri.

E soprattutto, uno smacco politico per l'ala contiana sempre molto critica con Casaleggio. I manager di Skyvote, d'altronde, hanno ricordato in questi giorni la piena legittimità dei loro contratti e i Cinque Stelle potrebbero trovarsi a dover pagare due fornitori. Ma c'è un altro aspetto fondamentale che i Cinque Stelle dovranno risolvere prima di decidere il da farsi: il trattamento dei dati personali degli iscritti.

Sul tema è intervenuto il legale dei ricorrenti a Napoli, Lorenzo Borrè, che oggi presenterà una istanza al garante della privacy. Il legale ha detto all'Agi : «A questo punto si pone il problema del trattamento dei dati degli iscritti. Chi è il responsabile? Faremo un'istanza al Garante della privacy. Credo che la faranno anche gli esponenti del M5s, considerate pure le multe salate previste in questi casi». 

Proprio eventuali sanzioni suggeriscono prudenza nell'uso dei dati. C'è chi si chiede se Conte possa utilizzare i dati per la ratifica-lampo che aveva preannunciato qualche giorno fa senza incorrere lui o il titolare dei dati indicato dal garante della privacy in un conto salato. Ecco perché la vicenda dei dati si intreccia con quella delle piattaforme.

«Il titolare dovrà scegliere la via della prudenza», suggeriscono diverse fonti all'interno dei Cinque Stelle. La partita è ancora lunga e stavolta - per il bene del Movimento - le diverse anime dovranno seppellire vecchie ruggini e necessità di parte per trovare una soluzione ragionata che non diventi un boomerang nei prossimi mesi.

Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 febbraio 2022.  

Almeno iscriviti al M5s". Beppe Grillo prima di andarsene dal ristorante fulmina Giuseppe Conte. La battuta rivela anche un punto del reclamo contro lo statuto del M5s sub judice a Napoli. 

L'ingresso ufficiale di Conte nel Movimento è avvenuto nel luglio 2021: in quel periodo le iscrizioni erano state sospese (per permettere la migrazione degli iscritti da Rousseau a SkyVote). 

L'ex premier ottenne una deroga ad personam da Vito Crimi, eccezione che viene contestata. Alla battuta di Grillo Conte in imbarazzo risponde: "Sì sono in coda".

Scene dalla Pariolina, uno dei pochi ristoranti dove si può mangiare fino a tarda notte. E dove si sono dati appuntamento l'ex premier e il Garante grillino (con i rispettivi avvocati) per brindare all'intesa raggiunta: il M5s farà ricorso contro l'ordinanza del tribunale di Napoli chiedendo l'immediata istanza di revoca del provvedimento (l'avvocato Lorenzo Borrè che difende gli attivisti esclusi è già pronto a dar battaglia).

Federico Capurso per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.

La soluzione era sotto gli occhi di tutti, da sempre, ma Vito Crimi, l'ex capo politico reggente dei Cinque stelle, non se ne era accorto. Un documento, il regolamento del 2018, avrebbe reso possibile «la presentazione immediata di una istanza di revoca della sospensione cautelativa al tribunale di Napoli», fanno sapere gli avvocati a Beppe Grillo e Giuseppe Conte, che li ascoltano increduli, seduti nello studio del notaio Luca Amato.

L'ex premier è furioso. Crimi non aveva capito - fanno sapere fonti M5S - che con quel documento si sarebbe potuta evitare la sospensione cautelativa dello Statuto e il conseguente azzeramento dei vertici grillini. Insomma, probabilmente si sarebbe potuto evitare il caos. Anche Grillo è sconcertato. 

La prenderebbe con ironia, se non si fosse dovuto precipitare a Roma per trovare una soluzione a un groviglio che sembrava inestricabile. Tanto complicato da costringerlo persino a rivedere le liturgie che finora lo avevano sempre accompagnato nei suoi viaggi nella Capitale.

A partire dalla scelta del quartier generale dove incontrare i big del partito: non più l'hotel Forum, a due passi da Montecitorio, ma l'hotel Parco dei Principi, nel cuore di Roma Nord, dove la densità di studi notarili e di avvocati rendeva più semplice l'organizzazione di incontri che hanno poco a che fare con la politica e molto più con i tribunali. Il Garante ha voluto ascoltare soprattutto loro, gli avvocati, per trovare una soluzione lampo che potesse dare ossigeno ai Cinque stelle.

«Le delibere sono valide, alla luce del regolamento del 2018», gli hanno spiegato i legali del Movimento. Quel regolamento, nei loro ragionamenti, certifica la «piena regolarità» delle votazioni passate e si confida, quindi, che il giudice possa revocare la sospensione. Scartata, dunque, l'ipotesi di nominare un nuovo Comitato di garanzia (lo stesso di cui facevano parte Luigi Di Maio, Virginia Raggi e Roberto Fico), di far indire al Comitato non appena insediato un voto per lo statuto di Giuseppe Conte e, successivamente, un altro voto per la sua elezione a presidente del partito. 

Questa mossa - hanno avvertito i legali - avrebbe avuto un rischio e cioè quello, in vista delle sentenza del tribunale di Napoli prevista per il 1° marzo, di riconoscere di fatto le ragioni di chi aveva presentato ricorso. Un'ammissione di colpevolezza, quindi, prima ancora che ci fosse stata la sentenza. La strada di eleggere un comitato di Garanzia, però non è archiviata. È un'uscita di sicurezza sempre in piedi, se la richiesta di revoca della sospensione dovesse essere respinta.

Ma è una strada complicata, perché si dovrebbe tornare con ogni probabilità a bussare alla porta di Davide Casaleggio per chiedergli di usare Rousseau. Conte avrebbe preferito evitare lo smacco politico di un ritorno alla piattaforma di Casaleggio, «ma aggirare Rousseau porterebbe al rischio di un ulteriore ricorso», gli hanno detto gli avvocati. Messi in guardia - per assurdo - anche da Lorenzo Borrè, l'avvocato della parte avversa, quella dei ricorrenti di Napoli che hanno provocato il terremoto.

Non è però solo una questione politica e di forma, ma anche di soldi. Casaleggio avrebbe chiesto 30 mila euro per far votare il nuovo Comitato di garanzia sulla sua piattaforma. E sempre su Rousseau si sarebbe dovuto votare il nuovo statuto. La cifra, dunque, sarebbe potuta salire a 60mila euro. Non solo. Il figlio del cofondatore M5S chiedeva anche che venisse saldato un arretrato. 

Riguarda una votazione che Grillo aveva indetto lo scorso luglio, durante lo scontro con Conte per la leadership, quando con un post sul blog annunciò di voler dare vita a un Direttorio di 5 membri a cui affidare la guida del partito. Poi la votazione non si tenne più, perché i pontieri riuscirono a ricucire lo strappo con Conte, ma Casaleggio ora rivendica il lavoro preparatorio fatto e mai pagato.

La trasferta romana di Grillo è servita però anche a riannodare i fili lacerati del partito. Ha visto Luigi Di Maio e i due hanno convenuto sulla necessità di ritrovare una «compattezza interna» e di fare squadra con Conte, sempre che ci sia una disponibilità anche da parte sua. Grillo però chiede anche di non logorare il leader e di remare tutti nella stessa direzione. 

Lo ha fatto presente a Di Maio come anche alla capogruppo in Senato Mariolina Castellone e a Virginia Raggi, incontrata più tardi. Una processione silenziosa, uno alla volta alla corte del fondatore, come chiesto da Roberto Fico, assente per un'influenza. «Non vediamoci tutti insieme solo per fare una foto da pubblicare sui social», è il ragionamento espresso dal presidente della Camera a Grillo, «altrimenti non risolveremo nessun problema».-

Dalla bacheca Facebook di Lorenzo Borrè il 13 febbraio 2022.

Vito Claudio Crimi, con le sue dichiarazioni, si conferma il più formidabile, involontario alleato dei ricorrenti. 

Già in altri procedimenti, ricordo tra gli ultimi quello relativo all'espulsione di Carla Cruccu, le sue "dichiarazioni, azioni, omissioni" sono state la chiave di volta dei successi delle impugnazioni. 

Confido quindi nel trend.

 Ma al di là della consistenza di queste dichiarazioni, che saranno esaminate in contradditorio in Tribunale allorché si terrà l'udienza di discussione dell'istanza di revoca (ad oggi non fissata), presenteremo un interpello al Garante della Privacy (gli esperti della materia che mi leggono comprenderanno al volo l'oggetto dell'interpello).

Scritto questo, mi chiudo in silenzio stampa, accogliendo - da iscritto al m5s - l'invito del Garante Beppe Grullo (rivolto erga omnes) a cessare con le esternazioni sul caso. Almeno fino al giorno della prossima udienza. 

Lorenzo De Cicco per la Repubblica il 13 febbraio 2022.

«Neanche mi ricordo di tutti i regolamenti che abbiamo approvato nel M5S, ne facevamo tanti ». Vito Crimi è tornato al centro della scena stellata. Perché dall'archivio mail dell'ex viceministro dell'Interno, capo politico ad interim del Movimento nell'interregno tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, è spuntato l'atto che può mettere al riparo dalle beghe legali la leadership dell'ex premier, sospesa dall'ormai famosa ordinanza del Tribunale di Napoli. 

I giudici contestano un passaggio della votazione che ha incoronato Conte presidente del M5S, ad agosto del 2021: a quella tornata di clic sono stati ammessi solo gli iscritti con più di 6 mesi di anzianità. Non tutti gli altri. La sforbiciata alla platea elettorale, sostiene il presidente sospeso con i suoi avvocati, è perfettamente legittima, perché prevista da un regolamento approvato dal M5S nel 2018. Averlo saputo prima, ha commentato con i suoi, si sarebbero potuti evitare molti guai.

«Quel regolamento era noto a tanti attivisti», racconta Crimi. 

Conte lo conosceva?

«No, non glielo avevo detto. Era una prassi talmente consolidata, che lo davamo tutti un po' per scontato. Mi sono dimenticato di farlo presente a Giuseppe, mi sembrava superfluo». Ai magistrati la "prassi" non è bastata. Serve una carta. Per questo Conte, chiedendo la revoca della sospensione, ha allegato il regolamento del 2018. «Si è scatenata una caccia alle streghe su questo documento, mi pare tanto rumore per nulla». 

Ma è il documento chiave, a cui si aggrappa Conte per tornare leader.

«Infatti sono rimasto basito quando ho visto l'ordinanza. A quel punto ho detto a Giuseppe: ora mi metto a cercarlo, ho fatto il ripristino del backup, ho dovuto richiamare il mio ex segretario che lavorava con me quando ero sottosegretario all'Editoria, all'epoca dei fatti. Mi sono messo a spulciare migliaia di mail. L'indirizzo del comitato di garanzia era aperto a tutti gli iscritti, ogni giorno arrivavano lettere di ogni tipo, i reclami... Non mi ricordavo nemmeno se il regolamento fosse del 2018 o del 2019. Ho riscoperto alcuni regolamenti di cui nemmeno ricordavo l'esistenza».

Col regolamento del 2018 com' è andata?

«Di Maio ci mandò una mail in cui chiedeva di fissare questa regola: che le convocazioni online degli iscritti fossero aperte a chi avesse più di 6 mesi di anzianità. Ho telefonato ai colleghi del comitato di Garanzia che presiedevo, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri, e ho risposto: diamo parere favorevole». 

 Il regolamento è una mail, dopo una telefonata?

«No, c'è stato anche un verbale. Ma stiamo parlando di legalese, davanti a un fatto politico inattaccabile: il riconoscimento plebiscitario degli iscritti del M5S verso Conte. Nessuno può mettere in dubbio che sia il punto di riferimento di un Movimento che si sta rinnovando». 

Roberto Fico ieri ha attaccato gli attivisti che hanno presentato il ricorso a Napoli. Sostiene che avendo perso la battaglia politica, ora si divertano con le cause in tribunale. Condivide?

«Mi sembra scontato che sia così. E mi chiedo una cosa: se per caso, e non me lo auguro, seguissimo le regole che questi attivisti considerano le uniche corrette, poi loro che farebbero? Rimarrebbero nel Movimento con Conte leader? Tanto rivincerebbe lui. La verità è che vogliono solo trasferire nelle aule giudiziarie una battaglia politica persa». Si dice che Conte, parlando con i suoi, se la sia presa con chi «in maniera subdola avrebbe forse voluto sfruttare questo momento per riaprire fronti politici interni, quando qui di politico non c'è niente». 

Nel M5S c'è una guerra tra bande?

«Dico questo: dato che qualcuno sta provando a portare lo scontro politico a livello giudiziario, tutti quanti, al di là delle diversità di opinioni, dobbiamo essere compatti. Non c'è nulla da strumentalizzare. C'è solo un attacco a Conte e non dobbiamo prestare il fianco a chi ci vuole male». 

 Da liberoquotidiano.it il 13 febbraio 2022.

 “Neanche mi ricordo di tutti i regolamenti che abbiamo approvato nel M5S, ne facevamo tanti…”. Lo ha detto, in un’intervista al quotidiano Repubblica, Vito Crimi, ex viceministro dell’Interno e capo politico ad interim del Movimento Cinque Stelle. “Quel regolamento era noto a tanti attivisti” racconta Crimi. Conte lo conosceva? “No, non glielo avevo detto. 

Era una prassi talmente consolidata, che lo davamo tutti un po’ per scontato. Mi sono dimenticato di farlo presente a Giuseppe, mi sembrava superfluo”. Ai magistrati la “prassi” non è bastata. Serve una carta. Per questo Conte, chiedendo la revoca della sospensione, ha allegato il regolamento del 2018. “Si è scatenata una caccia alle streghe su questo documento, mi pare tanto rumore per nulla”.

Ma è il documento chiave, a cui si aggrappa Conte per tornare leader. “Infatti sono rimasto basito quando ho visto l’ordinanza. A quel punto ho detto a Giuseppe: ora mi metto a cercarlo, ho fatto il ripristino del backup, ho dovuto richiamare il mio ex segretario che lavorava con me quando ero sottosegretario all’Editoria, all’epoca dei fatti. Mi sono messo a spulciare migliaia di mail. L’indirizzo del comitato di garanzia era aperto a tutti gli iscritti, ogni giorno arrivavano lettere di ogni tipo, i reclami… Non mi ricordavo nemmeno se il regolamento fosse del 2018 o del 2019. Ho riscoperto alcuni regolamenti di cui nemmeno ricordavo l’esistenza…”.

Emanuele Buzzi per il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.

I vertici Cinque Stelle fanno la loro contromossa: hanno presentato a Napoli istanza di revoca contro la sospensiva che ha decapitato il Movimento, bloccando la validità del nuovo statuto e la successiva elezione di Giuseppe Conte a presidente. 

Dietro la mossa - sostengono i pentastellati - c'è un piccolo giallo: il ritrovamento di uno scambio di mail del 2018 che proverebbe l'esistenza di un regolamento atto a modificare le norme sui partecipanti all'assemblea (norme che così sarebbero in linea con il voto effettuato la scorsa estate). I fatti risalgono all'8 novembre 2018.

Sono le 10.05 e l'allora capo politico M5S Luigi Di Maio, in una missiva indirizzata al Comitato di garanzia - racconta l'Adnkronos - scrive: «In qualità di capo politico, propongo che lo stesso criterio per l'accesso al voto degli iscritti applicato alle votazioni e alle consultazioni su Rousseau, venga esteso anche per le votazioni che hanno come oggetto la convocazione dell'Assemblea degli iscritti». Il leader propone: «Potranno quindi prendere parte a tutte le future convocazioni dell'Assemblea, gli iscritti da almeno sei mesi con documento certificato. 

Fatto salvo che, come già da voi adottato in data 20 luglio 2018, tutti gli iscritti fino al 22 giugno 2018 (sei mesi dalla costituzione dell'Associazione MoVimento 5 Stelle) potranno votare per le consultazioni che si svolgeranno successivamente al 22 giugno 2018 anche se dalla loro iscrizione non sono trascorsi sei mesi».

Crimi, all'epoca membro anziano del comitato di garanzia, replica esprimendo il «parere favorevole» dell'organo. Lo scambio è stato «dimenticato» e poi ritrovato dall'ex reggente. Crimi sostiene che si tratti di una norma «non solo nota, ma applicata a tutte le Assemblee da 4 anni, ininterrottamente, senza che nessuno abbia mai messo in dubbio che prima di applicare tale restrizione non avessimo fatto i passaggi formali». Lorenzo Borré, legale degli attivisti che hanno promosso l'azione sullo statuto contro il Movimento, vede almeno tre motivi per i quali il ritrovamento a suo avviso non è dirimente.

«In primo luogo uno scambio di mail privato non è un regolamento», puntualizza al Corriere Borré. «In secondo luogo, la questione dell'inesistenza di tale regolamento è già stata processualmente risolta». «Anche se non lo fosse - conclude l'avvocato - sarebbe inammissibile ai fini della revoca in quanto si tratta di un fatto pre-esistente a conoscenza dell'associazione mentre la revoca può essere richiesta solo su circostanze e fatti sopravvenuti di cui la parte istante non era a conoscenza prima dell'emanazione dell'ordinanza cautelare». 

Sui tempi di una decisione sulla revoca c'è incertezza: nel Movimento c'è chi spera possa essere sufficiente una settimana per decidere, ma c'è anche chi ricorda che c'è già un'udienza fissata per inizio marzo e che, quindi, potrebbe essere quella la data per conoscere l'esito dell'istanza. Per una questione che è ancora irrisolta, c'è un'altra che pare essersi chiarita. 

Dopo la battuta - raccolta dal Foglio - con Grillo che chiede a Conte di iscriversi al Movimento Cinque Stelle, arrivano i dubbi e la replica dei contiani. L'ex premier è iscritto al M5S? «Sì», replicano i vertici, chiarendo che l'uscita di Beppe Grillo era «solo una battuta». Intanto rompe il silenzio Roberto Fico: «La situazione è molto più semplice di quella che voi descrivete.

La questione è assolutamente burocratica, non politica. Quindi faremo i nostri passi che abbiamo già annunciato, sperando che vadano a buon fine. Conte è il leader del M5S, leader riconosciuto e stravotato: non c'è nessuna questione politica. Conte è ben saldo - ha detto il presidente della Camera parlando con i cronisti al salone della nautica NauticSud, a Napoli -. Tanti ex attivisti, invece di dire abbiamo perso la battaglia politicamente, si divertono tramite un avvocato fare cause al Movimento, ma noi non ci arrenderemo mai». 

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.  

«Abbiamo fatto una riunione antibiotica per ripristinare il sistema immunitario del Movimento, quindi state tranquilli». Sono le dieci e mezza passate quando Beppe Grillo si concede a telecamere e fotografi a braccetto di Giuseppe Conte. È l'immagine plastica - sostengono i contiani - di un asse forte tra il garante e il presidente dei Cinque Stelle.

Dopo centocinquanta minuti di discussione c'è l'accordo su come tentare di dipanare la matassa politico-legale in cui si trovano i Cinque Stelle dopo l'ordinanza di Napoli. In realtà, a Roma, come da copione, il garante si riprende almeno dal punto di vista dell'immagine le redini del Movimento. 

Grillo tenta di stare lontano dalle luci dei riflettori - opta per un altro hotel, il Parco dei Principi, al posto del consueto Forum e, in seguito, si sposta negli uffici del notaio Luca Amato - ma mette in fila una serie di incontri con i big Cinque Stelle per sondare umori e prospettive. L'unico assente è Roberto Fico, bloccato da un'influenza. Il fondatore dei Cinque Stelle vede anzitutto Luigi Di Maio, al centro delle tensioni con Giuseppe Conte dopo le votazioni per il Quirinale.

Grillo sa che l'unità del Movimento è centrale per la sua tenuta sulla lunga distanza e ribadisce che è fondamentale rafforzare l'intesa tra l'ex premier e il ministro, sottolineando anche che Di Maio ha un ruolo fondamentale per i Cinque Stelle. Il garante dispensa così un assist a entrambi per la mediazione e smorza le voci delle sirene centriste verso Di Maio.

L'incontro tra i primi due capi politici della storia M5S dura quasi due ore. Il titolare della Farnesina mette in chiaro che debba prevalere nel Movimento il primato della politica, che bisogna ripartire dai territori e dai temi e che non è il momento delle divisioni. «Ora tutti compatti», dice Di Maio. A seguire Grillo cerca di tastare il terreno dei gruppi parlamentari: vuole sondare equilibri e umori.

Trascorre tre quarti d'ora con i capigruppo, Davide Crippa e Mariolina Castellone, e altrettanti minuti con l'ex sindaca di Roma, Virginia Raggi, da sempre molto vicina al garante, che preferisce non rilasciare dichiarazioni al termine del faccia a faccia. Durante gli incontri si diffonde la voce di una nuova accelerazione dei contiani, che preferirebbero un passo immediato o quasi sul nuovo statuto per poter incoronare di nuovo Conte presidente.

I legali del garante e dell'ex premier si stanno sentendo da giorni per trovare una exit strategy. Nelle ore precedenti al summit sembrava esserci stato un avvicinamento tra le parti sulla necessità di individuare in primis un nuovo comitato di garanzia, che possa poi (grazie ai poteri che ha secondo il vecchio statuto) far partire l'iter per ristabilire leader e nuove norme del Movimento. Con queste premesse si arriva all'incontro serale tra Grillo e Conte (con legali al seguito).

Un vertice fiume che si conclude con Grillo che asseconda, almeno in questa prima fase, le istanze di Conte. E i Cinque Stelle che parlano di una intesa tra i legali: «Le delibere sono valide alla luce del regolamento del 2018: si chiederà immediatamente al tribunale di Napoli la revoca (della sospensiva delle cariche, ndr ) sulla base di questo documento che certifica la piena regolarità, offrendo al giudice della causa la possibilità di prendere atto della validità e quindi efficacia delle delibere contestate».

E concludono: «Si confida che gli elementi emersi consentano di poter ottenere una tempestiva revoca». Il passaggio, però, trova già le prime contromosse dell'avvocato Lorenzo Borré, che ha ottenuto il congelamento dei vertici M5S. «La revoca può essere richiesta solo su circostanze e fatti sopravvenuti. La questione del regolamento "ritrovato" non è un fatto sopravvenuto. 

Né è comunque rilevante perché l'ordinanza è stata emessa anche sul presupposto della mancanza del quorum (senza considerare che l'ordinanza non ha esaminato gli altri motivi di impugnazione perché assorbiti da quello relativo al mancato raggiungimento del quorum)». Poi Borré, sottolineando come una eventuale revoca sia comunque soggetta a reclamo, precisa: «L'esistenza di un eventuale regolamento approvato su richiesta del capo politico non è idonea a legittimare l'esclusione dal voto adottata nella vigenza di uno statuto che consente tale esclusione solo a fronte di un regolamento adottato su richiesta del comitato direttivo».

Sabino Cassese per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.

In un magistrale saggio del 1956, uno dei maestri del diritto civile italiano, Pietro Rescigno, osservava che i partiti, «pur vivendo ai confini del diritto privato, non vogliono lasciare gli schemi del diritto privato» e perciò la richiesta dei partiti «si traduce in un'esaltazione del diritto privato come ultima garanzia di libertà». 

A più di sessant' anni, la persistente forza del diritto privato dei partiti è dimostrata dalle vicende giudiziarie che coinvolgono il Movimento Cinque Stelle e il Partito democratico, il primo dinanzi al Tribunale di Napoli, VII sezione civile, il secondo dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze e alla Corte di Cassazione, VI sezione penale. I giudici napoletani hanno stabilito che una modifica statutaria dell'associazione chiamata M5S, che escludeva dal voto gli iscritti degli ultimi sei mesi, poteva essere introdotta solo con regolamento adottato dal comitato di garanzia, su proposta del comitato direttivo.

Hanno quindi accolto, a norma del codice civile, la richiesta di alcuni iscritti, sospendendo in via cautelare una deliberazione dell'agosto scorso, perché violava la norma statutaria allora vigente, e di conseguenza hanno sospeso la nomina del presidente. Insomma, i giudici hanno deciso che i partiti, essendo associazioni regolate dal diritto civile, debbono rispettare, nell'interesse dei propri iscritti, le norme che essi stessi si sono date e che sono scritte nei loro statuti. 

Pare che, dopo la decisione del Tribunale di Napoli del 3 febbraio scorso, si sia scoperta l'esistenza di un regolamento del 2018 che avrebbe consentito l'esclusione dei nuovi iscritti dal voto. Ma la scoperta è un'ulteriore prova della anomia del M5S. La vicenda fiorentina ha caratteristiche diverse, perché riguarda i presupposti civilistici su cui si innesta una norma penalistica.

La Procura della Repubblica di Firenze ha ritenuto che il divieto di finanziamento ai partiti o a loro articolazioni politico-organizzative, regolato da leggi del 1974, 1981, 2013 e 2019, si possa applicare anche a fondazioni non previste dallo statuto dei partiti, né istituite o controllate dai partiti (su questa base, l'1 febbraio scorso ha chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, di persone allora esponenti del Partito democratico e della fondazione Open).

La Corte di Cassazione, invece, in particolare con la sentenza del 15 settembre 2020 della VI sezione penale, ha stabilito che bisogna partire dall'esame dello statuto del partito e dei suoi regolamenti, per decidere se la fondazione è uno strumento nelle mani di un partito e accertare se ha una propria individualità e operatività o è un mero tramite di finanziamento del partito.

Da queste due vicende possono trarsi numerosi insegnamenti. Primo: i partiti sono un ponte tra popolo e Stato, sono il veicolo della rappresentanza politica. Sono, dunque, uno strumento essenziale della democrazia. Sarebbe stato opportuno che, come proposto fin dai tempi della Assemblea costituente, fossero disciplinati da apposite norme, ovviamente rispettose della loro natura associativa, come fu disposto per i sindacati (i quali peraltro hanno aggirato la norma costituzionale). 

In assenza di disposizioni «ad hoc» (quelle del 2012 contengono solo una rudimentale regolazione che consente di accedere al finanziamento pubblico indiretto), debbono rispettare la sottile trama del codice civile sulle associazioni e, principalmente, i propri statuti e i propri regolamenti (i partiti non possono darsi norme e poi non rispettarle).

È, quindi, sbagliato affermare che il codice civile non può regolare i partiti, perché nella vita associativa non può esistere uno spazio vuoto di regole giuridiche. Secondo: se i partiti sono regolati dal codice civile, vi deve essere una autorità che ne faccia rispettare le disposizioni, su richiesta degli iscritti, e questa autorità è il giudice. È quindi sbagliato lamentare una interferenza dei giudici nella vita dei partiti ed affermare che non sono i giudici che possono decidere chi dirige un partito.

Terzo: se i partiti sono associazioni che appartengono alla società civile, sottoposte all'imperio del codice civile, gli stessi giudici ne debbono rispettare le regole, non possono ritenere due soggetti, una fondazione e una associazione, l'uno articolazione dell'altro, senza che questo legame trovi un fondamento nello statuto di ambedue i soggetti o in un rapporto di partecipazione o di controllo. Il 29 gennaio scorso, su questo giornale, un editoriale del suo direttore Luciano Fontana, era intitolato «le macerie dei partiti».

Esprimeva una giusta preoccupazione sulla loro condotta in occasione della elezione presidenziale e sulla loro incapacità di dare una guida al Paese e di indicare una prospettiva ai suoi cittadini. Aggiungo che i partiti, nel corso della storia repubblicana, sono andati perdendo iscritti, tanto da essersi ora ridotti al lumicino, se comparati a quello che erano nei primi anni di democrazia. 

 Inoltre, perdono progressivamente votanti, non riescono a formulare una offerta politica che attragga consensi, hanno una vita interna ricca di tensioni ma priva di dibattiti politici, sono prigionieri di una grave contraddizione, quella di essere lo strumento della democrazia, ma di non essere essi stessi democratici al loro interno. Uno dei nostri maggiori costituzionalisti, Vezio Crisafulli, si chiedeva, nel 1967, se dietro la partitocrazia si celassero i primi germi di un processo di involuzione e di decadenza dei partiti. Più di mezzo secolo dopo, dobbiamo riconoscere la sagacia di quella osservazione.

·        Ipocriti.

Poltronari - La casta a 5 stelle. Giuseppi piazza i suoi a spese nostre. Michel Dessì il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Chiusa una porta si apre un portone. E se il portone è stretto c’è sempre la finestra. Quella al primo piano di via di Campo Marzio, sede del Movimento 5 Stelle. Ed è proprio dalla finestra che sono (ri)entrati nel Palazzo Paola Taverna e Vito Crimi. Due veri e propri poltronari. Incollati alle sedie del potere. Alle lussuose e comode poltrone della politica. Pagate con i nostri soldi. Come poter rinunciare al gusto forte e deciso del caffè de la buvette? Impossibile. Anche per loro, per i duri e puri del movimento. Per i grillini della prima ora che, abbandonato lo scranno a causa del vincolo del secondo mandato, hanno occupato un bel posto nel partito. Un posto da 70mila euro l’anno a spese dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle, ovvero pagato da noi contribuenti.

"Sono solo una lavoratrice come tutti" ci dice Paola Taverna che intercettiamo a Roma, in via degli Uffici del Vicario. Una via popolata da politici che collega il suo nuovo ufficio fino a Palazzo Montecitorio.

Guai a parlare di privilegi e di casta. È solo una ricompensa per il lavoro svolto in dieci anni per il Movimento 5 Stelle. Un movimento tramutato in partito che, non una, non due ma più e più volte ha cambiato pelle. Ha cambiato anche l’anima. Vendendola per quattro spicci. Dove sono finite le battaglie contro la casta? Sicuramente nel cassetto del dimenticatoio. Direte voi: ma è una cosa comune tra tutti i partiti. Vero! Ma gli altri non ne hanno mai fatto mistero né, tantomeno, bandiera delle proprie battaglie.

Farebbero bene la signora Paola Taverna e il signor Vito Crimi a riconoscere il "cortocircuito" e ad ammettere: "Sì, è vero! Siamo parte della casta." Un po’ alla Totò "Io sono io e voi non siete un ca**o!" Eppure preferiscono nascondersi e fuggire alle domande. Certo, non è un vitalizio ma comunque è un impiego. Una sorta di bonus. Un gettone d’oro che Giuseppi, leader massimo, ha voluto riconoscere a chi, in questi lunghi anni, si è arrampicato sugli scranni urlando (come fosse un mercato) "vergogna".

M5S, per Crimi e Taverna “contratti da 70 mila euro l’anno come collaboratori parlamentari”. Con i soldi pubblici! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Novembre 2022

Hanno passato una carriera politica all'insegna della lotta contro la casta, denunciando a squarciagola ogni singolo centesimo fuori posto di chi occupava la tanto disdegnata "poltrona". Ma nel giro di pochi mesi lo spirito guerriero e le battaglie di bandiera del M5s sono finite nel cassetto.

L’ex reggente del Movimento e l’ex vicepresidente del Senato, esclusi dalla regola del doppio mandato, starebbero per essere assunti dai gruppi 5 Stelle di Camera e Senato a 3 mila euro al mese, con i fondi pubblici assegnati ai gruppi parlamentari. Per i due 5 Stelle si prevede un contratto da collaboratori parlamentari, “come dipendenti del gruppo grillino. Un imponibile da 70 mila euro l’anno. Tremila euro netti al mese”, con le firme in arrivo per l’incarico entro fine mese. Il Movimento starebbe preparando anche un’altra decina di contratti d’assunzione da parte dei singoli parlamentari. Eppure hanno passato una carriera politica all’insegna della lotta contro la casta, denunciando a squarciagola ogni singolo centesimo fuori posto di chi occupava la tanto disdegnata “poltrona”. Ma nel giro di pochi mesi lo spirito guerriero e le battaglie di bandiera del M5s sono finite nel cassetto.

La Taverna “premiata” da Conte con 3mila euro (pubblici) al mese

C’erano una volta gli strali della Taverna contro la casta, quella che voleva intascarsi i vitalizi, mentre lei no, “perché nun so’ politica”, come da memorabile concione nella borgata romana di Tor Sapienza. Era il 2014, un’era politica fa. “Avrò 70mila euro dal mio gruppo? Ma io non ne so nulla, sono una cittadina normale che la domenica fa altro, e comunque non sono stati determinati i contratti…“, ha detto all’AdnKronos Paola Taverna commentando la notizia, senza spiegare di quale altro reddito vivrebbe ora che non è più parlamentare.

Rocco Casalino, portavoce di Giuseppe Conte, mantenuto con i soldi dei contribuenti

Silenzio invece dei vertici del M5S sul contratto a Rocco Casalino sinora “mantenuto” dei gruppi parlamentari. Il portavoce di Conte una volta lasciato palazzo Chigi, aveva ottenuto da “Giuseppi” di essere assunto dai gruppi parlamentari (pagato con soldi del contribuente) per consulenze in fatto di comunicazione televisiva, considerato che il contratto dell’esperto di comunicazione, scaduto a luglio scorso, non era stato rinnovato. “Con la presente Le comunichiamo che il giorno 15 luglio 2022 il Suo contratto scade e non è più richiesta alcuna prestazione da parte Sua“. Firmato: Gruppo Movimento 5 Stelle Camera. Ma adesso il gruppo è controllato dai “contiani” ed il rinnovo è garantito. La famosa lotta anti-casta s’è persa per strada.

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 14 novembre 2022.

Uno non vale uno, a questo giro. Sfogo di un dipendente M5S lasciato a casa di fresco: «Ci hanno detto che stavolta non potevano rinnovarci il contratto, perché non c'erano abbastanza fondi. E invece...». Invece il Movimento ha deciso di assumere due ex senatori, Paola Taverna e Vito Crimi, 140mila euro l'anno in due, per collaborare con i gruppi grillini di Camera e Senato. Venti dipendenti, alcuni storici, che hanno lavorato per i 5 Stelle dalla prima legislatura del 2013, sono stati lasciati a spasso. 

Niente contratto, gli è stato detto: ci dispiace, gli eletti sono calati, il budget è ridotto e non c'è più posto per tutti. La protesta naturalmente monta nelle vecchie chat dei collaboratori grillini. Soprattutto adesso che Repubblica ha rivelato come per i due ex parlamentari, non ricandidati per il tetto del doppio mandato, sono pronti contratti a 5 stelle, da 70mila euro l'anno ciascuno. 

Proprio per un incarico di diretta collaborazione con i gruppi parlamentari, soldi dei contribuenti dunque. Un importo, quello che intascheranno Taverna e Crimi, con cui si sarebbero potuti rinnovare i contratti di almeno 3-4 collaboratori. Ma ai piani alti del M5S hanno deciso di premiare gli ex senatori, a danno dei dipendenti semplici. 

È vero che il Movimento nella passata legislatura, dopo la sbornia elettorale del 2018, annoverava oltre 300 parlamentari - dimezzati anche a causa della scissione di Luigi Di Maio - mentre oggi sono solo 80 e quindi la riduzione dello staff era nell'aria. Ma il fatto che i tagli siano stati più sanguinosi per dare un salvagente, molto ben remunerato, a due ex parlamentari crea malumori e frustrazioni.

«Non mi hanno confermato, nonostante io abbia sempre raggiunto tutti gli obbiettivi, dopo aver partecipato a tutte le campagne elettorali degli ultimi anni», racconta uno degli esclusi, chiedendo l'anonimato. Il motivo? «Ci hanno detto che non c'erano abbastanza fondi». 

Tra i sacrificati, spuntano nomi noti nel sottobosco degli addetti ai lavori 5S. Per esempio lo storico fotografo e videomaker del Movimento, assunto dai tempi di Gianroberto Casaleggio, Nicola Virzì: «In questi ultimi 9 anni e mezzo - ha scritto su Facebook nel post d'addio - ho avuto l'onore di lavorare nella comunicazione del Movimento, prima al Senato poi alla Camera dei deputati, ho fatto un milione di foto e centinaia di video, ho percorso non so quanti km in giro per il Paese». Ma «dopo 15 anni la mia avventura finisce qui».

Luca Sablone per ilgiornale.it il 13 novembre 2022.

Hanno passato una carriera politica all'insegna della lotta contro la casta, denunciando a squarciagola ogni singolo centesimo fuori posto di chi occupava la tanto disdegnata "poltrona". Ma nel giro di pochi mesi lo spirito guerriero e le battaglie di bandiera sono finite nel cassetto. Vuoi per opportunismo politico, vuoi per circostanze mutate nel tempo. Sta di fatto che di quel Movimento 5 Stelle non c'è più ombra. Tanto che Giuseppe Conte starebbe pensando a una strategia per "aggirare" le assenze pesanti dovute al vincolo del doppio mandato e permettere ad alcuni "trombati" di trovare ancora spazio nel palazzo nonostante non siano stati eletti. 

Taverna e Crimi tornano a Palazzo?

A creare una emorragia all'interno del M5S è stato il combinato disposto della riduzione del numero dei parlamenti e il limite dei due mandati che ha costretto molti big a restare fuori dalla corsa per le ultime elezioni politiche. Prima del ritorno alle urne si è tenuta una discussione molto animata all'interno della galassia grillina, ma alla fine è stato scelto di non modificare uno degli ultimi pilastri storici rimasti ancora intatti. 

Di conseguenza più di qualcuno non ha potuto proseguire la propria esperienza in politica, anche se una fronda aveva paventato l'idea di concedere una deroga a pochi. Ma questo sarebbe stato visto come un vantaggio ai "figli di serie A" contro i "figli di serie B". Polemiche sotterrate? Tutt'altro. Un'accusa del genere è pronta a essere rivangata perché Paola Taverna e Vito Crimi potrebbero rientrare nel palazzo. Questa volta, però, non in veste di politici eletti dagli italiani.

A riportare l'indiscrezione è La Repubblica, secondo cui per entrambi sarebbe in arrivo "un contratto di tutto rispetto" dal valore di circa "70mila euro l'anno" con il ruolo di collaboratori dei gruppi parlamentari. Il quotidiano ha riferito che tutti e due dovrebbero essere assunti, uno alla Camera e l'altra al Senato, come dipendenti del gruppo grillino con un "imponibile da poco meno di 70mila euro l'anno". 

Al momento non ci sono conferme pubbliche in via ufficiale, ma a microfoni spenti la pratica viene definita addirittura "in lavorazione". La firma potrebbe arrivare entro la fine del mese. Dal Movimento 5 Stelle tengono a sottolineare che si tratta dei due "più meritevoli, i più esperti". Saranno gli unici a poter intraprendere il sentiero del ritorno? Solo il tempo fornirà la risposta. Di certo gli altri dovranno aspettare, almeno per il momento.

La lotta anti-casta s'è persa

La notizia, qualora dovesse essere confermata, non sorprenderebbe affatto. Era stato lo stesso Giuseppe Conte ad assicurare che, in mancanza di una deroga al secondo mandato, si sarebbero valutate altre strade: "A questo inconveniente ovvieremo trovando le forme e i modi per valorizzare il patrimonio di competenze ed esperienze dei portavoce che durante questa legislatura hanno contribuito a fare del Movimento una vera, notevole forza riformatrice".

Ecco perché si starebbe discutendo di quali ruoli assegnare agli ex. Professori della scuola di formazione del Movimento, cariche interne al partito o collaboratori dei gruppi? Certo, non ci sarebbe nulla di malvagio. È ovviamente lecito che il M5S pensi di "riservare" dei posti a personalità politiche che ritiene adeguate e coerenti al nuovo corso. Ma annotiamo che la famosa lotta anti-casta s'è persa per strada.

Tutti contro tutti: i “trombati” grillini si contendono 12 posti (a spese dello Stato). Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Ottobre 2022 

Sono 49 gli ormai ex deputati "stoppati" dal vincolo del doppio mandato, altri si sono candidati alle ultime elezioni, ma non sono stati eletti. Sono molti i "trombati" grillini a ricoprire anche delle posizioni all'interno del partito e sono in corsa per essere nominati come referenti provinciali, anche se in questo caso si tratta di incarichi a titolo gratuito.

Per una dozzina di grillini rimasti fuori dal Parlamento è pronto un lavoro ( e sopratutto uno stipendio pubblico) negli staff dei gruppi del M5S di Camera e Senato. “D’altronde lo ha detto anche Grillo quando ha confermato la regola dei due mandati, l’esperienza di chi può essere utile non deve essere dispersa“, si giustifica con i giornalisti un ex deputato pentastellato che vuole restare anonimo. In questi giorni si susseguono gli incontri riservati tra i vertici del Movimento Cinque Stelle in pectore (e cioè rieletti) e gli ex parlamentari rimasti senza poltrona per la norma interna dello stop dopo il secondo mandato. Sono soltanto 49 gli ormai ex deputati “stoppati” dal vincolo del doppio mandato, altri si sono candidati alle ultime elezioni, ma non sono stati eletti. Sono molti i “trombati” grillini a ricoprire anche delle posizioni all’interno del partito e sono in corsa per essere nominati come referenti provinciali, anche se in questo caso si tratta di incarichi a titolo gratuito. 

Secondo i piani di Giuseppe Conte chi verrà “risarcito” con un nuovo lavoro, verrà ricollocato negli uffici dei gruppi parlamentari con stipendi pagati dai sodi pubblici stanziati dalla Camera e Senato. Secondo quanto trapela, gli incarichi disponibili tra Montecitorio e Palazzo Madama sono circa 12, soprattutto negli uffici legislativi e nello staff della comunicazione “governato” da Rocco Casalino. I nomi in corsa per dare una mano ai neo-eletti sono sempre gli stessi. Dai “big” Paola Taverna, Roberto Fico, Vito Crimi, Fabiana Dadone ad altri ex parlamentari rodati e di fede “contiana” come l’ex tesoriere del gruppo alla Camera Claudio Cominardi, Laura Bottici, l’ex vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni e l’ex sottosegretario Carlo Sibilia. 

L’ex “reggente” del M5S Crimi, ad esempio, dovrebbe riciclarsi nel legislativo, dato che è considerato un esperto di burocrazia parlamentare, regolamenti e scartoffie varie. Porte sbarrate per l’ex ministro Danilo Toninelli, che si era allontanato da “Giuseppi” Conte, e per un altro big come il già Guardasigilli Alfonso Bonafede, che ormai sembra intenzionato a ripiegare a tempo pieno alla guida del suo studio legale a Firenze. 

Chi non ha un lavoro verrebbe assunto dai Gruppi parlamentari del M5S, mentre chi svolge un’altra professione potrebbe invece rientrare in squadra con un contratto di collaborazione o consulenza. Il ricollocamento degli esclusi, quasi sicuramente, sarà a carico dei gruppi (quindi soldi pubblici), non del partito. “Calcolavamo di eleggere 40 parlamentari, ne abbiamo eletti 80, le cose sono andate meglio del previsto, e poi ogni parlamentare porta in dote al gruppo un terzo in più rispetto a prima, con il taglio dei parlamentari”, evidenzia un altro grillino non rieletto. Ma ci sono anche degli indecisi. “Chi ha un lavoro deve regolarsi con i propri interessi, non a tutti conviene perdere magari un cliente che non simpatizza per il M5s per continuare a lavorare in politica, ad alcuni non conviene economicamente”. Ma sono la stragrande maggioranza quelli pronti a rientrare nel Palazzo dalla porta di servizio.

Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 15 ottobre 2022.

Dai vice di Giuseppe Conte alla vecchia guardia M5S pensionata dal doppio mandato, quasi tutti nel Movimento difendono Roberto Fico per essersi tenuto ufficio e staff nel palazzo di Montecitorio, proprio sotto al tetto dove i grillini, nel 2013, salirono per protestare contro la casta e a protezione della Costituzione. 

Altri tempi, appunto. Tra i 5 Stelle la difesa del benefit non fa più scalpore, anzi. La notizia riportata ieri da Repubbilca, e commentata con vis polemica dal grande ex Alessandro Di Battista, fa scattare la difesa d'ordinanza nei confronti dell'ormai ex presidente della Camera dei deputati.

"Spero siano menzogne", si era augurato Dibba, taggando l'ex compagno di partito. "Ho restituito l'indennità di carica per 5 anni", aveva replicato in serata Fico, "ma ho tenuto solo l'ufficio, per un tempo limitato" (i prossimi 5 anni...). E dunque "non accetto lezioni di principio da nessuno". Oltre all'ufficio - questo Fico nel suo post Facebook non lo scrive - conserverà anche 2 collaboratori fiduciari, entrambi stipendiati da Montecitorio. Nel Movimento, come detto, tanti giustificano la mossa. E se la prendono con Di Battista. 

Ecco l'ex sottosegretario Carlo Sibilia: "Che triste dover rispondere anche a quelli che prima hanno sfruttato il Movimento e poi gli hanno sputato sopra". Frecciata non troppo velata all'ex deputato ora scrittore. Sotto ai commenti alla pagina di Fico, sbuca Danilo Toninelli. Il quale si complimenta: "Bravo Roberto. Sappiamo chi sei". Tra le reazioni, si notano anche quelle di due vice-presidenti M5S. Alessandra Todde, viceministra al Mise: "Bravo Roberto!". E il senatore Mario Turco: "Grazie Roberto per il tuo prezioso lavoro ed esempio di appartenenza politica".

Fico-Di Battista e la polemica sull’ufficio, l’ex presidente della Camera: «Non accetto lezioni». Redazione politica su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022.

L’ex presidente di Montecitorio conferma che terrà un ufficio come previsto dalle regole: «Ho restituito 700 mila euro di indennità, ora non avrò nemmeno un rimborso spese» 

«Ho sempre rispettato tutte le regole del Movimento: sulle restituzioni così come sui due mandati. E dunque non accetto lezioni di principio su questo, da nessuno». Appare una implicita replica a Alessandro Di Battista, che sui social aveva criticato l’ufficio messo a disposizione dell’ex presidente della Camera, la nota che arriva da Roberto Fico. «Da presidente della Camera ho rinunciato a 300 mila euro di indennità di carica in poco meno di cinque anni, cui si aggiungono 130 mila euro cui ho rinunciato da presidente della Vigilanza Rai. E in questi anni — sottolinea ancora l’esponente M5s — ho restituito più di 300 mila euro dei miei stipendi alla comunità. Per un totale di oltre 700 mila euro». 

L’ex presidente di Montecitorio non ci sta a passare per chi vuol conservare i privilegi del ruolo ricoperto. «E adesso da ex presidente della Camera, come è giusto, non avrò diritto a nessuna indennità, nessuna diaria e a nessun rimborso spese, ma solo - precisa Fico - a un ufficio alla Camera per un tempo limitato, come previsto dalle norme di Montecitorio».

Il caso è scoppiato dopo che era emersa l’indiscrezione sulla volontà di Fico di mantenere, come previsto dalle regole, un ufficio alla Camera (per una legislatura, come già successo per altri ex presidenti). Subito era intervenuto l’ex deputato 5 Stelle Alessandro Di Battista con poche parole tranchant: «Spero si tratti di una menzogna». L’ex compagno di partito ora risponde e conferma non solo che non è una bufala ma che si tratta di una scelta consapevole che, a suo avviso, non tradisce le storiche battaglie del Movimento 5 Stelle contro i privilegi della cosiddetta «casta».

Giuseppe Scarpa per “La Repubblica” il 2 ottobre 2022.

Tre ricche consulenze per altrettanti collaboratori della ministra alle Politiche giovanili, la grillina Fabiana Dadone. Un neosenatore, sempre 5S, a suo dire all'oscuro dell'intera faccenda. L'intervento della Corte dei Conti richiesto in fretta e furia da chi è incaricato di proteggere le finanze pubbliche. Accade tutto sull'asse Roma-Genova, un'autostrada a quanto pare lastricata di contratti d'oro. 

La storia, vicenda a puntate raccontata nelle ultime settimane sul sito di Repubblica , è ormai diventata un caso. L'incastro di coincidenze che ne è alla base parte da lontano. Meglio, quindi, procedere un passo alla volta. Si parte. Dopo anni di vuoto, il 27 agosto 2021, la ministra Dadone sceglie di ristabilire la buona consuetudine della Conferenza sulle dipendenze. La città scelta dalla pentastellata è Genova, nonostante il primato in materia di operazioni antidroga spetti a Lombardia, Lazio e Campania. L'evento va in scena il 27 e il 28 novembre 2021 con due giorni di discussioni a palazzo Ducale e una serata al teatro Carlo Felice.

Proprio l'Opera di Genova, sei mesi più tardi, ingaggerà i tre fedelissimi della ministra. In un sol colpo finiscono sotto contratto Marco Sanzari, consigliere della ministra grillina per le relazioni istituzionali, e i due assistenti Manuela Svampa e Matteo Ventricelli. Tre che lavorano gomito a gomito nello stesso ufficio capitolino di largo Chigi. Al primo la Fondazione teatro Carlo Felice assicura una collaborazione da 100 mila euro come project manager. Per gli altri due un compenso da 50 mila euro a testa come project assistant.

Il progetto in questione è l'organizzazione della prossima edizione del premio Niccolò Paganini, un concorso per violinisti. Nei curriculum dei tre consulenti non si ravvisano expertise in materia e la nomina ha già fatto scattare sull'attenti il collegio dei revisori della Fondazione. Così la questione è rimbalzata di nuovo a Roma, all'attenzione della Corte dei Conti e di Palazzo Chigi.

Il caso, però, interessa gli stessi vertici del Carlo Felice. Nel suo consiglio d'indirizzo siede Luca Pirondini.

Unico 5S in Comune a Genova, è stato appena eletto senatore. Contattato, sulle nomine reagisce così: «Non ne so nulla e non ero tenuto a saperlo. Le collaborazioni non passano dall'organismo di cui faccio parte».

Eppure, scrivono i revisori, a spiegare «le ragioni delle contrattualizzazioni nel settore comunicazione» doveva essere proprio il consiglio di indirizzo, che non le aveva «mai prospettate». 

Il soprintendente Claudio Orazi spiega di aver scelto i tre consulenti dopo averli visti lavorare per la Conferenza sulle dipendenze. Per due giorni. E il sindaco Marco Bucci? Presidente della Fondazione, parla di «congetture». Senza, però, commentare una serie di curiose coincidenze da 200 mila euro.

Liquidazione in beneficenza. L’incognita delle restituzioni dei parlamentari M5s. Il Domani il 30 settembre 2022

Nel 2018 i Cinque stelle avevano restituito, oltre a parte dello stipendio, anche la liquidazione del parlamento, in caso di non rielezione. Di Battista addirittura per intero, prima che il nuovo trattamento economico stabilisse il limite a 15mila euro. Ora, tanti dei parlamentari che hanno completato i due mandati, si trincerano dietro al silenzio in attesa di una mossa del partito

«Non è mica semplice essere un “populista”», ,diceva Alessandro Di Battista quattro anni fa, quando annunciava con un video la restituzione del trattamento di fine rapporto (Tfr) al termine del suo mandato parlamentare alla Camera dei deputati. All’epoca, l’ex parlamentare grillino aveva rinunciato a più di 43mila euro di liquidazione per rispettare una promessa che aveva fatto – insieme a tanti colleghi – ai suoi elettori in campagna elettorale, nel 2013. Conclusa la XVIII legislatura, sono parecchi i parlamentari Cinque stelle al secondo mandato che dovranno lasciare il parlamento. Tra questi, tanti volti noti del M5s, come Paola Taverna, Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Roberto Fico e Carlo Sibilia. Anche loro ora dovranno misurarsi con la decisione se donare la liquidazione in beneficenza, come fece Di Battista rivolgendosi al Fondo per le Pmi, o utilizzare il denaro per costruirsi una nuova vita dopo la fine dell’esperienza in parlamento ignorando le regole del Movimento. 

IN PASSATO

Nel 2018 non tutti i Cinque stelle hanno applicato la stessa fedeltà allo spirito francescano del Movimento di Di Battista. Tanti hanno approfitto di un cambiamento delle regole interne: nel 2018 è infatti stato stabilito il nuovo trattamento economico degli eletti: nel capitolo dedicato alla liquidazione finale, il limite della restituzione del Tfr è fissato a 15mila euro netti. 

Da allora, il Movimento è cambiato profondamente. Il capo politico è diventato Giuseppe Conte, lo statuto è stato modificato. Quel che è rimasto è il limite dei due mandati: dopo un lungo dibattito interno, l’avvocato del popolo ha deciso di mantenerlo.

Provocando così la fine delle carriere di un gran numero di parlamentari di prima linea. Ora dovranno trovarsi una nuova strada, dove il denaro che otterranno dal parlamento può far comodo. Nelle regole stese dall’ex premier non c’è nessun riferimento alla gestione delle liquidazioni. Continua a valere la norma dell’ultima legislatura. 

COSA FARÀ CHI STA LASCIANDO

La cifra, che continua ad aggirarsi intorno ai 41mila euro a legislatura, sarà corrisposta nelle prossime settimane. Chi avrà partecipato a più legislature otterrà direttamente l’importo complessivo: per i Cinque stelle al secondo mandato si tratta dunque di cifre ben oltre gli 80mila euro. Per ora, però, il Movimento non si è pronunciato sugli obblighi per gli eletti che non si sono potuti ricandidare. 

I maggiorenti in uscita, interpellati su cosa faranno se dovesse arrivare la richiesta, preferiscono rimanere sul vago: mentre fonti vicine al presidente uscente di Montecitorio assicurano che «Roberto Fico ha già dimostrato abbondantemente che le regole interne le rispetta», tanti preferiscono non rispondere. 

L’ormai ex senatore Danilo Toninelli si trincera dietro un «non lo so» e di fronte alla domanda se pagherebbe in caso vengano richiesti i 15mila euro del 2018, risponde che «coi se e coi ma la storia non si fa».

Così le sigarette elettroniche possono danneggiare i polmoni. Gli adolescenti che "svapano" sono più soggetti a bronchiti croniche e a respiri sibilanti. L'appello ai politici: informate i giovani e le famiglie, potrebbero esserci anche rischi cardiovascolari. Gioia Locati su Il Giornale l'1 Settembre 2022

Sono entrate in commercio nel 2007 con il proposito di distogliere i fumatori più accaniti dal vizio del fumo, e ora, dopo 15 anni, ci si accorge che le sigarette elettroniche, seppur senza nicotina, danneggiano il sistema respiratorio e, nelle cavie, anche quello cardiovascolare. Alcuni studi di evidence based medicine (la cui traduzione è "medicina basata sulle prove di efficacia" e non sulle evidenze, poiché l’evidenza non ha bisogno di prove) hanno trovato legami tra l'uso di sigarette elettroniche contenenti liquidi aromatizzati e asma, respiro sibilante o sintomi correlabili a bronchiti croniche, come tosse persistente e catarro, tra gli adolescenti.

Da qui la preoccupazione dell'American Heart Association (AHA), pubblicata sulla rivista Circulation Research e ripresa anche dalla rivista Jama.

Negli Stati Uniti, dal 2019, il limite di età per svapare è stato alzato dai 18 ai 21 anni; in Italia basta essere maggiorenni (i divieti si riferiscono all’acquisto dei prodotti).

Si legge su Circulation

“Al di là del contenuto di nicotina e del rapporto tra glicerina vegetale (VG) e glicole propilenico (PG), la composizione dei liquidi all'interno di questi dispositivi (comunemente chiamati liquidi elettronici) non è pubblicamente nota, il che rende difficile prevedere gli effetti sulla salute, compresi gli effetti sui polmoni e sul cuore”.

Quindi: “A causa della novità di questi prodotti, non sono disponibili studi epidemiologici a lungo termine. La personalizzazione delle sigarette elettroniche, inclusi i livelli di potenza, il contenuto di liquidi elettronici e l'abbondanza di aromi, rende difficile la regolamentazione dei prodotti”.

Gli autori proseguono: “È diventato sempre più evidente che i sistemi elettronici di somministrazione della nicotina sono in continua evoluzione. Pertanto, la comprensione dei loro effetti sulla salute è fondamentale […]”.

In sintesi

Le sigarette elettroniche sono state anche commercializzate come ausili per smettere di fumare; sebbene la Food and Drug Administration (FDA) statunitense non abbia approvato le sigarette elettroniche come aiuto alla cessazione, l'industria a volte ha posizionato i propri prodotti in quel modo.

Rispetto al cerotto la loro efficacia nel ridurre il consumo di nicotina è assente. Anzi si è osservato che gli adolescenti che iniziano a svapare sono più propensi poi a diventare dipendenti dalle sigarette.

La tossicità del vapore di sigaretta elettronica rimane poco conosciuta, con alcuni piccoli studi che suggeriscono una potenziale tossicità cardiopolmonare. Con l'eccezione della nicotina, la maggior parte dei componenti di e-liquid elencati sono nell'elenco della FDA è generalmente considerato sicuro (GRAS). Tuttavia, è importante sottolineare che la maggior parte delle sostanze chimiche nell'elenco GRAS erano intese come componenti alimentari e un aspetto chiave dell'atto GRAS è che "la sostanza deve essere 'generalmente riconosciuta' come sicura alle condizioni della sua destinazione d'uso”.

Molti componenti del GRAS non sono stati testati per la tossicologia per inalazione e il loro impatto sul sistema polmonare è sconosciuto.

Numerosi studi hanno scoperto che acetaldeide, acroleina, diacetile e formaldeide si formano dopo lo svapo. L'acroleina e la formaldeide sono potenti irritanti e noti cancerogeni.

Le raccomandazioni ai politici

In sintesi ecco l'appello che gli studiosi rivolgono ai responsabili politici di ogni nazione:

· Adottare misure per ridurre l'accesso dei giovani alle sigarette elettroniche, inclusa la rimozione di tutte le sigarette elettroniche aromatizzate

· Limitare la commercializzazione di sigarette elettroniche ai giovani nelle piattaforme online

· Offrire programmi atti a smettere di fumare per i giovani che comprendano anche le e-cig

· Includere nella formazione dei medici anche programmi sui rischi a breve e lungo termine dello svapo

· Incorporare anche le sigarette elettroniche nelle leggi che regolano il fumo nei luoghi chiusi.

Conclusioni

"Gli adolescenti che iniziano a svapare possono restare dipendenti per tutta la vita e, al momento, non si sa quali malattie potrebbero sviluppare nel corso della loro vita; i medici possono aiutare a educare genitori e bambini sui pericoli dello svapo, oltre a promuovere leggi più severe per vietare la vendita e la commercializzazione di sigarette elettroniche agli adolescenti", hanno concluso gli autori.

Casaleggio a libro paga della Philip Morris, tutti i dettagli della maxi consulenza. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Novembre 2020 

Casaleggio Associati srl – che ha manifestamente operato fino a oggi come società di servizi per il Movimento Cinque Stelle – ha incassato da Philip Morris Italia la maxi somma di 1.950.166 euro e 74 centesimi, al netto dell’Iva. Quasi due milioni di euro tondi, che con l’Iva arrivano a 2.379.203 euro. Una cifra impressionante, riferita ad un periodo di fatturazione, da noi analizzato, compreso tra il settembre 2017 e lo scorso mese di ottobre 2020. Il rapporto di consulenza tra il gigante mondiale dell’industria del tabacco e la Casaleggio Associati riveste carattere di continuità: le fatture non sono relative ad un evento specifico ma regolarmente cadenzate nel tempo.

Quelle che abbiamo avuto modo di verificare riguardano 49 pagamenti, molti dei quali da 50.000 euro tondi, alcuni minori ed altri, in particolare la fattura di fine anno, staccata a fine novembre, di 140.000 euro. La media dei bonifici partiti da Philip Morris e ricevuti dalla società di Davide Casaleggio è stata nel tempo di 40.000 euro al mese nel periodo esaminato. Rispetto all’arco di tempo tra il 2017 e il febbraio 2018 si nota un incremento nelle cifre versate a partire dal marzo 2018, quando il Movimento Cinque Stelle va al governo con la Lega. Sarà un caso, ma quando la settimana scorsa è esploso il caso dell’europarlamentare Dino Giarrusso, lo stesso s’è abbandonato a uno sfogo dal sen fuggito: «Ho ricevuto un contributo come tutti i parlamentari del Movimento. Io odio il fumo, non ho nulla a che fare con la lobby del tabacco. Ho pensato solo: se hanno finanziato tutti gli eletti alle politiche del 2018, potranno finanziare anche me».

Corroborati dall’ammissione inequivocabile dell’ex Iena, abbiamo focalizzato la lettura degli interventi normativi mirati. Siamo andati a spulciare i conti. A verificare le transazioni. E soprattutto, abbiamo ricollegato quella gigantesca e continua operazione di sostegno finanziario ai servigi resi. Ne risulta che l’industria del tabacco, e Philip Morris in modo particolare, ha beneficiato di un trattamento di favore relativo soprattutto al regime di tassazione agevolata che riguarda il tabacco bruciato. Le sigarette elettroniche. I prodotti innovativi come Iqos, per intenderci. Su di loro è stata applicata, in via fiduciaria, dando per buona l’asserita minore nocività sulla salute, una riduzione importante sull’applicazione dell’accise. La tassa che lo Stato esige sui prodotti del tabacco è stata ridotta negli anni.

Nel 2014, quando il primo prodotto da tabacco bruciato compare sul mercato italiano, la riduzione è del 50%. Quando il Movimento Cinque Stelle vince le elezioni del 4 marzo 2018 e dà vita al primo governo Conte, ecco che lo sconto sulle accise si riduce di un ulteriore 25%, diventando così del 75%. A dispetto della valutazione delle autorità sanitarie, che nello stesso periodo chiedono alle case produttrici di approfondire test ed esami clinici, la liquidità che viene garantita dal minor gettito si fa gigantesca. Per intenderci: se un pacchetto di sigarette tradizionali costa 5 euro, 4 sono quelli che vanno all’erario, tra accise ed Iva. 50 centesimi vanno al tabaccaio, come agio. Il margine per il produttore è di 50 centesimi a pacchetto venduto. Per i prodotti da tabacco riscaldato, no: il pacchetto costa 4,50 euro in media. Al tabaccaio vanno anche in questo caso 50 centesimi. Ma all’erario va meno. Diciamo 1,50 euro. Il margine per Philip Morris è di 2,50 euro per ciascun pacchetto venduto; non a caso il marketing delle grandi aziende di tabacco è così fortemente orientato su quei prodotti.

Per capirci: in Italia sono stati venduti in quattro anni 13 milioni di Iqos, per ognuno dei quali devono essere acquistate le ricariche, continuamente. Il margine realizzato raggiunge cifre stratosferiche. Tanto che alla voce “investimenti” figurano società di lobbying e realtà ibride in grado di dialogare con la politica. Di incidere sulla sfera pubblica e sui decisori. Siamo nell’ambito dell’illecito? Non sta a noi dirlo.

Siamo però in un campo minato, dove dietro a ogni piantina di tabacco possono nascondersi grandi insidie. Perché una industria così potente in Italia sembra aver messo tramite i lobbisti i propri artigli sui parlamentari del primo partito politico, perno del governo del Paese da due anni. Forti di un gettito di 14 miliardi di euro, le industrie del tabacco sembrano essere riuscite a influenzare direttamente le decisioni che le riguardavano, realizzando profitti a scapito dell’erario pubblico. Aiuto di Stato, potremmo definirlo, e non sapremmo dire come la prenderebbe l’Europa. Minor introiti per finanziare scuola, ricerca, sanità e trasporto pubblico in un momento di grave crisi per il Paese, certamente.

Di nuovo regime fiscale si è iniziato a parlare qualche settimana fa, quando il Direttore dell’Agenzia delle Dogane, l’economista Marcello Minenna, ha preparato un intervento specifico da sottoporre al governo, per il collegato alla manovra di bilancio. Minenna prevedeva un nuovo regime fiscale con il superamento dell’equivalenza e l’introduzione di un prelievo calcolato sul prezzo di vendita al pubblico dichiarato dal produttore, obbligo del bollino dei Monopoli e vendita solo dopo il via libera dell’Agenzia delle dogane per le sigarette elettroniche e i liquidi utilizzati per lo svapo, chiedendo alla maggioranza di introdurli nella nuova legge di Bilancio in preparazione. Poi però è arrivata – anche quest’anno – una manina. Invisibile, come avvolta in una nube di fumo. E ha cancellato tutto.

«Niente più rincari per le sigarette elettroniche – attesta Ansa il 15 scorso – nell’ultima bozza della manovra salta, infatti, la previsione di una accisa del 25% del prezzo di vendita sui prodotti derivati dal tabacco, i tabacchi da inalazione senza combustione, le sigarette elettroniche e i prodotti accessori che sarebbe scattata dal primo gennaio». Quando si indaga è importante trovare la pistola fumante. Noi abbiamo trovato un Iqos.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste. 

Il Parlamento italiano fa un altro regalo alle multinazionali del tabacco. L'Indipendente il 23 febbraio 2022.

Il cosiddetto decreto legge Milleproroghe, dopo la fiducia accordata dalla Camera il 21 febbraio ed il voto finale del giorno seguente, dovrà ora essere approvato definitivamente dal Senato: al testo, però, sono state apportate alcune modifiche passate in sordina ma estremamente rilevanti, in quanto costituirebbero un vero e proprio regalo per le multinazionali del tabacco. Al suo interno, infatti, è stato inserito l’articolo 3-novies, che prevede il congelamento del previsto aumento del 5% delle accise sulle sigarette elettroniche nonché l’arrivo sul mercato di un nuovo prodotto: le “nicotine pouches”, ovvero bustine di nicotina da inserire tra il labbro superiore e la gengiva che permettono di assorbire la sostanza senza alcuna combustione. Non si tratta comunque della prima volta che in Italia ci si muove a favore delle aziende del tabacco: basterà ricordare l’emendamento alla finanziaria, presentato nel dicembre scorso da quattro parlamentari leghisti, atto ad eliminare l’incremento progressivo dell’incidenza fiscale per il 2022 e il 2023 applicata al tabacco riscaldato, un settore nel quale la Philip Morris International (PMI) gioca il ruolo di leader mondiale.

Per quanto riguarda il congelamento dell’aumento delle accise, nello specifico, quella per i prodotti succedanei dei prodotti da fumo viene prorogata “al 20 e al 15 per cento dal 1° gennaio 2022 al 31 marzo 2022”, mentre poi viene abbassata “al 15 e al 10 per cento dal 1°aprile 2022 fino al 31 dicembre 2022”. Tutto ciò si tradurrebbe dunque in introiti aggiuntivi per 7 milioni e 200 mila euro per le multinazionali del tabacco, essendo questa la cifra che viene indicata come “oneri derivanti dal comma 1”, ossia quello che ha introdotto le disposizioni sulle accise appena citate. Un importo a cui lo Stato italiano farà fronte tramite risorse che arrivano da fondi Mef (Ministero dell’economia e delle finanze) e, per circa 1 milione, dalle nuove imposte: le “nicotine pouches”, infatti, saranno soggette ad “imposta di consumo pari a 22 euro per chilogrammo”.

Di conseguenza, probabilmente con la motivazione di coprire le spese, è stato dato il via libera a questo nuovo prodotto, che però non solo a sua volta beneficerà delle accise più basse, ma sembrerebbe fare felici i colossi del tabacco. In particolare, potrebbe ritenersi soddisfatta la British American Tobacco (BAT), ovverosia la seconda più grande azienda mondiale produttrice di sigarette. Quest’ultima, infatti, starebbe pensando di avviare la produzione delle nicotine pouches nello stabilimento che aprirà a Trieste, per il quale saranno investiti fino a 500 milioni di euro nell’arco di 5 anni.

Detto ciò, merita menzione anche il modo in cui si è arrivati ad introdurre nel testo quanto detto finora. La modifica, infatti, è stata approvata a larga maggioranza: ad opporsi sono stati in pochissimi, tra cui il deputato di Alternativa ed ex membro del Movimento 5 Stelle Raffaele Trano che, tramite delle dichiarazioni rilasciate al giornale Tag43, ha denunciato non solo il fatto che «queste norme-riforma entrino con emendamenti notturni» ma altresì che siano appunto supportate da «partiti come il Movimento 5 stelle, che un tempo le denunciava mentre oggi nemmeno si astiene». Anche Forza Italia però ha votato contro, con il vicecapogruppo a Montecitorio Raffaele Nevi che ha affermato: «È impensabile inviare un emendamento così complesso, che regolamenta di fatto un intero settore, poco prima di metterlo in votazione e senza discuterne in maggioranza».

[di Raffaele De Luca]

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni. 

L'inchiesta sulla Fondazione Open. I Pm e le ‘indagini creative’ su Renzi, ma su Philip Morris chiudono gli occhi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Novembre 2021 

Il ministro degli Esteri Di Maio, intervenendo a un convegno nell’ambito di Expo 2020, si è detto soddisfatto per gli investimenti che Philip Morris sta realizzando in Italia. Già. E così mi è venuta in mente tutta la vicenda dei rapporti stretti tra i 5 Stelle e Philip Morris della quale in realtà ha parlato quasi solo il nostro giornale ma è una vicenda bella grossa. Mi è venuta in mente anche per un’altra ragione. Ho messo mentalmente a confronto il rumor di grancassa intorno all’inchiesta dei Pm fiorentini su “Open” e il silenzio ovattato intorno a questa vicenda di Philip Morris. Vediamolo bene questo confronto.

“Open” è una Fondazione che è stata finanziata in maniera volontaria e con somme relativamente modeste da alcune centinaia di sostenitori. Non sottobanco. Ogni euro versato è stato bonificato, registrato, dichiarato e segnalato. Non c’era niente di illegale né di losco. I Pm di Firenze hanno deciso di mettere sotto indagine “Open” per due ragioni. Una evidentemente vera, l’altra evidentemente pretestuosa. La ragione vera è che “Open “è roba di Matteo Renzi, e un pezzo di magistratura e di informazione (entità talvolta quasi coincidenti) da tempo hanno messo Renzi nel mirino. Se non si trovano reati a suo carico resta solo la possibilità dell’”indagine creativa” che invece di fondarsi sul codice penale si fonda sulla capacità di inventiva degli inquirenti.

L’inventiva, a pensarci bene, è una qualità, non un difetto. E così i Pm hanno deciso che siccome finanziare una Fondazione non è reato, neppure un pochino, basta però stabilire che “Open” non è una Fondazione ma un partito e il finanziamento (almeno una parte del finanziamento) anche se dichiarato e trasparente diventa reato, sulla base di una legge recente che equipara il finanziamento dei partiti politici a quello delle associazioni a delinquere. Ok. Ma come si fa a stabilire che “Open” non è una fondazione ma un partito? I Pm hanno deciso che per fare questo è sufficiente la loro parola. Se loro dicono che è un partito, è un partito. E allora hanno detto: è un partito. La parola dell’inquirente diventa prova. Anche questo è diritto creativo, uno degli aspetti più originali della modernità.

La faccenda Philip Morris invece è molto più semplice. L’abbiamo denunciata con scarsi risultati circa un anno fa. Cosa era successo? La Philip Morris aveva finanziato con circa 2 milioni di euro la Casaleggio. E – ovviamente in modo del tutto casuale – i 5 Stelle – che all’epoca erano molto legati a Casaleggio – in Parlamento avevano ottenuto un clamoroso sconto fiscale a vantaggio dei prodotti della Philip Morris.

Abbiamo calcolato che questo sconto produceva una riduzione delle tasse di circa 500 milioni all’anno per la Philip Morris. E, di conseguenza, produceva mancate entrate all’erario per mezzo miliardo. Una quantità di denaro clamorosa, se pensate che la maxitangente Enimont – quella che nel ‘92 provocò la caduta della Prima repubblica, centinaia di arresti tra i politici, la fine e poi la morte in esilio di Bettino Craxi – era una tangente di circa 60 milioni di euro. Noi del Riformista, quando fummo informati di questa storia, cercammo di parlarne sul nostro giornale e di farci notare. Ottenemmo che nella legge di bilancio del 2021 lo sconto fiscale fosse ridotto un pochino, ma non troppo. Però questa modesta riduzione, scritta nella legge mandata alle Camera, nella notte fu ritoccata con un ulteriore piccolo favore a Philip Morris (anche in questo caso, lo so benissimo, i fatti furono del tutto casuali e privi in ogni caso di dolo).

Ora non credo che ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni per capire che i due casi – “Open” e Philip Morris – sono molto diversi. Nel primo caso non c’è l’ombra né di reati né di scambio tra finanziamenti e favori. Nel secondo caso sicuramente ci sono stati sia i finanziamenti (molto cospicui) sia i favori (clamorosamente cospicui) anche se niente ci autorizza e credere che tra favori e finanziamenti ci fosse una relazione. In genere, a essere onesti, i Pm non sottilizzano molto, in questi casi, e se vedono un finanziamento e subito dopo un favore, anche piccolino, stangano. C’è gente che ha avuto la vita rovinata per 10 mila euro, non per due milioni. Stavolta, per fortuna, sembra che i Pm vogliano comportarsi in modo parecchio più cauto. E questa è una cosa buona. Che noi apprezziamo molto. Sarebbe ancora migliore se qualche cautela la dimostrassero anche i Pm fiorentini. Ma forse è chiedere troppo.

Così come è una domanda veramente stronza quella di chi vorrebbe sapere dai grandi giornali come mai si sono entusiasmati per “Open “e se ne fregano del tabacco. Proprio stronza: noi ci guardiamo bene dal porre questa domanda.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le buone pratiche per il lavoro in Philip Morris. Luca Romano su Il Giornale il 30 Agosto 2022

Philip Morris International, azienda leader nel mercato del tabacco, da anni sta vivendo una profonda trasformazione riguardante la sua visione aziendale

Un ambiente di lavoro inclusivo, che garantisce pari opportunità e trattamento a tutti i dipendenti, con un’attenzione particolare nei confronti della valorizzazione del talento femminile e nell’eliminazione delle differenze di trattamento tra uomini e donne. Sono questi alcuni dei pilastri fondamentali sui quali poggiano le buone pratiche per il lavoro in Philip Morris International, azienda leader nel mercato del tabacco, da anni al centro di una profonda trasformazione riguardante la sua visione aziendale.

Obiettivo Gender Equality

Con oltre 69,600 dipendenti provenienti da ogni angolo del mondo, operante in più di 180 mercati e dotata di 39 strutture produttive, Philip Morris International (PMI) ha intenzione di costruire un futuro senza fumo. Si tratta di un obiettivo ambizioso, che ha spinto l’azienda ad attuare una profonda trasformazione, tanto per quanto concerne il modello di business – che necessita nuove competenze - quanto per l’organizzazione.

Tutto questo va di pari passo con altri obiettivi lavorativi. Da anni, ad esempio, Philip Morris si è impegnata a contribuire al raggiungimento del SDG n. 5, Gender Equality, volto ad attuare pienamente la parità di genere nel lavoro. Philip Morris Italia e Philip Morris Manufacturing & Technology Bologna, le due affiliate dell’azienda presenti in Italia, sono le prime tra le realtà aziendali del nostro Paese ad aver ottenuto l’EQUAL-SALARY Certification, che attesta la parità di retribuzione a parità di mansione svolta tra uomini e donne.

Più in generale, nel 2019 PMI è stata la prima multinazionale al mondo a certificare tutte le affiliate, diventando il primo gruppo mondiale certificato EQUAL-SALARY, a conferma dell’impegno concreto per combattere il gender gap a conferma dell’impegno per garantire la parità nella retribuzione a parità di mansione tra uomo e donna.

Il valore della forza lavoro femminile

Un altro aspetto focale riguarda la forza lavoro femminile in azienda. In PMI, infatti, molte posizioni manageriali sono ricoperte da forza lavoro femminile. A questo proposito, un altro obiettivo consiste nell’incrementarle ulteriormente, valorizzando, appunto, le competenze e i talenti di ciascuno. Le affiliate italiane sostengono non a caso Valore D, ovvero la prima associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva per la crescita delle aziende e del Paese.

Non solo: l’azienda è entrata a far parte anche della Rete CapoD, la Comunità di aziende per le Pari Opportunità nata sul territorio bolognese in stretta collaborazione con le istituzioni pubbliche locali e alla quale hanno aderito, oltre a Philips Morris Manufacturing & Technology Bologna, altre grandi realtà aziendali da sempre sensibili alle pari opportunità sul lavoro.

Inclusività e valorizzazione della diversità

L’impegno di PMI di creare un ambiente lavorativo in cui coniugare il benessere e la qualità di vita delle persone, nel segno dell’inclusività e della valorizzazione della diversità, trova conferma nelle numerose iniziative sostenute dal gruppo. Prendiamo il Global Parental Leave (GPL), un programma globale introdotto dal novembre 2021 per riconoscere la necessità di un equilibrio tra genitorialità e carriera. Il GPL consente ai futuri genitori di concentrarsi sulla cura del/la figlio/a nel periodo successivo alla nascita o all'adozione, garantendo un periodo minimo retribuito al 100% per entrambi i genitori, ad integrazione di quanto già previsto dalla normativa nazionale e dal contratto integrativo aziendale.

Sempre in merito alla parità di genere, le due affiliate in Italia di PMI hanno lanciato varie iniziative per sensibilizzare e favorire l’avvicinamento delle donne alle discipline STEM, ovvero alle discipline scientifico-tecnologiche e ai relativi corsi di studio. In questo ambito è importante consolidare la presenza femminile.

Il benessere dei dipendenti al primo posto

Philip Morris ha inoltre garantito il regime di lavoro agile smart working per tutta la durata dello stato di emergenza Covid. Al termine di questo periodo ai dipendenti è stata data la possibilità di sottoscrivere un accordo innovativo individuale per il lavoro agile, sempre nell’ottica di favorire un maggiore equilibrio di vita e lavoro per tutte e tutti.

Assistenza e benefit

PMI mette a disposizione dei dipendenti anche Employee Assistance Program (EAP). Si tratta di un programma di assistenza totalmente confidenziale, rivolto anche alle famiglie, per garantire supporto nell’affrontare specifiche situazioni in ambito psicologico, legale e finanziario. Con EAP è possibile, in sostanza, consultare consulenti certificati, specialisti e materiale online per ricevere supporto in maniera del tutto gratuita per affrontare situazioni di stress, ansia e depressione e, più generale, risolvere molteplici problemi.

Vale infine la pena concentrarsi su un particolare molto importante ma troppo spesso trascurato. Per favorire giornate di lavoro in cui i dipendenti non siano costretti a meeting continui senza pause e soluzione di continuità, PMI ha introdotto una pausa di cinque minuti per le riunioni più brevi e di dieci per quelle più lunghe. Un modo per venire incontro, anche da lontano, alla necessità di piccoli break tra una riunione e l’altra.

Voto di scambio in salsa grillina. È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Augusto Minzolini il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.

È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Dopo la fallimentare esperienza - per usare un eufemismo - dei due governi Conte o devi essere affetto da puro masochismo, o devi essere del tutto fuori di testa, o deve piacerti il travaglismo più «hard» se desideri davvero rivedere i grillini alla prova. Eppure a guardare i sondaggi Conte e soci sono ancora là. Attorno al 10%. E dalla analisi accurata delle indagini che ha riportato ieri su questo giornale Paolo Bracalini le zone dove lo zoccolo duro grillino appare più radicato sono al Sud, in particolar modo dove c'è una maggiore presenza di percettori del reddito di cittadinanza. Una situazione che rende difficile per i candidati degli altri partiti in loco proporre almeno una riforma della legge viste le tante distorsioni che presenta. Alla fine c'è chi preferisce perdere i freni inibitori come Dario Franceschini che, candidato in Campania dove il reddito di cittadinanza ha assunto il valore del dogma, ha rimosso del tutto dalla sua mente le cronache delle truffe che hanno costellato l'applicazione della norma e lo ha trasformato in un tabù ideologico che precede pure l'agenda Draghi. «Giù le mani dal reddito» è il suo slogan elettorale: punto e basta.

Ma nel Paese che si è inventato il reato del «voto di scambio», nel quale c'è una larga applicazione di quelli sulla «corruzione elettorale» o «sul traffico di influenze», dove per una raccomandazione per un lavoro finisci dietro le sbarre, stride o almeno suscita un minimo di ironia che il meccanismo del «do ut des» sia stato addirittura istituzionalizzato: tu mi garantisci quella cifra (che a seconda dei nuclei famigliari va da 500 a 1200 euro) per starmene a casa e io ti voto. Perché alla fine di tutti i discorsi e di tutti i ragionamenti la sostanza è questa.

E lo «scambio» non si chiude in un'elezione come le scarpe che Achille Lauro prometteva agli elettori, cioè una prima del voto e una dopo, ma si prolunga nel tempo perché l'unico argomento che hanno i 5stelle in questa campagna elettorale è la promessa che il reddito non sarà cancellato o, magari, riformato. Per cui anche chi lo prende di straforo, anche chi truffa guarda ai grillini. Così il «do ut des» rischia di essere perpetuo: il reddito in cambio del voto per una vita.

Eppure il provvedimento è pieno di lacune, era stato immaginato innanzitutto per trovare un lavoro ai disoccupati. Addirittura era stata introdotta la figura dei «navigator» per raggiungere questo obiettivo ma da questo punto di vista la legge si è rivelata un fallimento. Ha creato, però, un meccanismo paradossale: i candidati grillini promettono di garantire il reddito ai loro elettori che lo percepiscono in poltrona a casa e in cambio si assicurano una poltrona in Parlamento e uno stipendio da parlamentari. Reddito per reddito. Una furbizia ben congegnata. In linea con la filosofia grillina, ma che a quanto pare sta facendo adepti in un Pd sbandato che non trova argomenti. Vedi, appunto, Franceschini. E se questo è il ricatto è difficile che questa norma piena di limiti sarà mai riformata. Continuerà a non trovare lavoro chi non ne ha, ma nel contempo proseguirà questa sorta di «voto di scambio» tra nullafacenti della società civile e nullafacenti del Palazzo. 

Movimento 5 nullafacenti: Conte al 10% grazie al reddito minimo. I dati sui percettori del reddito rispecchiano i voti che prenderanno i grillini. Salvatore Di Bartolo su Nicola Porro.it il 4 Settembre 2022.

È il reddito di cittadinanza a mantenere in vita i Cinque Stelle. A certificarlo il sondaggio sulle intenzioni di voto curato da Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera, secondo cui è proprio il sussidio che riesce ad assicurare al Movimento un bacino di voti superiore al 10 per cento. La tesi di Pagnoncelli è peraltro suffragata da numeri che appaiono inequivocabili. Su un totale di 30 milioni circa di elettori che domenica 25 settembre si recheranno alle urne (il dato tiene già in considerazione gli astenuti) il M5s si attesterebbe attorno al 12 per cento, ovvero 3,4 milioni di voti circa. Un numero che, dati alla mano, appare perfettamente sovrapponibile all’attuale platea dei beneficiari del sussidio.

Secondo i dati Inps, infatti, i nuclei familiari beneficiari di reddito di cittadinanza sono attualmente 1,61 milioni, per un totale di 3,52 milioni di soggetti coinvolti. Più o meno il numero degli elettori che – secondo il sondaggio – il prossimo 25 settembre dovrebbero barrare il simbolo del Movimento 5 Stelle sulla scheda elettorale. Potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza? La risposta è no. Perché ad avvalorare ulteriormente la tesi di Nando Pagnoncelli ci pensa la geografia. Secondo i già citati dati Inps, al Nord i percettori del sussidio grillino ammontano a 443 mila, al Centro a 340 mila, mentre oltre 1,7 milioni si trovano nelle regioni del Sud.

Osservando nel dettaglio la distribuzione dei percettori si può osservare come il 22 per cento di essi si trovi in Campania, regione che da sola conta più beneficiari dell’intero nord Italia. Dando un’occhiata ai sondaggi politici realizzati da Pagnoncelli si scopre poi come i Cinque stelle siano accreditati al 20 per cento in Campania, guarda caso una percentuale quasi corrispondente a quella dei beneficiari dell’assegno pentastellato. Al contrario, il consenso di cui godono i grillini al Nord è alquanto limitato, esattamente come il numero dei percettori.

Lo studio di Pagnoncelli conferma dunque, laddove ve ne fosse ancora la necessità, cosa realmente sia il reddito di cittadinanza: una gigantesca operazione di voto di scambio. Probabilmente la più imponente che sia mai stata realizzata nella storia repubblicana. Salvatore Di Bartolo, 4 settembre 2022

Estratto dall'articolo di Lorenzo d’Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 10 agosto 2022.

Un sacco pieno di immondizia, di quelli neri, e una scatola di cartone abbandonati accanto a un cassonetto pieno in viale Ezra Pound, nel quartiere Talenti. E poi il blocco del bocchettone di un bidone dell’indifferenziata per gettare i rifiuti caricati a bordo dell’auto di servizio. È una storia di comune degrado, ma aggravata dal ruolo pubblico che ha rivestito e riveste ancora in Campidoglio, quella di cui è protagonista Stefano Brinchi. 

L’ex amministratore delegato di Roma Servizi per la Mobilità, candidato senza fortuna alle Comunarie del M5S nel 2016 ma comunque premiato dall’ex sindaca Virginia Raggi con un posto da top manager, lo scorso gennaio è stato multato tre volte dai vigili urbani dopo essere stato immortalato dalle fototrappole anti-sporcaccioni. Gettava la spazzatura senza rispettare le norme messe nero su bianco proprio dai 5S nel regolamento di gestione dei rifiuti urbani.

Ora il guaio non sono tanto i 600 euro di sanzione comminati al dirigente dagli agenti del Nucleo Ambiente Decoro della polizia municipale. Brinchi rischia anche un provvedimento disciplinare. La notizia, infatti, è già arrivata ad Anna Donati, presidente del cda di Roma Servizi per la Mobilità che a marzo ha sostituito il tecnico pentastellato. […] 

In realtà, però, i lavoratori di Roma Servizi per la Mobilità segnalano molto di più. Negli uffici che per conto del Comune si occupano di disegnare l’assetto del trasporto pubblico cittadino non si parla d’altro. 

Dell’auto di Brinchi e delle tre multe, certo. Ma nella denuncia si legge pure dell’uso della tessera carburante e del Telepass. Accuse sottoposte all’organismo di vigilanza dell’agenzia, che avrebbe già inviato un dossier ai nuovi vertici. […]

Brinchi, contattato al telefono, si difende e rilancia: «Ero perfettamente cosciente che c’erano le telecamere, ben visibili anche i cartelli che le segnalavano. Ma ero convinto di essere nel giusto visto lo stato dei cassonetti. Quando sono arrivate le multe ho pensato di fare ricorso. Ma poi, visto il mio ruolo, ho capito che non sarebbe stato il caso. Così ho pagato e basta. L’auto di servizio? L’ho usata per i miei spostamenti di lavoro. Per scelte di chi c’era prima di me non c’era nemmeno l’autista. Tornando ai rifiuti, ora sono io che denuncio ai vigili i cassonetti pieni. Ormai sono una costante».

Pasquale Napolitano per polisnews.it il 23 luglio 2022.

Arriva la prima deroga nel M5S al limite del doppio mandato: Roberto Fico guiderà la lista dei Cinque stelle nel collegio plurinominale Campania 1 che comprende oltre alla città di Napoli anche il comune di Giugliano. 

Decisione ormai presa dai vertici del Movimento, al netto della contrarierà di Beppe Grillo: “Siamo in un momento caotico e potremmo essere morti tra 15 giorni ma i nostri due mandati sono luce in questa tenebra incredibile, sono l’interpretazione della politica come un antibiotico quasi un servizio civile.

La regola pentastellata dei due mandati dovrebbe diventare Legge di Stato, l’Italia lo merita come una Legge contro i cambi di casacca, si merita una legge elettorale con sbarramento, una per la sfiducia costruttiva. Non siamo riusciti a farle, mi sento colpevole anch’io, però abbiamo di fronte qualcosa di straordinario: sono tutti contro di noi e quando è così vuol dire cha abbiamo ragione” ha attaccato oggi il comico. Parole al vento: il presidente della Camera correrà, grazie all’intesa con Giuseppe Conte, per il terzo mandato.

Estratto dell’articolo di Francesco Malfetano per “il Messaggero” domenica 24 Luglio 2022. 

[…] Beppe Grillo […] prova a lanciare il nuovo corso del Movimento 5 stelle. Uno slancio che è più che altro un ritorno al passato. […] l'Elevato da un lato difende gli ultimi avamposti di ciò che fu il Movimento immaginato con Gianroberto Casaleggio come il limite al secondo mandato e, dall'altro, rispolvera chi quell'anima l'ha già incarnata, finendo però ai margini. 

Sulle barricate ci saranno con ogni probabilità le ex sindache Virginia Raggi (candidata a Ostia, dove ha ottenuto buoni risultati anche alle Comunali dello scorso anno) e Chiara Appendino (a Torino). Ma anche un rivoluzionario buono per tutte le stagioni come Alessandro Di Battista […] e, perché no, un comunicatore di razza come Rocco Casalino.

Restano un paio di però. Non solo sul cosa Giuseppe Conte possa davvero incarnare in questa stagione (nonostante un seggio a Roma dato per certo), ma anche sul come verranno integrate le truppe. […] 

[…] Grillo […] marca il territorio, attraverso la sola regola aurea dei grillini non smantellata: il limite al secondo mandato. […] È la parola fine sull'esperienza politica di molti dei volti più noti di oggi (dalla vicepresidente Paola Taverna ai ministri governisti Federico D'Incà e Fabiana Dadone, fino a Carlo Sibilia e Riccardo Fraccaro) e di ieri: come il presidente della Camera Roberto Fico, l'ex capo politico ad interim Vito Crimi e Roberta Lombardi, prima capogruppo alla Camera.

Ma anche gli ex ministri Alfonso Bonafede e Danilo Toninelli. A restare fuori saranno in 49. La lista è lunga e lastricata di insoddisfatti. Anche perché dopo l'intervento di Grillo appare tramontata la possibilità di deroghe ad personam (il comico peraltro è il proprietario del simbolo M5S che va presentato entro il 21 agosto per consegnare le liste), ma non degli incarichi retribuiti nel partito. Tant' è che nelle chat già montano le polemiche perché, se il limite ai due mandati è stato mantenuto, non lo è stato il no al 2xmille, fondamentale anche a pagare il contratto da 300mila euro di consulenze allo stesso Grillo. […] 

M5S, la linea «granitica» di Grillo per colpire chi si schierò contro di lui. Emanuele Buzzi su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.

Da Crimi a Lombardi, chi si ribellò al leader storico nel 2021 ora rischia. L’esito del duello potrebbe arrivare «entro domenica». Di Maio attacca. 

«Ne resterà soltanto uno»: c’è chi cita Highlander per sdrammatizzare lo scontro tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo. La mediazione sul tetto dei due mandati e la forte opposizione del garante, al di là dei toni usati, sta delineando nel Movimento l’ultimo estremo scontro. «Se Conte molla, dimostra al mondo intero che a comandare è Beppe», dicono alcuni esponenti alla seconda legislatura che si sentono traditi dal leader. Diversi parlamentari temono che l’ex premier li voglia scaricare dopo aver promesso loro una deroga. Altri insistono sulla natura politica dello scontro. Uno scontro che — sostengono in ambienti vicini all’ex premier — il presidente M5S avrebbe evitato volentieri. Specie con questi toni così accesi.

Ma Grillo non ne vuole sapere. «È un muro», dice chi ha avuto modo di sentirlo. Il motivo è duplice. Da un lato il garante ha a cuore i principi delle origini, si sente il custode di quei valori messi in campo insieme a Gianroberto Casaleggio e crede fermamente che «resettare» il Movimento dopo l’esperienza di governo degli ultimi anni possa solo rinverdire le sorti dei Cinque Stelle.

Dall’altro lato, Grillo non concepisce di dove r «aiutare» personalità che lo scorso anno nella querelle con Conte si sono schierate apertamente contro di lui. Il garante ha ben presente le prese di posizione di Vito Crimi, Roberta Lombardi, Giancarlo Cancelleri, che nel 2021 usarono toni molto duri per attaccarlo . E non ha gradito nemmeno il ruolo svolto all'epoca da Paola Taverna. Grillo, insomma, si è sentito «tradito» da una parte di quei «figli politici» che lui stesso aveva lanciato nell’agone dei palazzi romani. La cicatrice è rimasta ed è ben visibile. E anche per questo il fondatore del M5S non vuole saperne di venire incontro a Conte per delle micro-deroghe. Troppo rischioso.

«Così ci uccide tutti», si lamentano però alcuni lealisti del garante. «Noi non abbiamo fatto nulla». Tra le vittime sacrificali c’è anche il presidente della Camera, Roberto Fico, che con Grillo vanta un rapporto strettissimo da anni, ma che negli ultimi mesi è stato in prima linea al fianco di Conte nella gestione del partito. Come riporta anche Dagospia, alcune fonti vicine a Grillo spiegano come il garante sia convinto che alla base di questa situazione in parte ci sia l’addio di Luigi Di Maio (e come è stata gestita la pratica nel Movimento). Ecco, quindi, la necessità per vari motivi di essere «granitici».

Il problema è che lo scontro vede due contendenti a rischio di stallo perpetuo. Conte ha dalla sua la forza dei fedelissimi (una buona fetta del gruppo parlamentare anche se circolano voci di altri venti addii), ma il leader potrebbe far valere la propria voce anche tra la base e gli eletti per cercare la prova di forza. Grillo dal canto suo ha il simbolo: c’è chi teme che più che sfilarsi dal M5S il garante possa far saltare l’uso del logo a Conte a due mesi dal voto. Una mossa estrema, che metterebbe il leader del Movimento in seria difficoltà e che aprirebbe un’altra faglia (insanabile). Tutte e due i contendenti, insomma, hanno punti di forza e punti deboli. Nessuno — come era già successo un anno fa — sembra in grado però di vincere il duello senza uscirne a sua volta fortemente danneggiato.

Tra i due litiganti, Di Maio gongola: «Probabilmente Grillo cederà ancora una volta, di certo non è un bellissimo spettacolo vedere forze politiche che si azzuffano al loro interno per qualche poltrona», dice a Controcorrente su Rete 4 il ministro degli Esteri.

Nel partito lo «spettacolo» viene guardato con preoccupazione. «Non è che Beppe voglia chiudere il Movimento?», si domanda smarrito uno stellato. «Devono smetterla. Conte si faccia sentire, trovino una sintesi: gli altri partiti hanno già iniziato la campagna elettorale. Il nostro presidente e il garante sono al mare a parlarsi addosso per un tema di poltrone: gli italiani cosa capiranno?», si sfoga un altro Cinque Stelle. La resa dei conti arriverà comunque «entro domenica», sostengono i ben informati.

Grillo minaccia l’addio sul terzo mandato e fornisce l’alibi a Conte. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 27 luglio 2022.

Mentre il gruppo della Camera si riorganizza dopo l’addio dell’ex capogruppo Davide Crippa e di una parte del direttivo del gruppo, si alza la temperatura sul limite dei due mandati. Dopo che Conte ha detto che «non è un diktat», il fondatore Beppe Grillo l’avrebbe minacciato di lasciare il Movimento. Ma c’è chi vede nello scontro soltanto la costruzione di una scusa per Conte

La battaglia per la deroga al vincolo dei due mandati nel Movimento 5 stelle inizia con lo scontro tra i suoi vertici. Il fondatore del Movimento, Beppe Grillo, avrebbe minacciato il presidente Giuseppe Conte di lasciare la sua creatura se il leader dovesse concedere delle deroghe alla regola del secondo mandato. Il tema è in discussione da molti mesi e in un’intervista al Corriere della Sera Conte ha spiegato che il limite «non è un diktat».

Parole che avrebbero fatto infuriare il fondatore, che da tempo si batte per continuare ad applicare il criterio, secondo cui un parlamentare, un sindaco o consigliere regionale non può essere eletto per la terza volta. Grillo avrebbe posto dunque un ultimatum all’ex premier durante una telefonata, in cui avrebbe minacciato di lasciare il Movimento nel caso in cui Conte optasse per la deroga, fosse anche solo a pochi fedelissimi. Conte ha poi smentito la telefonata, spiegando che non c’è stato «nessun aut aut».

«Smentisco categoricamente tutte le indiscrezioni in merito. Abbiamo di fronte una grande battaglia da combattere tutti insieme per il paese, guardiamo uniti nella stessa direzione», ha detto. Ma una soluzione va trovata, e in fretta, per risolvere le ambiguità che ancora circondano il destino di chi rischia di non essere più candidato. C’è però anche chi interpreta lo scontro come un gioco delle parti, un conflitto solo apparente per garantire all’ex premier un alibi nel momento in cui dovrà negare, anche a chi negli ultimi mesi gli è stato più vicino, la possibilità di ricandidarsi.

LA DEROGA

Negli ultimi giorni era circolata l’ipotesi di una deroga limitata a quattro-cinque nomi di parlamentari vicini al leader, arrivati a fine corsa secondo le regole originarie. Tra i nomi più citati ci sono quelli della vicepresidente Paola Taverna, del presidente della Camera Roberto Fico, dei ministri Fabiana Dadone e Federico D’Incà. Ma, di fronte all’insofferenza del garante del Movimento, anche quest’ultima possibilità è sfumata col passare dei giorni. Resta da capire quanto e come verrà presa la decisione.

A giugno, Conte aveva promesso di coinvolgere la base del partito nella scelta, non prendendo posizione sul tema. I vertici dovrebbero valutare nei prossimi due giorni, al rientro a Roma di Conte, come procedere. Potrebbero indire una votazione o decidere direttamente per la conferma del vincolo, come chiede il senatore ed ex ministro Danilo Toninelli (lui stesso sarebbe escluso dalle prossime elezioni). Gli attivisti sono ostili alle deroghe e la votazione, che comporta una modifica del codice etico, aprirebbe nuovi scenari per possibili ricorsi giudiziari sulla natura della votazione stessa. D’altra parte, Conte non ha interesse a rompere con Grillo dopo la scissione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

LE INDISCREZIONI SUL SIMBOLO

Grillo mantiene ancora la proprietà del simbolo del Movimento e dei primi domini ad esso associati, attraverso la prima organizzazione che ha fondato a Genova nel 2013. Un dato che dà a Grillo margini di trattativa molto importanti. «Parziali modifiche del simbolo non farebbero venir meno il potere di interdizione di Grillo», dice Lorenzo Borrè, l’avvocato che ha difeso gli attivisti che più volte si sono scagliati contro il nuovo corso di Conte. Il garante dovrebbe quindi dare il suo via libera a tutti i cambiamenti a cui i vertici del Movimento starebbero pensando in vista delle elezioni.

Nel nuovo logo in preparazione, il nome di Conte potrebbe sostituire la data del “2050”, oppure potrebbe affiancarlo. «Se non approvasse le modifiche, essendoci anche una sentenza della Corte d’appello di Genova passata in giudicato che attribuisce simbolo e nome del Movimento all’associazione di Genova, Grillo potrebbe impedire a Conte l’utilizzo di tutti i simboli graficamente similari e togliergli anche la possibilità di impiegare il nome del M5s», dice Borrè.

Una volta risolta la questione dei due mandati e quella del simbolo, il Movimento dovrà capire come coinvolgere la base in quel che resta delle parlamentarie, le votazioni online che nelle ultime elezioni hanno selezionato i candidati da inserire nelle liste elettorali.

Nonostante lo statuto le preveda, è difficile che il meccanismo possa essere usato anche stavolta, considerati i tempi stretti e tutti i documenti sulla propria condotta giudiziaria che gli aspiranti candidati devono procurarsi per correre alle parlamentarie online. Il garante tiene parecchio anche a questo elemento caratteristico per il Movimento. La soluzione potrebbe essere quella di sottoporre al voto online delle liste già stese, ma Conte ora deve dare delle risposte. 

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Da Fico a Taverna: i Cinque stelle che Grillo non vuole più in parlamento. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 23 luglio 2022

Sono poco meno di 50 i parlamentari tra Camera e Senato che Beppe Grillo ha scientemente tagliato fuori dal Movimento 5 stelle ribadendo il limite dei due mandati, anche se al presidente Giuseppe Conte, che rischia di rimanere senza contiani, la nuova linea non piace.

Dalla periferia che ormai si sta allontanando sempre di più dai vertici romani (una situazione in verità che non riguarda solo il Movimento 5 stelle) rumoreggiano perché ancora non ci sono i responsabili provinciali, nomine che, quasi come tutte, sono appannaggio di Conte.

Dopo che Conte è andato incontro a scissioni e malumori, è arrivata la presa di posizione di Grillo, detentore del simbolo, ben più decisa dei “penultimatum” del leader. Che fino a oggi sulla gestione interna del movimento non ha fatto trapelare niente.

Sono poco meno di cinquanta i parlamentari che Beppe Grillo vuole tagliare fuori dalle liste elettorali del Movimento 5 stelle. Oggi ha ribadito il limite dei due mandati e di fatto ha dettato la nuova linea del Movimento: tutto cambi perché tutto torni come prima. Anche se al presidente Giuseppe Conte, che rischia di rimanere senza contiani, la linea non piace.

Al fianco del fondatore ci sono gli eletti della prima ora considerati duri e puri, tra cui Danilo Toninelli, che per primo ha dimostrato la sua fedeltà: è pronto a lasciare la poltrona per far tornare il M5s «sé stesso», quello contrario ai politici di professione e con il desiderio di aprire il parlamento come una scatoletta di tonno. E dalla Russia apre a un grande ritorno anche Alessandro Di Battista. 

IL VIDEO DI GRILLO 

Il fondatore ha parlato con un video arrivato all’improvviso ieri mattina. Dopo l’immagine della colla su WhatsApp e i post profetici, questa volta Grillo è stato chiarissimo: «Siamo in un momento caotico e potremmo essere morti tra 15 giorni», ha detto, «ma i nostri due mandati sono luce in questa tenebra incredibile, sono l’interpretazione della politica come un antibiotico». Quasi «un servizio civile», spiega nel suo video intitolato “Un cuore da ragionere” che mima il «cuore di banchiere» del premier dimissionario Mario Draghi.

La regola pentastellata dei due mandati, ha proseguito, «dovrebbe diventare legge di stato, l'Italia lo merita come una legge contro i cambi di casacca, si merita una legge elettorale con sbarramento, una per la sfiducia costruttiva. Non siamo riusciti a farle, mi sento colpevole anch'io, però abbiamo di fronte qualcosa di straordinario: sono tutti contro di noi», e quando è così «vuol dire che abbiamo ragione» ha concluso nel video.

GLI ESCLUSI

La lista dei parlamentari che rischiano di rimanere fuori dal parlamento è lunga. Si va dalla senatrice Paola Taverna, all’ex ministro della Giustizia e deputato, Alfonso Bonafede. Dalla ministra per le Politiche giovanili Fabiana Dadone, al ministro per i Rapporti con il parlamento Federico D’Incà, quest’ultimo tra i più alacri mediatori perché il Movimento non rompesse col Pd e votasse la fiducia a Mario Draghi. Nel novero ci sono anche la vice presidente della Camera, Maria Edera Spadoni, il sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri, l’ex ministra della Salute Giulia Grillo.

Una nota a parte meritano quattro parlamentari: il presidente della Camera, Roberto Fico, il presidente della Commissione Industria Gianni Girotto, la mamma del Reddito di cittadinanza, Nunzia Catalfo ex ministra del Lavoro, e Riccardo Fraccaro, l’ideatore del Superbonus che è diventato l’oggetto dello scontro aperto tra Draghi e i pentastellati. Per loro ancora si parla dell’ipotesi di una qualche deroga che pure le parole di Grillo sembrano escludere. Fico sembrava un intoccabile, mentre gli altri tre sono stati recentemente elogiati dal profilo Instagram dell’ “Elevato” per il loro lavoro al governo e in parlamento. Davvero caccerà anche loro? Girotto risponde: «L'argomento non mi interessa, non lo sto minimamente seguendo».

IL QUASI RITORNO DI DI BATTISTA

Di Battista, is back, è tornato, o quasi. In giro in Russia a produrre reportage per ora è tornato a fare sognare i pentastellati di una volta anche lui con un video. Lui ha alle spalle un mandato solo, e oggi che ha «passato i 40 anni» potrebbe riproporsi per un secondo, magari al Senato. Lì dove vuole candidarsi il nemico di sempre: Silvio Berlusconi.

Di Battista aveva già detto che se il Movimento 5 stelle avesse lasciato il governo Draghi, si sarebbe potuto aprire anche un dialogo, e ieri non ha chiuso la porta, anzi: «Non sono disposto a entrare in parlamento rinunciare alla libertà» ma «vedrò quello che succede nei prossimi giorni». Secondo l’Huffington Post è in costante contatto con l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi.

IL SILENZIO DI CONTE E “GIGGINO CARTELLETTA”

Conte, si era detto pronto a mettere ai voti questa importante decisione, ma Toninelli dice sarebbe un trucco per non mantenere il limite dei due mandati. La proposta di Conte era arrivata poco prima che Luigi Di Maio e un gruppo di parlamentari decidessero di formare un gruppo a parte e mettesse di fatto il Movimento in imbarazzo qualora volesse procedere a deroghe. Grillo nel suo video non ha dimenticato nemmeno questo passaggio, chiamandolo “Giggino ‘a cartelletta”: «C'è gente che entra in politica per diventare una cartelletta. “Giggino a cartelletta” adesso è là che aspetta di archiviarsi in qualche ministero della Nato».

IL RITARDO

Senza che la scelta sul doppio mandato venga formalizzata, la campagna elettorale non può cominciare e soprattutto non si possono fare le liste. Sulla carta la scadenza è il 22 agosto, ma la verità è che la decisione potrebbe essere obbligatoria anche prima. Infatti il simbolo deve essere depositato entro il 14 e il proprietario è Beppe Grillo, lui che può decidere le sorti dei pentastellati e tenere sotto scacco Conte.

Intanto dalla periferia, che ormai si sta allontanando sempre di più dai vertici romani (una situazione in verità che non riguarda solo il Movimento 5 stelle), rumoreggiano perché ancora non ci sono i responsabili provinciali, nomine che, quasi come tutte, sono appannaggio di Conte.

La lista dovrebbe essere già pronta e anche se la defezione dei dimaiani ha cambiato alcune previsioni. Massimo De Rosa, ex parlamentare e oggi al consiglio lombardo commenta: «Che la struttura venga definita al più presto è necessario, perché abbiamo bisogno di organizzarci. Noi ci siamo sempre mossi su base volontaristica, ma adesso anche i meetup chiedono un sostegno».

In questo stato, dal Movimento ligure non escludono che si faccia ricorso ai pentastellati cacciati perché non hanno votato la fiducia a Draghi. D’altra parte, un eventuale riavvicinamento potrebbe essere coordinato dall’ex ministro Stefano Patuanelli e Alessandro Di Battista, figura di richiamo per tutti quelli che non avevano appoggiato la piega di unità nazionale del Movimento. Lui stesso era stato il primo a lasciare apposta.

Senza prendere decisioni Conte ha ricominciato prendersela col Pd. Come ai vecchi tempi, contro il partito di cui Grillo voleva diventare segretario per poi decidere di passare ai vaffa. Troppo poco. Dopo che Conte è andato incontro a scissioni e malumori, è arrivata la presa di posizione di Grillo ben più decisa dei “penultimatum” del leader. Che fino a oggi sulla gestione interna del Movimento non ha fatto trapelare niente. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Federico Capurso per “la Stampa” domenica 24 Luglio 2022.  

Se non fosse stata chiara la prima volta, la seconda fosse sfuggita e la terza dimenticata, ecco Beppe Grillo tornare sul blog con un videomessaggio per ricordare ai suoi «ragazzi», con «cuore da ragioniere» che la regola dei due mandati non potrà essere modificata. «È la nostra luce nelle tenebre», dice il Garante delle regole e dei princìpi grillini, con la volontà di chiudere definitivamente la questione. E spegnere, magari, il cicalio dei big tornati a bersagliarlo di messaggi per ottenere una deroga che li salvi dall'incubo di scomparire.

Gran parte della nomenclatura pentastellata è destinata a dare l'addio al Palazzo, se Giuseppe Conte non riuscirà a trovare una soluzione. Raccontano che la sua vice, Paola Taverna, sia «furibonda». Vito Crimi «affranto», come anche il presidente della Camera Roberto Fico, che aveva già fatto la bocca su un collegio blindato in Campania. 

E poi Stefano Buffagni, Alfonso Bonafede, Virginia Raggi, i ministri Federico D'Incà e Fabiana Dadone: la lista è lunga e adesso sono in pochi a volersi spendere in campagna elettorale: «Se non mi candidano, è escluso che passi la mia estate ad aiutare un Movimento che vuole scaricarmi», dice a La Stampa uno degli interessati.

È un pensiero «diffuso», quello di disertare i palchi e le piazze estive, che rischia di minare il cammino verso il giorno del voto. Per il senatore Gianluca Perilli, poi, lo stop alla ricandidatura avrebbe proprio il sapore della beffa: incaricato di stilare il programma di governo grillino, in una girandola di riunioni infinite, dovrebbe lasciare che altri colleghi raccolgano il frutto del suo lavoro. 

Mentre i maggiorenti pentastellati si trincerano in un silenzio che meglio di ogni altra cosa ne fotografa il dramma, alcuni loro colleghi intervengono per applaudire il Garante.

Danilo Toninelli è al secondo giro, ma aveva già annunciato che non si sarebbe ricandidato e ora brinda: «Ho le lacrime agli occhi. Benissimo Grillo!

Ora avanti a testa alta e se qualche altra zavorra si staccherà dal M5S, vorrà dire che riusciremo a volare ancora più alti».

Potrebbe invece rientrare Alessandro Di Battista, di ritorno dalla Siberia, anche se resta prudente: «In tanti mi state dicendo che è il momento di buttarmi nella mischia - spiega in un video affidato ai social -, ma io non sono disposto a tutto pur di ritornare in Parlamento». E in quel «tutto» c'è soprattutto l'alleanza con il Pd.

C'è anche chi aveva due legislature alle spalle e ora è pronto a candidarsi in un altro partito. 

Categoria a cui Grillo rivolge uno sfottò: «Entrano in politica per diventare poi una "cartelletta". Giggino' a cartelletta" - punge il Garante riferendosi a Luigi Di Maio - ora è di là che aspetta il momento di archiviarsi in qualche ministero della Nato. E con lui decine di altre cartellette che lo hanno seguito». Di Maio però è convinto di poter ottenere almeno qualche seggio. E dal suo punto di vista, forse, questo basta anche a sopportare l'imbarazzo di essere entrato nel Palazzo con l'idea di scardinare la «vecchia politica», per poi trovarsi costretto - si racconta - a correre alle prossime elezioni a braccetto del Centro democratico dell'infinito Bruno Tabacci, giunto alla sua sesta legislatura.

Nel Movimento, però, in pochi pensano al destino del ministro degli Esteri. Tira una brutta aria. Conte è preoccupato, le liste elettorali vanno chiuse rapidamente e adesso rischia di avere pochi nomi di peso con cui trainare il partito. Si sta ragionando sull'ipotesi di modificare almeno le due regole interne che prevedono l'obbligo di candidarsi nel collegio elettorale in cui si ha la residenza e di portare gli over40 in Senato e gli under alla Camera, ma non basta.

E trovare una strada per aggirare il limite di due mandati «ora è complicato», ammettono ai piani alti del M5S. Grillo ha persino riesumato la vecchia battaglia per introdurre in Costituzione il limite di due legislature, perché adesso si è accorto che «tutti questi sconvolgimenti, queste defezioni nel nostro Movimento sono provocate da questa regola che è innaturale, contro l'animo umano». Peccato se ne ricordi dopo aver visto passare tre governi con i Cinque stelle a bordo, durante i quali l'argomento è stato sempre evitato. Vorrebbe anche una legge proporzionale e una legge che introduca la sfiducia costruttiva, ma il suo partito ha contribuito alla caduta del governo Draghi. E il tempo è finito.

M5S, nessuna deroga al tetto dei due mandati. Conte ai big: Grillo «irremovibile». Emanuele Buzzi su Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022.

La scelta impedirà al presidente della Camera Fico, a Paola Taverna, Vito Crimi, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede di ricandidarsi. I contiani esultano: ,«bye bye... 

Il presidente della Camera Roberto Fico, la vice vicaria di Conte Paola Taverna, i ministri Fabiana Dadone e Federico D’Incà e molti altri big storici come Alfonso Bonfede, Riccardo Fraccaro non saranno candidati dai Cinque Stelle. Nessuna deroga. Come richiesto dal cofondatore, Beppe Grillo. Il Movimento 5 Stelle ha deciso che non ci saranno «scappatoie» alla regola del tetto dei due mandati .

La decisione, secondo quanto anticipato da Ileana Sciarra dell’AdnKronos, che cita «autorevoli fonti» nel Movimento,è stata già comunicata dal leader del movimento Giuseppe Conte ai «veterani» del M5S. Una serie di telefonate, quelle di Conte ai big per ribadire che Beppe Grillo è stato «irremovibile» su questo tema. 

In una intervista al Corriere , Giuseppe Conte aveva spiegato che il tetto dei 2 mandati non era da intendersi come «un diktat»: «Non è un diktat, ma lo spirito della regola sarà salvaguardato», aveva detto, rassicurando che «non manderemo in soffitta chi per 10 anni ha preso insulti per difendere i nostri ideali e per contribuire in Parlamento a realizzare le nostre battaglie».

Le reazioni non si sono fatte attendere. La notizia della conferma del tetto dei due mandati è stata accolta con umori opposti all’interno dei Cinque Stelle. I contiani esultano maliziosi: “Bye bye...”. Mentre nell’ambiente c’è chi commenta: «Ormai è tutti gli effetti il partito di Conte».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 28 luglio 2022. 

[…] Conte corre da solo con i 5Stelle. E Grillo, dopo 18 mesi di impegno indefesso per affossarli, pare minacci di fare finalmente qualcosa per loro: andarsene.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 28 luglio 2022.

Vatti a fidare dei giornalisti, soprattutto di quelli con G maiuscola che credono di essere l'ombelico del mondo politico. 

Succede che Giuseppe Conte, a questo punto il povero Giuseppe Conte, ha seguito alla lettera, fin da quando era Presidente del Consiglio, i consigli e le indicazioni di Marco Travaglio e dal mattino alla sera si è trovato prima fuori da Palazzo Chigi, poi senza soldati e senza futuro e da ieri forse anche senza più la copertura di Beppe Grillo che non potendone più, pur essendo un comico di professione, di questa strana coppia tipo Gianni e Pinotto ha definitivamente sbottato: o si fa come dico io - quindi niente doppio mandato - o lascio i Cinque Stelle.

Che è un po' come se ieri Berlusconi avesse annunciato di lasciare Forza Italia perché in disaccordo con Tajani perché prendeva ordini da me invece che da lui. 

Non era poi così facile far esplodere un partito che solo cinque anni fa aveva vinto le elezioni con il 34 per cento dei consensi. Ognuno dei Cinque Stelle ci ha messo del suo, certo, ma il detonatore è stato la strategia dello sponsor Giornalista che è riuscito nell'altrettanto difficile impresa di mettere tutti contro tutti, non si capisce poi a che titolo se non la sua sindrome narcisista che aveva già portato a schiantarsi altri illustri personaggi finiti sotto la sua tutela.

Chi non ricorda la campagna a sostegno di Antonio Ingroia, magistrato eroe dell'antimafia finito sotto i ponti dopo essere stato cacciato con disonore per alcune inchieste farlocche - cosa assai rara- dalla magistratura prima e aver ciccato alla grande il suo ingresso politico poi. Stessa sorte di disgrazia, con sfumature diverse, è toccata ad altri due eroi di fatto (Quotidiano), il pm De Pasquale, quello dell'inchiesta farsa su Eni sostenuta alla grande dal nostro, e il super moralista Davigo, oggi indagato.

Stendiamo un velo sulla scomparsa dalla scena politica per manifesta incapacità dell'ex ministro Alfonso Bonafede, della Raggi e dell'Appendino, altri clienti del Giornalista, e fermiamoci qui perché l'elenco sarebbe lungo. E già tutti si chiedono: chi sarà il prossimo? A chiunque tocchi, buona fortuna.

Conte: «Ci ho provato». Ma rischia di essere lui la vera vittima di Beppe. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022. 

Il leader M5S giura ai big di aver fatto tutto il possibile e ora chiede aiuto per la campagna elettorale. 

«Per favore, tu comunque dammi una mano in campagna elettorale». Ci sono tanti modi per mostrare la propria debolezza. Uno è senz’altro quello di chiedere aiuto alle persone che hai appena ucciso, politicamente parlando, si intende. E infatti i parlamentari in uscita che hanno sentito Giuseppe Conte chiudere in questo modo la sua telefonata piena di «ci ho provato a fargli cambiare idea», «non è colpa mia», «ti giuro che ce l’ho messa tutta», hanno pensato quello che ora pensano in molti, dentro e fuori il Movimento Cinque Stelle. È tutto finito. 

La nascita di una simil lista Conte senza i contiani è tutto quel che resta di un mese cominciato con una scissione motivata con la politica estera ma in realtà generata dalla consapevolezza che non ci sarebbe stata alcuna deroga, proseguito facendo cadere un governo che almeno in via ufficiale non si aveva intenzione di far cadere, e terminata con questo nuovo capolavoro all’incontrario. «Tradire i propri uomini per salvare sé stesso» come dice in modo più colorito un ormai ex parlamentare di un certo peso. 

Alla fine, si tratta sempre della cara vecchia questione umana, oltre che di incapacità politica, come sottolineano molti epurati che speravano nel celebre «mandato zero» inventato proprio dal reprobo Luigi Di Maio come ultima spiaggia. Lo hanno pregato in ginocchio, tutti. Non basta qualche sms, lo sai come è fatto Beppe, prendi l’aereo e vai in Sardegna. Devi coccolartelo, devi finalmente farlo sentire importante, e ti porti a casa questa ennesima deroga all’anima dei vecchi 5 Stelle. In fondo che ci vuole, dopo che Grillo ha già ingoiato anche la recente sconfessione del «mai soldi ai partiti» che fu la linea del Piave di Gianroberto Casaleggio con il tentativo di gennaio, per altro anch’esso fallito, di accedere al 2 per mille con le dichiarazioni dei redditi dei cittadini. 

Ma lui, niente. Ogni ego è grande a mamma sua. Conte non si è mai mosso dal Gargano, dalla vacanza al mare per la quale è partito dopo aver fatto cadere un governo a sua insaputa, anche questa una scelta che ha destato perplessità nei gruppi parlamentari. La villeggiatura, non il siluro a Mario Draghi, si capisce. E qui si ritorna indietro di un anno esatto, a quella singolare fiera dell’incomunicabilità che sancì l’ingresso dell’ex presidente del Consiglio in casa d’altri, con il proprietario che prima aveva definito il nuovo affittuario «senza visione, autore di uno statuto secentesco», e poi aveva cambiato idea all’improvviso. A farlo tornare sui suoi passi era stata la ribellione dei tre membri del Comitato di garanzia, organismo che secondo le vecchie regole di fatto certificava le opinioni espresse da garante, altrimenti detto l’Elevato. 

A Roberta Lombardi, Vito Crimi e Giancarlo Cancellieri l’aveva giurata da quel giorno. Si era sentito tradito, obbligato ad avallare una scelta che non ha mai smesso di sentire come un innesto innaturale. Nell’abborracciato accordo del luglio 2021 c’era anche il superamento della regola del secondo mandato, ma il Grillo ferito nell’orgoglio ha sempre avuto altre intenzioni. Sapeva che si sarebbe arrivati alla resa dei conti. Sarà stanco, sarà ormai nauseato dallo spettacolo che in qualche modo porta anche il suo nome, ma non ha resistito alla tentazione di mostrare ai suoi ex fedelissimi, che tutto gli dovevano, chi comanda sulle spoglie del Movimento Cinque Stelle. Il proprietario del simbolo è lui, avrebbe pur sempre potuto ritirarlo. 

Anche l’avvocato del popolo ha sempre saputo della spada di Damocle che pendeva sulla sua testa. Eppure, ha dilazionato, ha fatto vaghe promesse e caute affermazioni in senso contrario. Chi aveva orecchie per comprendere aveva capito tutto dopo l’abituale capitombolo alle Amministrative, quando Conte fece una surreale conferenza stampa per caldeggiare la deroga a Cancellieri per le primarie di coalizione siciliane, dicendo che sulla questione del doppio mandato avrebbe fatto votare la base, ma che lui non avrebbe espresso una opinione e comunque era contro i politici di professione. Da allora, è apparso chiaro che Grillo avrebbe vinto su tutta la linea. 

Poco importa che si giunga al paradosso della mancata ricandidatura della terza carica dello Stato, quel Roberto Fico per il quale Grillo ha più volte detto di provare affetto e stima, di quella Paola Taverna che è stata l’architrave del consenso di Conte nel gruppo del Senato, dell’esperto di allunaggi Carlo Sibilia, tutte figure dal relativo peso elettorale che però rappresentano un pezzo di vita del Movimento. Prima grillini oggi contiani. La necessità della riaffermazione del proprio io, il rancore verso i tre triumviri dai quali si è sentito tradito un anno fa, la costante sensazione di essere tenuto ai margini della sua creatura, che in psicanalisi si chiama sindrome del beneficiario irriconoscente, hanno portato Grillo a usare l’arma totale del mondo pentastellato. 

E così, in un inevitabile concorso di colpe, è stato fatto il male definitivo al Movimento. Oggi chi vota M5S lo fa per Conte. Ma voterà un leader che non ha saputo proteggere chi ha lavorato per accreditarlo come tale, da corpo estraneo che era. E che sarà obbligato a continuare un matrimonio di convenienza che si regge solo sulla reciproca debolezza, circondato da una nuova classe dirigente di perfetti sconosciuti. Un matrimonio nel quale l’unica cosa chiara è chi è il più debole tra i due sposi forzati.

Di che vi stupite? Il doppio mandato conferma la regola: Conte governa i Cinquestelle come governava l’Italia. Francesco Cundari su l'Inkiesta il 30 Luglio 2022.

Dopo aver ripetuto mille volte ai parlamentari, fino a due giorni fa, che avrebbe trovato «una soluzione», senza mai dire quale, alla fine li ha lasciati a casa, ma con molti elogi. 

Da quando è diventato leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte ha passato gran parte del suo non poco tempo libero assicurando ai parlamentari, e in particolare a quelli che si erano schierati al suo fianco nelle numerose diatribe interne, che sulla questione del doppio mandato avrebbe trovato «una soluzione». Ciclicamente, ogniqualvolta Beppe Grillo confermava o faceva filtrare l’intenzione di tenere fermo il principio e non accettare deroghe, l’ex punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti non si scomponeva, faceva la faccia di chi la sa lunga e ripeteva ai suoi seguaci, comprensibilmente sempre più nervosi, che non c’era motivo di agitarsi. E passava oltre, lasciando il problema irrisolto, fermissimamente deciso a non occuparsene affatto fino a quando non si fosse risolto da sé.

Queste le sue parole di giovedì – appena due giorni fa – riportate dall’Ansa: «Se io e Grillo abbiamo risolto la questione del doppio mandato? Stiamo discutendo in queste ore e risolveremo entro questa settimana sulle modalità anche per valorizzare esperienze e competenze». La «soluzione» tante volte annunciata è stata resa nota ieri: resta la regola del doppio mandato. Lo ha confermato lo stesso Conte in un post su Facebook, che comincia così: «Alle prossime elezioni politiche non troverete, tra i candidati del M5S, chi ha già svolto due mandati». Semplice e chiaro, per una volta. Ma il passaggio più bello arriva qualche riga dopo: «Lasciando il seggio non potranno più fregiarsi del titolo formale di “onorevoli”. Ma per noi, per la parte sana del Paese, saranno più che “onorevoli”. Stanno compiendo una rivoluzione che nessuna forza politica ha mai avuto il coraggio neppure di pensare».

Portato istintivamente a solidarizzare sempre con le vittime, devo ammettere che nel caso dei «più che onorevoli» faccio fatica. Non solo perché la fregatura era evidente sin dal principio, perché di fronte a uno che dice chiaro e tondo di non volerti ricandidare e a un altro che risponde di voler trovare «una soluzione», è ovvio chi dei due ti sta prendendo in giro. Ma anche perché, non fosse stata sufficiente la cristallina chiarezza del suddetto scambio, c’erano alcune tonnellate di precedenti.

Rinviare sempre, non decidere niente e cercare di uscire dai guai con una formulazione che dica tutto e il contrario di tutto è da sempre il modus operandi dell’Avvocato del popolo, è il modo in cui ha (non) affrontato tutte le questioni aperte dentro il suo partito, ma soprattutto è il modo in cui ha governato l’Italia. Ricordate l’incredibile autunno 2020, quello dei quattro decreti in quattro settimane, per un’emergenza Covid che ogni settimana si cercava di ridimensionare, per non smentire la narrazione della grande vittoria sul virus, salvo dover prendere sette giorni dopo i provvedimenti che non si erano voluti prendere sette giorni prima, e così via fino all’esplosione della seconda ondata?

In entrambi i casi, al governo dell’Italia e al governo del Movimento 5 stelle, l’esito ultimo, o per meglio dire l’ultima scappatoia, è sempre la stessa: una infornata di nomine e un pacco di soldi per tenere buoni tutti, eletti ed elettori, amici e nemici, dirigenti e diretti. Super task force, super bonus e super consulenze.

È il modo in cui evidentemente Conte pensava di avere risolto anche il problema Grillo, con un lucroso contratto per fare un po’ di propaganda al movimento da lui fondato. Come al solito, aveva fatto male i conti. E tuttavia, impermeabile a ogni smentita della realtà, state pur sicuri che l’ultima «soluzione» sarà ancora e sempre la stessa: ai «più che onorevoli» privati del seggio il movimento provvederà ad assegnare incarichi di qualche genere, ovviamente retribuiti. Ma almeno non da noi.

Da open.online il 29 luglio 2022.

Dopo il niet alla deroga alla regola del tetto dei due mandati nel Movimento 5 Stelle, la pasionaria vicepresidente vicaria del M5s, Paola Taverna, ha deciso di congedarsi dai pentastellati con un post su Facebook. 

«Il Movimento 5 Stelle è figlio di una visione, un sogno che ha saputo farsi realtà portando nei palazzi la voce di chi non veniva ascoltato. Ringrazio tutti voi per avermi dato la possibilità di essere parte di quella voce in questi 10 anni. Sorrido pensando che forse l’eco delle mie urla contro il sistema e le sue storture continuerà a sentirsi ancora per qualche tempo a Palazzo Madama!», scrive la senatrice del M5s. 

E guardando indietro nel tempo, Taverna osserva come la sua militanza nel M5s, così come la sua elezione in Parlamento, sia stata «un’esperienza meravigliosa, che ho cercato di interpretare nel migliore dei modi, al servizio esclusivo del Paese, delle Istituzioni e dei nostri valori fondanti.

Dal Movimento ho avuto tanto. Al Movimento ho dato tanto, come è giusto che sia quando si crede in qualcosa e si è spinti da ideali alti». E la senatrice partita dalle borgate del Quarticciolo, sino a diventare una delle esponenti di maggior spicco all’interno della galassia pentastellata, conclude: «È il momento di guardare avanti e di farlo tutti insieme! Con l’entusiasmo delle origini e la voglia di cambiare che ci ha consentito di vincere tante battaglie. Io c’ero, ci sono e ci sarò sempre! Viva il Movimento 5 Stelle!».

M5s: “Nessuna deroga sul tetto dei due mandati”. Nuovi disoccupati in arrivo! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Luglio 2022. 

Per i 'veterani' del M5S salta anche la possibilità di candidarsi nelle Regioni o in Europa e viceversa. Per chi ha due mandati alle spalle non esiste piano B. Dovranno trovarsi un lavoro.

Secondo quanto apprende e diffonde l’agenzia Adnkronos da autorevoli fonti, non ci sarà nessuna deroga alla regola del tetto dei due mandati. E’ passata la linea del co-fondatore e garante Beppe Grillo. La decisione, a quanto si apprende, è stata già comunicata dal leader del movimento Giuseppe Conte ai ‘veterani’ del M5S. Saltano, dunque, nomi storici del Movimento. Tra questi, Roberto Fico, Paola Taverna, Vito Crimi, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, artefice e responsabile dell’ingresso di Giuseppe Conte nel M5S.

La notizia è stata ufficializzata con una nota pubblicata da Conte sulla sua pagina Facebook, in stile “Casalino“. Questa mattina, intervenendo ai microfoni di Rtl 102.5, Conte ha annunciato la decisione in giornata: “A fine giornata valuteremo il grado di coerenza del Movimento 5 stelle”. 

Esclusi dalla corsa elettorale non solo alla Camera e al Senato. Per i ‘veterani‘ del M5S salta anche la possibilità di candidarsi nelle Regioni o in Europa e viceversa. Per chi ha due mandati alle spalle non esiste piano B. Dovranno trovarsi un lavoro.

Non si sono fatte attendere le reazioni. La notizia della conferma del tetto dei due mandati è stata accolta con differenti umori all’interno del Movimento Cinque Stelle. I fedelissimi di Conte, molti dei quali al loro primo mandato, esultano maliziosi: “Bye bye…”. Mentre in Transatlantico c’è chi commenta: “Ormai questo è tutti gli effetti il partito di Conte”.

Chi sono gli altri parlamentari M5S esclusi

Fra i parlamentari che hanno già alle spalle due legislature ci sono anche il ministro delle Politiche giovanili Fabiana Dadone, e quello per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, l’ex ministro Danilo Toninelli, che in questi giorni ha difeso la regola del limite ai mandati, Riccardo Fraccaro, il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, Nunzia Catalfo, ex ministro del Lavoro e prima firmataria del disegno di legge sul salario minimo, il tesoriere del M5s Claudio Cominardi, Gianni Pietro Girotto e l’ex ministro della Salute Giulia Grillo.

E chi sono quelli in uscita in dissenso con Conte

Ormai questione di ore ed anche il ministro ai Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà ed il capogruppo uscente del M5S alla Camera Davide Crippa lasceranno il Movimento5 Stelle guidato da Conte. Altri due addii di grande “peso” interno a quello che fu il movimento. La frattura si era consumata nelle convulse giornate che hanno anticipato la fine del governo Draghi. Entrambi avevano cercato di convincere Giuseppe Conte ad andare avanti, salvaguardando con ciò anche la tenuta del fronte progressista. Per lunedì è stata convocata una conferenza stampa di D’Incà e Crippa, con anche la ex vicecapogruppo Alessandra Carbonaro – la quale ha lasciato il M5S giusto ieri, per passare al Misto – e lì verranno spiegate le ragioni politiche della rottura. I tre sono diretti nel centrosinistra. Le indiscrezioni di una candidatura di Crippa con il Pd girano ormai da giorni. Redazione CdG 1947

Da corriere.it il 30 luglio 2022.

Dopo aver ribadito con forza il no alla deroga per il tetto dei due mandati, riportando il Movimento all’anno zero e falciando di colpo la carriera politica di tutti i big 5 Stelle, Beppe Grillo torna con un post sul suo blog: «Non esiste un vento favorevole per chi non sa dove andare, ma è certo che per chi va controcorrente il vento è sempre sfavorevole. Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci.

E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati — scrive riferendosi molto probabilmente ai fuoriusciti con la scissione di Luigi Di Maio e ha chi ha contestato la regola del doppio mandato, tra i capisaldi del M5S — . Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà: siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie».

Il terremoto che ha colpito i 5 Stelle non fa vacillare il garante e fondatore del Movimento, che nel post intitolato «l’Italia si desti» e accompagnato da una foto minacciosa di zombie scrive: «Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio. Ma soprattutto ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Per alcuni è il tempo di farlo con la forza della precarietà, perché solo così potremo vincere contro gli zombie, di cui Roma è schiava. Onore a chi ha servito con coraggio e altruismo, auguri a chi prosegue il suo cammino! Stringiamoci a coorte! L’Italia ci sta chiamando».

"Contagiati dagli zombie, ma vinceremo". Grillo si autoconvince. Il comico fa un appello al trionfo: "L'Italia ci sta chiamando, vinceremo". Poi la stoccata agli ex: "Qualcuno è stato contagiato ed è caduto". Luca Sablone il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

"Ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Onore a chi ha servito con coraggio e altruismo, auguri a chi prosegue il suo cammino!". Così Beppe Grillo interviene pubblicamente per esprimere riconoscenza nei confronti di chi non potrà ricandidarsi con il Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni politiche.

Alla fine è passata la linea del comico genovese: il limite dei due mandati è stato confermato, senza alcuna deroga neanche a favore dei big. Dunque chi ha svolto già due legislature non avrà la possibilità di tornare in Parlamento tra le fila del M5S. Ma il co-fondatore chiude gli occhi e sogna una vittoria (quale?).

Grillo si autoconvince

Da parte di Grillo è arrivata una sorta di operazione di autoconvincimento, scommettendo sul fatto che i 5 Stelle in fin dei conti potranno sbandierare un trionfo: "Siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà. Siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie".

Il comico genovese sul suo blog ha pubblicato un articolo dal titolo "L'Italia si desti". Tra le righe scrive che per alcuni è arrivato il tempo di combattere con la forza della precarietà, ritenuto un mezzo attraverso cui arrivare alla vittoria definitiva contro gli zombie "di cui Roma è schiava". Il tutto accompagnato da un appello finale, con gli occhi rivolti verso un indefinito successo e con un richiamo all'Inno di Mameli: "Stringiamoci a coorte! L'Italia ci sta chiamando".

La stoccata ai fuoriusciti

Grillo non ha fatto mancare una serie di stoccate all'indirizzo di chi ha preferito abbandonare il Movimento 5 Stelle per accasarsi altrove o per fondare un nuovo gruppo politico. Ed è proprio sulla figura degli zombie che ha posto le basi per lanciare frecciatine che, anche se in maniera implicita, sembrano essere rivolte a Luigi Di Maio e a chi lo ha seguito.

"Sapevamo fin dall'inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio", è stata la punzecchiatura del co-fondatore del M5S.

Forse l'allusione ironica può rappresentare un monito anche nei confronti di chi in questi giorni ha contestato la conferma del doppio mandato senza eccezioni. Infatti all'interno del Movimento c'è chi avrebbe preferito concedere delle deroghe ai volti noti e più influenti, ma i 5S hanno preferito escludere modifiche di apertura rispetto alle origini.

Non va dimenticato che Giuseppe Conte aveva garantito che a fine giugno ci sarebbe stata una votazione online in merito al vincolo storico. Non solo la scelta è arrivata con oltre un mese di ritardo, ma la decisione finale è stata assunta senza consultare la base (come invece annunciato).

Mattia Feltri per "La Stampa" il 30 luglio 2022.

Ricapitoliamo. Nel 2007 arriva Beppe Grillo. Raduna in una piazza decine di migliaia di persone e le inebria con un vaffanculo. Fonda i meet up. I meet up diventano un partito. Ma non è un partito: non ha leader, non ha sede, non ha statuto. Non ha onorevoli, si chiamano cittadini, scelti pressoché a caso nelle frange più incazzate della popolazione.

Devono: abolire la democrazia parlamentare e introdurre la democrazia diretta digitale, abolire la povertà, abolire la disonestà, abolire l'inquinamento, cambiare il clima del pianeta. Allearsi con nessuno. Poi si alleano con la Lega nel governo più populista della storia dell'umanità. Il governo va in crisi. Stavolta allearsi con nessuno. Si alleano col Pd.

Poi arriva Draghi. Allearsi con nessuno. Si alleano con tutti nel governo meno populista della storia dell'umanità. Contribuiscono a far cadere Draghi non dandogli la fiducia dicendo che non significa dare la sfiducia. Nel frattempo il partito è diventato un partito: ha un leader, ha una sede, ha uno statuto. Ha gerarchi. La democrazia parlamentare c'è ancora e se la sono palpeggiata in lungo e in largo. La povertà c'è ancora. La disonestà c'è ancora.

L'inquinamento c'è ancora. Il clima è quello che è. Grillo è stanco, offeso. Questi cretinetti gli hanno rovinato la rivoluzione. Torna, impone l'unica regola sopravvissuta all'evoluzione castale del Movimento: due mandati e poi a casa. Elimina in un colpo i gerarchi, il leader è mezzo accoppato, tornerà l'altro offeso, Alessandro Di Battista. Avrà una truppa parlamentare nuova di zecca, cioè nuovi incazzati per un partito che non è un partito, abolirà la povertà, la disonestà 

M5S : “Dilemma su terzo mandato svela questione identitaria non banale”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Agosto 2022 

Si capisce che alla fine l’abbia avuta vinta Grillo e che i dirigenti prossimi alla decapitazione parlamentare si siano trovati, chi più chi meno, a dover fare buon viso a cattivo gioco. Impresa che non è detto porti una gran fortuna alle sorti elettorali del M5S. Ma senza la quale è assai probabile che i consensi sarebbero stati ancora più esigui.

di Marco Follini

Ci si può infilare nei panni grillini e chiedersi se si doveva proprio tenere il punto sul divieto del terzo mandato oppure no. Se alla campagna elettorale e poi al prossimo Parlamento sarebbe servita la competenza -invero non proprio scintillante- delle Taverna, dei Toninelli, dei Crimi. O se invece era preferibile, come poi è successo, tener ferma la regola che dieci anni seduti sui banchi bastano e avanzano.

Il dilemma, è ovvio, è di principio e di potere. Nasconde un conflitto tra Grillo, fautore della ghigliottina dei due mandati, e Conte, più aperto all’idea di fare come gli altri e ricandidare almeno la sua guardia pretoriana. E insieme svela una questione identitaria tutt’altro che banale. Per un Movimento che ha dovuto ammainare una discreta quantità di bandiere, acconciandosi a governare con questo e con quello e a farsi carico di provvedimenti che stridevano non poco con il suo codice identitario, accompagnare alla porta la vecchia guardia era anche un modo -l’ultimo rimasto- per rivendicare una sorta di coerenza con i miti delle sue origini. 

Dunque, si capisce che alla fine l’abbia avuta vinta Grillo e che i dirigenti prossimi alla decapitazione parlamentare si siano trovati, chi più chi meno, a dover fare buon viso a cattivo gioco. Impresa che non è detto porti una gran fortuna alle sorti elettorali del M5S. Ma senza la quale è assai probabile che i consensi sarebbero stati ancora più esigui.

Si vedrà. Fatto sta che l’argomento non riguarda solo gli interna corporis di una forza che pure appena quattro anni fa raccoglieva il consenso di un elettore ogni tre. Riguarda un principio. E cioè se la politica sia solo una vocazione, o sia anche un mestiere. Se essa richieda competenza e specializzazione, o invece abbia bisogno di un certo grado di improvvisazione. Se le sorti di un paese possano venire affidate a un “ragioniere” (versione Giannini) o magari a una “cuoca” (versione Lenin). Oppure se quelle sorti abbiano bisogno di un ceto specialistico vero e proprio, un esercito di professionisti capaci qualche volta di tramandarsi le competenze e qualche altra volta (più spesso, e più volentieri) di confidare nelle risorse della propria affaticata longevità.

E qui l’argomento scivola via dalle spalle dei “grillini” e si rivolge a tutti gli altri. I quali troppe volte sembrano attratti dalla suggestione di carriere sempiterne e seggi che si tramandano di padre in figlio. Così da perpetuare se stessi e perpetuarsi tra loro. 

C’è da dire che l’argomento non è affatto nuovo. Con una differenza però. E cioè che ai tempi della prima repubblica la tenace volontà dei leader dell’epoca di restare il più a lungo possibile sugli scranni parlamentari poggiava almeno sulla base del voto di preferenza, e dunque sulla possibilità che fossero gli elettori a mandarli a casa. Mentre oggi deputati e senatori vengono in gran parte eletti per una sorta di automatismo a seconda del posto in lista che i leader graziosamente assegnano loro. Dopo averli assegnati a se stessi, peraltro.

Così, sembra infine di venirsi a trovare dinanzi a una sorta di alternativa del diavolo. Se si dà retta a Beppe Grillo si finisce per decretare la decapitazione dei parlamentari nel momento più sbagliato: e cioè non appena hanno cominciato -solo cominciato- a maneggiare i ferri del mestiere. Ma se si dà retta ai volponi più attempati del professionismo politico si rischia che nessun ricambio venga mai facilitato pur di non minacciare la quasi infinita longevità dei professionisti del ramo.

Come spesso avviene, dovrebbe essere la misura a fare la differenza. In un regime ideale dovremmo poter contare nelle aule parlamentari su deputati e senatori non così improvvisati e al tempo stesso non così usurati. Speranza legittima, a cui forse gli elettori, se potessero, darebbero anche una mano. Nel frattempo, sarebbe bello se una mano la dessero anche i partiti -vecchi e nuovi.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 31 luglio 2022.

La tentazione sarebbe quella di rispolverare la vecchia immagine del Beppe Grillo in versione Amleto, alle prese con il dilemma del suo eterno ritorno.

Faccio il vecchio saggio oppure il guastatore, mi riprendo il Movimento oppure lo lascio in mani di cui non mi fido.

Ma la realtà è molto più crepuscolare, come quella della sua creatura. Oggi l'Elevato cofondatore è una persona che si sente bruciata dai compromessi che ha dovuto accettare e che ha avallato, consapevole del fatto che gli hanno nuociuto, sia come credibilità che a livello personale.

Prima il governo con la Lega imposto da Luigi Di Maio, poi l'alleanza con il Partito democratico, voluta da lui e da Roberto Fico, infine il sì al governo Draghi, frutto di un suo «volli fortissimamente volli».

Adesso che ogni ponte è stato bruciato, che ogni strada è sbarrata, è solo una questione di sopravvivenza, mascherata dall'illusione del ritorno alle origini. Fonti a lui molto vicine lo dicono convinto del fatto che il futuro M5S sarà una scialuppa capace di contenere al massimo 20-30 parlamentari. Grillo, che è stato capo assoluto, trascinatore, e garante del Movimento, si trova a convivere con Giuseppe Conte, del quale continua a non avere stima e ancora meno vera interlocuzione. La sua visione è rimasta quella di un anno fa, quella di un aspirante leader «che non ha capacità», e i fatti di questi giorni hanno rinforzato le sue certezze in tal senso.

L'imposizione della regola dei due mandati, calata dall'alto come dimostra l'imbarazzato commento di Conte rilasciato al Fatto quotidiano , «ha espresso la sua opinione consapevole che la decisione spettava a me», può essere vista come la decisione di ripartire da zero, oppure di spegnere le insegne del Bar a Cinque Stelle, che ormai non riconosce più. 

Senz' altro gli è servita per regolare i conti con quelli che nelle assemblee gli davano del «rincoglionito» e insinuavano che l'appoggio al governo Draghi derivava dalla necessità di tutelarsi con il processo del figlio Ciro, immemori del fatto che è un uomo molto vendicativo.

Non è un «muoia il M5S con tutti i filistei», è qualcosa che somiglia più alla mozione di sfiducia verso il modo in cui è stato guidato nell'ultimo anno il Movimento. Non è la svolta all'insegna dell'ortodossia ritrovata, piuttosto una manovra percepita anche da chi gli è rimasto fedele come pura tattica di sbarramento, la prima di altre che verranno.

All'orizzonte sempre più ristretto dei Cinque Stelle si profilano infatti altri scogli mascherati da questioni di principio. 

Grillo non ha alcuna intenzione di cedere sul principio della territorialità, candidati che corrono solo dove hanno radici, senza paracadute nei listini proporzionali di altre regioni. Anche per questo alcuni nomi di un certo peso e di un qualche richiamo, vedi alla voce Chiara Appendino, stanno alla finestra in attesa di sapere quali saranno le regole di ingaggio.

Non sfugge a nessuno che senza posti sicuri da promettere, l'acqua nella quale nuota Conte si fa sempre più bassa. 

Se anche qui non ci fosse alcuna deroga, alcuni suoi colonnelli, primo tra tutti il triestino Stefano Patuanelli, non hanno alcuna possibilità di tornare a Roma, se non come turisti. Da statuto, Grillo pretende che la selezione dei potenziali deputati passi dalla strada delle Parlamentarie, nonostante i tempi stretti.

Conte chiede invece un sistema misto, che gli consenta di distribuire le non molte carte che gli rimangono in mano, calando dall'alto qualche nome a lui caro. A questo punto pare difficile che possa superare il muro del garante.

L'ex presidente del Consiglio aveva chiesto il permesso di cambiare il simbolo. Gli è stato risposto che bisogna evitare le personalizzazioni. Quanto a un suo coinvolgimento vecchio stile, Grillo ha già fatto sapere che non intende essere disturbato. Forse si farà vedere alla chiusura della campagna elettorale. Se sarà dell'umore giusto e le cose verranno fatte come dice lui, al massimo chiuderà la campagna elettorale. Ma i tempi e l'impegno dello Tsunami Tour del 2013 sono ormai un ricordo sbiadito. La mossa dei due mandati forse è un tentativo di ritorno alle origini. Ma può preludere al sipario che cala. Anche su Beppe Grillo.

Da beppegrillo.it l'1 agosto 2022.

Non esiste un vento favorevole per chi non sa dove andare, ma è certo che per chi va controcorrente il vento è sempre sfavorevole. 

Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà: siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie.

Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio. Ma soprattutto ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Per alcuni è il tempo di farlo con la forza della precarietà, perché solo così potremo vincere contro gli zombie, di cui Roma è schiava.

Onore a chi ha servito con coraggio e altruismo, auguri a chi prosegue il suo cammino! 

Stringiamoci a coorte! L’Italia ci sta chiamando. 

M5S, Beppe Grillo dà il colpo di grazie ai fuggitivi: “Album degli zombie”. La schedatura. Il Tempo l'1 agosto 2022

Mentre Luigi Di Maio presenta la sua nuova creatura politica, il ministro Federico D’Incà e l’ex capogruppo Davide Crippa motivano le ragioni del loro addio al M5S, arriva la zampata di Beppe Grillo. Sui social, dove il fondatore del Movimento posta «l’album degli zombie», «in edicola: con 4 bustine l’album è in regalo!». Seguono tutte le foto dei ‘transfughi’ M5S - la galleria è lunga - e non mancano i big, da Di Maio a D’Incà, passando per Lucia Azzolina e Vincenzo Spadafora. Non manca neppure l’ultima uscita in casa M5S, Federica Dieni, che ha detto addio al Movimento proprio oggi. «Da oggi in tutte le edicole», scrive Grillo nel commento che accompagna il post. 

Nelle foto c’è la ‘schedatura’ di 60 parlamentari che hanno lasciato il Movimento. Appaiono anche i nomi di Laura Castelli, Manlio di Stefano, Carla Ruocco e Sergio Battelli. Intuibile il tono di gran parte dei commenti, anche se qualcuno risulta critico nei confronti dello stesso Grillo, che giusto un paio di giorni fa aveva parlato per la prima volta degli zombie, usando queste parole: «Non esiste un vento favorevole per chi non sa dove andare, ma è certo che per chi va controcorrente il vento è sempre sfavorevole. Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà. Siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie».

Da Di Maio a D'Incà: "Ecco l'album degli zombie". Grillo contro gli ex. Massimo Balsamo l'1 Agosto 2022 su Il Giornale.

Da Di Maio a D’Incà, passando per Crippa, Castelli e Spadafora: il comico genovese ironizza sui “traditori” del Movimento 5 Stelle e pubblica le loro "figurine" 

Le elezioni del 25 settembre potrebbero mettere la parola fine alla parabola del Movimento 5 Stelle. Da progetto anti-sistema a grande protagonista delle ammucchiate di sinistra, con tanto di scissioni a raffica, tanto care agli (ex) amici del Partito Democratico. Tra addii, rotture e contrasti con Conte, Beppe Grillo non abbandona la barca che affonda. Anzi, rilancia: nel mirino del comico genovese sono finiti i “transfughi”.

Grillo "bracca" Conte e blinda il simbolo. Ma apre sui capilista

Da Luigi Di Maio fino a Federico D’Incà, passando per Laura Castelli, Davide Crippa e Vincenzo Spadafora. I “traditori” del Movimento sono stati trasformati in figurine da collezione da Beppe Grillo. Ironia tagliente in una campagna elettorale senza esclusioni di colpi. E l’emorragia potrebbe non terminare qui: dopo il no alla deroga al tetto dei due mandati, altri pezzi grossi del M5s potrebbero salutare, alla ricerca di qualche candidatura grazie a partiti “amici”.

Luigi Di Maio è pronto ad accogliere altri grillini nel suo nuovo progetto politico, pronto a correre al fianco del Partito Democratico. Ma non è l’unico. D’Incà e Crippa hanno lanciato l’associazione “Ambiente 2050”: “Un laboratorio che guarda ai cittadini, alle persone, agli educatori, agli insegnanti, agli imprenditori che ogni giorno cercano di dare sostenibilità ambientale al nostro paese”, l’analisi del ministro dei Rapporti con il Parlamento. Altre destinazioni possibili per gli ex grillini sono Pd, Articolo 1 – Mdp e Alternativa c’è, i primi veri “scissionisti”.

I dem imbarcano i grillini: tre ex M5s nelle liste

Grillo deve fare i conti con una situazione piuttosto complicata: i sondaggi danno il M5s in caduta libera e la leadership di Giuseppi è sempre più in discussione. Per tentare di ricompattare il Movimento, il comico genovese già sabato aveva “pizzicato” gli “zombie”: “Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà: siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie. Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio. Ma soprattutto ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Per alcuni è il tempo di farlo con la forza della precarietà, perché solo così potremo vincere contro gli zombie, di cui Roma è schiava”. Ora la nuova stoccata. A caccia di qualche spunto per risorgere.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 2 agosto 2022.

Non ha perso il gusto macabro per la foto segnaletica, per le schedature online, lo sberleffo wanted . Linciaggi digitali un tempo riservati al «Giornalista del giorno», titolo di una famigerata rubrichetta del sacro blog. 

Ora a venire crocefissi sono i «traditori», nel frattempo diventati così numerosi da meritarsi «Il grande album di figurine degli zombie». Naturalmente Grillo è sempre Grillo, trasforma la sua rabbia in divertissement , in show social: niente fotoceramiche funerarie, ma simpatiche figurine stile Panini. Al posto di Pizzaballa, Di Maio; al posto di Boranga, Di Stefano.

Horror pop ad usum social, per dileggiare i transfughi e far divertire quel che resta dei militanti. E giù grasse risate, come ai tempi dello «psiconano» Berlusconi, dei «pidioti», di «cancronesi», di Renzi «ebetino». Grillo scodella ben settanta figurine di zombie, «contagiati dal morbo dei partiti», «schiavi di Roma». Tutti figli suoi, tra l'altro. Che ora protestano, ma fino a un attimo fa si spanciavano agli insulti di Grillo. 

«Morti viventi» che hanno lasciato la nave alla deriva dei 5 Stelle. Forse frastornati dai cambi di rotta, dal governo con Salvini all'esecutivo «con il Pd di Bibbiano», dal governo con «Dracula» Draghi fino alla svolta laburista dimentica del «non siamo né di sinistra né di destra». O forse solo gente in cerca di un seggio, per scampare alla tagliola del doppio mandato. Quando l'identità si affievolisce, l'insulto ricompatta.

Peccato per Giuseppe Conte, che nello statuto aveva fatto un bel compitino: «Le espressioni verbali aggressive devono essere considerate al pari di comportamenti violenti». Ma è quel Conte che Grillo definì, per una volta senza insulti, uno «senza visione politica, né capacità manageriali».

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 2 agosto 2022.  

La lista degli zombie di Beppe Grillo, altri due addii in direzione Luigi Di Maio, le discussioni sul simbolo, sulle regole per la composizione delle liste e la delusione dei parlamentari che non saranno rieletti e che promettono di boicottare un'altra regola aurea: la restituzione dell'indennità di fine mandato.

In casa M5S si discute molto e per ora si conclude poco. Le scorie di questi ultimi mesi conditi da addii e polemiche sono difficili da smaltire. Il garante, che alterna mesi di silenzio a periodi di grande attivismo mediatico, ieri ha pubblicato un post in vecchio stile, quando era normale ridursi agli attacchi personali verso gli avversari. 

Stavolta il fondatore dei 5 Stelle si è inventato un album di zombie, con le figurine dei suoi figli ripudiati o che l'hanno ripudiato, politicamente parlando, additati al pubblico ludibrio. Sarà un po' il mood di questa campagna elettorale: verrà rispolverata la retorica pre-2018, il noi contro tutti, avversati dal sistema, i buoni contro i cattivi.

Il problema è che Grillo ha da discutere anche con il presidente del partito. C'è da decidere come comporre le liste e si stanno scontrando due diverse filosofie. Affidare tutto alla rete, cioè agli iscritti al portale del M5S; oppure mixare la scelta della base con qualche nome calato dall'alto, cioè da Conte. 

 E poi: derogare o meno al principio di territorialità, storicamente caro al Movimento, che permetteva di candidarsi solo dove si è residenti? Senza modificare la norma, viste le proiezioni, alcuni big - vedi ad esempio Stefano Patuanelli e Chiara Appendino - rischierebbero di restare a casa.

Altra deroga: ci potranno essere delle candidature multiple? Tra Grillo e Conte c'è diversità di vedute: il primo teme che il Movimento si trasformi definitivamente nel partito personale dell'ex presidente del Consiglio, il secondo invece pretende di far valere il proprio peso decisionale. 

Stesso discorso vale per il nome di Conte nel simbolo: Grillo non ama personalizzare così la contesa elettorale, i contiani credono invece che il nome dell'ex presidente del Consiglio possa fare da traino. Resta in stand-by, poi, la candidatura di Alessandro Di Battista: il ritorno del figliol prodigo non dispiace al fondatore. 

Nel frattempo, dopo il ministro Federico D'Incà e l'ex capogruppo Davide Crippa, anche Federica Dieni e Giuseppe D'Ippolito hanno salutato i 5 Stelle. Da qui ai prossimi i giorni potrebbero esserci altri addii e una ragione è (anche) veniale. Il regolamento interno infatti prevede che l'assegno di fine mandato - destinato per legge a tutti i parlamentari che non saranno rieletti - debba essere restituito, fatta salva la cifra di 15 mila euro.

Il grosso va versato «ad un conto dedicato intestato ad apposito comitato operativo, nazionale o regionale, in attesa di individuare periodicamente la destinazione finale, o ad un apposito conto corrente intestato al M5S, dedicato a questa finalità», è la postilla.

Per chi entrò in Parlamento nel 2013, si parla di cifre attorno agli 80-90 mila euro. 

Uno scivolo a cui in parecchi, a desso, non sono disposti a rinunciare in base alle regole di un partito che - particolare che non è stato ancora pienamente elaborato da tutti - ha deciso di non ricandidarli. Abbandonare il M5S accampando motivazioni politiche, le più disparate e magari anche condivisibili, può quindi permettere di evitare la tagliola economica. 

Mattia Feltri per “La Stampa” il 5 agosto 2022.

Eh ragazzi, mi dispiace ma le regole sono regole. 

E quella dei due mandati, ha ragione Beppe Grillo, proprio non può essere toccata sennò svanisce quel poco d'anima che vi resta. 

Cari Roberto Fico e Alfonso Bonafede e Paola Taverna, e tutti gli altri, due mandati li avete già fatti. Adieu. Le regole sono regole. E poi mica solo voi. 

Prendete Chiara Appendino. Condannata in primo grado e i condannati non possono candidarsi.

Ne va della nostra onestà, e il regolamento lo dice chiaro, leggete qua Ah no, è cambiato dice che un condannato in primo grado per reato colposo e non doloso in realtà può candidarsi. 

Ma guarda un po', Appendino può candidarsi Vabbè, un'eccezione, perché poi c'è anche Rocco Casalino. 

Ha svolto lavoro subordinato per il Movimento e i subordinati non possono candidarsi.

Ne va della nostra trasparenza, e il regolamento lo dice chiaro, leggete qua Ah no, è cambiato la regola è proprio scomparsa dev' essere successo stanotte. Ma guarda un po', anche Casalino può candidarsi... 

Vabbè, un'altra eccezione, perché poi c'è Alessandro Di Battista, e qui non si scappa. 

Il regolamento dice che per candidarsi col Movimento bisogna essere iscritti da almeno sei mesi e Di Battista non è iscritto da un sacco di tempo. 

Mica possiamo imbarcare il primo che passa, spiace per Alessandro, ma il regolamento lo dice chiaro, leggete qua Ah no, è cambiato...anche questa regola è scomparsa dev' essere successo mentre eravamo al bar. 

Ma guarda un po', pure Di Battista può candidarsi Vabbè ragazzi, fatemi controllare eh no, carta canta, la regola dei due mandati è rimasta. Mi dispiace, ma le regole sono regole. 

 Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 5 agosto 2022.

Dalla trasparenza alle parlamentarie dei cavilli. Blindata la regola dei due mandati sembrava che il M5s stesse ingranando la retromarcia, per mantenere almeno l'involucro della purezza dei bei tempi andati. 

Ma lo spettacolo che sta andando in scena sulle regole per le candidature alle prossime elezioni politiche è il compendio della postilla, il trionfo dell'azzeccagarbugli. 

Giuseppe Conte si sta rifacendo con le regole per le parlamentarie, che partono oggi su SkyVote. 

Dalle tre paginette del regolamento pubblicato sul sito dei Cinque Stelle si evince che a Conte non sarà data la facoltà di indicare i capilista, ma si legge comunque che «Il Presidente, sentito il Garante, valuta la compatibilità della candidatura con i valori e le politiche del M5s, esprimendo parere vincolante e insindacabile sulla candidatura».

In poche parole, al giurista foggiano spetterà l'ultima parola sui candidati. Sul punto si tratta di una mezza vittoria di Beppe Grillo e della componente del Comitato di Garanzia Virginia Raggi, che si erano opposti alla possibilità di blindare prima i capilista. Eppure Conte, da scafato leguleio, ha disseminato qua e là delle eccezioni alle regole per far eleggere i suoi uomini, più la mina vagante Alessandro Di Battista.

Infatti non c'è un vero e proprio strappo alla regola della territorialità, ma viene consentito comunque di presentare l'autocandidatura in una regione diversa da quella di residenza per chi ha altrove il domicilio professionale oppure il «centro principale dei propri interessi». 

Come volevano gli ortodossi saltano le pluricandidature, ma, ad esempio, il ministro contiano Stefano Patuanelli, grazie a questa deroga, può evitare la corsa nel suo Friuli Venezia Giulia, dove il M5s viaggia su percentuali da prefisso telefonico, e candidarsi a Roma.

Stesso discorso per il vicepresidente Riccardo Ricciardi, toscano, che incontrerebbe non poche difficoltà nella sua regione. Ma non solo. Chiara Appendino, nonostante la condanna in primo grado per il disastro di Piazza San Carlo, potrà candidarsi. Infatti il regolamento consente ai condannati di entrare in lista, purché il reato contestato non sia colposo. E poi c'è Rocco Casalino. Al braccio destro di Conte fa comodo un altro dei cambiamenti rispetto alle regole del passato. Sì perché stavolta potranno partecipare alle parlamentarie anche i titolari di contratti di lavoro con il M5s, proprio come nel caso dello spin doctor.

Infine i dossier Virginia Raggi e Alessandro Di Battista. «Su Di Battista scioglieremo la riserva», spiega Conte. Intanto, però, è stata eliminata la regola sugli almeno sei mesi di anzianità di iscrizione al Movimento per potersi candidare. Nel regolamento non c'è nessuna menzione di questo limite temporale, un'altra prassi del passato più o meno recente. Dibba potrà iscriversi di nuovo al M5s e partecipare alle parlamentarie. Invece è particolarmente fumoso il caso-Raggi.

Nel testo del regolamento c'è scritto che non potranno candidarsi «coloro che ricoprano attualmente una carica elettiva, salvo che la stessa non abbia scadenza nell'anno 2022 o che si tratti di consiglieri comunali, municipali e/o Presidenti di Municipio in carica per il loro secondo mandato indipendentemente dalla scadenza dello stesso». Per qualcuno si tratta di uno stop a Raggi, perché il suo secondo mandato da consigliere comunale scadrà nel 2026. L'altra interpretazione invece vede nel testo una deroga per gli attuali consiglieri comunali al secondo mandato.

Che sarebbe una norma su misura, in quanto Raggi è stata eletta in Assemblea Capitolina nel 2021, ed è al suo secondo mandato in Comune, dato che i primi tre anni da consigliere d'opposizione iniziati nel 2013 rientrano nella regola del «mandato zero». Nel frattempo lei rilancia la linea ortodossa. «Le liste si fanno alla luce del sole e devono essere aperte a tutti. Il M5s non può diventare un tram per portare in Parlamento gli amici degli amici», la stoccata a Conte. Ma l'avvocato ha trovato il modo di limitare i danni grazie a qualche cavillo.

Aldo Grasso per corriere.it il 31 luglio 2022.

Che requiem! La decisione di Beppe Grillo di ribadire il limite dei due mandati è epocale, potrebbe anche segnare la fine del M5S. Di fronte all’irrisolutezza di Giuseppe Conte, forse per regolare i conti con i «traditori» (Crimi, Lombardi, Taverna, Fico…), più probabilmente stomacato dallo show che lui stesso ha messo in piedi, Grillo ha falcidiato il cerchio magico del M5S, fingendo di consolarli: «Non lascerò nessuno a spasso, fidatevi di me».

In realtà, nessuno più si fida di nessuno. Salvo l’immarcescibile Danilo Toninelli. È l’unico felice del diktat di Grillo, anche se gli costerà il Senato: «La politica di professione ha un unico fine: garantirsi un eterno posto in Parlamento».

Accusa i compagni di strada di voltagabbanismo (dovranno pur cercarsi un lavoro!) ed è sempre più concentrato a inanellare gaffe. Per dire, non sa ancora far di conto: «Su Rousseau, il 48% ha votato contro la fiducia a Draghi e il 58% a favore». Mentre i big del partito faranno valere le amicizie coltivate negli anni, mentre i peones si disperano in attesa di Santoro, Toninelli frequenta garrulo i social con una rubrica di controinformazione. 

Lo scorso anno ha scritto un libro, «Non mollare mai», agiografia epica dell’uomo qualsiasi. Perché è felice? Perché, nella qualsiasità, la qualsiasità non ha nulla da perdere.

Da "la Repubblica" il 31 luglio 2022.

Caro Merlo, se in Usa e Gran Bretagna fosse stato valido il limite dei due mandati, Churchill e Roosevelt non sarebbero stati in carica durante la Seconda guerra mondiale. Giuseppe Zannoni, Emilia Romagna 

Rispista di Francesco Merlo: C'è una crudeltà della storia nei pomposi tontoloni a 5 stelle, suonatori suonati, buttati fuori dallo stesso arruffapopolo che li aveva reclutati con grotteschi esami di ammissione in rete. Grillo si è liberato di Crimi, Fico, Taverna, Bonafede come ci si alleggerisce dei rifiuti. Ha loro negato l'onore di essere sconfitti dagli elettori e dunque dalla politica, li ha espulsi dal campo di battaglia. E impone un comico calvario a Conte, di cui certifica l'ormai famosa "quasità". Neppure Berlusconi, che pure diceva "eravate zucche e vi ho trasformato in deputati", ha mai trattato così i suoi servitori e le sue maîtresse di Stato. Ma Grillo non si illuda: i suoi pezzi di legno non sono diventati Pinocchio perché lui non è Geppetto ma Minosse. Nel fallimento dei burattini c'è il fallimento del burattinaio. Il loro destino sarà, comunque, migliore del suo.

M5s, la scelta suicida sul doppio mandato: il trionfo della stupidità. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 31 luglio 2022

Doverosa premessa: gli eletti dovrebbero essere sempre superiori agli elettori. Non uguali. Superiori. Nel 431 a. C. Pericle raggiunge lo zenith della democrazia col famoso discorso agli ateniesi: «Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenze di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito. Qui ad Atene noi facciamo così». Aveva ragione. Uno vale uno, anche un po' sticavoli. Col M5S , qui, se non il governo dei migliori serviva almeno un governo dei meno peggio. Sicché, il fatto che oggi il presidente della Camera Fico , la vicepresidente del Senato Taverna («Ahò, mo' li sfonnamo», è rimasta sfonnata lei...) gli ex ministeri Bonafedee Fraccaro , l'ex reggente Crimi , perfino l 'ex sindaca Raggi , vengono decapitati dalla mannaia del limite inderogabile del doppio mandato di Grillo , be', di per sé nulla ha di disdicevole. Anzi. Per una volta, segue la linea della coerenza grillesca. Specie considerando le affannose capriole regolamentari in cui, in queste ore, si sta producendo Conte per affidare ai prossimi de cuiusruoli (pagati) di consulenza in seno al Movimento; e specie assistendo allo scatto d'orgoglio dell'Elevato sull'impedire qualsiasi "rotazione" d'incarichi in forza del principio del doppio mandato, la "luce nelle tenebre". E io autorevolezza politica e la competenza tecnica, in democrazia, non s'improvvisano; si costruiscono pazientemente. Sin dai primi comizi milanesi del M5S, invece, sventolava su cartelli e gonfaloni la parola "oclocrazia", ​​​​che Polibio riferiva alla forma degenerata della democrazia. In sostanza: la Taverna torna rispettosamente a fare la segretaria in un centro di analisi; e, istintivamente, tiriamo un sospiro di sollievo. Fine della doverosa premessa. tiriamo un sospiro di sollievo. Fine della doverosa premessa. tiriamo un sospiro di sollievo. Fine della doverosa premessa.

ROGHI E PALETTI - Poi, però, la palingenesi dei 5 stelle e il rogo della vecchia guardia necessita di una lettura oltre l'istinto. La regola dei due mandati non rappresenta solo il trionfo di Beppe Grillo , ma anche il trionfo della stupidità politica. Il M5S ha imposto sin dall'inizio dei paletti invalicabili: era il patto stretto tra Casaleggioe Grillo e molti degli scappati di casa finiti in Parlamento. Ma, dal punto di vista dell'economia istituzionale, in un membro vincolante dai risultati ottenuti, a una una da yogurt, è un elemento di per sé destabilizzante. Per vari motivi. Primo: lo Stato non fa in tempo a investire nella formazione di una nuova classe politica, che subito deve ricominciare a foraggiare educazione e istruzione di quella nuova. D'altronde ci sarà un motivo se, per esempio, nelle accademie militari l'ufficiale con vitto, alloggio, grado e lauree sovvenzionate dallo Stato costretto alla firma di un impegno di ferma preventiva per un numero variabile di anni. Solo dopo un periodo passato nel prendere e nel dare ordini, nel tessere strategie di comando nei reparti operativi, il militare di carriera può liberarsi del vincolo dello Stato patrigno.De Gasperi , né Renzi- tutto faranno di tutto per adeguarsi al più comune degli isti: guadagnare il più possibile durante il tempo a disposizione. Ecco, quindi, le quote di non più corrisposte al partito; l'alternarsi di cambi di casacca nel gruppo Misto, il limbo parlamentare privo di vincoli economici; il andare di rabbia verso quelle istituzioni che forzatamente abbandonare. Un'imprevedibile crisi psicologica che può portare a demenziali suicidi "rivoluzionari" di massa con precedenti solo nella cronaca, tipo quello della setta del Tempio del Sole del Reverendo Jones, nella Guyana del '78. E il M5S s'è suicidato. alternarsi di cambi di casacca nel gruppo Misto, il limbo parlamentare privo di vincoli economici; il andare di rabbia verso quelle istituzioni che forzatamente abbandonare. Un' imprevedibile crisi psicologica che può portare a demenziali suicidi "rivoluzionari" di massa con precedenti solo nella cronaca, tipo quello della setta del Tempio del Sole del Reverendo Jones, nella Guyana del '78. E ilM5S s'è suicidato. 

DIKTAT IRRISPETTOSI - Terzo motivo di stupidità. Il M5S avrebbe dovuto rispettare tutte le forme diktat ei progetti che s'era imposto; oppure nessuno. In caso contrario, l'etica della rivoluzione va a farsi fottere. Perché, si può, è regola i militanti, per esempio è utilizzatore elusa la movimento non fondi pubblici»? «Il popolare se finanziamento è illegittimo si considera la volontà base di una democrazia», si leggeva nel 2011 sul blog. Ma nel novembre 2021- Grillo benedicente - i militanti aderirono al 2 per mille riservato ai partiti. Grillo da garante non impedì quell'atto che andava contro ogni dogma: e, mesi dopo, firmò due contratti per 300mila euro annui come consulente M5S. Ovvio che poi i parlamentari ululino alla luna il loro disappunto. Alcuni ululano, altri passano con Di Maio. Tra l'altro, la norma dei due mandati non fu inserita nello Statuto del Movimento nel 2017 in stesura, ed è presente soltanto nel Codice Etico M5S. Per salvare e soprattutto per poter ricandidare Virginia Raggi e Chiara Appendino . Il primo requisito di una legge - diceva sempre Pericle - è che sia intelligente...

Federico Capurso per “La Stampa” il 9 agosto 2022.

Sognare un posto alla Camera o in Senato? Sembra proprio che non ne valga più la pena. Sulla striscia di partenza per le tradizionali “parlamentarie” grilline, alla chiusura dei termini per presentare la propria candidatura, si sono schierati solo 1.922 tra attivisti, parlamentari uscenti, ex assessori, consiglieri comunali e regionali: «1165 per la Camera, 708 per il Senato e 49 per la circoscrizione Estero», viene comunicato con un post sui social del Movimento 5 stelle.

Un risultato lontano anni luce dall’ondata di oltre 15 mila candidati che si erano proposti nel 2018. Colpa dell’estate o del taglio dei parlamentari. Magari anche del desiderio di Giuseppe Conte di «garantire candidature di alto profilo, espressione della migliore società civile», in modo da arginare l’arrivo nel Palazzo di «cittadini semplici» che mai hanno maneggiato la cosa pubblica. Ma più verosimilmente, come si ammette anche nel partito, «si è soprattutto affievolita la spinta che c’era cinque anni fa». E così, oggi, in tanti hanno scelto di restare a guardare.

Non sarà della partita – come anticipato ieri da La Stampa – nemmeno Alessandro Di Battista. L’ex deputato romano «non si è iscritto al Movimento e non credo voglia partecipare a queste parlamentarie, né rientrare nel partito – conferma Conte in mattinata intervenendo a Radio Capital –. Se vorrà farlo ne parleremo, per me rimane sempre un interlocutore leale e privilegiato».

Resterà a guardare anche Virginia Raggi, da sempre vicinissima a Di Battista, che come ricorda Conte «rientra nel vincolo del doppio mandato. Se ne parla come se non stesse facendo nulla di importante – sottolinea il leader M5S –, ma è presidente della commissione per l’Expo e sta combattendo battaglie importanti a Roma». L’ex sindaca fa il suo in bocca al lupo sui social «a tutti i candidati alle parlamentarie. Vi sostengo», ma resta con l’amaro in bocca, perché da mesi contava di poter ottenere una deroga e fare il suo ingresso alla Camera.

Chi poteva, ma non ha voluto, è invece Rocco Casalino, lo spin doctor di Conte, suo portavoce ai tempi di palazzo Chigi, «indeciso – raccontano – fino all’ultimo minuto». Ha chiesto consiglio ai diversi big del partito e se un tempo era convinto di volersi mettere alla prova per entrare in Senato, nelle ultime ore ha invece prevalso la voglia di continuare ad occuparsi della comunicazione di Conte e del M5S. 

Anche perché a palazzo Madama, a questo giro, sarà difficile per i Cinque stelle. Tanto difficile che molti attuali senatori pentastellati hanno preferito presentare la propria ricandidatura a Montecitorio, come l’ex capogruppo Ettore Licheri, sollevando i malumori dei colleghi nelle chat interne: «Ci vogliono rubare il posto!».

I nomi dei candidati non sono ancora stati resi noti, ma quasi tutti i deputati e senatori attualmente al primo mandato proveranno a rientrare (anche se qualcuno, come la deputata Sabrina De Carlo, lascerà invece definitivamente il partito). Insieme a loro, anche alcuni ex assessori, come Alberto Unia e Antonino Iaria, che si occupavano di Ambiente e di Urbanistica nella giunta di Chiara Appendino. Qualcuno poi ci prova, pur non potendo. 

Scoppia a Roma il caso del consigliere capitolino e fedelissimo di Raggi, Paolo Ferrara, che sui social del Movimento romano dà l’annuncio di voler correre per un posto in Parlamento. Sarebbe la sua quarta esperienza politica con il M5S e, per di più, interromperebbe il terzo mandato iniziato da nemmeno un anno, nonostante il regolamento interno lo impedisca chiaramente. 

Le chat romane degli attivisti grillini in un attimo si incendiano e l’assessora in regione Lazio Roberta Lombardi sbotta: «Ferrara è doppiamente incandidabile, perché per lui si tratterebbe del quarto mandato e perché ha in corso un mandato che non termina entro il 2022». Proprio per evitare certi problemi, la lista di candidati resterà coperta fino a quando non sarà concluso il vaglio dei nomi e dei loro requisiti, pochi giorni prima delle parlamentarie del 16 agosto.

Conte nel frattempo sta riunendo le assemblee regionali degli attivisti M5S per tirare le fila in vista della campagna elettorale. E tra una videochiamata e l’altra, contatta telefonicamente esponenti della società civile per sondare la loro disponibilità a correre con il Movimento senza passare dalle parlamentarie. Dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico al magistrato Cafiero De Raho, passando per il giornalista Michele Santoro e il pensiero di provare a portare in squadra anche l’ex capo della Squadra Mobile di Napoli e vicedirettore dell’Agenzia interna dei Servizi segreti, Vittorio Pisani. Ed è alla ricerca, in queste ore, del nome di un economista da poter spendere nei collegi del Nord. Sempre che per loro valga ancora la pena sognare un posto a Roma.

M5S, da Fico a Di Maio: la classe dirigente affondata da Grillo. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022

La regola sul tetto del secondo mandato ha azzerato il gruppo storico. Tra gli esclusi ex ministri come Bonafede e Toninelli. E poi Raggi e Crimi. 

Erano in 339, erano giovani e forti e sono (politicamente) morti. O comunque non si sentono granché bene perché, a distanza di soli quattro anni dallo sbarco trionfale in Parlamento, il Movimento si è sfasciato, è esploso in mille frammenti, con il pianeta più importante che resiste ancora, sotto il dominio post-populista e «laburista» di Giuseppe Conte, ma ormai acefalo di buona parte della classe dirigente storica. Tutt’intorno, satelliti impazziti e polvere di stelle che hanno brillato per pochi anni, risucchiate fuori dall’atmosfera terrestre. Il parallelo con l’impresa tentata da Carlo Pisacane nel 1857, che da Sapri provò a innescare il processo rivoluzionario in tutto il Meridione, può sembrare azzardato, ma provare ad aprire come una scatoletta di tonno il Parlamento era già una piccola rivoluzione. Fallita, visto che il Movimento aveva grandi prospettive palingenetiche per l’Italia e si ritrova ridotto ai minimi termini (10 per cento nei sondaggi), con alle spalle una grave sconfitta alle amministrative, una scissione dolorosa e l’idolo delle folle Alessandro «Attila» Di Battista che, chiuso nel non luogo di un’auto parcheggiata, lancia strali contro Di Maio «ducetto», contro il «sinistro» Fico e perfino contro l’«elevato», l’uomo che l’ha creato e che ha abbracciato mille volte in lacrime sul palco. Quel Beppe Grillo diventato «padre padrone», una divinità iraconda, modello Crono, che divora i suoi figli.

Ricostruire l’albero genealogico di un Movimento che non c’è più mette i brividi. In principio erano Grillo con Gianroberto Casaleggio, scomparso nel 2016. La successione con Davide, come spesso accade in queste vicende dinastiche, non ha funzionato. Tanto che l’informatico se n’è andato a giugno, sbattendo la porta: «Mio padre non riconoscerebbe questo Movimento». Sotto i due fondatori, brillavano le stelle di Di Maio e Di Battista. Coppia perfetta perché complementare: l’incravattato con un grande futuro da democristiano e lo scamiciato, barricadero ma allergico alla pugna. Ora il primo ha fondato «Insieme per l’Italia», coccola il Pd, che accusava di orrori inenarrabili, tratta con il partito animalista per raggiungere il 3 per cento e viene chiamato da Grillo «Giggino ‘a cartelletta» («aspetta di essere archiviato in qualche ministero»). Il secondo, reduce dalla Russia, prosegue in un fuoco sempre meno amico e spara veleno contro i poltronari che hanno il sedere «flaccido come la loro etica».

Poi c’era la «classe dirigente» del Movimento. Una combriccola molto eterogenea, che ci ha fatto compagnia per anni. La mannaia del tetto del secondo mandato, fatta calare da un irremovibile Beppe Grillo, ha annientato molti di loro. Il «padano» Stefano Buffagni, gran tessitore di rapporti nell’imprenditoria del nord, tornerà a fare il commercialista. L’«orsacchiotto» Vito Crimi , rimasto abbarbicato al suo ruolo di capo pro tempore per un’eternità, sarà probabilmente costretto a tornare a fare l’assistente giudiziario. E Paola Taverna? Dal suo monolocale di Torre Maura ancora lavora alla campagna elettorale, dice che si «sentirà a lungo l’eco delle mie urla» in Parlamento, ma presto potrebbe vedersi avverare il celebre sfogo di Tor Sapienza: «Io nun so’ politica». Roberto Fico prepara gli scatoloni, anche se difficilmente tornerà a commerciare in tappeti orientali, dopo Montecitorio. Danilo Toninelli non si vedrà più in Parlamento, con i pettorali a mettere a dura prova la tenuta delle camicie: lo troverete a torso nudo, mentre fa jogging lungo le sponde del Tevere, o su TikTok, dove si è trasferito a tempo pieno per fare l’influencer (14 mila follower, non male, ma deve vedersela con Khaby Lame che ne ha 142 milioni). Addio a Carlo Sibilia, che considerava «una farsa» lo sbarco sulla luna. E ancora, a Fabiana Dadone, Davide Crippa, Federico D’Incà, Nunzia Catalfo, Riccardo Fraccaro. Perfino Alfonso Bonafede, l’avvocato che andò a pescare un ignoto Giuseppe Conte: perfidia della sorte, è stato fatto fuori proprio dal suo pupillo.

Tutti a casa, tutti disarcionati per volere di Crono-Grillo, nel nome del dilettantismo in politica (ancora l’altro giorno Conte se n’è vantato: «Non siamo professionisti della politica»). Un’ecatombe. Tutti «zombie», inchiodati come farfalle morte nell’album digitale del loro creatore. Altri si erano già persi per strada. Il filosofo calabrese Nicola Morra, che è ancora incollato alla poltrona dell’Antimafia. Paolo Bernini, complottista e animalista, che licenziò l’assistente, colpevole di non essere vegano. Il funambolico Gianluigi Paragone, no vax e no euro, che alle elezioni potrebbe superare il 3 per cento con la sua Italexit.

Grillo l’aveva già detto nel 2012, durante il «massacrotour»: «Il futuro del Movimento è sciogliersi». Futuro vicino: qualcuno pensa che il fondatore da un momento all’altro potrebbe andarsene, portandosi via la palla e il simbolo. Ingenuità: da poco ha firmato un contratto come consulente e riceve 300 mila euro dal Movimento. La dissipatio grillina è quasi compiuta, anche se nel Paese non si è dissolto l’humus del populismo. Ci sono ancora gli scontenti, i frustrati, i malpagati. La società del rancore è ancora qui. Solo che troverà altri sfoghi, altre vie di fuga. Di Battista e Raggi, dicono, sono pronti a riprendersi il Movimento, dopo le elezioni. Bisogna vedere cosa ne resterà.

M5s e Beppe Grillo? Quanti danni hanno fatto con la scusa dell'onestà. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 21 luglio 2022

Tutta colpa "dell'onestà". Che il governo del nostro Paese possa dipendere da un movimento che ha trasformato quella parola in un progetto politico indica quanto grave sia stata la rottura di sistema avvenuta con il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. In quei mesi convulsi, ad opera soprattutto dei post-comunisti, si accredita l'idea secondo cui sia indispensabile, per rimettere in sintonia governanti e governati, comprimere l'autonomia della politica in nome della morale. Una forzatura i cui effetti destabilizzanti sulla democrazia italiana non si sono ancora dispiegati del tutto a giudicare dalla crisi del governo Draghi e dai comportamenti di Giuseppe Conte.

Intanto, non deve suscitare stupore il fatto che nella strategia delle alleanze del Partito democratico - il cosiddetto campo largo targato Enrico Letta - continui ad essere previsto per il M5Stelle un ruolo privilegiato. Infatti, i pentastellati non sono il prodotto di una strana concertazione degli astri, ma, come rivela il loro Dna ideologico, possono essere considerati a pieno titolo parenti stretti della sinistra comunista. Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio non hanno fatto altro che aggiornare la berlingueriana "diversità morale" in uno slogan più efficace sul piano ritmico, "onestà-onestà".

ORDINE ETICO - È il 1980, quando il segretario del Pci- fallita la stagione del compromesso storico e interrotta ogni possibilità di dialogo con il Partito socialista di Bettino Craxi- inaugura una stagione politica nella cui agenda prevalgono i temi di ordine etico a discapito delle questioni politiche ed economiche. 

Come spesso accade nella storia ogniqualvolta un partito cambia registro strategico favorisce, nel contempo, anche letture inedite circa le passate vicende del proprio Paese. La storia italiana da quel momento in avanti- e per il tramite di un intenso lavoro condotto per via mediatica dagli intellettuali di area - viene rappresentata, senza alcun fondamento, come una lunga ed ininterrotta catena di malaffare e di corruzione. In ragione di ciò, si assiste al ridimensionamento della politica - intesa come luogo di scontro fra interessi legittimi portati a sintesi attraverso le regole della democrazia liberale - e al contemporaneo potenziamento dell'opera dei magistrati, che, per dirla con il sociologo Alessandro Pizzorno, si trasformano in "controllori della virtù" della classe dirigente. È questo, per sommi capi, il contesto politico-culturale in cui nel corso degli ultimi decenni matura e si diffonde la convinzione che la politica sia solo una faccenda per faccendieri da contrastare a colpi di sonori quanto riduttivi "vaffa...". 

Si è trattato di un colossale equivoco che ha portato in pochi anni ai vertici dello Stato un ceto impolitico a dir poco imbarazzante e sprovvisto delle conoscenze minime, per riuscire ad affrontare le complessità che il governo di un Paese presenta.

LA VIRTÙ DEL PRINCIPE - Scriveva Benedetto Croce che «un'altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell'onestà nella vita politica. Si tratta dell'ideale che canta nell'animo di tutti gli imbecilli. L'onestà politica - concludeva il filosofo - non è altro che la capacità politica». Siamo dalle parti della machiavelliana "virtù" del Principe. Ed è proprio quella "virtù" che oggi occorre recuperare, per cercare di chiudere definitivamente con la demagogia moralistica della sinistra e con l'analfabetismo politico dei 5 Stelle.

Poltrone in scadenza e rimborsi dimenticati: finisce miseramente la “diversità” grillina. Circa la metà tra deputati e senatori sarebbe indietro con le restituzioni, che consistono in mille euro al partito e 1500 alla società civile, con una destinazione da scegliere di volta in volta. Giacomo Puletti Il Dubbio il 7 giugno 2022.

I fatti: decine, forse centinaia di parlamentari del Movimento 5 stelle non hanno resistito parte dello stipendio, come avrebbero dovuto in base al regolamento interno. Le opinioni, in primis quella del leader Giuseppe Conte: «ci sono delle restituzioni che non sono pervenute da parte di alcuni parlamentari, che però hanno assunto l’impegno a farle pervenire». E ancora: «chiariremo questo aspetto nelle prossime settimane».

Da quando è uscita la notizia di mancanza di fondi in cassa, si è aperto un caso rimborsopoli tra i pentastellati. Con tanto di un Beppe Grillo su tutte le furie, visto che proprio la restituzione di parte dello stipendio è uno dei capisaldi del Movimento sin dalla fondazione. Lo staff del comico non conferma né smentisce, trincerandosi dietro a un “no comment”. Ma di quali cifre stiamo parlando? Dopo il via libera del Consiglio nazionale grillino al bilancio, si parla di diversi milioni. Ma l’intero bilancio non è ancora stato comunicato ai parlamentari, tanto che in molti chiedono spiegazioni al tesoriere Claudio Cominardi (quello che ha condiviso la foto del murale con Draghi al guinzaglio di Biden). «Noi siamo per la trasparenza e ci aspettiamo una mail con il bilancio approvato in allegato, per comprendere quali siano le spese e come vengono investiti i soldi – ha detto un parlamentare grillino – Ci sembra il minimo e siamo certi che arriverà a breve, altrimenti lo pretenderemo».

Circa la metà tra deputati e senatori sarebbe indietro con le restituzioni, che consistono in mille euro al partito e 1500 alla società civile, con una destinazione da scegliere di volta in volta. A gettare benzina sul fuoco Vittoria Baldino, deputata grillina ma anche coordinatrice del Comitato politiche giovanili del partito, che a Repubblica ha dichiarato di essere in regola, invitando i colleghi a fare altrettanto. Il problema è che sarebbero proprio gli eletti scelti da Conte per riempire le caselle del nuovo organigramma del Movimento, tra questi anche Baldino, a essere tra i pochi in regola con i conti. Che era una precondizione per ambire al ruolo, tanto che alcuni hanno ammesso di aver ricominciato a restituire durante il periodo della scelta per poi smettere di nuovo.

Il malcontento tra i parlamentari pentastellati è ormai noto, soprattutto per la possibile deroga al limite dei due mandati, ultimo dei totem degli inizi in procinto di cadere. Secondo Adnkronos, «ci sarebbe non a caso una forbice significativa nelle restituzioni tra coloro che siedono in Parlamento da questa legislatura e i veterani al secondo giro, più restii a restituire» . E mentre diventa di dominio pubblico la mail con cui Conte si iscrisse al movimento, il 17 luglio 2021, lo stesso leader difende gli interessi del Movimento. «Nessuno dica che c’è un buco nel bilancio del Movimento – ha scandito ieri – In Italia, quando si tratta dei Cinque Stelle, anche le questioni contabili appassionano». Nessuno gli riveli che i più appassionati sono i suoi stessi parlamentari.

Andrea Rossi per “la Stampa” il 17 maggio 2022.

«Non riesco a smettere di piangere. Lacrime liberatorie. Era stata messa in discussione la mia buona fede, una cosa che mi ha fatto malissimo». È l'unica cosa che dice, pochi minuti dopo aver postato una foto dal salone di casa sua che dice tutto: la felicità, la stanchezza, la tensione. Ma anche quel che è oggi Chiara Appendino: una donna che ha scelto, almeno per ora, di privilegiare la sua dimensione privata. 

Ascoltata la sentenza ha pianto. Poi ha ringraziato la Corte d'appello di Torino che l'ha assolta ed è tornata di corsa a casa. Falso ideologico in atto pubblico, secondo il gergo barocco della giustizia; falso in bilancio, nella sostanza. Una macchia per chi amministra la cosa pubblica.

Peggio ancora per chi politicamente è cresciuto nel Movimento 5 Stelle delle origini, quello per cui una condanna era prova di colpevolezza. Chiara Appendino, anche per questa macchia, ha scelto di non ricandidarsi alla fine del primo mandato. Si votava nemmeno un mese prima delle Atp Finals, una sua conquista proprio come l'Eurovision che si è chiuso sabato. 

Ora dice che il dado era tratto, comunque: «È stata una scelta consapevole. Ho deciso sapendo che avrei potuto ribaltare la sentenza di primo grado, anzi credendoci, perché ero convinta che la verità sarebbe emersa. È stato doloroso», racconta. Ma inevitabile. Due condanne, totale 24 mesi, quel che basta per giocarsi la condizionale ed essere esposta agli eventi: impossibile, ammesso di essere rieletta (e non sarebbe stato facile), governare con un'ipoteca del genere.

Piazza San Carlo era la sua ferita umana: il disastro organizzativo della macchina comunale e dell'ordine pubblico costato la vita a due donne, una serata in cui nulla aveva funzionato ma dalle responsabilità molteplici e molto combattute. Ream, invece, era la sua ferita politica: perché frutto dell'esposto di un avversario politico, l'attuale sindaco di Torino Stefano Lo Russo, allora capogruppo del Pd, e per i fatti che le venivano contestati. 

Per la procura di Torino Appendino - insieme con l'allora assessore al Bilancio Sergio Rolando, il capo di gabinetto Paolo Giordana e il direttore finanziario Paolo Lubbia - aveva falsificato i conti del Comune perché potessero chiudere in pareggio a fine 2016, i suoi primi sei mesi da sindaca.

Aveva iscritto un'operazione immobiliare da 20 milioni alla voce entrate senza fare altrettanto - alla voce uscite - con una caparra da 5 milioni sulla stessa area che la Città aveva già incassato. I conti così quadravano, ma per i pm grazie a un trucco contabile. E con un'asfissiante pressione nei confronti dei revisori dei conti, indotti ad avallare l'artificio.

Questa la tesi che ha retto in primo grado ma non in appello: stavolta il falso esiste ma è frutto di un errore, non di un reato. Ed è una sfumatura che stravolge tutto, e riabilita. Appendino non accettava il ritratto della sindaca che trucca i conti, lei che da consigliera d'opposizione aveva costruito la sua ascesa a Palazzo Civico martellando ossessivamente la giunta di Piero Fassino su bandi, procedure, poste di bilancio. Giovanna d'Arco, la chiamava Fassino, e per lui non era un complimento. Ecco, Giovanna d'Arco che si riduce a falsificare i bilanci per farli stare in piedi era - per una come lei - un'ombra tale da mettere fine a una carriera politica. 

Appendino è uscita da Palazzo Civico e si è come dileguata. Poche apparizioni pubbliche e sempre defilate, moltissima vita privata («devo alla mia famiglia tutto il tempo che le ho sottratto in cinque anni»), una certa ostentata assenza dal dibattito pubblico. Solo un tema l'ha scaldata davvero in questi mesi: lo stop alle trascrizioni degli atti di nascita dei figli di coppie omogenitoriali.

Torino era stata la prima città a forzare lo status quo e ora la prima a fermarsi sotto la spinta della Prefettura. Il resto era sguardo da lontano, apparente disinteresse. Gli ultimi quindici giorni hanno segnato una sorta di riscossa: la scuola di formazione del Movimento 5 Stelle di cui ha assunto la guida, gli Internazionali d'Italia, l'Eurovision di Torino e gli attestati di chi ha riconosciuto i suoi meriti. «Si chiude una pagina che è stata fonte di grandi sofferenze ma oggi sono contenta», dice l'ex sindaca e in qualche modo lascia intendere un possibile nuovo inizio. 

Anche il Movimento 5 Stelle la riaccoglie. «Un abbraccio a Chiara Appendino, una donna che ha sempre dato il massimo per la sua città e per il Movimento. La sua assoluzione ci rende felici», dice Luigi Di Maio. «Chiara, non abbiamo mai avuto dubbi sulla tua integrità e sull'azione politica che hai portato avanti.

La sentenza di oggi ti rende giustizia», è il messaggio di Giuseppe Conte. Le agenzie riportano i commenti di almeno una trentina di esponenti di primo piano dei Cinquestelle. 

Erano molti di meno il giorno della condanna: Di Maio, la vice ministra Laura Castelli, amica da sempre, Beppe Grillo, Roberto Fico, pochi altri. Il Movimento, con lei, ha giocato di opportunismo: assecondandone l'autosospensione quando faceva comodo mettere un po' di distanza; e chiamandola nella squadra di Conte, senza che nessuno si premurasse di riammetterla ufficialmente, quando ce n'era bisogno. 

Fa parte del gioco, lei lo sa e ringrazia chi le è stato vicino, M5S compreso. Ma, a lacrime non ancora asciutte, le parole sono per la sua ex maggioranza e la giunta: «Mi hanno sempre difesa credendo alla mia buona fede. Oggi è facile dirlo; allora, di fronte a una condanna, lo era molto meno».

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

Allargarsi al metaverso (quindi alla realtà virtuale), focalizzare la comunicazione sul sito movimento5stelle.eu e lanciare una serie di eventi all'estero: Beppe Grillo sale in cattedra da comunicatore M5S. 

Il garante, che solo pochi giorni fa ha siglato un contratto di collaborazione con il Movimento, improvvisa la sua prima «lezione», il suo esordio davanti a una trentina di consiglieri regionali. Conte prepara la sorpresa per gli stellati e lascia la scena al garante, che racconta le sue idee. 

Grillo invita a canalizzare la comunicazione sul sito ufficiale del Movimento (e non sul suo blog), sostiene che bisogna allargare gli orizzonti comunicativi: da qui l'idea della realtà virtuale. Il garante annuncia nuovi progetti e racconta che vuole promuovere i 5 Stelle all'estero con una serie di iniziative. 

Intanto il Movimento diventa a tutti gli effetti un partito. Con la pubblicazione dello statuto sulla Gazzetta Ufficiale, il M5S potrà tra l'altro accedere alla ripartizione del 2 per mille

Elisa Calessi per “Libero Quotidiano” il 29 aprile 2022.

È ufficiale: il Movimento Cinque Stelle è un partito. Come tutti gli altri. Ha uno statuto. E, grazie a questo, potrà accedere al 2 per mille. Addio, dunque, al non statuto e al non partito, all'utopia di un soggetto politico dove "uno vale uno" e le decisioni sono prese dagli iscritti, online, saltando mediazioni e mediatori, in un grande esperimento di democrazia partecipata e orizzontale. Fine dell'utopia. Che ci fosse un'evoluzione nella creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio è sotto gli occhi di tutti.

Ma il grande passo, ora, è certificato nella Gazzetta Ufficiale del 27 aprile alla pagina 33.

La Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei partiti politici ha, infatti, pubblicato lo Statuto del Movimento Cinque Stelle. Il passaggio non è solo ideale. Si tratta di un documento senza il quale, finora, il Movimento non poteva accedere al 2 per mille. Ora, invece, potrà. E lo farà. Così cadrà un altro tabù, ossia il rifiuto del finanziamento pubblico, altro totem delle origini.

Il M5S, come tutti gli altri partiti, potrà godere dei contributi che i cittadini decidono di destinare ogni anno ai partiti, evoluzione di quel finanziamento pubblico che venne abolito da un referendum. Ma la politica costa. Anche quella del M5S. E perciò anche i pentastellati utilizzeranno il 2 per mille. 

Lo Statuto che segna la grande svolta riporta anche il simbolo che verrà utilizzato nelle competizioni elettorali. I contrassegni che si potranno utilizzano sono due. Uno con la scritta, MoVimento, le cinque stelle e nella parte inferiore la scritta IlBlogdellestelle.it. Un altro in cui cambia solo la parte inferiore: al posto della dicitura che fa riferimento al blog, la data 2050. La sede legale è a Campo Marzio 46. Per il resto la carta fondativa, quella attorno cui si consumò una lotta tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, è formata da 25 articoli.

Il primo riguardala "denominazione, la sede e il simbolo", il secondo la "carta dei principi e dei valori e le finalità" del Movimento, il terzo prevede l'assenza di fine lucrativo, il quarto dispone il "funzionamento dell'associazione", il quinto regola la vita degli "iscritti", il sesto quella dei "gruppi territoriali". 

Il settimo spiega cosa si intenda per "democrazia diretta e partecipata", l'ottavo parla dei "forum", il nono dell'organizzazione. Si passa, quindi, agli articoli che fissano i compiti e poteri dei vari organismi direttivi del M5S: l'Assemblea (articolo 10), il Presidente (articolo 11), il Garante (articolo 12), il Consiglio Nazionale (articolo 13), i Comitati (articolo 14), la Scuola di Formazione (articolo 15), il Collegio dei Probiviri (articolo 16), il Comitato di Garanzia (articolo 17).

L'articolo 18 regola il procedimento attraverso cui vengono disposte le sanzioni disciplinari. L'articolo 19 si occupa della figura del Tesoriere, il 20 dei Bilanci, il 21 dell'Organo di controllo, il 22 del Finanziamento delle attività, poi della Mediazione, della Clausola arbitrale e della Sospensione e autosospensione. In tutto sono dieci pagine. 

Il legame con le origini, per quanto ormai sempre più flebile, resta nella Carta dei Principi e dei Valori, laddove si ricorda che le 5 stelle, «punti cardine dell'azione politica del M5S, sono i beni comuni, l'ecologia integrale, la giustizia sociale, l'innovazione tecnologica e l'economia eco-sociale di mercato.

Risponde, invece, alle tradizionali caratteristiche della forma-partito il tipo di organizzazione definito nel nuovo statuto. Gli organismi sono 8. La struttura è piramidale e in cima c'è il presidente, oggi incarnato da Giuseppe Conte. Anche se resta la figura del garante, Grillo, per quanto con poteri di custodia dei valori, più che operativi.

Nel frattempo, tiene banco il caso Petrocelli, il presidente della commissione Esteri che ha fatto discutere per le sue posizioni filo-putiniane. Per i Cinque Stelle il regolamento non permette di spostarlo, mentre per tutti gli altri non è così. E tra i senatori di maggioranza cresce il sospetto che manchi «la volontà politica» da parte degli alleati di chiudere il caso. «Il regolamento è estremamente chiaro», ha detto ieri la presidente dei senatori pentastellati, Mariolina Castellone. E ha messo in chiaro che «non è nostra intenzione fare forzature che potrebbero determinare un precedente pericoloso». 

Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 3 maggio 2022.

Fornitori, analisti, esperti e professionisti. Con qualcuno che ha messo in mora il M5S perché, dopo aver emesso fattura ormai da mesi e mesi, i soldi non sono mai arrivati. A fine marzo Enrica Sabatini, socia con Davide Casaleggio di Rousseau, lo aveva detto chiaro e tondo: "Ci sono più soggetti che si sono dovuti rivolgere agli avvocati per avere ciò che gli spetta. È imbarazzante: professionisti costretti a vie legali verso una forza politica che governa il Paese, ma che non ha neanche la dignità di rispettare le proprie obbligazioni verso dei lavoratori".

Sennonché la notizia del contratto da 300 mila euro per Beppe Grillo ha riacceso gli animi dei creditori: prima di pagare il fondatore (un milionario...) non ci sarebbero gli altri? 

Secondo alcune indiscrezioni il debito complessivo, risalente ai tempi della gestione di Vito Crimi, si aggira sui 2-300mila euro. "Pian piano stiamo saldando...", è l'assicurazione che arriva da via di Campo Marzio, la sede del partito.

Il punto però è capire quali sono le effettive pendenze perché ad esempio sabato scorso parlando con Adnkronos il notaio milanese Valerio Tacchini, per anni professionista di fiducia del Movimento, ha fatto capire che dopo aver prestato consulenze a gratis, quasi per militanza, ora intende battere cassa. Casaleggio padre e figlio non ci sono più, Grillo pensa per sé, e allora a questo punto "il lavoro va pagato". 

Un altro pronto a fare il grande passo - cioè chiedere di essere saldato - potrebbe essere l'avvocato Andrea Ciannavei, perlomeno da quel che si racconta nel dietro le quinte. Il suo studio romano è stato per anni la sede formale dei 5 Stelle, anch'egli è un legale molto vicino al comico genovese, ma ora il nuovo corso contiano si sta affidando ad altre consulenze. E quindi le cose ovviamente cambiano.

Tutto il dossier è nelle mani del tesoriere Claudio Cominardi. Se i gruppi parlamentari non hanno problemi di liquidità, anzi (ma quei fondi non possono essere versati al partito ma sono destinati solo all'attività appunto relativa al Parlamento), le casse del partito sono invece legate alla contribuzione degli eletti del M5S. 

E anche su quel versante sono in parecchi - si parla di decine di persone - che da mesi non versano più la propria quota complessiva di 2.500 euro al mese. La legislatura si avvia alla fine, la rielezione per la maggioranza di loro è già oggi una chimera e i destini del Movimento non paiono radiosi: e perciò tanto vale tenerseli per sé.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 3 maggio 2022.

Sarà un caso, o forse no, ma adesso i creditori bussano alla porta del M5s. Lo fanno proprio pochi giorni dopo il raggiungimento di un accordo economico tra il Movimento e il Blog di Beppe Grillo, con il Garante che dovrebbe ricevere 300mila euro per ospitare sul suo spazio online anche i post ufficiali del partito guidato da Giuseppe Conte. 

E, altra casualità sospetta, la somma delle richieste dei professionisti che non sono stati pagati dai Cinque Stelle ammonterebbe esattamente a 300mila euro, la stessa cifra pattuita con Grillo per la partnership tra il Blog e il M5s. Insomma, fornitori, analisti, esperti e professionisti pressano perché le loro fatture siano pagate.

La mossa sembra una reazione nei confronti del flusso di denaro che dovrebbe partire dal partito verso le casse della Srl che gestisce il sito di Grillo. Un do ut des per Conte, che punta a distendere i rapporti con il fondatore in cambio di un contratto che permetterebbe al Blog di ripianare i debiti accumulati dopo la pandemia. Ma l'accordo, ora, potrebbe rivelarsi un boomerang per l'ex premier. Con i creditori che bussano alla porta.

Tra di loro due professionisti che hanno segnato la vita dei Cinque stelle. Il notaio Valerio Tacchini, ex certificatore di tutte le votazioni su Rousseau e scappato dal Movimento dopo il divorzio burrascoso con Davide Casaleggio, grande amico di Tacchini. 

Lo storico notaio, dopo aver lavorato gratis per 15 anni, aveva già comunicato in estate la sua decisione di voler emettere la parcella per tutte le prestazioni professionali effettuate. Il fedelissimo di Casaleggio, solo qualche giorno fa, aveva detto all'Adnkronos di non aver ancora ricevuto un euro da Conte. E poi ci sarebbe l'avvocato Andrea Ciannavei, ancora vicinissimo a Beppe Grillo.

Nel suo studio romano di Via Nomentana 257 i grillini avevano persino stabilito la loro sede ufficiale. Sempre nell'ufficio di Roma di Ciannavei è stato sottoscritto, a fine dicembre 2017, lo Statuto del M5s che consegnava le chiavi dei Cinque stelle all'allora capo politico Luigi Di Maio e alla piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. 

E non è casuale nemmeno il fatto che pochi giorni fa a denunciare i mancati obblighi dei Cinque stelle di Conte nei confronti dei creditori sia stata Enrica Sabatini, compagna di Casaleggio e socia di Rousseau. Infatti nemmeno il debito con la piattaforma pare sia stato ancora saldato, nonostante le voci di accordi tra le parti dopo la separazione tra il figlio del cofondatore e il M5s. 

La maggior parte dei 300mila euro di debiti sono stati accumulati durante la gestione del reggente Vito Crimi, ma anche con Conte le casse languono. Pesa l'affitto per la prestigiosa nuova sede a due passi da Montecitorio, pesano le spese per il tour di Conte del settembre 2021. Ma incidono soprattutto i mancati versamenti dei parlamentari.

«Pochissimi saranno rieletti e ormai quasi nessuno vuole versare più al partito», dice un deputato al Giornale. Proprio per questo motivo, a pagare Grillo dovrebbero essere i gruppi parlamentari e non direttamente il M5s. Il Garante nel suo ultimo viaggio a Roma non a caso ha incontrato il tesoriere Claudio Cominardi. Intanto i creditori bussano alla porta di Conte.

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 6 giugno 2022.

L'ultima volta che il tesoriere Claudio Cominardi inviò una mail di sollecito a deputati e senatori - era il dicembre dello scorso anno - scoppiò un putiferio interno che, come si suol dire, la metà basta.

Perciò la stagione degli inviti a regolarizzarsi per adesso si è interrotta, meglio non mettere il dito nella piaga, però nell'approvare il bilancio del 2021 Cominardi ha spiegato che i mancati introiti per l'associazione Movimento 5 Stelle si aggirano sui 2 milioni di euro. 

Ogni mese infatti i parlamentari dei 5 Stelle devono versare 1.000 euro al partito, una pratica comune a tutte le formazioni politiche per autofinanziarsi. Altri 1.500 euro invece vanno indirizzati al cosiddetto fondo restituzioni, un conto corrente gestito dai capigruppo; di volta in volta gli iscritti sono chiamati a decidere dove destinarli. 

L'ultima volta, il mese scorso, 75 mila euro furono destinati all'associazione papa Giovanni XXIII, per pagare viaggio e accoglienza di 63 bambini ucraini.

Il problema però non è tanto di natura burocratica, quanto politica. Circa un terzo degli eletti del M5S infatti versa le somme a singhiozzo oppure ha smesso direttamente di farlo. Sarebbero 80-90 persone quelle coinvolte. 

Confida uno di loro: «Pende anche la questione della legittimità degli attuali vertici politici, quindi sul fatto se siano titolati o meno a spenderli: quando verrà chiarita una volta per tutte la vicenda giuridica al tribunale di Napoli allora sarà diverso. Oggi non c'è il clima di fiducia necessario, dal punto di vista politico, amministrativo e legale».

Ognuno sulla carta ha delle ragioni più o meno legittime. La consulenza da 300 mila euro a Beppe Grillo non è andata giù a parecchi; la scelta della sede nella centrale e costosa via di Campo Marzio a Roma, quartier generale dove pochi parlamentari mettono piede non avendone particolare bisogno, idem; ma probabilmente la principale è la più semplice: considerato che in pochissimi hanno la possibilità di essere rieletti, visto il taglio dei parlamentari e il calo di consensi del Movimento, la tentazione di tenersi tutta l'indennità è altissima.

Nei mesi scorsi Giuseppe Conte ha fatto un'infornata di nomine interne ratificate online, tra vicepresidenti, responsabili e membri dei comitati quasi 100 persone. Tra i requisiti necessari per ottenere la carica, c'era quella di essere in regola con i versamenti. 

Insomma, almeno su quei nomi c'è la ragionevole certezza che non siano "morosi". «Non sono preoccupato perché il bilancio è in attivo - rassicura l'ex presidente del Consiglio, in trasferta elettorale a Portici, sollecitato dopo l'indiscrezione di Adnkronos -. Ovviamente il tema delle restituzioni esiste, l'affronteremo, ma molto serenamente perché per me gli impegni presi coi cittadini hanno, al di la dell'aspetto giuridico, un alto valore etico».

Di sicuro non sono previste espulsioni, almeno sul breve termine: proprio per via della causa aperta a Napoli da un gruppo di attivisti, a giorni è atteso un primo verdetto, tutti i procedimenti disciplinari sono congelati. 

A proposito di denaro, c'è una certa trepidazione nei 5 Stelle per la puntata di Report questa sera. 

Infatti la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci tornerà a parlare del gruppo Onorato e dei suoi passati rapporti con Grillo e con la Casaleggio associati, con un'inchiesta aperta per traffico di influenze illecite alla procura di Milano.

«Questo dobbiamo trattarlo bene», scriveva per sms e mail il fondatore ad alcuni esponenti del M5S, riferendosi all'armatore della Moby. E poi, altro focus, sulle "parlamentarie" del 2018, i clic in rete per scegliere i candidati. 

Un attivista racconta infatti delle confidenze ricevute da Vito Crimi, all'epoca la democrazia diretta su Rousseau non funzionò a dovere: «Centinaia di persone erano state estromesse dal voto pur avendo tutti i requisiti, questo perché i big del partito avevano i loro protetti che dovevano far candidare.

Avevano la possibilità di togliere la spunta accanto al nome sul sito, così togliendo le persone dalla votazione. E io ero uno di questi come tanti altri». Insomma, più che i problemi tecnici furono le scelte politiche ad aggiustare le liste finali. 

Pratica ammessa di fronte alla telecamera di Report dallo stesso Crimi, che poi è stato capo reggente del Movimento prima dell'arrivo di Conte: «Qualcuno aveva il potere di indicare magari a Luigi Di Maio, che era il capo politico e che aveva il diritto e il dovere di valutare le candidature: "Guarda quella persona forse non è il caso di candidarla. Per questo e quest' altro motivo...". L'ho fatto anche io? Beh, sì...».

Le restituzioni scomparse. Ai Cinque Stelle mancano 2 milioni di euro, 90 parlamentari non versano più. Linkiesta il 6 Giugno 2022.

Circa un terzo degli eletti del M5S versa le somme a singhiozzo oppure ha smesso direttamente di farlo. Contano i dissidi interni, ma anche il fatto che in pochissimi hanno la possibilità di essere rieletti, visto il taglio dei parlamentari e il calo di consensi. La tentazione di tenersi tutta l’indennità è altissima.

Circa 2 milioni di euro. È tempo di bilanci per i grillini. Ed è questa la cifra, secondo il tesoriere dei Cinque Stelle Claudio Cominardi, che manca al Movimento in seguito allo stop nelle restituzioni di parte dello stipendio di deputati e senatori – come riporta Repubblica.

Ogni mese è previsto che i parlamentari Cinque Stelle versino 1.000 euro al partito, una pratica comune a tutte le formazioni politiche per autofinanziarsi. Altri 1.500 euro invece vanno indirizzati al cosiddetto fondo restituzioni, un conto corrente gestito dai capigruppo. Di volta in volta gli iscritti sono chiamati a decidere dove destinarli. L’ultima volta, ad esempio, 75mila euro furono destinati all’associazione papa Giovanni XXIII, per pagare viaggio e accoglienza di 63 bambini ucraini.

Il problema è che circa un terzo degli eletti del M5S versa le somme a singhiozzo oppure ha smesso direttamente di farlo. Sarebbero 80-90 persone quelle coinvolte. «Pende anche la questione della legittimità degli attuali vertici politici, quindi sul fatto se siano titolati o meno a spenderli: quando verrà chiarita una volta per tutte la vicenda giuridica al tribunale di Napoli allora sarà diverso. Oggi non c’è il clima di fiducia necessario, dal punto di vista politico, amministrativo e legale», dice uno dei parlamentari morosi.

La consulenza da 300mila euro a Beppe Grillo non è andata giù a parecchi. Poi c’è la scelta della sede nella costosa via di Campo Marzio a Roma. Ma probabilmente la ragione principale è la più semplice: considerato che in pochissimi hanno la possibilità di essere rieletti, visto il taglio dei parlamentari e il calo di consensi del Movimento, la tentazione di tenersi tutta l’indennità è altissima.

Nei mesi scorsi, Giuseppe Conte ha fatto un’infornata di nomine interne ratificate online, tra vicepresidenti, responsabili e membri dei comitati quasi 100 persone. Tra i requisiti necessari per ottenere la carica, c’era quella di essere in regola con i versamenti. Insomma, almeno su quei nomi c’è la ragionevole certezza che non siano “morosi”.

«Non sono preoccupato perché il bilancio è in attivo», rassicura l’ex presidente del Consiglio. «Ovviamente il tema delle restituzioni esiste, l’affronteremo, ma molto serenamente perché per me gli impegni presi coi cittadini hanno, al di la dell’aspetto giuridico, un alto valore etico».

Non sarebbero previste espulsioni, almeno sul breve termine. A Napoli a giorni è atteso un primo verdetto e tutti i procedimenti disciplinari sono congelati. Domani è invece previsto il ricorso davanti ai giudici di Napoli sulla seconda votazione per il nuovo statuto del Movimento che ha portato alla presidenza di Conte.

"Vi racconto l'ossessione dei grillini per i soldi". Luca Sablone il 25 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'analisi del sociologo Panarari sul chiodo fisso dei 5 Stelle: così i grillini nel palazzo hanno fatto crollare la morale sulla loro diversità e superiorità rispetto agli altri partiti.

La metamorfosi del Movimento 5 Stelle è lampante: un soggetto politico dichiaratamente anti-casta che si è incarnato in un vero e proprio partito, ormai ben radicato all'interno del palazzo con quelle connotazioni che in passato aveva tanto disprezzato. Le infinite giravolte hanno finito anche per far cadere l'ultimo tabù: è bastato poco per veder crollare quel concetto secondo i cui i grillini sarebbero diversi dagli altri e con valori morali superiori.

Hanno sempre parlato delle restituzioni come se ciò fosse l'unico strumento di valutazione per votare un partito. E ora il sociologo Massimiliano Panarari, attraverso un'analisi pubblicata su La Stampa, ha fatto notare come i pentastellati abbiano tradito l'utopia della politica vergine e a costo zero. Nei fatti hanno smentito il loro magnifico mondo puro, fatto di trasparenza assoluta e di impegni politici senza compensi. Altro che anti-casta.

L'accordo con Grillo

La notizia di pochi giorni fa va proprio in questo senso. In queste ore Beppe Grillo ha assunto nuovamente un ruolo centrale, tornando a Roma per segnare un ulteriore punto di svolta. Il Movimento 5 Stelle ha raggiunto un accordo con il comico genovese: l'intesa si traduce in supporto nella comunicazione che va dall'ideazione di campagne all'organizzazione eventi, passando per la promozione di strategie digitali e la produzione video.

Il fatto di per sé non costituirebbe scandalo. C'è un però, e la domanda sorge spontanea: quanti soldi girano dietro questo accordo? Che tipo di patto economico è stato siglato? Grillo quanto incasserà? Va fatta una precisazione: allo stato attuale non sono ancora state snocciolate cifre ufficiali. Alcuni rumors, al momento non confermati, riferiscono che l'entità dell'accordo si aggirerebbe attorno a una cifra pari a 300mila euro.

L'ossessione per i soldi

"Una (tutt’altro che) magnifica ossessione", scrive il sociologo Panarari. Le indiscrezioni hanno mandato su tutte le furie molti eletti. Ad esempio un deputato grillino - racconta l'Adnkronos - si chiede per quale motivo "dovremmo pagare con le restituzioni il blog di Grillo, mentre prima tutto ciò avveniva gratis". Nel corso di questi anni sono state innumerevoli le polemiche legate alle restituzioni dei parlamentari 5 Stelle, con tanto di fuoco incrociato tra fedeli e morosi. Qualcuno aveva mosso l'accusa di finti bonifici, facendo scatenare altri malumori e litigi interni.

"Le fibrillazioni interne erano partite dalla crescente insofferenza per le donazioni al fondo di sostegno alle pmi, e avevano poi visto ampliarsi il numero dei parlamentari coinvolti in spese, diciamo così, allegre che venivano infilate nei rimborsi", ha ricordato il sociologo Panarari. Tra le altre tappe della via crucis vi è quella dello scorso anno, quando si arrivò al divorzio con l'Associazione Rousseau dopo una serie di tira e molla. La scorsa estate erano state avviate le procedure per la cassa integrazione "a fronte dell'enorme mole di debiti cumulati dal Movimento 5 Stelle nei confronti dell'Associazione Rousseau".

Passano pochi mesi e il M5S apre a una nuova rivoluzione, chiedendo agli iscritti il via libera per l’accesso al finanziamento del 2xmille e al finanziamento privato in regime fiscale agevolato mediante iscrizione al registro nazionale. Eppure nel 2014 la storia era ben diversa: su Il Blog delle Stelle veniva scritto che "i partiti vogliono i soldi del tuo 2xmille, il M5S no". E veniva ribadito a chiare lettere: "Il M5S non è un partito e non vuole i soldi del tuo 2xmille".

Il sociologo Panarari ha sottolineato: "Una caterva di picconate al mito della diversità morale e della trasparenza, perché la maledizione dei soldi non risparmia nessuno. Specialmente quelli che fanno i duri e i puri, e promuovono le crociate ispirate a una presunta superiorità etica". In effetti riposizionamenti e ripensamenti con il passare degli anni sono diventati l'unica costante coerente dei 5 Stelle.

Dallo sterco del diavolo ai 300 mila euro per il guru Grillo. L’armistizio tra i 5S e la pecunia. Sebastiano Messina su La Repubblica il 24 Aprile 2022.

Nel 2010 il comico genovese teorizzò sul suo blog il definitivo rifiuto di ogni finanziamento: "Il costo della politica è un’invenzione linguistica dei politicanti per diventare ricchi, o almeno benestanti, con le risorse dello Stato. Io non conosco un solo politico povero".

Diciamo la verità: se l'è cercata. Perché se oggi lascia tutti a bocca aperta la notizia che i Cinquestelle verseranno a Beppe Grillo 300 mila euro l'anno per "l'ideazione di campagne e la promozione di strategie digitali", è perché sembra ancora di sentirlo, il fondatore, garante e padrone del Movimento, mentre tuona che "i soldi trasformano la politica in una montagna di merda".

Il M5s ora paga Grillo, 300mila euro all’anno per la comunicazione. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 22 aprile 2022

Il Movimento 5 Stelle ha raggiunto un accordo con Beppe Grillo: il fondatore ha firmato due contratti rispettivamente da 200mila e centomila euro per “attività di supporto nella comunicazione” dei gruppi parlamentari

Beppe Grillo, fondatore e garante dei Cinque stelle, è riuscito a strappare al suo Movimento contratti per 300mila euro all’anno. Dopo due giorni di trattative, con Grillo che faceva base all’hotel Forum a Roma, l’accordo è stato raggiunto ieri sera. 

L’intesa «comprende attività di supporto nella comunicazione con l’ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche», si legge in nota del M5s diffusa ieri sera. 

Il comico è arrivato nella capitale da qualche giorno per incontrare le figure più importanti del partito. Ha visto il presidente Giuseppe Conte, il capodelegazione al governo Stefano Patuanelli, ma anche i capigruppo di Camera e Senato Davide Crippa e Mariolina Castellone e il tesoriere Claudio Cominardi. 

Inizialmente, Grillo è riuscito a concordare con il presidente Giuseppe Conte un pacchetto da 200mila euro per il suo inquadramento nelle attività del Movimento. Al termine delle trattative, però, Grillo è riuscito a strappare centomila euro in più, raggiungendo la cifra complessiva di 300mila euro all’anno.

Il fondatore sarà incluso non solo nelle attività e nella comunicazione italiana dei Cinque stelle, ma potrà occuparsi anche «della promozione delle attività del Movimento all’estero attraverso la partecipazione a convegni, giornate di studio, incontri con personalità scientifiche e istituzionali».

Un altro tassello della strategia messa in piedi dell’ex presidente del Consiglio è l’introduzione nel nuovo sistema di gestione della comunicazione condiviso tra blog e Movimento è l’inclusione di Nina Monti, vicina al garante da parecchio tempi. Monti, già cantante e figlia d’arte del paroliere di Patty Pravo, e già da parecchio tempo deputy editor del sito di Grillo. Il suo coinvolgimento più stabile nella strategia del Movimento è stata evocata già parecchie volte in passato, ma l’iniziativa non è mai andata in porto.

Monti potrebbe essere inserita nel gruppo Cinque stelle alla Camera, ma il suo stipendio non dovrebbe essere a carico del partito. Sarà probabilmente Grillo, all’interno dei due contratti di consulenza, ad occuparsene. 

Non è la prima volta che incarichi e datori di lavoro si confondono nel Movimento: anche Rocco Casalino, portavoce di Conte, che però non ha nessun incarico parlamentare, è assunto dal gruppo Senato. VANESSA RICCIARDI

Ilario Lombardo per “La Stampa” il 24 aprile 2022.  

L'Eletto della democrazia diretta vale 300 mila euro. È quanto riceverà Beppe Grillo dal M5S. A quanto pare 80 mila euro o qualcosa di più andranno a Nina Monti, sorta di anti-Casalino che si è accasata nella comunicazione grillina per conto del comico.

Ma soprattutto 100 mila euro Grillo li prenderà per il suo ruolo di garante, che fino a oggi ha svolto ovviamente gratis. Ma prima faceva spettacoli, la pubblicità lo inseguiva sul blog, perché ogni sua alzata di sopracciglio era un terremoto politico. È un po' come se Steve Jobs quando venne cacciato da Apple, azienda che lui aveva creato, avesse detto: se vi sistemo un paio di computer, mi date qualcosa?

Beppe Grillo e il vitalizio contro il portafoglio «miscio». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2022.

Beppe Grillo pensa anche al portafoglio, pare sia miscio (al verde, in genovese). Per 300 mila euro ha affittato il suo blog per ospitare contenuti del M5S, insegnare tecniche di comunicazione, sviluppare contenuti sulla transizione ecologica e sull’innovazione tecnologica. Quando ci sono di mezzo le palanche, la sua leggendaria oculatezza viene fuori: il blog costa all’anno 200 mila euro di spese vive, di cui la metà vanno alla società che glielo cura.

Spettacoli in giro non ne fa più (del resto, bravi autori disposti a scrivergli testi ora è difficile trovarne), in tv non lo chiamano perché ormai è leader carismatico di un partito, le ville bisogna pur mantenerle e allora non resta che battere cassa a quelli che ha piazzato in Parlamento.

Ma la riconoscenza non è di questa terra. Alcuni parlamentari grillini, pur di non tirare fuori un euro, gli suggerivano di salvaguardare la sua autonomia di Garante. Altri malignavano sull’attuale dirigenza del movimento che, in questo modo, si sarebbe comprata il silenzio di Beppe (altra versione: è in atto un commissariamento del M5S).

Era difficile pensare che l’Elevato, l’impavido uomo del «Vaffa Day», scendesse a Roma con il cappello in mano per chiedere ai suoi un vitalizio. Pareva una di quelle notizie che si leggono sui blog. Invece, era tutto vero. 

I valori del garante Da Grillo a Bannon, il triste autunno dei piazzisti del populismo. Francesco Cundari su L'inkiesta il 23 Aprile 2022.

Nel pieno della più grave crisi internazionale degli ultimi decenni il fondatore del M5s è sceso a Roma per discutere con i vertici del suo partito i dettagli della «partnership» con il blog. 

Se il trucco più riuscito del diavolo è stato convincerci che non esiste, la battuta migliore di Beppe Grillo è stata sostenere di aver fondato un movimento politico. Non era niente del genere, come si dimostra in questi giorni.

Nel pieno della più grave crisi internazionale degli ultimi decenni, infatti, il fondatore del Movimento 5 stelle è sceso a Roma per discutere con i vertici del suo partito, dal presidente (sub judice) Giuseppe Conte al presidente della Camera Roberto Fico, dal ministro Stefano Patuanelli ai capigruppo di Camera e Senato: per parlare della guerra in Ucraina? Dei rapporti con la Russia, delle sanzioni, dell’allargamento della Nato? Macché. Del blog. O per meglio dire, di soldi. Cioè dell’unico motivo per cui il «garante» del Movimento 5 stelle ha messo in piedi l’uno e l’altro, il blog e il partito.

Stando almeno a quanto riportato da tutti i giornali, questo sarebbe stato infatti l’oggetto dei colloqui: i soldi che il movimento gli dovrebbe dare per «l’uso» del blog. Per essere sicuro di non sbagliare, cito da una fonte sicuramente non ostile come il Fatto quotidiano, che la mette così: «Un coinvolgimento maggiore di Beppe Grillo nella divulgazione delle idee del Movimento e quindi una vera e propria partnership (a pagamento) con il blog». Capito bene? Una partnership.

«Il Movimento 5 stelle – informa una nota ufficiale del partito in serata – ha raggiunto un accordo con Beppe Grillo che comprende attività di supporto nella comunicazione con l’ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della Scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche».

Se non fosse tragico sarebbe da morire dal ridere.

Di sicuro, oltre che tragico, è un episodio molto istruttivo. Perché chiarisce definitivamente la genesi, la natura e il movente dell’impegno politico di Grillo, che a ben vedere non è diverso da quello di Steve Bannon negli Stati Uniti, con le sue mille attività che ne hanno preceduto e accompagnato la pseudo-carriera politica, dal banchiere d’investimento (proprio lui, certo) al consigliere d’amministrazione in Cambridge Analytica (proprio quella, ovvio).

Potremmo definirli i piazzisti del populismo. Non credono a quello che dicono più di quanto i protagonisti di certe televendite credano davvero alla crema sciogli-pancia o alla pallina lava-vestiti (a suo tempo pubblicizzata da Grillo, peraltro).

Anzi, come è sempre più evidente, non è tanto che non ci credano. È proprio che non gliene frega niente.

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 29 marzo 2022.

Per Paola Taverna dev' essere stato veramente un dramma, o forse una specie di insopportabile e oscuro presagio, visto il baccano piantato. Un collega d'aula riassume così l'accaduto: «È scoppiato un bordello». 

La storia è questa: il 15 marzo scorso agli eletti del Movimento 5 Stelle a Palazzo Madama - attualmente sono rimasti in 73 - arriva una comunicazione del direttivo del gruppo su Telegram. Si spiega che si è deciso per una nuova disposizione dei posti a sedere in aula. Allegata c'è una cartina con le assegnazioni della poltroncina, modifica generale fatta con l'intenzione di avvicinare tra loro i componenti delle stesse commissioni.

Tra i vari cambiamenti di postazione c'è pure quello della vicepresidente vicaria del partito nonché vicepresidente del Senato. Così alla prima seduta utile Taverna arriva e scopre che anche lei ha perduto la sua solita posizione nell'emiciclo, la stessa che ha dal 2018.

Nello schema infatti viene fatta salire di una fila, anche se sulla stessa direttrice, sul laterale sinistro. Un posto vale uno? Macché, apriti cielo, la senatrice - ben nota per il carattere fumantino e le (passate) intemerate da cittadina prestata alla politica - è andata su tutte le furie. 

Il malcapitato investito dalle rimostranze di Taverna è stato Fabrizio Trentacoste, senatore siciliano e uno dei tre segretari del gruppo M5S, oggi guidato dalla capogruppo Mariolina Castellone. 

«Come vi siete permessi?», ha protestato Taverna. E ancora: «Ho lo stesso posto da quattro anni, io non me ne vado». Chi ha assistito alla scena la definisce "ridicola", o in alternativa "vergognosa", ma comunque sia la sostanza è che alla fine la vicepresidente, interpellando direttamente gli uffici del Senato e quindi scavalcando il direttivo, ha ottenuto che tra i vari cambiamenti di posto venisse depennato il suo. Ovviamente a parecchi compagni di partito, i quali invece si sono spostati come richiesto, la scenata non è piaciuta e da giorni le battute si sprecano.

Di sicuro tutta la faccenda, apparentemente marginale, ha tutto un suo risvolto simbolico, soprattutto visto che si parla dei 5 Stelle e di una figura di spicco di quel Movimento delle origini che prometteva di mandare in Parlamento semplici e disinteressati "portavoce" del "popolo". Quasi dieci anni dopo invece ci si avvinghia alla celeberrima poltrona, ma proprio letteralmente.

Politica a pagamento e addio trasparenza nel M5S. Ultima giravolta grillina. Gaetano Mineo su Il Tempo il 24 aprile 2022.

Il francescanesimo del MoVimento 5 stelle s’è trasformato in una macchina da soldi. O almeno così pare, soprattutto in questo periodo nel corso del quale sono state ammainate le ultime bandiere grilline. A sventolare con un flebile vento, è rimasta soltanto quella del limite del doppio mandato. Ma anche questa, sembra pronta per essere abbassata. E così, soldi e affari si prendono la scena, sollevando polemiche e malumori in un partito, qual è quello dei 5 stelle, già lacerato dalla guerra fratricida Conte-Di Maio, dalle controversie giuridiche sullo statuto e non ultimo dalla leadership di Giuseppe Conte, mai decollata e da non tutti ben accolta, a partire dal cofondatore del movimento, Beppe Grillo. Ed è proprio il comico genovese a battere cassa e a strappare un contratto con il M5s - di cui è Garante, quindi anche del contratto stesso - di circa 300mila euro all’anno, per fornire servizi di comunicazione, organizzazione di eventi e mettere a disposizione del partito il blog storico dello stesso comico. In soldoni, una sorta di ufficio stampa da 25mila euro al mese che andranno nelle tasche di Grillo e di cui non c’è traccia del relativo contratto stipulato con i vertici del partito, Giuseppe Conte in primis.

«Top secret», si direbbe in ambienti investigativi. Altro che dirette streaming e scatoletta di tonno. A pagare il comico (travolto da due inchieste: sul figlio per violenza sessuale e sui presunti favori al gruppo Moby) non saranno i gruppi parlamentari ma il partito, finanziato a sua volta dalle contribuzioni dei parlamentari già sul piede di guerra. «Perché mai dovremmo pagare con le restituzioni il blog di Grillo, mentre prima tutto ciò avveniva gratis?» è il leitmotiv che riecheggia tra deputati e senatori grillini. Gli affari sono affari, direbbero gli americani. E Grillo, in questo caso. D'altronde, non è una questione politica. Lui, a oggi, è il Garante del partito (non retribuito), il «padre nobile». Ma la comunicazione ha un prezzo, si paga: 25 mila euro al mese. Come dire, con la politica si possono fare affari. È la legge del contrappasso che riaccende i tempi di quando il comico megafonava nelle piazze il varo del «Politometro», uno strumento per verificare i redditi dei politici prima, durante e alla fine del mandato parlamentare. L’aria di business, intanto, colpisce anche il grillino della prima ora Alessandro Di Battista. L’ex falegname ha deciso di fare un po’ di soldi con la politica: il 18 maggio terrà online un corso di comunicazione politica, appunto, per i candidati alle elezioni amministrative 2022 al costo di 39 euro per chi si iscrive entro il 27 aprile, poi - testualmente - «il prezzo salirà». Gli affari sono affari. Il Movimento è costellato di questioni di soldi.

«Lady Rousseau», la compagna di Davide Casaleggio ha attaccato recentemente Conte perché vuole 450mila euro, una somma pari al debito che ha maturato il M5s nei confronti di Rousseau, a dire dell’Associazione stessa. Ma non è tutto. Per circa un anno è andata avanti la telenovela delle mensilità che i parlamentari dovevano sborsare al partito. Somme riviste dopo il divorzio da Rousseau e che hanno alimentato sempre più la lista dei morosi. Tutti dati che prima venivano pubblicati in Rete mentre a oggi non ce n’è più traccia. Nulla si sa più del contributo di 1.000 euro che il parlamentare deve dare mensilmente al partito, oltre alla restituzione da 1.500 euro per alimentare il «fondo sociale». Sembra che non si rendiconti più nulla. Già è sparita dai radar un altro dei fiori all’occhiello della creatura di Grillo: la rendicontazione pubblica delle spese. Per non parlare dell’addio dato dal M5s alla decisione di non prendere i soldi pubblici per finanziare la politica. Infatti, i 5stelle hanno detto sì al 2 per mille tanto osteggiato quando Enrico Letta lo introdusse al posto dei rimborsi elettorali. «Il M5S non è un partito e non vuole i soldi del 2 per mille. Il M5S ha dimostrato che non servono soldi pubblici per fare politica», scriveva il Blog delle Stelle. Ma questa è un’altra storia. 

 Dai vaffa ai redentori, da centomila a nessuno: il calderone spento del M5s. VITTORIO FERLA su Il Quotidiano del Sud il 24 aprile 2022.

Dove sta andando il M5s? Dopo le ultime vicissitudini del movimento che avrebbe dovuto rivoluzionare la politica italiana è legittimo chiederselo. Al suo esordio, il partito fondato da Beppe Grillo era un calderone di pulsioni contrastanti. Prima di tutto, c’era il “Vaffa” contro la politica italiana, accusata di essere un agente della corruzione e del degrado morale. Grazie alla retorica anti casta, il movimento raccolse gli insoddisfatti di ogni origine politica. Più di tutti, i delusi del Pd.

Fin dalle origini, insomma, i grillini incarnano la parte dei “redentori”, un po’ come accade da sempre nei populismi sudamericani: basti pensare alla storia di Castro o di Chavez. L’idea messianica dei pentastellati – alla Di Battista, per intenderci – si risolveva appunto nel compimento di una missione redentrice. Il loro popolo di cittadini offesi dalle bricconate della politica cattiva era elevato a comunità organica, virtuosa ma vessata.

Grazie a questa narrazione, i grillini riuscivano a raccogliere di tutto: scarti della destra e della sinistra, personaggi improbabili in cerca d’autore, parvenu dell’attività politica, drop out della vita reale. Centomila anime diverse alle quali corrispondevano altrettante idee confuse. Un miscuglio di no alla crescita, allo sviluppo, al mercato, al liberismo, alla democrazia rappresentativa, al capitalismo, all’Europa, all’euro, alla Nato.

Il M5s accontentava così tutte le pulsioni antisistema, raccogliendo soprattutto nel vasto elettorato protestatario (ma velleitario) del nostro Mezzogiorno. Nella legislatura scorsa, passata sui banchi dell’opposizione, ha campato sulla poesia del cambiamento senza mai scontrarsi con la prosa della realtà. La vittoria alle elezioni del 2018 cambia tutto. Il M5s diventa l’architrave della legislatura e di tutti i governi che vi si sono succeduti.

L’identità multiversa delle origini si traduce sempre più in una facciata monolitica. Non soltanto perché forgiata dal fondatore Beppe Grillo. Ma soprattutto perché il destino del nuovo soggetto politico si realizza nella figura del capo di governo: Giuseppe Conte. E la molteplicità di attese di cambiamento si esauriscono in una domanda univoca di assistenzialismo: le misure redistributive come il reddito di cittadinanza e Quota 100 (concordate con la Lega, che raccoglie le medesime pulsioni da destra) sono l’eredità di questa fase. Sotto l’immagine unificatrice del presidente del consiglio, il M5s cerca di tacitare le sue mille anime.

La verità, ovviamente, è molto diversa. Tanto è vero che, tra fughe disperate e purghe autoritarie, decine di parlamentari transitano verso altri lidi: o nel gruppo misto o, direttamente, in altre formazioni concorrenti. Sacrifici politici (e umani) necessari per garantire una coriacea conformità nella figura di Giuseppe Conte. A un certo punto, il vento comincia a cambiare.

Dopo le note vicende, Conte cade in disgrazia e viene sostituito e surclassato dalla stella di Mario Draghi. È l’ultima fase del movimento: prima ‘centomila’ (cose diverse), poi ‘uno’ (Conte, capo di governo), poi… ‘nessuno’ (Conte capo politico). Proprio mentre Draghi fa il grande timoniere euroatlantico, guidando la nave Italia verso la meta dell’attuazione del Pnrr e della ritrovata credibilità internazionale, tra i pentastellati scoppia la crisi di identità definitiva.

Nessuno sa cosa sia, oggi, il M5s. A partire dalla scelta del presidente della Repubblica, Conte pasticcia su tutto. L’acclamato “punto di riferimento fortissimo dei progressisti” è già un ex, indeciso a tutto. La Russia invade l’Ucraina? E lui: né con Putin, né con la Nato. L’Europa sostiene Kiev a spada tratta? Sì ok, ma niente armi. L’Ue rilancia la difesa comune come risposta alla minaccia imperialista di Mosca? Voglio i sussidi, no alle spese militari. La Francia deve scegliere tra europeismo e nazionalismo? L’avvocato assicura: né con Le Pen, né con Macron. Alla fine della storia, il M5s si guarda allo specchio e non ci trova più nessuno.

L’emendamento per strappare il finanziamento. Soldi pubblici, grillini a caccia del malloppo di stato. Salvatore Curreri su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Come tutti gli automobilisti sanno, in autostrada sono vietate le inversioni a U. Se vuoi tornare indietro, devi aspettare la prossima uscita. Invece, i pentastellati, per accedere al finanziamento pubblico (indiretto), non vogliono aspettare il 2023. Lo vogliono subito. E se le regole oggi vietano questa inversione a U, nessun problema: basta cambiarle. Per comprendere meglio quel che potrebbe accadere occorre fare un passo indietro. Oggi i partiti che vogliono accedere al cosiddetto 2×1000 e alle donazioni fiscalmente agevolate devono iscriversi in un apposito Registro. A sua volta, per iscriversi a tale Registro i partiti devono avere rappresentanza parlamentare e uno Statuto che contenga taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori, stabiliti per legge. In tal modo il legislatore ha collegato l’accesso dei partiti al finanziamento pubblico alla loro democrazia interna.

Insieme al vincolo di mandato dei parlamentari-portavoce dei cittadini e al limite dei due mandati, il no al finanziamento pubblico era uno dei tre pilastri identitari del M5s. “Era” perché lo scorso 30 novembre l’assemblea degli iscritti (peraltro senza numero legale: rispetto ai 131.760 aventi diritto hanno votato appena 33.967 iscritti e di questi a favore 24.360: il 18,5% del totale) ha approvato la proposta del presidente Conte di accedere a tale finanziamento. Si dà il caso però che il 30 novembre sia il termine ultimo entro cui i partiti registrati devono presentare richiesta per accedere al finanziamento pubblico per l’anno successivo (art. 10.3 d.l. 149/2013). Era scontato quindi che, non essendo ancora registrato, la richiesta del M5s di accesso al finanziamento per il 2022 venisse respinta dalla competente Commissione di garanzia (delibera del 23 dicembre 2021). Poiché per registrarsi occorre, come detto, avere uno Statuto democratico, ecco spiegata l’esigenza del MoVimento di vararne uno nuovo e per di più rispondente ai requisiti richiesti dalla suddetta Commissione.

E già, perché nel frattempo tale Commissione, rilevate non poche difformità dello Statuto rispetto ai requisiti prescritti per legge, ha imposto al M5s talune specifiche modifiche per potersi registrare. Prescrizioni peraltro la cui lettura è caldamente consigliata a chi, lamentando l’ingerenza dei giudici, vuole capire meglio quali siano le garanzie minime per la democrazia nei partiti. Tali modifiche sono state giustappunto recepite nel nuovo Statuto che sarà sottoposto all’approvazione degli iscritti giovedì e venerdì prossimi. Iscritti convocati anche per ripetere la deliberazione assembleare del 2-3 agosto 2021, sospesa dal Tribunale di Napoli (ce ne siamo occupati su queste colonne lo scorso 10 febbraio), con cui era stato approvato il nuovo Statuto sulla cui base Conte era stato eletto Presidente del M5s. Mentre, infatti, gli altri partiti cambiano dirigenti, anziché Statuto, nel M5s cambiano gli Statuti per modellarli ai nuovi dirigenti: così abbiamo avuto lo Statuto di Grillo (2012), quello di Di Maio (2017), quello del Comitato direttivo, mai eletto (febbraio 2021) e ora quello di Conte (agosto 2021).

Vi chiederete: tali modifiche statutarie cosa c’entrano con il finanziamento pubblico? In ogni caso, si potrebbe obiettare, il nuovo Statuto, se approvato e giudicato conforme dalla Commissione di garanzia, permetterà al M5s d’iscriversi nel Registro e quindi di accedere al finanziamento pubblico ormai per il 2023, essendo scaduto il termine del 30 novembre 2021. Inoltre: perché tutta questa fretta di approvare il nuovo Statuto se il Tribunale di Napoli non si è ancora pronunciato sulla legittimità dell’approvazione del precedente a causa dell’esclusione degli iscritti con meno di sei mesi, peraltro ora nuovamente esclusi il prossimo 10-11 marzo, esponendosi al rischio di una nuova impugnazione? Rischio di nuova impugnazione peraltro alimentato dall’avvcato Borré secondo cui le regole previste nel nuovo Statuto per l’elezione del Comitato di garanzia e (in via transitoria) del primo presidente del M5s introdurrebbero meccanismi di cooptazione vietati dalle Linee guida per la redazione degli Statuti prescritte nel 2018 dalla Commissione di garanzia.

La risposta del perché di tanta fretta si trova in un emendamento presentato dal senatore Fantetti (n. 9.0.8, segnalato e quindi da votare) al decreto legge n. 4/2022 (c.d. sostegni-ter). Esso, infatti, prevede la riapertura dei termini per accedere al finanziamento pubblico indiretto per il 2022, postergandoli dal 30 novembre 2021 al 31 marzo 2022, per gli “operatori” (ohibò) politici che fossero registrati entro la data di conversione del decreto legge (e cioè massimo entro il prossimo 28 marzo). L’obiettivo dunque è chiaro: approvare subito il nuovo Statuto secondo le indicazioni della Commissione di garanzia, così da avere il tempo per presentare o richiesta di registrazione e, una volta ottenuta, accedere subito al finanziamento pubblico per il 2022 profittando dell’approvazione nel frattempo dell’emendamento Fantetti. Approvazione peraltro probabile visto che permetterebbe l’accesso al finanziamento di forze politiche al momento escluse: anche Coraggio Italia, registratasi lo scorso 27 gennaio, Idea-Cambiamo!-Europeisti-Noi di Centro (Noi Campani), cui il sen. Fantetti appartiene; Rifondazione Comunista che ha ottenuto la necessaria rappresentanza parlamentare grazie alla componente politica del misto Manifesta-Potere al Popolo-Partito della Rifondazione comunista costituitasi lo scorso 8 febbraio.

Ovviamente è sempre possibile cambiare idea. Anzi è certamente apprezzabile che il M5s abbia superato l’idea demoniaca del denaro in politica (salvo comunque aver sempre utilizzato i contributi erogati ai rispettivi gruppi parlamentari e consiliari per finanziare anche le correlate attività del partito, non facilmente separabili). Meno apprezzabile che per raggiungere tale scopo si debbano cambiare le regole del gioco, introducendovi deroghe a proprio vantaggio. Una forzatura che la dice lunga su chi invocava legalità-tà-tà. Salvatore Curreri

Dallo statuto del M5S sparisce il limite dei due mandati. Francesco Curridori il 24 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nel nuovo statuto del M5S che verrà messo a votazione il prossimo 10-11 marzo manca il limite dei due mandati tanto caro a Beppe Grillo. 

Niente tetto dei due mandati. Questa è la principale novità del nuovo statuto del Movimento 5 Stelle che verrà messo a votazione il prossimo 10-11 marzo.

Il nuovo statuto contiano, si legge sul Corriere della Sera, rispetto alla versione precedente che è stata "congelata" dal tribunale di Napoli recepisce i rilievi mossi dalla Commissione di garanzia per gli Statuti così da poter accedere al finanziamento del due per mille. "Posto che le indicazioni per ottenere il due per mille richiedono che i requisiti per le candidature siano disciplinate in via diretta dallo statuto, è sintomatico che il testo in votazione non preveda il tetto dei due mandati; limite di mandati che invece è previsto, ad esempio, nello statuto del Pd", spiega l'avvocato Lorenzo Borré. Nello statuto dei dem, infatti, ci sono due passaggi molto dettagliati (articoli 25 e 28) sulle regole per le candidature. Dettagli che mancano nello statuto grillino, sebbene il decreto legislativo 149 del 2013 che disciplina il due per mille prevede all'articolo 3, comma 2, lettera l che vengano indicate "le modalità di selezione delle candidature per le elezioni".

Quello del tetto dei due mandati è un nodo ancora irrisolto da parte del leader Giuseppe Conte tant'è vero che anche nel testo dello statuto approvato lo scorso agosto mancava un'indicazione chiara a tal proposito. All'epoca, però, il Movimento non aveva ancora deciso di aderire ai fondi del due per mille e, pertanto, non era necessario dirimere la questione. Anzi, si era deciso di affidarsi a regolamenti extra statutari, che ora non sono compatibili con la situazione attuale. I Cinquestelle, ora, hanno due strade: emendare il testo al voto oppure modificare nuovamente lo statuto prima delle Politiche del 2023 così da lasciare intatta quella che Beppe Grillo considera una regola aurea del Movimento.

La nuova versione dello statuto all'articolo 7 contempla, invece, le Parlamentarie, ossia una "consultazione in rete" con cui si votano "le proposte di autocandidatura presentate dagli iscritti". Intanto Conte, in vista delle prossime comunali, agita il fontre progressista con dichiarazioni che mettono in allarme i lettiani:"Possiamo anche parlare di politiche astratte, come la questione del campo largo, ma - avverte 'l'avvocato del popolo' - se questo significa solo confrontarsi su politiche annacquate allora noi non ci stiamo". Parole che non sono piaciute in casa Pd, dove è forte anche la preoccupazione per la cena che Conte avrebbe avuto con Marco Travaglio e Alessandro Di Battista. L'ex deputato grillino, però, sembra intenzionato a non rientrare nel M5S finché il Movimento appoggerà il governo Draghi. Ad alimentare un clima teso tra i pentastellati c'è anche la comparsata che Davide Casaleggio avrebbe fatto a Palazzo Madama per incontrare la capogruppo Mariolina Castellone.

Nei 5Stelle vince la linea manettara. Pasquale Napolitano il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Ennesimo schiaffo a Di Maio che aveva aperto a tesi garantiste. Il blocco giustizialista impone il no ai referendum sulla giustizia nel M5s. La linea Travaglio-Conte-Bonafede regge. Anzi, appare invalicabile anche per l'ex leader dei Cinque stelle Luigi Di Maio, che resta isolato dopo le sue (seppur timide) aperture al fronte garantista.

Il diktat arriva netto dalle pagine del Fatto Quotidiano, la voce più ascoltata nel Movimento a trazione Conte-Di Battista: «Volete i ladri liberi e pure in Parlamento?», titolava ieri il quotidiano diretto da Marco Travaglio. Un monito. Non aprire varchi e cedimenti sul fronte garantista. Una linea già preannunciata nelle parole del leader Giuseppe Conte: «Da ampio confronto interno è emersa una valutazione: i quesiti referendari sulla giustizia offrono una visione parziale e sicuramente sono inidonei a migliorare il servizio e a rendere più efficiente e più equo il servizio della giustizia».

L'ala giustizialista è ancora la maggioranza tra i Cinque stelle. Restano da capire le opzioni: no al quesito o astensione, per impedire il raggiungimento dei quorum. Si aspetterà anche l'esito delle valutazioni in casa Pd. Enrico Letta convocherà la direzione per capire quale posizione assumere sui referendum sulla giustizia. Nel Pd il fronte garantista è più solido. La difesa del fortino giustizialista, ragionano gli spin di Conte, servirà a recuperare anche uno spicchio di identità e voto degli ortodossi.

Si consuma così un nuovo schiaffo al ministro degli Esteri. Di Maio, non più tardi di un anno fa, in una lettera al Foglio, aveva aperto la stagione garantista nel Movimento con le letture di scuse all'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, condannato e poi assolto in appello dall'accusa di turbativa d'asta. L'ex capo politico si era detto pentito per aver «esacerbato il clima» e trova oggi «grottesche e disdicevoli» le modalità scelte allora per combattere la battaglia politica. Ma ora il suo partito imbocca, di nuovo, la strada del giustizialismo urlato. Di Maio sarebbe orientato a votare solo il quesito sulla Severino.

L'ex leader è finito in un cul de sac. Schiacciato dalla fronda giustizialista e anti-Draghi nel Movimento, rischia di finire nella trappola del limite al doppio mandato. Di Maio ha già alle spalle due legislature. E in base alla regola madre del Movimento, blindata in questi giorni da Beppe Grillo, nel 2023 dovrà mollare la poltrona. Si ragiona su un lodo per concedere alcune deroghe. Di Maio, Fico e lo stesso Bonafede. Di Maio ci spera. È a un bivio: lanciare la sfida a Conte per strappargli la leadership o trovare rifugio in un altro partito. I centristi lo corteggiano sfacciatamente. Di Maio per ora non cede. Pasquale Napolitano

DiMartedì, Di Battista fuori controllo: "I politici? Deretani flaccidi che la magistratura ha perseguitato troppo poco". Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Alessandro Di Battista a ruota libera. Ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, l'ex grillino commenta l'attualità e, in particolare, gli scandali legati alla magistratura. Nella puntata di martedì 15 febbraio, Dibba premette di essere dalla parte di Piercamillo Davigo: "In 5 anni da parlamentare non ho mai ascoltato dibattiti interessati a far funzionare la giustizia, erano interessati a salvare i colletti bianchi, che in Italia in carcere non ci vanno. Ha ragione Berlusconi, parte della magistratura è politicizzata: non perché perseguita i politici, ma perché in Italia li ha perseguitati troppo poco". 

E ancora, questa volta in chiaro riferimento ai partiti: "Tutti governano per farsi vedere e mettere deretani, spesso, flaccidi su poltrone governative all'insegna del diamo agli italiani ma gli italiani dicono che i loro conti corrente sono prosciugati rispetto a un anno fa". Tornando all'attualità nel salotto di La7 si discute della lettera sequestrata nell'ottobre 2019 dalla Guardia di Finanza in un pc di Tiziano Renzi e finita agli atti del processo per bancarotta in corso a Firenze che vede tra gli imputati i genitori dell'ex premier. 

Qui Renzi senior scriveva al figlio Matteo, in una sorta di sfogo personale finito alla gogna. Nonostante molti, da parti diverse, prendano le difese del leader di Italia Viva, Di Battista si dice con i magistrati. Questi, a suo dire, "non depositano quella lettera per farci sapere i rapporti con il figlio, ma per dimostrare una sua condotta illegale".

Un pm al “Fatto”: «Al nostro posto vogliono metterci gli avvocati, ci sarà una sostituzione etnica». Bum!. Incredibile dichiarazione (anonima) riportata sul quotidiano di Marco Travaglio: un «alto magistrato» commenta le nuove norme sulle porte girevoli come il segno di un piano per inserire la professione forense nei gangli della macchina pubblica oggi presidiati quasi esclusivamente dalle toghe. Ma sembra solo la rabbia preventiva per un paradiso che, forse, sarà perduto. Errico Novi su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

Si stenta a crederci. Eppure è una frase testuale, riportata da un giornale certamente molto letto come il Fatto quotidiano, in un  articolo a firma di una giornalista sempre molto informata: a proposito dello stop alle porte girevoli previsto nella riforma dell Csm, un «alto magistrato» spiega, «dietro promessa di anonimato», che le norme sui capi di gabinetto nascondono una «volontà chiara», quella di «penalizzare le toghe al rientro da questi incarichi. E poi dove dovrebbero finire queste persone e a far cosa per tre anni? Rischiamo», sostiene l’anonimo pm, o giudice, interpellato dal Fatto, «nel migliore dei casi di creare una riserva indiana. Ma la verità è che si punta a una sostituzione etnica: fuori i magistrati dentro gli avvocati».

Sostituzione etnica. Addirittura. Ma innanzitutto: come si può usare un termine del genere? Come si fa a evocare uno scenario da genocidio? Siamo improvvisamente precipitati da un mondo che alcuni descrivono come una «repubblica delle Procure» a una specie di ex Jugoslavia, con gli avvocati a fare la faccia feroce tipo tigre Arkan?

Certo, c’è da ironizzare. Ma un po’ anche da riflettere. Secondo la certamente autorevole fonte interpellata dal Fatto, le misure sulle porte girevoli tenderebbero a dissuadere giudici, pm, toghe amministrative e via così dal distaccarsi presso i ministeri come capi di gabinetto o direttori di dipartimento. Si tratterebbe di questo. Al loro posto, schiere di avvocati. Un’iperbole. Incredibile. Persino offensiva, se si pensa all’attuale realtà dei fatti. Vogliamo fare un esempio? Andiamo sul classico, ministero della Giustizia: i magistrati addetti all’ufficio Legislativo sono abbastanza da poter organizzare tornei di calcetto interni. Senza considerare che il capo dell’ufficio è una magistrata. Il fatto che Marta Cartabia abbia voluto nominare, come vice di quest’ultima, un professore di Diritto penale che è anche un avvocato penalista, Filippo Danovi, è stato salutato l’anno scorso come un evento clamoroso.

Ora, da una scena simile, dal quadro attuale, le fonti del Fatto temono si arrivi alla sostituzione etnica o, per dirla con termini meno pulp, al ribaltone. A noi sembra il moto di rabbia che proviene dal profondo di una categoria, la magistratura, improvvisamente preoccupata di non poter più avere il monopolio della macchina pubblica. Di non essere più in maggioranza bulgara nel cuore dello Stato, dove spesso la politica è costretta all’opposizione, giacché il potere vero lo detengono loro, i giudici. I giudici che fanno da capo di gabinetto e i tanti che, soprattutto alla Giustizia, presidiano ogni più piccolo ganglo dell’amministrazione.

È la nostalgia preventiva per il paradiso perduto. Forse basterebbe scendere solo un attimo coi piedi sulla terra.

«L’ha detto Travaglio!». Se per i grillini la linea la detta sempre il “Fatto”. Non solo Di Battista, anche Raggi cita il direttore per dar forza alle proprie posizioni. Fausto Mosca su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

«L’ha detto Marco Travaglio». Il direttore del Fatto quotidiano è sempre stato un punto di riferimento per il mondo pentastellato. Ma da quando Gianroberto Casaleggio non c’è più e Beppe Grillo ha optato per il passo di lato, il giornalista è diventato l’unico punto fermo per i grillini più battaglieri. La linea del Movimento 5 Stelle passa per le colonne del Fatto. Che sia per bombardare il «governo dei migliori», per impallinare Luigi Di Maio il «traditore» di Giuseppe Conte o per mettere in discussione il Green Pass non importa, se lo dice Travaglio significa che è giusto. L’apostolo più fedele del direttore è ovviamente Alessandro Di Battista, più grillino di Grillo ed ex (ma non troppo) pentastellato. Un giorno sì e l’altro pure, il leader scapigliato sponsorizza sui suoi canali social gli editoriali del direttore, perché «io non avrei saputo dirlo meglio», ripete spesso.

Ma finché è Dibba, a lungo collaboratore del Fatto, a diffondere il verbo nulla di strano. Solo che negli ultimi tempi l’ala “travagliana” del Movimento sembra espandersi. Così, ecco Virginia Raggi, da tempo incastrata su posizioni similnovax, trincerarsi dietro all’editoriale del direttore per rafforzare il proprio punto di vista. «È una questione di buonsenso e Marco Travaglio l’ha esposta in un suo editoriale che condivido: oggi scatta l’obbligo del Green Pass sui luoghi di lavoro per gli over 50, una misura decisa il 7 gennaio (circa 40 giorni fa) prima del crollo, ad oggi evidente, dei contagi», premette l’ex sindaca di Roma su Facebook. «Altri paesi, Spagna e Portogallo ad esempio, stanno riaprendo senza aver mai adottato l’utilizzo delle carte verdi dimostrando dati alla mano che l’utilizzo di questa misura è pressoché inutile», aggiunge Raggi, che neanche in campagna elettorale ha voluto chiarire agli elettori la sua posizione in merito ai vaccini, attirando le critiche di detrattori e avversari politici. Perché esprimere dubbi, anche sul vaccino, non è lesa maestà, l’importante è esporli alla luce del sole per chi si propone al governo della cosa pubblica. E Raggi ha sempre preferito sorvolare, ma ieri ha approfittato dell’articolo di Travaglio sul Green Pass per esprimere qualche opinione. «Saranno almeno 1,5 milioni i lavoratori che potrebbero rimanere a casa senza reddito in un paese che non riesce a ripartire perché zavorrato da un provvedimento che sta alimentando divisioni sociali, vax contro no vax», argomenta l’ex sindaca. «Un provvedimento che, tra le altre cose, sta disincentivando il turismo. È il momento di guardare in faccia la realtà. Poniamoci una domanda: è necessario il Green Pass rafforzato obbligatorio per gli over 50? La risposta è no». Finalmente una risposta chiara. Tanto, l’ha detto Travaglio.

Superbonus e stop trivelle. I grillini scaricati da tutti. Lodovica Bulian il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa. Il governo cerca di rispondere pensando ad uno stock di energia a prezzo calmierato ma anche all'aumento della produzione nazionale di gas. Venerdì il ministero della transizione tecnologica ha pubblicato il Pitesai, il piano che individua le aree idonee alla prospezione all'estrazione di idrocarburi su terra e offshore, dopo la moratoria imposta nel 2019. Il piano nato sotto il governo Conte I, ma con l'intento di mettere vincoli alla ricerca di idrocarburi. Ora invece potrebbe essere accompagnato da un pacchetto di norme per sbloccare le trivelle tanto contestate dal M5s. È un documento di oltre 200 pagine che individua le aree in cui sarà possibile riavviare le ricerche e che arriva nel momento più drammatico per gli equilibri di approvvigionamento del gas. E ora volano le accuse incrociate contro i pentastellati: «La furia ideologica di M5S e Lega lo bloccò nel 2019: tre anni cruciali persi. A proposito di costi della politica: ci è costato più questo o i 345 parlamentari tagliati con la riforma gialloverde?», attacca Italia Viva con Marco Di Maio.

Nel mirino le politiche del No del Movimento, diventate negli anni battaglie contro il Tap, ma anche la Tav e grandi opere. Il M5s definiva il gasdotto pugliese «opera da criminali». E non basta oggi agli avversari l'inversione del sottosegretario agli Esteri dei cinque stelle Manlio Di Stefano: «È una questione di contesto storico differente. Quando abbiamo iniziato a parlare di Tap non si parlava ancora di transizione ecologica. Oggi abbiamo un contesto che mi fa dire: fortunatamente c'è il Tap». Gli risponde il viceministro alle Infrastrutture Teresa Bellanova: «Spiace dover contraddire Di Stefano ma la giravolta del M5S sul gasdotto Tap non è una questione di contesto storico differente. Ho purtroppo vissuto sulla mia pelle ciò che di violento, poco corretto, intimidatorio e umanamente miserabile il Movimento ha saputo scagliare contro chi invitava chiunque a ragionare sul tema gasdotto. Noi siamo ancora qua in attesa di quell'unico atto che sarebbe doveroso da parte vostra: chiedere scusa». E del resto anche sulle trivelle Luigi Di Maio parlava così: «Lo stop alle trivelle è una battaglia per la sovranità nazionale. Io alla mia terra ci tengo, io al mio mare ci tengo e non ho intenzione di svendere nulla ai petrolieri del resto del mondo. Sviluppiamo questo Paese in maniera sostenibile e proiettati al futuro».

M5s che ora finisce nel mirino anche per le frodi sul Superbonus, ma contrattacca la Lega sulle parole del ministro Giancarlo Giorgetti che ha criticato la misura: «Apprendiamo che il ministro è contrario al Superbonus 110%, misura che ha prodotto un terzo dell'aumento del Pil nel 2021. È dunque lecito chiedersi se anche Matteo Salvini e la Lega abbiano cambiato idea rispetto alla nostra misura. Salvini si rimangia i voti a favore del Superbonus espressi dal suo partito in Parlamento?», dicono i deputati Patrizia Terzoni, Luca Sut e Riccardo Fraccaro. «Mi pare che la strategia sia ormai chiara, tutti contro il Movimento. Se è già iniziata la campagna elettorale basta che ce lo dicano», lamenta il capo delegazione M5s al governo, il ministro Stefano Patuanelli. Lodovica Bulian

Reddito di cittadinanza e bonus, quanto ci sono costati i Cinque stelle al governo. Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 13 febbraio 2022

Quando Daniele Franco gli ha sbattuto in faccia che è grazie a loro, che hanno scritto male la misura, se il Superbonus fa acqua da tutte le parti e le frodi sono arrivate alla mostruosa cifra di 4,4 miliardi («livelli mai visti», ha detto), i grillini sono andati su tutte le furie. Ma è un fatto che la cessione del credito senza controlli per tutti i bonus edilizi è stata voluta dal Conte II nell'estate del 2020, così come è un fatto che uno dei principali ostacoli all'aumento della produzione di gas in Italia, vitale oggi con le bollette alle stelle, è la moratoria sulle trivelle (in queste ore sbloccata dal governo) voluta dal Conte I nel febbraio del 2019. La realtà, piaccia o no al Movimento e al popolo dei vaffa, è che da quando hanno messo piede a Palazzo Chigi i Cinquestelle non ne hanno fatta una giusta. La famosa scatoletta di tonno è stata aperta, bisogna dirlo, ma quello che ne è uscito più che l'onestà e il cambiamento promessi sono stati provvedimenti rabberciati, leggi malfatte, passi falsi e miliardi di soldi dei contribuenti gettati al vento.

Tutto comincia a pochi mesi dall'insediamento nel governo in coabitazione con la Lega. È il luglio del 2018 e Luigi Di Maio annuncia con orgoglio l'approvazione del decreto dignità. Una misura che avrebbe dovuto abolire il precariato mettendo all'angolo sfruttatori e avidi imprenditori. Com' è finita lo sappiamo. Per tenere insieme i cocci del mondo del lavoro mandato in frantumi dalla pandemia è stato lo stesso premier Giuseppe Conte, tanti i problemi provocati dalla stretta grillina sui contratti a termine, a dover sospendere l'applicazione del decreto.

CAPOLAVORO - Il capolavoro a Cinquestelle è, però, quello che arriva qualche mese dopo. È il settembre del 2018 quando sempre Di Maio, ancora più orgoglioso, esce dal balcone di Palazzo Chigi e grida alla folla festante di aver abolito la povertà. Inizia la grande epopea del reddito di cittadinanza. La legge istitutiva è del gennaio 2019, ma la paghetta grillina parte ad aprile. Da allora ci è costata la bellezza di 20 miliardi finiti anche, grazie ad un sistema di controlli basato sulle autocertificazioni, in tasca ad assassini, mafiosi, terroristi, detenuti, parassiti, truffatori, spacciatori, ladri ed evasori fiscali. Nello stesso periodo Alfonso Bonafede, allora ministro della Giustizia, dava vita all'altro grande orgoglio del popolo grillino: la legge spazzacorrotti, con annessa abolizione della prescrizione. Una roba in totale contrasto con l'unica richiesta che da sempre tutti gli organismi internazionali ci fanno: velocizzare i processi. Anche in questo caso la toppa hanno dovuto metterla da soli, approvando lo scorso autunno la riforma Cartabia sulla improcedibilità, che ha di fatto mandato in soffitta le trovate di Bonafede.

Passano pochi giorni, è il febbraio del 2019, e i grillini ne combinano un'altra. Spinto dal generale della Forestale, Sergio Costa, fino allo scorso febbraio ministro dell'Ambiente, Conte blocca tutte le trivelle del Paese. La scusa è una moratoria in attesa di capire dove è meglio traforare a caccia di idrocarburi. Il risultato è che rispetto ai 20 miliardi di metri cubi di gas che venivano estratti in Italia nel primo decennio del 2000 lo scorso anno, proprio quello in cui il costo del metano importato dall'estero ha iniziato a far impennare le bollette, siamo scesi a 3,3 miliardi, con una flessione del 18% rispetto al 2020. Grazie anche a questa bravata il governo ha già dovuto tirare fuori, considerando l'intervento previsto per la settimana entrante, circa 16 miliardi di aiuti pubblici.

AMBIENTE - E arriviamo così al Superbonus del maggio 2020, i cui pasticci originari stanno venendo a galla ora, con l'esplosione delle truffe e una serie di modifiche in corsa che stanno rischiando di far saltare tutto. È di un paio di mesi dopo, invece, il colpo da maestro di Conte. A metà luglio, dopo avere, lui e i grillini, per due anni invocato la revoca forzata delle concessioni per il disastro del Ponte Morandi, decide di siglare un accordo con i Benetton per acquistargli le Autostrade a prezzo di mercato. Costo dell'operazione: 8 miliardi di euro, di cui circa 4 pagati dalla Cdp. Lo scorso dicembre pure la Corte dei Conti si è chiesta a chi sia convenuto l'affare, non propendendo per lo Stato. L'ultima genialata è di qualche giorno fa. Con il contributo, va detto, della maggioranza del Parlamento, i grillini sono riusciti a far inserire nella Costituzione la tutela dell'ambiente. Come non ci fossero già abbastanza giurisdizioni a cui appellarsi quando c'è da bloccare qualche opera strategica per lo sviluppo e il benessere del Paese.

"I politici rubano i cappotti". Storia surreale del grillismo. Laura Cesaretti il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La tragica storia del cappotto di «apprezzato brand» è però finita ieri in farsa

«INDIGNATA», tutto maiuscolo: la senatrice Cinzia Leone (Cinque Stelle, e come ti sbagli) era veramente indignata. Le avevano rubato il cappotto «al transatlantico di Montecitorio», denunciava in un esilarante post su Facebook indirizzato a «care e cari», non meglio specificati, e pieno zeppo di strafalcioni.

Un cappotto, specificava, «di buona manifattura e un apprezzato brand LSpagnoli (sic)», che lei aveva appoggiato su un divano «giusto il tempo della votazione» per il presidente della Repubblica e che poi «non l'ho trovato laddove lo lasciai, al che iniziai a controllare nei (sic) vari divani ma niente». La affranta senatrice palermitana - nessuna occupazione conosciuta prima dell'elezione, con un reddito imponibile schizzato da 360 euro annui nel 2018 ai 100mila di ora, il che spiega il cappotto «da 600 euro» - annunciava con «profonda tristezza», e senza punteggiatura, che «qualcuno lo ha RUBATO impensabile in un ambiente frequentato da parlamentari, commessi, giornalisti». Seguita a ruota da colleghi come la deputata Angela Raffa: «È una vergogna che in questo paese si ruba (sic) e si corrompa, e che a farlo sono proprio i più insospettabili, coloro chiamati ad incarichi pubblici». Logica la conclusione: «Per questo c'è ancora bisogno di M5s».

La tragica storia del cappotto di «apprezzato brand» («E cosa ne sa la gente del valore che tu metti dentro un cappotto, le emozioni che ricopre?», si chiedeva la senatrice) è però finita ieri in farsa: il pregevole indumento non era stato preso da nessuno, ed è stato ritrovato esattamente dietro il divano su cui era stato (malamente, si immagina) appoggiato. «Ora Leone chieda scusa alla Camera, e in futuro usi gli spazi appositi per lasciare il cappotto», avverte il deputato questore di Montecitorio Edmondo Cirielli (FdI), e che non sono certo i divani del Transatlantico. Ma lei, implacabile, non demorde: dichiara «offensive» le parole di Cirielli, e capisce al volo che si tratta di un Grande Complotto Kasta versus kappotto: «Vogliono far credere che è (sic) stato trovato dietro il divano. Ma come ci è andato a finire, lì? Tutto questo è offensivo per la mia persona e per il lavoro che porto avanti». Quello di disseminare capispalla dietro i divani. Laura Cesaretti

Cinzia Leone, senatrice M5s: "Mi hanno rubato il cappotto alla Camera, sono indignata". Dopo pochi minuti... Figuraccia epica. Libero Quotidiano il 04 febbraio 2022.

Dalla indignazione alla figuraccia, il passo è molto breve. Giovedì Cinzia Leone, senatrice del Movimento 5 Stelle, denuncia su Facebook il furto del suo cappotto a Montecitorio, venerdì scorso, durante le operazioni di voto per il Quirinale. "Buongiorno care e cari, scusate lo sfogo ma sono profondamente INDIGNATA su quanto mi è accaduto, al transatlantico di Montecitorio, venerdì scorso al termine della votazione del PdR", scrive sui social la vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Un fatto "impensabile" perché avvenuto "in un ambiente frequentato da Senatori, Deputati, Commessi, giornalisti".

Nella foga, l'italiano lascia un po' a desiderare: "Premesso che in aula non è consentito entrare con il cappotto lo lasciai, giusto il tempo della votazione, su di uno dei divani nel transatlantico ebbene il cappotto non l'ho trovato laddove lo lasciai, dopo il voto, al che iniziai a controllare nei vari divani ma niente". "Provo profonda tristezza poiché pur comprendendo che era un cappotto di buona manifattura e un apprezzato brand LSpagnoli, quel qualcuno lo ha RUBATO impensabile in un ambiente frequentato da Senatori, Deputati, Commessi, giornalisti".  

Poco dopo, ecco la svolta: il cappotto della Leone è stato ritrovato. Nessun furto, il soprabito era semplicemente scivolato dietro uno dei divanetti del Transatlantico, dove era stato lasciato prima di entrare in Aula a votare. Lo conferma all'agenzia Adnkronos il questore-deputato di Fdi, Edmondo Cirielli, che invita la parlamentare grillina a scusarsi con l'amministrazione della Camera: "Ci aspettiamo che la senatrice chieda scusa alla Camera e che in futuro usi gli spazi appositi per lasciare il cappotto e non sui divani che sono fatti per altro...". 

Così l’Elevato Grillo ha dissolto il brivido mistico dei Cinque stelle. 12/10/2019 Napoli. Gli interventi alla festa Italia a 5 Stelle, organizzata per i 10 anni di vita del Movimento 5 Stelle. BRUNO GIURATO su Il Domani il 04 febbraio 2022.

L’ultimo post firmato da Beppe Grillo sul blog è un invito a «rinunciare a sé per il bene di tutti», ad accettare «ruoli e regole», ma appoggiato su una massima sapienziale del Mahatma Ghandi. Nel messaggio torna anche a definirsi ironicamente l’Elevato.

Una delle componenti dei Cinque stelle è quella mistica, sapienziale, iniziatica, di “nuovo movimento magico”, tratto che però si è perso lungo la via. E con quello si è perso anche il fondamento politico.

«Oggi Grillo riprende i riferimenti para-religiosi che erano stati di Gianroberto Casaleggio e che successivamente il figlio Davide aveva abbandonato. Ma lo fa, ormai, in modo caricaturale», dice Massimo Introvigne, fondatore del Cesnur, l’istituto per lo studio delle nuove religioni.

BRUNO GIURATO. Laurea in estetica. Ha scritto per Il Foglio, Il Giornale, Vanity Fair e altri. Ha lavorato a Linkiesta.it e al giornaleoff.it. Ha realizzato trasmissioni di cultura e geopolitica per La7 e Raidue. È anche musicista (chitarrista) e produttore di alcuni dischi di world music.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 4 febbraio 2022.  

Quando gli uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Milano hanno bussato alla porta della filiale di una delle più importanti banche italiane era novembre. Le Fiamme gialle avevano con sé un ordine di esibizione di atti e documenti firmato dalla pm Cristiana Roveda.

I risk manager dell'istituto hanno capito che esisteva un procedimento penale e, mentre gestivano la richiesta degli inquirenti, hanno individuato «un'operatività potenzialmente sospetta» che hanno deciso di segnalare all'Antiriciclaggio della Banca d'Italia. 

Questo accadeva il 21 gennaio, tre giorni dopo le perquisizioni effettuate nelle sedi della Casaleggio associati e della Grillo srl. Il rapporto dei funzionari ricostruisce per la prima volta in modo esaustivo gli affari della Casaleggio («società operante nel settore della consulenza aziendale ricollegabile a movimento politico»), indicando tutti principali clienti dell'azienda e i suoi consulenti.

Gli analisti ricordano che Davide Casaleggio è presidente, legale rappresentante e socio di maggioranza (65 per cento) dell'azienda che «dal 2015 al 2021 si è occupata del blog di Beppe Grillo, partecipando alle dinamiche di aggregazione e sviluppo favorite dall'online, che hanno portato alla fondazione e successivo percorso politico del Movimento 5 stelle».

Il conto è stato acceso nel 2005 e i funzionari hanno verificato che «viene alimentato con bonifici provenienti da società terze a titolo di pagamento fatture e prestazioni professionali». Ed ecco la prima stoccata: «Tra queste emergono operazioni che, per importo e controparti, appaiono poco coerenti con l'attività svolta dalla società cliente soprattutto in relazione ai rapporti con il Movimento politico M5s». In questi anni diversi giornalisti hanno provato a ricostruire i business della ditta, prendendo un'informazione di qua e una di là.

Ma per la prima volta, grazie a questa segnalazione di operazione sospetta, è possibile avere un quadro ben delineato della situazione. Infatti i bancari hanno controllato i conti dal gennaio 2019, cioè dall'epoca del primo governo Conte, quello gialloblù, e sono arrivati ai giorni nostri, anche se i movimenti più interessanti sono quelli che si fermano all'aprile del 2021 quando il sodalizio tra il Movimento e la Casaleggio con la sua piattaforma Rousseau si è interrotto definitivamente. 

Nel decreto di perquisizione era citato il contratto tra l'azienda milanese e la Moby dell'armatore Vincenzo Onorato. Un accordo sottoscritto il 7 giugno 2018 (primo governo Conte) e durato sino 7 giugno 2021 (quando si era appena consumata la rottura con il Movimento) che ha portato la Casaleggio a incassare 600.000 euro annui più Iva e premi vari. 

Il procedimento milanese nasce da una costola di quello sul fallimento della Moby dove erano confluite le chat di Onorato con politici di schieramenti diversi sequestrate nell'inchiesta fiorentina sulla fondazione Open riconducibile a Matteo Renzi. 

I pm hanno iscritto Grillo e non Casaleggio perché il primo si sarebbe attivato per far ottenere provvedimenti governativi favorevoli all'amico Onorato, mentre il secondo non si sarebbe mosso. «Io non firmo decreti, né voto leggi e non ho mai fatto ingerenze» ha ribadito il figlio di Gianroberto, negando ogni possibile conflitto di interessi. In ogni caso il testo di una vecchia Sos ipotizzava che il pagamento dei 600.000 euro fosse «il tentativo di sensibilizzare una forza politica di governo a sostenere la campagna per modificare le norme sull'imbarco dei marittimi sulle navi italiane».

I migliori clienti della Casaleggio, nell'ultima segnalazione, risultano i produttori di sigarette della Philip Morris. Mentre la British american tobacco cercava, a colpi di donazioni, di portare dalla propria parte il mondo renziano, la Philip Morris si rivolgeva alla società più vicina ai grillini, inviando, a partire dal gennaio del 2019, bonifici per 1.473.906 euro. Su questi rapporti la Procura di Milano ha aperto un fascicolo ancora in fase di indagine. 

Nell'estratto conto della Casaleggio vengono evidenziati anche i già citati pagamenti della Moby per 642.640 euro, ma soprattutto i 389.790 provenienti dalla Merita srl.

Su quest' ultima azienda su Internet si trova poco o nulla. Con questo nome sulla banca dati delle Camere di commercio c'è una sola società attiva, si occupa di assistenza alle imprese ed è di proprietà di due commercialisti. 

Nel 2019 il fatturato è stato di 318.000 euro e nel 2020 è salito a 424.000; gli utili, invece, sono scesi da 23.000 a 2.000 euro. Tra i costi di produzione la voce più consistente è quella per i servizi, che nel 2019 e nel 2020 hanno pesato per 428.000 euro, una somma quasi sovrapponibile a quella che la ditta avrebbe corrisposto alla Casaleggio.

Nella lista, che comprende chi ha inviato «bonifici di ingente importo e spesso caratterizzati da importo tondo» anche due aziende genovesi: la Asg superconductors spa (172.665 euro), leader mondiale nella produzione di magneti, e la Spinelli srl, con ogni probabilità azienda del gruppo dell'omonimo imprenditore del settore dei trasporti e dei terminal portuali (261.577 euro). 

Aldo Spinelli nella sua carriera ha fatto anche politica in prima persona con il centrosinistra in quota socialista. È stato un fan di Bettino Craxi, ma ha avuto anche grande feeling con l'ex potente ministro Dc Giovanni Prandini. Ma, da buon imprenditore, si dice «amico di tutti» e per questo è passato dal frequentare l'associazione del piddino Claudio Burlando, Maestrale, a quella di Giovanni Toti, Change.

L'elenco prosegue con la Pfe spa (141.520 euro), azienda romana che si occupa di pulizie e sanificazione, con la Lottomatica (119.341), che opera nel settore del gioco legale su concessione dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, con l'impresa di costruzioni Impreme spa (72.200) e con il gruppo Edico, cooperativa napoletana fornitrice di materiali da costruzione (69.052). Pagamenti, ma di «importi meno evidenti», sono arrivati anche da Deliveroo, Dedalus, Flixbus, Moleskine, Nexi, Poste italiane, Minerva picture.

«Si tratta di realtà operanti in settori merceologici diversi e in alcuni casi titolari di licenze statali, che potrebbero essere interessate da provvedimenti del governo, formato anche da esponenti del M5s» ribadiscono gli analisti. Che in un altro passaggio sottolineano il concetto dell'interessamento a «potenziali interventi governativi». Ma le sorprese non sono finite. Si legge nella segnalazione: «Tra gli accrediti emergono anche dei bonifici esteri tra cui emerge la controparte Studio Rebus Shpk (totale 161.780), società di architettura e design albanese che ha gestito progetti anche in Italia».

Su sito si trovano, per esempio, i progetti per un centro commerciale e una sede della Ascom. La segnalazione registra anche le uscite per spese come utenze, stipendi, canoni di locazione, carte ricaricabili. Ma non solo. La nota evidenzia i bonifici a società o persone fisiche «operanti nel medesimo settore» della Casaleggio. L'elenco è piuttosto lungo: Fattoretto agency, Binoocle institute, Linkdesign, Petercom srl, Visverbi, Giustino Mucci, Nicola Attico, Stefania Francesco e altri.

«Degne di nota sono le operazioni in favore della Noesi srl, società di consulenza specializzata in attività di pubblic affair, lobbying e communication (225.041 euro), iscritta presso il registro dei rappresentanti di interessi della Camera dei deputati». La Noesi, nata nel 2015, appartiene a Ignazio Maria Sestili e al figlio Claudio. Il genitore è stato direttore generale della Agecontrol, agenzia pubblica per i controlli e le azioni comunitarie. Sul conto della Casaleggio vengono evidenziate le entrate provenienti dalla piattaforma Stripe (340.500 euro) con accrediti di importo oscillante da un minimo di 8,62 euro a un massimo di 5.869,39 euro.

Si tratta di soldi raccolti in rete, non sappiamo se come fundraising o ad altro titolo. In uno dei report annuali della Casaleggio associati, uno degli esperti chiamati a parlare era proprio il country manager della Stripe. Argomento: i pagamenti digitali.

Nel frattempo i conti della società sono in sofferenza, soprattutto dopo la chiusura traumatica del rapporto con i grillini. Già nel 2020 il fatturato era passato da 2,2 milioni a 1,8. E, in un anno, i 100.000 euro di utili sono diventati 320.000 euro di passivo. Un quadro a cui si è aggiunto il problema del Covid, che, si legge nel bilancio «ha avuto un impatto sull'organizzazione del lavoro e sugli effetti economici futuri non ancora prevedibili allo stato attuale».  

Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” il 4 febbraio 2022.

L’altro giorno ho rivisto Davide Casaleggio in un tigi. Il taglio del servizio era di stampo giudiziario: caso Moby-Onorato, favoritismi, giro di soldi, Beppe Grillo indagato dalla Procura di Milano, la Guardia di Finanza aveva appena perquisito gli uffici della Casaleggio Associati. Brutta storia, poi capiremo. 

Pero, in quelle immagini, lo sguardo di Davide Casaleggio valeva piu di mille editoriali. E spiegava – alla perfezione – il fallimento della gigantesca e tragica bugia dell’«Uno vale uno» inventata dal padre Gianroberto, il lievito madre del clamoroso inganno grazie al quale Grillo riusci a costruire il Movimento 5 Stelle e a far sbarcare in Parlamento centinaia di deputati e senatori, attualmente tutti perfettamente aggrappati alla poltrona, a caccia di poltrone, pronti a litigare e a epurarsi sempre e solo per le loro adorate poltrone.

Che sguardo aveva Davide alla tv? Lo stesso che gli vidi un giorno al Circo Massimo di Roma, alcuni anni fa, mentre era circondato da migliaia di militanti grillini che – eccitati, minacciosi – urlavano addosso a noi cronisti «Onesta! Onesta! Onesta» (il coro era guidato da Alessandro Di Battista). Davide osservava gelido. Immobile. Di cera. 

Francamente spaventoso. Poi, di colpo, fece un cenno: e tutti si azzittirono. Cosi comincio a parlare rivelandosi tutt’altro che magnetico, anzi aveva un tono pedante. Eppure veniva interrotto da applausi di puro entusiasmo. Se li prendeva con occhiate di vetro: pensai a un giocatore di poker che non deve far scoprire le carte che ha in mano.

Perche non ne ha. Sta solo bluffando. Da quel pomeriggio, poco alla volta, i grillini hanno cambiato idea su tutto: sulla democrazia diretta e sullo streaming (ricordate la pagliacciata di cui fu vittima Bersani nel 2013?), sulle banche e sull’Europa, su Tap e Tav, e naturalmente sulle auto blu. Che adorano. Perche si sono trovati comodi proprio dentro quel potere che promettevano di combattere guidati da un comico feroce e da un giovane uomo d’affari che aveva ereditato dal padre una strana azienda legata a uno strano partito. Come sapete le strade di Davide Casaleggio e del M5S si sono separate. Davide e Beppe si detestano. Beppe non ride piu. E Davide ha sempre quella faccia li. Che infatti viene da chiedersi: ma come hanno fatto a credergli?

Il Movimento è il plastico di un grande battaglia perduta. Cosa resta del disastro Movimento 5 Stelle tra sparate, idiozie e chiacchiere da bar. Fulvio Abbate su Il Riformista il 3 Febbraio 2022 

C’erano una volta i “grillini”? La domanda periodicamente è d’obbligo. Esiste addirittura un verso di Bertolt Brecht idoneo a descrivere il destino procelloso del Movimento 5 stelle: «Di queste città, resterà il vento che le attraversa». Se non proprio a una città, il M5s assomigliava, sia nei giorni del suo esordio sia in assoluto, a un plastico: ferroviario o piuttosto destinato a ricostruire una grande battaglia, di quelle che si concludono magari con cocente sconfitta. Un plastico in scala N, la più piccola, davvero troppo infatti pretendere la scala H0 per un’operazione espressamente artigianale. E questa, volendo, può essere perfino letta come una metafora della debolezza nelle lunghe distanze della politica improvvisata.

Suo capo-modellista, o magari capovaro, sempre agli esordi, era Beppe Grillo, attore, agitatore mediatico planato infine sul web dopo un’iniziale riluttanza verso gli stessi aggeggi informatici. Lui al centro del plastico: su un canotto da diportista domenicale, trascinato come sovrano sugli scudi da una marea umana festante, lì a colmare idealmente l’intera piazza d’Italia, a suggello del consenso montante, in attesa di mostrarsi vittoriosi nelle urne elettorali. E tutto ciò proprio grazie a un notevole uso del baracchino della rete. Tra appelli alla democrazia diretta, sorta di remake del “riprendiamoci la città”, slogan appartenuto ad altri e adesso perfetto per indicare un nuovo corso politico rigenerante, forse anche casual, post-ideologico, inclusivo d’ogni opzione subculturale.

Accanto a Grillo, nel medesimo plastico, altrettanto in scala N, nel tempo dell’inizio, un signore con aria da scienziato, Gian Roberto Casaleggio, e qui, come nei cieli di stagnola stellata pronto dei presepi casalinghi, c’era subito modo di cogliere suggestioni fantascientifiche da albo “Urania”. Tuttavia, a dispetto di ogni possibile sarcasmo, quel movimento techno-artigianale, a dispetto delle scie chimiche ventilate da alcuni, quel plastico risultò convincente a un ampio elettorato che guardava ormai la politica dall’alto del disincanto, gli sembrò appunto che potesse riassumere molte sue pulsioni, gli calzava bene, come una comoda salopette, come già Grillo al tempo degli esordi in Rai. Accade perfino che un signore convinto che la politica la sapesse fare soltanto lui, già dirigente di un partito di massa, sfidò il geometra capo del plastico, invitandolo a presentare proprie liste.

Mal gliene incolse, poiché, terminato lo spoglio elettorale, il plastico prese a popolarsi sempre nuovi “cittadini” convinti che, appunto, quel diorama innalzato da un comico rappresentasse una dono nello scenario complessivo della politica, ed effettivamente i Convinti non avevano torto, al netto del magma antropologico che c’era modo di reperire dentro il plastico: fascisti dal sempre caro “Boia chi molla!“ e “Duce tu sei la luce”, come sulle piastrelle acquistate a San Marino, e perfino altri con ancora addosso l’eskimo da “compagni”. Per un po’ di anni insomma il plastico apparve a molti convincente, addirittura catartico, e va detto a onor del vero che al Movimento 5 Stelle va riconosciuto d’avere dato ad alcuni individui destinati altrimenti all’anonimato rionale, simposio da Punto Snai, la possibilità di conoscere il “Palazzo” da vicino. Adesso qualcuno potrà obiettare che, così facendo, addio competenze, ma si tratta comunque di un’obiezione secondaria, visto il modo in cui viene cooptato ovunque il personale politico.

Arriverà persino l’occasione del governo, e come già altri da Palazzo Venezia, perfino nel nostro plastico figurerà un “balconcino”, pertinenza di Palazzo Chigi, da lassù addirittura uno dei suoi principali modellisti, Luigi Di Maio, vorrà affacciarsi per dichiarare “abolita la povertà”. Chissà come, sempre in occasione dell’allestimento del plastico governativo, i grillini dovettero cercare un signore in blazer, un nuovo omino, sempre in scala N, da piazzare con altrettanta convinzione nel proprio diorama, lo trovarono in un garbato professionista del Foro, Giuseppe Conte, succedaneo dell’avvocato Antonio Pandiscia, già compianto biografo di Padre Pio, così il plastico prese a mostrarsi con nuovi personaggi in cerca di ulteriore definizione.

Ogni tanto nel medesimo luogo, come l’angelo di plastica legato al soffitto con filo di nylon per penzolare dall’alto nei presepi, ricompariva Beppe Grillo, per poi sparire d’improvviso, oberato da questioni esterne all’attività politica, difficoltà giudiziarie riguardanti la prole o chissà cos’altro. Nel tempo, il dubbio che si trattasse di una comitiva di “scappati di casa” (cit.) si affacciava nella mente dei più critici, così rispetto all’improvvisazione creativa, eppure non si può dire che gli altri plastici contigui potessero definirsi migliori e dunque più attendibili. Alla fine, l’immagine del plastico, del presepe occasionale sembrò essere la più convincente per riassumere la parabola di un flusso politico-emozionale che, salvo imprevisti, sembra destinato a trovare un destino simile a ciò che accadde al Fronte che mostrava un omino sotto un torchietto, così un tempo.

Che ne sarà di Di Maio, che pure ha studiato ed è cresciuto, cui Mimmo De Masi, consulente del Movimento, suggerì, inascoltato, d’andare a Cambridge a studiare per poi ricomparire per la prossima tornata? E Roberto Fico, anche lui avrà un futuro? In quali nuovi plastici di ulteriori battaglie o presepe del tempo ulteriore li ritroveremo? E Di Battista, e la Raggi, sarà vero che sono in procinto di farsi un plastico tutto per loro?

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022.

Più che il testo, vale il titolo. Quel Cupio dissolvi riguarda sé stesso e la propria volontà di scomparire, non rompetemi le scatole, vedetevela tra voi, che poi è il fermo immagine del suo attuale stato d'animo. 

Ma siccome la situazione all'interno del M5S è quella che tutti conoscono, volatile e instabile oltre ogni possibile fantasia, ecco che le parole dell'ultimo post di Beppe Grillo ricevono tanti cuori da parte dei sostenitori di Giuseppe Conte, con il consueto lavoro dietro le quinte a veicolare un messaggio rinforzato, lo vedete che sta con noi, che invita all'unità e quindi si schiera contro il reprobo Luigi Di Maio?

Anche martedì un suo criptico testo di para antropologia sui femori rotti e poi curati era stato veicolato in extremis come un segnale di endorsement alla causa dell'ex presidente del Consiglio, ma persino il suo ufficio stampa conveniva sul fatto che non ci si capiva poi molto. 

Ci sono voluti due tentativi, e se non altro ora conosciamo l'opinione dell'Elevato in merito all'ennesima lacerazione interna della sua creatura. 

Sappiamo anche, perché bisognerebbe leggere tutto e non prendere solo le parti favorevoli alla propria causa, che Grillo non sprizza esattamente entusiasmo per un nuovo corso al quale lui si adeguò a malincuore, «per consentire il passaggio dall'impossibile al necessario». 

Insomma, siamo allo stretto necessario, una presa di posizione favorevole a uno dei duellanti, con richiamo alla «forza di una sola voce» che rimanda dritto alla sua nostalgia per il vecchio Pci, il suo unico vago riferimento di natura politica.

Ma l'euforia e l'entusiasmo sono un'altra cosa. Questo è invece un testo quasi notarile, un minimo indispensabile che sembra avere come funzione primaria la necessità di essere lasciato fuori dalla tenzone. 

C'è da capirlo, e non solo per via delle sue questioni giudiziarie.

Fu lo stesso Di Maio a insistere perché tornasse sui propri passi dopo aver bruciato i ponti con Conte con un video nel quale definiva «incapace» l'autonominato Avvocato del popolo e «seicentesco» lo statuto del M5S che stava scrivendo. In quel post di cinque minuti c'era davvero un riassunto di Beppe Grillo, del suo pensiero quando vuole davvero esprimersi, e del suo modo di agire. 

I rapporti sono migliorati da allora, siccome tutti glielo chiedevano, l'eremita genovese ha avallato le decisioni del nuovo plenipotenziario con il proprio silenzio pubblico e con una sostanziale copertura alle sue mosse. Anche a quelle sbilenche e azzardate, come ha provato sulla propria pelle con il tweet quirinalizio fortemente indotto che dava il benvenuto sul Colle più alto a Elisabetta Belloni.

Se non altro, a Conte il trattamento brutale che più di ogni altra cosa rivela il vero sentire di Grillo, venne riservato una sola volta, per quanto violenta nei toni. Con Di Maio è sempre stata una specie di tortura della goccia cinese, un distillato di diffidenza in dosi omeopatiche. Fin dall'inizio. 

«Vi presento un aspirante deputatino», disse il 25 gennaio 2013 dal palco di Pomigliano d'Arco. Quattro anni dopo, il deputatino si prese il Movimento approfittando di uno dei suoi consueti momenti alla Cincinnato. Il passaggio di consegne fu piuttosto freddo.

Di Maio spinge per governare con la Lega: l'altro posta un video sui panda che sono nati per stare da soli. Indice la consultazione online sul caso della nave Diciotti: l'altro commenta che con lui ci vuole molta pazienza. E dopo la batosta alle Europee si fa vivo per consigliargli un po' di riposo, e quando Di Maio prova a mettersi di traverso all'alleanza con il Pd, esplode sul blog sostenendo che Dio gli ha consigliato di «lasciarli alla loro Babele».

Troppo diversi, per trovare reciproca empatia, come invece avvenne subito con la filiera degli scapigliati alla Roberto Fico e Alessandro Di Battista, che l'Elevato definiva «i miei ragazzi». Infatti, non ci sarebbe neppure bisogno di leggere ogni singolo messaggio per capire come può pensarla davvero. Basterebbe solo guardarli. Prima Conte e Di Maio, così simili tra loro. E poi Grillo.

Massimo Franco per "il Corriere della Sera" l'1 febbraio 2022.

C'è chi lo definisce «auto-squadrismo» grillino, pensando a tutte le volte in cui il Movimento Cinque Stelle ha versato fango, spontaneo o pilotato, sugli avversari. Si può chiamare in qualunque modo, ma certo gli attacchi che sta subendo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio dall'interno del M5S sanno di pestaggio digitale; e contro il massimo esponente grillino al governo. 

Per paradosso, più che mettere in evidenza le presunte difficoltà di un ex leader , sottolineano insieme un fallimento e la cultura di chi oggi guida i Cinque Stelle. Il fallimento è quello di un Movimento che sul Quirinale ha dato una prova di insipienza e di trasformismo non all'altezza della maggioranza relativa dei «grandi elettori». La cultura è quella di una formazione politica refrattaria a qualunque discussione interna; e incline a risolverla minacciando di cacciare chi dissente o critica il leader, vero o presunto che sia.

I tweet che da ieri bombardano il responsabile della Farnesina si chiamano, non a caso #DiMaioOut e cioè fuori Di Maio, accusato da un esponente vicino a Conte come Alessandro Di Battista di «pensare al potere». Ma l'elemento più grave è che gli attacchi risulterebbero provenienti da 289 «profili» informatici, molti dagli Stati uniti, accomunati da un elemento: sarebbero per lo più appartenenti a persone fittizie; «create» probabilmente dall'Italia, contro il ministro che ha dato voce all'insoddisfazione per la goffaggine di Giuseppe Conte nella conduzione dei negoziati.

Ritenere, tuttavia, che l'«auto-squadrismo» del Movimento di Beppe Grillo nasca solo dalla rielezione di Sergio Mattarella sarebbe fuorviante. Come accade spesso, le votazioni per il capo dello Stato catalizzano ed esasperano ambiguità e contraddizioni delle forze politiche, già esistenti. E, nel caso dei Cinque Stelle, hanno soltanto rivelato un conflitto sordo che andava avanti da oltre un anno; e che riguarda il rapporto con il premier Mario Draghi, l'affidabilità delle alleanze, e il controllo dei gruppi parlamentari.

Su questo, Conte e Di Maio erano destinati a confliggere: in particolare per l'ostilità vistosa del primo nei confronti di Draghi. La campagna orchestrata contro il titolare della Farnesina, però, promette di esasperarlo pericolosamente. Racconta non quanto Di Maio rischi di essere espulso dal Movimento Cinque Stelle, ma quanto sia indebolita la leadership di Conte. 

E come, pur di puntellarla in qualche modo dopo giorni di oscillazioni dal Pd di Enrico Letta fino alle braccia perdenti della Lega di Matteo Salvini, c'è chi è pronto a spostare l'obiettivo anche organizzando un diluvio di tweet sfavorevoli a Di Maio. Il risultato è di confermare uno scontro di potere dagli esiti imprevisti. Può darsi che la guerra in atto non porterà a una scissione: non ancora. Ma l'asse Mattarella-Draghi si conferma una bomba a orologeria nella crisi dell'emblema del populismo italiano.

DAGONOTA il 2 febbraio 2022.

Dove nasce il grande scontro tra Conte e Di Maio? Ha origine quando al Senato, galvanizzato dal Conte II, “Giuseppi” comincia ad accogliere gli animi degli scontenti verso la leadership di Luigino. E dice loro: io ci sono. 

Il punto di non ritorno è quando guida indirettamente la redazione di un documento per la sfiducia di Di Maio capo politico. Quel documento portava la prima firma dell’ex senatore Emanuele Dessì, guarda caso braccio destro e sinistro di Paola Taverna. È in quel frangente che Conte ha fallito.

Doveva finire Di Maio, invece ha pensato al suo ego ossessionando il paese con le sue dirette Facebook. Giggino ha incassato, ha imparato l’arte della politica e ora è pronto alla vendetta.

Domenico Di Sanzo per "il Giornale" il 2 febbraio 2022.  

Il nemico del mio nemico è mio amico. In mattinata, alla Farnesina, Luigi Di Maio e Virginia Raggi si vedono per circa un'ora. Quello che va in scena è l'incontro di due risentimenti e il bersaglio è Giuseppe Conte. Tra il presidente del M5s e il ministro degli Esteri le ruggini sono emerse dopo la partita del Quirinale.

I rancori della Raggi risalgono all'ultima campagna elettorale per le comunali a Roma, quando l'ex sindaca si è sentita abbandonata a se stessa durante la battaglia per una riconferma difficilissima. Da allora Raggi non ha mai rinunciato all'idea di insidiare la leadership di Conte. Ed eccoli, Raggi e Di Maio, a discutere del futuro del Movimento.

«È stato fatto un punto politico sul M5s», filtra dagli entourage. I due, disallineati su temi come i vaccini e il green Pass, con l'ex sindaca che liscia il pelo agli scettici e il ministro convinto pro-Vax, si trovano in sintonia «sulla necessità di un chiarimento interno». Nel gioco di ruolo del grillismo il titolare della Farnesina, ormai governista per definizione, fa asse con Raggi, sempre affezionata alle parole d'ordine del passato.

Dal lato opposto l'altra strana coppia: l'azzimato Ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha ritenuto opportuno postare su Facebook una sua foto con la responsabile dei Servizi segreti Elisabetta Belloni, a lungo segretario generale della Farnesina, e corredarla da queste parole: «"Con il Ministro Di Maio c'è un'amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale"». 

Queste le parole di Elisabetta Belloni, alla quale mi legano una profonda stima e una grande amicizia (...) Oggi a pranzo ho fatto una piacevole chiacchierata con lei. Grazie Elisabetta (...)». 

Dopo che Di Maio si era speso contro l'ipotesi Belloni al Quirinale, pace fatta. Almeno sui social giurista e il descamisado Alessandro Di Battista. 

Di Maio e Raggi con il faccia a faccia di ieri pongono le basi per un'alternativa a un M5s schiacciato su Conte. Lontana la tentazione di un colpo di mano attraverso i cavilli dello Statuto.

Un blitz possibile, perché il ministro, l'ex sindaca e Roberto Fico fanno parte del Comitato di garanzia. 

Un organismo che può sfiduciare il leader, ma solo con il parere favorevole del Garante Beppe Grillo e dopo un voto degli iscritti. L'impresa è ardita e i neo alleati lo sanno. Invece, se tutto dovesse precipitare, Raggi potrebbe seguire Di Maio in una nuova avventura. 

La scissione è l'extrema ratio che non viene esclusa dai diretti interessati. Nel frattempo l'ex capo politico tesse la tela e nel pomeriggio sente Chiara Appendino per un lungo «focus sulla situazione politica».

Dall'altra parte del cielo c'è Conte. Il professore vuole un'assemblea aperta agli iscritti, che potrebbe essere convocata a stretto giro. L'ex premier così intende blindarsi con una legittimazione dal basso. 

Ma Di Maio non teme la conta e anche per questo stringe il patto con Raggi, molto radicata tra i militanti romani e amata dalla base. 

Conte minaccia ritorsioni in un'intervista al Fatto quotidiano: «Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi». Mentre nel caos è tornata l'armonia tra il leader e Alessandro Di Battista. L'ombra di Dibba spaventa i parlamentari. 

Trenta eletti autonomi dalle due correnti potrebbero lasciare il M5s se rientrasse Dibba, mal visto nei gruppi di Camera e Senato. Intanto i contiani pressano per l'espulsione di Di Maio.

Un provvedimento complicato, «dato che le prescrizioni dello Statuto sono ora molto blande per far entrare il M5s nel registro dei partiti», dice l'avvocato degli espulsi Lorenzo Borrè. Borrè difende anche gli attivisti partenopei che chiedono la sospensione del nuovo Statuto. 

Oggi a Napoli è prevista l'udienza e il ricorso è una spada di Damocle che pende sulla contesa. Se venissero accolte le richieste dei ricorrenti si tornerebbe al Comitato direttivo votato a febbraio del 2021 e l'attuale leadership non esisterebbe più. Ma sono i dimaiani a spingere per la scissione.

«Non è Conte che caccia Luigi, siamo noi che ce ne andiamo in settanta», dice un parlamentare vicino a Di Maio. Nel mezzo una vasta zona grigia che spera nella pace e confida nel lavoro dei pontieri. E non è escluso un intervento in questo senso da parte di Grillo, che per ora rimane in silenzio.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 2 febbraio 2022.  

Ognuno dei due, Di Maio e Conte, ha la sua rete di relazioni e di potere, sia dentro sia fuori M5S. Il tandem tra Luigi e la Belloni è sotto gli occhi di tutti. 

Così come quello tra lui e la Raggi e lui e la Appendino, con cui ieri si sono sentiti e l'ex sindaca di Torino è quella che ha rifiutato di entrare al vertice di M5S con Conte. 

E se nella Chiesa l'ex premier Giuseppi (ah, che nostalgia il vecchio rapporto con Trump che coniò questa storpiatura del nome di battesimo dell'allora premier) ha potuto vantare ottimi rapporti, qualcuno lo ha ancora: per esempio con monsignor Bregantini e altri strenui sostenitori del Conte 2.

Il rivale Di Maio ha stabilito a sua volta una buona intesa con la diplomazia vaticana e con la Comunità di Sant' Egidio. Nella Rai, il ministro non ha nessuno in Cda (ma non è così nei tiggì), mentre Conte ha piazzato a Viale Mazzini il prof Alessandro Di Majo, anche se questo non è bastato a mantenere in quota 5 stelle la poltrona del Tg1 nella nuova lottizzazione.

Il diplomatico Pietro Benassi, braccio destro e sinistro di Conte a Palazzo Chigi e attuale Rappresentante dell'Italia nella Ue, è la proiezione internazionale di Giuseppe. Ma Luigi, dato il proprio ruolo ministeriale, su questo terreno è assai più attrezzato. 

Mariangela Zappia, ambasciatrice a Washington, è un pezzo pregiato di questa rete. Così come Ettore Sequi, successore della Belloni come segretario generale alla Farnesina e dimaiano doc. Una figura di rilievo nelle strategie istituzionali di Di Maio è Paolo Glisenti, commissario dell'Italia per l'Expo Dubai.

Così come Vito Cozzoli, presidente e ad di Sport e Salute. Nella casematte del sistema Italia, Di Maio è andato stabilendo notevoli legami. Per esempio quello con Barbara Beltrame, vice-presidente di Confindustria.

Conte conserva però un ottimo rapporto con Gennaro Vecchione, che era a capo dei servizi segreti (Dis) con Conte a Palazzo Chigi, e con Domenico Arcuri, l'attuale ad di Invitalia già rimosso da Draghi come commissario per l'emergenza Covid.

Conte, che nel Pd è in forte caduta (non è più «il grandissimo punto di riferimento dei progressisti», come lo avevano definito) può vantare qualche legame con figure ormai marginali (gli altri, da Guerini a big del Nazareno e del governo considerano nei 5 stelle «affidabile» quasi il solo Di Maio), mentre gli resta l'ammirazione, a sinistra, di D'Alema: uniti nell'anti-draghismo.

Giacomo Lasorella di Agcom è considerato vicino a Di Maio. Il ministro ha un buon rapporto con Marco Bellezza, ad di Infratel, per non dire dell'asse con Pasquale Tridico, numero 1 dell'Inps. Nei vertici istituzionali, ottimo il dialogo fra Luigi e Ugo Zampetti, segretario generale del Colle.

Scendendo di livello: Grillo con chi sta? Con Conte nella vicenda Belloni ma di Conte pensa che «non ha visione politica né capacità manageriali».

Conte però ha i vicepresidenti M5S con sé (la Taverna meno degli altri), ovviamente Casalino, i ministri Patuanelli e D'Incà, il presidente Brescia (commissione Affari costituzionali, dove si decide del proporzionale) ma i capigruppo Castellone e Crippa non sono annoverabili tra i contiani.

La viceministra Castelli è dimaiana di ferro. Con Luigi anche la ministra Dadone, Spadafora e Di Nicola (pesi forti alla Camera e al Senato), il deputato Sergio Battelli che ci mette sempre la faccia, il questore D'Uva e via così. Quelle che Conte non ha sono le sponde negli altri partiti.

A parte Salvini con cui ha bruciato la carta Belloni o Meloni con cui condivide la voglia di abbattere il governo Draghi e andare al voto. 

Per Di Maio i fiancheggiatori esterni abbondano: da Brunetta a Brugnaro (l'ex stellato Carelli fa da pontiere tra il dimaismo e il centrismo), da gran parte delle correnti Pd e del vertice lettiano alla Carfagna. Per non dire di Renzi che in questi giorni ha mandato tanti complimenti a Di Maio e su Conte usa due parole: «Un disastro».

L'incontro del ministro degli esteri con Raggi e Belloni. M5S verso la scissione: Travaglio scomunica Di Maio, Conte in tribunale prova a difendere la sua leadership. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Il Movimento 5 Stelle è come quelle cittadine dei film Western: troppo piccolo per ospitare due rivali. Dove i due contendenti sono Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, la carica contesa è quella della leadership – la Presidenza, nel nuovo statuto – e l’obiettivo vero quello di guadagnare quel che serve per tornare in Parlamento con dignità. Bersaglio non facile da centrare, avendo i Cinque Stelle voluto ridurre di un terzo i seggi, ed avendo prima subìto il dimezzamento nei sondaggi e poi un dimezzamento da fuoriusciti.

Se riavvolgiamo il nastro, nell’ultimo anno (che è stato anche l’annus horribilis di Beppe Grillo, alle prese con due brutte vicende penali) tutto si è svolto intorno a una diarchia di fatto. Conte nell’agosto 2021 ha sfilato il Movimento a Di Maio, che lo guidava come Capo politico dal 2017. Appena sei mesi in cui il M5S ha perso un po’ tutto quello che poteva perdere: uno sfracello le amministrative, con il simbolo caduto in disgrazia un po’ ovunque e tante città rimaste senza candidati, le sconfitte sonore di Roma e Torino, le fughe continue dei parlamentari con sei formazioni gemmate dalle scissioni, la mala parata in Rai, conclusa tra le gaffes, infine le trattative sul Quirinale che certificano più che l’ininfluenza di Conte, la sua eterodirezione. Le manovre per eleggere Belloni sul Colle rimangono oscure.

Sul fronte opposto, il ministro Di Maio per il quale d’un tratto tutti fanno il tifo: “Sta imparando, sta migliorando”, dice un coro crescente, neanche fosse un nipotino mandato a studiare all’estero. E proprio come nelle vicende scolastiche, ecco che ieri titolare degli Esteri ha prima riunito alla Farnesina una storica alleata di Conte, Virginia Raggi, poi pranzato con Elisabetta Belloni, alla quale ha intestato, virgolettandoli, i complimenti che lei avrebbe rivolto al Ministro. «“Con il Ministro Di Maio c’è un’amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale”. Queste le parole di Elisabetta Belloni, alla quale mi legano una profonda stima e una grande amicizia. Una professionista straordinaria, con un immenso attaccamento alle Istituzioni. Oggi a pranzo ho fatto una piacevole chiacchierata con lei. Grazie Elisabetta, condivido pienamente quello che pensi del nostro rapporto», sigla con solennità adolescenziale il ministro. La nota di colore sul “loro rapporto” è tutta indirizzata a Conte.

Se Di Maio aveva definito “indegno” l’aver tirato fuori il nome della Belloni senza un accordo, Marco Travaglio si è incaricato di contestare il titolare della Farnesina: «Lui ha spinto Draghi per giorni senza un accordo. Un giorno Di Maio dovrà ripensare a questi giorni e chiedersi cosa ci fa ancora nel M5S». Una scomunica in piena regola, quasi una fatwa. La trama da dipanare adesso è quella che lega il Movimento al Pd. Se Conte si dichiara grande amico di Letta e vanta un rapporto confidenziale con Bettini, Di Maio non è da meno: i suoi interlocutori vanno da Franceschini a Zingaretti. Ieri Enrico Letta è parso prudentemente distaccato. Ha cura di non mettere i piedi nel campo minato degli alleati pentastellati. E d’altronde – a sentire Carlo Calenda – quello dell’asse giallorosso è un tema che non si porrà più, nel futuro.

Per l’ormai prossima dissoluzione del Movimento. «Io non è che non mi posso fidare di Conte perché è cattivo ma perché quel movimento è il gas, è un gas che ha inquinato la politica italiana», ha dichiarato il leader di Azione. «I 5 stelle devono scomparire perché hanno preso per i fondelli i cittadini», è la conclusione sempre sopra le righe di Calenda. Quanto alla previsione di porre fine all’agonia pentastellata, però, potrebbe averci visto giusto. Si terrà oggi alle 10.30 dinanzi alla settima sezione civile del Tribunale di Napoli l’udienza sul reclamo presentato da alcuni attivisti storici, difesi dall’avvocato Lorenzo Borrè, contro il rigetto dell’istanza di sospensione del nuovo statuto del Movimento 5 Stelle e della nomina di Giuseppe Conte a presidente del Movimento.

Verrà esaminata la richiesta di annullare le delibere con le quali il 2 e 3 agosto 2021 è stato modificato lo statuto del M5S e il 5-6 agosto è stato nominato alla carica di presidente del partito come candidato unico Giuseppe Conte. E Borrè di cause non ne perde mai una. Se invece Di Maio dovesse decide di uscire, riunendo i suoi parlamentari – si parla di venti nomi che potrebbero arrivare al doppio – in un soggetto esterno, c’è già chi è pronto ad accoglierli nel lievitante centro. Emilio Carelli rivela al Riformista che «siamo pronti ad accogliere il nuovo partito di Di Maio al fianco di Coraggio Italia, nella federazione di centro che stiamo costruendo».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Belloni vede Di Maio per chiudere il caso Quirinale. Polemiche nel Movimento M5S. Giuliano Foschini La Repubblica il 2 febbraio 2022. 

La direttrice Dis pranza con l'ex capo 5S: "Lui leale, amicizia sempre più solida". Poi incontra anche Gabrielli. La critica di Iv: "Inopportuno"Il quotidiano Il Domani: "La Finanza a casa di Conte per le consulenze Acqua Marcia".  

Un'acquisizione di documenti da parte della Guardia di finanza avvenuta nelle scorse settimane a casa e nello studio di Giuseppe Conte e del professor Guido Alpa nell'ambito dell'inchiesta sul crac di Acqua Marcia. Nessuno è indagato ma la notizia - pubblicata dal quotidiano Il Domani - contribuisce ad agitare il clima nel mondo dei 5 Stelle alle prese con il caso Belloni che ha fatto esplodere la contesa dei leader.

Prima il pranzo con il ministro degli Esteri, Luigi di Maio, in un ristorante nel centro di Roma. Poi un incontro a Palazzo Chigi con il sottosegretario alla Presidenza, con delega all'intelligence, Franco Gabrielli. Elisabetta Belloni, direttrice generale del Dis, ha voluto cominciare la settimana rinunciando alla discrezione che ha caratterizzato i suoi 30 anni di carriera alla Farnesina prima e ai Servizi poi, e lanciando invece alla politica ma anche all'ambiente degli apparati, da giorni in subbuglio, un messaggio pubblico: quello della donna delle istituzioni che non si fa tirare nelle beghe di partito e che riprende il lavoro, dopo il tritacarne della corsa al Quirinale, con due dei suoi interlocutori naturali e diretti. In realtà, però, il messaggio è stato letto con lenti differenti. E, per il Movimento, ha avuto per esempio l'effetto di una deflagrazione.

In questi giorni, infatti, il nome della Belloni era stato usato da Giuseppe Conte come una clava contro Di Maio nell'ottica della guerra interna al Movimento. In sostanza, il ministero degli Esteri era stato accusato dall'ex premier di aver sabotato l'elezione della direttrice del Dis al Quirinale, come Conte e lo stesso Beppe Grillo avrebbero invece voluto. Tradendo così il Movimento. "E oggi Luigi - commentava, ieri sera, sconsolato uno dei deputati più vicini a Conte - risponde con una foto proprio con la Belloni con tanto di parole della direttrice del Dis: "Con il ministro Di Maio c'è un'amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale ". Praticamente un colpo da ko per chi accusava Di Maio di tradimento ". Così è. Tanto che anche Italia Viva ha fatto sapere di essere "sconcertata" per le parole della Belloni riportate nel post di Di Maio.

"Siamo al paradosso che un ministro sia giudicato leale o meno da un funzionario", hanno detto "fonti ufficiali" del partito di Renzi. Eppure - ragiona un funzionario dell'intelligence - nelle intenzioni della nostra numero uno dei Servizi non c'era sicuramente alcuna intenzione di entrare nel dibattito interno di un partito, meglio di un Movimento. Ma, al contrario, quello di affermare la propria terzietà dalla politica. E la sua unica interlocuzione con le istituzioni. Perché, è vero che la Belloni ha sempre avuto un ottimo rapporto con il ministro Di Maio alla Farnesina (ma lo stesso aveva fatto con Paolo Gentiloni e prima anche con i governi di centrodestra), ma è anche vero che nella sua interpretazione del ruolo al Dis - dove sicurezza fa rima con relazioni internazionali e lettura dei fenomeni gepolitici - il ministro degli Esteri ha un ruolo cruciale.

Non a caso, dopo l'incontro con Di Maio, e dopo la pubblicazione su Facebook della fotografia con didascalia, la Belloni è salita a Palazzo Chigi per incontrare l'altro suo interlocutore naturale, l'autorità delegata, il sottosegretario Gabrielli. La necessità era anche tranquillizzare il mondo degli apparati in subbuglio negli ultimi giorni: dopo i mesi complessi della gestione Vecchione, dopo l'uscita di una figura ingombrante come quella di Marco Mancini, tutto il sistema intelligence era alla ricerca di una normalità. E riappacificazione. La tribolata corsa al Quirinale ha riacceso antichi fuochi che sembravano ormai spenti e rilanciato antichi veleni. Un clima reso ancora più complesso dalla notizia della perquisizione di Conte.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it l'1 febbraio 2022.  

Nel momento più confuso della settimana delle elezioni per il Quirinale, la giornata e poi la serata di venerdì 28 gennaio, quando Giuseppe Conte ha tentato di nuovo una soluzione che non prevedeva Mario Draghi al Quirinale, Luigi Di Maio ha continuato fin dalla mattina a lavorare per un esito istituzionale, fosse sul nome di Sergio Mattarella o di Mario Draghi, ma ciò che è meno noto è che anche una serie di parlamentari M5S con un loro peso interno si stava già muovendo, dentro il gruppo parlamentare, nella stessa direzione del ministro degli Esteri. Uomini non tutti appartenenti al suo giro di fedelissimi.

Molto attivi, su questo fronte che appunto chiameremo “istituzionale”, sono stati personaggi come il deputato Sergio Battelli, Stefano Buffagni, Gianluca Vacca. O come Primo Di Nicola e Vincenzo Presutto, che certo non nascono dimaiani, ma sono stimati e seguiti dalle truppe grilline in Parlamento, perchè dotati di capacità di ascolto che non viene riconosciuta da tutti all’ex premier. 

Il presidente della Camera Roberto Fico, che nella vicenda si è tenuto in corretta posizione di distacco, ha comunque fatto percepire quanto fosse favorevole a una soluzione istituzionale (in quei momenti poteva essere sia Draghi sia, nelle ore successive sempre più, Mattarella), finendo, come sempre in tutti i tornanti decisivi della storia M5S, dallo stesso lato del suo più giovane conterraneo Di Maio.

Mentre Giuseppe Conte otteneva la sponda rumorosa, ma esterna di Alessandro Di Battista – che non è più nelle chat principali del Movimento, e non è amatissimo nel gruppo parlamentare grillino - Di Maio poteva contare su parlamentari meno appariscenti ma di sostanza, come quelli su elencati. 

Di Battista, che ha lavorato anche per un riavvicinamento tra Conte e Davide Casaleggio, ha poi detto: «Credo che a Luigi interessi più salvaguardare il suo potere personale che la salute del movimento. O si arriva a una resa dei conti, o faranno prima a cambiare il nome del M5s in Udeur». Ma in una battaglia politico parlamentare muove poco.

Di Maio è finito sotto attacco in quella che poteva sembrare una “rivolta della base” (secondo l’analista Pietro Raffa sarebbero in realtà 289 account fake, metà in America e Sud America; mentre secondo un altro analista, Alex Orlowski, si tratta solo di account "inattivi" da anni, “sockpuppets”, account-burattino magari mobilitati o rimobilitati, con persone vere dietro, all'occasione). A quel punto hanno cominciato a uscire in tanti, anche pubblicamente. Cosa singolare, per parlamentari da sempre molto incline a parlare dietro le quinte, ma poco a esporsi. Si sono schierati.

«Chiediamo che ci sia maggior ascolto da parte del presidente Conte e dei 5 vicepresidenti», spiega Cosimo Adelizzi. «In queste ore Luigi Di Maio è attaccato per aver detto la verità. Ovvero che l'elezione del presidente della Repubblica è stata evidentemente gestita male», sostiene Davide Serritella. «Questa ripugnante caccia all'uomo verso Luigi Di Maio deve finire e non è degna dei nostri valori», ha scritto su facebook Manlio Di Stefano (che però è in posizione terzista, «né lui né Giuseppe Conte sono mai scappati dalle loro responsabilità»).

Battelli, che da tempo riceve apprezzamenti anche in alta sede istituzionale, è insofferente, e esercita da tempo una sua leadership nel gruppo: «Oggi abbiamo un problema: molti, io per primo, vogliono spiegazioni. Il Minculpop interno l'ho sempre detestato e non inizierò certo a farmelo piacere oggi». «Chiunque ci sia dietro quest'ultima campagna contro Di Maio, si fermi immediatamente. Forza Luigi, siamo tutti con te», scrive nelle chat interne Sergio Vaccaro. 

Il fronte contiano, molto presente sui social e sui giornali d’area, è assai più silenzioso e ritratto nel gruppo. Viene fuori soprattutto attraverso figure come Stefano Patuanelli, o come i vicepresidenti, scelti direttamente da Conte. Come Michele Gubitosa, il numero due della gestione contiana, aiutato nella comunicazione da Rocco Casalino, che ritiene: «Conte non ha sbagliato nulla. Abbiamo proposto figure femminili di assoluto valore, parliamo di profili straordinari sui quali c'era condivisione. Ma nella notte sono arrivati dei veti incomprensibili da parte di altre forze politiche».

O come Riccardo Ricciardi, che va ripetendo: «Di Maio dovrà rendere conto al Movimento di alcuni passaggi». Tuttavia, almeno per ora, non sono in tanti a esporsi pubblicamente su questa linea. 

Con Di Maio invece, anche se silenti, ci sono personaggi storici e abilissimi nella conduzione delle dinamiche interne, da Laura Castelli – che sa tutto, del Movimento e dei suoi uomini - a ex ministri con relazioni nei palazzi, come un Vincenzo Spadafora dato ormai lontanissimo da Conte. Altri, come Roberto D’Incà, l’antico francescano del gruppo, uno dei veterani, stanno provando a mediare tra i due fronti: «Se riusciremo a restare insieme? L'importante è che in questo momento cerchiamo di condividere un momento di confronto». Al punto in cui siamo, anche questo è assai difficile.

Pietro De Leo per “Libero Quotidiano” il 22 gennaio 2022.  

Lamentazione, piagnisteo e anche qualche furbata. Sarà pure che da mesi le strade con il Movimento 5 Stelle si sono separate, ma la sortita di Davide Casaleggio sull'inchiesta Moby, attraverso un post pubblicato ieri sulla sua pagina Facebook, ricalca il tradizionale schema vittimistico dei pentastellati. Premessa: né lui né alcun componente della sua azienda sono indagati.

Tuttavia, avendo la Casaleggio Associati sottoscritto un contratto con Moby per erogare un servizio di consulenza di comunicazione, la Guardia di Finanza ha effettuato una perquisizione nei suoi uffici di Milano. E di nuovo i nomi di Casaleggio e Beppe Grillo, che invece è indagato, si sono ritrovati appaiati sui giornali e tg. In quelle strane connessioni magnetiche dove il fato malandrino appaia di nuovo ciò che la politica ha separato.

Ma Casaleggio non ci sta, e lo si capisce leggendo la sua lunga nota. Parla da imprenditore solo imprenditore. Quasi come se né lui né la sua azienda fossero stati, in tutti questi anni, nella prassi politica e nell'immaginario collettivo un ingranaggio fondamentale della storia del Movimento 5 Stelle di cui il padre Gianroberto, assieme a Grillo, fu fondatore. «Le rassegne stampa sono nuovamente piene del nome Casaleggio Associati», è l'incipit.

E attacca con la lacrimazione: «Non penso che esista un caso simile, in cui uno studio di consulenza sia oggetto da dieci anni di un ossessivo e costante discredito mediatico di tale portata senza alcuna base oggettiva». E ancora: «A questo si somma la campagna di fango sui falsi finanziamenti venezuelani che viene portata ancora avanti da parte dello sciacallaggio mediatico italiano contro mio padre, la cui foto viene pubblicata e associata alla solita calunnia ormai smentita».

SENZA MACCHIA Insomma, a leggere lui, evidentemente la Casaleggio Associati è un'azienda politicamente incontaminata. Estranea dalla storia di quel Movimento 5 Stelle che della mistura mediatico-giudiziaria, a scapito degli avversari, ha fatto propellente di consenso. Quel «servirebbe il senso della misura» che l'imprenditore invoca, dunque, lo tira dentro la nemesi da cui non può fuggire, al pari dei suoi ex compagni di strada. Poi aggiunge: «Casaleggio Associati, come molte Pmi, ha attraversato un momento di difficoltà negli ultimi due annidi pandemia, in particolare per la situazione creditizia di alcuni suoi clienti. A questo si sono sommati costanti attacchi mediatici che sembrano rispecchiare il modo scientifico che qualcuno suggeriva di attuare con una 'character assassination contro Davide Casaleggio e la sua società».

E qui posta il link ad un articolo sul famoso documento riservato del giornalista Fabrizio Rondolino inviato a Matteo Renzi, emerso dalle carte dell'inchiesta Open. Insomma, gira e gira sempre colpa dei giornalisti e di qualcuno che muoverebbe i fili, oggi come ieri. Poi passa a trattare dell'indagine Moby: «Casaleggio Associati», spiega, «è parte lesa in quanto oggi i crediti ai quali dovrebbe accedere» verso la società «sono, invece, oggetto di un concordato di continuità di Moby che sostanzialmente ha portato allo stralcio quasi totale del credito vantato, causando così una condizione di forte tensione finanziaria per la nostra società. Una situazione che le diffamazioni mediatiche non aiutano di certo a risolvere».

Di nuovo, dagli alla stampa cattivona. E poi la chiusura: «Lo ribadisco per l'ennesima volta: nessun nostro cliente ha mai avuto favoritismi politici grazie a me. È un fatto incontestabile, non un'opinione. Non è più tollerabile dovermi difendere da accuse per fatti che non ho mai commesso». 

ANNO DEL CAMBIAMENTO In sintesi, l'imprenditore scava un solco rispetto alla posizione di Beppe Grillo, accusato di presunte pressioni sui parlamentari pentastellati per realizzare iniziative normative favorevoli al fondatore di Moby Vincenzo Onorato, che con il blog del comico aveva un contratto di pubblicità. Non cita mai, Casaleggio, né Grillo né il Movimento. Come se negli anni dei fatti contestati non si conoscessero. Come se quella storia sola non fosse esistita mai. «Il 2022 sarà un annodi cambiamenti», conclude l'imprenditore. Ma attenzione alle scorie di quelli passati.

Quando erano indagati gli altri. Le urla dei 5s che oggi tacciono. Nicola Porro il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale. 

Il reato di traffico di influenze è un assurdo, sia come è stato pensato nel 2012 dall'allora ministro Severino con l'approvazione anche di Forza Italia, sia come è stato modificato, nel 2019, dal ministro Bonafede. 

Il reato di traffico di influenze è un assurdo, sia come è stato pensato nel 2012 dall'allora ministro Severino con l'approvazione anche di Forza Italia, sia come è stato modificato, nel 2019, dal ministro Bonafede. Come l'abuso di ufficio, come il concorso esterno in associazione mafiosa (in realtà mai stabilito da una norma positiva), come il voto di scambio. Tutti reati buoni per un titolo di giornale e per distinguere i virtuosi dai mascalzoni durante i dibattiti parlamentari che ne hanno visto la nascita. Ora che c'è incappato anche Beppe Grillo per i suoi rapporti con l'armatore Vincenzo Onorato, che ancora deve allo Stato 180 milioni, i grillini tacciono, il Fatto non titola, i moralisti si accucciano. Leggete questo breve e non esaustivo elenco delle loro grida moraliste, quando ad essere indagati erano i cattivi, cioè tutti gli altri, esclusi i grillini.

Nel 2016 la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi viene intercettata mentre rassicura il compagno, allora indagato per traffico di influenze illecite, su un emendamento che sarebbe passato. La vicenda era quella dell'impianto di Tempa Rossa per cui poi la procura di Roma chiederà l'archiviazione. Ecco qualche delicata dichiarazione.

- 31 marzo 2016: «Le dimissioni del ministro Guidi sono un'ammissione di colpa, dimostrano il coinvolgimento del ministro Boschi e del Bomba che fanno l'interesse esclusivo dei loro parenti, amici, delle lobby e mai dei cittadini. Devono seguire l'esempio della Guidi e dimettersi subito». Blog di Beppe Grillo

- 31 marzo 2016 «Io non ho più parole per dire quanto ribrezzo mi diano questi schifosi al Governo. Gentaglia che mette gli interessi personali, spesso illeciti, davanti alla salute e al benessere degli italiani». Manlio Di Stefano, Facebook.

- 2 aprile 2016 «La vicenda Guidi è solo la punta di un iceberg . Erano tutti d'accordo e lo facevano sulla pelle della salute pubblica e sull'ambiente di regioni importanti come la Basilicata e non solo». Luigi Di Maio

- 10 aprile 2016 «Di fronte allo scandalo trivellopoli per il Bomba la soluzione è non far pubblicare le intercettazioni e non farle utilizzare ai giudici: quello che chiedeva Berlusconi alcuni anni fa. Mettere il bavaglio alla magistratura e all'informazione libera rimasta per coprire le vergogne del governo». Blog di Beppe Grillo.

Dopo dieci giorni sul medesimo blog che si è preso 240mila euro di spot da Onorato si lamentava della poca informazione su quel presunto scandalo. All'epoca ci fu una eco dieci volte superiore a quella che riguarda Grillo oggi.

Dopo un anno per traffico di influenze ci passa il papà di Matteo Renzi. Ecco solo alcune delle prese di posizione dei moralisti grillini.

- 1 marzo 2017 «Renzi, vogliamo vederci chiaro. Ce le hai le rendicontazioni delle donazioni della tua fondazione e in particolare quelle di Romeo? Escile!» Blog di Beppe Grillo. Oggi al medesimo blog potremmo chiedere di «uscire» le chat di Grillo con Onorato, o potremmo chiederci perché il telefono dell'Elevato non sia stato sequestrato.

- 4 marzo 2017 «L'unica notizia vera è la frase più infelice e stupida della storia, quella del rottamatore che riuscì a rottamare solo il padre. Ma cosa vuol dire per mio padre doppia condanna?». Blog di Beppe Grillo. Renzi infatti aveva chiesto doppia condanna per il padre in caso di colpevolezza.

- 30 marzo 2017 «Una vera e propria ragnatela. Adesso però la smettano con questo silenzio assordante, omertoso. Rappresentano le istituzioni e, dunque, hanno il dovere, l'obbligo di parlare e dare le dovute spiegazioni ai cittadini, che vogliono evidentemente tenere all'oscuro». Luigi Di Maio dal Blog di Beppe Grillo. E non contento poco dopo sempre Di Maio, ancora in veste Vaffa, diceva su Facebook: «Sono mentitori seriali, inadeguati per il Governo di questo Paese. Hanno infettato le istituzioni della Repubblica con la menzogna».

E come dimenticarsi del caso Siri che scoppia quando trapela la notizia che il sottosegretario ai Trasporti della Lega e consigliere economico di Matteo Salvini è indagato per corruzione. Armando Siri è accusato di aver accettato denaro per inserire una norma sulle energie rinnovabili nella manovra. Tutto ruota intorno a una presunta tangente da 30mila euro, «data o promessa» a Siri in cambio di un «aggiustamento» al Def 2018 sugli incentivi al mini-eolico. Bazzecole rispetto alle ipotesi dell'indagine su Grillo sia in termini di contratti del blog e di Casaleggio, sia della presunta entità del favore: la conversione di Onorato valeva 72 milioni l'anno. Sentite la lista dei grillini:

- 18 aprile 2019 «Sarebbe opportuno che il sottosegretario Siri si dimetta. Gli auguro di risultare innocente e siamo pronti a riaccoglierlo nel governo quando la sua posizione sarà chiarita. Se i fatti dovessero essere questi, stiamo parlando di accuse gravi che riguardano la Mafia, è chiaro che Siri si deve dimettere dal Governo. Va bene aspettare il terzo grado di giudizio ma c'è una questione morale e se c'è un sottosegretario coinvolto in un'indagine così grave non è più una questione tecnico-giuridica ma morale e politica. Non so se Salvini concorda con questa linea intransigente ma il mio dovere è tutelare il Governo e le istituzioni. Credo che anche a Salvini convenga tutelare l'immagine della Lega». Luigi Di Maio, dichiarazione a margine di un incontro di Unioncamere.

- 18 aprile 2019 «Alla luce delle indagini il ministro delle infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, ha disposto il ritiro delle deleghe al sottosegretario Armando Siri, in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza. Secondo il ministro, una inchiesta per corruzione impone infatti in queste ore massima attenzione e cautela». Nota del Mit

- 7 maggio 2019 «Non capirò mai perché la Lega in queste settimane abbia continuato a difendere Siri invece di fargli fare un passo indietro. Oggi è l'ultimo giorno utile perché Salvini comprenda l'importanza di questa vicenda. Mi auguro faccia la cosa giusta». Luigi Di Maio su Facebook.

La lista è molto più lunga e credete al cuoco di questa zuppa abbiamo riportato solo le dichiarazioni più educate e ragionate. E oggi cosa hanno da dire questi signori su Grillo disOnorato. Nulla of course.

Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, conduce il programma d'approfondimento "Virus, il contagio delle idee", il venerdì in prima serata

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2022. 

La fine di un'era. O almeno di un pezzo di storia recente legata in modo indissolubile alla nascita del Movimento 5 Stelle. Secondo alcune indiscrezioni, la Casaleggio Associati - società fondata da Gianroberto Casaleggio e ora diretta dal figlio Davide - sarebbe in una fase finanziaria negativa, al punto da considerare la messa in liquidazione. Le voci - che circolano con insistenza sia in ambito parlamentare sia in ambienti milanesi - per ora non trovano conferme.

Ciò che appare certo è che negli ultimi mesi c'è stata una riduzione del personale e che la sede (di oltre 450 metri quadrati) nel cuore di Milano, vicino a corso Monforte - inaugurata pochi mesi prima delle Politiche del 2018 -, è stata dismessa e, addirittura, secondo alcuni rumors sarebbe già disponibile per nuovi affittuari da alcuni mediatori immobiliari. Certo, a pesare sui risultati degli ultimi mesi è stata anche e soprattutto la pandemia, che - secondo quanto si legge nel rendiconto d'esercizio depositato presso la Camera di Commercio - «ha imposto l'esigenza di contenere il più possibile lo sviluppo del contagio, comportando la modifica delle procedure e attività». 

Ora le indiscrezioni parlano di un bivio: chiudere o continuare con un nuovo percorso. Casaleggio Associati - finita al centro delle cronache in questi giorni per il caso Moby - ha curato la comunicazione all'inizio degli anni Duemila dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, poi dal 2005 ha gestito la rete dei meet up civici grillini e ha sostenuto dal 2009 i Cinque Stelle: un percorso che si è fermato con la morte di Gianroberto Casaleggio e la fondazione di Rousseau.

Ora, dopo alcuni anni positivi dal punto di vista finanziario, la società vive un momento di difficoltà. Il bilancio dell'anno 2020 della società milanese ha fatto segnare un saldo negativo - come risultato di esercizio - pari a -320.295 euro. A Roma, nonostante lo strappo burrascoso dal Movimento, preceduto da un lungo periodo di tensioni e polemiche tra i rappresentanti di Rousseau e i vertici pentastellati, alcuni parlamentari si dicono «preoccupati» e «sinceramente dispiaciuti» per la situazione della Casaleggio Associati.

«Nonostante tutto, rappresenta una parte importante del nostro percorso: speriamo si possa riprendere con successo», auspica un eletto 5 Stelle. Intanto, c'è chi fa notare che anche il blog delle Stelle, ex punto di riferimento M5S, è fermo: l'ultimo post risale allo scorso 29 novembre. 

Inchiesta presunti fondi illeciti, il nuovo memoriale di El Pollo: "Dal regime venezuelano finanziamenti al Movimento". Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 21 gennaio 2022.

 Non c'è solo il caso Onorato. Una seconda inchiesta della procura di Milano sta creando qualche imbarazzo al Movimento 5 Stelle. La storia, nota, è quella del presunto finanziamento illecito ricevuto nel 2010 dal governo venezuelano di Hugo Chavez. C'è una novità. Un memoriale. È stato depositato presso il giudice spagnolo: l'ex capo dei servizi segreti venezuelani Hugo Armando Carvajal, detto El Pollo, arrestato a Madrid e in attesa dell'estradizione negli Stati Uniti, conferma la dazione del denaro, accusando di nuovo il fondatore Gianroberto Casaleggio di averla incassata.

Da lastampa.it il 16 settembre 2022.

Davide Casaleggio attacca duramente Giuseppe Conte, sulla vicenda del presunto finanziamento dal Venezuela di Chavez-Maduro a Gianroberto Casaleggio – finanziamento che Davide Casaleggio ha sempre negato, querelando il giornale spagnolo che per primo aveva diffuso la notizia riportando un documento dei servizi segreti spagnoli. 

Ora però Casaleggio sostiene che Conte, in quella storia, ebbe un ruolo. A pochi giorni dal voto del 25 settembre, con un video su Facebook, il figlio del cofondatore del M5S attacca il leader del Movimento, l’avvocato del popolo: «Aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla».

E avanza il dubbio, tra l'altro, che dietro quel caso ci fosse la volontà di cambiare il corso del Movimento 5 Stelle. «Devo raccontarvi un fatto grave che è successo in questa legislatura. Molti di voi lo conosceranno come il "caso Venezuela". Un'infamia che è stata condotta contro mio padre - esordisce Casaleggio - Bene, in questi anni ho condotto diverse ricerche e questo mi ha permesso di farmi un'idea di cosa sia successo.

E anche di quali sono gli attori che sono stati coinvolti in questa vicenda. Anche i servizi segreti italiani, anche persone nel governo italiano sono state coinvolte in questa vicenda. Speravo che la giustizia avesse già fatto il suo corso per la fine di questa legislatura, ma così non è stato. Credo sia quindi importante condividere alcune informazioni pubblicamente». 

«Molti di voi ricorderanno il "caso Venezuela" perché è finito su tutti i giornali. Tutte le televisioni, tutte le inchieste di approfondimento in televisione parlavano del “caso Venezuela”. Una valigetta con 3,5 milioni di dollari - ricorda Davide Casaleggio - che sarebbe arrivata nelle mani di mio padre per cambiare il corso delle idee del governo italiano tramite il Movimento 5 Stelle che a suo tempo - si parla del 2010 almeno dalla storia raccontata - era fuori dal Parlamento, fuori dal Governo e quindi sostanzialmente parliamo di una storia irrealistica, che però molti giornali hanno sposato comunque. Ma cosa ho scoperto in questi anni?

Beh, innanzitutto i tempi. Questo documento falso è arrivato al giornale spagnolo, che poi lo pubblicò, proprio nel momento in cui il capo politico del Movimento 5 Stelle si era dimesso. Un momento delicato per il Movimento 5 Stelle. L'inchiesta esce sul giornale sei mesi dopo. Proprio nel momento in cui si sta discutendo del fatto di fare o meno il voto per il capo politico che doveva essere rivotato. Proprio in quel periodo in cui - come molti di voi ricorderanno - io sostenevo la necessità di fare un voto aperto a candidature multiple con il voto degli iscritti, per poter avere un nuovo capo politico».

«Questo non successe mai - rimarca Casaleggio - perché nel frattempo è stato cambiato lo statuto. È stato nominato sostanzialmente un monocandidato, che alla fine è stato ratificato da alcuni iscritti. Ora questo per quanto riguarda i tempi. Chi era invece a conoscenza di questo documento prima che arrivasse nelle mani del giornalista spagnolo? 

Bene, questo documento era custodito in un cassetto del governo italiano già da un anno. Tra l'altro prima della pubblicazione, il 27 di aprile del 2019 i servizi segreti italiani con in mano questo documento vanno da Giuseppe Conte - sostiene il foglio del cofondatore del M5S - vista la gravità del fatto denunciato dal documento e lo sottopongono per una sua valutazione. Quello che è stato fatto? Nulla». «Non si fece né un'indagine su un fatto che effettivamente poteva essere molto grave, parliamo di corruzione, riciclaggio, cercare di pagare una forza politica per indurre il governo a fare qualcosa per un Paese straniero.

È qualcosa di molto grave ma il Presidente del Consiglio al tempo non fece nulla. Non fece nulla neanche nell'altro senso. Se pensava che questo documento fosse falso, era una chiara calunnia. Un tentativo di calunnia perché al tempo il documento era segreto, ma non fece nulla neanche quando questo documento uscì sui giornali. Tutti i giornali italiani ne hanno parlato e Conte aspettò ben due giorni per fare la sua dichiarazione in cui sostanzialmente faceva finta di non saperne nulla». 

«Ora tutto questo usciva, e il governo? Nulla. Conte che aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla. Ora io spero che nel prossimo governo, che nella prossima legislatura, tutte le persone che avranno a che fare con i servizi segreti: sia le persone che controlleranno i servizi segreti, sia le persone che li gestiranno, abbiano il senso dello Stato. Perché io non tollero che si infanghino le persone che non possono difendersi. Non tollero che si infanghi mio padre. E quindi spero che si faccia chiarezza su un'operazione di calunnia pubblica che è stata portata avanti contro mio padre».

Il dossier finito in un cassetto. Davide Casaleggio accusa Conte, cosa c’è dietro il video del figlio del fondatore del M5S. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Settembre 2022 

A nove giorni dal voto il figlio del fondatore del M5S entra in campagna elettorale di peso. Con un video accorato, non brevissimo, si rivolge ai suoi amici e sostenitori. Compare in camicia bianca, il tono grave, gli occhi sulla telecamera e le parole scandite una a una. Le polemiche sui soldi russi ai partiti hanno infiammato il dibattito e riportato sulla breccia, a margine, anche le voci sulla presunta donazione di 3,5 milioni di euro dal Venezuela.

Casaleggio tira in ballo i servizi segreti italiani, all’epoca rappresentanti dal direttore generale del Dis, Gennaro Vecchione. Dice che il 27 aprile 2019 gli agenti della nostra intelligence avrebbero consegnato all’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, l’informativa che anticipava “le infamanti accuse”, come le chiama Davide Casaleggio, indirizzate contro suo padre. La colpa di Conte? Aver tenuto il dossier in un cassetto “senza fare niente”. Verbalizzo qui parola per parola: “Devo raccontarvi un fatto grave, il “caso Venezuela”. Un’infamia che è stata condotta contro mio padre. Bene, in questi anni ho condotto diverse ricerche e questo mi ha permesso di farmi un’idea di cosa sia successo. E anche di quali sono gli attori che sono stati coinvolti in questa vicenda. Anche i servizi segreti italiani, anche persone nel Governo italiano sono state coinvolte in questa vicenda”. Ricostruiamo: a monte c’erano le dichiarazioni dell’ex capo dei servizi segreti venezuelani, Hugo Armando Carvajal, detto “El Pollo”, ex capo dei servizi segreti militari del governo di Caracas.

El Pollo avrebbe riferito che nel 2010 il console venezuelano a Milano, Gian Carlo Di Martino, si recò in veste di intermediario negli uffici della Casaleggio per consegnare una valigetta contenente tre milioni e mezzo di euro. Denaro funzionale alla causa di una migliore reputazione presso l’opinione pubblica italiana del Venezuela di Chàvez, cui succederà nel 2013 Nicolas Maduro. Pratica attuata, secondo le ipotesi, in Spagna e in Francia oltre che in Italia. Tanto che è a Madrid che il caso prende piede. Il giornalista Marcos Garcìa Rey, del quotidiano conservatore ABC, racconta la vicenda e viene querelato da Davide Casaleggio. Il giudizio è ancora pendente. Così come l’inchiesta della magistratura milanese che indaga per appurare se si trattò di corruzione o meno, mentre il reato – ipoteticamente commesso nel 2010 – è comunque prescritto. Negli ultimi giorni la vicenda ha fatto risuonare qua e là qualche eco. Debora Serracchiani, capogruppo Pd alla Camera, era ospite degli studi tv de La7 quando ha commentato le voci sui dossier americani: “Mi sembra di ricordare che anche il Venezuela ha pagato il M5S, se non ricordo male”. È insorto Alessandro Di Battista, ospite collegato da casa: “Spero che Casaleggio la quereli”. Da Giuseppe Conte nessuna replica. Figurarsi se il nuovo Conte si va ad arrovellare nel botta e risposta con Davide. E poi cosa potrebbe rispondere a Casaleggio? Gennaro Vecchione avrebbe ricevuto le informazioni sulla presunta tangente dai suoi uffici e le avrebbe girate a Conte.

“Gli arrivò l’informativa e fece finta di niente, la mise in un cassetto”, l’accusa del titolare della Casaleggio Associati. Che insiste: “Tra l’altro prima della pubblicazione (su ABC, ndr) i servizi segreti italiani con in mano questo documento vanno da Giuseppe Conte. Vista la gravità del fatto denunciato dal documento, lo sottopongono per una sua valutazione. Quello che è stato fatto? Nulla. Non si fece né un’indagine su un fatto che effettivamente poteva essere molto grave, parliamo di corruzione, riciclaggio, cercare di pagare una forza politica per indurre il Governo a fare qualcosa per un Paese straniero. È qualcosa di molto grave – prosegue il presidente dell’Associazione Rousseau – ma il Presidente del Consiglio al tempo non fece nulla”. Così come non fece nulla neanche nell’altro senso. “Se pensava che questo documento fosse falso, era una chiara calunnia. Un tentativo di calunnia perché al tempo il documento era segreto, ma non fece nulla neanche quando questo documento uscì sui giornali”. Suona tanto singolare, intempestiva, esorbitante questa intemerata tutta rivolta contro Conte, da essere rivelatoria di un clima, tra ex compagni del Movimento, diventato ormai di guerra.

L’accusa, neanche tanto velata, è che il dossier contro suo padre sarebbe rimasto custodito nei cassetti dell’allora premier quasi come un’arma di ricatto. E Casaleggio va oltre, trovando nella coincidenza tra le date della vicenda un sinistro incedere: “Proprio in quei momenti si decideva la successione come capo politico. Io suggerii una lista tra più competitor, ma sui giornali si provò a fare scandalo infamando mio padre”, ricostruisce Davide. Il rinnovamento interno sarebbe stato inficiato da una macchina del fango alla quale Conte non sarebbe stato estraneo, si evince tra le pieghe del ragionamento. Conte sta facendo la miglior campagna che un populista potesse fare. Sta risalendo nei sondaggi, mandando in soffitta definitivamente le speranze di chi ambiva a riprendere in mano i Cinque Stelle. Beppe Grillo tace e si nega. Davanti alle richieste di interviste, continua a tacere. Per la prima volta in una campagna elettorale in venti anni la sua voce manca dalle piazze. Quella di Bonafede, Toninelli, Lezzi è totalmente silenziata. Ed è muta da un mese l’ex sindaca di Roma, Virginia Raggi, che qualcuno aveva indicato come possibile sfidante alla successione al trono di Conte. Se avesse perso le elezioni.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

"Non succederà nulla", "È finito". Le 'profezie' su Grillo. Francesco Curridori il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Per la rubrica Il bianco e il nero, abbiamo parlato con il filosofo Paolo Becchi e con il politologo Gianfranco Pasquino del periodo buio che sta attraversando il M5S.

Il M5S, dopo la tegola giudiziaria che colpito il fondatore Beppe Grillo, sta vivendo una nuova crisi proprio nel momento cruciale della legislatura: l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Per la rubrica Il bianco e il nero, ne abbiamo parlato con il filosofo Paolo Becchi e Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all'università di Bologna.

Cosa succede nel M5S dopo la vicenda giudiziaria che ha colpito Beppe Grillo?

Becchi: "Quella è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Io sono un garantista con tutti e questo vale anche per Beppe Grillo, però una cosa è la vicenda giudiziaria che chiarirà la magistratura e un'altra è la vicenda politica. Credo che, considerate anche le grandi difficoltà finanziarie in cui si trova la Casaleggio Associati (che ormai non ha più nulla a che fare con i pentastellati), il M5S è finito. Questo non esclude che alle prossime elezioni possano prendere dei voti, ma non è quasi manco più corretto utilizzare questa sigla. Quella trasformazione per la vita civile e politica che molti italiani, compreso me, si aspettavano non c'è stata. Queste ultime vicende politicamente lo confermano. Non si vede molta diversità tra il M5S e il resto degli altri partiti. La tanto decantata 'onestà, onestà' mi sembra molto messa in discussione".

Pasquino: "Se è una vicenda che riguarda solo Grillo, non succederà niente perché lui, in qualche modo, si era già 'elevato'. Se non ha influenzato nessuno dei parlamentari dei Cinquestelle, loro dovrebbero proseguire esprimendo rammarico e augurandosi che Grillo esca pulito da tutta questa vicenda".

Conte ha incontrato prima Letta e Speranza e, poi, Salvini. Che ruolo sta svolgendo dentro il M5S e nella partita per il Colle?

Becchi: "Teniamo presente che il M5S è il partito di maggioranza relativa e, invece, secondo me, Conte non sa che pesci pigliare e, per cercare di sembrare in partita, si attiva da una parte e dall'altra. Credo che anche il tentativo di rinnovamento del Movimento, per mezzo di Conte, sia fallito. Il M5S, quando si voterà, sopravviverà grazie ai voti presi al Sud col reddito di cittadinanza, ma andrà sicuramente sotto il 10%. il M5S non esiste più come progetto politico, mentre Conte rappresenta proprio una nullità politica".

Pasquino: "Conte sa che non controlla del tutto i gruppi parlamentari e cerca sponde fuori per negoziare il nome del prossimo presidente. Di più non può fare, deve stare in equilibrio, sperando che una parte del gruppo parlamentare ci ripensi e che i Cinquestelle non vadano in ordine sparso. Conte deve cercare di mettere insieme le 'sparse membra' del Movimento che, poi, è un obiettivo anche di Di Maio".

Chi sarà il prossimo leader del M5S? Conte o Di Maio?

Becchi: "Credo che al momento questo problema non si ponga neanche. Penso che proseguirà questa facciata formale con Conte capo politico e una segreteria che ruota intorno a lui. Bisognerà vedere cosa succederà alle Politiche del 2023 e chi prenderà le redini del Movimento per cercare di salvare un minino di posti in Parlamento. Lì si arriverà alla resa dei conti tra Di Maio e Conte".

Pasquino: "Da qui al 2023 c'è un secolo di tensioni e difficoltà e, perciò, è difficile dirlo. Io credo che al M5S non convenga far fuori Conte. Poi, bisogna vedere se l'ex premier acquisisce tutto il peso che dovrebbe avere in quanto leader".

Il M5S è il gruppo parlamentare più numeroso. Perchè non sta svolgendo un ruolo da protagonista nella partita per il Colle?

Becchi: "Ormai non c'è più una guida. I parlamentari dei Cinquestelle non li controlla di certo Conte, al massimo ce n'è una quindicina fedele a Di Maio. Tutto il resto, però, è una palude. Voteranno qualcuno che consenta a Draghi di rimanere dov'è di modo tale che loro possano restare in Parlamento fino alla scadenza naturale della legislatura. Penseranno a salvarsi la pelle e, quindi, voteranno un qualunque candidato eccetto Draghi perché i grillini vogliono la certezza che non si vada a votare".

Pasquino: "Credo che nessuno debba dare le carte, ma tutti dovrebbero proporre dei nomi. Mi stupisce che LeU non abbia fatto nemmeno 3 nomi. Io mi aspetto che anche il M5S faccia una rosa di nomi. Non dovrebbe essere difficile nemmeno per loro, ma ci vorrebbe un po' di immaginazione e di buona volontà".

Conte, Letta e Speranza, dopo il loro incontro, hanno scritto un tweet uguale. Qual è il reale stato di salute dell'alleanza giallorossa?

Becchi: "Hanno fatto un tweet identico per indicare che c'è un'estrema condivisione. E mi pare anche normale. Dopo la parentesi rivoluzionaria del governo gialloverde, si sta andando verso la normale suddivisione di un fronte di centrodestra e uno di centrosinistra".

Pasquino: "Dire che avranno una posizione comune è già un passo avanti. La convergenza sul tweet, secondo me, è un segnale politico di primaria importanza...".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Michele Serra per "la Repubblica" il 20 gennaio 2022.

Per una (modesta) vicenda di fondi pubblicitari non chiari destinati al suo blog, Beppe Grillo è sotto inchiesta. Il nome stesso del reato, "traffico di influenze illecite", lascia intendere la zona d'ombra sulla quale la Procura di Milano indaga. Si tratta di quel vischioso viluppo di rapporti tra economia, politica e media che oscilla tra il lobbismo, il vassallaggio, la compravendita di favori e simpatie.

Stabilire dove è il reato, dove la mollezza etica, non è mai facile. Per utile paradosso, lo strale destinato a Grillo rimbalza anche da un'altra inchiesta, quella della Procura di Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Questo per dire che non conviene mai imputare agli altri ciò che potrebbe essere imputato a te stesso. E anche per dire che finalmente, con generale sollievo (forse anche dei grillini), la storia del grillismo approda al suo esito naturale, che è la politica come bene comune e al tempo stesso come male comune. In una parola sola: come problema comune. 

Quando si va alla guerra, è difficile conservarsi innocenti. Troverete in altra parte del giornale ampio resoconto tecnico-giudiziario dell'accaduto. Qui posso solo riferire ciò che mi ha maggiormente colpito nella vicenda. Il finanziatore illecito, o comunque non trasparente, è un armatore, il signor Onorato, boss della Moby, compagnia di navigazione in fallimento. Degli undici milioni, diciamo così, di elargizioni amichevoli, solamente due erano destinati alla politica.

Oltre che al blog di Grillo, i soldi sarebbero andati alla Casaleggio Associati, alla fondazione di Matteo Renzi e alla fondazione di Giovanni Toti, più qualche briciola al Pd e a Fratelli d'Italia. Gli altri nove milioni erano destinati ad attività di rappresentanza, appartamenti costosi e auto di lusso: il signor Moby avrebbe dunque speso in Aston Martin e in Maserati molto di più di quanto stanziato per ingraziarsi il ceto politico, compreso il capo carismatico del partito di maggioranza della diciottesima legislatura. 

Tangentopoli, almeno quantitativamente, fu davvero un'altra cosa. Questo la dice lunga sulla perdita di peso, e di potere, della politica. Con un paio di convention aziendali, ai tempi d'oro, Grillo portava a casa gli stessi quattrini che il signor Moby oggi avrebbe elargito al suo blog, secondo l'accusa, in cambio di una buona parola presso i suoi gruppi parlamentari (sarebbe questo il "traffico di influenze illecite"). È molto dubbio che l'interessamento parlamentare dei cinquestelle avrebbe portato giovamento alla causa della navigazione marittima. 

Non è in dubbio, invece, la perdita di indipendenza, di prestigio, in fin dei conti di potere, che il passaggio di Grillo dallo show business alla politica gli ha inferto, fino a trascinarlo nella fangosa routine giudiziaria, come un qualunque sottosegretario o assessore, di quelli che pigliava per i fondelli ai tempi d'oro.

L'aggravante è che proprio sulla intemerata battaglia alla corruzione, al malaffare, alla connivenza, Beppe Grillo aveva fatto leva per avviare la sua clamorosa parabola politica. Due erano i cavalli di battaglia del suo movimento, entrambi difficilmente criticabili: la lotta contro la corruzione (onestà! onestà!) e la virtuosa selezione "dal basso" di una nuova classe dirigente immacolata e di vigorosi ideali. 

Molti di costoro sono andati a ingrossare le fila del gruppo misto, enorme agglomerato di fuorusciti di tutti i partiti, e sono tra i maggiori indiziati nella campagna acquisti di Berlusconi - speriamo in via di fallimento - per il Quirinale.

Di altri, rimasti nel folto esercito grillino in Parlamento, è lecito sospettare una lealtà molto labile alle indicazioni dei vertici: potrebbe prevalere, dicono le cronache, il bisogno di conservare il seggio, chiamato con spregio "poltrona" quando il potere era solo un nemico da abbattere, e oggi sudato posto di lavoro per carneadi di ogni regione e ceto sociale. Si chiude un cerchio, dunque: ed è bastata una sola legislatura per chiuderlo. 

La "diversità" grillina ha retto pochi anni, a differenza dei decenni occorsi, per auto-sopprimersi, alla "diversità" comunista, più sostanziosa perché più sudata, studiata, istruita. È puro cinismo compiacersi del fallimento dei tentativi di moralizzazione. Ma è pura stupidità non leggere, nel disfacimento strutturale del grillismo, la meritata sconfitta dell'improvvisazione e della presunzione. Che alla politica non fanno meno danni dell'immoralità.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 20 gennaio 2022.

Che il furore inquisitorio e penitenziario dei cinque stelle, fatto di spazzacorrotti e aumento di pene come panacea sociale, piombi sulla testa di Beppe Grillo, coi suoi ridicolissimi inciuci ribattezzati traffici d'influenza, mi fa sorridere ma con amarezza. In fondo i grillini sono solo vittime delle loro superstizioni, ma diffuse per decenni con inchiostro di fiamma da tutti noi. La favola dell'Italia terra di delinquenti è uno degli abbagli più mirabolanti degli ultimi otto secoli, e nemmeno a dare testate contro il muro dei numeri ci si riaccende il cervello. Tutti i reati sono in calo da decenni.

Sugli omicidi ce la battiamo ogni anno con Lussemburgo su chi ne commette di meno in Europa. Sulle rapine siamo sotto la media continentale. I nostri criminali eccellono soltanto nel furto di automobili, a parte la suggestione per corrotti e concussori, misurabile con classifiche basate non sui numeri ma sulla percezione. Capirai. Ma, per esempio, gli ultimi dati sulle truffe europee ci collocano fra i più onesti: i tedeschi truffano più di noi, i francesi truffano per il triplo.

Eppure non c'è partito che non si riprometta - fino al parossismo grillesco - di redimerci buttando la chiave. Ricordate che in Italia soltanto quattro processi su dieci arrivano a dibattimento, e di questi soltanto il 43 per cento si chiude con la condanna: il 30 per cento con l'assoluzione, il resto con archiviazioni. Dunque, di cento indagati, se ne condanneranno meno di venti. In compenso - in quello ci battono in pochi - abbiamo le galere piene di gente in attesa di giudizio. Ma quando la pianteremo di fare traffico di demenze?

Dalla rubrica delle lettere del "Fatto quotidiano" il 21 gennaio 2022.  

Perfino Il Fatto Quotidiano ha già processato e condannato Beppe Grillo. "Politicamente", stando a Marco Lillo, è indifendibile. Cos' è, avete già letto le chat?! Impossibile, visto che le indagini non sono chiuse! Eppure Grillo, politicamente, è già indifendibile! Perché ha sempre "rivendicato una diversità"! Ciò significa che non può ricevere messaggi né inoltrarli a chicchessia. Il solo farlo è "tradimento politico"! Non importa cosa ci sia scritto nei messaggi. Gli altri, non avendo "rivendicato diversità", se anche si intascano 200 mila euro, cosa vuoi dirgli? 

La "diversità politica" di Grillo è quella di non essere un politico stipendiato dagli italiani, come invece lo sono gli altri! Nessuno dei parlamentari, ministri ed ex ministri del M5S è indagato! Perché allora il M5S , anche se una colpa di Grillo ci fosse, dovrebbe pagare un prezzo politico? Senza contare, ovviamente, che adesso è Giuseppe Conte il capo politico del Movimento. Giuliano Checchi 

Risposta di Marco Travaglio

Caro Giuliano, condivido in pieno il commento di Marco Lillo. Il reato è tutto da dimostrare e se ne occuperà la magistratura con i suoi tempi e procedure. Ma il fatto di ricevere soldi da un concessionario pubblico, inoltrare le sue richieste a ministri e parlamentari 5 Stelle e poi girare a lui le loro risposte è un comportamento inaccettabile. Soprattutto per il fondatore del Movimento che fa della trasparenza e dell'onestà le sue bandiere. Per sua fortuna, i ministri e i parlamentari 5 Stelle - diversamente da renziani e piddini - hanno ignorato quelle chat e non hanno fatto alcun favore a Onorato. Perché non hanno dimenticato (almeno loro) chi li ha votati e perché. Dimostrando così - checché ne dicano i giornaloni festanti - di non essere "uguali agli altri". 

Traffico di influenze. Svolta di Travaglio, il Fatto Quotidiano diventa garantista: niente gogna per Grillo indagato. Il Gaglioffo su Il Riformista il 20 Gennaio 2022. 

La notizia che il povero Beppe Grillo è indagato per il reato inventato dalla ministra Severino e inasprito dal prode Bonafede – fustigatore di ogni malefatta dei politici – ieri ha fatto sorridere un po’ tutti i commentatori. In effetti è una notizia molto divertente. Qualche giorno fa Marco Travaglio, che di Grillo è il principale figlioccio, durante un dibattito televisivo con Renzi sorrideva e sventolava le mani strusciando tra loro i due pollici i due indici per far capire che i pregiudicati veri son quelli che prendono denaro, anche se magari non vengono condannati, e tutti gli altri reati contano poco.

Travaglio sosteneva che questo tipo di reato era tutto una specialità dei partiti non-cinque-stelle, e in particolare dei renziani e dei berlusconiani. E adesso si trova in un bel guaio. Qui c’è la magistratura che sostiene che Grillo ha preso i soldi per dire ai suoi (cioè ai deputati e ai senatori del partito del quale era garante) di favorire la Moby Traghetti. E, secondo i Pm, i suoi deputati e senatori obbedirono, come spesso a loro capita. E su questa base i magistrati hanno ipotizzato il reato di traffico di influenze. Ora è ben vero che nessuno sa in cosa possa consistere questo reato misterioso, inventato solo allo scopo di consegnare ai Pm uno strumento per colpire i politici e gli imprenditori anche in totale assenza di episodi di corruzione; però resta il fatto che a difendere strenuamente questo reato, e ad inasprirne le pene, c’era proprio il partito di Grillo, che lo fece anche in modo rumoroso, e quando (con l’aiuto della Lega) impose al parlamento quell’obbrobrio di legge forcaiola che battezzò “spazzacorrotti”, festeggiò e festeggiò e si gloriò e insultò sanguinosamente chiunque provasse a opporsi a quella follia da sbirri. E Grillo era lì. Felice. Convinto. Contento. Era lì in bonafede.

Poi tutto tornò in pianto. E dalla nuova terra un turbo nacque… Se lo guardate oggi, Grillo, fa simpatia. Si proclama innocente, ripete le frasi che cento volte hanno ripetuto, non credute, centinaia di vittime della malagiustizia – come lui- che però, da lui, furono insolentite e infangate. Ora è lui a imitare le sue vittime. Traffico di influenze non è una cosetta. La pena può arrivare a quattro anni e mezzo di prigione. Che vuol dire addirittura tre volte la pena che Grillo a suo tempo rimediò come responsabile di un triplice omicidio colposo. Si sa che nella filosofia dei 5 Stelle omicidio e reati contro il patrimonio o la pubblica amministrazione non sono comparabili. A una persona onesta può succedere di uccidere, e passi; ma se davvero è onestà onestà non gli capiterà mai di essere sospettata di avere preso o dato dei soldi illeciti.

E così, nell’ilarità generale, Grillo è finito anche lui alla gogna. Tanto che tutti i giornali italiani, salvo uno, ieri hanno dedicato a Grillo il titolo di apertura della prima pagina. Come fanno da molti anni ogni volta che un politico prende una stangata da un sostituto procuratore allegro e baldanzoso. Salvo uno, dicevamo. Indovinate quale? Eh già, proprio lui: Il Fatto del fido Travaglio. Il quale per la prima volta nella sua storia – dieci anni di storia – ha ridimensionato la notizia e ha deciso che era una notizietta da dare in prima in un trafiletto piccolo piccolo. E questo, naturalmente ha aumentato l’ilarità generale. Perché poi è così: è giusto, quando un povero epuratore finisce epurato (Nenni aveva previsto tutto) e un fustigatore fustigato, e un savonarola savonarolato, non fare i maramaldi e difenderlo, come vanno difesi tutti quelli che finiscono sotto le manganellate dei Pm. Però, ridere un po’ è lecito. Di Grillo? Sì, certo, di Grillo, ma più ancora del suo scudiero che dirige il Fatto. Il Gaglioffo

Elvira Lucia Evangelista passa con Renzi: «M5S giustizialista con gli altri e garantista con Grillo». Il Dubbio il 20 gennaio 2022.  

La senatrice Elvira Lucia Evangelista commenta il suo passaggio con Matteo Renzi. «Il M5S con Beppe Grillo si è improvvisamente riscoperto garantista»

«Ho deciso di aderire a Italia Viva per una sofferenza che provavo dentro il Movimento a causa di una linea politica che non poteva appartenermi: la mia formazione giuridica, da avvocato, mi porta a valutare le questioni avendo come faro la Costituzione, che è garantista, non giustizialista. Il partito di Matteo Renzi non poteva quindi che essere il mio naturale approdo». Così in una nota la senatrice Elvira Lucia Evangelista, commentando la sua adesione al gruppo Italia Viva.

«Sia nel mio ruolo di membro della Giunta per le elezioni e le immunità che in quello di membro della Commissione Giustizia, ho provato più volte disagio per quella doppia morale che contraddistingue il M5S in merito alle questioni giudiziarie. Basti osservare l’atteggiamento tenuto sull’indagine che riguarda Beppe Grillo, dove improvvisamente si sono riscoperti garantisti…», conclude Evangelista.

Marino sbatte la porta in faccia a Grillo: «Inchiesta poco chiaro, me ne vado». Bernardo Marino lascia il M5S, attaccando il Movimento fondato da Beppe Grillo: «Passo al Gruppo misto, abbiamo completamente perso la bussola». Il Dubbio il 21 gennaio 2022.

Bernardo Marino, deputato che ieri ha ufficializzato il suo passaggio dal M5s al gruppo Misto, intervistato da “Il Corriere della Sera“, parla dell’inchiesta che ha coinvolto anche il garante del M5s: «Ha fatto emergere aspetti poco chiari. Io non ho mai ricevuto una pressione. Ma, senza fare polemica alcuna con i colleghi, ho deciso di fare un passo indietro: ho lasciato tutte le chat e dato l’addio al M5S».

«Nel 2018, quando sono stato eletto deputato, avevo in testa una sacrosanta missione: migliorare la qualità del servizio dei traghetti per i sardi verso la penisola – racconta il parlamentare sardo – la cosiddetta “continuità territoriale”, che proprio a causa del monopolio del servizio in mano a Onorato ci ha costretto per anni a viaggiare su vere e proprie “carrette del mare”. Avevo presentato una proposta di legge per assegnare il servizio con una gara europea, perché lo Stato erogava a Onorato 72 milioni l’anno di sovvenzioni, per avere poi un servizio disastroso. Una battaglia che purtroppo, finora, abbiamo perso».

«Per adesso passerò al gruppo Misto. Sarò anche più libero di decidere chi votare per il Quirinale. Ho deciso l’addio perché non vedo più una strada politica nel Movimento: abbiamo completamente perso la bussola. La trasformazione dei Cinque stelle non si è compiuta. Le nomine per gestire le varie aree tematiche e la riorganizzazione sui territori sono state calate dall’altro, con criteri a dir poco non chiari», conclude.

Da “Libero quotidiano” il 2 gennaio 2022.  Una beffa. I Cinquestelle che hanno appena votato, contro il loro stesso Dna, per poter ottenere i fondi del 2 per mille, rischiano comunque di non ottenere quei soldi perché il Movimento non risulta iscritto al registro nazionale dei partiti. Ricapitolando: lo scorso 30 novembre il M5S aveva chiesto ai propri iscritti di esprimersi sulla possibilità di incassare il 2 per mille attraverso le dichiarazioni dei redditi dei cittadini, in quella che era stata interpretata come una svolta per il partito, dato che a lungo era stato contrario a ogni forma di sostegno pubblico ai partiti. Gli iscritti si erano espressi a favore di questa possibilità, ma adesso una commissione del Parlamento ha stabilito che i grillini non potranno ricevere i fondi del 2 per mille, perché non iscritti al registro nazionale dei partiti come stabilito dal decreto legge numero 149 del 2013. A deciderlo è stata la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici il 23 dicembre, con una delibera in cui sono state respinte anche le richieste di altri partiti, come Coraggio Italia. L'eventualità che il Movimento 5 Stelle non potesse ricevere il 2 per mille non era però inaspettata: già il 28 novembre il Fatto Quotidiano, house organ grillino, aveva scritto che «bene che vada, il M5S potrà accedere al 2 per mille non prima del 2023». Il motivo è che ci vuole tempo. Soprattutto per svolte epocali come questa.

Beppe Grillo indagato? Nel mirino anche Luigi Di Maio: quegli incontri sospetti. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2022.

La linea politica dei Cinquestelle sta prendendo la piega più oscena: è arrivato il tempo del cannibalismo. Come le tribù della Papua Nuova Guinea, gli ultimi superstiti del Movimento iniziano a nutrirsi dei propri feriti per sopravvivere. Nessuna pietà, neppure se a terra ad agonizzare c'è una preda indigesta: il Fondatore, Beppe Grillo. Ancora prima di leggere le novità sul caso Onorato uscite ieri pomeriggio (il comico nelle chat suggeriva a ministri e parlamentari di "trattare bene" l'armatore che lo aveva messo a libro paga) sono partite le coltellate alla schiena del Garante plurindagato.

Sono stati proprio i vecchi amici del Fatto Quotidiano i primi a stroncarlo e a definirlo semplicemente "indifendibile" in un commento di Marco Lillo. Da notare: Marco Travaglio nella faida tra Conte e Grillo si è schierato con il primo, senza risparmiare bastonate al Creatore. Una simile ferocia però colpisce, da parte del giornale più vicino al partito degli Onesti. La ricostruzione del Fatto: il comico ha accettato soldi - 240mila euro in due anni dal proprietario della Moby per scrivere sul blog alcuni articoli e appoggiare le campagne di Onorato. E a prescindere dalla liceità dell'operazione resta un problema: «Se un politico si fa pagare da un armatore e perora i suoi interessi si trasforma in un lobbista».

E a spulciare i conti della Beppegrillo Srl, si scopre che la società avrebbe fatto molta più fatica a stare a galla senza questi rapporti. Insomma, il Garante s' è messo a pubblicare marchette a dir poco imbarazzanti per denaro («Vincenzo Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi», scriveva senza risparmiar saliva). A questo aggiungiamo: nell'operazione aveva coinvolto anche Di Maio, come dimostrano alcuni degli articoli: «A Febbraio ho partecipato con Luigi di Maio all'incontro con l'associazione no profit "Marittimi per il Futuro" a Torre del Greco, perché credo fortemente che i diritti dei lavoratori vengano prima di ogni cosa».

Così nelle chat dei grillini emergono altre considerazioni preoccupanti, per loro. Quanto successo rischia di gettare un'ombra su tante battaglie pentastellate. Qualcuno potrebbe mettersi a ragionare su altri innamoramenti e passioni di Beppe, per esempio quella per la Cina. La linea difensiva scelta da alcuni senatori, ovvero il tentativo di qualificare Grillo come un privato cittadino esterno al Movimento, fa sorridere. «Da quando il M5S è in Parlamento, Grillo non ha mai messo bocca neanche su mezzo emendamento», hanno scritto mercoledì i parlamentari delle commissioni Lavori Pubblici e Trasporti. Spiegare agli elettori che i grillini non c'entrano con Grillo sarà però un'impresa ardua.

La barca affonda e due parlamentari ieri hanno annunciato l'addio. Uno è il deputato Bernardo Marino, che conferma che il suo problema con i Cinquestelle è rappresentato proprio dal caso Moby: «Sono entrato in Commissione trasporti proprio per il problema della continuità territoriale e della convenzione con Onorato. Ritrovarsi in questa situazione ti lascia con l'amaro in bocca». La seconda è la senatrice Elvira Evangelista, che ha scritto un curioso messaggio d'addio: «La linea del Movimento non poteva appartenermi. La mia formazione giuridica, da avvocato, mi porta ad avere come faro la Costituzione, che non è giustizialista». L'onorevole si sarebbe accorta solo ora che i grillini non sono esattamente dei garantisti. Roba da cannibali.  

Quando Barrile, due mesi fa, viene annunciata quale prossimo Direttore Generale, la sua biografia viene accuratamente ripulita da esperienze sdrucciolevoli. Anche se la sforbiciata poi si nota. Per quale ragione sul sito di Confagricoltura sono stati sbianchettati gli anni di lavoro della prossima Dg al servizio di Vincenzo Onorato? Una cautela preventiva? Stiamo parlando di una delle figure di maggior fiducia del patron di Moby. La sensibilità del numero uno di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, d’altro canto, è sempre stata attenta al dialogo con la politica. E decisamente sintonica con i Cinque Stelle. Basti ricordare che quando il grillino Stefano Patuanelli è diventato ministro dell’Agricoltura, il tifo da stadio di Confagricoltura ha sfidato il rischio di esagerare i toni: «La persona giusta al posto giusto», aveva detto subito Giansanti. Confagricoltura segue, insieme a Coldiretti, tutte le dinamiche del mondo del tabacco in Italia, di cui Philip Morris è big player per antonomasia. A capo della comunicazione di Philip Morris è stato, anche lui fino all’aprile 2019, Francesco Luti, marito della Barrile. Eccoli, i vasi comunicanti di quella simbiosi che lega tra loro Moby e Grillo, Philip Morris e Casaleggio.

Luti oggi è capo della comunicazione di IGT, la International Game Technology, PLC (in precedenza Lottomatica Group S.p.A). Barrile e Luti hanno percorsi professionali paralleli, ed insieme hanno diretto le strategie di relazione e di comunicazione esterna di brand che nello stesso periodo hanno avuto verso la galassia di Grillo le stesse simpatie ed attenzioni, oggi finite sotto la lente degli inquirenti. Grillo, sempre secondo l’accusa, gira i messaggi di Onorato ai politici M5S che occupavano ruoli chiave come l’ex titolare dei Trasporti Danilo Toninelli, l’ex ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e l’allora suo vice Stefano Buffagni, tutti non indagati. È il Mise, ad aprile 2020, ad autorizzare i commissari straordinari di Tirrenia a sottoscrivere l’accordo con la Cin, controllata del gruppo Moby. Qualche mese dopo c’è il rinnovo della convenzione fra lo Stato e la compagnia di navigazione.

La vicenda non rimane senza conseguenze politiche e segna l’inizio di un fuggi fuggi dall’esito imprevedibile. Il deputato Bernardo Marino rilegge le notizie, mette insieme le vicende Philip Morris, Venezuela e Moby, poi apre il portatile e detta una mail al suo capogruppo: «Considerami fuori». È il primo di una nuova serie di abbandoni. «Se lascio il M5S per la vicenda Grillo? Lo faccio per una serie di motivi, l’indagine che riguarda Beppe è uno di questi ma non l’unico». Il parlamentare sardo, promotore di una proposta di legge per ‘arginare’ i progetti di Moby sulle rotte per la Sardegna, non nasconde la sua delusione: «Sono entrato in Commissione trasporti proprio con questo obiettivo, in Sardegna abbiamo sempre avuto il problema della continuità territoriale e della convenzione con Onorato. Ritrovarsi in questa situazione, in cui si parla di pressioni di questo genere da parte di una persona che ha sempre avuto il monopolio, ti lascia con l’amaro in bocca».

Anche l’ex senatrice grillina Elvira Lucia Evangelista ha fatto sapere ieri che dopo aver lasciato il M5S ha deciso di unirsi al partito di Matteo Renzi, che aumenta così anche la sua forza negoziale a Palazzo Madama. Il bello deve ancora venire. Le attività di analisi dei tabulati e delle chat sono in corso e le sorprese non mancheranno: dal telefono intestato a Annamaria Barrile – individuato tra tanti come avente interesse probatorio – si diramerebbe una fitta rete di contatti con personaggi-chiave della galassia dei finanziatori grillini. Nomi che tornano, si sommano e si intrecciano in una osmosi dentro alla quale sarà bene guardare con attenzione.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Beppe Grillo, perché fa bene ad essere preoccupato: qual è la vera tegola in arrivo sul comico. Pieremilio Sammarco, Ordinario di Diritto Comparato, su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2022

L'indagine penale nei confronti di Beppe Grillo e Davide Casaleggio porta alla luce alcune anomalie genetiche che il Movimento 5 stelle reca con sé sin dalla sua origine. Leggendo gli stralci del provvedimento emesso dalla Procura di Milano, le società dei fondatori del Movimento 5 stelle avrebbero operato una mediazione illecita «veicolata a parlamentari in carica in quanto finalizzata a orientare l'azione pubblica dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby». Oltre all'ipotizzato reato di traffico di influenze illecite a carico di Grillo, Casaleggio e Onorato, il collegamento così stretto tra le società dei due fondatori del M5s e il gruppo Moby pone al centro del dibattito anche un altro rilevante tema troppo spesso sottovalutato: quello delle nuove forme di rappresentanza e partecipazione alla vita politica da parte di società a scopo di lucro, nonché, più in particolare, sul condizionamento delle dinamiche democratiche che può derivare da soggetti estranei ai partiti ma ad essi in qualche modo collegati. 

E proprio quest' ultimo aspetto, vale a dire lo stretto legame tra partito e società di capitali è significativo, perché se intercorrono tra questi soggetti flussi finanziari, si crea un corto circuito che ha rilievo penale. La Corte di Cassazione (sentenza 28796/2020) per il caso della Fondazione Open ha precisato che vi è il reato di finanziamento illecito quando il denaro arriva al partito anche in forma indiretta, come nel caso in cui un contributo venga elargito ad una persona fisica o altro soggetto privato, quale è una società. E quando vi è una concreta simbiosi operativa tra il partito politico ed il soggetto privato (sia esso una società o una fondazione), quest' ultimo viene considerato alternativamente o un posticcio schermo intermedio tra il finanziatore ed il partito, o un'articolazione del partito politico, cioè una sua organica derivazione. Infatti, le articolazioni di un partito politico sono da intendersi non solo le strutture che un partito contempli formalmente nello statuto come propria compagine organizzativa, ma anche quegli enti, tra cui le fondazioni o società, che, a prescindere dalla loro veste giuridica, si pongono stabilmente al servizio del partito, circostanza da verificare in concreto alla luce di un'analisi delle modalità operative dell'ente, dell'attività svolta, nonché dei flussi finanziari in entrata e in uscita. E proprio per salvaguardare il principio di trasparenza patrimoniale dei partiti, la legge 195/1974 sanziona come delitto di finanziamento illecito l'erogazione di somme di denaro o di contributi (corrisposti o ricevuti) sotto qualsiasi forma, diretta o indiretta, da parte di società in favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative. E la pena della reclusione va da 6 mesi a 4 anni. Un'altra possibile tegola per Grillo e company. Pieremilio Sammarco

L'indagine su Grillo e lo scandalo 5s del tabacco. Grillo indagato: tra Moby e Philip Morris i panni sporchi si ‘lavavano’ in famiglia…Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Gennaio 2022. 

Fari accesi sui traghetti Moby: dietro al traffico di passeggeri ci sarebbe stato, secondo la Procura di Milano, un gran traffico di influenze illecite, con versamenti di denaro a Beppe Grillo e alla Casaleggio Associati (non indagata). Dazioni dalle finalità poco chiare, come quelle che altre indagini hanno evidenziato da parte di altri soggetti: Philip Morris, ad esempio. Il Riformista ha scoperto che esiste una linea di comunicazione sottocoperta che unisce, in un gioco di vasi comunicanti, Moby Spa e Philip Morris. C’è un cellulare, tra quelli sequestrati nell’ambito dell’indagine, che continua a parlare anche da spento e che ad ascoltarlo bene potrebbe portare lontano. Quello di Grillo, no. Quello non si tocca: “scotta”.

Il cellulare di Grillo non si tocca: scotta, nel senso che gli inquirenti hanno per ora deciso di non metterci mano. Un timore reverenziale? Si fa evidente la scelta della Procura, ben descritta dal Corriere: «Così come non si è azzardata a cercare chat su apparecchi di deputati 5 Stelle tutelati dalle garanzie parlamentari, ha rinunciato anche al telefonino del fondatore ed ex capo politico e poi garante dei 5 Stelle: forse per minimizzare le intrusioni nella privacy e sterilizzare le polemiche che sarebbero nate dall’acquisizione di un cellulare «sensibile», dove è ovvio che sarebbero state presenti tutta una serie di chat ad esempio sulle dinamiche interne del Movimento, sui rapporti altalenanti tra Grillo e l’ex premier Conte, sugli attuali posizionamenti dei 5 Stelle in vista del voto per il Quirinale». Un riguardo istituzionale, quindi. Malgrado ieri gli inquirenti abbiano reso note le chat: «Questo dobbiamo trattarlo bene», era il tenore dei messaggi che Beppe Grillo aveva indirizzato ai parlamentari più direttamente coinvolti nelle questioni legate alle concessioni delle tratte e alle norme sugli sgravi fiscali nel settore del trasporto marittimo.

Una indicazione che suona come un ordine, per di più impartito dal padre-padrone di un partito-azienda registrato a nome di due soci. Ma il cellulare di Beppe Grillo resta intoccabile. «Meno male, si afferma per stavolta un principio di civiltà giuridica», fa notare Matteo Renzi. Quando indagarono su Open la sensibilità dei magistrati fu ben diversa. In ogni caso qualche telefono viene analizzato. Annamaria Barrile, che per Moby Spa era responsabile delle Relazioni Esterne, subisce la perquisizione dei finanzieri e il suo cellulare viene sequestrato. La donna, 46 anni, è l’attuale vice direttore generale di Confagricoltura, dove è entrata nell’ottobre 2019, mantenendo lo stesso ruolo che rivestiva in Moby per Onorato. La confederazione degli agricoltori le aveva riservato grandi fasti, lanciato fior di comunicati sulla prima donna in posizione di vertice apicale, con una operazione di Cv washing alla carbonara.

·        Son Comunisti…

Francesco Curridori per il Giornale il 12 ottobre 2022.

I l M5S «vede» il Pd. La distanza tra i due partiti, secondo l'ultimo sondaggio Swg, è di appena mezzo punto percentuale (17,5 i dem e 17 i grillini) e, ora, Giuseppe Conte punta a diventare il leader dell'intera opposizione e strizza l'occhio alla sinistra radicale occupando le piazze pacifiste. 

L'ex premier, in più occasioni, ha promosso una manifestazione per la pace senza bandiere di partito, ma non ha ancora ufficialmente aderito a nessuna iniziativa. Enrico Letta, che probabilmente sente il fiato sul collo del M5S, è corso ai ripari organizzando per domani un sit-in davanti all'ambasciata russa. Andrea Orlando, invece, ha annunciato la sua partecipazione all'evento dell'Arci previsto per metà novembre, mentre l'ex deputato Filippo Sensi ne invoca già una terza. Un corto circuito del Pd, spaccato in tre, che potrebbe favorire Conte. 

La sinistra radicale, infatti, ha organizzato per il prossimo 22 ottobre un'assemblea «con l'intento di costituire una rete di persone che hanno provenienza di sinistra e ambientalista per definire un rapporto politico col M5S e per rafforzarne il profilo progressista», spiega l'ex parlamentare Stefano Fassina. D'altronde, l'ex premier, quando ha guidato il governo giallorosso, ha portato avanti politiche di sinistra. 

«Ha resisto alla richiesta di fare ricorso al Mes che veniva anche dalla sua maggioranza e ha promosso il blocco dei licenziamenti durante la pandemia», ricorda l'ex vicepremier all'Economia del governo Letta che aggiunge: «Ha fatto cose di sinistra anche durante il suo primo governo come il decreto dignità e il reddito di cittadinanza e, ora, ha proposto un'iniziativa per la pace e la diplomazia che nessun altro leader politico sta portando avanti».

Il verde Paolo Cento, anch' egli tra gli organizzatori dell'evento, crede che Giuseppe Conte «possa rappresentare il riferimento con cui riorganizzare un campo progressista ed ecologista, non ideologico, caratterizzata dalla protezione delle fasce sociali più deboli». 

Secondo l'ex parlamentare verde «la novità delle ultime elezioni è la fine della centralità solo del Pd e, ora, in campo, ci sono due soggetti elettoralmente equivalenti». Per il sondaggista Federico Benini è possibile che Conte sfrutti i mesi che il Pd dedicherà alla fase congressuale per lanciare la sua Opa verso la sinistra. 

«Se nei prossimi mesi gli elettori del Pd non troveranno risposte sui temi di sinistra, Conte potrà cannibalizzare ancora di più quello spazio politico», spiega il fondatore di Winpoll. Una tesi condivisa anche dal politologo Lorenzo Castellani della Luiss che azzarda: «Conte può aspirare a diventare il Melenchon italiano perché rappresenta una calamita per tutti i movimenti a sinistra del Pd, ma anche per la sinistra del Pd che continua a guardare a lui con grande interesse».

Un paragone che, per Fassina, non è fuori luogo perché le basi elettorali del M5s e dell'Unione popolare francese sono simili. Il M5s è il primo partito tra i disoccupati e i precari, mentre se la gioca alla pari con Fratelli d'Italia tra gli operai. Se il Pd continuerà ad essere «scoperto» sul fronte sinistro rischierà maggiormente di essere sorpassato da Conte e dal M5S. Anche figure come Elly Schlein potrebbero non essere adeguate al ruolo di segretaria del Pd. 

«Lei spiega Castellani - è considerata vicina alla sinistra Ztl, ambientalista e dei diritti civili incapace di sfidare Conte sui temi sociali». Se i democratici si chiudono sempre più, allora il leader del M5S può davvero prendersi la leadership del futuro centrosinistra. A tal proposito, il sondaggista Bonini, però, avverte: «Il problema principale di Conte è riuscire a sfondare nel Nord. 

Se vorrà diventare veramente un leader dovrà tirar fuori anche i temi cari al popolo del Nord e che sono mancati in campagna elettorale di Conte».

Promemoria per la Cgil. Conte abbraccia la Cgil ma non ricorda che i 5 Stelle erano nati per distruggere i sindacati…Michele Prospero su Il Riformista l'11 Ottobre 2022 

Ormai ovunque si raduni una folla è quasi certo che arriverà Conte a fare qualche selfie e stringere una mano. E però che il capo politico dei 5 Stelle si presenti nella piazza della Cgil rimane un (piccolo) avvenimento. Il non-partito fu infatti ideato da un imprenditore che modellava il partito-piattaforma come una sua cosa privata e da un comico che intendeva tagliare “i vecchi privilegi e le incrostazioni di potere del sindacato”.

Il bello della politica ridotta a pura comunicazione è che il chiacchiericcio che si presenta a flusso continuo cancella la memoria di cose appena dette. Evapora il principio di non contraddizione. E nessuno più a Corso Italia ricorda cosa sosteneva il M5S sul sindacato. Quando era ancora una esponente di rilievo dei grillini, Roberta Lombardi (che peraltro vedeva nel fascismo “un altissimo senso dello Stato e della famiglia”, una bella “dimensione nazionale di comunità”) chiedeva con determinazione l’abolizione dei sindacati, da lei dipinti come dei “grumi di potere che mercanteggiano soldi”. La convinzione profonda del non-partito in tema di relazioni industriali era così scolpita da un inequivocabile motto di Grillo: “Voglio uno Stato con le palle, eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti politici”.

La volontà di allontanare la mediazione svolta dalle confederazioni era collegata alla ripulsa della contrattazione nazionale e alla opzione per una legislazione curvata a favore della contrattazione aziendale. La “governance disintermediata” auspicata dal blog di Grillo combatteva in radice la funzione di rappresentanza dei sindacati, perché l’azienda era concepita come una omogenea dimensione di comunità nella quale non poteva entrare alcun segno di un conflitto di classe. “Classe”, che parola diabolica. Quando domenica in Tv Gianni Cuperlo l’ha evocata come concetto chiave per interpretare la tarda modernità, poco ci mancava che Rosy Bindi reagisse con il segno della croce.

Il populismo, che sta evolvendo in una salsa progressista, preferisce parlare di “diseguaglianze”, ma guai a fare come il mefistofelico Cuperlo, che osa parlare della persistenza di una organizzazione “di classe” della società. E’ più semplice per tutti i “progressisti” riempirsi la bocca con una categoria alternativa, e aconflittuale, così elastica che sembra fatta apposta per non vedere le classi come fenomeno di esclusione, precarietà, privatizzazione dei beni pubblici. Così contano solo i redditi o la residenza nelle odiate Ztl, e non resta che adottare, sulla base del modello 730, la rassicurante nozione di poveri come universo di esclusione e marginalità da aiutare con misure statali elargite a poteri sociali invariati.

Anche quando gli operai votavano in massa per Grillo o Salvini, il nemico per i populisti era la “casta” del sindacato. L’allora “capo politico” del Movimento, Di Maio, invocava “un paese competitivo” e per questo intimava: “I sindacati? O si riformano o ci pensiamo noi”. Il governo gialloverde adottava una “manovra choc” per ridurre il costo del lavoro e favorire le imprese, qualcuno proponeva anche di licenziare i dipendenti di migliaia di enti inutili. Conte era il garante di un contratto di governo che prometteva, con le parole del suo vice Di Maio, un “programma choc alla Trump: meno tasse alle imprese”, anzi “la riforma fiscale di Trump andrebbe copiata”, si faranno “grandi cose”.

Nell’80% del programma elettorale realizzato, cifra di cui Conte (che ne fu il Presidente del Consiglio “esecutore”) ancora tanto si vanta, c’è anche il reperimento delle risorse estratte dal lavoro e poi elargite a favore dei ricchi (con lo stesso reddito, il dipendente paga quasi il 45% di tasse alla fonte, l’autonomo o l’imprenditore cede solo il 15). Le risorse dirottate in maniera improduttiva dai governi della stagnazione verso i bonus o le agevolazioni fiscali non recuperano gli spazi necessari per sostenere politiche di cittadinanza. Il vero ritorno dello Stato come attore di innovazione e di inclusione sociale passa attraverso politiche industriali, il rilancio della sanità, della scuola, dei servizi, dell’amministrazione.

Da anni il Censis fotografa nei suoi rapporti una elevata propensione del voto dei ceti operai verso i sovranisti e i populisti. Agisce nelle coscienze una passione per il culto dell’uomo forte da vedere solo al comando, in una ubriacatura per le semplificazioni drastiche ordinate dal “martello del dittatore”, come direbbe Gramsci. La crisi dei soggetti della rappresentanza (politica e sociale) determina nel largo corpo elettorale suggestioni per la “velocità” eccezionale promessa dal decisore percepito come un essere baciato dal dono carismatico.

Nelle fasi critiche si assiste ai cedimenti dell’opinione pubblica, sedotta da politiche emozionali e infatuata per il richiamo delle simbologie regressive che, con le strategie eccitanti di media e “stampa gialla”, preparano “colpi di mano elettorali”. Secondo Gramsci, nelle scivolose crisi di sistema gli “organismi che possono impedire o limitare questo boom dell’opinione pubblica più che i partiti sono i sindacati professionali liberi”.

Il plebiscitario consenso operaio e popolare raccolto da movimenti che promettono meno tasse e più salari o pensioni, e contro il parlamentarismo acefalo accarezzano forme di democrazia autoritaria, chiama in causa l’eclissi della capacità rappresentativa del sindacato. La contrazione delle sue funzioni pubbliche non è meno grave nelle sue implicazioni di quella, ormai da tempo esplosa, dei partiti, incapaci di dare una efficace rappresentanza sociale a quelli che i Quaderni definiscono “i sedimenti di rabbia” che sempre affiorano nei tempi di crisi. Dinanzi allo smarrimento cognitivo di ceti sociali subalterni che si ritrovano regolarmente sedotti dalle narrazioni più inverosimili, occorrerebbe, secondo Gramsci, “un tirocinio della logica formale” per liberare le masse dalla contagiosa credulità prestata alle proposte di governo più contraddittorie (flat tax, bonus e superbonus per gli agiati). Quando in un sistema politico manca, come si esprime il pensatore sardo, “ogni movimento vertebrato”, con i soggetti del pluralismo sociale che appaiono incartati e inadeguati nella comprensione dei fenomeni di offuscamento delle coscienze collettive, il cammino trionfale del commissario antidemocratico con le sue “pose gladiatorie” diventa assai più rapido.

Incapaci di dare una efficace rappresentanza al lavoro, da un decennio i partiti e i sindacati hanno favorito, con i loro limiti culturali e cedimenti ideologico-organizzativi, le condizioni obiettive per l’insorgenza della crisi della democrazia. Nella loro indagine sulle “cause della catastrofe”, accanto alla condotta eccentrica dell’avversario, che alimenta con astuzia la fabbrica della “apoliticità irrequieta” della società civile e aggredisce la forma politica con la riduzione dei partiti a corruzione, scandalo, “casta” si direbbe oggi, i Quaderni sollevano anche la domanda circa la “immaturità delle forze progressive” che emerge dinanzi all’avanzata della soluzione carismatica.

Da dove ripartire dopo la sconfitta che registra l’esplicita disconnessione sentimentale tra le classi subalterne e i partiti e i sindacati della sinistra? Il discorso di Cuperlo, che riscopre la “classe” quale radice delle differenze che nascono nei rapporti sociali, è più convincente della predilezione di Bindi e dei nuovi “progressisti” per i poveri. Non ci sarebbero politiche per il lavoro, la crescita, per l’eguaglianza e i diritti fondamentali più sostanziali se, oltre alla dimensione del cittadino astratto, non si facesse un puntuale riferimento anche al corpo che lavora, all’asimmetria di potenza che nella produzione sussiste tra capitale e forza-lavoro, tra essere e avere. Nel suo Manuale di diritto privato anche un giurista cattolico come Pietro Rescigno avvertiva che, ancora nelle società industriali di oggi, “l’individuazione su basi classiste rimane il criterio che nella maniera più esatta spiega la rilevanza di situazioni che non sono status, ma nemmeno sono riducibili a situazioni isolate e momentanee nella vita delle persone”. La sinistra è la traduzione in un progetto politico delle differenze che nascono nei rapporti sociali, entro i quali la persona con la sua capacità e i suoi bisogni è ostacolata nella sua realizzazione dal principio organizzativo che rinvia al potere direttivo del capitale.

Nell’economia tecno-industriale moderna a base contrattuale esistono rapporti di dominio e di subordinazione che distinguono, nei poteri disponibili per i soggetti sociali, le figure del capitalista e del lavoratore. Aver rimosso le implicazioni più generali di questa realtà dello sfruttamento come potere dispositivo-organizzativo-selettivo, per cui il capitale decide in ultima istanza il senso della vita della persona, è alla genesi dei populismi di oggi. Queste manifestazioni di rivolta senza un progetto alternativo sorgono quando la sinistra e il sindacato rinunciano a politiche pubbliche e invocano una spartizione microcorporativa di bonus. Con la sottrazione di risorse già scarse alla fiscalità generale, i “progressisti” dimenticano il carattere costruttivo (di libertà e di diritti) del conflitto, possibile anche dentro l’universo della frantumazione e scomposizione dei produttori, delle figure sociali che ci si illude di unificare con un selfie. Michele Prospero

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 5 ottobre 2022.

Era un vecchio pallino di Giuseppe Conte, l'idea di una manifestazione «per la pace». Ne parlava quando il M5S ancora teneva un piede dentro e uno fuori dal governo. Prima della crisi, prima delle elezioni. Nel giorno del compleanno del M5S (13 candeline) l'ex premier cita San Francesco e rilancia l'idea. E fa breccia nell'ex campo largo: da Nicola Fratoianni a frange della sinistra Pd e dei cattolici dem. 

Tanti concordano, con diverse sfumature. Il leader stellato ripropone l'idea della piazza pacifista dalle colonne del quotidiano dei vescovi, Avvenire.

Il timing non è casuale: lo fa nel giorno in cui il ministro della Difesa uscente, Lorenzo Guerini, illustra al Copasir il quinto decreto sulle armi all'Ucraina. L'ex presidente del Consiglio pizzica le stesse corde della scorsa estate. «L'ossessione di una ipotetica vittoria militare sulla Russia - dice - non vale il rischio di un'escalation con ricorso all'utilizzo di armi nucleari e di affrontare una severa depressione economica da cui sarà difficile uscire». 

Dunque secondo il presidente del Movimento urge «una manifestazione, senza bandiere». Critica il decreto con cui Zelensky sospende i negoziati con la Russia. E si mette in scia alle richieste che giungono da più parti, dai territori, dal mondo cattolico. «La manifestazione - è convinto - rafforzerebbe il protagonismo dell'Italia sulla strada della diplomazia, coinvolgendo gli altri partner Ue e uscendo da questa situazione in cui l'Europa risulta non pervenuta».

Una data non c'è. Nemmeno una location, anche se probabilmente sarebbe Roma. Eppure la proposta trova consensi. Il primo endorsement, via tweet, arriva da Luigi de Magistris, capofila di Unione popolare. Si accoda Rifondazione comunista. Ma le aperture non arrivano solo dal fronte extraparlamentare, a sinistra del M5S. Al partito di Nicola Fratoianni l'idea piace. «Quando ci sono manifestazioni per la pace ci siamo sempre, purché non siano iniziative di parte», mette a verbale Elisabetta Piccolotti, della segreteria di Sinistra Italiana. «Per noi va sempre bene andare in piazza per la pace», commenta Arturo Scotto, coordinatore di Articolo 1, il partito di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza. 

Anche nel Pd si aprono spiragli.

Dice Laura Boldrini: «Ci sarò». Per l'ex presidente della Camera, «si sente la mancanza di una mobilitazione per la pace. Va rilanciata l'azione diplomatica ad alto livello, anche se Putin è un guerrafondaio. E il Pd deve esserci, non va lasciato un vuoto». Soprattutto se poi c'è il M5S a riempirlo. Per Gianni Cuperlo «qualsiasi manifestazione per la pace è auspicabile, anche se va confermato il nostro sostegno all'Ucraina. Ma il Papa non può essere lasciato da solo». 

L'ex ministro Graziano Delrio, esponente di punta dei cattolici dem, non ha dubbi: in piazza ci andrebbe di sicuro. «Sostegno alla pace e al negoziato sempre. Per questo abbiamo appoggiato gli sforzi di Draghi e Macron. E abbiamo sostenuto come gruppo Pd la manifestazione a Kiev del Movimento europeo azione nonviolenta». Altri, al Nazareno e dintorni, sono decisamente più freddi. Inquadrano la mossa come l'ennesima Opa a sinistra dei 5 Stelle. Non solo la corrente Base riformista di Guerini, che appoggia Stefano Bonaccini. «Ovviamente siamo tutti per la pace ragiona Matteo Orfini - E le manifestazioni per la pace sono sempre una cosa buona e giusta. Quanto a Conte, abbiamo avuto idee molto diverse su come la si costruisce. Consideravo le sue posizioni sul tema ambigue e discutibili. E non ho cambiato idea».

Estratto dell’articolo di Fabrizio D’Esposito per il Fatto Quotidiano il 5 ottobre 2022.

Massimo D'Alema è in partenza per l'Albania. "Collaboro con quel governo". A dicembre, poi, andrà in Messico e di lì in Brasile, dove incontrerà Lula a San Paolo. "Spero vincitore (il ballottaggio è il 30 ottobre, ndr). Mi ha detto: 'Comunque ci abbracceremo sia che vinca sia che perda'. Io sono andato a trovarlo da presidente ma anche in carcere. In fondo, sono un vecchio comunista". Presidente parliamo dell'Italia. "Già l'Italia". 

La destra ha vinto.

La destra ha preso 12 milioni di voti, gli stessi del 2018, con una forte concentrazione in FdI: un balzo in avanti compensato dal dimezzamento degli alleati. È un risultato sconvolgente, perché la maggioranza parlamentare poggia su un consenso espresso dal 28% dell'elettorato, in termini assoluti. (…)

I dirigenti del Pd hanno pensato che la fine di Draghi provocasse un'ondata popolare nel Paese, travolgesse Conte e portasse il Pd, la forza più leale a Draghi, a essere il primo partito. Io non so che rapporti abbiano i dirigenti del Pd con la società italiana. Mi domando persino dove prendano il caffè la mattina, perché il risultato ha detto esattamente l'opposto. La scena del voto è stata dominata dai due leader che hanno contrastato Draghi. La tecnocrazia evoca sempre il populismo e la vicenda Monti avrebbe dovuto vaccinare il Pd. 

La rottura con il M5S è stata irreversibile.

Un confronto era obbligatorio.

Bisognava fare punto e a capo.

Il Pd ha seguito il piffero magico dell'establishment e dei suoi giornali. Il problema è che le élite economiche e culturali del Paese, quelle che leggono i giornali, non hanno più rapporti con la realtà. Sa che mi hanno detto alcuni vecchi compagni comunisti? Questo: "Votiamo Conte perché i grandi giornali ne parlano male". 

Tutto torna. Però è saltata anche l'alleanza con Calenda e Renzi.

In questo Letta è stato fortunato. Quest' alleanza avrebbe portato Conte al 20 per cento.

Ma era una coalizione riformista.

Riformismo è ormai una parola talmente ambigua da essere diventata impronunciabile.

Detto da lei, presidente.

Il riformismo era imbrigliare il capitalismo sulla base delle esigenze sociali, un processo di graduale trasformazione in senso democratico. 

E oggi?

È imbrigliare le questioni sociali sulla base delle esigenze del capitalismo globale. 

Definizione formidabile. Alla fine Conte e i 5S sono stati la sinistra.

Vorrei ricordare che i 5S già all'inizio della legislatura avevano scelto il Pd come partner naturale, ma ci fu il diniego dell'allora leader del Pd (Renzi, ndr). Conte ha rifondato e ricollocato i 5S e il Pd ha bisogno di lui perché non intercetta più il voto popolare.

Legga qua (un'analisi dei flussi di Swg, ndr): tra chi ha difficoltà economiche il 29% ha votato Meloni, il 23 il M5S e il 14 il Pd. Il risultato dei 5S è 8 punti sopra la loro media nazionale, quello del Pd 5 sotto. Il voto dei poveri, degli operai si è polarizzato tra la destra e i 5S, il Pd ne prende davvero pochi. Ora bisogna ricomporre il campo largo e fare un lavoro profondo per riguadagnare la passione di chi non vota più. Sapendo che c'è una coalizione democratica e di centrosinistra potenzialmente maggioranza. 

Lei consiglia Conte?

Mi capita di sentire Conte, ma io non faccio più politica attiva. È un uomo che ascolta e valuta e ha anche un tratto di grande civiltà personale. Per esempio se viene a sapere che stai male ti chiama e ti chiede: "Come stai?". Qualità rara oggi. 

Il Pd è un partito morto?

Non ho la passione per il rito delle autocritiche e non sono più iscritto al Pd. Il centrosinistra sarebbe molto più forte se avessimo avuto un partito socialista e un altro di sinistra cattolica. (…) Le sembra normale che in campagna elettorale una forza di sinistra non abbia mai pronunciato la parola pace?

Paolo Bracalini per “il Giornale” il 5 maggio 2022.

La nuova direzione politica dei grillini si capisce anche dai nomi messi in cattedra da Conte per la scuola di formazione del Movimento Cinque Stelle (non si può sempre avere la fortuna di scovare per caso talenti politici quali Paola Taverna, Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Virginia Raggi, meglio formarseli in casa). 

L'avvocato foggiano, consigliato da Rocco Casalino e dagli altri strateghi che lo circondano, ha capito che l'unico spazio per il M5s è a sinistra, d'altronde è l'area in cui è nato il movimento di Beppe Grillo, dunque un tentativo di tornare alle origini (e alle percentuali del passato).

Ecco infatti la svolta pacifista contro le armi, i nuovi veti contro i termovalorizzatori, le posizioni che lisciano il pelo all'elettorato anti-americano anti-Nato. Mancava però una scuola di partito, come hanno i partiti tradizionali, quelli che il M5s voleva seppellire («siete morti!» gridava Grillo ai parlamentari degli altri), salvo poi buttare nella spazzatura tutti i principi originari e trasformarsi in un partito con gli eletti inamovibili e ricandidabili, le auto blu, il finanziamento pubblico, la lottizzazione delle poltrone pubbliche, e appunto una scuola di formazione.

Questa inizierà in autunno, a coordinarla c'è l'ex sindaca di Torino Chiara Appendino, congedata senza onore dagli elettori torinesi (M5s all'8%) e che quindi, forte di questi successi, si occuperà della formazione della nuova classe dirigente grillina. Insegneranno i parlamentari M5s, gli ex ministri, gli eletti a vario titolo.

Ma Conte ha voluto mettere in campo un po' di nomi prestigiosi per un ciclo di lezioni preparatorie. Quasi tutti nomi, appunto, riconducibili alla cultura di sinistra, la direzione a cui guarda Conte per recuperare un po' dei molti voti persi dai grillini.

Tra i docenti c'è Domenico De Masi, il sociologo partenopeo già assessore di Bassolino a Napoli e già consulente del M5s (a pagamento, lui che teorizza il lavoro gratis come soluzione alla disoccupazione). Poi c'è la politologa Nadia Urbinati, membro del comitato di indirizzo della Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema; quindi ecco Gustavo Zagrebelsky, insigne costituzionalista sempre presente negli appelli degli intellettuali contro i governi di centrodestra.

Non poteva mancare Tomaso Montanari, critico d'arte di area sinistra radical-grillina-pacifista, secondo cui il ricordo delle foibe è «revanscismo fascista». Poi ci sono Daniele Lorenzi, presidente dell'Arci, Vanessa Pallucchi numero due di Legambiente, poi Pasquale Tridico, economista organico al M5s che l'ha piazzato all'Inps.

Poi, di area centrosinistra, ci sono Vincenzo Visco, ex ministro Ds, Andrea Riccardi fondatore della comunità di Sant'Egidio (candidato di Letta al Quirinale), l'ex ministro Pd Fabrizio Barca, il fondatore di Slow Food Carlo Petrini, più qualche ospite straniero tra cui il politologo Colin Crouch, teorico delle postdemocrazie e Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia (nel 2013 Grillo disse che aveva contribuito a scrivere il programma del M5s, ma poi Stiglitz fece sapere che era una balla).

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2022.

«Guai a chiamarle Frattocchie pentastellate», in memoria della scuola per i dirigenti comunisti. Eppure ecco un altro tassello che dimostra quanto il Movimento si stia strutturando come un vero e proprio partito, anche se i protagonisti, ovviamente, lo negano. E ribadiscono, come spiega un deputato, che «la scuola di formazione ha come obiettivo quello di rinnovare la classe dirigente». 

Così alle sette di sera inizia un altro step del nuovo corso dell'era Conte, con la prima di dieci lezioni destinate ai dirigenti del M5S. I posti nell'«aula» di Piazza di Pietra, nel cuore di Roma, sono 70. E il format ricorda proprio quello di un'aula universitaria.

Da una parte i docenti: il teologo Vito Mancuso e il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. Dall'altra gli allievi. Luca Carabetta, prima legislatura nel M5S, professione ingegnere: «Non le chiamerei Frattocchie. Semmai è un percorso necessario per noi. Sarà occasione di confronto con esperti sulle principali sfide del futuro, con un focus su economia, lavoro, diritti, transizione digitale ed ecologica». 

Gianfranco Di Sarno, altro pentastellato al primo giro a Montecitorio, è già in modalità allievo: «Stimola riflessioni su importanti tematiche. Non la vedo come uno strumento negativo». Si scorgono diversi partecipanti con penna e taccuino. Giuseppe Conte si è definito «il primo degli allievi» e si accomoda in prima fila.

«In questo laboratorio lavoreremo e studieremo insieme, miglioreremo le nostre conoscenze e cureremo i nostri percorsi di crescita. Anche da presidente del Consiglio ho sempre continuato a studiare. Tutti i dossier che mi sono arrivati hanno richiesto impegno, competenza, ci mancherebbe... Sarebbe stato fortemente irresponsabile limitarsi all'imposizione delle mani». 

Al fianco dell'ex premier c'è il presidente della Camera Roberto Fico che poco prima di entrare si dice contento che «oggi si inauguri la scuola di formazione del Movimento, anche perché dobbiamo affrontare tematiche complesse».

Nelle prime file ci sono il capogruppo Davide Crippa, la presidente dei senatori Maria Domenica Castellone. E ancora: Riccardo Ricciardi, Gilda Sportiello, Giuseppe Brescia, Michele Gubitosa. Insomma, c'è tutto lo stato maggiore. Il comandamento è: «Ascoltare e imparare». Si parte. Il titolo della prima lezione è: «Etica e Politica». 

Apre i lavori Miriam Mirolla, professoressa di psicologia dell'Arte all'Accademia delle Belle Arti, che presenta Mancuso e Zagrebelsky, i docenti della prima lezione. A Mancuso il compito di spiegare il rapporto tra etica e politica attraverso la filosofia. Zagrebelsky, invece, si sofferma sull'Europa, la guerra, e i compiti della politica. «La politica - osserva - non è il luogo per cui semplicemente si galleggia. Chi solo galleggia è un'opportunista, uno che non merita di essere creduto, né tantomeno sostenuto».

A questo punto qualcuno rumoreggia e Zagreblesky si rivolge scherzosamente a Fico: «Signor Presidente, mantenga l'ordine». Quanto al conflitto in corso fra Russia e Ucraina, Zagrebelsky mette in fila due concetti utili ad ingraziarsi gli allievi pentastellati. «La ricerca della pace è il più politico fra gli obiettivi del politico». 

E ancora: «L'Europa ha senso se si differenzia». Spazio alle domande, anche se saranno solo due. Chiude Conte: «L'Unione Europea deve farsi sentire, non può identificarsi nell'Alleanza euro-atlantica». «Sono emersi tanti spunti» dirà un deputato. E un altro sorride: «Altro che uno vale uno...».

·        Beppe Grillo.

Estratto dell'articolo di Davide Milosa e Marco Franchi per “il Fatto quotidiano” il 17 novembre 2022.

Per l'armatore Vincenzo Onorato, gli sgravi fiscali rispetto a chi sui traghetti assume personale comunitario è battaglia di sopravvivenza. Il tema riguarda buona parte dell'inchiesta della Procura di Milano, che da gennaio indaga Onorato e Beppe Grillo per traffico illecito di influenze. 

Il reato, per i pm, nasce da un contratto biennale (240 mila euro) fino al 2019 tra la società del blog del fondatore del M5S e Onorato. Contratto "fittizio" e che secondo i pm rappresenterebbe il pagamento per i favori che sarebbero stati fatti da Grillo che, assecondando i desiderata di Onorato, ha allertato i suoi parlamentari (nessuno di loro è indagato).

L'inchiesta, alle battute finali, si basa anche su una catena di chat di 60 pagine tra Grillo e Onorato già contenuta negli atti dell'indagine fiorentina sulla fondazione Open riferibile all'ex premier Matteo Renzi. Fin dal 2016, il tema sgravi fiscali sta a cuore a Grillo. Il 28 luglio invia a Onorato la risposta ritenuta poco incisiva che l'allora ministro dell'Economia Padoan dà al question time dell'onorevole 5S Carla Ruocco.

E commenta: "Le facce di cazzo rispondono così". E ancora: "Così impari a dare mille euro per cena a bimbominchia". Il primo agosto Grillo gira a Onorato un appunto del vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio: "Come promesso sono qui ad aggiornarla in merito alla sua segnalazione. Noi continueremo a vigilare affinché il tutto si svolga nel migliore dei modi. Luigi Di Maio". Il 22 novembre 2017 è Onorato che scrive a Grillo: "Visto emendamento respinto, grazie". 

Grillo: "Sono figli di puttana dobbiamo andare a governare". Nello stesso giorno, Grillo propone a Onorato la sua presenza alla manifestazione dei marittimi a Torre del Greco: "Veniamo io e Di Maio. Senza dire che ci sentiamo ok?".

[…] Il 19 luglio con Di Maio vicepremier e doppio ministro, Sviluppo economico e Lavoro, Onorato torna alla carica con Grillo: "Il decreto Dignità non si applica al settore marittimo (). Se si applicasse () 50.000 posti di lavoro. Mi dicono che a Luigi sia arrivata una proposta in questo senso. Spero non si sia persa nei corridoi dei palazzi". Due mesi dopo, il 19 settembre, Onorato torna sul tema: "Caro Comandante, non ti voglio stressare (...) mi fai incontrare Luigi?". Grillo: "Mi informo". 

La questione marittimi atterra anche sul tavolo dell'allora ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Il 12 giugno 2019 Grillo a Onorato: "Ho convinto Toninelli a occuparsi della questione a Bruxelles". E inoltra una chat del ministro: "Eccoci Beppe. Ciò che mi chiedi è già avviato. Unico dubbio è di natura politica. Onorato è amico e finanziatore di Renzi. Siamo sicuri di volerci muovere?".

Grillo: "Toninelli scrive, io ho risposto di andare avanti a Bruxelles". Onorato: "Toninelli, mi sembra che ragioni come il Pd dove hanno prevalso gli interessi delle lobby". Alla fine Onorato il 2 luglio scrive: "Con Toninelli è andata benissimo". E però il 30 luglio: "Il ministero da gennaio non ci paga più la sovvenzione (a Tirrenia, ndr). Ci devono 62 milioni! Toninelli è circondato da Giuda".

Grillo: "Ho attivato Luigi e Toninelli vediamo". Poche ore dopo, l'ex comico inoltra a Onorato una chat di Toninelli: "Prima di ferragosto la mia direzione paga. Il problema è che c'è pendenza di fronte all'Antitrust. Comunque dovrei aver risolto". 

Sempre Grillo: "Tony Nelly. Dai che non muori scornacchiato, paganooo, non trattarmi male Toninelli dai". E Onorato: "A me lui è piaciuto". La conferma arriva il 9 agosto con Onorato che scrive: "Hanno pagato".  […]

Da open.online il 17 novembre 2022.

Il fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo è indagato a Milano per traffico di influenze illecite. Nell’inchiesta ci sono i contratti pubblicitari che la compagnia di navigazione Moby di Vincenzo Onorato con il suo blog. Un accordo che prevedeva, per il 2018/2019, un compenso di 120 mila euro l’anno. E commissionava alla risorsa online di Grillo uno spot mensile con messaggi pubblicitari, contenuti redazionali e interviste a «testimonial» della Moby da far uscire anche sui social. L’inchiesta si basa anche su 60 pagine di chat tra Grillo e Onorato acquisite agli atti perché contenuti nell’indagine sulla Fondazione Open. E oggi Il Fatto Quotidiano racconta cosa c’è nelle carte.

Il 28 luglio Grillo invia a Onorato la replica dell’allora ministro dell’Economia Padoan a Carla Ruocco. E commenta: «Le facce di cazzo rispondono così». Poi: «Così impari a dare mille euro per cena a bimbominchia». Il primo agosto sempre Grillo gira un appunto di Luigi Di Maio: «Come promesso sono qui ad aggiornarla in merito alla sua segnalazione. Noi continueremo a vigilare affinché il tutto si svolga nel migliore dei modi». Successivamente Onorato ringrazia per un emendamento e Grillo replica: «Sono figli di puttana, dobbiamo andare a governare».

Il 12 giugno 2019 Grillo torna a scrivere a Onorato: «Ho convinto Toninelli a occuparsi della questione a Bruxelles». Toninelli fa notare che Onorato è amico e finanziatore di Renzi: «Siamo sicuri di volerci muovere?». Grillo fa sapere di aver risposto di andare avanti a Bruxelles. E Onorato: «Toninelli, mi sembra che ragioni come il Pd dove hanno prevalso gli interessi delle lobby». Poi cambia idea e fa sapere a Grillo che l’incontro con Toninelli è andato benissimo. Il 30 luglio c’è uno stop: il ministero non paga più la sovvenzione. La risposta di Grillo: «Ho attivato Luigi e Toninelli, vediamo». Poche ore dopo inoltra a Onorato una chat proprio di Toninelli: «Prima di ferragosto la mia direzione paga. Il problema è che c’è pendenza di fronte all’Antitrust. Comunque dovrei aver risolto». 

Il traffico di influenze

Il 9 agosto effettivamente il ministero paga. Mentre Toninelli ha annunciato di aver fatto causa a chi ha scritto che lui ha cercato di favorire il rinnovo delle concessioni di Moby. A settembre Grillo invia il contatto di Marcello Minenna per un problema che Onorato non spiega nel dettaglio. Il 24 ottobre sempre Onorato chiede a Grillo di intervenire su Unicredit che gli impedisce la vendita di due navi. Grillo gli invia il contatto di Stefano Patuanelli, allora ministro dello Sviluppo Economico. I due si sentono in alcune occasioni. Patuanelli spiega al Fatto: «Grillo mi chiamò per incontrare Onorato. Rispetto a questo mi sono interessato solo della amministrazione straordinaria come per altri casi».

La fine solitaria di Grillo: ora il burattinaio è un vecchio comico. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.

Addio alla modestia trasformata in valore, basta con i parlamentari come marionette. Il 74enne fondatore del Movimento Cinque Stelle non è più circondato da folle di fotografi e giornalisti quando scende a Roma

E Beppe Grillo, in tutto questo? Beppone, dove sei andato a ficcarti? Che finale triste e solitario, anche se il titolo originale del bellissimo libro di Osvaldo Soriano era Triste, solitario y final, con Philip Marlowe che, a Los Angeles, indagava sulle ragioni del declino di due comici meravigliosi come Stan Laurel e Oliver Hardy, cioè Stanlio e Ollio. Noi cronisti, qui a Roma, alla fine ce ne siamo invece un po’ fregati di Grillo. L’ultima volta che il comico genovese è sceso l’abbiamo trattato come uno Scilipoti qualsiasi. Nelle riunioni dei giornali: ah, sì, certo, poi ci sarebbe pure Grillo che incontra i gruppi parlamentari. Dove? Boh. Vabbé: ma ci mandiamo qualcuno a seguirlo o buttiamo dentro un paio di agenzie?

Così, in un pomeriggio di sole autunnale, solo un paio di annoiati fotografi appostati sotto l’hotel Forum, albergo a 5 stelle in tutti i sensi, dove invece per anni ci furono tonnare micidiali, tutti ad aspettare di veder salire in processione la sua corte dei miracoli (il povero Di Battista con i basettoni da piacione e la camicia di fuori, Di Maio -porca miseria - vestito addirittura da ministro degli Esteri, e poi gli altri, da Crimi a Fico, dalla Taverna a Bonafede). Capitava si affacciassero pure dalla suite del capo con terrazza vista sui Fori per farci, un po’ sprezzanti, ciao con la mano. Poi scendevano tronfi, in stato di ebbrezza politica, con lui avanti, una volta persino nascosto dentro un casco da astronauta, la visiera appannata, ma aveva ancora fiato per urlarci «giornalisti schifosi, cadaveri, fantasmi, piattole della società, lombrichi!».

Noi gli ridevamo in faccia perché la fine pareva ormai inevitabile. Era solo un’avventura di pericoloso populismo, la feroce eresia dell’uno vale uno, la modestia trasformata in valore, centinaia di parlamentari grillini trattati come marionette e umiliati da un burattinaio prima arrogante, poi distratto e incattivito dai guai giudiziari di famiglia.

Tutti sappiamo che Giuseppe Conte, per abilità insospettata e anche purissimo caso, lo scorso 25 settembre gli ha portato via il giocattolo inventato con quell’altro visionario di Gianroberto Casaleggio. E ora? Se vi resta voglia di Grillo, dovete andarvelo a cercare in qualche teatro. Troverete un vecchio comico, con un noioso repertorio.

Matteo Marcelli per “Avvenire” il 3 novembre 2022.

È possibile dimezzare l'utilizzo di beni e risorse assicurando energia sufficiente al nostro fabbisogno e lavorando la metà di quanto facciamo adesso? Per Beppe Grillo sì, basta praticare un po' di "parsimonia", nuova parola d'ordine del lessico pentastellato inaugurata ieri dal garante sul suo blog. Al centro del rinnovato manifesto grillino per il 2050, la parsimonia sarebbe la chiave attraverso cui ripensare l'attuale modello di produzione e realizzare una transizione equa e sostenibile entro la metà del secolo. 

Come? È lo stesso Grillo a spiegarlo: «Il segreto per arrivare felici al 2050 senza stravolgere il benessere e il pianeta è la virtù della parsimonia. A Genova la pratichiamo da secoli - scherza l'ex comico -. La parsimonia è "l'arte della giusta misura nell'uso dei beni". 

Con un po' d'intelligenza tecnologica possiamo preservare sia il benessere sia il pianeta se dimezziamo l'uso di energia, di materiali e di tempo di lavoro, ossia l'uso dei tre principali fattori che creano il benessere, ma anche pesano sulla natura. Non dobbiamo essere così maldisposti al progresso da pensare che le moderne tecnologie e i comportamenti oculati non ci permettano di dimezzare il nostro peso sulla natura».

Una visione plasmata a partire da riferimenti culturali come « Platone e Sant' Agostino», che però, spiega Grillo, «la chiamano temperanza, la prima virtù cardinale. La parsimonia, invece, è un peccato mortale nella società usa-e-getta». 

Per essere più concreti, il fondatore del M5s chiede esplicitamente che «il governo realizzi un piano trentennale per dimezzare l'uso di energia primaria da 4000 a 2000 watt in media per abitante». Questo perché «il benessere che abbiamo raggiunto può essere mantenuto o aumentato anche con la potenza media di soli 2000 watt per abitante, se usiamo tecnologie più efficienti e se adottiamo comportamenti più oculati». 

Un'idea che Grillo sostiene di aver preso in prestito da ricercatori svizzeri, i cui studi dimostrano come si possa vivere con quel limite energetico in modo soddisfacente, grazie a stili di vita più sostenibili e tecnologie adeguate. A dimezzarsi, però, non sarebbe soltanto l'energia ma anche il lavoro, «perché lavorare troppo fa male al "pianeta esterno" e al "pianeta interno"».

Riparare, riciclare, riusare sono i verbi che ricorrono più spesso nel post, nella convinzione che la strada maestra per preservare il pianeta più a lungo possibile sia l'economia circolare. Non mancano gli esempi da cui trarre ispirazione, come «il tram "ATM 1928" che circola ormai da un secolo» ed «è in servizio a Milano dal 1928». Tra l'altro con un «costo ecologico ed economico di ogni chilogrammo dei suoi materiali diviso per il numero di passeggeri trasportati in un secolo quasi irrisorio». 

Oppure «i taxi di Londra» che «circolano per mezzo secolo». Seguono poi altre indicazioni, come la manutenzione della propria automobile o la sostituzione dei soli colletti per il riutilizzo delle camicie. Parole a parte, è chiaro che si tratta di un nuovo capitolo del processo di ritorno al passato inaugurato con la campagna elettorale e confermato anche dalle parole di Giuseppe Conte. Il valore politico è l'imprimatur del garante alla strategia attuata dallo stesso presidente pentastellato, che solo la settimana scorsa, non a caso, è intervenuto all'incontro di Coordinamento 2050, la piattaforma di dialogo con il Movimento proposta dalla sinistra ecologista.

"Manifesto della parsimonia". Grillo vuole ancora la decrescita felice. Dimezzare l'energia, i materiali, il lavoro: il comico teorizza la propria idea di progresso sostenibile. Ma il "manifesto" è un mix di ambientalismo, contraddizioni e ricette no-global. Marco Leardi su Il Giornale il 3 Novembre 2022. 

"Il segreto per arrivare felici al 2050 è la virtù della parsimonia. A Genova la pratichiamo da secoli". Beppe Grillo è tornato a fare il guru. A vestire i panni del visionario con la soluzione pronta in tasca. Dopo aver indicato la linea politica ai parlamentari pentastellati, il comico ligure è salito di nuovo in cattedra e ha stilato un manifesto per esprimere la propria idea di progresso sostenibile. Lo ho ha fatto dalle pagine del suo blog, pubblicando una dissertazione sotto sotto riconducibile a un vecchio tarlo grillino: quello della decrescita felice.

Il "manifesto della parsimonia"

Dopo aver citato Platone e Sant'Agostino, forse per dare un tono a quella sua prolusione, Beppe ha iniziato a elencare i punti del proprio "Manifesto della parsimonia per il 2050". "È ora che la politica pensi in mezzi secoli! Non in mezze legislature", ha esordito, avanzando così l'auspicio di una politica abituata a ragionare a lungo termine. Peccato che i Cinque Stelle siano tra i più strenui oppositori del presidenzialismo, che secondo illustri giuristi (come Sabino Cassese) sarebbe utile proprio alla stabilità dei governi e dunque a un'ottica di una progettualità. E peccato pure che, in tempi non sospetti, siano stati proprio i pentastellati a innescare le turbolenze dalle quali è poi scaturita l'implosione del governo Draghi, con la fine anticipata della legislatura.

L'ecologismo di facciata

"Per fermare la Grande Accelerazione del degrado del pianeta dobbiamo coltivare una civiltà della parsimonia", ha ancora teorizzato Grillo, spiegando: "Con un po' d'intelligenza tecnologica possiamo preservare sia il benessere sia il pianeta se dimezziamo l’uso di energia, di materiali e di tempo di lavoro, ossia l'uso dei tre principali fattori che creano il benessere, ma anche pesano sulla natura". Da qui, un mix proposte ispirate ai dettami dell'ambientalismo e dell'ecologismo di facciata. "Il governo realizzi un piano trentennale per dimezzare l’uso di energia primaria da una potenza di 4000 a una di 2000 watt in media per abitante. Il benessere che abbiamo raggiunto può essere mantenuto o aumentato anche con la potenza media di soli 2000 watt per abitante", ha deliberato il comico genovese.

"Rivoltiamo i colletti delle camicie"

E di nuovo, sempre rivolgendosi all'esecutivo, il fondatore del Movimento ha chiesto "un piano trentennale per dimezzare gradualmente entro il 2050 l’uso di materiali dalle attuali 40 tonnellate pro capite a meno di 20". Ridurre, risparmiare, produrre di meno: ma simili teorie non ricordano l'utopistico e fallimentare miraggio della decrescita felice? "Raddoppiare la durata di un'automobile vuol dire dimezzare il numero di automobili costruite. Vuol dire spendere più soldi nella manodopera locale di manutenzione che non nei robot, nei materiali e nell’energia importati", ha proseguito Grillo, strizzando l'occhio a certi mantra del mondo no-global. Non poteva poi mancare il vecchio consiglio della nonna, rivisitato il chiave ideologica: "Invece di buttare via le camicie quando il solo colletto è usurato, dobbiamo tornare a far rivoltare o a cambiare i colletti, come abbiamo fatto per secoli. E dobbiamo poter fare riparare molte altre cose, non solo le camicie, con vantaggio ecologico, economico e per la manodopera e la finanza locali".

"Lavorare meno": le ideologie e la realtà

A proposito di riciclo, Grillo ha poi riproposto una sua vecchia ricetta: quella del lavorare meno. "Il governo realizzi un piano per dimezzare gradualmente e a tappe il tempo dedicato in una vita al lavoro retribuito dalle 70.000 ore attuali a 35.000 ore. Perché? Perché lavorare troppo fa male al 'pianeta esterno' e al 'pianeta interno'", ha scritto il comico, talmente visionario da aver forse perso di vista l'attualissimo tema della disoccupazione in Italia. Del resto, come si fa a lavorare meno quando il lavoro non c'è o è già di per sé precario? Tanta retorica, tante elucubrazioni; poi dietro l'angolo ecco spuntare la realtà.

Il fondatore incontra i parlamentari nella Capitale. Grillo incontra i parlamentari 5S e batte cassa: “Il mio contratto di consulenza non si tocca”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Beppe Grillo è ripartito ieri sera da Roma dove era venuto ad incontrare Giuseppe Conte e – quel che più aveva a cuore – i nuovi gruppi parlamentari. Curiosamente, la sua visita nella Capitale coincide con il più grande evento della lobby del tabacco. Ma andiamo con ordine: la 24 ore romana del Garante è trascorsa tra l’hotel Forum e Montecitorio. A cena con Conte, a quanto si apprende, gli avrebbe fatto capire che sull’accordo per i 300 mila euro annui dai Gruppi, a tanto ammonta la sua consulenza di comunicazione strategica, non è disposto a rinunciare. E anzi, ieri ha voluto marcare il territorio e stringere le mani dei deputati e dei senatori.

Uno a uno. “Chiamami”, “Sentiamoci”, “Scrivimi un messaggio, la sera li leggo”, dice loro. Si fa fotografare con ciascuno. Promette attenzione a tutti. Ristabilisce con i suoi parlamentari, sotto allo sguardo corrucciato di Conte, quel rapporto confidenziale che aveva avuto con i deputati (che allora si chiamavano “portavoce”) della legislatura trascorsa. I toni sono da battaglia, nel giorno della fiducia al Senato. Ma si capisce che quella tra Grillo e Conte è solo una tregua armata. Se l’avvocato del popolo vuole intestarsi l’opposizione più dura, il fondatore sembra più orientato a riconquistare il ruolo del comico mattatore. E infatti tiene a far sapere che riprenderà presto la tournée nei teatri. È sempre lui il capo del Movimento, e Grillo lo fa capire ai giornalisti senza lesinare le battute (“Volete una dichiarazione? Ecco l’Iban…”) ma l’accenno a un ragionamento lo concede, alla fine dei suoi incontri: «Se il governo dura, il Movimento può crescere sempre di più».

Grillo viene visto aggirarsi in via di Campo Marzio, dove avrebbe preso possesso per un giorno anche della sede nazionale del partito, altro tema tabù per il Movimento delle origini. A poche decine di metri, al Tempio di Adriano, una delle nomine dell’età dell’oro grillina, Marcello Minenna, presenta il libro blu dei Monopoli di Stato. È la grande convention che il mondo del tabacco aspettava. Cade solo per un caso nello stesso giorno in cui Beppe Grillo attraversa quella stessa piazza. Dei rapporti tra Philip Morris e Casaleggio abbiamo scritto per primi, due anni fa. E ieri, sempre per una coincidenza della sorte, abbiamo visto allineati i vertici di Philip Morris Italia, British American Tobacco e Japan Tobacco International nel giorno in cui l’Agenzia dei Monopoli di Minenna chiede e ottiene per il mondo del tabacco una deroga di peso. Da oggi infatti i tabaccai sono esonerati dall’obbligo di utilizzo del Pos per le transazioni che riguardano l’acquisto di prodotti da fumo: sigarette, sigari e prodotti da tabacco riscaldato possono essere venduti sempre in contanti senza incorrere in sanzioni.

Si tratta dell’unica eccezione oggi esistente alla nuova legge sul pagamento elettronico. E guarda caso, con l’insediamento del nuovo governo, ecco che il mondo del tabacco “presenta la forza”: scende a suo modo in piazza, nella piazza antistante Montecitorio. Questo incontro del “libro Blu” di Minenna si tinge di giallo. Era circolata infatti una locandina, nelle scorse settimane, con cui si invitava a partecipare a una tavola rotonda dei Monopoli in cui c’era, insieme con il presidente di Confesercenti e quello della Federazione Tabaccai, il solo Ad di Philip Morris, Marco Hannappel. Le polemiche non devono essersi fatte attendere, in materia di abuso di posizione dominante: a pochi giorni dall’evento il panel è stato cambiato in tutta fretta ed è diventato un più corale confronto tra gli attori del mercato.

Gli argomenti di chi vende tabacco non sono fumosi: le accise da regolare, le modalità di vendita dei prodotti, l’occhio opportunamente chiuso sul contante sono istanze che arrivano chiare e tonde agli interlocutori della politica. Quelli di ieri e quelli di oggi, tutti presenti nelle commissioni che decidono. E che stanno per insediarsi. È sul terreno degli interessi particolari di questo o quel settore che potrebbero verificarsi, alla prova dei fatti, convergenze insperate, perfino imprevedibili, per non scontentare troppo il mondo delle grandi aziende, delle multinazionali e delle lobby. Hannappel, Pmi, rivendica: «Noi siamo tra i grandi investitori in Italia. La nostra fabbrica esporta in 40 paesi nel mondo e impiega 35 mila persone. Le dogane lavorano con noi con una presenza in azienda giornaliera».

Ed ecco Giuseppe Conte, ieri: «L’atteggiamento serio e responsabile di chi vuole governare il Paese sarebbe quello di lavorare insieme, noi per primi, per migliorare le politiche del reddito». Poi però torna a interpretare il nuovo ruolo: «La nostra opposizione sarà implacabile», ruggisce. Ma ecco che sull’uso del contante, sulle deroghe al Pos nelle tabaccherie, si apre una stagione di intese tra destra e grillini. I parlamentari ai quali ha appena parlato il Garante, capiscono l’antifona. Quando Grillo riparte, il messaggio che lascia ai suoi è chiaro. È tornato per riprendersi il Movimento, o meglio per rendere chiaro a tutti la sua titolarità del marchio. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Da lastampa.it l'1 ottobre 2022.

Confermata la condanna in appello per il comico Beppe Grillo. La terza sezione penale della Corta d’Appello di Bari ha condannato il fondatore del Movimento 5 Stelle per diffamazione aggravata nei confronti della ex parlamentare barese del Pd Cinzia Capano. Le ragioni del dibattere sono le dichiarazioni pronunciate da Grillo durante una puntata della trasmissione Anno Zero andata in onda il 9 giugno 2011. In primo grado Grillo era stato assolto. 

In quella trasmissione Grillo parlò dell’assenza della parlamentare barese in aula in occasione del voto sulla proposta di accorpare nell’Election day il referendum sull'acqua pubblica a quello del voto per le elezioni amministrative del maggio 2011, accusando Capano (e gli altri parlamentari del Pd assenti) in sostanza di avere volutamente fatto fallire l’accorpamento per boicottare la consultazione popolare a vantaggio delle lobby della privatizzazione dell’acqua. 

Il giorno del voto, il 16 marzo 2011, Capano spiegò di essere stata assente perché ricoverata d’urgenza in ospedale a causa di un malore. Da lì la decisione di denunciare il leader comico genovese. A Grillo è stata comminata la pena del risarcimento economico del danno da definire in sede civile oltre al pagamento delle spese processuali. 

Diffamò la parlamentare barese del Pd Cinzia Capano: Beppe Grillo condannato. La accusò in tv insieme ad altri parlamentari di avere volutamente fatto fallire l’accorpamento per boicottare la consultazione popolare a vantaggio delle lobbies della privatizzazione dell’acqua. Redazione online su La Gazzetta del mezzogiorno l'01 Ottobre 2022

La terza sezione penale della Corte d’Appello di Bari ha condannato Beppe Grillo per diffamazione aggravata nei confronti della ex parlamentare barese del Pd Cinzia Capano per alcune dichiarazioni fatte dal fondatore del M5s durante la trasmissione 'Anno Zero' del 9 giugno 2011. In primo grado Grillo era stato assolto.

In quella trasmissione Grillo parlò dell’assenza della parlamentare barese in aula in occasione del voto sulla proposta di accorpare nell’Election day il referendum sull'acqua pubblica a quello amministrativo del maggio 2011, accusando Capano (e gli altri parlamentari del Pd assenti) in sostanza di avere volutamente fatto fallire l’accorpamento per boicottare la consultazione popolare a vantaggio delle lobbies della privatizzazione dell’acqua. Il giorno del voto, il 16 marzo 2011, Capano spiegò di essere stata assente perchè ricoverata d’urgenza in ospedale a causa di un malore e querelò il leader M5S. Grillo è stato condannato al risarcimento del danno da definire in sede civile e a rifondere le spese processuali.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 10 agosto 2022.

Erano in 339, erano giovani e forti e sono (politicamente) morti. O comunque non si sentono granché bene perché, a distanza di soli quattro anni dallo sbarco trionfale in Parlamento, il Movimento si è sfasciato, è esploso in mille frammenti, con il pianeta più importante che resiste ancora, sotto il dominio post-populista e «laburista» di Giuseppe Conte, ma ormai acefalo di buona parte della classe dirigente storica. 

Tutt' intorno, satelliti impazziti e polvere di stelle che hanno brillato per pochi anni, risucchiate fuori dall'atmosfera terrestre. Il parallelo con l'impresa tentata da Carlo Pisacane nel 1857, che da Sapri provò a innescare il processo rivoluzionario in tutto il Meridione, può sembrare azzardato, ma provare ad aprire come una scatoletta di tonno il Parlamento era già una piccola rivoluzione.

Fallita, visto che il Movimento aveva grandi prospettive palingenetiche per l'Italia e si ritrova ridotto ai minimi termini (10 per cento nei sondaggi), con alle spalle una grave sconfitta alle amministrative, una scissione dolorosa e l'idolo delle folle Alessandro «Attila» Di Battista che, chiuso nel non luogo di un'auto parcheggiata, lancia strali contro Di Maio «ducetto», contro il «sinistro» Fico e perfino contro l'«elevato», l'uomo che l'ha creato e che ha abbracciato mille volte in lacrime sul palco. Quel Beppe Grillo diventato «padre padrone», una divinità iraconda, modello Crono, che divora i suoi figli.

Ricostruire l'albero genealogico di un Movimento che non c'è più mette i brividi. In principio erano Grillo con Gianroberto Casaleggio, scomparso nel 2016. La successione con Davide, come spesso accade in queste vicende dinastiche, non ha funzionato. Tanto che l'informatico se n'è andato a giugno, sbattendo la porta: «Mio padre non riconoscerebbe questo Movimento». Sotto i due fondatori, brillavano le stelle di Di Maio e Di Battista.

Coppia perfetta perché complementare: l'incravattato con un grande futuro da democristiano e lo scamiciato, barricadero ma allergico alla pugna. Ora il primo ha fondato «Insieme per l'Italia», coccola il Pd, che accusava di orrori inenarrabili, tratta con il partito animalista per raggiungere il 3 per cento e viene chiamato da Grillo «Giggino 'a cartelletta» («aspetta di essere archiviato in qualche ministero»). Il secondo, reduce dalla Russia, prosegue in un fuoco sempre meno amico e spara veleno contro i poltronari che hanno il sedere «flaccido come la loro etica».

Poi c'era la «classe dirigente» del Movimento. Una combriccola molto eterogenea, che ci ha fatto compagnia per anni. La mannaia del tetto del secondo mandato, fatta calare da un irremovibile Beppe Grillo, ha annientato molti di loro. Il «padano» Stefano Buffagni, gran tessitore di rapporti nell'imprenditoria del nord, tornerà a fare il commercialista. L'«orsacchiotto» Vito Crimi, rimasto abbarbicato al suo ruolo di capo pro tempore per un'eternità, sarà probabilmente costretto a tornare a fare l'assistente giudiziario. E Paola Taverna? Dal suo monolocale di Torre Maura ancora lavora alla campagna elettorale, dice che si «sentirà a lungo l'eco delle mie urla» in Parlamento, ma presto potrebbe vedersi avverare il celebre sfogo di Tor Sapienza: «Io nun so' politica».

Roberto Fico prepara gli scatoloni, anche se difficilmente tornerà a commerciare in tappeti orientali, dopo Montecitorio. Danilo Toninelli non si vedrà più in Parlamento, con i pettorali a mettere a dura prova la tenuta delle camicie: lo troverete a torso nudo, mentre fa jogging lungo le sponde del Tevere, o su TikTok, dove si è trasferito a tempo pieno per fare l'influencer (14 mila follower, non male, ma deve vedersela con Khaby Lame che ne ha 142 milioni). Addio a Carlo Sibilia, che considerava «una farsa» lo sbarco sulla luna.

E ancora, a Fabiana Dadone, Davide Crippa, Federico D'Incà, Nunzia Catalfo, Riccardo Fraccaro. Perfino Alfonso Bonafede, l'avvocato che andò a pescare un ignoto Giuseppe Conte: perfidia della sorte, è stato fatto fuori proprio dal suo pupillo.

Tutti a casa, tutti disarcionati per volere di Crono-Grillo, nel nome del dilettantismo in politica (ancora l'altro giorno Conte se n'è vantato: «Non siamo professionisti della politica»). Un'ecatombe.

Tutti «zombie», inchiodati come farfalle morte nell'album digitale del loro creatore. Altri si erano già persi per strada. Il filosofo calabrese Nicola Morra, che è ancora incollato alla poltrona dell'Antimafia. Paolo Bernini, complottista e animalista, che licenziò l'assistente, colpevole di non essere vegano. Il funambolico Gianluigi Paragone, no vax e no euro, che alle elezioni potrebbe superare il 3 per cento con la sua Italexit.

Grillo l'aveva già detto nel 2012, durante il «massacrotour»: «Il futuro del Movimento è sciogliersi». Futuro vicino: qualcuno pensa che il fondatore da un momento all'altro potrebbe andarsene, portandosi via la palla e il simbolo. Ingenuità: da poco ha firmato un contratto come consulente e riceve 300 mila euro dal Movimento. La dissipatio grillina è quasi compiuta, anche se nel Paese non si è dissolto l'humus del populismo. Ci sono ancora gli scontenti, i frustrati, i malpagati. La società del rancore è ancora qui. Solo che troverà altri sfoghi, altre vie di fuga. Di Battista e Raggi, dicono, sono pronti a riprendersi il Movimento, dopo le elezioni. Bisogna vedere cosa ne resterà.

Lorenzo D' Albergo per “la Repubblica” il 10 agosto 2022.

Secondo Domenico De Masi, sociologo d'area 5S e amico di vecchia data di Beppe Grillo, non ci sono dubbi: «Il Movimento è stato dato per morto quando ha preso il 33%, figurarsi ora che è dato a poco più del 10. Gli addii di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? La parabola del partito è ancora lunga. Ne riparleremo tra qualche anno». 

Professore, ora però c'è la fuga dei leader. È un fatto.

«Tutti i partiti nascono come movimenti. Ma non tutti riescono a compiere il salto. Guardate le Sardine. Il M5S è arrivato a conquistare un terzo dei voti. Il Pci di Berlinguer ci mise più tempo. Il Psi di Craxi non ci è mai riuscito».

I protagonisti di quel successo non ci sono più. Alessandro Di Battista pare intenzionato a lanciare una nuova creatura politica con Davide Casaleggio.

«Il padre, Gianroberto, era un visionario. Il figlio è più una reliquia che un ideologo. Non mi pare che abbia scritto nulla di rilevante. Per lanciare un nuovo movimento servono grandi visionari, eroi e delinquenti. Non ne vedo in Italia. Poi, per carità... massima stima per Di Battista e Davide Casaleggio. Ma non mi pare che possano ripetere la storia del Movimento 5 Stelle».

Insomma, non vede un nuovo Grillo nei paraggi?

«Lui e Gianroberto hanno tradotto in ironia la rabbia che un tempo avrebbe prodotto una rivoluzione. Penso all'epoca delle Brigate rosse e credo che Grillo abbia salvato l'Italia da un'ondata di violenza». 

Per Di Battista, Grillo è uno di cui non ci si può fidare più. Un «padre padrone». Per il M5S è ancora un fattore positivo o una zavorra?

«Sono un sociologo, lavoro da esterno e cerco di capire quello che succede. Grillo sarà cacciato? Può accadere. Tutti i movimenti si sono liberati dei loro padri fondatori.

Vale anche per il cristianesimo originario e per i suoi valori. A un certo punto la fase della predisposizione al martirio si è esaurita». 

E quello di Luigi Di Maio cos' è? Un martirio politico? Una fuga? Un tradimento? «Tradimento è un parolone. Lo ha usato anche Grillo. Quando due si sposano, le preferenze alla lunga possono cambiare. Di Maio è diventato presidente della Camera da ragazzino e prima ancora vendeva bibite allo stadio. Da ministro degli Esteri ha incontrato il presidente degli Stati Uniti, ha ricevuto i capi di mezzo globo. Ha appreso una visione del mondo diversa».

Come?

«Prima parlava tre volte al giorno con Grillo, poi ha iniziato a passare 12 ore al giorno a contatto con Mario Draghi. A 35 anni, davanti a un cambiamento così grosso, si può restare per sempre della stessa idea? No. L'evoluzione è stata repentina, altrimenti Di Maio non avrebbe mai abiurato i valori del 5S nel suo messaggio di addio al Movimento». 

E lei? Si candiderà?

«Ho 84 anni e sono stato io a elaborare il concetto di "ozio creativo". Se dovessi mettermi a lavorare per 10 ore al giorno nelle commissioni parlamentari, rinuncerei a tante cose strepitose. Preferisco tenere bassi i consumi».

Sostenibilità ambientale.

«Esatto». 

Giuseppe Conte non le ha chiesto di correre?

«Sì, certo. Ma gli ho spiegato i miei motivi e li ha capiti». 

Grillo padre padrone del M5S, Conte un maggiordomo. E gli zombie sfilano. Sul blog del fondatore l'album degli zombie con le figurine dei fuoriusciti. Tra i ripescati c'è la Raggi. Sì alle "Parlamentarie", la Dieni lascia. D'Incà e Crippa fondano "Ambiente 2050". CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud il 02 Agosto 2022

Il fondatore è il nuovo padre padrone del Movimento. Pubblica le fotine dei fuoriusciti mettendoli alla berlina e definendoli zombie. Una figurina sull’album come per i calciatori.  Tratta Giuseppe Conte alla stregua di un maggiordomo. Lo convoca, o sconvoca, gli nega il nome accanto al simbolo ma gli concede la mancia: il recupero in extremis di qualche veterano tanto per non farlo sentire completamente isolato. Una deroga ad personam tanto per riaffermare che in casa-Grillo le regole si fanno per aggirarle, sono uguali per tutti “salvo- eccezioni”.

Dalla linea dura sul tetto dei due mandati si passa così alla linea possibilista.   Frutto del pressing del Comitato di garanzia composto dal presidente della Camera Roberto Fico, dal questore del Senato  Laura Bottici e all’ex sindaca di Roma Virginia Raggi. L’ex comico cede su alcuni punti ma punta i piedi sulle “Parlamentarie”: entro oggi si conosceranno le regole.

Grillo potrebbe sui capilista lasciando al suo sottoposto Giuseppe Conte la possibilità di indicarli. In alcuni casi si potrebbe anche derogare al principio di territorialità. Un mantra grillino, la regola per cui ci si candida nella propria regione di residenza.  Norma mai messa in discussione prima di ora, voluta dal cofondatore Roberto Casaleggio, norma che se applicata avrebbe tagliato fuori gli ultimi  big.

VIA LIBERA PER DIBBA

Il via libera del garante genovese darebbe a Conte la possibilità di indicare  i nomi da mettere ai primi posti nei listini proporzionali. Di conseguenza le “Parlamentarie” si farebbero ma con il sistema misto. Proprio come chiede l’ex premier.

Nessuna deroga invece per il “disiscritto” Alessandro Di Battista: la regola dei 6 mesi di pre-iscrizione al Movimento non figura nel nuovo statuto ma nei regolamenti elettorali, dunque è bypassabile. Ma qui la questione è un’altra. E molto dipenderà dai rapporti tra “Giuseppi” e “Dibba”.  Con il primo che teme di finire in un secondo cono d’ombra. Servo di due padroni, come Arlecchino.

Non è un mistero che Giuseppe Conte avrebbe voluto inserire il suo nome nel logo, convinto che in questo modo avrebbe capitalizzato il consenso ricevuto nei mesi in cui da Palazzo Chigi gestì la prima ondata del Covid. Ma il tempo stringe.

Entro giovedì prossimo al massimo si dovrà chiudere la partita delle liste.  Consiglio nazionale e Comitato di garanzia spingono per imporre, come si diceva, capilista scelti dall’alto e il resto dei candidati approvati da una consultazione su SkyVote.

LASCIA IL M5S FEDERICA DIENI, VICEPRESIDENTE DEL COPASIR

Non bastassero i problemi, ecco anche le noie di carattere tecnico: vanno   eliminati dal database coloro che in queste settimane hanno lasciato il partito. L’ultima in ordine di apparizione è  Federica Dieni, deputata M5s e vicepresidente del Copasir.

«È da tempo che le decisioni che vengono prese dai vertici – ha spiegato la sua scelta la Dieni – non mi appartengono più. Erano ormai troppe le scelte non condivise a cui mi sono attenuta per mera disciplina di partito, ma che hanno determinato in me un profondo disagio interiore e uno scollamento rispetto ad un progetto in cui non posso riconoscermi. Chi ha seguito la mia azione politica – ha proseguito – sa che non ho mai nascosto il mio disaccordo riguardo a molti temi cruciali che hanno toccato questioni importanti in ambito nazionale e locale. Ho condotto le mie battaglie a viso aperto. Ho tentato, dall’interno del Movimento, di portare avanti un confronto costruttivo, ma ogni volta che ho intrapreso la via del dialogo ho trovato solo un muro». Conte non ha molti margini di trattativa. Grillo è legalmente proprietario del simbolo.

D’INCÀ E CRIPPA FONDANO AMBIENTE 2050 E VANNO CON IL PD

Un altro simbolo, di una nuova associazione politica denominata Ambiente 2050 verrà presentato oggi dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà e l’ex capogruppo alla Camera Davide Crippa,  entrambi in rotta per la scelta di non dare la fiducia al governo Draghi.

Troveranno un posto nelle liste del Pd. «Che vadano liberi, in pace, a cercarsi una nuova collocazione ma non ci rompano le scatole – ha reagito, irritato e sempre più solo Conte – ma ci risparmino le lacrime di coccodrillo, le giustificazioni ipocrite, le prediche farisaiche”.

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Alessandro Sallusti contro Beppe Grillo, "risposte cretine a domande intelligenti": sì alla pace, no al suicidio. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 27 aprile 2022.

Durante i dibattiti cui partecipo, spesso sento dire agli interlocutori che la pensano diversamente da me una frase che sta diventando un mantra: «Ma insomma, sarà possibile o no porsi delle domande?». Certo che è possibile, anzi porsi domande non solo è utile ma necessario. E infatti le mie contestazioni alle loro tesi non riguardano le domande bensì le risposte che si danno, il più delle volte strampalate, retoriche o banali teorie di buoni propositi. Per esempio la domanda che ieri si è posto Beppe Grillo su come evitare la Terza Guerra mondiale è ovviamente legittima. Ma se la risposta che lui dà è: «Disarmiamoci, aboliamo i nostri eserciti come ha fatto il Costa Rica», ecco che la tragedia assume i contorni della farsa e non penso proprio che questo sia il momento di sparare castronerie.

La ricetta di Grillo è vecchia come il mondo, addirittura ci aveva pensato il buon Dio - ben prima dell'apparire dei Cinque Stelle - quando in uno slancio di malriposta fiducia nelle sue creature collocò il primo uomo, Adamo, e la prima donna, Eva, nel giardino dell'Eden perché l'umanità vivesse in armonia con se stessa e con la natura. Non aveva, il Creatore, previsto che Eva avrebbe mangiato la mela proibita e quindi la storia dell'uomo andò diversamente. Disarmare l'Italia, l'Europa, o addirittura il mondo intero, è una idea geniale che però non tiene conto del peccato originale, quindi è una stupidaggine da comico in là con gli anni. I Cinque Stelle del resto sono specialisti a dare risposte cretine a domande intelligenti. Tipo individuare nella "decrescita felice" la soluzione per le ingiustizie sociali, o nel "reddito di cittadinanza" la ricetta economica per abbattere la disoccupazione, nel "no oleodotti" la risposta immediata all'inquinamento, nel "no vaccini" l'arma per vincere la pandemia Covid. "Come mettere fine alla guerra?" è una domanda necessaria, merita risposte forti e immediate che non possono però essere rese o rinunce unilaterali né fondate sui ricatti e sulle menzogne. In attesa quindi che l'umanità rinsavisca teniamoci i nostri eserciti che non si sa mai cosa ci riserva il domani: la storia dell'uomo è disseminata di serpenti.

Grillo il Cinese. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 28 aprile 2022.  

Beppe Grillo si è schierato, finalmente. Non per la Russia, come immaginava qualche anima semplice, ma direttamente per la Cina. Da vero visionario, ha saltato i passaggi intermedi della Storia per gettarsi subito tra le braccia del futuro padrone, lubrificando il proprio blog con un soffietto imbarazzante sulle meraviglie del «pacifico» modello di globalizzazione cinese. Da contrapporre, s’ intende, a quello guerrafondaio dei sulfurei occidentali che hanno invaso l’Ucraina per interposto russo, così da poter sparare addosso ai russi per interposto ucraino. Purtroppo, il mancato apritore di scatolette di tonno, riciclatosi in collezionista di ecoballe cinesi, è già stato smentito dalla realtà. I suoi pacifici modelli di efficienza hanno sbagliato completamente strategia sul contenimento del Covid e hanno dovuto riconoscere che il loro vaccino era persino più scalcagnato dello Sputnik. Perciò adesso stanno sperimentando a Shanghai una forma piuttosto estensiva di green pass: sigillano i cittadini dentro le case, mettendo i recinti intorno agli edifici, oppure li costringono a dormire direttamente in fabbrica. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano certi intellettuali nostrani, giustamente sensibili alle ragioni della libertà. Quanto al Grillo folgorato sulla via della Seta, l’unica motivazione plausibile è l’invidia per il collega ucraino. Da quando gli hanno spiegato che l’ex comico Zelensky è il fantoccio di Biden, muore dalla voglia di diventare quello di Xi Jinping.

M5S, non solo Petrocelli: il vergognoso post di Grillo. Orlando Sacchelli il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Nel suo blog Beppe Grillo torna sugli scenari geopolitici e conferma una linea filo Pechino: "La Repubblica popolare cinese sembra fornirci un approccio unico ed efficace per costruire la pace". Il post è stato scritto dal professor Fabio Massimo Parenti, che insegna alla China Foreign Affairs University di Pechino.  

Nel pieno di una grave crisi internazionale e di una guerra sanguinosa, con un paese (la Russia) che ne ha invaso un altro (l'Ucraina), la politica italiana purtroppo ancora una volta si distingue per alcune prese di posizione a dir poco bizzarre, per non dire imbarazzanti. Vito Petrocelli (M5S), presidente della Commissione Esteri del Senato, alla vigilia del 25 aprile ha pensato bene di scrivere questa frase: "Buona festa della LiberaZione". L'uso della Z maiuscola non è stata una svista, il senatore ha voluto strizzare l'occhio alla Z con cui i russi hanno deciso di firmare i propri carri armati spediti in gran numero sul territorio ucraino. Il Movimento 5 Stelle ha messo alla porta il senatore, come chiesto a gran voce da Di Maio e ribadito da Conte. Anche se non sono mancate le polemiche.

Ma ad agitare ancora di più le acque è il fondatore del M5S, Beppe Grillo. Sul suo blog cita Xi Jinping e, di fatto, esalta il modello cinese. Ecco cosa ha scritto Fabio Massimo Parenti, Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University di Pechino: "La Repubblica popolare cinese sembra fornirci un approccio unico ed efficace per costruire la pace, agendo per la stabilizzazione dei rapporti internazionali". Prima dell'articolo viene riportata una frase pronunciata da Jinping lo scorso 21 aprile: "I paesi di tutto il mondo sono come i passeggeri a bordo della stessa nave che condividono lo stesso destino. Affinché la nave resista alla tempesta e salpi verso un futuro radioso, tutti i passeggeri devono lavorare insieme. L'idea di buttare qualcuno fuori bordo è semplicemente non accettabile".

Non stupisce questa sviolinata di Grillo a Pechino. Cerca un faro che illumini il suo cammino, e dato che non crede nell'Europa né tantomeno negli Stati Uniti - e per ovvie ragioni contingenti non può abbracciare Putin (salvo la sparata di Petrocelli) - Grillo strizza l'occhio alla Cina. Non è la prima volta che il fondatore del M5S diffonde le tesi del prof. Parenti, ospitandolo sul proprio blog e rilanciandolo sui social. Per trovare la pace è indispensabile la Cina, spiega Parenti: "L'Occidente non sta investendo in piani per l'integrazione, ma sta scegliendo la corsa al riarmo, che può e deve essere assolutamente fermata". A imporre la pace, quindi, può essere solo la Cina. Senza entrare troppo nei dettagli e trascurando che la Cina è il maggior alleato di Mosca e non solo: di recente, infatti, Pechino ha avviato un potente piano di riarmo nucleare. Sempre in nome della pace. Se a farlo è l'Occidente è perché è intrinsecamente guerrafondaio, se invece è Pechino va tutto bene.

Un tempo, nei suoi show, Grillo sfasciava i computer, poi giustamente ne capì l'importanza e se ne servì per creare la sua rete e fare politica. È solo uno degli esempi dei ripensamenti del "fondatore". Del resto nella vita si può cambiare idea. Lui l'ha fatto varie volte, anche nella scelta degli alleati: mai con questo (e poi ci è andato al governo), mai con quest'altro (e giù un altro governo). Il Gattopardiano "bisogna cambiare tutto affinché nulla cambi" non l'ha inventato certo Grillo, questo si sa.

Magari un giorno si renderà conto di cosa è davvero la Cina e di come i valori dell'Occidente, tanto bistrattati, siano ancora oggi migliori di quelli di un regime liberticida che nega all'uomo il diritto stesso di pensare ed essere contro chi detiene il potere. Lo stesso "fenomeno Grillo", figlio dei "Vaffa" sparati ad alzo zero, in Cina non sarebbe mai esistito né avrebbe mai potuto durare così a lungo. Lo sanno bene quelli che ricordano Piazza Tien an Men.

Fabio Massimo Parenti  per beppegrillo.it il 27 aprile 2022.  

 “I paesi di tutto il mondo sono come i passeggeri a bordo della stessa nave che condividono lo stesso destino. Affinché la nave resista alla tempesta e salpi verso un futuro radioso, tutti i passeggeri devono lavorare insieme. L’idea di buttare qualcuno fuori bordo è semplicemente non accettabile” – Xi Jinping, 21 aprile 2022, Hainan 

Dopo un colpo ben assestato da due anni di pandemia, il mondo è ripiombato in un baratro di crisi e sfide globali simultanee. Dalla competizione geopolitica alla crisi economica, fino allo stravolgimento climatico. 

Si cerca la pace, si vuole a tutti costi la pace, ma la lancetta dell’orologio sembra essere sempre ferma sulle stesse vecchie convinzioni.

Non abbiamo altra strada se non impegnarci ogni giorno nella costruzione dell’unità del genere umano nel pieno rispetto della diversità dei popoli. L’unico obiettivo da perseguire è unire l’umanità in tutte le sue diversità. Al riguardo, la Repubblica popolare cinese sembra fornirci un approccio unico ed efficace per costruire la pace, agendo per la stabilizzazione dei rapporti internazionali. Spogliandoci dalla nostra autoreferenzialità eurocentrica, potremmo allora prendere in prestito le linee guida della politica estera di Beijing: uscire dalla logica dei blocchi, rifiutare le pratiche da nuova guerra fredda e mettere al centro il multilateralismo, il dialogo e la cooperazione. 

La Cina, con l’estensione delle nuove vie della seta a più di 140 paesi, è divenuta la principale promotrice di una globalizzazione inclusiva ed il primo polo economico mondiale senza mai indulgere ad espansione militare, guerre di invasione, strategie di “blocco”, imposizione di modelli. La pace si costruisce con gli scambi culturali, il dialogo e il commercio. Più quest’ultimo cresce, più ci saranno scambi tra persone – i vettori culturali per eccellenza – più aumenterà la conoscenza reciproca e quindi il coordinamento politico necessario alla coesistenza pacifica.

Purtroppo, l’Occidente non sta investendo in piani per l’integrazione tra popoli, paesi, economie, ma sta scegliendo la corsa al riarmo, che può e dev’essere assolutamente fermata. 

I paesi di vecchia industrializzazione teorizzano e praticano la de-globalizzazione, sulla scia degli interessi geostrategici anglosassoni ed in antitesi a quelli europei e mediterranei: separazione e fratturazione del continente euroasiatico – dove non a caso sono occorse tutte le principali guerre degli ultimi decenni – al fine di rivendicare un predominio egemonico globale, erososi ma non esauritosi del tutto. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, con le guerre commerciali, a suon di sanzioni unilaterali ed arbitrarie, perché motivate da calcolo politico-strategico e pertanto contrarie ai princìpi dei regimi commerciali e finanziari da loro stessi costruiti. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, con innumerevoli guerre di invasione, guerre per procura, cambiamenti di regime (cioè, colpi di stato), ecc. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, aizzando minoranze, gruppi di estremisti, terroristi, usati alla bisogna.

Non controllando più la globalizzazione, i “nostri capi” preferiscono smantellarla, operando a discapito della de-escalation in Ucraina ed a danno dei civili, lanciando invettive, moniti ed insulti, tra uno slogan ed un altro. E’ chiaro che questo non sia un atteggiamento costruttivo, soprattutto in un momento che richiederebbe ben altri toni, approcci, capacità d’analisi e visione strategica nell’interesse dei popoli. 

Ciò premesso, proviamo ad inquadrare il ruolo della Cina nell’attuale crisi e l’inevitabile dialettica con gli Usa. Dopo averla quotidianamente dileggiata e provocata su qualsiasi questione internazionale ed interna, all’improvviso, molti in Occidente hanno invocato la Cina affinché svolgesse un ruolo nelle drammatiche vicende europee. Generali, analisti, giornalisti e, come detto, gli stessi Usa. Questi ultimi vorrebbero che la Cina contribuisse ad isolare la Russia, mentre favoriscono la “sirianizzazione” del conflitto in Ucraina, spingendo l’Europa sull’orlo del baratro, attraverso un’escalation sanzionatoria che tocca più noi che loro. Se la Germania e la Francia, forse, cominciano a prendere le distanze, è un segno chiaro degli errori che stiamo compiendo.

Negli ultimi settant’anni il rapporto statunitense verso Cina e Russia è stato caratterizzato da una continua alternanza tra l’uno e l’altro paese al fine di isolare l’uno o l’altro. Se nella guerra fredda gli Usa avevano portato la Cina dalla loro parte (con il duo Kissinger-Nixon), contribuendo ad isolare l’URSS, in seguito essi hanno tentato di integrare la Russia nell’orbita NATO (tra fine anni Novanta e primi anni Duemila), questa volta tentando di isolare una Cina in ascesa. Le previsioni sono state tuttavia errate e le manovre strategiche ritardatarie e mal concepite. Cina e Russia si sono avvicinate sempre di più negli ultimi venti anni. 

Gli Usa erano convinti che la Cina sarebbe andata incontro a problemi interni e che comunque avrebbe trasformato il proprio sistema politico-economico, emulandoci. Le previsioni sono state tutte fallaci e ciò che speravano non è accaduto, anzi, al contrario, la Cina ha rafforzato il proprio status economico-politico al livello mondiale, perseverando sulla strada di un modello di sviluppo autoctono di socialismo di mercato, seguendo la logica della doppia circolazione, ovverosia la combinazione dialettica tra integrazione internazionale e sviluppo domestico.

L’obiettivo degli Usa è quello di separare l’Europa dalla Russia, dandogli modo di rinvigorire la loro influenza sul vecchio continente ed acquisire più spazio di manovra in Asia. “La gara militare americana con la Cina nel Pacifico definirà il ventunesimo secolo. E la Cina sarà un avversario più formidabile di quanto lo sia mai stata la Russia”, asseriva diciassette anni fa Robert D. Kaplan (si vedano How We Would Fight China, 2005, e The One-Sided War of Ideas With China, 2021). A questo punto è possibile ipotizzare che gli Usa possano dedicarsi ulteriormente alla destabilizzazione della Cina. Almeno a parole Biden dice di non cercarla, ma viste le azioni di segno opposto messe in campo dagli Usa negli ultimi decenni, la Cina non riesce a fidarsi. Come sintetizzato da una famosa conduttrice televisiva cinese, Liu Xin, sembrerebbe che gli Usa stiano chiedendo alla Cina: “Puoi aiutarmi a combattere il tuo amico in modo che più tardi io possa concentrarmi a combatterti?”

A partire da questa contestualizzazione è possibile capire sia la persistenza delle principali contraddizioni nei rapporti tra le prime potenze economiche del mondo, sia il ruolo della Cina sulla questione ucraina. La Cina continua a suggerire di lavorare insieme per ricostruire un regime di sicurezza regionale sostenibile in Europa e nel mondo (è di questi giorni anche la proposta di una “Iniziativa sulla Sicurezza Globale”, centrata sul dialogo, la consultazione costante ed aderente ai principi della carta dell’Onu). Quindi, da questo punto di vista, la Repubblica popolare è in linea totale con quella che dovrebbe essere la priorità dell’Europa, dei suoi popoli. 

La Cina sta giocando un ruolo di relativa equidistanza e non seguirà ciecamente quel mondo “liberal-democratico” che ogni santo giorno l’ha aspramente criticata e provocata per la gestione dei suoi affari interni ed internazionali. Non c’è una soluzione facile, veloce ed a buon mercato alla risoluzione di problemi storico-politici e geostrategici accumulatisi nel tempo. In questo contesto la proposta cinese sembra essere la più equilibrata ed in linea con un approccio pacifico alle relazioni internazionali, perché tiene conto degli interessi di tutte le parti coinvolte, dando forma ad un pragmatismo orientato alla pace, più ampio, responsabile e non manicheo.

In ultima istanza, la Cina continuerà a rafforzare l’amicizia di ferro con la Russia, traendone eventualmente vantaggio a medio-breve termine, per motivi economici ed energetici, ma non potrebbe mai accettare una destabilizzazione del vicino russo, come Washington auspica, ovvero un cambio di regime. Oltre ad inviare aiuti umanitari, la Cina sta rispondendo in modo risoluto alle pressioni americane per isolare la Russia, chiedendo spiegazioni, ad esempio, sui programmi militari batteriologici in Ucraina e nel mondo, e chiedendo di non favorire, con armi, denari e attività di intelligence, un’escalation del conflitto. 

Solo con uno sforzo collettivo di inquadramento geo-storico dell’attuale crisi, su concause, corresponsabilità e tendenze strutturali di cambiamento del sistema-mondo, sarà possibile trovare soluzioni efficaci di lungo termine, al fine di evitare il riprodursi di sempre nuovi conflitti, come fossimo condannati ad una guerra fredda permanente. Tuttavia, dobbiamo volere la pace, non solo per l’Ucraina, ma per tutti i paesi e le regioni del mondo ancora vittime della iper-competitività strategica del sistema US-Nato.

Una reale pacificazione delle relazioni internazionali esige il rispetto reciproco, il dialogo, la cooperazione economica e la risoluzione delle tensioni esistenti per via esclusivamente diplomatica, rifiutando categoricamente qualsivoglia imposizione di un unico modello a tutti. A questo punto si tratterà di capire quale sarà l’entità del danno generato dalla volontà dell’Occidente di rimanere l’unico polo dominante. Indubbiamente, la crisi ucraina è un banco di prova che solleva grande preoccupazione. 

Se guardiamo alla destabilizzazione globale generata nei decenni dall’egemone in declino e dai suoi più stretti alleati, non possiamo non prendere in considerazione che un mondo più influenzato dalla Cina potrebbe essere caratterizzato da maggiore cooperazione e minore competizione. Ed il principio del rispetto reciproco tra i diversi sistemi politici, che oggi non è soddisfatto, potrebbe divenire una pietra angolare delle relazioni internazionali.

L’AUTORE. Fabio Massimo Parenti è attualmente Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University, Beijing. Ha insegnato anche in Italia, Messico, Stati Uniti e Marocco. È membro del think tank CCERRI, Zhengzhou, di EURISPES – Laboratorio BRICS e del comitato scientifico dell’Istituto Diplomatico Internazionale (IDI) a Roma. Il suo ultimo libro è “La via cinese, sfida per un futuro condiviso” (Meltemi 2021).

Ciro Grillo, via al processo per violenza sessuale. Giulia Bongiorno gioisce per la “prova regina”. Il Tempo il 16 marzo 2022.

L'udienza è stata solo 'tecnica', come viene chiamata in gergo giudiziario, ma non sono mancate le prime schermaglie, tra accusa e difesa, ma soprattutto tra la parte civile, cioè la presunta vittima della violenza sessuale, e le difese degli imputati, nel processo per stupro di gruppo a carico di Ciro Grillo e dei suoi tre amici, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, iniziato oggi davanti al Tribunale di Tempio Pausania (in provincia di Sassari). Una udienza interlocutoria - assenti i quattro imputati - nel corso della quale il Presidente della Corte, Marco Contu, che ha disposto la celebrazione del processo a porte chiuse, ha sciolto le riserve sull'ammissione delle richieste di prova e sulla lista testi, con oltre settanta persone chiamate a deporre. Alla fine ha accolto tutta la lista, o quasi.

Dovranno presentarsi in aula, nel corso delle prossime udienze, la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadijk, che la notte del presunto stupro, tra il 16 e il 17 luglio 2019, dormiva nello stesso residence a Porto Cervo, ma anche il ragazzo norvegese, David Enrique Bye Obando, citato dalla difesa degli imputati, che secondo quanto raccontato dalla ragazza agli investigatori, avrebbe abusato di lei. Anche se la giovane non lo ha mai denunciato. "Ma sarà sentito solo sui fatti riguardanti il processo e non sulle sue abitudini sessuali - tiene a sottolineare Giulia Bongiorno - dunque la sua testimonianza è stata ammessa”. Il padre del ragazzo nega la citazione: "Mio figlio non è stato convocato dalle autorità giudiziarie norvegesi, l'unica autorità di fronte alla quale è responsabile. Né ha ricevuto citazioni da altre autorità. Non ha altro da aggiungere", è stato il commento secco all'Adnkronos di Vegard Bye. 

E poi verranno sentiti, psicologi e medici legali, tra cui la psicologa che ha in cura la giovane, che nel frattempo si è trasferita all'estero, in un paese europeo dove studia. Ma la legale non nasconde la sua preoccupazione "per i tempi del processo". "Ci riteniamo soddisfatti per le decisioni del giudice ma siamo molto preoccupati per i tempi processuali", denuncia Bongiorno. E spiega: "Abbiamo fissato un calendario fino al 18 gennaio 2023 - dice la legale della giovane - considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori. Io auspico che ci sfaccia il processo in aula e non ci siano diffusioni, che io reputo molto gravi, non di notizie, ma parlo di dati e referti medici sulla mia assistita che sono stati pubblicati, anche di sue foto che permettono la sua identificazione". 

All'uscita del Tribunale parla anche uno dei legali di Ciro Grillo, l'avvocato Andrea Vernazza che difende il figlio del fondatore del M5S con il collega Enrico Grillo, cugino del comico genovese. "Oggi era superfluo che Ciro Grillo venisse", spiega ai giornalisti. "Si comincerà con i testi dell'accusa, per noi è ancora prematuro stabilire il calendario dei nostri testi. Intanto, il giudice ha calendarizzato le udienze fino al gennaio 2023", ha poi aggiunto. Ma la difesa della giovane studentessa si dice convinta che la "prova regina" del processo sia stata acquisita agli atti. "E' stata ammessa la 'prova regina' di questo processo, cioè l'hard disk con tutte le intercettazioni", dice Giulia Bongiorno, uscendo dall'aula. "In quell'hard disk c'è tutto lo scambio di messaggistica, di chat che c'è stato tra la mia assistita e altre persone, a mio avviso è una prova importante perché attesta la genuinità di quanto racconta dopo la sua esperienza. Dunque questo hard disk farà parte del patrimonio in dibattimento". La prossima udienza si terrà il 1 giugno, e poi è prevista almeno una udienza al mese, fino al gennaio 2023. I tempi si preannunciano piuttosto lunghi.

C.Gu. per “il Messaggero” il 16 marzo 2022.

In aula saranno chiamati a deporre la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjik, l'insegnante di kite surf con cui si allenò la ragazza il giorno dopo la presunta violenza e il proprietario del bed and breakfast dove alloggiavano le amiche. Sono circa settanta i testimoni convocati dal Tribunale di Tempio Pausania dove oggi prenderà il via il processo a carico di Ciro Grillo, figlio del garante del M5S, di Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I ragazzi, che hanno 22 anni, sono accusati di violenza di gruppo: il 16 luglio 2019, dopo una serata in discoteca, nel residence in Costa Smeralda di proprietà di Beppe Grillo avrebbero stuprato una ragazza italo-norvegese di 19 anni.

Una quarantina sono i testi che compaiono nella lista depositata dal Procuratore Gregorio Capasso, che rappresenta l'accusa, circa trenta quelli del pool difensivo degli avvocati Alessandro Vaccaro per Lauria, Andrea Vernazza ed Enrico Grillo per Ciro Grillo, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli per Capitta, Gennaro Velle e Antonella Currureddu per Corsiglia. Proprio all'ultimo il legale Romano Raimondo, scelto dalla famiglia Corsiglia, ha rinunciato al mandato: «Decisione condivisa», fa sapere. Ma non è il primo avvocato che si defila. Ad aprile 2021 Paolo Costa ha lasciato il collegio difensivo di Vittorio Lauria, al quale aveva suggerito di non concedere interviste: lui parlò al telefono con Fabrizio Corona e il colloquio venne mandato in onda in una trasmissione tv.

A ottobre inoltre, in un drammatico incontro con gli indagati e i genitori, il fronte difensivo ha mostrato qualche crepa: i legali di Capitta e Lauria puntavano al rito abbreviato (processo sulla base degli atti, senza testimoni e sconto di un terzo della pena in caso di condanna), quelli di Grillo e Corsiglia per l'ordinario, che alla fine ha prevalso.

Ora in aula si preannuncia battaglia tra i testi di accusa e difesa: la Procura ha convocato la moglie di Grillo che quella notte dormiva nell'appartamento, ma sostiene di non aver sentito nulla, la difesa il figlio acquisito del fondatore del M5S, Matteo Scarnecchia. Sarebbe stato lui a filmare Ciro mentre baciava in discoteca la presunta vittima dello stupro. E sarà acceso il confronto anche tra i consulenti. Alla psicologa dell'accusa, i legali oppongono Lucia Pattoli, che ha scandagliato i ricordi delle due studentesse e la coerenza dei loro comportamenti dopo le violenze denunciate. L'avvocato di parte civile Giulia Bongiorno, che rappresenta la giovane italo-norvegese, ha chiesto che il processo sia tenuto a porte chiuse.

Ciro Grillo. Ciro Grillo e gli amici, la prima udienza. Oltre settanta i testimoni convocati. Giusi Fasano su Il corriere della Sera il 15 marzo 2022.

Chat fra un ragazzo accusato di violenza sessuale di gruppo e un suo amico poche ore dopo le «prodezze» di cui si vanta: «Non puoi capire». «Cosa?». «No…3 vs 1 stanotte, lascia stare». «Chi era questa?». «Ma che ne so…Poi ti racconterò». Seguono particolari che inducono l’amico a scrivere: «Poveraccia». E lui: «All’inizio non sembrava che volesse…».

Stesso fatto ma visto dall’altra parte. Stavolta è la ragazza che ha denunciato la violenza a scrivere a un’amica, sempre poche ore dopo i fatti: «La verità è che la sola cosa che sento dopo questa esperienza è che io non valgo niente… le persone mi usano soltanto quando e come vogliono e poi mi buttano via come spazzatura». Lei che si dice vittima dello stupro se la prende con se stessa, i quattro ragazzi che sono sott’accusa si autoassolvono: «Lei ci stava».

È arrivato il momento di portare tutto questo nell’aula del tribunale di Tempio Pausania, dove comincia mercoledì il processo per il cosiddetto Caso Grillo. I quattro imputati non saranno presenti, o almeno così giurano gli avvocati che li difendono dal reato appunto, di violenza sessuale di gruppo (da un minimo di sei a un massimo di dodici anni in caso di condanna).

Ciro (figlio di Beppe Grillo) e i suoi amici Vittorio Lauria, Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia, hanno preferito scartare i riti alternativi e puntare sul dibattimento in aula che, in teoria, sarebbe aperto al pubblico anche se Giulia Bongiorno, legale di Silvia (la ragazza che ha denunciato tutto) ha presentato ieri mattina un’istanza per chiedere che udienze a porte chiuse.

Il fascicolo di chiusura indagini è pieno di fotografie, chat, filmati, consulenze, interrogatori... E alla montagna di documentazione agli atti si aggiungeranno in aula i settanta e più testimoni che le parti chiedono di ammettere. L’accusa, rappresentata dal procuratore Gregorio Capasso, chiama a deporre fra gli altri anche la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadijk, mentre il collegio difensivo di Ciro Grillo vuole fra i suoi testi Matteo Scarnecchia, l’uomo che ha filmato Ciro mentre baciava in discoteca la ragazza che lo ha poi denunciato.

Fra tutte peserà la testimonianza di un ragazzo che Silvia aveva accusato di violenza sessuale nel 2018 e al quale ha poi chiesto scusa. I fatti del processo di Tempio Pausania risalgono invece alla mattina del 17 luglio 2019. In una villetta a Cala di Volpe, in Sardegna, i quattro ragazzi – tutti genovesi e amici d’infanzia – erano con due ragazze di Milano conosciute la sera prima in discoteca, al Billionaire, a Porto Cervo.

Il 26 luglio, quindi nove giorni dopo, una delle due ragazze (Silvia è un nome falso) racconta ai carabinieri che in quella villetta, quel giorno, dopo essere stata costretta a bere vodka, ha subito violenza. Ripetutamente e da tutti e quattro, mentre la sua amica Roberta (anche questo è un nome falso) dormiva sul divano. Le indagini porteranno alle accuse dei quattro amici e anche per Roberta sarà poi contestata la violenza sessuale: perché tre di loro hanno scattato fotografie oscene accanto a lei che dormiva.

Giusi Fasano per corriere.it il 15 marzo 2022.

Il 16 marzo è arrivato. Per Ciro Grillo e i suoi amici comincerà domani il processo a Tempio Pausania per violenza sessuale di gruppo. A porte aperte, teoricamente. Anche se Giulia Bongiorno, avvocatessa di una delle due ragazze abusate, ha inviato stamane al tribunale un’istanza per chiedere che invece, vista la delicatezza del caso, le udienze si tengano a porte chiuse. 

Sott’accusa, lo ricordiamo, il figlio del fondatore del Movimento cinque stelle, Beppe Grillo, e i suoi tre amici, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia.

L’inchiesta era partita a fine luglio del 2019, i fatti risalgono al 17 luglio di quell’anno.

Le due ragazze, da sempre chiamate con i nomi falsi di Silvia e Roberta, avevano conosciuto in discoteca il gruppetto di Ciro Grillo e dei suoi amici che le avevano invitati a Cala di Volpe, in Costa Smeralda, nella casa di vacanza in uso alla famiglia Grillo. È lì che Silvia racconta di essere stata violentata, prima da Francesco Corsiglia e in seguito dagli altri tre assieme. I tre hanno girato un breve video (agli atti) e -stado al racconto di Silvia – l’avrebbero costretta a bere vodka. 

Tutti negano e tutti giurano che la ragazza fosse consenziente. E i tre dicono che Francesco Corsiglia stesse dormendo mentre loro erano con silvia che “ci stava”, secondo i loro racconti. 

Diversa la situazione di Roberta, l’amica di Silvia che era con lei in quella casa. Dormiva, mentre gli stessi tre che avevano abusato di Silvia le scattavano fotografie oscene che sono finite in un secondo capo di imputazione a loro carico. 

Anche se i fatti contestati a Francesco Corsiglia potrebbero sembrare più lievi rispetto alle accuse mosse ai suoi amici la procura di Tempio – procuratore Gregorio Capasso – lo accusa lo stesso di violenza sessuale di gruppo tenendo conto delle dichiarazioni della ragazza (Silvia) che lo smentisce e che, se anche lui non compare nei filmati, dice di ver sentito la sua voce nella stanza. 

Con l’apertura del dibattimento si stabilirà il calendario delle udienze e si affronteranno eventuali eccezioni preliminari. Non è prevista né la presenza degli imputati né quella delle ragazze in aula.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 15 marzo 2022.

È arrivato il giorno del giudizio. Domani a Tempio Pausania prenderà il via uno dei processi più attesi dell'anno, quello a Ciro Grillo e ai suoi tre amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti accusati di violenza di gruppo aggravata dall'utilizzo di sostanze alcoliche. 

Le presunte vittime, come sanno bene i nostri lettori, sono due coetanee milanesi: S.J. e R.M.. In Sardegna accusa, difese e parti civili utilizzeranno tutte le armi a loro disposizione. Gli avvocati degli indagati per esempio hanno deciso di chiamare a testimoniare un ex amico di S.J., già accusato dalla ragazza di violenza carnale, ma mai denunciato.

La parte civile, invece, schiererà dalla sua parte gli inviati di Corriere della sera e della Repubblica, giornali trasformati così non in osservatori neutrali, ma in partigiani. I quattro giovani sono stati rinviati a giudizio il 26 novembre dopo mesi di schermaglie processuali e mediatiche. L'accusa e il gup, forse pungolati dai media e dall'opinione pubblica colpevolista, sono giunti alla determinazione che, anche se la ragazza in alcuni video appariva consenziente, il suo libero arbitrio era stato condizionato in modo determinante dall'alcol assunto (volontariamente o forzosamente che sia). 

A peggiorare la situazione degli imputati i filmati e le foto realizzati vicino a R.M. dormiente con i falli sguainati ad altezza del viso. Una presunta goliardata di pessimo gusto che la legge equipara a un vero e proprio stupro. E lì le immagini non sono equivocabili. Ma la violenza vera e propria, la penetrazione contro la volontà di S.J. c'è stata o no? A deciderlo sarà un collegio di tre magistrati presieduto da Marco Contu. L'aula, vista la delicatezza dell'argomento non sarà aperta al pubblico, né ai giornalisti. Il procuratore Gregorio Capasso ha messo in lista 40 testimoni.

Tra questi la mamma di Ciro, Parvin Tadjik, che all'alba del 17 luglio si trovava nell'appartamento adiacente a quello del presunto stupro; i vicini di casa, i maestri di kite surf, compreso Marco G., che ai carabinieri ha dato una versione, in tv un'altra. Tra i testimoni anche A.M. l'amica di S.J. che ha raccontato ai magistrati di aver visto lividi che in ospedale non sono stati rilevati, ma che ha anche raccontato che S.J. era una ragazza «un po' troppo influenzabile», che inviava su chat di incontri le proprie immagini in déshabillé e che, mentre le conoscenze femminili la rispettavano, i maschi pensavano che fosse «una ragazza più facile di altre».

Questi atteggiamenti disinibiti di S.J. sono stati equivocati dagli imputati? La parte civile oltre a medici e psicologi della clinica Mangiagalli di Milano, che per primi hanno visitato S.J., ha chiamato come testimoni anche Giusi Fasano del Corriere della sera per l'intervista che le aveva rilasciato la maestra di kite, Francesca B., chiamata a testimoniare direttamente. E allora perché sentire l'intervistatrice? Probabilmente la Bongiorno vuole far confermare davanti ai giudici le parole attribuite all'insegnante: «Silvia sembrava confusa. Non riuscì a finire la lezione». 

L'opposto di quanto l'istruttrice aveva detto ai carabinieri nell'immediatezza dei fatti a proposito dell'ora passata insieme poco dopo il presunto stupro: «Quando ci siamo presentate mi è sembrata una ragazza vivace, solare ed estroversa. Posso dire che era eccitata ed euforica [] era molto entusiasta e felice della sua performance, nonostante fosse stanca [] Escludo che la ragazza abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto gli effetti di alcoolici, anche perché non le avrei consentito di iniziare la lezione».

Anche Fabio Tonacci della Repubblica è stato chiamato a riferire sull'intervista fatta a Francesca B. (titolo: «Dopo la notte a casa Grillo parlai per prima con Silvia. Era stordita e poco lucida») lo stesso giorno della collega Fasano. Quindi i cronisti dovranno confermare di aver raccolto da Francesca B. una versione opposta rispetto a quella consegnata agli uomini dell'Arma. L'obiettivo è dimostrare che gli investigatori, nella fase iniziale, avevano indirizzato le dichiarazioni verso una linea innocentista? Per accertarlo è stato chiamato a ripetere la propria versione anche Daniele Ambrosiani, titolare del b&b in cui soggiornavano le ragazze.

L'arma segreta delle difese è invece l'ex amico del cuore di S.J. in Norvegia, David Enrique Bye Obando, giovane originario del Nicaragua e figlio dell'ex deputato di sinistra Vegard Bye. Nel febbraio del 2020, davanti ai pm, come aveva già fatto con le sue amiche, la presunta vittima lo aveva accusato di aver approfittato di lei durante un campeggio in Norvegia, quando lei si era addormentata: «Mi sono svegliata e lui stava venendo» aveva detto. 

Ammettendo, però, di non averlo denunciato per quell'abuso. Vegard Bye ci ha riferito: «David nega categoricamente. Dice di aver sentito S. e che lei si è scusata per la diffusione di una falsa accusa». Ieri, a proposito della testimonianza, ha scritto: «David non è mai stato interpellato da nessun se non da voi giornalisti. Se convocato dalla magistratura norvegese, ovviamente collaborerà».

Gli facciamo notare che a convocarlo sarà un tribunale italiano e lui replica: «No signore, David è responsabile solo nei confronti della magistratura norvegese, e non ha avuto notizie da questa, né da quella italiana, del resto». Le difese schiereranno anche il figlio di primo letto di Parvi Tadjik, Matteo Scarnecchia, che ha girato il video di un bacio furtivo tra S.J. e Ciro nella discoteca Billionaire. Tra i testimoni anche il tassista che ha accompagnato presunte vittime e presunti carnefici tutti insieme nell'appartamento dove si sono svolti i fatti. In aula verranno sentite pure la mamma e la sorella diciottenne di S.J..

 È stata chiamata a testimoniare anche la giovane Mai Rikter che in un lungo messaggio Whatsapp aveva scritto a S.J.: «Ti hanno manipolato, umiliandoti []. Tu sei abbastanza insicura e loro ti hanno usato». Sia le difese che la parte civile schiereranno i loro interpreti di fiducia per tradurre alcune parole pronunciate in un audio in inglese spedito a Mai da S.J., come hook up, che per qualcuno significa rimorchiare per qualcun altro divertirsi. I medici legali Marco Salvi ed Enrico Marinelli, da fronti opposti, proveranno a stabilire il tasso alcolemico della ragazza e il suo eventuale stato di alterazione. 

Le difese vogliono sentire anche Cinzia Piredda, la psicologa scelta come consulente dei pm e secondo cui S.J. avrebbe delle «difficoltà a esprimere la propria volontà e a rispondere con un diniego a richieste poste dagli altri». Verrà ascoltata anche la psicologa Lucia Tattoli che valuterà la «compatibilità e coerenza dal punto di vista psicologico» delle dichiarazioni di S.J. «con i comportamenti effettivamente tenuti» e anche «con l'asserita sindrome post traumatica lamentata».

La parte civile le contrapporrà la psichiatra Marina Loi, chiamata a «illustrare gli effetti delle violenze sessuali» su S.J. e il collega Pablo Zuglian, lo specialista che ha in cura S.J. dal febbraio del 2020, il quale dovrà riferire sullo stato psicologico della ragazza. Domani i giudici stabiliranno il calendario delle udienze, ma per la fase calda occorrerà attendere ancora qualche settimana.

I testimoni e l'avvocato che rinuncia: (ri)parte il processo a Ciro Grillo. Luca Sablone il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.

Domani partirà il processo per Ciro Grillo e i suoi tre amici genovesi: l'accusa è di violenza sessuale. Un altro avvocato della difesa ha deciso di lasciare.

Domani prenderà il via il processo per Ciro Grillo e i suoi tre amici genovesi, accusati da Silvia (nome di fantasia) di violenza sessuale. Una tesi che dovrà essere dimostrata e che vede ovviamente accusa e difesa su fronti del tutto opposti: la ragazza ritiene di essere stata coinvolta nei rapporti sessuali contro la sua volontà, mentre i quattro compagni ritengono che Silvia fosse consenziente in quei momenti. Il 26 novembre il gup di Tempio Pausania ha deciso di rinviare a giudizio il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria.

Imputati e testimoni

Grillo jr e i suoi tre compagni dovranno difendersi dalla pesantissima accusa di Silvia, convinta di essere stata costretta a del sesso di gruppo nonostante la sua contrarietà. I ragazzi non hanno negato di aver preso parte a dei rapporti sessuali, ma hanno messo in evidenza che la giovane studentessa italo-norvegese fosse a conoscenza di quanto stava accadendo. Sul Corriere della Sera si legge che non dovrebbe essere prevista la presenza degli imputati in aula.

La lista dei testimoni, per entrambi i fronti, è lunga. C'è ad esempio Parvin Tadjik, mamma di Ciro, che quella notte si trovava nell'appartamento adiacente a quello dove si sarebbe verificato il presunto stupro. Un ruolo importante è ricoperto da Anna (nome di fantasia, amica di Silvia) che aveva raccontato di aver ricevuto foto di Silvia con dei lividi sul corpo. Ci potrebbero essere poi - tra gli altri - il maestro di kite surf, alcuni amici e il titolare del bed and breakfast in cui soggiornavano le ragazze in quel periodo. L'Adnkronos aggiunge che potrebbero essere citati anche alcuni giornalisti, come Giusi Fasano (Corriere della Sera) e il collega Fabio Tonacci (La Repubblica) per alcune interviste realizzate in Sardegna.

Lascia un avvocato della difesa

Nel frattempo, come riporta La Repubblica, un altro avvocato del collegio difensivo si è sfilato: si tratterebbe di Romano Raimondo, scelto dalla famiglia Corsiglia, che avrebbe così rimesso il mandato. "Non c'è una ragione, è una scelta condivisa", sarebbe la versione. Dunque alla base non vi sarebbe alcuna divergenza difensiva né con i Corsiglia né con i colleghi. Al suo posto dovrebbe subentrare Antonella Cuccureddu, che domani dovrebbe essere presente alla prima udienza al tribunale di Tempio Pausania.

Perché la notizia assume un certo valore? La spiegazione è semplice: già ad aprile 2021 Paolo Costa, che difendeva Vittorio Lauria, aveva deciso di fare un passo indietro e di rimettere il proprio mandato per "alcune divergenze con il mio assistito sulla condotta extra-processuale da tenere sempre, specie in processi come questi". A far discutere era stata un'intervista rilasciata dal giovane a Non è l'arena, trasmissione condotta da Massimo Giletti.

La vicenda

I fatti risalgono alle ore tra il 16 e il 17 luglio 2019, quando Ciro Grillo e i suoi tre amici incontrano le due ragazze in discoteca al Billionaire. La comitiva decide poi di andare nella villetta a Cala di Volpe ed è proprio qui, secondo la versione fornita da Silvia, che si sarebbero consumate le violenze sessuali. E racconta di essere stata costretta a bere un cocktail (di vodka e lemonsoda?). Sono molti gli elementi su cui fare chiarezza: si parla di video che immortalano gli attimi e di foto a Roberta - mentre dormiva - con i genitali vicino al volto.

Una consulenza medico-legale (di parte) sostiene che i lividi potrebbero essere "compatibili con un meccanismo di pressione e afferramento attuato da più persone contemporaneamente con le mani". Inoltre metterebbero in evidenza un disturbo post-traumatico da stress, giudicato "coerente con un rapporto non consenziente e invasivo".

"Preoccupano i tempi". Perché il caso Grillo va per le lunghe. Marco Leardi il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.

Al termine della prima udienza del processo per stupro di gruppo, l'avvocata della presunta vittima confida: "Preoccupata per i tempi". Il giudice ammette la "prova regina", un hard disk con tutte le intercettazioni.

I tempi della giustizia preoccupano l'avvocata Giulia Bongiorno. Il processo per violenza sessuale di gruppo a carico di Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria rischia infatti di trasformarsi in uno stillicidio emotivo per la presunta vittima, difesa proprio dalla nota penalista. Del resto per l'italo-norvegese, che aveva denunciato di essere stata stuprata dai quattro ragazzi nel luglio 2019, l'intera vicenda era stata motivo di "sofferenze e dolori" prima ancora di approdare in tribunale e ora eventuali lungaggini processuali non farebbero altro che rievocare quei tormenti. Lo racconta la stessa avvocata, rivelando che ora Silvia (nome di fantasia) ha lasciato l'Italia.

A margine dell'udienza tenutasi stamani, nella quale sono state calendarizzate le fasi del processo e sono stati definiti alcuni aspetti formali, Giulia Bongiorno ha affermato: "Ci riteniamo soddisfatti per le decisioni del giudice ma siamo molto preoccupati per i tempi processuali. La ragazza nel frattempo, per ovvi motivi, ha lasciato l'Italia e vive in un altro Paese". In particolare, in merito alle date del procedimento, l'avvocata ha aggiunto: "Abbiamo fissato un calendario fino al 18 gennaio 2023". L'iter processuale, del resto, dovrà seguire tutti i canonici passaggi, le cui tempistiche rischiano di essere ulteriormente allungate dalla mole di testimoni e dal serrato confronto che si prospetta tra le parti in causa.

"Considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori", ha aggiunto Bongiorno, soffermandosi sugli aspetti emotivi e psicologici legati alla presunta vittima. "Io auspico che ci sfaccia il processo in aula e non ci siano diffusioni, che io reputo molto gravi, non di notizie, ma parlo di dati e referti medici sulla mia assistita che sono stati pubblicati, anche di sue foto che permettono la sua identificazione", ha osservato. Nella stessa occasione, Bongiorno ha stigmatizzato il rischio che "si dilati la sofferenza dell'assistita", in particolare con una "spettacolarizzazione" che andrà evitata. Il processo non a caso si terrà a porte chiuse, proprio come aveva chiesto la stessa penalista.

Caso Grillo, Bongiorno: "Ammessa la prova regina"

Al termine della Camera di consiglio, giudice ha deciso di ammettere tutti i testi citati sia dall'accusa sia dalla difesa, a eccezione dei due giornalisti Giusi Fasano e Fabio Tonacci, che per ora non saranno sentiti. In tutto, davanti al giudice sfileranno 56 testimoni: un numero corposo, che contribuirà con ogni probabilità a dilatare i tempi del processo. Tra gli altri, dovranno così presentarsi in aula, nel corso delle prossime udienze, la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadijk, che la notte del presunto stupro dormiva nello stesso residence, ma anche il ragazzo norvegese - citato dalla difesa degli imputati - che secondo il racconto della ragazza agli investigatori avrebbe abusato di lei (ma non è stato mai denunciato). Inoltre, la stessa avvocata Bongiorno ha rivelato che "è stata ammessa la 'prova regina' di questo processo, cioè l'hard disk con tutte le intercettazioni".

"In quell'hard disk c'è tutto lo scambio di messaggistica, di chat che c'è stato tra la mia assistita e altre persone, a mio avviso è una prova importante perché attesata la genuinità di quanto racconta dopo la sua esperienza. Dunque questo hard disk farà parte del patrimonio in dibattimento", ha spiegato al riguardo l'avvocata. Il suddetto materiale passerà al vaglio del giudice e diventerà chiaramente oggetto di confronto anche tra le parti in causa. Anche questo aspetto influirà sulle tempistiche.

"Ci sono poi state delle discussioni su alcuni documenti. Quello che è entrato nel fascicolo è l'accertamento irripetibile di intercettazioni e chat che a mio avviso sono molto importanti", ha precisato Bongiorno. Il processo è stato rinviato al prossimo primo giugno, quando saranno ascoltati primi testimoni fra quelli indicati dalla Procura. Il numero e i nomi dei convocati saranno comunicati alle parti dal giudice nei prossimi giorni. 

Sul processo al figlio di Beppe Grillo si allunga l'ombra della prescrizione. Luca Fazzo il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Giudizio a porte chiuse, i legali: non stupro, sesso consenziente.

Dopo le indagini lumaca, il processo lumaca. La brutta storia che nel luglio di tre anni fa, nella grande villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda, ebbe per protagonisti il giovane figlio dell'ex comico, tre suoi amici e due ragazze approda ieri finalmente in un aula di tribunale. Davanti ai giudici di Tempio Pausania non si presenta nessuno dei quattro imputati, e questo era praticamente scontato. Altrettanto prevedibile la richiesta di Giulia Bongiorno, parlamentare leghista e difensore di una delle vittime, di celebrare il processo a porte chiuse, subito condivisa dagli imputati ed accolta dal tribunale. Meno scontato il ritmo assai diluito con cui il processo viaggerà nel suo lungo percorso verso la sentenza: ieri i giudici danno appuntamento per la prossima puntata addirittura al 6 giugno, poi si proseguirà con una sola udienza al mese. Finora il calendario è stato ufficializzato al giugno 2023, ma poiché il processo si annuncia non solo complicato ma anche assai combattuto, è legittimo prevedere che ci vorranno decine di udienze per arrivare alla conclusione, (oltretutto ieri il tribunale ammette ben settanta testimoni). A questo ritmo il processo potrebbe durare anni. Che si vanno aggiungere ai sedici mesi impiegati dalla Procura per chiudere le indagini preliminari, e al quasi anno passato tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'inizio del processo. Ritmi che, anche se la prescrizione non è imminente, fanno dire alla Bongiorno che «a preoccuparmi sono i tempi del processo».

La linea difensiva di Grillo junior e dei suoi coimputati è nota: ammettono che alcuni di loro hanno avuto contatti sessuali con una delle ragazze, ma con il pieno consenso della stessa. Per dimostrare che la ragazza - una modella di origine scandinava - era tutt'altro che scioccata dalla nottata nella villa, hanno prodotto immagini e post dove nei giorni successivi appare rilassata e sorridente. E soprattutto punteranno su un'altra vicenda analoga risalente a qualche anno prima, quando la stessa ragazza aveva denunciato di essere stata denunciata da un conoscente in una tenda in Norvegia. Un episodio che, secondo i legali, fa sospettare che si tratti di una ragazza di facili costumi, pronta però a pentirsi delle sue nottate allegre. E a riviverle, e a raccontarle, come stupri.

Il rischio che il processo ai quattro giovanotti genovesi si trasformi in qualche modo in un processo alla loro presunta vittima, insomma, c'è: e anche per questo la Bongiorno ha chiesto che si proceda a porte chiuse, anche se sottolinea che il giovane norvegese ammesso a testimoniare «potrà essere sentito solo sui fatti del processo e non sulle abitudini sessuali della vittima». Ma intanto, racconta l'avvocato, «a lasciare stupita la mia assistita sono i tempi annunciati. Fino a quando processo non finirà questa ferita per la ragazza resterà aperta. Mi hanno detto che il tribunale di Tempio Pausania è sommerso di processi, e che lunghi rinvii sono la normalità. Ma sapere che il nostro processo inizierà di fatto a tre anni dalla vicenda mi preoccupa molto».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 marzo 2022.

Notizia: a Tempio Pausania (Sardegna, provincia di Sassari) ieri è formalmente cominciato il processo a Ciro Grillo e ai tre suoi amici accusati di violenza sessuale ai danni di due ragazze che li hanno denunciati. Lo stupro ci sarebbe stato nella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella dimora di Ciro Grillo in Costa Smeralda. 

I presunti colpevoli dicono che le presunte vittime si erano prestate al gioco, cioè erano consenzienti, mentre le presunte vittime dicono che i presunti colpevoli invece le hanno stordite, violentate e sbeffeggiate contro la loro volontà. Detto questo, non ha l'aria del processo del secolo.

Nonostante gli sforzi titanici di noi giornalisti, presi a celebrare dibattimenti paralleli e talk show intrisi di manicheismi improbabili (carnefici e vittime, feroci stupratori e cuori innocenti, o viceversa goliardici coglioncelli e serpi che lucrano su una giurisprudenza sbilanciata) il dibattimento per violenza di gruppo a Ciro Grillo & company ha il suo difetto nel manico: tra gli imputati c'è il figlio di Giuseppe Piero Grillo, e questo è tutto; c'è, ossia, un protagonista per luce riflessa di una vicenda che si gioca tutta su inquadramenti giurisprudenziali di comportamenti che paiono ambigui da ambo le parti; la denuncia della violenza è in effetti avvenuta tardivamente (quando una delle due ragazze era tornata a Milano) e comunque vada ci sarà qualcuno che griderà all'ingiustizia a margine di una storiaccia di quasi minorenni a cui resterà la vita segnata: vale per tutti.

Secondo la richiesta di rinvio a giudizio (accolta) una delle due giovani sarebbe stata costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, afferrata perla testa e costretta a bere mezza bottiglia di vodka prima di subire rapporti di gruppo con tutti e quattro; in pratica i maschi avrebbero «approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica». Gli accusati dicono che non hanno stuprato né fatto violenza su nessuno. Non si può neppure escludere che tutti siano sinceramente convinti della propria tesi, ma in questo campo il pareggio non è contemplato: lo sono, bene che vada, delle condanne miti.

Vediamo qualche noioso dettaglio di cronaca. Sono stati proposti - il giudice dovrà vagliarli- ben 70 testimoni, una quarantina su proposta dall'accusa e gli altri di conseguenza. L'avvocato di parte civile delle due presunte vittime (di parte civile significa che chiederà soldi, e in questo è bravissima) è Giulia Bongiorno, che ieri ha chiesto che il dibattimento si svolga a porte chiuse (niente giornalisti o pubblico) e ha lamentato che sulla sua assistita possa concentrarsi una «rincorsa bulimica al dettaglio» e quindi dati, referti medici o fotografie che peri media siano fonte di attenzione: così, per sviare, l'avvocato Bongiorno per ora ha deviato tutta l'attenzione su di sè. Si è detta molto preoccupata per i tempi processuali (non si è capito perché) e ha precisato che la sua assistita «per ovvi motivi» (non intesi) «ha lasciato l'Italia e vive in un altro paese».

Poi: «Abbiamo fissato un calendario fino al 18 gennaio 2023: considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data, e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori». Insomma, l'avvocato Bongiorno ha cominciato il processo fuori dall'aula, prefigurando da subito l'immagine di una vittima traumatizzata a vita che è proprio il contrario di quanto sostenuto da chi - i difensori degli accusati, opinionisti vari - aveva portato elementi per sostenere che dopo il presunto stupro lei fosse tutto fuorché traumatizzata. Ma di Giulia Bongiorno è nota la passione per la causa femminile, al punto che in passato si spinse a proporre l'ergastolo per tutti i maschi colpevoli di cosiddetto femminicidio. 

L'avvocato ha seguito molti processi per stupri e violenze e «spero in tempi rapidi» lo disse anche in occasione di altri casi come quello in cui difendeva Lucia Ciccolini, vittima dell'ex fidanzato. Passando agli altri tre imputati- Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria - la formazione dei loro difensori è ora composta da Sandro Vaccaro, Enrico Grillo, Gennaro Velle, Ernesto Monteverde, Antonella Cuccureddu e Mariano Mameli.

Vaccaro ha detto soltanto che le liste dei 40 testi chiesti da loro e quella dei 30 chiesti dalla Bongiorno «sono praticamente sovrapponibili». Tra questi: la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjik che quella notte del 2019 dormiva a poca distanza dal luogo della presunta violenza, e anche il maestro di kitesurfing (una tavola da surf trainata da un aquilone) che dopo la violenza avrebbe visto le due ragazze esercitarsi nonostante la nottata. 

Dovrebbe esserci anche David Enrique Bye Obando, un ragazzo norvegese-sudamericano che a sua volta era stato accusato di stupro da una delle due ragazze durante una gita in campeggio: ma non è mai stato denunciato. Comunque: il processo mediatico è stato già fatto, ora comincia quello vero e c'è da pensare che interesserà meno della sua rappresentazione mediatica.

Ci sono di mezzo alcool e droghe che possono notoriamente alterare gli stati mentali dei vari attori: il consenso di lei non è l'unico punto, in un processo c'è anche da valutare - succede in molti dibattimenti per stupro - l'eventuale alterazione della capacità di lei di difendersi, o l'eventuale alterazione della capacità dei ragazzi di mantenersi equilibrati in una condizione di predominanza fisica e numerica. Insomma, c'è da valutare tutto, e i processi servono per questo, anche se la realtà - giudiziaria o effettiva - non si rivelasse dichiaratamente bianca o nera come piace a chi guarda i processi come un tifoso.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 17 marzo 2022.  

Il collegio presieduto dal giudice Marco Contu ha iniziato a dirigere il traffico del processo a Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. E lo ha fatto con una certa personalità, senza mostrare, almeno in prima battuta, alcuna soggezione nei confronti di giornali e tv o di avvocati di grido come Giulia Bongiorno, che rappresenta S.J., la presunta vittima dello stupro di gruppo (la coetanea R.M. ha, invece, subito molestie mentre dormiva).

La senatrice della Lega aveva chiesto di sentire come testimoni due giornalisti del Corriere della Sera e della Repubblica sull'intervista fotocopia rilasciata da Francesca B. l'istruttrice di kite surf che per prima aveva avuto a che fare con S.J. dopo la denunciata violenza. All'epoca dei fatti la donna aveva riferito ai carabinieri che la ragazza le era sembrata «euforica» e «felice della sua performance» sportiva e che non l'avrebbe mai lasciata fare la lezione se fosse stata in condizioni non ottimali e sotto l'effetto dell'alcol.

Ma poi nelle interviste quel racconto era stato completamente ribaltato, sebbene a distanza di due anni, S.J., a suo giudizio, era arrivata «stonata» e «non lucida», addirittura «in semi-hangover». Ebbene i giudici hanno deciso che sarà sufficiente sentire in aula Francesca B., per conoscere la sua versione definitiva, senza dover ascoltare quella «de relato» dei cronisti che, in coppia, avevano registrato la clamorosa retromarcia. Per i giudici le testimonianze dei giornalisti «allo stato appaiono superflue e irrilevanti».

I due potrebbero essere sentiti solo nel caso in cui «emergano tangibili contraddizioni tra quanto dichiarato in sede di indagini preliminari e quanto sarà reso in dibattimento» dall'istruttrice. Quindi se il racconto di Francesca B. non differirà troppo da quanto riferito nell'immediatezza dei fatti ai carabinieri pare di capire che l'audizione dei giornalisti non si renderà necessaria. Nonostante la parte civile si sia opposta il Tribunale ha invece ammesso la testimonianza richiesta dalle difese di David Enrique Bye Obando il ventenne di origini nicaraguensi, accusato da S.J. di essersi approfittato di lei dormiente durante un campeggio. 

Con noi il padre di David, l'ex parlamentare norvegese Vegard Bye aveva detto: «David nega categoricamente. Dice di aver sentito S. e che lei si è scusata per la diffusione di una falsa accusa». Adesso suo figlio verrà convocato dalle difese e se non si presenterà toccherà al Tribunale provvedere. Per le toghe questa prova testimoniale è «funzionale anche a una valutazione complessiva in ordine alla credibilità e attendibilità» di S.J. visto che riguarda «fatti specifici» e non le «condotte di vita, le abitudini e i costumi sessuali» della presunta vittima. 

Una precisazione doverosa per ribadire che il compito della giustizia è punire gli stupratori e non censurare i comportamenti anche liberi di chi ha subito violenza. Un altro discorso è accertare se chi lancia un certo tipo di accuse sia credibile quando lo fa. La Bongiorno ha chiesto e ottenuto che il processo si svolga a porte chiuse vista la delicatezza degli argomenti trattati. La sua richiesta è stata condivisa da tutte parti e alla fine i pochi giornalisti presenti sono stati lasciati fuori dall'aula.

Un cronista è stato gentilmente accompagnato alla porta dai carabinieri. Un altro scontro c'è stato sulla metodologia dell'acquisizione delle fonti di prova. Il procuratore Gregorio Capasso ha provato a depositare buona parte del materiale acquisito nell'indagine. Le difese hanno chiesto che, invece, venisse prodotto gradualmente, udienza per udienza. Un modo per non far inondare il collegio di informazioni avulse dal contesto e difficilmente valutabili.

Per questo la corte ha disposto la restituzione al procuratore del «compendio documentale» a eccezione dei verbali degli atti e degli accertamenti irripetibili compiuti ossia il sequestro dei cellulari e le attività di estrazione delle copie forensi. I giudici in questo modo acquisiscono fisicamente i telefonini e il loro contenuto, ma non ancora i dati estratti dai tecnici e resi utilizzabili, a partire dai video, «riservandosi la valutazione e l'eventuale acquisizione del residuo nel corso dell'istruttoria dibattimentale».

La decisione è stata presa anche considerando «la notevole mole» del materiale e «la conseguente onerosità che richiederebbe un'approfondita valutazione» su «ammissibilità e utilizzabilità» dei singoli atti. Valutazione che andrebbe contro «le esigenze di speditezza e celerità del procedimento». 

Rapidità che deve essere contemperata con la cronica mancanza di personale del Tribunale. Ieri i giudici hanno messo in calendario sei udienze da qui a novembre, meno di una al mese: la prossima sarà l'1 giugno, seguiranno quelle del 6 luglio, 21 settembre, 19 ottobre, 2 e 16 novembre. Le toghe adesso dovranno decidere quando iniziare a sentire i testimoni, a partire dalle presunte vittime.

Al via il processo Grillo Jr, Bongiorno: «Evitiamo spettacolarizzazioni». Oggi la prima udienza del processo a carico di Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S, e di altri tre amici, accusati di violenza sessuale di gruppo. Il processo si terrà a porte chiuse. Il Dubbio il 17 marzo 2022.

«Dobbiamo evitare la spettacolarizzazione e quindi il riacutizzarsi del trauma della mia assistita». Lo ha detto l’avvocata Giulia Bongiorno prima di entrare in aula, a Tempio Pausania, per la prima udienza del processo contro Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S, e i tre amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti una studentessa italo-norvegese.

Il processo si terrà a porte chiuse, per disposizione del Presidente della Corte Mauro Contu che ha così accolto la richiesta avanzata ieri dall’avvocata Bongiorno, legale di parte civile della ragazza. Alla sua richiesta si sono associate anche le difese dei quattro imputati e il Procuratore Gregorio Capasso. Bongiorno spiega che il trauma subito dalla giovane «si acutizza ogni volta che si è verificata la rincorsa al colpo di scena e alla rivelazione di aspetti intimi della vicenda». Bongiorno si è detta dunque preoccupata per la possibilità che si allunghino i tempi processuali: «Parliamo di fatti accaduti nel 2019 e siamo nel 2022: vediamo che calendario si può organizzare» perché «il rischio è che si dilati la sofferenza della mia assistita». Parlando con i giornalisti davanti al palazzo di giustizia ha aggiunto: «Pensate che la psicologa mi ha chiesto di sentirla una sola volta per tutte le richieste e informazioni perché ogni mia chiamata è un trauma».

«Abbiamo fissato un calendario fino alo 18 gennaio 2023 – spiega Bongiorno – considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori. Io auspico che ci sfaccia il processo in aula e non ci siano diffusioni, che io reputo molto gravi, non di notizie, ma parlo di dati e referti medici sulla mia assistita che sono stati pubblicati, anche di sue foto che permettono la sua identificazione».

Ciro Grillo e gli amici al telefono «Ci sono di mezzo anch’io?». In aula parlano i carabinieri. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.  

Il passaggio è scritto in burocratese: «Si dà atto che non è stato possibile procedere alla perquisizione personale in quanto il nominato in oggetto è stato prelevato dalla spiaggia dagli operanti in costume da bagno e si è vestito in presenza degli stessi». Gli operanti sono agenti di polizia giudiziaria della Compagnia dei carabinieri di Milano Duomo e il «nominato in oggetto» è Ciro Grillo, il figlio del più noto Beppe, fondatore del Movimento Cinque Stelle. Ecco. C’è anche questo scorcio da spiaggia, diciamo così, fra le pagine del processo in corso a Tempio Pausania per violenza sessuale di gruppo contro Ciro Grillo e i suoi tre amici: Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. È uno dei tanti verbali firmati dagli agenti di polizia giudiziaria che domani saranno in aula a testimoniare. Sette in tutto: cinque marescialli, un luogotenente e un capitano delle Compagnie di Milano Duomo, appunto, e Genova San Martino.

Il verbale

Nel verbale in questione, di cui gli avvocati e i giudici chiederanno conto domani, si precisa che «i sottoscritti ufficiali e agenti di P.G. danno atto che presso le cabine spogliatoio del Lido Le Gazzelle Focette, sito in Marina di Pietrasanta (Lu), hanno proceduto al materiale sequestro del telefono cellulare del nominato in oggetto, da lui spontaneamente consegnato». Sembra di vederlo, Ciro Grillo: in costume da bagno che consegna il suo cellulare, nelle stesse ore in cui altri carabinieri perquisiscono le case dei suoi amici. Era il 29 di agosto del 2019, il giorno in cui i quattro ragazzi genovesi, oggi 22enni, scoprono di avere qualche guaio giudiziario in corso di cui fino ad allora non sospettavano nulla. Non sanno ancora con precisione quel che è successo. E cioè che la ragazza con la quale hanno passato una notte e una mattina fra il 16 e il 17 luglio di quell’anno (nella casa che Ciro Grillo ha preso per l’estate a Cala di Volpe, in Sardegna) li ha denunciati tutti per stupro. E non l’ha fatto soltanto lei. Anche l’amica che era con lei li ha denunciati: per essere stata oggetto di fotografie oscene mentre dormiva sul divano.

I perquisiti

Per i quattro genovesi quelle ore sono ormai archivio di vacanza. Ma i carabinieri che piombano nelle loro vite all’improvviso accendono qualche ricordo, e molta agitazione. I perquisiti si chiamano fra loro. Per esempio Vittorio Lauria chiama Francesco Corsiglia sul telefonino di suo padre. Francesco farfuglia qualcosa su una denuncia. «Qualcosa che ho fatto in Sardegna... non ho capito... Fra, non ho capito cosa è successo», dice. E Lauria: «Ma quindi ci sono di mezzo anche io?». Oppure Edoardo Capitta che — convocato dalle forze dell’ordine — chiama Vittorio e gli spiega che «mi ha chiamato la polizia, ha chiamato anche te?». «Sì, sì», risponde lui. «Ma per cosa, scusa? Che abbiam fatto?». «Non lo so, mi stanno venendo a prendere», annuncia. «Anche a me al porticciolo, mi han detto di vederci lì» (è a Genova). Vittorio dice all’amico che ha provato a chiedere spiegazioni «ma quello mi fa: “non si può dire al telefono”... Io c’ho paura che quella lì ci abbia denunciato».

I testimoni

Tutto questo fa parte degli accertamenti, delle informative, delle perquisizioni e dei sequestri di cui si sono occupati i sette testimoni in aula domani. Non ci saranno gli avvocati delle due ragazze, Giulia Bongiorno e Vinicio Nardo, che hanno affidato l’udienza ai loro collaboratori. Saranno invece tutti presenti i legali dei quattro imputati. Fra gli atti firmati dai carabinieri-testimoni ci sono anche i racconti delle due ragazze e il resoconto di quel che successe nella sala d’attesa della caserma di Genova Quarto il 1° settembre 2019. Tutto videoregistrato. C’è Edoardo Capitta che fa il gesto delle manette agli amici quando li vede arrivare, con sua madre che gli dice di «non fare lo stupido e non ridere». C’è Ciro che dice agli altri: «In questi giorni non dobbiamo né vederci né frequentarci anche se non abbiamo nulla da nascondere» e sua madre che lo invita a parlare d’altro. Ma lui insiste, lei sbotta: «Sei veramente uno stupido, stai zitto». I carabinieri fanno uscire gli accompagnatori e i ragazzi restano soli. La scena è descritta così: Ciro si porta le mani vicino alle orecchie per dire «ci ascoltano». E Vittorio: «Siamo indagati ma sappiamo di essere innocenti».

Violenza sessuale di gruppo, al via il processo al figlio di Beppe Grillo. Il Tempo il 30 maggio 2022.

Al via il processo a Ciro Grillo, il figlio di Beppe Grillo. Il luogotenente dei Carabinieri in servizio alla Compagnia di Milano Duomo che nell’estate del 2019 ha eseguito la perquisizione e i sequestri a carico di Ciro Grillo, il maresciallo dei Carabinieri che presta servizio al Nucleo Operativo di Genova San Martino che ha eseguito le perquisizioni e i sequestri nei confronti di Edoardo Capitta, e ancora, il maresciallo che ha eseguito la perquisizione a casa di Francesco Corsiglia. Sono soltanto 3 dei 7 rappresentanti della Polizia giudiziaria che mercoledì, 1 giugno, saranno chiamati a deporre al Tribunale di Tempio Pausania, in Sardegna, per l’inizio del processo a carico del figlio di Beppe Grillo e dei suoi tre amici, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Sono tutti accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una studentessa di 19 anni. Lo stupro di gruppo sarebbe avvenuto nel luglio del 2019 nella villa in Costa Smeralda di Beppe Grillo. I ragazzi si sono sempre difesi dicendo che i rapporti fossero «consenzienti» ma per la Procura, che sarà rappresenta in aula direttamente dal Procuratore Gregorio Capasso, la violenza ci sarebbe stata. Sono 7 gli ufficiali di polizia giudiziaria che saliranno sul banco dei testimoni. Prestano servizio tra Milano e Genova, dove risiedono rispettivamente la vittima e i 4 imputati. I 4 giovani, che non saranno in aula, sono stati rinviati a giudizio lo scorso novembre. «Oggi finalmente ricomincio a respirare», aveva detto attraverso la sua legale, Giulia Bongiorno, la ragazza che ha denunciato lo stupro, dopo avere appreso del rinvio a giudizio dei 4 giovani. «La mia assistita è finita sul banco degli imputati», aveva denunciato la senatrice Bongiorno prima di lasciare il Tribunale.

Ma quali sono le accuse contro i quattro imputati? «Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno», «afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka» e «costretta ad avere rapporti di gruppo» dai 4 giovani indagati che hanno «approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica» di quel momento. Sono soltanto alcune delle accuse della Procura di Tempio Pausania (Sassari) a carico dei 4 ragazzi della Genova bene. Pagine su pagine di orrori raccontati dalla giovane studentessa italo-norvegese, di appena 19 anni, che avrebbe subito, quel 17 luglio di tre anni fa. Come si legge nelle carte della Procura «il residence è stato individuato grazie a un selfie scattato» dalla giovane ragazza ed «è riconducibile a Beppe Grillo». Le indagini sono state chiuse per due volte, una prima volta a novembre e una seconda volta a inizio maggio, dopo i nuovi interrogatori dei giovani. E nei mesi scorsi Ciro Grillo è stato riascoltato ma non dal Procuratore, come era accaduto le prime due volte, bensì dai Carabinieri di Genova, su delega del magistrato.

Secondo i magistrati non fu «sesso consenziente», come dice invece la difesa degli indagati. Per l’accusa è stata «violenza sessuale di gruppo». E per dimostrarlo hanno allegato agli atti, il racconto crudo della giovane che spiega di essere stata stuprata a turno. «Verso le 6 del mattino - si legge in un verbale - mentre R. M. (l’amica della vittima ndr) dormiva», scrivono i magistrati, la giovane è «stata costretta» ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, con uno dei ragazzi. «Gli altri 3 indagati hanno assistito senza partecipare». Poi un’altra violenza, costringendo la giovane a bere mezza bottiglia di vodka contro il suo volere. La Procura ha anche una serie di fotografie e immagini che ha inserito nel fascicolo. «La ragazza ha poi perso conoscenza fino alle 15 quando è tornata a Palau», scrivono i pm. La «lucidità» della vittima «risultava enormemente compromessa» quando è stata «condotta nella camera matrimoniale dove gli indagati» l’avrebbero costretta ad avere «5 o 6 rapporti» sessuali.

Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, che negano tutte le accuse di violenza sessuale, a metà luglio del 2019, erano in vacanza in Costa Smeralda, tra serate danzanti al Billionaire e cene con gli amici. Ma una notte, il 16 luglio, come poi ha raccontato la ragazza di 19 anni, si sarebbero resi responsabili di stupro di gruppo. A loro carico ci sarebbero anche alcune fotografie che i consulenti della Procura hanno trovato sui cellulari e qualche intercettazione. La ragazza, che è difesa dall’avvocata Giulia Bongiorno, ex ministra leghista nel primo governo Conte, è stata più volte dagli inquirenti e ha raccontato, fin nei minimi particolari, quanto sarebbe accaduto in quella notte. I magistrati in oltre 1 anno e mezzo di indagini hanno anche messo sotto controllo i telefoni non solo dei ragazzi ma anche di altre persone, tra cui quello di Parvin Tadjik, madre di Ciro Grillo e moglie del comico genovese. La donna, sentita dai pm, ha sempre raccontato che quella sera dormiva nell’appartamento accanto a quello in cui si sarebbe consumata la violenza, dicendo di non essersi accorta di niente.

Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, grazie al racconto della vittima ma anche di alcuni testimoni, quella notte di metà luglio 2019, Ciro Grillo e i suoi 3 amici avevano trascorso la serata al Billionaire. Poi, quasi all’alba, avevano lasciato il locale con 2 giovani studentesse milanesi. Le ragazze avevano seguito i 4 giovani nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda. Solo che su quello che è accaduto qui ci sono diverse versioni. Da un lato la ragazza, che ha raccontato di essere stata stuprata, dopo che l’amica si era addormentata. La giovanissima ha detto di essere stata costretta a un rapporto sessuale con uno dei ragazzi. E poi essere stata stuprata anche dagli altri 3. Per «5 o 6 volte».

Ma la versione fornita dai giovani rampolli della Genova bene è del tutto diversa. Hanno raccontato che il rapporto di gruppo con la giovane c’era stato ma che era «consenziente». E per rafforzare la loro tesi hanno raccontato ai magistrati che li hanno interrogati più volte che dopo il primo rapporto, lei e il primo ragazzo, sarebbero andati insieme a comprare le sigarette, e al ritorno, nella villa del Pevero, a Porto Cervo, lei avrebbe avuto rapporti consenzienti con gli altri 3. E che nei giorni seguenti ci sarebbero stati scambi di messaggi con i ragazzi. La denuncia è avvenuta solo successivamente, quando la ragazza era tornata a casa a Milano, quando ha raccontato quanto avvenuto durante una visita alla clinica Mangiagalli. Una versione che contrasta totalmente con quanto raccontato dalla ragazza, una studentessa italo-norvegese in vacanza con l’amica. Da mercoledì prenderà il via il processo. Ma i 4 imputati non ascolteranno le deposizioni dei 7 ufficiali di Polizia giudiziaria.

Grillo jr, al via il processo ma i giudici vanno piano. Luca Fazzo l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il figlio del fondatore M5s alla sbarra per stupro: soltanto un'udienza al mese e porte chiuse.

E adesso si prepara il drammatico momento del faccia a faccia. Perché delle due l'una, e una terza verità non può esistere. O S. è una giovane donna pronta a facili avventure e altrettanto facili pentimenti. O nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda si è consumato, in una sera d'estate ormai di tre anni fa, il più brutale degli stupri di gruppo, con quattro ragazzotti pieni di soldi - compreso il figlio del padrone di casa - pronti a ubriacare una giovane donna e a passarsela poi come un oggetto.

Da quando, dieci giorni dopo la notte nella villa, la ragazza bussò alla porta dei carabinieri milanesi della compagnia Duomo per raccontare tutto, le due verità si fronteggiano. Ma adesso è arrivato il momento del processo, che si apre oggi a Tempio Pausania. E alla prossima udienza, il prossimo 6 luglio, S. dovrà venire in aula a raccontare la sua verità. E dalla sua capacità di convincere i giudici, di reggere al controinterrogatorio dei legali degli imputati si giocheranno in buona parte le sorti del processo.

Udienza oggi, la prossima tra un mese, poi le vacanze, poi una udienza al mese fino a novembre: già i ritmi singolarmente blandi dedicati dal tribunale di Tempio ad un processo di grande gravità e altrettanta eco, la dicono lunga su come la giustizia ha affrontato il caso dello stupro attribuito a Grillo junior. Mentre il fondatore e garante dei 5 stelle in tivù sparava ad alzo zero sulla presunta vittima, inchiesta e passaggi procedurali hanno viaggiato al ralenti per anni.

Il procuratore di Tempio, Gregorio Capasso, che oggi sarà in aula di persona, dà la colpa ai carichi di lavoro: «È un ufficio faticosissimo, con tre soli sostituti e un carico di lavoro enorme». Ma questo non spiega il ritmo di una udienza al mese con cui andrà avanti il processo.

L'interrogatorio di S. avverrà a porte chiuse, come tutto il processo, per proteggere la privacy della ragazza. Privacy che per alcuni aspetti è stata già violata, rendendola quasi identificabile e divulgando un precedente caso in cui si era dichiarata vittima di violenze sessuali poi non riscontrate. A porte chiuse oggi verranno sentiti i carabinieri che per primi hanno indagato. Quattro sono di Milano, tra loro c'è il maresciallo che riferirà «in ordine alla perquisizione e sequestro eseguiti il 29.8.2019 nei confronti dell'imputato Ciro Grillo»; nello stesso giorno vengono perquisiti dai carabinieri di Genova gli altri tre giovani (Vittorio Lauria, Francesco Consiglia e Edoardo Capitta).

Dalla denuncia della ragazza, presentata il 26 luglio, è passato più di un mese. Quante prove siano svanite in quel mese di attesa non si saprà mai. Dopo i carabinieri di Milano e Genova verranno interrogati i loro colleghi, Antonio Cossu e Luca Levrini, che vennero inviati a fare un sopralluogo «in località Pevero, frazione di Arzachena», ovvero nella villa affittata dall'ex comico. Data del sopralluogo: 12 settembre 2019. Un altro ritardo inspiegabile, ed altre prove potenzialmente evaporate. Come i ricordi di Parvin Tadijk, la moglie di Beppe Grillo, che quella notte era nella villa ma quando finalmente viene sentita dirà di non ricordare nulla di particolare. E che dovrà anche lei venire nell'aula di Tempio a testimoniare.

In ogni caso il piatto forte, l'udienza chiave, sarà quella in cui verrà sentita S., la ragazza italo-norvegese che ha denunciato il quartetto. Insieme a lei verrà sentita l'altra presunta vittima, la ragazza cui uno dei giovani appoggiò i genitali in faccia mentre dormiva, immortalando la scena.

Il processo a Grillo jr. con tempi da moviola. E una teste chiave non si presenta in aula. Luca Fazzo il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

La prossima udienza per il figlio di Beppe accusato di stupro tra un mese.

Già un anno fa, inaugurando l'anno giudiziario, il presidente della Corte d'appello di Cagliari scrisse che nel tribunale di Tempio Pausania si era davanti alla «vera e propria paralisi dell'attività giurisdizionale verificatasi in vasti settori» a causa del fuggi fuggi di magistrati e cancellieri. Da allora nulla è cambiato, l'allarme al ministero della Giustizia è come se non fosse arrivato. La conseguenza si materializza ieri, quando nel palazzo di giustizia nel cuore della Gallura si apre il processo più delicato di sua competenza: il dibattimento a carico dei quattro giovani genovesi accusati di avere violentato una coetanea, la notte del 16 luglio 2019, in una villa di Arzachena.

Sarebbe un processo importante anche se tra gli imputati non ci fosse Ciro Grillo, il figlio di Beppe, ex comico e fondatore dei 5 Stelle: perché è il processo a una degenerazione dei rapporti umani, dove appare normale che una ragazza venga portata in una casa, che si ubriachi o la si faccia ubriacare, che - volente o meno - la si passi di mano in mano. Ma il nome di Grillo junior ne ha fatto inevitabilmente un processo ad alto impatto politico, specie dopo il furibondo sfogo di Grillo senior in difesa del ragazzo.

Eppure i ritmi del processo sono da terzo mondo. Ieri praticamente non succede niente, l'unica testimone davvero importante - la carabiniera che raccolse, dieci giorni dopo i fatti, la denuncia della ragazza - non si presenta in aula per «legittimo impedimento», ed è un peccato perché fu lei la prima a vedere in faccia la studentessa, e a poterne oggi descrivere le condizioni, la precisione dei ricordi, le eventuali contraddizioni. Invece la Procura si deve accontentare di altri cinque testimoni, tutti carabinieri, mandati a eseguire i primi accertamenti. Niente di rilevante, anche se il difensore di uno degli imputati, Antonela Cuccureddu, fa già sapere che «ci sono delle incongruenze». Il problema vero è che la prossima udienza si farà solo il 6 luglio, per sentire la marescialla che ieri non è potuta venire. E ancora più significativo è che il processo rischi a quel punto un nuovo stop, perché non è sicuro che gli apparecchi elettronici disponibili in aula consentano di riprodurre i video e gli audio acquisiti agli atti. E di cui giustamente la Cuccureddu chiede «che siano resi visibili e ascoltabili sin dalla prossima udienza». Il tribunale ha fatto sapere che «verificherà».

Ciro Grillo, l’imputato che adesso studia legge a Genova. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.

Ogni tanto lo si vede al quarto piano del Palazzo di Giustizia di Genova. Segue le udienze, è attento ai passaggi tecnici di magistrati e avvocati. Non ha ancora scelto, pare, quale strada prendere per il futuro, se la magistratura o l’avvocatura. Una cosa però gli è già chiara: la materia penale gli interessa, e molto.

Gli abusi

Stiamo parlando di Ciro Grillo. Del ragazzo dal cognome ingombrante che finora ha pesato tantissimo sulla visibilità dei suoi guai giudiziari. Lui, il figlio di Beppe che è il fondatore e garante del Movimento cinquestelle, ha deciso di iscriversi al corso di laurea in Giurisprudenza a Genova, la sua città. E lo ha deciso dopo i fattacci che lo hanno travolto, nell’estate del 2019, facendo di lui un imputato per violenza sessuale di gruppo assieme ai suoi amici di sempre, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, accusati anche loro dello stesso reato. A raccontare degli abusi, nella casa dove i ragazzi erano in vacanza in Costa Smeralda, fu una loro coetanea (avevano tutti 19 anni) e la procura di Tempio Pausania (Sassari) si è occupata dell’inchiesta. Ieri era giorno d’udienza per il loro processo, che si tiene a porte chiuse. Davanti ai giudici del tribunale di Tempio avrebbero dovuto comparire sette ufficiali di polizia giudiziaria (cinque marescialli, un luogotenente e un capitano) ma la testimone che secondo gli avvocati dei ragazzi era la più importante non si è presentata (era assente giustificata). Era stata lei, che è una marescialla, a seguire le prime fasi dell’inchiesta e a firmare quattro informative fra luglio e novembre del 2019; sue anche le firme per gli accertamenti sui tabulati telefonici. Senza la sua presenza l’udienza si è chiusa in meno di due ore, durante le quali il tribunale ha anche confermato ai legali, com’era ovvio, che in aula saranno ascoltati gli audio e saranno visti i filmati ammessi come fonti di prova. Prossima udienza: 6 luglio.

In aula

Niente di importante, dunque, è arrivato ieri dall’aula mentre dettagli sconosciuti sulle vite degli imputati sono emersi fuori dal Palazzo di Giustizia, nel racconto degli avvocati dei ragazzi. Come l’università scelta da Ciro Grillo, appunto. Che nel tribunale genovese segue gli stage universitari e che si interessa molto di processi penali, chiede informazioni ai suoi avvocati, Andrea Vernazza ed Enrico Grillo (suo cugino). Sua madre, Parvin Tadijk, è sollevata perché «lo vedo più tranquillo, finalmente la notte ora dorme», ha confidato ai legali. Al di là di come andrà a finire dal punto di vista giudiziario, è chiaro che questa storia ha cambiato le vite di tutti i protagonisti, imputati compresi. La ragazza che ha denunciato tutto è all’estero e oggi, come ha più volte spiegato la sua avvocata Giulia Bongiorno, sta faticosamente cercando di costruire il suo futuro e la sua tranquillità. È fuori dall’Italia anche Francesco Corsiglia, uno dei quattro amici sott’accusa che, come gli altri, non è certo felice della risonanza di ogni singolo passaggio di questa vicenda. E infine: l’inchiesta, lo stress e il processo hanno fatto perdere anni di studio a Vittorio Lauria che affronterà adesso, a 22 anni, l’esame di maturità.

Andrea Bulleri per il Messaggero il 2 giugno 2022.

Lui, il figlio del Garante del Movimento 5 stelle, in aula ha scelto di non presentarsi. Così come non si sono fatti vedere al tribunale di Tempio Pausania (in provincia di Sassari) gli altri tre imputati, gli amici genovesi Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Ma il processo per stupro di gruppo a carico di Ciro Grillo, figlio ventunenne del comico e fondatore del M5s Beppe, è cominciato lo stesso, con un'udienza durata poco meno di tre ore. A parlare di fronte al giudice Marco Contu, ieri all'ora di pranzo, sono stati i primi sei di oltre 50 testi ammessi al dibattimento. 

Si tratta dei carabinieri di Milano e Genova che per primi raccolsero le testimonianze delle due presunte vittime delle violenze, avvenute - secondo la ricostruzione - la notte tra il 16 e il 17 luglio 2019, dopo una serata al Billionaire di Porto Cervo. Teatro degli abusi, denunciati dalle due giovani all'epoca diciannovenni, la villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda, dove il figlio del comico e i suoi tre amici stavano trascorrendo le vacanze. 

Il processo si svolge a porte chiuse. Ma secondo i difensori di Grillo junior e degli altri tre imputati, dal racconto dei sei militari di ieri sarebbero emerse alcune «incongruenze» con quanto finora riportato agli atti del procedimento. 

«È stata una seduta utile ha detto uscendo dall'aula l'avvocata Antonella Cuccureddu, che difende Corsiglia alcune delle dichiarazioni agli atti hanno trovato riscontro, altre no». «Il processo si svolge a porte chiuse per tutelare tutte le parti - ha ribadito il difensore di Ciro Grillo, Andrea Vernazza Stiamo parlando di ragazzi ventenni all'epoca dei fatti: se risultassero innocenti, sarebbero loro le vere vittime». 

Assenti alla prima udienza anche le due ragazze, che nel corso delle prossime settimane potrebbero essere sentite in audizioni «protette». Le indagini partirono dalla denuncia di una di loro, una giovane italo norvegese che vive a Milano. Rientrata a casa, la ragazza raccontò ai carabinieri di essere stata stuprata dai quattro amici nella villa di Beppe Grillo, dopo una serata trascorsa in discoteca in compagnia di quei giovani che aveva appena conosciuto. 

Una volta a casa di Grillo jr i ragazzi l'avrebbero costretta a bere vodka, aggiuse, poi l'avrebbero violentata. Abusi che i quattro avrebbero immortalato con il cellulare, con foto e video estrapolati dai carabinieri nel momento in cuii loro smartphone sono stati sequestrati. Agli atti sono finiti anche gli sms che i quattro ventenni si scambiarono tra loro e con le due ragazze. Anche per gli abusi nei confronti della seconda giovane la procura ha ipotizzato l'accusa di violenza sessuale di gruppo. I quattro l'avrebbero fotografata e filmata mentre dormiva su un divano, avvicinandole i genitali al viso e ridendo tra loro. «Rapporti consensuali», secondo la difesa dei quattro giovani. Il processo riprenderà il 6 luglio: tra i testi che verranno ascoltati anche la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjik, madre di Ciro.

Giuseppe Filetto per "la Repubblica" il 2 giugno 2022.

La marescialla della Compagnia Duomo di Milano che il 26 luglio 2019 raccolse la denuncia di Silvia sarà ascoltata nella prossima udienza. Ieri assente perché in licenza, era la testimone chiave attesa dagli avvocati della difesa di Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S, e dei suoi tre amici genovesi che la notte tra il 16 e il 17 luglio di quell'anno, in Sardegna, avrebbero stuprato la studentessa milanese e fatto violenza sessuale nei confronti della sua amica Roberta (entrambi i nomi sono di fantasia). I legali degli imputati avevano pronte le domande per la carabiniera. Ci riproveranno alla prossima udienza, il 6 luglio.

Ieri sono stati sentiti gli altri sei colleghi: tre di Milano e altrettanti della Compagnia San Martino di Genova. Quelli che iniziarono per primi le indagini, le intercettazioni, le perquisizioni e i sequestri dei telefonini sui quali erano memorizzati i video e le foto di una notte scivolata tra alcol, sesso di gruppo e immagini oscene. 

Il giudice Marco Contu, come previsto, ha confermato che quel materiale sarà riproposto in aula: saranno riascoltati gli audio e visionati i filmati, prove regine dell'accusa, ma sempre a porte chiuse per tutelare le presunte vittime e gli accusati, tutti poco più che ventenni.

Ieri i 4 imputati non c'erano: oltre a Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Né le due ragazze, anche se la loro presenza sarà inevitabile in futuro. 

I testimoni ieri hanno confermato quanto verbalizzato agli atti presentati dal procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso sull'accaduto nella villetta di Cala di Volpe, in Costa Smeralda, in uso ai Grillo. Alla prossima udienza testimonieranno tre vicini di casa del residence, più il tassista che trasportò le due ragazze al B&B di Arzachena dove alloggiavano, e il titolare del Billionaire dove la sera prima i giovani conobbero Silvia e Roberta.

L'udienza di ieri è stata passaggio formale di un processo lungo, in cui dovranno essere sentiti 56 testimoni, e che ha già lasciato i segni. Se Silvia si è trasferita in Norvegia, perché - dice l'avvocata Giulia Bongiorno - «in Italia non avrebbe potuto vivere», Ciro studia Giurisprudenza. 

Dicono che tema di finire in carcere: per violenza sessuale si rischiano fino a 12 anni. La sua foto a bordo piscina diventata icona di questa brutta vicenda fa da contraltare all'immagine dello studente in giacca e cravatta stagista in questi giorni a Palazzo di Giustizia a Genova. Grillo jr. frequenta lo studio legale del suo avvocato Andrea Vernazza, penalista: «Mi chiede dei processi che seguo».

Sua mamma, Parvin Tadijk, moglie di Beppe, avrebbe raccontato che il figlio dopo due anni da incubo «ora sta meglio. E di notte dorme». Vittorio Lauria, invece, ha perso anni di scuola e non riesce a superare l'esame di Maturità. Corsiglia studia all'estero. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 7 Luglio 2022.

Il processo di Tempio Pausania sul presunto stupro ai danni di una giovane italo-norvegese, S.J., e molestie nei confronti di una coetanea milanese, R.M., ieri è entrato nel vivo e non sono mancate le prime schermaglie tra difesa, accusa e parti civili.

Il procedimento vede imputati Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, quattro genovesi classe 2000, che la notte tra il 16 e il 17 luglio trascorsero alcune ore con le presunte vittime, tra una discoteca e l'appartamento in uso ai ragazzi nel golf club di Arzachena, immobile situato di fianco a quello dei genitori di Ciro. È qui che i quattro giovani avrebbero abusato delle studentesse.

Gli avvocati degli imputati, meno esperti di processi mediatici rispetto ai colleghi delle parti civili, hanno comunque sorpreso i giornalisti, presentandosi davanti alla corte (composta dal presidente Marco Contu e dai giudici a latere Nicola Bonante e Marcella Pinna) accompagnati da due imputati, Capitta e Lauria. Una scelta che aveva certamente l'intento di segnalare alle toghe come gli imputati non siano indifferenti rispetto a quanto successo e al procedimento in corso.

Insomma ventenni sì, ma non insensibili e fuori dal mondo. Capitta e Lauria (camicia azzurra il primo, bianca il secondo, pantaloni scuri per entrambi) si sono seduti nei banchi riservati al pubblico, vuoti perché il processo si celebra a porte chiuse. Nessuno dei due è stato interrogato, né ha rilasciato spontanee dichiarazioni. Durante l'udienza, durata ben sei ore a partire dalle 13, sono stati sentiti otto testimoni.

Tra questi il maresciallo dei carabinieri Cristina Solomita, della compagnia Duomo di Milano, che all'epoca dei fatti ha raccolto la denuncia della ragazza italo norvegese e svolto i primi accertamenti tecnici sulle celle telefoniche dei protagonisti della nottata. I difensori dei ragazzi hanno chiesto quali domande abbia fatto a S.J. durante la videoregistrazione della denuncia che così diventano temi di indagine su cui legali potranno sentire la presunta vittima a 360 gradi, come ha potuto fare la carabiniera. 

Tantissime domande sono state poste anche sui tabulati che dovranno essere sviluppati dal consulente tecnico delle difese e che saranno utili negli interrogatori degli imputati e nell'esame degli altri testimoni, soprattutto per quello che riguarda l'aggancio delle celle e quindi il posizionamento dei telefoni con i quali sono state scattate alcune foto. Qui il tema è il presunto spostamento in auto di S.J. con due dei suoi presunti aguzzini per andare a comprare in paese le sigarette tra il primo e il secondo stupro. 

Sono stati ascoltati anche i due carabinieri, Luca Levrini e Antonio Cossu, che hanno svolto il sopralluogo nell'appartamento in uso ai ragazzi ed effettuato le attività investigative e le trascrizioni dei file contenuti nei telefonini delle presunte vittime e degli imputati. Sentiti in aula pure Roberto Pretto, l'amministratore del Billionaire, il locale di Porto Cervo dove i ragazzi trascorsero la serata prima di trasferirsi a casa, il tassista che portò le ragazze a casa di un amico a inizio serata, ma soprattutto tre vicini, la cui testimonianza è stata accolta dalle difese come un punto a favore.

Si tratta di Maria Beatrice Picco, Maria Luisa Attena e Ibrahim Bedawi. La stanza da letto del secondo è ubicata sopra l'ala della casa dove si sarebbe consumato lo stupro; il terzo era ospite in un appartamento che si trova esattamente di fronte al patio, circa dieci metri in linea d'aria, dove S.J. sarebbe stata costretta a bere la vodka dai suoi violentatori.

Tutti e tre hanno sostenuto di non avere visto stranezze o udito grida, quella notte di tre anni fa, ma solo «chiacchiere» e «canzoni». Insomma, nulla che facesse pensare a uno stupro di gruppo. 

«È stata un'udienza molto utile, le dichiarazioni dei vicini di casa e le spiegazioni dei pubblici ufficiali che hanno svolto accertamenti e indagini confermano l'impianto difensivo sulla innocenza dei nostri assistiti», ha commentato l'avvocato della difesa, Antonella Cuccureddu.

Ma per l'avvocato Giulia Bongiorno (non presente in aula) e il suo sostituto, Dario Romano, «non cambia nulla»: «Questo non è uno stupro avvenuto in mezzo alla strada», hanno dichiarato la Bongiorno e Romano all'Adnkronos, «quindi non è rilevante sapere se qualcuno abbia sentito le urla. Questo contesto è completamente diverso. Mai la ragazza ha detto di avere gridato, anzi al contrario ha detto sempre di avere perso conoscenza e di essere stordita». I legali hanno anche aggiunto: «Quindi stiamo parlando di un contesto in cui si deve accertare se lei è stata oggetto di questi atti sessuali in una situazione di incapacità».

Anche perché i video della serata, della durata complessiva di meno di un minuto, non mostrano un'aggressione, ma un rapporto sessuale di gruppo in cui la ragazza non appare forzata. Ma secondo la parte civile in quel momento la giovane non sarebbe stata in grado di esprimere un rifiuto, soprattutto a causa del suo stato di ubriachezza; infatti, dopo il primo rapporto con Corsiglia, sarebbe stata costretta a bere, come detto, vodka dagli altri tre amici. Gli imputati hanno dichiarato che la giovane italo-norvegese avrebbe tracannato il superalcolico spontaneamente. La prossima udienza è prevista dopo la pausa estiva, il prossimo 21 settembre.

Giacomo Amadori per "La Verità" il 9 luglio 2022.

Giovedì i giornali hanno riportato con enfasi che nel processo a Ciro Grillo e a tre suoi amici sarebbero entrate nuove chat favorevoli alla presunta vittima di stupro di gruppo, la ventunenne italo-norvegese S. J.. Peccato che le ipotetiche prove inedite fossero già state ampiamente raccontate sulla Verità un anno fa. Si tratta delle trascrizioni dei messaggi vocali, di Whatsapp e di Messenger che a partire dalle 14 e 36 del 17 luglio, cioè circa sei ore dopo la supposta violenza, S. scambia con il suo istruttore di kitesurf, Marco G.. 

La studentessa descrive la sua alba complicata. Racconta di aver fatto qualcosa, di cui sembra essersi pentita, in uno stato di ebrezza, ma non parla di violenze.

Di nuovo ci sono le vive voci dei due interlocutori, disponibili in anteprima sul sito del nostro giornale (Laverita.info).

Questi messaggi erano stati fatti ascoltare per la prima volta il 25 agosto 2019 dall'insegnante, quarantacinquenne originario di Gorizia, ai carabinieri del Reparto territoriale di Olbia, da cui era stato convocato come testimone.

Riavvolgiamo adesso il nastro sino alle 12 e 10 del 17 luglio. Marco G. scrive a S. per avvertirla che si è infortunato e che quindi non potrà essere presente alla lezione delle 15: «Ciao grande kiter, ci tenevo ad avvisarti di persona che sono fuori uso, ho la caviglia destra enorme». L'uomo allega anche la foto del «piedone».

Alle 14 e 36 l'italo-norvegese, che in quel momento è stata appena svegliata dall'amica R.

M. e si trova ancora a casa di Ciro & C., sembra voler far finta di nulla con l'istruttore: «Uddio come stai? Come cazzo hai fatto?». Passano 20 minuti e S. realizza: «Nooo quindi oggi non sono con te giusto? Mi spiaceeeeee. Spero che tu ti rimetta presto». Altri 25 minuti e S. digita: «Marco ieri sera ho fatto casino poi quando ci vediamo ti racconterò». Alle 15 e 47, mentre la studentessa sta andando a lezione, Marco G. replica: «Spero non si tratti di nulla di grave». 

E lei alle 15 e 58 gli manda questo vocale, ascoltabile sul nostro sito: «No, Marco tranquillo, non ti preoccupare ehm ho fatto una cazzata, poi te la racconterò, eh, niente, cioè parliamo un attimo ehm mi serve un po' una dritta diciamo proprio cinque dita in faccia mi servono, comunque ehm sto andando a lezione, mi spiace un casino che non ci sei, spero che tu rimetta presto perché ci tengo anche io prima per la tua salute ovviamente, poi ci tengo anche per le lezioni con te. E niente spero di vederti presto così, cioè, parliamo e ci divertiamo (ride, annotano gli investigatori, ndr)».

Davanti ai militari Marco G. ipotizza che quel riferimento alle «5 dita in faccia» potesse significare «che per quello che aveva fatto si meritava una sberla».

Ma torniamo al dialogo tra maestro e allieva. Il primo, alle 20 e 10, avverte che richiamerà dopo cena.

Verso le 20 e 30 S. manda due audio uno dietro l'altro.

Nel primo descrive la sua lezione («Con voce soddisfatta» precisa Marco G. con i carabinieri) che «è andata abbastanza bene», racconta come si sia trovata con la nuova istruttrice Francesca B. e specifica di aver lavorato sulla tecnica non essendoci un gran vento.

Francesca B., a verbale, ha specificato come S. fosse «eccitata ed euforica», ma ha anche aggiunto: «Escludo che la ragazza abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto gli effetti dell'alcol, anche perché non le avrei consentito di iniziare la lezione».

Nell'audio delle 20 e 27 S. dice anche che avrebbe voluto che ci fosse Marco per vedere questo «improvement (miglioramento, ndr) bellissimo (ride, ndr)». Nell'altro messaggio giustifica, come chiosa l'istruttore con gli investigatori, il suo essere andata in spiaggia «senza aver dormito e ubriaca» con il «bisogno di uno stacco»: «L'unica cosa che non dovevo fare oggi, anche se è andata benissimo, però avevo bisogno veramente di uno stacco diciamo mentale. Sono andata in spiaggia senza aver chiuso occhio, cioè dormito zero e in più ubriaca, cioè ero ubriachissima, infatti poi ho riletto i messaggi e cioè anche quando stavo camminando ero proprio andata. Vabbuò. Questo quindi mi sa che non lo farò più ho sgravato di brutto. Vabbé».

In questo vocale c'è una dichiarazione molto interessante della ragazza, la quale, durante gli interrogatori, ha sostenuto di aver perso conoscenza mentre veniva abusata.

Già la versione di lei inerme sembra smentita dai brevi filmati agli atti, in cui si vede la giovane partecipare attivamente al rapporto a quattro; adesso sembrerebbe cadere anche l'ipotesi che sia svenuta durante quell'amplesso e che si sia ripresa solo dopo alcune ore. Forse S. potrebbe essere rimasta sveglia a ripensare a quanto accaduto, potrebbe anche essersi pentita di come fossero andate le cose e potrebbe essere crollata solo in tarda mattinata piegata dalla stanchezza.

Di certo con le amiche ha mostrato di essere molto critica con sé stessa per i propri comportamenti con i ragazzi.

Si era anche lamentata di essere stata usata e buttata «via come spazzatura».

L'amica norvegese Mia le aveva consigliato di non darsi colpe e di consultare uno psicoterapeuta. S., dopo aver promesso di farsi vedere da uno specialista, aveva insistito (la traduzione è della consulente della Procura): «[] Magari, chi lo sa, mi aiuterà a tornare sulla strada giusta []. Hai ragione, sto accumulando così tanti episodi e altro che non riesco più a gestirli e diventa sempre più difficile capire perché cose così accadano e come evitarle []». Nelle carte c'è un ulteriore audio di S., in cui la giovane usa espressioni colorite e sicuramente esagerate per descrivere il suo rapporto con l'altro sesso e i suoi incontri in un bar di Milano: «La sfiga madornale è il fatto che magari mi faccio gente in diverse serate, poi me le ritrovo lì, tutti insieme allo stesso tavolo e son tipo "Ah guarda il gruppetto che mi sono fatta a luglio", magari, o a giugno o a marzo, sempre così, ma che cazzo di sfiga. Poi tipo gente che magari mi ferma per strada e mi fa: "Ah ma tu sei la ragazza di ieri sera". E io sono tipo: "Ah ah, io non mi ricordo della tua faccia". Però ok, ci sta. Fanculo il mondo». Per questo dice che la sua «situazione è ridicola» e che non voleva tornare a Milano dopo aver vissuto due anni a Oslo.

Tornando all'istruttore, verso le 22 del 17 luglio prova a chiamare inutilmente l'allieva, che probabilmente si è assopita, e quindi le invia questo vocale: «S. ho provato a telefonarti, ma non mi rispondi beh mi sento molto più tranquillo, se è una sbevazzata ci sta eh? Porco zio hai diciott' anni dai non essere troppo severa con te stessa poi (inc. forse "sai dartela") da sola le risposte». 

A verbale Marco G. ha riferito ai carabinieri quanto gli avrebbe confessato la ragazza successivamente, in un giorno non definito: «Durante i tempi morti della lezione ha incominciato a raccontarmi, in maniera peraltro confusionaria, che le era successa una cosa brutta e non sapeva come comportarsi». Di fronte alla richiesta di chiarimenti aveva replicato: «È che è successo di nuovo». Una frase criptica che Marco avrebbe decifrato immediatamente: «Ho subito immaginato che si stesse riferendo alla confidenza che mi aveva fatto l'anno prima, ossia che era stata abusata dal suo migliore amico» con cui in precedenza «si erano baciati senza andare oltre». Ma dopo che il giovane «era caduto dalle nuvole ritenendo il rapporto sessuale consensuale, aveva deciso di non denunciarlo».

Sull'episodio adesso indaga la Procura per i minorenni di Sassari (entrambi i giovani all'epoca aveva 17 anni). Marco, però, nell'occasione avrebbe avuto la sensazione che S. si stesse «arrampicando sugli specchi» e che stesse cercando di «attirare l'attenzione».

La descrizione («confusa e contraddittoria» a giudizio dell'istruttore) di ciò che era avvenuto il 17 luglio sarebbe stata, invece, questa: alcuni «ragazzi, forse 4, avevano abusato sessualmente di lei» e «S. sosteneva sempre di non ricordare bene l'accaduto perché era molto ubriaca e non sapeva neanche se fosse avvenuto di sera o di mattina». Per questo il quarantacinquenne goriziano ha concluso: «Non ho creduto più di tanto a quello che mi stava dicendo». Per l'avvocato di S., Giulia Bongiorno, sarebbe stata la condizione di ebrezza della presunta vittima a rendere quel sesso di gruppo uno stupro: S. «ha detto sempre di avere perso conoscenza e di essere stordita. Quindi stiamo parlando di un contesto in cui si deve accertare se lei è stata oggetto di questi atti sessuali in una situazione di incapacità». Che adesso dovrà essere dimostrata in aula, anche se sarà difficile stabilire il livello di alcolemia di S. quella mattina, non essendosi la ragazza sottoposta a immediati esami medici.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 20 settembre 2022.

«Non avevo letti sufficienti per ospitare anche gli amici di mio figlio e così ho chiesto a una mia amica con cui ci scambiamo dei favori di dare in uso la sua abitazione per farci stare i ragazzi nel periodo di vacanza. Io ero al civico 36, loro al 37. Le case sono divise da un patio»(...) «Per motivi di sicurezza, e comunque per mia tranquillità, avevo chiesto ai ragazzi di tenere le finestre della sala aperte di notte. E anche io lo facevo in modo da poter essere comunque in contatto con loro» (...)

«Quella mattina ho fatto colazione nel patio della mia abitazione e posso dire che non ho visto né sentito alcunché di anomalo» (...) «Ho chiesto come fosse andata la serata e mi hanno detto che avevano conosciuto due ragazze amiche di amici» (...) «Non mi hanno fatto alcuna confidenza specifica sulla serata. Erano tranquilli».

Questo disse e, salvo colpi di scena, lo ripeterà anche domani in aula Parvin Tadjik, moglie del fondatore dei Cinquestelle Beppe Grillo. Il loro figlio, Ciro, assieme agli amici Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta, è accusato di violenza sessuale di gruppo. E domani in Sardegna, davanti ai giudici del tribunale di Tempio Pausania, riprendono le udienze del processo (a porte chiuse) dopo la pausa estiva. Con nove testimoni da sentire, a cominciare proprio da lei, Parvin (poi la domestica, una vicina, due farmacisti e i gestori e dipendenti di un bar).

Non grandi racconti ma piccoli pezzi per comporre il puzzle di quella mattina, il 17 luglio del 2019, cioè la data del presunto stupro di due ragazze che la cronaca ha sempre chiamato con nomi falsi: Silvia e Roberta. Quell'estate del 2019 avevano tutti 19 anni - i ragazzi e le ragazze - erano stati tutti al Billionaire a ballare la sera precedente, avevano bevuto tutti una quantità di alcol che è diventato uno dei nodi da sciogliere nel processo. Erano presenti a se stessi mentre facevano sesso con Silvia (prima uno solo di loro e poi gli altri tre assieme)? Era presente a se stessa la ragazza? Era in grado di opporsi e respingerli?

Secondo la loro versione era consenziente e ha volontariamente avuto un rapporto sessuale con Francesco prima e con gli altri tre assieme più tardi (mentre Francesco dormiva, dicono). Ma lei racconta una versione diversa: costretta a fare quello che ha fatto sia dal primo ragazzo che dagli altri, più tardi, (con la voce di Francesco in sottofondo) dopo essere stata forzata a bere un mix di vodka e lemonsoda.

Che avesse bevuto o no, è stata invece vittima di abusi ma ignara di tutto l'altra ragazza, Roberta. Dormiva sul divano e non si è accorta che i ragazzi (escluso Francesco) hanno scattato fotografie e girato un breve video a sfondo sessuale accanto a lei. Domani i giudici di Tempio ascolteranno, appunto, nove dei testimoni di questa storia chiamati a deporre dal procuratore Gregorio Capasso. Testi che hanno già raccontato la loro versione dei fatti e nessuno di loro (Parvin Tadjik compresa) risulta abbia detto niente di fondamentale per confermare o smentire con certezza l'accusa o la difesa.

La mamma di Ciro Grillo in aula. È scontro su una vecchia chat. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 22 settembre 2022.  

Ci sono le domande e le risposte, e poi ci sono le interpretazioni. Ieri, nel tribunale di Tempio Pausania — dove si celebra il processo a Ciro Grillo e ai suoi tre amici genovesi — l’interpretazione prevalente era «è andata bene». Questione di punti di vista. Era la prima udienza importante del processo che potrà fare la differenza nelle vite di Ciro Grillo (figlio del garante del Movimento Cinquestelle) e dei suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Due ragazze — che abbiamo sempre chiamato con i nomi inventati di Silvia e Roberta — li accusano di violenza sessuale di gruppo e ieri, davanti ai giudici, era il giorno della testimonianza di Parvin Tadjik, la moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro.

La testimonianza

Lei era nella casa accanto a quella del presunto stupro, la mattina di quel 17 luglio del 2019. Finestre aperte e nessun rumore sospetto, ha sempre detto. A casa con lei c’era anche la sua amica Maria Cristina Stasia, altro nome nella lista dei testimoni di ieri. Ma non sono state sui rumori di quel mattino le domande più insistenti per Parvin Tadjik. Dario Romano, dello studio di Giulia Bongiorno (che ieri non ha potuto essere presente e che difende Silvia) ha insistito su una chat fra la donna e suo figlio datata agosto 2017. Una conversazione finita agli atti nella quale lei rimprovera aspramente lui che si trova dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda. Ciro era in vacanza-studio in una scuola di Auckland che a un certo punto voleva espellerlo perché il vicepreside si era molto infastidito per alcune sue affermazioni.

In Nuova Zelanda

Aveva detto a un compagno di studi che avrebbe dato volentieri due schiaffi proprio al vicepreside, aggiungendo che «ha due figlie che mi scoperei». Una professoressa aveva sentito e riferito tutto e la questione era diventata un procedimento disciplinare. Alla fine, prima che l’espulsione fosse di fatto applicata con la forza e con il coinvolgimento della polizia (perché lui voleva opporsi), il ragazzo si convinse a rientrare in Italia e la chiuse così, senza conseguenze se non lo sdegno di sua madre che gli scrisse cose tipo «il tuo è tipico atteggiamento del teppistello», oppure «non credere di arrivare e di ricominciare con i tuoi ritardi a scuola, non ti permetterò di rovinare la tua e la mia vita».

La difesa

A cinque anni di distanza la domanda è: perché tornare su quelle conversazioni? La risposta l’ha data in aula l’avvocato Romano che ha definito «tentata violenza sessuale» la frase sulle figlie del preside. «Non scherziamo» è stata la reazione dei legali del ragazzo, Enrico Grillo e Andrea Vernazza, «se fosse così dovrebbero indagare quasi tutta la popolazione maschile. È un modo di dire poco elegante ma non indica certo la propensione alla violenza sessuale». Per la difesa di Silvia invece le domande a Parvin Tadjik hanno evidenziato una contraddizione (all’inizio la donna ha negato che l’episodio della Nuova Zelanda avesse a che fare con qualche riferimento alla sfera sessuale) e hanno «cristallizzato la prova di un precedente sul quale c’è molto da riflettere». Punti di vista, dicevamo.

Un punto per l’amico

L’udienza di ieri ha segnato poi un punto a favore della difesa di Francesco Corsiglia, giurano i suoi avvocati Gennaro Velle e Antonella Cuccureddu. Corsiglia è accusato di aver violentato Silvia da solo (nella doccia) prima che gli altri lo facessero tutti assieme. L’amica di Parvin Tadjik (Stasia) ha detto ai giudici che quella mattina verso le 6.30 ha visto la ragazza in accappatoio nel patio. Stando alla ricostruzione degli inquirenti a quel punto la violenza di Corsiglia era già avvenuta. La teste dice di aver incrociato Silvia a due metri di distanza, sola e tranquilla. L’avvocato Velle fa notare: «Sei stata appena violentata, sei davanti a una persona a cui puoi chiedere aiuto. Perché non lo fai?».

Ciro Grillo, gli amici, l’accusa di stupro di gruppo, il video: il caso, dall’inizio Ciro Grillo rinviato a giudizio: lui e gli amici rischiano fino a 12 anni Ciro Grillo, dal caso nasce un’altra inchiesta: «Violentata da un amico in Norvegia» Grillo e il video per difendere il figlio Ciro: dietro c’è l’insofferenza per un’inchiesta che lo limita Minacce a casa di Beppe prima del processo al figlio: «Rafforzata la sorveglianza» La ricostruzione della vittima ai pm: «Volevo urlare, ma non ci riuscivo»

"Non ha sentito nulla", "Contraddizioni". In aula per testimoniare la madre di Ciro Grillo. Tutti i testimoni ascoltati oggi hanno dichiarato di non aver sentito nulla di anomalo la notte in cui si sarebbe compiuta la violenza in Costa Smeralda. Francesca Galici il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Udienza chiave nel processo a carico di Ciro Grillo e dei suoi amici, accusati di violenza sessuale per fatti accaduti a luglio 2019 in Costa Smeralda. Presso il tribunale di Tempio Pausania, questa mattina è stata sentita Parvin Tadjk, madre di Ciro ed ex moglie di Beppe Grillo. La donna ha preferito non parlare davanti ai cronisti che la attendevano fuori dalle aule del tribunale, ma davanti al giudice pare abbia parlato per oltre un'ora, riferendo di non aver sentito nulla quella notte che potesse insospettirla. La donna, infatti, alloggiava in una proprietà adiacente alla villa in cui si sarebbe consumata la presunta violenza.

"La signora Grillo, così come tutti gli altri testimoni, anche quelli che sono stati sentiti le volte precedenti, ha raccontato di non aver sentito niente. Né lei né le persone che abitavano nella sua casa", ha riferito Antonella Cuccureddu, che difende Francesco Corsiglia, uno dei tre amici di Ciro Grillo imputati per un presunto stupro di gruppo. La signora Tadjk ha descritto come una giornata "assolutamente normale", quella successiva ai presunti abusi avvenuti nella casa in zona Pevero. Una descrizione molto simile a quella data dalla colf della famiglia Grillo, anche lei sentita oggi. L'avvocato Cuccureddu ha fatto rilevare che se la madre di Ciro avesse sentito rumori provenienti dall'appartamento dei presunti abusi sarebbe senz'altro intervenuta, come in circostanze in cui il figlio e gli amici avevano causato rumori molesti. "Stiamo parlano di un abuso che è stato descritto con urla, spinte, ribellione eccetera", ha aggiunto l'avvocato della difesa.

La madre di Ciro Grillo dai giudici. La sua versione: "Non sentii nulla..."

Al termine dell'udienza, si è fermato a scambiare alcune battute con i giornalisti l'avvocato Dario Romano, che insieme alla collega Giulia Bongiorno difende una delle due ragazze che hanno denunciato il gruppo di amici. "Sono emerse forti contraddizioni nelle testimonianze di oggi. Siamo soddisfatti", ha spiegato senza entrare nel dettaglio l'avvocato Romano che poi, proprio in merito al fatto che i testimoni non abbiano sentito nulla, ha fornito le sue spiegazioni. "Il fatto che i testimoni sentiti oggi non abbiano sentito nulla, lo ripetiamo spesso, non ha alcuna rilevanza. Non stiamo parlando di uno stupro avvenuto per strada, ma di una persona che non era neanche nelle condizioni di urlare", ha dichiarato Romano. E senza dare specifiche, ha concluso: "Ai fini di far emergere queste contraddizioni, abbiamo dovuto fare contestazioni anche documentali. Non posso dire altro".

"Mi farei le figlie del preside". Le nuove chat che inguaiano Ciro Grillo. Massimo Balsamo il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il figlio di Beppe Grillo e tre amici accusati di violenza sessuale a due studentesse milanesi nel luglio del 2019. Clima rovente in tribunale dopo la testimonianza della madre di Ciro, Parvin Tadjk

Spuntano nuove chat nel processo a Ciro Grillo e ai suoi tre amici, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria per stupro di gruppo. Mercoledì nuova udienza davanti al tribunale di Tempio Pausania, un appuntamento molto atteso. È stato infatti il giorno della testimonianza della madre di Ciro, Parvin Tadjk, che dormiva in una casa accanto a quella dove si sarebbero consumati i presunti abusi ai danni di due giovani milanesi.

Le nuove chat di Ciro Grillo

Gli avvocati delle parti civili – Giulia Bongiorno e Dario Romano – hanno acceso i riflettori su una chat tra Ciro Grillo e Parvin Tadjik datata agosto 2017. Una conversazione nella quale la moglie di Bepppe Grillo rimproverò aspramente il figlio, al tempo a Auckland, in Nuova Zelanda, per una vacanza-studio. La scuola voleva espellere il giovane perché il vicepreside era molto infastidito per alcune sue parole.

Quel precedente di Grillo jr. La Nuova Zelanda lo cacciò

“Se potessi darei due pugni in faccia al preside e mi farei le sue due figlie”, lo sfogo di Ciro Grillo con un compagno di classe riportato da La Stampa. Una frase choc che comportò l’apertura di un procedimento disciplinare e il rischio di espulsione dall’istituto. Per le parti civili, quelle parole sono da considerarsi molestie sessuali a tutti gli effetti. Ma non solo: dimostrerebbero il carattere aggressivo e violento del figlio del garante del Movimento 5 Stelle.

Posizioni contestate con forza dai legali di Ciro. “L’affermazione non ha nulla a che vedere con la molestia sessuale”, la precisazione dei difensori: “È un modo di dire, molto poco elegante, che nel gergo maschile viene usato”. Accuse tendenziose e ininfluenti nel processo, in altre parole.

La testimonianza di Parvin Tadjk

Interpellata da giudice, pubblico ministero e parte civile, Parvin Tadjk ha confermato la sua versione dei fatti: “Urla? Grida d'aiuto? Nulla di nulla". La 61enne ha ricostruito le ore successive alla notte del 16 luglio, ribadendo quanto detto agli inquirenti tre mesi dopo i fatti. Presente in aula anche Cristina Stasia, amica di Parvin Tadjik, anche lei nell'appartamento quella notte. La donna ha affermato di aver incrociato una delle due giovani coinvolte: “Ho incrociato la ragazza era con i piedi sul tavolo che fumava tranquilla. Non mi ha chiesto aiuto”. Nessuna avvisaglia di pericolo o di choc. Il processo a Ciro Grillo e ai tre suoi amici proseguirà il prossimo 19 ottobre.

Ciro Grillo, "ca*** durissimi qui": la chat choc che fa esplodere il caso. Libero Quotidiano il 22 settembre 2022

Nuovi guai per il figlio di Beppe Grillo. Anche l’espulsione di Ciro Grillo da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda, nel 2017, è entrata nell’udienza  nel processo per stupro di gruppo che vede imputati lo stesso figlio del fondatore del M5S e i tre suoi amici. Alla domanda dell’avvocato Dario Romano, che rappresenta la parte civile della ragazza italo-norvegese che denunciò di essere stata violentata nel luglio del 2019 in Costa Smeralda, se il figlio Ciro avesse mai avuto precedenti riguardanti molestie sessuali o violenze sessuali, Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, ha risposto: "No mai".

A quel punto, come si apprende, perché l’udienza si celebra a porte chiuse, il legale ha tirato fuori le chat del 2017 da cui emerge che Ciro Grillo era stato espulso da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda. Nel 2017, come emerge dalla documentazione che riporta l'Adnkronos, Ciro Grillo durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College, scuola di Auckland, in Nuova Zelanda, commenta: "Ca…i durissimi in Nuova Zelanda". Il figlio del fondatore del M5s, si avventura in frasi volgari anche "sulle figlie del vicepreside del Macleans College, Phil Goodyear".

Scatta a quel punto un processo scolastico. I genitori a quel punto lo rimpatriano con il primo volo per l’Italia. "Hanno parlato anche di polizia. In Nuova Zelanda minacciare qualcuno è gravissimo". Come emerge dalle chat. E ancora: "Ciro non c’è niente da fare il direttore generale ha parlato con Caterina e ti vogliono espellere con foglio di via, forse anche con la polizia se tu fai resistenza. A meno che tu non venga via di tua spontanea volontà, hanno già deciso che perderai il processo anche se tu ti scuserai o hai ragione. Non vogliono darti il nulla osta per l’altra scuola, quindi non ti puoi assolutamente spostare perché l’altra scuola non ti può accettare. Abbiamo veramente provato di tutto ormai da 16 ore, mi dispiace non c’è niente da fare". Oggi quella chat è entrata nel processo di Tempio Pausania.

Ciro Grillo a processo in Sardegna, la mamma: «Non vidi nulla di anomalo». Ripresa l'istruttoria dibattimentale (a porte chiuse) sulla presunta violenza sessuale di gruppo avvenuta nel 2019 nell'isola sarda. Sentiti diversi testimoni. Scontro in aula tra difesa e parte civile. E spunta una chat familiare...Il Dubbio il 22 settembre 2022.

Entra nel vivo il processo per violenza sessuale nei confronti di Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento Cinque Stelle, e altri tre suoi amici, accusati di aver stuprato in gruppo una ragazza, in una villa di Costa Smeralda, in Sardegna, nel luglio del 2019. In aula ieri sono sfilati tanti testimoni, tra cui la moglie di Beppe Grillo. 

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, cosa ha detto la moglie del fondatore del M5S

«Non ho sentito o visto nulla di anomalo». Sono le parole di Parvin Tadjk, la madre di Ciro Grillo, in aula, la quale ha ribadito quanto detto agli inquirenti: che la notte del luglio 2019 dormiva nella casa accanto e non ha notato nulla di sospetto. A dirlo ai cronisti sono gli avvocati della difesa, dal momento che l’udienza si tiene a porte chiuse.

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, le altre testimonianze

La mattina dopo il presunto stupro che sarebbe avvenuto in una villa in Costa Smeralda, nel luglio del 2019, una delle due ragazze «fumava tranquillamente, non sembrava in difficoltà e non ha chiesto aiuto». A dirlo, in aula, al processo a carico di Ciro Grillo e di tre suoi amici, è Maria Cristina Stasia, l’amica della madre di Ciro Grillo Parvin Tadjk, ospite nella villetta di Porto Cervo.

La donna ha confermato al pm Gregorio Capasso e ai giudici che la mattina dopo il presunto stupro vide una ragazza in accappatoio e con un asciugamano a turbante sulla testa nel patio della casa dove soggiornavano i ragazzi. A riferirlo ai giornalisti è la legale di uno degli imputati, l’avvocata Antonella Cuccureddu.

«È passato troppo tempo, è impossibile ricordare se quei ragazzi sono entrati nel nostro bar. Abbiamo anche un sistema di telecamere, ma i carabinieri sono venuti da noi nell’aprile 2021, due anni dopo, le immagini erano già state cancellate», ha detto invece Ivano Carta, uno dei titolari del bar tabacchi “Il caffè degli artisti” di Porto Cervo, dove una delle due ragazze, presunte vittime dello stupro in Costa Smeralda, sarebbe andata a compare le sigarette in compagnia di uno dei quattro giovani imputati.

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, il commento degli avvocati di parte civile

«Nelle testimonianze sono emerse numerose contraddizioni che contesteremo, anche con produzione documentale, nelle prossime udienze. Non posso entrare nel merito, ma dire che non si sono sentite grida o che non ricordano di avere visto i ragazzi non ha alcuna rilevanza». Così l’avvocato Dario Romano, avvocato di parte civile del processo a Ciro Grillo, figlio di Beppe, e tre suoi amici genovesi.

«Non è stata una violenza sessuale per strada, la nostra assistita ha sempre sottolineato di non esser stata nemmeno in condizioni di chiedere aiuto, quindi quanto accaduto oggi è del tutto irrilevante. Anzi, casomai, conferma che quanto accaduto è accaduto in una condizione in cui la nostra assistita non poteva chiedere aiuto, perché non era in uno stato di piena coscienza, piena capacità» ha precisato l’avvocata Giulia Bongiorno, legale di parte civile della presunta vittima dello stupro che sarebbe avvenuto nel luglio 2019 in Costa Smeralda.

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, parola alla difesa

«La signora Grillo, così come tutti gli altri testimoni, anche quelli che sono stati sentiti le volte precedenti, ha raccontato di non aver sentito niente. Né lei né le persone che abitavano nella sua casa» ha detto l’avvocata Antonella Cuccureddu, legale di Francesco Corsiglia, uno dei tre amici di Ciro Grillo imputati per un presunto stupro di gruppo avvenuto nel luglio 2019 in Costa Smeralda. «Stiamo parlando di un abuso», ha dichiarato la legale della difesa, «che è stato descritto con urla, spinte, ribellione eccetera». «Nessuno ha sentito richieste d’aiuto né da dentro casa né da fuori né urla né cose che cadevano né rumori di nessun genere», ha aggiunto l’avvocata della difesa, riassumendo alcune delle testimonianze rese oggi in aula, a proposito di quanto accade nella notte fra il 16 e il 17 luglio 2019.

Il figlio di Beppe Grillo espulso da una scuola in Nuova Zelanda

Anche l’espulsione di Ciro Grillo da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda, nel 2017, è entrata nell’udienza nel processo per violenza sessuale di gruppo che vede imputati lo stesso figlio del fondatore del M5S e i tre suoi amici. Alla domanda dell’avvocato Dario Romano, che rappresenta la parte civile della ragazza italo-norvegese che denunciò di essere stata violentata nel luglio del 2019 in Costa Smeralda, se il figlio Ciro avesse mai avuto precedenti riguardanti molestie sessuali o violenze sessuali, Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, ha risposto: «No mai». A quel punto, come si apprende, perché l’udienza si celebra a porte chiuse, il legale ha tirato fuori le chat del 2017 da cui emerge che Ciro Grillo era stato espulso da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda.

Nel 2017, come emerge dalla documentazione, Ciro Grillo durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College, scuola di Auckland, in Nuova Zelanda, commenta: «Ca…i durissimi in Nuova Zelanda». Il figlio del fondatore del M5s, si avventura in frasi volgari anche «sulle figlie del vicepreside del Macleans College, Phil Goodyear». Scatta a quel punto un processo scolastico. I genitori a quel punto lo rimpatriano con il primo volo per l’Italia. «Hanno parlato anche di polizia. In Nuova Zelanda minacciare qualcuno è gravissimo».

E ancora: «Ciro non c’è niente da fare il direttore generale ha parlato con Caterina e ti vogliono espellere con foglio di via, forse anche con la polizia se tu fai resistenza. A meno che tu non venga via di tua spontanea volontà, hanno già deciso che perderai il processo anche se tu ti scuserai o hai ragione. Non vogliono darti il nulla osta per l’altra scuola, quindi non ti puoi assolutamente spostare perché l’altra scuola non ti può accettare. Abbiamo veramente provato di tutto ormai da 16 ore, mi dispiace non c’è niente da fare». Quella chat è entrata nel processo di Tempio Pausania. Il processo riprenderà il prossimo 19 ottobre.

Grillo jr, il processo salta per i microfoni. "Attrezzatura carente". E l'udienza per lo stupro viene annullata. Luca Fazzo il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Se dietro non ci fosse un dramma sembrerebbe una commedia. Il processo in Sardegna ai quattro giovanotti genovesi - tra cui Ciro Grillo, figlio di Beppe - accusati di stupro di gruppo sta viaggiando fin dall'inizio delle udienze a ritmi singolarmente lenti, ma ieri si raggiunge il top. In programma c'era l'interrogatorio di alcuni testimoni, tra cui alcuni di rilievo, citati a deporre dalla Procura di Tempio Pausania. Tra questi, una era arrivata apposta da Milano, la psicologa della clinica Mangiagalli dove la studentessa norvegese vittima - secondo quanto afferma - delle violenze del quartetto venne curata dopo avere sporto denuncia. Ma l'udienza salta. Motivo: l'ultima volta i difensori avevano manifestato al tribunale presieduto dal giudice Marco Contu la loro contrarietà per la carente attrezzatura tecnica dell'aula, con due microfoni per dieci difensori, schermi insufficienti, eccetera. É passato un mese, durante il quale non risulta che le carenze tecniche siano state affrontate e men che meno risolte. La conseguenza è che ieri mattina i legali tornano a sollevare le loro obiezioni che il giudice stavolta accoglie in pieno annullando l'udienza e rinviando tutto di un altro mese. In calendario a dire il vero era prevista una udienza più ravvicinata, il 2 novembre, ma viene comunicato che salterà per «difficoltà tecniche» imprecisate. Le stesse segnalate oggi, che si sa già destinate a non essere risolte? O altre? Buio fitto.

L'intera vicenda sembra nata sotto una cattiva stella fin dalla fase delle indagini preliminari: nonostante la gravità delle ipotesi di reato, la Procura si mosse con tale calma che quando i carabinieri andarono a prelevare le immagini di sorveglianza di un locale erano già state cancellate dal computer essendo passati due anni dai fatti. I pm, guidati dal procuratore Gregorio Capasso, hanno impiegato un anno e mezzo per chiudere le indagini; un anno tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'inizio del processo; e quando si è cominciato i giudici hanno annunciato un calendario rarefatto, una sola udienza al mese. Ieri anche questa unica udienza salta. La prescrizione non è ancora a portata di mano, ma i ritmi del processo hanno amareggiato la presunta vittima. Tanto da far dire al legale della ragazza, Giulia Bongiorno: «A lasciare stupita la mia assistita sono i tempi annunciati. Fino a quando processo non finirà questa ferita per la ragazza resterà aperta».

Ieri oltre alla psicologa della clinica «Mangiagalli» avrebbero dovuto essere sentiti anche il medico legale e la ginecologa della stessa clinica che ebbero modo di visitare la studentessa: ma avevano altri impegni inderogabili, e hanno così potuto risparmiarsi l'inutile trasferta. Se ne riparla il 16 novembre sperando che microfoni e schermi siano arrivati, altrimenti il processo rischia il trasloco a Sassari.

La difesa dell’amico di Ciro Grillo in udienza: «Io non ho violentato nessuno». Alberto Pinna su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.

Il processo ai quattro giovani perla presunta violenza sessuale nei confronti di una studentessa italo-norvegese e di un’amica. Il medico in aula: «Le lesioni sulle gambe compatibili con una violenza ma anche con un trauma sportivo»

Tempio Pausania «Non le ho mai usato violenza. Lei era consenziente». Parla per la prima volta ed è poco più che un sibilo la voce di Francesco Corsiglia; nell’aula del Tribunale si fa silenzio per quattro minuti. L’amico di Ciro Grillo (figlio di Beppe), Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, non senza imbarazzo ma deciso, curvo sotto un giaccone verde, lo sguardo un po’ verso i giudici e un po’ nel vuoto, scandisce lentamente: «Nessuna violenza». E ripete: «Nessuna».

Le sue dichiarazioni spontanee, accanto agli avvocati Antonella Cuccureddu e Gennaro Velle, non erano previste. Silvia (nome di fantasia), la ragazza italo-norvegese lo accusa: «È stato il primo. Ha abusato di me nel letto e poi nella doccia». Corsiglia si difende: «Nessun abuso e dopo il rapporto sessuale sono andato in un’altra stanza e mi sono addormentato. Non so nulla di quel che è accaduto in seguito». E persino si scusa: «Non ho potuto essere presente alle udienze perché studio in Spagna. Ma oggi sono voluto venire per dire che sono innocente».

C’è ancora confusione su quella mattina del 17 luglio 2019. Avevano ballato fino a notte fonda, non si trovava un taxi e così Silvia e la sua amica Roberta (altro nome fittizio) hanno accettato di continuare a far festa con i quattro amici genovesi, appena conosciuti, seguendoli nella villetta di Beppe Grillo al Piccolo Pevero in Costa Smeralda. Spaghetti e vodka all’alba, l’incubo della violenza sessuale di gruppo per Silvia che lo dice ai genitori una settimana dopo, al rientro a Milano: visita medica e tutto annotato dalle dottoresse della clinica Mangiagalli di Milano, le stesse che hanno testimoniato nell’udienza di ieri. Convocati come testi anche i proprietari del B&B nel quale le ragazze alloggiavano e i due istruttori di kitesurf con i quali Silvia aveva parlato poche ore dopo i fatti.

Daniele Ambrosini e Maika Pasqui, gestori del B&B, avevano riferito ai carabinieri (e hanno confermato ieri) che le ragazze, rientrando, apparivano «serene e felici», anche se alla stampa avevano invece raccontato che erano «turbate». Marco Grasovin (kitesurf), ha invece riferito che Silvia gli ha parlato della violenza subita dicendogli che l’avevano costretta a bere. Dettaglio che fa dire alla sua avvocata, Giulia Bongiorno, che «emerge l’elemento decisivo per poter parlare di violenza, cioè la costrizione».

Un quadro contraddittorio, che tale sembra rimanere anche dopo le testimonianze dei medici della Mangiagalli di Milano. Per la psicologa Laila Micai il comportamento di Silvia e le sue reazioni erano e sono in linea con quelli «che manifestano persone vittime di stupro». La ginecologa Marta Castiglioni ha visitato la ragazza 9 giorni dopo l’asserita violenza, «troppi per rilevare segni di violenza sessuale». Il medico legale Vera Gloria Merelli, infine, ha affermato che le lesioni all’avambraccio e alle gambe «sono compatibili con violenza sessuale, ma possono essere attribuibili anche a traumi da attività sportiva». Il processo non è che ai primi passi. Devono essere sentiti più di 30 testimoni. Il tribunale ha fissato nei prossimi 5 mesi tre udienze: l’8 febbraio, l’8 marzo, il 12 aprile. Toccherà poi a pm, parti civili, ai 7 difensori. Difficile che la sentenza possa essere pronunciata nel 2023.

Da lastampa.it il 16 novembre 2022.

Nell'interrogatorio durante il processo in corso a Tempio Pausania contro Ciro Grillo e i tre amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, la psicologa Laila Micci, della clinica Mangiagalli di Milano, ha confermato il primo referto sulla presunta vittima della violenza di gruppo, che parlava di uno stato traumatico a livello psicologico compatibile con un episodio di stupro.

 Le sue parole hanno provocato le reazioni degli avvocati della difesa, che hanno portato a una breve sospensione dell'udienza. La psicologa sembra che stia ancora seguendo la vittima all'interno di un percorso di cura.

I tre imputati sono chiamati a rispondere di stupro di gruppo nei confronti della studentessa italo-norvegese, e di violenza sessuale verso la sua amica. Episodio avvenuto tra il 16 e il 17 luglio del 2019 in un residence di Porto Cervo. 

«La ragazza non ha ancora superato il trauma e sta seguendo un percorso di sostegno psicologico». È quanto avrebbe dichiarato in aula, appunto, la psicologa. 

Sono stati sentiti anche gli altri medici che avevano visitato la ragazza. Uno di loro ha affermato che i lividi «erano compatibili sia con lo stupro sia con l’attività sportiva».

 Mentre, a sorpresa, Francesco Corsiglia si è presentato oggi in aula. Il ragazzo, difeso dagli avvocati Antonella Cuccureddu e Gennaro Velle, era comparso solo un'altra volta per assistere al dibattimento, che si svolge a porte chiuse. Intanto procede la deposizione dei sette testi chiamati a deporre dal procuratore Gregorio Capasso.

È già stata sentita la ginecologa della clinica Mangiagalli di Milano, Marta Castiglioni: la professionista, che aveva visitato la ragazza italo norvegese nove giorni dopo il presunto stupro in Costa Smeralda, avrebbe dichiarato davanti ai giudici che i lividi rincontrati sul corpo della studentessa erano compatibili sia con una possibile violenza sessuale, sia con attività sportiva.

La ragazza, presunta vittima dello stupro, sarà sentita nel corso di una super udienza. La data è ancora da definire. Ha parlato, poi, un altro testimone, Daniele Ambrosiani, il titolare del b&b di Porto Pollo dove le due studentesse presunte vittime di una violenza sessuale di gruppo alloggiarono nel luglio 2019 durante la loro vacanza in Sardegna. «La ragazza era molto schiva, non dava molta confidenza. Il giorno dopo i presunti fatti ho pensato che fosse in "hangover”, con i soliti sintomi post sbornia» ha detto davanti ai giudici. E ha infine aggiunto: «È rimasta da noi una ventina di giorni - ha precisato Ambrosiani - i genitori la raggiungevano solo nei weekend. Mi sono sembrate persone per bene, di una classe sociale abbastanza elevata».

Caso Grillo Jr, la psicologa conferma la violenza. "Tipiche sintomatologie delle vittime di stupro". Per l'avvocato Bongiorno la giovane nella villa è pure stata "costretta a bere". Luca Fazzo il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.

E adesso arrivano i primi riscontri. Dopo i «non so», i «non ho sentito niente», i «sembravano tranquille», nell'aula del processo a Ciro Grillo, figlio di Beppe, e ai tre amici imputati insieme a lui di stupro di gruppo arrivano le prime testimonianze destinate a pesare in modo consistente sul piatto dell'accusa. Sono i racconti di chi ha incontrato la ragazza italo-norvegese sia nelle ore successive alla notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 trascorsa nella villa dei Grillo in Costa Smeralda, sia dei medici che l'hanno presa in carico dopo la denuncia sporta ai carabinieri. Sono testimonianze importanti perché confliggono con la tesi di fondo dei legali dei quattro giovani: secondo cui la ragazza sarebbe stata protagonista lucidamente e volontariamente di una allegra notte di sesso collettivo, salvo pentirsene una volta tornata a Milano in famiglia. Lo ripete ieri in aula uno dei quattro, Francesco Corsiglia, in una breve autodifesa: «Io non ho mai commesso alcuna violenza sulla ragazza. È stato un rapporto assolutamente consenziente. Lo ripeto: consenziente».

Invece S. non era tranquilla affatto, all'indomani della notte con i quattro. Lo racconta Marco Grusovin, l'istruttore di kitesurf che il 17 luglio ebbe la ragazza a lezione. Fu lui il primo a raccogliere le sue confidenze. «Ricordo che la ragazza mi raccontò di avere subito una violenza sessuale e di stare molto male», dichiara Grusovin. L'uomo conferma quanto aveva dichiarato ai carabinieri milanesi, ricordando che la giovane gli aveva riferito di «essere uscita in un locale e di avere conosciuto dei ragazzi, tra i 5 e i sette, non lo ricordava perché aveva bevuto (....) alla fine quattro ragazzi avevano abusato sessualmente di lei. Lei diceva che non ricordava bene perché era molto ubriaca e non sapeva neanche se fosse avvenuto di sera o di mattina». É il contrario di quanto le difese avevano cercato di dimostrare finora, descrivendo la ragazza spensierata e allegra nei giorni successivi ai fatti.

É vero che un altro testimone di quelle ore, il padrone del B&B dove la ragazza alloggiava con un'amica (anche lei ospite della festa notturna, e anche lei vittima - secondo l'accusa - delle violenze di gruppo) dice che la mattina dopo le due giovani erano tranquille: ma nelle dichiarazioni a due quotidiani aveva detto il contrario. Ma quel che conta è che dopo di lui arrivano in aula i due medici della clinica Mangiagalli di Milano che hanno curato la studentessa. Una, Vera Gloria Marelli, dice che la paziente aveva su braccia e gambe compatibili con una violenza (ma anche, precisa, «con una caduta da attività sportiva»). La psicologa Laila Micci aggiunge che nove giorni dopo i fatti la ragazza «presentava le tipiche sintomatologie delle vittime di uno stupro», che «è tuttora in cura» e che «non ha ancora superato il trauma».

«É stata una giornata importante - commenta Giulia Bongiorno che insieme al collega Dario Romano rappresenta la ragazza - perchè dopo alcune udienze inutili si è entrati finalmente nel vivo. Dalla testimonianza Grusovin abbiamo avuto la conferma che la giovane era stata costretta a bere. Questo per noi è un elemento cruciale». Se i rapporti sessuali avvennero con una giovane non più in grado di decidere liberamente perché oscurata dall'alcool, e se oltretutto l'ubriachezza era stata deliberatamente indotta da Grillo e dai suoi amici, quella per la legge fu una violenza sessuale.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 18 novembre 2022.

Battute da caserma, cortocircuiti istituzionali e testimoni che denunciano di aver ricevuto offerte di denaro per andare in tv. Nel processo di Tempio Pausania a Ciro Grillo & C. mercoledì scorso è entrato tutto questo. In più il collegio giudicante per la prima volta è sembrato perplesso per la gestione del dibattimento da parte dell'accusa che non ha ancora portato in aula a testimoniare le presunte vittime della violenza sessuale di gruppo, l'italo-norvegese S. e l'amica R. 

Il presidente del collegio Marco Contu si è rivolto al capo degli inquirenti Gregorio Capasso più o meno in questi termini: «Procuratore il collegio a questo punto si chiede quando vuol sentire le persone offese». Capasso ha spiegato che per la prossima udienza ritiene più utile un confronto tra consulenti tecnici per la selezione del materiale informatico da utilizzare in vista dell'esame delle ragazze. Infatti dai cellulari è stato estratto circa un terabyte di messaggi e video. Un mare magnum difficile da gestire.

Se passerà questa linea S. potrebbe essere ascoltata nell'udienza successiva, fissata in una data evocativa: l'8 marzo, festa della donna. Ma come sempre sarà un mercoledì e l'avvocato Dario Romano, il sostituto processuale della collega Giulia Bongiorno, senatore leghista e presidente della commissione giustizia di Palazzo Madama, ha fatto sapere che l'onorevole vorrebbe essere presente all'esame della sua assistita e ha chiesto per questo un'udienza straordinaria visto che il mercoledì è giornata di seduta della commissione. 

Collegio e Procura si sono riservati di verificare i propri impegni prima di accogliere l'istanza. Noi ci permettiamo di evidenziare l'anomalia di un presidente di commissione Giustizia che chiede un'udienza straordinaria in un processo che riguarda il figlio di un avversario politico.

Ma il momento clou mercoledì è stata la testimonianza di Marco G., ex insegnante di kite di S. Il 17 luglio 2019, poche ore dopo la presunta violenza, aveva ricevuto dalla sua allieva alcuni messaggi audio (pubblicati in esclusiva sul nostro sito a luglio) riferiti agli eventi oggetto del processo. «No, Marco tranquillo, non ti preoccupare ehm ho fatto una cazzata, poi te la racconterò, eh, niente, cioè parliamo un attimo ehm mi serve un po' una dritta diciamo proprio cinque dita in faccia mi servono» aveva detto con voce squillante la ragazza. 

Marco G. ha confermato quanto già dichiarato nel 2019 ai carabinieri e cioè che la descrizione degli eventi da parte della sua allieva gli era parsa «confusa e contraddittoria» e che aveva avuto la sensazione che S. si stesse «arrampicando sugli specchi» e che stesse cercando di «attirare l'attenzione». L'istruttore, due giorni fa, ha, però, aggiunto due particolari inediti: che la ragazza gli avrebbe parlato di dolori alle parti intime e che gli avrebbe riferito di essere stata costretta a bere vodka dopo essere stata afferrata per i capelli.

Ma, al momento del controesame dei difensori, avrebbe fatto marcia indietro, spiegando che la verità era quella riferita ai carabinieri pochi giorni dopo i fatti. Gli altri ricordi sarebbero stati indotti da tutte le cose che aveva letto e sentito su giornali e tv. 

A questo punto gli avvocati gli hanno chiesto di spiegare meglio il messaggio che aveva pubblicato su Facebook nei giorni di maggiore concitazione mediatica, allorquando aveva detto: «In questi giorni mi state continuando a proporre ospitate tv per chiarire, soldi, fama, lanciare messaggi. Non mi va tutto questo e ho deciso di fare questo video così è tutto gratis». Lui ha spiegato che c'era chi gli aveva proposto denaro, chi gli aveva promesso di farlo diventare famoso facendogli fare il testimonial di campagne antiviolenza e chi gli aveva teso un'imboscata con la telecamera nascosta in un parcheggio di un supermercato.

Molto importanti anche le dichiarazioni dell'altra istruttrice, Francesca B., la quale ha descritto come funzioni il kitesurf, evidenziando la pericolosità di quello sport che richiede massima lucidità e forma fisica ottimale per essere praticato. Diversamente non conviene entrare in mare. Un concetto già espresso tre anni fa quando aveva dichiarato: «Escludo che la ragazza abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto gli effetti di alcoolici, anche perché non le avrei consentito di iniziare la lezione». 

La donna ha ammesso che anche lei non di rado esce dall'acqua con dei lividi sulla pelle. Una puntualizzazione da collegare agli ematomi riscontrati in ospedale sul corpo di S., che la ragazza ha giustificato con la violenza subita, ma che mercoledì il medico legale Vera Gloria Merelli ha confermato essere compatibili oltre che con un'aggressione anche con un'attività sportiva come il kite.

La psicologa Laila Micci, che ha raccolto la denuncia e ha preso in cura S., ha assicurato che la ragazza non avrebbe ancora superato il trauma e starebbe «seguendo un percorso di sostegno psicologico». Ma la dichiarazione che ha causato più imbarazzo è quella del proprietario del bed and breakfast che ospitava le ragazze nella vacanza in Sardegna. Agli investigatori Daniele A. aveva detto che, quando vide le ragazze tornare con le scarpe con i tacchi in mano, «aveva avuto la sensazione che fossero entrambe felici».

Il procuratore ha chiesto di spiegare meglio quella frase e il teste ha risposto che in realtà aveva usato un'espressione differente, «da italiano medio», di quelle che si utilizzano tra uomini «negli spogliatoi dei campi di calcio» e che i militari avevano addolcito. Infatti avrebbe detto testualmente: «Ho pensato che quelle due avessero passato la notte in giro e ne avessero preso». 

Mercoledì ha parlato in aula uno degli imputati, Francesco Corsiglia, accusato del primo stupro singolo, a cui sarebbe seguito quello di gruppo, il quale ha dichiarato: «Innanzitutto mi scuso con tutti voi per non essere stato presente alle udienze precedenti. Già da prima di questa denuncia avevo chiesto ai miei genitori di sostenermi in un percorso di studi che difatti era ed è la mia passione.

Sto frequentando un corso di management nel settore turistico presso una prestigiosa università Svizzera con sedi anche in altre nazioni. Come previsto è molto impegnativa perché devo frequentare lezioni tutti i giorni e sostenere numerosi esami. La passione per questa materia mi aiuta a sostenere il peso di questa vicenda. Mi sento anche di dirvi che non ho commesso nessun reato, non ho commesso nessuna violenza nei confronti di questa ragazza». Invece nel secondo episodio non ero proprio presente, poiché al ritorno del Caffè degli artisti sono andato direttamente a dormire».

Estratto dell'articolo di Giuseppe Filetto per repubblica.it il 18 novembre 2022.

Dicono che sia un testimone-chiave. Che la sua deposizione potrebbe cambiare molto in questo processo - su Ciro Grillo ed i suoi tre amici genovesi Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria - per stupro nei confronti di Silvia (nome di fantasia), studentessa milanese di origini italo-norvegesi. "Perchè un caro amico di questa ragazza ha da raccontare un episodio accaduto proprio in Norvegia prima di quello del 17 luglio 2019 in Sardegna", dicono gli avvocati della difesa. 

Parliamo dello studente David Enrique Obando, ventenne norvegese di origini nicaraguensi, figlio di un noto politico di Oslo. Sarà lui ad essere sentito come testimone in una delle prossime udienze. L'hanno chiesto gli avvocati Andrea Vernazza, Alessandro Vaccaro, Ernesto Monteverde, Gennaro Velle, Enrico Grillo, Mariano Mameli ed Antonella Cuccureddu. E il giudice di Tempio Pausania, dove si svolge il processo, l'ha concesso.

Obando ha da chiarire quanto Silvia (difesa dagli avvocati Giulia Bongiorno, senatrice della Lega, e Dario Romano) confidò al maestro di kitesurf Marco Grusovin qualche giorno dopo il presunto stupro avvenuto il 17 luglio del 2019 a Cala di Volpe, nella villetta in uso alla famiglia di Beppe Grillo, ad opera dei quattro giovani genovesi oggi imputati: "Questa non è la prima volta, mi era già accaduto in Norvegia", avrebbe detto la ragazza.

Silvia avrebbe subito una violenza sessuale nell'estate del 2018 da parte del nicaraguense mentre i due si trovavano in vacanza, in tenda. Grusovin lo ha ripetuto in aula, durante l'udienza di mercoledì scorso. Tant'è che adesso sia gli avvocati che il collegio giudicante vogliono sentire Obando.   

C'è di più: l'istruttore ha aggiunto: «La ragazza mi raccontò che aveva avuto un confronto con il suo amico dopo i fatti e che lui, mentre gli contestava l’abuso sessuale, era caduto dalle nuvole, dicendo che lo riteneva un rapporto consensuale. Perciò non l'aveva denunciato». Lo stesso Grusovin in aula ha precisato che quel racconto non gli era sembrato veritiero. […]

Stelle cadenti. Report Rai PUNTATA DEL 06/06/2022 di Danilo Procaccianti Collaborazione di Norma Ferrara 

Beppe Grillo, il garante del Movimento 5 Stelle è indagato, insieme all'armatore Vincenzo Onorato, dalla procura di Milano per traffico di influenze illecite. 

Il reato, commesso da chi si fa promettere o dare denaro sfruttando le sue relazioni con un pubblico ufficiale, è stato inasprito proprio dai 5 stelle. Onorato, secondo le ipotesi della procura, dopo aver pagato Grillo attraverso alcuni contratti commerciali, avrebbe richiesto al garante dei 5 stelle una serie di interventi in favore di Moby Spa che Beppe Grillo avrebbe poi veicolato a esponenti politici. Nell'ambito della stessa inchiesta sono state eseguite perquisizioni anche nella sede della Casaleggio Associati e si è scoperto che anche Davide Casaleggio avrebbe preso soldi da Onorato. Si tratta di un contratto da 600mila euro l’anno per la stesura di un piano strategico per sensibilizzare gli stakeholders alla tematica dei benefici fiscali. Oggi le strade dei Cinque stelle e di Davide Casaleggio con la sua Associazione Rousseau si sono divise, ma qual è stato il ruolo di Casaleggio all'interno del Movimento? Esisteva il conflitto di interessi sempre negato?

STELLE CADENTI di Danilo Procaccianti Collaborazione di Norma Ferrara Immagini di Carlos Dias, Cristiano Forti, Chiara D'Ambros Giovanni De Faveri, Andrea Lilli Ricerca immagini di Paola Gottardi, Alessia Pelagaggi Montaggio e grafiche di Monica Cesarani

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE TORRE DEL GRECO - 12 FEBBRAIO 2018 Quando sentite una persona dire “tanto sono tutti uguali” state molto attenti, primo non è vero che sono tutti uguali, secondo è l’alibi che si crea uno per non fare un cazzo e non dire niente perché gli sta bene così.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Torre del Greco, è il 12 febbraio 2018 il Movimento 5 Stelle porta in piazza con Beppe Grillo la battaglia per i lavoratori marittimi italiani, contro quella che definisce "una delle categorie più privilegiate di questo Paese, gli armatori" a suggerirgli il tema però è proprio un armatore.

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE TORRE DEL GRECO - 12 FEBBRAIO 2018 Quando un armatore di qua, napoletano, mi ha detto che gli armatori sono esentasse, io sono rimasto... Ho chiesto un po’ in giro, nessuno sapeva questa notizia.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’armatore di cui parla Beppe Grillo è Vincenzo Onorato, patron di Moby e Tirrenia Cin compagnia italiana navigazione. Beppe Grillo sposa in pieno la battaglia di Vincenzo Onorato tanto che firma anche un articolo sul blog: “Siamo un popolo di navigatori, disoccupati”, è il titolo dell’articolo, e all’interno si legge: “Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi”.

LUIGI DI MAIO – CAPO POLITICO M5S 2017 - 2020 TORRE DEL GRECO - 12 FEBBRAIO 2018 Io vi chiedo di farvi una domanda, quando tutti vi prometteranno di volervi aiutare se avevano e se hanno già governato questo Paese perché non vi hanno aiutato quando stavano governando? E adesso tutti vengono a promettervi il cambiamento.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Luigi Di Maio era stato l’unico candidato premier ad accettare l’invito di Marittimi per il futuro. Un’associazione di 3mila iscritti che si trasformò in bacino elettorale per il movimento 5 stelle che a Torre del Greco trionfò con il 54,4 per cento delle preferenze. 15 giorni dopo quel comizio però Beppe Grillo firma un contratto di 120 mila euro l’anno con Onorato, una cifra che rappresenta la metà del bilancio della srl di Beppe Grillo.

STEFANO MARTINAZZO – COMMERCIALISTA “AXERTA” Però se questo contratto non fosse stato sottoscritto per la Beppe Grillo le cose sarebbero andate decisamente male perché, a parità di costi, la società avrebbe chiuso con una grande perdita che avrebbe eroso l’intero patrimonio della società.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’accordo di collaborazione prevedeva per 10mila euro mensili “inserimenti pubblicitari”, sul blog del comico e la pubblicazione di “contenuti redazionali”. Alcuni articoli apparsi sul sacro blog, quello a cui gli attivisti si ispiravano per la nuova politica del movimento, non erano altro che articoli a pagamento. Ma la legge di Grillo non è uguale per tutti.

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Pensi che mi hanno fatto chiudere l'azienda. Io sono entrato con un'azienda, per non avere conflitti di interessi Beppe Grillo mi ha detto no l'azienda la devi chiudere. Quindi poi andare a essere finanziato con cifre così importanti da un'azienda che te la troverai in Parlamento, in qualche emendamento, in qualche norma, ma eticamente io personalmente per il gruppo, con un gruppo come Movimento cinque Stelle non l'avrei mai fatto.

SIGFRIDO RANUCI IN STUDIO Quei contratti tra Grillo e Onorato, finiscono sotto la lente della magistratura che ipotizza il reato di traffico di influenze illecite, ecco un reato che è stato anche inasprito proprio dal governo dei 5 Stelle. Lo commetterebbe chi raccoglie denaro o promesse di denaro, o benefit, tese a sfruttare le sue relazioni privilegiate con pubblici ufficiali. In questo caso, Vincenzo Onorato che è l’armatore di Tirrenia e Moby, è stato anche l’armatore della Moby Prince che 31 anni fa, uscendo dal porto di Livorno, impattò con la petroliera dell’Agip, si incendiò e perirono i 140 passeggeri che aveva a bordo. Sulle dinamiche di questo incidente ancora oggi si sta facendo piena luce, si cerca di fare piena luce, c’è anche una indagine della commissione parlamentare. Ora, perché Onorato si sarebbe rivolto a Grillo? Ha le convenzioni in scadenza, quelle che coprono le tratte dei suoi traghetti, e per questo chiede un aiuto a Grillo. Grillo perora la sua causa e rivolge le richieste dell’armatore ai ministri che sono al governo, quelli del Movimento Cinque Stelle, all’ex ministro dei Trasporti Toninelli e a Patuanelli, che all’epoca era ministro dello Sviluppo Economico. Il contratto tra Grillo e Onorato prevedeva anche però degli articoli a pagamento che parlassero o perorassero la sua causa. Solo che però gli attivisti, leggendo il sacro blog, pensavano che si trattava del libero pensiero del loro garante in realtà si trattava di redazionali a pagamento. Nel corso delle indagini sono anche emerse, durante le perquisizioni negli uffici di Casaleggio, che anche Casaleggio, la società di Casaleggio, aveva stipulato un contratto con Onorato di 600mila euro. Oggi le strade di Casaleggio della sua associazione e quelle dei Cinque Stelle si sono divise, però dal passato sono emerse testimonianze e chat su quello che sarebbe stato il vero ruolo di Casaleggio e anche su come sono stati realmente selezionati i candidati, i 333 parlamentari entrati nel parlamento italiano con le elezioni del 2018, emerge una rete segreta che epurava i nomi. Che cosa sta accadendo in quel movimento che nel 2018 aveva raccolto il 32,7 percento dei consensi del Paese e oggi sfiora il 13 percento? Il futuro passa dal tribunale di Napoli, domani proprio si pronuncerà sulla legittimità dello Statuto del Movimento di Giuseppe Conte. C’è il rischio che possa anche decapitare. Il nostro Danilo Procaccianti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A marzo del 2016 l’allora compagno della ministra Federica Guidi fu indagato proprio per traffico di influenze illecite. I grillini non persero tempo ad esprimersi: «Quanto scoperto in queste ore sul ministro Guidi è vergognoso! Deve andare a casa subito!», recitava la pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle. Un anno dopo il Movimento ribadiva il concetto: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi, che babbo Tiziano, resta saldamente indagato per il grave reato di traffico di influenze». Oggi lo stesso reato colpisce Beppe Grillo.

DANILO PROCACCIANTI Beppe Grillo è sotto inchiesta per traffico di influenze per la storia di Onorato, non vi mette un po’ a disagio questa cosa?

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO Noi, come sapete, siamo assolutamente ossequiosi e rispettosi delle prerogative della magistratura e quindi vedremo che cosa succederà.

DANILO PROCACCIANTI Però c'era questo contratto con Onorato perché lui scriveva articoli sul suo blog, i poveri attivisti pensavano che scrivesse in libertà, invece erano articoli a pagamento.

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO E allora, come dire, ci sarà la possibilità di chiarire se c'è stato un conflitto di interessi o meno.

DANILO PROCACCIANTI Gli articoli sul blog erano a pagamento. Insomma, il povero attivista leggeva quegli articoli.

GIANLUCA PERILLI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Sì …si guardi, io sono uno che non sottovaluta né sminuisce, però bisogna andare man mano che emergono degli elementi, valutare gli elementi che emergono adesso, sbilanciarsi su cose a cui non sappiamo ancora i contorni mi sembra prematuro.

DANILO PROCACCIANTI Al di là del reato, Beppe Grillo aveva appunto un contratto con Onorato per scrivere anche degli articoli sul suo blog. Insomma, una bella fregatura per gli attivisti che pensavano di leggere degli articoli liberi, invece erano a pagamento.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Se lei lo conoscesse un attimo, lui è un artista insomma il fatto di poter pensare di poter avventurarsi in, come dire, situazioni, spazi di opacità, non è nelle sue corde.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Agli atti della procura ci sarebbero chat e varie mail tra Grillo ed esponenti del Movimento 5 Stelle. I temi ricorrenti sono i dossier che dal 2018 preoccupano Vincenzo Onorato a partire dai debiti con lo Stato che rischiano di fermare le sue navi. Nel 2012 Onorato aveva comprato Tirrenia dallo Stato a cui doveva ancora 180 milioni di euro, nel frattempo però incassava 72 milioni di euro di contributi statali.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Ed è strano. Perché in ogni caso per lo Stato, per la pubblica amministrazione vale valeva il principio, della clausola solve et repete prima paghi e poi ti restituisco quello che eventualmente ti devo, dice lo Stato. Qui invece è l'opposto solve et repete come se lo avesse detto il privato allo Stato. Ed è bellissimo.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Visto che Onorato non pagava i debiti allo Stato, i commissari di Tirrenia volevano fermare le navi e avviare il fallimento dell’azienda. I commissari dipendono dal ministero dello Sviluppo Economico che durante i governi Conte è stato sempre in quota M5S. All’epoca il ministro era Stefano Patuanelli. Ci sarebbe un messaggio di Grillo inoltrato a diversi esponenti del Movimento 5 Stelle. Un messaggio su Vincenzo Onorato il cui senso è “questo dobbiamo trattarlo bene”.

DANILO PROCACCIANTI Ci dice solo se ha ricevuto mail o messaggi da Beppe Grillo, Onorato…

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Non ho mai ricevuto pressioni da Beppe Grillo.

DANILO PROCACCIANTI Ma mail e messaggi?

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Richieste di informazioni ma senza mai avere nessun tipo di pressione né mai abbiamo fatto alcun tipo di attività se non quella di tutelare i creditori.

DANILO PROCACCIANTI Su Moby quindi nessuna cortesia.

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI No, assolutamente no.

DANILO PROCACCIANTI Perché a un certo punto la liquidità era bloccata ed è stata sbloccata in un vertice.

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI E ma a tutela dei dipendenti e dell’amministrazione straordinaria e dei creditori.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’altro argomento di discussione tra Grillo e Onorato erano le concessioni statali. La legge di continuità territoriale prevedeva il versamento di 72 milioni di euro all’anno al gruppo Onorato, per garantire una serie di rotte dal continente verso Sardegna, Sicilia e isole Tremiti, anche in bassa stagione.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Non tutte le rotte erano effettivamente rotte da sovvenzionarsi. E quindi andavano fatte le gare per verificare che non ci fossero imprenditori privati disponibili a farle quelle rotte.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La concessione sarebbe scaduta a luglio 2020 ma già nel 2019 nella fase istruttoria quando cioè bisognava capire se prorogare le concessioni o fare un bando pubblico l’antitrust si era espressa rilevando risvolti critici sotto il profilo della concorrenza. Andavano fatte delle gare pubbliche che però il ministero dei Trasporti non aveva ancora predisposto aprendo di fatto il campo a una proroga della concessione.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Presentai un'interrogazione parlamentare perché il rinnovo di una convenzione non si fa dopo la scadenza, il rinnovo di una convenzione, si fa prima in modo che quando scade si sappia se c'è o se non c'è la convenzione nuova.

DANILO PROCACCIANTI In quel momento era Toninelli il ministro.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Assolutamente sì, 19.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nella partita per il rinnovo della convenzione, Onorato avrebbe mirato a Grillo, secondo la procura, per arrivare all’allora ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Agli atti dell’inchiesta ci sono conversazioni tra Grillo e Onorato, che parlano del fatto che le convenzioni potevano essere rinnovate. L’ipotesi dei pm milanesi è che Grillo abbia «veicolato» quelle istanze all’ex ministro Toninelli che si era però sempre espresso contro il rinnovo della convenzione e aveva più volte polemizzato con Onorato.

DANILO PROCACCIANTI Questi messaggi di Grillo, a noi risultano che sono arrivati.

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Allora io ti ripeto che non ho mai ricevuto nessun tipo di pressione da Beppe, da nessuno. Ma perché non sarebbe mai potuto capitare che qualcuno facesse pressione al sottoscritto perché lo mandavo a quel paese.

DANILO PROCACCIANTI Però le mail le hai ricevute. Magari non era pressione, però…

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Ho ricevuto un miliardo di mail in quell'anno, un miliardo.

DANILO PROCACCIANTI Anche da Grillo.

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Nessuna di queste ha mai…nessuna di queste ha mai condizionato una scelta politica.

DANILO PROCACCIANTI Ma il fatto che poi non l'hanno riconfermata ministro secondo lei c'entra in qualche modo.

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Non puoi chiederlo a me, io non ho partecipato ai tavoli decisionali della formazione dei nuovi governi. Di certo io avevo tantissimi nemici.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tra le carte giudiziarie anche uno scambio di mail tra Grillo e la deputata 5 Stelle, Carla Ruocco. Grillo veicolava i desiderata di Onorato per un emendamento sugli sgravi fiscali e Carla Ruocco aggiornava Grillo in tempo reale.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Io ho il dovere sacrosanto di informare la gente di quello che accade in questo benedetto palazzo.

DANILO PROCACCIANTI Però quell’imprenditore aveva un contratto con Grillo.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Ma l’imprenditore aveva un contratto con Grillo, gli imprenditori sono imprenditori.

DANILO PROCACCIANTI Lei lo sapeva?

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Io non sapevo nulla di tutto questo, ma perché…

DANILO PROCACCIANTI Avrebbe scritto comunque delle mail a Grillo se avesse saputo.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Ma era l’inoltro di un…ma lei sta scherzando? Cioè quello era l'inoltro di un emendamento pubblico. Chi chiede?

DANILO PROCACCIANTI C’è un contratto, tant'è che c'è un'inchiesta per traffico di influenze.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE E vabbè ma sui contratti, perché gli imprenditori non ho capito, le persone..

DANILO PROCACCIANTI Avete fatto le battaglie per il conflitto di interessi, quello era un bel conflitto.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Ho capito ma io avevo l’emendamento e quindi se lei mi chiede un…una cortesia, diciamo una cosa che fa parte rientra nel mio lavoro, poiché io devo immaginare che lei ha dei contratti, non devo inoltrare…

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Beppe Grillo è oggi il Garante del nuovo corso del Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte.

DANILO PROCACCIANTI C'è il Garante che è sotto inchiesta per traffico di influenze illecite. Qual è la sua idea su quello?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Io non ho un'idea perché non ho elementi di valutazione, ma sono assolutamente fiducioso che il Garante potrà dimostrare la sua assoluta estraneità a qualsiasi ipotesi di reato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Qualche giorno dopo questa intervista il nuovo Movimento di Giuseppe Conte ha chiuso un contratto proprio con Beppe Grillo a cui andranno 300.000 euro l’anno per una consulenza non meglio precisata.

DANILO PROCACCIANTI Ma garante e consulente è compatibile come incarico?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ascolti lei è venuto da me a parlare.

DANILO PROCACCIANTI Sì, ma è successo dopo.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Abbiamo fatto un’ora di conversazione, non mi rubate frasi per strada quando sono in ritardo peraltro…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non conosciamo i contorni della consulenza che il nuovo Movimento 5 Stelle ha elargito a Grillo. Quello che sappiamo è che percepirà 300mila euro l’anno. Abbiamo provato a chiedere a Grillo ma ha declinato l’intervista con uno scarno sms che dice: “Caro Ranucci l’unica cosa che puoi constatare è la mia dichiarazione dei redditi prima o dopo la mia entrata in politica. Saluti da l’ELEVATO”. Ecco, ora, insomma, noi non di prezzi avremmo voluto parlare ma di valori, volevamo chiedere a Grillo se quello che è successo è in linea con i valori fondanti il suo movimento. Ora i magistrati ipotizzano che Beppe Grillo abbia mandato delle e-mail, degli sms, ai politici, agli esponenti del suo movimento che erano al governo, messaggi dal tenore: “Questo dobbiamo trattarlo bene”, riferito ad Onorato. Ora tutto questo è stato fatto da Grillo, nei panni di garante del Movimento? cioè di colui che detta la linea politica o semplicemente dal responsabile del Blog? Che poi una figura non esclude l’altra perché coincidono nella stessa persona. Dalla lettura dei bilanci si capisce che Onorato ha stretto un contratto di collaborazione di 120mila euro con la società di Grillo, cioè della metà del suo bilancio annuale. L’accordo prevedeva anche per 10mila euro mensili l’inserimento di alcuni redazionali, appunto favorevoli ad Onorato. Ora Onorato è dal 2012 che attraverso la Cin, la Compagnia Italiana Navigazione, che controlla anche i traghetti della Tirrenia, cioè copre la tratta con le Isole, la convenzione era in scadenza lo sapevano da otto anni, si sono scordati di fare il bando. Ora la convenzione viene rinnovata solo però dopo che Toninelli andrà via, per ben due volte, dal Governo Conte e poi dal governo Draghi. Va detto, ad onor del vero, che Onorato ha finanziato in maniera trasversale un po’ tutti i partiti, anche associazioni, fondazioni ma anche singoli uomini che interloquivano con ministri, con politici e anche con commissari europei. Per esempio: 550mila euro di consulenza a Roberto Mercuri, già braccio destro dell’ex presidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. Il mandato di Mercuri riguarda le attività con il Parlamento, il Governo e la Commissione europea. Poi 400mila euro ai partiti, di cui 200mila alla Fondazione Open che è vicina a Renzi. 100mila al Comitato Change, impegnato a sostenere le iniziative della Regione Liguria, facente capo all’attuale Governatore Toti, ma all’epoca era anche il coordinatore nazionale di Forza Italia. Altri 90 mila euro a singoli deputati del Pd o anche singole federazioni locali del Pd. 10mila euro anche ai Fratelli d’Italia. Si tratta di finanziamenti pubblici, lo diciamo chiaramente. Nel caso di Grillo e Onorato l’ipotesi di accusa è quella di traffico di influenze illecite e ovviamente i due sono innocenti fino a prova contraria. Però durante le investigazioni i magistrati hanno trovato negli uffici di Casaleggio anche dei documenti riguardanti un contratto di collaborazione tra Onorato e Casaleggio, che non è indagato in questa storia, ammonta a 600mila euro. Le strade di Casaleggio e della sua associazione e quelle del movimento Cinque Stelle si sono separate, però dal passato, dalle testimonianze e dalle chat che abbiamo raccolto, emergerebbe qual è stato il vero ruolo di Casaleggio in questi anni. Emergerebbe anche una rete segreta che avrebbe scelto e selezionato i candidati per le elezioni del 2018.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nell’ambito dell’inchiesta su Beppe Grillo e Vincenzo Onorato sono state fatte perquisizioni anche nella sede della Casaleggio Associati e si è scoperto che anche Davide Casaleggio ha preso soldi da Onorato. Si tratta di un contratto da 600mila euro all’anno per la stesura di un piano strategico per sensibilizzare gli stakeholders alla tematica dei benefici fiscali.

DANILO PROCACCIANTI Che cosa faceva per Moby e per Onorato? Attività di lobby?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No, non ha mai fatto attività di lobbying. Casaleggio Associati è una società di consulenza che riesce a interpretare le innovazioni tecnologiche per i modelli di business dei propri clienti.

DANILO PROCACCIANTI Però, diciamo il piano strategico prevede di sensibilizzare gli stakeholder sul tema dei benefici fiscali. I benefici fiscali li fanno i politici, quindi come dire.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No, assolutamente. Non c'è un solo parlamentare che lei possa trovare, a cui ho telefonato per chiedere favori per conto di un mio cliente.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Davide Casaleggio non risulta indagato ma i bonifici relativi ai contratti con Onorato sono stati segnalati dell’Unità Antiriciclaggio di Bankitalia, la segnalazione coinvolge Casaleggio come persona politicamente esposta.

DANILO PROCACCIANTI Però questo dimostra un po’ quello che spesso si diceva Davide Casaleggio non era un semplice tecnico. C'era un problema di conflitto di interessi.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Nell'ambito del nuovo corso io ho proposto di definire con un contratto e ripartire bene diritti e doveri e definire l'ambito dei servizi prestati. Non è stato possibile concordare un contratto, di qui la necessità di interrompere questo rapporto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il ruolo di Davide Casaleggio è sempre stato oscuro e oggetto di curiosità anche della stampa estera.

EUSEBIO VAL MITJAVILA – CORRISPONDENTE LA VANGUARDIA CONFERENZA STAMPA - 2 AGOSTO 2017 Lei ha parlato di un nuovo modo di fare politica, democrazia diretta ma a lei chi lo ha eletto signor Casaleggio, io non so forse c’è stata una votazione, un’assemblea ma io non so chi lo ha eletto a lei per questo ruolo così importante che ha nel movimento.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI CONFERENZA STAMPA - 2 AGOSTO 2017 Sono uno dei tanti attivisti e uno dei tanti volontari che ha supportato il Movimento 5 Stelle in questi anni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non proprio uno dei tanti attivisti. L’8 aprile 2016 in una corsia di ospedale, alla presenza di Gianroberto Casaleggio, che morirà 4 giorni dopo, un notaio e Davide Casaleggio si fonda l’associazione Rousseau, la piattaforma da dove passeranno tutte le decisioni più importanti del Movimento. Davide Casaleggio ne è presidente, amministratore unico e tesoriere.

PAOLA NUGNES – SENATRICE EX MOVIMENTO 5 STELLE Io mi ricordo ancora, come noi in assemblea, fossimo molto sorpresi di questo subentrare come in una dinastia del figlio che ci fu ripetuto, è semplicemente un attivista che si occupa di tutta la fase informatica. Noi ci abbiamo voluto credere. Però eravamo come degli innamorati che necessitavano soltanto di rassicurazioni e non volevamo vedere l'evidenza.

DANILO PROCACCANTI FUORI CAMPO Nel 2017 c’è una rifondazione del Movimento 5 Stelle e Casaleggio insieme a Di Maio è tra i fondatori di quel movimento, altro che semplice attivista.

DANILO PROCACCIANTI Però a un certo punto lei era presidente, comunque fondatore, amministratore unico e tesoriere dell'associazione Rousseau, capo della Casaleggio Associati e fondatore del Movimento Cinque Stelle nel 2017.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Certo.

DANILO PROCACCIANTI Un po’ tanti ruoli. Altro che semplice volontario.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Beh, il tema del fondatore non aveva ruoli politici, quella carica.

DANILO PROCACCIANTI Il fondatore di un movimento un ruolo ce l'ha, non ci prenda un po’ per così sprovveduti. Cioè non è solo quello di aver solo messo la firma, insomma anche l'indirizzo politico.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No l'indirizzo politico si sbaglia su questo. L'indirizzo politico era degli iscritti.

DANILO PROCACCIANTI Però quando lei partecipava a dei vertici, per esempio quando si doveva decidere se allearsi o meno col Pd, non è che un semplice attivista partecipava a questi vertici?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI In qualità di presidente dell'associazione Rousseau ho partecipato a diversi incontri in cui doveva essere definito il modo in cui potevano essere coinvolti gli iscritti.

DANILO PROCACCIANTI Qual è il potere di Rousseau? Perché, appunto, Enrica Sabatini dice “noi eravamo dei meri esecutori”, la parte tecnica, decideva tutto, la parte politica.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Allora Rousseau era il mero esecutore, era quello che avremmo forse tutti voluto e sperato. In realtà il punto di rottura si ha proprio quando Rousseau, ha voluto in qualche modo influenzare. Ma c'è stato un momento che io vorrei raccontare, perché è una cosa che non sa nessuno. A luglio Davide Casaleggio, in un incontro che abbiamo avuto privato a Milano, mi disse “ma questi Stati generali a che cosa serviranno mai? Serviranno, forse perché per decidere su tre cose il limite dei due mandati, gli accordi, le alleanze con le altre forze politiche, il direttorio. Beh, sai che c'è, mettiamo ai voti queste tre cose. Vedrai che sul direttorio tutti diranno si che sono tutti d'accordo sugli altri due cose la rete vi dirà no, il 14 agosto votiamo. In quell'occasione gli iscritti, credo il 74 percento, ha votato sì alle alleanze, non solo tra l’altro lì Rousseau e Davide in particolare, ha preteso di inserire nel quesito la parola “partiti tradizionali”, ecco vede l'influenza, ad appesantire questa cosa, a far capire ma vuoi tu veramente andare coi partiti tradizionali…il 74 percento ha votato sì. Sette giorni dopo mi telefona Davide Casaleggio per dirmi che lui non si vede più in questo movimento. Evidentemente lui accetta la democrazia solo quando va, come dice lui.

DANILO PROCACCIANTI Però qui in qualche modo chiariamo un equivoco. Cioè quando lui dice io ero un semplice attivista, cioè non è uno qualunque.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Ci mancherebbe, mi dispiace che lui si sminuisse così.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Davide Casaleggio, presidente della Casaleggio Associati, presidente dell’associazione Rousseau e fondatore dell’associazione Movimento 5 Stelle avrebbe messo becco anche sulla raccolta fondi in occasione di alcune feste del movimento.

ELENA FATTORI – SENATRICE EX MOVIMENTO 5 STELLE Casaleggio era coinvolto in tutto questo perché poi, alla fine della festa, quando si stava avvicinando, mancava un po’ di denaro, mi scrisse se...come mai non stavo aiutando a raccogliere i fondi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quello che racconta la senatrice Fattori è documentato da questa chat che vi mostriamo in esclusiva: il 4 novembre del 2017 Davide Casaleggio scrive: “Ciao Elena, spero potrai dare una mano anche tu a chiudere la raccolta fondi per l'evento di Marino”.

DANILO PROCACCIANTI A quale titolo lei interferiva su un senatore della Repubblica?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Ma in realtà questo evento specifico non lo ricordo in modo molto dettagliato. Però in generale le posso dire che i parlamentari si erano impegnati a sovvenzionare eventi territoriali proposti dagli attivisti con mille euro al mese.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma c’è di più perché la senatrice Fattori scrive a Casaleggio. I Meetup non possono trasformarsi in bancomat. Casaleggio non apprezza e risponde: mi spiace tu non abbia voluto contribuire a chiudere la questione di Marino, neanche con una donazione. A questo punto ti chiedo di non occupartene più. DANILO PROCACCIANTI E a un certo punto gli ho detto visto che non hai partecipato, mettiti da parte.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Ma in realtà…questo penso sia un qualcosa di non vero.

DANILO PROCACCIANTI A noi risulta così.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Non so.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Davide Casaleggio attraverso Pietro Dettori, socio di Rousseau e dipendente della Casaleggio, avrebbe poi chiesto alla senatrice Fattori di incontrare un imprenditore agricolo, proprio nel momento in cui si stava scrivendo il programma del Movimento 5 stelle, sull’agricoltura.

ELENA FATTORI – SENATRICE EX MOVIMENTO 5 STELLE E lui, l'imprenditore, mi disse “io sono, conosco molto bene Davide Casaleggio, ci lavoro insieme” e a quel punto io scrissi a Pietro Dettori, ho detto: guarda, però così non va. Finì lì finì lì, ma poi io non mi occupai più di agricoltura, io fui chiamata fuori dalla gestione poi successiva, dopo le elezioni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Negli anni sono tante le aziende che hanno collaborato con la Casaleggio Associati, tutte aziende che in un modo o in un altro avrebbero potuto poi essere materia di decisione politica. Ma il vero cortocircuito si è creato con la consulenza che la multinazionale Philip Morris affida alla Casaleggio Associati, poco più di due milioni di euro in tre anni.

STEFANO MARTINAZZO – COMMERCIALISTA “AXERTA” Nel 2018, cioè primo anno del governo dei 5 stelle, la Casaleggio Associati ha raddoppiato il proprio fatturato che è passato da 1 milioni e 100 del 2017 a quasi 2 milioni nel 2018. Questo incremento di circa 1 milione è dovuto alla stipula di due contratti, il primo con la Moby per circa 400 mila euro e il secondo con la Philip Morris per circa 600 mila euro.

DANILO PROCACCIANTI E nel 2019, secondo anno dei 5 Stelle al governo cosa succede?

STEFANO MARTINAZZO – COMMERCIALISTA “AXERTA” Nel 2019 la Casaleggio associati incrementa di ulteriori 200 mila euro attestando il fatturato a circa 2,3 milioni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Che tipo di consulenza faceva la Casaleggio Associati per Philip Morris? Un indizio lo dà questa pagina qui, è sostanzialmente una community online chiamata “I Furiosi” di cui improvvisamente sono state fatte sparire tutte le tracce.

DANILO PROCACCIANTI Era la Casaleggio Associati che gestiva la community “I Furiosi” di Philip Morris?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Non voglio entrare nel merito delle singole consulenze perché penso non sia opportuno nei confronti dei clienti. Il fatto è che noi non ci siamo mai trovati nella condizione e non ci siamo mai messi nella condizione di essere in conflitto di interessi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma un esperto informatico era riuscito a fare copia di quanto pubblicato dalla community “I Furiosi”, poi indagando ha scoperto qualcosa di molto interessante.

FABIO PIETROSANTI – ESPERTO SICUREZZA DIGITALE, CENTRO HERMES Due informazioni importanti. La prima è che era gestito da Davide Casaleggio dell'associazione Casaleggio Associati, cioè nello stesso spazio di indirizzamento numerico in cui si trovava il server i furiosi c'erano anche il sito del Movimento Cinque Stelle, come il sito di Casaleggio Associati. La seconda informazione è stato trovare il curriculum vitae di un web designer che nel proprio curriculum dichiarava di essere l'autore ed effettivamente l'intestatario del dominio “I Furiosi” e nel 2017 avere lavorato per Casaleggio Associati per il portale “I Furiosi” che sono inequivocabilmente riconducibili a Philip Morris e a questo punto il link è stato è stato chiaro.

DANILO PROCACCIANTI Di che cosa si occupava nello specifico questo sito “I Fuoriosi”?

FABIO PIETROSANTI – ESPERTO SICUREZZA DIGITALE, CENTRO HERMES Promuovere in diverse forme diverse maniere l'utilizzo del tabacco riscaldato, arrivando a fare delle campagne di comunicazione che, non dichiarandosi Philip Morris arrivavano a sottintendere che facesse bene alla salute, fumare tabacco riscaldato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Su questa vicenda c’è un’inchiesta della procura di Milano al momento senza indagati per capire se c’è un legame tra il denaro elargito da Philip Morris alla società di Davide Casaleggio e gli interventi normativi sostenuti dal Movimento 5 Stelle in favore della multinazionale. Più volte si era tentato di alzare le tasse al tabacco riscaldato ma con quali risultati?

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Ho trovato muri, continuamente muri.

DANILO PROCACCIANTI Ci faccia un esempio.

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Nell'ultima legge di bilancio la manina è comparsa sull'emendamento Martinciglio che andava finalmente a tassare anche le Heets Stick queste sigarette della Philip Morris. C’era l’accordo del governo. All'improvviso è spuntato, riformulato in maniera diversa, sempre più favorevole nei confronti delle Heets Stick, ed è passato così, di notte. Questo accade sempre di notte.

DANILO PROCACCIANTI Di chi è sta manina? Ha indagato lei?

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE I due diciamo che le persone che si occupavano della legge di bilancio, erano i due viceministri, Misiani e la Castelli.

DANILO PROCACCIANTI Diciamo per semplificare, se ci fosse stata la volontà politica dei Cinque Stelle...

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Potevi dire tranquillamente parere favorevole all'emendamento così com’è e aumentavi le tasse alle Heets Stick come tutte le altre sigarette.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il giallo della manina, potremmo chiamarlo, che ha fatto sparire dalla legge di bilancio l’aumento di tassazione dal 25 percento al 50 percento.

DANILO PROCACCIANTI In quel caso i parlamentari secondo lei votano secondo coscienza? Oppure pensano ma Casaleggio lavora con Philip Morris forse...

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Io non mi sono mai messo nella condizione di chiedere favori a nessuno.

DANILO PROCACCIANTI Non pensa che già quello sia il conflitto d’interesse cioè che il parlamentare sia già condizionato.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No, non lo penso, come le dicevo, ha senso se lei mi sta dicendo che io ho chiamato ho indirizzato, ho fatto qualcosa che non dovevo fare.

DANILO PROCACCIANTI Quello sarebbe un reato. Io non sto dicendo che lei ha commesso un reato.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Perfetto. Siamo d'accordo.

DANILO PROCACCIANTI Però dico l'inopportunità esiste l'inopportunità.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Non mi sono mai messo neanche in situazioni inopportune.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma una certa incomprensibilità sul suo ruolo forse sì. Se è vero che anche alcuni iscritti al movimento non lo hanno mai avuto ben chiaro. Da quello che abbiamo capito alcuni punti fermi possiamo metterli. Quello di Davide Casaleggio è un ruolo che va al di là, ben al di là, di quello di semplice tecnico attivista. Lui dice io non ho mai dettato le linee politiche del movimento, non mi sono mai infilato in questioni di conflitto di interesse. Ora noi possiamo solo mettere insieme alcuni fatti. È un fatto per esempio, leggendo il bilancio della sua società, che nell’anno di governo dei Cinque Stelle il fatturato della sua società è aumentato di un milione di euro, il secondo di 200mila euro. È anche un fatto che lui avesse stretto accordi con Philips Morris e parliamo di circa due milioni di euro in tre anni e che avesse in qualche modo aiutato nella campagna di diffusione del tabacco riscaldato. Questo proprio mentre alcuni parlamentari dei Cinque Stelle cercavano invece di aumentare le tasse sul tabacco riscaldato della Philips Morris ma non ci riuscivano perché c’era una manina, il giallo della manina, che faceva scomparire l’emendamento. Ora abbiamo anche visto da alcune chat che Casaleggio ha un ruolo sulla raccolta fondi per il movimento e avrebbe anche tentato di dettare la linea politica al movimento, lo dice lo stesso ex reggente Vito Crimi, parla di un episodio specifico, quando si trattava di votare le alleanze con i partiti tradizionali dice Crimi, Casaleggio ha voluto scrivere di sua mano il quesito, appesantendolo, salvo poi constatare quando il voto non era andato come voleva lui, come si aspettava il fallimento, e a quel punto aveva deciso di prendere le distanze e anche di portarsi via la piattaforma Rosseau, quella con cui si votava. È un po’ come il giocatore che sta perdendo la partita e si porta via il pallone. Ora a proposito del pallone: la piattaforma Rosseau. I candidati, gli iscritti, pensavano che era sufficiente iscriversi su questa piattaforma, non avere dei precedenti penali o grossi problemi alle spalle, esser votati dagli altri iscritti e potevi assurgere a ruolo di candidato. Il 16 gennaio del 2018, c’erano proprio le votazioni per le politiche, per aderire entrare nella lista dei candidati al Movimento 5 Stelle per partecipare alle politiche del 2018. In quei giorni comincia a girare sulle chat un audio di un parlamentare che denuncia delle anomalie. Si scoprirà più tardi che il meccanismo delle primarie non era così puro e democratico come sempre si è immaginato e che oltre la piattaforma Rosseau c’era una rete segreta che epurava nomi.

PARLAMENTARE MOVIMENTO 5 STELLE - 16 GENNAIO 2018 Enrico ciao, scusami, sta succedendo un manicomio il sistema è andato in tilt mancano troppi candidati all’appello, addirittura manca anche un candidato senatore uscente, il sistema non sta funzionando. È una malacumparsa allucinante e io comincio a essere stanco di tutti questi problemi creati dallo staff per incompetenze ormai palesi a tutti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La voce è quella di un parlamentare 5 Stelle che non ha mai rivelato la sua identità. Il parlamentare si rende conto che nella piattaforma di voto mancano alcuni nomi, si pensa a un problema tecnico, oggi scopriamo che erano delle precise scelte politiche ma segrete.

DANILO PROCACCIANTI Partiamo da una notizia che ha fatto saltare sulla sedia in molti, cioè lei nel libro scrive che esisteva una rete segreta per scegliere i candidati nel 2018.

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Per tanti anni si è attribuito a Rousseau la selezione dei candidati. Invece nel 2018 avvenne questo, che è una rete invisibile ai più, non legittimata dalla base e quindi neanche trasparente, avesse questo ruolo fondamentale di selezionare chi sarebbe poi andato, quindi da candidato e quindi diventato anche eletto nel Parlamento. Quindi c'era la parte politica che faceva l'attività di selezione attraverso questa rete.

DANILO PROCACCIANTI Quando dice parte politica a chi ci riferiamo?

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Il capo politico, Di Maio all'epoca, il comitato di garanzia che all'epoca erano Vito Crimi, Lombardi e Cancellieri.

DANILO PROCACCIANTI Chi voleva candidarsi alle parlamentarie poteva farlo liberamente o c'era il vaglio di una rete segreta.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Allora poteva farlo liberamente, poi doveva passare al vaglio del capo politico. Quindi è chiaro che c'è una… una come posso dire, valutazione sulle candidature.

DANILO PROCACCIANTI Da Rousseau dicono c'era una rete segreta per scegliere i candidati. Altro che piattaforma.

VITO CRIMI - SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Premesso che la rete era pubblica sul blog ed erano dei referenti per ogni regione che aveva individuato l'allora capo politico. Poi si è votato su Rousseau. Quindi “altro che piattaforma Rousseau”, lo devono dire loro se qualcosa della piattaforma Rousseau russa non ha funzionato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma non ci sarebbe stata solo la rete segreta a scegliere i candidati parlamentari all’oscuro degli attivisti. Un attivista sotto la garanzia dell’anonimato ci racconta una cosa molto grave.

ATTIVISTA MOVIMENTO 5 STELLE Io mi ero candidato, avevo fatto tutta la trafila e non avevo nessun tipo di problema giudiziario o di altro tipo. Il giorno delle parlamentarie vado sul sito e non trovo il mio nome. Ho provato chiedere spiegazioni all’Associazione Rousseau, a Casaleggio, però nessuno mi ha dato risposta.

DANILO PROCACCIANTI Poi una sera è andato a cena con Vito Crimi, che cosa le ha rivelato?

ATTIVISTA MOVIMENTO 5 STELLE Crimi mi racconta che come me centinaia di persone erano state estromesse dal voto pur avendo tutti i requisiti, questo perché i big del partito avevano i loro protetti, che dovevano far candidare e così centinaia di persona sono state tolte perché avevano la possibilità, i big, di togliere la spunta accanto al nome sul sito, così togliendo le persone dalla votazione. E io ero uno di questi come tanti altri.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Non era il flag alle candidature. Qualcuno aveva il potere di indicare magari a Luigi Di Maio, che era il capo politico e che aveva il diritto e il dovere di valutare le candidature: “guarda quella persona forse non è il caso di candidarla. Per questo questo e questo motivo”. L'ho fatto anch'io? Sì.

DANILO PROCACCIANTI Quindi mi conferma questa cosa che potevano togliere il flag?

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Sì, ma è diciamo un dato di fatto perché persone che si sono candidate poi non hanno visto il loro nome su Rousseau sanno che in qualche modo c'è stato qualcuno che ha impedito la loro candidatura.

DANILO PROCACCIANTI E parliamo sempre di Di Maio, Crimi...

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Sempre, è la parte politica che decide. Sì.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le elezioni politiche del 2018, quelle in cui il movimento ha avuto il record di preferenze eleggendo 333 parlamentari sarebbero state viziate in partenza nella scelta dei candidati ma le manovre poco trasparenti non sarebbero finite lì.

LUIGI DI MAIO – CAPO POLITICO M5S ROMA – 22 GENNAIO 2020 Oggi sono qui per rassegnare le mie dimissioni da capo politico del Movimento 5 Stelle così da favorire il percorso verso gli stati generali. Me la tolgo qui davanti a tutti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Era il 22 gennaio 2020, il reggente Vito Crimi sarebbe dovuto rimanere in carica appena un mese per poi indire le elezioni per il nuovo capo politico carica a cui correva a vele spiegate Alessandro Di Battista ma a luglio 2020 c’è un nuovo giallo.

DANILO PROCACCIANTI Lei racconta anche di manovre opache per non fare le votazioni per il nuovo capo politico dopo le dimissioni di Di Maio, perché Di Battista non si doveva eleggere, in che senso?

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Ci fu appunto questa riunione alla quale partecipò Davide Casaleggio, aprendo il pc si ritrova davanti una serie di persone, sottosegretari, ministri, persone che non erano legittimate a prendere queste decisioni. E quindi in questa riunione fu evidente a Davide che le persone avevano deciso di non votare il capo politico e le motivazioni emersero, anzi la motivazione: il fatto che Alessandro Di Battista avrebbe potuto raggiungere insomma un risultato anche eclatante e diventare il nuovo capo politico.

DANILO PROCACCIANTI L'ordine era chiaro. Non si vota perché altrimenti vince Di Battista.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Ognuno ha le sue idee e ci sarà stato qualcuno che avrà detto questo. Ma ci sarà stato qualcuno invece, e lo so perché l'ha detto: “Assolutamente no, invece votiamo subito” E io ho ascoltato tutti. Ho parlato con Beppe Grillo, ho cercato di capire cosa fare, e in quel momento tutti andavano alla direzione: oggi aprire una guerra interna sulla leadership del movimento era una follia. E non era Di Battista. Era una follia.

DANILO PROCACCIANTI Perché sarebbe stato grave. Cioè non votiamo perché vince Di Battista.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Le sto dicendo che il primo Beppe Grillo mi ha detto oggi portare il Movimento a una guerra sulla leadership è una follia. Gli italiani ci ridono dietro, ci tirano dietro qualcosa. Ho pure la mail di Beppe che mi dice ho chiesto mettimelo per iscritto in modo che sia nero su bianco e mi scrive di rimandare le elezioni del capo politico, visto che siamo in piena pandemia.

DANILO PROCACCIANTI Ed è stato esplicitamente detto non dobbiamo votare perché se no vince Alessandro Di Battista. DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Sì, questo è stato detto.

DANILO PROCACCIANTI Lei però non era tra quelli quel giorno che disse non votiamo perché vince Di Battista?

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Ma assolutamente no. E se qualcuno lo dice sta dicendo il falso.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Vito Crimi rimarrà reggente fino a ottobre 2020 quando si tengono gli stati generali che decidono che non ci sarà un capo politico ma un organo collegiale da votare. Anche questa decisione non verrà rispettata. A febbraio 2021 Renzi apre la crisi di Governo cade Conte e arriva Draghi. Scende in campo Beppe Grillo e detta la linea, va votata la fiducia a Draghi.

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE ROMA – 10 FEBBRAIO 2021 E allora dico “senta Draghi lei che è un ragazzo di 74 anni, avrà anche le palle piene che è stato da Schroder, dalla Merkel…e alza lo spread e abbassa lo spread ma che vita ha fatto”. E allora partiamo e facciamo questa roba qua. Mi ha dato ragione su tutto, ha detto d’accordo su questi temi su tutto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Alessandro Di Battista lascia il movimento. Ad aprile 2021 nuovo intervento di Beppe Grillo che affida a Giuseppe Conte il compito di scrivere un nuovo statuto e rilanciare il Movimento. Passano pochi mesi e nuovo colpo di scena.

LORENZO BORRÈ - AVVOCATO Grillo fa un comunicato in cui sostanzialmente non riconosce più quelle capacità taumaturgiche e demiurgiche a Conte e dice che quello che ha presentato è uno statuto seicentesco e dal che se ne rileva, dice Grillo, che Conte non è la persona adatta a guidare il Movimento Cinque Stelle.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE ROMA – 28 GIUGNO 2021 Con Beppe Grillo sono emerse alcune diversità di vedute su alcuni aspetti fondamentali. Spetta a lui decidere se essere il genitore generoso che lascia crescere la sua creatura in autonomia o il genitore padrone che ne contrasta l’emancipazione. Una forza politica che vuole recitare un ruolo da protagonista non può affidarsi allo schema di leader ombra affiancato da un prestanome, in ogni caso quel prestanome non potrei mai essere io.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A Conte risponde Grillo e l’avventura dell’ex premier sembra finita.

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE GENOVA – 1 LUGLIO 2021 Il Movimento cambia, doveva cambiare con lui era forse la persona più adatta che c’era e forse magari non è la persona più adatta di quello che serve oggi al Movimento.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Poi i due si incontrano e la bufera si placa. Conte si riappacifica con Grillo ma come in una guerra senza esclusione di colpi, scoppia un'altra grana perché a giugno 2021 Davide Casaleggio abbandona il movimento e stacca la sua piattaforma Rousseau.

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO Io sono contenta della separazione con Rousseau, perché il metodo del click for life, come lo chiamo io, ha prodotto la rappresentanza istituzionale che non sempre era adeguata.

DANILO PROCACCIANTI Da Rousseau però, la Sabatini dice noi facciamo la parte tecnica, erano i politici che decidevano.

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO Sì e io so Biancaneve, su ragazzi, ciao.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Risolta la questione Rousseau Giuseppe Conte mette ai voti il nuovo statuto e la sua incoronazione da leader ottenendo una maggioranza bulgara, il tutto però viene impugnato attraverso un ricorso al tribunale di Napoli di alcuni ex attivisti guidati dall’avvocato Lorenzo Borrè, lamentano il fatto che non si sia votato su Rousseau, che non abbiano potuto votare gli iscritti da meno di sei mesi e poi perché per statuto l’unico candidato alla carica di presidente del movimento era Giuseppe Conte.

LORENZO BORRÈ - AVVOCATO Un partito, diciamo a ispirazione totalitaria.

DANILO PROCACCIANTI Cioè c'è una distanza siderale dall'uno vale uno degli inizi.

LORENZO BORRÈ - AVVOCATO Assolutamente, cioè ormai questo Movimento cinque Stelle in gran parte è l'antinomia del Movimento Cinque Stelle pensato da Gianroberto Casaleggio.

DANILO PROCACCIANTI Il movimento dell'uno vale uno è scomparso. Si è fatta una votazione in cui era presente solo il suo nome.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ma lì c’è un fraintendimento, guardi quell'uno vale uno è una formula effettivamente che si è prestata a molto equivoci. Uno vale uno significa, e rispondo alla sua domanda, che se lei si iscrive al movimento non paga nulla, pensi, un’iscrizione gratuita, Si iscrive facilmente perché si iscrive telematicamente, e poi può partecipare anche alla votazione del presidente del Movimento Cinque Stelle, del leader politico.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’ex premier Giuseppe Conte non ha dato molta importanza al ricorso degli attivisti presso il tribunale di Napoli e ha derubricato la cosa a carte bollate.

DANILO PROCACCIANTI Ma definirle carte bollate? Qualcuno dice è la democrazia.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE E la democrazia quando si vota che c'entra, mica quando si va in tribunale?

DANILO PROCACCIANTI Però quelle sono le regole.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Quella è la tutela giurisdizionale dei diritti è un'altra cosa. Quindi non confondiamo, la democrazia è quando si vota. Però dopo dobbiamo anche riconoscere che uno vale uno non può valere per chi è chiamato a svolgere un compito istituzionale. Io non posso avere un ministro, una qualsiasi persona, l’uno vale uno, no, dopo bisogna mandare le persone giuste ai posti giusti. Serve la competenza, competenza, competenza. L'onestà, l'onestà, l'onestà.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il tribunale di Napoli per ben due volte ha dato torto a Giuseppe Conte, annullando la sua elezione a presidente del Movimento 5 Stelle. A quel punto il movimento era in un vicolo cieco e così Vito Crimi si ricorda che esiste un regolamento in virtù del quale gli iscritti da meno di sei mesi non possono votare.

DANILO PROCACCIANTI Sembra un po’ una barzelletta, cioè il regolamento l'avevate fatto voi.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Non è una barzelletta. È chiaro che era un regolamento del 2018, stiamo nel 2022 e quindi quando era nel 2018 per me era scontato che una volta che una cosa è ripetuta, approvata, accettata e votata da tutti, nel senso che nessuno l'ha mai contestata, quel regolamento è noto. A quel punto, se per il giudice lo voleva proprio vedere perché sennò non ci credeva che esisteva un regolamento, me lo sono dovuto andare a cercare. Questi sono i fatti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sulla scorta di questo regolamento si rifanno le votazioni online e Conte viene nuovamente eletto. Partita chiusa? Nemmeno per idea perché è stato presentato un nuovo ricorso e la leadership di Conte è di nuovo a rischio visto che l’unico candidato votabile era lui.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Se alla fine Giuseppe Conte viene votato al 94 percento, bisogna pure rassegnarsi. Puoi avere anche opinioni politiche diverse, però devi riconoscere che un qualunque iscritto ha potuto dire a me mi sta bene, non mi sta bene, anche Giuseppe Conte.

DANILO PROCACCIANTI Però non è una leadership contendibile, di questo lo accusano…cioè.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Le dico in questa prima fase è chiaro che avendo io lavorato sono stato io proposto agli iscritti che mi avrebbero potuto comunque rifiutare. Però attenzione per le successive. Poi in futuro.

DANILO PROCACCIANTI Ci dia una notizia.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Eh certo, perché lo statuto è fatto in modo che per le successive scelte delle designazioni del leader ci sarà la piena contendibilità. Io ho un periodo limitato a quattro anni, dopo quattro anni, fermo restando che lei sa come funziona in politica, se uno perde le elezioni politiche non è che sta lì. Diciamo queste sono poltrone molto…

DANILO PROCACCIANTI Così dovrebbe essere.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Guardi come sono, sono mobili, sono leggere ecc. Se uno perde le elezioni politiche è chiaro che non rimane a dispetto dei santi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ex premier Conte si propone dunque come traghettatore di quel movimento che nel 2018 aveva raccolto il 32,7 percento dei consensi del Paese, oggi viaggia intorno al 13 percento. Ma con quali parlamentari lo farà? I 333 che sono entrati in parlamento attraverso la votazione sulla piattaforma Rousseau, insomma abbiamo visto che poi non è stata una votazione lineare, così democratica come si immaginava. Lo racconta la stessa Enrica Sabatini, che è la compagna di Casaleggio, socia dell’Associazione Rousseau, che quella piattaforma la gestiva. Sarebbero stati la selezione di una rete segreta composta da referenti regionali e dal capo politico del Movimento. Per questo alcuni di coloro che si erano iscritti sperando nella candidatura non hanno più ritrovato il loro nome. Ma la Sabatini lo racconta dopo anni questa dinamica e racconta anche che quando si è trattato di votare il capo politico, il nuovo capo politico, dopo le dimissioni di Luigi Di Maio, nel 2020 quelle elezioni non si sono svolte per un volere ben preciso – lei e Casaleggio dicono - di Crimi e Grillo. Crimi nega e dice guardate che la responsabilità semmai è di Grillo perché non voleva affrontare le elezioni per via della pandemia. In realtà, la Sabatini e Casaleggio dicono non si voleva votare per evitare che vincesse Di Battista e infatti poi Di Battista è uscito dal movimento. Ora però Casaleggio e Sabatini parlano solo dopo che il presidente del nuovo movimento, Giuseppe Conte, aveva cercato di rendere meno ambigui i loro ruoli: gli aveva proposto un contratto per gestione tecnica della piattaforma che doveva essere al servizio del Movimento 5 Stelle. Cioè praticamente un contratto da tecnici – attivisti, quelli che si sono sempre professati. Evidentemente l’hanno vissuta come una limitazione. Dicevamo sono i lati oscuri e le dinamiche di un movimento che ha perso per strada i leader, dalla morte di Gianroberto Casaleggio nel 2016, poi si è sfilato piano piano un po’ Grillo è diventato il garante, oggi è consulente esterno del movimento di Conte, poi si è dimesso di Maio da capo politico, sono usciti i leader Di Battista e Nicola Morra, che è presidente della commissione Antimafia. Il futuro del movimento verrà in qualche modo decretato domani dal tribunale di Napoli che decreterà se lo statuto che è fondante il movimento di Giuseppe Conte è in regola oppure ha violato il regolamento. A partire dal fatto che Giuseppe Conte è l’unico candidato. Potrebbe anche avversarsi l’ipotesi che il movimento verrà decapitato del suo presidente e anche degli organi decisionali. A quel punto a Conte rimarrà solo una strada: quella del partito personale. E del movimento che aveva raccolto un terzo dei consensi nel Paese, cosa ne sarà?

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” l'8 giugno 2022.

È l'ennesimo rovescio della medaglia, l'ultimo capovolgimento di una storia fatta di nemesi. Ed ecco che Report, considerato da sempre dai grillini come il tempio del giornalismo d'inchiesta, si trasforma in un bersaglio da colpire. 

Il centro della disfida è la puntata trasmessa lunedì su Rai3. Titolo che non lascia spazio a interpretazioni: «Stelle cadenti». Un'inchiesta che ripercorre molti punti oscuri della storia recente dei pentastellati. Dalla mancata elezione di Alessandro Di Battista a capo politico nel 2020, ai presunti conflitti di interessi di Davide Casaleggio, fino all'inchiesta sui soldi della Moby dell'armatore Vincenzo Onorato, un procedimento in cui Beppe Grillo è indagato per traffico di influenze illecite. E poi le trame che hanno portato all'incoronazione di Giuseppe Conte.

Reagisce Casaleggio, che del M5s non fa più parte ma ne incarna la storia e i valori originari. Il presidente dell'Associazione Rousseau contesta i metodi di Report in un post pubblicato sul Blog delle Stelle. 

Casaleggio parla di «dieci piccole bugie», accusa la trasmissione di Rai3 di aver fatto un «taglia e cuci» della sua intervista e la ripubblica in versione integrale, compresa una frase del cronista, che alla domanda del figlio del cofondatore che gli chiedeva cosa ne pensasse del «nuovo corso» contiano, si limita a rispondere «non posso pensare». Per Casaleggio la risposta è emblematica «del problema di alcuni giornalisti italiani che finiscono per essere portatori di idee di altri non meglio precisati».

Casaleggio smonta tutto. Scrive che è falso che Conte abbia proposto a Rousseau un contratto poi rifiutato dalla no-profit milanese, anzi «una bozza di contratto fu invece richiesta da Crimi». Poi il conflitto di interessi: «Non mi ci sono mai trovato, avendo rifiutato posti da ministro e candidature». 

E ancora la riunione per stoppare Di Battista. Crimi a Report dice che avrebbe pesato la pandemia sul rinvio dell'elezione del capo politico, Casaleggio smentisce: «Il timore più grande non era la pandemia, ma la messa in discussione del proprio posto al governo o nel M5s». E ancora, «nella vicenda Moby sono parte lesa», «per il M5s ho fatto supporto gratuito da prima che nascesse» e infine «il fatturato di Casaleggio Associati, si stava meglio senza politica», che vuol dire che non è vero che la Srl ha aumentato i guadagni nei periodi in cui il M5s era al governo.

La polemica scoppia nel giorno in cui il Tribunale di Napoli esamina l'ultimo ricorso degli attivisti contro la seconda votazione per eleggere Conte leader e cambiare lo Statuto. Due ore di discussione, due lunghe memorie da parte dell'avvocato Lorenzo Borrè e dei legali del M5s. Un verdetto che dovrebbe arrivare tra non meno di una settimana. E se i giudici annullassero di nuovo il plebiscito pro-Conte a quel punto si aprirebbe un altro capitolo della storia grillina, tutto pieno di incognite.

Ma nel frattempo Conte pensa ad altro. Da Palermo rinvia la resa dei conti sul terzo mandato. «Ne parleremo dopo le amministrative», dice dal capoluogo dell'Isola. Quindi prova ad accelerare sull'intesa con il Pd per le primarie dei giallorossi in vista delle regionali siciliane del prossimo autunno: «Dobbiamo chiudere».

Da Ansa l'8 giugno 2022.

"Nella nota di Casaleggio non c'è alcuna smentita dei fatti raccontati da Report ieri sera, semmai integrazioni a conferma della bontà dei contenuti. Più che con Report credo che Casaleggio si debba chiarire con gli stessi esponenti del movimento". Così il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, replica a Davide Casaleggio.   

"E' stato lo stesso reggente dei 5 stelle, il senatore Crimi, ad affermare che Davide Casaleggio non era un "semplice tecnico attivista" - prosegue Ranucci -. Crimi ha raccontato che fu proprio Casaleggio nel 2020 a imporre come doveva essere scritto il quesito in base al quale gli attivisti avrebbero dovuto scegliere se fare alleanze con altri partiti o meno. Il risultato non piacque a Casaleggio e decise di abbandonare il Movimento. Questo è un fatto. Così come è un fatto quello che racconta la senatrice Fattori. Un episodio che Casaleggio ha preferito non chiarire e che invece è supportato da una chat dove emerge chiaramente che ha chiesto alla senatrice Fattori di raccogliere fondi per una festa.

E quando la senatrice si è rifiutata l'ha invitata a non occuparsi più di quell' evento. E' anche un fatto che l'emendamento che alzava la tassazione per il tabacco riscaldato della Philip Morris dal 25% al 50% non sia passato, ed è un fatto che Casaleggio associati aveva un contratto di consulenza con Philip Morris, sulla cui natura non ha voluto fornire particolari.  Come non ha voluto fornire particolari sulla piattaforma che secondo un perito informatico era riconducibile alla sua società  e nella quale si lasciavano trapelare messaggi subliminali a favore del consumo di tabacco riscaldato". 

"Per quanto riguarda Moby e Onorato, Casaleggio scrive "Peccato che si è omesso di dire che Casaleggio Associati non solo non  è indagata, ma è parte lesa". Questo non risponde al vero. Basta rileggere la trascrizione letterale della puntata, perché sia durante il servizio che nell'intervento in studio è stato ribadito che Casaleggio non è indagato. E come si può leggere dal decreto perquisizione e dal comunicato stampa della procura in cui si parla della perquisizione alla Casaleggio associati. Non c'è scritto che Casaleggio Associati è parte lesa.

Infine sul contratto che Conte avrebbe proposto a Rousseau, più che Report o l'ex premier, dovrebbe smentire la sua stessa socia e compagna Enrica Sabatini che nel libro scrive di incontri e trattative con Giuseppe Conte per risolvere i problemi. Lei scrive testualmente "le richieste erano schizofreniche e arrivavano da più fronti: si chiedeva di chiudere i rapporti con Rousseau e il Movimento, poi di mantenerli in piedi, poi di rimandare la discussione, poi di poter avere solo il codice della piattaforma per poterla gestire in autonomia, poi invece di poter usufruire dei servizi di Rousseau come fornitore esterno (..)

Quindi è la stessa Enrica Sabatini ad affermare che tra le tante ipotesi proposte da Conte ci fu anche quella di un contratto come fornitore esterno. Infine Casaleggio accusa Danilo Procaccianti di pensare per conto di qualcuno".   

Ecco la trascrizione integrale dei colloqui.

DAVIDE CASALEGGIO: Cosa ne pensa di questo nuovo corso?

DANILO PROCACCIANTI: Eh io non posso pensare

DAVIDE CASALEGGIO: Questo è un problema del giornalismo italiano allora

DANILO PROCACCIANTI: No, nel senso se me lo dice, come dire, quando andiamo a cena io le dico la mia opinione, insomma cerco sempre di tenere separate le mie opinioni da quello che faccio. Procaccianti ha detto "io non posso pensare"? Sì lo ha detto,  e ha fatto bene. Meriterebbe un premio dal servizio pubblico.  Mai accetterei che un'inchiesta su Report fosse dettata o condizionata da ideologie o appartenenze politiche. Le nostre inchieste possono essere guidate dai fatti riscontrati, verificati e di interesse pubblico. Un fatto non ha colori, né sfumature politiche, può essere giudicato solo in base se è vero o no. E quelli raccontati da Report sono veri. Il problema di Report per Casaleggio è proprio questo: l'indipendenza e la capacità di raccontare fatti senza pregiudizi".

Il Grill(o) delle vanità. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2022.

Pietà, il Grillo Mistico no. C’è più trasgressione in quel cantante stonato che si è battezzato da solo sul palco di Sanremo, e ho detto tutto. Grillo che posta una sua foto travestito da Gesù in un film di quarant’anni fa diretto dal nonno di Calenda. Grillo che cita Gandhi e, senza fare nomi come nei messaggi criptici di certi vecchi capataz democristiani, invita il figliolo non più prodigo Di Maio a rinunciare a vanità ed egoismo per lasciare spazio a una sola voce, quella afona di Conte. Tutto questo detto da un uomo che sulla vanità arroventata e sull’egoismo vittimista ha costruito ben due carriere: prima il comico del «Ve la do io», poi il politico del «Vaffa». E che adesso, per salvare quel che resta del progetto originario dei Cinquestelle (un po’ di giustizialismo e nulla più) si erge a santone, anzi a mammasantissima, con il tono di chi si finge autoironico per prendersi meglio sul serio. Superfluo ricordargli che Gandhi attirò proseliti predicando la non violenza anziché la rabbia, e che non era immerso come lui nel materialismo consumista: un particolare che rende l’Elevato molto più simile al Cavaliere che al Mahatma. Il Grill(o) delle vanità ha una biografia che fa a cazzotti con le sue prediche. Forse il concittadino De André immaginava già questa sua foto da illuminato male quando cantava che la gente si sente come Gesù nel tempio e dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Beppe Grillo è indagato a Milano per traffico di influenze illecite per alcuni contratti pubblicitari sottoscritti dalla compagnia di navigazione Moby con il blog Beppegrillo.it.

Nell'inchiesta della Gdf, coordinata dall'aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Cristiana Roveda, sono in corso attività con perquisizioni e acquisizioni di documenti. Su Moby, ammessa al concordato preventivo di recente, è in corso un'inchiesta per bancarotta, coordinata dal pm Roberto Fontana, che vede indagati il patron Vincenzo Onorato e il figlio. 

Da una tranche di questa indagine, e in particolare da una relazione depositata da un consulente tecnico della Procura, è nato il filone per traffico di influenze illecite. Il fascicolo vede al centro "trasferimenti di denaro" da parte del gruppo Onorato alla società di Grillo che gestisce il sito, la Beppe Grillo srl, per il pagamento di contratti pubblicitari, tra il 2018 e il 2019.

L'indagine era partita, tra l'altro, da una relazione tecnica, allegata al concordato preventivo e firmata da Stefani Chiaruttini, nella quale si parlava di 200 mila euro versati alla Beppe Grillo srl per un contratto che va dal marzo 2018 al marzo 2020 "volto ad acquisire visibilità pubblicitarie per il proprio brand sul blog" del comico-politico, di 600 mila per due anni per la Casaleggio Associati per "sensibilizzare le istituzioni sul tema dei marittimo" e per "raggiungere una community di riferimento di 1 mln di persone". Inoltre, di 200 mila euro alla Fondazione Open "sostenitrice" di Matteo Renzi, di 100 mila euro al Comitato Change legato al presidente della Liguria Giovanni Toti, di 90 mila al Partito Democratico, per chiudere con 10 mila euro a Fratelli d'Italia.

E ancora 550mila euro destinati a Roberto Mercuri (non indagato), ex braccio destro dell'ex vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona a cui si aggiungono, oltre ai 50 mila euro all'associazione senza fini di lucro "Fino a prova contraria", l'acquisto e la ristrutturazione per 4.5 milioni di una villa in Costa Smeralda per "rappresentanza" aziendale, appartamenti di lusso a Milano "in uso a rappresentanti del Cda", noleggio di jet privato e auto come Aston Martin e Rolls Royce, Mercedes o Maserati Levante. Allo stato, comunque, eccetto Beppe Grillo, gli altri nomi indicati nella relazione non risultano iscritti nel registro degli indagati.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - I finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, nell'inchiesta che vede indagato Beppe Grillo e il patron di Moby Vincenzo Onorato con l'ipotesi di reato di traffico di influenze illecite, stanno effettuando perquisizioni negli uffici della Beppe Grillo srl.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Vincenzo Onorato ha chiesto a Beppe Grillo una serie di interventi a favore di Moby spa che il leader del Movimento 5 stelle" ha veicolato a esponenti politici trasferendo quindi" all'armatore "le relative risposte" lo si legge nel comunicato del Procuratore della Repubblica di Milano facente funzione Riccardo Targetti in merito all'indagine in cui Grillo è indagato in quanto la sua società ha percepito da Moby spa 120 mila euro all'anno nel 2018 e nel 2019.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - I finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf di Milano stanno effettuando perquisizioni anche nella sede legale della Casaleggio associati, nell'inchiesta della Procura in cui è indagato per traffico di influenze illecite il fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo e Vincenzo Onorato. L'inchiesta riguarda anche un contratto per 600 mila euro annui sottoscritto dalla stessa Casaleggio Associati con Moby spa nel triennio 2018-2020.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Ci sono una serie di chat inviate da Vincenzo Onorato a Beppe Grillo e da questo girate a esponenti politici dei Cinque Stelle con richieste per 'aiutare' il gruppo di navigazione italiano gravato da debiti finanziari, nell'indagine della Procura di Milano in cui il fondatore del M5S e l'armatore sono indagati per traffico di influenze illecite in merito a contratti pubblicitari. Da quanto è stato riferito le chat, con anche le riposte alle richieste avanzate da Onorato, sono state trasmesse dai pm dell'inchiesta Open. Ora gli inquirenti milanesi intendono accertare se tali contratti fossero fittizi e se i relativi compensi percepiti dalla società del comico fossero il pagamento per prestazioni effettive o il prezzo per la "mediazione" politica.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Nell'indagine della Procura di Milano ci sono elementi "che fanno ritenere illecita la mediazione operata" da Beppe Grillo, in merito alle richieste di interventi avanzate da Vincenzo Onorato e veicolate dal fondatore dei Cinque Stelle a "parlamentari in carica", "in quanto finalizzata ad orientare l'azione pubblica dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby". Lo si legge nel decreto di perquisizione eseguito dalla Gdf nell'inchiesta milanese che ipotizza il reato di traffico di influenze illecite per pagamenti su contratti pubblicitari.

Il pm Cristiana Roveda e l'aggiunto Maurizio Romanelli, come si legge nel capo di imputazione, hanno ritenuto "illecita la mediazione operata" da Grillo sulla base sia "dell'entità degli importi versati o promessi" da Onorato, sia della "genericità delle cause dei contratti", sia "delle relazioni effettivamente esistenti ed utilizzate" dal leader del movimento Cinque Stelle "su espresse richieste" dell'armatore "nell'interesse del gruppo Moby". In pratica, ricostruisce il decreto di perquisizione, Grillo ha percepito 120 mila euro all'anno sia nel 2018 sia nel 2019 "apparentemente come corrispettivo" per diffondere "su canali virtuali", come il sito beppegrillo.it, contenuti redazionali per il Marchio Moby. 

In cambio, secondo l'ipotesi da accertare, il fondatore di M5S avrebbe fatto avere, via chat, ai parlamentari del movimento da lui fondato le istanze di Onorato orientando l'intervento pubblico "favorevole agli interessi" della compagnia di navigazione allora in crisi finanziaria. Inoltre il comico avrebbe anche trasferito all'armatore "le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest'ultima".

Quanto al contratto tra Moby spa e la Casaleggio associati, emerge sempre dalla ricostruzione riportata nel decreto di perquisizione e sequestro, prevedeva il versamento di 600 mila euro nel triennio 2018-2020, per la stesura di un piano strategico e la campagna pubblicitaria 'io navigo Italiano'. Allo stato Davide Casaleggio, legale rappresentante e socio di maggioranza della società, non è indagato.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Tra il 2018 e il 2019, quando la società di Beppe Grillo ha ricevuto da Moby spa 120mila euro annui "apparentemente come corrispettivo di un 'accordo di partnership'", il "garante" dei Cinque Stelle ha "ricevuto da Vincenzo Onorato", fondatore della compagnia di navigazione, "richieste di interventi in favore" di quest'ultima e le ha poi veicolate "a parlamentari in carica appartenenti a quel movimento politico", trasferendo infine all'armatore "le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest'ultima". Lo scrivono i pm milanesi nel decreto di perquisizione. 

Tra le persone perquisite oggi (ma non indagate) figurano, come si legge negli atti, un "chief information officer" di Moby, l'allora "responsabile delle relazioni esterne e dei rapporti istituzionali" della compagnia, un "dipendente" all'epoca della Casaleggio Associati srl, una "disegnatrice grafica di pagine web" che lavorava per la Beppe Grillo srl e Achille Onorato, figlio di Vincenzo.

Beppe Grillo indagato per traffico di influenze illecite sui soldi dati dalla Moby al blog beppegrillo.it. Paolo Lami martedì 18 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Beppe Grillo è indagato dai pm di Milano, Cristina Roveda e Maurizio Romanelli per traffico di influenze illecite sui soldi dati dalla Moby al blog beppegrillo.it nell’ambito dei contratti pubblicitari sottoscritti fra l’azienda dell’armatore Vincenzo Onorato – anch’esso indagato – e la piattaforma web del comico genovese. 

“Sono sereno, non commento sviluppi giudiziari. Dico solo che ho grande fiducia nella magistratura”, dice Onorato raggiunto dall’Adnkronos.

La vicenda non nasce certo oggi ma risale al dicembre 2019 quando l’Uif, l’Unità antiriciclaggio di Bankitalia, segnalò “operazione sospette”, che fecero partire gli accertamenti, per quei soldi versati dalla Moby di Onorato tanto alla Fondazione Open di Matteo Renzi – 60mila euro – quanto alla società che gestisce il blog di Beppe Grillo e alla Casaleggio associati per consulenze di comunicazione.

Secondo l’Uif, le operazioni segnalate erano sospette “sia per gli importi, sia per la descrizione generica della prestazione ricevuta, sia per la circostanza di essere disposti a beneficio di persone politicamente esposte».

Al blog di Beppe Grillo erano arrivati dalla Moby 120 mila euro in due anni con la motivazione, «contratto di partnership» e che sarebbero serviti a pagare la pubblicità sulla piattaforma web del comico genovese.

Altri 600 mila euro erano arrivati nelle casse della Casaleggio associati per la redazione di un cosiddetto “piano strategico e la gestione di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeholder del settore marittimo sulla limitazione dei benefici fiscali del Registro Internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari” e per “sensibilizzare le istituzioni e raggiungere una community di un milione di persone”.

Dalle indagini preliminari emerge che potrebbero essere stati versati 1,2 milioni di euro in favore della Casaleggio.

La faccenda mise in moto tutto un meccanismo di accertamenti successivi poiché si sospettava che il denaro fosse legato ad una normativa, approvata, sull’imbarco dei marittimi sulle navi italiane, legislazione perorata a lungo dallo stesso Onorato.

Ora la vicenda è tornata a galla perché stamattina la guardia di Finanza si è presentata per perquisire la sede legale della Beppe Grillo srl e della Casaleggio Associati srl e sequestrare alcuni documenti relativi a quell’accordo, da 120mila euro in due anni, fra la Moby – che, nel giugno dello scorso anno è stata ammessa dal Tribunale di Milano alla procedura di concordato preventivo – e la società che gestisce il blog beppegrillo.it.

Il comunicato ufficiale della Procura di Milano è molto esplicito. E ripercorrendo la vicenda ricorda che «Onorato ha richiesto a Grillo una serie di interventi a favore di Moby spa che Grillo ha veicolato a una serie di esponenti politici trasferendo quindi al privato richiedente le relative risposte». E, per questo, la Procura ha ritenuto «indispensabile acquisire la documentazione relativa ai contratti».

La pm Cristina Roveda, che si occupa dell’inchiesta sui finanziamenti di Moby a Grillo, Casaleggio e Fondazione Open assieme al collega Maurizio Romanelli, e che ha firmato i provvedimenti eseguiti stamattina dalla guardia di Finanza è anche titolare del fascicolo, inizialmente assegnato al sostituto procuratore Alessia Menegazzo, originato dall’esposto del legale romano Lorenzo Borrè, avvocato di gran parte degli espulsi Cinquestelle, sui circa 120mila euro trasferiti dal ‘Comitato eventi nazionali’, già ‘Comitato Italia 5 Stelle’ – che organizzò la festa di ‘Italia 5 Stelle’ – all’Associazione Rousseau.

La vicenda emersa anch’essa nel 2019, riguarda la raccolta fondi lanciata per la kermesse di Rimini, col trasferimento dell’avanzo di cassa all’Associazione Rousseau presieduta da Davide Casaleggio. 

Traffico d’influenze: l’inafferrabile reato inasprito dai grillini e che ora ha colpito Grillo. Michele Pezza martedì 18 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Fa bene Guido Crosetto a bollare il reato di traffico di influenze illecite, caduto oggi a mo’ di tegola sulla testa di Beppe Grillo come «assurdo, indefinito, arbitrario». E ancora meglio fa a sottolineare che rappresenta «un modo facile per “sporcare” un nemico politico, “richiamarlo all’ordine”, in un Paese dove un avviso di garanzia è condanna». Tutto vero. Al posto suo, tuttavia, avremmo aggiunto che non è questo il caso per scomodare le Procure politicizzate. Perché la responsabilità dell’esistenza di un reato tanto inafferrabile non è della magistratura bensì del Parlamento. 

Nel 2019 Bonafede aumentò la pena

Furono le Camere, nel 2012, a consentire al governo Monti di introdurre una norma da cui oggi tutti (o quasi) prendono le distanze. Ma tant’è: in quell’epoca, già spopolava il “lo vuole l’Europa” assurto oggi a inviolabile tabù. Nel caso del traffico illecito d’influenze, a reclamarne l’introduzione nel nostro Codice penale erano soprattutto alcune Convenzioni internazionali. E a tanto provvide la guardasigilli pro-tempore Paola Severino, alla cui opera si sarebbe aggiunto anni dopo il ritocchino in termini di aumento di pena di Alfonso Bonafede. Mai – c’è da scommettere – l’ex-ministro avrebbe immaginato che un giorno quel reato si sarebbe ritorto contro Grillo.

Il silenzio del M5S su Grillo

E forse è anche questo il motivo del silenzio opposto dai 5Stelle alla disavventura giudiziaria occorsa al loro capo supremo. Nulla di più facile che nelle prossime ore ritrovino la parola per spacciare come un’ulteriore tappa della loro crescita politica l’iscrizione dell’Elevato nel registro degli indagati. Magari accadesse. Almeno realizzerebbero una volta per tutte che le sventagliate di onestà-tà-tà-tà o i proclami su «apriscatole» e «Palazzo trasparente» funzionano come demagogiche banalità non come programma di governo. Già, visto oggi il Grillo innalzato dal Vaffa come tsunami purificatore della vecchia politica non è più neanche un ricordo: è una barzelletta. 

Giacomo Amadori per "la Verità" il 21 gennaio 2022.

La chat tra l'armatore Vincenzo Onorato e Beppe Grillo è lunghissima, perché come ha spiegato anche l'avvocato dell'imprenditore, Pasquale Pantano, i due sono amici da oltre 40 anni. Sembra addirittura che si conobbero corteggiando la stessa ragazza. Poi l'allora comico iniziò a lavorare sulle navi di Onorato e da allora i due non si sono più persi.

Forse l'errore è stato proprio non separare questa loro amicizia dagli affari quando «Beppe», così è salvato sul cellulare di Onorato, è diventato l'ingombrante garante del primo partito italiano.

In quella veste Grillo ha iniziato a preoccuparsi per l'amico quando l'armatore viene travolto dai guai: prima un gruppo di obbligazionisti della Moby fa istanza di fallimento, poi respinta dal giudice di Milano; quindi, per la pressione di alcuni creditori, Onorato è costretto a fare a istanza di concordato; senza dimenticare il sanguinoso contenzioso che contrappone l'armatore al Ministero dello sviluppo economico per un debito di 180 milioni legato all'acquisto della Tirrenia.

Ma i giornali italiani sono più interessati dal procedimento per traffico di influenze illecite coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e da Cristiana Roveda. Un fascicolo che vede indagati Grillo e Onorato in cui sono confluite le chat sequestrate all'imprenditore nell'inchiesta sulla fondazione Open. 

I messaggi con esponenti grillini sono più della dozzina citata ieri dai giornali e riguardano diversi temi. Ma le comunicazioni che hanno attirato in particolare l'attenzione degli inquirenti sono quelle propedeutiche a un incontro con l'allora ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. Che, ieri, con La Verità, ha ammesso l'appuntamento e lo ha spiegato così via Whatsapp: «Sì certo che c'è stato l'incontro. Come con tutti o quasi i concessionari di beni o servizi pubblici. Mi pare fosse inizio estate 2019. Si parlò della normativa sul regime fiscale per i marittimi di origine italiana e comunitaria.

E visto che me lo chiederà le rispondo già dicendole che non parlammo della concessione in essere. E non avrebbe nemmeno avuto titolo per chiedermelo perché era già partita la pratica tutta interna al ministero per la gara pubblica finalizzata all'assegnazione della nuova concessione, visto che la precedente scadeva il 18 luglio 2020. Quindi si ricordi che la concessione quando io terminai il mandato da ministro era ancora abbondantemente in essere. Non come alcuni suoi colleghi hanno detto. Un saluto». 

Onorato sarebbe uscito da quell'incontro piuttosto allibito: «Toninelli mi ha chiesto: "Ma lei che lavoro fa?". Cosa avrei dovuto rispondergli?..» ha confidato ai suoi più stretti collaboratori. Insomma Grillo avrebbe utilizzato la sua «influenza», ma Toninelli, l'ex ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e alcuni senatori e deputati non si sarebbero adoperati più di tanto per la causa.

Ben diversa la posizione di un ex parlamentare, oggi potente lobbista, che compare nelle chat di Onorato in modo costante. C'è da capire se abbia ricevuto pagamenti e ottenuto risultati a livello legislativo. 

Ma il gran agitarsi di Onorato sarebbe motivato dal derby infinito tra armatori con la schiatta dei Grimaldi, che l'indagato considera nelle grazie della Lega di Matteo Salvini, anche perché la proposta di accordo sulla restituzione di 144 milioni (garanti da ipoteca) dei 180 dovuti al Mise è stata bocciata dal ministero guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti. E a rendere ancora più sospettoso Onorato sono stati alcuni titoli di giornale che annunciavano come «top player» della Lega per battere Vincenzo De Luca in Campania proprio un Grimaldi. 

E la sindrome da accerchiamento forse trova una giustificazione nelle chat dell'inchiesta Open, da cui risulta che Onorato, storico elettore della sinistra e tesserato del Pd è stato gettato a mare dal suo stesso partito proprio a favore dei Grimaldi. 

Il casus belli lo spiega lo stesso Onorato ai pm: «Devo premettere che ero iscritto al Partito democratico da tempo; ho stracciato la tessera del partito nella circostanza del ritiro della legge Cociancich (il secondo emendamento Cociancich-deputato del Pd, Ndr-) dal Parlamento da parte dell'allora ministro dei Trasporti Delrio. Tale legge era finalizzata al recupero dell'occupazione dei marittimi italiani».

Ma Onorato forse ignorava che Lotti e il presidente di Open Alberto Bianchi lo avevano già scaricato a favore dei Grimaldi. Il 13 febbraio 2018, nel pieno della campagna elettorale per le politiche Bianchi scrive a Lotti: «A pranzo vedo Grimaldi c'è qualcosa di simpatico che tu pensi possa dirgli?». 

L'ex ministro risponde: «Poco. Anche se alla fine la battaglia l'ha vinta lui, grazie a Delrio». Bianchi chiede, senza ottenere risposta se Grimaldi «lo sa che è grazie a Delrio?». Qualche ora dopo Bianchi relaziona Lotti sull'incontro: «Buon impatto con Grimaldi. Sabato ti dico, non sarebbe male tu lo vedessi prima del 4 (marzo, giorno delle elezioni politiche 2018, Ndr)».

E il 29 marzo Bianchi certifica con un altro messaggino Whatsapp a Lotti la volontà di sacrificare Onorato a vantaggio del competitor: «Sei d'accordo nel coltivare rapporto con Grimaldi anche a costo di perdere Onorato, che tende ai grillini? Mi serve saperlo prima possibile». Lapidaria la risposta di Lotti: «Yes».

Giacomo Amadori François de Tonquédec per “La Verità” il 22 gennaio 2022.

C'è un comizio di Beppe Grillo e Luigi Di Maio che è finito all'attenzione della Procura di Milano. È questo il cuore dell'inchiesta per traffico di influenze illecite che vede indagati il fondatore del Movimento cinque stelle e l'armatore Vincenzo Onorato. 

Infatti il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, la pm Cristiana Roveda e gli uomini del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza hanno trovato qualcosa di diverso dalla semplice attività di promozione online nel rapporto commerciale tra i due personaggi sotto inchiesta. Il contratto con la Beppe Grillo Srl da 120.000 euro più Iva l'anno viene firmato dalla compagnia Moby di Onorato l'1 marzo 2018, tre giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo, che vedrà trionfare il movimento, ma anche sedici giorni dopo che l'ex comico si era recato, insieme con Di Maio, in quel momento capo politico dei pentastellati, a Torre del Greco per un comizio particolarmente concitato organizzato dall'associazione Marittimi per il futuro presieduta da Vincenzo Accardo, dipendente proprio di Onorato nella Tirrenia.

Proprio Accardo fece sapere all'uditorio in estasi che Luigino era stato l'unico candidato premier ad accettare il loro invito. Il sodalizio, che ha 3.000 iscritti, è una fucina di lavoratori dell'armatore napoletano, ma in quel caso si trasformò tra applausi scroscianti e promesse di voti in un bacino elettorale per i 5 stelle che a Torre del Greco trionfarono con il 54,4 per cento delle preferenze. 

Grillo dal palco aveva scaldato i cuori dei presenti, tutti italiani e tutti naviganti, promettendo di sbloccare la legge che garantiva sgravi fiscali agli armatori che avessero assunto personale comunitario. 

La sera del 12 febbraio 2018 il garante esordisce così: «Quando un armatore di qua, napoletano, mi ha detto che gli armatori sono esentasse, io sono rimasto Ho chiesto un po' in giro, nessuno sapeva questa notizia». 

Poi prosegue sposando di fatto la tesi di Onorato: «C'era una legge fatta da uno del Pd, Cociancich, ha fatto anche una legge buona diciamo, però poi alla fine delegava l'Europa. E poi Delrio l'ha bloccata».

«Una schifezza» per dirla con l'armatore. Ma il collegamento tra contratto, comizio e promessa di sbloccare la legge non è sfuggita agli inquirenti che nelle chat hanno trovato riferimenti a questo tema. In particolare alla ricerca di «un ponte» con l'Europa che permettesse di rendere digeribile per Bruxelles una norma che inizialmente discriminava tutti i lavoratori non italiani e che era quindi a rischio di infrazione. Adesso gli inquirenti sono interessati a capire, anche grazie al materiale sequestrato a cinque stretti collaboratori (non indagati) di Onorato, Grillo e Davide Casaleggio, se questi pontieri siano stati trovati e se abbiano garantito passi in avanti. 

Nel 2020 probabilmente questo non era ancora accaduto, visto che un'organizzazione sindacale dei marittimi, la Cisal, si era così lamentata: «Purtroppo a distanza di 2 anni dalla sua applicazione, questa legge (la Cociancich, ndr) giace nei meandri della Unione europea, per espressa volontà della stessa Confitarma (la confederazione degli armatori italiani, ndr) supportata dall'allora ministro dei Trasporti Delrio».L'avvocato Cociancich nel 2018 non è stato rieletto in Parlamento ed è diventato uno degli animatori dei comitati che hanno sostenuto la nascita di Italia viva. Nell'entourage di Onorato se lo ricordano a una manifestazione romana di Marittimi per il futuro organizzata sotto la sede di Confitarma per sostenere la sua legge.

Ma, dalle chat, emerge soprattutto il ruolo di lobbista-avvocato al fianco di Onorato di un altro ex collega di partito di Cociancich, quell'Ernesto Carbone passato alla storia per il suo «ciaone» agli avversari di Renzi. Prima delle elezioni del 2018 la Moby gli ha versato 50.000 euro come contributo e alle riunioni dell'hotel Excelsior, quartier generale romano di Onorato, era una presenza fissa. Nei messaggi depositati agli atti emerge per l'assiduità con cui ha seguito l'approvazione della Cociancich e, come già rivelato dalla Verità, fosse stato il mediatore tra Matteo Renzi e Onorato per la firma di un accordo commerciale che avrebbe dovuto portare il fu Rottamatore a trovare investitori per l'armatore in crisi.

I cellulari raccontano che l'ideatore di Mascalzone latino, che aveva imbarcato anche Massimo D'Alema, le ha tentate tutte con il suo partito di riferimento, il Pci-Pds-Ds-Pd, prima di ammainare la bandiera e puntare sui 5 stelle, a partire dal comizio del febbraio 2018, quando era già abbastanza chiaro che il Pd avrebbe lasciato lo scettro ai 5 stelle. 

Ma torniamo ai contratti del 2018. Quello con la Beppe Grillo Srl, come detto, parte dopo il comizio e prima delle elezioni, una specie di professione di fede. Quello con la Casaleggio associati arriva invece il 7 giugno, esattamente sei giorni dopo l'insediamento del primo governo a guida 5 stelle, il Conte 1. Che aveva come ministro delle Infrastrutture e trasporti un grillino doc come Danilo Toninelli.

La Procura evidenzia la «genericità delle cause» di questi accordi. Il contratto con Grillo, 10.000 euro più Iva al mese per un anno, tacitamente rinnovabile, garantiva a Moby uno «Sky Banner 300x500 (pixel, ndr)» la cui « grafica» avrebbe potuto «essere modificata per non più di 2 volte al mese» e che avrebbe dovuto essere utilizzato «per inserimenti pubblicitari». Il numero non viene, però, indicato. Inoltre il contratto, composte da sole 4 pagine (non firmate dalla società di Grillo nella copia in nostro possesso), prevedeva, «su richiesta di Moby, l'inserimento sul Blog, per un determinato periodo di tempo, di contenuti redazionali, sino ad un massimo di 1 al mese».

Anche in questo caso quantità e durata dei contenuti non vengono specificati. Più articolato il contratto tra la Moby e la Casaleggio associati, che nelle prime 13 pagine contiene la descrizione del progetto da realizzare, che, guarda caso, ha al centro la questione affrontata a Torre del Greco, ovvero la «stesura di un piano strategico e la gestione di tutte le iniziative volte a sensibilizzare l'opinione pubblica e gli stakeholder del settore marittimo sulla tematica della limitazione dei benefici fiscali del Registro internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Obiettivo da raggiungere sensibilizzando «le istituzioni sul tema dei marittimi» e raggiungendo «una community di riferimento di 1 milione di persone». Il piano si articolava in tre fasi. Durata prevista tre anni: dal 7 giugno 2018 allo stesso giorno del 2021, per 600.000 euro ogni 12 mesi Iva esclusa, di cui 150.000 di acconto, seguiti da 50.000 euro al mese fino a marzo 2021.

Totale della parte fissa: 1,8 milioni di euro, a cui andava aggiunto un «goal fee» da 250.000 euro se gli obiettivi del contratto fossero stati raggiunti entro 12 mesi o di 150.000 se entro 2 anni. Al progetto al centro del contratto si affiancavano eventuali costi delle campagne pubblicitaria online e non che andavano «via via definiti di comune accordo con il cliente e previa sua autorizzazione». L'accordo viene rescisso consensualmente dopo due anni, l'1 marzo 2020, e dopo il pagamento di 1,2 milioni di euro. Siamo alla vigilia del lockdown, ma soprattutto al Mit non siede più un grillino, ma la piddina Paola De Micheli.I due contratti sono citati anche nel documento di «analisi su alcuni fatti di gestione» della Moby redatto per il Tribunale di Milano dalla commercialista Stefania Chiaruttini.

Una professionista già accusata da Onorato di essere «in evidentissimo conflitto di interessi», essendo «contestualmente consulente sia di Tirrenia in amministrazione straordinaria (e quindi del Mise nel contenzioso contro Onorato, ndr) che dell'attestatore del piano di ristrutturazione del gruppo» oltre che «già ampiamente confutata da numerosi pareri pro veritate formulati da primari professionisti indipendenti».

Sta di fatto che nel capitolo del documento sui pagamenti di Moby «verso vari soggetti esterni al gruppo e non classificabili tra le parti correlate», la Chiaruttini elenca spese voluttuarie di ogni tipo (una casa in Sardegna da 2,1 milioni, a pochi chilometri da quella di Grillo, e super car come una Rolls Royce Wraith da 200.000 euro, una Maserati Levante noleggiata -senza riscatto- per 100.000 euro e due Aston Martin da 300.000 euro complessivi) e una serie di pagamenti che vengono collegati alle relazioni con la politica.Tra le spese di lobbying vengono segnalati 10.000 euro devoluti proprio all'associazione «Marittimi per il futuro» di Torre del Greco, quelli del comizio, 50.000 euro all'associazione Fino a prova contraria, la stessa cifra, come detto, a Carbone, 30.000 alla federazione Val di Cornia-Elba del Pd, 10.000 (suddivisi in due tranche) a Fratelli d'Italia, altri 10.000 a Maida Mataloni, definita «mandataria elettorale» della candidata Pd Silvia Velo e 100.000 al comitato Change, riconducibile al presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.

Ma la consulenza più costosa, a parte il contratto della Casaleggio associati, è quella pagata a Roberto Mercuri, dal 2016 ad di Fai service, cooperativa che offre servizi a 8.600 aziende associate nella Federazione autotrasportatori italiani, nonché braccio destro dell'ex vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona (ex presidente anche della Fai e presidente di Fai service). Mercuri ha percepito 550.000 euro tra il 2017 e il 2019 per il «supporto tecnico - specialistico legislativo in relazione alle attività con il parlamento, con il governo e con la Commissione europea». Non è chiaro a che titolo. L'unica cosa certa è che la Fai, con le sue migliaia di potenziali clienti, è un «partner privilegiato» di Onorato armatori.

"Spazi stretti fra le lettere". Chi è davvero Beppe Grillo. Evi Crotti il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Travolto dalle inchieste, rimasto ai margini del Movimento. Una firma rivela la vera personalità del comico.

La firma mette in evidenza due aspetti del carattere: da un lato c’è originalità e vivacità intellettiva e d’azione, dall’altro il desiderio di sostenere a tutti i costi la propria immagine, cercando di superare in questo modo un’insicurezza di fondo alla quale risponde con caparbietà. L’originalità e l’ostinazione potrebbero portarlo a comportamenti reazionari ma non rivoluzionari (vedi slanci verso l’alto e il basso negli allunghi). L’iniziale grande del nome nella firma segnala il bisogno di emergere socialmente anche attraverso sicurezze tangibili, per avere un posto sicuro nel mondo politico. La difficoltà d’interazione (vedi strettezza degli spazi tra le lettere, qui la firma) è dovuta alla foga di essere sempre e comunque riconosciuto come leader.

Beppe Grillo vive costantemente come fosse sul palcoscenico e quindi domina in lui la teatralità, anche a compensazione dell’insicurezza. Ciò può fargli assumere comportamenti istrionici dovuti a fattori emotivi e quindi a uno scarso controllo sulle proprie emozioni. In questo modo egli finisce per essere protagonista non più artisticamente ma politicamente, essendo condizionato dalla paura di perdere il proprio prestigio e il consenso delle masse che, come comico, aveva saputo conquistare. Possiamo quindi concludere dicendo che, almeno per quanto emerge dall’attuale firma, Beppe Grillo più che moralista potrebbe essere definito un “censore anticonformista” che ha trasformato il suo originario idealismo in una sorta d’intolleranza delle idee altrui. 

Evi Crotti. Laureata in pedagogia, giornalista, scrittrice ed esperta dell’età evolutiva. Allieva diretta di padre Moretti, ha fondato nel 1975 la prima scuola di grafologia morettiana in Milano che tuttora dirige. Ha collaborato con la clinica psichiatrica Guardia Seconda di Milano, diretta dal prof. Carlo Lorenzo Cazzullo e con il dott. Luban-Ploza, medico psicosomatista, partecipando ai gruppi Balint per l’età evolutiva.  

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.

Voleva diventare il re dei trasporti marittimi, finché un gigantesco indebitamento ha fatto colare a picco la sua flotta. Ma Vincenzo Onorato, proprietario di Moby che nel 2011 attraverso Cin ha comprato Tirrenia, non è un uomo che si arrende facilmente. Se mancano le risorse finanziarie, c'è sempre la politica che può dare una mano. In particolare l'amico di vecchia data Beppe Grillo, fondatore del M5S: «Questo dobbiamo trattarlo bene», dice di Onorato. 

È uno dei contenuti delle chat acquisite dalla Procura di Milano e al centro dell'inchiesta per traffico di influenze illecite. A scrivere è Grillo, che in numerosi messaggi come questo sensibilizza i parlamentari e i ministri Cinquestelle direttamente coinvolti nelle questioni normative ed economiche dell'armatore.

Tra i destinatari ci sono una quindicina di parlamentari, ma soprattutto ministri come l'ex titolare dei Trasporti Danilo Toninelli, l'ex numero uno dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (oggi alla guida del dicastero delle Politiche agricole) e l'allora suo vice Stefano Buffagni, nessuno dei quali è indagato. 

Due parlamentari lasciano: la senatrice Evangelista e il deputato Marino. Non ci sono state pressioni, replicano i diretti interessati precisando peraltro di avere lasciato cadere le istanze dell'armatore. Ma le chat, secondo la Procura, non lasciano margine di dubbio: «Fanno ritenere illecita la mediazione operata» dal leader del Movimento, «in quanto finalizzata a orientare l'azione dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby», scrivono i pm nel decreto di perquisizione eseguito dalla guardia di finanza.

E proprio per questo motivo non hanno sequestrato il telefono di Grillo, perché ritengono che a corroborare l'accusa siano sufficienti i messaggi estratti (inserendo alcune parole chiave) dai faldoni arrivati da Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Anche presso quest' ultima, stando alle indagini, l'armatore avrebbe cercato sponda. 

Da un'informativa della finanza finita agli atti dell'inchiesta chiusa di recente dalla Procura fiorentina emerge che tra novembre 2015 e luglio 2016 siano stati versati 300 mila euro a Open, sia da Onorato sia dalla spa di cui era presidente. Denaro, secondo i pm, finalizzato a cementare i rapporti con alcuni esponenti del Pd, tra cui l'onorevole Luca Lotti, che avrebbero potuto favorire gli interessi del gruppo.

Alle donazioni, rilevano gli investigatori, avrebbero fatto seguito alcune comunicazioni tra Onorato e Lotti in materia di provvedimenti legislativi riguardanti le imprese marittime. L'armatore, in particolare, avrebbe chiesto un emendamento suggerendone il testo: venne approvato pressoché uguale. Nel 2017, stando a quanto trapela dall'inchiesta milanese, a sostenere le istanze di Onorato scende in campo Grillo. 

Ma è nel 2018, quanto il gruppo entra in crisi, che il fondatore del Movimento viene reclutato con un contratto: 240 mila euro per due anni, formalmente per fare pubblicità a Moby sul blog, in realtà - è l'accusa - per indirizzare via chat i «parlamentari in carica» del suo schieramento, con l'obiettivo di pilotare le decisioni della politica a vantaggio della compagnia.

I dossier riguardano direttamente il governo Conte, chiamato a decidere sugli sgravi fiscali destinati al settore, il ministero dei Trasporti di Danilo Toninelli e quello dello Sviluppo economico (Mise), retto tra il 2018 e il 2020 da Luigi Di Maio prima e Patuanelli poi, con Stefano Buffagni alla poltrona di viceministro.

È il Mise, nell'aprile 2020, ad autorizzare i commissari straordinari di Tirrenia a sottoscrivere l'accordo con la Cin, controllata del gruppo Moby, e qualche mese dopo c'è il rinnovo della convenzione fra lo Stato e la compagnia di navigazione. Che Toninelli aveva osteggiato: «In merito alla questione Moby sono state diffuse menzogne sul mio conto - afferma ora - Durante l'incarico da ministro avrei prorogato la concessione per i servizi di collegamento marittimo in regime di pubblico servizio con le isole maggiori e minori.

La notizia è palesemente falsa poiché la suddetta convenzione, all'articolo 4, specifica la sua durata dal 18 luglio 2012 al 18 luglio 2020. Pertanto la scadenza della sua vigenza risulta di quasi un anno successiva al termine del mio incarico da ministro, risalente al mese di settembre 2019». 

Intanto i legali di alcuni collaboratori di Grillo e Onorato perquisiti tre giorni fa stanno valutando un probabile ricorso al Tribunale del riesame. Un'eventuale impugnazione del provvedimento firmato dal pm Cristiana Roveda e dall'aggiunto Maurizio Romanelli consentirebbe una prima discovery di tutte le carte in mano all'accusa.

Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2022.  

Segnalazioni Antitrust inascoltate per almeno due anni. Avrebbero giustificato la messa a gara di alcune tratte per la Sardegna, disciplina prevista dalla normativa europea, confermate da una multa (per 29 milioni poi ridotta ad 1) per abuso di posizione dominante nel trasporto merci. Gare avviate solo da questo governo, ad aprile 2021, non dagli esecutivi a guida pentastellata.

Procedimenti societari di fusione inversa, sventati, che avrebbero svuotato della garanzie patrimoniali sufficienti a Moby per rimborsare il debito di 180 milioni nei confronti dello Stato per il modo in cui avvenne la fusione di Tirrenia nel gruppo della famiglia Onorato. Soprattutto proroghe su proroghe, decise dai due governi Conte, della Convenzione da 72 milioni di euro all'anno con cui Tirrenia copriva le rotte passeggeri/merci per la Sardegna, la Sicilia e le isole Tremiti.

Rotte definite «a fallimento di mercato», dunque da sostenere con sussidi pubblici, che però rischiavano di configurare una preoccupante concentrazione dell'offerta di posti sui traghetti che poteva determinare a cascata un aumento del prezzo dei biglietti nella stagione estiva. Concentrazione segnalata da una relazione alla Camera dell'allora presidente dell'Authority dei Trasporti, Andrea Camanzi, che rivelava come la gran parte delle rotte fosse coperta con percentuali tra il 90 e il 95% di posti offerti dal gruppo Moby, tesi che confermerebbe la totale assenza di concorrenza.

E poi le esenzioni fiscali e l'utilizzo a fini di liquidità immediata dei fondi destinati alla ristrutturazione delle navi con cui avvenne l'acquisizione di Tirrenia che finì in amministrazione straordinaria salvo essere rilevata dal gruppo della famiglia Onorato nel 2012. Una procedura che diede vita ad un lungo contenzioso con i commissari della Tirrenia finito con la decisione della Commissione Ue di decretare il rimborso all'Italia di ulteriori 15 milioni. 

Da qui i sequestri conservativi dei conti della società, su richiesta degli stessi commissari, tramutati però dall'allora ministro dello Sviluppo, Stefano Patuanelli, in un più morbido sequestro conservativo delle navi che svolgendo però un servizio pubblico non potevano fermarsi.

Ora il piano di rientro del debito di 640 milioni (160 milioni verso le banche, 180 verso lo Stato e 300 verso una pletora di obbligazionisti) della capogruppo Moby e della controllata Moby-Cin sottoposto alla valutazione dei creditori, tra cui anche i commissari di Tirrenia, a cui il pm Roberto Fontana, ha chiesto un parere. Ieri nell'udienza a Milano il gruppo Moby ha spiegato di voler immettere nuova finanza per 60 milioni e di voler pagare il debito Tirrenia all'80% in 4 anni, con garanzia ipotecaria sulle navi e con il mandato di vendita della stessa società (col rischio che però il valore dei natanti scenda ancora) quale ulteriore garanzia.

Traffico di influenze, quella legge fumosa che ingolfa la giustizia. Dal caso della ministra Guidi all’assoluzione di Alemanno, passando per Renzi senior: come nasce (e come spesso muore) uno tra i reati più cari ai grillini. Simona Musco su il Dubbio il 19 gennaio 2022.  

«Il reato di traffico di influenze illecite è come la corazzata Potemkin del film di Fantozzi, una boiata pazzesca: la si può girare come si vuole, ma alla fine i conti non tornano, perché è costruito sul nulla». A dirlo, cinque anni fa, era Tullio Padovani, professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, intervistato dal Foglio sul caso giudiziario che portò alle dimissioni dell’allora ministra dello Sviluppo, Federica Guidi.

Era marzo del 2016 e i grillini non persero tempo ad emettere la loro sentenza: «Quanto scoperto in queste ore sul ministro Guidi è vergognoso! Deve andare a casa subito!», recitava la pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle, accontentato poco dopo dalla ministra, che decise di mollare. Un anno dopo il M5S ribadiva il concetto, punzecchiando l’allora premier Matteo Renzi per le indagini riguardanti il padre: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi, che babbo Tiziano, resta saldamente indagato nell’inchiesta per corruzione negli appalti miliardari in Consip per il grave reato di traffico di influenze», si legge in un post del 13 aprile 2017. Su quella stessa pagina, oggi che ad essere indagato è Beppe Grillo, il padre del Movimento, tutto tace. Quello contestato all’ex comico è un reato dai contorni vaghi, connotato da un forte intento repressivo, che punisce, in via preventiva e anticipata, il fenomeno della corruzione, sanzionando tutti quei comportamenti, in precedenza ritenuti irrilevanti, che la “preannunciano”.

Il reato è stato introdotto nell’ordinamento con l’articolo 1, comma 75, della legge 6 novembre 2012, n. 190 – la cosiddetta “Severino” -, previsto nel codice penale con l’articolo 346-bis. La norma è poi transitata nel 2019 nella cosiddetta “Spazzacorrotti”, la legge bandiera dei grillini, che adeguando il diritto penale interno a quanto previsto dalle norme sovranazionali ha esteso la portata applicativa della legge anche alle condotte che prima era riconducibili al millantato credito, contestualmente cancellato dal codice penale. La legge punisce con una pena che va da un anno a quattro anni e mezzo chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». Insomma, vengono puniti i cosiddetti “faccendieri”, sia nell’ipotesi in cui si facciano pagare per l’opera di mediazione – e il denaro deve essere necessariamente indirizzato “a retribuire” quella stessa opera -, sia in quella per cui chiedono il denaro non per sé, ma per pagare il pubblico ufficiale, attività preparatoria del reato corruttivo. Attività considerate una patologia del lobbismo, tema per il quale solo una settimana fa la Camera ha approvato un testo di legge che disciplina l’attività di relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi.

I casi di cronaca sono diversi e anche particolarmente pesanti: il più eclatante è forse quello, già evocato, della ministra Guidi, mai indagata, ma messa alla gogna per l’ipotesi di aver inserito nella legge di Stabilità del 2015, su pressione dell’allora compagno e imprenditore Gianluca Gemelli -, ex commissario di Confindustria Siracusa – un emendamento che sbloccava il progetto di estrazione petrolifera “Tempa Rossa”, favorevole alla Total, che avrebbe poi “ripagato” l’intermediazione di Gemelli affidando un subappalto a una delle sue aziende. Quell’inchiesta provocò un vero e proprio terremoto politico, tant’è che fu proprio il pressing dell’allora premier Matteo Renzi a provocare le dimissioni di Guidi. Mesi dopo, però, tutto si dissolse in una bolla di sapone e la posizione di Gemelli fu archiviata: per gli inquirenti, infatti, sebbene la sua autorevolezza derivasse «dal fatto di essere notoriamente il compagno del ministro Guidi», condizione che spendeva «anche millantando, in modo più o meno esplicito, la possibilità di trarre vantaggio da tale sua condizione», non è emerso «che egli abbia mai richiesto compensi per interagire con esponenti dell’allora compagine governativa». L’inghippo, spiegava all’epoca Padovani, sta nel fatto «che l’incriminazione poggia tutta sulla finalità, ma la finalità sta nella testa della gente, e come fai a stabilirla?». Insomma, gli inquirenti godono in questo senso di ampia discrezionalità per indagare – con tutte le conseguenze politiche del caso -, ma al tempo stesso scontano la difficoltà di dimostrare che il loro teorema sia corretto.

Il caso Guidi non è, però, l’unico. Tra i più golosi per le cronache giornalistiche c’è quello di Tiziano Renzi, padre dell’ex segretario del Pd, rinviato a giudizio a settembre scorso nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Consip, ma anche il caso Open, che vede coinvolto proprio l’ex presidente del Consiglio, che conta tra i reati contestati anche quello previsto dall’articolo 346-bis. Ma c’è anche la vicenda di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, assolto pochi mesi fa in uno stralcio del processo “Mafia Capitale”, sentenza nella quale sono stati i giudici a evidenziare la fumosità di tale reato e la difficoltà, per le procure, di portare a casa il risultato. Secondo la Cassazione, infatti, la norma «non chiarisce quale sia la influenza illecita che deve tipizzare la mediazione e non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione (c.d. lobbying), attualmente non ancora regolamentata».

Insomma, data la vaghezza della norma, il rischio è quello di «attrarre nella sfera penale – a discapito del principio di legalità – le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel “sottobosco” di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all’interesse perseguito».

L'accusa è di traffico di influenze. Beppe Grillo indagato, nel mirino i contratti pubblicitari con la Moby di Vincenzo Onorato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.  

A pochi giorni dal cruciale voto per il Quirinale sono ancora una volta le Procure ad entrare in gioco, questa volta mettendo nel mirino il Movimento 5 Stelle. Il fondatore e garante dei pentastellati Beppe Grillo, come scrive il Corriere della Sera, è indagato dalla Procura di Milano per traffico di influenze.

La vicenda riguarda i contratti sottoscritti nel biennio 2018-19 dal blog Beppegrillo.it con la compagnia marittima Moby dell’armatore napoletano Vincenzo Onorato.

L’indagine a carico di Grillo, scrive il Corsera, è emersa a seguito di alcuni sequestri e acquisizioni di documenti effettuati dal Nucleo di Polizia economico-tributaria della Guardia di Finanza di Milano martedì mattina in una diversa inchiesta sulla compagnia marittima, da tempo in ‘cattive acque’.

Moby è stata infatti ammessa nel giugno 2020 dal Tribunale di Milano alla procedura di concordato preventivo, proposta dal gruppo che fa capo a Onorato a obbligazionisti, alle banche e allo Stato anche in virtù della vicenda dell’acquisizione della Tirrenia.

L’inchiesta è diretta dai pm Cristina Roveda sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. I finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, scrive l’Ansa, stanno effettuando perquisizioni negli uffici della Beppe Grillo srl.

Secondo l’ipotesi accusatoria della Procura, guidata dal facente funzione Riccardo Targetti, Vincenzo Onorato avrebbe chiesto a Beppe Grillo una serie di interventi a favore di Moby che il leader del Movimento 5 stelle “ha veicolato a esponenti politici trasferendo quindi” all’armatore “le relative risposte”.

Il ruolo del blog di Grillo

Ma cosa c’entra dunque Grillo nell’indagine? Il cofondatore del Movimento 5 Stelle aveva raggiunto un accordo con la Moby nel biennio 2018-19: per un compenso di 120mila euro l’anno, sul blog di Grillo sarebbero stati inseriti messaggi pubblicitari, uno spot al mese e contenuti redazionali e interviste a “testimonial” della Moby, da diffondere anche sui social del blog.

In realtà, come emerso dalle carte della procedura di concordato preventivo della Moby, l’accordo col ‘sacro bloc’ grillino non è andato poi così. Grillo viene indicato infatti tra i creditori della compagnia di navigazione per 73.200 euro.

L’inchiesta su Open

In realtà l’accordo commerciale tra Moby e blog di Grillo emerse già nel dicembre 2019 nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. In quell’occasione risultò anche la segnalazione da parte dell’Ufficio di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia di alcuni pagamenti della compagnia di Onorato, tra cui quello al blog di Grillo, come potenzialmente sensibili in base alle normative antiriciclaggio.

Segnalazione avvenuta, ricorda il Corriere, “sia per gli importi, sia per la descrizione generica della prestazione ricevuta, sia per la circostanza di essere disposti a beneficio di persone politicamente esposte”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da iltempo.it il 5 Gennaio 2022.

Dopo il danno, la beffa. Sia Davide Casaleggio che Beppe Grillo che finirono su tutti i giornali alla fine del 2019 per le indagini dell'antiriciclaggio su alcuni bonifici e i contratti che entrambi avevano con le rispettive società possedute (Casaleggio Associati e Beppegrillo.it) con il gruppo Moby. Nessuno dei due fece salti di gioia per la pubblicazione dei contratti pubblicitari che li legavano alla compagnia di navigazione. 

E si capisce facilmente perché: il sito del fondatore del M5s avrebbe dovuto pubblicare una intervista-spot al mese a testimonial di Moby in cambio di 120 mila euro l'anno, mentre la società di Casaleggio si era impegnata in un piano di comunicazione a sostegno di benefici fiscali rivolti alle sole navi che impiegavano equipaggi italiani o comunitari con un pagamento al raggiungimento di obiettivi di 250 mila euro entro 12 mesi e 150 mila euro fra i 12 e i 24 mesi.

Entrambi quei contratti sono rimasti però in  gran parte sospesi in aria e travolti dalla procedura concordataria a cui il Tribunale di Milano ha ammesso Moby nel luglio dello scorso anno. In procedura sono indicati crediti vantati nei confronti della compagnia di navigazione dalla Casaleggio Associati per 300.107 euro e da Beppegrillo.it per 73.200 euro. Cifre ora a rischio di incasso effettivo e che secondo i documenti societari depositati non sono proprio indifferenti per entrambe le società, anzi.

La Casaleggio Associati ha infatti chiuso l'ultimo bilancio depositato in camera di commercio, quello relativo al 2020, con un fatturato di 1.813.489 euro (l'anno precedente la pandemia era stato di 2.264.588 euro) e una perdita finale di 320.295 euro (l'anno prima invece c'era stato un utile di 100.346 euro). Il credito nei confronti di Moby è dunque piuttosto rilevante, pari proprio al rosso in bilancio registrato. 

Peggio ancora per la società che gestisce il sito di Grillo, che nel 2020 ha fatturato appena 57.940 euro (erano stati 240.539 nel 2019), con una perdita finale di 12.457 euro (aveva invece registrato nel 2019 un utile di 65.753 euro). Il credito per entrambi era stato inserito in bilancio nella certezza che fosse esigibile, e probabilmente andrà ora rettificato secondo il piano di rimborso parziale dei creditori approvato in tribunale.

Grillo ne ha fatto cenno anche nei documenti contabili, spiegando che però tutto è accaduto dopo la chiusura dell'ultimo esercizio e che quindi non poteva essere registrato in altro modo. Ma spiega: “a seguito della crisi epidemiologica Covid-19 iniziata nel corso del 2020 e ancora in atto, dopo la chiusura dell'esercizio e stata notificata, dal cliente Moby S.p.A., una richiesta di accordo ai sensi dell'art. 182 bis l. fall.in data 10 /02/2021, per valutare un accordo di rientro per il credito vantato dalla Vostra società per € 73.200,00. In seguito, a luglio 2021, il Tribunale di Milano ha notificato l'apertura della procedura di Concordato preventivo della Moby S.p.A”. 

Il fondatore dei 5 Stelle nel mirino. Inchiesta Grillo-Moby, il pressing di Beppe per Onorato nelle chat coi ‘big’ grillini: “Possiamo intervenire?”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

Ci sono big del Movimento 5 Stelle come l’allora ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli e il suo vice Stefano Buffagni, oltre a Danilo Toninelli, nelle chat e nelle carte dei pm di Milano che indagano su Beppe Grillo e i suoi rapporti con la Moby, la compagnia marittima dell’armatore Vincenzo Onorato. 

Le attenzione dei magistrati su Grillo, indagato per traffico di influenze, sono rivolte in particolare al contratto di collaborazione stipulato tra il suo blog e la Moby per i contenuti redazionali pubblicati sul sito. 

Il contratto con Moby

Un contratto per due anni da 240 mila euro totali da pagare in dieci rate mensili da 10 mila euro da accreditare presso la filiale di Nervi della banca Passadore. Secondo i pm titolari dell’inchiesta, il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e la pm Cristiana Roveda, un accordo economicamente senza senso: troppo esoso, dato che sul blog doveva uscire un articolo al mese.

Non solo. Alla fine i contenuti usciti sul blog, scrive Il Fatto Quotidiano, sono stati solo quattro in due anni. Da qui l’accusa nei confronti del garante e cofondatore del Movimento 5 Stelle, durante la stesura del contratto “Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di interventi a favore di Moby che ha veicolato a parlamentari in carica appartenenti” al suo “movimento politico, trasferendo al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima”.

L’impegno di Grillo per Tirrenia

L’ex comico firma anche un articolo sul blog che tratta di temi sensibili per Moby, ovvero la legge sugli sugli sgravi fiscali per i marittimi. “Siamo un popolo di navigatori, disoccupati”, è il titolo dell’articolo pubblicato sul sito, e all’interno si leggeva: “Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi”. 

In realtà nel 2019 un dirigente della compagnia di navigazione scrive all’armatore Onorato per chiedere di riconsiderare il contratto col blog di Grillo, considerato troppo oneroso. Per il numero uno di Moby però non si può tornare indietro: “Procedi con il rinnovo, è importante”.

Le chat con gli eletti

Tra le carte ci sono anche le chat in cui Beppe Grillo parla con gli eletti del Movimento 5 Stelle del settore navigazione. A rivelare alcuni di questi messaggi è Repubblica, chat risalenti al lockdown del 2020, il periodo di crisi maggiore per il settore marittimo. 

“Dobbiamo fare qualcosa per il settore”, “Il gruppo Tirrenia sta fallendo, possiamo intervenire?”, scrive Grillo ai suoi chiedendo un impegno a favore della compagnie di navigazione. 

Effettivamente nel marzo 2020 si svolge una conferenza tra i commissari di Tirrenia, i vertici di Tirrenia Cin, la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli (che sostituisce Toninelli) e Patuanelli. 

Il tema è il blocco dell’operatività delle navi e dopo 24 ore spunta la soluzione, scrive ancora Repubblica: lo sblocco della liquidità sequestrata a Tirrenia (cioè a Onorato). Che pubblicherà una nota per ringraziare i commissari, il Mit e il Mise per aver favorito la conclusione dell’accordo.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

L'epuratore epurato. La tragicomica parabola di Beppe Grillo, finito in una trappola che si è creato da solo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Gennaio 2022. 

Povero Beppe Grillo, alla fine fa impressione e suscita una autentica pena. È incredibile come proprio lui, il fustigatore del sistema, l’accusatore dei corrotti e dei corruttori, sia caduto nelle trappole che si è creato da solo senza riconoscere il sentiero che porta diritti alla ghigliottina. Noi saremo sempre super garantisti e per di più siamo felici che esista un progetto di legge che voglia eliminare una volta per tutte la scure del boia: il reato di traffico di influenze.

Ricordiamo una delle ultime interviste di Bettino Craxi ad Hammamet, quando rispose a una giornalista che gli chiedeva come si definisse e lui rispose di essere un esule scampato all’ergastolo con l’accusa di aver venduto la propria incorrotta influenza. Ma Grillo! Come fa questo pover’uomo a non capire che scendendo come un Tarzan da Cinecittà in mezzo alla palude dei coccodrilli e dei serpenti sarebbe stato lentamente mangiato vivo? Grillo rappresenta il punto di innesto tra l’essere umano travolto dai propri errori e l’erpice di Kafka, l’erpice della giustizia e della burocrazia illiberale in un paese decrepito e in fasce quanto a godimento delle libertà. Grillo era delizioso quando da teatrante raccontava la propria storia di ragazzo di bottega in un capannone di Genova dove respirava l’odore delle merci che registrava sui registri di carico e scarico col pennino e con l’inchiostro, per conto del suo datore di lavoro mentre la sua paradossale mente cercava soluzioni e cercava fantasticamente di trovare le cause vere o immaginarie di una società profondamente ingiusta e anche profondissimamente ipocrita.

Lui si stupiva e sfornava soluzioni dal palcoscenico, forniva il balsamo per ogni piaga, energia miracolose, maneggiava una matematica creativa con cui fare i conti a banche, partiti, fondazioni, potenti e satrapi e poiché diceva cose estremamente empatiche che facevano vibrare i cuori, pensò bene di mettersi in una propria cabina di regia immaginaria per trasformare la scintillante follia teatrale in una politica che dopo aver rovinato l’Italia, adesso sta rovinando anche lui: invecchiato intanto, per distrarsi, picchia giornalisti e diffonde un video penoso in cui difende il figlio accusato di stupro con parole miserevolmente immortali: «Che cosa volete che sia due ragazzi col pisello di fuori in una casa al mare con due ragazze che ci stanno?». Travaglio che per una volta ci azzeccò scrisse che “Beppe Grillo è più fuori del pisello di suo figlio”. E poi, tutto quel ciarpame di atteggiamenti che non hanno più alcun potere provocatorio come girare per il Quirinale con uno scafandro al posto della mascherina. Dobbiamo dire a sua attenuante che Grillo ha sul cazzo l’avvocato Giuseppi e gli mette tutti i bastoni che può fra le sgangherate ruote.

Questo vuol dire che gli resta dell’istinto ma ormai la lista degli errori imperdonabili sfiora il colmo e appare come il personaggio plautino che dopo la fine della commedia viene inseguito dai militi per avere esagerato in pernacchie e perso lo smalto per cui la gente pagava il biglietto. Il traffico delle influenze, questo sterco del demonio che sa da un miglio di caccia alle streghe: è un reato del genere dell’associazione di stampo mafioso che dopo essere stata una aggravante diventò un reato a sé stante. Grillo non sa la storia e spesso neanche la geografia. Quindi non ha la più pallida idea di quanto radicati siano i mali italiani che pure sono già tutti analizzati nel saggio di Leopardi sul carattere degli italiani, nell’originale tragica fiaba di Pinocchio scritta da Collodi già arreso ai gendarmi, per non dire della colonna infame del Manzoni. Due secoli fa, un secondo fa, mille anni fa i Beppe Grillo insorti nelle contrade arringando le folle e brandendo forconi uno dopo l’altro sono finiti arrostiti sulla piazza o impiccati o sbranati dalle folle che hanno cambiato idea. Ma tutto questo il pover’uomo lo ignora e pensa davvero che esistano nella realtà i cartoni animati che lui ha filmato nella sua testa e che riscossero grande successo di pubblico.

Lui si salverà la pelle, non gli può accadere granché di male, ma solo adesso sta cominciando a capire che l’erpice omicida della giustizia italiana è una macchina che ha sempre fame di capi popolo e contemporaneamente seguita a produrne. Così Beppe Grillo ha ingoiato e sputato tutte le tossine dell’odio, dello sdegno, del linciaggio come atteggiamento politico, salvo scoprire Il mostro che lui pretendeva di attaccare e un altro e che il suo tempo è scaduto. Potrà ancora agitarsi, disperarsi e indignarsi per difendere il proprio figlio che rendendosi lui stesso imbarazzante davanti ai suoi sostenitori, Potrà parlar male di tutti tranne che di se stesso anche perché l’uomo ha una sua farraginosa e mal diretta intelligenza, ma oggi si trova già nella un bel nota condizione del candidato alla forca e non sistema politico dallo stomaco foderato di pelliccia. L’antico, paradossale e popolare bagnaccio per sua scelta, nel momento in cui e affronta il declino politico, vede la macchina antropofaga che si appresta a divorarlo senza sputarle più neanche i cespugliosi arrangiamenti dei suoi capelli inutilmente bianchi.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Traffico di influenze. Svolta di Travaglio, il Fatto Quotidiano diventa garantista: niente gogna per Grillo indagato. Il Gaglioffo su Il Riformista il 20 Gennaio 2022. 

La notizia che il povero Beppe Grillo è indagato per il reato inventato dalla ministra Severino e inasprito dal prode Bonafede – fustigatore di ogni malefatta dei politici – ieri ha fatto sorridere un po’ tutti i commentatori. In effetti è una notizia molto divertente. Qualche giorno fa Marco Travaglio, che di Grillo è il principale figlioccio, durante un dibattito televisivo con Renzi sorrideva e sventolava le mani strusciando tra loro i due pollici i due indici per far capire che i pregiudicati veri son quelli che prendono denaro, anche se magari non vengono condannati, e tutti gli altri reati contano poco.

Travaglio sosteneva che questo tipo di reato era tutto una specialità dei partiti non-cinque-stelle, e in particolare dei renziani e dei berlusconiani. E adesso si trova in un bel guaio. Qui c’è la magistratura che sostiene che Grillo ha preso i soldi per dire ai suoi (cioè ai deputati e ai senatori del partito del quale era garante) di favorire la Moby Traghetti. E, secondo i Pm, i suoi deputati e senatori obbedirono, come spesso a loro capita. E su questa base i magistrati hanno ipotizzato il reato di traffico di influenze. Ora è ben vero che nessuno sa in cosa possa consistere questo reato misterioso, inventato solo allo scopo di consegnare ai Pm uno strumento per colpire i politici e gli imprenditori anche in totale assenza di episodi di corruzione; però resta il fatto che a difendere strenuamente questo reato, e ad inasprirne le pene, c’era proprio il partito di Grillo, che lo fece anche in modo rumoroso, e quando (con l’aiuto della Lega) impose al parlamento quell’obbrobrio di legge forcaiola che battezzò “spazzacorrotti”, festeggiò e festeggiò e si gloriò e insultò sanguinosamente chiunque provasse a opporsi a quella follia da sbirri. E Grillo era lì. Felice. Convinto. Contento. Era lì in bonafede.

Poi tutto tornò in pianto. E dalla nuova terra un turbo nacque… Se lo guardate oggi, Grillo, fa simpatia. Si proclama innocente, ripete le frasi che cento volte hanno ripetuto, non credute, centinaia di vittime della malagiustizia – come lui- che però, da lui, furono insolentite e infangate. Ora è lui a imitare le sue vittime. Traffico di influenze non è una cosetta. La pena può arrivare a quattro anni e mezzo di prigione. Che vuol dire addirittura tre volte la pena che Grillo a suo tempo rimediò come responsabile di un triplice omicidio colposo. Si sa che nella filosofia dei 5 Stelle omicidio e reati contro il patrimonio o la pubblica amministrazione non sono comparabili. A una persona onesta può succedere di uccidere, e passi; ma se davvero è onestà onestà non gli capiterà mai di essere sospettata di avere preso o dato dei soldi illeciti.

E così, nell’ilarità generale, Grillo è finito anche lui alla gogna. Tanto che tutti i giornali italiani, salvo uno, ieri hanno dedicato a Grillo il titolo di apertura della prima pagina. Come fanno da molti anni ogni volta che un politico prende una stangata da un sostituto procuratore allegro e baldanzoso. Salvo uno, dicevamo. Indovinate quale? Eh già, proprio lui: Il Fatto del fido Travaglio. Il quale per la prima volta nella sua storia – dieci anni di storia – ha ridimensionato la notizia e ha deciso che era una notizietta da dare in prima in un trafiletto piccolo piccolo. E questo, naturalmente ha aumentato l’ilarità generale. Perché poi è così: è giusto, quando un povero epuratore finisce epurato (Nenni aveva previsto tutto) e un fustigatore fustigato, e un savonarola savonarolato, non fare i maramaldi e difenderlo, come vanno difesi tutti quelli che finiscono sotto le manganellate dei Pm. Però, ridere un po’ è lecito. Di Grillo? Sì, certo, di Grillo, ma più ancora del suo scudiero che dirige il Fatto. Il Gaglioffo

Grillo indagato per la Moby, la ricerca dei magistrati nelle chat e nei messaggi dei collaboratori più stretti: «Una mediazione illecita». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2022.  

Da una parte del filo il telefonino della web grafica del blog di Beppe Grillo e figlia del paroliere che per Patty Pravo scrisse «Pazza idea», Nina Monti, e il cellulare di Luca Eleuteri, socio fondatore della Casaleggio Associati al quale nel 2018 Davide Casaleggio affidò il delicato compito di spiegare ai giornali la fine del sodalizio tra il «garante» M5S e l’azienda milanese; dall’altro lato del filo il telefonino dell’amministratore delegato Achille Onorato della compagnia marittima Moby Spa fondata dal padre Vincenzo, e i cellulari di Annamaria Barrile e Giovanni Savarese, che nella società erano responsabile delle relazioni istituzionali e capo ufficio stampa: sono queste 5 persone, tutte non indagate, a essersi viste sequestrare ieri gli apparecchi sui quali la Guardia di Finanza di Milano ha la convinzione di trovare chat e messaggi confermativi di una illecita mediazione di Grillo per spingere i suoi parlamentare a fare gli interessi legislativi dell’armatore che lo stava finanziando.

Balza subito all’occhio che proprio a Grillo, benché al centro dell’indagine per l’ipotesi di reato di «traffico di influenze illecite», non è stato sequestrato il telefonino, su cui pure si ipotizza siano intercorse in entrata le richieste dell’armatore o in uscita gli input ai parlamentari 5 Stelle. Si tratta di una evidente scelta della Procura di Milano, che, così come ieri non si è azzardata a cercare chat su apparecchi di deputati 5 Stelle tutelati dalle garanzie parlamentari, ha rinunciato anche al telefonino del (pur non parlamentare) fondatore ed ex capo politico e poi garante dei 5 Stelle: forse per minimizzare le intrusioni nella privacy e sterilizzare le polemiche che sarebbero nate dall’acquisizione di un cellulare «sensibile», dove è ovvio che sarebbero state presenti (e dunque sarebbero finite depositate poi agli atti come nel caso di Renzi a Firenze nell’inchiesta Open) tutta una serie di chat ad esempio sulle dinamiche interne del Movimento, sui rapporti altalenanti tra Grillo e l’ex premier Conte, sugli attuali posizionamenti dei 5 Stelle in vista del voto per il Quirinale, e anche sulle vicende familiari e scelte difensive legate al processo al figlio di Grillo in Sardegna.

Altrettanto ovvio, però, è che evidentemente gli inquirenti nutrono un ragionevole affidamento di trovare lo stesso sugli apparecchi delle altre cinque persone i messaggi di proprio interesse investigativo. Da quanto traspare infatti dai decreti di perquisizione, la società Beppe Grillo srl, di cui il comico è socio unico e legale rappresentante, ha percepito da Moby spa 120.000 euro all’anno nel 2018 e 2019 «apparentemente per un accordo di partnership» finalizzato alla diffusione sui canali digitali legati al blog Beppegrillo.it di «contenuti redazionali» (almeno uno al mese) promozionali del marchio Moby. Sempre dal 2018, e per tre anni, la Moby spa ha sottoscritto anche un contratto con la Casaleggio Associati srl del figlio Davide del cofondatore del M5S Gianroberto, che i pm — senza allo stato indagarlo — qualificano «figura contigua al M5S in quanto all’epoca dei fatti gestiva la piattaforma digitale Rousseau»: 600.000 euro annui per la campagna «Io navigo italiano», un pallino di Onorato per «sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeholders alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarchino personale italiano e comunitario».

Solo che — e qui sta la correlazione che i pm devono dimostrare per contestare il traffico di influenze illecite — nello stesso periodo «Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di interventi in favore di Moby spa», e per i pm «le ha veicolate a parlamentari in carica appartenenti al Movimento» da lui fondato, «trasferendo quindi al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima». Un triangolo di cui gli inquirenti milanesi avrebbero già tracce, acquisite a Firenze in alcune chat di Onorato nell’inchiesta fiorentina dal 2019 sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. E «l’entità degli importi versati o promessi da Onorato, la genericità delle cause dei contratti, e le relazioni effettivamente esistenti e utilizzate da Grillo su espresse richieste di Onorato nell’interesse del gruppo Moby» sono i tre elementi che al procuratore aggiunto milanese Maurizio Romanelli e alla pm Cristiana Riveda fanno allo stato ritenere «illecita la mediazione operata da Grillo», perché «finalizzata a orientare l’azione pubblica dei pubblici ufficiali (i parlamentari 5 Stelle, ndr) in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby».

Alfredo Faieta e Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 18 gennaio 2022.

Il fondatore del Movimento 5 stelle è indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze relativamente ad accordi per sponsorizzazioni a favore della Moby di Onorato attraverso il blog del comico da 120 mila euro. Chat tra grillo e Onorato sono state rinvenute nel caso della Fondazione Open che vede indagato Renzi. 

Il fondatore del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, è indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze. Sono finiti sotto l’attenzione della procura i contratti pubblicitari sottoscritti per il 2018 e il 2019 dalla compagnia marittima «Moby spa» dell’armatore Vincenzo Onorato con il blog Beppegrillo.it per un valore di 120 mila euro all’anno.

L'ipotesi è che questi contratti siano in realtà fittizi, e che non siano altro che il prezzo della mediazione politica. In quegli anni in carica il governo giallo-verde, ministri Luigi Di Maio, al Lavoro e allo Sviluppo economico, e Danilo Toninelli, ai Trasporti. Il Movimento 5 stelle è rimasto in carica in tutti gli esecutivi successivi.

Un flusso di chat telefoniche bidirezionale è ciò che ha insospettito gli inquirenti della procura di Milano che hanno perquisito oggi la società di Beppe Grillo e lo hanno iscritto nel registro degli indagati per traffico di influenze illecite insieme all'armatore napoletano Onorato, proprietario delle navi Moby. 

Chat rinvenute dalla procura di Firenze durante l'inchiesta sulla Fondazione Open, che vede indagato l’ex premier Matteo Renzi per finanziamento illecito ai partiti. Alla Fondazione, Vincenzo Onorato ha girato 300mila euro nel 2015. Il patron di Moby scrisse a Lotti chiedendo un emendamento e suggerendone il testo: passò quasi identico. Quelle riguardanti Grillo, sono state inviate a Milano e sono finite sul tavolo del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e della pm Cristiana Roveda. 

Dall'analisi, secondo quanto si sa al momento, emerge che Grillo si sarebbe fatto da interprete delle necessità di Onorato veicolando le sue richieste a esponenti di partito del Movimento 5 stelle e poi riportando le risposte che riceveva allo stesso Onorato. 

Una sorta di indebita attività di lobbying, sulla quale si sta cercando di fare luce anche verso la Casaleggio e associati, perquisita stamattina dalla Gdf insieme a Grillo, e che risulta destinataria di un altro contratto. La procura è, infatti, alla ricerca di connessioni tra quell'affare e una serie di contratti siglati sia con quest'ultima società sia con quella di Grillo dal gruppo Moby.

Come riportato da Domani, la concessione al gruppo Onorato del valore di 72 milioni di euro l’anno per i collegamenti con la Sardegna è scaduta a luglio di un anno fa, ma due diversi governi l’hanno prorogata già due volte e sono previste altre proroghe. 

Al ministero dei Trasporti si sono «dimenticati» di indire per tempo le gare per l’individuazione del miglior offerente per il servizio di «continuità territoriale». Quelle rotte, ha raccontato Daniele Martini su Domani, dovrebbero essere messe a gara una per una in base a una indicazione dell’Art (Autorità di regolazione dei trasporti) del 2019 con lo scopo di individuare il miglior offerente.

Il traffico di influenze riguarda chi, sfruttando o vantando relazioni “esistenti o asserite” con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, si fa dare indebitamente oppure fa dare ad altri denaro o altre utilità, come prezzo della mediazione. In questo caso il faccendiere con buone connessioni nella pubblica amministrazione chiede denaro a un imprenditore per svolgere il ruolo di intermediario. 

La procura spiega che dalle attività investigative svolte è emerso allo stato che la società Beppe Grillo Srl, di cui Grillo è socio unico e legale rappresentante, ha percepito da Moby s.p.a. 120.000 euro annui negli anni 2018 e 2019, quale corrispettivo di un «accordo di partnership» avente ad oggetto la diffusione su canali virtuali di «contenuti redazionali» per il marchio Moby. 

Nello stesso lasso temporale Onorato avrebbe richiesto a Grillo una serie di interventi in favore di Moby s.p.a. La Gdf ha ritenuto indispensabile acquisire la documentazione relativa ai predetti contratti ed alle prestazioni che ne costituiscono l'oggetto, nonché ogni altro documento utile a comprenderne la natura e sono state quindi disposte perquisizioni presso la sede legale della Beppee Grillo Srl e della Casaleggio Associati Srl, nonché nei confronti di ulteriori soggetti a vario titolo coinvolti nei fatti oggetto di approfondimento investigativo. Davide Casaleggio non è indagato. 

Questa mattina la Guardia di finanza si è recata anche a casa di Achille Onorato, amministratore delegato di Moby, anche lui non indagato.

Il blog di Beppe Grillo nel 2018 si era appena staccato da quello del Movimento 5 stelle. Per due anni il sito del comico si sarebbe impegnato a mandare uno spot al mese e l’inserimento di messaggi pubblicitari, contenuti redazionali e interviste da pubblicare anche su Facebook, Twitter e Instagram. Anche Gianroberto Casaleggio, il presidente della Associazione Rousseau, a cui era rimasta la gestione del Blog delle Stelle, avrebbe sottoscritto un contratto con Onorato. 

Nello specifico triennio 2018-2020 la Moby sigla con la Casaleggio Associati s.r.l. prevedeva il pagamento di 600.000 euro annui quale corrispettivo per la stesura di un piano strategico e per l'attuazione di strategie per sensibilizzare l'opinione pubblica e gli stakeholders alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarcano personale italiano e comunitario, stesso argomento su cui Onorato si era mosso con i renziani. 

Grillo «amareggiato» per i tempi dell’inchiesta del caso Moby, cinquanta parole chiave nelle chat. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 19 gennaio 2022.

Due pagine fitte di parole-chiave: sono una cinquantina le stringhe di ricerca — nei telefonini sequestrati martedì a 5 non indagati dirigenti della compagnia marittima Moby di Vincenzo Onorato e dipendenti del blog beppegrillo.it e della Casaleggio Associati — con le quali la Procura e la Gdf di Milano cercano chat che possano confermare l a mediazione illecita di nel 2018-2019 per spingere i suoi parlamentari a fare gli interessi legislativi dell’armatore, proprio mentre questo suo amico di lunga data lo stava finanziando con un contratto pubblicitario sul blog da 240.000 euro.

Diversamente dalla curiosità di politica e media, concentratisi sui messaggi in cui Grillo trasmette i desideri di Onorato a questo o a quel parlamentare o ministro (del resto notoriamente a difesa dei «disoccupati lavoratori marittimi» di Moby come ad esempio Di Maio nel comizio del 2018 a Torre del Greco), e poi gli inoltra le loro risposte spesso a loro insaputa, per sostenere l’accusa di traffico di influenze illecite gli inquirenti hanno bisogno di puntellare il primo lato della triangolazione: cioè il tenore dei messaggi tra Onorato e Grillo. Infatti, accertato il pagamento pubblicitario da Onorato a Grillo, il fatto che politici 5 Stelle non abbiano prodotto favori legislativi all’armatore è ricavabile dalla scelta della Procura di non contestare la corruzione, che richiederebbe appunto uno scambio tra soldi e contraccambio illecito. Neppure sono contestati abusi d’ufficio. E neanche si parla di finanziamento illecito al partito, perché ai pm evidentemente non pare sostenibile equiparare il blog di Grillo a una articolazione del M5S.

Cruciale, invece, è se nei messaggi tra Onorato e Grillo si possa o no ricavare la certezza che l’armatore, sotto il contratto da 120.000 euro l’anno per due anni di pubblicità al blog del fondatore del Movimento, ne stesse in realtà comprando l’influenza sul Movimento: indipendentemente dal fatto che poi parlamentari o ministri 5 Stelle l’abbiano subìta o meno, e persino indipendentemente dal fatto che Grillo l’abbia davvero spesa su essi nell’interesse di Onorato. Anzi, per assurdo, quand’anche Grillo l’avesse millantata e magari nemmeno si fosse attivato con i suoi, ricadrebbe lo stesso nel nuovo reato che sotto il governo Conte-Bonafede nel 2020 ha assorbito il vecchio millantato credito.

Conte esprime «vicinanza» a Grillo, dicendosi certo «che le verifiche dimostreranno la legittimità del suo operato». E Grillo, il 13 giugno a processo a Livorno per le lesioni personali e violenza privata denunciate da un giornalista di Rete4 nel 2020, continua a tacere, pur se esponenti 5 Stelle riportano all’ AdnKronos il suo essere «molto amareggiato per i tempi» dell’indagine ma «con la coscienza pulita». Per il gruppo di Onorato in crisi, invece, ben più urgente e importante è l’udienza oggi al Tribunale Fallimentare, dove si tornerà a verificare la percorribilità di un concordato preventivo di Moby e della controllata Cin (ex Tirrenia).

Moby, Grillo e i rapporti con Onorato. La linea: dobbiamo trattarlo bene. Emanuele Buzzi su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2022.

Beppe Grillo assediato, ma il Movimento fa muro intorno al garante. Continuano a emergere nuovi dettagli dell’inchiesta sul caso Mobyin cui il fondatore dei Cinque Stelle è indagato per traffico di influenze illecite. Messaggi inviati a politici del M5S del tipo «Lui dobbiamo trattarlo bene». È questo il tenore — riporta l’Adnkronos — delle parole sull’armatore Vincenzo Onorato che Grillo avrebbe indirizzato ai parlamentari più direttamente coinvolti nelle questioni legate alle concessioni sulle tratte e alla normativa sugli sgravi fiscali nel settore del trasporto marittimo.

Secondo l’accusa il garante avrebbe inoltrato i messaggi di Onorato agli esponenti M5S nei dicasteri interessati come l’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, l’ex ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e il suo vice Stefano Buffagni, tutti non indagati. I diretti interessati smentiscono coinvolgimenti. «Non ho ricevuto alcuna pressione da parte di Grillo», ha detto al Fatto quotidiano Patuanelli. «Non mi sono mai occupato di quel dossier, ma per quel che so faceva parte di un più ampio problema del settore della navigazione nel periodo lockdown», ha precisato Buffagni.

L’ipotesi degli inquirenti è che grazie a un contratto pubblicitario con il blog di Grillo Onorato stesse in realtà tentando di influenzare in suo favore le mosse del Movimento che anche all’epoca si trovava al governo. fare da scudo al garante. «Sulle indagini a carico di Grillo non ne so molto, ma da quello che leggo ho capito che si tratta di un concordato su cui la magistratura sta facendo chiarezza. È normale che vengano percorse tutte le strade, e siccome Beppe ha anche dei rapporti politici immagino che i magistrati stiano giustamente facendo tutte le verifiche del caso. Ma sono certo che Grillo abbia sempre agito nel rispetto della legge», ha commentato il vicepresidente del Movimento 5 Stelle Michele Gubitosa. Stessa linea anche per la sottosegretaria Barbara Floridia: «Su Beppe Grillo ho massima fiducia, e per una semplice ragione: lo conosco. Lui è stato per me anche ispiratore di grandi valori».

C’è chi tra i parlamentari lancia un appello alla compattezza: «Dobbiamo rimanere uniti, le indagini vanno rispettate, ma non ci sono sentenze ora. Beppe è e rimarrà sempre il custode dei nostri valori».

Grillo dice di avere la coscienza pulita ma è “amareggiato dai tempi dell’inchiesta”. Giampiero Casoni il 20/01/2022 su Notizie.it.

Indagato per traffico di influenze illecite Grillo dice di avere la coscienza pulita ma è “amareggiato dai tempi dell’inchiesta”: che ha una coda politica

Beppe Grillo avrebbe detto di avere la coscienza pulita ma di essere “amareggiato dai tempi dell’inchiesta”. Il che significa due cose: che Grillo ha accusato il colpo dell’inchiesta milanese per traffico di influenze sulla pubblicità Moby e che quello che più gli fa male non è l’inchiesta in sé ma la tempistica della stessa, che potrebbe mettere a repentaglio le legittime strategie politiche dei Cinquestelle in un momento in cui sono a repentaglio già di loro per motivi ovviamente extra giudiziari.

Presunto traffico di influenze: Beppe Grillo amareggiato dai tempi dell’inchiesta

Secondo quanto fatto trapelare da chi lo conosce ed in questo momento gli è vicino il fondatore del M5S tiene un profilo basso ma fa capire che la giustizia ad orologeria non gli piace. Parla poco e quel che si lascia scappare denota stanchezza ma soprattutto preoccupazione per le “code” politiche di quel che la Procura di Milano gli contesta in ipotesi di reato tutta da asseverare in un eventuale e lontano dibattimento.

L’Italia “manettara” dura a morire e Grillo che si dice amareggiato dai tempi dell’inchiesta

Il guaio è che l’inchiesta è ora e in Italia vige ancora la regola non scritta per cui un avviso di garanzia è una sorta di “anticamera” di colpevolezza, non uno strumento per verificarla eventualmente. E se di mezzo c’è qualcuno che bazzica la politica in Italia faccende del genere diventano guai prima ancora di prenderla, la patente di guai.

Secondo le fonti di AdnKronos Grillo ha detto di avere la “coscienza pulita” e si è detto “dispiaciuto e amareggiato per i tempi” dell’indagine.

Mentre Grillo è amareggiato dai tempi dell’inchiesta Toninelli è lapidario: “Mai aiutato nessuno da ministro”

E l’ex ministro Danilo Toninelli? Lapidario: “Non ho mai aiutato alcun concessionario nella mia azione di ministro. Con Moby e Tirrenia parlano i fatti per il sottoscritto: zero proroghe delle concessioni e gare pubbliche”.

E ancora: “Da Grillo non ho mai ricevuto pressioni o richieste di favori per aiutare questo, i Benetton, un altro concessionario, e neanche Onorato. Lo testimoniano i fatti”.

Estratto dell’articolo di Luca Serranò e Fabio Tonacci per repubblica.it il 19 gennaio 2022.

(…) L'ascesa imprenditoriale di Onorato è segnata dalle asperità con la concorrenza (…) ma anche da rapporti amichevoli e trasversali con pezzi della politica italiana, come dimostrano le donazioni a pioggia. 

È stata l'inchiesta milanese sulla bancarotta della Moby a farli emergere in tutta la loro disinvoltura: elargizioni alla Beppe Grillo srl, alla Casaleggio Associati, alla fondazione Change di Giovanni Toti, a Fratelli d'Italia, al Pd e alla Fondazione Open di Matteo Renzi, la macchina da eventi che organizzava la Leopolda al centro di un'indagine della procura di Firenze per finanziamento illecito ai partiti.

Tutti amici, quindi nessuno veramente amico. Nel 2015 l'armatore sale sul palco della Leopolda e promette ai nativi sardi una tariffa da 14 euro per i traghetti, nel 2018 parla ad Atreju, la festa di Fratelli d'Italia. Per dire.

Nell'inchiesta fiorentina Onorato è stato perquisito come "finanziatore non indagato" per 300 mila euro versati negli anni: somme che secondo la Guardia di Finanza non erano donate per autentici fini di liberalità, ma col fine di "consolidare e rafforzare i rapporti con esponenti politici del Pd collegati alla Fondazione (in particolare con i parlamentari Ernesto Carbone e Luca Lotti, quest'ultimo con incarichi di Governo), potenzialmente funzionali agli interessi del gruppo Moby".

Per anni sulla cresta dell'onda, Onorato è stato considerato modello di imprenditore visionario, progressista e di interessi poliedrici. Già scrittore di libri (uno, nel 2003, è un romanzo di fantascienza distopica), è autore della piece teatrale "Charity Party", messa in scena al Filodrammatici di Milano dalla compagnia fondata dal figlio Alessandro. 

È anche editore di Sardinia Post, un sito di informazione regionale: lo ha diretto Giovanni Maria Bellu fino al 2018, quando ha lasciato in polemica con la linea editoriale che, d'improvviso, si doveva fare neutrale.

C'erano le elezioni in Sardegna, ed era diventato sconveniente persino ricordare uno scoop di Sardinia Post: la laurea presa alla Leibniz University di Santa Fe da uno dei candidati in corsa, Christian Solinas, supportato dal partito di Salvini. Poi sono arrivati i debiti e con loro i magistrati. (…)

Moby, anche Patuanelli nelle chat con Onorato: “Rivolgiamoci a lui”. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 20 Gennaio 2022.  

Traffico di influenze, almeno dodici conversazioni al vaglio dei pm. E il leader 5S scriveva: "Tirrenia sta fallendo, possiamo intervenire?"

Era necessario, sempre più urgente, andare in soccorso di Vincenzo Onorato e della sua Moby, travolta dai debiti e dalla paralisi operativa dovuta al lockdown. Nelle conversazioni agli atti dell'inchiesta della procura di Milano, sono una dozzina le chat ritenute rilevanti, con le richieste di aiuto nei messaggi che partono dal patron della compagnia marittima, arrivano al suo vecchio amico Beppe Grillo, e da qui vengono inoltrate ai politici del movimento.

 Soldi da Moby, Grillo indagato: “Girò le richieste ai politici”. Nelle chat anche Toninelli. Sandro De Riccardis e Luca De Vito su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

L’accusa è di traffico di influenze illecite. Tra i destinatari del pressing anche il senatore, all’epoca ministro dei Trasporti. Perquisiti gli uffici del garante M5S e della Casaleggio. I legali dell’armatore: “Sono vecchi amici, qualcosa è stato equivocato”. Un'attività di lobbying partita dal fondatore di Moby Vincenzo Onorato e arrivata, tramite il fondatore dei 5 Stelle Beppe Grillo, a uomini politici del Movimento. Parlamentari, ma anche uomini di governo, come l'allora ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, titolare del dicastero competente per le norme sulla navigazione marittima. Un fronte giudiziario che colpisce i 5 Stelle e che coinvolge il patron della compagnia marittima e lo stesso fondatore del partito, indagati per traffico di influenze illecite.

Le relazioni pericolose della galassia 5 Stelle. Ecco il Sistema del blog. Giuliano Foschini,  Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

La società di Onorato finanziava la Casaleggio per attività di lobbying: il contratto fu rescisso a marzo 2020 dopo lo strappo tra la casa madre e il Movimento. 

C'è una data dalla quale è necessario partire per ricostruire il rapporto tra Vincenzo Onorato, il patron della Moby, Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Una data che segna la linea d'ombra della storia di un Movimento che sulla carta non accettava grandi finanziatori. Ma che in realtà quei finanziatori li dirottava nelle "srl" personali. Il sito di Beppe Grillo, dice oggi la procura di Milano. Ma - a leggere gli atti della Guardia di finanza - soprattutto la Casaleggio associati. Quella data è il primo marzo del 2020. Quel giorno viene risolto consensualmente, infatti, un contratto firmato nel 2018, "per un corrispettivo pari a 600mila euro della durata di due anni", tra la Moby e la Casaleggio associati. Un contratto che aveva lo scopo di "sensibilizzare le Istituzioni sul tema dei marittimi", e che Onorato aveva stipulato anche con, nemesi per i 5 Stelle, la fondazione Open di Matteo Renzi.

Ma perché a marzo del 2020 Onorato decide di non proseguire il rapporto di consulenza? Facendo una ricerca su fonti aperte, balza agli occhi una circostanza: da tempo sui giornali un bel pezzo di 5 Stelle fanno trapelare che il rapporto con la casa madre deve risolversi, ognuno per la sua strada. A causa delle consulenze ingombranti della società milanese ma pure delle divergenze politiche, con il "pianeta Rousseau" ostile al centrosinistra. Appare chiaro a tutti che l'influenza di Casaleggio sul Movimento, e quindi anche sul governo in carica, è terminata. E così forse per caso o forse no si interrompe anche il finanziamento. Questi atti sono, ora, all'attenzione della Finanza e dalla procura di Milano. Che, però, ha deciso di non iscrivere nel registro degli indagati il giovane Casaleggio. Il perché in realtà è una condanna politica: gli investigatori ritengono, almeno per il momento, che le ragioni del contratto siano corrette. Che quei fondi incassati da Casaleggio, come da dicitura, fossero effettivamente per attività di lobbying. E che la società era stata dunque pagata per il lavoro che, effettivamente, aveva realizzato: lobby nei confronti del partito anti-lobby per eccellenza. 

Diversa è invece la situazione di Grillo. Gli investigatori annotano "un trasferimento" da parte della Moby "in favore di Beppe Grillo srl in relazione a un accordo avente finalità" commerciali, "di euro 120mila della durata di due anni". I soldi sono per pubblicità. E, effettivamente, sul sito di Grillo appaiono alcuni banner pubblicitari. Il punto è che si tratta di una cosa straordinaria: secondo gli atti analizzati fin qui dalle Fiamme gialle, infatti, Moby è l'unico inserzionista del sito di Grillo in quel momento. Che, per il resto, intasca invece pubblicità dai motori di ricerca. Perché allora quel contratto con Onorato? Di più: negli stessi giorni in cui c'è traccia dei bonifici, c'è il giro di messaggi da Onorato a Grillo. E da Grillo ad alcuni suoi deputati. E ministri. Il tutto mentre il banner "Moby" che rimanda al sito per comprare online i biglietti lampeggia sul sito. Un pasticcio, sospetta la Finanza. Che tra l'altro ha acquisito tutti i bilanci della società.

Quello della Casaleggio ha alcuni aspetti interessanti. Innanzitutto nei numeri: nel momento in cui, siamo nel 2020, tutte le società che si occupano di digitale, e in particolare di e-commerce, hanno avuto un boom (la pandemia, l'esplosione del commercio da casa eccetera), la Casaleggio associati perde il 25 per cento del fatturato (chiuso a 1,7 milioni), chiudendo per la prima volta con una perdita di circa 300mila euro. Questo dopo che nei due anni precedenti aveva fatto registrare un raddoppio del fatturato, passando da 1,17 del 2017 ai 2,24 del 2019. A pesare è stato sicuramente l'abbandono del contratto con Moby, che rappresentava quasi un terzo dell'intero giro di affari. A conferma che l'accordo con Onorato non era uno qualsiasi.

D'altronde la società di navigazione non era stata la sola a credere alla Casaleggio in quello stesso periodo. È un fatto che nel 2017, col vento in poppa per il M5S, i bilanci della società di consulenza avevano ripreso fiato. Dopo tre anni di rosso, avevano cominciato a chiudere con il segno più. Erano entrati clienti importanti: Poste e Microsoft, ma anche Sap, Mashfrog, Mail Boxes etc. e Webperformance. Tra il 2017 e il 2020, "in diverse fatture", la Philip Morris bonifica alla Casaleggio associati 1.950.166 euro per la sua attività di azienda, perché - spiegò la multinazionale - "Philip Morris non finanzia partiti, fondazioni o movimenti politici in Italia". 

Casaleggio non ha mai voluto rendere noti i nomi di tutti i suoi clienti durante i governi 5 Stelle. Questione di privacy dei clienti, disse. Ma agli atti c'è un'interrogazione del Pd che chiede conto di un finanziamento (con cifre molto diverse, inferiore ai 10mila euro) di Deliveroo, società di food delivery. Per questo l'allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, fu accusato dai collettivi di rider di aver ammorbidito la propria linea in difesa dei ciclofattorini. Altra epoca comunque. Oggi, si racconta nei corridoi parlamentari, Casaleggio associati rischia grosso. Ragioni di scarsa influenza.

Grillo indagato nell'inchiesta Moby, Canestrari: "Anche Casaleggio era in conflitto di interessi".  Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

L'autore del libro Il sistema Casaleggio: "L'iscrizione del fondatore del Movimento 5 Stelle nel registro degli indagati era ampiamente prevedibile. Di questa tegola potrà approfittare Di Maio". Del caso Moby, degli accordi commerciali con il blog di Beppe Grillo e con la Casaleggio associati, Marco Canestrari — che ha lavorato in Casaleggio associati fino al 2010 e conosce quindi da dentro le origini e i meccanismi del primo Movimento — ne aveva scritto assieme a Nicola Biondo nel libro Il sistema Casaleggio - Partito, soldi, relazioni: ecco il piano per manomettere la democrazia (Ponte alle grazie), uscito nel 2019.

Grillo e l'inchiesta Moby, la “diversità” dei 5S ha retto pochi anni. È la disfatta meritata della presunzione. Michele Serra su La Repubblica il 18 Gennaio 2022. È grave che proprio sulla intemerata battaglia alla corruzione il fondatore aveva fatto leva per avviare la sua clamorosa parabola politica.  

Per una (modesta) vicenda di fondi pubblicitari non chiari destinati al suo blog, Beppe Grillo è sotto inchiesta. Il nome stesso del reato, "traffico di influenze illecite", lascia intendere la zona d'ombra sulla quale la Procura di Milano indaga. Si tratta di quel vischioso viluppo di rapporti tra economia, politica e media che oscilla tra il lobbismo, il vassallaggio, la compravendita di favori e simpatie.

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Grillo indagato nell'inchiesta Moby, l’imbarazzo dei 5S per l’accusa a Beppe: “È il reato punito da una nostra legge”. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

Fosse il titolo di un film, sarebbe La nemesi. "Un filone dell’inchiesta Open che riguarda Matteo Renzi, il reato di traffico di influenze illecite che abbiamo contribuito a rafforzare noi... E alla fine ci finisce in mezzo Beppe Grillo, quindi il M5S stesso", racconta un po’ amareggiato un influente esponente del Movimento. Nel bel mezzo delle trattative quirinalizie, il giorno dopo la pubblicazione di un sondaggio che certifica il minimo da svariati anni a questa parte del partito (13,7 per cento), ecco l’iscrizione nel registro degli indagati del fondatore e garante dei 5 Stelle.

Grillo, non solo Moby: dal figlio Ciro all'aggressione a un giornalista, tutte le grane giudiziarie del fondatore del M5S. Conchita Sannino su La Repubblica il 18 Gennaio 2022.

L'indagine di Milano per traffico di influenze non è l'unica che coinvolge il garante del Movimento. A preoccuparlo anche la vicenda che riguarda il figlio ventenne accusato di violenza sessuale. "Non è di un Beppe più debole che avevamo bisogno adesso”.  E invece, proprio come ragiona qualche big del Movimento vicinissimo al Garante, il 2021 giá funestato dal rinvio a giudizio per stupro di gruppo a carico del figlio di Beppe Grillo, Ciro - e soprattutto da quel video di un padre sotto choc - si era chiuso a fine dicembre per l’ex comico e leader politico con un’imputazione coatta davanti al Tribunale di Livorno (per la violenza ai danni di un cronista).

Estratto dell'articolo di Conchita Sannino per repubblica.it il 18 gennaio 2022.

"Non è di un Beppe più debole che avevamo bisogno adesso”.  E invece, proprio come ragiona qualche big del Movimento vicinissimo al Garante, il 2021 giá funestato dal rinvio a giudizio per stupro di gruppo a carico del figlio di Beppe Grillo, Ciro - e soprattutto da quel video di un padre sotto choc - si era chiuso a fine dicembre per l’ex comico e leader politico con un’imputazione coatta davanti al Tribunale di Livorno (per la violenza ai danni di un cronista).

E il nuovo anno si apre con una nuova, più grave grana giudiziaria: l’ipotesi di traffico di influenze illecite formulata dalla Procura di Milano per i finanziamenti erogati dalla societá Moby di Vincenzo Onorato, a favore del blog Beppegrillo.it nel 2018 e 2019, 240 mila euro. A cui vanno aggiunti altri 600mila euro forniti invece alla Casaleggio Associati. (...)

Comincia nove mesi fa il periodo di silenzio e di auto isolamento di Grillo, spezzato di recente solo da affilate, provocatorie risposte alla linea di Conte. Ed è la vicenda del figlio Ciro a infiammare il clima, tra polemiche parlamentari e odio social tra quelle che diventeranno opposte “tifoserie” . Un bubbone che diventa politico quando, il 19 aprile 2021, è lo stesso Grillo a postare un clamoroso sfogo social in cui, a indagini preliminari in pieno corso, si spende per la difesa del figlio, accusato di violenza sessuale, su una coetanea, episodio avvenuto in Sardegna nel luglio 2019.

(...) Il 16 novembre scorso, ecco il rinvio a giudizio per Grillo jr e per i suoi amici coetanei: Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, tutti accusati di violenza sessuale, disposto dalla giudice dell’udienza preliminare Caterina Interlandi del Tribunale di Tempio Pausania. Prima udienza, 16 marzo prossimo.  

Ma il 2021 ha in serbo per il garante anche un’altra brutta sorpresa. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Livorno, Mario Profeta, il 13 dicembre scorso, respinge la richiesta di archiviazione del pubblico ministero Sabrina Carmazzi per il Garante accusato di aver usato violenza privata contro un cronista che lo aveva raggiunto al mare per intervistarlo.

I fatti si riferiscono all’episodio avvenuto nel settembre 2020, a Marina di Bibbona: il giornalista Francesco Selvi, secondo la ricostruzione, prova ad avvicinarlo più volte e Grillo, infastidito, gli  strappa  di mano il cellulare al giornalista e lo spinge giù, dai gradini di una bassa terrazza dello stabilimento balneare. Il cronista viene assistito in ospedale per un trauma distorsivo al ginocchio sinistro. Una sequenza nera. Fino ad oggi. L’alba del ‘22 ricomincia con nuove notifiche e la Guardia di Finanza che apre cassetti e Pc della società legata al blog. Nel mirino, i rapporti tra l’imprenditore dalla gestione disordinata e i suoi riferimenti politici nei Cinque Stelle. 

Beppe Grillo indagato, ecco le carte sul conflitto d’interesse: «Soldi in cambio di interventi sui parlamentari». Nel decreto che ha portato i Finanzieri a controllare sedi e computer del sito beppegrillo.it e della Moby i magistrati non solo contestano il reato di traffico di influenze ma anche i rapporti con i deputati grillini e la campagna di comunicazione gestita dalla Casaleggio associati sul tema degli sgravi fiscali. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 18 Gennaio 2022.

Un conflitto di interesse, che al di là dei reati, sembra emerge lampante da quanto scrivono i magistrati Maurizio Romanelli e Cristiana Roveda nel decreto di perquisizione che ha portato il nucleo Pef di Milano ella Guardia di finanza oggi a casa di Beppe Grillo e Vincenzo Onorato: il primo fondatore del Movimento 5 stelle, il secondo armatore della Moby. Quest’ultimo, secondo i magistrati di Milano, avrebbe pagato contratti di marketing e comunicazione a Grillo in cambio di orientare alcune norme parlamentari. Soldi arrivati anche alla Casaleggio associati (che non ha alcun rappresentante indagato al momento) per campagne pubblicitarie per sensibilizzare l’opinione pubblica ai benefici fiscali caldeggiati dall’armatore.

Un tema delicato, quello dei finanziamenti alla politica, che l’Espresso ha trattato in una ampia inchiesta su chi ha finanziato deputati e partiti negli ultimi dodici mesi. Ma da questa storia di Grillo emergerebbe qualcosa di diverso, che va oltre il finanziamento trasparente e all’interno delle norme in materia. Grillo non è un parlamentare, non è formalmente alla guida del partito, ma ne è il fondatore e nello statuto ne risulta "garante e custode dei principi e dei valori dell'azione politica". 

Scrivono i magistrati nel decreto di perquisizione: «La società Belle Grillo srl ha percepito da Moby Spa 120 mila euro anno negli anni 2018 e 2019 apparentemente come corrispettivo di un “accordo di partnership” avente oggetto la diffusione su canali virtuali, quali il sito beppegrillo.it, di contenuti redazionali per il marchio Moby; nello stesso arco temporale Giuseppe Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di intervento a favore di Moby Spa che poi Grillo ha veicolato a parlamentari in carica, trasferendo quindi al privato le risposte della parte politica dei contatti diretti con quest’ultima; nel triennio 2018-2020 la Moby ha anche sottoscritto un contratto con la Casaleggio associati srl, il cui socio di maggioranza è Davide Casaleggio: il contratto prevedeva il pagamento a tale società della somma di 600 mila euro annui quale corrispettivo per la stesura di un piano strategico e per l’attuazione di strategie per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarcano personale italiano e comunitario (campagna pubblicitaria denominata “io navigo italiano”)». 

I magistrati contestano quindi il reato di traffico di influenze «in considerazione dell’entità degli importi versati o promessi da Onorato, della genericità delle cause dei contratti, delle relazioni effettivamente esistenti ed utilizzate da Grillo su espresse richieste di Onorato con pubblici ufficiali, elementi tutti che fanno ritenere illecita la mediazione operata da Giuseppe Grillpo in quanto finalizzata a orientare l’azione pubblica in senso favorevoli agli interessi del gruppo Moby».

Come scrive l’Ansa l'indagine era partita, tra l'altro, da una relazione tecnica, allegata al concordato preventivo e firmata da Stefani Chiaruttini, nella quale si parlava di 200 mila euro versati alla Beppe Grillo srl per un contratto che va dal marzo 2018 al marzo 2020 “volto ad acquisire visibilità pubblicitarie per il proprio brand sul blog" del comico-politico, di 600 mila per due anni per la Casaleggio Associati per "sensibilizzare le istituzioni sul tema dei marittimo" e per "raggiungere una community di riferimento di 1 mln di persone". Inoltre, di 200 mila euro alla Fondazione Open "sostenitrice" di Matteo Renzi, di 100 mila euro al Comitato Change legato al presidente della Liguria Giovanni Toti, di 90 mila al Partito Democratico, per chiudere con 10 mila euro a Fratelli d'Italia. E ancora 550mila euro destinati a Roberto Mercuri (non indagato), ex braccio destro dell'ex vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona a cui si aggiungono, oltre ai 50 mila euro all'associazione senza fini di lucro "Fino a prova contraria", l'acquisto e la ristrutturazione per 4.5 milioni di una villa in Costa Smeralda per "rappresentanza" aziendale, appartamenti di lusso a Milano "in uso a rappresentanti del Cda", noleggio di jet privato e auto come Aston Martin e Rolls Royce, Mercedes o Maserati Levante. 

Ecco perché Beppe Grillo rompe il silenzio sul figlio Ciro. La procura di Tempio Pausania verso il rinvio a giudizio del ventenne (e tre amici) per «stupro di gruppo», il leader grillino lo difende: «Perché non l’avete arrestato subito?». Non ha detto una parola per 21 mesi, neanche quando L’Espresso dedicò al caso una copertina. Susanna Turco su L'Espresso il 19 aprile 2021.

Per la prima volta dopo ventuno mesi, con un video su Facebook, Beppe Grillo parla del caso che vede suo figlio Ciro, oggi ventenne, accusato con tre amici (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria) di aver stuprato una studentessa, nel luglio 2019, nella casa di famiglia a Porto Cervo.  «Perché non li avete arrestati subito?», incalza Grillo che prende le difese del figlio (argomentando presunti rapporti consensuali, la linea della difesa) e utilizza per paradosso proprio l’argomento della tempistica delle indagini (lunghissime), come paletto per puntellarne l’innocenza: «La legge dice che gli stupratori vengono presi e messi in galera, interrogati in galera o ai domiciliari. Sono lasciati liberi per due anni... Perché non li avete arrestati subito?». Una ricostruzione con passaggi che provocano l'indignazione generale, nella quale si cerca addirittura di mettere in discussione la tempistica della denuncia da parte della studentessa (otto giorni), come se l’autenticità dipendesse dalla rapidità. Si cerca di «trascinare la vittima sul banco degli imputati», chiariscono puntualmente gli stessi genitori della ragazza, che descrivono quella di Grillo come «una farsa ripugnante».

Adesso che, secondo le indiscrezioni, si va verso il rinvio a giudizio da parte della procura di Tempio Pausania, il garante dei Cinque stelle rompe così un silenzio assoluto (anche di media e politica) durato quasi due anni: non disse una parola neanche quando L'Espresso, unico nella stampa italiana, dedicò al caso una copertina. 

Un silenzio che è pesato come un macigno sulla carriera di leader politico di Grillo, e che ha accompagnato tutte le sue svolte, il cambio di pelle di quello che fu il leader del Vaffa: la fine del governo con Matteo Salvini, l'apertura improvvisa a un accordo con il Pd per un nuovo esecutivo – agosto 2019, proprio nei giorni in cui la procura cominciava le indagini. Fino all'urlo di oggi, che vede il Garante tra i soci di maggioranza del governo guidato da Mario Draghi. Mentre la sua creatura politica, il Movimento 5 Stelle, arranca come mai era accaduto nella sua ormai decennale storia.

È ora di prendere sul serio la rivoluzione di Beppe Grillo. Giuseppe Genna su L'Espresso il 16 marzo 2021.

Proporsi come segretario del Pd è stato solo un passaggio del suo progetto. Essere alternativa di sinistra senza essere di sinistra. Una rivoluzione ecologica tecnologica. E disumana

Non è più tempo per le rivoluzioni?

Lo chiediamo nel tempo più rivoluzionario e rivoluzionato che abbiamo vissuto. Una pandemia mondiale, il rischio biologico di specie, l’economia che funziona su leggi altre, la politica che si autodichiara insufficiente: non è forse una rivoluzione? Una rivoluzione è pur sempre una crisi morbosa, che non porta automaticamente a una soluzione. Rivoluzione significa anche che non si rimedia al caos così radicale del nostro tempo senza una contromarcia. È labile il confine tra rivoluzione ed eversione. In entrambi i casi, la nostra attenzione al fenomeno rivoluzionario deve essere tenace e credere a ciò che le si manifesta. Dunque il 6 marzo 2021 una piccola rivoluzione è stata annunciata e bisognerà crederle: è il momento in cui si dà un’ulteriore e forse definitiva apparizione dell’“elevato” Beppe Grillo, il quale con un video scompagina il campo delle identità acquisite e propone di creare un ordine nuovo nel caos del presente. Le reazioni alla proposta di diventare il nuovo segretario del Partito Democratico testimoniano un equivoco che al quadro politico è già costato una rivoluzione a metà: si tratterebbe sempre di uno scatto da guitto, dell’istinto artistico di chi fa poesia sopra la macchina burocratica che governa pesantemente il reale.

Questa sottovalutazione delle parole emesse da Beppe Grillo è risultata fatale in passato, quando il supposto comico si è preso un terzo del Paese, costituendo la premessa più solida per il governo della legislatura. Nella quale si è misurato l’avvento di una variante aliena e cruciale, cioè il governo presieduto da Mario Draghi. Il peso enorme, il credito sconfinato di cui gode l’anomalia Draghi, è risultato capace di mettere tra parentesi la politica, esponendola in vetrina, con le sue farraginose contraddizioni, con l’assenza di palpito, con la lugubre assenza di invenzione. C’è un prima e un dopo Draghi per l’agone politico italiano e il dopo lo si misura da subito, dalla sua semplice apparizione.

Nonostante i tentativi di Salvini di accreditarsi dell’azione di governo, l’unico protagonista in grado di segnare politicamente la gestione Draghi è stato Beppe Grillo, che ha imposto il ministero e l’idea della Transizione Ecologica, ora in mano a uno degli uomini davvero migliori della nazione, il fisico Roberto Cingolani. Poteva sembrare un esotismo, un compromesso al ribasso per tenere il M5S in un solco di fedeltà parlamentare. È diventato il perno di una nuova identità, su cui erigere una fase estrema di questa formazione politica caotica, che ebbe il merito di azzeccare il momento social nella storia del Paese. Di fatto, più che verso un’utopia verde, che non esiste più dal momento in cui il capitale ha scelto la transizione ecologica come modalità per ristrutturare la realtà, Grillo sposta il suo Movimento sulle frequenze di un nuovo socialismo e, quindi, nell’angolo che fu del Partito Socialista. Il M5S si candida a essere la vera alternativa a sinistra - senza essere più di sinistra, ma nemmeno di destra. Questa strategia permette al politico genovese il rovesciamento, con cui candida se stesso a fare il segretario dem. Se non si comprende il versante letterario di ciò che da anni Grillo va dicendo, non si capirà fino in fondo la portata delle sue proposte. Essenzialmente due, al momento. La prima: un patto sul futuro, suggerito a tutte le forze politiche, con l’invito a piazzare la data 2050 nel simbolo di ogni formazione. La seconda: in ragione del patto sul 2050, smetterla con la competizione, che è una strumentazione inadatta al modello evolutivo.

Si tratta di due punti programmatici al contempo rivoluzionari ed eversivi, appunto. La concordanza comune sul percorso evolutivo del mondo e delle società da qui a trent’anni (cioè la transizione ecologica) va di fatto a disabilitare il patto costituzionale. Non è più semplicemente la Costituzione, la carta fondamentale, a stipulare un accordo sui valori democratici da parte dei singoli partiti, unificati dal credo civile; è invece un momento temporale, lo sviluppo sostenibile da qui al 2050, a essere il centro esplicito di un accordo politico comune. È una sterzata decisiva, di cui si misureranno gli esiti, che lo si voglia o meno. Nel caos, che per Grillo è creativo, le soluzioni sono quelle che va ripetendo dai Novanta. Si tratta di soluzioni tecnologiche. Il suo umanesimo è tutto tecnologico. Il lavoro del genio collettivo è continuamente una scoperta di nuovi strumenti. Per Grillo l’intelligenza collettiva è dedicata a preservare il pianeta, e l’umanità come elemento del pianeta, proprio nella fase in cui la specie dal pianeta esce e approda su Marte, ben prima che scada il timing del 2050. Non si tratta di visionarietà - qui siamo alla cronaca, non alla profezia. Grillo sembra l’unico soggetto in Italia, ma anche in certo modo fuori dell’Italia, a comprendere che la politica è qualcosa di fisicamente planetario e cosmico, al giorno d’oggi. 

C’è poi l’abbattimento del discrimine con cui si gioca la competizione politica. È anche in questo caso una rivoluzione eversiva. A venire travolta è una questione che ha radici millenarie nella scienza politica. Senza competizione, non c’è più dialettica. Grillo non si spinge a proporre un modello umano, troppo umano, in sostituzione del momento competitivo: sarebbe il cooperativismo, a cui non si fa cenno mai. Il fondatore 5S ha puntato tutto sull’emersione di competenze dalla rete. E ha sbagliato, perché dal network digitale è emerso anche e soprattutto ciò che dell’umano è viscerale, orrendamente emotivo, inconscio. Non la cooperazione ha sostituito la competizione, bensì l’isolamento progressivo, il termitaio globale, l’incattivimento degli hater, i bot tesi al condizionamento mentale delle masse. 

Qualcosa di metallico risuona nella visione del mondo che Beppe Grillo propala, eredità anche di Gianroberto Casaleggio. L’intelligenza delle cose, compresa l’emersione dell’intelligenza artificiale, si sostituisce all’intelligenza sociale. La tecnologia della sostenibilità pretende di occupare il luogo dell’invenzione umana, la quale ne diventa un’appendice, necessitata a scovare gli strumenti migliori per un pianeta sano e ripulito, rischiarato dal sole di una ragione endemica, che sta nelle cose stesse. La progettazione sociale in luogo della società è un antico sogno, filosoficamente coerente, che procede inesausto dai primordi della civiltà. Emendare la realtà dallo sporco riduce l’umanità sul piano spirituale, arricchendola su quello materiale. Prendere partito per l’intelligenza delle cose significa non riconoscerne la mistica, cioè il loro intimo mistero, il che è tutto l’atto spirituale. L’enciclica di Francesco “Laudato si’”, a cui si richiamano oggi molti ecologisti, è da questo punto di vista l’autentico avversario della prospettiva grillina e ambientalista. Quell’enciclica infatti fa perno sull’idea di spirito, cioè di ambiguità e irresolutezza che domina il fenomeno umano. Quale tipo umano è sotteso alla visione di Beppe Grillo? È felice? È pietoso? È ambiguo? È mortale? Qui si palesa il tratto più equivoco della rivoluzione grillina, probabilmente la più radicale e politica nel tempo che stiamo vivendo. Chi non la prende sul serio vive in un altro secolo, ormai scaduto. 

M5S, il partito del rancore intermittente. Donatella Di Cesare su L'Espresso il 19 luglio 2021.  

Conte e Grillo sono legati dall’ideologia del risentimento. Ma il dissenso fugace lascia il posto al conteggio dei benefici immediati e il risentito finisce per rendere omaggio a quel sistema che avrebbe voluto esorcizzare.

Il grillo e il conte – sono le due facce di un magma che, tra farsa e tragedia, sconquassa da anni lo scenario italiano, passando dall’antipolitica più sguaiata alle inveterate furbizie di palazzo. Senza mai assurgere alla politica nel senso eminente di questa parola. Qualcuno pensa che per questo Giano bifronte possano valere le tradizionali categorie di “movimento” e “istituzione”, come se si trattasse ancora di interpretare fenomeni novecenteschi. Nulla di più lontano da quel che accade nei 5 Stelle.

Già la parola “movimento” è usurpata e degradata. Hanno preteso di chiamarsi così per apparire gli eredi dei movimenti di sinistra, di cui invece non sono che una caricatura grottesca. Non basta trovarsi in piazza per essere movimento. I 5 Stelle non si sono situati ai bordi della politica per criticarne la vecchia trama concettuale – dalla sovranità alla cittadinanza, dalla nazione alle frontiere – né, men che meno, per proporre una nuova visione. Piuttosto si sono situati ai confini dei partiti, in un’ambigua sintesi che è anche contiguità. Hanno lasciato intendere che la politica sia circoscritta ai partiti, tutti corrotti, tutti inseriti nel sistema, tutti esponenti della casta. Così i 5 Stelle si sono presentati come il cambiamento da tempo atteso e hanno spinto a ritenere che, al di là dei programmi, dei contenuti, delle posizioni, o di destra o di sinistra a seconda, fossero determinanti le regole, i metodi, gli ordinamenti. Ecco perché oggi questo antipartitismo, chiuso nelle manovre tradizionali e asserragliato nelle proprie farraginose strutture, vere e proprie escrescenze burocratiche, si rivela un tentativo estremo e parossistico di conservare e ristabilire l’ordine della politica.

Di qui Conte, il grigio avvocato che “in piazza” non c’è neppure mai stato, il virtuoso del sia-sia, il maestro del rinvio, il doroteo dei mezzi toni, in cui alcuni esponenti del centrosinistra hanno creduto di riconoscere il nuovo messia. Dove abbondano cavilli e garbugli un avvocato, si sa, è indispensabile. Ma è necessario soprattutto dove si intentano cause a difesa di vittime più o meno supposte. Ecco che cosa lega l’ex comico e l’avvocato: l’ideologia del risentimento. Non la rabbia di un movimento che scuote la politica, ma il rancore giustizialista che prende di mira qualche funzionario del potere. Il dissenso fugace lascia il posto al conteggio dei benefici immediati e il risentito finisce per rendere omaggio a quel sistema che avrebbe voluto esorcizzare. Si passa in un attimo dall’animosità intransigente all’acquiescenza dimentica e opportunistica. 

Perciò il Popolo dei Rancorosi è destinato a erodersi e scindersi continuamente a causa delle ripetute defezioni, dei calcoli interessati. Funziona così l’economia del risentimento sovrano di cui Grillo e Conte sono i due volti più emblematici. Che le risse restino interne o che vengano fuori gruppi, formazioni, partiti amebici, in ogni caso il Popolo dei Rancorosi dissesterà ulteriormente il già frammentato scenario.

Arrenditi Beppe. Mattia Feltri su La Stampa il 19 Gennaio 2022.  

Sono qui da mezzora che cerco di spiegare che cosa sia il traffico di influenze illecite e non ci riesco. Occupo tutto lo spazio e non spiego niente, anche perché non sono nemmeno sicuro di averlo capito che cosa sia: una specie di scambio di favori dove il pm deve scovare del losco. Mi affido a una sintesi brusca ma efficace di Tullio Padovani, professore di diritto penale alla Sant’Anna di Pisa: «Un reato ridicolo, marginale, un pranzo di nozze coi fichi secchi». Bene, accontentatevi. Soprattutto è pressoché indimostrabile. Secondo gli ultimi dati del ministero, dal 2013 al 2016 è stato condannato il 33 per cento dei mandati a processo. E siccome i mandati a processo erano tre, il 33 per cento di tre è uno. Ammappala. Ora, auguro vivamente a Beppe Grillo, indagato ieri per traffico di influenze (tutti i dettagli in cronaca), di non essere il condannato del prossimo triennio. Anche perché prima la pena minima era di un anno, e la massima di tre. Poi ci si è messo di mezzo l’indimenticabile Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia degli Onesti per il quale tanta gratitudine dobbiamo a Grillo, e strozzato di furore contro i banditi della casta decise di innalzare la pena massima a quattro anni e mezzo. Fosse l’unica zappata che Grillo si è dato sugli stinchi. Mi ricordo quando – contrariamente al suo predecessore Andrea Orlando – Bonafede decise di autorizzare il processo a Grillo per vilipendio al capo dello Stato, nella circostanza Giorgio Napolitano. Col petto gonfio d’orgoglio, ma pure di imbarazzo, Bonafede spiegò che loro non guardano in faccia a nessuno. Arrenditi Beppe, ti sei circondato da solo.

Grillo, dai trasporti alla Philip Morris la catena di consulenze sospette. Jacopo Iacoboni su La Stampa il 19 Gennaio 2022.

«Qui o si risolve il conflitto di interessi o continueremo a prenderlo in quel posto», scriveva Beppe Grillo sul suo blog il 24 gennaio 2007. «Il conflitto d’interesse è un mestiere», era titolato quel post in cui Grillo attaccava, nell’ordine: lo psiconano (ossia Berlusconi), Confalonieri, Fassino, Frattini, Dario Franceschini, reo di aver escogitato una proposta di soluzione del conflitto d’interessi berlusconiano che, a detta di Grillo, era peggiore di quella di Frattini e cioè era complice del Cavaliere. «Tutto il Sistema – scriveva Grillo - è in conflitto di interessi: banche, pubbliche amministrazioni, università, informazione, mercato dei farmaci, calcio, Autorità di garanzia, cooperative, partiti». E ora, la Nemesi: i conflitti d'interessi di Grillo, breve rassegna (politica, non penale). I due casi Moby e Philip Morris (la procura arriva alla vicenda Grillo-Onorato attraverso l’indagine sui rapporti commerciali della Casaleggio associati con alcune multinazionali come Philip Morris e Moby, appunto) sono la punta emersa dell’iceberg: un «accordo di partnership» con il sito beppegrillo.it (per il 2018 e 2019, 120 mila euro all’anno) e una consulenza per la Casaleggio Associati (Davide Casaleggio non è indagato) erano alla base di una serie di pagamenti effettuati dalla Moby spa di Vincenzo Onorato, ritenuti sospetti dall’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia già nel 2019, quando La Stampa li scoprì, e trasmessi alla Guardia di Finanza. Il contratto con la Casaleggio era di 600 mila euro in tutto per tre anni a partire dal 2018, e poi prevedeva anche premi di risultato di 250 mila euro se fossero stati raggiunti alcuni obiettivi per il primo anno e altri 150 mila per il secondo. Il documento dell’Uif ipotizzava che quei contratti fossero, testuale, «il tentativo di sensibilizzare una forza politica di governo a sostenere la campagna per modificare le norme sull’imbarco dei marittimi sulle navi italiane». Se sia così, diranno i giudici. Per gli inquirenti, l’accordo era «volto ad acquisire visibilità, con finalità pubblicitarie, per il proprio brand sul blog Beppegrillo.it, nonché attraverso canali redazionali social della Beppe Grillo srl, avvalendosi del loro supporto redazionale». E qui i possibili conflitti d’interessi di Grillo incrociano la Casaleggio associati, perché tutti i canali online di Grillo erano notoriamente gestiti lì. La Stampa pubblicò la lista delle fatture pagate dalla Philip Morris in consulenze alla Casaleggio, poco meno di due milioni e quattrocentomila euro lordi (Davide Casaleggio rispose che non esisteva nessun conflitto d’interessi perché «io non firmo decreti, né voto leggi, e non ho mai fatto ingerenze»). L’azienda Deliveroo, scrisse Il Fatto, sponsorizzava eventi della Casaleggio (mentre il M5S si mostrava impegnato per i rider senza arrivare a nulla, e i rider andarono a protestare proprio sotto la sede milanese della srl). Come anche Flixbus, i bus a basso costo; Fonarcom, il fondo per la formazione dei lavoratori. Davide Casaleggio scrisse al Fatto quotidiano ricordando, non senza una punta di veleno: «Anche Il Fatto quotidiano si rivolse alla Casaleggio associati per avviare la sua presenza online». Linkiesta elencò una serie di soggetti che avevano avuto rapporti commerciali con la srl che curava all’epoca il blog di Grillo, e il cui presidente gestiva anche la piattaforma online del M5S: dal Gruppo GeMS a Banca Intesa, Moleskine, Expedia, per citarne solo alcuni. Le partnership sono state tantissime, da Microsoft in giù. Huawei, a una domanda de La Stampa, negò di aver avuto rapporti con il blog di Grillo o con Casaleggio srl. La Stampa pubblicò consulenze della Casaleggio per colossi farmaceutici come Gilead. Tutto legittimo, ma in questi rapporti influiva anche in qualche modo la prospettiva di indirizzare gli atti legislativi del M5S? Nel 2020, la Grillo srl è andata in rosso. I «ricavi delle vendite e delle prestazioni» sono scesi da 240.538 euro (del 2019) a 57.939 euro. Un’epoca, forse, si sta chiudendo.

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 20 gennaio 2022.

Il 3 maggio 2018, mentre lui e la Casaleggio srl avevano in corso contratti commerciali con Vincenzo Onorato, Beppe Grillo scriveva sul suo blog: «Vincenzo Onorato, armatore partenopeo, si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi. 

La sua campagna di comunicazione a favore dei marittimi italiani ha generato, nei poco informati, un turbinio di polemiche e illazioni senza senso. Condivido a pieno la battaglia di Onorato e faccio mie le sue parole». 

E tre mesi prima s' era anche portato a Torre del Greco il candidato premier del M5S, a perorare la causa. A guardarla oggi, quella del comico era una battaglia per i marittimi o per Onorato?

Al di là di come andrà adesso l'inchiesta giudiziaria - con un reato (il traffico d'influenze) tra i più impalpabili, criticati e difficili da provare - le ventuno chat, gli sms, e le carte su Beppe Grillo raccontano qualcosa di politico: un mondo di conflitti d'interesse che ruotavano attorno al fondatore del Movimento, e alla srl che ne gestiva in tutti quegli anni i processi online, la Casaleggio associati (il cui presidente Davide, che era anche presidente della piattaforma web del M5S, non è indagato).

La stessa indagine milanese su Grillo parte da un'inchiesta sui contratti commerciali della Casaleggio con Philip Morris, pubblicati da La Stampa nel 2019. Il conflitto d'interessi del comico che tuonava contro «lo Psiconano», «qui o si risolve il conflitto di interessi o continueremo a prenderlo in quel posto», sembra esser stato un metodo. Il contrappasso di Grillo.

Innanzitutto perché il blog di Grillo era di Grillo, sì, ma era anche del Movimento, e era gestito da una azienda, che faceva legittimamente affari. E un po' perché non è mai stato chiarissimo quali delle sponsorizzazioni fossero contratti commerciali dell'azienda, e se e cosa andasse eventualmente a Grillo, direttamente o indirettamente. 

Fatto è che i soggetti economici in relazione commerciale, diretta o indiretta, con il blog di Grillo sono stati tantissimi, negli anni. L'elenco può solo essere per difetto. Nel 2010, agli albori, il gruppo editoriale Gems fece un accordo per la sponsorizzazione dei libri del gruppo sul blog, poi la cosa divenne una collaborazione strutturata. Casaleggio srl ebbe in gestione la comunicazione online dell'intero gruppo, venne ristrutturato il sito voglioscendere.it, e trasformato nel blog degli autori di Chiarelettere. 

I quali non volevano, e anzi ritirarono la firma imponendo il cambio di nome al sito: Casaleggio lo chiamò, ironicamente, CadoInPiedi. Nel 2013 GeMS rescisse il contratto, da allora il blog di Grillo registrò molti cali di entrate, meno seicentomila euro nel 2014, a quota 1,5 milioni. Meno quattrocentomila nel 2015, a 1,1 milioni.

La perdita tra il 2014 e il 2016 fu di almeno 323.000 euro. È lì che il blog si apre a pubblicità e sponsorizzazioni. Grillo era inizialmente contrario, ma poi Casaleggio lo convinse. Dal giugno 2012 sul blog furono usate due piattaforme pubblicitarie, Google AdSense e Publy, con sede in Irlanda. 

Nacque la mitologica colonna destra del blog: a sinistra c'erano la politica del M5S e le battaglie. A destra la pubblicità (o i post sensazionalistici). Le sponsorizzazioni e i contratti extra (tipo appunto Moby, o Philip Morris) sono ancora un altro capitolo. 

I vari soggetti entrati in legittimi rapporti economici (o commissionando ricerche e report, o consulenze) con la srl - oltre a Gems si possono citare Banca Intesa, Moleskine, Expedia, Deliveroo, Gilead, AB Medica, Tecla.it, Boraso, Loviit, OnShop, InPost, HiPay, IrenDevice, MDirector, AccEngage, MyLittleJob, AdAbrà - aiutarono di fatto il successo del blog di Grillo e la sua gestione.

Era ciò in qualche rapporto con Grillo e il suo potere come capo partito? Marco Canestrari, in Casaleggio associati dal 2007 al 2010, racconta un aneddoto: «Nel 2010, quando il M5S era già nato, uno dei clienti della Casaleggio era Ab Medica, una importante azienda di tecnologia robotica medicale, che vendeva prodotti agli ospedali. In quel periodo Grillo nei suoi spettacoli prese a parlare di robotica, e quando parlava di robot faceva vedere, in sala, proprio il filmato di Ab Medica».

Nessun reato, sia chiaro: ma una commistione che sarebbe diventata esiziale tra spettacolo, interessi commerciali molecolari, e infine politica. Alcune storie di questi anni sono state quasi divertenti. 

Come quando sul blog di Grillo nel dicembre 2017 apparve un video in cui Di Maio, allora candidato premier M5S, indossava tuta e casco con logo di Fastweb, in un simulatore di volo «Aero Gravity», di cui l'azienda Fastweb era naming sponsor (Fastweb precisò di «non aver avuto nessun ruolo nella realizzazione del video»), e invitava la politica a «volare alto».

I critici hanno spesso fatto notare gli incredibili post di Grillo filo Huawei, di cui sono apparsi panegirici imbarazzanti sul nuovo blog, quello gestito dalla «Grillo srl» (tipo quello nel marzo 2020 intitolato, all'inizio della pandemia: «Huawei dona 200 mila mascherine e tecnologia per gli ospedali»). 

Chiedemmo a Huawei, che rispose negando qualsivoglia rapporto con Grillo e la srl. Poste Italiane (partecipata da Cdp) e Consulcesi hanno sponsorizzato i rapporti della Casaleggio, in una stagione in cui il M5S si batteva per la trasformazione di Cdp in una banca a tutti gli effetti, e per la blockchain. Ogni volta che abbiamo chiesto di possibili conflitti d'interessi, o cosa andasse a Grillo e cosa alla srl, non abbiamo ottenuto risposta. 

L’inchiesta su Grillo e Moby. Toninelli assicura di non aver mai autorizzato proroghe di concessioni. Linkiesta il 19 Gennaio 2022.

«Se mi hanno sostituito al governo anche per questa mia fermezza? Non ho elementi per rispondere, ma di certo per quello che ho fatto da ministro mi sono fatto tanti nemici potenti», dice l’ex ministro dei Trasporti dei Cinque Stelle. «Quello che so è che io volevo servizi efficienti e tariffe più basse» 

«Su Onorato non ho nulla da dire. Io ho fatto solo ciò che si doveva fare. Cioè ho detto che si fanno le gare e non le proroghe delle convenzioni». L’ex ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Cinque Stelle Danilo Toninelli in un colloquio con La Stampa spiega la sua posizione sull’inchiesta milanese per traffico d’influenza che vede indagati Beppe Grillo e il patron del gruppo di navigazione Moby-Cin Tirrenia Vincenzo Onorato.

Nell’inchiesta della procura di Milano, l’accusa ipotizza che l’imprenditore abbia tentato di influenzare le politiche del governo Conte in tema di interventi in favore di Moby, in cambio di contratti pubblicitari a Casaleggio Associati srl e a Beppe Grillo srl per un milione e 50 mila euro di euro. Secondo le ipotesi degli investigatori, Grillo avrebbe veicolato tramite alcuni parlamentari e altre volte rivolgendosi direttamente ai ministeri dei Trasporti e dello Sviluppo economico, una serie di messaggi di Onorato mirati a ottenere leggi e finanziamenti per salvare Moby.

A ricevere le richieste via chat dal leader Cinque Stelle sono anche figure di spicco dell’allora governo Conte uno. Fra i destinatari, ci sarebbe anche Toninelli (non indagato) che, proprio in quel periodo, aveva intavolato un braccio di ferro con l’armatore sul tema del rinnovo di concessioni delle tratte, uno dei fronti più caldi per l’azienda di trasporto marittimo.

Fra il ministro e l’armatore campano, si arrivò addirittura a uno scontro frontale mezzo stampa. Il casus belli furono alcune dichiarazioni rilasciate da Toninelli nel gennaio del 2019 quando, durante una visita in Sardegna per sostenere il candidato pentastellato alle regionali, annunciò lo stop alle «vecchie concessioni che provocano solo danni ai cittadini» promettendo entro il 2020 una nuova gara per garantire la continuità territoriale dell’isola. Onorato restituì il colpo dandogli dell’ignorante e accusandolo di fare «pura campagna e demagogia elettorale». Seguirono strascichi per giorni, con Toninelli che sul Blog delle Stelle minacciava di ricorrere alle vie legali.

La vicenda giudiziaria, però, a pochi giorni dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica, rappresenta certamente «una brutta grana, che non ci voleva», dice quello che oggi è un semplice senatore Cinque Stelle.

Ieri, racconta La Stampa, confrontandosi con i suoi sostenitori durante una diretta Facebook dedicata alla pandemia e al Quirinale, nelle parole dell’ex ministro ha prevalso innanzitutto la difesa senza se e senza ma del «fondatore». «Non ne ho la più pallida idea. Non so assolutamente nulla», spiega rispondendo a una domanda. «Ma ho piena fiducia in Beppe. Come fai a non avere fiducia in uno che da quando è entrato in politica ha perso soldi? Gli altri hanno usato la politica per arricchirsi, lui no».

Sollecitato a parlare del caso, però, non resiste alla tentazione di ripercorrere il film della sua esperienza governativa: «Se mi hanno sostituito al governo anche per questa mia fermezza? Non ho elementi per rispondere, ma di certo per quello che ho fatto da ministro mi sono fatto tanti nemici potenti».

E sui rapporti tra Vincenzo Onorato e il Movimento 5 Stelle, spiega: «Non lo so proprio. Quello che so è che io volevo servizi efficienti e tariffe più basse, ma soprattutto che non concedevo mai proroghe di concessioni e che non l’ho fatto nemmeno in questo caso». Nel merito dell’indagine milanese, in ogni caso, ribadisce di non voler entrare: «Se sono stupito dall’inchiesta? Le mie sensazioni non hanno valore».

Contratti con la Moby. Grillo indagato: avrebbe chiesto ai 5s aiuti per l'armatore. Gdf alla Casaleggio.

Luca Fazzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle utilizzato come braccio operativo degli affari privati di Beppe Grillo. Il gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle utilizzato come braccio operativo degli affari privati di Beppe Grillo, con deputati e senatori pronti a tradurre in atti parlamentari e proposte di legge le iniziative necessarie a tenere a galla uno dei suoi clienti più facoltosi: Vincenzo Onorato, l'armatore della Moby. È questa la ipotesi d'accusa che ha portato la Procura di Milano a incriminare e perquisire sia Grillo - definito negli atti «fondatore e Garante del Movimento 5 Stelle - che Onorato, accusati di traffico illecito di influenze. Viene perquisita anche la Casaleggio e associati, destinataria di finanziamenti ancora più corposi da parte dell'armatore napoletano.

Nel decreto di perquisizione emesso dai pm milanesi Maurizio Romanelli e Cristina Roveda e eseguito ieri dalla Guardia di finanza si parla testualmente delle «relazioni effettivamente esistenti ed utilizzate da Giuseppe Grillo, su espresse richieste di Vincenzo Onorato, nell'interesse del gruppo Moby con pubblici ufficiali» («parlamentari», precisa il comunicato della Procura. Siamo di fronte, scrivono i pm, ad una «mediazione illecita operata da Giuseppe Grillo in quanto finalizzata ad orientare l'azione pubblica dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby». Secondo quanto emerge dalle carte dell'inchiesta milanese, le pressioni di Grillo sui «suoi» parlamentari non rimangono infruttuose. «Grillo - è la premessa- ha ricevuto da Onorato richieste di interventi a favore di Moby che ha veicolato a parlamentari in carica appartenenti a quel movimento politico (il Movimento 5 Stelle, ndr) trasferendo quindi al privato (Onorato, ndr) le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest'ultima». I parlamentari grillini, insomma, si mettono a disposizione del capo. Che per questo ruolo è accusato dalla Procura milanese di avere incassato 240mila euro tra il 2018 e il 2020, quando il suo partito era al governo sia nel Conte 1 che nel Conte 2. Un milione e duecentomila euro vanno nello stesso periodo alla Casaleggio e associati. Il tema che fa da sfondo all'inchiesta dei pm milanesi è quello, ampiamente noto, della crisi del gruppo guidato da Vincenzo Onorato, arrivato sull'orlo della bancarotta sotto il peso di una esposizione da quasi mezzo miliardo. Per evitare il crac e le sue ricadute sociali - sia per l'occupazione a Napoli che per i collegamenti navali con le isole - si sono mossi alla luce del sole politici di diversi orientamenti, 5 Stelle compresi. Ma l'inchiesta che piomba sul Movimento a meno di una settimana dal voto per il Quirinale apre scenari nuovi. In mano agli inquirenti ci sono le chat che intercorrono tra Grillo e Onorato e che raccontano come l'ex comico fornisse in presa diretta all'amico e cliente il resoconto delle iniziative che i parlamentari M5S prendevano a suo favore. Un caso quasi da manuale del reato di traffico di influenze, il reato che punisce con pene fino a quattro anni e mezzo di carcere chi si «fa dare o promettere denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale».

L'inchiesta che viene alla luce ieri prende spunto da un'altra indagine a alto impatto politico, quella condotta dalla Procura di Firenze sui rapporti tra Onorato e Open, la fondazione di Matteo Renzi. Gli inquirenti toscani acquisiscono le chat di Onorato, e lì insieme a quelle con l'entourage renziano saltano fuori quelle con Beppe Grillo. Questa parte delle chat dell'armatore viene inviata per competenza territoriale alla procura di Milano, dove hanno sede sia la Moby che la Casaleggio.

Qui le chat si incrociano con un materiale che la Procura milanese ha già accumulato indagando sul dissesto della compagnia di Onorato, di cui la stessa Procura ha chiesto il fallimento. Il consulente incaricato dalla procura di analizzare la contabilità della Moby, Stefania Chiaruttini, ha già inviato una sua relazione in cui evidenzia alcuni pagamenti anomali in cui si è imbattuta: sono quelli a Grillo, a Casaleggio e - in misura minore - al governatore di una importante regione del Nord. A fornire una spiegazione precisa del senso di quei pagamenti provvedono le chat che arrivano da Firenze. Il meccanismo è costante: Onorato indica a Grillo una sua necessità, Grillo si rivolge ai suoi parlamentari, poi relaziona Onorato: missione compiuta.

Ieri nelle sedi della Beppe Grillo srl in piazza della Vittoria a Genova e della Casaleggio in via Visconti di Modrone a Milano arrivano le «fiamme gialle» a perquisire computer, chiavette cloud, automobili, alla ricerca di qualunque documento sui rapporti con Onorato. Ma intanto si annuncia inevitabile l'analisi dei lavori parlamentari, incrociando le chat con i calendari delle attività in particolare della Commissione trasporti ma anche delle attività governative. Il provvedimento più caro a Onorato, la proroga del contratto di servizi per i trasporti con le isole, è stato varato quando il ministro era il grillino Toninelli, ma confermato anche dall'attuale titolare Enrico Giovannini. Ma quanti altri favori ha nel frattempo ricevuto la Moby grazie ai grillini?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Gli sfoghi privati dei grillini. "Beppe? Una brutta grana". Domenico Di Sanzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

I big impegnati nelle trattative sul Colle scelgono il silenzio. "Un garante così debole non ci aiuta".

Proprio mentre la politica si interrogava sul suo silenzio a proposito della partita del Quirinale, con il M5s che un po' aspettava e un po' temeva una sua mossa per l'elezione di Mario Draghi, è arrivata la notizia di un'indagine a carico di Beppe Grillo da parte della Procura di Milano. L'accusa è di «traffico di influenze illecite», la vicenda è quella dei rapporti tra la società di Grillo, la Casaleggio Associati e la compagnia di navigazione Moby dell'armatore napoletano Vincenzo Onorato. A pochi giorni dal via libera della Camera alla legge, fortemente voluta dai grillini, sulla regolamentazione delle attività di lobbying, è inevitabile l'imbarazzo tra le fila del partito fondato dal comico genovese. I big sono impegnati nelle trattative per l'elezione del presidente della Repubblica e - fino al momento in cui scriviamo - tacciono. La tensione è molto alta. «È una brutta grana, non ci voleva», è l'unico commento dei vertici del Movimento consegnato all'Adnkronos. Deputati e senatori preferiscono sfuggire a tutte le domande. Anche i capi degli altri partiti, fino a questo momento, scelgono di non cavalcare la vicenda giudiziaria in un passaggio politico così delicato. Parla Francesco Silvestri, deputato Cinque Stelle primo firmatario della legge sulle lobby, cerca di ridimensionare la vicenda. «Si tratta di una questione molto differente, Grillo non è un decisore pubblico, non c'entra con la nostra legge», risponde Silvestri. Che commenta sul tempismo dell'inchiesta, arrivata proprio a ridosso dei giorni decisivi per il Colle: «Sono questioni completamente diverse dal Quirinale. Non c'è nessuna difficoltà e nessun imbarazzo, personalmente».

Secondo le accuse dei pm milanesi, Grillo avrebbe «veicolato a esponenti politici» del M5s alcune presunte richieste di Onorato. Due deputati pentastellati in Commissione Trasporti, Mirella Liuzzi e Bernardo Marino, smentiscono ogni ipotesi di pressione. «Come tutti ho letto la notizia, ma non ho ancora avuto modo di approfondire - dice Liuzzi - noi in Commissione trasporti su questo tema abbiamo sempre adottato una linea dura, quando c'era da essere critici nei confronti dell'azione di Moby, lo siamo stati. Con Grillo non abbiamo mai parlato di emendamenti e da lui non è arrivata nessuna richiesta». Marino si dice «interdetto, basito». Poi precisa: «Sono titolare di una proposta di legge per la continuità territoriale da e per la Sardegna, fatta apposta per evitare che Onorato avesse il monopolio su quelle rotte». Infine la conclusione: «Ho sempre proceduto in completa autonomia. Spero ci siano chiarimenti al più presto». Dichiarazioni a parte, nel Movimento l'umore non è dei migliori. Chi è vicino al Garante spiega che un «Beppe così debole in questo momento non ci fa gioco». Tutti coloro che speravano che, come accaduto diverse volte negli ultimi anni, Grillo togliesse le castagne dal fuoco all'ultimo minuto e appianasse le divergenze con un intervento a gamba tesa, sono ancora più spaesati. Insomma, stavolta Conte dovrà fare da solo. Domenico Di Sanzo

Prima esultavano per i nemici indagati. Ora i grillini scoprono il garantismo. Lodovica Bulian il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Conte: "Notizia enfatizzata". Ma in passato invocavano la forca contro Renzi e la Guidi. È il 18 dicembre 2018 quando diventa legge la cosiddetta «Spazzacorrotti», che comprende le modifiche introdotte al reato di traffico di influenze illecite che oggi colpisce Beppe Grillo nell'inchiesta milanese. Il Movimento cinque stelle scende a festeggiare davanti a Montecitorio. «Bye Bye corrotti», il cartello sventolato da Luigi Di Maio. «Aspettavamo questa legge dai tempi di Mani pulite. Nulla sarà più come prima - le sue parole - oggi diamo gli strumenti alle forze dell'ordine per prendere chi mette le mani nella marmellata. E obblighiamo i partiti a rendicontare tutti i soldi che prendono, così sapremo per chi governano il giorno dopo le elezioni». Accanto ad applaudire anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, volto della vittoria più importante del M5s al governo. La legge anticorruzione è dedicata «a tutti i cittadini onesti, oggi è una giornata storica».

È ricordando oggi quella piazza che la dichiarazione garantista del leader del M5s Giuseppe Conte suona come una sconfessione di fatto di tutti i mantra grillini: «Esprimo vicinanza a Grillo, sono fiducioso - ha detto ieri - Ho visto che molti giornali hanno enfatizzato la notizia di questa indagine», ma «sono assolutamente fiducioso che le verifiche in corso dimostreranno la legittimità del suo operato».

Poche parole che certificano il l'inversione di rotta dopo le feroci battaglie contro gli avversari colpiti dalle inchieste. Senza riavvolgere il nastro agli anni ruggenti delle liste di proscrizione al grido di «ecco tutti gli indagati del Pd» rilanciate da Grillo, solo pochi mesi fa quando la Procura di Firenze ha chiuso le indagini sulla Fondazione Open che coinvolgono Matteo Renzi e altre undici persone per finanziamento illecito ai partiti, i cinque stelle erano andati all'attacco così: «13 domande a tutela del confronto democratico #RenziRispondi», titolava il lungo post pubblicato dal M5s. «Queste domande sono poste nell'interesse di tutti i cittadini, a garanzia dei principi di piena trasparenza e accountability, che devono contraddistinguere l'operato di tutti i politici e che sono fondamentali per alimentare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella classe politica. Su questi aspetti il M5s non è disponibile ad arretrare di un millimetro. È questione di etica pubblica. Senza coscienza morale, il nostro Paese non ha futuro». E ancora quando il padre di Renzi, Tiziano, rinviato a giudizio nell'inchiesta Consip proprio per traffico di influenze illecite l'hashtag è diventato #Renziconfessa. Di Maio ricordava che sotto indagine c'erano «il padre e il braccio destro» dell'ex presidente del consiglio (Tiziano Renzi e Luca Lotti) e che l'imprenditore arrestato questa mattina (Romeo ndr) finanziava la Fondazione con cui Matteo Renzi sta girando l'Italia e sta facendo campagna elettorale per le primarie Pd». Quando nel 2016 l'inchiesta per traffico di influenze illecite travolse l'allora ministra Federica Guidi, costringendola alle dimissioni, la campagna grillina anticorrotti fu martellante. Il tenore dei commenti: «Io non ho più parole per dire quanto ribrezzo mi diano questi schifosi al Governo. Gentaglia che mette gli interessi personali, spesso illeciti, davanti alla salute e al benessere degli italiani», scriveva Manlio Di Stefano su Facebook. Oggi tra i destinatari delle chat di Grillo con le presunte pressioni ipotizzate dai pm per favorire Moby ci sarebbe anche Danilo Toninelli, l'ex ministro dei Trasporti che ha combattuto ferocemente contro Autostrade fino alla revoca della concessione, cantando vittoria così: «Abbiamo posto fine a una mangiatoia per politici e privati». Lodovica Bulian 

Quel reato voluto da Bonafede e che ora incastra il garante del M5s. Lodovica Bulian il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Con la "spazzacorrott"» l'ex ministro allargò i confini del millantato credito e inasprì le pene. Le inchieste su babbo Renzi e Di Donna. Conoscenze personali, relazioni esistenti o solo vantate, rapporti con la politica, contiguità con ambienti della pubblica amministrazione, del potere, dello Stato. Mediazioni illecite da parte personaggi che gravitano negli ambienti pubblici in grado di promettere di vantaggi in cambio di denaro o altre utilità. È un terreno vasto e spesso difficile da definire per gli stessi inquirenti quello in cui maturano le indagini per traffico di influenze illecite che ora colpiscono anche il fondatore del M5s Beppe Grillo. Chi evoca in queste ore la nemesi del comico ricorda che fu proprio il Movimento cinque stelle nel 2019, attraverso il suo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, a intervenire su quel reato con la cosiddetta legge «Spazzacorrotti», ampliandolo e attirandosi le critiche anche di una parte del mondo giudiziario, che parlò di «inafferrabilità» della nuova fattispecie. L'intervento dell'allora ministro grillino ha modificato il traffico di influenze illecite - introdotto nel 2012 dal Guardasigilli del governo Monti, Paola Severino - in una direzione repressiva: ha abrogato il millantato credito e lo ha accorpato al reato di traffico di influenze, e ha alzato la pena massima da tre anni a quattro anni e sei mesi. Ora viene punito chi sfruttando o vantando relazioni «esistenti o asserite» con un pubblico ufficiale si fa dare indebitamente oppure fa dare ad altri denaro o altre utilità come prezzo della mediazione. Rientrano in questa estesa zona grigia i casi in cui per esempio un faccendiere con buone entrature e relazioni con pubblici ufficiali diventi di fatto l'intermediario di un privato disposto a pagarlo. Il pubblico ufficiale sarebbe il «trafficato» a sua insaputa, altrimenti scivolerebbe nell'accusa di corruzione.

La politica - trattandosi di un reato contro la pubblica amministrazione - ne è già finita travolta. Basti pensare che il traffico di influenze illecite ha colpito nomi eccellenti, da Tiziano Renzi nell'inchiesta Consip, all'ex ministro Federica Guidi che in seguito all'indagine si è dimessa, fino all'ex collega di Giuseppe Conte nello studio Alpa, Luca Di Donna, accusato di aver mediato affari tra imprenditori e la struttura all'epoca guidata dal commissario Domenico Arcuri (estraneo all'indagine). Ora l'ipotesi della Procura di Milano è che Grillo, sollecitato dall'altro indagato Vincenzo Onorato, abbia contattato parlamentari M5s per agevolare la compagnia Moby.

Dopo la riforma Bonafede però i pm che conducono le inchieste continuano a scontrarsi forti criticità nel definire concretamente i comportamenti che integrano il reato. E nell'individuare la linea sottile che separa l'attività di un «faccendiere» con quella di un lobbista, ruolo non regolamentato in Italia. Complessità emergono non solo in fase di indagine ma anche dal punto di vista probatorio, con l'ipotesi d'accusa sottoposta a forti rischi anche nel caso di rinvii a giudizio.

L'inchiesta su Grillo incrocia il dibattito politico concentrato sul Quirinale: «Non essendo io grillina diciamo che sulla questione giudiziaria della vicenda aspetto di vedere cosa dirà la magistratura. Tra l'altro parliamo di un reato sempre scivoloso. Sul piano politico, che un leader politico parli bene di qualcuno perché viene pagato lo considero un problema - dice la leader di Fdi Giorgia Meloni - Mi pare l'ennesima nemesi del M5s che si proponeva come grande moralizzatore della politica». Il reato di traffico di influenze illecite «è un abominio. Che cos'è? - attacca Maurizio Lupi -. Quando si determina questo reato? Qual è il vantaggio per un politico, che ricevi voti? Prima o poi, lo dico al M5s, bisogna avere il coraggio di smettere di usare la giustizia per una battaglia politica. Va abolito come l'abuso d'ufficio». Lodovica Bulian

Sulle lobby leggi fumose e ipocrite. Vittorio Macioce il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Beppe Grillo è nei guai. È finito in un territorio di confine, pieno di ombre, dove politica e giustizia giocano a rimpiattino.

Beppe Grillo è nei guai. È finito in un territorio di confine, pieno di ombre, dove politica e giustizia giocano a rimpiattino. Qui perfino i dottori della legge confessano di perdersi. L'origine è il reato di traffico di influenze. È una legge del 2012 pensata da Paola Severino. L'obiettivo era colpire il sottobosco della democrazia, quel mercato che da sempre c'è intorno al potere. Il mondo anglosassone chiama tutto questo lavoro di «lobbying». È una pressione sul Palazzo e lì è regolamentata. Quello che si chiede è la trasparenza e la consapevolezza. Gli elettori devono sapere, solo per fare un esempio, chi finanzia un partito o un singolo politico. Lobby è una parola che viene dal latino medioevale, da laubia. È la loggia, il portico, da cui si guarda, si ascolta, si interferisce con gli affari della cosa pubblica. Si racconta che il primo a usarla sia stato nel 1553 il pastore episcopale Thomas Bacon e sia stata poi ripresa da William Shakespeare nell'Enrico VI. Ora capire quanto questa pratica cada nel traffico di influenze non è affatto facile. La discrezionalità del giudice è ampia e per forza di cose finisce per avere conseguenze arbitrarie sulle dinamiche politiche. È insomma uno di quei terreni ambigui dove la giustizia può «influenzare» le sorti della democrazia. Paola Severino direbbe che il senso della sua legge è chiaro. Si tratta di estirpare dalla morale pubblica la mala erba dei faccendieri. L'obiettivo dichiarato sono proprio loro. A complicare le cose è però arrivata poi, due anni fa, la «spazzacorrotti», un sistema di leggi voluto proprio dai grillini dove i fatti finiscono per confondersi con gli atteggiamenti. È così che l'ambiguità è cresciuta ancora di più.

Grillo è inciampato nella sua stessa rete. È la vendetta di quello sceneggiatore burlone chiamato destino. L'armatore Vincenzo Onorato, amico di lunga data e fondatore di Moby Lines, ha finanziato con inserti pubblicitari per 120mila euro l'anno le società di Grillo. In cambio avrebbe chiesto qualche favore, di intercedere con alcuni parlamentari Cinque Stelle su alcune questioni che lo riguardavano: la proroga di una concessione, una controversia con Tirrenia e benefici fiscali per le sole navi imbarcano equipaggi italiani e comunitari.

Il giudizio spetta ai tribunali. Ora però bisogna fare i conti con l'ipocrisia. Questo lavoro di influenza avviene tutti i giorni nei palazzi della politica. Il lobbismo è una professione. Non è un lavoro clandestino. È riconoscere che la politica è anche mediazione tra interessi privati. È ricordare, come fece Bettino Craxi davanti a un Parlamento muto e ipocrita, che la democrazia costa e bisogna trovare il modo più trasparente per finanziarla. Vittorio Macioce  

Dai comizi ai post sul blog: così Grillo "tifava" Onorato. Luca Sablone il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Quando il M5S era al governo, il comico spendeva parole al miele verso l'armatore: "Salvaguarda i diritti dei nostri marittimi". E sul blog lanciava una petizione a sostegno del patron di Moby.  

Indubbiamente tra Beppe Grillo e Vincenzo Onorato scorre buon sangue. Un'ammissione che è arrivata anche dall'avvocato Pasquale Pantano, difensore dell'armatore, secondo cui "bisogna tener presente che Onorato e Grillo sono amici di vecchia data, da almeno 45 anni, e quindi facilmente qualcosa potrebbe essere stato equivocato". Il riferimento è all'indagine della Procura di Milano, che vuole far luce sui contratti pubblicitari sottoscritti nel 2018-2019 dalla compagnia marittima "Moby spa" di Onorato con il blog Beppegrillo.it. Andando a ripercorrere qualche passo nel passato, effettivamente emerge come il comico genovese più di una volta si sia schierato pubblicamente al fianco dell'armatore.

Il sostegno di Grillo a Onorato

Ad esempio il co-fondatore del Movimento 5 Stelle a maggio del 2018 sul suo blog aveva speso parole al miele nei confronti di Onorato: "Si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi". Grillo dunque aveva preso le difese dell'armatore dopo che alcuni media lo avevano tacciato di razzismo e di discriminazione: "Condivido a pieno la battaglia di Onorato e faccio mie le sue parole. Chi è il razzista? Chi lascia a casa i nostri marittimi a fare la fame o chi con sfruttamento selvaggio imbarca extracomunitari, con salari da fame?".

Poco più tardi, precisamente ad agosto, Grillo aveva rilanciato sempre sul suo blog una petizione dell'armatore. E anche in questo caso non aveva nascosto apprezzamenti: "Da anni è impegnato nella salvaguardia dei diritti calpestati di migliaia di lavoratori di Torre del Greco (e di molti altri comuni italiani)". Pertanto aveva invitato i lettori ad aiutare Vincenzo Onorato "in questa battaglia di rispetto e di dignità dei marittimi", sottoscrivendo i valori della petizione su cui costruire una legge in merito alle tratte nazionali.

Il comizio

C'è poi un altro "precedente", come ricorda La Repubblica. Risale però non al periodo in cui il Movimento 5 Stelle era al governo, ma al mese di febbraio del 2018. Ovvero in piena campagna elettorale per le elezioni politiche che si sono tenute a marzo. A Torre del Greco erano scesi in piazza Beppe Grillo e Luigi Di Maio per portare avanti la battaglia per i lavoratori marittimi italiani. E il comico genovese all'inizio del comizio aveva confessato: "Quando un armatore di qua, napoletano, mi ha detto che gli armatori sono esentasse... Nessuno sapeva questa notizia". Chi gli aveva "sollevato" il tema? Il riferimento era proprio all'armatore napoletano Onorato?

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei 

Dal caso Venezuela alle lobby del tabacco. Quanti sospetti sui soldi ai grillini. Paolo Manzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Sepolta l'"onestà" sbandierata dai 5 Stelle. Dal Sudamerica 3,5 milioni in una valigia.  

«Onestà, onestà, onestà!». Mai slogan sembra essere più fuori luogo di quello dei grillini nel giorno in cui Beppe Grillo, il vate del «vaffa» movimentista trasformato nella forza politica più numerosa in parlamento, viene indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze. Un do ut des di cui trattiamo oggi ampiamente ma che non rappresenta nulla di nuovo sotto il sole per il Movimento 5 Stelle. Ne sa qualcosa l'ex capo dell'intelligence di Hugo Chávez, quell'Hugo Armando Carvajal detto «il Pollo» per il suo collo lungo e la testa piccola che però ha un cervello fino ed una memoria da elefante. E che continua a parlare con giudici e mass-media di Spagna, dove è in carcere dallo scorso settembre.

Carvajal è tornato nei giorni scorsi sul tema dei finanziamenti illeciti ai grillini, fornendo maggiori dettagli sull'invio di denaro «a Néstor Kirchner in Argentina, Evo Morales in Bolivia; Lula da Silva in Brasile, Fernando Lugo in Paraguay, Ollanta Humala in Perù, Mel Zelaya in Honduras, Gustavo Petro in Colombia, il Movimento Cinque Stelle in Italia e Podemos in Spagna». Attraverso una lettera indirizzata al portale spagnolo «OK Diario», il generale in pensione ha ironicamente dichiarato che è «curioso che ora nessuno ne sappia niente di quei fondi che hanno aiutato a finanziare illegalmente candidature elettorali e partiti politici oltre a gruppi violenti ed estremisti».

Rinfreschiamo la memoria ai nostri lettori. Era il 2010, Grillo aveva fondato il Movimento 5 stelle da appena un anno. Al consolato del Venezuela di Milano arriva una valigetta diplomatica e, quando la apre, un ignaro addetto militare si trova di fronte a 3,5 milioni di euro in contanti. Visibilmente sorpreso, il funzionario chiede informazioni a Caracas, nella fattispecie al «Pollo», che 11 anni fa era a capo della direzione generale dell'intelligence militare. Dopo essersi consultato con l'oggi presidente Maduro, all'epoca ministro degli Esteri di Chávez, e con Tarek el Aissami, l'uomo degli iraniani a Caracas e che come ministro degli Interni nel 2010 gestiva i «fondi riservati» del regime, Carvajal rispondeva così all'addetto militare: «Abbiamo scoperto che una valigia con 3,5 milioni di euro in contanti è stata effettivamente inviata, lo stesso risulta dalle spese segrete del Paese, gestite dal ministro dell'Interno, Tarek el Aissami, approvato e autorizzato dal ministro degli Esteri, Nicolás Maduro. L'invio avveniva in modo sicuro e segreto attraverso la borsa diplomatica, la destinazione del denaro nella sua interezza è per un cittadino italiano di nome Gianroberto Casaleggio, che è il promotore di un movimento rivoluzionario di sinistra e anticapitalista nella Repubblica italiana».

Qualche giorno fa in Spagna Carvajal ha confermato tutto: «mentre ero direttore dell'intelligence militare e del controspionaggio in Venezuela, ho ricevuto un gran numero di rapporti che indicavano che questi finanziamenti internazionali stavano avvenendo».

Staremo a vedere se la Procura di Milano, che ha già ascoltato lo scorso anno a Madrid il «Pollo», vorrà approfondire il filone italiano delle denunce di Carvajal, che stanno avendo molta ripercussione nei paesi dove i politici amici della dittatura chavista sono stati chiamati in causa.

Difficile non mettere in relazione quanto denunciato da Carvajal con la posizione storicamente a favore di Maduro di Di Maio e Di Stefano e dei 5 Stelle tutti, aria di conflitto di interessi internazionali non proprio in linea con le tradizioni democratiche del nostro Paese dal 1945 in poi. E come dimenticare, sempre nel 2020, lo scandalo della mega consulenza a Philip Morris da 2,4 milioni di euro di Casaleggio, con i grillini che non volevano aumentare le tasse sul tabacco ed il dubbio, anche qui, che ci potesse essere un grosso conflitto d'interessi? Per non dire, infine, di Antonio Di Pietro, il cliente numero uno della Casaleggio Associati, che tra 2005 e 2010 con la sua Italia dei Valori versava nelle casse dell'azienda oltre un milione e mezzo di euro provenienti dai fondi pubblici. Di Pietro che, per la cronaca, è stato tra i primi a tacciare come «balle» le denunce di Carvajal. Paolo Manzo 

Grillo si dice sereno: mai favori a Onorato. Ma nelle chat del M5s le richieste su fisco e salvataggio di Moby. Luca Fazzo il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

C'è Danilo Toninelli, all'epoca ministro dei Trasporti. E insieme a lui un nugolo di altri parlamentari meno noti, peones impegnati nel lavoro oscuro ma prezioso nelle commissioni. Tutti eletti nel Movimento 5 Stelle.  

C'è Danilo Toninelli, all'epoca ministro dei Trasporti. E insieme a lui un nugolo di altri parlamentari meno noti, peones impegnati nel lavoro oscuro ma prezioso nelle commissioni. Tutti eletti nel Movimento 5 Stelle. E tutti pronti a rispondere ai messaggi del fondatore e Garante, Beppe Grillo: che trasmetteva a loro le richieste del suo amico Vincenzo Onorato, il padrone della disastrata Moby. I parlamentari rispondevano, e Grillo riferiva all'amico-cliente. In tutto, almeno una dozzina di chat raccontano agli inquirenti milanesi il ruolo abnorme che legava la Beppe Grillo srl e la Casaleggio ai gruppi parlamentari, usati come longa manus degli affari privati del fondatore.

Sono questi i dettagli che, mentre il caso scuote la politica e Grillo fa sapere di essere «sereno» e di «non avere mai fatto favori a Onorato», emergono dall'indagine della Procura di Milano per traffico illecito di influenze. Dal contenuto delle conversazioni con Onorato, i pm Maurizio Romanelli e Cristina Roveda hanno individuato almeno tre temi su cui le richieste di Onorato venivano veicolate da Grillo verso Toninelli e i gruppi parlamentari M5S: si va dal trattamento fiscale delle compagnie, alla convenzione per i collegamenti con le isole. Ma il tema chiave è il salvataggio della Moby, gravata da debiti per quasi mezzo miliardo.

Oggi, davanti al tribunale fallimentare di Milano, si tiene l'udienza decisiva per il tentativo di tenere a galla le società di Onorato. E l'armatore napoletano non fa mistero in queste ore di considerare sospetta la coincidenza di tempi tra l'udienza e la bordata partita dalla Procura sui suoi rapporti con Grillo. Ma in realtà l'inchiesta sui contratti tra l'ex comico e l'armatore è in corso da tempo. E proprio nelle carte della procedura fallimentare è stato depositato per la prima volta uno dei documenti chiave della vicenda: i contratti di consulenza tra la Beppe Grillo srl, la Casaleggio e Onorato. Il primo è stringato, prevede l'inserimento sul blog di Grillo di un banner pubblicitario e di una intervista al mese a «testimonials Moby» o di «contenuti redazionali»: 120mila euro sono considerati dalla Procura un prezzo spropositato, anche perchè non sempre interviste e redazionali venivano davvero pubblicati. Il contratto con la Casaleggio invece è lungo 13 pagine e per alcuni aspetti fumoso, si parla di «valutazione degli scenari in ottica di swot analysis» e cose del genere. Ma l'obiettivo è chiaro, propagandare la «limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Esattamente uno dei temi su cui nelle chat Grillo invita i suoi deputati a darsi da fare. Affari privati e affari politici si incrociano, e diventa difficile distinguere gli uni dagli altri.

Che Grillo, come dice ieri, non abbia mai fatto favori a Onorato è smentito dal suo stesso blog dove sono ancora disponibili una parte dei «redazionali» pubblicati nel 2018, quelli in cui si diceva che «Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi» e l'armatore veniva dipinto come la vittima di lobby di speculatori. Altri contenuti pro-Onorato sono stati invece rimossi. Ma la sproporzione tra servizio offerto e prezzo pagato resta comunque eclatatante.

Al punto che nel corso delle indagini agli inquirenti si è posto un dilemma rilevante. Se i soldi finiti a Beppe Grillo e a Casaleggio non avevano come vera motivazione le campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica indicate nei contratti, siamo di fronte a una sottrazione di rilevanti fondi dalle casse aziendali. Poichè la Moby è alle prese con un concordato preventivo, la distrazione di fondi configura il reato di concorso in bancarotta fraudolenta. Si tratta di un reato ben più grave del traffico illecito di influenze contestato finora a Grillo. É vero che nell'oceano di debiti di Moby il milione e mezzo finito ai due «guru» del Movimento 5 Stelle non è gran cosa: ma quando Craxi e Martelli vennero accusati per la bancarotta del Banco Ambrosiano avevano incassato di meno.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

"Dobbiamo parlarne con lui": nelle chat di Grillo spunta Patuanelli. Luca Sablone il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Nelle chat tra Grillo e Onorato sarebbe comparso anche un riferimento all'ex ministro dello Sviluppo economico.

L'indagine della procura di Milano continua ad arricchirsi di particolari. Nei giorni scorsi Beppe Grillo è risultato indagato con l'ipotesi di reato di traffico di influenze illecite. Sotto la lente di ingrandimento sono finiti alcuni contratti pubblicitari sottoscritti nel 2018-2019 dalla compagnia marittima "Moby spa" di Vincenzo Onorato con il blog Beppegrillo.it.

Nel comunicato del procuratore della Repubblica di Milano facente funzione, Riccardo Targetti, si legge che "Onorato ha richiesto a Grillo una serie di interventi a favore di Moby spa" che poi il co-fondatore del Movimento 5 Stelle avrebbe "veicolato a una serie di esponenti politici trasferendo quindi al privato richiedente le relative risposte". Infatti, come scritto da Luca Fazzo su ilGiornale in edicola oggi, si vuole far luce sui parlamentari impegnati nel lavoro prezioso nelle commissioni per capire se abbiano o meno svolto un ruolo nella vicenda.

Spunta anche Patuanelli?

Accuse tutte ancora da verificare, ovviamente. Oggi La Repubblica scrive che nelle chat tra Grillo e Onorato sarebbe spuntato anche il nome di Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico nel governo Conte bis ma ora titolare delle Politiche agricole e comunque non indagato. "Scrivendosi, Grillo e Onorato ragionano sulla necessità di rivolgersi a Patuanelli per sostenere i provvedimenti che potrebbero aiutare Moby. 'Dovremmo parlarne con Patuanelli' è il senso del dialogo tra i due", si legge su La Repubblica.

Proprio ieri l'Ansa aveva riferito del sospetto che i messaggi possano essere stati "veicolati anche a parlamentari del movimento legati al Mise". Ovvero al ministro dello Sviluppo economico. Ma anche in questo caso il condizionale è d'obbligo. Sempre nelle scorse ore La Repubblica aveva parlato della presenza di presunte chat con Danilo Toninelli. L'esponente 5 Stelle ha però precisato di non aver "mai ricevuto pressioni o richieste di favori per aiutare questo, i Benetton, un altro concessionario, e neanche Onorato".

Le chat

Sarebbero una dozzina le chat ritenute rilevanti e su cui la Procura di Milano sta lavorando nell'ambito dell'inchiesta che vede coinvolti Beppe Grillo e Vincenzo Onorato. Stando a quanto trapelato dalle prime informazioni dell'Ansa, i messaggi con le presunte richieste dell'armatore di interventi pubblici a favore del salvataggio di Moby "sarebbero cominciati prima della stipula dei contratti di pubblicità da 120mila euro annui tra la compagnia e la società di Grillo (che risalgono al 2018 e 2019) e sarebbero proseguiti anche dopo".

Le "mosse" di Grillo

In passato non sono mancate uscite pubbliche da parte di Grillo a sostegno di Vincenzo Onorato, descritto dal comico genovese come "da anni impegnato nella salvaguardia dei diritti calpestati di migliaia di lavoratori di Torre del Greco" e che a maggio del 2018 si stava "battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi". Addirittura ad agosto 2018 aveva rilanciato sul suo blog una petizione di Onorato: ai lettori era stato chiesto di aiutare l'armatore "in questa battaglia di rispetto e di dignità dei marittimi", sottoscrivendo i valori della petizione su cui costruire una legge in merito alle tratte nazionali.

Luca Sablone.Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei 

"Va trattato bene...". La frase che inguaia Grillo. Francesco Curridori il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

"Questo dobbiamo trattarlo bene", è la raccomandazione che Grillo avrebbe fatto ai parlamentari M5S parlando dell'amico armatore Vincenzo Onorato.

"Questo dobbiamo trattarlo bene". Beppe Grillo, garante del Movimento Cinquestelle avrebbe raccompandato ai parlamentari pentastellati che si occupavano di questioni legate al trasporto marittimo di avere un occhio di riguardo verso Vincenzo Onorato, fondatore del gruppo Moby.

Gruppo col quale Grillo nel marzo 2018 aveva stretto un accordo di partnership per pubblicizzare sul suo blog la compagnia di navigazione. Tale 'indiscrezione emerge del'inchiesta della procura di Milano che vede il comico genovese indagato per traffico di influenze illecite. L'accusa ritiene che Onorato, dietro il contratto pubblicitario biennale da 240mila euro, stesse in realtà comprando l'influenza sul M5S per uscire dalla crisi in cui versa il gruppo. La procura di Milano indaga sull'armatore sia da un punto di vista fallimentare (oggi è stato depositato un nuovo piano per il salvataggio di Moby) sia dal punto di vista penale per presunti reati tributari. Onorato, travolto dai debiti, sarebbe dunque andato a bussare alla porta dell'amico Grillo, il quale secondo l'accusa ha inoltrato i suoi messaggi ai ministri competenti dell'epoca: il titolare del dicastero dei Trasporti Danilo Toninelli, il responsabile dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e il suo vice Stefano Buffagni. Nessuno di loro, però, al momento, risulta iscritto al registro degli indagati.

L'ex ministro Toninelli, a proposito del suo coinvolgimento nella vicenda, ha già annunciato che adirà le vie legali: "In merito alla questione Moby sono state diffuse falsità sul mio conto. Mi riferisco in particolare, ma non solo, alla notizia che il sottoscritto, durante l'incarico da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, avrebbe prorogato la concessione per i servizi di collegamento marittimo in regime di pubblico servizio con le isole maggiori e minori". E aggiunge: "La notizia è palesemente falsa poiché la suddetta convenzione, all'articolo 4, specifica la sua durata dal 18 luglio 2012 al 18 luglio 2020. Pertanto la scadenza della sua vigenza risulta di quasi un anno successiva al termine del mio incarico da ministro, risalente al mese di settembre 2019. Non è dato sapere, dunque, come avrei potuto prorogare una convenzione pienamente in vigore".

Nell'aprile 2020 il Mise autorizza i commissari straordinari di Tirrenia a sottoscrivere l'accordo con la Cin, la controllata del gruppo Moby. Dopo qualche mese arriva il rinnovo della convenzione fra lo Stato e la compagnia di navigazione, mentre il governo Conte ha il compito di decidere sugli sgravi fiscali da destinare al settore. Grillo avrebbe contattato circa una quindicina di parlamentari pentastellati ignari della triangolazione che vede come protagonisti principali l'armatore del gruppo Moby e il fondatore del Movimento. I parlamentari interessati avrebbero risposto ai messaggi di Grillo con chiarimenti, controdeduzioni o tecnicismi, non sapendo che poi il contenuto di quelle conversazionI sarebbe finito nelle mani di Onorato.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono

Le chat di Grillo ai ministri per sostenere l'armatore "Questo va trattato bene". Luca Fazzo il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Messaggi a Toninelli e Patuanelli su Onorato. Si cercano riscontri nei lavori parlamentari.

Nell'aula del tribunale fallimentare, al primo piano del palazzo di giustizia milanese, ieri si consuma l'ultimo tentativo di Vincenzo Onorato di salvare dal crac la Moby, la sua creatura dissestata. Tre piani più su, in Procura, proseguono intanto gli accertamenti sul rapporto anomalo che legava Onorato a Beppe Grillo, e che secondo gli inquirenti si è tradotto in una serie di pressioni illecite su parlamentari grillini perché aiutassero in ogni modo la compagnia dell'armatore napoletano. E se davanti al tribunale fallimentare la situazione per Onorato sembra virare al meglio, l'inchiesta per traffico di influenze si arricchisce sempre di più di nuovi dettagli. «Questo dobbiamo trattarlo bene», è il messaggio-tipo che da Grillo arrivava ai suoi uomini al governo e a Montecitorio: una commistione illegale tra attività parlamentare e business personali del Garante.

Davanti a Alida Paluchowski, presidente della sezione fallimentare, viene presentato il nuovo accordo che Onorato propone ai creditori delle sue società. Tra questi ci sono banche, obbligazionisti e i curatori della Tirrenia, la compagnia assorbita da Onorato e poi andata in dissesto anche a causa dei mancati pagamenti dell'armatore. Erano stati propri i dubbi di Tirrenia a stoppare il primo piano di salvataggio. Ma ora Onorato propone di onorare circa l'80 per cento dei suoi crediti, e la proposta - inviata alle 5,17 del mattino di ieri, a un soffio dalla scadenza dei termini - potrebbe alla fine soddisfare l'amministrazione straordinaria di Tirrenia.

Ma proprio il dissesto del suo gruppo, sorretto in buona parte dalle commesse pubbliche, è uno dei fronti su cui Onorato ha cercato di mettere maggiormente a frutto il rapporto di ferro che lo lega a Beppe Grillo. Secondo quanto emerge dalle chat dell'armatore analizzate dalla Guardia di finanza, quando l'ex comico raccomandava ai suoi di «trattare bene» Onorato si riferiva costantemente al salvataggio delle compagnie di navigazione. Messaggi in questo senso sono stati inviati sicuramente all'ex ministro dei trasporti Danilo Toninelli e - secondo quanto riportato ieri da Repubblica e non smentito - anche a Stefano Patuanelli, ministro dell'Agricoltura nell'attuale governo Draghi. In tutti i casi in cui Grillo si è rivolto ai suoi uomini ha ricevuto risposte e promesse. E si è affrettato a trasmetterle a Onorato.

La linea difensiva di Beppe Grillo è, per quanto se ne è compreso finora, basata su un doppio binario. Da una parte Grillo intende rivendicare le battaglie pro-Moby come la difesa di una impresa con diecimila dipendenti e un importante ruolo sociale; dall'altra, intende ricondurre gli aspetti più «personali» del suo attivismo anche ad una amicizia trentennale con Onorato, e non ai contratti di consulenza stipulati dall'armatore con la Beppe Grillo srl e con la Casaleggio associati. «Ma allora dovrebbe spiegarci - è la risposta che arriva da ambienti vicini all'inchiesta - perché le chat che veicolano ai parlamentari del Movimento 5 Stelle le richieste di Onorato inizino a venire inviate solo quando Moby firma i contratti di consulenza».

La situazione, insomma, non è rosea: anche se i tempi dell'indagine non si annunciano brevi. L'analisi delle chat è sostanzialmente già terminata, ma il lavoro della Finanza sarà ora incrociarle con i lavori parlamentari per trovare riscontro. Non si esclude che in realtà Grillo abbia millantato con Onorato risultati maggiori di quelli ottenuti: ma il reato ci sarebbe lo stesso, grazie a un emendamento al codice penale voluto proprio dai grillini.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Beppe Grillo indagato, ma non gli sequestrano il cellulare: la scelta che scatena il sospetto. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 21 gennaio 2022.

C'è un peso morto e beffardo che sta zavorrando la già claudicante partita del Movimento Cinque stelle sul Quirinale: Beppe Grillo. Il fondatore Elevato, il Jocker e Mangiafuoco, l'impresario del populismo che la volta scorsa opzionò invano Stefano Rodotà per il Colle al grido di "onestà... onestà!" e che adesso si ritrova indagato per "traffico d'influenze" e nel giugno prossimo andrà a processo a Livorno, imputato per i reati di violenza privata e lesioni personali ai danni di un giornalista da lui strapazzato nel settembre del 2020. Ancora più imbarazzante per il fronte giustizialista, se possibile, è un particolare che riguarda l'inchiesta milanese in cui Grillo è sospettato d'aver ottenuto dagli armatori di Moby alcuni contratti pubblicitari per il suo blog in cambio di aiuti politici offerti dal Movimento stanziato al governo: i pm non gli hanno sequestrato il cellulare, riservandogli di fatto un trattamento equivalente a quello dovuto ai parlamentari pentastellati in carica e tutelati perciò da precise garanzie costituzionali. Come a dire che verso Grillo non si usano soltanto i guanti bianchi indossabili, ma a discrezione, quando si tratta d'ingerire nella privacy; ma che lui è più uguale di ogni altro cittadino privato e anzi cittadino privato non è affatto, a dispetto della sua intermittente ritrosia a riconoscere il proprio ruolo pubblico. Un parlamentare di fatto seppur non di diritto. Come minimo è un'anomalia procedurale per la quale la blasonata Procura di Milano, quella di Mani pulite e delle inchieste seriali contro Silvio Berlusconi giocate (anche) sul filo dello sputtanamento del Caimano via intercettazioni e brogliacci diffusi a cielo aperto, si attirerà una miriade di retropensieri.

PECCATO ORIGINALE

Ma siamo sicuri che un tale trattamento nei confronti del comico più influente d'Italia non finisca per riverberarsi come un guizzo maligno contro i suoi seguaci? Tra il progetto originario di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e l'attuale silenzio rubizzo della nomenclatura grillina di fronte alle disavventure giudiziarie padronali, c'è di mezzo un palinsesto di proclami e provvedimenti intrisi di virtuismo moralizzatore, per non dire di cattive intenzioni da mozzorecchi, il cui precipitato materiale si è via via raggrumato nelle norme "spazzacorrotti" e nelle "riforme" dell'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Fra queste, appunto, il caliginoso e inafferrabile "traffico d'infulenze" (all'ingrosso: l'acquisizione di vantaggi materiali in cambio di presunti benefici amministrativi) che ora appesta vieppiù la già opaca reputazione del Garante. Ciò avviene proprio nel momento in cui la famiglia grillina è tutta compresa nella denuncia sgolata del rischio che il pregiudicato di Arcore varchi il soglio quirinalizio; proprio lui, il Cavaliere condannato per frode fiscale e inseguito dai togati per circa un quarto di secolo. Ecco, se c'è un aspetto di surreale comicità nella presente circostanza sta nel fatto che contestualmente Grillo si ritrova a personificare il peccato d'origine giacobina che si gli si ritorce contro con la faccia cattiva dei reati di cui viene accusato; ma in più, beneficato dalla malagrazia di quel telefonino risparmiato dall'occhio altrimenti inesorabile degli inquirenti, indossa pure la maschera di una casta superiore a quella ordinaria. Da una parte, cioè, giace esanime a trascorsa e futura memoria quella casta politica che negli ultimi decenni è stata regolarmente sputtanata e vilipesa grazie alle intime scoperte prodotte dai sequestri giudiziari e poi sapientemente distillate al circo mediatico; dall'altra c'è Beppe Grillo, con il suo cinico sodale Giuseppe Conte messo a guardia d'un flottante di parlamentari disponibili a tutto pur di rimanere aggrappati ai seggi in procinto d'essere ghigliottinati per legge (grilina anch' essa ça va sans dire).

TEATRO DELL'ASSURDO

Uno spettacoloso teatro dell'assurdo, insomma, che rende ancora più speciale il grande gioco per la successione di Sergio Mattarella, con le debite ricadute su Palazzo Chigi, e ancora più lancinante il rimpianto del bivacco di manipoli puristi che nel 2018 conquistò la stragrande maggioranza parlamentare, salvo poi chiudere la legislatura in odore del sospetto d'aver utilizzato quel potere per accrescere il patrimonio personale di un grassatore sempre innocente fino al terzo grado di giudizio soltanto per chi non fa parte della sua spersa masnada.

Beppe Grillo indagato, ecco perché siamo felici: soldi, il comico M5s come un traffichino qualsiasi. Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Dunque Beppe Grillo è indagato per una questione di soldi, finanziamenti al suo sito fatti da Vincenzo Onorato, armatore della compagnia Moby che in cambio avrebbe avuto una certa attenzione da parte dei parlamentari Cinque Stelle. Il reato ipotizzato è quello di "traffico di influenze", una trappola introdotta dal partito dei giustizialisti nel 2012 (governo Monti, ministra della Giustizia Paola Severino) e per la verità stupidamente approvata anche da Forza Italia. È un'arma che i magistrati hanno usato e usano come una clava nelle loro scorribande sul terreno della politica, il più delle volte si tratta di un teorema: siccome qualcuno ti ha aiutato a fare politica se tu ricambi la gentilezza sei equiparato a un delinquente.

Questa premessa per dire che noi di questa inchiesta della Procura di Milano non ci fidiamo fino a prova contraria. Ma siamo felici di vedere i Cinque Stelle e Grillo vittime delle armi improprie che hanno usato contro i loro avversari e sputtanati per giochetti che mi auguro non costituiscano reato ma che certamente li mettono sul piano di traffichini qualsiasi. Chissà che cosa avrà da dire oggi il ministro tontolone Toninelli, quello che sosteneva la superiorità genetica dei grillini, vediamo se qualcuno di loro avrà il coraggio di urlare in faccia agli avversari, come ai vecchi tempi, "onestà, onestà", chissà se il loro portavoce Marco Travaglio oggi farà la sua prima pagina su "Grillo ladro" come avrebbe fatto per qualsiasi altro politico.

Dubito che accadrà qualche cosa di simile. Per Grillo i magistrati sono sacri fino a che uno di loro non gli rinvia a giudizio il figlio per stupro, allora apriti cielo; per i Cinque Stelle se Salvini aggredisse un giornalista sarebbe da impiccare sulla spiaggia, nulla di grave se Grillo un giornalista lo manda all'ospedale (è indagato pure per questo); per loro un avviso di garanzia equivale a una condanna ma non se a riceverlo è il loro magistrato preferito che di nome fa Piercamillo Davigo. Mi auguro che in questo Paese non ci sia più nessuno a credere alle baggianate di questi scappati di casa (anche sui soldi che avevano promesso di restituire si potrebbe discutere a lungo) che hanno avvelenato i pozzi della politica e fatto perdere all'Italia anni di crescita con i loro inutili governi del popolo.

M5s, giustizialisti a fasi alterne: come si coprono di ridicolo ora che Beppe Grillo è indagato. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Fortuna che siamo nella settimana precedente all'elezione per il Colle. Giorni in cui il cucire prevale sul colpire. Così, il Movimento 5 Stelle si salva dal fuoco di ritorno sull'inchiesta che coinvolge Beppe Grillo per presunto traffico di influenze illecite. Loro fanno quasi gli gnorri, sul piano politico. C'è il deputato Francesco Silvestri, che prova a liquidare la questione osservando che «Grillo non è un decisore pubblico», e quanto accaduto «non c'entra con la nostra legge» sulle lobby. Il suo collega Luigi Gallo la butta sull'agiografico: «La vita di Beppe parla di un italiano al servizio degli altri e mai di interessi particolari e specifici». Idem il senatore Danilo Toninelli: «Beppe è l'unico a non essersi arricchito con la politica». Dagli avversari, al massimo, arriva qualche puntura di spillo ma nulla più. Tipo da Giorgia Meloni che parla di «nemesi» per il Movimento. Oppure da Matteo Renzi che auspica un atteggiamento più garantista da parte di certa stampa rispetto a quello rivolto agli indagati nell'inchiesta Open. Al di là del fatto che non c'è stata, ieri, nessuna valanga di strali, il punto politico è proprio quello: la linea che gli esponenti del Movimento, negli anni, hanno seguito sulle indagini altrui.

POST AL VETRIOLO

Ed è sufficiente agire per simmetria, ossia prendere la stessa fattispecie, il traffico di influenze illecite, per cogliere l'asprezza dei toni e l'insistenza nei messaggi. Il primo marzo 2017, quando infuriava un'indagine che ha tenuto banco a lungo, in un lungo post sul blog di Beppe Grillo, il Movimento 5 Stelle scriveva: «Oggi è stato arrestato l'imprenditore napoletano Alfredo Romeo, nell'ambito dell'inchiesta sugli appalti Consip in cui sono coinvolti anche il padre di Renzi, Tiziano, indagato con l'accusa di traffico di influenze» e gli altri (seguiva elenco) tirati dentro dall'inchiesta per svariate tipologie di reati. Poche settimane più tardi, una nota dei parlamentari del Movimento delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali, osservava: «Ricordiamo agli esponenti del Pd che si esercitano sempre nel tiro al bersaglio contro i pm che si occupano dell'inchiesta Consip che il quadro indiziario a carico di Tiziano Renzi, indagato per traffico di influenze, resta sostanzialmente invariato». L'indomani, 13 aprile, proprio Beppe Grillo in persona si pronunciava così: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi che babbo Tiziano resta saldamente indagato nell'inchiesta per corruzioni negli appalti miliardari in Consip per il grave reato di traffico di influenze». Titolo del post: "Memento Renzi". Qualche mese più tardi, era il 12 dicembre, i componenti delle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato tuonavano: «Sull'inquietante vicenda Consip ricordiamo agli smemorati esponenti del Pd...», seguiva elenco degli indagati, tra i quali anche l'allora ministro dello Sport Luca Lotti, dove spiccava ovviamente «per traffico di influenze Tiziano Renzi». Questo il tamburellare fitto sul padre del leader di Italia Viva per il quale, va detto a onor di cronaca, la giustizia ancora sta facendo il suo corso. Ma la foga accusatoria risulta maggiormente paradossale considerando un altro caso, quello dell'indagine "Tempa Rossa".

TUTTO ARCHIVIATO

Scoppiò nel 2016, momento di apogeo politico del governo Renzi. Sempre di "traffico di influenze illecite" fu accusato l'allora compagno di colei che ricopriva l'incarico di ministro dello sviluppo economico, Federica Guidi. Secondo la procura di Potenza, l'uomo, Gianluca Gemelli, avrebbe approfittato del ruolo della sua partner per ottenere vantaggi economici intorno ad un centro di estrazione petrolifera in Basilicata. Implacabile partì la fanfara pentastellata di richiesta dimissioni all'indirizzo della Guidi, per un caso dai grillini definito "peggio di Tangentopoli". Lei le rassegnò, nonostante non fosse indagata. Gesto in cui Luigi Di Maio, a quel tempo componente del direttorio del Movimento, intravvide «un'ammissione di responsabilità chiara della Guidi». Insomma, un processo già bell'e fatto, su Facebook e sui giornali. Piccolo particolare: nemmeno un anno dopo, Gemelli fu archiviato. Ma non finisce qui: quanto i pentastellati ritenessero grave il «traffico di influenze illecite» lo dimostra anche la battaglia per inserire un emendamento nel ddl anticorruzione che prevedeva l'arresto in caso di flagranza. Era il 2018, ma pare una vita fa, come per tutte le posizioni poi dissolte nel tempo. 

Beppe Grillo indagato, spunta il nome di Danilo Toninelli: indiscrezioni dalla procura, trema il M5s. Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Ci sarebbe anche Danilo Toninelli tra i politici raggiunti dalle richieste di Beppe Grillo, che avrebbe girato loro in chat le richieste di Marzio Onorato, l'armatore fondatore della Moby e patron di Mascalzone Latino nell'avventura all'America's Cup. Forse inevitabile, visto che tra maggio 2018 e settembre 2019 Toninelli è stato ministro delle Infrastrutture e Trasporti, dunque il referente "logico" del comico e fondatore dei 5 Stelle. Ma è un nuovo scossone in una vicenda giudiziaria che getta scompiglio nel Movimento a pochi giorni dalla partita del Quirinale, forse decisiva per l'esistenza stessa dei 5 Stelle intesi come partito. 

Grillo è da ieri indagato con l'accusa di tentato traffico di influenze illecite, ai tempi del governo Conte. In altre parole: Beppe avrebbe tentato di influenzare le politiche dell'esecutivo per conto di Onorato, in favore di Moby, attraverso gli esponenti grillini in Parlamento. In cambio, è l'accusa degli inquirenti, Grillo avrebbe ottenuto contratti pubblicitari alla Casaleggio Associati srl e a se stesso per un milione e 50 mila euro di euro. Per questo, riporta Repubblica, lunedì i militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Finanza di Milano si sono recati "negli uffici delle due società e nelle abitazioni di due dipendenti, oltre che del chief information officer e dell'allora responsabile delle relazioni esterne e istituzionali, non indagati, di Moby".

Sotto inchiesta, i contratti 2018 e 2019 da 120mila euro annui incassati dalla Beppe Grillo srl da Moby e un ulteriore contratto sottoscritto per il triennio 2018-2020 tra Moby e Casaleggio Associati, da 600mila euro annui, che riguardava "la stesura di un piano strategico e per l'attuazione di strategie" relative agli sgravi fiscali per le compagnie marittime italiane. "Contratti ritenuti illeciti - ricorda sempre Repubblica - sia «per l'entità degli importi versati o promessi da Onorato», sia «per la genericità dei contratti»". E anche per la mediazione di Grillo, secondo gli inquirenti "finalizzata a orientare l'azione pubblica di pubblici ufficiali". I legali di Onorato fanno notare come lui e Grillo siano "amici di antica data, da circa 45 anni" e che dunque "è facile che qualcosa possa essere stata equivocata". 

Da open.online il 27 gennaio 2022.

Vincenzo Onorato, ovvero il proprietario di Moby, ha pagato viaggi in nave a Beppe Grillo e alla sua famiglia. Così come a un ex senatore del Partito Democratico, Roberto Cociancich, padre della legge sui marittimi. 

Questo emerge dalle carte dell’inchiesta sui contratti pubblicitari della compagnia per il blog del fondatore del MoVimento 5 Stelle e dall’indagine per traffico di influenze illecite.

Dei viaggi in nave pagati a Grillo e ad altri parla oggi Il Fatto Quotidiano in un articolo a firma di Davide Milosa e Marco Franchi: la circostanza emerge grazie alle email di Onorato trovate nei supporti informatici sequestrati nell’inchiesta fiorentina sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. 

Secondo quelle carte l’armatore si è dimostrato pronto a esaudire le richieste di viaggio di Grillo anche in tempi brevi e in periodi estivi molto affollati. Il Fatto riporta anche la conferma, con precisazione, di Cociancich: «Ho conosciuto Onorato solo dopo l’approvazione della legge, ma non ci furono pressioni, anche se quel biglietto non l’ho pagato». 

Nelle email c’è anche il nome del leghista Edoardo Rixi, che però smentisce: «Quell’estate dovevo andare in Sardegna. Mi ha solo offerto l’uso della cabina ma i biglietti li ho pagati». Tra i contatti emersi dai controlli ci sono anche i parlamentari Luigi Di Maio, Danilo Toninelli e Carla Ruocco.

Nessuno dei politici citati è indagato nell’inchiesta. E c’è un capitolo anche sulla Casaleggio Associati. L’11 agosto 2019 Achille Onorato, figlio di Vincenzo, propone al padre di tagliare voci di spesa per 6 milioni di euro. 

Tra queste c’è anche il contratto con la Casaleggio da 600 mila. Il padre gli risponde: «ti devo parlare». Alla fine i tagli vengono approvati. Tranne uno. Proprio quello della Casaleggio

Grillo finisce alla gogna e scopre anche lui che la politica ha un costo. Il fondatore del M5S indagato per traffico di influenze. Il ricorso ai finanziamenti privati è figlio di una legge fortemente voluta dal movimento: l’abolizione del contributo pubblico ai partiti. Rocco Vazzana su il Dubbio il 19 gennaio 2022.  

Il fatto che l’indagine a carico di Beppe Grillo per traffico di influenze sia figlia dell’inchiesta Open è solo una delle beffe di questa vicenda giudiziaria. Perché per una sorta di legge del contrappasso i presunti “guai” del comico genovese sono anche il frutto di scelte politiche divenute il marchio di fabbrica del Movimento 5 Stelle. E peseranno sul ruolo dei 5S nella partita per il Quirinale.

Ma andiamo con ordine. Ieri la procura di Milano ha notificato un avviso di garanzia al “garante” pentastellato ipotizzando il reato di traffico illecito di influenze. Una fattispecie scivolosa, onnicomprensiva e spesso indimostrabile riformata dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che volle rendere la “Spazzacorrotti” il fiore all’occhiello del suo mandato. Un fiore da trasformare in clava all’occorrenza, quando a finire nel tritacarne sono gli avversari politici. E adesso per gli inquirenti milanesi – informati a loro volta dai colleghi fiorentini che indagavano su Renzi – è il turno di Grillo. Per i pm potrebbero non essere regolarissimi i contratti pubblicitari sottoscritti, tra il 2018 e il 2019, dal Blog dell’elevato con Vincenzo Onorato, armatore della compagnia marittima Moby. Centoventimila euro l’anno, per due anni, in cambio di uno spot al mese da ospitare su beppegrillo.it più banner pubblicitari, redazionali e interviste a favore della società di navigazione attualmente in concordato preventivo.

Per gli inquirenti il rapporto tra Onorato e il leader 5S non sarebbe stato di natura esclusivamente commerciale. Grillo, in altre parole, avrebbe provato a favorire l’armatore nella gestione della crisi aziendale della Moby, sfruttando il suo ruolo politico. Come? Veicolando «a parlamentari in carica appartenenti» al suo partito «le richieste di interventi a favore di Moby» avanzate da Vincenzo Onorato, si legge sul decreto di perquisizione che ha riguardato anche i locali societari dell’ex comico. Il fondatore del M5S avrebbe dunque trasferito «al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima». Per gli inquirenti sarebbe «mediazione illecita» in quanto «finalizzata a orientare l’azione pubblica dei pubblici ufficiali». E non è neanche tutto, perché tra le società finanziate dall’armatore spunta anche la Casaleggio Associati, con cui Onorato nel stipula un contratto da 600 mila euro per «la stesura di un piano strategico e per l’attuazione di strategie per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana e gli stakeholder alla tematica delle limitazioni dei benefici fiscali alle sole naviga imbarcano personale italiano e comunitario (Campagna pubblicitaria denominata io navigo italiano)».

In quel settore la Casaleggio associati è tra i leader in Italia, si difende l’imprenditore, normale rivolgersi a loro ricorrendo a prezzi di mercato. Del resto agli atti sulla Moby risulterebbero anche 200 mila euro di finanziamento alla fondazione Open, 100 mila a Change del governatore ligure Toti , 80 mila al Pd, 10 mila a Fratelli d’Italia. Ed è questo il nodo squisitamente politico della vicenda. Convinti infatti che Grillo riuscirà a dimostrare in Tribunale la sua estraneità ai fatti contestati, resta intatto il problema di fondo: la necessità dei partiti e delle fondazioni politiche di ricorrere alle donazioni private per sopravvivere. È il frutto avvelenato della cancellazione del finanziamento pubblico, portata a casa dal governo Letta su pressione di Matteo Renzi, a sua volta terrorizzato di finire schiacciato dalla martellante campagna anticasta che aveva portato i grillini al trionfo elettorale nel 2013. Così, in cambio di una manciata di voti e pochi spiccioli di risparmio per le casse pubbliche il sistema di finanziamento è diventato opaco e i partiti suscettibili del condizionamento privato. Tutti, anche chi affrontava la “casta” a colpi di vaffa hanno nel frattempo capito che la politica è un mestiere, ha bisogno di risorse e nessuna macchina può funzionare gratis. Nemmeno quella “a costo zero”, immateriale, sventolata al suono di un clic dai grillini prima maniera.

I tempi sono cambiati per tutti. Anche per il M5S. Tanto che lo “sputtanamento” del fondatore segna la fine definitiva di un idillio, di un’intesa complice, tra pentastellati e procure. Lo “Tsunami”, tanto caro a Grillo, ha travolto anche lui. E ora persino la tempistica dell’avviso di garanzia desta sospetto in casa cinque stelle, a meno di una settimana del voto per il Quirinale. Sì, perché con i gruppi parlamentari sempre più sfaldati e con Giuseppe Conte incapace di controllare le truppe, in molti, negli scorsi giorni, si aspettavano un intervento imminente del padre fondatore per placare gli animi e serrare le file. Perché nei momenti di maggiore smarrimento Beppe Grillo resta ancora l’unico leader realmente riconosciuto dell’intero Movimento. L’indagine di Milano mette fuori gioco un protagonista della partita per il Colle. E mette in subbuglio non solo un partito, ma un intero schieramento, il centrosinistra allargato ai grillini, che da settimane fatica a trovare una strategia comune da contrapporre alle manovre del centrodestra. È solo l’ennesima beffa per il partito dell’onestà scandita al ritmo delle manette tintinnanti. Perché quel partito forcaiolo non ci sarà più, ma un certo modo di operare delle procure è rimasto invariato.

Estratto dell’articolo di Davide Milosa e Marco Franchi per il “Fatto quotidiano” il 6 febbraio 2022.

Il 22 novembre 2017 la parlamentare Cinque stelle Carla Ruocco invia una email al fondatore del movimento Beppe Grillo e nel testo mette l'emendamento del senatore Pd Roberto Cociancich sugli sgravi fiscali rispetto a chi assume marittimi italiani. Poi illustra il senso al capo del suo movimento […] Il messaggio arriva dopo una serie di chat precedenti tra l'armatore Vincenzo Onorato e Grillo, il quale poi gira tutto al suo politico di riferimento. 

Le email sono contenute negli atti […] trasmessi alla Procura di Milano che […] ha iscritto Grillo e Onorato nel registro degli indagati con l'accusa di traffico di influenze illecite. I pm ipotizzano uno scambio di favori che però penalmente vede estranei i parlamentari. […]

Secondo l'accusa, da un lato Grillo interessa i suoi politici per le tematiche che stanno a cuore a Onorato e dall'altro l'armatore campano paga l'ex comico attraverso un contratto da 240mila euro in due anni tra Moby e il blog di Grillo. Contratto che inizierà a marzo 2018 e dunque dopo lo scambio di email finito sotto la lente della Procura. Il carteggio inizia il 30 ottobre 2017 quando in serata Onorato scrive a Grillo: "Caro Beppe, in allegato ti rimetto una nota su quello che quelle m dei miei colleghi armatori stanno combinando per finire di distruggere l'occupazione dei marittimi italiani. Se passa l'emendamento Cociancich, li abbiamo salvati".

Nella nota Onorato spiega a Grillo la necessità, legata "a motivi occupazionali" per i marittimi, di far approvare il testo. Grillo il 31 inoltra la email a Ruocco che gli risponde: "Visto. Mi informo e ti faccio sapere. Un abbraccio". Il primo novembre Grillo invia a Onorato la risposta del suo politico. Poche ore dopo Onorato all'ex comico: "Grazie Comandante". Il 2 novembre l'armatore manda a Grillo l'emendamento Cociancich. Scrive: "Caro Beppe, la presentazione del testo marittimi". 

Il 22 novembre ci sarà la email di Ruocco con allegato l'emendamento e la sua spiegazione. Testo che a quella data non è stato ancora approvato. […] Il 26 gennaio Onorato scrive all'allora vicepresidente della Camera Luigi Di Maio: "Caro Luigi, da martedì pomeriggio fino a venerdì sarò a Roma, hai 5 minuti per me?".

La email risulterà mandata in copia a Grillo. L'11 giugno 2018, in pieno primo governo Conte, la Cociancich diventa legge. Onorato si dichiara pubblicamente contento. Nei mesi a seguire si renderà conto che la legge non è del tutto rispettata. Si premura così di far arrivare lettere personali ai ministri pentastellati Luigi Di Maio, all'epoca allo Sviluppo economico (Mise) e Danilo Toninelli ai Trasporti (Mit) e al futuro suo vice, il leghista Edoardo Rixi.

[…] Onorato, come è nella logica di un concessionario pubblico, cerca sponde politiche e si mostra generoso. Con Grillo ad esempio, per i passaggi gratis sulle sue navi. Il dato che non rientra nella contestazione penale, lo si riscontra dalle email che la moglie dell'ex comico Parvin Grillo scrive a Moby per avere i biglietti. Sono decine e tutte dello stesso tenore. Lady Grillo chiede a Moby di poter prenotare i biglietti per sé e la famiglia. Immancabile arriva la risposta di Onorato ai suoi dipendenti: "Trattamento vip e tutto gratis!". 

L’ARMATORE DEGLI SCANDALI. Grillo, Renzi e gli altri: tutti gli «aiutini» della politica non salvano Onorato dal declino. DANIELE MARTINI su Il Domani il 19 Gennaio 2022.

A partire dal 2013 lo stato ha versato al gruppo di Vincenzo Onorato in media circa 77 milioni di euro l’anno perché fosse garantito il collegamento con la Sardegna

Nello stesso periodo di tempo non è riuscito a farsi dare i 180 milioni di euro che l’armatore è tenuto a versare per aver comprato la compagnia pubblica Tirrenia

Oggi i collegamenti sono assicurati dai privati senza costi pubblici. Il gruppo Moby gravato da un debito di 640 milioni di euro finisce in mano ai creditori privati 

DANIELE MARTINI. Ha lavorato 15 anni all’Unità e 23 a Panorama. Ha collaborato con Il Fatto Quotidiano. Ha scritto 5 libri: le biografie di Gianfranco Fini e Massimo D’Alema e tre inchieste sulla casta, le raccomandazioni e il nepotismo

LA PARABOLA DEI CINQUE STELLE. Nella corsa al Quirinale il Movimento cinque stelle è irrilevante. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 16 gennaio 2022.

Il Movimento 5 stelle sta disperdendo il proprio peso nell’elezione del presidente della repubblica. Il maggior gruppo di grandi elettori non riesce a definire un nome da lanciare nella corsa: nel 2013 e nel 2015 Grillo aveva risolto il problema con le Quirinarie.

Dall’opposizione i Cinque stelle, pur non riuscendo a imporre il proprio nome, soprattutto nel 2013, con la candidatura del costituzionalista Stefano Rodotà si erano costruiti una reputazione di purezza. 

Oggi, con i parlamentari preoccupati per il proprio futuro e i gruppi bloccati da un conflitto interno, Conte non riesce a sfruttare comunicazione e strategia con gli alleati.

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Lettera a FRANCESCO MERLO pubblicata da La Repubblica il 16 gennaio 2021.  

Caro Merlo, nella discussione vacua sull'elezione del Presidente manca Beppe Grillo. È passato di moda? Federico Ferretti

Caro Merlo, so che non pubblicherà mai questa mia email, ma nonostante ciò gliela scrivo lo stesso. Le volevo fare una semplice domanda: perché prova tutto questo rancore e accidia nei confronti dei 5 Stelle? Sarà forse perché hanno proposto, approvato e fatto misure che avrebbe dovuto fare qualsiasi governo o partito di sinistra? O perché sono riusciti a fare anche misure che hanno svegliato un po' l'economia? Oppure ancora per quelle misure tese a punire chi corrompe, evade, elude? Un saluto, anzi nemmeno quello. Maurizio Solazzo P.S.: W Grillo, W il M5S.

LA RISPOSTA DI FRANCESCO MERLO

Caro Solazzo, è tutta da scrivere la storia dei grillini che non hanno presentato alla cassa il biglietto della lotteria che avevano vinto. Mai però sono stati di sinistra, sin dai tempi delle profezie delfiche dell'ideologo Casaleggio che profetizzava un nuovo ordine mondiale, chiamato Gaia, e un governo planetario che sarebbe stato eletto dalla Rete dopo la terza guerra mondiale. Non erano di sinistra il vaffa, la gogna, i nomi storpiati, il turpiloquio, gli insulti, l'incompetenza e l'improvvisazione, le insolenze, lo sberleffo e lo sbeffeggiamento da canaglia.

Con un'ormai completa autonomia rispetto all'origine, gli ex burattini di Grillo, i grillini appunto, oggi sono soggetti non identificati che si sono strappati le orecchie d'asino e si sono maccheronicamente impratichiti con la sintassi, con l'educazione, con il decoro estetico, con le giacche e le cravatte, con qualche libro persino, ma sono ancora inadeguati a qualsiasi progetto di governo che non sia l'odio sistematico a tutti i governi. Postgrillini, dunque. 

Sono anime vaganti nell'Italia infettata dalla pandemia, sono un'umanità politica esausta scagliata come schegge dall'esplosione del vaffa di cui portano i segni. Nel loro smarrimento e nella loro confusione c'è infatti più Grillo di quanto loro stessi credano e di quanto ce ne sia negli archivi della Rai. Non lo sanno, ma sono irrilevanti perché è diventato irrilevante il loro fondatore. Il partito di maggioranza relativa è insignificante perché è insignificante l'uomo che li ha inventati e che ha cambiato la politica italiana. Sono convinto che il destino di questi vincenti di insuccesso sia indissolubilmente legato a quello di Grillo, al loro grande capo, il solo comico italiano che ha smesso di far ridere. Nessuno meglio di lui conosce e teme la ferocia della pernacchia, che in Italia è quel che in Francia fu la ghigliottina.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 9 gennaio 2022.  

Dice Beppe Grillo che abbiamo sbagliato tutto. Contro il Covid dovevamo adottare subito la «strategia contagi zero» della Cina (dove mettono alla gogna chi esce di casa, ma questo è un dettaglio), e invece abbiamo finito per imporre «trattamenti sanitari obbligatori» che ricordano il Grande Fratello di Orwell. Ah, se al governo ci fosse stato il Movimento 5 Stelle!

Federico Capurso per “la Stampa” il 9 gennaio 2022.

Sbuffano, nel Movimento. Non ne possono più di questo strano amore di Beppe Grillo per il regime cinese. Questa volta il fondatore del M5S attacca con un post sul suo blog le «deludenti» politiche di contenimento della pandemia dei governi occidentali e, in particolare, l’obbligo vaccinale per gli over 50 approvato dal governo Draghi. «Essere soggetti a controlli del governo centrale, e ancor più a trattamenti sanitari obbligatori – scrive Grillo – evoca immagini orwelliane che pesano molto psicologicamente». I grillini sbottano: «Parla a titolo personale». 

Lui tira dritto. Si dovrebbe adottare la strategia «contagi zero» della Cina, sostiene. Un esempio? Qualche giorno fa il governo di Pechino ha messo in lockdown una città di 1, 2 milioni di persone dopo aver scovato 3 casi asintomatici di Covid. Ma questi obblighi – sottolinea Grillo – hanno anche delle «implicazioni», sia «sul piano dei diritti umani», sia su quello della «libertà di scelta degli individui».

Ecco, per iniziare, gli consiglieremmo di uscire di casa e proporre un nuovo lockdown a qualche commerciante della sua Genova. In caso andasse male, potrebbe andare in Cina per toccare con mano «i diritti umani» degli Uiguri, imprigionati nei campi di concentramento dello Xinjiang. In alternativa, potrebbe organizzare uno spettacolo a Hong Kong per parlare di «libertà di scelta». Ci faccia sapere.  

(ANSA il 7 gennaio 2022) - "Il bilancio delle strategie adottate da gran parte dei paesi occidentali è dunque deludente". Lo sostiene il fondatore del M5s, Beppe Grillo, che fa un bilancio sui due anni di pandemia in un post sul proprio blog da titolo 'Onere o obbligo?'.

"In primo luogo", aggiunge, la delusione deriva dal fatto che "quasi nessuno di essi ha adottato una strategia di contagi zero o tendenti allo zero, sopportando costi sociale ed economici molto superiori a quelli dei paesi che la hanno adottata".

(ANSA il 7 gennaio 2022) - "Si sono limitati a puntare tutto sulle vaccinazioni, quando è ormai evidente che questa sola strategia non possa bastare". Questa secondo Beppe Grillo è una delle ragioni per cui sono "deludenti" le strategie adottate da gran parte dei Paesi occidentali nella gestione del Covid. Inoltre, spiega il fondatore del M5s, "hanno sottovalutato le implicazioni delle restrizioni sia sul piano di diritti umani che sono capisaldi delle democrazie liberali, sia sul piano dei loro metodi di attuazione, che ben avrebbero potuto rispettare meglio la libertà di scelta degli individui e delle organizzazioni e delle comunità a cui fanno capo". 

(ANSA il 9 gennaio 2022) -  "Essere soggetti a controlli del governo centrale, e ancor più a trattamenti sanitari obbligatori, evoca immagini orwelliane che pesano molto psicologicamente". Così il fondatore del M5s,Beppe Grillo, sul proprio blog in un post sulla gestione del Covid. "Viceversa, lasciare decidere alle organizzazioni e/o alle comunità quali misure adottare appare nel pieno spirito di un ordinamento liberale e democratico. Senza contare - scrive - che la quasi totalità di queste organizzazioni e comunità finirebbe probabilmente per adottare misure ben più restrittive di quelle che potrebbero essere ragionevolmente adottate da un governo centrale".

Da "la Stampa" il 30 dicembre 2021. I giovani sono sempre più scontenti del modo in cui gli anziani gestiscono il mondo, sono insoddisfatti del sistema politico ed economico e, in modo crescente, rifiutano il sistema capitalistico. Sono loro i nuovi socialisti. Dal suo blog Beppe Grillo chiude il 2021 con una riflessione non firmata che guarda al futuro attraverso gli occhi dei Millennials, i nati tra il 1981 e il 1996, sottolineando come una generazione «considerata politicamente disimpegnata e apatica, con l'ascesa di movimenti di massa come Black Lives Matter e Fridays for Future, abbia infine capovolto lo scenario.

«Oggi, i Millennials - si legge - sono descritti molto più comunemente come una generazione iperpoliticizzata, che abbraccia idee "consapevoli" (woke), progressiste e anti-capitaliste. Considerazione sempre più estesa per la generazione successiva, la "Generazione Z", quella degli Zoomers, nati tra il 1997 e il 2010».

A confermare questo atteggiamento, si legge, è anche un recente studio dell'Institute for economic affairs del Regno Unito, che rivela come i giovani esprimano ostilità al capitalismo, mentre «circa il 40% dei Millennials afferma di avere un'opinione favorevole del socialismo e una percentuale simile è d'accordo con l'affermazione che "il comunismo avrebbe potuto funzionare se fosse stato attuato meglio"». 

I giovani dunque sono pronti a qualcosa di nuovo. Ma «mentre fino agli anni Ottanta si pensava al socialismo come a un modello alternativo - conclude Grillo - oggi non sembrano esserci alternative soddisfacenti. L'unico modello alternativo è quello cinese ispirato al Beijing consensus, che propone un capitalismo privato e un capitalismo di Stato sotto il ferreo controllo di un regime autocratico: un modello difficilmente adottabile nei nostri sistemi occidentali, ma che al tempo stesso pare l'unico possibile».

Andrea Bianchini per "il Giornale" il 30 dicembre 2021. Scherzi del destino. Trentacinque anni fa Beppe Grillo venne cacciato dalla Rai per una battuta sul viaggio in Cina di una delegazione di socialisti italiani: «A un certo punto Martelli ha chiamato Craxi e ha detto: "Ma senti un po', qua ce n'è un miliardo e son tutti socialisti?". Craxi ha detto: "Sì perché?". "Ma allora, se son tutti socialisti a chi rubano?"», raccontò il comico durante una puntata di Fantastico 7. Oggi la Cina, invece, è per Beppe l'ultimo avamposto di benessere, progresso e cooperazione. Si vede che da quelle parti non ruba più nessuno, evidentemente. 

Da quando i grillini sono arrivati al governo, molte delle loro bandiere ideologiche sono state riposte nell'armadio dei sogni irrealizzati. Una delle ultime a resistere è la pulsione orientale: socialismo, via della Seta, affari col Dragone tornano nei pensieri dell'Elevato con sospetta cadenza.

E ieri l'ultimo capitolo. In un lungo post titolato Millennials: generazione socialista (ospitato senza firma sul blog di Grillo), si teorizza come la stragrande maggioranza dei nati dopo il 1981- Millenials e Generazione Z, per l'appunto - rifiuti un'idea capitalista della società «che alimenta egoismo, avidità e materialismo», per arrivare a una spettrale conclusione: «L'unico modello alternativo è quello cinese ispirato al Beijing Consensus, che propone un capitalismo privato e un capitalismo di Stato sotto il ferreo controllo di un regime autocratico: certamente un modello difficilmente adottabile nei nostri sistemi occidentali, ma che al tempo stesso pare l'unico possibile».

Regime, autocrazia, modello cinese: «Bello ma non ci vivrei», direbbe ironicamente qualcuno. Nel 1986, l'anno dell'intemerata di Grillo contro i socialisti, molti dei millenials a cui si fa riferimento nello scritto non erano ancora nati. E quella è una generazione che è cresciuta a pane e internet, che non conosce regimi e solo in minima parte ha vissuto limitazioni alla pluralità, ai diritti umani e alla libertà. 

Ciò che invece oggi Beppe rilancia è praticamente l'opposto: uno Stato dove - sono notizie di ieri - è tornata la gogna pubblica e dove è stata silenziata Stand News, voce libera di Hong Kong. Un regime dove internet e social network - tanto cari all'Elevato Grillo - sono al guinzaglio dello Stato. Uno Stato dove i diritti umani sono quotidianamente calpestati. E allora torna in mente una sola domanda. Ma i cinesi, a chi rubano?

·                   Giuseppe Conte.

Giuseppe Conte, l'ipocrita pericoloso. Michel Dessì il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È vero, è il ponte dell’Immacolata. Molti di voi saranno in vacanza, magari in montagna. Almeno spero. Ma noi no, noi siamo qui per raccontarvi l’ennesima ipocrisia di Giuseppe Conte e del suo Movimento 5 Stelle che sta diventando sempre più pericoloso

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Ricordate la settimana scorsa? Nella puntata de La Buvette ci siamo occupati del maxi bonus da 5.500 euro che i parlamentari si sono fatti per natale. Un bonus tecnologico per l’acquisto di tablet, pc e telefonini di ultimissima generazione. Un provvedimento che ha fatto discutere. La determina? È stata firmata anche dal grillino Filippo Scerra che ora (dopo le polemiche) si rimangia tutto. Nonostante lui stesso abbia difeso il bonus sui suoi canali social. "La scorsa legislatura la dotazione era di circa 7.500 euro complessivi e adesso si parla di 5.500 più un piccolo budget per spese cancelleria (320 euro ). Cioè questa operazione ha fatto risparmiare al bilancio della Camera", aveva scritto su Facebook il deputato 5 Stelle, travolto poi da un fiume di commenti negativi. Diciamocelo chiaramente: una bella figura di m**da.

L’ordine di cavalleria tra i grillini ora è "indietro tutta". Anche Giuseppe Conte si smarca e ai microfoni de Le Iene, il programma di Italia uno, incalzato dalle domande di Filippo Roma dice: "Non siamo riusciti a bloccare la determina". Una sciocchezza! La verità vera e che molti parlamentari, soprattutto i grillini, pensavano che la notizia passasse inosservata. In sordina. Speravano che nessuno se ne accorgesse. A confermarlo anche l’ex parlamentare ed ex grillino Sergio Battelli che raggiungiamo al telefono.

Con quale coraggio Giuseppi può scendere in piazza per difendere il reddito di cittadinanza se poi lui e i suoi parlamentari spendono 5.500 euro per comprarsi il telefonino? Ed è proprio per queste ragioni che l’avvocato del popolo oggi, dopo il fiume di indignazione, dice: "Facciamo un gesto simbolico per le scuole che sono senza dotazioni. Sono disponibile a spendere i 5.500 euro che mi spettano da deputato per comprare tablet e computer per le scuole". Insomma, una bella pezza.

L’autoproclamato avvocato del popolo è andato in cortocircuito. Da un lato la difesa dei più deboli, dall’alto quella della casta. Chissà se scenderanno in piazza per protestare (magari a Montecitorio) anche i suoi parlamentari. Già immagino il coro: "non toglieteci il bonus, non toglieteci il bonus". Ora vedremo in quanti di loro regaleranno tablet e pc alle scuole. Chiaramente senza piangere.

Da premier a Masaniello. Da Premier a Masaniello. Magari Giuseppe Conte lo considererà un titolo di merito ma è solo la conferma che il suo ruolo istituzionale è sempre stato, mi scuso dell'espressione magari irrispettosa, uno scherzo. Augusto Minzolini il 3 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Da Premier a Masaniello. Magari Giuseppe Conte lo considererà un titolo di merito ma è solo la conferma che il suo ruolo istituzionale è sempre stato, mi scuso dell'espressione magari irrispettosa, uno scherzo. Il gioco è vecchio come il cucco. Dice il leader dei 5stelle per motivare la sua opposizione alla manovra del governo: «Temo disordini e tensione nelle piazze per cui noi saremo in piazza per canalizzare in una misura politica la disperazione della gente». Da che mondo è mondo è il vademecum dei leader populisti, di ogni colore e di ogni religione che a volte sfiora il ridicolo e trasuda di ipocrisia. Che significa andare in piazza per fermare la piazza? Meglio sarebbe dire: vado in piazza per speculare politicamente sulla piazza e soffiare sul fuoco della disperazione.

Quello che più stride, però, e differenzia Conte da altri leader populisti, è l'impossibile compito di coniugare il suo trascorso di Premier con il suo nuovo ruolo di agitapopolo, che usa la protesta come minaccia. Beppe Grillo lo ha fatto ma non è mai stato un inquilino di Palazzo Chigi. Conte, invece, è stato il presidente del consiglio di questo Paese e vederlo nella piazza di Scampia, il quartiere dove c'è il più alto tasso di fruitori del reddito di cittadinanza e dove i 5stelle hanno avuto il 64% alle ultime elezioni in ossequio ad una sorta di voto di «scambio» tra questa rendita statale e il consenso, fa una certa impressione. Ma in fondo l'ex-premier va ammirato perché dimostra una grande capacità di recitazione: Conte si è trasformato nello Zelig della politica italiana, può interpretare dieci personaggi insieme o come un grande attore può calarsi nel ruolo del protagonista e del suo contrario, può essere Achille o Ettore, oppure Achab o Moby Dick, ancora Arlecchino o Pantalone.

La sua fantasia non ha limiti. Del resto la distanza che divide nello spirito, nel modo di agire e di pensare un avvocato d'affari e il leader dei 5stelle dovrebbe essere sulla carta incolmabile. Invece, il nostro è riuscito a reinventarsi: anzi alla fine ha intortato prima quello che è stato l'ideatore del reddito di cittadinanza e si era guadagnato nei 5stelle il ruolo di leader, Giggino Di Maio, che è sparito dal Parlamento; e poi lo stesso fondatore, l'Elevato, l'uomo che ha addirittura dato il suo nome al movimento. Come un furbo avvocato d'affari si è assicurato i grillini quando erano ridotti alla stregua di una società in fallimento e che stava portando i libri al tribunale della politica e li ha rilevati assegnandogli un nuovo ruolo. E addirittura ora esercita una sorta di egemonia senza aver mai letto Gramsci, su quella parte del Pd che proviene dal glorioso partito comunista. Che dire, un genio. Un genio del male. Che nella sua scaltrezza può anche far male al Paese. Come, appunto, quel Masaniello che fu leader della rivolta di piazza a Napoli. E vittima.

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 29 novembre 2022.

Caro Merlo, è vero che Conte è sempre stato una finzione, maestro di quel linguaggio che lei definì "quasico", ma questa volta nega che fosse un condono la legge che si chiamava condono. Non è troppo anche per l'inventore dell'interlocuzione pretermessa? Avrebbe potuto dire che ha cambiato idea o, come nel caso dei decreti Salvini sulla sicurezza, scaricare la responsabilità sugli altri che votarono il condono insieme ai 5 Stelle.

Lega e Fratelli d'Italia. No, ha detto che il condono non era condono. Com' è possibile che a sinistra continui a crescere nei consensi? Loretta Dini - Lucca 

Risposta di Francesco Merlo

In soli 5 anni Conte ha servito tutti i padroni, dall'estrema destra sino al finto pacifismo putiniano. E ora è "il compagno". Più ancora che il Mélenchon italiano, si sente il nuovo Berlinguer, il leader naturale della sinistra.

Insomma, il professore con il curriculum quasi vero ha già dimostrato mille volte che la sua identità consiste nel non avere identità. E tuttavia cresce nei consensi forse perché, avendo in testa tutte le opinioni, di volta in volta esibisce quella "giusta", quella cioè che il suo interlocutore vuol sentire. Il fenomeno non è più Conte, ma quella parte di sinistra che è talmente sbandata da credergli. 

Solo quando il bugiardo si mette in sintonia con il credulone viene fuori il prodigio dell'imbonimento. Così Totò riusciva a vendere la Fontana di Trevi perché la offriva alle persone giuste. Certo, come Totò anche Conte è costretto a ricorrere a formule comiche (la famosa "quasità" appunto), che gli permettono di stare dove non sta e di non stare dove sta.

 L'interlocuzione pretermessa sembrava insuperabile ma, aumentando le dosi di "è vero anche il contrario", Conte è arrivato a negare se stesso. E, sull'abusivismo, "condono" è diventato "non perdono". È troppo? Speriamo che il Pd non compri la fontana.

Sinistra ipocrisia. Il vero scandalo è il condono di Conte (non quello fatto da lui, quello fatto su di lui). Francesco Cundari su L’Inkiesta il 29 Novembre 2022.

Nessuna ricostruzione del Pd sarà possibile finché dirigenti e intellettuali non si decideranno a lottare seriamente contro l’abusivismo politico di chi ha indebitamente occupato il campo progressista

Come dimostrano le sue ampollose argomentazioni per convincerci che il condono da lui varato non era un condono, che la politica dei porti chiusi e dei decreti sicurezza del suo governo non aveva niente a che fare con la politica dei porti chiusi e dei decreti rave del governo attuale, che si poteva benissimo esultare per la liberazione di Kherson da parte della resistenza ucraina un minuto dopo aver chiesto di interrompere la fornitura di armi alla resistenza ucraina, su Giuseppe Conte non c’è più niente da dimostrare.

Niente, perlomeno, che non fosse chiaro fin dal primissimo apparire sulla scena politica di un uomo capace di dirsi pubblicamente populista e sovranista nel 2018, ma cattolico-democratico e progressista nel 2019, in perfetta coincidenza con il variare delle maggioranze parlamentari dei suoi due governi, e tutto questo senza tradire il minimo imbarazzo, anzi, con la stessa nonchalance con cui oggi accusa Giorgia Meloni di avere fatto «un’opposizione di comodo» a un governo da lui sostenuto e di cui il Movimento 5 stelle faceva parte. C’è veramente poco da aggiungere alle sue parole, tanto più nel momento in cui il leader dei Cinquestelle, a proposito delle polemiche sul terremoto di Ischia, ha persino il coraggio di parlare di «sciacallaggio» contro di lui.

Questo sommario e assai carente riepilogo non serve ad altro che a ribadire un’ovvietà, e cioè che il condono di Conte è imperdonabile, ma non quello fatto da lui. Quello fatto su di lui.

Non c’è manifesto dei valori, carta dei principi, fase costituente che tenga, fino a quando nel Partito democratico non si avrà il coraggio di denunciare apertamente l’abusivismo politico del Movimento 5 stelle, fino a quando dirigenti e intellettuali non si decideranno a liberare la strada di una possibile sinistra di governo dalle pericolanti costruzioni grilline, che nessuna sanatoria e nessun super bonus potrà mai rendere abitabili per una politica autenticamente progressista.

Dai condoni al reddito di cittadinanza, dal superbonus alla battaglia contro i termovalorizzatori, l’esito effettivo di quelle politiche è stato il più grande incentivo alla corruzione, alla deresponsabilizzazione, al degrado urbano e ambientale, alla truffa, al lavoro nero e all’economia illegale che si sia mai visto da almeno trent’anni a questa parte (a tenersi bassi). Un esito tanto più intollerabile perché prodotto da chi nel frattempo avvelenava il dibattito pubblico con campagne giustizialiste e anti-istituzionali, con vere e proprie campagne di odio online e offline, da quella sul caso Bibbiano a quella sul crollo del ponte Morandi (a proposito di «sciacallaggio»).

Tutto questo non è riformabile, non è migliorabile, non è un problema tecnico di questa o quella norma. Una misura che si chiama «reddito di inclusione» è riformabile, una misura che si chiama «reddito di cittadinanza», che come tale è stata propagandata e imposta, no. E continuare a far finta di non vedere il gigantesco problema di lavoro sommerso, distorsione della concorrenza e degrado alimentati da quelle norme e da quella retorica, nascondendosi dietro le tante famiglie povere che ovviamente vanno sostenute, dietro le tante famiglie cui il bonus fa comodo e i tanti cantieri che così sono ripartiti, non significa solo compromettere il futuro dell’Italia e in particolare del sud, ma anche quello della sinistra.

Ed è ancora niente in confronto al significato politico e morale della campagna grillina per il ritiro del sostegno militare all’Ucraina. Un cedimento dei riformisti del Pd anche su questo terreno sarebbe davvero l’ultima e definitiva abiura di una storia certo piena di errori e contraddizioni, ma che era ancora e nonostante tutto una storia dotata di senso, che descriveva un’evoluzione, un percorso in cui le tradizioni della sinistra post-comunista e post-democristiana si incontravano con il socialismo democratico e trovavano infine nel Partito del socialismo europeo la loro naturale collocazione.

Nessuna regressione è più grave e irrimediabile del ritorno alla peggiore demagogia di un tempo, ma senza nemmeno le radici autenticamente popolari di allora, sostituendo la radicalità della lotta di classe con il peronismo casalinista di chi pretendeva di governare in diretta Facebook, ovviamente dalla sua pagina personale, persino nel pieno di una pandemia (sempre a proposito di «sciacallaggio»).

Se davvero i dirigenti del Partito democratico vogliono costruire qualcosa di nuovo, a sinistra, per prima cosa dovranno liberare il campo dai suoi occupanti abusivi.

Conte, altro che Robin Hood: col Superbonus 60 miliardi regalati ai più ricchi. Angela Azzaro su Il Riformista il 13 Novembre 2022

Quel gratuitamente, ripetuto in campagna elettorale da Giuseppe Conte come un mantra, è stato quantificato. Il Superbonus al 110%, modificato dal decreto Aiuti quater, è costato 60 miliardi di euro. E lo abbiamo pagato noi. Una cifra spropositata anche perché, come ha spiegato ieri il ministro del Mef, Giancarlo Giorgetti, questi soldi, che hanno creato un buco di 38 miliardi, sono andati ai più ricchi, cioè l’1,5% della popolazione. Nel decreto Aiuti 4 la misura viene portata al 90% e viene ancorata al reddito.

L’Associazione dei costruttori edili ha protestato perché – dicono – cambiando le regole in 15 giorni (data entro cui si possono espletare le pratiche con il bonus al 110) andrebbero penalizzati proprio i condomini meno ricchi che ci hanno messo più tempo a raggiungere l’obiettivo. Una cosa è certa: quel meccanismo non ha funzionato, è stato un boomerang dal punto di vista economico favorendo chi ha di più. Con effetti politici anche importanti: una campagna elettorale di Conte fondata su due misure: da una parte il Superbonus, dall’altra il reddito di cittadinanza. Misure che in realtà parlano un linguaggio opposto: da una parte un regalo ai ricchi, dall’altra una misura di welfare che andrebbe non tagliata ma migliorata. Il contrasto tra queste due norme la dice lunga sulla confusione politica di Conte e dei 5 stelle che tutto sono fuorché il futuro della sinistra.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografico

Dagospia il 7 novembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Per Selvaggia Lucarelli “qualcosa  non torna sul caso di Carlotta Rossignoli” e fa molto bene a indagare. Le suggerirei di metterci poi altrettanta meritoria acribia nell’indagare, però, come il suo già apprezzato (quando era a “il Fatto”) Giuseppe Conte passò tra il 1998 e il 2002 da Cultore della materia a Docente ordinario, una scalata in quattro anni mai riuscita ad alcuno.

Certo, stiamo parlando dell’Einstein del diritto, ma non si è mai visto che si passi da cultore a ricercatore (1998), da ricercatore a associato (2000), da associato a ordinario (2002) nei tempi minimi di legge (due anni ogni volta e da verificare nelle scadenze) e, più o meno, con le stesse pubblicazioni “scientifiche”! 

Qualcuno rileva che nel 2002 – nel mentre all’università Luigi Vanvitelli di Salerno si teneva il concorso che dà la carica di ordinario a Conte – Guido Alpa, presidente di commissione, condivideva con il suo pupillo Conte la stessa sede di lavoro in via Sardegna, a Roma. Qui c’è solo quel piccolo problema, che le università non concedono l’accesso agli atti dei concorsi…Un lettore

Quello che i grillini e Selvaggia Lucarelli non commentano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Novembre 2022.

Spiegate a Selvaggia Lucarelli ed ai suoi vecchi "amichetti" del Fatto Quotidiano, come si fanno le inchieste. Rocco Casalino, almeno ha una scusante: viene pagato per mentire !

Riceviamo da un lettore una segnalazione che volentieri pubblichiamo:

“Per Selvaggia Lucarelli “qualcosa  non torna sul caso di Carlotta Rossignoli” e fa molto bene a indagare. Le suggerirei di metterci poi altrettanta meritoria acribia nell’indagare, però, come il suo già apprezzato (quando era a “il Fatto Quotidiano”) Giuseppe Conte passò tra il 1998 e il 2002 da “Cultore della materia” a Docente ordinario, una scalata in quattro anni mai riuscita ad alcuno.

Certo, stiamo parlando dell’Einstein del diritto, ma non si è mai visto che si passi da cultore a ricercatore (1998), da ricercatore a associato (2000), da associato a ordinario (2002) nei tempi minimi di legge (due anni ogni volta e da verificare nelle scadenze) e, più o meno, con le stesse pubblicazioni “scientifiche”!

Qualcuno rileva che nel 2002 nel mentre all’università Luigi Vanvitelli di Salerno si teneva il concorso che dà la carica di ordinario a Conte , il professor Guido Alpa, presidente di commissione, condivideva con il suo pupillo “Giuseppi” Conte la stessa sede di lavoro in via Sardegna, a Roma. E qui c’è solo quel piccolo problema, che le università non concedono l’accesso agli atti dei concorsi…

Sul caso Conte-Alpa per fortuna avevano indagato giornalisti veri e seri come Maurizio Belpietro direttore del quotidiano La Verità, ed i servizi televisivi su Le Iene realizzati dagli inviati Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Belpietro lo ha inserito in un suo libro dato alle stampe, “Giuseppe Conte il trasformista”, nel quale racconta i presunti “scivoloni”, privati e politici, dell’ex premier che si auto-definiva “avvocato del popolo italiano”.    

A Maurizio Belpietro che lo intervistava per il suo libro, Conte, dopo avere ripetuto che in realtà il professor Guido Alpa non è stato il suo maestro, ribadiva un leitmotiv già più volte espresso a Le Iene: “Tra noi non c’è mai stata un’associazione né formale né neppure di fatto. Non ci dividevamo i proventi. Eravamo solo coinquilini”. Un concetto che ha ribadito più volte: “Non si è trattato di una collaborazione professionale”. Il presidente del M5S dopo avere ammesso di avere un po’ “infiocchettato” il suo curriculum vitae, è costretto a tornare sul concorso universitario di Caserta, con il quale nel 2002 fu nominato professore ordinario di diritto privato.

Maurizio Belpietro nel suo libro-intervista lo incalzava e gli faceva notare che proprio Guido Alpa, sentito sul suo ruolo di esaminatore al concorso, avrebbe affermato di “essere stato sorteggiato per quel ruolo“. Una dichiarazione però che il giornalista smentisce seccamente: “Le carte che abbiamo consultato smentiscono Alpa, in realtà venne eletto con un plebiscito: 54 voti”.

Conte contrattaccava: “Quanti voti servivano per diventare professore ordinario? Tre su cinque. E io quanti ne ho presi? Cinque. Dunque voi avete un concorso che nel 2002 ha designato ordinario questo fessacchiotto, oggi presidente del Consiglio. E Guido Alpa non era nemmeno a capo della Commissione…”. Una posizione sposata anche da Rocco Casalino, portavoce e capo ufficio stampa di Giuseppe Conte, che ha provato ad intervenire in sua difesa: “Anche senza il voto di Alpa, Conte avrebbe vinto comunque il concorso”.

Una vicenda che non sembra ancora volersi esaurire, quella del concorso universitario del 2002 a Caserta. Parliamo del concorso che aveva nominato Giuseppe Conte professore ordinario di diritto privato, subito dopo una causa civile nella quale lui e il suo esaminatore, Guido Alpa, hanno lavorato insieme. Ci siamo chiesti se il professore che l’ha giudicato e promosso al concorso era incompatibile, sulla base della loro collaborazione professionale con l’esaminato.

Le Iene avevano mostrato un documento esclusivo, che sembrava mettere in crisi la ricostruzione che Giuseppe Conte aveva dato suoi rapporti professionali con Guido Alpa, del fatto che avessero fatturato ognuno per proprio conto riguardo a quell’incarico ricevuto dal Garante per la Privacy, conferito insieme agli avvocati Conte e Alpa e che quindi quest’ultimo fosse per legge incompatibile nel suo ruolo di esaminatore al concorso.

E’ stato pubblicato anche il progetto di parcella per la causa civile del 2002 nella quale il premier Conte e il professor Alpa difesero il Garante per la Privacy. Un progetto su carta intestata a entrambi gli avvocati, con la richiesta di pagamento dell’intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente intestato ad Alpa di una filiale di Genova di Banca Intesa. Ed il tutto con la firma di entrambi.

I due giornalisti del programma “Le Iene” Antonino Monteleone e Marco Occhipinti si erano chiesti il motivo di mandare un’unica lettera ai due professionisti se, come ha sempre sostenuto Giuseppe Conte, “si trattava di due incarichi distinti e non c’era un’associazione né di diritto né di fatto e soprattutto se quell’incarico fu pagato con due fatture separate”.

Giuseppe Conte, nel corso di una tesissima conferenza stampa, aveva ribadito la sua posizione, rivolgendosi alla Iena: “Se lei si è procurato la lettera di conferimento dell’incarico e ha visto che l’incarico è stato conferito ad Alpa e a Conte… abbiamo sviscerato che un collegio difensivo può essere composto anche da venti avvocati nel civile… Se l’incarico mi è stato conferito dal Garante e io non mi faccio pagare come in questo caso perché ritengo di aver svolto attività difensiva non di rilievo, evidentemente non me la sono sentita di fatturare essendo il Garante un ente pubblico. Lei stesso si è fatto dire dal Garante che anche qualche altra volta, dove sono io solo nel collegio difensivo, non mi sono fatto pagare”.

Le Iene avevano proseguito nella loto inchiesta, mostrando in televisione i verbali di 5 udienze di quel processo al tribunale civile di Roma, da cui si evinceva che Conte partecipò quasi sempre, mentre Guido Alpa quelle 5 udienze le saltò tutte. È legittimo quindi pensare al “dominus” di studio (Alpa) che manda a udienza il suo “giovane allievo” (Conte) ? E’ stato pubblicato anche un altro documento, che con maggiore forza sembrerebbe smentire la versione di Conte sul pagamento delle sue spettanze nel primo grado di quel processo.

Si tratta della seconda parte del progetto di parcella firmato da Alpa e da Conte, in cui compare la lista delle prestazioni che i due professionisti indicano come svolte e che chiedono all’autorità di pagare su un unico conto corrente. Nella lista delle prestazioni da fatturare sono indicate le voci che riguardano sicuramente anche il lavoro svolto da chi ha partecipato alle udienze, quindi come detto, presumibilmente da Giuseppe Conte.

Nell’elenco compariva la partecipazione alle udienze dal valore di 416 euro, la precisazione conclusioni, stimata 103 euro, l’assistenza all’udienza conteggiata per 2.160 euro e la discussione in pubblica udienza valutata 1.392,50. Che in generale si tratti di prestazioni attribuibili anche da Giuseppe Conte sembra certificato dal fatto che c’è la sua firma sul progetto di parcella. Perché mai dunque, ci chiediamo, l’avvocato Conte avrebbe dovuto firmare un documento con l’elenco delle prestazioni fornite da un altro avvocato, se lui con quelle prestazioni non aveva niente a che fare ?

Per verificare il vero significato di queste carte, gli inviati delle Iene le hanno portate al vaglio di Corrado Ferriani, commercialista e docente di diritto penale dell’economia, che le aveva così commentate: “Si tratta di un classico progetto di parcella, un documento tipico dei professionisti che viene emesso nei confronti del cliente per chiarire alla fine di una prestazione l’attività svolta, i soggetti che l’hanno svolta ed evidentemente gli estremi per il pagamento della successiva fattura che sarà emessa nel momento del pagamento. È ovvio che chi emette un avviso di parcella, deve necessariamente aver svolto una prestazione, in questo caso evidentemente due soggetti. Questo documento sta dicendo all’autorità che i due professionisti che hanno emesso la nota proforma hanno svolto le prestazioni indicate nell’oggetto e nella fattispecie sono quelle chiaramente indicate per onorari e diritti complessivi per 21.920 euro”.

Le stesse carte vennero mostrate anche a un professore di diritto civile, Roberto Calvo, che spiegò le informazioni che aveva ricavato dalla loro lettura: “Ricavo l’informazione che è stato conferito un mandato da parte dell’autorità garante ai due professori, per una causa civile. Poi c’è un progetto di parcella firmato da entrambi. È un incarico congiuntivo, quindi un incarico conferito da due professionisti per un identico oggetto. Da lì arriva un rapporto contrattuale da cui può nascere un rapporto di debito e credito con il conferente quindi il garante con la pubblica amministrazione, parlo di debito nel senso che può anche nascere in astratto una responsabilità del professionista”.

Ed aggiunse: “I professionisti stanno dicendo al cliente che hanno operato congiuntamente e hanno agito come se fosse stato conferito un mandato congiuntivo alla difesa oggetto di questa vicenda. I professionisti in questione chiedono al cliente il pagamento di un incarico conferito collettivamente, come ho detto prima”. L’inviato Antonino Monteleone gli fece una domanda secca: “Se lei fosse il garante capirebbe da questo documento che Conte rinuncia ai compensi?”. La risposta fu altrettanto secca: “Evidentemente no”. Secondo il professor Calvo dunque dai documenti a firma Alpa-Conte non si evinceva alcuna rinuncia da parte di Conte affinché i suoi compensi non siano pagati, ma anzi sembrerebbe che l’indicazione sia di girarli direttamente sul conto indicato nel progetto di parcella.

“Quindi lei mi sta dicendo con questa lettera di incarico del garante che è di gennaio 2002, automaticamente il commissario Alpa diventa incompatibile al concorso di luglio?”, chiedeva ancora la Iena. “Io non voglio insegnare ad Alpa nulla, dico solo che a mio modo di vedere è sufficiente, come per altro dice la giurisprudenza amministrativa, che vi sia un rapporto professionale da cui nasca un rapporto da cui poi possono derivare rapporti, vicende di debito e credito verso il cliente, ma anche verso i singoli professionisti… In astratto eh, sia chiaro”.

Monteleone insistette: “Quindi quando Conte dice ‘io ho deciso di rinunciare ai miei compensi’, rinuncia a beneficio del garante o a beneficio dell’avvocato Alpa?”. “La seconda ipotesi”. La Iena chiese ancora: “Dire che l’avvocato giudicato abbia lavorato gratis per l’avvocato giudicante è un’affermazione fuori dalla realtà?” La risposta fu molto chiara: “È un’affermazione che quanto meno è smentita dai documenti che io vedo. Io naturalmente non posso giudicare i propositi, giudico i documenti e dai documenti risulta che entrambi hanno preteso, come legittimo e doveroso, perché parliamo di attimi legittimi e doverosi sia chiaro…”.

Un’ultima domanda: “Conte dice, più volte, mi ha detto Conte: ‘Lei è fuori di testa, lei è fuori di testa perché continua a insistere su una cosa che non esiste’. E la cosa che secondo Conte non esiste è che non è mai esistito conflitto tra lui esaminato a Caserta e Alpa membro della commissione che lo giudicava. Sono io fuori di testa professore?”. “Assolutamente no, il conflitto nasce nel momento in cui è stato conferito ad entrambi questo incarico, da cui nasce un rapporto professionale”.

L’inviato Monteleone tornò dal premier Giuseppe Conte, che ribadisce più volte che il concorso non è stato assolutamente viziato. “Lei, Monteleone, si può incaponire… ma non cambia il fatto come voi dovete dimostrare una cointeressenza economica nel 2002… Le confesso che ho chiesto al commercialista: ‘Trovami la fattura del 2002 del primo grado’. Questa sua teoria significherebbe che si creerebbero incompatibilità in tutto il mondo legale perché nei collegi difensivi spesso ci si ritrova più avvocati. Il fatto di essere in collegio difensivo con un altro avvocato se abbiamo un mandato dallo stesso cliente non crea un’incompatibilità, uno. Lei ritiene di accreditare ai telespettatori, secondo lei, che io nel 2002 ho avuto un vantaggio indebito da Alpa che era ininfluente, perché bastavano tre commissari e invece è stata l’unanimità su cinque. Quindi vincerebbe qualsiasi prova di resistenza davanti ai giudici, vorrebbe accreditare il fatto che avrei aspettato il 2009 per sdebitarmi nei confronti di Alpa, ma questa è follia”.

E aggiungeva: “Diciamo che io ho avuto rispetto nei confronti del Garante perché potevo fatturare per mio conto. Nel secondo grado, nel terzo grado, le sue indagini hanno dimostrato che io ho fatturato… e quindi ho fatto la fattura separata e Alpa ha fatto… In primo grado essendo stato il mio apporto difensivo marginale ho inteso, per rispetto di un ente pubblico, all’epoca c’era Rodotà vorrei ricordare… lei non vuole chiarire ai telespettatori… non vuole che io risponda: posso? Le ho spiegato questo, credo, che migliaia di avvocati che ha sentito le avranno spiegato che nel processo civile la magna pars, gran parte dell’attività difensiva è scritta, le memorie scritte, studiare la controversia, studiare, questa è una causa molto delicata”. Monteleone gli chiede ancora: “Ma se era molto delicata perché ha dato un apporto marginale..”, e Conte: “Mi fa finire? È terribile, ascolti Monteleone, mi faccia finire, poi giudicherà il popolo…”. (Cliccate qui per vedere l”intervista integrale di Antonino Monteleone a Giuseppe Conte)

Antonino Monteleone e Marco Occhipinti a quel punto decisero di sentire proprio Raffaele Cantone, all’epoca presidente dell’ Anac, per cercare di fare chiarezza una volta per tutte. Monteleone chiese: “La chiamavo perché sto cercando di capire se l’autorità quando ai tempi in cui lei era presidente fu formalmente incaricata di esprimere un parere sulla questione del concorso dell’avvocato Conte prima di diventare Presidente del Consiglio”. Raffaele Cantone rispose così: “Sì, ci fu un esposto, mi pare di un’associazione di consumatori. Noi facemmo un intervento di carattere procedurale, dicemmo che in realtà si trattava di una vicenda non recente per i quali il nostro intervento di qualunque tipo sarebbe stato irrilevante visto che nei confronti di quel concorso nessun atto amministrativo poteva essere fatto”.

Sembra quindi più che evidente, almeno sulla base delle parole di Cantone e al documento esclusivo che le Iene mandarono in onda, che Giuseppe Conte non avrebbe detto il vero quando ha affermato che l’Anac si era pronunciata “escludendo la comunanza di interessi economici”. Monteleone proseguì: “Lei fece anche un’intervista a Radio Capital nell’ottobre del 2018, nella quale disse ‘effettivamente è plausibile la spiegazione del presidente Conte, se è vero come lui sostiene che hanno, emesso fatture separate per l’incarico del 2002’”.

“Io avevo detto semplicemente che mi sembrava plausibile la spiegazione che aveva dato”, aggiunge Cantone. Montaleone lo incalzava: “L’unica cosa che volevo capire è se due professionisti che usano una carta intestata comune che firmano entrambi un progetto di parcella possono definirsi due professionisti che svolgono incarichi distinti e separati”. La risposta di Raffaele Cantone fu assolutamente inequivocabile: “Certamente i fatti emersi sono diversi da quelli che erano stati rappresentati all’epoca, però io non me la sento di esprimere un giudizio. L’unica cosa che mi sento di dirle è che ovviamente rispetto alla situazioni che io vissi all’epoca le cose sono cambiate, quindi all’epoca lui aveva dato una giustificazione. Oggi le cose sono cambiate”.

Spiegate a Selvaggia Lucarelli ed ai suoi vecchi “amichetti” del Fatto Quotidiano, come si fanno le inchieste. Rocco Casalino, almeno ha una scusante: viene pagato per mentire ! Redazione CdG 1947

Niccolò Carratelli per “La Stampa” l’8 novembre 2022.

Ci ha messo diversi giorni, Giuseppe Conte. Giorni di silenzio assoluto, mentre a centinaia di migranti, soccorsi nel Mediterraneo, veniva impedito di approdare in Sicilia. Non una parola nemmeno di fronte allo sbarco selettivo andato in scena nel porto di Catania, né davanti alla definizione di «carico residuale» per le persone costrette a restare a bordo. 

L'assenza di reazioni da parte di esponenti del Movimento 5 stelle non è passata inosservata, sui social in molti hanno preso di mira il presidente, che alla fine è intervenuto con un lungo post su Facebook. Per dire che «il tema dei flussi migratori è complesso e va affrontato con politiche di ampio respiro, senza facili slogan o esibizioni muscolari a danno di persone e famiglie disperate». 

Giusto, ma stava ancora finendo di scrivere, che già in dieci si erano affrettati a rinfacciargli la stagione dei decreti sicurezza, firmati da presidente del Consiglio, e dei porti chiusi all'epoca del governo gialloverde, senza che lui riuscisse a opporsi a Matteo Salvini. Una macchia che l'ex premier non può cancellare, il suo principale tallone d'Achille nel tentare di accreditarsi come nuovo leader della sinistra. Qualunque cosa dica, rischia di suonare stonata.

«Il diritto di ogni Stato sovrano a controllare i propri confini non giustifica la violazione delle molteplici norme di diritto internazionale che tutelano la dignità di ogni essere umano - avverte ancora su Facebook -. Trattenere in mare per alcuni giorni in più donne, uomini e minori, comunque destinati a sbarcare, non risolve il problema: evitiamo iniziative di pura propaganda».

Scatta il riflesso pavloviano: e la Open Arms? E la Diciotti? E la Gregoretti? Il vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano, che al porto di Catania è andato di persona, ha l'occasione per affondare il colpo: «Mi hanno colpito il silenzio e l'attesa di Conte nell'esprimere un'opinione su una vicenda che riguarda i valori e i principi fondamentali di una forza progressista - dice -. Il Pd è stato lì dal primo momento, bisogna essere coerenti quando ci si dichiara progressisti».

Quando Conte (da premier) vendeva al Cairo armi e navi da guerra: sui casi Regeni e Zaki il silenzio del leader M5S. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Il record dell’ex capo del governo, che incrementò al massimo i fondi per la Difesa e ora scende in piazza con i pacifisti. Mentre dal Pd criticano Meloni per l’incontro con Al Sisi, ma al governo appoggiarono le scelte di Conte

Il colloquio tra la premier italiana e il presidente egiziano è stato criticato da quasi tutte le forze di opposizione, che hanno contestato a Meloni una forma di appeasement con Al Sisi nonostante pesino nei rapporti tra i due Paesi l’omicidio Regeni e il caso Zaki. L’altro ieri il leader di Sinistra italiana Fratoianni e il portavoce di Europa Verde Bonelli hanno additato «l’indecente incontro» di Sharm el Sheik. E ieri il Pd ha attaccato con alcuni suoi dirigenti l’inquilina di Palazzo Chigi: la capogruppo del Senato Malpezzi, l’ex presidente della Camera Boldrini, il coordinatore dei sindaci Ricci e l’europarlamentare Moretti le hanno chiesto polemicamente «che fine ha fatto la dignità della nazione» e l’hanno accusata di aver «barattato i diritti umani con la ragion di Stato». La tesi comune è che, in nome degli approvvigionamenti energetici e delle commesse militari, sia stata archiviata la drammatica fine del giovane ricercatore italiano.

Il punto è che quella vicenda era stata di fatto messa tra parentesi già dai governi Conte. Il primo — alleato della Lega — aveva deciso di vendere armamenti per quattro miliardi di euro ad Al Sisi. Il secondo — alleato del Pd — aveva completato il passaggio all’Egitto di due delle sei fregate Fremm, che facevano parte di una commessa in cui erano compresi 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter, 20 velivoli di addestramento e un satellite. Non è un caso quindi se nella girandola di dichiarazioni contro Meloni sia mancata la voce del leader grillino, che oggi veste i panni del pacifista e avvisa la premier di non «azzardarsi» a inviare altre armi a Kiev «senza passare dal Parlamento». Ma che due anni fa venne contestato dalle organizzazioni pacifiste per aver ceduto le navi da guerra all’Egitto «con una decisione che non è mai stata sottoposta all’esame del Parlamento».

Il Pd avrebbe dovuto rammentare la compartecipazione alla scelta, se è vero che in Consiglio dei ministri nessuno dei suoi rappresentanti mosse obiezione. Dunque è un po’ contraddittorio il ricordo di Malpezzi, secondo la quale «i nostri governi si erano battuti per ottenere trasparenza e chiarezza» sui casi Regeni e Zaki. E cadde nel vuoto l’appello attuale di Boldrini di «fermare il commercio di armi» con il Cairo. Forse perché a quei tempi — per usare le parole odierne di Moretti — «gli interessi commerciali» pesarono «più del rispetto dei diritti umani». E chissà se anche allora a Ricci fece «male vedere un esecutivo freddo» come quello retto da Meloni.

Prudentemente Conte e i dirigenti del Movimento non hanno preso parte alla polemica sul vertice di Sharm el Sheik. Hanno preferito sfilare alla marcia per la pace, magari anche per sbianchettare il passato dell’ex premier, che ai tempi del gabinetto giallorosso decise — dopo le sollecitazioni di Trump — il maggior incremento di investimenti della storia repubblicana nel settore della Difesa. Se così stanno le cose, non si capisce come mai il dem Bettini — che di Conte è un sostenitore — nell’intervista di ieri al Corriere abbia detto: «Bisogna ridefinire la nostra identità. Dobbiamo stare con l’elmetto della Nato?». Una stilettata, non si sa quanto involontaria, contro la linea di Letta (e Guerini) coerentemente filo-atlantica e a sostegno di Kiev.

Insomma della tragica sorte di Regeni e delle vicissitudini giudiziarie di Zaki non c’è finora traccia tra le dichiarazioni dei grillini. Eppure da presidente della Camera Fico aveva addirittura sospeso le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano, in segno di protesta verso il regime del Cairo. Era il novembre 2018. «Su Regeni saremo inflessibili fino alla verità», commentò Conte. Che un anno e mezzo dopo annunciò in Consiglio dei ministri la vendita delle fregate Fremm ad Al Sisi. «La vendita non è stata ancora autorizzata», ribattè per tamponare le polemiche. Poi firmò però la fattura. In fondo, piazzare navi da guerra in giro per il mondo è una propensione che lo accomuna ad alcuni suoi amici di sinistra, diciamo.

Il genio del cv taroccato. Conte e quello slogan della dittatura militare attribuito a Jorge Amado. Michele Prospero su Il Riformista il 6 Novembre 2022

Anche quando fa cose giuste, da ultimo il sostegno a Lula presidente, Conte ci mette quel tocco in più di creatività e finisce per combinare sempre una delle sue classiche frittate. È in atto una guerra piena di effetti speciali per conquistare l’egemonia. A chi la guida dell’opposizione, al Pd o al M5S? Non ha esitazioni Salvatore Cannavò, già deputato di Rifondazione Comunista e ora firma del giornale di Travaglio, un foglio politicamente vicino al movimento di Grillo e però sul piano culturale avente un’affinità sin troppo chiara con i temi caldi della destra radicale di Meloni, ribadita da ultimo dalla condivisa sensibilità sul mantenimento dell’ergastolo ostativo e dal giubilo per l’abbandono ideologico del paradigma scientista a supporto dell’obbligo vaccinale.

Prendendo spunto dal voto brasiliano di domenica scorsa, il giornalista elogia “Giuseppe Conte che è stato lesto ancora una volta a posizionare il Movimento 5 Stelle”. Suggestiva è tutta la narrazione dell’evento. Rispetto a Conte, scattante come una lepre, il Fatto rimarca che il Pd come una tartaruga non ha, per l’ennesima volta, esibito “altrettanta agilità e guarda distratto a quanto avviene al di là dell’atlantico”. Impressionato della velocità supersonica ormai raggiunta in ogni prestazione politica dall’avvocato-presidente, Cannavò riproduce per intero un suo tweet, che l’ex parlamentare deve trovare avvincente: “ ‘Il Brasile, amalo o lascialo’. Le parole del grande Jorge Amado alla vigilia del voto brasiliano, ci ricordano che la sfida di Lula per rilanciare equità, giustizia sociale e ambientalismo parla ai progressisti di tutto il mondo. Boa sorte! #Lulapresidente”.

Che Conte si schieri con la sinistra brasiliana non può che rallegrare. Appena qualche mese fa non disse mezza parola per il ballottaggio francese con l’Eliseo in palio tra Macron e Le Pen. E in precedenza aveva pure osannato la grande amicizia con Bolsonaro, culminata nell’esibizione esilarante dei suoi ministri Bonafede e Salvini in divisa a Ciampino per accogliere Battisti, con tanto di pubblicazione di un video-show musicale. Ora però che è iniziata la sua quarta vita, quella di capo progressista dell’opposizione, il leader del M5S deve mettere il cappello ovunque si accenni a qualcosa di sinistra o, come preferisce dire lui per evitare l’impegnativa parola, “progressista”.

Che Conte scomodi la figura di Amado per attribuirgli la paternità di uno slogan politico in realtà maledetto (creato proprio dalle milizie fasciste contro i rossi sovversivi e antipatriottici) ci può anche stare. Non appartiene ad una certa storia politica. Stupisce invece il fatto che Cannavò non trovi strana la genesi di una frase ambigua, e sul piano storico ispiratrice di una feroce repressione per le personalità con gli stessi ideali di Amado, un suo illustre “collega”, visto che anche il grande scrittore brasiliano è stato parlamentare comunista e per decenni militante del partito.

L’infausto slogan “Brasil, ame-o ou deixe-o”, che il duo infelicemente attribuisce al grande esule Jorge Amado, ha in realtà visto la luce proprio durante gli anni spietati della destra reazionaria brasiliana insediatasi con la violenza al governo. La frase divenne infatti una ideologia ufficiale del regime durante la cupa dittatura militare del generale Emílio Garrastazu Medici, che la copiò letteralmente da un manifesto anch’esso conservatore, dell’establishment americano, lanciato nel clima di piena ostilità contro i movimenti pacifisti sorti ai tempi del Vietnam: “USA, love or leave it”.

Un recente romanzo di Henrique Schneider (1970: La tragedia dei desaparecidos brasiliani durante la finale della Coppa del mondo, Hellnation book, 2022) aiuta a ricostruire la genesi e il significato politico terribile dello slogan che con Amado (una vittima dell’accanimento dei patrioti che amano il Brasile e allontanano i rossi che non lo adorano) c’entra ben poco. Un brano del libro rende bene il senso storico-politico della questione: “Allora perché non tifi? Lo sguardo del carceriere trasmetteva un obbligo. Raul si ricordò degli adesivi che aveva visto su alcune macchine, che aveva sempre trovato abbastanza privi di senso. Ma cosa rispondere all’uomo accanto a lui, che attendeva la risposta con uno sguardo simile a quelli che gli aveva lanciato durante le sessioni di tortura?”.

Raul era un mite impiegato di banca, al quale nella vita quotidiana piaceva solo il calcio, non si occupava di politica. Ma questo stile apatico non gli bastò per sfuggire alle grinfie del regime insediatosi con il golpe del 1964 e ossessionato dal rosso tanto da vedere i comunisti ovunque. Poco prima della attesa finale di Messico ’70, anche il placido Raul venne sbattuto in cella e a lungo seviziato perché appunto scambiato per un pericoloso comunista. Ecco, la dittatura del truce generale Medici aveva orchestrato una ossessiva campagna mediatica e propagandistica, con adesivi appiccicati su tutte le macchine, sopra i quali ben campeggiava la scritta incriminata: “Brasile, amalo o lascialo”. Il significato ideologico del motto è del tutto trasparente: chi sta con il regime militare rimanga in Brasile; chi invece si oppone lo abbandoni. Sottinteso: vivo o morto.

Ha un che di immorale, e per questo crea un immenso disagio, attribuire ad Amado, l’internazionalista fuggiasco, lo slogan nazionalista e repressivo dell’ “amalo o lascialo” (in prosa: “Chi non vive per servire il Brasile, non è idoneo a vivere in Brasile”). Il duo Cannavò-Conte, con le parole apocrife dello scrittore rosso, augura a Lula di vincere, ma si serve di uno slogan sanguinolento e nero che proprio il presidente ex militare suo avversario ha recuperato a fini repressivi 50 anni dopo. Incredibile, sarebbe stato come dare la solidarietà di Maduro alla sinistra contro Meloni con la formula augurale: “Vincere e vinceremo”. Il motto propagandistico-pubblicitario lanciato nel 1970, con la spesa di milioni di cruzeiros, fu poi raccolto nel 2018 e ampiamente riciclato nella Tv spazzatura del regime di Bolsonaro.

In uno dei programmi, la voce ufficiale dell’emittente, l’annunciatore Carlos Roberto, scandisce: “Brasil, ame-o ou deixe-o”. Tutto bene quel che finisce bene. I due, con l’augurio di vittoria rivolto a Lula accompagnato però dalle immagini di morte care al suo nemico neo-fascista, che l’avrebbe volentieri accompagnato all’abbandono, non hanno influito in negativo sul voto. Però a Conte si può raccomandare meno irruenza nella premeditata sostituzione del santino di Padre Pio con altre icone rosse che non conosce bene. E poi ha già troppi selfie imbarazzanti in giro e difficili da far dimenticare.

A Cannavò, che è agli inizi di un percorso di ricerca e quindi presta cieca fiducia ad un “lesto” docente ordinario, come consiglio benevolo si può prescrivere la lettura di alcune pagine (stupende) di Locke e di Kant. In particolare, quelle sulla necessità di non fidarsi di nessuna fonte, di controllare ogni informazione, di criticare ogni cosa e di vagliare qualsiasi argomento facendo funzionare sempre la propria testa. Insomma, un po’ di sano illuminismo: Sapere aude! Michele Prospero

Uno, nessuno e Giuseppi. Le mille maschere di Conte, che oggi vuole fare il Mélenchon italiano. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta l'1 Novembre 2022.

Il leader dei Cinquestelle non è un politico, ma un attore nei panni di un personaggio politico. E con inaspettata professionalità è in grado di interpretare ruoli anche molto diversi tra loro

C’è aria di sorpasso a sinistra. I sondaggi attribuiscono al Movimento 5 Stelle qualche decimale in più rispetto al Partito democratico.

Qualcuno potrebbe dire che nel 2018 il divario era ben più ampio di quanto si teme oggi. Ma occorrerebbe tener conto di una novità importante: nel 2018 i pentastellati erano un movimento qualunquista e manettaro, impastato di antipolitica aperto pertanto da tutti i lati; oggi sono un partito che si colloca (bene o male) alla sinistra del Partito democratico e che può vantare una dimensione politica ed elettorale senza precedenti in quel ruolo.

Nella storia del dopoguerra alla sinistra del partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (come si scandiva una volta) e dei suoi malconci eredi, c’è sempre stato posto soltanto per modesti cascami della nostalgia, del folklore o delle mode. Peraltro l’indisponibilità di Giuseppe Conte a rappattumare i cocci di un’alleanza invero mai nata con i dem favorisce il loro logoramento, che, per quanto possano divenire spregiudicati alla ricerca del consenso, non potrebbero mai perdere del tutto la faccia nel fare concorrenza a Conte sul mercato della demagogia, anche in un contesto di opposizione.

Val la pena di porsi una domanda: esiste un caso Conte? Come è possibile che un avvocato venuto dal nulla in pochi anni sia stato in grado di fare tanta strada senza aver stipulato (a quanto si sa) nessun patto con il Maligno alla stregua del dottor Faust?

Riavvolgiamo la moviola. Conte diventa presidente del Consiglio nel ruolo di passacarte dei suoi vice. Frequentando Bruxelles deve telefonare ai suoi boss prima di ogni decisione; poi pian piano riesce a convincere i partner che lui è il meno peggiore di quella combriccola e loro fanno di necessità virtù consentendogli una possibilità di dialogo, approfittando della quale Conte riesce a mediare e a imporre la mediazione (nella legge di bilancio 2019) ai suoi giannizzeri. Oltre a farsi conoscere in giro per il mondo, da Angela Merkel a Donald Trump.

Quando poi Salvini va alla conquista dei pieni poteri, con un magistrale intervento al Senato gli toglie la sedia da sotto, e lo lascia fuori del governo al freddo e a battere i denti. Poi, come se dovesse cambiare dama in un altro giro di valzer, si propone per una nuova maggioranza e un nuovo governo, di segno opposto.

E si fa apprezzare a tal punto che quando un discolo come Matteo Renzi ne provoca la caduta, il Pd fa di tutto per rimetterlo in sella con un terzo mandato, fino a mettersi a spigolare tra i parlamentari senza collare un possibile plotone di ascari responsabili. All’ombra del governo Draghi Conte inizia la prise du pouvoir dentro il partito, mentre temporeggia di fronte alla proposta del campo largo di Enrico Letta.

Si libera di Luigi Di Maio, di Roberto Fico e di tanti altri soci fondatori; evita il possibile ritorno di Dibba e assume con regolare stipendio il garante Beppe Grillo. Poi diventa l’autore del regicidio (di Mario Draghi) tirandosi dietro mezzo Parlamento. Ci fermiamo qui.

Assistendo da lontano a queste performance, mi sono convinto (nessuno lo ha capito) che Conte non è un politico, ma un attore che interpreta un personaggio politico. E con inaspettata professionalità è in grado di attenersi al soggetto, al copione, anche se viene chiamato ad interpretare personaggi in contesti diversi. In un film può svolger il ruolo dell’antagonista di un personaggio che ha interpretato in un film precedente.

Si spiega così come Giuseppi si senta libero di criticare le politiche attuate dai governi da lui presieduti e di quelli (cioè tutti) di cui il Movimento 5 Stelle ha fatto parte. Ora sta interpretando – dismessa la pochette e rimboccatosi le maniche della camicia – la parte del Jean-Luc Mélenchon italiano. Peccato che quello vero non vi si riconosca. Ma è il leader non sottomesso d’Oltralpe a prendere un abbaglio. Soprattutto quando ha perso il suo tempo, e il costo del biglietto, per incoronare, durante la campagna elettorale, Luigi de Magistris come suo rappresentante in Italia.

Il taglio delle tasse. Conte gioisce degli errori di Liz Truss, ma lui i soldi ai ricchi li ha regalati. Angela Azzaro su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Da vincitore a perdente. È passata poco più di una settimana e qualcuno inizia a dirlo: Conte non ha vinto le elezioni. Ha invece perso oltre 6 milioni di voti, dimezzando il tesoretto che aveva ereditato dal 2018. Ma nonostante la debacle è riuscito a far passare il messaggio contrario: forza della persuasione e di quel “gratuitamente” ripetuto in tutte le salse durante la campagna elettorale. Domenica lo ha scritto benissimo anche Aldo Grasso sul Corriere della sera.

Il polemista semiologo gliene ha cantate quattro sottolineando l’altro fattore assurdo che da una settimana imperversa su giornali e tv: colui che ha perso, cioè Conte, dice a Letta, che ha perso molto ma molto meno di lui, che cosa dovrebbe fare. Che poi a ben guardare la colpa non è solo di Conte e di chi gli cura la comunicazione – loro giustamente fanno i loro interessi! – ma anche di chi gli dà retta, soprattutto tra quei dirigenti Pd che auspicano la nascita di una Cosa rossa con alla guida l’ex premier che esibiva orgoglioso i cartelli pro decreti sicurezza. Conte ha anche gioito per la retromarcia di Liz Truss. Si tratta di un passo indietro parziale rispetto alla ricetta folle di voler tagliare le tasse ai più ricchi. Anche in questo caso le contraddizioni sono evidenti.

Il leader dei Cinque stelle ha capito che il vero spazio si è aperto a sinistra, ma lui i soldi ai ricchi non li ha mai toccati, anzi si è sempre ben guardato dal nominare qualcosa che anche vagamente assomigliasse alla parola “patrimoniale”. Quando si è trattato di aver a che fare con i ricchi i soldi li ha dati. Che altro è infatti la misura dell’ecobonus che ha tolto a chi ha meno (tramite le tasse) e ha dato in maniera indiscriminata? Si dice che così avrebbe rilanciato il settore dell’edilizia, ma basta parlare con chi lavora nel settore per capire che l’effetto è l’opposto. Solo un politico in questi mesi ha provato a dire che bisogna tassare di più i ricchi. È stato Enrico Letta.

In realtà il segretario del Pd aveva proposto di alzare le imposte sulle eredità plurimilionarie per creare una dote per i diciottenni. Una misura che avrebbe aiutato chi ha di meno e si deve costruire un futuro. È stato accusato di aver fatto una proposta folle e di essere troppo di sinistra. Poi è stato accusato di non essere abbastanza di sinistra, dimenticando quello che era stato detto poco prima. O è vera l’una o è vera l’altra accusa. Ma in questa campagna elettorale prolungata, che non è finita neanche per qualche minuto quando le urne erano appena state chiuse, si può dire tutto e il contrario di tutto senza tema di essere smentiti.

Quella parte di sinistra che vuole abdicare al proprio ruolo e affidare le proprie sorti nelle mani dell’avvocato del popolo ci dica perché la proposta di Letta non andava bene e quella di Conte sull’ecobonus invece sarebbe una proposta di sinistra. Sì, è vero, il reddito di cittadinanza è una misura importante ed è stato un errore far sì che i 5 stelle fossero gli unici a rivendicarla. Ma la redistribuzione della ricchezza è una cosa seria e come dimostra il caso di Liz Truss quando si promettono soldi a destra e a manca c’è sempre qualcuno che paga: e sono coloro che hanno di meno. Ma a forza di promettere cose impossibili, folli direbbe il presidente di Confindustria Bonomi, i politici perdono la faccia e anche il posto.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Francesco Merlo per la Repubblica il 23 settembre 2022.

Titolare di un metodo che ormai sfida Andreotti, Giuseppe Conte ha consegnato ai libri di storia il nuovo trasformismo italiano, quello del "quasi", che gli permise, per esempio, di essere un capo di governo quasi filoamericano e quasi filocinese e ora gli permette di schierarsi quasi con l'Ucraina e quasi contro l'Ucraina. 

È la stessa quasità del progetto mini Tav, una quasi Tav che i no Tav non avrebbero potuto più contestare, la stessa del "lockdown parziale", è il quasi inglese Submerged Floating Tube Bridge, un quasi ponte di Messina sottomarino, invisibile e poco ingombrante. Lo so, fa ridere come la donna un poco incinta di Maupassant e il Ringo di Celentano che "respirava come un morto".

E, invece, immaginate seriamente la quasità, sia come una scienza politica, che a sinistra socchiude la porta alla destra e a destra la socchiude alla sinistra, e sia come l'antropologia del descamisado con la camicia, che a Genova intona Bella ciao ma sui soffiati, e a Napoli dice "non tengono scuorno" con l'aria impertinente del quasi straniero in piazza. La quasità di Conte è una parabola di successo proprio perché sin dall'esordio nessuno prendeva sul serio, tra il vaffa di Grillo, la rottamazione di Renzi e i pieni poteri di Salvini, un quasi leader, vice dei suoi vice, un premier "nel frattempo". E i giornali americani scoprirono che anche come professore era un quasi perché il curriculum era quasi vero.

Cinque anni dopo, persino il linguaggio - "l'interlocuzione", "pretermessi", "salvo intese" - è quasico. E Conte è diventato (per ora) il quasi Lula italiano, ma con la giacca di sartoria sulla spalla, la cera nera sui capelli e la clamorosa assenza della pochette, un vuoto che stropiccia verso sinistra l'aria conversativa e indulgente del trasformista che non ha più bisogno di voltare la gabbana per esclamare "nessuno ci dica che Putin non vuole la pace": gli basta convocare il gemello di stesso e aggiungere: "chi mi definisce filoputiniano mi diffama". 

Vuoi vedere che Conte è il quasi genio che ha trovato la soluzione al dubbio di Amleto? Il terzo corno tra essere e non essere è il quasi.

Giulia Cerasoli per “Chi” il 7 settembre 2022.

«Ripensando a quei lunghi mesi in cui da premier ho affrontato i momenti più gravi della pandemia, ammetto di avere passato tante notti senza dormire. Il peso della responsabilità era enorme. C’erano vite da salvare, bisognava fare scelte coraggiose che necessitavano di una lucidità senza precedenti. La mia calma durante i quotidiani appuntamenti in cui parlavo ai cittadini dalla televisione? Frutto del mio temperamento e della consapevolezza che non avrei potuto permettermi nessuna distrazione, né alcun tentennamento». 

Giuseppe Conte è a San Giovanni Rotondo, il paese della Puglia dove ha trascorso gli anni dell’adolescenza e da dove è partito per studiare nella Capitale. Da leader dei Cinquestelle ci torna per una campagna elettorale che lo vede molto combattivo, in crescita nei sondaggi dopo il crollo dei mesi scorsi. Ed è qui che, con il cuore in mano, racconta la sua strana storia di avvocato e docente che all’improvviso un giorno si è ritrovato premier, proprio nei due anni più difficili del nostro Paese.

Domanda. Lei è l’unico dei leader in corsa che non è mai stato ministro, che non ha mai fatto politica, ma che una mattina di inizio estate del 2018 è sparito dalla spiaggia dove si trovava durante un week end con la sua compagna perché chiamato dal presidente Mattarella a fare il presidente del Consiglio.

Risposta. «Non mi aspettavo affatto di diventare premier e nemmeno presidente del Movimento. Entrambi i ruoli li ho assunti per spirito di servizio e nella prospettiva di fare il bene del Paese e di contribuire ad un processo riformatore di cui l’Italia ha urgente bisogno». 

D. Alcuni la considerano un miracolato in politica, essendo stato catapultato a Palazzo Chigi senza alcuna gavetta. Ma comunque faceva parte della lobby degli avvocati e dei docenti universitari: non è certo uno “fuori dal sistema”...

R. «Fin da ragazzo ho lavorato duramente per costruirmi un futuro. Ero uno studente fuorisede, un po’ sradicato, come tutti. Ho studiato notte e giorno per fare l’avvocato, per scalare la carriera universitaria fino a diventare professore e per migliorarmi sul piano professionale. 

Ho fatto tante rinunce per costruire la mia strada, nessuno mi ha regalato nulla. Per questo capisco le difficoltà dei ragazzi: il precariato e i lavori sottopagati purtroppo in Italia sono ancora una realtà. Uno dei punti più importanti del nostro programma riguarda i giovani e ci batteremo affinché ricevano finalmente offerte di lavoro adeguate». 

D. È padre di un ragazzo e ha una compagna affascinante e riservata, Olivia Paladino, figlia di un’attrice celebre negli Anni 70, Ewa Aulin, e del proprietario del magnifico Hotel Plaza di Roma. È con loro che trascorre il tempo libero?

R. «Mio figlio Niccolò e la mia compagna sono le mie priorità al di fuori dagli impegni pressanti di questo periodo». 

D. Che padre è per Niccolò?

R. «Vorrei avere sicuramente più tempo per stare assieme a lui, per fare le cose che ci piacciono, come una partita a calcio o a tennis. È Niccolò che dovrebbe dire se sono un buon padre o meno. Io posso dire che lui è uno splendido figlio che, nonostante la sua giovane età, mostra grande maturità e rispetto verso la mia dimensione pubblica. Abbiamo grande complicità, parliamo molto, anche se spero di essergli d’esempio non per le parole, ma per i comportamenti». 

D. Con Olivia quest’estate avete passato qualche week end a Punta Rossa al Circeo. La sua compagna ha una figlia della stessa età di Niccolò. Che rapporto è il vostro?

R. « I nostri rispettivi figli hanno un’amicizia fortissima, nata tra i banchi di scuola. Quanto a Olivia, è una persona speciale, ha il suo lavoro che la impegna e l’appassiona, ma riesce sempre a farmi sentire la sua premurosa vicinanza. Vorremmo trascorrere più tempo insieme, ma purtroppo i nostri impegni non sempre ce lo consentono. Siamo però consapevoli di aver costruito su questa nostra storia d’amore un legame solido e duraturo». 

D. È cresciuto a San Giovanni Rotondo: è devoto a padre Pio?

R. «Tutta la mia famiglia è legata alla figura di padre Pio, che ha accompagnato la mia spiritualità negli anni dell’adolescenza». 

D. L’abbiamo vista con alcune bottiglie di plastica in mano su Instagram: così cattura i giovani?

R. «Una delle nostre priorità assolute è la tutela ambientale, la preservazione della biodiversità. Insieme con la lotta contro tutte le diseguaglianze che si sono accentuate negli anni della pandemia e che sono destinate a crescere con il caro energia».

D. Non si sente in colpa per avere licenziato Mario Draghi in un momento simile, con una crisi energetica senza precedenti?

R. «Al contrario. Erano sei mesi che chiedevamo al governo di assumere misure straordinarie per prevenire le difficoltà di imprese e cittadini a causa della crisi energetica che incombeva. 

Avevamo ragione a pungolare l’esecutivo, ma le soluzioni che noi avevamo fornito con anticipo non sono state recepite. In 18 mesi di governo abbiamo sacrificato tante nostre priorità. C’è un limite, però: la tutela degli interessi della popolazione. Contro l’esplosione dei prezzi non bastano i pannicelli caldi». 

D. Da premier ha avuto un’esperienza davvero irripetibile durante il lockdown: con poche parole all’ora di cena era in grado di chiudere in casa gli italiani, eliminando ogni libertà personale. Tutto ciò quanto l’ha segnata?

R. «È stata un’esperienza che mi ha fortemente coinvolto anche emotivamente e ha influito profondamente sulla mia vita. Da lì è nata la convinzione a proseguire, accettando di guidare il Movimento».

D. Il momento più duro della pandemia?

R. «Prima dell’estate, con il varo dei provvedimenti urgenti per evitare la recessione. Forse ci siamo dimenticati che durante il lockdown abbiamo deciso il blocco dei licenziamenti e 5 variazioni di bilancio. Però abbiamo lasciato lo spread sotto quota 100». 

D. Chi sono i suoi nemici?

R. «I mestieranti della politica, quei professionisti che galleggiano nella vita politica avendo perso progettualità, concentrati solamente sul perpetuare la loro carriera personale». 

D. La scissione di Di Maio ha danneggiato il Movimento?

R. «No, ci ha fatto conquistare maggiore chiarezza politica. Luigi Di Maio aveva iniziato da tempo una parabola politica che l’ha portato lontano dal Movimento». 

D. Il centrodestra è in vantaggio, probabilmente vincerà le elezioni...

R. «Aspetterei il risultato del voto degli italiani, anche se questa prospettiva mi allarma parecchio. Ritengo vergognosa una proposta che consideri il reddito di cittadinanza un qualcosa da cancellare, soprattutto se viene da chi vive con una ricca rendita dello Stato». 

D. C’è un futuro con il Pd?

R. «Non ci sono le condizioni con un Pd il cui vertice si è dichiarato appiattito sull’agenda Draghi. Un’agenda che non esiste».

Il Bestiario, il Conticchio. Giovanni Zola l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il Conticchio è un animale leggendario con il corpo da picchio e la testa da avvocato di Volturara Appula in provincia di Foggia.

Il Conticchio è un animale leggendario con il corpo da picchio e la testa da avvocato di Volturara Appula in provincia di Foggia.

La caratteristica del Conticchio è quella di parlare di sé in terza persona dicendo ad esempio: “Il Conticchio è l’avvocato di tutti”, benché nessuno glielo abbia chiesto, guardandosi bene da avere grane giudiziarie con quelli del quinto piano che spostano i mobili rigorosamente dopo mezzanotte.

I greci antichi paragonano il Conticchio all’Araba Fenice, con la differenza che la seconda resuscita dalle sue ceneri, mentre il Conticchio appare dal nulla, e se lo fa alle spalle di soppiatto fa prendere anche grossi spaventi.

Il verso del Conticchio è alquanto sgradevole essendo un suono che risulta essere monotono e nasale, probabilmente dovuto a delle adenoidi mal curate. Il verso del Conticchio è citato da Ippocrate, il padre della medicina, come utile per coloro che soffrono d’insonnia. Ascoltare infatti il verso del Conticchio porterebbe ad un sonno immediato, e in taluni casi, anche perpetuo.

Al Conticchio viene rimproverato di essere un megalomane, soprattutto quando si tratta di compilare il curriculum. Tende infatti ad amplificare le proprie esperienze dicendo di essere stato qua e là, su e giù, benché nessuno lo abbia visto neanche al bar a far due chiacchiere su Lukaku. Per questo si dice ancora oggi la celebre frase “non fare il Conticchio” a chi si spaccia per aver frequentato la New York University nel periodo estivo.

In antiche pitture rupestri il Conticchio è ritratto mentre arringa, con retorica paternalista, altre specie animali chiedendo loro di fare sacrifici oggi per un domani migliore, senza specificare mai quale sia la data precisa del fantomatico “domani migliore”. Da cui DPCM, ossia Dovresti Parlare Come Mangi.

Il Conticchio ha l’abilità di dire tutto e il contrario di tutto in una stessa frase senza che l’interlocutore se ne accorga e lasciandolo stordito per qualche minuto chiedendosi: “Si dimette oggi, si dimette domani o forse si è già dimesso e non me ne sono accorto?!”

In natura il Conticchio ha una grande capacità di mimetizzazione: infatti si nasconde tra i pentastellati, fingendo di condividerne le idee, parla come un democristiano della “prima repubblica” e pensa come un piddino. Ciò che impressiona gli etologi è che riesce a fare le tre cose contemporaneamente, talvolta riuscendo pure a farsi fotografare con la propria fidanzata mentre ordina un sushi Take-away.

Fenomenologia di Conte, quando il “fattore C” spiazza la scienza politica. Il leader 5S è baciato dalla fortuna: premier per caso, in risalita nei sondaggi grazie agli errori dem. Paolo Delgado su Il Dubbio il 04 settembre 2022

Non c’è analista politico che non sia pronto a sostenere, con dovizia d’argomenti e abbondanza di esempi, che la politica ha le sue rigorose leggi, ignorare o trasgredire le quali è sempre esiziale. Gli stessi dotti, tuttavia, non esiteranno a riconoscere, alla faccia della contraddizione implicita, che in politica la fortuna ha tutto il suo peso e che i rari politici baciati dalla sorte hanno una marcia in più che sfugge a ogni legge: vengono innalzati anche al di là dei loro meriti, godono di una rendita di posizione dovuta alle circostanze oltre che alle loro eventuali doti, quando capitombolano cadono in piedi.

L’esempio più universalmente citato è quello di Romano Prodi, a proposito del quale i compagni di scuola ricordano l’abitudine di toccargli i capelli prima delle interrogazioni per ingraziarsi il fato. Stando ai sondaggi il M5S di Giuseppe Conte è la forza politica che più cresce in campagna elettorale e che promette di affermarsi come terzo partito italiano dopo FdI e Pd. Nonostante una campagna mediatica schiacciante che da mesi lo dipinge come il reprobo traditore e infido che ha provocato la caduta del Migliore, l’instabilità che minaccia il Paese e i suoi abitanti, la prevedibile vittoria della destra. Se le cose andranno davvero così per Conte si tratterà non di una semplice vittoria ma di un trionfo e alla fortuna, per l’ennesima volta nella folgorante carriera politica dell’avvocato, bisognerà attribuirne almeno buona parte del merito.

Le quotazioni del M5S appena due mesi fa scendevano a precipizio. L’appoggio a un governo Draghi che non teneva in alcun conto le richieste di quello che era all’epoca il primo partito della maggioranza e un’alleanza sempre più ancillare e subordinata con il Pd ne stavano erodendo i consensi con la velocità di un roditore gigante. Conte però sembrava avere le mani legate dalla legge elettorale e dalla potenza dell’armata mediatica. Provare a tirarsi fuori da un percorso che lo condannava all’irrilevanza avrebbe infatti significato dover affrontare da solo la prova dei collegi e subìre il classico massacro mediatico che in questi casi puntualmente scatta. Il Pd era convinto che Conte non avrebbe osato e in effetti Conte tutto voleva tranne che arrivare a una rottura irrecuperabile, nonostante i duri spingessero in quella direzione.

Nei calcoli dell’ex premier, la decisione di astenersi dal voto era una mossa di mediazione, anche perché scelte del genere erano sinora sempre state interpretate così. Dopo l’esplosione sarebbe stato più che disposto a ricucire un’alleanza, anche solo elettorale e in funzione anti destra con Letta. Il suo tentativo era quello di divincolarsi, recuperare una parte dei consensi la cui emorragia era appena stata certificata dalle amministrative, ma senza arrivare alla rottura totale.

Oggi, con i sondaggi squadernati davanti, è facile affermare che per Conte e per il Movimento affrontare le urne senza le ipoteche del sostegno totale e sottomesso al governo e dell’alleanza con il Pd era l’unica chance di sopravvivenza. Sul momento le cose erano molto meno chiare. Il Pd riteneva che rompere fosse al contrario un suicidio, e proprio per questo forzava tanto, e il leader dei 5S temeva fortemente che il Pd avesse ragione. Se si trova oggi in postazione che gli permetterà forse non solo di salvarsi ma anche di uscire vincente dalle urne è perché le circostanze e gli errori del Pd lo hanno collocato, controvoglia, in quella postazione. Questione di fortuna più che di calcolo strategico.

Che l’ “avvocato del popolo” sia fortunato, del resto, era già evidente. Si è trovato premier contro ogni attesa e previsione per un gioco di circostanze. È rimasto a palazzo Chigi, alla guida di un’alleanza opposta alla prima e contro ogni logica, grazie a un gioco di equilibri politici che prescindeva dalla sua persona e dal suo operato. Ha conquistato una popolarità immensa e non ancora dissipata grazie a una pandemia imprevedibile.

Non significa che Conte non ci metta del suo. Vanta una capacità di bucare lo schermo invidiabile e superiore a quella di quasi tutti i competitor. È certamente astuto anche se spesso non assistito dall’audacia. Ma di certo anche al fattore misterioso e incontrollabile che tanto aiutava Romano Prodi Giuseppe Conte deve parecchio.

Giuseppe Conte, l’avvocato nostalgico di Palazzo Chigi tra i peones in guerra e la fede in Padre Pio. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 10 agosto 2022.  

Quando un’ostetrica marchigiana lo ha fatto nascere, mamma Lillina, maestra, e papà Nicola, segretario comunale, mai potevano immaginare che e . Né che sarebbe stato a sua volta disarcionato, e che avrebbe guidato all’assalto la truppa dopo aver fatto fuori, con la complicità di un comico, tutti i colonnelli del suo partito, e né che ci fossero oggi Bonnie e Clyde (Alessandro Di Battista e Virginia Raggi) ad aspettarlo dietro l’angolo del voto anticipato per portargli via tutto. Ma nei suoi occhi avevano già visto il balenio della Forza, per quanto un po’ sedotta dal lato oscuro.

Giuseppe Conte, un metro e settantotto per settantotto chili, da Volturara Appula, nato l’8 agosto 1964, sotto il segno del Leone. Superbo e un po’ egocentrico l’uomo Leone non si accontenta mai e non passa inosservato. Sono piccoli, lui e la sorella Maria Pia, quando il padre li trasferisce a San Giovanni Rotondo, terra di Padre Pio, al quale tutta la famiglia, religiosissima, è profondamente devota. Giuseppe gira ancora e sempre con il suo santino in tasca, e la preghiera lo accompagna. Della sua adolescenza sappiamo che ha tutti bei voti, ma non apre il libro di matematica.

Le ultime notizie sul M5S

Bellino, piacicchia alle ragazze, cura il ciuffo e l’abbigliamento, intanto sorveglia dalla finestra della classe la moto fiammante che lo attende di sotto. La classe è quella del Liceo Classico di San Marco in Lamis, intitolato a Pietro Giannone. Filosofo del ‘700, perseguitato dalla Chiesa per le sue idee, che però secondo Alessandro Manzoni non erano sue, ma le aveva copiate. Conte si trasferisce nella Capitale e come prima cosa si innamora della Roma. Nel palleggio fa la sua figura. Laurea con lode in Giurisprudenza alla Sapienza, che per uno come lui è il minimo sindacale. Anche perché studia nel collegio universitario di Villa Nazareth, che ha visto passare, vuoi come insegnanti vuoi come studenti, Aldo Moro e Oscar Luigi Scalfaro, Sergio Mattarella e Romano Prodi, Leopoldo Elia e Pietro Scoppola. Nel consiglio era attivo Giovanni Bazoli, direttore con Conte era Pietro Parolin, ora segretario di Stato vaticano, nonché papabile, almeno nelle chiacchiere di Curia.

Segnate la data: 18 settembre 2013. Allievo prediletto di un avvocatone come Guido Alpa, Conte viene eletto dalla Camera dei deputati come membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, con il sostegno dei Cinque Stelle. Si occupa tra l’altro anche del , il magistrato che imponeva alle allieve le minigonne. Ecco fatto, un piede è dentro. È lì che vanno a cercarlo populisti e sovranisti nel 2018. Luigi Di Maio e Matteo Salvini si sono piaciuti ma non possono cedere l’uno all’altro la campanella del premier. E quindi , che poi a governare ci penseranno loro. Per la verità c’è prima un ballottaggio con Giulio Sapelli, ma per Conte farlo fuori è un gioco da ragazzi. Con l’umiltà e l’attitudine alla sofferenza imparate da Padre Pio, incanta i due futuri vicepremier: è lui il vaso di coccio che cercavano.

Il resto è quasi cronaca. Le polemiche per gli incarichi universitari avuti con l’amico Guido Alpa in commissione, l’imbarazzo per , e poi, segnale d’obbedienza verso Lega e Cinque Stelle, l’iniziale passo indietro quando Sergio Mattarella dice che no, un ministro antieuro alla guida dell’Economia non se lo piglia neanche dipinto. La sua sembra una carriera da cavalier servente, mentre in realtà sta solo aspettando di prenderci la mano.

Eccolo allora usare gli artigli, allorché Salvini si infila nella . Conte tira schiaffi, Salvini rincara, minaccia, strappa e poi tratta, promette e alla fine quasi implora: ma ormai è fatta, muore il governo gialloverde e nasce quello con il Pd, con Matteo Renzi che convince il Pd a tenersi Conte. Quella che segue è l’età dell’oro dell’uomo con la pochette. La pandemia, l’emergenza, i proclami, le rassicurazioni, fino alle trattative in Europa per il Pnrr. Ma poi il governo si impantana, vivacchia, Renzi ora gli tira i pomodori. Giuseppi, così ribattezzato da Trump, prova a servirgli la stessa medicina che aveva riservato a Salvini. La verve non manca ma i voti sì, anche se li elemosina perfino da tal , al quale quasi promette di diventare vegano se lo voterà.

Dura è la vita dei nobili decaduti: palazzi pignorati, gioielli impegnati, Grillo che gli offre la guida dei Cinque Stelle e poi si scoccia perché vuole comandare davvero, un tribunale gli toglie i poteri sul partito e poi glieli ridà, i peones lo trattano a pesci in faccia mentre .

Ora Giuseppe va alle elezioni. Non ha più alleato il Pd, Enrico Letta quella pochette gliela farebbe ingoiare, i sondaggi lo danno sul filo del 10%. C’è chi dice che i suoi consiglieri gli avevano giurato che poteva strappare, tanto il governo non sarebbe caduto. E quindi si sarebbe fatto fare fesso e ora rischierebbe di essere crocifisso. Per altri invece era proprio quello che voleva, il voto anticipato, pur attraverso la scusa di un termovalorizzatore e un inquietante terzismo tra Russia e Ucraina. Obiettivo: liberarsi di una banda di scappati di casa e avere in Parlamento una pattuglia che risponda a lui e a lui solo. Per tornare ad avere un ruolo, perché aver assaggiato Palazzo Chigi è una malattia che espone a continue ricadute. E perché va bene essere umili, ma pure Padre Pio, quando Agostino Gemelli voleva controllargli le stimmate, lo lasciò fuori dalla porta.

(ANSA il 15 luglio 2022) - "Se Conte ritira i ministri dal governo Draghi di fatto si va allo scioglimento delle Camere, non ci sarà nessuna possibilità di mandare avanti il governo. Io lo voglio dire ai cittadini molto chiaramente: questa crisi avrà effetti pesanti". Questa una anticipazione dell'intervista del ministro Di Maio che andrà in onda questa sera al Tg3.

"Il partito di Conte colpisce il governo. Meraviglia che questo venga da un ex premier, forse per vendetta contro qualcuno". Questa una anticipazione dell'intervista del ministro Di Maio che andrà in onda questa sera al Tg3.

Lo zig zag di Conte, l’eterno indecisionista ridotto all’irrilevanza. Sebastiano Messina su La Repubblica il 21 Luglio 2022.  

L'Avvocato è passato dal sostegno leale a Draghi al rifiuto di votare la fiducia. Ora si ritrova verso le elezioni alla guida di un'Armata Brancaleone.

Ha deciso di non decidere cosa andava deciso per decidere chi doveva decidere, ma l'ha deciso quando tutto era già stato deciso. E non da lui, Giuseppe Conte l'Indecisionista. L'uomo che in tre settimane è passato dal "sostegno leale, costruttivo e corretto" a Mario Draghi ai penultimatum con le "urgenze non urgenti" e infine al rifiuto di votare la fiducia ma che, per carità, non era una sfiducia. Con la comica conclusione di ieri, quando ha dato ordine ai suoi di non votare né a favore né contro il governo, dichiarandosi "presenti ma non votanti". Raramente, a memoria di cronista, una crisi di governo ha visto uscire dal campo così malconcio - ridotto all'irrilevanza numerica e all'insignificanza politica - il partito che l'aveva così maldestramente aperta, finendo per essere "messo alla porta" come diceva ieri sera il suo quasi leader.

Conte sceneggiatore del disastro

Di questa disastrosa impresa, Conte è stato lo sceneggiatore, il protagonista e il colpevole. È stato lui ad aprire le ostilità contro Draghi - che ha sempre considerato come l'usurpatore della sua poltrona, l'uomo di quel "Conticidio" che andava vendicato - prendendo a pretesto un pettegolezzo di seconda mano, secondo il quale Draghi aveva chiesto a Grillo di farlo fuori. Pettegolezzo smentito da Grillo e da Draghi, di cui Conte - misteriosamente, improvvisamente, inspiegabilmente - dopo averlo definito "un fatto grave" non ha più voluto parlare dopo aver incontrato Draghi ("È una questione in cui non voglio entrare"). È stato lui a trasformare un problema politico in uno psicodramma, denunciando "mancanze di rispetto, attacchi pregiudiziali, invettive per distruggerci", arrivando a sostenere che "il nostro non è un no alla fiducia ma una reazione alle umiliazioni subite", roba da psicanalista.

La maratona di riunioni del M5S

Ma il suo disastroso capolavoro è stato l'interminabile zigzag tra l'ala irriducibile e quella governista dei cinquestelle, la sua oscillazione permanente tra il mezzo sì e il mezzo no, nel goffo tentativo di non essere abbandonato né da chi voleva la testa di Draghi né da chi voleva restare con Super Mario. Così un giorno prometteva sostegno al governo, "ma serve discontinuità", e il giorno dopo avvertiva: "Stiamo con un piede fuori". Un giorno consegnava a Draghi un papello in nove punti con le "urgenze non urgenti", e due giorni dopo annunciava: "Pretendiamo un cambio di passo immediato". Senza mai prendersi la responsabilità della decisione definitiva: infilando tutto il Movimento in una catena di Consigli Nazionali, assemblee dei parlamentari e riunioni notturne via Zoom che non hanno mai deciso né sì né no. Così, dopo aver votato a Montecitorio la fiducia al governo sul decreto Aiuti, a Palazzo Madama i grillini glie l'hanno negata. Per via del termovalorizzatore di Roma, certo, ma anche per le mancanze di rispetto e le umiliazioni subite, si capisce. Mentre Conte ripeteva ai telegiornali che i due voti erano frutto delle "medesime lineari, coerenti motivazioni".

Adesso che la crisi di governo ha avuto una conclusione assai diversa da quella che prevedeva il suo piano, l'Avvocato del Popolo si ritrova alla guida di un Movimento che conta meno della metà dei parlamentari eletti quattro anni fa ed è crollato nei sondaggi dal 32,7 per cento del 2018 all'11 cento della settimana scorsa, una percentuale che se anche lui riuscisse nell'improbabile miracolo di trasformarla in seggi riporterebbe nel prossimo Parlamento solo 77 pentastellati, contro i 335 dell'ultima volta. Lui che doveva rilanciare i cinquestelle trasferendo su di loro la popolarità conquistata a Palazzo Chigi, in un solo anno ha perso un terzo dei consensi, una settantina di parlamentari se ne sono andati e altre due dozzine facendo le valigie.

Il mai-nato partito di Conte

Chissà come sarebbero andate le cose se Conte avesse dato retta a chi gli suggeriva di fare un suo partito. Ma lui - come ha raccontato il suo superconsulente Domenico De Masi - "ha scartato quell'idea perché era un'operazione costosa e una fatica enorme, scegliendo di prendersi un partito già bello e pronto". Purtroppo, l'impresa si è rivelata più difficile del previsto. "È una faticaccia enorme, non credo che la potrò reggere fisicamente a lungo", confessò dopo soli 35 giorni, 25 comizi e un pranzo con Grillo. Forse, chissà, credeva che guidare un partito fosse una passeggiata, per chi era stato capace di formare due governi, uno con la destra e un altro con la sinistra. E magari si era convinto, leggendo i sondaggi che gli portava Casalino, di avere dentro di sé - senza saperlo - le qualità del leader, ma con l'abilità dell'astuto avvocato che riesce a difendere qualunque causa senza mai sposarla, e dunque può farsi corteggiare dagli eredi della Ditta che vedono in lui il domatore democratico dei grillini selvatici, però si rifiuta di essere chiamato "alleato" e non vuol sentir parlare di "centrosinistra", ma semmai di "fronte progressista" che è come un blazer blu: puoi andarci dovunque.

Sogni di gloria che oggi svaniscono nel nulla. Dopo la figuraccia rimediata nella battaglia per il Quirinale, dove candidò a sua insaputa il capo dei servizi segreti, Conte ha sfidato a duello Draghi ma ha perso senza neanche combattere. E ora si ritrova sulla strada che porta alle elezioni anticipate alla testa di un Movimento ridotto a un'Armata Brancaleone che ormai è solo l'ombra slabbrata di quell'esercito di giustizieri senza macchia e senza paura che voleva fare la rivoluzione a cinque stelle. 

Giù dalla giostra. La strada senza uscita di Conte, prigioniero della sua mediocrità politica. Mario Lavia su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

L’avvocato di Volturara Appula non riesce a tenere le redini del suo partito che in massa rischia di abbandonarlo al suo destino, sostenendo il governo Draghi. O si arrende e vota la fiducia o va all’opposizione ma senza alcun credito.

Un uomo di quasi 58 anni – li compirà tra qualche giorno – avvocato e politico per caso sta tenendo in ostaggio il governo italiano, le Camere, persino il Quirinale contro il mondo libero, la maggior parte del Parlamento, vastissime aree della società italiana, sindaci, giornali, imprenditori. Barricato come Jean Gabin in Alba tragica in due palazzi vicinissimi tra loro nel pieno centro della Roma del potere, l’uomo è circondato, e proprio per questo rischia di diventare un pericolo pubblico. 

La situazione è in evoluzione, di certo non potrà andare avanti: mercoledì o la va o la spacca, probabilmente ci si conterà e il politico per caso perderà. Tutto il mondo politico lo schifa, ormai, tranne i soliti ammaccati aficionados che si autodefiniscono di sinistra, scambiando la missione della sinistra con il solito casino antistituzionale in nome – ça va sans dire – delle ragioni dei lavoratori (e pazienza se salterà il Pnrr, si farà una bella manifestazione con Landini e Bombardieri). 

Anche se Mario Draghi andrà avanti, si avvicina il momento in cui il Partito democratico, principale responsabile del lungo corteggiamento dell’uomo in queste ore barricato, dovrà dire da che parte sta. 

E intanto l’avvocato e politico per caso si vede sbalzato dalle comode poltrone del potere sulle quali lo avevano issato i populisti e i loro amici dopo aver carpito il voto di tanti italiani convinti da un Mangiafuoco genovese che loro avrebbero cambiato l’Italia, antica promessa di demagoghi e dei qualunquisti. 

Ma ecco che a un certo punto, inevitabilmente, la storia ha girato e non è bastato un Ciampolillo a salvare quest’uomo sempre più privo di idee – quelle poche che aveva le aveva tutte gettate nella palude fangosa del potere, sapete quelle fosse d’acqua stagnante dove nei film americani i gangster gettano i cadaveri. 

Al presidente del Consiglio Mario Draghi mezzo mondo chiede di continuare:  parliamo di Joe Biden, non Clemente Mastella. Mentre il nostro uomo, sudaticcio e afono, vede tanti dei suoi mandarlo a quel Paese, vedremo oggi quanti deputati lasceranno l’ex Movimento insieme al capogruppo Crippa. 

L’uomo di Volturara Appula non sta tenendo il partito, com’era per tante ragioni (anche di emolumenti mensili) prevedibile, e gli hanno consigliato (Enrico Letta) di ripensarci e votare mercoledì anch’egli la fiducia dato che una marea di (ex) grillini farà così.

L’avvocato del populismo è così giunto a un bivio drammatico: o si arrende e vota la fiducia – e dovrebbe chiedere scusa al Paese – o va all’opposizione ma senza alcun credito, non ha il fisico per fare il Fuggitivo come Harrison Ford, non è un capopopolo, un Masaniello, un Jean-Luc Mélenchon, un Jeremy Corbyn, nemmeno un Pier Luigi Bersani. 

L’uomo, a 58 anni, è un politico per caso che sta per scendere dalla giostra, e non per caso.

Conte, parabola di un leader. La metamorfosi dell’ex premier M5S. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 16 luglio 2022.

La parabola dell’ex premier: da statista che liquida il Salvini del Papeete al ritorno di una copia sbiadita dei tempi del «vaffa» 

Che vita difficile, e che parabola incredibile. Mancano 120 ore al giudizio universale, che vale per tutti, ma per Giuseppe Conte in modo particolare. Padella o brace. Da una parte l’andata a Canossa, qualora il pressing italiano e internazionale convincesse Mario Draghi a restare. Dall’altra la rottura e una nuova sfida, stavolta con le pulsioni iper populiste di Alessandro Di Battista, che già affila le armi perché la guida del Movimento in mano all’ex premier non sia che una parentesi.

Mercoledì il premier dimissionario sarà davanti alle Camere e il filo sottile, quasi inesistente, che porta a una riedizione del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, passa per una porta strettissima per l’avvocato del popolo. Sì al termovalorizzatore, no allo scostamento di bilancio, si alle riforme fiscali e della concorrenza, si al sostegno all’Ucraina senza cedimenti, no a una quotidianità fatta di strappi piccoli e grandi per cercare di razzolare i voti perduti. Dura da digerire. Ma dura anche da rifiutare, perché dall’altra parte c’è la fiera pasionaria dei barricadieri a Cinque stelle, ugualmente rissosi ma assolutamente privi della fantasia onirica, per quanto velleitaria, del fondatore: il Beppe Grillo della prima ora.

I contorcimenti delle ultime ore con l’ipotesi di ritirare i ministri, con i ministri che fanno sapere che non ci pensano proprio e con Giuseppe Conte costretto a veicolare che non è lui che l’ha detto ma che piuttosto il dimissionario è Draghi, non sono che un assaggio disperato di quello che può succedere nei prossimi giorni. O in questi minuti, con l’ex premier che magari la spunta e riesce a portar via dal governo la sua delegazione.

Ma è qui che si aprirebbe la partita più ardua per Conte, quella per mettersi a capo di un’Armata Brancaleone assai difficile da guidare. Non abbiamo leggi contro il cattivo gusto, perché da noi, e non solo da noi, è stato convertito in un genere di consumo. E quindi è lecito raccontare cosa pensa Alessandro Di Battista, con le parole che lui stesso ha affidato alle agenzie.

Il Che Guevara di casa nostra, con la vespa al posto della motocicletta e il parco alberato di Monte Mario al posto della giungla cubana o boliviana, ancora non si fida. Sarebbe un’ottima notizia, dice, se il governo cadesse, ma non ne è così sicuro: «Perché quelli che si appellano al senso di responsabilità, negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. E in caso di elezioni non potrebbero fare comizi se non mettendosi di spalle, anche se in molti, guardandogli i deretani, riconoscerebbero all’istante i loro volti».

Davvero ha qualcosa a che fare con questo linguaggio l’uomo della pochette? Il premier che parlava con rassicurazioni flautare agli italiani chiusi in casa per il virus, il leader che faceva sapere di trattare alla pari con la cancelliera tedesca Angela Merkel per il Piano di ripresa e resilienza? Lo statista che faceva fuori il Matteo Salvini del Papeete e che una volta sconfitto con il suo secondo governo passava la campanella a Mario Draghi assicurando il suo sostegno leale perché l’Italia viene prima? O quello che pretendeva che si prendesse per buono il suo no a che diventasse presidente della Repubblica perché non si poteva assolutamente fare a meno di Draghi alla guida dell’esecutivo? E che fine ha fatto l’uomo che, ai tempi d’oro, il suo staff accreditava come uno statista che non avrebbe sfigurato al Quirinale?

Sembra suicida il suo tentativo di mettersi alla testa di una copia sbiadita e sgangherata dei tempi del vaffa, senza idee nuove, senza il lavoro certosino di quello sgobbone di Luigi Di Maio, con una ridotta di parlamentari fedeli solo finché qualcuno non gli buttasse un’ancora del si salvi chi può e con il ministro degli Esteri che è già pronto ad accogliere una pattuglia nutrita di nuovi fuggiaschi.

Si apre per altro, per l’ex premier, una partita disperata sul fronte delle alleanze. Nel Pd c’è chi comincia a mettere in discussione anche le primarie comuni per le regionali siciliane e la possibilità di individuare nei collegi uninominali candidati unitari è destinata a naufragare con il giudizio diverso sul governo Draghi, sulla guerra e su tante altre cose. Con l’aggiunta del taglio dei parlamentari quello che fu l’esercito dei cinque stelle si avvia sulla strada dell’irrilevanza.

Conte non può nemmeno contare su un sostegno sicuro di Beppe Grillo, che ha smesso di amarlo già agli esordi della sua contrastata leadership, quando tentò, senza riuscirci, di ottenere per statuto i pieni poteri, esautorando il fondatore. È in fondo la sua vocazione avvocatizia a confonderlo, l’idea che in politica ci si possa impossessare del timone di un partito mettendolo per iscritto, e non conquistandolo giorno dopo giorno.

Loro sono finiti, il populismo no. Boris Johnson e Giuseppe Conte, come hanno potuto due tipi così diventare premier? David Romoli su Il Riformista l' 8 Luglio 2022 

Nella stessa giornata precipita Boris Johnson, appena tre anni dopo la folgorante vittoria elettorale, e affonda nelle sabbie mobili nelle quali lui stesso si è infilato Giuseppe Conte, meno di due anni dopo i giorni del trionfo, della popolarità più da star dello spettacolo che da leader politico, dell’infatuazione cieca che portò innumerevoli esponenti della sinistra a definirlo “insostituibile”. Difficile immaginare figure più diverse: l’oscuro avvocato di Volturara Appula (Foggia) catatapultato a palazzo Chigi come un signor Nessuno e il rampollo dell’aristocrazia Alexander Boris de Pfeffel Johnson con alle spalle una brillante carriera di giornalista e due mandati come sindaco di Londra. Invece qualcosa in comune i due ce l’hanno. Sono entrambi figure improbabili, l’avvocato premier per caso, capace di cambiare ruolo politico e immagine come ci si cambia d’abito, buono per tutte le stagioni, e l’istrione rumoroso, sempre sopra le righe, di proverbiale inaffidabilità, pittoresco ma nulla di più. Ritrovarli in ruoli chiave della politica europea desta lo stesso stupore, suscita identiche domande su cosa sia la politica nel XXI secolo ormai avanzato.

BoJo è il giornalista licenziato dal Times per l’uso di citazioni false, l’opinionista che sulla Brexit aveva preparato per il Telegraph due articoli, un a favore e l’altro contro la Brexit, tanto per essere certo di non sbagliare. Tre mogli, una quantità di figli tra legittimi e non, una fama leggendaria nelle redazioni londinesi per l’abitudine di mandare pezzi in clamoroso ritardo e una nomea altrettanto discutibile nei salotti della politica per la capacità di inanellare gaffes una via l’altra e per il disordine caotico. Tutto un altro stile dall’avvocato Conte, sempre in perfetto ordine, abilissimo nell’usare sempre il tono giusto a seconda degli interlocutori, attento al dettaglio come solo un leguleio può essere. Ma anche qui qualcosa di simile, anzi identico c’è: una cura per l’apparenza tanto meticolosa quanto eloquente. BoJo è noto per scompigliarsi apposta il ciuffo, curando nel dettaglio l’immagine noncurante. L’eleganza un po’ provinciale di Conte è celebre, con quella pochette sempre ben piegata che per un po’ ha fatto epoca in Italia. Sono arrivati alla carriera politica per sentieri opposti, ma scommettendo sulle stesse carte: l’immagine che ormai in politica è tutto, l’apprezzamento dell’elettorato femminile, che entrambi possono vantare a ottimo diritto.

BoJo deve l’inatteso sbarco a Downing Street alla Brexit e al fallimento di Theresa May. Si presentò agli elettori con promessa solo, quella di portare la Brexit a compimento e fu plebiscitato. Conte fu spinto dalla stessa onda che aveva riempito il Parlamento di deputati e senatori per caso. Anche se lui non faceva parte del plotone. L’Italia si accorse della sua esistenza solo il 21 maggio 2018, uscito fuori a sorpresa dal cilindro di Luigi Di Maio, “capo politico” del M5S, che lo aveva proposto a Sergio Mattarella come futuro capo di un governo M5S-Lega. Non era il primo presidente del consiglio non parlamentare. Il predecessore si chiamava Carlo Azeglio Ciampi, governatore di Bankitalia, insomma non certo uno sconosciuto.

Conte invece sconosciuto lo era davvero. Ed eccolo di colpo capo del governo, con aria modesta e eloquio sin troppo umile, consapevole all’apparenza di essere quasi un prestanome sotto tutela stretta dei veri potenti, i vicepremier e ministri di gran peso Gigi Di Maio e Matteo Salvini, futuri arcinemici. Faceva persino un po’ di tenerezza. Quando le telecamere lo sorpresero a colloquio con Frau Merkel, a notte inoltrata, in occasione di un vertice internazionale, l’inesistente considerazione della potentissima faceva quasi stringere il cuore.

BoJo danzava al suono della musica opposta. Arrogante, rumoroso, clownesco, eccentrico, convinto di essere destinato alle vette più alte e di non dover dunque concedere nulla alle forme e alla diplomazia. Ma del resto anche per Conte umiltà e modestia erano solo di facciata. La competizione tra i due soci della maggioranza gialloverde gli offrì l’occasione di emergere e smarcarsi. Salvini correva come un treno ad altissima velocità, lievitava nei sondaggi. I 5S masticavano amaro, subivano l’iniziativa del tribuno che rubava scena e consensi. Conte si autonominò l’anti-Salvini. Agli occhi dei già tramortiti 5S chiunque sembrasse in grado di frenare il leghista sembrava il redentore. Si innamorarono dell’ex anonimo prestanome.

Ma non furono solo i grillini smarriti a guardare con interesse all’uomo che si contrapponeva all’impeto leghista. Anche i poteri italiani ed europei che lo avevano sino a quel momento considerato meno di zero si chiesero se non fosse proprio lui lo sconosciuto inviato dalla Provvidenza per domare e normalizzare i pargoli del “Vaffa”, quella variabile impazzita che stava facendo saltare ogni equilibrio. Proprio l’opposto dello sguardo sempre più preoccupato con cui guardavano al rumoroso Boris e alla sua fermezza nel difendere le linee guida della Brexit. Per Bruxelles il populista pericoloso era lui, non il premier insediato in Italia dal partito del “Vaffa”.

Conte capì l’antifona, rispose alle aspettative. Con una manovra astuta spostò i voti determinanti dei 5S ex anti Ue a favore della nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea. Tenne all’oscuro del progetto gli alleati leghisti che si ritrovarono così soli a difendere i bastioni del sovranismo antieuropeo mentre i 5S slittavano verso l’immagine di forza europeista, responsabile e ragionevole, Accettabile.

Lo scontro con Salvini era a quel punto inevitabile. Il corpo a corpo parlamentare con il truce leghista gli valse un vero e proprio miracolo: la riconferma alla guida del governo successivo, con maggioranza opposta, fondato sull’asse Pd-M5S. Spuntò un Conte “di sinistra“, l’uomo giusto per realizzare l’impensabile: un’alleanza non più coatta ed effimera ma stabile e progettuale tra il Movimento e il nemico di sempre, il Pd.

Miracolato in realtà Conte lo fu due volte. Pochi mesi dopo averlo confermato sul trono di palazzo Chigi, Matteo Renzi si preparava già a disarcionarlo. Poi arrivò il Covid e con il coronavirus arrivò anche l’apoteosi di “Giuseppi“, come da definizione trumpiana. Con la regia di un Rocco Casalino scatenato, Conte fu superlativo sul piano dell’immagine ma decoroso, date le immense difficoltà del momento, anche nella sostanza. Non che siano mancati errori anche gravi nella gestione della pandemia e la missione Recovery Fund non sarebbe andata lontana senza la pressione delle aziende tedesche, che avevano bisogno della componentistica italiana, e di conseguenza di Angela Merkel. Ma nel complesso Conte in quell’anno difficilissimo ha tenuto botta davvero e ha offerto al Paese l’immagine di cui aveva bisogno: quella di un governo rassicurante, decisionista e davvero partecipe del dramma che viveva il Paese.

Non si può dire altrettanto di BoJo. Il Covid ha segnato per lui l’inizio della fine politica. L’inquilino di Downing Street lo ha preso sotto gamba, è apparso oscillante, poco adeguato, soprattutto distante dal suo popolo. Del tutto incapace di costruire quel legame tra potere e popolo come invece è riuscito per un po’ a fare da noi l’omologo italiano.

Le quotazioni di Giuseppe Conte, già perfetto sconosciuto, s’impennarono. Difficile ricordare un’ascesa altrettanto folgorante nei consensi popolari. Non bastò. Gli giocavano contro l’abilità manovriera di Renzi, la diffidenza degli Usa, che lo consideravano troppo corrivo con la Russia e con la Cina, l’ostilità di Di Maio, che lo costrinse a dimissioni tutt’latro che dovute quando una mozione di sfiducia stava per abbattere il ministro della Giustizia Fofò Bonafede. Ma gli giocavano contro anche, forse soprattutto i suoi limiti. Tra le tante immagini di Giuseppe Conte nessuna è più lontana dal vero di quella del decisionista. L’uomo, al contrario, è tra i più indecisi e privi di audacia. Accerchiato dalla manovra di Renzi non ebbe né il coraggio di rompere per primo né la determinazione nell’imporre elezioni, come avrebbe potuto fare, dopo la defenestrazione. Non se la sentì neppure di fondare un proprio partito per capitalizzare l’enorme consenso di cui godeva in quel momento.

Tutte le differenze tra lui e l’aristocratico inglese si ricompongono qui. Perché anche BoJo paga i soli limiti di carattere: la superficialità, l’assenza di metodo, l’incapacità di guidare un Paese e un partito, la leggerezza che lo rende un grande personaggio ma anche un pessimo leader.

Del resto proprio i difetti di carattere, non più controbilanciati dalla rendita di posizione garantita da palazzo Chigi, hanno reso per Conte un calvario l’esperienza di leader del M5S: un titolo al quale non ha mai corrisposto la sostanza. Il quadro del Conte capo di partito. Costretto dagli eventi prova ora a cambiare ruolo e immagine: dopo essere stato il normalizzatore dei 5S tenta di trasformarsi nel leader che li riporta alle origini, alla grinta populista, all’integrità fortemente venata di integralismo. Non è la sua parte in commedia. E’ la più distante dalla sua personalità, quella più ostica persino per un leader “buono per tutte le stagioni“. Per questo non è escluso che sia l’ultima incarnazione di Giuseppe Conte sia anche quella finale.

Ma la domanda iniziale resta: come è possibile che simili figure siano arrivate in tempi rapidissimi al vertice delle istituzioni di Paesi importanti come il Regno Unito e l’Italia? Difficile evitare il dubbio che sia proprio la politica in sé ad aver perso buona parte del proprio ruolo, in una dinamica in cui i poteri reali la vivono sempre più come un impaccio e una formalità necessaria ma fastidiosa, alla quale rendere tutt’al più qualche omaggio formale. In un quadro complessivo dove la politica conta pochissimo nessuna figura è troppo improbabile, purché sappia dispiegare un’immagine almeno per qualche tempo seducente. David Romoli

Conte, storia di un bluff a 5 Stelle. Lo diceva pure Grillo: Giuseppe è il nulla. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 03 luglio 2022

Era giusto un anno fa, giorno più giorno meno, e per la prima volta il comico Beppe Grillo fu serio, coerente e veritiero come mai prima: «Giuseppe Conte non ha visione politica né capacità manageriali». Erano allora in gioco i fondamentali del velleitario rilancio pentastellato, una cura ricostituente per un Movimento giunto alla terzaesperienza di governo in una sola legislatura, con mezza faccia caduta, parlamentari ed elettori in fuga, un atrabiliare bispremier alla ricerca d'un trampolino dal quale rilanciarsi dopo l'estromissione da Palazzo Chigi a beneficio di Mario Draghi. Fu così che il causidico di Volturara Appula cercò di scriversi uno statuto su misura in modo da limitare i poteri di Grillo, il fondatore, l'Elevato suo creatore insieme a Luigi Di Maio, al punto tale da musealizzarlo nel notorio blog senza poteri decisionali. Come una statua di marmo parlante ma non più decidente.

SENZA APPELLO

Giustamente il demiurgo, incattivito assai, rispose così: «Conte non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione... questo l'ho capito, e spero che possiate capirlo anche voi... Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco... Vanno affrontate le cause per risolvere l'effetto ossia i problemi politici (idee, progetti, visione) e i problemi organizzativi (merito, competenza, valori e rimanere movimento decentralizzato, ma efficiente). E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli». Grillo in quell'occasione non poteva saperlo, ma le sue parole rientravano con estrema precisione nella caratteristica facoltà profetica dei buffoni di corte e dei moribondi (politicamente parlando, in tal caso).

I due avrebbero fatto pace di lì a qualche settimana, ma era una pace d'argilla e di fango, nella quale Conte ha finito per impaludare l'ultimo lacerto di popolarità che gli derivava dall'essere stato premier con poteri straordinari nello stato d'emergenza pandemico più angosciante dell'ultimo secolo. E in questa palude il cinico Grillo lo ha progressivamente abbandonato invaghendosi perfino di Draghi («uno dei nostri!»), con il quale avrebbe preso la consuetudine di scambiarsi telefonate o messaggini confidenziali e derisori, in un misto d'indolente cazzeggio proprio alle spalle dell'inadeguato, ex «fortissimo punto di riferimento progressista» secondo l'incauta definizione coniata dal suo compagno di sventura Nicola Zingaretti quando ancora credeva di essere il segretario del Partito democratico.

Ah se Grillo avesse davvero ponderato sin da subito la portata di quelle sue dichiarazioni affilate come la lama di un chirurgo impegnato nell'autopsia d'una carriera ormai oltretombale... chissà, magari adesso non si ritroverebbe costretto a dare del traditore al governista Di Maio mentre raccoglie i cocci infranti dall'inconsolabile avvocato foggiano. Perché aveva proprio ragione: Conte mancava di qualsiasi esperienza che non fosse circoscritta nell'oratoria tribunalizia d'una paglietta novecentesca disponibile a ogni committenza, con quella sua voce appiccicosa e sfibrante come carta moschicida, quella sua istintiva devozione per il potente di turno (ricordate la birra con Angela Merkel accompagnata da salatissimi commenti contro l'alleato sovranista Matteo Salvini?), quel suo narcisistico bisogno di fastosità egoriferita - dalle conferenze stampa nel cortile di Palazzo Chigi agli Stati generali per rimpannucciare l'Italia convocati in mondovisione nell'estate 2020 a Villa Doria Pamphilij - e così stridente rispetto alla gravitas richiesta dalle tragiche circostanze. 

I TEMPI DELLA GRANDEUR

E adesso, di là dalla profezia grillina dell'estate scorsa, che cosa resta dell'ex premier che voleva farsi un principato tutto suo, o in alternativa un partito, sorretto soltanto dalla capacità metamorfica di fingersi a giorni alterni populista in grisaglia o statista in maniche di camicia? Ben poco: dai vertici dei Servizi segreti al potentato d'Invitalia in cui regnava l'ex super commissario Domenico Arcuri, lo spoil system draghiano è andato avanti con il passo cadenzato e geometrico del gesuita euclideo. Parallelamente, la piccola nomenclatura pentastellata si è divisa e disciolta da programmi inesistenti e vincoli d'obbedienza rimasti allo stadio tribale: i grandi notabili hanno seguito l'enfant prodige di Pomigliano d'Arco o si sono accodati alle filiere più promettenti d'altri partiti. I trinariciuti più identitari sono stati via via espulsi come calcoli renali. Certo è rimasto Alessandro Di Battista in piazza, e che piazza: quella rossa di Mosca, ad attendere che "Giuseppi" -vezzeggiato così, come un peluche, anche da Donald Trump quando era interessato ad avere accesso ai nostri segretucci di Stato riguardanti presunte congiure contro di lui - ritorni laddove dove tutto è iniziato: tra la Russia e la Cina, lungo la Via della Seta santificata dallo stregone Grillo nel suo laboratorio di leadership abortite. 

Le pene del M5S. Conte, la solitudine di un finto leader. Il capo del M5S tira la corda sul governo, ma non affonda mai il colpo. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 2 Luglio 2022

Si fermò una macchina davanti a Palazzo Chigi, si aprì lo sportello e non scese nessuno. E no, non era Clemence Attlee, era Giuseppi Conte, sotto la pochette poco e niente, quello che dell’attuale usurpatore dice: “Non è un politico, lo hanno imposto altri”. Eh, già, Conte invece chi l’ha imposto, dopo averlo assemblato? La CasaleggioAssociati, società di profilazione dati con la benedizione di Mattarella, al punto forse più infimo di una nazione miserabile, degnamente rappresentata da una Capitale di merda (alla lettera: basta girarla dieci minuti e vi passa ogni ambizione di eufemismo).

Questione di pulpiti: chi rappresenta questo avvocato della Deep Foggia, che credeva di esistere? Il Movimento no, gli ha dato il vento, del resto non esiste più, ha fatto il vento la creatura di Grillo che con il successore, l’usurpatore, si scambia chiacchiere da buvette: “Pissi pissi, un incapace, un buono a nulla; pissi pissi, ma allora fallo fuori, no?”. Poi l’ha raccontato De Masi, sociologo grillino, teorico della decrescita felice, sul Fatto Quotidiano di Travaglio, uno che quando sposa qualcuno, puoi star certo che quello finirà malissimo, bruttissimo, prestissimo; accadde con: Di Pietro, Ingroia, De Magistris; Vendola, Fini, Sabina Guzzanti; Santoro, Amurri, D’Arcais, Di Battista, Conte. La Nazionale della Sfigandia. Conte è quello che ci ha creduto di più: e adesso, pover uomo?

Lui segue Travaglio, nessuno segue lui, l’esperimento politico si è trasformato in cavia e il poveretto minaccia con la pistolina ad acqua, sempre più bisbetico, sempre più mediamente isterico, confuso e infelice. E esco e non esco, e mollo e non mollo, e tengo e non tengo, e faccio il pacifista ma però non è detto, e adesso facciamo i conti, e domani mi sentono: ma chi te sente? Non lo caga nessuno, neanche la “fidanzata”; Grillo lo tratta da pagliaccio, manco cabarettista; Di Maio è salpato per democristiani lidi; si parla di una clamorosa associanza Conte-Santoro, e dietro ci intuisci sempre la solita sagoma di Travaglio, quello che non mangia per somigliare a Montanelli.

Altra catastrofe in arrivo, garantito.

Daimò, bimbo bello: ché son finiti i tempi in cui potevi chiudere 60 milioni di disgraziati e vantartene agli occhi del mondo: avevi scoperto che comandare è meglio che fottere, passavi da un orgasmo all’altro, indulgevi in conferenze stampa metrosexual officiate da Casalino, facevi l’arrogante coi cronisti peraltro servili, facevi i selfie con Scanzi perculando Salvini, mentivi a bomba, “questo è l’ultimo miglio”, non sapevi dove sbattere la testa e la facevi sbattere a noi, inanellavi rovine opache, vedi i banchi a rotelle della Azzolina, vedi la pioggia di mascherette farlocche e tossiche, di respiratori come tubi del gas, di tamponi bugiardoni.

Uno scenario da Repubblica tribale, che solo una magistratura come questa ha lasciato fondamentalmente passare in cavalleria, perché c’era il profumo soffice della Via della Seta, il big business della sinistra, che sarebbe emerso a tempo debito, e i consigli di Pechino che, come Acta Diurna, ogni giorno si depositavano con lieve fruscio sulla scrivania del rude, mascolino Giuseppi.

L’italiano è un esemplare incline alla dimenticanza, ma chi scrive no: la gestione di pandemia 1 fu roba da sciagurati grillini, la miserabile strategia di regime, tutta decreti personalizzati, strage di diritti costituzionali, sfascio ulteriore della sanità, sbirri che correvano dietro a bagnanti isolati sugli scogli, psicosi e distruzione dei commerci, delle attività, della società, fu tutta roba grillina, grillo-piddina, supportata dal Fatto al completo, eseguita da Conte.

L’altro, il Supertecnico, super di cosa si è capito presto, ma sarebbe stato meglio subito, l’ha ereditata, continuata e perfezionata. Il risultato è di una continuità nel fallimento, istituzionalmente scemo e più scemo. Quindi no, Conte non ci fa tenerezza e nemmeno pena (così come non ce la farà, domani, Draghi): la sua tragedia è solo una piccola parte di quello che merita; con lui i protetti come Arcuri, ve lo ricordate Arcuri, l’uomo forte del governo Giuseppi? Lo hanno appena defenestrato da Invitalia.

Quindi no, la ContExit non fa ridere, anche se il suo affondare è catartico. Conte è il principio di questa fine che non finisce mai, è l’incapacità totale messa al vertice nella complicità imperdonabile del Capo dello Stato. È l’improvvisazione al potere in uno sconcertante trionfo dello sfascio. Tutto il resto ne è disceso, ma il Paese non finirà di scontare la rovina originata da un oscuro avvocato di paese che credeva di esistere. E che, a sentirsi definire per quello che è, fa l’offeso, e nel suo oscillare, nel suo sbraitare patetico conferma, oltrepassa il giudizio più umiliante e più spietato. A volte, l’unica decenza che si può salvare è la dignità con cui si evapora. Ma se uno la dignità non ce l’ha, non se la può dare. È finito, ma non si rassegna a tornare all’irrilevanza: gli daranno un blog sul Fatto Quotidiano e poi un ingaggio all’Isola dei Famosi, dove finiscono tutti quelli che di qualità ne hanno pochette. Max Del Papa, 2 luglio 2022

Acqua Marcia, Conte non ha dato ai pm i documenti sulle sue consulenze d’oro. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 21 giugno 2022

Lo scorso gennaio la Gdf aveva chiesto all’ex premier di consegnare documenti sulle sue consulenze d’oro ad Acqua Marcia. Nel 2012 Conte aveva avuto da Fabrizio Centofanti e il figlio di Bellavista Caltagirone incarichi per circa 400mila euro

L’avvocato Amara ha detto di aver “raccomandato” a Centofanti i nomi di alcuni avvocati, tra cui Conte, Guido Alpa, Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone. I pm di Roma hanno aparto così un fascicolo per bancarotta, per ora senza indagati

Dopo la richiesta di acquisizione documentale, tutti gli avvocati hanno consegnato fatture e perizie alla procura, tranne Conte. Sono passati ben cinque mesi: ora la procura potrebbe ordinare un sequestro

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Conte insediato dai giudici ma "sfiduciato" dai suoi. Domenico Di Sanzo il 16 Giugno 2022 su Il Giornale.

Respinti i ricorsi degli ex pentastellati. Gli eletti del M5s però si oppongono al "partito personale".

«Abbiamo vinto». Dopo giornate segnate dalle sconfitte alle elezioni amministrative di domenica e lunedì, finalmente il M5s può cantare vittoria. Ma il rigetto del ricorso degli attivisti napoletani difesi dall'avvocato Lorenzo Borrè potrebbe anche essere letto come una vittoria di Pirro, nient'altro che un diversivo per distogliere l'attenzione dalle percentuali insoddisfacenti raccolte nelle città e dai problemi interni di un partito in crisi di identità, con più di 170 parlamentari sicuri di non essere rieletti. Deputati e senatori che hanno tirato i remi in barca, non versano più nelle casse del Movimento e sono indecisi se cercare la chance di una poltrona in un altro partito oppure intascare lo stipendio fino al 2023, nella speranza di un incarico locale una volta perso il seggio in Parlamento. La cifra dei 170 rassegnati viene scodellata dagli eletti che hanno già cominciato a scommettere sulle proporzioni dei prossimi gruppi grillini di Camera e Senato. «Dai 227 che siamo ora, la prossima volta saremo in sessanta secondo le previsioni più rosee», calcolano tra Montecitorio e Palazzo Madama.

Perciò la non-sconfitta di Napoli assume i contorni di un premio di consolazione. Il Tribunale partenopeo, che a febbraio scorso aveva annullato il voto di agosto 2021 sulla leadership di Conte, stavolta ha rigettato tutte le contestazioni mosse dai ricorrenti. Dalla violazione dei principi di parità degli associati, con la candidatura di Giuseppe Conte all'eleggibilità esclusiva di pochi negli organi di garanzia. Nessuna sospensiva per la seconda votazione di marzo scorso. Ma comunque non si tratta di un verdetto definitivo, perché poi i giudici entreranno nel merito in seguito, con la sentenza di primo grado. «Il Tribunale di Napoli ha respinto il ricorso in sede cautelare contro lo Statuto e le democratiche scelte dei nostri iscritti sul futuro del M5S - twitta Conte - andiamo avanti per il rilancio del nuovo corso». «Il Tribunale di Napoli ha messo fine a un lungo e penoso teatrino», commenta la vice di Conte Paola Taverna. «Un'ottima notizia per la nostra comunità. Ora andiamo avanti. Continuiamo a lavorare con determinazione e responsabilità», esulta il presidente della Camera Roberto Fico. «Il tribunale di Napoli ci ha dato ragione, è una vittoria di Conte», spiega all'Adnkronos Francesco Cardarelli, uno dei legali del M5s.

I problemi restano sotto il tappeto. E fino alle Politiche del 2023 Conte avrà a che fare con parlamentari mal disposti a seguirlo. «Qualcuno tenterà di andare con la Meloni o con il Pd, tutti gli altri vogliono solo lo stipendio e voterebbero la fiducia anche a Hitler pur di finire la legislatura», dice al Giornale un senatore al secondo mandato.

Sempre sul fronte parlamentare, per tutta la giornata ha tenuto banco l'intervista del vice di Conte Mario Turco a La Gazzetta del Mezzogiorno. «Sia chiaro, senza il presidente Conte, il M5s di fatto non esiste», la frase dell'ex sottosegretario a Chigi. «Ma stiamo scherzando? Siamo passati al partito personale? È un'eresia rispetto ai nostri valori», la reazione di un parlamentare. «Parole vergognose dai vertici M5s. Siamo passati dal Movimento 5 stelle al Movimento 1 Conte. Io non ho più parole», commenta il deputato Sergio Battelli. E non mancano le polemiche sui nuovi referenti regionali. «Conte ha premiato alcuni degli artefici del flop alle Amministrative, sono degli yesman», attacca un parlamentare.

"Ha un problema di coerenza...". Tutti gli errori del CamaleConte. Martina Piumatti l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

“Il Movimento è al capolinea e Conte non ha il carisma politico per arrestare il declino”: Massimiliano Panarari traccia la diagnosi di una celebrità che si crede leader.

La quasi scomparsa dalle liste elettorali, la caduta libera nei sondaggi. Le spallate al governo, prima annunciate e poi smentite, l’amore odio con i dem, i rumors su un possibile divorzio dal M5s per un partito tutto suo, fino al verdetto che ne decreterebbe l’uscita di scena definitiva. Massimiliano Panarari, docente di sociologia della comunicazione all’Università Mercatorum esperto dei 5 stelle, spiega perché quella di Giuseppe Conte è una leadership mancata, tra “l'incompatibilità di fondo” con il MoVimento che dovrebbe guidare e un “populismo apprettato” che ormai non convince più.

In un anno di presidenza Conte il M5s ha perso costantemente punti nei sondaggi. Ha ragione Curzio Maltese che incolpa l’ex premier di aver messo in ginocchio il MoVimento perché ne ha ignorato i valori fondanti?

“Nel M5s in realtà i valori sono molto general generici. Come tutti i partiti neo populisti, è caratterizzato da un modello catch-all, cioè che piglia da tutte le parti grazie proprio alla genericità dei propri valori di fondo. Le istanze generiche della politica antisistema garantiscono un facile successo alle urne, ma poi il problema è la discrasia fra le promesse mirabolanti e le realizzazioni mancate. E questo è un ulteriore elemento di delusione e di destituzione presso l’elettorato 5 stelle”.

Rispetto a 5 anni fa il M5s ha presentato il 70% in meno delle liste elettorali. Questa ritirata tradisce proprio la paura della punizione degli elettori delusi?

“Prima cosa, c’è una difficoltà organizzativa sul territorio dovuta a forti contrasti interni che hanno via via distrutto il radicamento territoriale dei meet-up delle origini. Poi, essendo il M5s un movimento d’opinione nazionale considera la questione territoriale meno rilevante e la usa per scaricare gli scontri fra le varie correnti, che così faticano a trovare la quadra. Last but not least, il campo largo con il Pd è un’alleanza incerta con una distanza che Giuseppe Conte non perde occasione di rimarcare in campagna elettorale. Quindi essendo già deboli autonomamente i 5 stelle finiscono per essere minori anche nei casi in cui si presentano con il Pd”.

Allora domenica finirà male per il MoVimento?

“Dai sondaggi dovremmo assistere a un ulteriore ridimensionamento. Se così sarà le tensioni intestine continueranno a moltiplicarsi, anche se difficilmente esploderanno, continuando a logorare dall’interno. Mentre lo scontro principale, quello Di Maio versus Conte, potrebbe assumere i caratteri di guerriglia vera e propria con un problema: in questo caso investirebbe la tenuta del governo”.

Secondo Enrica Sabatini, il MoVimento paga l’errore di Conte “di voler qualcosa che tutti sapevano che non era in grado di ottenere, ossia essere il leader di una forza politica." È così?

“Conte utilizza un linguaggio anti sistemico ma è stato presidente del Consiglio per due volte. Possiede un patrimonio personale di consenso che però non ha utilizzato nella scalata al MoVimento e che non coincide con quelle che erano le motivazioni anti sistemiche originarie per cui tanti hanno votato i 5 stelle. Quindi siamo di fronte a un paradosso, uno degli infiniti paradossi che riguardano la figura di Giuseppe Conte”.

L'ex premier ha preannunciato, per il 21 giugno, una resa dei conti in Aula sulla questione dell’invio delle armi in Ucraina. Molto rumore per nulla o la spallata ci sarà davvero?

“Credo che tutto dipenderà dal risultato delle amministrative. Molti sostengono che strappando e uscendo dal governo riguadagnerebbe punti e agibilità politica, ma questo non è detto e relegandosi a una posizione di opposizione potrebbe essere punito alle elezioni politiche dell’anno prossimo. Poi l’ala governista del MoVimento, guidata da Di Maio, e molti eletti che, con il taglio dei parlamentari difficilmente verrebbero riconfermati, non hanno alcuna intenzione di chiudere questa esperienza di governo. La mia idea è che Conte voglia alzare il più possibile la posta senza strappare”.

Il problema di Conte quindi è anche una comunicazione politica fatta di sparate propagandistiche che vanno a finire in niente.

“Sicuramente c’è un problema di coerenza. Il Movimento 5 Stelle ha avuto successo proprio per le sue proposte antisistema, ma poi con Conte questo ingranaggio si è scassato, perché non puoi essere antisistema e andare al governo due volte. Il populismo è stato congelato dalla pandemia, sterilizzato dal governo Draghi per confluire nelle istanze no vax e filopuntiniste. Ma c’è ancora, si gonfia a intermittenza e va alla ricerca di un’offerta politica che nel M5s di Conte non esiste, perché la verità è che Conte è un uomo di sistema. In politica è riuscito solo per un breve periodo ad essere il frontman dell’ala movimentista dei 5s, seppure un po’ apprettata, abituata a un’escalation simbolica dello scontro ad ogni mancato raggiungimento di obiettivi concreti. Un’alzata dei toni che, però, non è nelle corde di Conte.”

Gli manca la stoffa del leader politico?

“Una caratteristica del ‘CamaleConte’ è di essere molto adattabile alle circostanze, ha la capacità, come diceva Berlusconi, di farsi concavo e convesso. Ed è chiaro che quando il contesto è negativo è molto più difficile, perché bisogna prendere delle decisioni radicali che Conte non è in grado di prendere perché è un doroteo postmoderno. Non è un leader carismatico e decisionista, ma è un politico celebrtity”.

Però, sondaggi alla mano, il gradimento personale dell’ex premier supera il 30%, secondo solo a Giorgia Meloni.

“Conte è in grado di riscuotere consenso personale con caratteristiche che non sono politiche, ma legate alla sua figura, alla sua presentabilità di politico celebrity: del tutto incompatibile con il MoVimento. E un’ulteriore conferma ce la potranno dare le elezioni amministrative di domenica”.

Se il verdetto del tribunale di Napoli sulla validità dello statuto del M5s, e dunque della sua leadership, fosse negativo, Conte potrebbe prendere la palla al balzo e fondare un partito tutto suo?

“Fino ad ora non lo ha fatto per paura di rischiare, perché servono investimenti, strutture organizzative che in questo momento è complicato mettere in campo e perché la scommessa dei maggiorenti 5 stelle era che la sua popolarità potesse rivitalizzare il MoVimento. Cosa che evidentemente non sta riuscendo. Quindi, se la sentenza del tribunale fosse negativa potrebbe farlo ora. E sarebbe una nemesi per il M5s che ha molto giocato di sponda con alcuni pezzi della magistratura e ora vedrebbe il suo leader estromesso dalla stessa magistratura”.

Via Conte nel M5s sarebbero finiti i problemi?

“Non è un problema di leadership ma di ragione sociale di quello che il grande paradosso, la forma per eccellenza della politica post-moderna in Italia che è il M5s. Il MoVimento ha esaurito la sua spinta propulsiva e la mission per la quale è stato votato. Servirebbe un leader trasformatore capace di ridargli un’anima e nuovi obiettivi per esistere. Conte è solo un temporeggiatore adatto a contenere il declino. E comunque non è detto che avere una nuova mission basti, perché credo che il breve ciclo vitale del M5s sia arrivato al capolinea”.

“Io Giuseppe Conte mi iscrivo al M5S”: la discussa lettera last minute con cui l’ex premier era diventato grillino un attimo prima del voto del nuovo statuto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Giugno 2022.

Secondo i ricorrenti l'adesione di Conte sarebbe avvenuta in un periodo in cui sul nuovo sito 5 Stelle era sospesa la procedura di iscrizione: «Questo – accusano i ricorrenti – dimostra l'eccezionalismo di cui ha goduto Conte».

Con una mail Giuseppe Conte è entrato nella “famiglia” del Movimento 5 Stelle: «Il sottoscritto Giuseppe Conte nato a Volturara Appula (Fg) il 08/08/1964…». Il messaggio venne inviato il 17 luglio 2021, alle ore 16:48 al Comitato di garanzia pentastellato. La lettera, di cui l’agenzia Adnkronos è in possesso, è agli atti del processo che è in corso davanti al Tribunale di Napoli, dove domani si svolgerà l’udienza sul nuovo ricorso presentato da un gruppo di attivisti contro lo statuto e il voto che ha incoronato Conte leader del Movimento.

«Dichiaro che i dati sono autentici e completi. Dichiaro inoltre di non aver compiuto altre iscrizioni al Movimento 5 Stelle. Dichiaro di aver preso visione dell’informativa sul trattamento dei dati personali fornitami dal Titolare Associazione Movimento 5 Stelle con sede legale in Roma, Via Nomentana 257, ai sensi dell’art. 13 e 14 del a Regolamento Europeo sulla privacy», scrive Conte nella mail che ha come oggetto “Iscrizione al Movimento 5 Stelle”, aggiungendo: «Dichiaro di aver letto e di accettare le previsioni dello Statuto e del Codice Etico dell’Associazione Movimento 5 Stelle assumendo l’obbligo di rispettarne le previsioni. Dichiaro di aver preso visione dell’organigramma dell’Associazione Movimento 5 Stelle accettando e riconoscendo la legittimità del medesimo». 

Secondo i legali del M5S questa mail certifica l’iscrizione di Conte al M5S nei giorni che hanno preceduto il primo voto sullo statuto, votazione avvenuta la prima settimana di agosto 2021. I ricorrenti invece a loro volta contestano la sua modalità di iscrizione, perché nella mail non sarebbe chiaramente espressa la volontà dell’ex premier di aderire al M5S: inoltre, evidenziano gli attivisti, il messaggio non è accompagnato dal documento di identità (richiesto a tutti coloro che intendono iscriversi al M5S).

Infine sempre secondo i ricorrenti l’adesione di Conte sarebbe avvenuta in un periodo in cui sul nuovo sito 5 Stelle era sospesa la procedura di iscrizione: «Questo – accusano i ricorrenti – dimostra l’eccezionalismo di cui ha goduto Conte». Redazione CdG 1947

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 24 aprile 2022.  

Caro Merlo, sono deluso di Conte e dei 5S: ascolto che, secondo il leader Conte, Le Pen "pone questioni da affrontare". Non riesco a credere alle mie orecchie: possibile una scemenza del genere? Anche Meloni pone questioni da affrontare, ma si dichiara "coraggiosamente" di destra. Gualtiero Todini – Roma 

Risposta di Francesco Merlo: Ora chiuda gli occhi e ripercorra la storia di Conte. È sempre stato una finzione dell'Italia a 5 stelle, l'Agilulfo di Calvino, che non era un cavaliere ma una lucida armatura vuota. Se preferisce il cinema, è il "quo vado" di Zalone: cerca ancora il posto fisso.

Dagonews il 27 aprile 2022.

Quella oscura e intricata vicenda nota come “Russiagate” (il tentativo, da parte dell'amministrazione Trump, di abbattere con una contro-indagine l'inchiesta originaria del Fbi e del procuratore Robert Mueller sull'interferenza della Russia nelle elezioni americane 2016) ha lasciato in Italia gli stessi veleni depositati negli Stati uniti.

Al centro dei tanti interrogativi sul caso ci sono Giuseppe Conte e l’ex capo del Dis, Gennaro Vecchione. 

Quest’ultimo, il 15 agosto del 2019, incontrò riservatamente in un ristorante a piazza delle Coppelle a Roma l’allora segretario alla Giustizia

William Barr, arrivato in Italia in missione per cercare informazioni sulla presunta cospirazione dei democratici a danno di Trump.

Conte sostiene di non aver saputo nulla della “semplice cena conviviale”, come l’ha liquidata Vecchione: “Non sono stato informato perché non era necessario”. 

Un presidente del Consiglio può essere tenuto all’oscuro dell’incontro del capo dei Servizi segreti con un pezzo da novanta come Barr, arrivato appositamente in Italia per parlare con i vertici dell’Intelligence?

Di certo quella cena fu tenuta nascosta sia all’ambasciata americana a Roma che all’Fbi, considerata allora “nemica” da Trump. 

I nostri 007 non condivisero l’informazione con gli omologhi statunitensi in Italia. Come mai? Chi ordinò il silenzio su quell’incontro?

E soprattutto: di cosa si parlò durante la cena, a cui partecipò addirittura il procuratore John Durham, che stava indagando sul caso? Uno dei temi affrontati fu la sorte del professore maltese Joseph Mifsud.

Docente della Link University, era stato il primo a rivelare a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, dell'esistenza di mail hackerate a Hillary Clinton, materiale che Mifsud definì “compromettente”. 

Come spiega Iacoboni: “Papadopoulos aveva riferito la cosa a un diplomatico australiano, che avvisò l'Fbi e diede quindi l'innesco all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate.

Per Mueller, Mifsud era uomo in mano ai russi (per l'ex capo Fbi James Comey era proprio “un agente russo”) e alle operazioni di interferenza di Putin nelle elezioni Usa del 2016. 

Trump e Barr volevano invece (e, risulterà, senza fondamento) sostenere che Mifsud fosse una spia britannica, tassello di un complotto mondiale ai danni di Trump organizzato dai democratici di Obama, complice l'Italia del governo Renzi. Da allora Mifsud è sparito. Forse in Russia, forse non più vivo”. 

Barr voleva dall’intelligence italiana informazioni su Mifsud. Trovarlo e farlo “cantare” era l’obiettivo numero uno per Trump. Ma del fantomatico professore si sono perse le tracce da tempo. 

E’ molto probabile che, quando gli americani hanno iniziato a dargli la caccia, uno dei suoi amici oligarchi (a cui vendeva passaporti maltesi a 1 milione di dollari ciascuno) l’abbia invitato a nascondersi in Russia.

A quel punto, nelle mani dell’Fsb, il servizio segreto russo, Mifsud potrebbe essere stato “silenziato” per evitare che cadesse in mani americane. Un silenzio ovviamente tombale.

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 22 aprile 2022.

Una mail dal contenuto molto chiaro: «Cerchiamo informazioni per il Russiagate». L'incontro improvviso di Ferragosto a Roma, nello stupore generale, con la giustificazione un po' surreale: «Barr è in vacanza da quelle parti». 

Lo strappo degli allora direttori delle due agenzie di intelligence, Luciano Carta (Aise) e Mario Parente (Aisi) che prima dicono di non voler incontrare l'Attorney general americano, William Barr, per la sgrammaticatura istituzionale di tutta l'operazione. E 24 ore dopo, quando invece lo devono fare perché arriva una comunicazione scritta dell'ex capo del Dis, Gennaro Vecchione, quell'incontro lo fanno durare pochi minuti: mettono a verbale che non hanno alcun elemento da condividere, e via.

Se il Copasir mercoledì ha deciso di non riaprire il fascicolo Russiagate, nonostante le rivelazioni di Repubblica sulla cena di Ferragosto 2019 tra il capo italiano dei servizi e i vertici americani, è perché agli atti del comitato esisteva già una ricostruzione precisa di quanto accaduto in quelle ore. Una ricostruzione che mette in fila protagonisti, ruoli e responsabilità.

(…) Innanzitutto la partenza: tutto comincia con una lettera dell'ambasciata americana con la quale viene chiesta collaborazione all'Italia sul caso Russiagate. L'allora premier Giuseppe Conte affida il fascicolo al capo del Dis, Vecchione. 

A lui, e non al ministro della Giustizia, cioè l'omologo di Barr, perché - spiega Conte - Barr svolgeva in quel momento il ruolo di capo dell'Fbi. «Ma se anche fosse letta così - fa notare una fonte - l'Fbi si occupa di affari interni. Perché doveva indagare sul Russiagate?».

In ogni caso Conte sceglie Vecchione. Ed è il capo del Dis che viene chiamato quando, a sorpresa, a Ferragosto Barr è in Italia. «È in vacanza» diranno, anche se si presenta con John Durham, il procuratore che stava conducendo l'inchiesta sul Russiagate. Quindi, o i due sono in vacanza insieme. O c'è qualche problema. 

Fatto sta che Vecchione quel 15 agosto è a Castelvolturno, in Campania, al fianco dell'allora ministro degli Interni, Matteo Salvini. Ci sono anche Carta e Parente. A cui però non dice niente degli americani a Roma: finito il comitato, Vecchione corre nella Capitale per incontrare Barr. Cosa si siano detti è ignoto. 

Vecchione ieri ha spiegato via agenzie (mentre il Copasir era riunito per decidere se riascoltarlo): «La conversazione si è orientata su convenevoli di carattere generale ». Bizzarro, non fosse altro che l'oggetto dell'incontro, il Russiagate appunto, era noto a tutti. In ogni caso, esisterebbe una memo di quell'incontro.

Fatto sta che quando un mese dopo, siamo al 26 settembre, Vecchione convoca i direttori di Aise e Aisi per spiegare loro che 24 ore dopo avrebbero dovuto vedere Barr, che stava tornando in Italia per discutere del Russiagate, i due dirigenti italiani non nascondono il loro disappunto.

Nulla sapevano e soprattutto nulla avevano da condividere. Vista la forma dell'incontro e la sostanza della vicenda. Vecchione forza e li convoca per iscritto. Ventiquattro ore dopo, seduti allo stesso tavolo, fanno mettere a verbale: «Nulla da dire sull'argomento».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 aprile 2022.

Il 23 ottobre 2019 l'allora premier Giuseppe Conte, dopo esser stato audito al Copasir sullo scandalo del cosiddetto "Russiagate", si presentò in conferenza stampa e, riassumendo ciò che aveva detto al Comitato, disse tre cose. 

Uno: che il 15 agosto 2019 il ministro della giustizia di Trump, Wiliam Barr si era visto con il capo del Dis, Gennaro Vecchione, solo nella sede istituzionale di piazza Dante.

Due: «Mi risulta che William Barr fosse qui in Italia per motivi personali». Tre: «Il presidente Trump non mi ha mai parlato di questa inchiesta». A quale inchiesta si riferiva Conte?

L'inchiesta, che spesso viene giornalisticamente chiamata "Russiagate", era il tentativo, da parte dell'amministrazione Trump, di abbattere (con una contro-indagine) l'inchiesta originaria del Fbi e del procuratore Robert Mueller sull'interferenza della Russia nelle elezioni americane 2016. Per questo motivo vennero mandati in Italia, a più riprese nell'estate 2019, Barr, il procuratore speciale John Duhram e (attenzione) ispettori del Dipartimento di giustizia (non del Fbi).

Il loro compito era trovare sostegno a questa teoria: che l'Fbi di James Comey aveva iniziato a indagare su Trump sulla base di un complotto internazionale dei democratici (di Obama), partito dall'Italia (di Renzi). Al centro c'era un professore maltese della Link University, Joseph Misfud, che proprio a Roma diede per primo a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, l'informazione che esistevano mail hackerate di Hilllary Clinton, materiale «compromettente», quindi utile alla campagna Trump. Papadopoulos lo riferì a un diplomatico australiano. Il quale lo riferì al Fbi.

E nacque l'inchiesta (che, per inciso, non approdò assolutamente a nulla). Per l'Fbi, Mifsud era «un agente russo» (per Mueller, un asset dei russi): tesi provata da tante evidenze, anche forensi (tra cui i contatti di Mifsud con computer di russi della Difesa e del GRU). Si trattava di scoprire quanto fosse anche in contatto con la campagna Trump. Trump e Barr, invece, volevano sostenere che Mifsud era un agente al servizio dei democratici occidentali, in particolare una spia britannica. Per questo Barr fu inviato in Gran Bretagna, in Italia, e in Australia. Estate impegnata.

La prima delle tre affermazioni di Conte in quella conferenza stampa è stata smentita dalla rivelazione di una cena (quindi non solo l'incontro in piazza Dante) avvenuta in un ristorante romano tra Barr e Vecchione. La seconda e la terza vengono adesso messe in crisi dall'uscita del libro di memorie di William Barr, "One Damn Thing After Another: Memoirs of an Attorney General", un piccolo tesoro di informazioni. Su tante altre si dovrà tornare in seguito, ma qui fermiamoci su due: intanto, Barr dice esplicitamente che non era affatto in Italia per motivi personali, ma in missione.

E, soprattutto, l'Attorney general racconta di aver esplicitamente chiesto a Trump, e di averlo stressato su questo, di parlare dell'inchiesta con i premier di Italia, Regno Unito, Australia. Barr conferma (come detto da Conte) che la pratica fu aperta parlando con l'ambasciatore italiano e con "senior officials" italiani, ma aggiunge che anche Trump fu coinvolto eccome: «Ho viaggiato sia in Italia che nel Regno Unito per spiegare l'indagine di Durham e chiedere assistenza o informazioni che potessero fornire. Ho avvisato il Presidente che avremmo preso questi contatti e gli ho chiesto di menzionare l'indagine di Durham ai primi ministri dei tre paesi, sottolineando l'importanza del loro aiuto».

Barr chiede esplicitamente a Trump di sponsorizzare l'indagine di Durham con Conte. Barr racconta tutto questo per difendersi dalle accuse in America più scottanti, quella di aver partecipato alla parte ucraina del complotto di Trump: «Al contrario - dice Barr - non ho mai parlato con gli ucraini o chiesto al presidente Trump di parlare con gli ucraini. Il presidente non mi ha mai chiesto di parlare con gli ucraini.

Né avevo parlato con Rudy Giuliani sull'Ucraina. Inoltre non ero a conoscenza di nessuno che al Dipartimento chiedesse agli ucraini di aprire un'indagine. Per quanto mi riguardava, se mai Durham avesse trovato un motivo per esaminare le attività ucraine, avrebbe svolto le indagini, non le avrebbe lasciate agli ucraini». Insomma: Barr sta dicendo che non c'erano prove contro i Biden. La storia della telefonata tra Zelensky e Trump, che uscì e portò alla richiesta di impeachment del Congresso per Trump, è nota: Zelensky resistette alle pressioni e richieste improprie trumpiane (di danneggiare la famiglia Biden). Possiamo dire che Conte abbia fatto lo stesso?

Marco Mancini, lo 007 fatto fuori da Report: "Immagino con grande soddisfazione dei russi". Libero Quotidiano il 23 aprile 2022.

Sigfrido Ranucci e la redazione di Report hanno sulla coscienza la fine della carriera di Marco Mancini. L’ex capo reparto del Dis è stato pre-pensionato lo scorso luglio, dopo essere stato esposto dal programma di Rai3 per l’incontro avvenuto in autogrill con Matteo Renzi a dicembre 2020. Dopo 30 anni passati nel controspionaggio italiano, Mancini è quindi stato costretto a rinunciare al suo lavoro a causa di un servizio di Report.

“Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media - ha dichiarato l’ex capo reparto del Dis all’Ansa - essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante. Peraltro, in quell’occasione, stavo facendo un semplice saluto pre-natalizio a un senatore della Repubblica italiana. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi”.

Quest’ultimo punto è poi stato approfondito da Mancini: “Se fosse accertato con sentenza definitiva che Walter Biot ha trafugato segreti dal patrimonio informativo italiano a favore dell’intelligence russa, ciò sarebbe la conferma della continua attività clandestina che gli agenti di Mosca svolgono attivamente tutt’ora, e sottolineo tutt’ora, sul nostro territorio nazionale”. Lo scorso luglio Mancini è stato messo in pre-pensionamento a causa delle polemiche scatenate dal servizio di Report sull’incontro con Renzi.

La rivelazione sul ruolo di Report. “Indagava sulle spie russe”, ecco perché Mancini fu fatto fuori dai servizi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Aprile 2022. 

I misteri del caso Barr-Vecchione e delle omissioni di Giuseppe Conte non cessano di far parlare. Nell’inner circle dell’intelligence italiana c’è chi sente scricchiolare un’asse. I più sensibili percepiscono che si starebbe aprendo uno squarcio. La rivelazione delle dinamiche tra Vecchione e Conte, tra il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti trumpiani e i vertici dei servizi italiani, finora rimaste al buio, potrebbero fornire una chiave insperata. Si stanno creando le condizioni per chiarire, uno a uno, diversi aspetti ancora oscuri. Con Il Riformista parla una fonte che deve rimanere coperta.

Nel maggio scorso Marco Mancini è ancora un brillante agente del Dis, l’agenzia che coordina Aisi e Aise, cioè i servizi segreti che si occupano rispettivamente dell’interno e degli esteri. Ha una lunga storia. Ha alle spalle una carriera nel Sismi (il servizio segreto militare predecessore dell’Aise) di cui diventa capo della Divisione controspionaggio, braccio destro del direttore Nicolò Pollari. E se entra nelle cronache per la vicenda Abu Omar, è per altro ad essere rispettato e temuto. È ostile ai russi. È convinto che quelli stiano tessendo la loro trama dentro l’ordito delle istituzioni. Che qua e là stiano persuadendo gli interlocutori politici e i decisori pubblici, con argomenti sonanti, delle loro ragioni. Va dunque fermato. E va fermato per tempo, quasi indovinando che di lì a nove mesi i russi provocheranno, con l’ingresso in Ucraina il 24 febbraio, una crisi di sistema senza precedenti.

Dalle verifiche che facciamo con ambienti del Copasir emerge che Marco Mancini mostrò dei messaggi ai membri del Comitato parlamentare sui servizi segreti, mettendo il suo cellulare a disposizione del sindacato ispettivo dei presenti. Dalla schermata si poteva evincere che Gennaro Vecchione conoscesse già il video che sarebbe poi apparso su Report in data successiva, ovvero nella puntata del 3 maggio scorso. Testimoniando così come lo stesso Vecchione fosse perfettamente a conoscenza del fatto che quel video “rubato” all’Autogrill stava per irrompere nelle case degli italiani. Provocando la caduta in disgrazia di Mancini, la fine della sua ascesa e della sua carriera. Torniamo a quella vicenda, alla trappola tesa a Mancini nel momento in cui il n.2 del Dis stava per esserne nominato a capo. Perché in quei giorni avviene qualcosa di particolare. Nella famigerata puntata di Report – ormai noto il meccanismo del “video recapitato da un anonimo, arrivato nella nostra redazione da chissà dove” – si fa intervenire una figura in controluce. E chi ci parla solleva una serie di interrogativi.

Si inquadra infatti uno che si qualifica come ex agente del Sismi che identifica Marco Mancini. «Questa estromissione di Mancini non è che sia stato un favore fatto ai russi, in cui Franco Gabrielli si è trovato ad essere un mero passaggio?», la domanda retorica. I dubbi sorgono: come mai i vertici del Dis invece di intervenire sui misteri delle due visite di Barr a Roma, nel giugno e nell’agosto 2019, che agli addetti ai lavori erano parse subito molto sui generis, si dedicano con tanta decisione all’incontro Renzi-Mancini? Facciamo un passo indietro: Marco Mancini doveva diventare capo dei servizi segreti con la esplicita benedizione di Luigi Di Maio. Dopo aver incontrato Renzi, finisce in una raffica di fango. Si compie una operazione di siluramento tramite Report, che punta i fari soprattutto contro Renzi, ma che in realtà colpisce e affonda solo l’interlocutore di Renzi. Quel Marco Mancini che risultava sgradito a qualcuno. E forse di più: intollerabile. Ma chi è il testimone di cui Report si serve per apporre il sigillo dell’autenticità all’identificazione di Mancini? Abbiamo interrogato qualche fonte. In studio il personaggio è travisato, non riconoscibile. Ma se c’è qualcuno che lo riconosce, quello non può che essere lo stesso Mancini. «C’è da chiedersi come sono arrivati a lui», ci dice una fonte che i servizi li frequenta, e non da oggi. «C’è da chiedersi se quell’agente – o ex agente – non fosse legato ai russi», aggiunge.

Il testimone misterioso che va in video, non riconoscibile, suscita un sospetto nella fonte che abbiamo consultato: lo fa per accertarsi che Mancini venga indubitabilmente messo all’indice. Nel libro Oligarchi, Jacopo Iacoboni scrive che «Aisi e Aise non hanno collaborato, nella vicenda dei russi». Lo scrive uno che le fonti le ha consultate. Adombrando una frattura risalente nel tempo che solo nel maggio 2021 ha portato all’auspicato allontanamento di Mancini. «Non c’è alcun disegno da parte di Gabrielli. Ed è una pratica che si è trovata davanti Elisabetta Belloni, come dossier da affrontare appena nominata. Non rimandabile», rivela la nostra fonte. E Report è stato solo uno strumento di cui altri si sono serviti, lo schermo sul quale proiettare un film scritto altrove. Giovanni Minoli intervista Gabrielli e glielo chiede: “Perché Mancini è stato invitato ad andarsene in pensione?” – “Non è stato invitato con riferimento a quella vicenda ma per tutta una serie di altre questioni che non è il caso di approfondire”, la risposta. Non c’è alcuna ragione di dubitare della sincerità di quelle parole. La rimozione di Mancini però da qualcuno è stata ispirata. E per qualche ragione ben diversa dall’aver incontrato il senatore Renzi all’Autogrill. «Mancini ha portato all’emersione di una rete di spioni russi in tutt’Europa. Non solo in Italia».

Il 30 marzo 2021 viene arrestato a Roma l’ufficiale della Marina militare Walter Biot, responsabile di aver trafugato una serie di documenti segreti Nato per rivenderli alla Russia. Un gran goal del nostro controspionaggio, consolidato dalle prove che hanno portato a una condanna . Peccato che per festeggiarlo, sessanta giorni dopo, si sia deciso di far saltare la testa di chi quelle operazioni le aveva volute e instradate da tempo. Al Dis chiamano Mancini. Lo convocano per comunicazioni urgenti. «La Belloni non se l’è sentita di affrontarlo per comunicargli che era giunto al capolinea. E ha dato l’incarico al suo povero vice, Bruno Valensise», raccontano le cronache. L’incontro tra i due era iniziato alle 11 del mattino ed è finito alle 17, altro che comunicazioni. Sei ore di faccia a faccia che – racconta chi ha avuto modo di origliare – si è svolto senza esclusione di colpi. Bruno Valensise era stato nominato vicedirettore vicario del Dis nel settembre 2019 dal governo guidato da Giuseppe Conte. Conte aveva optato per lui, risorsa interna di lunga esperienza, per coadiuvare il lavoro di Gennaro Vecchione.

Valensise era così diventato il tutor del neonominato capo dei servizi, l’uomo di fiducia del fiduciario di Conte. Lo accompagnava ovunque, negli appuntamenti. Era stato con Vecchione alla Link Campus University, e con lui aveva incontrato il ministro della Giustizia William Barr, partecipando all’agenda segreta di quel Ferragosto di cui si viene oggi a sapere. L’Attorney general tornerà in Italia anche il 27 agosto, data in cui, accompagnato da Durham, tornerà ad incontrare i vertici dei servizi: alla riunione oltre a Vecchione, partecipano anche i direttori di allora di Aise, Luciano Carta, e Aisi, Mario Parente. Gli americani tornarono a casa soddisfatti della trasferta romana, con la ciliegina sulla torta della cena nel sontuoso ristorante romano di piazza delle Coppelle. «Si è parlato in termini generici, con i soliti convenevoli», si è schernito il prefetto Vecchione.

Eppure il procuratore John Durham dichiarò di aver potuto estendere la sua inchiesta, grazie alle informazioni ottenute in quegli incontri. Un funzionario dell’ambasciata americana a Roma confermò al Daily Beast che quella di Barr era stata una visita inaspettata e che gli americani erano particolarmente interessati da ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto di Joseph Mifsud, il misterioso docente maltese al centro del Russiagate americano. Un agente russo, per alcuni, dell’Fbi secondo altri. Doppiogiochista, sospettano i nostri servizi. L’uomo è scomparso nel nulla: si è volatilizzato senza lasciare traccia il 31 ottobre 2017. Sarebbe stato lui a gestire il traffico di informazioni riservate tra Putin e Trump. E forse a conoscere la rete degli informatori russi sui quali indagava Marco Mancini. Tanti i risvolti ancora oscuri, i misteri irrisolti che si dipanano intorno al Dis nel finale di stagione del governo Conte. Per iniziare a capirne qualcosa di più, le istituzioni avrebbero il boccino in mano, se volessero. Basterebbe ascoltare Marco Mancini al Copasir. Se solo volessero.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Marco Mancini, la spia anti-Putin rimossa da Conte: “Chi aveva arrestato prima di essere cacciato”. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 24 aprile 2022.

Sembra che si scoprano le carte, invece si nascondono. Perciò, nel gioco, non resta che sparigliare, come ha fatto ieri Marco Mancini, con trent'anni di esperienza nell'intelligence italiana durante i quali ha «potuto constatare il continuo aumento della presenza nel mondo di agenti prima sovietici (Kgb Gru) e poi russi (Fsb - Svr Gru)». In una dichiarazione all'Ansa rivela che «diverse operazioni di controspionaggio hanno fatto emergere la determinata spregiudicatezza degli agenti operativi di Mosca presenti sul nostro territorio nazionale. Ritengo che i servizi segreti russi in Italia e all'estero abbiamo costantemente mantenuto una capillare e continua attività di ricerca informativa attraverso "covert operation" dedicate, per raggiungere target stabiliti da Mosca. L'intelligence russa conduce queste operazioni anche per mezzo del reclutamento di fonti umane, scelte con particolare abilità».

LA TRAPPOLA

Peccato che la struttura che presiedeva al controspionaggio sia stata smantellata come ricordava Aldo Torchiaro sul Riformista di venerdì proprio dopo il successo dell'operazione che il 30 marzo 2021 aveva portato all'arresto dell'ufficiale della Marina Militare Walter Biot, accusato di aver passato documenti militari riservati a diplomatici di Vladimir Putin a Roma. Tanto da far emergere il sospetto di un'influenza politica del Cremlino sugli equilibri di governo e le dinamiche interne agli stessi servizi segreti italiani. Mancini, parlando all'Ansa, si riferisce anche alle vicende che nel luglio scorso hanno portato al suo pre-pensionamento da capo-reparto del Dis, cioè il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, l'autorità che coordina l'intelligence italiana. Report, il programma televisivo di Raitre condotto da Sigfrido Ranucci (uno che sostiene, vantandosi, di disporre di decine di migliaia di dossier), aveva messo in onda le immagini dell'incontro avvenuto in autogrill fra Mancini e il leader di Italia Viva Matteo Renzi nel dicembre 2020. «In quell'occasione, stavo facendo un semplice saluto prenatalizio a un senatore della Repubblica italiana», ricostruisce Mancini. Tuttavia, «a causa di tale operazione mediatica ho perso il posto di lavoro. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi».

In realtà, ricorda ancora Torchiaro, quell'episodio s' intreccia con le visite in Italia dell'allora ministro della Giustizia degli Stati Uniti, William Barr, alla ricerca di notizie sul Russiagate che coinvolgeva il presidente americano, Donald Trump. L'Attorney General cercava informazioni sul maltese Joseph Mifsud, sospettato di aver fatto da tramite fra Trump e Putin. E le aveva chieste, secondo i media Usa, a uno stretto collaboratore dell'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, cioè Gennaro Vecchione, direttore generale del Dis. Quest'ultimo, aveva riferito Mancini il 14 luglio al Copasir - il Comitato parlamentare di sorveglianza sui servizi segreti - conosceva anche in anticipo i video di Report ed era informato sulla loro programmazione prevista il 3 maggio 2021. «Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media. Essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante», commenta Mancini.

LA MINACCIA

Nel linguaggio delle spie, suona come un allarme, visto che a Mancini era stata tolta la scorta che gli era stata assegnata in seguito alle minacce di morte ricevute mentre era il capo dell'Aise (che si occupa della sicurezza esterna) in quel crocevia di spie che è Vienna. Se anche l'attuale presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, domenica scorsa al Corriere della Sera confidava che, rispetto alla guerra in Ucraina, «dobbiamo riconoscere che nei mesi scorsi, prima e durante l'invasione, l'intelligence americana aveva le informazioni che si sono rivelate più accurate», qualche problema c'è. L'intelligence italiana conta su un organico di 5mila persone, e costa un miliardo di euro. Ma non si era accorta di niente.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 24 aprile 2022.

La decisione di forzare le regole sul caso Barr era stata presa da Giuseppe Conte, nonostante le resistenze del ministero degli Esteri e dei capi delle due agenzie Aise e Aisi. È la conclusione a cui porta la ricostruzione dei fatti di Repubblica, che dovrebbe spingere il Copasir a riaprire l'indagine, nonostante il presidente Urso abbia in programma una visita a Washington in giugno. O forse proprio per questo.

L'Attorney General aveva contattato l'ambasciatore Armando Varricchio, per spiegare il "Russiagate" e chiedere un incontro con i servizi, insieme al procuratore John Durham. Varricchio aveva informato il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, ma la Farnesina aveva frenato, perché riteneva che la richiesta dovesse passare dal ministero della Giustizia. L'ambasciatore allora aveva informato Palazzo Chigi e Conte aveva deciso di occuparsi del caso, affidandolo al direttore del Dis Gennaro Vecchione, che lui aveva nominato. Così si era arrivati alla visita di Barr a Roma il 15 agosto, seguita dalla cena al ristorante Casa Coppelle.

Quando il 27 settembre era tornato in Italia, per raccogliere le informazioni richieste a Ferragosto, Vecchione aveva chiesto ai direttori di Aise e Aisi, Luciano Carta e Mario Parente, di partecipare. Entrambi si erano opposti, perché ritenevano che il canale seguito non fosse corretto, e allora il capo del Dis aveva emesso un ordine scritto per obbligarli a venire. Carta e Parente avevano obbedito, ma si erano limitati a dire che non avevano nulla da aggiungere.

Quindi era stato spiegato a Durham che se voleva interrogare Joseph Mifsud, professore maltese della Link Campus University sospettato di essere all'origine del "Russiagate", doveva seguire il canale giudiziario, presentando la richiesta che avrebbe dovuto inoltrare dal principio.

Siccome Mifsud non era nelle mani degli italiani, per cercarlo e arrestarlo serviva l'ordine di un magistrato. Durham in effetti fece la richiesta, che però rimase lettera morta, perché non conteneva prove o ipotesi di reato credibili. Gli italiani peraltro sostengono che non sanno dove sia Mifsud, e l'ultimo recapito noto sarebbe una villetta fra Abruzzo e Marche dove si era nascosto. 

Se questa ricostruzione fosse confermata, solleverebbe diversi interrogativi da porre a Conte. 

L'ex premier dice di non aver mai incontrato Barr, ma per confermarlo bisognerebbe quanto meno appurare l'agenda dell'Attorney General nella visita di settembre, quando in base ai documenti ufficiali del suo Dipartimento era partito per Roma alle 7 del mattino del 26 ed era andato via alle 10 del 28. Davvero aveva passato circa 36 ore nella capitale solo per vedere Vecchione?

Conte dice che non sapeva della cena a Casa Coppelle e Vecchione ha spiegato che era solo cortesia istituzionale. Anche ammesso che sia così, resta una prassi assai singolare per i professionisti dell'intelligence. 

L'ex premier spiega che aveva aperto le porte a Barr in quanto responsabile dell'Fbi, impegnato in uno scambio tra agenzie sulla sicurezza nazionale, ma i fatti contraddicono palesemente questa versione, a cominciare dalla reazione di Carta e Parente. L'Attorney General non era venuto per catturare un terrorista, sgominare un attentato, o arrestare un boss mafioso. 

Era stato inviato da Trump per una missione politica finalizzata ad aiutarlo sul piano elettorale. Conte è troppo intelligente per non averlo capito, e quindi resta da chiarire perché si sia prestato a questo uso personale delle agenzie. 

L'ex premier dice che la visita di Barr non aveva come oggetto un'ipotesi di cooperazione giudiziaria, e perciò sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Ciò però è smentito dalla pratica inoltrata successivamente da Durham, che ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma non è stato accontentato perché la domanda non reggeva.

Conte infine sottolinea che Barr indagava sugli agenti americani, non italiani. Presumibilmente lo fa per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all'inchiesta Usa per tornaconto politico personale, ma così apre un altro caso. Il premier infatti avrebbe autorizzato il segretario ad incontrare i servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo il capo a Roma Michael Gaeta, con cui poi i nostri agenti dovevano lavorare ogni giorno per garantire davvero la sicurezza del Paese, mettendola così a rischio.

Il motivo per cui il Copasir ha deciso di non porre queste domande non è chiaro. Il presidente Urso ha già preso appuntamento per visitare i colleghi della Camera Usa a giugno, e sta finalizzando col Senato. Forse non vuole arrivare a Washington sulla scia della riapertura del caso, ma considerando quanto sta accadendo in America rischia che sia vero il contrario. Perché il Congresso a guida democratica sta cercando proprio la verità sull'assalto del 6 gennaio, con i potenziali annessi di Russiagate e Italygate. 

Fu Giuseppe Conte a forzare le regole sul “caso Barr” ? Sembrerebbe proprio di si. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Aprile 2022.  

L’Attorney General americano William Barr non era venuto a Roma per catturare un terrorista, o per evitare un attentato, o al limite arrestare un boss mafioso responsabile di crimini negli Stati Uniti, essendo stato inviato da Trump a Roma per una "missione politica" che lo potesse aiutare e sostenere elettoralmente. Conte è persona troppo attenta per non averlo intuito, e quindi resta da capire come si sia prestato a questo assurdo uso "personale" dei servizi italiani.

La decisione di forzare le regole di sicurezza nazionale venne presa da Giuseppe Conte, nonostante le forti resistenze del Ministero degli Esteri e dei vertici dei due “servizi” italiani, l’ Aise e l’ Aisi. Questa è la conclusione conseguenziale alla ricostruzione dei fatti del quotidiano La Repubblica, che dovrebbe spingere il Copasir a riaprire l’indagine, proprio mentre il presidente Adolfo Urso avrebbe in programma una visita a Washington a giugno.

L’ Attorney General americano William Barr si era rivolto all’ambasciatore Armando Varricchio, per informarlo sul “Russiagate” chiedendo un incontro insieme al procuratore John Durham con i servizi italiani. L’ambasciatore Varricchio aveva immediatamente informato il ministro degli Esteri (all’epoca dei fatti) Enzo Moavero Milanesi, ed i vertici diplomatici della Farnesina avevano frenato, ritenendo che la richiesta dovesse passare attraverso il Ministero della Giustizia. L’ambasciatore a quel punto informò la Presidenza del Consiglio ed il premier in carica, Giuseppe Conte aveva deciso di occuparsi personalmente del caso, affidandolo al direttore del Dis Gennaro Vecchione, che lui stesso aveva nominato alla guida del coordinamento dei servizi di intelligence italiana. Fu così che si arrivò al viaggio- visita di Barr a Roma il 15 agosto, a cui fece seguito la cena nel lussuoso ovattato ristorante “Casa Coppelle“.

Giuseppe Conte e Gennaro Vecchione

Quando il 27 settembre Barr tornò in Italia, per raccogliere le informazioni richieste a Ferragosto, Vecchione aveva chiesto di partecipare all’incontro ai rispettivi direttori di Aise e Aisi, il generale (Guardia di Finanza) Luciano Carta ed il generale ( Arma dei Carabinieri) Mario Parente. Entrambi si erano opposti, ritenendo che il canale seguito non fosse corretto, ed il capo del Dis Vecchione aveva addirittura emesso un ordine scritto per costringerli a venire obbedendo ad un ordine gerarchico.

Carta e Parente a quel punto furono costretti ad obbedire a Vecchione, ma si erano limitati a dire che non avevano nulla da aggiungere. Quindi era stato spiegato al procuratore Durham che se voleva interrogare Joseph Mifsud, professore maltese della Link Campus University sospettato di essere all’origine del “Russiagate”, doveva seguire il canale giudiziario, presentando la richiesta che avrebbe dovuto inoltrare dal principio. Siccome il professore Mifsud non era sotto il “controllo” dei servizi italiani, per cercarlo ed arrestarlo serviva l’ordine della magistratura. Infatti Durham a quel punto inoltrò la richiesta, che però rimase inevasa, in quanto non conteneva delle prove o ipotesi di reato attendibili. I servizi italiani spiegarono che non sapevano dove si trovasse Mifsud, e che l’ultimo suo recapito conosciuto era quello di una villetta fra Abruzzo e Marche dove si sarebbe nascosto. 

Nel caso questa ricostruzione venisse confermata, si solleverebbero diversi chiarimenti da rivolgere all’ex premier Conte, che sostiene di non aver mai incontrato Barr, ma per avere certezza delle sue dichiarazioni bisognerebbe quanto meno appurare l’agenda dell’ Attorney General americano Barr nella visita di settembre, quando in base ai documenti ufficiali del suo Dipartimento era partito per Roma alle 7 del mattino del 26 ed era andato via alle 10 del 28. Sarebbe molto poco credibile che abbia trascorso circa 36 ore a Roma solo per incontrare Vecchione.

una delle salette riservate del ristorante Casa Coppelle

Conte per difendersi sostiene che non era a conoscenza della cena al ristorante Casa Coppelle e Vecchione aveva spiegato che si era trattato soltanto di mera cortesia istituzionale. Volendo credere che sia così, a dire il vero resta una circostanza molto singolare per dei professionisti dell’intelligence.

L’ex premier grillino afferma di aver aperto le porte a Barr in quanto responsabile dell’Fbi, impegnato in uno scambio tra agenzie sulla sicurezza nazionale, ma in realtà i fatti contraddicono apertamente questa imbarazzante versione, come si evincere dalle reazioni di Carta e Parente. L’Attorney General Barr non era venuto a Roma per catturare un terrorista, o per evitare un attentato, o al limite arrestare un boss mafioso responsabile di crimini negli Stati Uniti, essendo stato inviato da Trump a Roma per una “missione politica” che lo potesse aiutare e sostenere elettoralmente. Conte è persona troppo attenta per non averlo intuito, e quindi resta da capire come si sia prestato a questo assurdo uso “personale” dei servizi italiani.

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump

L’ex premier Conte incalzato sostiene che la visita di Barr non aveva come oggetto un’ipotesi di cooperazione giudiziaria, e quindi sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Una versione che però viene smentita dalla richiesta inoltrata successivamente da Durham, il quale ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma la sua domanda non è stato accolta perché non reggeva la giustificazione di quella richiesta. Conte aggiunge che Barr indagava sugli agenti americani, non su quelli italiani, ma in realtà lo dice per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all’inchiesta Usa per tornaconto politico personale, e così facendo apre un’ altra questione.

Il premier in carica all’epoca dei fatti, e cioè “Giuseppi” (come lo chiamava Donald Trump) L’ex premier dice che la visita di Barr non aveva come oggetto un’ipotesi di cooperazione giudiziaria, e perciò sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Ciò però è smentito dalla pratica inoltrata successivamente da Durham, che ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma non è stato accontentato perché la domanda non reggeva. Conte inoltre sostiene che Barr indagava sugli agenti americani, non italiani. 

Presumibilmente lo fa per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all’inchiesta Usa per un mero tornaconto politico personale, ma così facendo si apre un’ altra questione. Il premier infatti avrebbe autorizzato l’ incontro con i servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell’Fbi, come il capocentro dell’ FBI a Roma Michael Gaeta, con il quale i gli agenti dei nostri “servizi” dovevano lavorare ogni giorno per garantire realmente la sicurezza del nostro Paese.

La motivazione per cui il Copasir ha deciso di non porre queste domande non è molto chiaro. Il presidente Adolfo Urso ha già preso appuntamento per visitare i colleghi della Camera Usa a giugno, ma forse non vuole arrivare a Washington sulla scia della riapertura del caso, considerando quanto sta accadendo in America, rischiando che emerga il contrario, anche perché il Congresso americano a guida democratica sta ricercando la verità sull’assalto del 6 gennaio, con i potenziali collegamenti di “Russiagate” e “Italygate“.

E’ opinione diffusa negli ambienti dell’ intelligence e della sicurezza italiana che l’intera vicenda “Russiagate” sia stata determinante nella decisione di Mario Draghi, appena nominato a Palazzo Chigi, di sostituire Vecchione che aveva ricevuto una proroga del suo incarico dal suo “sponsor” Giuseppe Conte prima che lasciasse la poltrona di premier. Ma non solo. Vecchione paga principalmente il suo incontro con Barr, e la gestione dell’incontro dell’ex capo reparto del Dis Marco Mancini (che è stato “pensionato” proprio per quell’incontro) a dicembre 2020 in un autogrill autostradale con Matteo Renzi.

“Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media – ha dichiarato all’Ansa l’ex capo reparto del Dis – essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante. Peraltro, in quell’occasione, stavo facendo un semplice saluto pre-natalizio a un senatore della Repubblica italiana. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi”. 

Quest’ultimo particolare è stato approfondito da Mancini: “Se fosse accertato con sentenza definitiva che Walter Biot ha trafugato segreti dal patrimonio informativo italiano a favore dell’intelligence russa, ciò sarebbe la conferma della continua attività clandestina che gli agenti di Mosca svolgono attivamente tutt’ora, e sottolineo tutt’ora, sul nostro territorio nazionale”.

Ma Vecchione ha pagato anche per ritardi nella creazione dell’agenzia per la Cybersicurezza che, non a caso, è il primo punto affrontato dal sottosegretario ai servizi Franco Gabrielli, scelto personalmente da Draghi, insieme al nuovo capo del Dis, Elisabetta Belloni ex segretario generale della Farnesina. Lacuna colmata, e questa struttura è diventata “fondamentale”, come sta confermando il proprio importante ed efficace lavoro per la crisi ucraina. Redazione CdG 1947

I retroscena. Mifsud fu l’architetto del governo Conte I: tutti gli intrighi e i misteri degli 007 tra Usa, Russia e grillini. Nicola Biondo su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Quando William Barr arrivò in Italia nell’estate del 2019 l’obiettivo principale era il professor Joseph Mifsud. Il motivo era assai semplice: Mifsud era un uomo dal doppio volto. Da una parte godeva di un vecchio rapporto con il partito democratico americano e in particolare con Hillary Clinton, dall’altro intratteneva relazioni strettissime con uomini del Cremlino. Nulla di scandaloso in quel mondo che naviga tra affari, diplomazie e politica: tutti sono amici di tutti. Mifsud però era a conoscenza delle attività russe sulla campagna elettorale della Clinton datata 2016, quella cioè contro Donald Trump, finita fin da subito sotto indagine da parte dell’Fbi.

Da chi aveva ricevuto Mifsud simili informazioni? Da uno dei suoi uomini di punta: George Papadopoulos. La vulgata trumpiana era così pronta per essere ammansita: Mifsud lavorava per la Clinton e il Russia-gate era un’operazione per minare la presidenza di Trump se fosse uscita vincente, come è avvenuto, dalla sfida del novembre 2016. Ai servizi italiani Barr aveva in mente di chiedere proprio questo: la prova che Mifsud fosse legato al mondo democratico americano e che lavorasse in Italia anche sotto la protezione dei governi targati Pd, quelli Renzi-Gentiloni. Ma come detto Mifsud era in stretti rapporti con la Clinton e anche con il Cremlino. E pertanto fu l’inchiesta del controspionaggio italiano che causò lo stop alla missione di Barr: non solo l’Aisi aveva informazioni non coincidenti con quanto invece l’amministrazione Trump cercava ad ogni costo ma esse andavano in direzione opposta e di certo non potevano essere rivelate, meno che mai a uno stato estero e in quel modo, perché coinvolgevano esponenti politici di punta. Insomma, Trump cercava a Roma prove per incastrare l’Fbi che indagava su di lui (e i russi) ma i Servizi italiani ne avevano sulla penetrazione di Mosca in Italia.

Ci sono due pesanti indizi che spiegano come la missione di Barr in Italia fosse in offside rispetto al protocollo ufficiale che regola i rapporti, anche di intelligence, tra due paesi alleati. Il primo è che l’ambasciata Usa in Italia nulla sapeva di questa missione. Il secondo è che la richiesta di ottenere info su Mifsud, paradossalmente, andava ad incidere proprio sul mondo che aveva agito per portare al successo il Movimento cinque stelle e che coccolava la leaderhip sovranista e filorussa dell’allora presidente del Consiglio: la Link university dove Joseph Mifsud insegnava ed era considerato un’autorità. Era alla Link che Mifsud era stato visto l’ultima volta prima di scomparire e alla Link aveva fatto sbarcare alcuni pezzi da novanta dell’intellighenzia putiniana, battezzando una partnership tra l’università romana e la prestigiosa accademia Lomonosov. Sulla Link fin dal 2016 è stata aperta un’inchiesta del controspionaggio dell’Aisi.

Mifsud era il motore primo intorno al quale giravano tutte le analisi e le acquisizioni degli apparati italiani. Che in breve tempo si accorsero come nell’università diretta da Enzo Scotti erano di casa non solo Mifsud e i suoi amici russi ma l’ex-capo dei Servizi Gennaro Vecchione, voluto fortissimamente da Conte a capo degli 007 senza alcuna pregressa esperienza nel mondo dell’intelligence, ma anche Bruno Valensise, oggi numero due del Dis ed ex-direttore dell’Ufficio centrale per la segretezza, tra i più delicati dell’Aisi perché rilascia i Nulla osta di sicurezza. E ancora svariati parlamentari del Pd e del Movimento cinque stelle, una futura ministra della Difesa –Elisabetta Trenta– e la futura sotto-segretaria agli Esteri Manuela Del Re. Insomma se ci fu un luogo centrale dove nacque il governo giallo-rosso in salsa russa quello fu proprio la Link University.

Chi erano gli uomini di Mosca che Mifsud fece entrare in contatto con il futuro inner circle di Giuseppe Conte? Il primo è Ivan Timofeev, figura chiave del Russiagate, a cui secondo l’inchiesta FBI Mifsud si rivolge per creare il contatto con l’entourage di Trump come promesso a Papadopoulos, responsabile per la campagna presidenziale dei contatti con l’estero. Papadopoulos aveva una sua idea sull’ateneo romano, la definiva “l’università delle spie”. Il partito putiniano mette radici in Italia proprio nelle stanze che la Link affida a Mifsud. In quel locale dedicato all’università moscovita si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America – Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile – che il primo dicembre 2016 tenne alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti. L’intervento di Aleksey Aleksandrovich Klishin, questo il nome dell’ospite della Link, fu un classico dell’ideologia putiniana, contro l’UE e gli Stati Uniti dominatori dell’ordine unipolare. Tra i professori russi che avrebbero dovuto tenere lezioni agli studenti della Link c’erano anche Yury Sayamov, diplomatico e consigliere del Cremlino, il filosofo Alexander Chumakov, che ha elaborato la visione della globalizzazione adottata dal nuovo Zar. E Olga Zinovieva, vedova di Alexander Zinoviev uno degli ideologi dell’era putiniana. Nicola Biondo

Russiagate, adesso il Copasir è pronto a riconvocare l’ex premier e Vecchione. Giuliano Foschini su La Repubblica il 20 Aprile 2022.   

Di fronte al Comitato parlamentare sui servizi potrebbe tornare anche Renzi. Tutte da chiarire ancora le richieste degli Usa e la nostra risposta.

L'Italian gate non è finito. Anzi, forse è appena cominciato. Perché nei prossimi giorni l'ex premier Giuseppe Conte è possibile, anzi quasi certo, che dovrà tornare davanti al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e rispondere alle domande dei parlamentari su quella strano Ferragosto del 2019 quando a Roma sbarcò il segretario della Giustizia, William Barr.

Conte risponde a Repubblica: «Non ho mai personalmente incontrato Bill Barr». Il Domani il 19 aprile 2022.

L’ex premier in un lungo post su Facebook ha commentato le conclusioni di Repubblica, secondo cui Conte non avrebbe ricostruito correttamente la vicenda che vedeva coinvolto l’allora segretario alla Giustizia e l’allora direttore del Dis, Vecchione

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha sottolineato di non aver mai incontrato personalmente «l’allora Attorney General degli Stati Uniti, Bill Barr, nel corso delle sue visite in Italia, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Così Conte ha risposto, sul suo profilo Facebook, a un articolo, pubblicato oggi su Repubblica, relativo alle due missioni a Roma dell’allora segretario alla Giustizia statunitense nell’agosto e nel settembre 2019, nell’ambito dell’inchiesta “Russiagate”, nata dalle sospette ingerenze nelle elezioni statunitensi del 2016 della Russia. 

Secondo Repubblica, documenti ottenuti dal quotidiano «evidenziano alcune significative omissioni della ricostruzione di quella vicenda proposta dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte», scrive il giornalista Carlo Bonini, sottolineando che la versione di Conte avrebbe descritto il coinvolgimento dell’Intelligence italiana nell’affare “Russiagate” come mero incontro di cortesia tra i due paesi. 

Conte, che ricorda di aver riferito tutte le informazioni in suo possesso al Copasir, precisa che la cena, a cui hanno partecipato la delegazione statunitense e l’allora direttore del Dis, Gennaro Vecchione, si è tenuta in un noto ristorante e sarebbe stata «motivata da cortesia istituzionale, piuttosto che dalla necessità di avere uno scambio riservato di informazioni». L’ex presidente sottolinea poi che Barr, in qualità di «Responsabile delle attività dell’Fbi che riguardano la sicurezza nazionale», ha indirizzato la richiesta di informazioni tramite i «canali diplomatici ufficiali, in particolare attraverso il nostro ambasciatore negli Stati Uniti», «non a me direttamente», scrive Conte su Facebook. 

A Barr, secondo quanto riporta Conte, non sarebbero stati messi a disposizione archivi e informazioni, né sarebbero stati consegnati documenti. L’ex premier scrive poi che non c’è alcun collegamento con il tweet dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che il 27 agosto 2019 ha espresso apprezzamento per il suo operato, né con la formazione del governo Conte II. EMILIANO FITTIPALDI

Russiagate, Barr a cena con Vecchione a Roma. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 19 aprile 2022.

Emergono nuove rivelazioni sulla visita dell’ex ministro della Giustizia Usa William Barr e di John Durham a Roma risalente al 15 agosto 2019 e di cui si parlò, per la prima volta in assoluto, sulle colonne di questa testata il 28 settembre 2019 grazie all’ex consulente di Donald Trump, George Papadopoulos. L’inquilino della Casa Bianca al tempo era appunto Trump e il magnate chiese all’Attorney General di indagare sulle origini del Russiagate e sul presunto tentativo dei democratici di fabbricare false prove nel tentativo di “incastrare” lo stesso Trump e provare così il suo legame con il Cremlino; pista investigativa che ora sta conducendo in autonomia il Procuratore speciale Durham e che sta cominciando a dare i primi, importanti, risultati. Ma che cosa c’entra il nostro Paese in tutta questa vicenda?

Secondo la ricostruzione ufficiale, è in un incontro svoltosi nella capitale che l’allora docente maltese della Link Campus Joseph Mifsud, ad oggi scomparso, disse a Papadopoulos di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volta riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti tra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti. È lo stesso Papadopoulos a ricostruire il suo arrivo a Roma alla Link Campus e il suo incontro con Mifsud nel suo libro Deep State Target. Sempre a Roma, come ricordava poi La Stampa tempo fa, il 3 ottobre 2016, si svolse inoltre un incontro segreto e cruciale tra gli investigatori dell’Fbi e il loro informatore britannico Christopher Steele, autore del famoso rapporto sulle presunte relazioni pericolose fra Trump e il Cremlino. Steele, ricorda La Stampa, dopo la carriera nell’intelligence, aveva successivamente fondato una sua agenzia investigativa, la Orbis, e in tale veste aveva conosciuto Michael Gaeta, assistente legale presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Roma.

Barr a cena con Vecchione a Roma

Ma torniamo alla quella giornata di ferragosto del 2019. Quella mattina, secondo i documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, citati dal quotidiano La Repubblica, l’Attorney General atterra a Ciampino e va a messa nella chiesa cattolica di St. Patrick, a due passi dall’ambasciata americana di Via Veneto. Poi si prende quattro ore di “Down Time”, in teoria riposo, ma potrebbe trattarsi di qualunque cosa. Alle 17 va in Piazza Dante 25, sede del Dis, per incontrare Vecchione. Tutto questo è noto, e probabilmente documentato da appunti riservati. Secondo lo “schedule” di Barr, però, alle 18,45 l’intero gruppo si dirige verso Piazza delle Coppelle per una cena. Come ricorda La Repubblica, si tratta di un incontro inusuale: il protocollo vorrebbe che il segretario alla Giustizia contattasse il suo omologo per spiegare cosa cerca, e poi lasciargli gestire il caso. Barr invece scavalca tutti e ottiene l’incontro col capo dell’intelligence, autorizzato dall’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Di questa cena, peraltro, nessuno – nemmeno lo stesso Conte – sembra averne mai parlato prima.

L’Attorney general tornerà in Italia anche il 27 agosto, data in cui, accompagnato da Durham, incontrerà i vertici dei nostri servizi segreti: alla riunione del 27 settembre, infatti, oltre a Vecchione, partecipano anche i i direttori di Aise (Luciano Carta) e Aisi (Mario Parente). Secondo i media americani, Barr e Durham non sarebbero tornati a casa a mani vuote dopo le due trasferte romane: come riportato al tempo da Fox News, l’indagine del procuratore John Durham si estese sulla base delle prove raccolte proprio in quei due viaggi. Come abbiamo spiegato al tempo su questa testata, un funzionario dell’ambasciata americana a Roma confermò al Daily Beast che quella di Barr è stata una visita inaspettata e che gli americani erano particolarmente interessati da ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto di Mifsud, il misterioso docente maltese al centro del Russiagate americano, colui che per primo – secondo l’inchiesta del procuratore Mueller – avrebbe rivelato a George Papadopoulos l’esistenza delle mail compromettenti su Hillary Clinton.

Sempre secondo il Daily Beast, Mifsud avrebbe fatto domanda di protezione alla polizia in Italia dopo essere “scomparso” dai radar. Il professore avrebbe fornito una deposizione audio nella quale spiegherebbe perché “alcune persone” potrebbero fargli del male. Una fonte del ministero di Giustizia italiano, parlando a condizione di anonimato, avrebbe confermato che Barr e Durham hanno ascoltato la deposizione del professore e ci sarebbe stato uno scambio di informazioni tra i procuratori americani e l’intelligence italiana. Quanto al destino di Mifsud, di cui non si hanno tracce dall’ottobre 2017, secondo un’inchiesta condotta da InsideOver nel dicembre 2019, “all’80%”, secondo fonti della procura di Agrigento, il docente maltese potrebbe essere addirittura morto. “Le probabilità che Mifsud sia morto sono molto alte”, confermava una fonte del palazzo di giustizia agrigentino. “Parliamo dell’80% di possibilità”.

Ora Renzi inchioda Conte: "Ho chiesto chiarezza all'intelligence". Francesco Boezi il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

Dopo l'emersione della ricostruzione di Repubblica sui rapporti tra Conte e l'amministrazione di Trump, Renzi chiede chiarezza all'intelligence.

Il leader d'Italia Viva Matteo Renzi ha voluto commentare parte della ricostruzione emersa oggi su Repubblica: quella relativa ai tempi in cui alcuni membri dell'intelligence americana si sarebbero recati a Roma per raccogliere elementi sulla genesi del "Russiagate" (e forse non solo su quello).

Come ha scritto Roberto Vivaldelli su InsideOver, l'ex presidente degli Stati Uniti d'America aveva domandato all'epoca di "indagare sulle origini del Russiagate e sul presunto tentativo dei democratici di fabbricare false prove nel tentativo di "incastrare"".

L'ex presidente del Consiglio italiano è stato lapidario: "Oggi - ha scritto sulla sua Enews il fondatore d'Iv - la Repubblica spiega perchè ci sono dei buchi neri nella ricostruzione di Conte sulla strana vicenda dell'agosto-settembre 2019, quando gli esponenti dell'amministrazione americana vennero in Italia alla ricerca di un presunto complotto da me ordito contro il presidente Trump". Per qualche trumpiano, c'entrerebbero persino i rapporti tra l'ex capo del governo italiano e l'ex inquilino della Casa Bianca Barack Obama.

E ancora: "Considero una follia questa ipotesi e ancora più folle mi pare chi gli ha dato credito. Ho chiesto chiarezza all'intelligence italiana. E non lo faccio per me, ma per il decoro delle istituzioni italiane". L'ex premier vorrebbe insomma che la cosa venisse chiarita dagli organi deputati a farlo. Renzi ha commentato la cosa anche via social: "Obama ed io che organizziamo una truffa elettorale ai danni di Trump? Follia pura. Che nel 2019 qualcuno a Roma possa aver dato credito a tale idea mi sembra gravissimo. Auspico che l'intelligence italiana faccia chiarezza nelle sedi opportune", ha scritto su Twitter.

Anche altri esponenti d'Italia Viva stanno dicendo la loro in queste ore. Una tra tutti, l'ex ministro Teresa Bellanova: "Poco dopo essere stata nominata ministra dell'Agricoltura posi il tema a Conte della delega ai servizi. Che ci fossero elementi di opacità a noi era già chiaro. Da capo delegazione avanzai richieste di chiarimenti, ma Conte sfruttó il tema pandemia per non chiarire mai", ha fatto presente.

Un'altra delle ipotesi in campo, che è correlata a quelle che sarebbero state delle indagini sull'origine del cosiddetto Russiagate, riguarda il presunto sostegno politico che Donald Trump avrebbe offerto al capo del MoVimento 5 Stelle in cambio dell'ausilio fornito per chiarire se e cosa avessero messo in piedi i Dem italiani.

Su questo aspetto ha preso posizione la senatrice d'Iv Laura Garavini, così come ripercorso dall'Adnkronos: "Chiediamo a Conte ed al Movimento 5 Stelle - ha dichiarato la renziana - di fare tutta la chiarezza possibile su questa inquietante vicenda. E chiediamo al Pd di non restare anche questa volta in silenzio: Italia Viva aveva chiesto all'inizio della legislatura una commissione di inchiesta per approfondire il Russiagate e le sue conseguenze dirette sulla nostra democrazia, fino ai risultati elettorali con una potente vittoria delle forze antisistema".

Pure l'onorevole Luciano Nobili, altro renziano, ha chiesto al Partito Democratico ed al MoVimento 5 Stelle di esprimersi sulla vicenda: "Avrebbe usato i servizi segreti a scopi personali e politici - ha scritto il deputato riferendosi a Giuseppe Conte - : mantenere a ogni costo la poltrona. Avrebbe barattato il sostegno di Trump al suo Governo con la rivelazione di segreti dalla nostra intelligence. E come se non bastasse messo i nostri servizi, strutture istitituzionali delicatissime a disposizione di un altro Paese per attività ostili contro Matteo Renzi".

Nobili, che lo definisce "Conte-Gate", sostiene che questo "scandalo" non possa essere riposto in un dimenticatoio: "Una commissistione tra attività di intelligence e attività politica del M5s, tra le strutture preposte alla sicurezza nazionale e il destino personale di un uomo e del ruolo che voleva mantenere, a ogni costo. Siamo stati lungimiranti allora a pretendere che lasciasse la guida diretta dei servizi di intelligence, prima e a mandarlo a casa, poi", ha chiosato.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.  

È una piacevole serata estiva, il 15 agosto del 2019, quando verso le sette a Casa Coppelle si presenta un gruppo assai inusuale. Gli altri clienti di questo sofisticato ristorante nel cuore della capitale, che si vanta di unire «lo stile parigino e la classicità romana», probabilmente faticano a riconoscere gli ospiti di riguardo.

E in fondo si capisce. Perché al tavolo sono attesi il segretario alla Giustizia americano Bill Barr e il direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gennaro Vecchione, capo dei servizi di intelligence italiani, impegnati in una segreta discussione per capire se Roma è stata al centro di un complotto per influenzare le presidenziali Usa del 2016 e impedire a Donald Trump di conquistare la Casa Bianca. Torna così all'attenzione un giallo che ha coinvolto l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, aprendo nuovi interrogativi.

Nel 2019 Trump si convince che il "Russiagate" è stato confezionato in Italia, dai Servizi, sotto la guida del premier Matteo Renzi alleato di Hillary Clinton, e dagli agenti ostili dell'Fbi come il capo a Roma Michael Gaeta. Tutto nasce dalle approssimative accuse dell'ex consigliere George Papadopoulos, secondo cui a passargli la polpetta avvelenata sulle mail di Clinton rubate dai russi era stato il professore della Link Campus University Joseph Mifsud, durante un incontro nella nostra capitale. Perciò il capo della Casa Bianca chiede all'Attorney General di andare a indagare.

Il protocollo vorrebbe che il segretario alla Giustizia contattasse il suo omologo per spiegare cosa cerca, e poi lasciargli gestire il caso. Barr invece scavalca tutti e ottiene l'incontro col capo dell'intelligence, autorizzato dal presidente del Consiglio. 

La mattina del 15 agosto 2019, secondo i documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, che Repubblica ha ottenuto nel rispetto delle leggi americane, l'Attorney General atterra a Ciampino e va a messa nella chiesa cattolica di St. Patrick, a due passi dall'ambasciata americana di Via Veneto. Poi si prende quattro ore di "Down Time", in teoria riposo, ma potrebbe trattarsi di qualunque cosa. Alle 17 va in Piazza Dante 25, sede del Dis, per incontrare Vecchione. 

Tutto questo è noto, e probabilmente documentato da appunti riservati. Secondo lo "schedule" di Barr, però, alle 18,45 l'intero gruppo si dirige verso Piazza delle Coppelle per una cena prevista di due ore. Sono andati? Cosa si sono detti, davanti ad un buon piatto e magari un bicchiere di vino? Esiste una traccia almeno ufficiosa di questa conversazione informale? Conte sapeva che il vertice inusuale da lui autorizzato a Piazza Dante si era allungato in una cena conviviale? È passato a salutare o era in vacanza?

Un paio di settimane dopo Conte va al G7 di Biarritz, mentre a Roma si decide il futuro del suo governo. Il 27 agosto Trump lo appoggia, con un messaggio su Twitter passato alla storia: «Comincia a mettersi bene per l'altamente rispettato Primo Ministro della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte... Un uomo di grande talento, che speriamo resti Primo Ministro». Forse è anche un ringraziamento per la visita di Barr?

Il presunto coinvolgimento dell'Italia nel "Russiagate" resta comunque nell'agenda dell'Attorney General. Il 9 settembre alle ore 17 ne discute col suo capo di gabinetto Will Levi, che il 15 agosto lo aveva accompagnato a Roma insieme al consigliere per le questioni criminali e di sicurezza nazionale Seth DuCharme. Poi torna a parlarne l'11 all'una del pomeriggio, subito dopo un pranzo col segretario di Stato ed ex capo della Cia Mike Pompeo. Quella sera stessa, alle 19, Barr va a cena con Jared Kushner e Ivanka Trump. Coincidenza, oppure risponde alle domande e riceve le richieste sul dossier italiano del genero e della figlia del presidente? 

La mattina del 19 settembre l'Attorney General dedica altri 45 minuti, dalle 10 alle 10,45, alla preparazione di un nuovo viaggio in Italia con Levi e DuCharme. Poi prende un caffè con un gruppo di importanti senatori repubblicani, fra cui Grassley e Johnson.

Roma sembra il tema principale nell'agenda di Barr, quasi un'ossessione, perché il 25 settembre ne riparla con Levi e DuCharme. Il giorno dopo torna in Italia, ma anche qui c'è qualcosa da chiarire. Secondo la versione ufficiale dei fatti Barr, nome in codice durante il viaggio Bill Ahern, viene il 27 settembre per un rapido incontro con Vecchione, presumibilmente allo scopo di ricevere le informazioni raccolte dai nostri servizi dopo il primo appuntamento del 15 agosto.

Il suo schedule, però, rivela che in realtà parte da Washington alle 7 del mattino del 26, e quindi arriva in tempo per vedere qualcuno e cenare. Dove e con chi? Passa nella capitale l'intera giornata del 27, cena, dorme, e riparte la mattina del 28 con comodo. Davvero sta a Roma quasi due giorni, solo per passare un'oretta con Vecchione? Conte ne sa qualcosa? Magari lo saluta? Quando la missione segreta di Barr viene scoperta, il Copasir chiede spiegazioni al presidente del Consiglio.

Il premier difende la legalità delle visite e sottolinea due punti: «Non ho mai parlato con Barr», e «i nostri servizi sono estranei alla vicenda». Poi ai giornalisti dice: «Qualcuno ha collegato il tweet di Trump a questa inchiesta. Non me ne ha mai parlato». Ma forse lo avevano fatto Jared e Ivanka a cena con l'Attorney General? 

«La richiesta - continua Conte - risale a giugno ed è pervenuta da Barr. Ha domandato di verificare l'operato degli agenti americani, col presupposto di non voler mettere in discussione l'attività delle autorità italiane dell'intelligence». Altro elemento imbarazzante. Perché se così fosse, il premier avrebbe autorizzato il segretario alla Giustizia ad incontrare i vertici dei servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo Gaeta, con cui poi i nostri agenti lavoravano ogni giorno per garantire la sicurezza del Paese.

Quindi sul 15 agosto Conte aggiunge: «Si è trattato di una riunione tecnica con il direttore del Dis Vecchione, che non si è svolta all'ambasciata americana, né in un bar, né in un albergo, come riportato da alcuni organi di informazione, ma nella sede di piazza Dante del Dis». Certo, non in un bar. Allora però la cena a Casa Coppelle come è finita nello schedule ufficiale di Barr? I servizi giurano di non aver dato nulla all'Attorney General, e di non sapere tutt' ora dove sia finito Mifsud. Ma Conte ha davvero detto al Copasir tutto quello che avrebbe dovuto?

Estratto dell’articolo di Carlo Bonini per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.

I documenti ottenuti da "Repubblica" sulle due missioni dell'agosto e settembre 2019 a Roma dell'allora segretario alla giustizia americano Bill Barr, evidenziano alcune significative omissioni della ricostruzione di quella vicenda proposta dall'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte […] e fotografano la disinvoltura con cui Conte e Gennaro Vecchione, il Carneade che l'allora premier, contro tutto e tutti, aveva voluto al vertice del Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Dis), maneggiarono una faccenda dai contorni opacissimi fuori da qualsiasi protocollo e cornice istituzionale.

Il che la dice lunga sulla cultura della sicurezza nazionale, della diplomazia, di chi, oggi leader del Movimento 5S, ha guidato da Palazzo Chigi il Paese con due diverse maggioranze. Lo stesso uomo […] che […] barattava un vantaggio personale (l'endorsement politico a suo favore da parte di Trump) in cambio di un incongruo scambio di informazioni dall'alto dividendo politico (il presunto coinvolgimento del Fbi in un altrettanto presunto complotto ai danni della Casa Bianca) e oggi, di fronte all'invasione Russa dell'Ucraina, arriccia il naso di fronte a un certo "atlantismo oltranzista".

[…] conferma l'uso politico borderline che dei nostri Servizi Giuseppe Conte ha fatto nel tempo (il caso di Marco Mancini ne è stato un esempio luminoso). Ossessionato dal suo destino, Conte ha a lungo confuso l'interesse e la sicurezza nazionale con quello della sua persona e della sua permanenza a Palazzo Chigi. […]

 Le ombre di Conte che non volle mai lasciare la delega ai Servizi segreti. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.  

Tra gli aiuti di Putin e i favori a Trump da premier rimase impigliato due volte: due indizi sono pochi per fare una prova, ma sono troppi i dettagli senza risposta.

Questa è la storia di un premier che è vissuto due volte e che nelle sue due vite a palazzo Chigi è finito coinvolto in altrettante storie a dir poco oscure, le cui trame sembrano pagine strappate dai romanzi di John le Carré: tra intrighi internazionali, tentativi di spionaggio, presunti complotti e ingerenze di Paesi stranieri. Alla guida del governo giallo-verde, nel 2019, Giuseppe Conte si impigliò nel Russia-gate perché fece uno strano favore a Donald Trump. Alla guida del governo giallo-rosso, nel 2020, si impigliò nel Covid-gate perché accettò uno strano favore da Vladimir Putin. Due indizi sono pochi per fare una prova, ma sono troppi i dettagli senza risposta.

L’estate romana di William Barr, per esempio è ancora oggi avvolta dal mistero. Tre anni fa, l’allora ministro delle Giustizia americano incontrò due volte nella capitale il capo del Dis Gennaro Vecchione, ad agosto e a settembre. Per i suoi viaggi — scrive il New York Times — saltò ogni protocollo in patria, e la stessa cosa fece il responsabile dei servizi italiani che avvisò solo a missione compiuta i direttori dell’Aise e dell’Aisi, i bracci operativi degli 007 nazionali. L’incontro tra Barr e Vecchione fu autorizzato da Conte, sebbene le procedure non lo contemplassero.

Ma a Washington Trump fremeva perché cercava la prova di un complotto ai suoi danni in campagna elettorale, che sarebbe stato orchestrato dai Democratici americani insieme all’ex premier italiano Matteo Renzi. Cosa abbia chiesto l’ospite non è chiaro. Ma non è un caso se all’appuntamento di agosto a Roma si presentò con il procuratore John Durham, a cui era stato affidato il Russia-gate. E non è nemmeno un caso se dagli Stati Uniti emergono ora dettagli sugli incontri tra Barr e Vecchione, riferiti da Repubblica. A Washington ora c’è Joe Biden, «e questi spifferi — spiega un esponente del Copasir — sono un messaggio della nuova Amministrazione».

Fonti grilline raccontano che Conte sia «molto teso». Forse perché si è reso conto di essersi infilato allora in uno scontro tra servizi americani. E siccome dall’altra parte dell’Atlantico il vento è cambiato, i segnali che arrivano sono inequivocabili. In ogni caso il Copasir ha deciso ieri di non riaprire questo dossier, «perché — sussurra uno dei membri del Comitato — la situazione internazionale è delicata e qualcuno ha chiesto di non complicarla a livello nazionale».

Ma resta aperto l’altro dossier, che appartiene all’epoca del Conte giallo-rosso e riguarda l’offerta di aiuto giunta da Mosca, quando l’Italia era piegata dalla pandemia. È l’altra vicenda con molte zone d’ombra. È certo intanto che l’operazione «Dalla Russia con amore» nascondesse un tentativo di spionaggio ad alcune basi militari italiane, come riferito da fonti della Difesa e dell’intelligence. Ed è altrettanto certo che la Nato avesse lanciato l’allarme. La missione voluta da Putin è del marzo 2020. Ad aprile il comandante supremo del Patto in Europa — intervistato dal Corriere — chiese all’Italia di «prestare strettissima attenzione alla maligna influenza russa». A maggio il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, rispedì a casa gli ospiti.

Anche in questo caso la ricostruzione auto-assolutoria di Conte è carente. Al Copasir l’ex premier ha raccontato che il 21 marzo del 2020 ricevette la telefonata di Putin, pronto a dare un aiuto. Ma come mai, appena il giorno dopo, atterrarono a Pratica di Mare tredici Ilyushin? Come fu possibile organizzare in poche ore una simile missione? Nell’inchiesta di Fiorenza Sarzanini per il Corriere si riporta la tabella presentata dai russi, con i nomi, i profili e le date di nascita dei 230 uomini mandati in Italia: segno che Mosca aveva selezionato anche i militari per la spedizione. Nemmeno la migliore agenzia matrimoniale saprebbe preparare un rinfresco nuziale così rapidamente. Nemmeno Conte ha saputo fornire spiegazioni.

O forse la spiegazione di tutte queste storie va cercata nell’ostinazione con cui il premier giallo-verde e giallo-rosso tenne sempre per sé la delega ai servizi nei suoi anni a Palazzo Chigi. Anche se gli costò Palazzo Chigi.

Timori Usa nelle carte segrete: Conte ondivago e filorusso. Stefano Zurlo il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lo sconcerto nel dossier del 2020 anche per i militari da Mosca: "L'Italia deve difendere i propri interessi".

Le liti fra Renzi e Conte, le critiche dei partiti italiani ai decreti sulla pandemia, poi all'improvviso una frase sibillina che non passa inosservata al Dipartimento di Stato: «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali».

Un testo che fotografa lo sbandamento di quel periodo e non a caso viene sottolineato da una manina, non si capisce bene se alla partenza, a Roma, o all'arrivo, a Washington.

Certo, quelle poche righe firmate il 29 aprile 2020 dall'allora ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg colgono, sia pure con sottigliezza diplomatica, la confusione e l'imminente fine di un'epoca caratterizzata dalle giravolte e dalle capriole di Giuseppe Conte.

Conte, come raccontato anche ieri dal Giornale, si accredita presso Trump che nel 2019 incorona Giuseppi sul campo. L'Italia sviluppa una politica estera a dir poco avventurosa: il capo del Dis Gennaro Vecchione incontra a cena il ministro della giustizia americano Bill Barr che cerca nella penisola le fantomatiche prove del Russiagate.

Contemporaneamente l'Italia sposa, in perfetta solitudine fra i partner occidentali, la Via della seta, strumento di penetrazione commerciale e strategica di Pechino, e riceve un aiuto, persino eccessivo e sempre più sospetto, da Putin che invia un poderoso contingente militare per combattere il Covid a Bergamo.

L'ambasciatore registra tutto, monitora gli scontri all'arma bianca fra Conte e Renzi che alla fine sarà l'artefice del cambio a Palazzo Chigi e dell'arrivo di Draghi. Ancora, Eisenberg riporta i pareri degli editorialisti e cerca di trasferire negli Usa il clima e gli umori che respira nella capitale.

Ma qua e là affiorano i giudizi e le previsioni, tutte sottolineate nei documenti trasmessi a Washington. «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali». In un momento in cui certo il Paese è sotto l'attacco durissimo del Covid, esploso fra Codogno e Bergamo, ma è anche protagonista con Conte di una politica estera a dir poco ondivaga.

Eisenberg, nei documenti declassificati, tradotti e studiati dal professor Andrea Spiri, docente di storia dei partiti politici alla Luiss, si sbilancia con una sorta di profezia che si avvererà: «È probabile che questo governo non duri a lungo». All'orizzonte, per Eisenberg «c'è un governo tecnico». Insomma, nella primavera del 2020, in piena e drammatica emergenza sanitaria, l'ambasciatore americano capta l'arrivo di Mario Draghi, anche se il suo sarà in realtà un esecutivo di unità nazionale.

Spiri evidenzia poi un altro frammento del report, relativo alla missione dei russi a Bergamo per aiutare la popolazione alle prese con la pandemia. Sulla carta il team è formato da medici e infermieri, ma Eisenberg ha ben chiaro che si tratta di «soldati russi», come è emerso sempre più nettamente nelle ultime settimane. Quando si è capito che Conte aveva allargato con una certa disinvoltura il perimetro d'azione dei russi. Per Eisenberg però il capitolo è ormai chiuso: «Nessuna regione italiana ha chiesto il loro intervento». E la loro partenza per Mosca è imminente.

Non c'è alcun commento formale, ma a Washington devono essere soddisfatti per la mancata proroga. E la sottolineatura è un modo per enfatizzare il dettaglio sconcertante di quel viaggio che, due anni dopo, è al centro di polemiche e retroscena per il dilettantismo mostrato da Conte nei delicati rapporti internazionali. Ma per Conte non c'è nulla di strano né di misterioso: «Non sono emersi elementi di spionaggio, i sanitari russi non hanno mai travalicato i confini, ho sempre perseguito l'interesse nazionale - afferma l'ex premier, ospite di Liili Gruber a Otto e mezzo - L'incontro con Barr, poi, è stato studiato e preparato, i nostri servizi non gli hanno aperto l'archivio. Non sono stato né disinvolto né disattento».

Giuseppe Conte, le menzogne sugli incontri tra 007 italiani e Usa: le prove del Russiagate. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 20 aprile 2022.

Due schiaffi, nello stesso giorno, dai principali quotidiani italiani. No, non è un bel risveglio quello di Giuseppe Conte, che ieri si è visto, involontariamente, protagonista della rassegna stampa mattutina. Tornano in prima pagina due fatti del passato recente. Il primo riguarda il viaggio dei russi in Italia, in quella che doveva essere una missione umanitaria per aiutare un paese in difficoltà, il nostro, nella gestione della prima ondata del Covid. Viene fuori che, con l'avallo dell'allora presidente del Consiglio, quelle sospettate di essere spie ebbero il permesso del governo di entrare nelle strutture per "bonificare", ottenendo anche il rimborso della nafta per l'aereo. Questa è una. E la scrive il Corriere.

L'altra, riportata da Repubblica, riguarda l'incontro tra gli 007 americani e quelli italiani. Giugno 2019. Un favore, è la tesi del quotidiano, fatto a Donald Trump per ottenere il sostegno di Washington al suo governo pericolante. In effetti poco dopo The Donald pubblicò un tweet zuccheroso per tessere le lodi di "Giuseppi" (lo chiamò così). Di lì a poco l'esecutivo guidato dall'avvocato "del popolo" cadde lo stesso, ma tornò in sella con una nuova maggioranza giallorossa, senza la Lega e con il Pd .

LA REGIA POLITICA - Il leader del M5s nega tutto. Eppure gli viene attribuita una regia politica dietro l'incontro riservato tra i servizi americani e italiani.

Con l'obiettivo di inguaiare Matteo Renzi, che era stato indicato come l'autore del "Russiagate", ovvero del tentativo di influenzare le elezioni americane del 2016 a vantaggio di Hillary Clinton, allora avversaria di Donald Trump. Nell'articolo viene riportata una cena (fatto inedito) a cui avrebbero preso parte nell'estate 2019 anche il direttore del Dipartimento per le informazioni sulla sicurezza Gennaro Vecchione e il segretario per la Giustizia americano dell'amministrazione Trump Bill Barr.

Renzi grida allo scandalo: «Ci sono dei buchi neri nella ricostruzione di Conte sulla strana vicenda dell'agosto-settembre 2019», scrive nella sua Enews. «Ho chiesto chiarezza all'intelligence italiana. E non lo faccio per me, ma per il decoro delle istituzioni italiane» aggiunge. Insomma: da un lato emerge l'intendenza con la controversa amministrazione Trump; dall'altro un rapporto di subalternità con Vladimir Putin. Ieri sono sbucate fuori da un cassetto le mail inviate dall'ambasciata russa alla Farnesina. Da cui si capisce che il governo contiano - contrariamente a quanto sostenuto dal diretto interessato in passato - aveva autorizzato le "brigate mediche" putiniane a operare nelle strutture italiane, accettando anche di sostenere tutte le spese per l'arrivo di centotrenta persone.

LA DIFESA - Tutte balle, «sono state scritte infamità», si difende Conte: «Non ho mai personalmente incontrato l'allora Attorney General degli Stati Uniti, Bill Barr, nel corso delle sue visite in Italia, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Collegare la richiesta di informazioni di Barr alla vicenda della formazione del Governo Conte II è «una illazione in malafede», visto che la richiesta di Barr risale al giugno 2019, mentre «la crisi del governo Conte I risale all'8 agosto 2019», ricostruisce il leader dei grillini. Anche il famoso tweet del presidente Donald Trump, del 27 agosto 2019, che espresse «apprezzamento per il mio operato come premier», non ha alcun collegamento con questa vicenda, «considerato che la richiesta di Barr risale al giugno precedente e che questa richiesta e i suoi contenuti non sono mai stato oggetto di scambi o confronti tra me e l'allora presidente Trump». 

L'inchiesta e la nuova convocazione. Il Copasir indaga su Conte: dagli aiuti di Putin agli 007 americani, tutte le opacità dell’ex premier. Claudia Fusani su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Tra il 2016 e il 2020 si può dire che ci sia stata una sorta di “magnifica ossessione” da parte di alcuni apparati, non solo d’intelligence, e non solo italiani nei confronti di Matteo Renzi. Così come si può dire che il premier Giuseppe Conte – che ha blindato nelle sue mani e dell’amico generale Vecchione la gestione dell’intelligence per tre anni da giugno 2018 fino alla sua uscita da palazzo Chigi – ha maneggiato con troppa disinvoltura il suo incarico di responsabile della sicurezza nazionale. Che lo abbia fatto per interesse personale – il che presuppone una strategia, un progetto, un disegno – per gusto del potere e ambizione di potere o per una più banale, ma non per questo meno pericolosa, leggerezza, non cambia la morale finale: il leader del Movimento 5 Stelle ha ancora molto da chiarire su due circostanze diverse ma che intrecciano insieme lo stesso filo russo.

Questo chiarimento deve arrivare una volta per tutte e lo stesso Copasir – l’organismo parlamentare deputato a illuminare le dinamiche legate all’intelligence – non può più tirare per le lunghe vicende che hanno urgenza di chiarimento. Serve una parola finale di verità e chiarezza. E poiché i fatti hanno sempre una loro realtà metafisica che esula dal contingente, non c’è dubbio che le informazioni spiegate e argomentate ieri su La Repubblica – circa i rapporti tra Conte, il suo capo degli 007 Vecchione e il “ministro” della Giustizia Usa Bill Barr – e le ulteriori novità raccontate dal Corriere della Sera sui rischi e le ambiguità della missione russa all’epoca della prima emergenza Covid, aprono una seria ipoteca sulla leadership di Conte. Il quale ieri ha minimizzato tutto. E non ha trovato di meglio da fare che attaccare Matteo Renzi invitandolo “a presentarsi davanti al Copasir”.

Un’ossessione di nome Matteo

Circa l’ossessione dell’intelligence su Matteo Renzi, all’epoca premier, due indizi non sono ancora una prova ma quasi. Nelle carte dell’inchiesta Consip – processo che procede lontano dai riflettori presso il tribunale di Roma – era emerso con evidenza tra il 2016 e il 2017 come le indagini dei carabinieri del Noe, tutti ex dei servizi segreti, avessero anche un obiettivo politico: puntare a Tiziano Renzi “per colpire” il figlio Matteo. Poi questo aspetto inquietante della faccenda è stato derubricato nel tempo ad errori lessicali “come talvolta accade”. All’epoca destò scalpore e inquietudine.

Circa un anno e mezzo dopo, Conte già saldo alla guida del suo primo governo, salta fuori la storia di George Papadopoulos, ex consigliere di Donald Trump, secondo il quale nel 2016 fu l’allora premier Matteo Renzi “alleato” con Obama, Hillary Clinton e “agenti ostili” come il capo dell’Fbi a Roma Michael Gaeta a confezionare il Russiagate per impedire a Trump la conquista della Casa Bianca. Un racconto fumoso con al centro le mail di Hillary Clinton rubate dai russi e poi rilanciate a venti giorni dal voto danneggiando la corsa della prima donna alla Casa Bianca. Una vera polpetta avvelenata che, secondo Papadopoulos, fu veicolata a Roma dal professor Joseph Mifsud, docente alla Link Campus university. Di Mifsud si sono perse le tracce. La Link campus conobbe in quegli anni il suo momento di gloria poiché in quelle aule si formò la classe dirigente del Movimento 5 Stelle. Come che siano andate le cose, Trump nel 2019 si convinse che Roma era al centro di trame insostenibili. E che era giunto il tempo di smontarle. Mentre gli schizzi di fango erano tutti per Matteo Renzi. Così inviò nella Capitale il fidatissimo General Attorney Bill Barr.

Una cena e tanti buchi nell’orario

La storia è nota: Barr, oltre che ministro della Giustizia detentore della delega sull’Fbi, ha avuto ben due colloqui con l’allora capo del nostro Dis, il generale Vecchione, uomo ombra di Giuseppe Conte. Il primo fu il 15 agosto 2019. Il secondo il 27 settembre. Entrambe le volte Barr incontra Vecchione in piazza Dante, sede del Dis. Conte, più volte sentito sull’opportunità di queste riunioni, ha sempre chiarito – e lo ha fatto anche ieri con una lunga nota – che si trattò di incontri “tra omologhi” e autorizzati. Mai c’è stato un faccia a faccia Conte-Barr.

Il corrispondente di Repubblica da New York ha avuto accesso alle carte di questa coda del Russiagate e ha scoperto che negli schedule (programma ufficiale) di Barr ci sono alcuni “buchi” negli orari e una cena di troppo in piazza delle Coppelle. E ha posto, documenti alla mano, una serie di domande sui reali rapporti in quei giorni tra palazzo Chigi e la Casa Bianca. Siamo nell’agosto 2019, il Conte 1 è a un passo dalla crisi; il Conte 2 sta prendendo forma e due giorni prima, il 27 agosto, arriva l’incoraggiante tweet di Donald Trump: “Speriamo che l’altamente rispettato presidente del Consiglio italiano resti primo ministro”. La coincidenza tra il tweet di Trump e l’arrivo della seconda missione di Barr è una di quelle cose che stupiscono ogni volta che ce la troviamo di fronte.

Il lungo post di Conte

Anche ieri Conte ha replicato ai sospetti con un lungo post su Facebook il cui succo è: “Tutto normale, nessuna novità e nessuno scandalo. Se il giornalista mi avesse chiamato, gli avrei spiegato tutto”. Forse è necessario che Conte metta in conto una nuova audizione davanti al Copasir. E che i membri del Copasir smettano di avere timore reverenziale per un ex premier e inizino a fare le domande giuste. A chiederla, però, per ora sono solo due gruppi “minori” della maggioranza, Italia viva e Noi con l’Italia. Per il Pd ha parlato l’ex capogruppo al Senato Andrea Marcucci. Non pervenuto Enrico Letta che ancora deve capire fino a che punto gli conviene tenere aperta l’alleanza con un leader, Conte, non sempre corretto con il Nazareno in questi mesi. Non pervenuto anche il presidente del Copasir Adolfo Urso (Fratelli d’Italia).

Una nuova audizione. Anzi due

La nuova audizione di Conte dovrebbe essere divisa in due parti. Per chiarezza anche nella verbalizzazione. La prima sul caso Barr e magari in concomitanza con l’amico Vecchione. La seconda sulla missione russa ai tempi del Covid. È stato il Corriere della Sera ieri a ri- mettere nei guai l’ex premier tirando fuori le mail da cui emerge con chiarezza che la missione dalla “Russia con amore” era stata sì autorizzata ai massimi vertici – tra Putin e Conte – ma era anche un classico Cavallo di Troia per carpire segreti all’amica Italia. Le parole non lasciano dubbi. Nelle mail protocollate si parla di “inviare mezzi speciali per la disinfestazione di strutture e centri abitati nelle località infette”. Altro che medici, infermieri e mascherine. Anche i numeri non lasciano dubbi: di 104 persone, solo 32 avevano a che fare con le scienze mediche. Tutti gli altri erano militari e personale diplomatico, come noto il primo travestimento degli 007.

Dagli aerei atterrati a Pratica di Mare nel marzo 2020, in pieno lockdown, scesero 22 veicoli militari, 521mila mascherine, 30 ventilatori, mille tute protettive, 10 mila tamponi veloci e 100mila tamponi normali. Se non abbiamo avuto – si spera – militari russi in giro nei nostri uffici pubblici a captare informazioni che hanno a che fare con la sicurezza nazionale (qualcosa che oggi fa venire i brividi), è solo perché in quel marasma che fu il primo lockdown, il generale Luciano Portolano, comandante del Coi, e il numero 2 della Protezione civile Agostino Miozzo dissero, “no, grazie, non se ne parla proprio che voi andiate giro per i nostri uffici pubblici a disinfettare”. Le mail confermano anche il tono assertivo con cui i russi pretesero di aver pagato vitto, alloggio e “50 tonnellate di combustibile a titolo di cortesia”.

Conte ha chiesto e ottenuto di essere sentito appena questa storia uscì sui giornali. Era il 24 marzo scorso. Le mail pubblicate ieri dal Corriere della sera sono un’ulteriore conferma che l’ex premier non ha chiarito e non se la può cavare con un generico “eravamo nel caos, qualunque aiuto era ben accetto, quella di accettare la missione russa è stata una decisione condivisa da tutto il governo”. Lo stesso Copasir deve fare più pressione – una volta di più – per ottenere tutte le informazioni e, a questo punto, soprattutto le spiegazioni. Invece tende a rinviare il momento del chiarimento. L’audizione del generale Portolano, ad esempio, che alla guida del Coi oppose un energico no alle richieste russe, non è ancora nell’agenda di San Macuto.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

I rapporti con gli Usa di Trump. Così Conte usava gli 007 a suo piacimento: tutti gli intrighi del premier pasticcione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Il giallo delle misteriose 48 ore passate dal procuratore generale americano Barr a Roma, nel ferragosto 2019, si infittisce. I suoi incontri con il capo del Dis Gennaro Vecchione, uomo di fiducia dell’allora premier Giuseppe Conte, sono stati rappresentati molto genericamente nel corso delle audizioni che Conte ha reso al Copasir. E in buona parte, come sappiamo oggi, taciuti. L’agenda minuta di quella due-giorni, liberata dalle autorità americane dal sigillo della riservatezza, restituisce una serie di informazioni che Conte ha tenuto ben nascoste. Una serie di finestre temporali “scoperte”, in cui il massimo rappresentante della giustizia americana – che era formalmente emissario di Donald Trump – una volta a Roma sarebbe uscito dai radar della missione concordata.

E veniamo a sapere di una sontuosa cena nel ristorante romano Casa Coppelle in cui barbe finte, staff del general attorney e la fonte più vicina al presidente Conte, Gennaro Vecchione, si sono potuti trovare per condividere tra un bicchiere e l’altro, più di qualche confidenza. Ha poi dell’incredibile venire a sapere come tutte le attenzioni e i servigi resi all’amministrazione americana fossero stati concessi in virtù dell’affannosa ricerca delle prove di un complotto internazionale voluto da Matteo Renzi ai danni dell’eleggibilità di Trump alla Casa Bianca. In questo contesto dai troppi segreti affondano almeno tre dei casi di cui Il Riformista ha scritto in questi anni. Tutti misteri romani o comunque avvenuti nella Capitale. La misteriosa scomparsa del professor Mifsud, per iniziare. “Una spia maltese utilizzato da servizi di diversi paesi”, secondo il ritratto che per noi ne aveva fatto un uomo di fiducia di Trump come George Papadopoulos.

Tutti i contorni del Russiagate, il canale di connessione sotterraneo tra Putin e Trump che sarebbe passato proprio per Roma. L’incontro all’Autogrill Renzi-Marco Mancini, con l’insoluto risvolto televisivo: su come e perché quel lungo filmato (“ricevuto con un video anonimo in redazione”, aveva detto Ranucci) sia stato raccolto e raccontato da Report, il mistero rimane. È invece certo che Gennaro Vecchione frequenta Giuseppe Conte da anni: da ben prima che l’avvocato sentisse pulsare la sua vena politica. I legami del generale Vecchione con un certo mondo della destra sovranista a stelle e strisce li abbiamo messi nero su bianco: quando Dignitas Humanae Institute, presieduto dal cardinale dell’ultradestra religiosa Raymond Leo Burke, promuove l’arrivo in Italia per un ciclo di incontri dello spin doctor del trumpismo e del sovranismo americano, Steve Bannon, può contare sulle relazioni che il cardinal Burke ha intessuto. E se il Dignitas Humanae Institute guarda alle grandi questioni internazionali, il porporato può operare con la politica italiana grazie ad una serie di realtà. È presidente d’onore della Fondazione Sciacca, nel cui comitato tecnico-scientifico siedono ben due generali della Guardia di Finanza: Gennaro Vecchione e Angelo Giustini. Una Fondazione umanitaria e caritatevole, viene detto sul suo sito.

Ma che vede una serie di correlazioni curiose con le istituzioni. A capo dell’ufficio stampa, per esempio, c’è un militare che opera anche nel gabinetto del Ministro della Difesa. Quando c’era Trump da una sponda dell’Atlantico e Conte dall’altra, se gli amici americani chiamavano, qualcuno nel governo italiano rispondeva subito. E infatti, con Conte al governo e Vecchione a capo del Dis, a Bannon viene “gratuitamente prestata” la Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone. Sono i mesi in cui Conte traballa. La crisi del Papeete. Il 27 agosto arriva un segnale chiaro, da Washington: “Spero che Giuseppi Conte rimanga Presidente del Consiglio”, twitta Trump. Roma torna incandescente. Oligarchi russi, agenti Cia, predicatori sovranisti la cingono d’assedio. Chi guarda a Trisulti, come l’ultradestra, sogna di inaugurarvi l’“università del sovranismo”. Un progetto tanto ambizioso da non reggere alla fine del governo Conte I. Arriva l’alleato Dem e la Certosa verrà restituita alla Curia, auspice il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, e l’incidente chiuso in fretta e furia. Anche perché rimane un’altra accademia sulla quale i sovranisti sembravano poter contare.

Nell’ottobre 2017 scompare a Roma, uscendo da una sua lezione, l’enigmatico professor Joseph Mifsud. La lezione si era tenuta alla Link Campus University, fondata anni da dall’ex ministro Enzo Scotti. Una istituzione accademica molto particolare, sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro, diverse interrogazioni parlamentari e perfino un dossier dell’Aisi.

Una università dalle molte vite. Dopo due cambi di sede e una serie di difficoltà economiche, nel 2016 la Link poté compiere un “grande salto”, passando nell’attuale sede a poche centinaia di metri dalla sede diplomatica russa di Villa Abamelik, su via Aurelia. Mifsud avrebbe avuto un ruolo centrale nel reperimento di sponsor che hanno permesso alla Link di fare un salto di qualità. Il momento decisivo si è avuto con la partnership con l’università moscovita Lomonosov, autentico vivaio dell’intellighenzia putiniana. L’accordo viene firmato alla fine del 2016, presente Mifsud, e poche settimane dopo nella nuova sede della Link un ampio locale viene messo a disposizione della Lomonosov. Una sala in cui «era sempre presente una ragazza russa che faceva funzioni di segretaria di Mifsud» e del suo socio svizzero, Roh. In quel locale dedicato all’università moscovita si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America – Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile – che il primo dicembre 2016 ha tenuto alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti e Roh: si tratta di Aleksey Aleksandrovich Klishin. L’uomo d’affari figura tra i soggetti colpiti dalle sanzioni già nel 2017 proprio per la prossimità con Putin.

E’ anche lui un tassello nel mosaico dei misteri in cui – lo Zar al Cremlino, Trump alla Casa Bianca – agenti russi e agenti americani si sono scambiati informazioni e favori. O forse solo promesse e parvenze. Stando alla ricostruzione ufficiale, Mifsud confidò in un incontro che si tenne nell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni ad altri. In breve, le autorità americane lo vennero a sapere. Il 31 luglio 2016 partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Donald Trump e la Russia. L’ex direttore dell’FBI James Comey si era affrettato a dichiarare che Mifsud è “un agente russo”. Ma il Procuratore speciale Mueller non lo ha mai definito tale nel suo rapporto. Inoltre, Mueller non è riuscito a incriminarlo per nessuna accusa, nonostante abbia affermato che Mifsud avesse mentito agli agenti dell’FBI in un interrogatorio del febbraio 2017.

Ad accentuare il mistero, ecco che il protagonista delle rivelazioni di cui oggi sappiamo, l’ex Attorney General Barr e il Procuratore John Durham avrebbero ottenuto i telefoni cellulari di Mifsud proprio dalla nostra intelligence, durante i due colloqui in Italia con i vertici dei nostri servizi segreti in quelle misteriose 48 ore dell’agosto 2019. C’è un documento che è finito addirittura su Twitter: il file Handling – Agent 1 Redacted, verbale dell’interrogatorio del comitato giustizia del Senato Usa 3 marzo 2020 agli agenti dell’Fbi. Come nota l’esperto di intelligence Chris Blackburn, sfogliando il verbale, “l’Fbi sapeva che Joseph Mifsud stesse lavorando con figure-formatori dell’intelligence italiana presso la Link Campus di Roma. Perché anche l’Fbi lavorava lì. Ovviamente Mueller non voleva includerlo nel suo rapporto”. Dopo che Mifsud fu identificato come l’uomo che avrebbe parlato con Papadopoulos, infatti, la squadra di Mueller lo descrisse come persona con importanti contatti russi. Questa descrizione del docente maltese ignorava però i legami più atlantici dello stesso docente, inclusi Cia, Fbi e servizi di intelligence britannici. Attività che l’intensa correlazione stabilita tra il generale Vecchione deve aver contribuito a mettere in luce.

Il ministro della giustizia Usa cercava di capire, al di là del ruolo di Mifsud nella vicenda del Russiagate, quale fosse stato davvero il compito dei servizi italiani. Probabilmente sapeva che lo stesso generale Vecchione ha potuto, a dispetto della scarsa esperienza in materia di intelligence, frequentare le aule della Link Campus. In quel crocevia unico al mondo che è Roma, si dice cercasse anche altri particolari. Che portavano a Kiev: uno dei più probabili sfidanti di Trump, Joe Biden, aveva il figlio Hunter dal maggio 2014 nel cda della potente Burisma Holding, leader nello sfruttamento di gas e petrolio ucraino. Una girandola di correlazioni su cui probabilmente più di una indagine era parallelamente in corso. Del caso sappiamo ancora poco. Sappiamo che Conte ha omesso molti, troppi particolari. Sappiamo che a monte c’è stata una resa dei conti tra due fazioni rivali della Cia, e che nel gennaio 2017 la cellula romana della fazione sconfitta – a Washington, dalla politica – ha perso uno dei suoi elementi operativi, “bruciato” e dato in pasto a una inchiesta giudiziaria che lo ha messo fuori dall’operatività. Sappiamo che questa faida ha avuto un riverbero anche sui “nostri”, e che frizioni importanti vi sono state ai vertici di Aisi e Aise.

L’intervento di Mario Draghi che si affrettò a presidiare la casella del Dis con Elisabetta Belloni non fu affatto casuale. Si ricordi la stizzita reazione di Conte e di tutti i Cinque Stelle. Non sembra essere stato neanche per caso – a rileggerlo con le notizie di oggi – se proprio Giuseppe Conte provò a convincere tanto animatamente Pd e Lega (le sue due ali, sinistra e destra) di votare Belloni quale Presidente della Repubblica, per riaccreditarsi come kingmaker degli equilibri di vertice dei servizi e tornare in quella stanza dei bottoni dalla quale proprio Matteo Renzi lo ha messo alla porta.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

(ANSA il 20 aprile 2022) - La vicenda Barr "non mi preoccupa e perchè dovrebbe? Quando si agisce in piena coscienza, con chiarezza, assolvendo ai propri compiti la massima dedizione perchè dovrei essere preoccupato'". Così il leader M5s, Giuseppe Conte, al Tg3.

(ANSA il 20 aprile 2022) - "Renzi vada al Copasir, faccia quello che vuole, vada nelle tv a parlare. Non mi interessa. Spero che i suoi atteggiamenti non rovinino le nuove generazioni, il senso delle istituzioni è importante". Così il leader M5s, Giuseppe Conte, al Tg3. 

Da repubblica.it il 20 aprile 2022.

Una semplice "cena conviviale". Durante la quale il capo dei nostri servizi segreti e il ministro della Giustizia statunitense, sbarcato a Roma per acquisire informazioni sul Russiagate, avrebbero amabilmente chiacchierato, senza affrontare alcun argomento rilevante o sensibile.

Così l'ex capo del Dis, Gennaro Vecchione, liquida il tete-a-tete a Casa Coppelle, svelato da Repubblica e di cui mai aveva parlato prima, avvenuto nel Ferragosto del 2019 con William Barr, incaricato dall'allora presidente Donald Trump di indagare sul sospetto complotto ordito dai Democratici Usa (con l'aiuto dell'ex premier italiano Matteo Renzi) per influenzare le elezioni americane del 2016. E il presidente del Copasir, Adolfo Urso, ora fa sapere che in relazione alla vicenda 'Russiagate' "il Comitato, nell'odierna seduta ha constatato che non vi sono elementi di novità tali da richiedere ulteriori approfondimenti".

La cena "conviviale"

"Nel corso dell'incontro conviviale non sono stati in alcun modo affrontati argomenti riservati, confidenziali, commessi alla visita o comunque riferiti a vicende e a personaggi politici italiani e stranieri (argomento quest'ultimo mai trattato in alcuna circostanza, anche successiva), per cui la conversazione si è orientata su convenevoli di carattere generale", spiega l'ex comandante della Finanza, sentito dall'AdnKronos.

"Con riferimento all'indagine interna richiesta al Presidente del Consiglio nel maggio 2021 dal Copasir - prosegue Vecchione - giova specificare che lo stesso organo parlamentare, al paragrafo 11.1 della sua recente relazione al Parlamento, ha precisato i termini dell'ispezione, che non riguarda la gestione dello scrivente, ma altri fatti ben circostanziati".

Conte non informato

Una difesa a tutto campo, nel tentativo di allontanare da sé sospetti e illazioni, già bollate da Giuseppe Conte come "infondate" e "in malafede". Secondo Vecchione nella mattinata del 15 agosto di tre anni fa lui partecipò alla riunione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica a Castel Volturno (Ce) e nel pomeriggio, a Roma, avvenne l'incontro con la delegazione statunitense. 

A seguire, "in prosecuzione, la cena con gli stessi partecipanti, nel quadro degli standard di accoglienza, particolarmente apprezzati da sempre dai numerosi visitatori istituzionali italiani e stranieri.

Come si può notare dalla circostanza che fosse il tardo pomeriggio di Ferragosto - osserva Vecchione - sarebbe stato difficile organizzare un rinfresco in sede, per cui si è optato per un evento esterno, in un luogo pubblico e in una zona centralissima. In entrambe le situazioni, non ha preso parte il presidente del Consiglio". Che dunque non era stato informato perché non era necessario. Difatti a Conte "non sono mai stati forniti aspetti del cerimoniale e dell'accoglienza relativi a visite di singole Autorità o delegazioni italiane e straniere, stante la loro assoluta irrilevanza, fatti salvi quegli eventi che ne prevedevano la sua partecipazione", conclude l'ex direttore del Dis. 

Duello al Copasir

Intanto il duello fra il leader dei 5Stelle e il fondatore di Italia Viva, innescato ieri dalle rivelazioni di Repubblica, potrebbe presto trasfrirsi al Copasir. "Se Renzi ha certezze sul fatto che l'ex premier Conte ha violato i dettami costituzionali, ovviamente da lui dobbiamo partire. Devo chiamare" in audizione "chi mi dice, o dice al Paese, di avere delle certezze. Altrimenti su chi facciamo approfondimenti?", preannuncia Adolfo Urso in Tv. Con i parlamentari grillini del Comitato pronti a chiedere che venga sentito per primo il senatore di Firenze: "Già oggi chiederemo che venga calendarizzata l'audizione di Renzi: dal momento che ha sollevato un problema di sicurezza nazionale e dice di nutrire sospetti in merito a comportamenti non corretti da parte di Conte, ci sembra giusto che venga a spiegare nelle sedi opportune a cosa si riferisce, per poi concentrare le nostre domande e fare i dovuti approfondimenti".

Russiagate all’italiana. Secondo Renzi, Conte era filo Trump e filo Putin e voleva solo salvarsi la poltrona. su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro tra Barr e Vecchione di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. «Sulla visita di Barr risponda lui», dice il leader di Italia Viva

«Non ne ero a conoscenza». L’ex premier Giuseppe Conte nega ogni suo coinvolgimento nell’incontro informale, rivelato da Repubblica, tra l’ex segretario alla Giustizia americano William Barr e l’allora capo dei servizi segreti italiani Gennaro Vecchione, avvenuto la sera del 15 agosto del 2019 a Roma. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si era convinto che l’Italia fosse l’epicentro del Russiagate, un complotto ordito contro di lui tre anni prima, quando a palazzo Chigi c’era Matteo Renzi, mirato a danneggiarlo divulgando la notizia delle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali vinte dal tycoon contro Hillary Clinton. Trump avrebbe mandato per questo Barr a raccogliere informazioni a Roma, trovando la collaborazione di Conte e dei servizi segreti italiani.

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno, di Italia Viva, chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. E intorno a questa vicenda, si riaccende lo scontro tra Conte e Matteo Renzi.

Il leader di Italia Viva in un’intervista alla Stampa definisce Conte «incompetente e incapace di conoscere le regole del gioco». Secondo Renzi, «ci sono due Russiagate. Il primo riguarda la barzelletta per la quale io e Obama avremmo fatto una truffa elettorale ai danni di Trump. Il fatto che qualcuno a Roma abbia dato credito a questa follia è ridicolo. Colpisce che la versione di Conte non collimi con lo scoop che ieri ha fatto Repubblica: o Conte ha mentito al Copasir o Vecchione ha mentito a Conte. Oppure tutti e due mentono agli italiani. E poi c’è da chiarire la vicenda del presunto spionaggio russo, su cui siamo gli unici a chiedere la commissione di inchiesta sul Covid. Ma i grillini non vogliono che sia fatta luce, né su questo né sulle mascherine, chissà perché».

Nel giallo intorno alla famosa missione russa in Italia nel marzo 2020, il Corriere aggiunge un tassello: nell’elenco consegnato a Roma risultano 100 militari di Mosca in visita in più rispetto alla lista contenuta nelle relazioni parlamentari. Ufficialmente si trattava di una missione umanitaria, ma la composizione del contingente dimostra che in realtà erano tutti soldati e soltanto alcuni erano ufficiali medici. I militari guidati dal generale Sergey Kikot indicati nella lista di chi doveva «prestare assistenza nella lotta contro l’infezione da coronavirus» nel marzo del 2020 sono 230. L’elenco fu allegato dall’ambasciata di Mosca al testo dell’accordo tra il presidente Vladimir Putin e Giuseppe Conte poi trasmesso alla Farnesina. Ma nelle relazioni parlamentari risulta che in Italia sono stati registrati 130 nominativi. Qualcosa non torna.

«Sulla Russia tutti attaccano, giustamente, Salvini per le magliette di Putin o gli striscioni in piazza Rossa con scritto “Renzi a casa”. Ma i 5 stelle avevano la stessa linea, basta ricordare Di Stefano che oggi fa l’istituzionale viceministro e che allora attaccava l’Ucraina definendola “Stato fantoccio della Nato”», dice Renzi. «Poi c’è il tema Trump: l’atteggiamento di Conte tra agosto e settembre 2019 non è tipico del capo di un governo. Barr doveva incontrare Bonafede, nessun altro. Capisco che magari, se avesse incontrato solo Bonafede non sarebbe nemmeno venuto, ma questa è un’altra storia». Giuseppe Conte, secondo Renzi, «in quelle ore era impegnato a salvare la poltrona».

E sugli aiuti russi per il Covid «io la penso come Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. In quella missione c’era qualcosa di strano e Conte dovrebbe chiarire perché ha accettato quell’accordo con Putin», dice Renzi.

«Il mio giudizio su Conte è notoriamente negativo, non solo per la politica estera», conclude Renzi. «Perché sulla politica estera non puoi proprio giudicarlo: ha fatto tutto e il contrario di tutto. È stato sovranista e progressista, populista e democratico, filo Trump e filo Putin. Puoi giudicare uno dalle sue idee, ma se quello cambia le idee ogni mese che gli dici?»

Conte ieri ha replicato un lungo post sui social, in cui tenta di gettare acqua sul fuoco. Assicura «massima trasparenza» e di aver già detto tutto quello che sapeva quando a ottobre è stato convocato in audizione al Copasir. L’ex premier sostiene però di non aver «mai personalmente incontrato Barr, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Il fatto che alla riunione ufficiale con l’intelligence italiana, nella sede dei servizi segreti a piazza Dante, fosse seguita una cena informale, proprio a due passi dalla casa di Conte, «è circostanza di cui non ero specificamente a conoscenza», assicura il leader del Movimento Cinque Stelle. Poi, contrattacca: «È possibile che il senatore Renzi non abbia mai sentito il dovere di andare a riferire al Copasir su questi suoi sospetti? Cosa teme, di dover poi rispondere alle domande e di essere obbligato, per legge, a riferire tutta la verità?».

Renzi risponde e dice: «Sono sempre pronto a rispondere alle domande del Copasir, ma sulla visita di Barr deve rispondere Conte e non io. Perché le risposte deve darle chi aveva la delega ai servizi, non chi come me è la parte lesa da uno stile istituzionale quanto meno discutibile. A meno che non ci sia qualcuno che pensa che davvero Obama e io abbiamo truffato le elezioni in Connecticut o in Ohio. Nel qual caso consiglio di farsi vedere da qualche specialista, possibilmente bravo».

Intervista a Carlo Calenda, leader di Azione. Stefano Zurlo per “il Giornale” il 20 aprile 2022.

Nessun complotto: «Quello indicherebbe quantomeno una direzione di marcia che invece non c'era e non c'è».

E allora?

Purtroppo la realtà è molto più modesta - sintetizza brutalmente il leader di Azione Carlo Calenda -: Giuseppe Conte voleva accreditarsi a livello internazionale e così utilizzava l'intelligence in modo spregiudicato e dilettantesco». 

Repubblica racconta la storia di una cena, a dir poco fuori dai canoni, fra il ministro della giustizia americano Bill Barr e il capo dell'intelligence italiana Gennaro Vecchione. Barr cercava le prove di un complotto ordito in Italia contro Trump e nel 2019 arriva nel nostro Paese e incontra proprio il capo dei Servizi. 

Uno schema non proprio ortodosso.

«Conte avrebbe dovuto preservare gli apparati di sicurezza, tenerli al riparo da una tempesta innescata da Trump». 

Il Russiagate?

«Appunto, siamo ai vaneggiamenti di Trump, al suo tentativo di fermare i democratici. Sono questioni di politica americana, naturalmente con riflessi in Europa, ma il punto è che il governo Conte nel 2019 fa da sponda a queste manovre». 

Conte afferma di non sapere nulla della cena tra Barr e Vecchione. Le procedure non sono state rispettate?

«Direi di no. Le richieste americane avrebbero dovuto passare attraverso il nostro ministro della Giustizia. Invece...».

Invece?

«Gli americani fanno il bello e il cattivo tempo. Spiace dirlo, ma siamo stati trattati peggio di una colonia, per inseguire fantomatiche prove che servivano a Trump per tentare di stare a galla». 

Lei parla di un atteggiamento «spregiudicato» di Conte?

«Conte, un parvenu, aveva solo il problema di ottenere un riconoscimento a livello internazionale. Quindi, anche se non conosciamo i dettagli di tutte le singole operazioni, possiamo trarre qualche conclusione». 

Secondo lei, cosa è successo?

«Un pasticcio incredibile che si stenta a credere. Siamo stati filo americani con Trump, ma questo è solo un pezzo».

Poi?

«Contemporaneamente, con un equilibrismo davvero incredibile, siamo stati filorussi e filocinesi». 

Con tutti e contro nessuno?

«Purtroppo questo si ricava dai fatti. Conte e Di Maio stravedevano per XI Jinping che l'attuale ministro degli Esteri chiamava Ping». 

Abbiamo aderito alla Via della seta.

«Sì, siamo stati l'unico Paese occidentale che si è lanciato in un progetto di matrice imperialista studiato dal regime comunista di Pechino. Nello stesso momento eravamo filorussi con Putin e filo americani con Trump. Ma come si fa ad avere una politica estera così ondivaga e contraddittoria, una bussola impazzita in cui non esistono più i punti cardinali?».

Tutto questo perché sarebbe avvenuto?

«Non immagini chissà quale complotto o cospirazione». 

E cosa dobbiamo pensare?

«Conte cercava considerazione a livello delle principali cancellerie. Pensi al tweet di Trump su Giuseppi. Conte compiaceva i suoi interlocutori, anche se in questo modo la nostra politica estera è andata a farsi benedire». 

C'è qualcosa di anomalo anche nel viaggio dei russi a Bergamo per combattere il Covid?

«Un altro episodio inquietante, con risvolti oscuri in cui affiora questa assenza di una linea guida, di una posizione chiara e limpida». 

Insomma, l'Italia ha perso credibilità nelle principali capitali?

«C'è stata una caduta di immagine, all'estero ancora oggi ci reputano filocinesi ma temo che i danni ci siano stati anche nella finanza e nell'economia. Gli svarioni del leader politici sono difficili da quantificare ma pesano negli scenari più importanti. Pensiamo agli incredibili balletti di Conte e con il regime venezuelano, ancora più gravi perché laggiù c'è una folta di comunità di origine tricolore». 

Oggi l'ex premier tratteggia un nuovo atlantismo.

«Nessuno però ha capito di cosa si tratti. Sono parole astruse e incomprensibili. Del resto, il centrosinistra si sta rivelando, sul fronte della politica energetica, il partito del no: no al gas russo, ma anche quello egiziano non va bene e pure l'Algeria non è che sia una democrazia. Il carbone inquina, le pale eoliche deturpano il territorio e alla fine uno annega dentro un mare di problemi. Ma di soluzioni, nemmeno l'ombra».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 20 aprile 2022.

Nei suoi incontri a Roma con i servizi segreti italiani - avvenuti in due tornate, il 15 agosto e il 27 settembre 2019, e autorizzati in maniera irrituale dall'allora premier Giuseppe Conte - l'allora ministro della giustizia americano William Barr, secondo fonti americane, aggirò i protocolli usuali nell'organizzazione della missione, e tenne all'oscuro anche funzionari dell'ambasciata americana e del Fbi a Roma. La cosa suscitò grande malumore in settori importanti dell'amministrazione americana, alle prese con i tumultuosi anni trumpiani.

Barr a Roma incontrò (anche) l'allora capo del Dis Gennaro Vecchione, ma sulla natura e il numero di questi incontri non vi è ancora piena chiarezza: ieri La Repubblica ha rivelato che oltre a quello nella sede istituzionale di piazza Dante, ce ne fu almeno un altro, una cena, al ristorante Casa Coppelle, tra il General Attorney americano e Vecchione. Di cui Conte mai aveva parlato. E poi che Barr era arrivato il giorno prima a Roma, in tempo per eventuali altri incontri serali, che però non sono rendicontati nel suo programma di viaggio, dove compare una dicitura "Down Time", riposo, che copre almeno quattro ore.

Barr peraltro ripartì solo la mattina del giorno 16.

Il dossier Barr-Conte-Vecchione verrà riaperto proprio oggi, sia pure informalmente, al Copasir: la riunione era prevista per parlare di crisi energetica come conseguenza della guerra in Ucraina, ma alla fine verranno poste nuove domande sul caso Conte-Barr, e almeno Italia Viva intende richiamare nuovamente l'ex premier in audizione. Secondo quanto risulta a La Stampa, il Copasir non ha alcuna obiezione a riaprire il caso. Ma sarà una riapertura «complessiva». Non si tratterebbe della sola audizione di Conte, ma anche di Vecchione stesso. 

Per misurare la congruenza di quanto detto allora e quanto sta emergendo di nuovo.

La storia Barr-Trump-Conte è uno dei casi più opachi nella gestione dell'intelligence italiana a cavallo tra il primo e l'inizio del secondo governo Conte. Secondo il New York Times, nel suo viaggio in Italia nel settembre 2019 William Barr «aveva aggirato i protocolli nell'organizzazione del viaggio». Funzionari dell'ambasciata avevano trovato la sua visita «insolita», così come il fatto che il procuratore John Durham - che indagava sul presunto complotto anti-Trump organizzato dai democratici mondiali partendo dall'Italia - si fosse unito a lui. 

Un funzionario italiano confermò che uno degli scopi della visita era ottenere maggiori informazioni su un professore maltese, Joseph Mifsud. Ma alle richieste (improprie) di Barr, furono proprio i due capi dell'Aise e dell'Aisi (non certo allineatissimi a Vecchione) porre uno stop, senza consegnare nulla. 

Chi era Mifsud? Professore della Link University, era stato il primo a rivelare a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, dell'esistenza di mail hackerate a Hillary Clinton, materiale che Mifsud definì «compromettente» («dirt»), e sul quale i russi e Wikileaks poi si scatenarono.

Papadopoulos aveva riferito la cosa a un diplomatico australiano, che avvisò l'Fbi e diede quindi l'innesco all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate.

Per Mueller, Mifsud era uomo in mano ai russi (per l'ex capo Fbi James Comey era proprio «un agente russo») e alle operazioni di interferenza di Putin nelle elezioni Usa del 2016.

Trump e Barr volevano invece (e, risulterà, senza fondamento) sostenere che Mifsud fosse una spia britannica, tassello di un complotto mondiale ai danni di Trump organizzato dai democratici di Obama, complice l'Italia del governo Renzi. Da allora Mifsud è sparito. Forse in Russia, forse non più vivo.

In quei mesi Barr fece analoghi viaggi anche in Regno Unito e Australia, cercando appoggi per sostenere la tesi del complotto ai danni di Trump. L'allora presidente Usa telefonò al primo ministro australiano Scott Morrison chiedendogli di fornire assistenza. Trump fece lo stesso con Conte? Barr cercò anche, in Ucraina, sostegno a una campagna contro Joe Biden e le consulenze - poi risultate legittime - del figlio Hunter con l'azienda ucraina di gas Burisma.

Ci fu infine anche un incontro, questa volta solo tra intelligence italiane e omologhi americani, avvenuto il 27 agosto. Secondo quanto risulta a La Stampa, gli americani volevano informazioni sulla condotta degli ufficiali dell'intelligence Usa con sede in Italia nel 2016. E voleva un fantomatico audio di Mifsud (che gli italiani non consegnarono). L'allora premier italiano stava autorizzando una normale collaborazione tra servizi americani e italiani o stava accettando anche solo di ascoltare una richiesta impropria di Barr (e Trump), cioè che l'Italia collaborasse non con, ma contro una parte dei servizi americani, l'Fbi?

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 20 aprile 2022.

L'Italian gate non è finito. Anzi, forse è appena cominciato. Perché nei prossimi giorni l'ex premier Giuseppe Conte è possibile, anzi quasi certo, che dovrà tornare davanti al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e rispondere alle domande dei parlamentari su quello strano Ferragosto del 2019 quando a Roma sbarcò il segretario della Giustizia, William Barr. 

Dovrà spiegare, prima di tutto, come mai il suo capo dell'Intelligence, Gennaro Vecchione, non lo avvisò - questo ha detto Conte ieri in un lungo post su Facebook - di una cena che si tenne dopo l'incontro nella sede del Dis. Una circostanza sicuramente non neutra non fosse altro che la cena, come l'incontro, erano state concordate seguendo dei binari non esattamente istituzionali.

Non erano stati avvisati, infatti, i vertici delle due agenzie di intelligence (Aise e Aisi), non fu avvisato il Copasir. E soprattutto l'incontro fu deciso scavalcando tutti i protocolli in un passaggio in cui evidentemente la forma diventa sostanza. 

Ma Conte non sarà il solo, probabilmente, a dover tornare al Copasir per chiarire una serie di elementi che, prima delle rivelazioni di Repubblica, erano stati taciuti. Come ha chiesto ieri il segretario del Comitato (oggi la richiesta verrà ufficializzata nel comitato di presidenza), Ernesto Magorno, senatore di Italia Viva, a tornare davanti ai parlamentari potrebbe essere anche l'ex capo del Dis Gennaro Vecchione - che ieri contattato non ha voluto rispondere - che dovrà spiegare perché non aveva mai parlato di questa cena. E come mai aveva ritenuto di non informare il presidente del Consiglio, come Conte ha raccontato ieri. 

Ma l'Italian Gate non è finito anche perché quello che è accaduto in queste ultime ore ha inevitabilmente riproposto, anche all'interno dell'intelligence italiana, una domanda rimasta fino a questo momento senza risposta. E cioè: cosa hanno chiesto gli americani in quell'incontro e poi dopo in quella cena? E soprattutto: cosa hanno detto di sapere gli italiani? Perché le date raccontano una storia fin qui non ancora chiara. Quello di Ferragosto non è stato il solo incontro tra Vecchione e Barr.

Mentre l'Italia era nel pieno della tempesta del Papeete, con il governo Conte che traballava come un cocktail poggiato sulle casse del lido-discoteca caro a Matteo Salvini, l'allora capo dei servizi italiani si impegna con i colleghi americani a rivedersi. Al termine della cena a Casa Coppelle i due si ridiedero un appuntamento dopo sei settimane.

Il 27 settembre. Fu soltanto allora che gli allora direttore delle agenzie - Luciano Carta che all'epoca guidava Aise e Mario Parente dell'Aisi - vengono a sapere dell'incontro, con una comunicazione scritta. E trasecolano.

In un incontro a Palazzo Chigi avvenuto il 26 spiegano a Conte e Vecchione di non essere a conoscenza di nessun ruolo di italiani, né tantomeno delle nostre istituzioni, nella vicenda del Russiagate. Ed è quello che diranno il giorno dopo agli americani che speravano invece in ben altre informazioni. Sul punto esistono informative precise firmate dai direttori delle nostre agenzie di intelligence che, a questo punto, è certo verranno acquisite dal Comitato parlamentare.

Infine: l'Italian Gate non è finito perché è possibile che davanti al Copasir torni anche un altro ex premier, Matteo Renzi, colui che nella ricostruzione-bufala trumpiana avrebbe in qualche maniera collaborato con il governo Obama per fabbricare false prove. «Perché non va a riferire quel che sa?» ha detto ieri Conte. È possibile che oggi nel comitato di presidenza del Copasir, i 5 Stelle facciano la stessa richiesta al presidente Alfredo Urso. Che, come cultura istituzionale, mai in questi mesi ha respinto le istanze dei membri del Comitato.

Per non dimenticare. Le responsabilità del Pd di Zingaretti nel Russiagate di Conte. Carlo Panella su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Nonostante le pressioni interne, il Partito Democratico ha ignorato l’importanza della delega ai Servizi e l’ha lasciata nelle mani dell’allora presidente del Consiglio. Una decisione a metà tra l’ingenuità e la follia, a coronare una delle stagioni più fallimentari della politica. Letta dovrebbe intervenire.

Il secondo tempo del pasticciaccio Barr-Conte-Vecchione obbliga ancora una volta a registrare l’incredibile assenza di forza politica, se non l’innovativa dabbenaggine pura Pd, di Nicola Zingaretti. Ma un Pd non solo suo. Questo, innanzitutto, per aver considerato nella calda estate del 2020 non rinviabili al mittente le esplicite pressioni di Donald Trump per la giravolta dell’avvocato del popolo, da premier del governo gialloverde a premier del governo giallorosso. Allora, stupito, ne chiesi conto a un alto dirigente del Partito Democratico che, visibilmente imbarazzato, farfugliò: «Non hai idea delle pressioni da Villa Taverna…».

Preso atto che il Pd, il partito che più di ogni altro può mettere in campo alte figure tecniche per Palazzo Chigi, si è accostumato a subire i diktat di un ceffo come Donald Trump, lo incalzai: «Ma almeno potevate imporre a Conte di assegnare a uno dei vostri la delega ai Servizi». Ulteriore imbarazzo: «Zingaretti e il Pd romano non hanno neanche idea di cosa siano i Servizi. Abbiamo insistito col segretario, ma ci ha risposto che non voleva fare uno sgarbo ai 5Stelle».

Così, Conte, col beneplacito del Pd si è tenuto la delega, ha fatto di Gennaro Vecchione una longa manus sul Dis, sull’Aise e sull’Aisi – e per fortuna che questi ultimi erano diretti da Luciano Carta e Mario Parente che ne hanno salvaguardato autonomia e funzione. Non solo, i due direttori dell’Aise e dell’Aisi hanno tenuto gelidamente distanti i loro uffici dalle richieste di occuparsi, su suggerimento americano, di George Papadopoulos e Joseph Mifsud e dal ben poco limpido ambiente della Link Campus University, vivaio dei mediocri 5Stelle assunti a incarichi di governo.

Naturalmente, Mario Draghi, diventato premier, ha licenziato Vecchione, ha nominato Elisabetta Belloni al Dis e ha interrotto l’uso personale e improprio che dei Servizi ha fatto per più di due anni Giuseppe Conte.

Ma resta la macchia di un Pd incapace di rispettare la tradizione della sinistra che, da Ugo Pecchioli a Marco Minniti, ha sempre considerato i Servizi un punto focale e prezioso delle istituzioni repubblicane e che, nonostante le ripetute richieste del suo responsabile della sicurezza Enrico Borghi perché quella delega venisse affidata ad altri, ha permesso che Conte trattasse il tema come un affare di famiglia.

Questo, per di più, a fronte del fatto inaudito che il presunto scandalo delle trame per favorire Hillary Clinton contro Donald Trump, di cui parlarono William Barr e Gennaro Vecchione, del quale uno snodo sarebbe stato Mifsud, avrebbe fatto capo, secondo il fantasioso Segretario alla Giustizia americano, al governo diretto da Matteo Renzi. Quindi, il Pd, ha ceduto a suo tempo a Conte il pieno controllo politico sui Servizi ben sapendo che il premier favoriva ventre a terra un’inchiesta americana che puntava a incriminare un ex presidente del Consiglio italiano che dal 2020, era anche parte della sua stessa maggioranza parlamentare, quella che addirittura lo stesso Renzi aveva inventato.

Un quadro scabroso dal quale oggi Enrico Letta si tiene inopportunamente lontano.

Giuseppe Conte, "cosa c'è dietro al Giuseppi?". Servizi, Casa Bianca, Trump e Russia: la cena taciuta dall'ex premier. Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

Una cena tra William Barr, ex procuratore generale degli Stati Uniti, e Gennaro Vecchione, ex capo dei servizi di intelligence italiani, potrebbe mettere in seria difficoltà Giuseppe Conte. Il fatto risale al 15 agosto del 2019. I due, come rivela Repubblica, avrebbero avuto una discussione segreta per capire se Roma fosse al centro di un complotto per influenzare le presidenziali americane del 2016 e impedire a Donald Trump di arrivare alla Casa Bianca. Tutto nasce perché nel 2019 Trump si convince che il “Russiagate” sia stato confezionato in Italia, dai Servizi, sotto la guida del premier Matteo Renzi, alleato di Hillary Clinton. 

A pesare sulla convinzione di Trump sarebbe stato anche il suo ex consigliere George Papadopoulos. Quest'ultimo aveva rivelato che un professore della Link Campus University, Joseph Mifsud, oggi scomparso, durante un incontro a Roma gli aveva detto che il governo russo possedeva “materiale compromettente” su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto il tycoon chiese a Barr di indagare. E Barr, invece di contattare il suo omologo, avrebbe scavalcato tutti e ottenuto un incontro col capo dell’intelligence, che sarebbe stato autorizzato dal presidente del Consiglio. 

Stando ai documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, visionati da Repubblica, Barr avrebbe visto Vecchione alle 17 in Piazza Dante 25, sede del Dis. Cosa già nota. Poi alle 18 e 45 sarebbe andato verso Piazza delle Coppelle per una cena prevista di due ore. Su questo però non si sa nulla di più. In ogni caso, alla luce di questa vicenda, suona sospetto il tweet con cui Trump appoggiò Conte il 27 agosto: "Comincia a mettersi bene per l’altamente rispettato Primo Ministro della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte... Un uomo di grande talento, che speriamo resti Primo Ministro". Sarà stato forse un ringraziamento per la visita di Barr? Sentito dal Copasir, l'allora premier sottolineò: "Non ho mai parlato con Barr, i nostri servizi sono estranei alla vicenda". Oggi a commentare è Matteo Renzi: "Obama ed io che organizziamo una truffa elettorale ai danni di Trump? Follia pura". E anche il senatore di Italia Viva Ernesto Magorno: "I nuovi elementi emersi sulla vicenda "Russiagate" scattano una fotografia inquietante. È assolutamente necessario un chiarimento".

Bye bye Giuseppi. Il doppio Russiagate di Conte segna (in ritardo) la sua fine politica. Mario Lavia su L'Inkiesta il 20 Aprile 2022.

Le nuove rivelazioni di Repubblica e Corriere (ma sarebbe bastato leggere quotidianamente Linkiesta degli ultimi due anni) dimostrano che l’ex premier ha fatto un uso spregiudicato degli apparati, impiegati per accreditarsi presso i due principali leader reazionari del mondo.

Due storiacce, una con Donald Trump e l’altra con Vladimir Putin, i campioni della destra reazionaria mondiale: l’uno-due di Repubblica e Corriere della Sera è di quelli che in un Paese normale dovrebbero definitivamente mandare a stendere il protagonista del doppio inghippo, cioè Giuseppe Conte, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio: è il duplice segnale che ambienti importantissimi, anche internazionali, hanno mollato l’avvocato del popolo e che nessuno crede a un suo ritorno ad alti livelli di governo.

Perché quello che balza agli occhi nei colpi dei due più importanti giornali italiani non è nemmeno il merito, anche se esiste ed è pesante, ma la tempistica e l’univocità del bersaglio, il che dimostra che il caso Conte non è chiuso, tutt’altro, e sarebbe davvero strano se per non turbare il quadro politico i partiti della maggioranza si sottraessero al dovere di incalzare l’ex premier e leader del M5s a dire quel che sa, soprattutto un Pd che ormai non ha più motivo di difendere l’indifendibile ma che ieri non ha detto una parola (tranne il solito Andrea Marcucci) su un uomo politico azzoppato che oramai andrebbe abbandonato al suo destino.

Enrico Letta, così coraggioso sulla guerra di Putin, sull’alleanza con i grillini ancora vuole puntare per puro spirito di conservazione: un’intesa che non sta più in piedi, se mai lo è stata. Il “punto di riferimento fortissimo dei progressisti” è un pallido incubo lontano.

Contro “Giuseppi” non escono vicende nuove, su Linkiesta le abbiano raccontare per mesi, ma ulteriori tasselli di giochi opachi mai chiariti completamente dall’avvocato nemmeno di fronte al comitato parlamentare per i servizi di sicurezza, dove dovrà tornare di nuovo per chiarire i fatti. Si tratta nel primo caso (scoop di Repubblica) di nuovi elementi sui misteriosi colloqui che nell’estate del 2019 l’ex ministro della giustizia americano William Barr ebbe a Roma con l’allora capo dei servizi segreti Gennaro Vecchione (e non con il omologo Alfonso Bonafede come prassi avrebbe voluto) i cui contenuti non sono mai stati chiariti fino in fondo. Ma già basandosi su quello che si sa ci sono pochi dubbi sul fatto che Barr, in veste di “avvocato” di Trump, cercasse in Italia il modo per fabbricare prove ai danni del governo Renzi nell’ambito della presunta trama obamiana contro The Donald.

Un pezzo di una tela mondiale, come già un anno fa spiegò la rivista online Ytali, «che ha coinvolto l’Australia, il Regno Unito, l’Ucraina e, appunto, l’Italia. Ad Australia e Regno Unito è stata richiesta collaborazione per capire se diplomatici dei due Paesi avessero lavorato con Obama per danneggiare Trump. Con l’Ucraina è lo stesso Donald Trump a intervenire. Il presidente repubblicano chiese infatti in una famosa telefonata al presidente ucraino Zelensky non solo di aprire un’inchiesta nei confronti del principale candidato dem alle primarie Joe Biden, ma di condurre delle indagini su CrowdStrike, una società americana specializzata nelle indagini su attacchi informatici». In Italia si puntava a colpire Matteo Renzi visto come anello della catena obamiana, ma ieri lui ha detto di considerare «una follia questa ipotesi e ancora più folle mi pare chi gli ha dato credito».

È evidente che siamo ben oltre i normali rapporti fra Stati alleati di cui aveva parlato Conte al Copasir. E non è affatto chiaro – questo è il rilancio giornalistico di Repubblica – cosa abbia fatto Barr nella sua seconda visita, quella del 27 settembre, che seguiva il primo colloquio “ufficiale” con Vecchione del 15 agosto e una misteriosa cena tra i due quella sera. Conte pertanto dovrà chiarire la sua posizione anche sui nuovi dettagli emersi: che cosa successe nella visita settembrina dell’uomo di Trump?

Ma se vogliamo la seconda dirty story, sulla quale il Corriere della Sera con Fiorenza Sarzanini non molla la presa, è anche più pesante. Riguarda la nota vicenda della visita dei medici e militari russi a Bergamo nei giorni iniziali della pandemia (marzo 2020). Ebbene, il Corriere ha tirato fuori una mail dell’ambasciata russa alla Farnesina da cui emerge che i russi volevano “bonificare” le strutture pubbliche e pretendevano (ottenendolo) che l’intera missione fosse a spese dell’Italia. Dai dettagli viene il forte dubbio che altro che aiuto umanitario si trattava, ma di un’azione di vero e proprio spionaggio: questo sarebbe stato il cuore dell’intesa tra Giuseppe Conte e Vladimir Putin.

Dal doppio pasticcio prima con Trump e poi con Putin esce dunque in modo inquietante la figura di un premier per caso che a quanto pare non esitava ad adottare i metodi più spregiudicati per accreditarsi presso i due grandi leader mondiali della reazione facendosi beffe di regole e trasparenza non solo durante i fatti ma anche successivamente, omettendo la verità, tutta la verità agli organi competenti nonché al Paese.

Come ha scritto Carlo Bonini su Repubblica, «ossessionato dal suo destino, Conte ha a lungo confuso l’interesse e la sicurezza nazionale con quello della sia persona e della sua permanenza a palazzo Chigi», qualcosa di peggio dell’«annegare la politica in un pantano senza idee» di cui scrisse il filosofo Biagio de Giovanni già due anni fa. Sarà senz’altro un caso ma tutte queste vicende torbide tornano in campo con forza proprio mentre alla Farnesina siede con un peso molto superiore al passato un certo Luigi Di Maio, avversario agguerrito dell’avvocato. Mai politicamente così debole, adesso Conte sconta l’arroganza dei tempi belli del Conte uno e – meno – del Conte due. Un’epoca lontana, che non tornerà.

La svolta di Volturara Appula. Ora sembra incredibile, ma non dimentichiamoci della temperie che ha creato l’epica di Conte. Christian Rocca su L'Inkiesta il 3 Aprile 2022.

Il Pd, i principali giornali e le tv che avevano consegnato il paese al referente italiano di Putin e Trump cominciano tardivamente a prendere le distanze dall’avvocato del populismo. Ben arrivati, ma adesso servirebbe una specie di Bad Godesberg nostrana, un’operazione di autocoscienza nazionale. O, almeno, che non si continui a demolire il discorso pubblico con talk show da operetta bipopulista.

Oggi sembra incredibile, ma quindici mesi fa il Partito democratico e la stampa illuminata e progressista hanno cercato in tutti i modi di scongiurare la defenestrazione di Giuseppe Conte da Palazzo Chigi e poi di sostenere il tentativo grottesco di formare un nuovo governo Conte, il cosiddetto Trisconte, con statisti del calibro di Ciampolillo e base elettorale nei talk show dell’autoproclamata Repubblica popolare di La7. 

Un’inspiegabile infatuazione per un avvocato senza arte né parte, scelto per fare da vice ai due vicepresidenti Di Maio e Salvini, e affiancato da Rocco Casalino per evitare che “pretermettesse” una qualche enormità non associata a quelle della srl di riferimento (ancora adesso, fateci caso, sia nei video in versione televendita alla Robertino sia dalla Annunziata spesso Conte distoglie lo sguardo dalla telecamera o dall’interlocutore per cercare con l’occhietto l’approvazione benevola di Rocco, magari quando sente perfino lui di averla detta grossa). 

Eppure fino a ieri il Partito democratico lo incoronava leader fortissimo di tutti i progressisti e immaginava di affidargli la guida dell’alleanza strategica alle elezioni, proprio a lui, al referente italiano di Vladimir Putin e di Donald Trump e per un certo momento anche volenteroso sostenitore della Via della Seta di Xi Jinping, perché va dato atto a Conte di non essersi lasciato sfuggire nemmeno uno dei nemici dell’Europa, della società aperta e del mondo libero. 

Tanto da aver aperto le porte dei nostri servizi di sicurezza agli scagnozzi di Trump che cercavano prove di complotti ucraino-italiani per abbattere Biden su indicazione di Putin che da un lato brigava per tenere Trump alla Casa Bianca e dall’altro revisionava i cingolati dei carri armati da inviare in Ucraina.

Il governo Conte due, o Bisconte, ha ottenuto l’endorsement di Trump, col famoso tweet di incoraggiamento a «Giuseppi», e in quel periodo ha fatto oscenamente sfilare i mezzi dell’esercito russo per la prima volta in un paese Nato, non si capisce bene per quale motivo e peraltro rimborsandogli le spese militari come se Putin fosse un deputato grillino dotato di scontrino. 

E mente i giornali e le televisioni di allora lodavano la statura di Conte, bevendosi i confessionali di Casalino e avallando gli attacchi diretti alla democrazia liberale, dalla mutilazione del Parlamento alle leggi liberticide di Fofò Dj, oggi improvvisamente lo trattano come uno straccio usato, fanno inchieste tardive sulla parata militare russa in Italia e addirittura sospettano che dietro il no all’aumento delle spese militari della Nato, che poi alla fine è stato un sì al primo «bu» che gli hanno rivolto gli adulti nella stanza di governo, ci sia il timore che Putin abbia registrato la famosa telefonata con cui Conte ha aperto all’esercito russo le strade del nostro paese allora in pieno lockdown. Insomma, una versione sciuè sciuè del famoso kompromat (materiale compromettente) detenuto da Putin a proposito di certi affari moscoviti di Trump. 

Come ha ricordato Francesco Cundari, Conte ha cominciato la legislatura da capo del governo più di destra dai tempi di Gengis Khan e si appresta a chiuderla da leader della sinistra radicale antiamericana e antioccidentale. 

Coloro che hanno abboccato alla fase “leader del centrosinistra moderato” credono che la parabola di Conte sia trasformista, ma in realtà è assolutamente coerente ed era prevedibile fin dal primo giorno: a voler dare nobiltà al pensiero politico di Conte, l’avvocato non si è mai mosso da dove è partito perché nasce come leader del populismo di destra e finisce come leader del populismo di sinistra, sempre antioccidentale, sempre anti americano, sempre anti sistema, sempre bipopulista. 

Oggi sembra tutto incredibile, ma a questo punto sarebbe il caso che il Pd, i giornali, le tv e gli intellettuali d’area che tardivamente cominciano a prendere le distanze da Conte, e che quindici mesi fa, a Giuseppi piacendo, hanno fatto di tutto per non far arrivare Mario Draghi a Palazzo Chigi e poi, tre mesi fa, per rimuoverlo dal governo, rinuncino espressamente al contismo e ai suoi derivati, riconoscano di aver spacciato al paese una gigantesca e pericolosa sòla.

La scelta contiana va cestinata nella pattumiera della cronaca e con essa anche quella che porta gli Orsini e simili, ovvero l’ultima versione bellica di questo gioco bipopulista, a rimuovere i dati di fatto dal dibattito pubblico. 

Non serve un’autocritica né scusarsi, per carità, ma nemmeno far finta di non aver costruito l’epica del leader fortissimo che il mondo ci invidiava. 

DAGONEWS il 29 marzo 2022.

Altro che plebiscito per Conte, il nuovo corso perde acqua, anzi voti, da tutte le parti. 

L’ennesima votazione farsa per Giuseppi, che riesce a perdere quasi 7mila voti dalla sua ultima votazione.  Giuseppi aveva detto: “Chiedo nuovamente la vostra fiducia, e non mi interessa il 50,1 per centro dei voti. Anzi, vi dico che se il risultato fosse così risicato sarei il primo a fare un passo indietro”. 

Bene, allora Conte adesso può anche dimettersi visto che ha votato per la sua rielezione farsa (pronto già il ricorso di Borrè) meno del 50%: su 130.570 aventi diritto, in totale hanno votato in 59.047. Altro che 50,1%!!!  

Non sono bastate le minacce in salsa putiniana per la “condivisione” del video sui social, dispensate da tarocco casalino (sempre più in difficoltà per la gestione di Giuseppi che continua a perdere consenso personale e Like sui social) e dai pulcini di Conte ai parlamentari grillini, alla fine se nella votazione di agosto 2021 i Si per Conte erano stati 62.242, ieri sera i Si sono scesi a 55.618. 

Sembra che lo stesso Conte abbia già sculacciato i suoi fedelissimi per avergli fatto fare una figura di merda. 

Emanuele Buzzi per corriere.it il 29 marzo 2022.  

Tutto come da copione. Giuseppe Conte torna ad essere presidente del Movimento. Il voto sulla leadership, passaggio obbligatorio dopo l’ordinanza del tribunale di Napoli che ha sospeso i vertici M5S, è andato secondo le previsioni. Hanno votato 59.047 attivisti, e i sì sono stati 55.618 ossia il 94,19%. Gli aventi diritto al voto erano 130.570.

Il calo dei voti

Il confronto istintivo è con la «prima volta» di Conte, lo scorso agosto, quando oltre 62 mila militanti su 67 mila lo incoronarono presidente. Rispetto ad allora l’affluenza è calata quasi del 12%.

Assieme al presidente (per gli attivisti era impossibile votare solo sulla leadership, bisognava comunque partecipare anche alle altre consultazioni) sono stati definiti i componenti dei nuovi organi M5S. 

Quindi il Movimento ora è dotato di un comitato di garanzia al completo (con Laura Bottici) e di un rinnovato collegio dei probiviri (eletti Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia). Tra i nominativi al voto, rispetto ad agosto, oltre al dimissionario Luigi Di Maio non c’era neppure Riccardo Fraccaro, protagonista al tempo delle votazioni per il Quirinale di un «incidente» con Salvini che fece infuriare i vertici M5S.

La rosa dei nomi in votazione è stata scelta di comune accordo tra Beppe Grillo (che da statuto ha la facoltà di proporre persone di sua fiducia) e Conte. Anzi, secondo le indiscrezioni i pentastellati proposti dal garante sarebbero stati più di una dozzina e quelli scelti per la votazione sarebbero il frutto di una selezione effettuata d’intesa con Conte.

Le polemiche

La consultazione è stata seguita con attenzione dall’ala vicina all’ex premier. «Il voto sta andando molto bene», fanno sapere nel pomeriggio dal Movimento, spiegando che è già stata superata quota 50 mila votanti.

Ma le polemiche ugualmente non mancano. L’europarlamentare Dino Giarrusso punzecchia: «Mi auguro anche che questa sia l’ultima volta che il popolo del Movimento viene chiamato ad esprimersi per avallare o meno scelte prese altrove». L’avvocato Lorenzo Borré e il gruppo di attivisti napoletani che hanno presentato ricorso ad agosto sono pronti per una nuova contestazione.

Stavolta saranno un centinaio, i ricorrenti. Quattro i capisaldi su cui si verterà il ricorso: la carenza di poteri in capo a chi ha indetto l’assemblea del 10 e 11 marzo; l’illegittima esclusione degli associati iscritti da meno di sei mesi; la violazione del principio di parità dei diritti degli associati, con riferimento alle condizioni di candidabilità per le cariche apicali e di garanzia (comitato di garanzia e presidente M5S in votazione) e infine la violazione del metodo assembleare. 

Il conclave

Intanto ieri si è svolta la prima giornata del «conclave» dei comitati tematici, oggi sarà il giorno del confronto. «Cerchiamo di far emergere e affrontare eventuali questioni che potrebbero risultare divisive — ha detto Conte al termine del primo incontro — . Anche io vi porterò alcune idee e progetti, alcune delle quali ricavate direttamente dal confronto con Beppe ad esempio in materia di contrasto dell’evasione fiscale sull’Iva e di promozione dei pagamenti digitali nonché in materia di infrastrutture digitali». Il presidente M5S ha anche chiarito che il Movimento «è un pilastro di questo governo». «Tanta la voglia di ripartire con Conte per rilanciare il Paese», twitta Paola Taverna. Ma nel partito resta forte l’idea di una lista Conte da presentare a Palermo e Genova. 

Il tweet

«Gli iscritti del M5s mi hanno riconfermato con un’indicazione forte e chiara». Così il leader M5s Giuseppe Conte commenta il risultato del voto degli iscritti. «Un sostegno così importante è anche una grande responsabilità. Ora testa alta, ancor più coraggio e determinazione nelle nostre battaglie. Abbiamo un Paese da cambiare»scrive Conte in un tweet.

Lisa Di Giuseppe per editorialedomani.it il 29 marzo 2022.

Il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte ha parlato oggi di «un riscontro molto positivo» sul voto che lo ha confermato presidente del Movimento 5 stelle e di una «richiesta di interlocuzione» al presidente del Consiglio Mario Draghi, che incontrerà nel pomeriggio, per discutere dell’intenzione del capo del governo di aumentare le spese militari. Sul tema conte dice che non voterà l’ordine del giorno che chiede al governo un aumento, precisando però che non intende mettere in discussione gli impegni presi con la Nato.

Conte conclude la seconda giornata di confronto con i parlamentari che sono parte dei comitati del Movimento con una conferenza stampa in cui può celebrare la sua riconferma alla guida del partito: hanno votato meno di 60mila persone, la soglia psicologica indicata nelle ore precedenti dai piani alti del Movimento come cruciale, e lui ha ottenuto il 94 per cento dei voti.

Conte se ne compiace e sottolinea la «grande responsabilità» che gli deriva dalla nuova incoronazione. Si gloria anche della nuova spilla con le Cinque stelle che gli decora il bavero della giacca: «Me l’hanno regalata stamattina i vicepresidenti», dice, assicurando che alle amministrative lavorerà soltanto per il Movimento.

L’argomento centrale nella Sala Aquile randagie del Roma Scout Center diventa però presto lo scontro con il resto della maggioranza sull’aumento delle spese militari. Conte assicura totale fedeltà al governo sul decreto legge Ucraina da convertire in Senato questa settimana, «lo votiamo con o senza la fiducia, non c’entra nulla con la corsa alle armi», non nascondendo però che il via libera agli aiuti militari a Kiev «non arriva a cuor leggero».

Ma sull’aumento delle spese militari niente da fare. «Non possiamo distrarre risorse utili da un tessuto economico già in sofferenza» dice, ma «non intendo mettere in discussione l'accordo siglato con la Nato: non lo chiedo neppure al premier. Però gli accordi presi illo tempore devono tenere conto delle sopravvenienze e quelle dell'Italia sono superiori a quelle di altri paesi».

Quindi voto contrario all’ordine del giorno di Fratelli d’Italia che il partito di Giorgia Meloni proporrà oggi pomeriggio in Commissione esteri al Senato, anche se il testo è la fotocopia di quello che gli uomini di Conte hanno già votato alla Camera. 

Anche se il governo dovesse mettere la fiducia in aula, infatti, l’ordine del giorno dovrà comunque essere votato nella commissione presieduta da Vito Petrocelli. Conte si mostra sicuro anche rispetto a eventuali malpancisti. «Senatori che voteranno a favore dell’ordine del giorno? Lo escluderei, ce ne occuperemo se ce ne saranno».

L’ex premier non detta chiaramente le condizioni necessarie per raggiungere un punto di caduta con Draghi nell’incontro di oggi pomeriggio, ma la voglia di farsi sentire è evidente: «Non può essere assolutamente che il governo non ci ascolti e che nel Def ci siano quelle fughe in avanti che abbiamo sentito nei giorni scorsi». Il presidente rieletto insiste invece sull’opportunità di «mettere a fattor comune gli investimenti a debito comune europeo nel settore». Un Recovery fund formato militare? «Prima bisogna parlare di politica estera». 

Conte dedica un passaggio anche agli alleati del Pd, con cui il dialogo «è sempre corretto, sincero e autentico». Che i due partiti alleati nel Campo largo non siano alleati sulla questione delle spese militari «dispiace, ma è una questione nuova». Una reazione che detta il passo per il futuro dell’alleanza: «Se il Pd sarà al nostro fianco ci farà piacere, altrimenti ne prenderemo atto», ha proseguito. «Se sarà con noi sul salario minimo, ci farà piacere, se si orienterà diversamente, ne prenderemo atto».

Federico Capurso per “La Stampa” il 29 marzo 2022.

L'esito di una sfida con un solo partecipante di rado riserva sorprese. Specie all'interno del Movimento, dove nessun leader è stato mai tradito dalla base. Eppure, per Giuseppe Conte, la rielezione alla guida dei Cinque stelle avvenuta ieri, con il 94,19 per cento di voti favorevoli, non si può derubricare a semplice bollinatura del voto che lo incoronò lo scorso agosto, né a una formalità utile solo ad aggirare la sentenza giudiziaria che ha recentemente decapitato lo stato maggiore grillino.

È piuttosto il passaggio intorno a cui si raccolgono le speranze dell'ex premier di arrivare a una svolta nella fin qui travagliata esperienza da capo di partito: azzoppato in partenza da Beppe Grillo, logorato poi da Luigi Di Maio e infine colpito dalla sentenza del tribunale di Napoli. È il lusso di una seconda chance. 

L'ultima, prima di prendere davvero in considerazione l'idea di abbandonare il Movimento e fondare un suo partito, come da settimane gli suggeriscono i parlamentari e ministri più vicini.

«Mi aspetto una forte investitura», dichiara in mattinata, a urne ancora aperte, negando la possibilità di considerarlo un «flop» in caso di bassa affluenza. Aveva promesso un passo indietro se il risultato fosse stato risicato, d'altronde, ma erano i pochi partecipanti al voto a rappresentare davvero l'unico inciampo possibile. L'asticella da superare, tarata sui risultati di agosto, era fissata a 62 mila voti a favore, ma ci si è fermati a meno di 56 mila, nonostante fossero aumentati gli iscritti aventi diritto al voto. 

Mancato l'obiettivo, ma confortato dalle percentuali, all'ex premier resta il compito di ricompattare il partito e dargli un nuovo slancio. Non è un caso che Conte abbia voluto riunire ieri l'apparato dirigenziale M5S, composto dai Comitati tematici e politici: «Per rinforzare lo spirito di gruppo e gettare le basi del programma», spiega il leader ai circa 80 parlamentari che partecipano alla riunione al Roma Scout Center. 

Chiede partecipazione, coinvolgimento, dialogo: «Nessuno deve sentirsi escluso. Ed è importante raccogliere la spinta propositiva dal basso. Non permetteremo più a nessuno che si parli male di noi, ma noi per primi dobbiamo volerci bene». 

La politica è anche «conflitto», aggiunge poi con un chiaro riferimento alla fronda interna guidata da Di Maio, «l'importante è che si tenda tutti al bene comune, senza personalismi».

Ma non basta. A Conte viene chiesto di cambiare atteggiamento, di essere meno accomodante, più combattivo. A partire dalla battaglia contro l'aumento delle spese militari. Sempre dallo Scout Center, infatti, nel giorno in cui ci si attendeva un ammorbidimento della posizione anti-riarmo dei Cinque stelle, il leader lancia un messaggio opposto al governo Draghi e al Pd: «Non consentiremo un aumento delle spese militari nel Def». Nessun passo indietro, dunque, come temevano alcuni abituati alle mediazioni «per senso di responsabilità».

Nemmeno sull'ordine del giorno per chiedere al governo maggiori investimenti nella Difesa, fino a raggiungere il 2% del Pil: «Voteremo contro». È il primo passo di un ritorno alla radicalità grillina, senza alcuna volontà di far cadere il governo, «ne siamo un pilastro», ma utile in vista della campagna elettorale che si aprirà a breve per le Amministrative. Saranno il primo vero banco di prova della sua leadership.

E una serie di difficoltà sono già visibili all'orizzonte. L'ex premier vuole infatti cambiare il metodo di selezione delle candidature, abbandonando la tradizionale e miracolosa pratica dei clic online e aprendo alla società civile. Ma è proprio lì che si stanno incontrando le maggiori difficoltà di reclutamento: in pochi, finora, tra professionisti, rappresentanti di categoria, professori, hanno raccolto l'invito e dato fiducia al progetto del nuovo corso grillino.

«Mancano i candidati - viene detto senza troppi giri di parole dal partito -, il simbolo M5S è stato ammaccato dalle faide interne, dai problemi giudiziari, e in pochi adesso vogliono avere a che fare con noi». Difficile offrire rassicurazioni, d'altronde, se è ancora palpabile la paura di nuovi ricorsi in tribunale che possano invalidare anche questa rielezione di Conte. 

L'avvocato Lorenzo Borrè, che ha seguito i precedenti ricorsi degli attivisti ribelli, «probabilmente farà un altro ricorso», ammette a Radio1 Riccardo Ricciardi, uno dei cinque vicepresidenti M5S, «ma è stato seguito - assicura - un iter giuridico assolutamente rigoroso». La verità, però, è che per quanto rigoroso, il pericolo di una sentenza avversa non viene escluso da nessun parlamentare del Movimento. Figurarsi da Conte, per la seconda volta al suo primo giorno da leader.

Emanuele Buzzi per corriere.it il 29 marzo 2022.

Un exploit. Tra le pieghe delle votazioni sulla leadership del Movimento spunta un protagonista inatteso: è Danilo Toninelli. L’ex ministro è stato eletto nel collegio dei probiviri Cinque Stelle. Ma a stupire è il consenso che ha ricevuto. Toninelli ha ottenuto 44.427 preferenze, 11mila in meno di Giuseppe Conte. In sostanza 4 elettori su 5 che hanno confermato Conte hanno votato anche per Toninelli. L’ex ministro, però, a differenza del voto sul presidente, aveva altri cinque sfidanti. La ministra Fabiana Dadone, arrivata seconda, è stata quasi «doppiata»: ha preso 24.187 voti. La terza, Barbara Floridia, «solo» 14.227, praticamente meno di un terzo rispetto al senatore lombardo, di recente tornato alla ribalta per il suo Tg di controinformazione.

«Grazie di cuore a tutti coloro che hanno partecipato — ha scritto Toninelli sui social —. Il voto degli iscritti è il tratto che più di ogni altro ci caratterizza e anche stavolta ha dimostrato di che pasta è fatto il Movimento 5 Stelle. Grazie in particolare ai 44.427 che mi hanno dato fiducia come membro del collegio dei probiviri. È un incarico che porterò avanti con grande responsabilità, come ho sempre fatto». Il senatore lombardo è molto amato tra la base degli stellati. Non a caso, pochi minuti dopo aver pubblicato il post erano già centinaia i commenti di apprezzamento.

Cinquestelle, l’avvocato del popolo e l'affitto da 12 mila euro al mese. Bloccati i 4 milioni di euro versati sul fondo "tirendoconto". Sotto accusa il modo in cui sono stati gestiti i soldi versati dai parlamentari. CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud il 29 Marzo 2022.

L’elezione di Giuseppe Conte alla presidenza del M5S non basterà a calmare le acque. Anzi. Altri ricorsi si profilano all’orizzonte e non riguardano solo l’offensiva legale dell’avvocato Lorenzo Borrè. I 3 attivisti che avevano ispirato la sentenza del Tribunale di Napoli, e dunque provocato la sospensione dei vertici e delle modifiche dello statuto, hanno infatti trovato proseliti. E non si tratta più dell’illegittima esclusione degli iscritti che non avrebbero avuto i requisiti.

L’atto d’accusa ora riguarda il modo in cui sono stati gestiti i soldi versati dai parlamentari. Il taglio dei loro stipendi. In particolare sotto la lente dei più critici è finito l’affitto della mega sede di via Campo Marzio. Era stato il primo atto politico di Conte, il ritorno sulla scena, la transizione post governativa dell’ex premier che in pieno agosto indossava i panni di capo del M5S. Un segnale forte di quanto e di come sarebbe cambiata la creatura di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio sotto la sua guida. L’avvocato del popolo che si fa leader grillino.

Ed ecco la scelta: il Movimento che da virtuale che era per indole e vocazione esce dai pc e dalle chat e stabilisce un legame fisico con il territorio. Si sceglie una sede. Esattamente come un tempo erano Botteghe Oscure per il PCI o Piazza della Gesù per la Dc o in tempi più attuali Il Nazareno per il Pd.

Una sede prestigiosa per il partito di Conte, poco meno di 500 mq a due passi da Montecitorio. Il palazzo al civico 46 di via Campo Marzio che ospitò senza portargli troppa fortuna l’Api di Francesco Rutelli. Gli iscritti del web e i militanti, quelli che hanno provato in tutti i modi a sbarragli la strada, chiedono conto di tutti quei soldi che Conte ha speso per l’affitto della sede, circa 12 mila euro al mese.

Chi lo ha deciso? Attingendo ai fondi del M5S lo avrebbe fatto in modo illegittimo, senza alcun alcun titolo. E non nessun voto – come ha chiarito l’avvocato Borré – che possa in modo retroattivo legittimare quelle spese. Chi dovrà rispondere di queste spese? Uffici di cui ha potuto disporre solo lo staff dell’ex presidente del Consiglio, i suoi fedelissimi e i comitati. Una sala in grado di ospitare 50 persone. Il quartier generale grillino nel cuore pulsante della politica romana. E non solo.

La questione è stata posta anche ai due capigruppo Mariolina Castellone e Davide Crippa che avrebbero firmato il contratto di locazione. In ballo ci sono anche i 4 milioni di euro accantonati nell’ultima legislatura, il conto dedicato dove confluivano i versamenti dei parlamentari. Alcuni di questi, usciti successivamente dal Movimento, hanno richiesto la restituzione di quanto versato. E tutto si è bloccato.

In un primo tempo, lo ricordiamo, deputati e senatori si detraevano dallo stipendio 300 euro per finanziare la piattaforma Rousseau e altri 2000 per la campagna “Tirendoconto”. Poi si è passati al “regolamento Crimi” ; 1000 euro per le attività parlamentari e 1500 per le finalità liberali. A quale punto però a tagliarsi lo stipendio erano sempre meno. Non più di 40 su 229, e il M5S di lotta e di governo che ha cambiato pelle. 

Emanuele Buzzi per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.

Un passo avanti tra tentazioni, timori e incertezze. Il Movimento vara il sì allo statuto contiano. La seconda convocazione dell'assemblea degli iscritti era lo scoglio per l'ok alle nuove regole riviste e corrette dopo che l'ordinanza di Napoli ha sospeso i vertici M5S e in seguito ai rilievi della Commissione di garanzia per gli statuti. 

I votanti sono 38.735 (sì dal 91%) su 125.200 aventi diritto, il 31% circa. L'attenzione è ovviamente focalizzata sui numeri, dal momento che alla prima convocazione avevano partecipato poco più di 34 mila militanti.

Nell'agosto 2021 si erano espressi 60.940 votanti in totale (l'87, 36% a favore della svolta contiana). «Conte si aspettava un bagno di democrazia e ha ricevuto la doccia fredda da parte della realtà, avendo votato meno di un quinto degli iscritti», ha commentato sarcastico l'avvocato Lorenzo Borrè in merito alla prima convocazione.

Tra gli stellati c'è preoccupazione, c'è chi teme una disaffezione nei confronti del leader, chi invece nutre dubbi sul brand del partito. La situazione da limbo si riflette a tutti i livelli, al punto che lo stesso Conte - il cui ruolo come presidente sarà oggetto di una votazione la prossima settimana - è intenzionato a voler spazzare via ogni ambiguità sul suo percorso nel Movimento. 

L'ex premier ha fatto capire a chi gli è vicino che «non ha intenzione di accontentarsi di una maggioranza risicata» per il voto sulla presidenza. Conte cerca una conferma convinta, altrimenti «si dimetterà anche se eletto». Forse non a caso a supporto del leader ieri sono arrivate le parole di Roberto Fico. Il presidente della Camera nelle ultime settimane fa asse in modo sempre più netto con l'ex premier.

A Napoli ha detto: «Il Tribunale ha sancito che le delibere andavano sospese ma Conte otterrà un plebiscito dalla votazione degli iscritti». E poi ha aggiunto: «Reputo Conte un grande leader, ed invito tutti i nostri iscritti a partecipare al voto». La situazione è tutt' altro che stabilizzata, però. 

 Tra i parlamentari sono sempre continui, anche se sottotraccia, i rumors sulle candidature alle prossime Politiche. C'è chi vorrebbe sfoderare di nuovo il partito di Conte (che oggi sarà a Napoli alla manifestazione promossa da Eurocities con il sindaco Gaetano Manfredi, con il presidente della Camera e con Michele Gubitosa), con un logo nuovo e volti nuovi. Azzerare tutto e ripartire con un soggetto diverso dal Movimento. Diversi esponenti dell'ala contiana premono per questa soluzione.

L'idea sarebbe stata prospettata - secondo alcuni - nei primi giorni di questa settimana ai vertici. La possibilità sarebbe quella di un test, complice anche l'incertezza derivante dalle cause legali, alle Comunali a Palermo (c'è chi insiste anche in altre città). «Sarebbe il momento ideale per valutare il valore di una lista del presidente», sostiene uno stellato che spinge per questa opzione. 

I vertici negano questa ricostruzione. «Si tratta di un progetto sostenuto da alcuni territori», spiegano nel Movimento. E aggiungono: «Non c'è stata alcuna richiesta formale». Anzi, da ambienti vicini al leader viene fatto notare come il voto sullo statuto renda di fatto non più necessario l'uso di uno stratagemma simile alle prossime Comunali e Regionali. 

L'assunto è che «Conte prenda in considerazione il Movimento e solo Il Movimento». L'ipotesi di una lista Conte, d'altronde, ha fatto sobbalzare più di uno stellato. «Ma come? Non esiste al mondo un partito il cui leader si faccia una sua lista autonoma».

La parabola dell'avvocato del popolo. M5S nel caos, Conte perde la causa ma non il vizio: il nuovo voto già a rischio ricorso…Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

“Cavilli e carte bollate” non piacciono proprio a Giuseppe Conte, uno strano avvocato. In una faida senza fine tra statuti sovrapposti, organismi dirigenti decaduti e una sfilza di cause e di ricorsi degli uni contro gli altri, ieri Conte ha fatto rivotare per statuto e leadership. La sua, naturalmente. E proprio come avviene nei sistemi politici di riferimento per qualcuno dei Cinque Stelle, come la Russia di Putin o la Bielorussia di Lukashenko, il candidato leader è uno e uno solo. Giuseppe Conte. Che ricade nella coazione a ripetere e rinnova i suoi errori, uno sull’altro. Formali e sostanziali. Sfidando non solo la giustizia civile ma anche il buon senso e la pazienza. Tanto che solo in pochi tornano a votare.

Il 10 marzo il quorum non è stato raggiunto e si è ricorsi alla votazione di ieri, chiusa alle 22. Votano in pochi.

Davide Crippa, capogruppo M5s alla Camera, nega la disaffezione: «Siamo l’unica forza politica che coinvolge la propria base». Il coinvolgimento è generoso, in effetti: ieri la richiesta di votare è stata estesa urbi et orbi anche a chi non ne aveva diritto, tra cui i non più iscritti e perfino i dissidenti espulsi.

Ricapitoliamo la cronistoria: ai primi di febbraio era arrivata la sospensione dell’elezione del leader e di tutte le modifiche statutarie adottate con il voto dell’agosto 2021; poi, martedì 8 marzo è andato male anche il ricorso, respinto. Il giudice respinge anche l’istanza di revoca presentata dai legali di Conte. L’udienza di merito è fissata al 5 aprile. Intanto, malgrado la giustizia abbia decretato che il gruppo dirigente non è giuridicamente legittimato ad assumere decisioni, è stata decisa l’assemblea con la votazione che dovrebbe confermare l’elezione di Conte. Ma sulla nuova convocazione pende la spada di Damocle del rebus irrisolto: l’esclusione degli iscritti con meno di sei mesi di anzianità, esattamente come avvenuto nella assemblea messa sotto “processo” dal giudice. Conte, però, va dritto per la sua strada. «Non è possibile che l’azione politica del Movimento 5 Stelle, che ha la maggioranza relativa del Parlamento, sia rallentata e compromessa da cavilli e carte bollate». Evoca i pieni poteri nel partito e un salvacondotto rispetto alle regole, in forza dei voti presi nel 2018 quando a capo del Movimento era Di Maio.

Ribadisce colpo su colpo l’avvocato Lorenzo Borré: «Lo scenario è lo stesso dell’agosto 2021: al netto della questione relativa al mancato raggiungimento del quorum, il numero dei vizi è compensato dalle modalità di indizione delle nuove votazioni. Le questioni assorbenti sono di carattere sostanziale e riguardano l’assenza di democraticità di alcune modifiche proposte», risponde l’avvocato dei ricorrenti M5s. Insomma, si preannuncia un identico ricorso e una conseguente, nuova bocciatura della votazione. Solo questione di tempo, comunque utile alla dirigenza per provare a traguardare le elezioni amministrative di primavera, quando si andrà al voto in tutta Italia. Se Conte dovesse ancora risultare “sospeso” per difetto formale, sarebbe difficile fargli condurre le trattative per le liste, individuare i candidati – inclusi i sindaci. E c’è di più.

Il Riformista ha chiesto conto all’amministrazione dell’Università di Firenze dell’aspettativa del professor Conte. «In attesa di una pronuncia di merito, per l’Università di Firenze non ci sono gli elementi per ritenere che si siano prodotti gli effetti di sospensione dell’aspettativa non retribuita del docente», ci dicono gli uffici. La pronuncia di merito arriverà il 5 aprile, tra meno di venti giorni l’autoproclamato leader del Movimento potrebbe dunque trovarsi costretto a riprendere le sue lezioni nel capoluogo toscano. Intanto i tamburi di guerra richiamano la politica a un senso di responsabilità istituzionale – e di adesione alle istanze europee – che tra i grillini brillano per assenza. Il presidente della commissione esteri Vito Petrocelli (M5S) ha votato contro la risoluzione che impegna l’Italia insieme ai partner della Ue a fornire armi all’Ucraina che resiste all’aggressione di Putin.

Da più parti gli sono arrivate le richieste di dimissioni, avendo votato contro non solo alla maggioranza di governo ma anche al suo stesso gruppo. Giuseppe Conte lo ha rassicurato, chiedendogli di non dimettersi. Ieri nelle chat interne del M5S a Camera e Senato ricorreva lo stesso richiamo alla fedeltà con Putin: il Movimento aveva intrapreso la strada del partenariato con Russia Unita, il partito dello Zar. Se ne è dissociato per tempo, ma se il lupo perde il pelo, non perde il vizio: “Zelensky vuole la guerra mondiale e noi applaudiamo, insensata esposizione Italia”, il tam tam che dalle segrete stanze virtuali di Telegram arriva sul nostro telefono.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il terremoto nei 5 Stelle. Conte leader ‘congelato’ del Movimento 5 Stelle, il tribunale di Napoli rigetta il ricorso: “Sua elezione è illegittima”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

I vertici del Movimento 5 Stelle, e in particolare il suo leader Giuseppe Conte, restano congelati. Il tribunale di Napoli ha rigettato l’istanza avanzata dal Movimento per la revoca dell’ordinanza di sospensione dello Statuto e della nomina del presidente dei grillini.

La decisione è stata presa dal giudice Francesco Paolo Feo, che ha poi fissato al prossimo 5 aprile il prosieguo dell’udienza per per quello che concerne il merito.

“Per i giudici quindi è illegittima l’elezione di Giuseppe Conte alla presidenza del Movimento 5 Stelle”, è stato il commento di Lorenzo Borrè, legale dei tre iscritti al Movimento che presentarono il ricorso contro l’elezione di Conte e contro lo Statuto che lo portò all’elezione nell’agosto del 2021.

Le motivazioni

Rigettando l’istanza presentata dai pentastellati, il tribunale di Napoli ha rilevato che il regolamento del Movimento del novembre 2018, che avrebbe legittimato l’esclusione dal voto degli iscritti da meno di sei mesi, “è atto promanante dalla stessa Associazione che lo ha prodotto in giudizio, trattandosi di atto ad essa interno, regolante un aspetto fondamentale della sua organizzazione e del suo funzionamento ed emanato dagli stessi organi apicali dell’Associazione e quindi da intendersi per ciò stesso conosciuto, o comunque sicuramente conoscibile, fin dalla sua adozione”.

I legali di Conte e del Movimento avevano invece chiesto la revoca della sospensione sottolineando che qual documento “non sarebbe stato prodotto prima in giudizio perché, di esso, l’Associazione sarebbe venuta a conoscenza solo dopo la pronuncia dell’ordinanza di sospensione”, spiega il giudice nel provvedimento odierno, sottolineando tuttavia che “l’istanza di revoca non può trovare luogo” se “fondata su ragioni di fatto e di diritto preesistenti alla pronuncia cautelare, a meno che di esse non venga allegata e dimostrata l’avvenuta conoscenza e conoscibilità solo in un momento successivo”.

Nella pronuncia del tribunale c’è spazio anche per il ‘caso Crimi’, l’ex capo politico M5S ad interim nell’interregno tra Luigi Di Maio e Conte, che aveva ammesso di non avere avuto memoria del regolamento del 2018, non avendone informato Conte per dimenticanza.

L’AdnKronos scrive infatti che il giudice Francesco Paolo Feo, nel rigettare il ricorso, rimarca come il regolamento 2018 non potesse essere ignorato dai vertici, richiamando, in un passaggio, come “peraltro la funzione di presidente del Comitato di Garanzia al momento della convocazione dell’assemblea per l’adozione delle delibere impugnate era rivestita dalla stessa persona che la rivestiva al momento della assunzione del regolamento”, ovvero Crimi.

L’ ufficiale giudiziario notifica il nuovo ricorso a Conte, che non lo ritirava all’ ufficio postale, contro il voto di marzo sullo Statuto M5S. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Aprile 2022.  

L'avvocato Borrè che assiste gli attivisti-contestatori di Conte, chiaramente non si è arreso ed è riuscito a far consegnare il ricorso lo stesso, con una notifica questa volta a mezzo ufficiale giudiziario. Ed al secondo tentativo la notifica è andata a buon fine. Adesso può ripartire la guerra legale nel Movimento: con tanto di richiesta di sospensione cautelare di tutte le nomine.

Attorno all’ultimo ricorso dei dissidenti napoletani del M5S contro la leadership di Giuseppe Conte ed il nuovo statuto è venuta alla luce un piccolo giallo: l’atto di citazione presentato da 8 militanti grillini non è stato ritirato e quindi è ritornato al mittente. Sul sito di Poste Italiane inserendo il numero della pratica si leggeva “La spedizione non è stata ritirata dal destinatario“, cioè Giuseppe Conte, e quindi “sarà restituita al mittente”. Evidentemente nessuno a “casa Conte” (che a dire il vero è casa della compagna Olivia Paladino) all’indirizzo in pieno centro storico di Roma in cui risiede, ha aperto la porta al postino o di proposito o perché assente per altri impegni, oppure qualcosa è andato storto quando ha suonato il postino.

“Abbiamo depositato ufficialmente un nuovo ricorso presso il Tribunale di Napoli assistiti dal nostro legale Lorenzo Borrè, costretti dal perdurare della conduzione illegittima del M5S da parte di un manipolo di persone autoproclamatosi ‘dirigenza‘”. Steven Hutchinson e gli altri attivisti grillini lo avevano preannunciato e puntualmente lo hanno fatto. “A chi derubrica le regole a cavilli abbiamo contestato 18 violazioni di carattere sostanziale, perché la democrazia è questione di sostanza” affermano i ricorrenti rappresentati sempre dall’avvocato Borrè, che hanno presentato infatti un nuovo ricorso per chiedere l’annullamento delle nuove votazioni sullo Statuto M5S.

E spiegano le loro ragioni : “Il Movimento al quale siamo iscritti non doveva essere questo e i risultati del nuovo corso condotto in modo oligarchico e vestito da partito sono sotto gli occhi di tutti, e restituiscono la cifra del danno che ha cagionato la nuova ‘dirigenza’ in violazione delle regole interne. Dunque siamo costretti a ricorrere ancora una volta alla giustizia, per difendere quei valori e quei principi nei quali, insieme a Gianroberto Casaleggio, abbiamo creduto e continuiamo a credere in questi anni e nei quali hanno creduto milioni di altri cittadini come noi“.

L’avvocato Borrè che assiste gli attivisti-contestatori di Conte, chiaramente non si è arreso ed è riuscito a far consegnare il ricorso lo stesso, con una notifica questa volta a mezzo ufficiale giudiziario. Ed al secondo tentativo la notifica è andata a buon fine. Adesso può ripartire la guerra legale nel Movimento: con tanto di richiesta di sospensione cautelare di tutte le nomine.

I dissidenti si sono rivolti anche questa volta al Tribunale di Napoli, che già lo scorso febbraio aveva “congelato” tutti i vertici dei 5 Stelle, questa volta hanno contestato oltre al nuovo statuto, rivotato il 10 marzo, e la nomina di Conte a presidente, il 28 marzo, anche tutte le altre nomine della nomenclatura stellata appena riempite: i 5 vicepresidenti, con Paola Taverna vicaria, il “fido” Mario Turco il comitato di Garanzia (di cui fanno parte Roberto Fico, Virginia Raggi e Laura Bottici) e il neo-collegio dei probiviri, composto da Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia.

Nel mirino degli attivisti contestatori c’è la circostanza che i militanti abbiano potuto esprimersi durante la tornata di “clic” soltanto su delle liste chiuse. Nel caso di Conte, persino, su un candidato unico, da approvare o cassare. Senza la possibilità per qualunque iscritto di ambire a un posto di vertice.

Non sono cavilli, afferma l’avvocato Borrè: “È un principio fondamentale, visto che si tratta di una questione attinente al principio di uguaglianza dei soci“. È stata contesta anche la convocazione dell’assise, firmata da “Paola Taverna nella sua qualità“. Per Borrè, la Taverna in realtà è un soggetto che non avrebbero avuto alcun titolo per farlo, “in quanto non rivestiva alcuna delle cariche previste dalla versione dello statuto vigente al momento della convocazione”. I tempi: su questa nuova istanza il foro di Napoli dovrebbe pronunciarsi entro l’estate, anche se potrebbe decidere prima sull’istanza cautelare. Mentre l’udienza sul precedente ricorso è stata fissata per il prossimo 17 maggio.

E’ finito il M5S dove “uno vale uno” così come è finita ai posteri l’ardua promessa di Giuseppe Conte che arrivato miracolosamente a Palazzo Chigi ambiva e prometteva di voler essere “l’avvocato degli Italiani”. In realtà lo è stato e continua ad esserlo solo di se stesso e della sua sfilza di “cortigiani” ma anche della famiglia della sua nuova compagna miracolata da decreti ad personam che hanno fatto risparmiare non pochi soldi ed una condanna al suo suocero acquisito Cesare Paladino.

Ma l’ avvocato Conte non aveva fatto i conti con la Corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma aveva revocato la sentenza di patteggiamento della condanna a 1 anno e 2 mesi di reclusione per peculato, emessa nei confronti di Cesare Paladino – amministratore della società che gestisce il Grand Hotel Plaza di Roma e padre della compagna dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte – in relazione all’omesso versamento delle tasse di soggiorno riscosse. Conte con il suo decreto aveva salvato il suocero, e la condanna penale venne annullata grazie a una “leggina” dell’ex premier.

La notizia del proscioglimento del suocero di Giuseppe Conte a seguito di una norma varata dal governo dello stesso Conte aveva provocato, negli scorsi mesi, diverse polemiche. Il giudice aveva accolto l’istanza, in sede di incidente di esecuzione, presentata dalla difesa di Paladino dopo l’approvazione del “decreto Rilancio“, in cui è contenuta una norma – da alcuni definita «pro-albergatori» che prevede una sanzione solo in via amministrativa per tali condotte. Secondo la Procura di Roma, invece, la norma in questione non poteva essere applicata in modo retroattivo. 

«A mio avviso è una decisione che va rispettata e che segna continuità con l’orientamento già espresso in precedenza dalla Suprema Corte», commenta l’avvocato Stefano Bortone, difensore di Paladino. Secondo il legale, però, «restano molte perplessità sul piano giuridico e appare pertanto più una decisione dettata da motivi organizzativi che dall’intento di rispettare appieno i principi di diritto». Ma la recente decisione della Suprema corte, «inguaia» il suocero dell’ex premier e, probabilmente, mette una pietra anche su quelle polemiche.

Lo ha deciso la 1a sezione penale della Cassazione in una camera di consiglio svoltasi lo scorso 16 aprile, che accogliendo il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del giudice, risalente al 30 novembre scorso, che aveva revocato la sentenza di patteggiamento emessa nel luglio 2019 ritenendo che il fatto non fosse «previsto dalla legge come reato». Redazione CdG 1947

M5s, un nuovo ricorso di Borrè contro tutte le nomine di Conte. Il Domani il 29 aprile 2022

L’avvocato considerato la bestia nera del Movimento torna a mettere in difficoltà Giuseppe Conte con un nuovo ricorso contro le votazioni del 10 e 11 marzo e del 27 e 28 marzo scorsi, che hanno rispettivamente confermato il precedente statuto e la leadership di Giuseppe Conte

Otto attivisti hanno presentato un nuovo ricorso nei confronti del Movimento 5 stelle. Rappresentati dall’avvocato Lorenzo Borrè, ormai noto difensore delle ragioni di espulsi e critici del nuovo corso dei Cinque stelle, hanno impugnato di fronte al tribunale di Napoli la votazione dell’assemblea degli iscritti del 10 e 11 marzo e del 27 e 28 marzo scorsi, che hanno rispettivamente confermato il precedente statuto e la leadership di Giuseppe Conte.

Borrè è già coinvolto in un caso simile, dopo che ha presentato, per conto di tre attivisti, un ricorso nei confronti della votazione sullo statuto del Movimento presentato nell’estate 2021, illegittimo per una serie di vizi di forma, tra cui l’esclusione di una parte degli iscritti dal diritto di voto: in attesa di decidere sul merito, il tribunale di Napoli aveva congelato la legittimità dei vertici del M5s.

Una decisione che aveva messo in grave difficoltà soprattutto il presidente Giuseppe Conte, la cui elezione non era più riconosciuta. I Cinque stelle avevano provato ad appellarsi, ma il tribunale aveva confermato la propria decisione.

LA SECONDA VOTAZIONE

A quel punto, per rimettere in regola le cose, il Movimento aveva convocato una nuova assemblea degli iscritti per replicare la votazione sul nuovo statuto e sulla leadership di Conte. 

Entrambi i voti di conferma hanno avuto esito positivo, ma il nuovo voto secondo Borrè è invalidato da una serie di altri vizi di forma, non del tutto sovrapponibili a quelli citati nel primo ricorso.

Nello specifico, il problema riguarda la convocazione dell’assemblea: a essere legittimati all’atto sarebbero stati soltanto il garante Beppe Grillo e il capo del comitato di garanzia, all’epoca il dimissionario Luigi Di Maio.  

A marzo, però, le votazioni su SkyVote erano state organizzate da Conte, Vito Crimi e Paola Taverna «ciascuno nella propria qualità». Ma, secondo i ricorrenti e Borrè, nessuno dei tre avrebbe avuto i poteri per convocare l’assemblea. 

Inoltre, dal voto erano stati nuovamente esclusi gli iscritti da meno di sei mesi: questa regola era stata all’origine del primo ricorso e il collegio del tribunale di Napoli nella sua ordinanza aveva spiegato che per escludere i nuovi membri sarebbe stato necessario un regolamento ulteriore.

Conte, interpellato a proposito, ha commentato la vicenda. «Loro si divertono così. Ci sono alcuni attivisti che danno il loro contributo al Movimento facendo ricorsi in tribunale. Noi invece ci impegniamo a far politica: ognuno ha il suo hobby». Lo ha detto rispondendo a Casal di Principe a Casa Don Diana, ai cronisti che gli chiedevano del ricorso presentato da attivisti napoletani in cui è stato richiesto l'annullamento delle votazioni di marzo. «C'è una controversia giudiziaria che va avanti per conto suo, io sono concentrato a far politica e impegnarci con uomini e donne che sono devoti al bene collettivo».

I PROSSIMI PASSI

Il nuovo ricorso mette a rischio anche tutte le altre nomine delle altre cariche statutarie in quanto la candidabilità è stata ristretta ai soli iscritti eletti o ex eletti nelle istituzioni.

Intanto, il 17 maggio arriverà una nuova decisione del tribunale di Napoli a proposito della competenza sulla prima impugnazione: non si tratta di un giudizio nel merito, che potrà essere elaborato soltanto una volta che l’organo riconoscerà di essere competente sul caso.  

Il nuovo ricorso si inserisce in una situazione già complicata per il Movimento, in cui il leader cerca di crearsi un profilo autonomo dal resto dal partner di coalizione Pd spingendo per una linea pacifista nell’ambito della consegna di nuove armi all’esercito ucraino. Contemporaneamente, deve risolvere il caso del presidente della commissione Esteri di palazzo Madama Vito Petrocelli, che continua a non volersi dimettere dal proprio incarico. Anche la scelta di contrattualizzare Grillo per 300mila euro l’anno a carico dei gruppi parlamentari non sembra ancora aver dato i propri frutti. 

Giuseppi l'arcitaliano. Trasformismo e potere, Conte impeccabile rappresentante del “carattere nazionale”.

Michele Magno su Il Rifromista il 24 Febbraio 2022. 

In un’intervista di qualche tempo fa al talk show Di martedì (La7), Giuseppe Conte ha detto che «la mia politica è curare le parole, la profondità del pensiero e non affidarsi agli ismi». Inoltre, ha annunciato la prossima pubblicazione dei suoi discorsi pubblici, per dimostrare che nei due governi che ha guidato è rimasto sempre lo stesso, non ha mai cambiato registro. Le parole dell’ex avvocato del popolo, già punto di riferimento fortissimo delle forze progressiste, dimostrano che egli è un impeccabile rappresentante del nostro “carattere nazionale”.

Coniata dai moralisti francesi del Seicento, la locuzione fa ingresso nella nostra letteratura con il Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani di Giacomo Leopardi (1824). Ma prima che il grande poeta prendesse la penna per dirci in prosa, brutalmente, come siamo fatti, la descrizione del carattere dell’italiano aveva occupato l’ingegno di molti artisti europei e tenuto desto lo spirito di osservazione di una fitta schiera di viaggiatori che, in particolare nel secolo dei Lumi, giungevano nella nostra penisola col proposito di completare la propria formazione classica grazie alla formidabile esperienza del Grand Tour. Tuttavia, partiti con programmi culturali ambiziosi, spesso tornavano in patria con taccuini pieni di massime antropologiche non proprio benevole con il Bel Paese, come quella di Pierre-Jean Grosley: “L’Italie est le pays où le mot ‘furbo’ est éloge” (1764).

Giulio Bollati, nel saggio L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (Einaudi, 2011), scrive che nelle intenzioni degli esponenti della sinistra storica, a partire dal suo inventore Agostino Depretis, «Il trasformismo era nato come equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno, dal vecchio al nuovo. Ma si era rapidamente trasformato nell’opposto: immobilismo, consociazione di diversi solo apparenti, in realtà tenuti uniti dalla chiusura verso la società. Da qui indifferenza agli schieramenti, interessi particolari di singoli capibastone scambiati con l’interesse generale, governi fragili e in mano a drappelli di deputati pronti a vendersi al miglior offerente, affarismo.

Per questa via il trasformismo assume definitivamente il significato peggiorativo che ha: distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale». Era ieri, ma sembra oggi. Michele Magno

Misteri post Colle: cosa non torna sul caso Conte-Belloni. Sulla candidatura del capo per la sicurezza e sul racconto della stessa fornita dai protagonisti qualcosa non quadra. Troppe incongruenze…Antonio De Filippi su Nicola Porro.it il 14 Febbraio 2022

È una vicenda umana piuttosto interessante quella del prof. Giuseppe Conte, fu presidente del Consiglio che, non contento dei successi raccolti a sua insaputa, adesso si è incaponito a raccogliere insuccessi consapevoli. Ho aspettato a scrivere, ho sperato di ascoltare qualche parola di buon senso, ho atteso qualche commento libero dalla retorica. Vana e inutile speranza.

Manie di protagonismo

Alle dichiarazioni arzigogolate seguono accadimenti misteriosi, le lunghe interviste articolano ragionamento complessi del tipo: l’acqua è bagnata. Promuove una donna Presidente e eleggono un uomo, con grande fatica fa approvare un nuovo statuto e il tribunale lo annulla, vuole essere il campione degli onesti e la finanza gli sequestra le carte in ufficio. Certo con decine di microfoni pronti a carpire qualche distillato di intelligenza politica, militari che salutano, commessi che aprono porte, autisti con i lampeggianti, si può perdere la testa ed il senso della realtà, ma oggi Conte è l’emblema del politico che credendosi protagonista in realtà è un triste comprimario.

Qualunque altro essere umano comincerebbe a dubitare di se stesso, non lui, che evidentemente inconsapevole dei propri limiti, tende a considerare il caso e la fortuna sempre al suo fianco, fino a diventare presidente di un movimento al quale neanche è iscritto.  Ma questo è l’uomo, con i suoi evidenti limiti, altra cosa è il politico con le sue colpe.

I danni dell’Avvocato del popolo

Grazie a lui abbiamo: il reddito di cittadinanza, con la complicità della Lega, quota 100 sempre con la Lega, la riduzione del numero dei parlamentari grazie al geniale contributo del Pd e di Italia Viva, lo stop all’estrazione del gas grazie al Pd e Leu, la riforma Bonafede, la truffa del 110%, e così via. Il tutto mentre, tentato dal sovranismo, in Europa riusciva solo ad isolarsi; convintamente Trumpiano firmava la via della seta con la Cina inimicandosi gli Usa e su oltre 31 milioni di donne in Italia l’unica che è riuscito a proporre per la Presidenza della Repubblica è il capo dei servizi segreti.

Qualcosa non torna

Per inciso su questa vicenda un amico, politico di lunghissimo corso, nel raccontare i retroscena dell’elezione presidenziale, mi ha aperto gli occhi su alcune incongruenze. A quanto pare Elisabetta Belloni, dopo la miracolosa ripulitura di Di Maio per dargli una parvenza da ministro degli Esteri, si è guadagnata la riconoscenza dei grillini che la hanno proposta, a sua insaputa, alla Presidenza. Ma quanto è credibile, e se fosse vero preoccupante, che i grillini la abbiano fatta in barba al capo degli 007? Insomma la donna, chiamata da Draghi a sostituire l’uomo di Conte, si è fatta infilare, a sua insaputa, da Conte in un feroce tritacarne mediatico culminato con una foto insieme a… Di Maio. È già difficile credere che una ambasciatrice di lungo corso, a capo dei servizi, si esponga ad una brutale trombatura, ma è ancora più difficile credere che l’abbia fatto affidando al solo Conte la trattativa per la sua elezione. Insomma qualcosa non torna.

Mediocre ma amato

Ma Conte è l’unico uomo politico che senza farne una giusta, riesca ancora a godere di sondaggi che lo vedono come affidabile, con Carlo Calenda che gli riconosce merito e credibilità, e il Pd che ancora discute se sia un punto di riferimento. Per questo credo che sia il momento di una riflessione sulla mediocrità in politica. Selezionato dal “condom elevato” come perfetto Medioman (indimenticabile personaggio di Fabio De Luigi a Mai dire Gol) Conte cercando la mediocritas latina è finito nella mediocrità italiana. Eppure malgrado tutto questo, il nostro ex presidente del Consiglio ancora conta oltre un milione di follower su Twitter e tre milioni su Facebook. Milioni di italiani che si riconoscono nella mediocrità Contiana, felici di leggere post e tweet inutili accompagnati da foto enfatiche; milioni di elettori da fotoromanzo ai quali propinare storie usa e vota.

Ma quanto è simile a quella Contiana la comunicazione di alcuni altri partiti? Perché mentre il Parlamento applaude la reprimenda di Mattarella e i giornali esaltano la sobrietà di Draghi, i sondaggi ancora assegnano ai campioni di mediocrità, la maggioranza degli elettori?

Le ultime settimane hanno mostrato che il nostro sistema istituzionale è bloccato dalla mediocrità dei tanti e dalla pavidità dei pochi competenti che, sdegnosamente, “escludono” di lavorare in politica per creare un soggetto liberale e moderato. Lo capisco è più semplice essere l’uomo del destino che dover rendere conto ad un partito e a un Parlamento, ma fino a quando questo atteggiamento sarà considerato giusto e lodato dai media, fino a quando i capaci non avranno il coraggio di mettersi in gioco o sostenere i pochi già presenti, di sicuro saranno i mediocri a dare le carte e continueranno, malgrado tutto, a risultare maggioritari. Antonio De Filippi, 14 febbraio 2022

Quelle "porte girevoli" di Conte tra politica e università. Francesco Boezi l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La sospensione formale della leadership di Giuseppe Conte può riaprire le porte dell'Università. La questione sarà dibattuta in Consiglio di Dipartimento il prossimo 22 febbraio. Se per gli studenti l'ex premier deve tornare ad insegnare, c'è chi parla di "porte girevoli".

Giuseppe Conte, dopo essere andato per ben due volte in aspettativa per via degli incarichi (prima la presidenza del Consiglio dei ministri e poi la leadership del MoVimento 5 Stelle), rischia ora di dover tornare in cattedra.

I vertici pentastellati, dopo la sospensione delle delibere disposta dal Tribunale di Napoli, risultano azzerati. L'ex "avvocato del popolo", sotto il profilo formale, non è più un capo-politico. Per quanto Conte possa sostenere la necessità di attendere la sentenza (i tempi sembrano tutto fuorché brevi), a Firenze ci si inizia a domandare se l'ex premier gialloverde e giallorosso abbia intenzione o no di tornare in Università.

La questione verrà posta in occasione del prossimo Consiglio di Dipartimento che è previsto per il febbraio. Gli studenti di Azione Universitaria - organizzazione di Fratelli d'Italia - domanderanno all'Ateneo di prendere atto della novità sopraggiunta e chiederanno lumi in merito alle decisioni che dovranno essere adottare.

Sul tavolo, in relazione alla possibile ricomparsa in cattedra, ci sono almeno due questioni: la continuità didattica e le cosiddette "porte girevoli", che possono interessare la magistratura ma che possono essere estese, almeno a livello concettuale, pure ad altre professioni. Del resto, in seguito alla caduta del governo giallorosso ed al ritorno in pompa magna di Conte con tanto di Lectio magistralis, era stato l'ex rettore Luigi Dei a chiarire come Conte dovesse giocoforza scegliere: "O leader del MoVimento 5 Stelle o docente universitario. Delle due, l'una". Il tutto sulla basse della legge n.382 del 1980.

L'onorevole Erica Mazzetti, esponente di Forza Italia, dichiara a Il Giornale.it che la "sinistra" è "adusa alle porte girevoli": "Nella magistratura, nella scuola.... . Tocca sempre al contribuente sostentare politici di centrosinistra senza lavoro. Conte riapra il suo studio - aggiunge la deputata - come facciamo tutti noi professionisti".

Non si risparmia l'europarlamentare leghista Susanna Ceccardi che, sul caso, sottolinea come "insegnamento e politica" richiedano "molta passione e impegno". "Conte - incalza la Ceccardi - non può continuamente rimbalzare dall'una all'altra. Se poi dovesse lasciare la politica per la docenza, beh, questa non sarebbe una cattiva notizia".

I ragazzi di Au, interpellati in merito alla loro imminente battaglia in Consiglio, rimarcano come Conte, dal loro punto di vista, debba fare ritorno: "Gli studenti meritano rispetto, meritano docenti che abbiano a cuore la loro formazione. Siamo stanche dei saltelli sulla cattedra di Conte. L'Università italiana non ha "porte girevoli" e non è un parcheggio". "Ha fatto il "professorino" per mesi dicendo agli italiani cosa potevano fare e cosa no, mettendo gli studenti in DAD, con danni enormi per il nostro sistema dell'Istruzione. Ora vada subito ad insegnare, altrimenti se ne vada dall'Università, nessuno sentirà la sua mancanza", chiosano Nicola D'Ambrosio, presidente di Au, Dalila Ansalone, che è la vice nazionale, e Matteo Zoppini che è il vertice di Au Firenze.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

L'attrazione dei grillini per le carte bollate. Conte, l’azzeccagarbugli colpito dai garbugli…Roberto Cota su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.

I Cinque Stelle hanno sempre avuto una passione smodata per le carte bollate ed in generale per i tribunali. Secondo la linea più ortodossa, in ambito penale, basta l’esistenza di un’indagine per fermare tutto, l’indagato si deve dimettere. Non sempre tutto però va secondo i piani: le inchieste hanno cominciato a riguardare anche loro esponenti (la ex Sindaca di Torino Appendino, ad esempio, ha riportato in primo grado due condanne). Inoltre, una icona del giustizialismo come Piercamillo Davigo si trova sotto processo e nubi minacciose si avvicinano al fondatore del movimento Beppe Grillo.

L’ attrazione per le carte bollate ha influito anche nella scelta del leader . Giuseppe Conte era sconosciuto ai più, ma era “professore e avvocato”. Tanto che subito si è autodefinito “l’ avvocato del popolo”. Anche su questo, qualche contraddizione è emersa. Ciò in quanto Conte come avvocato non aveva certo clienti del popolo, ma staccava parcelle per consulenze da centinaia di migliaia di euro al colpo. Il professor Conte potrebbe dire che, in fondo, lui non è l’ultimo arrivato e per questo gruppi importanti lo cercano e (lautamente) lo pagano. Può essere, però, non potrà evitare di attirarsi l’invidia di molti suoi colleghi forse più “ avvocati del popolo” che non hanno la capacità di essere così ben retribuiti per un’attività consulenziale. Invidia, appunto, perché Conte avrà certamente speso molto impegno e molte ore di lavoro.

Tutto questo, per dire che le carte bollate non sempre si sono rivelate utili alla politica dei Cinque Stelle. Dell’altro giorno, la notizia che il Tribunale di Napoli ha sospeso la delibera con cui lo scorso agosto il movimento aveva indetto l’elezione di Giuseppe Conte. Il contrappasso è compiuto, Il capo è stato disarcionato proprio dalle carte bollate. I detrattori potrebbero dire che l’azzeccagarbugli si è incartato in un garbuglio. Agli amanti del genere, al di là delle posizioni politiche, va detto che è assurdo che la politica venga decisa nei tribunali. Questo vale sia in sede penale che civile o amministrativa. La leadership di Conte ( esistente o meno) è un fatto politico, non è questione da risolvere in un’aula di giustizia. Roberto Cota

Il garantismo a dondolo. Perquisizione a casa di Conte, la Rai censura la notizia. Marco Zonetti su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

La notizia della visita della Guardia di Finanza a casa del leader M5s Giuseppe Conte, disvelata con peculiare tempismo dal quotidiano Domani alla fine della settimana di calvario per la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, sta già lentamente svanendo dalla stampa, soffocata dai commenti sulle canzoni e dalle polemiche formato famiglia del Festival di Sanremo.

Del resto non possiamo certo asserire che la perquisizione nella dimora romana dell’ex Presidente del Consiglio Conte – che, ribadiamo, non è indagato – abbia tenuto banco sui notiziari del servizio pubblico. I quali già nel caso del Tg1 e del Tg3 qualche mese fa non si occuparono minimamente dell’inchiesta che coinvolge l’ex socio del leader M5s, ovvero l’avvocato Luca Di Donna. Una Rai garantista con Conte, dunque – come la definisce il Segretario della Vigilanza Michele Anzaldi – che tuttavia sottolinea a Radio Radicale come, invece, tale trattamento non sia stato riservato tempo fa al caso dell’ex fondazione renziana Open, quando vari cittadini incensurati e nemmeno indagati furono sbattuti in apertura di tutti i notiziari Rai, nonché nei talk show del servizio pubblico; messi alla gogna da titoli, servizi, approfondimenti politici e giudiziari con le perquisizioni spettacolo rigorosamente effettuate all’alba, complete di sequestri di telefonini e tablet. Modalità d’indagine poi stigmatizzate e giudicate illegittime dalla Corte di Cassazione, ma la cui sentenza non ebbe altrettanto risalto nei notiziari Rai.

Emblematico del garantismo a fasi alterne è anche il recente caso di Luca Morisi, ex social media manager di Matteo Salvini, utile mostro da sbattere in prima pagina e da sottoporre a preventivi processi mediatici, anche nei talk e nei notiziari Rai, ancor prima di chiarire esattamente le dinamiche della vicenda che lo coinvolgeva. Vicenda per la quale la Procura ha poi chiesto l’archiviazione. Che dire poi della recente puntata di Report dedicata a Silvio Berlusconi – appena uscito dall’ospedale – stigmatizzata anche dal critico del Corriere della Sera Aldo Grasso, non certo un seguace sfegatato del Cavaliere? Tornando invece al trattamento speciale per Conte da parte della Rai, non possiamo non ricordare come ai tempi del Governo giallo-rosso e per molto tempo dopo l’arrivo di Mario Draghi Palazzo Chigi, il Tg1 diretto da Giuseppe Carboni in quota M5s sia stato una sorta di megafono del leader pentastellato.

Esaltato giornalmente da reiterate sequenze del notiziario in stile Minculpop, per dirla con il Segretario della Vigilanza Anzaldi, girate ad hoc a Palazzo Chigi e che secondo la professoressa Sara Bentivegna, docente di Teoria delle Comunicazioni di Massa, Media Research e Comunicazione Politica alla Sapienza di Roma, «nell’accettarle e nel trasmetterle pedissequamente, la Tv pubblica mina(va) sostanzialmente la ragion d’essere del giornalismo. Che è quella di “cane da guardia” del Governo, di sorveglianza costante sull’operato delle istituzioni, e non di ricettacolo delle veline governative». Nel garantismo un tanto al chilo da parte della Tv di Stato scompare parallelamente la notizia della mobilitazione e del successo della raccolta di firme a favore dell’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato Giancarlo Pittelli, costretto allo sciopero della fame dopo due anni di carcere preventivo in seguito all’arresto richiesto dalla Procura di Catanzaro per accuse sgretolatesi via via.

Ci risulta che nessun notiziario Rai abbia dato la notizia dell’iniziativa popolare promossa dal Riformista, e che nessun talk show del Servizio Pubblico abbia dedicato un po’ di spazio alla vicenda personale dell’ex membro della Commissione Giustizia nel Governo Berlusconi II. Tra l’ennesima riflessione sull’esito della corsa per il Colle dopo estenuanti maratone quotidiane dagli ascolti perlopiù esangui, e un siparietto con opinionisti improvvisati – pagati dal canone – che discettavano delle gag di Fiorello a Sanremo, non si è trovato neanche un minuto da destinare alla riflessione sul caso Pittelli.

Dov’è la Tv pubblica? Il fatto che la sede dei servizi politici delle sue tre testate principali si trovi nientemeno che a Via di Fontanella Borghese a pochi passi dalla casa di Conte, e che tuttavia nessuno si sia accorto dell’arrivo della Guardia di Finanza e della perquisizione tanto da darne anche solo notizia en passant, è una inquietante conferma dell’immortale massima del Piccolo Principe, secondo cui l’essenziale è invisibile agli occhi. A quelli della Rai, senz’altro. Marco Zonetti

ESCLUSIVO. Conte e i suoi affari da avvocato, la Finanza a casa del capo dei 5 Stelle. EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 02 febbraio 2022. 

Qualche settimana fa, in gran segreto, la Guardia di Finanza su ordine della procura di Roma ha bussato a casa di Giuseppe Conte.

I militari hanno chiesto all’ex presidente del Consiglio l’acquisizione di fatture e documenti delle consulenze (circa 3-400mila euro, non tutti pagati) che l’ex premier ha svolto per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia.

Il nuovo fascicolo d’indagine è a modello 44 (ad oggi, dunque, senza indagati) ed è planato da poco sulla scrivania della magistrata romana Maria Sabina Calabretta. La pm ha ereditato la pratica dai colleghi di Perugia che indagano da mesi sulle dichiarazioni dell’imprenditore Piero Amara. 

EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN. Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Emiliano Fittipaldi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 2 febbraio 2022.

Qualche settimana fa, in gran segreto, la Guardia di Finanza su ordine della procura di Roma ha bussato a casa di Giuseppe Conte. E ha chiesto all’ex presidente del Consiglio l’acquisizione di fatture e documenti delle consulenze d’oro (circa 3-400mila euro, non tutti pagati) che lui ha svolto per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia. 

I militari hanno rintracciato il capo del movimento Cinque Stelle nell’appartamento-studio di via della Fontanella Borghese dove vive con la compagna Olivia Paladino, e poi sono andati dal mentore di Conte, l’avvocato Guido Alpa, che da Caltagirone ha ottenuto incarichi da quasi mezzo milione per lavorare alla ristrutturazione del debito del gruppo. La Guardia di Finanza – risulta a Domani da fonti interne degli studi legali – ha infine svolto acquisizioni simili anche dagli avvocati Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, che hanno lavorato insieme ad Alpa e Conte al concordato preventivo di Acqua Marcia.

L’INDAGINE

Il nuovo fascicolo d’indagine è a modello 44 (ad oggi, dunque, senza indagati) ed è planato da poco sulla scrivania della magistrata romana Maria Sabina Calabretta. La pm ha ereditato la pratica dai colleghi di Perugia che indagano da mesi sulle dichiarazioni dell’imprenditore Piero Amara.

Come scoprì Domani ad aprile dello scorso anno, infatti, l’uomo al centro della scandalo della presunta Loggia Ungheria e oggi in carcere per aver corrotto giudici in giro per l’Italia nel dicembre del 2019 aveva detto ai magistrati milanesi di aver “raccomandato” alcuni avvocati a Fabrizio Centofanti, al tempo potente capo delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia. Secondo Amara le nomine erano condizione fondamentale «per riuscire a ottenere l’omologazione del concordato stesso» dai giudici del Tribunale di Roma. Conte (come gli altri interessati) negò subito raccomandazioni di sorta ipotizzando denunce per calunnia.

L’inchiesta da Milano era stata trasferita per competenza alla procura umbra proprio perché le dichiarazioni lasciavano intendere che qualche giudice della Capitale avesse commesso illeciti. Adesso è arrivata a Piazzale Clodio perché nessun magistrato romano è stato identificato dagli uomini di Raffaele Cantone, che però non hanno voluto archiviare la pratica. Calabretta – che investiga su Acqua Marcia anche in merito a un altro filone in cui si ipotizza una bancarotta fraudolenta da centinaia di milioni di euro – dovrà ora verificare se c'è qualcosa di penalmente rilevante oppure se le consulenze dei quattro avvocati si sono svolte correttamente, come sostengono i legali.

SOLDI E FATTURE

A Domani risulta che Alpa abbia fatturato alle società di Bellavista Caltagirone una cifra vicina ai 400 mila euro, ma di queste ne sarebbero state incassate effettivamente poco più di centomila. Meglio è andato a Caratozzolo: gli incarichi ottenuti superano il milione, di cui circa 500mila già pagati. Ivone, avvocato cassazionista che ha avviato uno studio con Fabrizio Di Marzio (condirettore insieme a Conte della rivista giuridica Giustiziacivile.com) ha ricevuto contratti per oltre due milioni di euro, di cui 1,2 milioni di euro già saldati.

Secondo altre fonti vicine all’inchiesta Conte avrebbe ottenuto tra il 2012 e il 2013 conferimenti d’incarico per un valore totale di circa 400mila euro. L’ex premier senza specificare la cifra precisa disse a Domani che comunque i suoi guadagni «erano stati incassati solo in parte». Una lettera firmata da Centofanti e dal figlio di Bellavista Caltagirone, Camillo, evidenziava certamente che Conte, per fare una «ricognizione dei rapporti giuridici» di una società controllata (la Acquamare, nel cui cda siedeva lo stesso Amara) avrebbe ottenuto «un compenso pari a 150 mila euro, oltre accessori di legge come iva e cpa».

MOLINO STUCKY VENEZIA

Non sappiamo se i finanzieri abbiano chiesto al numero uno dei grillini anche le fatture relative a un altro business dell’avvocato del popolo. Parliamo delle consulenze ricevute dal gruppo pugliese di Leonardo Marseglia. Un imprenditore che nel 2015 riesce a comprarsi a un prezzo stracciato uno degli alberghi di maggior pregio del gruppo Caltagirone: il Gran Hotel Molino Stucky di Venezia. 

L’acquisto è stato fatto attraverso una complicata operazione finanziaria, che Marseglia ha realizzato grazie all'aiuto decisivo di due consulenti. Il solito Conte, che aveva lavorato poco tempo prima per la controparte e conosceva bene i documenti del concordato, e l’architetto pugliese Arcangelo Taddeo, che era stato voluto da Marseglia nonostante fosse stato da poco condannato in primo grado a 17 anni di carcere per bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere, pena poi confermata (ma ridotta a sette anni) in Cassazione.

Come mai Conte, capo politico di un movimento che ha fatto della guerra ai conflitti di interesse un mantra, ha accettato di lavorare all’acquisizione del Molino Stucky nonostante avesse lavorato già per Caltagirone? E perché ha chiuso un occhio sul fatto che avrebbe lavorato braccio a braccio con un tecnico comunale condannato da poco a 17 anni di galera? «Non vedo nessun conflitto di interessi per quel che mi riguarda: trattasi infatti di epoche diverse, l’incarico per Marseglia risale a due anni dopo», aveva detto Conte a Domani, per poi aggiungere: «Taddeo? Secondo voi dovevo per principio evitare l’operazione Molino Stucky perché c’era un condannato per bancarotta?».

L’ex amico di Conte e i soldi dai bulgari (indagati per una truffa sulle criptovalute). EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 03 febbraio 2022.

L’avvocato Luca Di Donna ha ottenuto parcelle che sfiorano i 700mila euro da misteriose aziende bulgare, collegate a una mega truffa di monete virtuali da quattro miliardi di dollari.

Secondo i documenti dell’antiriciclaggio la società fa capo a Ruzha Ignatov, la “regina delle criptovalute” a processo negli Stati Uniti. La donna è scomparsa da anni. L’avvocato un tempo vicinissimo dell’ex premier: «Solo delle parcelle per il collegio difensivo mio e di Alpa»

Di Donna è indagato a Roma per un’altra vicenda: è accusato di traffico di influenze dal pool di magistrati anticorruzione di Roma per gli affari che ha chiuso durante l’emergenza sanitaria, intermediando partite di mascherine e chiedendo – secondo l’accusa - una percentuale ad alcuni imprenditori

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 3 febbraio 2022.

Società italiane segnalate dagli investigatori finanziari dell’antiriciclaggio. Parcelle che sfiorano i 700mila euro da misteriose aziende bulgare, collegate a una mega truffa di monete virtuali da 4 miliardi di dollari. Quasi un milione da società commissariate dallo Stato come Condotte e Inso di Firenze. Aziende a Dublino che si occupano di compravendite immobiliari e srl con il lobbista Giampiero Zurlo, fondatore di Utopia. 

A leggere le nuove carte degli investigatori antiriciclaggio della Uif della Banca d’Italia è evidente che Luca Di Donna, amico di Giuseppe Conte ed ex socio dello studio di Guido Alpa, è un avvocato intraprendente. Non solo perché in pochi anni è riuscito a moltiplicare i suoi guadagni, quasi in contemporanea all’ascesa politica del suo amico. Ma perché, scopre oggi Domani, dai suoi conti correnti passano centinaia di migliaia di euro che arrivano anche dall’estero, e che sono finiti nel mirino di una serie di segnalazioni sospette.

I documenti rivelano business inediti del legale, finito qualche tempo fa sulle prime pagine perché accusato di traffico di influenze dal pool di magistrati anticorruzione di Roma. I pm hanno messo sotto la lente d’ingrandimento gli affari che di Di Donna ha chiuso durante l’emergenza sanitaria, intermediando partite di mascherine e chiedendo – secondo l’accusa - una percentuale ad alcuni imprenditori interessati al business. 

Imprenditori che hanno accusato Di Donna di vantare entrature con Conte in persona e nella struttura commissariale di Domenico Arcuri, deputata alla gestione operativa del contrasto alla pandemia scatenata dal Covid-19. L’avvocato ha sempre negato di aver “trafficato” il nome dell’ex premier, e dal suo entourage spiegano ancora a Domani che gli accusatori si sono inventati circostanze false e bugie «che verranno presto dimostrate davanti agli inquirenti».

Al di là della vicenda giudiziaria di cui bisogna ancora valutare contorni e responsabilità, i documenti dell’autorità antiriciclaggio arrivate in procura a Roma evidenziano molte nuove movimentazioni. Flussi di denaro dai quali emergerebbero diverse anomalie, sostengono i detective. A partire dalle relazioni con aziende estere, in particolare quelle in Bulgaria. 

Andiamo con ordine, partendo dall’anno 2018. Il 16 luglio il governo Conte Uno, con Lega e Cinquestelle alleati, si è insediato da appena un mese. Lo stesso giorno Di Donna beneficiava di un bonifico proveniente da Sofia: 321 mila euro versati dalla B&N Consult Eood. Non è stato l’unico pagamento: quattro mesi più tardi, a fine novembre, ecco arrivare sul conto del legale una nuova dazione di quasi 365mila euro. «Causale “final payment on success fee», si legge nel report. Tradotto: «Pagamento finale per obiettivo raggiunto». Di quale obiettivo si tratti non è specificato. In pratica nell’arco di cento giorni l’amico del presidente del consiglio «ha quindi complessivamente ricevuto dalla B&N Consult 685.786 euro, presumibilmente a titolo di pagamento di prestazioni», scrivono gli investigatori finanziari.

Ma a chi fa capo questa società bulgara specializzata in consulenze e e intermediazioni commerciali che paga parcelle sostanziose all’ex amico («non ho più frequentazioni con lui», ha detto Conte) del capo dei 5 Stelle? Nei documenti risultano diverse modifiche nell’assetto azionario della B&N: fino a giugno 2017 era controllata da una seconda società, di proprietà di una tale Irina Dilkinska; successivamente è subentrato un uomo nato nel 1982 che di cognome fa Boychev. Impossibile risalire a un suo identikit. L’antiriciclaggio segnala soltanto che ha alcuni precedenti di polizia per frode.

Ma in realtà, secondo scambi informativi tra investigatori italiani e esteri, la B&N «sarebbe riconducibile a Ruzha Ignatov». Un nome sconosciuto in Italia, ma celebre in Bulgaria, Gran Bretagna e Usa. Perché porta dritto dritto dentro la più grande frode mai realizzata con le monete virtuali. Una truffa dalla bellezza di 4 miliardi di dollari attuata seguendo il celebre schema “Ponzi”, che premia i primi investitori di un progetto con grandi guadagni in brevissimo tempo, a tutto discapito dei nuovi che accorrono una volta saputo del promettente business. A quel punto i profitti svaniranno, e resteranno solo le perdite milionarie che trasformano gli investitori minori in truffati.

Il mega raggiro era stato organizzato proprio dalla Ignatova, attraverso un’altra sua società, la OneCoin. La donna è stata ribattezzata in un podcast della BBC “The missing Cryptoqueen”, l’introvabile regina delle criptovalute: dal 2017, anno della prima inchiesta negli Stati Uniti contro di lei, è infatti scomparsa dalla circolazione. Dove sia finita nessuno lo sa. L’enigma ha alimentato leggende e sospetti: qualcuno crede che sia nascosta in qualche atollo con il malloppo miliardario, altri temono che i clan della mafia russa abbiano regolato i conti con una socia ingombrante. Solo supposizioni.

Sotto processo oggi a New York c’è comunque finito suo fratello Konstantin Ignatov, che ha preso in mano OneCoin dopo la scomparsa di Ruja. Ignatov è stato arrestato il 6 marzo 2019 all’aeroporto di Los Angeles, accusato di cospirazione per frode telematica tramite «uno schema piramidale internazionale che prevedeva la commercializzazione di una criptovaluta fraudolenta chiamata “OneCoin”», si legge negli atti della causa “Ignatov contro Stati Uniti d’America”. Alla sorella, fondatrice e mente di OneCoin, si contestano anche il riciclaggio di denaro. La sentenza è attesa per maggio 2022. 

Gli atti del processo di New York consultati da Domani rivelano che la misteriosa B&N Consult che ha pagato consulenze a Di Donna è proprio tra le società sospettate di essere crocevia dei soldi della truffa architettata dalla “Cryptoqueen”. Agli atti del processo è allegato anche un contratto tra la B&N e una delle holding che fanno capo a uno degli imputati, Mark Scott, sodale degli Ignatov.

In un passaggio del documento dell’accusa si legge che Scott tramite una decina di conti intestati ad aziende ha riversato quasi 400 milioni (tra dollari e euro) in un fondo alle Cayman, le isole note per essere il paradiso degli evasori e dei riciclatori di denaro. Tra queste imprese, si legge nello stesso documento, c’è anche la bulgara B&N Consult. 

Non solo: secondo l’antiriciclaggio la B&N Consult, «che come visto è riconducibile alla sig.ra Ignatova, ha girato fondi a soggetti compiacenti che a loro volta li hanno impiegati a favore di un importante studio legale che avrebbe dovuto percepire la somma di 1,06 milioni di dollari per lo svolgimento di attività di difesa legale di Konstantin Ignatov, a seguito del suo arresto e della causa contro gli Stati Uniti». Konstantin è stato arrestato nel 2019. Dunque B&N, quando ha pagato di Donna alla fine del 2018, era ancora in rapporto con la famiglia della “Cryptoqueen”.

In Italia OneCoin era stata sanzionata dall’Autorità garante del mercato con sanzioni per oltre 2 milioni di euro. Era il 2017, due anni più tardi interverrà anche la Guardia di finanza con sequestri a raffica. Secondo persone vicine a Di Donna contattate da Domani, si tratta di normali parcelle professionali che la “OneCoin” avrebbe pagato a Di Donna. 

«L’avvocato non sapeva nulla della vicenda della presunta truffa miliardaria degli Ignatov. Ha ricevuto, insieme a Guido Alpa e allo studio legale di Federico Tedeschini, dalla società bulgara l’incarico di difenderla nella causa di fronte all’Antitrust e in altri procedimenti giudiziari in Italia».

Dallo studio Di Donna evidenziano pure che il compenso è così alto «perché poi sarebbe stato diviso tra tutto il collegio difensivo». In pratica i soldi ricevuti dalla B&V, che sembra dunque davvero un braccio operativo della OneCoin, sono finiti anche ad Alpa, Tedeschini, collaboratori vari e traduttori. Perché i bulgari si sono rivolti proprio a Di Donna? 

«Non solo a lui, ma ad altri due grandi studi legali. Una proposta arrivata prima che Conte diventasse premier. È importante sottolineare che se l’antiriciclaggio deve fare il suo lavoro» concludono dallo studio Di Donna «la caccia alle streghe contro chi, sbagliando, viene definito dai giornali un “fedelissimo” di Conte rischia di fare a pezzi due principi sacrosanti. Quello del diritto di tutti alla difesa. E quello degli avvocati di non essere confusi con le vicende giudiziarie dei loro clienti. Sennò siamo alla barbarie». 

Una "tempistica" sospetta. Francesco Maria Del Vigo il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La Guardia di finanza a casa di un ex presidente del Consiglio è sempre una notizia destinata a fare scalpore

La Guardia di finanza a casa di un ex presidente del Consiglio è sempre una notizia destinata a fare scalpore. Nelle scorse settimane - racconta il quotidiano Domani - le Fiamme gialle si sono recate nell'abitazione di Giuseppe Conte per acquisire le fatture relative a consulenze per un valore di circa 400mila euro per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia. Fin qui i fatti. Fatti che nel Movimento - come capita sempre quando qualcuno di loro viene sfiorato dall'autorità giudiziaria -, vengono analizzati con grande lucidità e ritrovato garantismo. Cioè l'atteggiamento opposto rispetto a quello che riservano ai loro avversari politici quando versano nelle medesime condizioni. Ma questo è un altro discorso... È ormai ampiamente dimostrato che la trasparenza, nella logica grillina, è una richiesta unidirezionale: riguarda gli altri e mai sé stessi. Garantisti con gli amici, giustizialisti con i nemici.

Infatti alcune fonti pentastellate, tramite le agenzie stampa, si sono affrettate a precisare che il loro leader «è persona informata dei fatti e non è indagato». Nulla di stupefacente, Giuseppe Conte, al di là della narrazione grillina dell'uomo venuto dalla provincia per salvare le sorti della Nazione, non è mai stato l'avvocato degli italiani ma un avvocato di affari. Quello che stupisce, semmai, è la tempistica. Le Fiamme gialle hanno fatto visita a Conte alcune settimane fa, ma la notizia esce solo oggi. A pochi giorni dalla convulsa elezione del presidente della Repubblica, dopo che il Movimento cinque stelle, sui nomi di Draghi prima e della Belloni poi, ha consumato la rottura della liaison con il Partito democratico. Che dalle parti del Nazareno ci sia grande insofferenza (eufemismo) nei confronti di Giuseppe Conte è un segreto di Pulcinella. I Cinque stelle sono un movimento allo sbando e il loro leader, fuori dal Parlamento e logorato dalla fronda interna, non riesce più a tenere a bada i parlamentari recalcitranti e terrorizzati dalla fine del loro mandato.

Così si fa largo un sospetto. Toccare il Partito democratico, lo raccontano le vicende giudiziarie degli ultimi anni, è spesso un ottimo modo per trovare il proprio nome in qualche inchiesta. Magari, come in questo caso, anche solo come persona informata sui fatti. La sinistra e una certa parte della magistratura solo legate da una filatura nervosa molto sensibile e reattiva, che spesso scatta come un riflesso condizionato.

D'altronde l'idillio tra pentastellati e toghe è ormai solo un ricordo del passato, si è incrinato da tempo e l'esplosione del caso Grillo-Onorato, pochi giorni prima che partisse la corsa per il Quirinale, ne è solo l'ultimo esempio in ordine temporale. Ora tocca a Conte.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 3 febbraio 2022. 

Il 28 novembre 2021 alcuni militari della Guardia di finanza hanno contattato l'ex premier Giuseppe Conte e almeno altri tre professionisti su delega della Procura di Roma per chiedere la consegna di fatture e documenti legati alle consulenze svolte per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia. L'attività di acquisizione di atti (per cui la Procura non ha firmato alcun decreto) è stata realizzata dalla polizia giudiziaria in un clima di grande collaborazione e i professionisti coinvolti hanno fornito quanto richiesto.

Il fatto che la notizia esca solo ora, a due mesi e mezzo dai fatti, non deve stupire. Infatti dentro il Movimento 5 stelle si sono scatenate lotte intestine, combattute a colpi di dossier. A spaccare definitivamente il giocattolo inventato da Beppe Grillo è stata l'inchiesta sulle consulenze d'oro, pagate alla Casaleggio associati e a Beppe Grillo dalla Moby dell'armatore Vincenzo Onorato (indagato insieme con l'ex comico). Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le mosse scomposte e la spaccatura tra Conte e Luigi Di Maio nelle votazioni per il Quirinale.

A questo va aggiunto che l'ex collega di studio di Giuseppi, Luca Di Donna, è ancora sotto indagine perché avrebbe usato il rapporto di amicizia con l'ex premier per fare affari. In questo modo avrebbe incassato lauti guadagni, ma anche un'iscrizione sul registro degli indagati per traffico di influenze illecite come rivelato a settembre da Panorama. «Guardia di finanza a casa Conte? Sono state scritte un sacco di fesserie».

Nei corridoi della Procura la notizia pubblicata da due quotidiani di visite nella dimora dell'ex premier da parte delle Fiamme gialle sono state accolte con un certo fastidio. La realtà, come già rivelato da Panorama, è che sono in corso indagini che riguardano alcuni avvocati romani dell'inner circle del professor Guido Alpa per consulenze datate e meno datate. 

A settembre il settimanale del gruppo diretto da Maurizio Belpietro aveva scritto: «Il procedimento è ancora nella fase iniziale, ma potrebbe segnare la fine dell'età dell'innocenza del Movimento 5 stelle, molto di più delle vicende tipicamente romane di Luca Lanzalone e Raffaele Marra».

A dare il via alle investigazioni sarebbero state le dichiarazioni del faccendiere Piero Amara sugli incarichi affidati attraverso un altro lobbista molto chiacchierato, Fabrizio Centofanti, all'allora avvocato Giuseppe Conte. []. Come detto, sono in corso gli accertamenti preliminari o per lo meno questo è il poco che trapela dalla Procura. Dove ammettono che il fascicolo esista, ma che il problema è capire il modello». 

Che è rimasto il 44, ovvero senza indagati, ma con un'ipotesi di reato: la bancarotta per dissipazione. La pm è Maria Sabina Calabretta, la quale, da tempo, indaga su un presunto crac da centinaia di milioni di euro del gruppo Acqua Marcia. Adesso dovrà verificare se le consulenze pagate agli avvocati coinvolti non abbiano aggravato il dissesto della società.

I fatti risalgono al 2012 e Amara ne ha parlato in questi termini: «Vietti (Michele, ex vicepresidente del Csm, ndr), in funzione di sue esigenze a me non note, mi chiese di far guadagnare denaro ad avvocati o professionisti a lui vicini e avvenne in quel periodo anche con l'avvocato Conte, oggi presidente del Consiglio, a cui facemmo conferire un incarico dalla società Acqua marcia Spa di Roma, incarico che fu conferito a lui e al professor Alpa, grazie al mio intervento su Fabrizio Centofanti (lobbista sotto inchiesta insieme con Luca Palamara, ndr), che all'epoca era responsabile delle relazioni istituzionali di Acqua marcia.

L'importo che fu corrisposto da Acqua marcia ad Alpa e a Conte era di 400.000 euro a Conte e di 1 milione di euro ad Alpa. Questo l'ho saputo da Centofanti che si arrabbiò molto perché il lavoro era sostanzialmente inutile, trattandosi della rivisitazione del contenzioso della società, attività che fu svolta da due ragazze in poche ore, e l'importo corrisposto fu particolarmente elevato». 

Se vero che ormai Amara è considerato urbi et orbi «totalmente inattendibile», è altrettanto vero che i pagamenti sono stati effettuati e che quindi è giusto fare tutti i controlli necessari. La Guardia di finanza ha acquisito documenti anche presso gli avvocati Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, che hanno lavorato insieme ad Alpa (anche lui contattato dai militari) e Conte al concordato preventivo di Acqua marcia. Nei mesi scorsi la Procura di Milano, che aveva raccolto le dichiarazioni di Amara ha trasmesso a Roma il fascicolo.

I pm della Capitale, però, hanno subito girato gli atti a Perugia ipotizzando che nella vicenda potesse essere stato coinvolto qualche magistrato in vista del concordato preventivo dell'azienda. La Procura umbra, dopo aver fatto i dovuti accertamenti ed essersi probabilmente sentita tirata per la giacchetta, ha escluso la complicità di qualche toga e, dopo aver iscritto il reato di bancarotta per dissipazione, ha rigirato il delicato dossier a piazzale Clodio, in considerazione del fatto che, in astratto, le ricche consulenze pagate dall'Acqua marcia potrebbero aver aggravato lo stato di dissesto della società.

Come dichiarato da Amara, Conte avrebbe ottenuto, tra il 2012 e il 2013, conferimenti d'incarico per un valore totale di circa 400.000 euro. «Però non tutti incassati» aveva specificato nell'aprile scorso l'ex premier. In una lettera firmata da Centofanti e dal figlio di Bellavista Caltagirone, Camillo, come rivelato dal Domani, è evidenziato che il capo politico dei 5 stelle, per fare una «ricognizione dei rapporti giuridici» di una società controllata (la Acquamare, nel cui cda sedeva lo stesso Amara) avrebbe ottenuto «un compenso pari a 150.000 euro, oltre accessori di legge come Iva e Cassa previdenziale avvocati». 

In queste ore, tali vecchie vicende, destinate con ogni probabilità all'archiviazione («formalmente nelle consulenze sembra tutto a posto» ci ha confidato un inquirente), vengono utilizzate per il regolamento di conti finale tra i grillini. Un brutto epilogo per un movimento che aveva fatto del tema della giustizia il proprio cavallo di battaglia.

Ma il leader 5Stelle non è indagato. Finanza a casa di Giuseppe Conte, nel mirino le consulenze da 400mila euro dell’ex premier: l’indagine dopo le rivelazioni di Amara. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Una notizia coperta dal “gran segreto” per due settimane, fino alla prima pagina odierna del quotidiano Il Domani. La Guardia di Finanza ha bussato alla porta dell’abitazione romana di Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 Stelle, su ordine della Procura capitolina.

I militari delle Fiamme gialle, scrivono Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, avrebbero chiesto all’ex presidente del Consiglio fatture e documenti relativi alle consulenze da un valore di 3-400mila euro che Conte ha svolto in passato per l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone, all’epoca in cui era proprietario del gruppo Acqua Marcia.

La Procura di Roma, in particolare il pm Maria Sabina Calabretta, ha infatti ‘ereditato’ dai colleghi di Perugia una parte delle indagini che da mesi tentano di capire cosa ci sia di vero nelle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara, la ‘gola profonda’ della presunta Loggia Ungheria.

Il fascicolo di indagine, a modello 44 e dunque senza indagati, vuole fare chiarezza sugli incarichi del biennio 2012-13 affidati da Francesco Bellavista Caltagirone a Conte.

L’ex premier, assieme al suo ‘mentore’ Guido Alpa, si è sempre detto estraneo a ogni addebito formulato da Piero Amara, che già nel dicembre 2019 aveva parlato delle consulenze. In particolare l’ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione in atti giudiziari e da mesi protagonista del caso dei verbali in cui parla di una presunta loggia chiamata Ungheria, aveva raccontato ai magistrati di aver “raccomandato” alcuni avvocati a Fabrizio Centofanti, al tempo potente capo delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia.

In particolare queste nomine erano la ‘conditio sine qua non’ per “ottenere l’omologazione del concordato stesso” davanti al tribunale di Roma, scrive Domani riportando le parole di Amara. Una tesi, quella delle raccomandazioni, che Conte e gli altri interessati hanno sempre smentito.

Il quotidiano diretto da Stefano Feltri riporta inoltre che la Finanza dopo aver fatto visita all’appartamento di Conte di via della Fontanella Borghese, dove vive con la compagna Olivia Paladino, si sono recati anche dal ‘mentore’ dell’ex premier Guido Alpa, da Caltagirone ha ottenuto incarichi da quasi mezzo milione per lavorare alla ristrutturazione del debito del gruppo Acqua Marcia. Altre acquisizioni di documenti, scrive ancora Il Domani, sono avvenute a casa Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, altri togati che hanno lavorato con Alpa e Conte.

Secondo quanto riportato dal quotidiano, Alpa avrebbe fatturato al gruppo di Caltagirone 400mila euro, ma l’avvocato ne avrebbe poi effettivamente incassato soli 100mila. Lo steso Conte aveva confermato nei mesi scorsi al giornale che i soldi guadagnati dalle sue consulenze “erano stati incassati solo in parte”.

Una lettera firmata da Centofanti e dal figlio di Bellavista Caltagirone, Camillo, evidenziava che Conte, per effettuare una “ricognizione dei rapporti giuridici” di una società controllata (la Acquamare, nel cui cda siedeva lo stesso Amara) avrebbe ottenuto “un compenso pari a 150mila euro, oltre accessori di legge come iva e cpa2”.

Va chiarito ovviamente che né Conte né Alpa sono indagati, così come Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone. L’ex premier in una intervista al Fatto Quotidiano del maggio scorso aveva ribadito di “non avere nulla a che fare con i loschi traffici del signor Amara, non l’ho mai conosciuto”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il Movimento a pezzi. Ombre e misteri di Giuseppe Conte: i rapporti dell’avvocato del popolo coi servizi segreti. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

Se ripercorriamo a ritroso il film del Quirinale, alcuni punti dell’intricata trama appaiono più scorrevoli, più lisci. Perfino scivolosi. Quando lo scorso dieci gennaio Conte diceva “ci vuole una donna sul Colle”, aveva già in mente il nome di Elisabetta Belloni? Stava già lavorando alla candidatura più avventurosa della storia repubblicana?

Tutto concorre a lasciarlo immaginare: in primis, la decisione del neodirettore del Dis nel giubilare Marco Mancini, dopo il caso dell’Autogrill – complice Report – in chiave anti-Renzi.

Con la sua nomina alla testa del Dis – in uscita dalla Farnesina, diventata terra di conquista grillina – aveva avvicendato quel generale Gennaro Vecchione che proprio Conte aveva prorogato per un secondo mandato di ulteriori due anni. Sembra quasi che la casella dei servizi segreti, autentica passione di Giuseppe Conte, gli sia rimasta in testa tanto da provare a farne il trampolino di lancio per una nuova spericolata operazione: mettere al vertice dello Stato la donna a cui Vecchione (del quale è notoria l’amicizia e la frequentazione personale con l’ex premier) aveva appena passato i dossier più scottanti. Tutti ricordano con quanta passione Conte abbia seguito da vicino le vicende Dis, arrivando a pretendere di arrogarsi i poteri di intelligence, in quanto primo ministro.

L’ipotesi che abbia iniziato a lavorare alla candidatura Belloni per il Colle è suffragata da una serie di coincidenze che, incrociate tra loro, restituiscono una combinazione singolarmente rispondente. Si rivedano anche i tweet con cui Di Maio parla della Belloni. “Elisabetta è mia sorella, alla Farnesina abbiamo lavorato insieme benissimo, occhio a non bruciarla”, aveva twittato Di Maio, per mettere nero su bianco i rapporti anche suoi, e magari anche stretti, con la dirigente del Dis che Conte stava utilizzando pro domo sua, rischiando appunto di bruciarla. Se riavvolgiamo ulteriormente il nastro, il 2 dicembre scorso un disegno di legge a firma dei senatori dem Zanda, Parrini e Bressa, propone di modificare gli articoli 85 e 88 della Costituzione per impedire il bis del presidente della Repubblica e abrogare anche il semestre bianco.

Un segnale preventivo, voluto da qualcuno per scoraggiare proprio il bis di Mattarella? L’iniziativa parlamentare è suonata singolare allo stesso leader del Pd Letta – per quell’intempestività che si traduce in inopportunità – che l’ha voluta far naufragare, con la cortese richiesta alla stampa di non parlarne più, “incidente chiuso” ancora prima di essere aperto. Passano quaranta giorni. Giuseppe Conte dice ai giornali di avere in mente una donna per il Quirinale. Domanda dei giornalisti: il nome? Risponde: i nomi si fanno a tempo debito. E così sarà. Per due volte, il martedì 25 e di nuovo il giovedì 27, ecco il nome di Elisabetta Belloni scodellato sul piatto. Lei non fa trapelare alcuna reazione, né la prima né la seconda volta. Quella in cui il Belloni- gate è ormai scoppiato. Matteo Renzi è una furia: “In nessun Paese occidentale il capo dei servizi segreti diventa Capo dello Stato”.

Anche tra i Dem il dibattito sul caso Belloni è serrato. Il deputato Enrico Borghi, membro del Copasir, ha annunciato una proposta di legge per chiudere le porte girevoli tra i servizi segreti e i palazzi istituzionali. Sulla stessa linea Italia Viva. La legge 124 del 2007 non pone alcuna incompatibilità con altre cariche per chi lascia i servizi, limitandosi a specificare che il personale di Dis, Aisi ed Aise «è tenuto, anche dopo la cessazione di tale attività, al rispetto del segreto su tutto ciò di cui sia venuto a conoscenza nell’esercizio o a causa delle proprie funzioni». È successo così in passato che direttori delle agenzie siano andati a ricoprire il ruolo politico di sottosegretario con delega all’Intelligence (Gianni De Gennaro per il premier Mario Monti e, ora, Franco Gabrielli per Mario Draghi); in entrambi i casi si tratta di Governi con un presidente “tecnico”. Altri ex direttori dei servizi si sono ricollocati in Fincantieri (Giampiero Massolo), Telecom Sparkle (Alessandro Pansa), Leonardo (Luciano Carta).

Mai si era adombrata la possibilità che uno 007 potesse diventare capo dello Stato. Così, tornando alla lunga nottata del niet, a quello dei centristi si è aggiunto quello di mezzo Pd, capitanato da Base Riformista – Marcucci, Romano, Borghi tra i contrarissimi – e arriva anche Leu, con il ministro Speranza, a dire che no, quella cosa lì loro proprio non la possono sostenere. In Egitto sì, si può fare. In Italia no. Il Riformista ha però messo le mani su una chat interna al gruppo Pd in cui un parlamentare lombardo incita a gran voce i suoi a votare Elisabetta Belloni, nel segreto dell’urna. «Sarà la prima volta di una donna al Quirinale», incoraggia i compagni. «I leader si sono parlati. La soluzione è che dobbiamo votare Elisabetta Belloni», illustra didascalico il deputato lombardo.

Di chat in chat, di telefonata in telefonata, il tam tam è diventato sempre più forte. Quando è arrivata alle orecchie di Grillo, si giustifica oggi il garante del Movimento, la candidatura di Elisabetta Belloni sembrava cosa fatta. Tanto che Grillo si espone con un tweet che rimarrà negli annali delle epic fail: “Benvenuta, Signora Italia. #ElisabettaBelloni”. Mentre Grillo twittava, informato evidentemente da Conte delle trattative in fase avanzata con Enrico Letta e Matteo Salvini, la Belloni finiva già in archivio. Proprio come accadde venti giorni prima, mentre Conte diceva “Belloni”, i parlamentari M5S dicevano “Mattarella Bis”. Chi ha costruito l’operazione Belloni è lo stesso che ha ingannato Beppe Grillo? Ne è convinto il senatore Presutto, pentastellato vicino a Di Maio: «Il tweet di Grillo su Belloni di venerdì sera? Una persona molto autorevole ha chiamato Grillo dicendogli che avevamo chiuso l’accordo e di fatto Grillo, che non era a Montecitorio, è stato ingannato. Mi dispiace perché ho un legame di affetto personale nei confronti del fondatore del Movimento 5 Stelle, ma è stato tratto in inganno».

Il disegno di Conte provoca uno scossone nel Movimento. Luigi Di Maio ha varcato il Rubicone: dopo il suo “ci sono stati errori di leadership” di domenica, ieri ha ulteriormente rintuzzato Conte: “Non provi a trovare diversivi”. “Scissione? Non si esclude niente”. Tra i fedelissimi del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è circolata l’ipotesi, eccome. La rottura tra l’ex leader del M5s e il nuovo presidente è fortissima, clamorosa. E mentre ci si chiede da che parte sta Grillo, e dove starà Casaleggio (Il Fatto si è già schierato con Conte) è partita una conta degli uni e degli altri, anche pubblica: si veda Twitter di ieri e l’appello dei dimaiani sarà fatto. In ordine alfabetico, sono passati sotto le insegne del ministro: Bacca, Battelli, Buompane, Castelli, Cosimo, Del Grosso, Di Sarno, Di Stefano, Faro, Fraccaro, Generoso, Iovino, Licatini, Manzo, Nesci, Presutto, Puglia, Sibilia.

Una ventina di nomi, tra cui anche figure di governo rilevanti, ma ancora una pattuglia di “happy few” troppo piccola rispetto al corpaccione pentastellato, per poter parlare di scissione. Sorprende però come – a proposito di cyberattacchi da spystory 2.0 – l’hashtag #DiMaioOut sia rapidamente asceso in rete, imponendosi nel dibattito pubblico in forza di uno strano movimento carsico. Solo 289 i profili di utenti che hanno scritto contro Di Maio, chiedendone la fuoriuscita dal M5s, ma con una forza centrifuga attribuibile solo all’utilizzo di particolari software di tweet bombing. Ne è convinto lo studioso Pietro Raffa: «I primi dieci account per numero di tweet sono fake, e generalmente sostengono le posizioni di Di Battista e di Conte», avverte. I due, in effetti, sono tornati sotto braccio l’uno con l’altro. Si vede che il clima sudamericano piace a entrambi.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Fosca Bincher per iltempo.it il 21 gennaio 2022.

Se sul posto di lavoro i guai non mancano, non è che il ritorno a casa faccia gioire il povero Giuseppe Conte, che certo ha una vita complicata dove il sereno non si riesce proprio a scorgere né dall'una né dall'altra parte. I compagni di lavoro danno l'idea di giornate in mezzo a un nido di vipere, e certamente rincasare dalla bella compagna di vita Olivia Paladino un sospiro di sollievo lo fa pure tirare. Ma anche lì i problemi non devono mancare, a leggere l'ultimo documento contabile sfornato dal piccolo impero di famiglia. Si tratta del bilancio 2020 dell'Unione esercizi alberghi di lusso, la società di gestione dell'Hotel Plaza guidata dal “suocero” di Conte, Cesare Paladino.

Un documento depositato con grande ritardo, ma anche perché l'approvazione è avvenuta solo nell'assemblea in seconda convocazione che si è tenuta alla vigilia del Natale scorso, il 14 dicembre. Che segnala una perdita operativa di 8,5 milioni di euro che non può essere coperta con risorse di anni precedenti (perché non ce ne sono a sufficienza) ma resta lì sospesa fino a cinque anni senza portare libri in tribunale come sarebbe stato normale in altri tempi ma come proprio grazie a un decreto Covid a firma Conte oggi può essere evitato.

Ed è proprio grazie solo ai vari decreti Conte (ristori, liquidità e altri ancora) che oggi il Plaza della famiglia Paladino ha potuto non gettare la spugna e non è saltato gambe all'aria. Chiariamolo subito: non si tratta di norme ad personam, perché la ciambella di salvataggio del Plaza era disponibile per tutti gli altri alberghi e per le varie attività economiche più colpite dal crollo del business dovuto alla pandemia.

Ma la febbre è ancora altissima e come spiega lo stesso Paladino nelle note e relazioni di bilancio, il 2021 non è stato diverso dal primo anno di pandemia, e quella che era una gallina dalle uova d'oro della famiglia è diventato un problema grosso davvero. L'unico modo per limitare i danni è stato fare pagare lo stipendio di tutti i dipendenti (fra cui la stessa figlia Olivia) alla cassa integrazione guadagni e tenere rigorosamente chiuso l'albergo, nonostante qualche turista almeno nella stagione estiva sia pure arrivato a Roma. Ma tenendo chiuso si sono limitati i danni, “evitando ulteriori costi di gestione non compensati da ricavi caratteristici” e poi si è tamponata la situazione finanziaria attingendo a ristori e maquillage contabili distribuiti o consentiti dai decreti Covid del governo precedente, quello giallorosso guidato appunto da Conte. Se ne trova traccia alla voce “altri ricavi”, dove vengono indicati anche “contributi e agevolazioni aiuti Covid per euro 487.907”. Un ristoro non così clamoroso, se si pensa che in tutto il 2020 i ricavi dalla vendita di notti in camera al Plaza sono stati 583.654 euro tenendo aperto nemmeno un trimestre in tutto l'anno. Incassato il 15 dicembre 2020 un ristoro di 115.008 euro e il 23 dicembre dello stesso anno anche un contributo a fondo perduto di 62.907 euro in base al decreto dell'agosto dello stesso anno sui centri storici.

La società poi “si è avvalsa della possibilità di beneficiare del credito di imposta per il pagamento dei canoni di locazione mensile ai sensi del decreto rilancio, generando un credito pari ad euro 275 mila al fine di cederlo nei confronti della società locatrice dell'immobile alberghiero”. Qui il caso non è stato di quelli comuni, perché il padrone di casa - delle mura - dell'albergo Plaza affittato dalla società dei Paladino è altra società interamente controllata dalla famiglia Paladino. Più significativa l'operazione di rivalutazione straordinaria di beni della società consentita dal decreto liquidità di Conte, visto che è ammontata a poco meno di 4 milioni di euro. Rivalutati mobili e arredi per maggiori 3,6 milioni di euro, poi cristalli e porcellane per maggiori 188.842 euro e infine l'argenteria per maggiori 121.183 euro. E' la cifra minore, ma anche la più simbolica, perché è proprio nei momenti più duri e difficili che si ricorre anche all'argenteria di casa per sopravvivere.

La musica però non è cambiata con il governo Draghi, anche se il suocero di fatto di Conte loda la svolta nella campagna vaccinale impressa dal nuovo premier che avrebbe potuto iniziare a risolvere i problemi anche del settore turistico se poi non fossero esplose le varianti che hanno lasciato la situazione di mercato sostanzialmente immutata. Così il consiglio di amministrazione della società che gestisce il Plaza guidato da Paladino “ha ritenuto opportuno mantenere la stessa politica cautelativa di non apertura della struttura alberghiera utilizzandola solo ed esclusivamente per eventi particolari che hanno generato importanti ricavi con costi molto contenuti”.

·        Luigi Di Maio.

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 20 Novembre 2022. 

Nella premiata ditta "poltronari" non c'è solo Luigi Di Maio, a cui spetta quantomeno il primo posto sul podio. Il governo che fu, quello di Mario Draghi, la lasciato in eredità a Giorgia Meloni e ai suoi ministri una discreta truppa di famelici beneficiati che ora pongono qualche problema al nuovo esecutivo. 

Su Di Maio va detto che il governo di centrodestra ha quantomeno un obbligo morale: deve dire all'Europa che una sua eventuale nomina sarebbe uno schiaffone all'Italia.

Tanto più con un dettaglio. Non è che siccome uno è stato ministro debba sparire. Ma non può accadere che resti a galla facendola ingoiare al nuovo governo. Che, tra l'altro, ha preso alle proprie dipendenze Roberto Cingolani, ex ministro per la transizione ecologica.

Gratis, a differenza di Di Maio, che avrà uno stipendio simil-parlamentare (12mila euro netti al mese per fare l'inviato Ue nel Golfo Persico). Ma il primo lo ha scelto la Meloni, il secondo Draghi. Non va affatto bene. 

Ma poi c'è il gruppone. E, altra curiosità, non si vedono trasmissioni Rai inquiete. Tutto tranquillo da quelle parti. Non c'è scandalo, nonostante ad esempio il partito di maggioranza - Fdi - sia fuori dal Consiglio di amministrazione e praticamente dall'azienda così come lo era dall'opposizione. 

Curioso, no? Il governo in carica assiste ai programmi, quello caduto li fa... Ad esempio, ci si attenderebbe una rivoluzione tra viale Mazzini e saxa Rubra, ma tutto è tristemente fermo. Invece, in articulo mortis sono stati nominati dal vecchio esecutivo un fracco di amici degli amici, di dirigenti in scadenza, e questo nonostante quello di Draghi fosse in carica per il cosiddetto disbrigo degli affari correnti.

Sono in diversi ad essersi fregati le mani dopo aver acciuffato l'ultimo autobus per l'ultima nomina. E non solo al governo, va detto. Tra i poltronari di gran lusso ovviamente spiccano i grillini ripescati da Giuseppe Conte, Taverna e soci, non ricandidati e non rieletti: stanno a carico dei gruppi parlamentari, paga Pantalone. 

A proposito di zona Cesarini, le cronache giornalistiche ricordano proprio quelle del governo Draghi: nell'ultimo Consiglio dei ministri furono assegnate sei postazioni di rilievo, su proposta dei ministri Guerini e - guarda un po', che altruista - Di Maio. Una mossa arrivata da un esecutivo dimissionario, all'ultimo minuto e dopo il chiaro risultato delle elezioni del 25 settembre. Tant' è, la faccia tosta è inarrivabile quando ci si mette di mezzo la politica politicante.

E così, tra uno sguardo e l'altro sulla Nadef da approvare in forma tecnica in vista del governo Meloni, il capo della Farnesina chiese e ottenne «il collocamento fuori ruolo del ministro plenipotenziario Gabriella Gemma Antonietta Biondi presso il Segretariato generale della presidenza della Repubblica, Ufficio per gli affari diplomatici» così come «il conferimento delle funzioni di capo del cerimoniale diplomatico al ministro plenipotenziario Bruno Antonio Pasquino». 

Quattro, invece, furono le nomine richieste da Guerini. Un «ammiraglio di squadra»; un generale di squadra aerea; un paio di ammiragli ispettore capo: un bottino di promozioni last minute, insomma. Altri ministri si erano già esercitati nella sistemazione dei loro fedelissimi in postazioni chiave. Clamoroso il caso che vide protagonista il compagno di scuola di Roberto Speranza, Stefano Lo Russo, trascinato al vertice di comando del ministero della Salute.

Libero ne ha raccontate tante di queste nomine prodigiose e c'è da ricordare che i maggiori protagonisti della denuncia di un'occupazione di potere senza freni, ora sono al governo, come ministri o sottosegretario. È da auspicare che proprio loro facciano chiarezza sul destino di chi è stato collocato in posizioni importantissime in campagna elettorale o addirittura ad elezioni svolte: guai a mantenerli dove sono. Perché sarebbe il segnale che il cambiamento tarda ad arrivare. Speriamo che a Palazzo Chigi qualcuno, a cominciare dalla premier, voglia metterci sopra occhi e testa. Anche perché sono in arrivo tantissime nomine e guai a sbagliare scegliendo i soliti noti.

Il futuro di Di Maio, proiettato verso una consulenza all’estero. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

Dopo il tonfo elettorale, i programmi dell’ex ministro degli Esteri, che si è dimesso da Impegno civico: società in proprio, lavoro con una società straniera o un fondo arabo 

Appena messo piede in Parlamento, i cronisti gli pronosticarono un futuro da democristiano (aggiungendo «senza offesa per gli ex dc»), sarà stato per il completo impeccabile, le scarpe lucide, la parlantina sciolta, il viso pulito, ma soprattutto perché non si coglieva in lui la verve visionaria e istrionica di un Beppe Grillo, lo spirito barricadero guevarista di un Di Battista, l’approccio orobico-eversivo di un Toninelli. Non era granché credibile come paladino di una crociata anticasta e anche gli scivoloni più estremisti, come la richiesta di impeachment per il presidente Sergio Mattarella, apparivano per quello che erano, non spontanee indignazioni etiche, non collere profonde ma incidenti di percorso, inciampi di formazione di un politico ancora acerbo, ma già pronto a tutto. Il finale di partita, provvisorio, è arrivato l’altro giorno - dopo il drammatico 0,6 raccolto alle elezioni - con un messaggio laconico nella chat interna di «Impegno civico», il cartello elettorale propiziato da Bruno Tabacci, per dar manforte al centrosinistra: «Mi dimetto da segretario».

A Caprera

Un po’ poco per chi aveva lasciato casa e poltrone (con il Movimento 5 Stelle) per seguirlo in una battaglia sgangherata e perdente. Emilio Carelli, Laura Castelli, Primo Di Nicola, Carla Ruocco si son trovati appiedati, sconfitti quasi prima di cominciare a combattere. Di Maio non è Garibaldi, ma ha scelto comunque una sua Caprera virtuale, mollando tutto, i social e i sodali, prendendosi una pausa di riflessione che è fisiologica ma colpisce in un ex enfant prodige della politica e fa infuriare quanti speravano in un avvenire politico con lui.

Gli errori e la gogna

Di errori ne ha fatti tanti Di Maio ma forse non merita la gogna al quale l’hanno sottoposto gli avversari e anche alcuni ex amici che godono nel vilipendere i cadaveri dei nemici. In prima fila Alessandro Di Battista, che dice di non provare «gioia» ma gli consiglia di «stare alla larga dalla politica e di prendersi una laurea». Consigli non richiesti che sanno di vendetta postuma per un duello che ha segnato tutta la storia dei 5 Stelle. La ferocia con la quale è stato additato da molti «Giggino» in questi anni e mesi — dalle ironie sfiatate sul bibitaro del San Paolo alle voci di rottura con la fidanzata Virginia Saba, dal sarcasmo sui congiuntivi a quello sui nomi sbagliati (Ping invece di Xi Jinping) — è in parte meritata (nemesi per chi ha fatto dell’insulto e della violenza verbale un programma politico) ma non è ammissibile in bocca a chi ha condiviso la favola dell’«uno vale uno» del «signor nessuno», senza competenza, senza esperienza, senza ideologie, ruolo che Di Maio ha incarnato alla perfezione.

Obbedienza ed eclettismo

I 5 Stelle erano il giocattolo di due sognatori geniali - Grillo e Casaleggio - una macchina potentissima per catalizzare il voto degli scontenti e il malessere degli esclusi e dei frustrati, ma lavoravano per obiettivi e non per principi. Per questo l’eclettismo morale e politico di Di Maio non ha fatto eccezione e lui, come quasi tutti, si è trovato a suo agio con Salvini e con Fratoianni, con Toninelli e con Tabacci, con i «gilet gialli», i «taxi del mare» e la curiale inclinazione al progressismo dei dem. L’obbedienza di fronte alla linea del partito, comprese certe uscite umilianti di Grillo, è stata totale e incondizionata. Fino alla rottura.

Lobbysmo, secondo tempo della politica

E ora? Ora è il momento di tagliare i ponti con tutti, di chiudere un capitolo e pensare ad altro. Si dice che la politica sia solo il primo tempo di una carriera, il secondo ormai anche da noi, come negli Stati Uniti, è diventato il lobbysmo, l’entrata in quel mondo grigio di consulenze e rapporti che prevede l’esilio volontario in una zona d’ombra dal quale tessere nuove trame a bassa visibilità e alto reddito. Lui non conferma nulla ma le voci corrono. Si parla dell’idea di mettere in piedi una società di consulenza o di lavorare con Bain & Co (che però smentisce ufficialmente). Ma c’è chi dice che, sulle orme di Matteo Renzi, Di Maio abbia avuto un’offerta anche da un fondo di investimento arabo.

I finanziamenti

Del resto, in questi mesi Di Maio è stato abile a costruirsi una rete di rapporti, grazie anche al ruolo di ministro degli Esteri. Durante la campagna elettorale ha ricevuto finanziamenti e donazioni per 300 mila euro, dalla Consap, Alfredo Romeo, Marco Rotelli, l’università telematica Niccolò Cusano, Stigc pressure tanks e Energas Spa.

Stop alla politica, per ora

E la politica? Per ora, non è il caso di insistere, lo sa da solo. Come per Garibaldi, ci sarà tempo per tornare da Caprera. Emilio Carelli lo difende: «Non si meritava questa fine, i tempi sono stati troppo accelerati, non c’è stato abbastanza tempo per convincere gli italiani». Tabacci - gran democristiano e signore della politica - ne parla solo bene: «È un ragazzo intelligente e di buone qualità. Ma ormai le leadership nascono e muoiono in un breve lasso di tempo. E poi forse non ha capito quanto odio si era catalizzato contro di lui».

L’odio e i monumenti

Già, odio o forse fastidio, repulsione. Quei sentimenti che gli italiani provano di se stessi, quando si accorgono di avere creduto a qualcosa che si rivela fallimentare, e allora con la stessa passione e ottusità con la quale avevano edificato il monumento a qualcuno, rapidamente lo demoliscono, prendendo a martellate quel che rimane, dimenticando allegramente di aver contribuito a mettere in piedi un altro mito farlocco. Di Maio non ha avuto il tempo e la capacità per costruire il suo movimento e non ha calcolato l’effetto novità, che premia solo i leader nuovi o che si riverniciano di fresco, come Giuseppe Conte, che fino al giorno prima combatteva su un fronte molto diverso da quello neo laburista alla Mélenchon.

L’ecomostro Impegno civico

Impegno civico ora è rimasto lì, acefalo, sospeso nel nulla, un memento a futura memoria, un ecomostro che non si ha la forza di abbattere. Alcuni dei suoi seguaci si sono imbufaliti, nel leggere quella chat di dimissioni caduta dal nulla, senza scuse, senza spiegazioni, senza nessun tipo di elaborazione del lutto. Alcuni (come Dalila Nesci, Gianluca Vacca e Vincenzo Presutto) si starebbero avvicinando al Centro democratico di Tabacci. Alcuni si apprestano ad aprire un chiringuito. Altri aspettano che si calmino le acque per decidere se provare a ributtarsi in questo circo assurdo che è la politica. Oppure tornare alla vita normale di tutti i giorni, dove uno non è mai valso uno.

Federico Capurso per “la Stampa” il 24 Ottobre 2022.  

I ghigni che hanno accompagnato la sua uscita di scena sono destinati a spegnersi e a scivolare via. Perché non riusciranno, congiuntivi fantozziani e soprannomi dileggianti, a descrivere davvero fino in fondo chi è stato Luigi Di Maio per questo Paese. Capace di cavalcare in giacca e cravatta l'antipolitica alla conquista dei Palazzi di Roma, da mosca bianca del Movimento del vaffa, e di finire sconfitto nel momento in cui aveva ogni cosa nelle sue mani.

«Il più giovane della storia repubblicana», si è sentito dire spesso, da vicepresidente della Camera, da vicepremier, da ministro degli Esteri. Eppure, è un ragazzo che non è stato ragazzo mai. Entrato nel Movimento 5 stelle a 21 anni e a Montecitorio cinque anni più tardi, nel 2013. Altri cinque anni ed è ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. L'unico vero miracolo grillino, in cui si è realizzato il sogno e consumato il contrappasso: l'uomo del popolo che diventa élite finché il suo popolo non lo riconosce più. 

Con lo 0,6 per cento incassato alle ultime elezioni, il passaggio di consegne alla Farnesina e le dimissioni dalla guida di Impegno civico, a 36 anni Di Maio chiude il primo capitolo della sua storia politica. E ora che tutto finalmente si posa, guardando indietro a questi dieci anni bruciati in fretta, tra mille acrobazie, come un fuoco d'artificio impazzito, si fa ancora una tremenda fatica a capire chi sia davvero Luigi Di Maio.

Il sacrificio per il potere, si dirà. Eppure, non può essere solo questo. Il senso di rivalsa, forse, che arriva da una provincia dimenticata del Sud, come è Pomigliano d'Arco, e che lo porta a esultare dal balcone di palazzo Chigi per aver sconfitto la povertà. E insieme l'abilità, persino il talento, di essere tutto e il contrario di tutto.

L'uomo che voleva uscire dall'Euro e che chiese l'impeachment di Sergio Mattarella, che si lasciò cullare dalle fascinazioni prima russe e poi cinesi, che vedeva nel Pd un nemico e che incontrò in Francia i gilet gialli, oggi è alfiere della stabilità, uomo di fiducia di Mario Draghi e amico del Pd, atlantista ed europeista convinto. Il giustizialista che per primo, senza imbarazzi, ha chiesto scusa per il suo giustizialismo: «Scurdammoce 'o passat'». 

Gira voce che ora voglia dedicarsi al lobbismo. Entrare alla Bains, società di consulenza americana tra le più importanti al mondo, o magari fondarne una sua, mettendo a frutto la rete di conoscenze costruita nel tempo, fin dal primo giorno in cui ha imparato ad annodare la cravatta.

Mentre i grillini sbraitavano contro i poteri forti, lui ci andava a cena insieme. E se poteva, piazzava i suoi amici, compagni di scuola e di avventura politica, su poltrone e poltroncine, come ha fatto chiunque abbia amministrato il potere in Italia prima di lui. «Giggino core d'oro», lo chiamavano i suoi detrattori. 

Ma è la capacità di ascolto e di dialogo, di costruire un rapporto plasmando la propria identità su quella del suo interlocutore, senza mai scontentare nessuno, ad avergli permesso di superare scivoloni ed errori politici. Da ultimo, la scissione dal Movimento, progettata e orchestrata per dare maggiore stabilità politica al governo Draghi e per assestare un colpo mortale a Giuseppe Conte, finita invece per terremotare palazzo Chigi e ridare forza all'identità dei Cinque stelle in campagna elettorale.

Nessuno si ricorderà di Impegno civico. «Un cartello elettorale», così l'ha infilzato a morte Bruno Tabacci, unico eletto sotto quell'insegna. Ma Di Maio, a 36 anni, ha ancora cinque o sei vite di fronte a sé. L'unica vera domanda da porgli, oggi, è se abbia voglia di rallentare, prendere fiato, e decidere una volta per tutte, magari, chi è davvero Luigi Di Maio. 

Michel Dessì per “il Giornale” il 18 ottobre 2022.

Si spengono le luci, cala il sipario su Luigi Di Maio. E tra i palazzi romani c'è qualcuno che tira un sospiro di sollievo allarga le braccia ed esclama: «Era ora!». Il de profundis del ministro è servito. L'ultimo atto al Consiglio degli Affari Esteri europeo in Lussemburgo. Mentre in Italia è scomparso dai radar (tanto da allarmare perfino Federica Sciarelli e la redazione di Chi l'ha visto?) in Europa è accolto da applausi. A spellarsi le mani l'Alto rappresentante dell'Unione Josep Borrell, che ha definito Di Maio «un grande ministro degli Esteri». 

Peccato scoprirlo solo ora, alla fine del suo mandato. A ruota, tutti i ministri omonimi, hanno congedato Giggino da Pomigliano con un lungo applauso. Lo stesso che si riserva ai grandi funerali. D'altronde per lui lo è. Il funerale politico se l'è fatto da solo. Lo 0,6% ottenuto alle elezioni dal suo Impegno Civico è l'iscrizione sulla lapide della sua vita politica. Inciso sul marmo, a perenne memoria: zerovirgolasei.

Beffato dalle urne, trombato come tutti i suoi compagni di «partito» scippati al Movimento 5 stelle. Tutti tranne uno. Solo Bruno Tabacci, politico navigato, è riuscito ad ottenere il seggio ed entrare in Parlamento fregandolo. Ora anche lui abbandonerà la creatura di Luigi per approdare nel Pd. L'ape raffigurata nel simbolo invece di prendere il volo è morta. 

Si è schiantata contro la realtà. Le comode stanze dal Palazzo sono solo un lontano ricordo. Per lui non ci sarà più nessuna occasione per sfoggiare i vestiti sartoriali. «Non lo sentiamo più dal giorno delle elezioni» - confessano gli ex parlamentari dimaiani - «È sparito». Scomparso non solo dalle chat ma anche dai social. Troppo grande la vergogna, anche per uno come lui che non si è mai fatto troppi problemi a cambiare idea e casacca.

Da «uno vale uno» a «io valgo doppio»; da «mai con il partito di Bibbiano» ad un accordo con quel partito, il Pd simbolo del male (per Di Maio) tranne che utilizzarlo come traghetto per il transatlantico. Gli è andata male. Il saluto dei colleghi europei è il giusto tributo, un ricordo che lo accompagnerà nel tempo. 

Una meteora caduta nell'ultimo appuntamento internazionale del suo mandato. Al prossimo consiglio Esteri, previsto a Bruxelles il 14 novembre, infatti, parteciperà il suo successore alla Farnesina nel governo che dovrebbe prendere vita nei prossimi giorni. Forse Antonio Tajani, politico di spessore. Già presidente del Parlamento europeo. Nessuna grande perdita, né per l'Europa né per l'Italia.

Lo statista in salsa campana pare essersi presentato nelle colorate stanze del Consiglio Europeo con dei nuovi biglietti da visita freschi di stampa: «Luigi Di Maio - lobbista». Questa potrebbe essere la sua nuova professione. Dopo qualche anno al ministero, anche lui si è fatto i suoi contatti. Abile trasformista saprà fare tesoro della sua agenda ricca di numeri, soprattutto quelli con il prefisso cinese. I soldi non mancano, 100mila euro per 9 anni in Parlamento. A tanto ammonta la buonuscita.

Anche il numero di cellulare è nuovo. C'è chi dice che non risponda più al telefono nemmeno ad alcuni dei suoi più stretti collaboratori, al suo fianco da quando, appena trentenne, il politico campano aveva fatto il suo ingresso nell'agone politico. In quel Parlamento che avrebbe voluto aprire come una scatoletta. La stessa scatoletta ora lo ha inghiottito. Per sempre.

 Mattia Feltri per “La Stampa” il 12 ottobre 2022.  

Che l'onestà in politica sia una questione largamente sopravvalutata o quantomeno mal posta, noi qui lo sappiamo da tempo. 

La mistica delle mani pulite è una cretinata da podio olimpico: fare politica significa sporcarsele, e lo si scopre studicchiando qua e là, oppure dandosi da fare, come dev' essere successo al nostro Luigi Di Maio, indicato dal premier albanese Edi Rama come un contrabbandiere fatto e finito.

Non un banale abuso d'ufficio, per mandare avanti una pratica utile a tutti, tranne alla legge, ma proprio un contrabbandiere, e di vaccini. 

Rama ha raccontato che l'Albania ne era priva, la popolazione terrorizzata, e così chiese a Di Maio di fargliene avere un po' sottobanco. Il contratto con Pfizer ci impediva infatti di ridistribuirne e Di Maio - uomo di marmorea rettitudine - disse no, sarebbe un reato gravissimo, ma infine fu mosso da pietà e solidarietà e infranse la legge.

Ora io spero soltanto che qualche magistrato con molto tempo libero non si industri a fare luce, e non infili il potenziale inquisito in qualche pluriennale indagine, mentre sono certo che Di Maio avrà compreso il concetto della separazione fra politica e morale, e soprattutto fra morale e giustizia: non dare i vaccini agli albanesi sarebbe stato morale perché un politico è tenuto a rispettare la legge più di un cittadino comune, darglieli è stato morale perché esiste una legge di fratellanza umana superiore a qualsiasi legge scritta nei codici. 

Un uomo che rispetta la legge non è necessariamente un uomo migliore: se Di Maio l'avesse rispettata, ora avrebbe le mani pulite; non l'ha rispettata, e le ha pulitissime.

Francesco Merlo per “il Venerdì - la Repubblica” il 15 ottobre 2022.

Eppure lo meritava, l'applauso da sipario, al posto dei tanti sberleffi feroci, perché non c'è un altro Di Maio nella nostra storia politica e non c'è mai stata una parabola così arcitaliana e così napoleonica, per gli altari dove venne innalzato e per la polvere che ora gli stanno facendo mangiare senza la pietà di un miserere di Vivaldi e neppure il saluto malinconico di una marcetta impettita di Sanremo. 

E forse è per questo che da sempre porta appiccicato sulla faccia un perenne sorriso, fisso come un ghigno, perché era nato per la letteratura, predestinato a diventare un personaggio stilizzato come L'Uomo che ride di Victor Hugo: il "tipo Di Maio" sarà infatti proverbiale e "farai la fine di Di Maio" si dirà un giorno senza bisogno di aggiungere altro.

 Ma sarà un nome sussurrato, biografia-documento e speciale ricordo della generazione drogata e irripetibile del vaffa, un nome cantato con la malinconia della poesia-canzone di Salvatore Di Giacomo e con la voce di Franco Battiato: non più Era de maggio ma Era Di Maio "e te cadéano 'nzino / a schiocche a schiocche li ccerase rosse", - era Di Maio e ti cadevano in grembo, a ciocche a ciocche, le ciliege rosse. 

Davvero, mai c'era stato nella Dc, nel Pci e neppure nel Psi di Craxi un turbinìo così caotico e incandescente di onori e di insulti che ormai si infettano ogni giorno di più e diventano spietati; ci sono video dove gli gridano "munnezza, iatevinni", e lo hanno costretto a scappare dai social e gli hanno persino "tolto" la fidanzata, "troppo bella per un tacchino": "Virginia l'ha lasciato".

E non importa che non sia vero, basta che sia verosimile nella stessa Italia che oggi deride feroce il bravo ministro e ieri celebrava entusiasta lo squinternato d'assalto che si perdeva sia nei congiuntivi, "mi facci il piacere" e "mi facci finire", e sia nella famosa geografia dei 5 Stelle con le Marche al posto del Molise, il Venezuela in Cile, Matera in Puglia. 

Il migliore dei peggiori

Nessuno allora si accorgeva che "l'uomo che ride", annunciando dal balcone di palazzo Chigi l'abolizione della povertà, stava sporcando la politica ma al tempo stesso dalla politica si stava facendo ripulire, e proprio mentre cercava di corrompere il Palazzo e di aprirlo come una scatoletta, il Palazzo lo sgrossava, lo sbozzava e lo dirozzava. E difatti non ce n'è un altro, tra i tanti disperati a 5 stelle, che come lui incarni l'epopea del popolano che davvero era diventato élite.

La fine di Di Maio è il tonfo dell'utopia realizzata di Casaleggio e di Dario Fo. Nello 0,6 per cento al bibitaro ministro c'è l'intero universo grillino, che appunto un giorno ricorderemo solo con il suo nome - "era il tempo di Di Maio" - accanto a quello di Grillo e non certo di Conte che  fu invenzione di Di Maio e ancora oggi prende le forme che gli altri via via gli danno.  

Conservato su YouTube, che più di un archivio è il frigorifero della storia, c'è il video del primo discorso da presidente del Consiglio che Conte pronunciò alla Camera il 7 giugno del 2018: "Posso dire che...?" il premier chiede impaurito al suo vice che, chiaro e autoritario, gli risponde: no. Proprio come nei versi di Era Di Maio: "Fa' de me chello che vuo'". È lo sconfitto, è vero, il deriso, il perdente, ma solo Era di Maio racconta la matta stagione della Cretinocrazia, perché è stato l'unico che è riuscito a incarnarla sino ad uscirne superandola, fino a diventare, ecco lo scandalo imperdonabile, un apprezzato ministro degli Esteri del governo Draghi, il migliore dei peggiori che aveva ormai rinnegato la politica pericolosamente filocinese del memorandum siglato da Conte e Xi Jinping: "Pechino" dice il Di Maio di poi "è un'autocrazia che non aderisce alle regole multilaterali".

Si è infatti affidato ai sapienti diplomatici e a tutta la struttura della Farnesina: "La sua mente assorbe, accumula e poi corre come un fiume". Si era scelto come tutore Ettore Francesco Sequi, che gli preparava i dossier e glieli faceva capire e studiare, si era pure impadronito dell'inglese alzandosi ogni mattina alle 4.30 per le lezioni one to one, e intanto conosceva e ri-conosceva capi di Stato e ministri,  Zelensky e Von der Leyen, e sempre Draghi lo proteggeva e lo accreditava, "my young friend".

 Dal vaffa a Waterloo

E dunque alla fine neppure somigliava alla maschera che in visita ufficiale a Shanghai aveva chiamato per ben due volte "Ping" il presidente Xi Jinping. Si sa che le gaffe, come quelle sulla Francia "democrazia millenaria", sono la leggerezza dell'umorismo involontario. Ma stava al governo l'odiatore di tutti i governi e dunque le sue gaffe divennero tanti piccoli momenti fatali che, con l'innocenza della verità, esprimevano la tensione tra il vaffa day e l'istituzione, facendogli vedere quanto sia facile bruciarsi quando si gira attorno al Sole.

Non resterà nulla dei vari Fico e Toninelli, Crimi, Lombardi e Taverna, perché nei 5 Stelle c'è solo un Icaro che è volato troppo vicino al Sole: "Era Di Maio, fresca era ll'aria e tutto lu ciardino / addurava de rose a ciente passe". "Era di Maio" vuole anche dire che in tanti alle elezioni sono stati sconfitti, non ce l'hanno fatta, sono stati bocciati, esclusi o semplicemente non sono stati eletti. Ma solo per Di Maio il 25 settembre è arrivato come una Waterloo, un bum bum bum alla napoletana. 

Nel bibitaro battuto a Napoli da quel Sergio Costa che lui aveva inventato e fatto per due volte ministro, c'è la disfatta della troppo scandalosa ambizione di un modesto, della forza oscura dell'umile che era quasi a un passo dal dimostrare che davvero "uno vale uno" e che "io speriamo che me la cavo" è la strada migliore per diventare Napoleone. Di Maio è la morte per sete accanto alla fontana.

L'ometto di Grillo, che lo chiamava "il fantastico napoletano", si era ormai strappato le orecchie d'asino, aveva scritto mille lettere di scuse e persino un libro all'Italia e a tutte le vittime del vaffa, e si era fatto perdonare pure da Sergio Mattarella che ora lo tratta con affetto paterno benché il guaglione, anzi il picciotto, avesse un giorno chiesto l'impeachment del presidente nientemeno che per alto tradimento. Ed è bene ricordare a futura memoria, sempre che la memoria abbia un futuro, che a gridare all'impeachment era stata per prima Giorgia Meloni.

È vero che Di Maio li aveva lasciati e pure male i suoi amati 5 Stelle, ma abbandonandoli era l'unico che ne stava incarnando l'epica. L'ex commesso dello stadio San Paolo, "il bibitaro", Giggino, era il più affidabile europeista e atlantista dopo avere declamato con indignazione tutti i luoghi comuni di tutti gli estremismi di destra e di sinistra degli ultimi quarant'anni e dopo avere persino provocato una crisi diplomatica andando a Parigi, con Di Battista, a sostenere la violenza redentrice dei Gilet gialli che aggredivano con le ruspe i poliziotti. 

Di Maio era il governo italiano contro la Francia di Macron, "quel matto che beve Champagne", quel "chiacchierone", "ipocrita e cinico",  e persino (Beppe Grillo) "quel vibratore con le pile scariche di Madame Brigitte". E intanto Giorgia Meloni, in gran spolvero di reginetta di Coattonia, gridava in tv che Macron sfrutta i bambini africani per arricchirsi. "Ci vuole un incidente diplomatico" aveva detto Di Battista, e Di Maio lo aveva provocato.

 "Era Di Maio" evoca il miracolo del bibitaro che, battute tutte le strade della scombiccherata eversione a 5 Stelle, spostando la poesia del Manzoni dal 5 maggio al 25 settembre, "giunge, e tiene un premio ch'era follia sperar". Ecco perché non è una storia personale quel finale "cadde, risorse e giacque" ma in metafora ci sono anche i professori-paperini dell'era Casaleggio senior, quando veniva elogiato lo Zeitgeist di un tal Peter Joseph ed evocate le scie chimiche, i microchip sotto la pelle, e i vaccini erano "o inutili o dannosi", e "il tumore si cura con il limone e la cacca di capra" e "l'Aids è la più grande bufala del secolo". 

Di Maio, che è l'unico ad essersi mutato nel suo contrario, rimarrà per sempre il loro Napoléon le petit, sia pure nella versione  di  Renato Rascel , "Napoleon, Napoleon, Napoleon", che "offriva la fronte alla gloria" e diceva: "E allora che abbiamo combattuto a fare se poi non sappiamo zufolare?".

Di Maio ha un super curriculum di super zufolatore. Era vicepresidente della Camera a soli 26 anni e poi, a 31, vicepresidente del Consiglio; ed era anche il leader del partito di maggioranza relativa quando si dissipava  in bêtises borgesiane come l'uomo d'acqua ("Per più del 90 per cento siamo fatti di acqua"), e ministro del Lavoro e poi degli Esteri, descamisado  che "si camisava" anche ai tempi dell'odio, giacca e cravatta in controtendenza rispetto a se stesso, un guastatore che mentre guastava l'Italia, l'Italia rendeva migliore: "Calenda per offendermi ha detto che non assumerebbe mai un venditore di bibite in un'azienda. Io non ne posso più di queste discriminazioni nei confronti di giovani che fanno lavori come il cameriere, lo steward o il venditore di bibite".

Leader dello sbeffeggiamento da canaglia, ora ne è la vittima e torna a Pomigliano d'Arco, il suo punto di partenza, a cercare il senso di questo lungo romanzo di formazione. È provincia, ma non è il Meridione delle mozzarelle. È la Napoli dell'Alfasud e della modernità tradita, l'ex roccaforte rossa, il sobborgo industriale dove Landini sfidò Marchionne, con intorno la campagna fertile del vulcano e dell'acqua e dove anche il parroco, che fu comunista, divenne grillino devoto a Di Maio.

L'odio come politica

Il padre, che era il piccolo imprenditore benestante e riverito, il "quasi borghese" meridionale, si sentì morire quando le Jene scoprirono che pagava in nero gli operai e chiese scusa in diretta Facebook. Pomigliano è la famiglia, le abitudini, la piazza Giovanni Leone, e poi la messa la domenica, capelli sempre corti, la voglia di sembrare compassati e dignitosi come milanesi del Sud, e ovviamente di destra, con Almirante come idea d'uomo: "Nel Movimento 5 Stelle" disse il Di Maio di prima "c'è chi guarda a Berlinguer, chi alla Dc, chi ad Almirante".

 In quella provincia e in quella piazza sono anni che si parla solo di Di Maio e per molti anni ancora se ne parlerà: la polvere e l'altare, l'odio come politica e l'addio al vaffa, il passo più lungo della gamba, lo 0,6 per cento. Entrato nella categoria dei vincenti che si sono smarriti, è ormai il come eravamo, "cchiù tiempo passa e cchiù mme n'allicordo, fresca era ll'aria e la canzona doce": era Di Maio, tanto tempo fa.

Da veritaeaffari.it il 5 ottobre 2022.

È stato il suo esordio nella caccia ai finanziatori della politica. Una partita finita malissimo per Luigi Di Maio, salvo che per l’elezione alla Camera del suo alleato Bruno Tabacci (ma non è stata una grande impresa: è alla sua settima legislatura). 

Se dal punto di vista politico Impegno civico è naufragato, almeno le casse non piangono. Perché sono stati non pochi i sostenitori del comitato elettorale dell’ex capo politico del Movimento 5 stelle. 

Il contributo più sostanzioso – 50 mila euro – è arrivato dall’Energas di Menale Diamante. Poi ci sono i 30 mila euro versati da Marco Rotelli (gruppo San Donato) che altrettanti ne ha donati al Pd di Enrico Letta. Altri 30 mila euro sono arrivati dall’Università privata Niccolò Cusano.

Venticinquemila in cassa dalla Sud Trasporti srl. E poi diecimila euro da Vincenzo Federico Sanasi D’Arpe, manager pubblico amministratore delegato della Consap. 

I soldi di Romeo

E 10 mila euro da Alfredo Romeo, il signore del facility management pubblico nonché editore de Il Riformista diretto non proprio da un fan di Di Maio come Piero Sansonetti. Altri 10 mila euro da Almas partecipazioni industriali di Paolo Scudieri, capo del gruppo Adler Pelzer finito questa estate alla ribalta delle cronache per l’incendio che ha distrutto il suo yacht appena acquistato per 25 milioni di euro al largo dell’isola di Formentera nelle Baleari. 

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano e Lorenzo Giarelli per il “Fatto quotidiano” il 5 ottobre 2022.

[…] La disastrosa campagna elettorale di Luigi Di Maio e Impegno civico - 0,6% a livello nazionale e sconfitta nel collegio di Napoli - è stata foraggiata da circa 300 mila euro di donazioni private. La lista dei generosi, o scriteriati finanziatori contiene 44 voci, con gettoni compresi tra i 500 e i 50 mila euro. 

Nell'elenco non mancano le sorprese. La più grande è il nome di Alfredo Romeo, l'imprenditore napoletano protagonista dell'inchiesta Consip (per lui la procura ha chiesto 4 anni e 10 mesi) che iniziò a far scricchiolare il potere renziano, nonché editore del quotidiano Riformista. Romeo ha finanziato la campagna di Di Maio con un assegno da 10 mila euro (donati a titolo personale e non tramite la sua azienda, la Romeo Gestioni Spa).

[…] Nell'elenco figura un'altra donazione da 10 mila euro che porta il nome di Vincenzo Federico Sanasi D'Arpe, manager di antica fedeltà renziana che però nel 2020 fu nominato amministratore delegato di Consap (partecipata del Mef) sotto la regia del Movimento 5 Stelle. 

Ancora 10 mila euro arrivano dall'Almas Partecipazioni Industriali, l'impresa di Paolo Scudieri, che tra l'altro figura tra i soci del Comitato Leonardo, del quale Di Maio è a sua volta socio onorario. Trentamila euro invece sono donati da Marco Rotelli, figura con vent' anni nel mondo delle Ong […]

Trentamila euro sono arrivati anche dall'Università telematica Niccolò Cusano, che Di Maio ha visitato da ministro lo scorso 21 luglio, intrattenendosi per un colloquio privato di mezz' ora con il presidente dell'ateneo Stefano Bandecchi (coordinatore nazionale del partito alfaniano Alternativa Popolare). 

Tra le varie imprese (per lo più piccole e medie, nei settori trasporti ed energia) spicca la donazione più generosa di tutte: i 50 mila euro di Energas, fra le più importanti aziende italiane di Gpl. È la stessa Energas contro la quale Di Maio, ancora grillino, protestava nel 2015. […]

Di Maio fuori dal Parlamento, la triste parabola dell’ex leader grillino: sconfitto all’uninominale nella ‘sua’ Napoli. Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Settembre 2022.

 Per Luigi Di Maio è stata la giornata del ‘Disimpegno Civico’. Il movimento politico nato dalla scissione del ministro degli Esteri e dei suoi sodali dai 5 Stelle, ‘Impegno Civico’, si è rivelato un flop elettorale: i numeri parlano di un partito che non è riuscito a superare l’uno per cento, non contribuendo quindi al risultato complessivo della coalizione di centrosinistra, già deficitaria di per sé.

Dopo 10 anni in Parlamento, come vicepresidente della Camera prima e come ministro del Lavoro, dello Sviluppo Economico e degli Esteri poi, Di Maio infatti dovrà infatti continuare il suo impegno in politica fuori dai palazzi romani.

Secondo i dati YouTrend, il collegio uninominale Napoli Fuorigrotta della Camera dove era stato candidato col centrosinistra è andato all’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa (Movimento 5 Stelle), eletto deputato con il 41%. Sconfitti proprio Di Maio con il 23 per cento, Mara Carfagna (6% con Azione/Italia Viva) e Mariarosaria Rossi (22% col centrodestra).

Impossibile anche qualsiasi ipotesi di elezione per Di Maio nei collegi plurinominali, proprio perché Impegno Civico è sotto la soglia dell’1% dei voti.

Una sconfitta clamorosa quella di Di Maio e del centrosinistra, che arriva in un collegio considerato ‘blindato’ dal Nazareno nella ‘rossa’ Fuorigrotta, storicamente feudo della sinistra. Inutile il tour de force arrivato negli ultimi giorni di campagna elettorale dello stesso ministro degli Esteri, volato a Napoli promettendo in particolare la difesa del reddito di cittadinanza.

Una parabola impressionante quella di ‘Giggino’, passato in quattro anni da leader politico di un Movimento 5 Stelle arrivato al 33% nel 2018 alla scissione, la creazione di un suo movimento politico e il ‘suicidio elettorale’ di questa notte in compagnia di un Partito Democratico miope nella folle scelta di candidare un corpo estraneo alla sua storia in un collegio che ha deciso infine di ‘rigettarlo’. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

I ritratti di Max del Papa. Pancerina Di Maio: l’ex spiantato divenuto Sistema. Max Del Papa su nicolaporro.it il 28 Agosto 2022.

Com’è che faceva Paolo Panelli in “Grandi Magazzini”? “Si fa presto a dire una pancerina!”. Infatti, le opzioni sono tante, uno si confonde: lana-lana, cotone-cotone, cotone-lana, lana-cotone… Ecco, Luigi di Maio da Pomigliano d’Arco è la pancerina della politica: caldo, confortevole, rassicurante, però double face, difficile da indossare perché opinabile, cangiante nella continuità.

“Si fa presto a dire di Maio!”. Anni a ripetere che era una nullità, un vuoto a perdere, una bottiglietta allo stadio san Paolo, oggi Maradona, e intanto lui saliva a bordo, cazzo, galleggiava, trasbordava, e durerà, oh se durerà. Volete farmi la Wikipedia delle gaffe, degli sfondoni? Volete ricordare, per l’ennesima volta, Pinochet del Venezuela, mister Ping della Cina? Volete rispolverare gli attacchi – nessuno li ricorda più ma il nostro mestiere è anche la memoria – alla “lobby del malati di cancro”? Le mille incoerenze, dalla lotta alla casta all’imbarco dei paesani, come Alessia Montanino (“Chi mi critica è sessista, prenderò 72mila euro ma meriterei il doppio perché lavoro in due ministeri”) o dei compagni di scuola come Dario de Falco, già promosso alla segreteria di palazzo Chigi? Volete mettere in fila i salti mortali, dalla spedizione a Gaza (rifiutata, per forza, si era portato il fior dell’antisemitismo grillino…) a “noi stiamo con Israele”, dai gilet gialli a “con Macron senza tentennare”, dall’impeachment a Mattarella alla santificazione di Mattarella, dall’abolizione della povertà a “il reddito di cittadinanza è stato un errore”, e questa è freschissima? Accomodatevi, tanto per me è solo mitologia: non avendo una morale, sono catafratto ad ogni immoralità e me ne nutro per alimentare la leggenda.

Altro che bibitaro, fessacchiotto, analfabeta: Giggino ha capito, prima e meglio degli altri della sua generazione, l’antica arte della resilienza, come restare spostandosi di lato, come persistere in mutazione perenne restando se stesso. Anticasta castissimo ma rotto a tutti i compromessi: beh, che altro è la politica? Non si pratica a questo modo dai tempi delle puttane delle Piramidi? Azzimato, ma lo chiamano “’o Cazzimmato”, per quel cinismo garbato e feroce di stampo andreottiano. Basta guardargli gli occhi: due laghi fondi, inespressivi, da squaletto. Non ti attaccherà mai frontalmente, ti girerà intorno in cerchi sempre più stretti e, al momento giusto, scatterà felpato.

Ce l’aveva con le lobby, ma si è fatta la sua, Draghi è andato al Meeting dei ciellini leccatutto e, con umorismo bancario carogna, ha detto che di Maio ha contribuito al processo di pace essendo un ministro straordinario. Lui, neanche una piega, anzi ringrazia con deferenza cazzimmata: i banchieri passano, io resterò, oh se resterò. Hic manebimus optime, che sarà anche latinorum ma quel che c’è da imparare io lo imparo, glielo riconoscono pure i detrattori: Luigi sa stare al mondo. Il competitore diretto, lo sparafucile guevarista, Di Battista, è rimasto senza casa, con un pugno di fave in mano, lui non solo ha mollato la casa, ma ne ha fondata un’altra. Con chi? Col “partito di Bibbiano”, naturalmente, quello che egli considerava il Male totale. Volete dire che fa schifo? Accomodatevi, per me è tutta leggenda. È la politica, bellezza, e, come sbraitava Lino Banfi al “Bar dello Sport”, io non ci torno allo stadio a fare plin plin con le bottigliette. Tiene le sue ragioni, pur isso adda campà.

Bene, possibilmente. La vita è una giungla, lui ce l’ha fatta: Pomigliano prendeva 59 voti, alle primarie grilline 189 che gli bastano a entrare nel Paese dei Balocchi: partito da una società di profilazione dati, da una setta di un comico, è arrivato alla Farnesina e a forza di girare il mondo impara la geografia, impara a non confondere più Austria con Australia: perché, certe influencer che vaneggiano di aborti proibiti che fanno di meglio? Certi reggipalle del potere in fama di giornalisti, in cosa sarebbero meglio? Di Maio è solo uno che ha capito, si è adeguato, e vuol durare, a qualunque costo: dargli torto, con questi chiari di luna. La pancerina del Viminale: gliene dicono di ogni, insinuano perfino sulle attitudini erotiche, sulla presunta fidanzata dello schermo; lui, imperturbabile, sempre più c-azzimmato. E non replica, secondo lezione del vero potere. È passato da Conte a Draghi (e al prossimo, vedrete)? Dal Movimento alla staticità più risoluta? Embé? Travaglio può anche divertirsi a chiamarlo Giggino ‘a Poltrona, ma Giggino, con sorriso da squalo, manda a dire: che dobbiamo fare qui? Rendere note le tariffe a piè di lista dei grillini foraggiati da Putin? E non è una insinuazione giornalistica di ringhiera, badate bene. Difatti nessuno attacca “il rinnegato”, “il traditore”: qualche colpetto di cipria, i primi giorni, ma oh quanto tengono mascherinata la bocca gli ex compagni di setta! E anche il loro organo ufficiale gira alla larga.

‘O Cazzimmato sorride gelido e impeccabile: dite che non so far niente? Meglio, così non faccio danni. E se Draghi intende sfottermi alludendo al complesso di Murri, il medico che promuoveva i peggiori per risaltare meglio, ebbene si accomodi: alla fine sarà lui a scontare le responsabilità ed io lo azzannerò al momento giusto. Senza neppure dovermi sistemare la cravattina, che non mi tolgo neanche quando faccio la doccia. Perché la cravatta, sient’ammè, può essere il cappio al quale ti appendo e io di cravatte ne ho una collezione da fare invidia a Douglas Mortimer. Max Del Papa, 28 agosto 2022

Di Maio, l’ex pupillo Cinque Stelle (dai molti padri) che ora prova a diventare grande. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.

Dalla carriera lampo con il Movimento allo strappo con Conte. Il ritorno (forse) in Campania per cercare di strappare un seggio.

Quanti padri in questo nostro Paese dove si resta figli per sempre, fine pena mai. Uno, Beppe Grillo, onirico e onnipotente, che aveva bisogno di un facchino sveglio per diffondere il Verbo. Un altro, Gianroberto Casaleggio, che la vocazione del Pigmalione l’ha sempre avuta. Un terzo, quello biologico, missino per passione e mai eletto consigliere comunale a Napoli, che un po’ ha sofferto questo suo ragazzo scapocchione, che diventava prima deputato, poi vicepresidente della Camera e infine ministro e vicepremier, togliendogli il primato del maschio alfa della famiglia. Certo, quando pure Giuseppe Conte ha provato a fargli da padre, o per lo meno da fratellone maggiore, la voglia freudiana di mordere il freno e farlo fuori ha prevalso. Anche se è dovuto passare per la benedizione di Beppe Sala, per poi finire nelle mani amorevoli di Bruno Tabacci , possessore del simbolo che libera dalla schiavitù della raccolta delle firme per presentare la lista e che, affettuosamente, ha pronunciato l’impronunciabile: «Luigi Di Maio? È il più giovane dei miei figli».

Certo, il piano era spericolato, l’approccio impavido, il risultato oltre le previsioni. Portare via decine di deputati e senatori all’avvocato del popolo, rendere la sua levata di scudi ininfluente, sostituirlo nell’appoggio a Mario Draghi, svuotando a mano a mano i Cinque stelle. Ma non ha funzionato. Perché la politica ha tante variabili e Silvio Berlusconi e Matteo Salvini hanno deciso di ingoiare il rospo da girino, consegnandosi, in cambio di aver salva la vita, a Giorgia Meloni, e facendo naufragare il governo di larghe intese. Ma, se non si viene trafitti sul campo, all’ardire si dà una seconda chance, ed eccolo qui, Di Maio, a provarci di nuovo, o a cercarsi un impiego, come dicono quelli che lo hanno già sprofondato nel girone dei traditori.

Un metro e settanta per settantatré chili, nasce il 6 luglio del 1986 in quel di Avellino, sotto il segno del Cancro. Fortemente orientato alla difesa dei propri spazi, l’Uomo Cancro è governato dalla Luna, alcuni direbbero lunatico, il suo giorno fortunato è il lunedì, che, guarda caso, è anche quello che segue la domenica delle elezioni. Si trasferisce presto a Pomigliano D’Arco, sua patria d’adozione, e l’esordio in politica è da rappresentante degli studenti. Con successo li convince che non è il caso di occupare la scuola e che ci vuole il confronto con i professori, che vanno coinvolti nella soluzione dei problemi. Spirito rivoluzionario e animo consociativo saranno la misura della sua politica dai tratti bipolari. Frequenta il liceo dedicato a Paolo Emilio Imbriani, che riuscì a sfuggire alla condanna a morte dei Borbone ma non alla furia dei napoletani, quando, diventato sindaco, cambiò il nome di via Toledo con via Roma. Luigi si diploma con il massimo dei voti, e se qualcuno arriccia il naso su una presunta, eccessiva generosità dei docenti al Sud, nessuno può togliergli il fatto che la sua valutazione si esprime in centesimi, e non come per gli altri leader in sessantesimi, a testimonianza di quanto sia ancora giovane, quasi ragazzino.

Con la politica dei grandi ci prova una prima volta proprio al comune di Pomigliano D’Arco, con i Cinque stelle. Prende 59 voti, che neanche tutti i parenti lo sostengono, di sicuro non il padre, che aveva promesso la preferenza a un suo amico. Ma poi, inarrestabile slavina, l’elezione in Parlamento, ad appena 27 anni. In meno di un amen è vicepresidente della Camera, vicepremier insieme all’altro ragazzotto Matteo Salvini, ministro di due ministeri, Lavoro e Sviluppo economico, capo delegazione dei Cinque stelle al governo e ancora capo politico del Movimento, con tanto di benedizione di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. E siamo ormai, allora, appena ad anni 32.

Il bibitaro non l’ha fatto mai, non ha mai gridato «aranciata, birra, coca, caffè Borghetti» facendosi largo sugli spalti dello stadio, è una panzana, faceva invece lo steward, accompagnava i cosiddetti vip ai loro posti d’onore. Trascorsi che gli valgono una vignetta in cui, quando si parla per lui di un seggio sicuro nelle liste del Pd, Osho gli fa dire: «Sto diritto di Tribuna non c’entra col San Paolo, vero?». È il coronamento di una carriera sia come gaffeur che come amante dell’iperbole: il leader cinese che lui chiama Ping, la povertà abolita dal balcone di Palazzo Chigi, lo scivolone sui Gilet gialli e quello sull’impeachment di Sergio Mattarella, il giustizialismo su Bibbiano, la sbandata su Salvini che poi bollerà come l’uomo più falso che abbia mai conosciuto, per finire con qualche inciampo sui congiuntivi, costringendo la madre professoressa a giurare che a casa loro si mangia pane e consecutio temporum.

Ora, all’età di 36 anni, Luigi Di Maio dovrebbe tornare dove tutto è cominciato, in Campania, a combattere per un seggio uninominale. Anche se la destinazione non è ancora certa. Lì comunque non troverebbe l’amico di un tempo, Roberto Fico, azzoppato dalla regola dei due mandati. Virginia Raggi e Alessandro Di Battista gli gridano da sotto il balcone, poco rassicuranti: «Scendi, che dobbiamo parlare», ma sono già impegnati ad aspettare di fuori tanti altri, a cominciare da Giuseppe Conte. Grillo dice che non è ambizioso, ma punta al massimo a un impiego da mezze maniche al ministero, e Grillo è uomo d’onore. E quindi un brivido percorre la Penisola: ce li ha un po’ di voti o è tornato quello che prendeva appena 59 preferenze a Pomigliano D’Arco?

Dov’è Di Maio? Il pagliaccio, i senatori e il terrore della classe dirigente di passare per intellettuale. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Agosto 2022

Quando è un comico come Luca Bizzarri a dover ricordare a politici come Salvini, Calenda e soprattutto Di Maio che il loro ruolo pubblico e istituzionale impone standard di comportamento adulti, la sensazione è di ritrovarsi nel remake di “Dov’è Mario?” di Corrado Guzzanti

«Non ci sono più confini, siamo tutti uguali, Totti e Zagrebelsky, Moni Ovadia e Lory Del Santo, è la fine degli steccati culturali, Nanni Moretti ha firmato per uno spot della Lavazza». Dov’è Mario? è del 2016, e sembra scritto domani. Sembra un editoriale – però più divertente degli editoriali medi – a proposito dei politici su Twitter. Di quei politici che vogliono essere Totti e Lory Del Santo.

Ieri ho aperto Twitter, avevo appena finito di rivedere su Sky Dov’è Mario?, Veltroni nel ruolo di Veltroni aveva appena finito di lodare Corrado Guzzanti nel ruolo di Mario Bambea – l’intellettuale il cui disturbo post-traumatico consisteva in uno sdoppiamento di personalità, la notte diventava un comico greve che si vantava di non aver mai letto un libro – Veltroni aveva appena finito di complimentarsi con Bambea per aver finalmente conciliato «l’alto e il basso della cultura, Wittgenstein e Napo Orso Capo», quando su Twitter mi è apparso Luca Bizzarri che rispondeva a Di Maio.

A Di Maio che a sua volta rilanciava Calenda (che al mercato mio padre comprò), giacché Twitter è una ricreazione della seconda media in cui tutti vogliono l’ultima parola prima di rientrare in classe (classe in cui non paiono rientrare mai, o comunque nessuno pare interrogarli o bocciarli: molto Napo Orso Capo e pochissimo Wittgenstein).

Nello sdoppiamento delle pubbliche personalità, Bizzarri dovrebbe essere Bizio Capoccetti (l’identità dissociata di Guzzanti, quello che fa molto ridere ma poi ti vergogni d’avere riso), e coloro che ci governano o ambiscono a governarci dovrebbero essere Mario Bambea, l’identità ufficiale, seriosa, così trombona da avere il bagagliaio pieno di libri invenduti, così ligia da rischiare l’impopolarità, così diversa da noi, «io faccio teatro civile, tu fai teatro incivile».

E invece, è proprio Bizzarri che si prende il disturbo di farlo notare quando Salvini o altri gli rispondono sui social, quando nella ricreazione di seconda media vogliono avere l’ultima parola con uno che di professione fa il comico e tu sei così allocco che è proprio quella la Caporetto che ti scegli, proprio un professionista quello con cui vuoi avere l’ultima battuta – e invece, dicevo prima di perdermi in cinquantasette subordinate, quella questione dei ruoli non la capiscono.

Pensano, come l’agente di Bambea, che ormai Wittgenstein possa – debba – dialogare con Lory Del Santo, e non importa quanto Bizzarri si sgoli a dirgli che, se il senatore risponde al pagliaccio, è il senatore che diventa pagliaccio, mica il pagliaccio che diventa senatore: loro sanno di vivere nella società dello spettacolo.

E quindi ieri mattina mi appare questo tamponamento a catena, in cui (spero di non perdere dei pezzi): Di Maio in un programma di La7 dice «Saremo la sorpresa di queste elezioni»; Calenda rilancia il tweet di La7 parlando di «sollievo fisico di non dover pensare a Di Maio come alleato»; il «cicca cicca» prosegue con Di Maio che rilancia il tweet di Calenda rispondendo che «il sollievo è reciproco» e «saluta Renzi» (dev’essere un restyling di «salutame ’a soret’»).

A quel punto interviene Bizzarri (quando sono i pagliacci a dover spiegare il senso delle opportunità alle istituzioni, la situazione è grave) facendo notare che, sotto il nome di Di Maio, c’è scritto «Italia – Funzionario di Stato».

Non se l’è scritto Di Maio, eh: è una scelta di Twitter, un posto dove sono così ingenui da pensare che lavorare per un governo faccia di te una persona seria (una convinzione ben bislacca, per un’azienda nata nella nazione che ha avuto per capo Trump; ma in effetti gli unici ad aver detto a Trump «adesso basta» sono stati loro: stai a vedere che i social, con la clientela poco seria che si ritrovano, sono gli unici posti gestiti seriamente).

Cliccando su «Funzionario di Stato», Twitter mostra le regole con cui attribuisce queste etichette: «La nostra attenzione è rivolta agli alti funzionari e alle entità che rappresentano la voce ufficiale di uno Stato-nazione all’estero, con particolare riferimento agli account dei più importanti funzionari governativi, inclusi ministri degli esteri, entità istituzionali, ambasciatori, portavoce ufficiali, funzionari della difesa e importanti leader diplomatici. Laddove gli account non svolgano alcun ruolo come canale di comunicazione geopolitico o ufficiale del governo, non li contrassegniamo».

A parte l’uso analfabeta di «Laddove» (non lo sanno usare i giornalisti, possiamo pretenderlo da gente che si occupa di cuoricini?), la domanda è: «il sollievo è reciproco, saluta Renzi» è un messaggio da canale di comunicazione geopolitico? O, come suggerisce il pagliaccio Bizzarri, «Se quando giocate a chi ce l’ha più lungo evitaste di utilizzare profili con su scritto “Funzionario di Stato” fareste fare più bella figura al paese. Vi fate il profilo “adolescente” e da lì fate tutte le gare che volete»?

C’è un punto, in Dov’è Mario?, in cui Bambea, ospite in una specie di Radio3, riceve la telefonata d’un ascoltatore, Antonio, che protesta: «È da un’ora che v’ascolto, e ’nciò capito ’n cazzo, ma voi siete pagati per famme senti’ ’n coglione? E voi sareste la guida morale de ’sto cazzo de paese?». Nessuno vuol essere Wittgenstein, e tutti vogliamo essere Totti, perché abbiamo il terrore dell’ascoltatore Antonio, abbiamo il terrore dell’Ennio Fantastichini che in Ferie d’agosto diceva «voi intellettuali fate tanto i sofistici». Non temiamo di passare per pagliacci: temiamo di passare per utilizzatori elitari di quadrisillabi bisdruccioli.

Chiedeva sottovoce e con terrore il conduttore radiofonico a Bambea: «Te ce l’hai Twitter, Mario? Non installarlo mai, mai». Bisognerà dare retta a Bizzarri? Sarà il caso che ogni Wittgenstein con ambizioni da Lory Del Santo si faccia un secondo profilo? Sarà, come diceva Guzzanti facendosi la critica culturale del proprio prodotto all’interno del prodotto stesso, che quest’espediente del döppelganger è da bollitissima commedia all’italiana? E, se è un Capoccetti a dover dare saggi consigli ai Bambea della classe dirigente, non significherà che la catastrofe è inevitabile?

Da corriere.it il 3 agosto 2022.

Alessandro Di Battista torna ad attaccare l’ex amico e compagno di Movimento: «Luigi Di Maio non ha un voto. Chi conosce il fanciullo di oggi, lo evita. Trasformista, disposto a tutto, arrivista, incline al più turpe compromesso pur di stare nei palazzi», scrive l’ex deputato 5 Stelle che lasciò il M5S in disaccordo sul sostegno al governo Draghi. 

Secondo quanto riporta l’Adnkronos, Di Battista si sarebbe sentito al telefono ieri pomeriggio con il leader M5S Giuseppe Conte, una chiamata «franca e cordiale». Sul tavolo, l’eventuale candidatura di uno dei volti più amati del Movimento della prima ora, che avrebbe chiesto all’ex premier delle garanzie politiche per tornare in campo.

Oggi che quindi non è più tanto remota la possibilità di un suo «ritorno a casa» e dopo la totale disponibilità già annunciata da Conte — «Alessandro Di Battista è una persona seria, assolutamente leale. Ci confronteremo con lui e vedremo se condividerà questo nuovo percorso con queste regole statutarie e questa carta dei principi e dei valori» — «Dibba» scrive un lungo post su Facebook per commentare la decisione del Pd di Enrico Letta di candidare Di Maio nel listone «Democratici e progressisti» in cui troveranno posto tutti gli alleati della coalizione a guida Pd-Azione che altrimenti non riuscirebbero a strappare un seggio con il proporzionale:

«Perché il Pd dovrebbe concedergli il “diritto di tribuna” — sostiene Di Battista —, un modo politicamente corretto per descrivere il solito paracadute sicuro, tipo la Boschi candidata a Bolzano nel 2018? Perché? Che rassicurazioni ha avuto mesi fa, quando portava, insieme a Grillo, il Movimento 5 Stelle tra le braccia di Draghi? Queste sono domande che dovrebbero avanzare i giornalisti. Ma, salvo rare e preziose eccezioni, oggi i giornalisti a Di Maio non chiedon nulla. Lo trattano come Mazzarino nonostante abbia dilapidato un consenso colossale costruito con il sudore della fronte anche (e soprattutto) di persone che non hanno chiesto mai nulla in cambio».

L’antico sodalizio

L’ex deputato— al momento impegnato a scrivere reportage dalla Russia — si chiede perché il leader di Azione Carlo Calenda abbia fatto cadere il veto sul ministro degli Esteri: «Calenda che fino a poche ore fa fingeva attacchi di orticaria al solo sentir pronunciare il nome di Di Maio sta zitto e buono. Ha ottenuto poltrone su poltrone e gli basta così. 

La politica ridotta ad un ufficio di collocamento». Le parole più dure però sono per l’ex capo politico dei 5 Stelle: «Il Di Maio che ricordo io — ai tempi dell’onestà intellettuale o della fraudolenta recitazione — detestava il Pd come null’altro. Oggi, a quanto pare, il suo nome comparirà sotto il simbolo del Pd. Beh, se così fosse vi sarebbe una ragione in più per non votarli e per non avere nulla a che fare con loro. Questa è la politica politicante, ciò che più impedisce il cambiamento, ciò che è più distante dalle esigenze dei cittadini, dai loro drammi. Ciò che più allontana gli italiani dalle urne. Ciò che più indebolisce quel che resta della democrazia». 

Insieme per il futuro e Impegno civico

Il post arriva dopo gli insulti ai fuoriusciti del fondatore e garante M5S Beppe Grillo, che lunedì li aveva «schedati» tutti nell’album delle figurine zombie. Anche Di Battista, come Grillo, prevede «l’estinzione» per la nuova avventura politica di Di Maio: «In tutto ciò qua si “rischia” un rapido decesso anche per “Impegno Civico (per le natiche di Di Maio)”. 

Dopo “Insieme per la Colla Vinilica” (Insieme per il futuro, ndr) un nuovo, fondamentale, strumento per la democrazia, potrebbe scomparire a breve. Complimenti vivissimi a quei 65 fenomeni che gli sono andati dietro nella speranza di un posizionamento. Un po’ come Aldo in “Tre uomini e un gamba” adesso non possono né scendere né salire, né scendere né salire. Ma forse anche per loro c’è un “sentiero”. Tornino dignitosamente alle loro vite evitando di postare foto di Di Maio come fosse uno statista. Uno Statista pensa allo Stato, Di Maio pensa a se stesso».

Il ritorno di Di Battista: "Di Maio, chi lo conosce lo evita". La Repubblica il 3 Agosto 2022.

L'ex esponente 5 stelle attacca su fb: "Trasformista e arrivista. Ha portato, con Grillo, M5s tra le braccia di Draghi"

"Luigi Di Maio non ha un voto. Chi conosce il fanciullo di oggi, lo evita. Trasformista, disposto a tutto, arrivista, incline al più turpe compromesso pur di stare nei palazzi. Perché il Pd dovrebbe concedergli il 'diritto di tribuna', un modo politicamente corretto per descrivere il solito paracadute sicuro, tipo la Boschi candidata a Bolzano nel 2018? Perché?". Lo scrive su Facebook Alessandro Di Battista, tornato in Italia dopo il viaggio in Russia nel quale ha realizzato un reportage del Paese.

"Che rassicurazioni ha avuto mesi fa - continua Di Battista -, quando portava, insieme a Grillo, il Movimento 5 Stelle tra le braccia di Draghi? Queste sono domande che dovrebbero avanzare i giornalisti. Ma, salvo rare e preziose eccezioni, oggi i giornalisti a Di Maio non chiedono nulla. Lo trattano come Mazzarino nonostante abbia dilapidato un consenso colossale costruito con il sudore della fronte anche (e soprattutto) di persone che non hanno chiesto mai nulla in cambio", conclude l'ex parlamentare 5 stelle, a cui ha in qualche modo aperto anche Giuseppe Conte. "Tutti mi chiedono di Alessandro Di Battista, è una persona seria e generosa che ha dato un grande contributo alla vittoria del M5s. Sul suo rientro ne discuteremo, ora c'è un nuovo percorso. Ci confronteremo in modo leale", ha dichiarato il presidente del Movimento.

"Calenda che fino a poche ore fa fingeva attacchi di orticaria al solo sentir pronunciare il nome di Di Maio sta zitto e buono. Ha ottenuto poltrone su poltrone e gli basta così. La politica ridotta ad un ufficio di collocamento. Il Di Maio che ricordo io, ai tempi dell'onestà intellettuale o della fraudolenta recitazione, detestava il Pd come null'altro - ha aggiunto Di Battista -. Oggi, a quanto pare, il suo nome comparirà sotto il simbolo del Pd. Beh, se così fosse vi sarebbe una ragione in più per non votarli e per non avere nulla a che fare con loro. Questa è la politica politicante, ciò che più impedisce il cambiamento, ciò che è più distante dalle esigenze dei cittadini, dai loro drammi. Ciò che più allontana gli italiani dalle urne. Ciò che più indebolisce quel che resta della democrazia".

"In tutto ciò - scrive ancora Di Battista - qua 'si rischia' un rapido decesso anche per "Impegno Civico (per le natiche di Di Maio)". Dopo "Insieme per la Colla Vinilica" un nuovo, fondamentale, strumento per la democrazia, potrebbe scomparire a breve. Complimenti vivissimi a quei 65 fenomeni che gli sono andati dietro nella speranza di un posizionamento. Un pò come Aldo in "Tre uomini e un gamba" adesso non possono né scendere né salire, né scendere né salire. Ma forse anche per loro c'è un "sentiero". Tornino dignitosamente alle loro vite evitando di postare foto di Di Maio come fosse uno statista. Uno Statista pensa allo Stato, Di Maio pensa a se stesso", conclude Di Battista.

 Burrasca 5Stelle, Grillo: «Si passi dagli ardori giovanili alla maturità».  Il Garante interviene dopo la lettera con cui Luigi Di Maio si è dimesso dal comitato di garanzia. Il partito: «Giusto passo indietro, ci ha messo in difficoltà». Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.

Acque sempre più agitate dentro il Movimento cinque stelle. Oggi a sorpresa il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato le sue dimissioni da presidente e membro del comitato di garanzia del Movimento. Lo ha fatto con una lettera inviata al presidente Giuseppe Conte e al garante Beppe Grillo dopo che, nei giorni convulsi per l’elezione del presidente dello Stato, dentro il M5s si era consumato uno scontro sul nome della direttrice del Dis Elisabetta Belloni per il Colle, che aveva portato Conte a parlare di «condotte molto gravi».

Di Maio ha sottolineato come all’interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci. «Tutte le anime, anche chi la pensa in maniera diversa, devono avere spazio e la possibilità di esprimere le proprie idee. Il Movimento è casa nostra ed è fondamentale ascoltare le tante voci esistenti, e mai reprimerle», ha scritto il ministro, denunciando la degenerazione del dibattito in «scissioni, processi, gogne», con le quali si è voluto «screditare la persona».

Poco dopo l’annuncio è intervenuto il Garante del Movimento, Beppe Grillo, pubblicando un post sul suo blog, dal titolo «5 stelle polari». Grillo ha sottolineato come oggi il Movimento sia chiamato «a passare dai suoi ardori giovanili alla sua maturità, senza rinnegare le sue radici ma individuando percorsi più strutturati per realizzarne il disegno». Il fondatore del M5s ha fatto poi riferimento a quali devono essere le cinque stelle polari da ricordare per portare avanti il progetto e le aspirazioni dei pentastellati, «che ricordano le cinque parole chiave delle proposte di Italo Calvino per il nuovo millennio, e che vorremmo oggi realizzare con indicazioni concrete e strutturate»: ovvero leggerezza (riferendosi ad modello sostenibile, di economia circolare), rapidità ( sistema di attuazione delle regole rapido e decentrato), esattezza (un sistema di regole certe e prevedibili), visibilità (assicurare trasparenza e accesso ai dati personali) e molteplicità (estendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni della politica e rafforzare la democrazia partecipativa diretta). Le proposte di Grillo riguardano l’estensione dei referendum consultivi, per esempio come avviene in Svizzera da decenni; la rotazione o limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione; il coinvolgimento dei percettori di ammortizzatori sociali in attività di utilità sociale.

Alla riflessione di Grillo è seguita quindi una nota del Movimento, che ha invitato a concentrarsi «progetti e programmi». «Il giusto e dovuto passo indietro di Luigi Di Maio rispetto al suo ruolo nel Comitato di garanzia costituisce un elemento di chiarimento necessario nella vita del Movimento rispetto alle gravi difficoltà a cui ha esposto la nostra comunità, che merita un momento di spiegazione in totale trasparenza», si legge nella nota M5S. «Il confronto delle idee e la pluralità delle opinioni – si legge nella nota del Movimento – non è mai stata in discussione. Questo però non significherà mai permettere che i nostri impegni con gli iscritti e con i cittadini siano compromessi da percorsi divisivi e personali, da tattiche di logoramento che minano l’unità e la medesima forza politica del Movimento» 

«Basta scissioni, processi e gogne. Mi dimetto». Di Maio scrive a Grillo e Conte. Luigi Di Maio lascia il comitato di garanzia del M5s. La lettera: «Penso che all’interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci». Il partito: «Giusto passo indietro». Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.

Luigi Di Maio si dimette dal comitato di garanzia del M5s e scrive al presidente Giuseppe Conte e al garante Beppe Grillo. Una lettera, visionata dall’Adnkronos, in cui si invita ad ascoltare le diverse anime del movimento e ad aprirsi a un confronto «che ci permetta davvero di rilanciare il nuovo corso del Movimento 5 Stelle».

«Sono state giornate intense – è l’incipit della lettera – L’elezione del Presidente della Repubblica è un momento importante per la democrazia parlamentare, un momento in cui viene fatta una scelta che segna la storia della Repubblica per i successivi sette anni. Dopo la rielezione del presidente Sergio Mattarella, ho proposto di avviare una riflessione interna al Movimento. Penso che all’interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci. Tutte le anime, anche chi la pensa in maniera diversa, devono avere spazio e la possibilità di esprimere le proprie idee. E lo dico perché anche io in passato ho commesso degli errori su questo aspetto, errori che devono farci crescere e maturare. Sarebbe sbagliato, invece, fare passi indietro».

«Tutti avranno notato – prosegue Di Maio – che in questi giorni il dibattito interno è degenerato, si è iniziato a parlare di scissioni, processi, gogne. Si è provato a colpire e screditare la persona. Mi ha sorpreso, anche perché è proprio il nuovo statuto del Movimento che mette l’accento sul rispetto della persona.  Ho apprezzato molto il tentativo di chi in questi giorni, a partire dai capigruppo e da Beppe Grillo, ha provato a favorire un dialogo sereno e super partes, tra diverse linee di pensiero. Continuo a pensare che sia fondamentale confrontarsi dentro il Movimento, perché il Movimento è casa nostra, ed è fondamentale ascoltare le tante voci esistenti, e mai reprimerle».

«Io sarò tra le voci che sono pronte a sostenere il nuovo corso, mantenendo la libertà di alzare la mano e dire cosa non va bene e cosa andrebbe migliorato – rivendica Di Maio – Qui si vince o si perde tutti insieme, perché siamo una comunità che si basa sulla pluralità di idee, soprattutto in questo momento difficile per il Movimento 5 Stelle, che deve però riuscire a trovare le soluzioni per difendere la dignità dei cittadini e sostenere il mondo produttivo ancora alle prese con la pandemia. Spetta poi al presidente fare la sintesi e tracciare la strada da seguire. Ma l’ascolto è importantissimo».

«Mi rendo conto – prosegue il ministro degli Esteri – che per esprimere queste idee, seppur in maniera propositiva e costruttiva, non posso ricoprire ruoli di garanzia all’interno del Movimento. Non lo ritengo corretto. Per questo motivo, ho deciso di dimettermi da presidente e membro del Comitato di Garanzia del MoVimento 5 Stelle. Ringrazio gli iscritti che mi avevano votato ed eletto, ringrazio Virginia e Roberto che mi avevano votato presidente, ringrazio Beppe per la fiducia nell’avermi indicato nella rosa dei potenziali membri del Comitato. Ho preso questa decisione perché voglio continuare a dare il mio contributo, portando avanti idee e proposte. Voglio dare il mio contributo sui contenuti, voglio continuare a fare in modo che si generi un dibattito positivo e franco all’interno della nostra comunità. Un confronto che ci permetta davvero di rilanciare il nuovo corso del Movimento 5 Stelle. Se rimaniamo uniti, con le idee di tutti, torneremo a essere determinanti. Grazie a tutti per l’affetto e viva il Movimento», conclude Di Maio.

«Il giusto e dovuto passo indietro di Luigi Di Maio rispetto al suo ruolo nel Comitato di garanzia costituisce un elemento di chiarimento necessario nella vita del Movimento rispetto alle gravi difficoltà a cui ha esposto la nostra comunità, che merita un momento di spiegazione in totale trasparenza», replica dopo qualche ora il partito. «Il confronto delle idee e la pluralità delle opinioni – si legge nella nota del Movimento – non è mai stata in discussione. Questo però non significherà mai permettere che i nostri impegni con gli iscritti e con i cittadini siano compromessi da percorsi divisivi e personali, da tattiche di logoramento che minano l’unità e la medesima forza politica del Movimento. Adesso è il momento di concentrarsi su progetti e programmi, come ci viene suggerito proprio oggi da Beppe Grillo con una riflessione ispirata alle Lezioni americane di Italo Calvino».

Lo strappo di Di Maio: "Sono stato screditato, mi dimetto da garante". E Grillo rifonda M5s: "Limiti alle cariche". Domenico Di Sanzo il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L’ex capo politico accusa Conte per gli attacchi personali e spiazza tutti: se voglio dire che cosa non mi va, devo lasciare quell’incarico. La replica dei vertici: ci ha messi in difficoltà. Il comico richiama il Movimento alla "maturità". 

Non è uno strappo, né una ricucitura. È un rilancio. Luigi Di Maio gioca d'anticipo, prevede le mosse di Giuseppe Conte e annuncia le sue dimissioni da componente del Comitato di garanzia del M5s. Il leader del nuovo corso avrebbe preferito dare le carte, costringere il ministro al passo indietro dopo una bella ramanzina in pubblico, davanti agli iscritti. Non in punta di Statuto, ma facendolo battere in ritirata sull'onda dell'indignazione della base. E invece Di Maio sorprende tutti. Scrive una lettera indirizzata a Conte e a Beppe Grillo. Spiega i motivi alla base della sua scelta. Non una scissione, dunque. Ma l'inizio di quel «confronto interno» che, c'è da scommettere, durerà più dello spazio di un'assemblea in streaming. Almeno fino alle elezioni politiche del 2023, passando per le amministrative di primavera. L'ex capo politico attacca Conte: «Il dibattito è degenerato, si è iniziato a parlare di scissioni, processi, gogne. Si è provato a screditare la persona». Il bersaglio è il presidente del M5s, che si prepara a convocare l'assemblea pubblica la settimana prossima. Un confronto aperto a militanti e parlamentari, che però a questo punto potrebbe diventare l'ennesimo sfogatoio. Complesso procedere a un'espulsione per correntismo, bruciata la carta della cacciata dal terzetto dei garanti. Anzi, Di Maio rivendica la possibilità di «dare un contributo, portando avanti idee e proposte». È un passo indietro, ma anche un passo avanti: «Mi rendo conto che per esprimere queste idee, seppur in maniera propositiva e costruttiva, non posso ricoprire ruoli di garanzia all'interno del Movimento». Insomma, Di Maio vuole tenersi le mani libere. Il ministro vuole mantenere «la libertà di alzare la mano e dire cosa non va bene». L'ex capo politico respinge le sirene centriste e dice: «Il M5s è la mia casa».

Dal punto di vista del ministro si tratta di un'operazione win win. Sarà libero dai lacci di un ruolo super partes e nel Comitato di garanzia lascia Virginia Raggi e Roberto Fico che non gli sono ostili. Conte insiste per avere una legittimazione con un voto della base sul suo operato. Ma l'ex premier è spiazzato. I vertici del partito in una nota parlano di «passo indietro giusto e dovuto». Nella gelida replica il gruppo dirigente va all'attacco di chi «ha esposto la nostra comunità a gravi difficoltà». Interviene anche Beppe Grillo. In un post sul blog dal titolo 5 Stelle polari guarda al passato, anche se dice che il M5s «deve passare dagli ardori giovanili alla maturità». Grillo ricicla cavalli di battaglia storici. Dall'estensione dei referendum al whistleblowing fino all'economia circolare. Poi rispolvera il limite al doppio mandato parlando di «rotazione o limiti alla durata delle cariche». I contiani ci vedono una stoccata a Di Maio, che se venisse confermato il tetto non potrebbe ricandidarsi. I parlamentari di tutte le correnti sono preoccupati per le loro chances di ricandidatura. Nei gruppi si tifa per la pace. «Con questi litigi perderemo ancora più consensi, a partire dalle comunali a primavera», dice al Giornale un parlamentare. E Grillo? «Si è rotto le scatole, spera che si chiuda questa lite», dice chi gli ha parlato. Deputati e senatori autonomi sono sbandati e i tanti che sperano in una tregua auspicano anche un rimpasto delle cariche interne. Ritocchi ai vicepresidenti e ai componenti dei comitati, ma Di Maio cerca di frenare le ambizioni dei delusi e si riprende la scena. Domenico Di Sanzo

IL CAOS NEL M5S. Il Movimento risponde a Di Maio: le sue dimissioni sono un «atto dovuto». Il Domani il 05 febbraio 2022. 

Il ministro degli Esteri annuncia il ritiro dal comitato di garanzia del Movimento. Beppe Grillo risponde sul suo blog e il movimento, in una nota, chiede di non permettere che gli impegni presi con gli iscritti vengano compromessi da «percorsi personali e divisivi»

Caro nemico, ti scrivo così mi distraggo un po’. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha deciso di scrivere una lettera pubblica a Beppe Grillo e Giuseppe Conte dopo la contrapposizione aperta sulla vicenda Quirinale. Nella lettera Di Maio ha annunciato le dimissioni dal comitato di garanzia del Movimento cinque stelle per avere la possibilità di esprimere le sue idee anche in dissenso quindi dal capo politico.

Beppe Grillo, che ricopre il ruolo di garante all’interno del movimento, è intervenuto sul suo blog chiedendo che la «rivoluzione democratica» passi «dai suoi ardori giovanili alla sua maturità». Tra le cinque priorità da realizzare, scrive Grillo, la «rotazione o limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione». Eventualità che porterebbe Di Maio e la maggior parte dei suoi fuori dai giochi.  

PLURALITÀ DI IDEE

Nel suo messaggio Di Maio dice che spetta al presidente fare la sintesi delle diverse posizioni, ma rivendica la necessità di confronto: «Io sarò tra le voci che sono pronte a sostenere il nuovo corso, mantenendo la libertà di alzare la mano e dire cosa non va bene e cosa andrebbe migliorato. Qui si vince o si perde tutti insieme, perché siamo una comunità che si basa sulla pluralità di idee, soprattutto in questo momento difficile per il Movimento cinque Stelle, che deve però riuscire a trovare le soluzioni per difendere la dignità dei cittadini e sostenere il mondo produttivo ancora alle prese con la pandemia». 

Ma secondo il movimento «il confronto delle idee e la pluralità delle opinioni» non sono mai stati in discussione. Anche se ciò non significa dare spazio a «percorsi divisivi e personali», «tattiche di logoramento che minano l’unità e la medesima forza politica» del M5s. 

LE DIMISSIONI

«Mi rendo conto», scrive il ministro degli Esteri motivando la scelta delle dimissioni, «che per esprimere queste idee, seppur in maniera propositiva e costruttiva, non posso ricoprire ruoli di garanzia all'interno del Movimento». Seguono i ringraziamenti agli iscritti ma anche a «Beppe per la fiducia nell'avermi indicato nella rosa dei potenziali membri del Comitato». 

Di Maio ricopriva l’incarico di presidente all’interno del comitato di garanzia, organo che «sovrintende alla corretta applicazione delle disposizioni dello statuto», come si legge nel documento alla base dell’organizzazione del movimento. Gli altri due membri sono Virginia Raggi e Roberto Fico. 

Veleni, veline e processi. Il mese dei lunghi coltelli. Domenico Di Sanzo il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Dalla guerra delle notizie alle accuse a Fraccaro al caso Belloni, per i 5s un gennaio sull'ottovolante. Fuochi che covavano sotto la cenere, rivalità nascoste da cortesie di facciata, ambizioni contrapposte, ego in convivenza forzata. La sensazione è che prima o poi doveva succedere. E la lunga partita che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale è stata solo la scintilla che fatto detonare la bomba nel M5s. Oppure la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Con Beppe Grillo alle prese con i guai giudiziari del figlio Ciro e, da ultimo, con l'inchiesta della Procura di Milano sul caso Moby-Onorato, i duellanti del Movimento hanno vissuto un mese sull'ottovolante. In un susseguirsi di giornate in cui gli osservatori hanno fatto fatica a distinguere la dialettica politica dall'acredine personale. Quello che era il monolite di Grillo e Gianroberto Casaleggio sta assumendo sempre più le sembianze di un mostro dalle mille teste, ingovernabile e scosso da nevrosi difficili da diagnosticare. E allora tutti sulle montagne russe. Il grande equivoco che scompagina il grillismo è il Quirinale. Giuseppe Conte passa da un sì a Mario Draghi al Colle coltivando la speranza del voto anticipato a una posizione da scheggia impazzita. Luigi Di Maio tiene la stabilità come bussola e comincia ad accarezzare l'idea di un premier che diventa capo dello Stato. In mezzo le pedine che poi si sono rivelate determinanti. Quei 233 parlamentari orfani di una linea che hanno forzato sul bis di Mattarella.

Il mese del big bang inizia il 3 gennaio. Quando i senatori pentastellati si riuniscono su Zoom e chiedono di rieleggere l'attuale presidente della Repubblica. Tutti sanno che sarebbe la soluzione più facile per congelare governo e legislatura, eppure un mese fa a dirlo è solo un bel gruppo di eletti del M5s a Palazzo Madama. Il ministro degli Esteri rimane in silenzio, Conte sbanda, non fa nomi e tranquillizza la truppa: «Il governo deve andare avanti». La confusione diventa psicotica dopo il vertice del 19 gennaio con Enrico Letta e Roberto Speranza a casa del capo grillino. I giallorossi si esibiscono con tre tweet fotocopia a ostentare compattezza. Poi parte una velina in cui fonti del M5s escludono perentoriamente l'approdo di Draghi al Colle. Dimaiani e contiani si accusano a vicenda di voler intorbidare la acque. Lo spettacolo ha un epilogo poco edificante. Arriva un'altra velina anonima che smentisce quella precedente: «Non abbiamo fatto nomi».

Il resto è storia recentissima. Nel vivo del risiko quirinalizio Riccardo Fraccaro finisce al centro dei sospetti per presunte promesse di pacchetti di voti a Matteo Salvini su Giulio Tremonti. Conte viene tacciato di flirtare con il segretario della Lega, in una riedizione dell'esperienza gialloverde. Prima Franco Frattini e poi Elisabetta Casellati sono la pietra dello scandalo nella guerra tra bande. Ancora note anonime che sbugiardano quelle diffuse pochi minuti prima. Il conflitto diventa a viso aperto sull'altra Elisabetta, Belloni. «Il casus Belloni dello scontro tra Giuseppe e Luigi», ci scherzano su i parlamentari. Conte tira fuori dal cilindro il capo dei servizi segreti e adesso giura che l'idea era condivisa sia con Letta sia con Di Maio. Ciò che accade nella notte tra venerdì 28 e sabato 29 gennaio è un giallo. Si dice che il ministro degli Esteri abbia bloccato la candidatura di Belloni in tandem con il titolare della Difesa Lorenzo Guerini. La trattativa per eleggere il capo dello Stato si incarta tra le perfidie degli stellati. Con Conte che cerca di portare Grillo dalla sua parte e lo convince a fare un tweet. «Beppe, è fatta avremo la prima presidente donna!». Il comico twitta controvoglia e scatena il pandemonio. Di Maio si adira per il metodo con cui si bruciano i nomi. I buoi sono scappati dalla stalla. Sabato 29 il titolare della Farnesina parla circondato dai suoi e chiede chiarimenti interni. Stessa richiesta avanzata da Conte qualche ora prima. E ora - anche se dovesse scoppiare la pace - nulla sarà più come prima. Domenico Di Sanzo 

Tutti i segreti sulla guerra Conte-Di Maio. Francesco Curridori il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Luigi Di Maio e Giuseppe Conte sono pronti alla resa dei conti per il contollo del M5S. I grillini si schierano. Ecco chi sta con chi.

Luigi Di Maio e Giuseppe Conte sono ai ferri corti. Ognuno pretende chiarimenti all'altro ed entrambi hanno già schierato le truppe in vista della battaglia finale per la guida del M5S.

Da una parte il ministro degli Esteri che, secondo i contiani, avrebbe lavorato per affossare la candidatura del capo del Dis, Elisabetta Belloni, alla presidenza della Repubblica. Un'accusa smentita dal pranzo di lavoro avuto di recente sui profili social del titolare della Farnesina. I dimaiani, invece, accusano i sostenitore di Giuseppe Conte di aver innescato una campagna social contro il loro leader che, al momento, controlla il maggior numero di parlamentari. Tra Camera e Senato, i fedelissimi di Di Maio sono una 50ina, molti al secondo mandato ma sono molti anche tra coloro che sono alla esperienza in Parlamento. In questa corrente vi sono tutti coloro che pensano si debba stare al governo per far valere le proprie idee. I contiani, invece, sono una 40ina. Si tratta, prevalentemente, di parlamentari al primo mandato che stanno pressando il loro leader per convincerlo a non dare troppe deroghe per la rielezione dei big che non approvano il nuovo corso. Infine ci sono tanti peones che rappresentano la corrente più vasta, composta da parlamentari che non parlano e che si schierano a seconda della convenienza del momento. I 'fichiani', ossia i parlamentari vicini al presidente della Camera, Roberto Fico, hanno abbracciato tutti la causa giallorossa e, perciò, almeno per il momento, si possono annoverare tra coloro che sono vicini a Conte.

Quirinale, Di Maio ora vede la Belloni e la Raggi

Sembrano, invece, essere spariti gli ammiratori di Alessandro Di Battista, transumati per buona parte nel gruppo misto o in Alternativa C'è. 'Dibba', secondo quanto risulta a ilGiornale.it, sarebbe odiato praticamente da tutti, tranne forse da Conte a cui si sta riavvicinando per far cadere il governo Draghi. Le ex prime cittadine di Roma e Milano, Virginia Raggi e Chiara Appendino, infine, sostengono apertamente Di Maio. Gli ammiratori di Conte che, attualmente, si trovano fuori del 'Palazzo' sono l'anti-draghiano Massimo D'Alema, Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini, sebbene quest'ultimo si recente abbia sostenuto che sia più bravo come leader di governo che capo di un partito. Tra i leader di partito è indubbio che Matteo Renzi abbia sicuramente una considerazione maggiore di Di Maio rispetto che al leader Conte. Ma, il titolare della Farnesina gode di ottimi rapporti anche tra i centristi.

I posizionamenti dentro il governo

Nel governo, tra i dimaiani troviamo Fabiana Dadone, ministro delle Politiche giovanili, Laura Castelli, viceministro all'Economia, il fedelissimo Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Affari Esteri, Dalila Nesci, sottosegretaria per il Sud. Dalla parte di Conte, invece, si schiera Federico D'Incà, titolare del dicastero dei Rapporti col Parlamento, Stefano Patuanelli, ministro per le Politiche agricole, e Alessandra Todde, viceministro allo Sviluppo Economico e vicepresidente del M5S. Un altro vice di Conte è Mario Turco, sottosegretario alla Programmazione economica e agli Investimenti. Anche il sottosegretario della Salute, Pierpaolo Sileri è annoverabile tra le file contiane. Luigi Di Maio, dentro la compagine di governo, gode di un ottimo rapporto con i ministri Lorenzo Guerini, Giancarlo Giorgetti (con cui va a mangiare la pizza almeno una volta al mese) e Renato Brunetta che lo ha definito “un vero leader, intelligente e preparato. Conte, d'altra parte, è stimato (sempre meno) solo da una parte del Pd e da Roberto Speranza.

Le truppe in Parlamento

In Parlamento Conte può godere ovviamente del vicepresidente del Senato, Paola Taverna, che ha recentemente nominato sua vicaria. Gli altri due esponenti che appartengono al team dei 'magnifici 5' sono Riccardo Ricciardi, ex vicecapogruppo alla Camera e il deputato Michele Gubitosa. Il presidente della commissione Affari costituzionali, Giuseppe Brescia, è un contiano doc così come Ettore Licheri, il grande sconfitto nella battaglia per il ruolo di capogruppo al Senato, assemblea che fino a pochi mesi fa sembrava saldamente in mano del nuovo leader del M5S. Alla Camera troviamo l'ex ministro Lucia Azzolina che, per quanto delusa dall'essere stata escluse dalle ultime nomine, possiamo continuare ad annoverare tra le fila dei contiani così come Vittoria Baldino, la deputata che l'ex premier avrebbe voluto promuovere a capogruppo. Un altro in corsa per assumere quel ruolo era l'ex ministro Alfonso Bonafede, colui che propose Conte come premier del governo gialloverde. A Palazzo Madama, invece, restano fedeli al leader M5S l'ex reggente Vito Crimi e l'ex ministro del Lavoro Nunzia Catalfo.

Più nutrite le truppe dimaiane a cui appartengono i due capigruppo di Camera e Senato, Davide Crippa e Mariolina Castellone. A Palazzo Montecitorio, ci sono il fedelissimo presidente della Commissione Affari Europei Sergio Battelli, il questore Francesco D'uva, l'ex ministro dello Sport Vincenzo Spadafora. l'ex viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni e l'ex sottosegretario di Stato Riccardo Fraccaro. A Palazzo Madama, i 'dimaiani' più noti sono Primo Di Nicola, Vincenzo Presutto e Daniele Pesco.

Le sponde fuori 'dal Palazzo'

Conte, una lasciato Palazzo Chigi, si è ritrovato sempre più solo. Accanto a lui, certo, resta il portavoce Rocco Casalino, ma il 'cerchio magico contiano' non esiste più. Draghi, una volta insediatosi, ha sostituito 'super-commissario' Domenico Arcuri (che resta però alla guida di Invitalia), il capo della protezione civile Angelo Borrelli e Gennaro Vecchione, ex capo del Dis. A dirigere Raiuno non c'è più Giuseppe Carboni e l'esclusione del M5S da tutti posti di comando nella tivù di Stato ha provocato la dura reazione di Conte che ha proibito ai parlamentari pentastellati di partecipare alle trasmissioni e ai tiggì Rai. L'ex premier, a piazza Mazzini, può contare solo sul professore Alessandro Di Majo, membro del Cda Rai.

In compenso, come ha ricordato recentemente Francesco Boezi sul Giornale, a Conte è rimasto più di qualche amico in Vaticano. In primis, monsignor Claudio Celli, presidente della Fondazione Comunità Domenico Tardini Onlus, cioè Villa Nazareth, il collegio in cui Conte ha trascorso gli anni universitari. Il segretario di Stato Pietro Parolin è un interlocutore del leader del M5S così come padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica e, come rivela Il Messaggero, monsignor Giancarlo Bregantin. Luigi Di Maio, invece, ha un buon feeling con Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant'Egidio che i giallorossi avrebbero voluto eleggere presidente della Repubblica. Di Maio, dal canto suo, ha ovviamente sfruttato questi anni trascorsi al ministero degli Esteri per crearsi una rete di appoggi internazionali, grazie soprattutto allo staff di uomini e donne che lavorano per lui alla Farnesina. 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 6 febbraio 2022.  

Riccardo Ricciardi, vicepresidente del M5S […] 

Di Maio chiede più democrazia interna.

«Ma il nuovo corso è fatto di pluralismo. Non ci sono più cerchi magici. Con il vecchio corso, quando Di Maio era capo politico, non era così. E di problemi di democrazia interna ce n'erano. Chieda a un nostro parlamentare se Di Maio ha mai discusso con i gruppi i temi chiave. Anche per un aspetto così delicato come la presidenza della Repubblica, invece, sono stati coinvolti 14 esponenti del M5S, tutti titolati a esserci, dai ministri ai capigruppo. Più condivisione di così è difficile».

Oltre a Fico, nel comitato dei garanti resta Raggi. Una no vax che chiede le dimissioni del vostro sottosegretario Sileri.

«Io difendo il lavoro di Pierpaolo, è in prima linea da 2 anni. Raggi come qualsiasi iscritto può aprire un dibattito, è sempre aperto». […] 

[…] Quando deciderete sul doppio mandato? Grillo ieri ha usato termini vaghi: non più 2, ipotesi di "rotazioni".

«La decisione va presa con gli iscritti. Ma nel nuovo corso, non ci saranno quesiti in cui per dire no, devi cliccare sì. Sarà tutto chiaro».

Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti per “la Stampa” il 6 febbraio 2022.

Il senatore Mario Turco è uno dei cinque vicepresidenti del Movimento Cinque stelle. Dopo le dimissioni di Luigi Di Maio dal comitato di garanzia del M5S, chiede «rispetto» per Giuseppe Conte: «È lui il vero leader». 

Beppe Grillo parla di ardori giovanili, percorsi divisivi...

«Se ci sono state delle dimissioni una motivazione ci deve essere. […] Il chiarimento deve servire per rafforzare la linea politica del presidente Conte[…]». 

«[…]Durante il Quirinale la nostra strategia è stata forte e lineare. Abbiamo chiesto la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi, abbiamo evitato candidati non accettabili, abbiamo spinto forte su una svolta storica: una candidatura femminile di valore, ma qui dopo una iniziale apertura vi è stato un blocco trasversale. Saggiamente abbiamo fatto crescere l'opzione di riserva Mattarella, che è stata poi quella vincente».

«[…] Credo che a Di Maio sia mancato senso di unità e rispetto dei ruoli». 

Conte è in difficoltà?

«[…] Conte, […] ha oltre il 90% della base che sostiene la sua leadership. È lui il vero leader». […] 

Cosa vorrebbe dire al ministro Di Maio?

«Non mi permetto di raccomandare nulla al ministro di Maio, tranne un maggior rispetto verso la linea politica e gli organi che governano il Movimento Cinque stelle che vengono prima di ogni personalismo».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 6 febbraio 2022.

[…] con le uscite allo scoperto di Conte, Di Maio e Grillo si parla della vera posta in gioco: non una lite di comari o di galli nel pollaio, né una guerra per la leadership; ma un dissidio politico sul draghismo. Di Maio non vuole cacciare Conte otto mesi dopo aver contribuito a incoronarlo, né prendere il suo posto (fuggì dopo tre anni, spossato dagli impegni ministeriali e dalle liti interne): da quel che si intuisce, vuole dirottare la nave verso la stella polare Draghi perché la ritiene irrinunciabile per i prossimi anni e, se non ci riesce, farsi una corrente nel M5S o traslocare altrove, ma sempre all'ombra del premier (infatti ha fatto di tutto per portarlo al Quirinale).

Conte non vuole (purtroppo) uscire dal governo, ma lo considera una parentesi emergenziale da sopportare per limitarne i danni dall'interno e chiudere a fine legislatura per tornare alla politica (infatti ha sbarrato a Draghi la via del Colle). Perciò Conte piace alla base: perché appare molto più "grillino" di Di Maio. 

Basta leggere l'ultimo post di Grillo, che ritrova lucidità e indica obiettivi incompatibili col draghismo. […] Siccome il governo Draghi è nato anzitutto per spazzare via i 5Stelle, questi non possono sostenerlo per altri 12 mesi solo per difendere le cose fatte, ma a patto di ottenerne di nuove: salario minimo, nuovi ristori, aiuti contro il caro bollette, no al nucleare, nessuna scappatoia per i boss al 41-bis. Qui si parrà la nobilitate dei 5Stelle, di Conte e di Di Maio. Sempreché non sia già diventato Di Mario.

Le idi Di Maio e i grillini a pezzi. Francesco Maria Del Vigo il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Con un mese abbondante di anticipo sul calendario sono arrivate le Idi di Maio. 

Con un mese abbondante di anticipo sul calendario sono arrivate le Idi di Maio. Per carità, il ministro degli Esteri non è Giulio Cesare e, per fortuna, non lo ha accoltellato nessuno, ma quello che è successo ieri è sicuramente uno spartiacque nella storia dei 5 Stelle. E la congiura nei confronti dell'ambizioso grillino è più che un'ombra. Luigi Di Maio si è dimesso dal comitato di Garanzia del Movimento. Sia chiaro: fino a ieri la maggior parte degli italiani non aveva neppure idea dell'esistenza di questo organo interno ai pentastellati e viveva ugualmente bene. Ma questa decisione impatta inevitabilmente sulla geografia politica italiana, non si può derubricare a bega di partito. Quella dell'inquilino della Farnesina è una scelta obbligata, se non lo avesse fatto lui glielo avrebbe chiesto Giuseppe Conte. Che, non a caso, ha accolto con grande favore questa scelta. Ma la mossa di Di Maio è, di fatto, il primo passo verso l'addio al Movimento del quale è stato leader. Abbandono forzato, stretto nella tenaglia tra le ambizioni smodate dell'ex premier e l'immobilismo conservatore del padre padrone Beppe Grillo. Di Maio andava bene ai Cinque Stelle quando era il ragazzo di bottega, l'ex steward dello stadio San Paolo paracadutato nei palazzi del potere. Con le sue ingenuità e le sue inesperienze. Ora che si è strutturato, ora che ha tessuto una trama trasversale di rapporti, ora che ha imparato a conoscere anche le retrovie del Palazzo non va più bene. Troppo sveglio e quindi troppo pericoloso. È un po' come dire a un pilota di aerei di linea: hai fatto troppo ore di volo, lascia la cloche a qualche incapace, così ci schiantiamo meglio. Una follia, il rovesciamento della meritocrazia, ma tutto sommato coerente con la filosofia grillina dell'uno vale e uno e di conseguenza tutti non valgono nulla.

Il divorzio tra il ministro degli Esteri e i papaveri del partito, come in una coppia vip, si consuma a colpi di lettere pubbliche, note di agenzia e post sul blog. Sono mesi che sotto il coperchio della pentola grillina cuociono pezzi di una storia che ormai si è divaricata, che non può più stare insieme. «Penso che all'interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci. Tutte le anime, anche chi la pensa in maniera diversa, devono avere spazio e la possibilità di esprimere le proprie idee», sibila Di Maio svelando quello che sapevano tutti. Cioè che dalle parti dei Cinque Stelle non è ammesso il dissenso e c'è una marcata allergia nei confronti di chi osa intraprendere un cammino che abbia un minimo di autonomia.

La risposta di Grillo arriva poco dopo con un lungo e fumoso articolo pubblicato sul suo blog. Un pizzino interminabile, in cui Di Maio non viene mai citato ma è presente in ogni parola. Grillo ribalta il tavolo e la frittata, vagheggia un rilancio di un Movimento agonizzante - ai minimi nei sondaggi - e delinea un nuovo significato per le cinque stelle, senza accorgersi che ormai sono precipitate al suolo. È come se Grillo, sprofondato nel divano della sua villa genovese, si fosse improvvisamente accorto che gli si sono scaricate le pile del telecomando. Schiaccia i pulsanti, ma dall'altra parte, a Roma, non risponde più nessuno. Perso il segnale. Il generale è rimasto senza soldatini. Luigi Di Maio, dopo mesi di logoramento, ha spento il ricevitore. Fine delle trasmissioni. Risponde solo Conte, che non avendo nulla da perdere, ha la speranza di aver qualcosa da guadagnare. Siamo alla resa dei conti finale e, come nella saga di Highlander, ne rimarrà uno solo: il peggiore. Quelli che sanno fare qualcosa, ormai è chiaro, li fanno scappare.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

·        Alessandro Di Battista.

Da liberoquotidiano.it il 10 novembre 2022.

Un amore ballerino, che ormai fa parte del passato. Alessandro Di Battista, ex parlamentare del Movimento 5 stelle, racconta a Belve la sua partecipazione ad Amici.  "Ho partecipato ad Amici e ballato con la Brescia, ma non mi presero", dice nel corso dell'intervista. Un passato che fa parte della sua vita e che non rinnega.

Nel corso di Belve parla di tutto: aneddoti politici, vita privata e tanto altro ancora. “Agli Stati Generali prendo il triplo dei voti di Di Maio, ma non vengono pubblicati, volutamente. Furono i miei ex colleghi a cercare in ogni modo di evitare che Di Battista diventasse il capo politico, con l’idea: ‘noi eleggiamo Conte così Conte sistema Di Battista e poi noi controlliamo Conte’. Invece è stato Conte a far fuori loro”, racconta l'ex deputato.

Ora Di Battista ha lasciato la politica. Stop. La conduttrice gli dice: “Cercato da tutti, anche da Fratelli d’Italia (…) tranne il PD e Forza Italia”. “Come mai non ha fondato un suo movimento politico? Gli è mancato il coraggio?”, chiede. E lui risponde: “Non si tratta di paura, se non costruisci adeguatamente dal basso, poi fai la fine di tante liste che hanno preso l’1%”.

Nel 2018 l'ex grillino decide di non candidarsi, facendo un passo indietro. “Quando tu esci, poi difficilmente ti fanno rientrare. Portavo mio figlio in piscina e passavo sotto alla Farnesina, sapevo che c’era Luigi Di Maio e c’era una parte di me che rosicava, lì ci sarei potuto essere io, poi passa il tempo e quando tu capisci che hai seminato riconosci che alcune scelte che ti penalizzano da un lato, ti premiano dall’altro”, spiega.

"Esperto di nulla", "Spara boiate". Scoppia la rivolta contro Di Battista. Massimo Balsamo il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale.

L'ex pasionario grillino è ormai ospite fisso a "Di Martedì". Su Twitter è bufera su Floris: "Perché dà tutta questa visibilità a chi non ha competenze?"

Sparare a zero sul suo ex Movimento 5 Stelle, raccontare la sua visione della crisi in Ucraina e litigare anche con le sedie. Reduce dal viaggio-reportage-inchiesta in Russia, Alessandro Di Battista è diventato ormai ospite fisso di Di Martedì, il talk show politico condotto da Giovanni Floris e in onda su La7. La sua presenza però non entusiasma il popolo della rete, a partire dai fedelissimi del programma.

Di Battista nel mirino della rete

Anche nell’ultima puntata di Di Martedì l’ex pasionario grillino ha dato il suo meglio.“Da mesi alcuni politici raccontano cazzate sulla crisi in Ucraina”, il suo j’accuse. Poi l’affondo contro la Meloni: "Tanti l'hanno votata pensando che sarebbe stata una politica di rottura, invece oggi per me è l'esempio del conformismo. Si mette in scia, sull'attenti, portando avanti una strategia fallimentare sull'Ucraina". E così via, tra teorie singolari e risse con gli altri ospiti.

"Mi sta dando del pupazzo prezzolato?". Dibba si scalda, Tabacci lo gela: "Stia calmo"

Ma l’esuberanza di Dibba non piace a tutti. Anzi, non piace a quasi tutti. Su Twitter sono comparsi decine di post contro l’ex parlamentare pentastellato. C’è chi ha acceso i riflettori sul suo curriculum piuttosto scarno e chi ha biasimato senza mezzi termini le sue presunte posizioni filo-russe. Ecco una carrellata di invettive: “Un Paese in cui Di Battista sentenzia in tv è in piena bancarotta intellettuale”, “Esperto del nulla, sputa facili sentenze che interessano solamente a quelli come lui”, “Perché dare ancora voce a un individuo così vanesio vuoto e rancoroso”.

Floris travolto dalle polemiche

Di Battista ma non solo. Molti utenti hanno messo nel mirino anche chi lo invita regolarmente, ovvero Giovanni Floris. In molti si chiedono a che titolo ogni martedì La7 dia un pulpito all’ex grillino da cui sproloquiare, soprattutto perché si parla di “una persona che non ha mai fatto nulla di serio nella vita”. Tranchant tal Matteo Winkler: “Un giorno i libri di storia contemporanea si interrogheranno sulle ragioni che hanno portato Alessandro Di Battista ad avere tutta questa visibilità mediatica”.

Alessandro Di Battista, vuol fare il Che ma... è Sora Camilla. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 21 agosto 2022

C'è un grillo sparlante che si aggira fuori dalla politica. Dell'originale, il Grillo fondatore, ha l'arroganza impunita e la parlantina, ma non il genio e neppure il carisma. Infatti, anche se nei salotti televisivi ci prova in ogni modo a sembrare un duro, basta interromperne la cantilena per capire che è lui il primo a non credere del tutto in se stesso. Cinque anni fa mostrò le palle, bisogna riconoscerlo, e non si ricandidò in Parlamento perché le regole della casa pentastellata prevedevano, e ancora prevedono, malgrado i goffi tentativi di Conte, il tetto ai due mandati. Decise di rimanere fermo un giro. Si è preso un lustro sabbatico, speso a bighellonare per il mondo e scribacchiare qua e là senza particolare costrutto e senza lasciare traccia. Ora che è arrivato il momento di raccogliere i frutti della rinuncia e provare a mettere in pratica i tanti teoremi esposti e gli insegnamenti della vita raccolti su un autobus del Guatemala, alla riunione dei genitori dell'asilo, nel backstage di uno studio di registrazione, cazzeggiando con chi gli aggiusta lo scooter o studiando la vita di Bolivar su Wikipedia, ha deciso di aspettare ancora.

SOLO CHIACCHIERE

Alessandro Di Battista è così, un presenzialista delle parole e un assenteista dei fatti. In allenamento fa il fenomeno, quando arriva l'ora giocare la partita sceglie di accomodarsi sotto la panchina, da dove continua a ronzare fastidiosi giudizi su chi invece si batte in campo. Si atteggia a impavido guerrigliero, è in realtà una suocera cacasenno che ormai non va d'accordo più con nessuno, in particolare con la sua famiglia d'origine, il padre padrone Grillo, il gemello diverso Di Maio, ai quali non perdona il difetto di una scaltrezza superiore alla sua, e il Conte zio, l'unico sveglio quanto lui e per questo quello che stima di più, anche se non gli riesce a perdonare di provare a gestire M5S come un partito anziché come un collettivo studentesco in gita di classe a Roma. Bisogna riconoscere che il Dibba era un discreto tribuno, ma con la dissoluzione del Movimento si è scoperto che la piazza gliela riempivano gli altri, perché da solo per lui perfino il Capranichetta diventa più grande del Madison Garden. Al momento, la maggiore abilità di cui ha dato prova è nel mettere d'accordo Berlusconi e Travaglio. Dal primo si è fatto pagare, via Mondadori, libri di riflessioni e memorie di cui si sono scordati tutti il giorno dopo. Gli ultimi tre titoli sono un non programma: «Politicamente Scorretto», «Contro», «Ostinati e Contrari»; una trilogia, per chi non l'avesse capito. Non si sono registrate code in libreria. Il Fatto Quotidiano gli ha invece commissionato reportage da turista dell'anti-democrazia, dalle dittature del Sud America a Cuba, che l'ex giovinastro di belle promesse ha trasformato in resoconti dalle vacanze in famiglia degni di un ginnasiale ripetente e soprattutto, che avrebbe potuto benissimo fare standosene nella sua casa romana, per quanto è stato capace di rendere l'atmosfera di quei luoghi lontani e per il colpo d'occhio da sgabuzzino delle scope.

COMPAGNI SBAGLIATI

A chi segue poco la politica, Di Battista potrebbe anche sembrare finanche un puro, un idealista un po' sconclusionato, una sorta di Idiota di Dostoewskij, visto che ama Mosca. In realtà è più simile alla romana sora Camilla, che tutti vogliono ma nessuno piglia. Neppure il Paragone di Italexit, che pure ha più volte ospitato sul sellino posteriore del suo scooterone ai tempi dei primi dissensi dentro M5S, se lo carica. D'altronde il nostro sbaglia sempre compagni di viaggio, come quando andò in auto a Strasburgo con l'allora amico Luigino per spiegare all'Unione Europea che, o si metteva in testa di cambiare i trattati o sarebbe morta. Li soprannominarono Thelma e Louise, ma al momento nel burrone ci è finito solo uno dei due, quello alto e bello. Grande, grosso, ciula e balosso, direbbero a una latitudine poco superiore di quella sua natìa. Comunque, tutti intorno a lui hanno fatto un partito, o lo hanno ereditato, ma il nostro tormentato tenebroso non è riuscito a convolare a nozze con nessuno, e in questi casi è sempre colpa del singolo più che dei tanti, visto che non si può pretendere di fare politica se si riesce ad andare d'accordo solo con se stessi. E questo lo ha capito perfino Calenda, come dimostrano le sue ultime sorridenti foto-opportunity con i nemici di poche settimane fa. Di Battista è una sorta di Fratoianni che non si è dato pace. Il segretario della Sinistra Italiana ha chiesto asilo al Pd per continuare a dire le sue stramberie populiste con uno stipendio a cinque stelle. L'ex stella del Movimento la pensa come il comunistone di cui sopra in politica estera, sull'ambiente e sulla decrescita finanziata da bonus e reddito di cittadinanza ma gli manca l'umiltà di capire che da solo non va da nessuna parte. Oppure, anche se non lo dice in giro per non perdere scritture, ha gettato da tempo la bandiera. Finge di fare il politico, e infatti ha annunciato la creazione di un'associazione culturale civica non ancora meglio precisata, ma in realtà è una comparsa di lusso del teatrino. Nessuno condivide davvero quel che dice, ma siccome lo dice con sicurezza e, se non ha interlocutori di fronte, anche benino, si è creato la professione di opinionista; e qui gli va riconosciuta l'abilità di spacciare le idee personali che nessuno, lui per pri- mo, realizzerà mai, come un pensiero politico che abbia una qualche rilevanza. È partito come novello Che Guevara, ha ripiegato sul progetto di diventare l'erede di Di Maio, si è ritrovato il figlio ripudiato di Grillo e l'amico venuto a noia di Conte e Casaleggio junior. Gli andrà di lusso se finirà come la versione maschile di Selvaggia Lucarelli. 

Perché Alessandro Di Battista non si è candidato: il vaffa Grillo e gli insulti a Di Maio (“ducetto”). Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Agosto 2022

Il Vaffa di Alessandro Di Battista a Beppe Grillo segna, nel suo piccolo, la fine di un’epoca. La ribellione dell’ultimo dei figli di Cronòs, che il padre voleva inghiottire e far sparire come gli altri, scuote il torpore di una campagna elettorale sotto naftalina, per i Cinque Stelle. Perché nessuno fino a oggi si era rivoltato contro Grillo chiamandolo con quei due epiteti, Padre-padrone, con cui Gavino Ledda aveva descritto le bastonate ricevute da un genitore oppressivo. Alessandro Di Battista ha chiuso le porte ai 5 stelle. Anzi, l’ha sbattuta. La distanza con i vertici del Movimento sembra incolmabile e ieri ha ripreso la parola per dire perché anche stavolta, come nel 2018, ha deciso di non candidarsi in Parlamento. Prendendo così le distanze anche da De Magistris che, a capo di Unione Popolare, lo aveva chiamato impropriamente in causa. Dibba è un bello che non balla. Certamente, non più con i vecchi amici. Dopo l’appoggio all’esecutivo guidato da Mario Draghi, (“il governo dell’assembramento”, lo chiamava) il “Ragazzo meraviglioso” dice di non fidarsi più “politicamente” di Beppe Grillo che “ancora, in parte, fa da padre padrone”.

Scandisce la voce: “Io sotto Grillo non ci sto”. Come Bruto con Cesare, ecco la coltellata digitale filmata in un lungo video pubblicato sui social, rivolto alla sua platea di ex grillini oggi apolidi. Il “Che” di Vigna Clara racconta perché ha scelto di non correre alle parlamentarie. Una “decisione sofferta”, sospira, prima della quale ha sentito anche Giuseppe Conte: “È stato molto sincero”, “è un galantuomo” e “anche parlando con lui ho compreso che ci sono tante componenti dell’attuale M5s che non mi vogliono”. È in particolare con il garante del Movimento, con il presidente della Camera Roberto Fico e con Luigi Di Maio (che ha a sua volta lasciato i 5stelle) che l’ex 5 stelle se la prende. “Da Grillo passando per Fico non mi vogliono per una serie di ragioni – lo sfogo -, forse perché temono il fatto che io sia poco imbrigliabile, che io possa (giustamente) ricordare gli errori politici commessi soprattutto negli ultimi due anni”. Punta il dito contro le interviste rilasciate da esponenti del Movimento sul suo conto: lo dipingevano come “un distruttore tipo Attila”, “quando forse i disboscatori di consensi sono stati altri…”. Di Battista sostiene di essere stato esortato a candidarsi da “decine di migliaia” di persone ma di aver scelto diversamente per mancanza di sintonia con il resto dell’attuale M5s. Ed ora è pronto a fondare un’associazione per fare politica dall’esterno: “Vedremo dove porterà questo percorso”. La rabbia nei confronti degli ex compagni di viaggio, è ancora palpabile. C’è chi è pronto ad “infilarsi nella sede del Pd per elemosinare un seggio, dopo aver detto peste e corna”, l’affondo, “io non sono come queste persone, grazie a dio”.

Anche prima dell’addio al Movimento, riferisce di aver “avuto momenti difficili”, ad esempio, “quando mi hanno impedito di fare il capo politico del M5s evitando di votare. Non hanno neppure voluto pubblicare i voti degli Stati Generali perché io avevo preso il triplo dei voti di Di Maio”, che allora “faceva ancora il ducetto”. Dopo il post, che incassa a cinque ore dalla pubblicazione, oltre 4mila commenti e quasi mille condivisioni, la base è in fermento. Chi semina vento, raccoglie tempesta: il malcontento finisce sulla pagina Facebook di Beppe Grillo: “Hai fatto un errore gravissimo a tenere fuori Di Battista. Vedi di rimediare”, gli intima un attivista. “Grillo la nostra storia inizia con loro, Alessandro e Virginia”, rimarca un secondo, riferendosi ad un’altra grande esclusa dalle candidature, a causa del limite dei due mandati: Virginia Raggi. L’ex sindaca di Roma, che di recente era intervenuta in maniera critica sulle “pseudo alleanze di comodo” del M5s e sulle decisioni prese “nelle stanze del ‘palazzo’”, per ora tace. C’è chi è pronto a scommettere che tra lei e Di Battista vi sarebbe tutta l’intenzione di menare le mani, di dare l’assalto a quel fortino di Campo Marzio in cui Conte vive asserragliato. All’ex premier basterà tirare fuori dal cilindro l’ex procuratore antimafia Cafiero De Raho, da candidare a Napoli? Arriveranno altri magistrati a dare manforte? È ancora presto per dirlo. Fioccano invece copiosi gli abbandoni. Se il primo cittadino pentastellato d’Italia, Federico Pizzarotti, ha scelto di correre con Italia Viva, scommettendo sul Terzo Polo, ieri è stata l’onorevole Federica Dieni ad uscire dal M5S per unirsi al gruppo Italia Viva – Italia c’è alla Camera. Un finale di stagione di vera nemesi per i grillini della prima ora, tra chi maledice Grillo e chi abbraccia Matteo Renzi. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il dubbio di Alessandro malato di fannullismo. LUCA BOTTURA su Oggi.it il 4 agosto 2022

Gentile buonista, mi chiamo Alessandro e sono un travel blogger che fa largo uso delle tecnologie. Per orientarmi, uso il Gps. Per fare acquisti, uso lo smartphone. Per scrivere gli articoli, uso il correttore automatico. Non sai quanto. Grazie alla scienza, potrei tranquillamente starmene a casetta, perché quelle che mando al mio giornale sono quattro cosette che ho trovato su Wikipedia. Ma in quel caso non potrei ingozzarmi di piñacolada o di caipiroska, dei quali vado ghiotto. Ora però è malauguratamente caduto il Governo e alcuni amici italiani vorrebbero che rientrassi in patria, interrompendo le ferie, per rilevare un ramo d’azienda della Casaleggio A., di cui attualmente si occupa un avvocato pugliese lacca-dipendente. Lo stipendio sarebbe anche buono, in realtà. E ci sarebbero anche alcuni benefit, tra cui qualche bella intervista al Tg2 in prima serata. Ma per colpa delle paturnie di Beppe, il ragazzo-immagine del gruppo, dovrei restituire una parte dei soldi per la manutenzione dei server, e soprattutto c’è il rischio concreto di dover lavorare, sebbene pochissimo. Quella di non fare assolutamente una mazza è una petizione di principio che perseguo da sempre e alla quale farei molta fatica a rinunciare. Cosa posso fare?

Alessandro Di B., Club Mediterranée di Novosibirsk, Siberia

Caro Alessandro, io coglierei la palla al balzo per rimanere dove sei. A quanto ne so, sta per partire la nuova stagione di “Russia No Talent” e da quel che scrivi penso tu possa vincerla per distacco. Se proprio devi tornare, però, un consiglio: cerca di capire chi sosterrà l’avvocato pugliese. E buttati deciso dall’altra parte.

Dazvidanja!

Caro buonista, mi chiamo Renato, sono figlio di venditori ambulanti, ma nella vita ho saputo farmi strada nonostante all’inizio della carriera nessuno mi prendesse sul serio e tutti mi chiedessero di cantare Sarà perché ti amo. A causa della mia statura modesta, sono stato oggetto negli anni delle battute di chiunque: comici scadenti, avversari di partito, comici di partito e avversari scadenti, ma da quando ho lasciato Forza I. se la prendono con me anche ex amici come Silvio B. e la sua moglie simbolica, Marta F. Pensa che ha persino pubblicato sui social un verso della canzone di Fabrizio De A., Un giudice, in cui si dice che chi è poco alto ha il cuore troppo vicino al buco del…quello, e per questo è una carogna. Ne soffro tantissimo. Sai consigliarmi?

Renato B.

Caro Renato, non te la prendere: per gli Statali rimarresti una carogna anche se giocassi nel campionato Nba di basket al posto di LeBron James. A presto!

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 10 agosto 2022.

[…] Ieri Dibba ha picchiato sul fondatore e guru e garante, alias l'Elevato, come quando studiava da falegname. «Un padre padrone», l'ha definito. Ha capito insomma come funziona l'M5S, che sarà mai il leggero ritardo, l'odiata sinistra in fondo ci mette molto di più a elaborare le sue svolte, vent' anni a botta di solito, lui ne ha impiegati poco più della metà per arrivare alla conclusione che il Movimento non è un partito democratico […]

Comunque tempo al tempo, può essere che tra un lustro, ripensando alla sua fresca trasferta siberiana, a Dibba venga pure qualche dubbio su Putin.

Del resto, Ale ha da sempre una spigliata dialettica che sopravvive inconsapevole alla sua claudicante logica, e funziona per questo, perché come nei migliori programmi di Maria De Filippi, dove da giovanissimo andò a farsi provinare, non conta che i pensieri passino l'esame del principio di non contraddizione. Conta l'effetto. Conta il momento. Conta la smorfia. […] 

[…] Ai tempi della sua vertiginosa ascesa mediatica, quando già contendeva a Luigi Di Maio la palma del più sveglio del Movimento […] svelò che Berlusconi lo aveva fatto cercare da emissari («Gli piaci, vuole conoscerti»), ma anche lì nisba. Dibba è disposto al simposio con i salafiti mica a un caffè col Cavaliere: «Certa gente ha l'inciucio nel Dna», fece sapere ai giornali, e stracciò l'invito ad Arcore.

[…] Dibba è il campione del rossobrunismo. Gli piace la Russia, gli piace l'Iran, gli piace la Cina. «Vincerà la terza guerra mondiale», ha dichiarato e gli occhi gli brillavano a sapersi dalla parte vincente del mappamondo. Gli sta sul gozzo ogni forma vivente di sinistra. Ha un record di dieci giorni di sospensione a Montecitorio perché impedì fisicamente a Roberto Speranza, uno dei politici più miti della storia repubblicana, di fare una dichiarazione. Condivide con Meloni la teoria sull'inattualità dell'antifascismo. «È l'unico che ha l'X Factor», ha detto Fedez, uno dei suoi molti estimatori, che può ignorare Strehler ma riconosce da lontano un leader. Il guaio di Dibba è che al tavolo dei giudici del Movimento non ci sono quattro cantanti ma solo un ex comico. Per te il Movimento finisce qui.

Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 10 agosto 2022.

Più Catilinarie che parlamentarie. Almeno a giudicare dalla requisitoria del «Dibba furioso» nel video con cui ha illustrato le motivazioni della sua mancata candidatura.

E, nella fattispecie, si tratta, ancora più appropriatamente, di «Grillarie», dato che Alessandro Di Battista ha indirizzato il suo J' accuse innanzitutto contro il Co-fondatore, di cui «politicamente oggi non si fida», imputandogli di essere stato il principale sponsor dell'ingresso nel «governo dell'assembramento». 

Cronache di un matrimonio che si era guastato già da parecchio, e aveva visto due personalità con una certa considerazione di sé - un'attitudine assai diffusa, e trasversale, nel paesaggio politico dell'«Età egolatrica» - impegnate a consumare l'antico idillio in un crescendo di diffidenze reciproche e falliti ricongiungimenti.

Il fuggi fuggi dalle parlamentarie costituisce un fenomeno generalizzato, che ha investito, tra gli altri, Rocco Casalino, finito pure lui, a quanto pare, nella black list di Beppe Grillo. Ma nell'elettorato pentastellato, alla vigilia di una prova elettorale che si preannuncia come l'ennesima (assai problematica) ordalia, era precocemente cresciuta l'attesa del ritorno salvifico del figliol prodigo. E, contestualmente, a montare era stata pure la preoccupazione dei vertici pentastellati per una figura giudicata troppo ingombrante, da mettere rigidamente sotto tutela e a cui imporre alcune "abiure", afferma sempre Di Battista, che nel video attacca frontalmente anche Roberto Fico e salva soltanto Giuseppe Conte.

Testimonianza di come nell'odierna atmosfera da Basso impero della fu formazione dell'«uno vale uno» tutto ruoti attorno alla sopravvivenza politica dei singoli e al nodo di una leadership monocratica, prevedibile - ancorché mai risolta - eredità di un partito prima bipersonale (quando Gianroberto Casaleggio era in vita), e poi personale del solo Grillo (giustappunto, il «padre padrone» a cui «Ale» non intende "sottomettersi").

Di qui, la scelta di rimanere in partita sul suo terreno di gioco preferito, quello della disintermediazione e dell'appello neoplebiscitario al popolo antisistema. E di continuare ad adottare lo schema di gioco prediletto: quello del "cavaliere dell'ideale antagonista", solo contro tutti e sdegnato da ogni inclinazione compromissoria degli ex compagni di lotta diventati "politici di professione". Con una novità, però, da sottolineare: ovvero, i numericamente non così trascurabili commenti negativi sui social dei fan, che lo incolpano, in buona sostanza, di sottrarsi alla lotta e di essere un "parolaio" (come da buona tradizione degli pseudorivoluzionari...).

Di Battista - a tratti in trance solipsistica da volontà di potenza - solleva, comunque, questioni centrali riguardanti il grillismo e la sua informe «forma-partito»; e lo fa avvolto in un format comunicativo, a lui molto consono, di vittimismo passivo-aggressivo, tipico di quello che si potrebbe chiamare il «populismo chiagne e fotte» (chiedendo venia per l'etichetta un po' eccepibile sotto il profilo del rigore politologico). Resta così - come da sua autodefinizione - un «attivista politico e reporter».

Almeno per il momento, perché l'impressione è che abbia voluto saltare il turno - pur in presenza delle resistenze interne ricordate nel videomessaggio - per una ragione di fondo: quella di attendere lungo la riva il passaggio dello zombie (copyright: Grillo) a 5 Stelle. E, dopo la sua implosione, di raccoglierne infine i cocci per rifondarlo, facendone in tutto e per tutto il "suo" Movimento.

Il monologo del cruscotto. Dibba non si candida alle elezioni, ma a Uomini e donne. Guia Soncini su Linkiesta l'11 Agosto 2022

Chiuso in un’auto ad agosto (ma avrà acceso l'aria condizionata?) sembra un incrocio tra l’eroina affranta ma non doma di Jane Austen e quello che parla da solo preparandosi al ritorno da una fidanzata che non lo vuole più

Sono trentasei ore che penso al video di Alessandro Di Battista, chiuso in macchina, che annuncia che non si candiderà alle prossime elezioni. Certo, sono trentasei ore che penso all’aria condizionata: si sarà squagliato tenendola spenta, o l’avrà tenuta accesa da fermo, inquinando?

E perché dalla macchina? A casa i bambini dormono? Ha rivisto da poco L’ingorgo, giacché si sta facendo una cultura sui film del nonno di Calenda, e gli piaceva più l’ambientazione di Sordi (in macchina) che quella di Mastroianni (a casa di Stefania Sandrelli e Gianni Cavina)?

Ma, più di tutto, penso al discorso alla nazione davanti a un cruscotto, che gli storici studieranno, senza riuscire a mettere a fuoco: chi mi ricorda? Qual è il modello che Di Battista ha seguito? L’orazione di Marcantonio scritta da Shakespeare? Un discorso di Reagan scritto da Peggy Noonan? Julia Roberts che dice a Hugh Grant d’essere solo una ragazza semplice?

«Mi sarebbe piaciuto parlare anche con altre persone, ma non è stato possibile», dice Alessandro, in quel momento praticamente un partecipante a Uomini e donne che è stato ghostato – come dicono i suoi coetanei – da una tronista. «Dopo non aver ricevuto da nessuno, tranne Danilo Toninelli, un messaggio o una telefonata», aggiunge, ed è chiaro che Toninelli è il più bonaccione dei tronisti, quello che fa una telefonata anche alla corteggiatrice che non porterebbe mai fuori ma non vuole che ci resti male.

(Lo so, è il secondo giorno che manco di rispetto a Maria De Filippi paragonando i suoi programmi alla campagna elettorale. Prometto di trovare analogie diverse dagli accoppiamenti televisivi, in cambio però la politica italiana potrebbe promettere di sembrare un po’ meno Costantino e Alessandra – che, se non sapete chi siano, dovete mollare i talk-show e ripassare la storia di questa allegramente tragica nazione).

«Tutti vogliono candidarsi, e pur di avere una poltrona in parlamento sono disposti a vendere la madre», dice Ale (Di Battista, non la Ale di Costa in quell’Uomini e donne di formazione), e s’intravede un grande classico della cinematografia: il personaggio che non scende a compromessi. Tutti vogliono candidarsi, e lui che tutti lo vorrebbero («decine di migliaia» di messaggi, avrebbe ricevuto, «non sto esagerando»), lui no, lui non si candida.

E giù con le recriminazioni, quando lo chiamavano «il vacanziero» (il Gregory Peck che ci possiamo permettere), nonostante prendesse più voti di Di Maio, «ministro degli esteri e ministro di tante altre cose» (oddio, tante altre quali? Ministro della paura? Delle vacanze esotiche? Antonio Albanese ha un nuovo personaggio di cui non so nulla?).

A un certo punto diventa Sue Ellen O’Hara (Susèle nel doppiaggio italiano), la sorella rancorosa della protagonista di Via col vento, che strepita «Lei ha avuto due mariti e io morirò zitella». È un momento straziante, e in cui ci si augura che almeno l’aria condizionata sia accesa: «Per me il Partito democratico è il peggior partito italiano, è così, lo penso, e vedere questi esponenti del Movimento Cinque Stelle che ci si buttavano tra le braccia, io veramente la sentivo come una grande sofferenza». Ma picci. Me lo vedo che va dai Cinque Stelle traditori e dice loro «lui non ti merita», mentre Tina Cipollari e Gianni Sperti in studio scuotono la testa.

Alessandro è un uomo che soffre, e soffre come soffrono le eroine sentimentali che il romanziere ci fa capire meriterebbero amore ma purtroppo la vita è ingiusta e la trama abbisogna di ostacoli: «Nessuno, credetemi, nessuno mi ha detto: abbiamo bisogno di te». Perché fate così, amici, romani, parlamentari. Perché non lo fate sentire amato. Perché non gli dite che lui vale. Non avete forse visto abbastanza pubblicità dello shampoo? Non siete in sintonia con le decine di migliaia di messaggi di noi gente semplice che lo imploriamo di candidarsi, che gli diciamo continuamente che abbiamo bisogno di lui, anche se questo evidentemente non basta: vuole il vostro amore e non il nostro, è come i bambini che si affezionano di più al genitore assente, non si candida perché le nostre decine di migliaia di richieste non l’hanno convinto.

O è perché a restar fuori da elezioni già perse si fattura di più, tra editoria e tv e chissà? Per carità, non insinuerei mai che Di Battista fosse avido, ma è lui stesso, sempre dalla macchina accaldata, a dire che vuole continuare le sue battaglie e che ritiene esse battaglie vengano nobilitate dal «farle senza essere pagati con denaro pubblico».

Non riesco a capire chi mi ricordi, Ale, se un’eroina affranta ma non doma di Jane Austen o quello che in macchina parla da solo preparandosi al ritorno da una fidanzata che non lo vuole più nel film di Comencini, L’ingorgo. Però il mio momento preferito è quello del lapsus.

Sul finire del monologo del cruscotto, Ale riferisce che in molti (forse le stesse decine di migliaia di prima) gli chiedono perché non abbia fatto un movimento nuovo (c’è giusto scarsità di liste elettorali, in questo per niente ridicolo paese), e lui spiega che era impossibile, non c’era tempo, non si poteva accroccare una lista in fretta, «con il rischio che ci s’infilino delle persone poco raccomandate». Da qualche parte, Freud gongola.

(Adnkronos il 9 agosto 2022) - "Di questi tempi tutti vogliono candidarsi,  pur di avere una poltrona in Parlamento sono disposti a vendere la madre, a calpestare le proprie coscienze e la propria dignità - se ancora ne hanno un grammo -, a infilarsi nella sede del Partito  democratico per elemosinare un seggio quando avevano detto peste e corna del Pd... Io davvero non sono come queste persone grazie a Dio". Lo dice Alessandro Di Battista, spiegando in un video le ragioni della sua mancata candidatura alle politiche con il M5S.

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Non ritengo ci siano le condizioni per una mia candidatura alle prossime elezioni politiche". Così su twitter Alessandro Di Battista postando un video in cui spiega di aver sentito Giuseppe Conte e "anche parlando con lui", aver "compreso che ci sono tante componenti dell'attuale M5s che non mi vogliono, da Grillo passando per Fico". L'ex 5s parla anche di alcune interviste: "Le più gentili erano 'se torna si deve allineare' e le meno erano 'non abbiamo bisogno di lui perché è un distruttore tipo Attila", "quando forse i disboscatori di consensi sono stati altri". Su Conte afferma: "E' stato molto sincero", "è un galantuomo".

"Con Conte abbiamo avuto una interlocuzione molto leale e lo ringrazio perché è stato molto sincero" e "per me è un galantuomo". "Credo abbia veramente a cuore gli interessi del paese", anche se "su alcune posizione abbiamo idee molto diverse". "Io - spiega Di Battista - non sono un atlantista, non credo minimamente all'efficacia delle sanzioni, io mai avrei votato per l'invio di armi all'Ucraina". 

"Io anche parlando con lui (il leader del M5s Giuseppe Conte, ndr) ho compreso che ci sono tante componenti dell'attuale M5s che non mi vogliono. Da Grillo passando per Fico non mi vogliono, per una serie di ragioni, forse perché temono il fatto che io sia poco imbrigliabile, che io possa - giustamente - ricordare gli errori politici commessi soprattutto negli ultimi due anni, da vari esponenti: senz'altro Grillo, Di Maio che poi se ne è andato, Fico".

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Io di fatto sono stato costretto a lasciare il M5s, proprio perché soprattutto Grillo ha indirizzato il Movimento" nel "governo dell'assembramento". "Ma anche precedentemente io ho avuto momenti difficili, quando fondamentalmente mi hanno impedito di fare il capo politico del M5s evitando di votare, quando non hanno neppure voluto pubblicare i voti degli Stati Generali perché io avevo preso il triplo dei voti di Di Maio". "E quindi non si doveva far sapere". Lo dice Alessandro Di Battista in un video pubblicato sui social.

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Politicamente oggi non mi fido di Beppe Grillo" che "ancora, in parte, fa da padre padrone" e "io sotto Grillo non ci sto". Lo dice in un video pubblicato sui social Alessandro Di Battista. Poi precisa: "Io non dimentico quello che Grillo ha fatto per il paese e anche per me", "perché se sono la persona che sono", con "determinati valori", "è anche perché me li ha insegnati Grillo e Gianroberto Casaleggio". Di Battista sottolinea che "Grillo ci ha rimesso una valanga di soldi con M5s nonchè tranquillità personale".

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Nei prossimi mesi insieme ad altre persone creerò un'associazione culturale per fare politica da fuori, per darci una struttura e un'organizzazione civica, per fare cittadinanza attiva perché ci credo tanto, per fare proposte, scrivere delle leggi al di fuori del Parlamento". "Poi, vedremo in futuro a cosa potrà portare questo percorso". Lo ha detto Alessandro Di Battista in un video postato sui social.

"Scrittore, attivista politico e reporter, compagno di Sahra, papà di Andrea e Filippo”. Chi è Alessandro Di Battista, turista militante che ha il cervello di Homer Simpson. Fulvio Abbate su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Se fosse una serie televisiva potrebbe intitolarsi “Il mistero Di Battista”. Fitto, ma non troppo. “Chissà che fine ha fatto Eugenio, barba da mascalzone, chissà che fine ha fatto Eugenio, barba portafortuna, chissà che sogni che si inventa e sogni che si fuma…”, qualche anno fa, così Francesco De Gregori cantava pensando a un ragazzo non più pervenuto all’attenzione degli amici.

Molti, pensando invece a Di Battista, hanno pensieri e domande meno assoluti: che avrà in mente l’uomo, il ragazzo, l’escursionista o, per dirla sempre con il cantautore, il giovane esploratore Alessandro? Assodata la nebulosa sulle sue intenzioni nell’immediato, e ancora di più sul suo impianto politico-attitudinale, nei giorni scorsi mi sono così interrogato sul senso della persona, facendo ricorso, sia detto senza ironia, cercando dunque di rispettare gli imparaticci di una narrazione doverosamente neo-ideologica, come si conviene ragionando di pentastellati, ritrovando l’immagine in sezione del cervello di Homer Simpson: fallato da un pennarello, chissà come lì presente, tra la materia grigia conficcato, risposta chiara ai suoi limiti. Per la mente mobile di Alessandro Di Battista, escludendo da subito presenza di corpi estranei, si fa fatica a comprenderne le esatte bussole politiche, più semplice semmai inquadrarla antropologicamente, invidiabile turismo militante.

Di sé, su Facebook, la persona dice d’essere “scrittore” e ancora “attivista politico e reporter, compagno di Sahra, papà di Andrea e Filippo”. Dunque, profilo basso e insieme ciclopico. Quanto al suo podcast, c’è da rilevare un titolo degno di De André e degli stessi anarchici: “Ostinati e contrari”. Un senso di marcia che talvolta viene fatto proprio anche da certa destra diffusa post-montanelliana con altrettante venature di turismo ideologico. Su tutto, una “weltanschauung” accompagnata giustamente da ragioni narcisistiche; e, cosa nota, al narcisismo non si comanda. O forse, mantenendo il discorso sul piano di realtà, per ragionare di lui occorrerebbe fare ritorno all’Assente. Forse solo in apparenza lontano dalla nostra serie, Beppe Grillo, autoclave primaria dell’intera avventura pentastellata, titoli di coda compresi. Il titolo di Assente, lo diciamo per precisione storiografica, ebbe già modo di ottenerlo, nei giorni del 1936, altri tempi, José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange Spagnola. Sebbene fosse stato fucilato dai “rossi”, i suoi, rifiutando di ammetterne la caduta, preferirono immaginarlo solo temporaneamente lontano dal fronte, da qui il titolo di “Ausente”; circonfuso di mito e aureola.

L’Assente Grillo, nel nostro caso, mostra una narrazione meno tragica: da simposio pomeridiano d’autofficina di moto enduro, e tuttavia va forse immaginato più interessato al futuro del Movimento di quanto non appaia, intanto che l’altro assente a se stesso, in questo caso per ragioni di non pervenuto talento, Giuseppe Conte, rischi di ritrovarsi completamente a secco di carburante, costretto a fare ritorno ai faldoni d’avvocato da cui, miracolato, giunge. Il “Garante” potrebbe allora essere lì a fare opera di riscaldamento proprio per Di Battista, se non proprio da commissario tecnico, certamente da un massaggiatore, pronto a curare e coltivare i muscoli del giovane, che intanto si diletta a Mosca, così implicitamente da assecondare l’opinione diffusa nell’ampio contesto perfino rosso-bruno che Putin sia lui parte lesa, “Agnus Dei” di una sporca guerra che in verità andrebbe addebitata all’Occidente, la Nato, gli Usa, tutti desiderosi di rapinare loro le risorse dell’incolpevole Russia. “Dibba” come Molotov e von Ribbentrop, due in uno, per restare nella metafora motociclistica delle marmitte.

D’altronde, cosa fatta capo ha, e ciò che rimane dell’accrocco del Movimento non va buttato allo sfascio come fosse un vecchio “Corsarino 50”, perfino a dispetto dei sondaggi che lo indicano in picchiata dopo l’età dell’oro dei consensi plebiscitari. Allora, sia pure da una posizione minoritaria, si fosse anche ristretto come il Psdi di Tanassi a Nicolazzi, vale tenere alta la carburazione, e sono pur sempre possibili nuovi voti, il bacino populista, antisistema, novax, terrapiattista, “Insieme per la Colla Vinilica” (la definizione è dello stesso Alessandro per indicare il gruppo parlamentare che vede protagonista l’ex amico Luigi Di Maio), pro-Assange, filopalestinese, filocurdo, ecc. è ampio, e i voti, così come il denaro, non puzzano, sono sempre ben accetti. Un po’ come quando l’esercente decide di tenere aperta la propria concessionaria sotto casa, “tanto le mura sono mie e quindi non devo neanche pagare la pigione”. Quale allora migliore assistente per salvare l’officina a cinque stelle, se non di Battista?

Lo “scrittore” Di Battista è d’altronde “giovane”, porta con sé un appeal “casual” così come il centauro Andrea Scanzi e la madrina di gara Selvaggia Lucarelli presenti nei dintorni del circuito, certamente ci sarà anche Travaglio a dare manforte con il suo Fatto Quotidiano, alla fine non occorrerà neppure piazzare il cartello “Nuova gestione!!!!”. A un certo punto, l’Assente si mostrerà accanto proprio a Di Battista, come investitura post mortem del primo M5s. Adesso qualcuno potrà obiettare che questa modestissima metafora motociclistico – imprenditoriale fa torto alla complessità delle cose e dei nodi, ma a costoro basterà forse rispondere con le parole pronunciate dallo stesso Di Battista per rassicurare il popolo di riferimento: “Si appellano al senso di responsabilità quelli, che negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. Parlano di rispetto delle Istituzioni coloro i quali, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, hanno violentato la massima Istituzione del Paese, il Parlamento, togliendogli ogni dignità”. Voglia di dignità nuova saltami addosso. Broooommm! Broooommm! 

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Alessandro Di Battista, "la vera ragione per cui va in Russia": indiscrezioni sconcertanti. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 19 giugno 2022.

Sulla scrivania del direttore di Libero si stanno accumulando innumerevoli richieste di cronisti che vogliono partire per scrivere importanti reportage ovviamente corredati di video, foto e post dalla «periferia del mondo», obiettivo scandagliare e sviscerare «coloro che vivono al di fuori delle grandi metropoli» per meglio comprendere «quelli che vivono dall'altra parte», viaggi possibilmente transcontinentali con destinazioni prevalenti Dubai, Bali, Polinesia francese, Maldive, Seychelles, Mauritius, Santo Domingo e un clamoroso Lignano Sabbiadoro. Dall'ufficio del personale sono riecheggiati strani e forti rumori, forse degli spari, vi aggiorneremo. Di certo è che sta prendendo piede il modello «Dibba Travel»: vacanze per mesi interi (e contestualmente non fare un cazzo) tirandosela però da Jack Kerouac on the road, da Papa Francesco in soccorso degli ultimi, ovviamente scorrazzando con una compagna che un nome normale non poteva averlo (Sahra Lahouasnia) e con un figlioletto che si chiama banalmente Andrea e un altro che in compenso ha un nome bellissimo, di gran gusto: Filippo. Dai diari della motocicletta ai diari del passeggino.

ITINERARIO - La novità è che l'autorevole subcomandante grillino, in queste ore, è già ripartito questa volta per la Russia, anzi, «la Russia più profonda», questo appunto per «comprendere quel che i russi che vivono al di fuori delle grandi metropoli pensano del conflitto»: niente di difficile, calcolando che in un mese e mezzo deve solo visitare lo stato più vasto del mondo (144 milioni di abitanti) che si estende per un quarto in Europa e per tutto il resto in Asia, confinando solo con quattordici stati e col mare vicino al Giappone, con mar Baltico, col mar Glaciale artico, con l'Oceano Pacifico e senza contare il mar Caspio e il mar Nero. Ci sarebbe anche l'Oblast di Kaliningrad piazzata in mezzo all'Europa, ma forse non farà in tempo a passarvi, ha sempre detto che si sposta in autobus.

POLTRONE MAI OFFERTE - Insomma, dopo aver detto e ridetto che per i suoi viaggi formativi e testimoniali lui ha rinunciato a incarichi e poi a questo e a quello (soprattutto a poltrone che nessuno gli ha offerto) ha fatto sapere che «prima di richiedere il visto ho avvertito l'Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica e, dopo averlo ottenuto, l'Ambasciatore italiano a Mosca». E ha fatto bene, perché altrimenti, probabilmente, l'avrebbero arrestato come spia. Ma queste cose lui le sa, perché è un professionista, Di Battista, dal 2010, è stato in Argentina, Cile, Paraguay, Bolivia, Perù, Ecuador, Belize, Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua, Guatemala, Cuba, Panama e chissà quanti ne stiamo dimenticando. La compagna Sahra però l'ha conosciuta a Roma Nord, quand'era ancora parlamentare: dopo tre mesi le ha proposto un viaggio con biglietto di sola andata per San Francisco.

OBIETTIVO INFLUENCER - Vabbeh, tanto è lì che volete arrivare: chi paga? Lui non è più parlamentare, e a dirla tutta non è neppure povero, ma non basta: ergo, da quanto inteso, il reportage sarà pubblicato su Il Fatto Quotidiano e comprenderà un documentario che andrà in onda per l'annesso «TvLoft», certo non gratis. È andata così anche in passato. «Credo sia utile conoscere quel che pensano dall'altra parte», ha scritto. Da questa parte non ha più niente da imparare. Nelle brevi pause italiane si segnala un suo corso di comunicazione politica (costo: 39 euro) tenuto per i candidati grillini alle amministrative (e questo spiega i risultati) e anche qualche aiutino per la campagna elettorale di Virginia Raggi (e anche questo spiega eccetera). In generale ad Alessandro Di Battista piace molto atteggiarsi a normalone, ciao amico, ehi fratello, raccontami la tua storia, uno di noi, il vicino della villa accanto. In effetti la quasi totalità degli italiani è indecisa se lavorare o scegliere tra andare in vacanza per mesi e girare il mondo coi figli. Li sponsorizzasse, almeno, e indossasse qualche griffe riconoscibile: i Ferragnez sarebbero a un passo.

La vita da reporter di Di Battista, i diari dalla Russia, reportage per il Fatto e “magari un libro”: “I 5 Stelle? Me ne infischio”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

Volerà in Russia per un reportage nella parte più profonda del Paese, “più verso l’Estremo Oriente”, e poi, come spesso ha fatto in questi anni, scriverà reportage per l’immancabile Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, girerà un documentario per Tv Loft (piattaforma dello stesso giornale) e “poi prenderò un po’ di appunti magari per scrivere” anche un libro per Paperfirst. Perché Di Battista vorrebbe capire “quello che pensano i russi, soprattutto nella Russia profonda, dell’Europa, delle sanzioni, della guerra, di Putin. Andrò a fare ricerche, viaggerà da solo, sui mezzi pubblici ma – precisa – non dirò le tappe perché altrimenti mi ci ritrovo Salvini, scherzo” annuncia in un video girato a Istanbul.

Poi aggiunge “siccome ha fatto tanta polemica questo viaggio mancato di Salvini io invece ci vado in Russia” dimenticando però che l’ex ministro dell’Interno è leader di un partito mentre Di Battista ad oggi va “a fare solo un lavoro da reporter” perché “non sono iscritto a partiti politici”. L’ex parlamentare del Movimento 5 Stelle ci aggiorna “che terrà un diario di viaggio sui suoi canali social” perché “per me il lavoro più bello del mondo è quello appunto di comprendere il mondo e di provare a scriverlo e a raccontarlo”.

Perché lui vorrebbe capirne di più sul sentimento dei russi verso Putin dopo oltre cento giorni di guerra. “Sono cose che devono essere analizzate, pur condannando l’invasione di Putin in Ucraina, credo sia deprimente e molto sbagliato tagliare questo legame politico-storico-culturale con il mondo Russo. Sarebbe un errore gravissimo spingere Mosca nelle braccia di Pechino che l’Europa potrebbe pagare nei prossimi 30-40 anni”.

Di Battista ci fa anche sapere di “essere appassionato di cultura russa, di essere appassionato di quel mondo” perché “ha fatto anche una tesi su formalisti russi, ho anche studiato un pochino la lingua” ma oggi “credo di essere soltanto in grado di ordinare al ristorante e di prendere i treni“.

Sulle polemiche interne al Movimento “francamente me ne infischio perché sono contento delle scelte che ho fatto. Non ho niente da dire attualmente, ho lasciato il Movimento per ragioni politiche proprio per il suicidio dell’entrata all’interno del governo dell’assembramento“.

L’incipit su Facebook al video pubblicato poi su Youtube è da libro cuore: “I primi di aprile, dopo poco più di un mese dallo scoppio della guerra, ascoltando l’ottimo corrispondete RAI Marc Innaro parlare a Carta Bianca, ho pensato che fosse davvero interessante comprendere quel che i russi (in particolare coloro che vivono al di fuori delle grandi metropoli) pensano del conflitto, dell’Europa, delle sanzioni, di Putin, dell’avvicinamento alla Cina. Dunque ho iniziato a pianificare un viaggio nella Russia più profonda. Prima di richiedere il visto ho avvertito l’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica e dopo averlo ottenuto l’Ambasciatore italiano a Mosca. Nelle prossime ore andrò in Russia. Scriverò reportage per Il Fatto Quotidiano e girerò un documentario per TvLoft. È ciò che amo fare e, oltretutto, credo sia utile conoscere quel che pensano “dall’altra parte”. Vi aggiornerò.

Paragonandosi sempre a Salvini, che ad oggi ricopre un ruolo politico in Italia, Dibba ci fa sapere inoltre che “per quanto riguarda il biglietto ovviamente me lo sono fatto per conto mia, in una agenzia di viaggi” di cui cita anche l’indirizzo.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

·        Dino Giarrusso.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 27 maggio 2022. 

Dino Giarrusso si è dimesso dal M5S: come i 117 eletti che l'hanno preceduto. Non si schioderà dal seggio: come tutti quelli che proponevano l'esilio per i voltagabbana. 

Fonderà un movimento di ex grillini: sarà il dodicesimo. Però, attenzione: lui lo farà «con i cittadini». Non con le capre, gli elefanti marini o i mufloni. No, no: con i cittadini. Conta sul fattore sorpresa.

Michele Serra per “la Repubblica” il 27 maggio 2022. 

Da giovane pensavo che la lotta di classe fosse l'unico vero motore del mondo, oggi mi sembra che il peso della vanità incida, nelle vicende umane, almeno altrettanto. In molti dei sommovimenti politici, degli odii e delle scissioni, in molti addii e abiure, leggo sempre la stessa cosa: "Non mi amano abbastanza, non mi valutano abbastanza, dunque me ne vado da un'altra parte". 

(Tra parentesi: molti dei passaggi da sinistra a destra, anche recenti, hanno esattamente questo innesco. Non mi avete fatto ministro, segretario del partito, direttore di rete, direttore di giornale? Peggio per voi, vado da quegli altri, che sicuramente mi sapranno capire meglio. Chiusa la parentesi).

Pure i grillini, che pure di sinistra non sono anche quando ce la mettono tutta, confermano la regola. Prendete l'eurodeputato Giarrusso. Come altri protagonisti e comprimari dell'implosione di quel partito è quasi impossibile, per i non addetti, ammesso che qualcuno di soffermi su notizie così minime, trovare una motivazione "politica" del suo addio al Movimento, o a ciò che ne resta. 

Le liti sulle regole interne hanno la stessa rilevanza di una bega condominiale, e zero interesse per chi non partecipa all'assemblea di quel condominio. Si capisce, piuttosto, che Giarrusso è travolto da passioni personali: proclama "la delusione di tantissime persone che mi chiedono di non mollare", e "la gioia di tanti che nel Movimento mi hanno sempre combattuto".

Si immaginano l'amarezza, l'animosità, le notti insonni. Tutto molto rispettabile. Ma la politica? A partire dallo stesso Giarrusso, qualcuno saprebbe dare una lettura politica della mezza dozzina di scissioni in corso tra i grillini?

È stata la mano di Dino. La tragedia di un uomo Giarrusso (detto Iena). Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Maggio 2022.

Invidioso per i cachet di Di Battista, deluso dalle mancate prebende (così dice Conte), l’europarlamentare lascia i Cinquestelle e si offre gratis ai talk show. Forse è il momento di farne una commedia all’italiana, assieme al biopic che Rocco Casalino pretende giri Paolo Sorrentino o niente. 

La vita facile di Dino Giarrusso è facile solo per osservatori superficiali. Come tutte le grandi commedie all’italiana è intrisa di tragedia, di inadeguatezza, di vittimismo e megalomania, di piccole frustrazioni e grandi illusioni. È facile sottovalutarne le fatiche. È facile non capire quanto quella di Dino Giarrusso sia una vita difficile.

La mattina il tenero Giarry appare in tv e annuncia che uscirà dal Movimento Cinque Stelle. Sono venti minuti di strepitosa televisione (menzione speciale per il conduttore, Andrea Pancani, che nel rimarcare la giarrussiana «personale sofferenza» è sornione come sapeva esserlo il Maurizio Costanzo degli anni d’oro).

Dice Giarry che auspica d’ora in poi lo invitino in televisione quanto Di Battista, «io vengo gratis» (paghereste uno stipendio a un eurodeputato perché quello possa togliersi lo sfizio di fare tv senza farsi pagare?). Dice Giarry che a mettere il veto sulle sue ospitate è l’ufficio comunicazione del Movimento, «gente che paghiamo noi», procedendo poi a precisare che lui dà al Movimento tremila euro al mese (uscireste dal Movimento per risparmiare trentaseimila euro l’anno? Sai quanti campi di padel ci si affittano?).

Ribadisce Giarry quanto stimi Conte (il segnaposto, no il cantante), e che in Europa parlandone gli dicevano ma dove l’avete trovato, è bravissimo, «è ’n fenomeno» (chissà in che lingua glielo dicevano: ricorderete la performance parlamentare di Giarry costretto a improvvisare un discorso sul prosecco senza dire che the cat is on the table).

Poi, il pomeriggio, Conte dice che se Giarry esce dai Cinque stelle per coerenza deve dimettersi, e aggiunge che ogni volta che l’ha incontrato Giarry gli ha «sempre chiesto poltrone, vicepresidenze, posizioni, delegati territoriali. Non ho mai avvertito dissenso politico». E Giarry, di rimando: «Falso, sono bugie tristi, non me l’aspettavo da lui, il mio avvocato mi ha anche chiesto perché non lo querelassi».

È evidente che Conte è la padrona di casa dell’inizio di “Una vita difficile”, quella «Non voglio avere niente a che fare con gente come voi, che mi avete rubato anche i salami», e Giarry è il partigiano di Alberto Sordi, eroico quando non vede nemici in giro, e poi al primo tedesco che spunta «io no partisàn, io scrittore, artiste, romancier».

Dovunque ti volti, nella politica italiana di questi anni, ci sono grandi commedie, grandi romanzi, grandi sketch di Corrado Guzzanti (il più ritornante è «ma tu lo sai a che ora mi sono svegliato io stamattina»; anche Giarry ieri ha detto che sulla decisione di fare un nuovo partito o gruppo o quel che è non ci ha dormito la notte: non dorme mai nessuno, si sacrificano per noi, e noi ingrati).

Commedie che magari non vengono girate per eccesso di commedia. Raccontano che l’autobiografia di Rocco Casalino non sia ancora film perché, alle riunioni per opzionarla, Casalino dice senza mettersi a ridere che lui i diritti li cede solo a un regista all’altezza della sua rutilante vita, e l’unico regista che reputi tale è Paolo Sorrentino (non pervenute reazioni di Sorrentino, ma nell’epoca delle gif forse basta un’immagine di “È stata la mano di Dio” per chiosare tanta mitomania: opterei per la zia che mangia la bufala sbavando).

Ma, a parte la comprensibile invidia per i cachet televisivi di Alessandro Di Battista, e la comprensibile delusione per le mancate vicepresidenze concessegli da Conte, a Dino Giarrusso chi glielo fa fare? Le elezioni europee non saranno per altri due anni, chi lo rielegge Giarrusso con la lista Dinoiena? (Non ha ancora comunicato il nome della lista o gruppo parlamentare o quel che è che fonderà, ma la mail sulla sua pagina Facebook è Dinoiena, e sulle schede elettorali si era fatto indicare come «detto iena»: Giarry appartiene al minuscolo novero di coloro che non solo hanno avuto a che fare col più impresentabile dei programmi televisivi, ma neppure se ne vergognano).

Certo, in questi due anni può risparmiare settantamila euro di soldi che finora dava al Movimento per pagare addetti alla comunicazione che neppure lo facevano andare in tv gratis, ma poi? Come finisce l’Alberto Sordi d’un’Italia senza cinema, che neanche ha un’autobiografia da vendere? Come finirà questa vicenda così italiana da non perdere mai l’equilibrio tra tragedia e ridicolo?

A denunciare soprusi nei cavilli del regolamento della sua lista scritto da lui stesso? Inseguito dagli inviati della sua precedente trasmissione che gl’ingiungono di vergognarsi? Qual è il corrispondente di Silvio Magnozzi (sempre il Sordi di “Una vita difficile”, mica ve lo sarete già dimenticato), che scrive il suo romanzo autobiografico in galera dopo l’attentato a Togliatti?

Certi parallelismi rendono fin troppo facile adattare la Vita difficile di questo secolo: le cinquemila lire ad articolo di vibrante denuncia cui Sordi rinuncia per i cinque milioni del commendatore le cui gesta denunciava, quelle si traslano facilmente in un Giarry tentato dall’andare a lavorare per il regista che amava sputtanare come maniaco sessuale quando lavorava in quell’impresentabile varietà. Ma il resto? Lo specifico giarrussiano?

Quando finiscono i soldi del seggio europeo, che fa uno come Giarrusso, in anni in cui non puoi tentare di pagare il conto della trattoria con la cambiale d’un industriale («ma che petrolio, quello c’ha più fame de voi»)?

È chiaro che la scena finale, con Magnozzi che si ribella alle vessazioni in piscina, va ambientata nel secolo giarrussiano su un campo di padel, o magari in un reality, ma qualcuno si sbrighi a scriverla. Sono anni senza Rodolfo Sonego e senza Dino Risi, sì, ma non per questo il povero Giarry, per il tragico finale che la sua commedia merita, può accontentarsi dei talk-show.

·        Gianluigi Paragone.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 21 giugno 2022.

Tornato da Marte, chiese: «Ma davvero Gianluigi Paragone è ancora in giro?»; «Sì»; «Davvero ha detto quelle cose?»; «Sì. Perché, tu dov’eri rimasto?»; «Che era grillino, diceva che i fondi per l’editoria dovevano sparire e che i giornalisti sono una casta»; «Ah. Era il 2018»; 

«E lui era il giornalista più lottizzato d’Italia, ingrassato proprio coi fondi per l’editoria»; «Esatto: direttore della Padania, lottizzato dalla Lega, vicedirettore di Raiuno con sbracati programmi tipo Malpensa, Italia, poi alla direzione di Raidue, poi cambiò l’aria, disse «mi dimetto da giornalista di centrodestra», poi… »; 

«Poi mi ricordo io: diventò amicone di Urbano Cairo e fece «La gabbia» su La7, idolo dei No Vax»; «Impossibile, il Covid non c’era ancora»; «Dico i No Vax che c’erano già prima»; «Ah, giusto»;

«Poi condusse la kermesse che incoronò Di Maio candidato premier, divenne grillino, fu candidato nel listino, aveva un blog sul Fatto Quotidiano, poi sono partito»; «Bene: i fondi li tagliarono. Poi a inizio 2020 Di Maio ha espulso Paragone»; «Di Maio? Quello che l’aveva candidato?»; 

«Sì. Allora Paragone ha fondato Italexit»; «Una compagnia telefonica?»; «No, un partitello No Vax e anti-euro»; «E, ora, dice che i grillini devono sparire? E che Di Maio è una macchietta?»; «Sì, dice che deve tornare all’oscurità da cui era partito»; «Chi? Lui o Di Maio»; «Entrambi, fosse per me».

Alessandro Rico per “La Verità” il 6 giugno 2022.

I sondaggi gli attribuiscono fino al 4%: più di Renzi e col fiato sul collo del tandem Carlo Calenda/+Europa. Italexit, la creatura di Gianluigi Paragone, è il vero fenomeno politico di inizio estate. 

Senatore, qual è la formula vincente?

«La coerenza. Il che mi riconnette al mio trascorso giornalistico e alla decisione di lasciare il Movimento 5 stelle, quando ha dimostrato di essere interscambiabile con destra e sinistra, i banchieri, Mario Draghi, Alessandro Profumo, i Benetton, Vittorio Colao».

Mai pentito di aver lasciato quella carriera giornalistica?

«Pentito, no. C'è, a volte, il rammarico di non poter raccontare certe cose con una telecamera, con delle inchieste, in modo sistematico. Quando fai politica, devi farti ospitare nei talk, o girare l'Italia come sto facendo adesso, o affidarti a Facebook: un terreno minato». 

Appunto. Sa che sui social gira una sua foto in Aula con guanti di lattice e mascherina? E i «negazionisti» del Covid commentano: forse Paragone non sta davvero dalla nostra parte

«Il cretino lo trovi ovunque». 

Quella foto a quando risaliva?

«Alle primissime sedute del lockdown, con regole e protocolli rigidi: ero tra coloro che rivendicavano la centralità del Parlamento rispetto ai comitati di esperti. Tra l'altro, gli obiettivi dei fotografi si erano rivolti su di me perché quel giorno feci un intervento molto duro contro il governo Conte. Su di me si può dire qualsiasi cosa, tranne una: che abbia paura di affrontare il potere. Altrimenti, avrei ancora le tre mie trasmissioni tv che mi hanno chiuso"».

Lottatore solitario?

«Nel campo dell'opposizione sono il più credibile, perché ho pagato tutti i prezzi che c'erano da pagare. Io so cosa significa mandare in onda un servizio contro Draghi quando tutti, ai piani alti, telefonano per bloccarlo». 

Per lei, M5s e Lega hanno tradito. Resta coerente solo Giorgia Meloni?

«Non mi metto a dare pagelle agli altri. Ho visto che Fdi ha votato per l'invio delle armi in Ucraina, che per me è una scelta sbagliata, come lo è l'oltranzismo atlantista. Di Lega e M5s sono sotto gli occhi di tutti non solo il tradimento, ma anche la vigliaccheria». 

È vero che, contro di loro, cerca una «vendetta politica»?

«Sì». 

Che significa?

«Devono pagare per il male che hanno fatto agli italiani che avevano riposto fiducia in loro. Ci hanno privato di diritti e libertà, sposando la linea di Draghi. Mi rivolgo ai leghisti: i ministri cardine di questo governo sono gli stessi del Conte 2». 

I ministri confermati, intende.

«Il ministro dell'Interno è ancora Luciana Lamorgese. E con Massimo Garavaglia sta dicendo che bisogna aprire a nuovi flussi di immigrati. Dicono che non si trovano lavoratori; la verità è che non sanno controllare quelli che prendono il reddito di cittadinanza e poi fanno i furbi. Con il nuovo decreto flussi possono sanare gli sbarchi già avvenuti e quelli futuri, che non sono capaci di controllare». 

Se al governo non ci fosse la Lega, però, Pd e 5 stelle ne avrebbero combinate di peggio.

«Ma se la Lega fa da cameriere a Draghi! Le abbiamo dato la possibilità di votare la mozione di sfiducia individuale contro Speranza, e la Lega se l'è fatta addosso». 

Italexit strizza l'occhio ai no vax.

«Io non mi sono vaccinato. Vorrei che non ci fosse alcun obbligo su questa sperimentazione». 

È un «putiniano»?

«È stato papa Francesco a parlare di una Nato che "abbaiava" alle porte della Russia. Il giudizio sulle responsabilità nella guerra è complesso, invece noi abbiamo sempre fretta di incasellare le persone: buoni e cattivi. È uno strano esercizio di giornalismo, incapace di leggere i fatti».

Repubblica sostiene che lei avrebbe imbarcato «personale politico in cerca d'autore». Ha una classe dirigente raccogliticcia?

«Intanto, la classe politica di Italexit si andrà a prendere i voti, a differenza degli illuminati del governo che i voti non li prendono mai. Per me i "personaggi in cerca d'autore" sono quelli che hanno continuato a dare soldi alla famiglia Benetton». 

Diego Fusaro saluta la crescita di Italexit così: «Sta maturando il dissenso rispetto all'ordine egemonico». Oltre che retorico, non è esagerato? Ambite veramente a costruire un altro ordine?

«Il mio modello sociale di riferimento è quello dei miei nonni. Sono un maledetto conservatore». 

Cosa intende?

«La rovina del Paese sono stati progressisti e riformisti, gli ipocriti di centrosinistra. Roberto Speranza ne è l'emblema: tiene a casa persone sane perché non si sono vaccinate».

E i nonni?

«Io vorrei riportare la società italiana nel suo solco identitario, fatto dalla cultura del lavoro, del sacrificio, del risparmio, che si sposa alla creatività e alla managerialità che persino i nostri nonni, magari con la sola licenza elementare, dimostravano di possedere. Non credo alle élite. Non credo ai professori. Non credo alla modernità». 

I vari Luigi Marattin e Pietro Ichino sostengono che se i salari reali sono al palo, è perché non è aumentata la produttività del lavoro.

«Assurdo. In tutti questi decenni abbiamo fatto mille riforme del lavoro e l'unico risultato è stato che il lavoro e la piccola impresa sono state smontate. L'obbligo vaccinale per gli over 50 nasconde questo».

In che senso?

«In Italia, se perdi il lavoro a 50 anni, non lo ritrovi più. Per questo hanno ceduto al ricatto. Abbiamo disintegrato il lavoro, la piccola impresa, le partite Iva, le professioni, il commercio, la ristorazione E adesso sono andati a rompere le scatole pure ai balneari. Però i voti contro la Bolkestein li avevano presi, eh». 

È curioso che la diminuzione della produttività si sia determinata proprio in corrispondenza delle riforme che hanno precarizzato il lavoro.

«Il lavoro costa sempre di più per i piccoli imprenditori. Invece le multinazionali con i lavoratori possono fare carne di porco. C'è un dumping sulle politiche del lavoro che l'Europa consente agli stessi soggetti cui permette di evadere a norma di legge. Stiamo premiando i nuovi padroni». 

Ecco, l'Europa: l'obiettivo del partito, cioè l'uscita dall'Ue, è realistico? O la sparate grossa per prendere i voti, tanto sapete che i nodi non verranno mai al pettine?

«Questa è una cretinata. Dei due partiti che hanno vinto le scorse elezioni, 5 stelle e Lega, uno raccoglieva le firme per il referendum contro l'euro, l'altro aveva un leader che indossava le felpe "No euro", arruolando Claudio Borghi, Alberto Bagnai e Antonio Rinaldi».

Quindi?

 «L'elettorato ha creduto e crede ancora che un'altra via sia possibile. Il problema di fondo è che chi prende i voti per fare una cosa, poi, non ha il coraggio e la struttura morale per portare avanti le sue battaglie». 

Cosa bisognava fare di più?

«Tutte le cose di buon senso. Ma le sembra normale che, se cade un ponte in autostrada e uccide 43 persone, invece di revocare senza condizioni le concessioni autostradali ai Benetton, gli danno ancora una montagna di soldi? Oppure che un condannato in primo grado per aver falsificato i bilanci del Monte dei Paschi di Siena, Profumo, sia ancora a capo di Leonardo? O infine che Giuseppe Conte, l'uomo dei dpcm, del lockdown, delle autocertificazioni, se ne vada in giro come una verginella?».

Non crede alla sua svolta sul tema delle armi all'Ucraina?

«Conte serve tutti i padroni che si trova davanti. Lo potremmo chiamare il camaleonte». 

Il camale-Conte.

(Risata) «Visto che i nostri genitori ci hanno fatto studiare, tentiamo una citazione più elevata».

Tipo?

«Conte è il rinoceronte di Eugène Ionesco: è quello che, nel primo atto, critica i rinoceronti e poi diventa un rinoceronte e dà la caccia a chi non lo è. Quello di Conte è il peggior trasformismo vigliacco. Io non posso dimenticarmi che lui è l'uomo che ha inventato Domenico Arcuri supercommissario». 

Anche il decreto sulle armi, che copriva il governo fino a fine 2022, i grillini l'hanno votato.

«Lui dice di apprezzare Alessandro Orsini e poi fa fuori Vito Petrocelli. Che forse è anche più moderato di Orsini».

Che pensa dell'ormai naufragato viaggio di Salvini a Mosca?

 «Il problema di Salvini è che non è più credibile. Non ha commesso un errore, anzi: un leader di partito ha il diritto di tessere una tela in politica estera. Il fatto è che i suoi fili sono privi di consistenza, perché lui un giorno sta sul melo e il giorno dopo sta sul pero». 

Ce l'ha tanto con lui?

«Mi dispiace che il suo ministro della Salute si chiami Speranza, che il suo ministro dell'Interno si chiami Lamorgese e che quello della Giustizia si chiami Marta Cartabia. E poi, come puoi fare una riforma della giustizia con i referendum?».

Quindi lei non andrà a votare domenica?

«Posso anche andare a votare sì, ma a che serve? Se sei al governo, intervieni sulla riforma Cartabia». Salvini è un po' ostaggio della linea governista nel Carroccio? «Il segretario è lui; se è ostaggio, si dimetta e salvi la faccia». 

Nel 2023 sosterrà un governo di centrodestra?

«Scordatevelo, il governo di centrodestra. Dopo Draghi, tutti sono già d'accordo per rimettere Draghi o uno come lui».

Letta e Salvini smentiscono categoricamente l'inciucio.

«Falso. Infatti le elezioni saranno un referendum su Draghi, inteso come il sistema che sta avvelenando l'Italia». 

Resterete fuori voi e la Meloni?

«Io mi auguro che la Meloni cessi il prima possibile ogni contatto con Salvini e Forza Italia, con chi fa lingua in bocca con il Pd, Renzi e Speranza». 

Pensa a una collaborazione con Fdi, allora?

«Mah. Le collaborazioni non s' improvvisano».

·        Rocco Casalino.

Dagonews il 9 agosto 2022.

Leggendo l’accorata intervista di Casalino al “Corriere della sera” si immagina che la mancata candidatura di Ta-Rocco alle prossime elezioni sia frutto di un gesto di responsabilità: “Ho capito che la mia presenza in lista avrebbe scatenato polemiche e l'ultima cosa che voglio è arrecare un danno al Movimento o a Conte”. 

In realtà lo stop all’ex concorrente del Grande Fratello, che da anni sogna di poggiare le sue rotonde e abbronzate natiche sullo scranno di senatore, è arrivato direttamente da Beppe Grillo.

“L’Elevato di torno” ha detto “no” rendendo la pariglia a Conte. Si è voluto vendicare per l’ostilità mostrata da Peppiniello Appulo alla sua cocca Virginia Raggi (esclusa per aver già consumato il doppio mandato, uno da consigliere comunale e l’altro da sindaco). 

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2022.

Rocco Casalino perché alla fine ha rinunciato a candidarsi?

«Perché è giusto così: ho capito che la mia presenza in lista avrebbe scatenato polemiche e l'ultima cosa che voglio è arrecare un danno al Movimento o a Conte, a cui mi lega un rapporto di stima e affetto». 

Dica la verità: temeva di passare per il fedelissimo raccomandato?

«Chiariamolo subito: io non avrei mai chiesto di essere messo in liste bloccate o di avere un collegio sicuro. Volevo poter partecipare alle parlamentarie come tutti, volevo giocarmela. E comunque, conoscendo Conte, lui non mi avrebbe mai blindato con una candidatura sicura, mai».

Si dice che lei abbia anche richiesto i certificati legali necessari per correre. Come mai questo ripensamento?

«Sì, è vero. Confesso che sono stato combattuto fino alla fine, non ci ho dormito per 4 notti. Perché da un lato c'è la mia militanza decennale nel Movimento e la mia voglia di impegnarmi in questo nuovo percorso di Conte e dall'altra la consapevolezza di quanto il mio nome continui ad essere ancora, dopo tanti anni, così divisivo». 

Appunto. Lei ha molti nemici nel Movimento. A luglio non le è stato rinnovato il contratto alla Camera.

«Guardi, gli ultimi due anni sono stati durissimi dal punto di vista professionale. E questo a causa di una visione del tutto miope da parte dell'ex capogruppo del M5S alla Camera (Davide Crippa, ndr ). Ha tarpato le ali all'intera comunicazione, ci ha impedito di volare alto ridimensionando le nostre potenzialità e relegandoci in un angolo. Zero spazio alla creatività e all'estro, che invece sono sempre stati il mio punto di forza e che hanno sempre prodotto grandi risultati». 

Ma lei in precedenza aveva un ruolo e un potere che i parlamentari le hanno sempre contestato.

«Non era così. Non prendevamo decisioni politiche, ma vivevamo in perfetta simbiosi coi parlamentari e remavamo tutti nella stessa direzione. Eravamo vera comunità politica. E la comunicazione del M5S era ritenuta da tutti una straordinarietà». 

Lei veniva descritto come un Rasputin.

«È il modo migliore in politica per distruggere la professionalità di un tecnico. Io sono un esperto della comunicazione. Espongo le conseguenze comunicative di scelte politiche. Ci sono dei consulenti economici, legislativi e della comunicazione. Se vuoi indebolire uno molto bravo inizia a far girare la voce che è una eminenza grigia». 

Gira voce che sulla sua scelta abbia pesato anche una distanza da Conte.

«Nessuna distanza, anzi. Le dico solo che si è comportato come un fratello con me. Ci siamo sentiti fino all'ultimo e mi ha sempre detto di decidere liberamente, ma io purtroppo ho sempre un senso di colpa che le mie azioni possano danneggiare l'immagine di Conte». 

Colpa anche di alcuni errori, come l'esultanza sul balcone di Palazzo Chigi.

«Io sconto solo una cosa del mio passato: venire da un certo mondo della tv». 

Si riferisce al «Grande Fratello»?

«Sì, anche nel 2013 fui costretto a fare un passo indietro e a rinunciare alla mia candidatura al consiglio regionale in Lombardia. Lo feci anche quella volta per amore del Movimento ma le polemiche che ci furono, perché un ex concorrente del "Grande Fratello" osava scendere in politica, mi ferirono molto. E mi feriscono ancora oggi, dopo 10 anni di militanza integerrima continuo ad essere vittima di uno stupido pregiudizio». 

Crede che se avesse corso nelle parlamentarie, avrebbe vinto?

«Credo che avrei avuto buone possibilità di arrivare in alto nel mio collegio, in Puglia. Ma ripeto, nonostante siano passati 22 anni dalla mia partecipazione al "Grande Fratello" il mio nome continua a essere ancora ghiotto per chi vuole infangare non tanto me, ma il Movimento con quello che è il "metodo Boffo". Già immagino i titoloni che avrebbero fatto: "Ecco Casalino, dalla casa del GF al Parlamento"...». 

E ora cosa farà?

«Ora c'è una campagna elettorale a cui dedicarsi giorno e notte e delle elezioni da vincere». 

Mai più candidato?

«Semmai il contrario! Lo dico con 5 anni di anticipo: al prossimo giro ci sarò! Mi auguro che dopo 15 anni di militanza e lealtà al mio partito e a distanza di 30 anni dal Gf, nessuno possa più recriminarmi nulla».

 Polvere di stelle. Casalino dice che non si candida perché è vittima del pregiudizio come ex concorrente del “Grande Fratello” L'Inkiesta il 9 Agosto 2022

Il portavoce di Giuseppe Conte racconta: «Gli ultimi due anni sono stati durissimi dal punto di vista professionale. E questo a causa di una visione del tutto miope da parte dell’ex capogruppo del M5S alla Camera Davide Crippa. Ha tarpato le ali all’intera comunicazione, ci ha impedito di volare alto ridimensionando le nostre potenzialità. Zero spazio alla creatività e all’estro, che invece sono sempre stati il mio punto di forza e che hanno sempre prodotto grandi risultati» 

Se l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi non sarà candidata del Movimento Cinque Stelle per la regola dei due mandati, il portavoce di Giuseppe Conte Rocco Casalino ha scelto invece di non correre. E al Corriere spiega il perché della sua rinuncia.

«È giusto così: ho capito che la mia presenza in lista avrebbe scatenato polemiche e l’ultima cosa che voglio è arrecare un danno al Movimento o a Conte, a cui mi lega un rapporto di stima e affetto», dice. «Chiariamolo subito: io non avrei mai chiesto di essere messo in liste bloccate o di avere un collegio sicuro. Volevo poter partecipare alle parlamentarie come tutti, volevo giocarmela. E comunque, conoscendo Conte, lui non mi avrebbe mai blindato con una candidatura sicura, mai».

In realtà, a Roma si dice che lei abbia anche richiesto i certificati legali necessari per correre. «Sì, è vero. Confesso che sono stato combattuto fino alla fine, non ci ho dormito per quattro notti», racconta. «Perché da un lato c’è la mia militanza decennale nel Movimento e la mia voglia di impegnarmi in questo nuovo percorso di Conte e dall’altra la consapevolezza di quanto il mio nome continui a essere ancora, dopo tanti anni, così divisivo».

La verità è che Casalino ha molti nemici nel Movimento. A luglio non gli è stato rinnovato neanche il contratto alla Camera. Lui lo ammette: «Gli ultimi due anni sono stati durissimi dal punto di vista professionale. E questo a causa di una visione del tutto miope da parte dell’ex capogruppo del M5S alla Camera (Davide Crippa, ndr). Ha tarpato le ali all’intera comunicazione, ci ha impedito di volare alto ridimensionando le nostre potenzialità e relegandoci in un angolo. Zero spazio alla creatività e all’estro, che invece sono sempre stati il mio punto di forza e che hanno sempre prodotto grandi risultati».

Casalino nega di aver avuto un potere che i parlamentari le hanno sempre contestato: «Non era così. Non prendevamo decisioni politiche, ma vivevamo in perfetta simbiosi coi parlamentari e remavamo tutti nella stessa direzione. Eravamo vera comunità politica. E la comunicazione del M5S era ritenuta da tutti una straordinarietà».

Il portavoce di Conte si definisce «un tecnico». «Io sono un esperto della comunicazione», dice. «Espongo le conseguenze comunicative di scelte politiche. Ci sono dei consulenti economici, legislativi e della comunicazione. Se vuoi indebolire uno molto bravo inizi a far girare la voce che è una eminenza grigia».

Gira voce, in realtà, che sulla sua scelta abbia pesato anche una distanza da Conte. Lui nega: «Nessuna distanza, anzi. Le dico solo che si è comportato come un fratello con me. Ci siamo sentiti fino all’ultimo e mi ha sempre detto di decidere liberamente, ma io purtroppo ho sempre un senso di colpa che le mie azioni possano danneggiare l’immagine di Conte».

Perché, prosegue, «io sconto solo una cosa del mio passato: venire da un certo mondo della tv». Il riferimento è al “Grande Fratello”. «Anche nel 2013 fui costretto a fare un passo indietro e a rinunciare alla mia candidatura al consiglio regionale in Lombardia. Lo feci anche quella volta per amore del Movimento ma le polemiche che ci furono, perché un ex concorrente del “Grande Fratello” osava scendere in politica, mi ferirono molto. E mi feriscono ancora oggi, dopo dieci anni di militanza integerrima continuo ad essere vittima di uno stupido pregiudizio».

Ma se avesse corso nelle parlamentarie, avrebbe avuto un buon risultato, dice: «Avrei avuto buone possibilità di arrivare in alto nel mio collegio, in Puglia. Ma ripeto, nonostante siano passati 22 anni dalla mia partecipazione al “Grande Fratello” il mio nome continua a essere ancora ghiotto per chi vuole infangare non tanto me, ma il Movimento con quello che è il “metodo Boffo”. Già immagino i titoloni che avrebbero fatto: “Ecco Casalino, dalla casa del GF al Parlamento”…».

E ora cosa farà? «Ora c’è una campagna elettorale a cui dedicarsi giorno e notte e delle elezioni da vincere». E alla prossima tornata «lo dico con cinque anni di anticipo: al prossimo giro ci sarò! Mi auguro che dopo 15 anni di militanza e lealtà al mio partito e a distanza di 30 anni dal Gf, nessuno possa più recriminarmi nulla».

·        Virginia Raggi.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2022.

 Virginia Raggi, ormai è un anno che non è più sindaca di Roma. Le manca?

«Se intende la poltrona, le rispondo che non mi manca affatto. Mi hanno detto di tutto ma è evidente che non ho mai flirtato con il potere. D'altronde, lo ha scritto proprio lei che, quando mi fu offerto, rifiutai un incarico ministeriale proprio perché volevo onorare fino in fondo il mandato da sindaco. 

Sicuramente guardo con amore e attenzione alla mia città e provo a prendermene cura: mentre altri dopo una roboante campagna elettorale hanno abbandonato Roma, io continuo a svolgere il mio compito di consigliera in Campidoglio». 

Cosa pensa del governo?

«Da cittadina spero faccia bene per il bene del Paese. La partigianeria politica non mi appassiona e credo che penalizzi gli interessi collettivi. Io stessa, da sindaca, sono stata penalizzata perché c'era una opposizione ideologica verso le scelte della mia amministrazione. Certamente si è trattato anche di una reazione agli attacchi - ora devo riconoscere - spesso eccessivi del primo M5S. Mi sono ritrovata ad essere la prima, insieme a Chiara Appendino, a ricoprire un incarico amministrativo di rilievo e - la politica è questo - sono stata oggetto degli attacchi politici. Fa parte dei rischi del mestiere. Ma, ritornando alla domanda, credo che la partigianeria non serva all'Italia». 

Anche lei, però, dall'opposizione ha attaccato con violenza Ignazio Marino.

«Ho chiesto scusa per alcuni attacchi. Le rivelo un segreto. In questi ultimi anni con Ignazio Marino si è creato un buon rapporto, umano e professionale. Ci siamo sentiti spesso, anche quando ero sindaca, e abbiamo discusso dei problemi di Roma. Abbiamo evitato di dare pubblicità alla cosa proprio perché c'era un clima di partigianeria, da una parte e dall'altra, che non sarebbe stato capito. Se parli con qualcuno, subito arrivano quelli che ti accusano di cercare l'inciucio. Spero, sinceramente, che questo periodo sia superato».

E che dice di Meloni?

«Ho fatto pubblicamente i migliori auguri a Giorgia Meloni. Ci siamo sentite telefonicamente. Ha davanti a sé un incarico impegnativo da far tremare le vene. In più è una donna e per questo non le perdoneranno nulla. La aspettano al varco. Al netto dei provvedimenti dell'esecutivo, che vedremo al lavoro, sono felice che una donna sia alla guida dell'Italia. Era ora».

 C'è una stretta su Superbonus e reddito di cittadinanza.

«Il reddito di cittadinanza è un provvedimento che difendo e rivendico perché ci allinea al resto d'Europa. Sicuramente vanno semplificate le procedure che consentono ai comuni di poter impiegare i percettori del reddito. 

Ma non dimentichiamoci quanto è stato provvidenziale durante il lockdown per tante persone che sono state davvero in seria difficoltà. C'è chi se ne approfitta? Si intervenga con fermezza. La guardia di finanza sta facendo un buon lavoro. Se ci sono i furbetti, vanno perseguiti. E questo vale anche per il Superbonus. Non dimentichiamoci che la crescita del Pil e anche i dati sorprendenti dell'ultimo trimestre sono legati anche al Superbonus».

Il M5S è all'opposizione.

«Saper fare opposizione non è semplice. Bisogna mettere al centro l'interesse del Paese. Si deve tentare di far approvare gli elementi più significativi del proprio programma con il dibattito politico, anche duro se serve. Se però ci sono provvedimenti utili, questi vanno sostenuti». 

Viene dipinta in contrapposizione con Conte.

«Le contrapposizioni servono a chi vuole creare scontri o perseguire qualche interesse poco trasparente. È un tema che non mi riguarda e non mi interessa. Io parlo poco pubblicamente proprio perché non voglio alimentare questo clima».

Si è parlato di una sua corsa alle Regionali nel Lazio. Cosa le riserva il suo futuro?

«Sto onorando il mio impegno da consigliera in Campidoglio. Di certo, non mi lascio strumentalizzare da beghe interne che sono lontane dai miei interessi e che credo non interessino a nessuno se non a coloro che alimentano queste voci. 

In questi ultimi mesi, oltre ad aver ripreso la mia attività di avvocato, sto studiando molto: ho approfondito temi legati alla transizione energetica che è un tema prioritario per il futuro dell'Italia, delle nostre aziende e dei nostri figli».

"Ha mentito al processo sullo stadio della Roma", l'ex sindaca Virginia Raggi indagata per falsa testimonianza. L'esponente 5S era stata denunciata per la deposizione resa il 7 maggio 2021 in tribunale. I pm dovranno stabilire se aveva commesso un errore oppure un atto volontario. La Repubblica il 27 Maggio 2022. 

Il Nuovo Stadio della Roma è rimasto solo un progetto mai realizzato. In compenso le dinamiche che ruotano intorno alla realizzazione della struttura di Tor di Valle hanno dato vita a una serie di procedimenti penali. L’ultimo, in ordine di tempo, ad approdare tra i corridoi della procura di Roma vede come protagonista l’ex sindaca della Capitale: Virginia Raggi è infatti indagata per falsa testimonianza.

È stata denunciata dopo la sua deposizione al processo sullo stadio della As Roma, nel maggio 2021. Chiamata a testimoniare, la Raggi, a proposito del passaggio tra il progetto partorito dalla giunta Marino a quello modificato durante la sua permanenza in Campidoglio, aveva detto:  “Circolò nel Movimento il parere (...) del giudice Imposimato (...)” per cui “noi potevamo revocare la delibera di Marino” ma “non abbiamo seguito perché (...) non è immaginabile tornare in- dietro rispetto a una decisione (...) che ha determinato degli effetti”, si legge negli atti riportati da Il Fatto Quotidiano. 

Ma in realtà il parere di Ferdinando Imposimato diceva di “annullare” la delibera, non di “revocare”. L’annullamento, a differenza della revoca, non comporta esborsi per il Comune. Per questo i pm stanno indagando per capire se la Raggi abbia mentito. 

"A parte l'elezione di domicilio e che l'atto di iscrizione sia stato firmato dal pm Giulia Guccione, non sappiamo altro. A quanto leggo sulla stampa, si parlerebbe di un esposto-querela dell'ex consigliera comunale M5S Grancio, che in passato ha fatto altre denunce contro l'ex sindaca Raggi, sempre tutte archiviate". Lo afferma all'Adnkronos l'avvocato Alessandro Mancori, difensore dell'ex sindaca di Roma Virginia Raggi. "Si parla di una falsa testimonianza, ora capiremo quale sarebbe il passaggio in questione, comunque siamo a disposizione" aggiunge Mancori.

Da “ni vax” a “putiniana”, è di nuovo bufera su Virginia Raggi. Italia Viva chiede le dimissioni dell'ex sindaca da presidente della Commissione speciale Expo 2030 per le chat filo russe. Lei si difende: «Non sono Pro-Putin». Il Dubbio il 30 marzo 2022.

Da “ni vax” a “putiniana” d’Italia. È di nuovo bufera sull’ex sindaca Virginia Raggi che dopo aver strizzato l’occhio a chi rifiuta il vaccino, ora guadagna il titolo di “filorussa”. Non che l’esponente M5S abbia pubblicamente preso posizione sul conflitto in Ucraina, come del resto non ha mai espresso chiaramente la sua contrarietà al vaccino: si è tenuta sul filo del dubbio, per così dire, senza di fatto mai vaccinarsi.

E senza mai prendere posizione. Almeno non apertamente, scrive Repubblica, che ora tira fuori alcuni messaggi che Raggi avrebbe inviato nella chat grillina “Quelli che l’M5S”: video, articoli e post attinti del web in cui si dipinge l’Ucraina come un paese «eterodiretto» dall’Occidente, con tanto di «battaglioni nazisti» sotto il controllo del governo. Tutte argomentazioni tipiche della propaganda russa, e per questo inaccettabili secondo gli esponenti capitolini di Italia Viva che ora ne chiedono le dimissioni da presidente della Commissione speciale su Expo 2030: la stessa che le ha “concesso” l’attuale sindaco Roberto Gualtieri per suggellare il patto giallo-rosso.

«Dopo le posizioni no vax, ci mancava solo la propaganda filo Putin. Il ruolo di presidente commissione Expo 2030 Roma non è compatibile con questa visione», scrive il coordinatore romano dei renziani Marco Cappa. Mentre la capogruppo Pd in Campidoglio Valeria Baglio chiede che Raggi smentisca pubblicamente. Ed è subito accontentata: «Non sono una filo-putiniana o filo-russa: è evidente che in Ucraina ci sia un aggressore, la Russia, come è pubblica la mia contrarietà alla guerra come soluzione dei conflitti – scrive Raggi su Facebook -. Mi rincresce dover fare questa premessa ma mi si vuole affibbiare questa “etichetta” per delegittimarmi».

Si potrebbe infatti obiettare che esprimere perplessità sul governo di Kiev non significa sostenere Putin. E del resto, lo stesso video rilanciato da Raggi (che ripesca tra alcuni vecchi discorsi dell’ex europarlamentare grillino Dario Tamburrano) ricalca la formula del “né… né”: «non si tratta di essere pro o contro la Russia, ma di essere neutrali». Ma sembra ormai innegabile un certo apparentamento tra i no vax e i putiniani nostrani, come dimostra l’esperienza della Commissione Dupre (“Dubbio e Precauzione”) guidata da Cacciari, Agamben &Co. Che ora rinuncia alla lotta contro la “dittatura sanitaria” e vira sul conflitto in Ucraina con un evento online, in programma sabato pomeriggio, dal titolo “La verità è la prima vittima della guerra. Dal coprifuoco pandemico al coprifuoco della ragione”. Ospite: il professore Alessandro Orsini.

Ventisei milioni di debiti non giustificati. Gualtieri denuncia la Raggi. Alessandro Imperiali il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.

La cosa ancora più grave è che l'amministrazione comunale non avrebbe dato spiegazioni di fronte ai ritardi, rinunciando persino a difendersi davanti ai creditori.

Ritardi nei pagamenti ai creditori che si tramutano in milioni di euro in più che i contribuenti sono costretti a versare nelle casse capitoline per lavori e servizi. Questo è ciò che accade al Comune di Roma.

A svelare la gestione che difficilmente è possibile definire limpida è stata Silvia Scozzese, vicesindaco nonché titolare dei conti del Campidoglio. Come riporta il quotidiano il Tempo, Scozzese ha avviato un'indagine interna e dato mandato a Paolo Aielli e Pietro Mileti, rispettivamente direttore e segretario generale del Campidoglio, di esaminare i documenti e qualora trovassero delle discrepanze o dei problemi di procedere con denunce alla procura della Corte dei Conti. Sembrerebbe che la responsabile della situazione sia la giunta Raggi. Il vicesindaco, infatti, una volta insediata ha ricevuto da Mileti ben 36 proposte di sanatoria. Queste provenivano da tutti i dipartimenti capitolini ed erano stati approvati dai 5 Stelle senza spiegarne le motivazioni. E per questo ancora non hanno ricevuto l'approvazione dell'Assemblea capitolina.

Tra le proposta alcune risalgono al 2014 e sono relative agli interventi urgenti disposti dal dipartimento Simu per l'alluvione che il 31 gennaio di quell'anno colpì la Capitale.

Il problema

Sono debiti, precisa sempre il Tempo, derivanti da importi che inizialmente erano dovuti dall'amministrazione a vario titolo che però non sono mai stati pagati ai creditori. La conseguenza? Gli interessi sono saliti nelle cause di contenzioso. Perché se il Comune non paga i debiti in tempo i creditori fanno causa. E se questi ultimi vincono l'amministrazione deve pagare oltre che gli interessi anche le spese.

Le cifre

Riferendoci alle ultime stime parliamo di 26 milioni di euro, di cui 1,5 di interessi. Ma la cosa ancora più grave è che l'amministrazione non avrebbe dato spiegazioni di fronte ai ritardi, rinunciando a difendersi davanti ai creditori. "L'inerzia dell'amministrazione- scrive Scozzese in un'apposita memoria di giunta approvata il 22 marzo - è stata continuata e diffusa e ha determinato la crescita esponenziale degli oneri a carico del Comune".

Chi dovrà riordinare i conti e trovare dei validi motivi alla situazione venutasi a creare saranno il direttore e il segretario generale del Campidoglio. In primis, dovranno produrre una relazione sulle 36 proposte di sanatoria sottoposte alla Giunta. Sempre loro sono autorizzati a procedere con denunce alla Corte dei Conti. Per evitare che in futuro ci siano altri ritardi nei pagamenti è stata attivata un'azione di monitoraggio della spesa. Inoltre, c'è l'intenzione di rafforzare il coordinamento tra i dipartimenti e gli organi politici ossia Giunta e Assemblea

Valeria Di Corrado per iltempo.it il 25 marzo 2022.

Una fondazione che ha come mission l'assistenza di persone con disabilità fisica, psichica o sensoriale, chiamata a fronteggiare l'emergenza degli incendi nelle aree verdi di Roma. Per la Procura della Corte dei conti del Lazio è un no sense. Eppure il Campidoglio - durante l'amministrazione Raggi - ha assegnato alla Fondazione Roma Solidale onlus tre affidamenti, per un presunto danno erariale da 1.076.181 euro.

 I pm contabili hanno citato in citato in giudizio gli ex assessori all'Ambiente e alle Politiche sociali, Pinuccia Montanari e Laura Baldassarre, e sette dirigenti capitolini. Secondo la ricostruzione dell'accusa, gli affidamenti accordati dal Comune alla onlus non sarebbero avvenuti in modo regolare, proprio perché la cura del verde non è ritenuta coerente con lo statuto della Fondazione che «ha lo scopo di perseguire in forma esclusiva finalità di solidarietà sociale».

«Ha l'obiettivo di sostegno alle persone fragili in situazione di disagio per il miglioramento della loro qualità di vita, a partire dai servizi residenziali o comunque sostitutivi della famiglia, rivolti a persone con disabilità, fisica, psichica e sensoriale, al fine di integrarle nel tessuto sociale della città e dove possibile avviandole al lavoro».

Nel mirino del vice procuratore della Corte dei conti del Lazio, Guido Patti, sono finiti i progetti «Frutti di Roma», «Verde di Roma» e «Manutentori civici». Il primo, in particolare, affidato alla onlus nel 2018 per 397mila euro, prevedeva «pronto intervento verde e supporto attività antincendio», con lo scopo di «sperimentare azioni specifiche, anche con l'ausilio di personale assunto a tempo determinato proveniente dall'area del disagio sociale».

Il progetto prevedeva di «fronteggiare l'emergenza degli incendi a danno del patrimonio boschivo romano nella stagione estiva, attraverso attività di manutenzione e cura del verde pubblico; di sperimentare nuove logiche e nuovi modelli progettuali per la gestione delle aree verdi e boschive di Roma, anche attraverso l'impiego di persone che versano in condizioni di vulnerabilità socio-economica; promuovere la cultura del verde a Roma, sensibilizzando la popolazione alla valorizzazione e alla difesa delle aree verdi cittadine». 

Le aree verdi di Roma sui cui intervenire dovevano essere individuate dal Dipartimento Tutela Ambientale «sulla base di priorità di servizio e necessità». La Procura contabile ha dubbi anche sulla reale esecuzione dei lavori. L'ex assessore Montanari assicura che gli affidamenti sono stati firmati nel rigoroso rispetto della legge: «Abbiamo agito con correttezza, portando grandi vantaggi a tutta la città».

Alisher Usmanov, l'oligarca russo e gli intrecci con Virginia Raggi: l'indagine, tam-tam in procura. Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.

Alisher Usmanov è un magnate russo-uzbeko con un legame speciale con Roma. Adorato da due sindaci completamente diversi come Ignazio Marino e Virginia Raggi, l’oligarca adesso deve fare i conti con la Guardia di Finanza, che sta indagando su tutti i suoi beni che si trovano in Italia e quindi anche nella sua amata Capitale che ha contribuito a migliorare con alcune ricche donazioni. 

Una delle più famose risale al 2017, quando Usmanov staccò un assegno da 300mila euro per il restauro della sala degli Orazi e Curazi dei Musei Capitolini. “È grazie anche ai mecenati come lui che possiamo ricominciare a fruire di questi spazi - dichiarò all’epoca la sindaca Raggi - il mecenatismo è qualcosa che fa bene a chi lo fa e ai cittadini che ne beneficiano”. Stando a quanto ricostruito da Il Tempo, il magnate russo-uzbeko aveva donato altri 200mila euro per finanziare il restauro della Fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale e prima ancora aveva contribuito con quasi due milioni a diversi lavori, tra cui quelli al Foro di Traiano.

All’epoca il sindaco era Marino, che tra l’altro ha dovuto difendersi in tribunale per presunte spese illecite, accuse dalle quali è stato assolto con formula piena. L’ex primo cittadino era stato a cena con Usmanov, che pagò il conto da 3.540 euro, e pare che proprio in quell’occasione l’oligarca russo espresse per la prima volta l’intenzione di farsi carico delle spese della sala degli Orazi e Curazi.

Caccia all'oro russo. Yacht e mega-ville: gli oligarchi pagano pegno. E parte la ricerca di conti e depositi. Una crisi senza fine: la guerra mette in ginocchio l'economia italiana. Draghi ha paura. Luigi Garbato su Il Tempo il 05 marzo 2022.

«È grazie anche ai mecenati come Usmanov che possiamo ricominciare a fruire di questi spazi. Il mecenatismo è qualcosa che fa bene a chi lo fa e ai cittadini che ne beneficiano». Era il 2017 quando l’ex sindaco di Roma Virginia Raggi pronunciava queste parole in riferimento alla donazione di 300mila euro del filantropo russo-uzbeko per il restauro della sala degli Orazi e Curiazi dei Musei Capitolini. Ma il forte legame che ha l’oligarca Alisher Usmanov con la Capitale è stato dimostrato nel tempo anche con un’altra donazione da 200mila euro, questa volta per finanziare l’intervento di restauro della Fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale.

Il rapporto con la città eterna risale a qualche anno prima, al periodo cioè in cui era primo cittadino Ignazio Marino. Il sindaco aveva infatti annunciato il contributo di quasi due milioni di euro da parte dell’industriale russo, soldi che sarebbero stati utilizzati anche per lavori al Foro di Traiano. La pioggia di denaro che è scesa sulla Capitale potrebbe però interrompersi, poiché la Guardia di Finanza sta indagando su tutti i suoi beni che si trovano in Italia. Le Fiamme Gialle, infatti, dopo aver congelato una villa in Costa Smeralda dal valore di 17 milioni all’azionista di maggioranza di Metalloinvest ed ex direttore generale di Gazprom Invest, amico di Vladimir Putin, non hanno ancora chiuso gli accertamenti nei suoi confronti sul territorio nazionale, compresa la città eterna, con la quale Usmanov ha un solido legame. Il suo nome, tra l’altro, finì anche nell’inchiesta che aveva coinvolto l’ex sindaco Marino per presunte spese illecite, accuse dalle quali fu poi assolto con formula piena.

L’oligarca, infatti, andò a cena in un noto roof garden nella Capitale con l’ex primo cittadino. Nell’elenco delle spese, che durante l’indagine erano state definite dagli inquirenti «non istituzionalmente giustificate», c’era pure la cena da 3.540 euro con Usmanov.

L’ex sindaco Marino aveva affermato che «all’inaugurazione della sala degli Orazi e Curiazi la sindaca (Raggi ndr.) ha fatto l’elogio del mecenatismo e dell’importanza della ricerca di donazioni private. Chissà se ha scritto una lettera con un biglietto d’invito per l’evento ad Alisher Usmanov. Il Movimento 5 Stelle nel 2015 mi denunciò per le mie cene di rappresentanza e negli atti delle indagini della procura tra tutte le spese per le cene di rappresentanza del mio mandato di 28 mesi venne elencata, ovviamente, anche la cena offerta l’11 aprile 2014 ad Alisher Usmanov...fu Alisher Usmanov a offrirsi di farsi carico delle spese (della sala degli Orazi e Curiazi ndr.) dopo che gliene parlai nell’autunno 2014. Usmanov è un personaggio straordinario, con una vita così singolare da meritare un romanzo».

La Finanza, intanto, avrebbe chiuso gli accertamenti in Italia nei confronti di Oleg Savchenzo, Vladimir Roudolfovitch Soloviev, Gennady Nikolayevich Timchenko e Alexey Alexandrovits Mordaschov, colpiti con il blocco dei beni poiché inseriti nella lista nera dell’Unione europea dopo l’invasione dell’Ucraina. L’unica posizione invece ancora in piedi, e sulla quale i finanzieri voglio fare piena luce, è proprio quella del magnate che ha dimostrato negli anni «beneficienza» nei confronti della Capitale. È quindi ancora caccia aperta ad altri beni che uno degli uomini più ricchi della Russia e del mondo potrebbe avere sul territorio italiano e nella città eterna.

Franco Bechis per “Verità & Affari” il 19 luglio 2022.

La vendita formalmente non è ancora avvenuta, anche se sono confermate dallo stesso Cesare Paladino le trattative in corso per la cessione del suo Hotel Plaza di Roma, nella centralissima via del Corso. 

Intanto il suocero di Giuseppe Conte ha ripulito il bilancio della società che possiede le mura dell'hotel, la Immobiliare di Roma Splendido, utilizzando a distanza una magia legislativa che porta ancora la firma del fidanzato della sua bella figlia, Olivia. 

Grazie a quella il Plaza è aumentato di valore di 245.500.000 euro, 49.100.000 dei quali «relativi al terreno sottostante al fabbricato». Un bel salto patrimoniale, visto che l'anno prima risultava a bilancio per 93,8 milioni di euro.

Tutto possibile senza pagare un euro di tasse grazie alla rivalutazione dei beni di impresa consentita da una delle leggine Covid che portava la firma di Conte.

È lo stesso suocero del leader M5s a scrivere da amministratore unico della società a spiegare la legittimità della operazione: «L’immobile strumentale ad uso alberghiero, è stato sottoposto a rivalutazione beneficiando delle disposizioni previste dall'applicazione dell’articolo 6- bis del Dl n. 23/2020 (d e c reto «Liquidità»), che ha consentito la rivalutazione gratuita dei beni d’impresa, misura messa in campo già lo scorso anno a sostegno del settore alberghiero e termale particolarmente danneggiato dalle limitazioni imposte per arginare la diffusione del Covid-19».

Ancora una volta dunque per Paladino ci sarebbe da fare santo subito il fidanzato della figlia. Grazie a decreti e dpcm firmati da Conte ha infatti potuto tenere in piedi il Plaza, mantenere con la cassa integrazione persino i figli, evitare con le rateizzazioni la guerra con la Agenzia delle Entrate e perfino uscire dai guai giudiziari in cui si era infilato per il mancato pagamento della tassa di soggiorno al comune di Roma in periodo molto precedente alla pandemia grazie alla depenalizzazione del reato di peculato inserita in uno di quei provvedimenti .

L'operazione rivalutazione del Plaza ha comportato – continua l'amministratore unico della Immobiliare Splendido – «un miglioramento degli indici di patrimonializzazione dell'impresa e pertanto del rating creditizio». 

Notizia che ovviamente conta con le banche creditrici che hanno sottoscritto un patto sulla ristrutturazione del gruppo e che si accompagna alla prima cessione di attività non strategica: «Durante l'esercizio – scrive ancora il suocero di Conte – la società ha ceduto inoltre un immobile ad uso abitativo per euro 5.750.000, al fine di ottemperare all'accordo sottoscritto nell'esercizio precedente così da saldare il debito residuo per euro 4.500.000 verso l'istituto di credito interessato. La vendita ha generato una minusvalenza di euro 963 .940». 

A bilancio la società proprietaria dell'hotel Plaza (dove lavora per altro la figlia di Paladino, nonché fidanzata del leader M5s) ha altri preziosi beni materiali: «In particolare opere d’arte iscritte in bilancio al loro valore di acquisto pari a euro 3.794.118. Si tratta di quadri, mobili, oggetti d’arte, d’antiquariato o da collezione, di cui dispone la società per motivi legati alla rappresentanza, al lustro e all’importanza che certe opere possono dare nei luoghi in cui sono collocate; pertanto non essendoci la volontà di cedere le opere d’arte, le stesse vengono collocate in bilancio tra le immobilizzazioni.

Per tali immobilizzazioni non è applicabile un piano di ammortamento legato alla perdita di utilità economica del bene nel corso del tempo, in quanto, non solo l’o p e ra non perde valore nel tempo, ma può incrementarlo in ragione della notorietà dell’a rtista e del trascorrere del tempo».

La Immobiliare controlla anche un'altra società, la Uneal (unione esercizi alberghi di lusso), che ha per oggetto la gestione alberghiera vera e propria del Plaza, che ha riaperto dopo più di due anni di fermo per la pandemia solo qualche settimana fa. Per questo motivo è stato contabilmente scontato buona parte del fitto riscosso, che ammonterebbe a prezzo pieno a 8 milioni di euro l'anno ed è diventato invece di 3,5 milioni.

Assai più contenuto (12 mila euro l'anno) il fitto invece pagato – per un appartamento all'ultimo piano dell'Hotel Plaza, una sorta di attico – da un inquilino speciale: lo stesso Paladino, suocero appunto di Conte. Il prezzo in quella zona di Roma sarebbe basso per un monolocale, è certamente assai generoso per un appartamento con vari saloni e camere come quello abitato dall'amministratore unico della società.

Nella nota integrativa al bilancio lo stesso Paladino spiega che il piano di ristrutturazione del gruppo – che comprende numerose altre società partecipate anche dalle figlie – è stato rinviato rispetto alle scadenze concordate del primo semestre 2022 «anche alla luce di possibili sviluppi in merito a trattative con investitori nazionali ed internazionali». 

Trattative invece ancora in corso con il fisco per le non banali pendenze esistenti: «La società prosegue nel suo obiettivo di risolvere le pendenze con l’Agenzia delle Entrate ricorrendo, ove possibile, alla rateizzazione delle somme dovute generatisi nel corso dei passati esercizi».

Non entusiastica la relazione del revisore dei conti, Massimo Agostini, che scrive nero su bianco: «Le informazioni reperite, anche per effetto di carenze nell’impianto contabile e nei sistemi di gestione dei dati all’interno dell’azienda, non permettono una verifica puntuale delle poste di bilancio; tuttavia, sono state richieste tutte le delucidazioni necessarie ad avere la maggior comprensione possibile dei fenomeni manifestatisi nel corso dell’esercizio».

E aggiunge: «Nella consapevolezza che la nomina e avvenuta oltre la chiusura dell’eserci - zio relativo all’anno 2021(...) e in presenza di un’incertezza significativa, sono tenuto a richiamare l’attenzione nella relazione di revisione sulla relativa informativa di bilancio, ovvero, qualora tale informativa sia inadeguata, a riflettere tale circostanza nella formulazione del nostro giudizio».

Franco Bechis per “Verità & Affari” il 4 agosto 2022.

La guerra dei Roses in casa di Giuseppe Conte rischia di incarognirsi ulteriormente. Il 2 agosto scorso infatti il padre della fidanzata del leader M5s, Cesare Paladino, ha fatto deliberare dalla holding del suo gruppo immobiliare (la Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio srl) lo scioglimento anticipato della società ponendola in liquidazione volontaria e la nomina di se stesso come liquidatore.

La scelta improvvisa è stata la risposta del resto della famiglia al lodo parziale vinto in collegio arbitrale dal figliastro di Cesare, nonché fratellastro di Olivia (fidanzata di Conte) e Cristiana, con cui si stabiliva il suo diritto di recesso dalla capogruppo per poi passare in seconda fase alla nomina di una commissione di periti per stabilire il quantum del divorzio.

A vincere quel lodo è stato il figlio di primo letto della moglie di Paladino (l'attrice Ewa Aulin), John Rolf Shawn Shadow, cresciuto in casa di Cesare dall'età di 5 anni, ma desideroso di sciogliere ora ogni rapporto con la famiglia chiedendo di liquidargli il dovuto secondo equità. 

Pur cresciuto in casa tanti anni, John è sempre stato trattato da figliastro rispetto alle figlie naturali di Cesare, nate quando lui faceva già parte della famiglia. Così anche la holding del gruppo è stata divisa in tre seguendo questo principio di figlie e figliastro: ad Olivia e Cristiana il 47,5% della società, a John il 5%. 

Il gruppo non ha navigato in buone acque negli ultimi anni, un po' per vecchi debiti che si facevano stringenti e per i mancati pagamenti al fisco che hanno causato anche un pesante provvedimento giudiziario un po' perché non dotato di linea manageriale all'altezza.

Ma ha chiuso un piano concordato con i brandi creditori bancari e si è rimesso in navigazione più tranquilla utilizzando tutto quello che si poteva dei decreti e dpcm a firma del genero Conte. 

Grazie a quelli ha man tenuto figlie e figliastro a spese della cassa integrazione in deroga pagata dallo Stato. Grazie a quelli ha tamponato guai con ristori e rivalutazioni dei beni aziendali. Grazie a quelli con un colpo di spugna Cesare ha visto cancellata la sua condanna penale dovuta al mancato (per anni) versamento al comune di Roma della tassa di soggiorno che lui riscuoteva in albergo. 

Negli ultimi mesi Paladino senior ha scelto con la società che ne possiede le mura di rivalutare per 240 milioni di euro a costo zero (sempre grazie a un provvedimento di Conte che Mario Draghi non ha cancellato) il valore dell'Hotel Plaza di Roma, un cinque stelle nella centralissima via del Corso, dove lui stesso abita all'ultimo piano pagando un affitto irrisorio (12 mila euro l'anno). Ma soprattutto si sono fatte insistenti anche le indiscrezioni (la prima è venuta da Dagospia) su un'offerta consistente da parte di un gruppo internazionale per rilevare il Plaza consentendo un bel guadagno a chi ne è proprietario.

Ed è proprio quel miele in arrivo che Paladino senior non ha alcuna intenzione di dividere con il figliastro, di cui non si aspettava il recesso. Lo scioglimento della capogruppo ha quel solo scopo, anche se non è particolarmente elegante (la mossa è simile a quella dei ragazzini che si portano via il pallone quando vedono che la squadra sta perdendo la partita) e soprattutto si presta a un lungo contenzioso legale. 

John Shadow infatti non è stato avvisato nemmeno come socio di minoranza della convocazione dell'assemblea che scioglieva la società e il motivo- verbalizzato- è proprio quello del suo esercitato diritto di recesso contro cui a questo punto è praticamente impossibile ricorrere. Ma è in un'altra lettera di durezza inusitata che traspare il vero motivo di quello scioglimento.

E' indirizzata alle 17,15 del 2 agosto ai membri del collegio arbitrale che deve dirimere la contesta fra Paladino senior e il figliastro dall'avvocato maestro di Conte, il professore Guido Alpa. Che comunica ai giudici che essendo sciolta la società il recesso di John Shadow diventa inefficace. E aggiunge: “Vi invitiamo pertanto – e per ragioni di difesa delle parti da noi rappresentate ci corre l'obbligo di diffidarvi in tale senso- a desistere dal compimento di ulteriori atti inutilmente gravatori delle ragioni dei nostri assistiti e, così, innanzitutto dall'esperimento della contestata C.T.U., con avvertimento che in difetto i nostri assistiti si riservano di tutelare le proprie ragioni in tutte le sedi, nessuna esclusa”.

Quindi il figliastro per forza di cose anche con la liquidazione della capogruppo, avrà rimborsata la sua parte di capitale. Ma il valore della partecipazione (che appunto sconta anche la proprietà e la gestione del Plaza) invece che essere stabilito da terzi nel lodo previsto, sarà deciso dallo stesso Paladino. 

Un atto di guerra familiare vera e propria, a cui non mancheranno le risposte immediate da parte dei legali di John Shadow, Angelo di Silvio e Luigi Todaro, secondo cui a norma del 2437 del codice civile la risposta del suocero di Conte sarebbe stata gravemente tardiva rispetto alla comunicazione ufficiale del recesso e quindi nulla.

Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica” il 7 marzo 2022.

L'ex sindaca Virginia Raggi e il finanziamento di Cesare Paladino, padre di Olivia e di fatto suocero dell'ex premier Giuseppe Conte. Enrico Michetti e la liquidità garantita dai bonifici di Fratelli d'Italia. I documenti depositati in Corte d'Appello dai candidati alle ultime Comunali, conti alla mano, ricostruiscono la marcia di avvicinamento alle urne dei tre avversari del sindaco Roberto Gualtieri. Raggi e il bonifico di Paladino Decine di piccole donazioni dai sostenitori, anche da 5 euro.

I mini- versamenti raccolti attraverso Stripe, piattaforma per pagamenti online. Poi gli endorsement più pesanti. Prima l'autofinanziamento firmato Virginia Raggi, che ha bonificato 5.000 euro sul conto del suo comitato elettorale. Poi i 1.000 della senatrice Paola Taverna e del deputato Maurizio Cattoi. Quindi i finanziamenti della Tundo Spa, società rimossa dal servizio di trasporto dei ragazzi disabili dalla giunta Gualtieri, e quelli dei costruttori. 

I «palazzinari», come li chiamano i romani, hanno sostenuto tanto l'attuale sindaco che l'uscente: Ns Costruzioni srl, Cuma 6 srl e Millenium Immobiliare hanno versato un totale di 3.600 euro.

Il supporter più generoso dell'ex prima cittadina? Cesare Paladino. Il proprietario dell'Hotel Plaza, che nelle sue sale ha ospitato diverse delle riunioni elettorali della pentastellata, ha puntato 9.000 euro su Raggi. Probabilmente su suggerimento del suocero, Giuseppe Conte. 

Un gesto che, chissà, sarà pure servito a mettersi una volta per tutte alle spalle la storia dei mancati riversamenti al Comune della tassa di soggiorno. Il Plaza era moroso per 2 milioni euro. Poi si è messo in pari. Infine il finanziamento a Raggi. 

Giorgia Meloni per Michetti Se mai fosse necessaria un'altra conferma, sono i conti del comitato di Enrico Michetti a confermare che a scegliere per candidato il tribuno di Radio Radio sono stati i meloniani. A coprire 220.000 dei 309.703 spesi in campagna elettorale è stato Fratelli d'Italia. Un calderone in cui non è possibile individuare i singoli finanziatori. Tornando ai rapporti (tesi) tra le forze del centrodestra, la Lega ha investito soltanto 20.000 sulla corsa di Michetti. Forza Italia? Almeno sul rendiconto depositato in Corte d'Appello, i berlusconiani non sono pervenuti.

Oltre ai partiti, ci sono gli imprenditori. C'è chi ha sostenuto tanto Gualtieri che Michetti, come Valter Mainetti con Sorgente group: 4.000 per il candidato del Pd, 5.000 per quello del centrodestra. Anche la Scci di Davide Zanchi, società che gestisce il mall Euroma2 costruito dalla Parsitalia di Luca Parnasi, ha finanziato entrambi i contendenti: 12.000 euro a testa. Seguono i sostenitori del solo Michetti. L'immobiliarista Umberto Volpes ha messo 2.000 euro. La Ojkos di Mauro Belometti, impresa edile bergamasca, sul direttore della Gazzetta Amministrativa ne ha puntati 25.000.

Mentre la Interconsulting di Paolo Montesano, già consigliere di centrodestra a Imperia, 2.500. Nota a margine sulle uscite: i 3.510 euro spesi per far volare Michetti su una mongolfiera a fine campagna si sono rivelati inutili. Troppo vento. Il tribuno ha pagato l'acconto, ma non si è mai librato in aria. Da Sorgente e Scci donazioni bipartisan Per le mongolfiere (mai usate) del tribuno spesi 3.510 euro.

Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica – Edizione Roma” il 6 marzo 2022.

I costruttori, nell'Urbe meglio noti come «palazzinari» . Poi una galassia di piccole e grandi cliniche private, pubblicitari, rappresentanti dei commercianti. Pure un gommista e un'agenzia automobilistica. 

Con piccoli e grandi contributi, tutti ovviamente leciti, decine di società e imprenditori hanno scommesso sull'elezione di Roberto Gualtieri a primo cittadino. Il rendiconto elettorale depositato in Corte d'Appello mette in fila i donatori e i loro finanziamenti. Sommati l'uno all'altro, valgono 770 mila euro. Fondi spesi dall'attuale inquilino del Campidoglio di fede piddina per rilanciare post sui social, compiere il tour delle periferie, farsi pubblicità su giornali e radio.

A sostenere il sindaco che gestirà i fondi del Pnrr, quelli del Giubileo 2025 e a Dubai ha appena siglato il patto per l'Expo 2030 con i rappresentanti degli industriali, degli albergatori e dei commercianti ci sono Cna, Confcommercio e Confesercenti. Quindi i costruttori. 

La Società Appalti e Costruzioni della famiglia Cerasi ha bonificato 10 mila euro. Angiola Armellini, proprietaria delle case popolari di Nuova Ostia che l'ex amministrazione grillina aveva provato ad acquistare, ne ha messi 1.000. Uno scherzo davanti ai 50 milioni saldati al Fisco nel 2014. La Fresia di Elia Federici, società del centro commerciale Gran Roma, ne ha versati 8.000. Con la società Mezzaroma sisters ecco Barbara, Alessandra e Valentina. Le figlie di Pietro hanno spinto la corsa di Gualtieri con 10.000 euro. Davide Zanchi ne ha spesi 12.000.

È il numero uno della Scci Servizi, indagato e poi archiviato per l'indagine sullo stadio a Tor di Valle. Altri 10.000 arrivano da Massimo Caputi e dalla sua Feidos. Lunedes spa ne ha bonificati la metà. Si tratta della società di Giuseppe Cornetto Bourlot, editore di Internazionale, proprietaria di alberghi e con una partecipazione nel parco Cinecittà World. La Cam, società che ha realizzato il parcheggio interrato in via Giulia, ha bonificato 3.000 euro. Sono 10.000 quelli versati dai pubblicitari di Urbanvision, restauratori della Barcaccia di piazza di Spagna... 

Prima di passare alla sanità privata, vanno registrati i due maxi versamenti da 25.000 euro di Colombi gomme, già fornitore Atac, e i 45.000 di Polimar, gruppo di Roberto Masciotti specializzato in pratiche automobilistiche. La Ceci Mauro Scavi, bonifico da 3.500 euro, ha invece realizzato l'impianto di Guidonia del gruppo Cerroni. Ora le cliniche. Aiop, l'associazione che le raduna, ha staccato un assegno da 10.000 euro. La presidente è Jessica Faroni del gruppo Ini. Villa Tiberia Hospital, Villa Maria e San Carlo di Nancy del gruppo Gvm di Ettore Sansavini ne ha messi 7.500. Suo il Covid hospital di Casal Palocco. Healthadvisor, partecipata dalla Genera Group di Filippo Ghirelli, arriva a 20.000. Il Sorgente group di Valter Mainetti ha donato 4.000 euro.

Mentre Pier Giorgio Romiti, figlio di Cesare dichiaratamente schierato con Gualtieri, ne ha versati 2.000 con la sua Bona Dea srl.

Da “Posta e Risposta - “la Repubblica” il 25 febbraio 2022.

Caro Merlo, sono rimasto rammaricato dalla decisione dei consiglieri di Azione al Comune di Roma che hanno votato (per altro spaccandosi) per Virginia Raggi come presidente per la Commissione Expo 2030. Il sorprendente consenso per Calenda e la sua lista a Roma era largamente motivato dalla campagna contro Raggi e la sua costante incapacità. E ora ce la ritroviamo alla guida dell'Expo 2030. Marino Freschi - Università Roma tre 

Risposta di Francesco Merlo

L'elezione di Virginia Raggi è un "friccicore" nel campo largo del centrosinistra, l'esposizione ("expo") di Gualtieri che fa il generoso con le dita incrociate. Non mi pare che si possa moraleggiare senza ironia sulla sfida che la nuova Raggi dei cantieri, dei treni e degli investimenti futuristi lancia alla vecchia Raggi dei gabbiani e delle buche, delle autocombustioni degli autobus, dei crolli della metropolitana e di Spelacchio.

Tanto più che la Raggi che piangeva, rideva, si rifugiava sui tetti del Campidoglio e, per ignavia, faceva il gran rifiuto delle Olimpiadi è diventata ora una No Vax che se ne vergogna, mentre il fedelissimo marito ha cominciato uno sciopero della fame contro il Green Pass. Caro Freschi, invece di inseguire le banalissime incoerenze di Calenda, si concentri sulla commedia e sul melodramma come destino di Roma.

Lorenzo D’Albergo per roma.repubblica.it il 25 febbraio 2022.

Sono ore agitate in casa Raggi. L'ex sindaca, oggi consigliera di minoranza con ambizioni di scalata al Movimento nazionale e di candidatura alle prossime Politiche, è appena stata eletta presidente della commissione speciale Expo 2030 facendo esplodere la già precaria intesa tra renziani e calendiani in Campidoglio. 

Nel frattempo, il marito Andrea Severini rilancia nelle chat grilline il proposito di iniziare lo sciopero della fame contro il Green Pass. L'unica cosa che non si muove è RomEPolis2030, la "rete culturale per il civismo cittadino" lanciata dalla pentastellata all'indomani della batosta elettorale tra i mugugni dei big del Movimento. La creatura raggiana è dormiente. Soporifera. L'ultimo messaggio dei soli 22 pubblicati sul forum del progetto civico di Raggi negli ultimi tre mesi (abbondanti) è datato 15 novembre. Il resto del sito? Modello Tripadvisor.  

Sarà capitato a tutti di visitare il famosissimo portale a caccia delle ultime recensioni sul ristorante appena prenotato. E pure di incappare nelle proteste degli utenti che puntano il dito contro i giudizi finti, compilati ad arte per far fare bella figura al locale di turno. L'effetto sul sito di Raggi è lo stesso. 

In apertura si leggono tre testimonianze al limite dell'anonimato. Luisa e Nicoletta di Roma e il torinese Francesco si entusiasmano davanti alla rete dell'ex prima cittadina. "Grazie a questo progetto ho potuto incontrare molte persone competenti e capaci con il quale condividere le mie idee per migliorare la città", scrive Luisa. 

La recensione di Nicoletta cozza con il vuoto pneumatico di interventi sulla piattaforma web: "Nel forum di RomEpolis2030 si trattano argomenti interessanti dove scambiare sia opinioni che progetti utili a tutti i livelli di analisi. Fare sintesi sulle proposte adesso è più facile". All'appello, come detto, risultano solo 22 post. La sezione dedicata al raggianissimo Expo è vuota: nemmeno una parola.

Ma Francesco, ultimo recensore semi-anonimo, pare già un fanatico del sito: "Sono capitato per caso in questo forum, poi ho cominciato a partecipare visto le competenze che ho notato. Molte idee le sto portando anche nella mia città". Ma nessuno dei 22 post sul forum (stile Meetup protogrillino) è firmato da alcun Francesco. 

Gli interventi sono firmati dall'ex vicesindaco Pietro Calabrese, l'ex assessore Andrea Coia, l'ex assessora Veronica Tasciotti, l'ex europarlamentare Dario Tamburrano, l'ex consigliere Angelo Diario. Insomma, da una serie di pentastellati fuoriusciti dalle istituzioni senza ottenere la riconferma alle urne. Un gruppo da cui gli esponenti civici tirati dentro da Raggi in campagna elettorale si sono man mano allontanati. L'ultimo è stato Marco Doria, pluriminacciato ex coordinatore delle ville storiche romane e oggi collaboratore di Nicola Franco, presidente in quota Fratelli d'Italia del VI Municipio, quello di Tor Bella Monaca. 

Andrea Venuto, coordinatore delle liste civiche che hanno accompagnato Virginia Raggi e il M5S alle ultime Comunali, si limita a commentare così l'immobilismo sul forum: "È meglio Facebook". 

Dove, però, RomEPolis2030 non esiste. Non ne fa mai menzione nemmeno l'ex sindaca nei suoi post. Interventi in cui la capitale sta lentamente sfilando in secondo piano. Tra "Quirinarie" proposte ma mai effettuate e critiche alle misure di contenimento della pandemia del governo Draghi, la grillina accarezza sempre più una dimensione nazionale. 

 

 

 

ANNO 2022

I PARTITI

PRIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

      

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I PARTITI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scissione: vaffanculo a loro stessi.

La Democrazia a modo mio.

Ipocriti.

Son Comunisti…

Beppe Grillo.

Giuseppe Conte.

Luigi Di Maio.

Alessandro Di Battista.

Dino Giarrusso.

Gianluigi Paragone.

Rocco Casalino.

Virginia Raggi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Secessionismo.

La Moralità.

Il Capitano.

Il Senatur.

Giancarlo Giorgetti.

Lorenzo Fontana.

Luca Zaia.

Roberto Calderoli.

Roberto Maroni.

La Bestia e le Bestie.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

La morte del Comunismo.

Comunisti: La Scissione dell’atomo.

Ipocriti.

Razzisti e bugiardi.

Achille Occhetto.

Beppe Sala.

Carlo Calenda. 

Elly Schlein.

Enrico Berlinguer.

Enrico Letta.

Giuseppe Pippo Civati.

Goffredo Bettini.

Luigi De Magistris.

Mario Capanna.

Massimo D’Alema.

Matteo Renzi.

Maria Elena Boschi.

Matteo Richetti.

Monica Cirinnà.

Nicola Fratoianni.

Gianni Vattimo.

Fausto Bertinotti.

Laura Boldrini.

Stefano Bonaccini.

Walter Veltroni.

Vincenzo De Luca.

Le Sardine.

I Radicali.

Quelli …Che Guevara.

I Marxisti d’oltreoceano.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le vittime innocenti degli scontri con la polizia.

Le Primule rosse.

Il Delitto Biagi.

Le Brigate Rosse.

PAC. Proletari Armati per il Comunismo.

Lotta Continua.

La Falange armata. 

Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, NAR (Nuclei armati rivoluzionari).

Gli Anarchici.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

 

I PARTITI

PRIMA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La Scissione: vaffanculo a loro stessi.

La lite Casaleggio - Grillo che segnò il destino del Movimento. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 7 settembre 2022.

L’incontro era andato così male che negheranno a lungo che fosse davvero avvenuto. Alle 13 dell’undici marzo 2016, forse il giorno più importante nell’accidentata storia del Movimento Cinque Stelle, Gianroberto Casaleggio uscì dall’ufficio dell’azienda che portava il suo nome con una faccia ancora più cupa del solito. Ad aspettarlo, c’era una sola persona, un solo giornalista, che gli chiese una dichiarazione. «Mi scusi, non oggi, sarà per la prossima volta» fu la risposta.

Non ci sarebbe più stata una prossima volta. I giorni del cofondatore del M5S erano purtroppo ormai contati. Emanuele Buzzi, che aveva già visto i cinque membri del direttorio, capeggiati da Luigi Di Maio, lasciare la sede con atteggiamento furtivo, sapeva che era successo qualcosa di molto importante. Pezzo per pezzo, una testimonianza dopo l’altra arrivò a scoprire come la rottura tra Casaleggio e Beppe Grillo non sia avvenuta con un «vaffa» indirizzato dal primo all’ormai ex amico genovese durante la loro ultima telefonata, che forse non c’è neppure mai stata.

Tutto era accaduto durante quella riunione, quasi alla luce del sole, quando il progetto dell’ideologo milanese di creare una nuova struttura omnicomprensiva dove sciogliere le diverse anime pentastellate, il logo, una nuova piattaforma web, che prevedeva di fatto una parità di ruolo tra i due fondatori, era stata bocciata da quasi tutti i suoi ragazzi, oltre che da Grillo. Non fu solo una sconfitta, per un uomo orgoglioso come Casaleggio, quella fu anche una umiliazione senza ritorno.

Nel giornalismo esistono gli analisti più o meno dotti, i commentatori professionali, i coloristi. E poi ci sono quelli che hanno le notizie, da cui dipendono tutte le altre categorie sopracitate. Per averle, bisogna stare tanto sul marciapiede, come fece Buzzi quel giorno e come ha fatto in questi dieci anni di lavoro dedicati in modo esclusivo al M5S, occorre creare rapporti confidenziali basati sulla fiducia reciproca, che talvolta prevedono anche la possibilità di non scrivere ogni dettaglio di quel che si sa. Ci vuole tanta fatica, tanta dedizione e altrettanta capacità di sopportazione.

Poi arriva il momento in cui l e storie finiscono, come è finita quella dei Cinque Stelle come li abbiamo conosciuti. E allora diventa possibile scrivere ogni cosa, e fare la storia inedita e segreta di un Movimento di cui si pensa di sapere tutto, che ha vissuto in pubblico sia la propria ascesa che il rovinoso declino. (in libreria dal 9 settembre per Solferino) è il libro sui Cinque Stelle che mancava. Perché se c’è una persona che poteva raccontare la vicenda privata del soggetto politico più controverso e discusso della recente storia italiana, quella è il nostro «Ema», professione cronista. Che con questo libro crea una mappa alternativa e più precisa della geografia intern a di una strana creatura in grado di passare da forza antisistema a forza di governo, da scheggia impazzita a partito di maggioranza. Fino alla mutazione ormai quasi definitiva, dall’uno vale uno al partito di uno solo, Giuseppe Conte, al tempo stesso salvatore e carnefice del vecchio M5S.

Proprio perché il suo autore ci è sempre stato, perché ha visto fiorire e poi appassire ogni protagonista di questa strana vicenda, questo libro non è una raccolta di aneddotica spicciola e inedita sul M5S, ma getta una luce diversa su alcune scelte o decisioni che hanno inciso molto sulla vita di questo Paese. Se davvero l’addio di Luigi Di Maio al M5S è stata la palla di neve che ha innescato la slavina della sfiducia al governo Draghi, non è cosa da poco sapere dell’ultima telefonata dell’attuale ministro degli esteri con Grillo, della sua richiesta di intervenire respinta con perdite.

Sono tantissime in queste pagine le notizie nuove di zecca che da sole varrebbero un titolo di giornale, ma bello grosso. Da una specie di cospirazione per allontanare Virginia Raggi dal Movimento, alle scelte comunicative che tanto hanno pesato nella composizione del controverso governo con la Lega, fino alle discussioni sui soldi, alle feroci faide interne e al sondaggio segreto che obbligò Grillo e Conte a una pace di convenienza. Emanuele Buzzi racconta tutto, con il suo consueto sguardo non giudicante. E disegna così la parabola di un Movimento che doveva volare alto, la rete, le connessioni, il grido onestà-onestà. Ma infine è caduto per sentimenti come la cupidigia, la brama di potere. Molto bassi, e molto umani. 

La lite con Casaleggio e il sondaggio segreto: la verità sul patto Grillo-Conte.

La storia del Movimento 5 Stelle è stata segnata da due eventi cardine: la rottura dei due co-fondatori nel 2016 e il sondaggio segreto che obbligò la tregua tra Grillo e Conte. Luca Sablone su Il Giornale l'8 settembre 2022.

Il Movimento 5 Stelle si è reso protagonista di un processo di trasformazione totale rispetto alle origini. Una serie di metamorfosi che l'ha portato ad assumere connotati per certi aspetti del tutto differenti rispetto alla propria nascita. Lo snaturamento ha toccato diversi ambiti, ma in realtà sono due gli eventi principali che hanno segnato il destino del M5S: la lite tra i due co-fondatori e un sondaggio segreto per evitare la rottura definitiva a luglio 2021.

Di certo una data resterà inscalfibile: l'11 marzo 2016. Il giorno che probabilmente più di tutti ha avuto un impatto sulla storia del Movimento. A raccontarlo è Emanuele Buzzi, che nel suo libro Polvere di stelle (in libreria da domani per Solferino) svela retroscena e dettagli della galassia pentastellata. Tra le altre cose dà conto di un litigio tra Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, che sarebbero arrivati ai ferri corti poco prima del decesso del guru.

A marzo di quell'anno si parlava di diverse possibilità. Nello specifico si prendevano in considerazione due strade: un passo indietro formale da parte del comico genovese o un cambiamento (un allargamento) dei vertici. "Casaleggio uscì dall’ufficio dell'azienda che portava il suo nome con una faccia ancora più cupa del solito [...] I cinque membri del direttorio, capeggiati da Luigi Di Maio, lasciarono la sede con atteggiamento furtivo", si legge sul Corriere della Sera che oggi ha anticipato i contenuti del libro di Buzzi. La ricostruzione del giornalista dimostra bene quanto i rapporti fossero ormai non proprio idilliaci. Era accaduto qualcosa di assoluta importanza.

Ai tempi si parlava di una presunta telefonata furibonda tra Grillo e Casaleggio dai toni durissimi. Anche se in tal senso non sono arrivate conferme ufficiali. E dunque si resta alle indiscrezioni di una chiamata in cui si sarebbe consumato il "vaffa", in cui si sarebbe arrivati alla presa d'atto che le posizioni fossero distanti. Alla base della discordia ci sarebbero state alcune decisioni ai vertici del partito.

Nell'ampia ricostruzione di Buzzi trovano spazio anche altri aneddoti: dalle feroci correnti interne ai rapporti con Virginia Raggi passando per le discussioni sui soldi, sono diversi i fronti che hanno fortemente animato il dibattito nel mondo 5 Stelle. Si parla anche di un sondaggio segreto che portò Beppe Grillo e Giuseppe Conte a siglare la pace, evitando così il divorzio definitivo che avrebbe avuto un urto sul nuovo corso del Movimento.

Il 15 luglio 2021 il comico e l'ex premier si erano incontrati a Marina di Bibbona per sancire il patto della spigola. Una tregua dopo settimane di tensioni. Conte aveva elaborato la bozza del nuovo statuto, che però aveva riscontrato le perplessità di Grillo. Che a sua volta aveva accusato l'avvocato di non avere visione politica, capacità manageriali, esperienza di organizzazioni e capacità di innovazione. Poi la pace improvvisa. Quanto reale, nei fatti, non si sa.

(ANSA il 21 giugno 2022) Oltre 60 parlamentari hanno lasciato il M5S e si sono iscritti al nuovo gruppo di Di Maio. Lo riferiscono deputati e senatori coinvolti nell'operazione. 

(Adnkronos il 21 giugno 2022) - Questa "ennesima lacerazione" è "figlia della decisione scellerata di far parte di un governo dove governano tutti". Di Maio ora "si collocherà saldamente al fianco di draghi", mentre se Conte "vuole dare una possibilità" al M5S alle politiche, "deve lasciare immediatamente il governo Draghi". Lo dice Alessandro Di Battista, intervistato in Russia da Rainews24. (Leb/Adnkronos)

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 22 giugno 2022.

A cercare nella memoria del telefono, emergono pezzi di Storia. Con la esse maiuscola, non si tratta di un refuso. Perché stiamo parlando del partito che stravinse le elezioni del 2018, che è stato il principale azionista di un curioso esperimento giallo-verde, e del governo che ha affrontato un evento unico e speriamo irripetibile come la pandemia. 

Adesso che tocca scrivere dello sfacelo, del crollo ormai definitivo di una casa che ha sempre avuto il problema di essere ogni volta costruita dal tetto, da qualche parte bisognerà pur cominciare. 

Lo facciamo da uno scambio di sms che risale a qualche settimana dopo quel trionfo di cui sopra. «Ma tu lo conosci questo Conte?» venne chiesto all'anonimo parlamentare all'epoca fedelissimo dell'allora eroe dei due mondi Luigi Di Maio, vincitore dell'odiato Pd di Matteo Renzi, oggi transfuga dall'altra parte della barricata. «Ma chi c... sarebbe?» fu la risposta. 

L'attuale ministro degli Esteri e l'ex premier non hanno in comune solo grisaglie, ma anche un destino comune da corpi estranei, mai completamente parte dello sfuggevole Dna pentastellato, spesso accettati per convenienza quando il vento soffiava a favore, mai amati.

«Chiamatemi Luigi per favore». Invece non si muoveva una foglia, sotto al palco di Rimini dove Di Maio era stato appena eletto capo politico del M5S. Solo caldo e polvere. Un gruppo di militanti calabresi si allungava oltre le transenne per abbracciarlo, «Gigi, sei grande Gigi» gridavano eccitati. 

Lui allungò il braccio destro per intero, piegandosi in avanti, quasi a evitare quegli abbracci sudati, e chiese per cortesia che il suo nome non venisse sottoposto a diminutivi. Quanta differenza con la leadership fisica di Beppe Grillo, che presentando la prima lista del suo Movimento si era fatto trasportare su un canotto dalle mani di migliaia di militanti fino al palco di piazza Maggiore a Bologna, e che durante i comizi più ispirati dello storico Tsunami Tour del 2013 si buttava tra la folla. 

Sembra che sia passata un'era geologica. Quella kermesse riminese ideata per il passaggio di consegne tra vecchio e nuovo M5S conteneva già gli ingredienti principali di questo romanzo populista che sembra trascinarsi verso la fine. Beppe Grillo aveva già cominciato a fare il pendolo. Andava e veniva ripetendo sempre di essere stanco, e celebrò senza entusiasmo l'incoronazione a freddo di quello che chiamava «il deputatino di Pomigliano d'Arco».

Roberto Fico stava in disparte e dava appuntamento nella hall del suo hotel, dove recitava la consueta parte dell'offeso, del grillino originario che sopravvive in quanto tale e si lamenta, ma tanto alla fine basta dargli un contentino e digerisce tutto, anche il governo con la Lega. 

Mancava Alessandro Di Battista, che proprio in quella occasione, tramite uno struggente messaggio video, inaugurò la sua carriera Erasmus di politico senza politica, di quello che sta fuori perché è diverso ma anche un po' dentro perché non si sa mai, intanto gira il mondo e gli studi televisivi come indignato speciale.

Venne l'incredibile risultato del 2018, e con esso ci fu l'avvento di uno sconosciuto avvocato pugliese, introdotto a Grillo e a Davide Casaleggio proprio da Di Maio quando c'era da trovare la quadra per un governo che sembrava impossibile. Saltiamo a piè pari i rovesci elettorali che portarono alle dimissioni di Di Maio.

Va citata per dovere di cronaca la favolosa trasferta parigina della ricostituita coppia Di Maio-Dibba, i prescelti. Quel febbraio 2019 era una fase di sondaggi calanti. Loro pensarono bene di andare a Parigi in auto per rendere omaggio ai Gilet gialli che all'epoca paralizzavano la Francia incitando alla guerra civile, e rifarsi così una verginità antisistema. Il tutto mentre erano al governo in Italia. La bussola non è stata certo smarrita l'altro ieri. 

Da allora, gli addetti ai Cinque Stelle non hanno fatto altro che raccontare un'agonia consapevole. Anche qui viene in soccorso l'archivio di WhatsApp e la corrispondenza con attuali parlamentari delle varie fazioni. «Siamo finiti». «Ormai non rimane più nulla».

«Tutti a casa». Un Movimento esausto, prigioniero dei dilemmi esistenziali del fondatore, torno o non torno, mi riprendo tutto oppure abbandono definitivamente.

Quello con Giuseppe Conte è stato un matrimonio di convenienza, nato male per via di appuntamenti mancati che avevano fatto imbestialire Grillo, per via dell'oggettiva difficoltà dell'ex presidente del Consiglio, che ancora oggi si muove come fosse in casa d'altri, recitando slogan che non appartengono alla figura che si è creato con la permanenza a Palazzo Chigi. Da due debolezze non nasce mai una forza. Non è un caso che lo strappo più definitivo avvenga sulla politica estera.

Fino a che era vivo Casaleggio padre, atlantista convinto, uno che quando gli si chiedeva se esistevano alternative alla Nato ti fulminava con lo sguardo, era roba sua. Dopo, tutto e il contrario di tutto. Quel terreno è diventato la prova dell'assenza di ogni direzione comune, di ogni identità, vecchia o nuova che sia. Guardando indietro, rimane da chiedersi come sia stato possibile quel 32,7% del 2018. Bisognerebbe chiederlo a quelli che ieri nell'aula di Montecitorio hanno celebrato la morte del M5S sostenendo giustamente che la politica estera è una cosa seria. Ieri si sono dimenticati di dirlo. Sarà per la prossima volta, forse.

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 22 giugno 2022. 

Istinto primordiale: tuffarsi nella tonnara grillina. Le sinapsi dei cronisti sfrigolano con un mucchio di pensieri malevoli.

I 5 Stelle si dividono, si sfasciano.

Quando? Adesso. Calma. 

Inquadrare la scena, cronaca: il premier Mario Draghi, tra poco, chiederà al Senato di essere autorizzato a mandare altre armi in Ucraina; Giuseppe Conte pretenderebbe invece che ogni spedizione fosse preceduta da un passaggio parlamentare (l’ambasciatore russo Sergej Razov ha già ringraziato, soffiando sulfureo compiacimento); Luigi Di Maio, colpevole di essersi indignato per tanta ostilità nei confronti del governo, è stato sottoposto a brutale processo dal tribunale contiano. Provocazione, sfida, apocalisse. «Giggino sta raccogliendo firme tra i parlamentari del Movimento». Se ne va, prima di essere espulso. 

Dalla buvette di Palazzo Madama arrivano risate cimiteriali. 

Circoletto intorno a Matteo Renzi, che ingoia (letteralmente, tipo fachiro) due pizzette sotto le occhiate adoranti di Francesco Bonifazi, l’amico tesoriere sempre abbronzato come Carlo Conti. L’intervento di Renzi in aula, poco fa, di un’altra categoria (ad alcuni può apparire presuntuoso, egocentrico, spregiudicato: però rispetto alla media dei senatori è legittimato a considerarsi un incrocio tra Churchill e De Gasperi, ma forse più Churchill). Anche oggi è il più veloce di tutti: «I grillini sono finiti. Si stanno dividendo per capire chi entrerà nel prossimo Parlamento». Interviene Pier Ferdinando Casini (che pure si è esibito in un intervento pieno di saggezza): «Io invidio Renzi perché è giovane e bello» (sguardi maliziosi). Il socialista Riccardo Nencini: «Scusate, io vado».

Il botto dei 5 Stelle diffonde un certo, innegabile buon umore (avevano promesso di aprire questo luogo sacro come una scatoletta di tonno, un po’ di rancore ci sta). Portaborse: «Ragazzi, è fatta». Il ministro Federico D’Incà e il sottosegretario Enzo Amendola (gran mediatore) sono riusciti a limare anche l’ultima virgola di una risoluzione che mette d’accordo tutte le forze di governo e consente a Draghi di partecipare al prossimo Consiglio europeo. Il voto, però, sembra ormai un dettaglio. Tutti guardiamo Di Maio: eccolo laggiù, in fondo al corridoio con le pareti foderate di velluto. È livido, teso, gelido. Gira voce che avrebbe arruolato oltre 30 deputati (destinati ad aumentare dopo i ballottaggi delle comunali) e una decina di senatori, ci sono i primi nomi (Castelli, Spadafora), il gruppo si dovrebbe chiamare «Insieme per il futuro», sembra abbiano già una sede. 

Da una porta spunta Giorgio Mulé, sottosegretario alla Difesa: FI, potente, informato.

«Una scissione così non la organizzi in una mattina. È chiaro che Di Maio l’aveva preparata, con cura, da settimane».

Continui.

«Conte umiliato. Ha perso la faccia e la truppa. Dopo aver inutilmente minacciato Draghi, non solo vota la risoluzione di maggioranza, ma si ritrova con mezzo partito. Per il Pd, un disastro. Con chi si allea: con l’avvocato dotato di pochette o con Giggino?».

Salute del governo?

«Cagionevole. Però non sarà ricoverato. Andrà avanti con le pasticche». 

Cercare subito uno del Pd. Ma niente: camminano veloci, sguardi accigliati dietro le mascherine, scuse miserabili: devo tornare in aula, aspetto la telefonata di mia moglie. Si volta il comunista (non è un modo di dire) Marco Rizzo, che parlava con il suo unico senatore rosso, Emanuele Dessì, ex grillino. «Emanuele, dai: fagli vedere la fotocopia». Dessì tira fuori un foglio, è il programma del M5S, con cui fu eletto nel 2018: ripudio della guerra, disarmo, Russia partner economico, riformare la Nato. «All’epoca, il capetto dei 5 Stelle era Di Maio — dice Rizzo — Ma non stupitevi. Questi si dividono su un tema gigantesco come la guerra solo per aggirare il limite del doppio mandato. Ricordo che Bertinotti e Cossutta, un argomento così, lo affrontarono invece con un cipiglio memorabile».

Paragoni con Di Maio e Conte? «Sarebbe come paragonare la compagna di scuola con Sharon Stone» (poi, boh: s’avvicina Stefania Craxi e gli urla: «Rizzo, tu dovevi sposarmi!». E lui: «Ma tu sai che io ho fatto molto di più!»). 

Compare Antonio Razzi: «Nei momenti epocali ci sono sempre». Un fine notista: «Non trovi siano indecenti tutti questi uomini che vengono nel Salone Garibaldi senza calzini?». Un tipo basso, rotondo, sudato, chiede: «S’è per caso visto Matteo Salvini?». Ma oggi Salvini potrebbe presentarsi vestito da Batman, nessuno se lo filerebbe. Piuttosto: notizie di Beppe Grillo?

Allora due cronisti partono e vanno ad aspettarlo all’hotel Forum — suite con vista sui Fori, perché l’Elevato adora il lusso — anche un po’ per vedere se ricomincia con il solito rosario di insulti, «Giornalisti fantasmi/ cadaveri che camminano/ lombrichi destinati all’estinzione», o se ha capito che stavolta è il suo Movimento a rischiare brutto, e noi invece siamo ancora tutti qui, al nostro posto, a raccontare.

 Giampiero Mughini per Dagospia il 22 giugno 2022.

Caro Dago, sono un cittadino della Repubblica che ieri ha ascoltato per intero la conferenza stampa di Luigi Di Maio e che ne è stato contento. Valeva la pena stare lì una ventina di minuti pur di sentirgli dire un’espressione che più o meno contraddiceva l’ennesima bestialità del loro repertorio originario, e cioè che “uno vale uno”. 

Sì, sono contento che Di Maio sia oggi così lontano da quello che andò in Francia per battere la mano sulla spalla a quei gaglioffi che capeggiavano le sfuriate dei “gilet gialli”. Sì, sono contento che la frotta di parlamentari aderenti ai 5Stelle sia scesa di una sessantina di unità. Sì, sono contentissimo che questi 60 parlamentari si dichiarino dei fervidi sostenitori del governo Draghi.

Per un attimo ho addirittura pensato di scrivere qualcosa sull’argomento, e sarebbe stata la prima volta nella mia vita che scrivevo su qualcosa che attenesse al movimento fondato da Beppe Grillo. Ma no, non ne sono proprio capace, non mi viene in mente nulla, proprio nulla. 

Su quel materiale antropologico ci sono gli articoli (magnifici) di un Francesco Merlo, di un Fabrizio Roncone e di tanti altri. Nel ricordarmi che all’avvio del movimento, Beppe Grillo venne portato su un canotto dalla folla esaltata dai suoi “vaffa”, mi viene uno sbadiglio e solo quello. Per me impossibile scrivere di loro. Impossibile. Nemmeno una parola, nemmeno un aggettivo. Mille auguri a Di Maio e ai suoi sodali.

Francesco Merlo per “la Repubblica” il 21 giugno 2022. 

Torna il vaffa, ma della buona creanza, il vaffa di un sottovalutato a un sopravvalutato, un vaffa senza diavoli nascosti, un vaffa tutto napoletano, respinto senza neppure il classico "vacci tu". E va detto subito che solo a prima vista sono divertenti gli ex squinternati d'assalto che ora si mandano a quel paese mordendosi la lingua. 

Qui il solo insulto forte e chiaro, che nel codice dei 5stelle equivale a infame cornuto e sbirro, l'ha lanciato Paola Taverna a Luigi Di Maio: «Sembri Renzi». Ma la porta d'uscita gliel'ha mostrata Roberto Fico, che nel 2017 ne subì la leadership imposta da Grillo per acclamazione. 

E tutti ricordiamo Fico in dolente afonia, agitarsi, ma senza dire neppure una parola, dietro il palco anticasta di Rimini dove gli fu persino impedito di salire: giorno verrà Perciò ora Fico si vendica, si scarica e dice che «Di Maio non è contro Conte, ma contro tutto il Movimento »: tiè. Ma mentre lo dice nega di dirlo: «Non ne voglio parlare».

Lo stile è quello del calcio dell'asino. Ma Di Maio, mimando l'eleganza, gli risponde con una nota in terza persona, che davvero si nega alla risposta: "Il ministro non replicherà a nessuno degli attacchi che sta ricevendo in queste ore. C'è un limite a tutto, ciononostante non si può indebolire il governo italiano davanti al mondo che ci osserva, in una fase così delicata".

Ovviamente non è uno scontro tra apocalittici e integrati, ma tra integrato e integrato, entrambi con il problema del doppio mandato. Fico e Di Maio davvero si somigliano anche se non si pigliano, e il duello tra i due non ci sarà perché in nessun Paese del mondo, neppure nel "Venezuela di Pinochet" (che stava nell'atlante storico ridisegnato dal "Di Maio di prima") un sopravvalutato accetta la sfida di un sottovalutato. Insomma, mai questo "Di Maio di dopo" promuoverebbe Fico ad avversario e dunque: "descansate niño" e riprenditi il guanto.

E però bisogna ammettere che sta diventando davvero epico il romanzo di formazione dell'outsider e brocchetto del populismo Luigi Di Maio, da commesso dello stadio San Paolo a ministro degli Esteri pulitino, perfettino e persino bravino del governo Draghi europeista e atlantista. 

Perciò di nuovo ha sbagliato Fico a sfidarlo passeggiando per le strade di quella Napoli che li unisce mentre li divide. Fico infatti ci è nato mentre Di Maio, che è cresciuto a Pomigliano, non è neppure figlio della provincia, ma di quell'enorme hinterland che per grandezza in Europa è secondo solo a quello di Barcellona.

Di Maio ha dunque il narcisismo compensatorio della periferia, lo sforzo e il bisogno di strafare per poter fare. Fico invece pensa di essere lui Napoli, arruffato per i centri sociali che frequentava in jeans e maglietta come "il terrone" amato e cantato dagli Skiantos, non indumenti da compagno proletario, ma uno stile di vita, quale che sia il vestito che indossa. 

Pure con il cappotto blu di cachemire che lo impaccia quanto l'impaccia l'Istituzione, Fico è ancora il "compagno" arruffato di una volta, è vero, ma è anche Nino D'Angelo, il cui inno è "Nu jeans e 'na maglietta" che è pure il titolo del suo film più di successo.

Il presidente Fico non si sposta più in autobus anticasta come negli esordi ed eccelle nei convenevoli, si inchina, scambia piccoli sorrisi di circostanza. Ma, fedele alla sua natura, concede pochissime parole perché con la lingua si imbroglia - "il vaglio resta vagliato", "non è vero che uso un'auto blu, è grigia" - e si infila le mani in tasca, che è la sua abitudine. 

"Machitofafà" lo chiamavano all'università di Trieste, dove si laureò - 110 e lode - con una tesi sui neomelodici napoletani, "la canzone popolare che non si può giudicare con il codice penale alla mano". E dunque "come Hobsbawm vide la rivoluzione nei briganti", così Fico la vide, prima ancora che in Grillo, in Nino D'Angelo (rieccolo) che appunto canta: "Ma chi to' fa fa".

Di Maio invece ha sempre avuto il look in contrasto ideologico con il grillismo e dunque anche con il se stesso di prima: lo studente fuori corso che sbagliava i congiuntivi era già l'unico nel Movimento - "l'ometto di Grillo" lo insolentiva De Luca con la cravatta, anche prima di esibire qualche bella compagna, di firmare anche lui un'autobiografia da infanzia di un capo, di chiedere scusa per gli eccessi del giustizialismo e perdono per essere stato il "Di Maio di prima".

E ci si può perdere nelle sue gaffe, sulle quali anche io ho così tanto scritto che davvero mi basterebbe ricopiarmi. A partire magari da quel viaggio in Francia e contro la Francia quando insieme con Di Battista riduceva a parodia la politica estera. Di Maio, che era vicepresidente del Consiglio, ministro e capopartito, si offriva infatti come una Marianna di sostegno alla violenza redentrice dei gilet gialli: pugni ai poliziotti e ruspe contro la porta del ministero.

L'idea scema era quella del "qui casca il gallo", con la denunzia del colonialismo francese settant' anni dopo la sua fine, mentre Giorgia Meloni, nel suo più fulgido momento di reginetta di Coattonia, gridava in tv che Macron sfruttava i bambini africani per arricchirsi. 

Le gaffe e le fragilità di Fico sono diverse dalle bêtises accumulate da Di Maio, Di Battista e dai vari Toninelli. Fico, sia nel bene che male, è rimasto un grillino piccolo piccolo che raramente è stato fuori misura. 

Di sicuro sballò quando si lanciò in una sgangherata, calunniosa offensiva contro Umberto Veronesi che Beppe Grillo chiama Cancronesi: «Riceve soldi da una multinazionale che costruisce termovalorizzatori. 

Vergogna!». È vero che riscorrendole oggi tutte le storie di questi grillini hanno la furbizia ruspante del guaglioncello "io speriamo che me la cavo", ma solo Di Maio è ormai arrivato alla prova-miracolo: una prova dura, acre, ammorbante, velenosa, per vincere la quale dovrebbe appartenere - ma chi può escluderlo?- ai fenomeni della politica italiana.

In questa decadenza dei 5 stelle, che non somiglia certo a un'altra caduta degli dei, come furono la morte della Dc, del Pci e del craxismo, come del resto anche quella del fascismo dopo il fascismo, del Movimento sociale di Almirante e Fini, in questo finale di partita di un Movimento 5 stelle slabbrato come un condominio, sono in troppi a sognare un duellissimo: Fico sogna di battere Di Maio, Di Maio sogna di battere Conte, e Conte sogna di battere…Draghi. 

Da repubblica.it il 21 giugno 2022.

Da Sergio Battelli a Laura Castelli, da Primo Di Nicola a Carla Ruocco, e poi Francesco D'Uva, Simone Valente, Daniele Del Grosso, Simona Nocerino, Vincenzo Presutto e tanti altri. L'hotel Bernini è affollato nell'attesa di Luigi Di Maio e della conferenza stampa convocata per ufficializzare la scissione dal Movimento. Parte dal governo, il ministro degli Esteri. Dice che si è rafforzato, dopo la risoluzione di oggi sugli aiuti all'Ucraina, approvata con 219 sì, 20 no e 20 astenuti in Senato. Sostiene che lo scontro nel Movimento - ormai in corso da giorni - è stato alimentato per motivi mediatici. E poi spiega le ragioni dell'addio. 

"Dovevamo scegliere da che parte stare"

Si concentra sulla guerra in Ucraina, Di Maio. "Dovevamo scegliere da che parte stare della storia. I dirigenti del Movimento hanno rischiato di indebolire l'Italia, di mettere in difficoltà il governo per ragioni legate alla propria crisi di consenso, per recuperare qualche punto percentuale, senza neppure riuscirci. La guerra non è uno show mediatico, è da irresponsabili picconare il governo. Di fronte alle atrocità che sta commettendo Putin non potevamo mostrare incertezze". Poi il passaggio sulla risoluzione. Al Senato c'è stato un "voto che delinea la posizione dell'Italia e che ribadisce la nostra appartenenza all'area euro-atlantica" e non poteva essere altrimenti. "No alle ambiguità". 

"Grazie al Movimento per quello che ha fatto per me, ma da oggi inizia una nuova strada", ha detto Di Maio. Quindi l'annuncio, ormai scontato. "Lascio il Movimento, è una scelta sofferta che non avrei mai pensato di fare". E la voce si incrina. Poi la rottura, anche nel linguaggio: "Da oggi inizia un nuovo percorso. Per costruire un futuro servono soluzioni e idee realizzabili. Per avere un modello vincente da nord a sud abbiamo bisogno di aggregare le migliori capacità e talenti. Perché uno non vale uno". 

La citazione di Sassoli

Nel suo discorso Di Maio cita l'esponente di un altro partito, lo scomparso presidente del Parlamento europeo, il dem David Sassoli. "Davanti a questa guerra devastante, l'Europa deve essere più solidale, ce lo ricordava il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, un esempio di grande di correttezza, di senso delle istituzioni e di pacatezza che deve essere da guida per tutti noi". 

L'identikit di "Insieme per l'Italia"

Il nome della nuova formazione parlamentare è già noto dal pomeriggio. Nella conferenza stampa Di Maio ne traccia l'identikit. "Nascerà una forza politica che non sarà personale", dove "non ci sarà spazio per odio, sovranismi e populismi". 

"Il Movimento non è più la prima forza"

Infine, l'ultima stoccata: "Da domani il Movimento non è più la prima forza politica in Parlamento". Di Maio non risponde a domande. Al termine del suo intervento, c'è spazio solo per l'abbraccio ai "suoi" parlamentari.

Nasce il partito di Luigi Di Maio, si chiamerà “Insieme per il futuro”. Ecco chi ne fa parte. Il ministro degli Esteri lascia il Movimento 5 stelle. Al momento con lui una quarantina tra deputati e senatori: «Ma puntiamo a raccogliere consensi anche da altri gruppi parlamentari». Antonio Fraschilla su L'Espresso il 21 Giugno 2022.

Lo strappo era ormai nelle cose, ma in pochi si aspettavano tempi così rapidi. Alla fine le strade dei due leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, si separano. Il ministro degli Esteri prima ha lanciato l’allarme, poi rivelatosi in parte infondato, di un voto contrario del Movimento 5 stelle alla risoluzione della maggioranza in Senato sulla guerra in Ucraina; poi stamani ha raccolto attorno a un tavolo i suoi fedelissimi e lanciato il suo piano: lasciare il Movimento e fondare nuovi gruppi parlamentari che si chiameranno “Insieme per il futuro”. 

Al momento ci sono circa 40 firme tra Montecitorio e Palazzo Madama, per la formazione dei due gruppi di Camera e Senato. Tra i deputati ci sono Gianluca Vacca, Sergio Battelli, Alberto Manca, Caterina Licatini, Luigi Iovino, Andrea Caso, Davide Serritella, Daniele Del Grosso, Paola Deiana, Filippo Gallinella, Elisabetta Barbuto, Iolanda Di Stasio, Alessandro Amitrano, Elisa Tripodi, Laura Castelli, Tiziana Ciprini, Manlio Di Stefano, Nicola Grimaldi, Dalila Nesci, Simone Valente, Andrea Giarrizzo, Marianna Iorio, Marialuisa Faro, Roberta Alaimo, Pasquale Maglione, Luciano Cadeddu e Margherita Del Sesto. I senatori invece sono Emiliano Fenu, Fabrizio Trentacoste, Antonella Campagna, Vincenzo Presutto, Primo Di Nicola, Simona Nocerino, Sergio Vaccaro, Daniela Donno.

Ma, anche da altri partiti potrebbero arrivare ingressi nei gruppi di Di Maio, come quello del deputato Antonio Lombardo che si era iscritto a Coraggio Italia del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro.

Dicono dal cerchio magico del ministro degli Esteri: «ll progetto di Di Maio guarda al 2023, a una formazione che parta dai territori, dalle esperienze degli amministratori locali e delle liste civiche. Per questo il primo cittadino di Milano, Beppe Sala, è considerato un interlocutore. L'obiettivo, in Parlamento, è quello di attrarre anche deputati e senatori dei gruppi di centrodestra ma in rotta con le forze di appartenenza. Lo sguardo per eventuali futuri dialoghi è rivolto al centrosinistra».

Coi Cinque stelle finisce l’età della protesta, ma non quella della radicalità. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 21 giugno 2022

Con la scissione del Movimento Cinque stelle e la rottura tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio finisce la stagione della protesta, ma non quella della radicalità. 

Dopo Conte e Di Maio non c’è Di Battista, tutti e tre sono interpreti di una stagione conclusa. 

Ma resta spazio a chi saprà rispondere a quelle domande di equità, redistribuzione e giustizia in modo efficace, competente ma anche netto e coraggioso.   

Con la spaccatura del Movimento Cinque stelle tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio finisce la stagione della protesta, ma non quella della radicalità.

Su Facebook Alessandro Di Battista, da tempo fuori dal parlamento, indica il peccato originario del Movimento: aver deciso di governare, farsi potere invece che rimanere contropotere.

Beppe Grillo, dieci anni fa, era scettico perfino sull’opportunità di correre alle elezioni, difficile denunciare la Casta e i compromessi dall’interno.

Come tutti i populismi e in particolare i populismi di sinistra, quelli che se la prendono con la minoranza forte (l’élite) invece che con la minoranza debole (immigrati, persone con identità sessuali o di genere varie…), i Cinque stelle hanno sperimentato e generato la frustrazione di promettere un cambiamento che non sapevano come generare.

Donald Trump non ha provato a cambiare “il sistema”, si è limitato a imbrogliarlo, a sfasciarlo. I Cinque stelle avevano intenzioni migliori, così come il procuratore generale progressista Chesa Boudin di San Francisco, sfiduciato dai suoi elettori, o a suo tempo Alexis Tsipras in Grecia, Bernie Sanders negli Stati Uniti e così via. Ma per cambiare il sistema servono idee, competenze, radicamento.

I Cinque stelle hanno sempre avuto programmi imbarazzanti, competenze minime, nessun radicamento sul territorio (come dimostrano sconfitte e candidature mancate alle amministrative). Conte e Di Maio, in modo speculare, hanno seguito lo stesso percorso: hanno imparato le logiche della politica, ma non quelle dell’efficacia.

Reddito di cittadinanza a parte (che non è poca cosa), di cosa possono andare fieri? Dei decreti Salvini contro gli immigrati? Del più grande sperpero di denaro pubblico della storia repubblicana, il Superbonus edilizio?

Conte ha sempre avuto la pochette, Di Maio ha imparato l’inglese e a comportarsi in società, uno a suo agio nei palazzi romani come i democristiani di un tempo, l’altro rapido nell’apprendere e nel decidere come Matteo Renzi (ma senza cedere al fascino del denaro). Ma a parte questo sono uguali: hanno interpretato l’evoluzione di un Movimento che ha imparato a gestire il potere senza avere la più vaga idea di cosa farne.

Così finisce quindi la stagione della protesta: nessuno si fiderà più di chi limita l’articolazione del disagio a un “vaffa”.

Non scompare però il bisogno di radicalità nelle proposte e nelle scelte: amministrare l’esistente con diligenza non può essere l’unica alternativa allo scomposto fallimento dei populisti, come ha scoperto a sue spese Emmanuel Macron.

Dopo Conte e Di Maio non c’è Di Battista, tutti e tre sono interpreti di una stagione conclusa che lascia spazio a chi saprà rispondere a quelle domande di equità, redistribuzione e giustizia in modo efficace, competente ma anche netto e coraggioso.   

STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.

DAGONOTA il 29 giugno 2022.  

L’altra sera Massimo Cacciari è tornato ospite da “Otto e mezzo”. Dopo i numerosi attacchi al governo Draghi (accusato di essere il governo servo degli americani, del pensiero unico, feroce oppressore delle nostre libertà con il Green pass), il filosofo ha detto all’improvviso “noi staremmo peggio molto peggio se non ci fosse Draghi”. Lo ha detto la débâcle dei grillini alle amministrative e dopo la scissione dei Cinquestelle, con l’uscita di Luigi Di Maio. 

Negli ultimi cinque anni, senza mai dichiarare esplicitamente le sue preferenze politiche, il profeta d’Italia Cacciari ha tirato la volata ai governi gialloverde (Conte1), giallorosso (Conte-bis) e ancor prima con gli attacchi al governo Renzi ha contribuito all’affermazione dei pentastellati. Il giorno dopo la loro scissione, l’ex sindaco di Venezia non ha perso tempo: ha cambiato casacca ed è diventato filogovernativo. Gli intellettuali italiani non si smentiscono mai: tra la destra e la sinistra, scelgono sempre il centro-tavola.

Massimo Balsamo per ilgiornale.it il 29 giugno 2022.  

Fase rovente per la politica italiana, reduce dai ballottaggi delle comunali e pronta a vivere il lungo cammino verso le politiche del 2023. Gli schieramenti sembrano ormai delineati, ma Massimo Cacciari non è di questa opinione. Per il filosofo, intervenuto a Otto e mezzo, presto prenderà forma il partito di Mario Draghi.

“Dopo le ultime suggestive capriole politiche, Di Maio ha detto che chi destabilizza il governo Draghi perde le elezioni. È così?”, la domanda di Lilli Gruber all’ex sindaco di Venezia. Come sempre, la replica è tranchant: “Sono domande superflue. È del tutto evidente che nessuno metterà in crisi il governo Draghi. Si posizioneranno, ma nessuno metterà in crisi l’esecutivo. La cosa interessante è che con la rottura dei 5 Stelle si va delineando un’area possibile”. 

Il riferimento è al cosiddetto “partito di Draghi”: “Non parlo più di sinistra, di centro o di destra perché me ne vergogno, ma vedo un’area possibile con Di Maio, Partito Democratico, Renzi e Calenda”. Cacciari ha sottolineato che l’attuale primo ministro non si presenterà alle prossime elezioni, ma i partiti sopra citati si presenteranno in campagna elettorale promettendo di continuare la linea Draghi.

“Secondo me c’è anche qualche possibilità di successo, potrebbe essere molto attrattiva nei confronti dei componenti di centrodestra”, ha proseguito Cacciari, poi protagonista di un interessante botta e risposta con Marco Travaglio. Dopo le solite critiche del direttore del Fatto Quotidiano, il saggista ha speso parole di elogio per l’ex presidente della Bce: “Senza Draghi, noi staremmo dieci miliardi di volte peggio. Perché senza di lui, non saremmo riusciti a farci dare i soldini dall’Europa. Con Draghi lo spread è sotto controllo e forse ce la possiamo fare, con un altro governo saremmo quasi al default. Lui è l’unica persona in Italia di cui le potenze reali di questo mondo si fidano. Questa è la storia, il resto sono chiacchiere”.

Giada Oricchio per iltempo.it il 29 giugno 2022.  

Senza Mario Draghi, l’Italia sarebbe vicina al default. Ne è convinto Massimo Cacciari che replica a Marco Travaglio che aveva definito l’ex numero uno della Bce “il peggior presidente del Consiglio della storia”. Durante l'ultima puntata di "Otto e Mezzo", il talk show di LA7, martedì 28 giugno, il celebre filosofo ha detto di essere d’accordo con il direttore de Il Fatto Quotidiano sulla nascita di un centro conservatore che si ispira a Draghi per impedire a Giorgia Meloni, leader di FdI, di entrare a palazzo Chigi in caso di vittoria nelle urne, ma di non condividere il giudizio sull’incapacità del premier: “Senza Draghi noi non staremmo meglio, staremmo 10 miliardi di volte peggio. Senza di lui, l’Europa non ci avrebbe dato i soldini e bene o male ci sta parando dalle varie emergenze, prima la pandemia e poi la guerra. Con Draghi lo spread è ancora sotto controllo”.

Ma Travaglio con un sorriso di scettico compiacimento: “Ammazza lo spread è a 240, i puzzoni che c’erano prima glielo hanno lasciato a 90. E’ un governo che non ha fatto niente, nemmeno il tetto al prezzo del gas. Sulla guerra, poi, questo governo ha una posizione folle” e Cacciari: “Ma va, senza Draghi saremmo quasi al default, va bene? Questa è la vera forza di Draghi, è l’unica persona nel ceto politico italiano di cui le potenze reali si fidano. Il resto sono chiacchiere”.

Da ilfattoquotidiano.it il 29 giugno 2022.  

“Scissione di Di Maio dal M5s? È l’ultima cosa che deve preoccuparci. Sono fuochi di paglia, come lo è stato Renzi. Sono personaggi che nascono senza nessun fondamento culturale e senza nessuna storia che ne sostenga l’azione”. Così, ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta”, su Radio Cusano Campus, il filosofo Massimo Cacciari commenta la spaccatura nel M5s, aggiungendo: “Che i 5 Stelle fossero in caduta libera lo si era capito da tempo, era scritto nel loro genoma. Come poteva durare e funzionare un organismo che nasce senza nessuna strategia o idea, ma solo sull’onda di una protesta, seppure legittima e comprensibile?”.

E sottolinea: “In realtà, quello che drammaticamente dovrebbe preoccuparci è la crisi nera che si sta profilando e nella quale già ci siamo con caratteristiche completamente nuove. A questo dovrebbero interessarsi le residue intelligenze e le forze politiche di questo Paese. Siamo in una situazione di quasi recessione e se le forniture di gas russo andranno sotto il trend del 25%, noi saremo in totale recessione. 

Dovremmo cominciare ad affrontare questa crisi, che è particolarmente dura per noi, a differenza di altri Paesi come la Francia e la Germania – spiega – Abbiamo il debito pubblico più alto di tutti i Paesi avanzati, fatta eccezione per il Giappone. E questo debito sta diventando ingestibile. Qui bisogna fare politiche fiscali nuove, politiche aggressive contro l’impoverimento. Siamo un Paese in netta decadenza ed è ridicolo parlare di altro. Qui c’è un Paese che si sta avvitando in un processo di decadenza economica, politica, culturale, sociale“.

Critico il giudizio di Cacciari sul presidente del Consiglio: “Abbiamo ‘sto Draghi, ma per me è stato una grossa delusione. Ha gestito il covid continuando sulla linea massimalista e terroristica che ha certamente ha reso più difficile la ripresa. Adesso, per la guerra in Ucraina, è sdraiato sulle posizioni americane, tra l’altro in una situazione in cui ci stanno pesantemente sanzionando. La strategia di Draghi manca di equilibrio. Certamente il grande vantaggio di Draghi è dato dalla sua credibilità e dalla sua autorevolezza sul piano internazionale in un Paese con un grande debito pubblico. Ma sul piano squisitamente politico Draghi ogni giorno di più mostra di non avere alcuna autonomia. Non è Macron, ecco”.

Dura riflessione di Cacciari sulle prossime elezioni politiche: “Avremo un governo politico? Ne dubito tantissimo. Intanto, non cambiano la legge elettorale. Il centrosinistra che cosa aggrega? Tolto il Pd, chi c’è? Il nuovo partitino di Di Maio? Calenda? Renzi? E questo sarebbe il campo largo? Il centrodestra dovrebbe avere sicuramente numeri più consistenti, ma poi cosa succede? Non abbiamo ancora capito che non è realisticamente ipotizzabile un governo guidato da Salvini o da Meloni? 

Se vuoi governare un grande Paese dell’Occidente – puntualizza – devi avere forze politiche e personaggi che vanno bene alle grandi potenze internazionali, agli Usa. C’è poco da fare, è pure realismo. Se si mette come presidente del Consiglio Salvini o Meloni, vuol dire fare una crisi nel giro di sei mesi. O questo centrodestra si resetta tutto come si deve e Salvini e Meloni diventano leader europei a 360 gradi, smettendola di giocare ai nazionalisti e agli anti-immigrati, oppure non potranno mai governare”.

Finale staffilata del filosofo al Pd: “Ormai da 15-20 anni a questa parte, ha finito ogni spinta propulsiva sul piano delle riforme. Non ne parla neanche più, c’è una totale afasia sulle grandi riforme costituzionali o della pubblica amministrazione o della scuola. Quando va bene, il Pd fa battaglie sui diritti da Partito Radicale, cioè da partito che nella sua vita non ha mai preso più del 3%. 

E qual è il merito del Pd? – conclude – È quello di presentarsi al Paese dicendo: ‘Io, comunque, garantisco un governo. Io il governo lo faccio con chiunque, anche con Salvini o col M5s. Basta che sia un governo. Io sono quello che fa il governo’. Il Pd, cioè, è diventato un partito assolutamente conservatore. Quelli che lo votano sono coloro che hanno qualcosa da perdere se si va in un casino peggiore di quello in cui siamo. Sono cioè la borghesia, come si sarebbe detto una volta: quelli che hanno da perdere se il Paese va definitivamente a puttane”.

Il Bestiario, il Coerentino. Giovanni Zola il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il Coerentino è un mitico animale con il corpo da comico, il cuore da segretario del PD e la testa da primo della classe che non ti passa i compiti. 

Il Coerentino è un mitico animale con il corpo da comico, il cuore da segretario del Pd e la testa da primo della classe che non ti passa i compiti. Praticamente non è né carne né pesce, tanto che gli scienziati, non sapendo come definirlo tra le specie animali, l’hanno collocato tra i “Rampantes Insapiens”, una sorta di arrampicatore sociale, ma senza le ventose.

Il verso del Coerentino è unico e molto riconoscibile. È un suono tra il ruggire e il belare, tanto che gli scienziati l’hanno chiamato “onestare”. Solo quando si trova in branco, gli animali di questa specie infatti cominciano a ripetere in coro: “Onestà, onestà”. In tal senso c’è grande diatriba tra gli studiosi che non hanno ancora compreso se tale richiamo sia rivolto alle altre specie o a sé stesso.

Il Coerentino è considerato uno scherzo della natura, non solo perché non azzecca un congiuntivo, ma perché non possedendo nessuna capacità, si è trovato ad occupare un importante ruolo nella piramide gerarchica del mondo animale, tanto che gli scienziati ritengono che abbia vinto senza merito il superenalotto darwiniano dell’evoluzione.

La leggenda narra che alle origini, il Coerentino era solito offrire beni di consumo in grandi raduni animali. Tale comportamento sembra sia stato fondamentale nella sua evoluzione e per il ruolo che ricopre in natura attualmente. Oggi infatti il Coerentino ha una sorta di funzione di “assaggiatore a sbafo” (o spazzino) del cibo quando si ritrova con i grandi animali Alpha di tutto mondo.

Ritroviamo il Nostro anche nel mondo classico. Cicerone cita il Coerentino, in una sua famosa orazione al Senato romano nella celebre frase: “Aperimus tibi sicut tuna cut”, “Vi apriremo come una scatoletta di tonno”, sottolineando però che il Coerentino, non possedendo il pollice opponibile, non fosse in grado di farlo.

Il Coerentino cambia pelle grazie ad una sorta di continua muta senza soluzione di continuità. Infatti sostituisce le sue squame così velocemente da passare da essere una preda ad essere un predatore in tempi eccezionalmente rapidi. Inoltre – come una sorta di Zelig animale - si identifica immediatamente nella nuova specie in cui si trasforma acquisendone i modi e i comportamenti. Per questo gli etologi sostengono che in natura il Coerentino abbia abolito la coerenza.

Un po’ come il Panda, il Coerentino è destinato ad auto estinguersi, ma nel suo caso nessun essere umano sembra avere intenzione di curarsene, anzi, molti lo sostengono nel suo intento.

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 2 luglio 2022.

«Previste dichiarazioni di Di Maio in piazza del Parlamento». Ormai è diventato quasi un appuntamento fisso, all'ora dell'aperitivo. Ai giornalisti arriva un messaggio Whatsapp del portavoce del ministro degli Esteri per comunicare luogo e orario. Sempre in tempo per i tg della sera. Sempre in mezzo alla strada, al volo, di solito in zona Montecitorio, ieri fuori programma ad un angolo vicino alla Farnesina. 

Il ministro arriva, dichiara, se è ben disposto risponde a un paio di domande e se ne va. Toccata e fuga. Certo è che, da quando il ministro degli Esteri ha lasciato il Movimento 5 stelle e ha formato i suoi gruppi parlamentari, è diventato piuttosto loquace.

Serve dare visibilità alla sua creatura, Insieme per il futuro, ritagliarsi uno spazio nel dibattito e, soprattutto, tornare a mostrarsi come leader politico autonomo. Alterna lunghe analisi di geopolitica a professioni di fede in Mario Draghi. Ma, in fondo, il repertorio è sempre lo stesso: «Serve responsabilità e serietà», «è assurdo picconare il governo», «non inseguiamo i sondaggi, pensiamo agli italiani». I giornalisti, pazienti, registrano, con il sottofondo di macchine e motorini. Fino al prossimo incrocio.

Carlo Tarallo per “La Verità” il 2 luglio 2022.  

Grillini ed ex grillini sulle montagne russe (si può dire montagne russe?): in poche ore Giuseppe Conte sente al telefono Mario Draghi e i due fissano un incontro per lunedì pomeriggio, tra i grillini si allarga la frattura tra chi vuole passare all'opposizione e chi no, Luigi Di Maio dopo essersi schierato al fianco dei gilet gialli si accasa nel gruppo all'Europarlamento di Emmanuel Macron, e come se non bastasse Beppe Grillo pubblica un post in cui attacca i traditori e il caos cresce a dismisura: «Ce l'ha con Conte o con Di Maio?».

Probabilmente con tutti e due, o forse con sé stesso, perché in fondo il primo ad aver «tradito» la missione originaria del M5s è proprio Beppe, che ha indossato i panni di difensore a spada tratta di Draghi e della stabilità del governo. 

La giornata di ieri è l'ennesima serie di saliscendi da montagne russe. Il Foglio pubblica la notizia che Di Maio ha incontrato Macron e che l'accordo sarebbe cosa fatta: le due europarlamentari scissioniste di Insieme per il futuro, Daniela Rondinelli e Chiara Maria Gemma, entreranno a far parte del gruppo centrista, iper europeista Renew Europe, fondato da Macron, del quale fanno parte i renziani, i calendiani e Sandro Gozi, ex deputato del Pd, poi passato a Italia viva, eletto in Francia per La Rèpublique En Marche, il partito del presidente francese. 

Di Maio nel partito di Macron: sembra incredibile eppure è vero, alla Verità arriva la conferma che la discussione è in corso, pur ancora allo stato embrionale. 

Tre anni fa, non tre secoli fa, lo stesso Di Maio si entusiasmava per i gilet gialli, movimento francese di protesta radicale, che diede vita, tra il 2018 e il 2019, a disordini di piazza gravissimi, ça va sans dire contro Macron, con tanto di scontri con la polizia, arresti, morti e feriti. 

Nel febbraio 2019, in piena tempesta, Di Maio insieme ad Alessandro Di Battista incontrò a Montargis, cittadina a Sud di Parigi, il leader dei rivoltosi francesi, Christophe Chalençon: la foto, a rivederla oggi, non può non fare effetto, anche se lo stesso Di Maio, pochi mesi fa, riflettendo su quella posizione politica ha fatto pubblica ammenda: «Non ho nessun problema a mettere nero su bianco i miei errori del passato».

Dagli errori agli orrori, è diventata una commedia più nauseante che divertente quella che ruota intorno all'ipotesi di un'uscita del M5s dal governo. «Dopo i recenti fatti, primo tra tutti il comportamento ambiguo del premier Draghi sulle proprie dichiarazioni in merito a Conte», scrive su Facebook il senatore grillino Alberto Airola, «la frustrazione e l'insofferenza dei nostri elettori per un governo che smantella sistematicamente i nostri obiettivi politici, nel mio ruolo di portavoce, non posso che rappresentare con forza l'istanza di uscita da questo governo, voluta fortemente dal nostro popolo. Le fragole sono marce».

Airola fa il verso a Grillo, che il 6 febbraio 2021, annunciando il sostegno del M5s al governo Draghi, scrisse un post con la frase: «Le fragole sono mature.

Le fragole sono mature». 

Bel clima, quello che si respira tra i «non grillini», come li chiamerebbe oggi Beppe, che sempre ieri pubblica un post contro «i traditori che si sentono eroi», post letto da molti come riferito a Di Maio, ma che con gli scontri che ci sono stati negli ultimi giorni tra lui e Conte si presta a mille interpretazioni. Giuseppi, intanto, sente al telefono Mario Draghi, i due si vedranno lunedì a Palazzo Chigi: la telefonata viene descritta alla Verità da fonti vicine al leader del M5s come «molto rapida, ogni tipo di discorso è stato rinviato all'incontro».

«Ne parliamo lunedì», commenta lo stesso Conte ai cronisti che gli chiedono come sia ora il suo rapporto con il premier, dopo l'incidente della presunta richiesta da parte di Draghi a Grillo di rimuovere l'ex premier dalla guida dei pentastellati. Richiesta smentita, per quel che può contare una smentita in politica, dal presidente del Consiglio, ma confermata dallo stesso Giuseppi. 

Si sente talmente accerchiato, l'ex premier ciuffato, da sperare in una legge proporzionale, come dichiara lui stesso partecipando a un evento della Cgil, mentre il M5s incassa un altro schiaffone sul reddito di cittadinanza, con l'approvazione dell'emendamento che prevede che anche il rifiuto di un'offerta di lavoro congrua a chiamata diretta da parte di un privato rientrerà nel calcolo dei rifiuti che possono costare la perdita del sussidio.

La saga del M5s che non è di lotta e di governo, in quanto non riesce né a lottare né a governare, raggiunge vette di straordinaria e involontaria comicità con le dichiarazioni di Fabiana Dadone, ministro M5s alle Politiche giovanili, che a Sky Tg24 dice: «Credo che la permanenza nel governo sia la scelta giusta». Ovviamente la scelta giusta per lei, che dovrebbe scollarsi dalla poltrona.

Tutte le volte in cui Luigi Di Maio se l’è presa con i voltagabbana e ha chiesto il vincolo di mandato in Costituzione. Erano due campagne e battaglie storiche del Movimento 5 Stelle, su cui il ministro degli Esteri ha messo spesso la faccia. E invece alla fine ha cambiato partito. Mauro Munafò su L'Espresso il 22 Giugno 2022.

«Basta voltagabbana in Parlamento», «Questa è la legislatura con il maggior numero di cambi di casacca: introduciamo un sistema di vincolo di mandato per i parlamentari», «Il vincolo di mandato è sacrosanto per chi vuole fare politica onestamente. I partiti sono terrorizzati».

Parola di Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri eletto con il Movimento 5 Stelle che ieri ha annunciato il suo addio ai pentastellati e la creazione di un nuovo gruppo parlamentare. Entrambe operazioni che, se nella nostra Costituzione ci fosse davvero finito il vincolo di mandato, lo avrebbero costretto alle dimissioni.

E invece, per fortuna di Di Maio, le sue battaglie storiche sono finite in una nulla di fatto. Così oggi, anno 2022, può tranquillamente lasciare i 5 Stelle per creare “Insieme per il futuro” e puntare ad avere ancora peso nel governo e alle prossime elezioni. Certo, ne è passato di tempo da quando i grillini nei primi anni combattevano contro i cambi di casacca o gli addii al gruppo Parlamentare. Si erano inventati qualunque trucco, ovviamente senza alcun successo: pressioni sui social, improbabili multe da centinaia di migliaia di euro, regolamenti di dubbio valore legale. Ma niente, il “vincolo” per punire gli infedeli non ha mai funzionato e negli anni la diaspora stellata ha alimentato tanti altri partiti e partitelli con i suoi mille rivoli.

Eppure basta mettere in fila tutte le volte in cui Di Maio ha urlato contro i cambi in Parlamento per fare un tuffo nel passato prossimo della politica. Prima di lanciarsi, insieme, per il futuro.

«Attaccato alla poltrona, al mega stipendio e al potere». Cosa avrebbe detto il Luigi Di Maio del 2017 a quello di oggi. L'Espresso il 22 Giugno 2022.

In un video del gennaio 2017 contro i voltagabbana e a favore dell’inserimento del vincolo di mandato in Costituzione, Di Maio attaccava con parole durissime chi cambia partito e non si dimette.

Riproponiamo qui il testo dell’intervento di Luigi Di Maio, senza modifiche redazionali, in seguito all’uscita dell’oggi ministro degli Esteri dal Movimento 5 Stelle, nonostante anni di battaglie contro i cambi di casacca.

In Italia, oltre ai furbetti del cartellino abbiamo i voltagabbana del Parlamento dal 2013 ad oggi ci sono stati 388 cambi di partito alcuni parlamentari, hanno cambiato partito anche 6 volte negli ultimi quattro anni. La terza forza politica del Senato e della Camera pensate è il gruppo misto. Solo alla Camera, siamo partiti all'inizio della legislatura con meno di 10 gruppi ed oggi siamo a oltre 18 e la maggior parte di questi non era neanche sulla scheda elettorale nel 2013. Un vero e proprio mercato delle vacche che va fermato.

Per il MoVimento 5 Stelle, se uno vuole andare in un partito diverso da quello votato dagli elettori si dimette e lascia il posto a un altro come accade ad esempio in Portogallo, ma anche per consuetudine nella civilissima Gran Bretagna. In Italia invece se ne fregano: una volta che sono in Parlamento gli elettori non contano più nulla, quello che conta è la poltrona, il mega stipendio e il desiderio di potere. Molti governi si sono tenuti in piedi e hanno fatto approvare le peggiori leggi proprio grazie ai voltagabbana. Da Monti a Letta a Renzi fino a Gentiloni, le leggi più vergognose della storia della Repubblica si sono votate grazie ai traditori del mandato elettorale: pensate a Fornero, al Jobs Act, alla buona scuola.

Il MoVimento 5 Stelle per evitare tutto questo vuole che si rispetti il voto dei cittadini. Noi abbiamo applicato su di noi una regola chiara, senza aspettare un obbligo di legge. Chi non vuole più stare nel Movimento va a casa. Se non lo fa tradisce gli elettori causa un danno e quindi deve essere risarcito il movimento. È semplice, chiamatelo come volete: vincolo di mandato, serietà istituzionale, rispetto della volontà popolare.

A nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa e ti fai rileggere. Come al solito il Movimento 5 Stelle non ha aspettato una legge per cambiare il modo di fare politica. Anche i partiti facciano come noi. Ciao a tutti.

Quando Di Maio attaccava i voltagabbana del parlamento: «Mercato delle vacche». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 22 giugno 2022

Era il 2017, e per il ministro degli Esteri cambiare casacca era un «mercato delle vacche» e una scelta per cui bisognava «risarcire il Movimento». E aggiungeva: «A nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa»

I social non dimenticano, una verità che vale sempre per tutti: «Chi non vuole stare nel Movimento va a casa» e «deve essere risarcito il Movimento» diceva Luigi Di Maio nel 2017, e adesso che se ne è andato lui gira sui social il video di Di Maio che se la prendeva con forza contro i voltagabbana del parlamento: «Così come abbiamo i furbetti del cartellino abbiamo i voltagabbana del parlamento». E aggiungeva «a nessuno è negato il diritto di cambiare idea, ma se lo fai torni a casa».

LA MOSSA DEL MINISTRO

Il ministro degli Esteri ieri ha annunciato che lascerà il Movimento 5 stelle per creare la nuova compagine parlamentare “Insieme per il futuro” portando via con sé una cinquantina di parlamentari, in queste ore si discute sulla formazione dei nuovi gruppi. Cinque anni fa per Di Maio non solo era inaccettabile, era proprio «un mercato delle vacche». E «se uno vuole lasciare il Movimento si dimette e lascia il posto a un altro». E dettagliava. Oltre ai cambi di casacca, non sopportava nello specifico nemmeno le nuove formazioni: «Non erano nemmeno sulla scheda elettorale».

Il video è stato postato dall’account “Confindustria parody” ricevendo oltre un migliaio di like e centinaia di commenti. «Un autodescrizione lucidissima», scrive un utente.

E ancora: «Condividiamo questo post tutti i santi giorni, fa troppo schifo quello che ha fatto»

SALVINI E GIARRUSSO

La posizione di Di Maio non sembrava essere cambiata fino a poco tempo fa. Da capo politico nel 2019 se la prendeva ancora una volta contro il «mercato delle vacche» avviato da Matteo Salvini, al cui confronto, dice, Silvio Berlusconi pare quasi «un pivello». Nei confronti degli «Scilipoti» della nuova stagione politica mostrava indignazione e rabbia.

Fino a poche settimane fa non lasciava presagire di essere pronto alla rottura, anche se le sue parole erano più sfumate. Quando Dino Giarrusso, esponente del Movimento 5 stelle siciliano, ha deciso di abbandonare il Movimento criticando la nuova organizzazione Conte, il ministro Di Maio non se la prendeva con le sue critiche ma commentava: «Io penso che se c'è qualcosa su cui non siamo d’accordo sul movimento,  in generale lo dico, se qualcuno non è d’accordo può restare nel movimento e portare avanti le sue idee». Chi se ne va «sostanzialmente non cambia niente nel Movimento 5 stelle» commentava. Alla fine, ha lasciato anche lui.  

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Federico Capurso per “la Stampa” il 21 giugno 2022. 

Quando Luigi Di Maio ha sentito che persino Roberto Fico, il compagno di battaglie di una vita, lo stava attaccando frontalmente descrivendolo come un «mistificatore», gli è stato chiaro che la sua storia con il Movimento 5 stelle era davvero finita.

Pochi minuti dopo l'uscita di Fico, i parlamentari rimasti fedeli a Di Maio lo martellano di messaggi: «Non si può più restare dentro a questo Movimento». Di Maio li invita alla calma. Si deve procedere un passo alla volta: «Prima votiamo la risoluzione che metta al sicuro il governo». E poi? «Poi arriverà il momento della riflessione». 

La risposta suona come un addio. Sanno tutti che non ha bisogno di altro tempo per pensarci su. Deve solo prendere coraggio e fare il passo decisivo. Forse, già stasera.

Sulle pagine social del ministro degli Esteri non c'è più alcuna traccia della sua appartenenza ai Cinque stelle.

Anche per questo Giuseppe Conte è convinto che il suo acerrimo nemico «abbandonerà entro la fine della settimana». Tra chi lo seguirà potrebbero esserci nomi pesanti, come quella della vice ministra dell'Economia Laura Castelli, del presidente della commissione Ue Sergio Battelli o della sottosegretaria per il Sud Dalila Nesci. 

E se un pezzo della squadra di governo M5S verrà spolpata, Conte chiederà un rimpasto? I parlamentari vicini al ministro degli Esteri si mostrano sereni: «Non succederà nulla», assicurano. La leadership di Conte, ai loro occhi, è già troppo debole. Sono convinti che dovrà preoccuparsi di tenere unito quel che resta del partito e di tenere a bada Beppe Grillo, che giovedì sarà a Roma e - come anticipato da La Stampa - è furioso con Conte e con i suoi vicepresidenti: «Se andiamo avanti così ci biodegradiamo in tempo record», ha detto ad alcuni parlamentari. Per il Garante, infatti, Di Maio andava ignorato e non attaccato: «È stato un errore tattico e comunicativo gigantesco». 

L'ultimo segnale della debolezza interna di Conte arriva proprio dal Consiglio nazionale, che doveva essere il suo fortino e il simbolo di un Movimento che si muove compatto contro il titolare della Farnesina. Ieri mattina, invece, il Consiglio pubblica dopo una riunione fiume una nota per stigmatizzare le parole di Di Maio: «Esternazioni inveritiere e irrispettose, suscettibili di gettare grave discredito», si legge. 

I parlamentari dimaiani la prendono con ironia: «Conte vuole tornare alla vecchia radicalità grillina, ma con questo linguaggio torna all'Ottocento». Sorridono, si aspettavano qualcosa di più violento. Soprattutto alla luce dei toni aggressivi usati dai vice di Conte negli ultimi giorni. Nel corso del Consiglio, anche il collega di governo Stefano Patuanelli aveva sferzato Di Maio con rabbia: «Non ci rappresenta più».

E ancora: «Ho l'impressione di essere stato catapultato nel nostro passato, tra i gilet gialli, posizioni filo Putin e la vendita dei nostri porti ai cinesi. Ma ad accusarci c'è il ministro degli Esteri di oggi, non il nostro capo politico di ieri, che sosteneva quelle posizioni». 

Tutta la cerchia di pretoriani di Conte picchia duro, ma il comunicato finale del Consiglio è senza spine. «Perché c'è stata una mediazione», racconta un partecipante al Consiglio. Chiara Appendino, Lucia Azzolina, Tiziana Beghin, Davide Crippa, Alfonso Bonafede: hanno tutti chiesto di abbassare i toni. Crippa, da capogruppo alla Camera, è sbottato contro i vertici del partito: «Diteci se volete uscire dal governo».

Anche Bonafede non sembra più così convinto che la direzione presa da Conte sia quella giusta. Non gli è piaciuto - raccontano - come ha gestito la nomina dei coordinatori regionali. Neanche un uomo in quota Di Maio. Si dice che proprio in quel momento il ministro degli Esteri abbia capito che non avrebbe avuto alcuno spazio in lista per i suoi alle prossime elezioni e che sarebbe stato meglio abbandonare la nave. Se poi sul limite dei due mandati arriveranno delle deroghe ad hoc per salvare i big, come vorrebbe Conte, molti altri parlamentari che finora non si sono schierati fanno già sapere che lasceranno il Movimento.

Daniele Dell’Orco per ilgiornale.it il 21 giugno 2022.

Le giravolte di Luigi Di Maio sono diventate così tante che se n'è accorto anche Marco Travaglio. Il direttore del Fatto Quotidiano, da mesi critico nei confronti del Ministro degli Esteri specie dopo la caduta del secondo governo Conte, si chiede cosa ci faccia ancora Di Maio nel Movimento 5 Stelle. 

"Io non ho nessun titolo per rimproverare niente a nessuno, ma mi domando per quale motivo Luigi Di Maio si ostini a stare in un Movimento 5 stelle che non gli assomiglia più e al quale non assomiglia assolutamente più", ha detto a Otto e Mezzo su La7.

L'invito di Travaglio, insomma, è quello di non aspettare che i vertici del Movimento lo mandino via, ma a fare direttamente le valigie. Dopo che il Consiglio Nazionale straordinario di due giorni fa ha di fatto congelato la posizione del Ministro senza espellerlo definitivamente ( il che provocherebbe una scissione), l’ex capo politico è ormai in un limbo, contrapposto al presidente Giuseppe Conte formalmente sulla scelta di approvare l'invio di armi all'Ucraina, ma di fatto sull'idea stessa della direzione che il Movimento dovrebbe intraprendere. Finché esisterà, visto che come dimostrano i risultati elettorali è ridotto ai minimi termini.

Di Maio sembra aver fiutato la brutta aria che tira intorno al progetto grillino, ed è sempre più proiettato verso la vicinanza a quel Palazzo che una volta diceva di voler combattere. Per questo, Travaglio lo sprona ad inseguire la sua "nuova" natura: "Di Maio da mesi ha preso un’altra strada che è quella di Draghi che lo rende molto vicino ai draghiani, a Giorgetti a Forza Italia e a Italia Viva se non fosse per l’incompatibilità personale con Renzi", e ancora "Di Maio è completamente diverso dal Di Maio leader del Movimento 5 stelle o ministro dei governi Conte, ha preso un’altra strada e mi domando per quale motivo si ostini a stare in un posto dove si trova a disagio e mette a disagio i suoi compagni di ventura", come successo con le consultazioni per il Quirinale.

Immancabile, poi, il riferimento alle piroette dell'ex politico anti-sistema contro la Nato, contro l'Ue e contro l'Occidente a trazione americana. Piroette di cui Travaglio si è reso conto forse con colpevole ritardo: "Ha preso un documento apocrifo per dipingere il suo movimento il suo leader, che lui stesso ha contribuito a far diventare leader, per accusarli di essere contro la Nato e contro l’Ue.

Purtroppo è Di Maio che nel suo passato ha delle dichiarazioni in cui diceva che bisognava superare la Nato e fare un referendum per uscire dall’Euro, non mi risulta che Conte abbia mai detto queste cose". 

La domanda finale di Travaglio, allora, ha un sapore pressoché retorico: "Di Maio che cosa avrebbe fatto di Di Maio se fosse ancora il capo politico del Movimento? L’avrebbe cacciato a pedate come ha cacciato a pedate un sacco di altra gente per molto meno".

La fine di una forza "socio-degradabile". Pier Luigi del Viscovo il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Più che biodegradabili i 5S sembrano socio-degradabili, nel senso che possono disperdersi nelle infinite pieghe degli pseudo-pensieri che attraversano la società. 

Più che biodegradabili i 5S sembrano socio-degradabili, nel senso che possono disperdersi nelle infinite pieghe degli pseudo-pensieri che attraversano la società. Oggi lo scontro vede opposti i governisti e i movimentisti, ma è una polarizzazione che non rende giustizia all'anima stessa dei 5S e dei loro elettori. Potrebbero facilmente moltiplicare i fronti di contrasto, fino ad averne uno su ogni singolo tema sociale, economico e politico. Questo non è un rischio ma piuttosto l'epilogo annunciato e scritto nelle istruzioni originarie di montaggio e installazione del movimento.

Quando non c'è nessuna idea costruita, frutto di un'analisi della società, dell'economia e della politica, è automatico schierarsi pro e contro qualsiasi fattispecie. Del resto, come avrebbero potuto sviluppare un'analisi senza possedere gli strumenti per comprendere, senza una familiarità con l'apprendimento? Tanto fiuto, questo sì, utilissimo per intercettare la direzione del vento. Ma dopo, pur avendo intuito e non compreso appieno certe pulsioni sociali, se non si possiedono le necessarie abilità per gestire le informazioni ed elaborarle, diventa impossibile trasformarle in un tessuto coerente, dove a una posizione sul lavoro ne corrisponda una sul fisco e un'altra sull'energia. Per carità, non si pretende di arrivare a una Weltanschauung, un'idea del mondo e dell'uomo, che del resto non viene neppure richiesta per giocare ai massimi livelli della politica nostrana. Ma almeno un minimo sistema di corrispondenze, per evitare di boicottare ogni fonte di energia e poi andare con la borsa in mano in giro per il mondo ad acquistarla. Un caleidoscopio di posizioni scollegate e intercambiabili, di cui gli unici davvero colpevoli sono i giornalisti e i commentatori politici, che per anni hanno preteso di tirar fuori dal movimento ciò che per definizione non poteva esserci.

I 5s hanno scelto, ab origine e apertis verbis, di essere semplicemente il megafono di chiunque fosse portatore di uno sfogo. Hanno eretto a manifesto l'impreparazione e l'incompetenza, spiegando che uno-vale-uno e che per governare un Paese non serve quella professionalità costruita in anni di studio prima e gavetta dopo. Per questo sono e non possono che essere tutto e il suo contrario. Ogni loro posizione pro o contro non va né collegata alle sue implicazioni fuori dal perimetro stretto né ricordata oltre la sua durata del tempo presente. In senso politico, parliamo esattamente del nulla, di quell'anti che era nel disegno originario. Se nasci e pasci sul vaffa, poi quello sei, un vaffa e nulla più.

Furio Colombo per “la Repubblica” il 27 giugno 2022.

Sono arrivati all'improvviso, come una cavalleria disordinata e giovane che ha fatto una grande frenata nella polvere e ha detto subito che non se ne andava. Giovane, in questo caso, voleva dire gente nuova. Nessuno li aveva mai visti? Bene, così comincia un'avventura. Non si erano mai avventurati sulla scaffalatura detta "Stato" che - dicevano - erano venuti per governare in un altro modo? Meglio, Erano qui per cominciare tutto da capo e lungo percorsi mai visti. 

Coloro che saranno chiamati a raccontare i grillini non avranno una vita facile. Dovranno spiegare come ha fatto una tribù molto vitale ma che fra i bagagli non portava cultura, non portava passato, non portava memorie di cose fatte o ricordi con cui identificarsi, si sia così facilmente insediata in tutte le aree e le attività della vita italiana che in qualche modo avevano tracce di eventi e persone difficili da cancellare. 

Per esempio come racconteremo nei prossimi libri di storia, che un'intera epoca italiana è cominciata quando folle di italiani adulti si sono prestati a dire insieme, affollando piazze illustri, il nuovo grido di battaglia "vaffanculo"? 

Come ha fatto un comico di media grandezza come Beppe Grillo a imporre una simile umiliazione a tante persone che, fino a un momento prima erano stati normali cittadini della Repubblica?

Ha fatto presa un punto, nell'editto dei nuovi arrivati, la lotta alla povertà. Ha fatto presa in un Paese che era stato fino a poco prima, per metà cattolico e per metà comunista. Ma quando tanti dei nuovi leader sono saliti su un balcone di governo illuminato da lampade di scrivania per annunciare la fine della povertà, si è capito che la comicità ha le sue regole crudeli, e una delle regole è rendere ridicolo chi partecipa allo spettacolo. 

Da quel momento la storia dei grillini diventa sempre di più amara e sempre più riflessa in uno specchio ondulato, e segnata dai seguenti caratteri.

Primo: ha un padrone. Quando "Beppe viene a Roma", (frase che comincia presto a circolare in città) si sa che ti impone qualcuno, espelle qualcuno, e lascia tutti gli altri in una triste incertezza. 

Secondo: un personaggio in ombra, (prima padre poi figlio) di nome Casaleggio, è attivo dietro il padrone, ed è stato necessario per molti grillini, battersi a lungo per liberarsene e per togliere di mezzo una strana (e per molto tempo obbligatoria) procedura di sottomissione. 

Terzo: ogni aggregazione grillina prontamente si spacca e prendono forma subito due gruppi rivali con leader contrapposti, che intendono prevalere. Infatti la storia dei grillini è una storia di combattimenti e spesso si deve chiedere a Grillo e alla sua presunta saggezza di venire a Roma per trovare una soluzione. 

Finora, nella storia italiana, nessun gruppo politico era stato costretto a portare in giro a spalle il fondatore, in qualunque viaggio o iniziativa politica o decisione. Ma la storia dei grillini è tutta qui: come accomodare Grillo, le sue scelte, le sue preferenze, le sue decisioni, persino i suoi gusti. Ecco Grillo che arriva a Roma, in uno di quei giorni che cambiano la politica.

La polizia fa largo, i ministri si scostano e il comico di media grandezza visita a sorpresa il comando, se vuole, quando vuole, tocca i tasti che cambiano la composizione del partito e dunque del parlamento e del governo, e tutti (non solo i suoi ) devono subire gli umori che segnano la sua giornata. Naturalmente adesso la figura ingombrante del fondatore è meno agile. 

Lo è da quando il capo del governo è Draghi, che non lascia fessure fra il dentro e fuori del suo lavoro. E molto (il più) è radicalmente cambiato da quando il movimento si è spezzato dopo la conclusione e l'esito del durissimo scontro Di Maio - Conte. Ma attenzione. Grillo ora tace, preda, come ha fatto credere altre volte, di suoi tormenti e ripensamenti di proprietario unico della ditta. 

Quando tace non porta bene perché deve tornare in scena con una trovata che non è mai gentile. Il mondo di Grillo si muove fra multe, espulsioni, requisizione dei vitalizi, denigrazioni, votazioni elettroniche e incontrollabili di pre-iscritti fedeli, magari pochi, ma accettati come volontà compatta e comune del movimento anche dal resto del Paese democratico ("i grillini hanno deciso che"). Ma la scena sarà vuota.

Brave persone per bene mobilitate per fare il nuovo, si sono trovati nel meccanismo stravagante di una macchina immobile, e non ci sarà urlo o seduzione di Grillo, ormai destinato definitivamente allo spettacolo, che la rimetterà in moto.

Adolfo Pappalardo per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.

«Avremo modo di dimostrare che a tradire è chi è rimasto», ragiona Vincenzo Spadafora, ex sottosegretario grillino e appena nominato coordinatore politico di «Insieme per il Futuro», il gruppo parlamentare dimaiano staccatosi dall'M5S. «Ci siamo assunti la responsabilità di tenere più saldo e più fermo il governo», aggiunge.

Uno strappo impensabile sino a qualche giorno fa. Non solo per i modi ma anche per i numeri di chi ha aderito al vostro progetto politico. 

«Ci sarebbe da fare un'analisi su cosa è accaduto nel Movimento nell'ultimo anno da portare 60 persone, ma sono convinto che nelle prossime ore aumenteranno, a lasciarlo. Noi stavamo vivendo una fase di maturità, da un anno a questa parte, dove senza rinnegare quello che ha rappresentato il Movimento per questo Paese, si potesse imparare dagli errori per presentarci in modo più credibile agli elettori».

Ma con chi interloquirete nelle prossime settimane? Si fanno i nomi, oltre che del sindaco Sala come ha detto lei, di Renzi, Toti o Brugnaro o dei moderati di Fi legati alla ministra Carfagna.

«Credo che si facciano troppi nomi: la nostra priorità oggi è costruire un progetto politico, trasformare un'operazione parlamentare in un progetto serio, concreto che parli il linguaggio della verità, proponendo ai cittadini non più slogan ma soluzioni complesse a problemi complessi».

Ma quest' area Draghi, chiamiamola così, questo grande centro, non vede troppi aspiranti leader? Mi riferisco a Di Maio e a quelli che le ho citato prima. Riusciranno a interloquire superando vecchie divisioni? Calenda ha un profilo incompatibile per carattere con Renzi e Di Maio.

«Siamo andati via anche per l'eccesso di autoritarismo e la mancanza di un confronto interno autentico. Luigi Di Maio è un leader maturo a cui però non interessa costruire un partito personale ma un progetto collettivo che superi gli errori del passato». 

Clemente Mastella parla di un centro che, in ipotesi, sarebbe capace di avere un peso del 20 per cento. Ma in politica non sempre si sommano i voti e le avventure al centro spesso si sono rivelate velleitarie. A proposito, lei che è campano: Mastella può essere un alleato in questa avventura?

«Oltre a non dover nascere nel Palazzo, le forze politiche non possono nascere nemmeno in laboratorio, anche perché la ricetta del centro la cercano in tanti da anni senza trovarla. Sono convinto che partendo dai sindaci, dai territori e soprattutto dai temi potremo dare vita ad una forza in grado di attrarre chi ne condivide i principi e i programmi, e la disponibilità al confronto ed al dialogo deve essere ampia». 

Ma come vi regolerete in futuro con i vecchi amici dell'M5S? Conte ad esempio confermava l'alleanza del campo largo con il Pd per le prossime regionali nel Lazio, dove i consiglieri sono rimasti tutti grillini. Voi sareste in quest' alleanza o ci sono preclusioni contro l'M5S?

«Vedremo come evolverà il quadro politico generale che, francamente, credo possa mutare ulteriormente. E poi dovremo verificare la tenuta dell'M5S da qui alle elezioni perché credo che la forza propulsiva del Movimento sia completamente finita e rischia non arrivarci neppure alle elezioni».

E in Campania? Da tempo c'è un rapporto tra Di Maio e De Luca: possiamo immaginare una vostra entrata nella maggioranza della Regione?

«Un passo alla volta, non è un tema all'ordine del giorno. Ma sicuramente dobbiamo lavorare in maniera costruttiva per dare risposte al nostro territorio». 

Ora c'è un cambio di passo: De Luca è passato dagli insulti agli elogi verso il ministro degli Esteri. Eppure ci sono differenze enormi che vi dividono. L'ex sindaco di Salerno, ad esempio, nega l'esistenza della Terra dei Fuochi mentre voi siete nati con quella battaglia ambientale. Si cancella tutto?

«Non è che ora De Luca e Di Maio si sentono tutti giorni. Anche perché non c'è stato né il tempo, né l'occasione: è accaduto tutto molto velocemente. Possono aprirsi nuovi scenari, vedremo, ma a 48 ore dalla nostra nascita è prematuro parlarne. Ovviamente il cambio di passo su Luigi da parte di De Luca lo registriamo con grande piacere. Poi su alcune tematiche, le cose dette restano tali. Il futuro è tutto da vedere». 

Rimarrà il nome Insieme per il futuro o è provvisorio?

«È il nome del nostro gruppo parlamentare. Il progetto politico che ne deriverà avrà senz' altro un nuovo nome che decideremo insieme a chi farà il percorso con noi. Ma prima il progetto politico e poi il nome».

Come si sente dopo quest' addio all'M5S? Quali sono i suoi sentimenti per l'abbandono di un partito dove ha militato per anni? E la feriscono gli attacchi, anche personali verso di voi, da parte dei vecchi compagni di squadra?

«Gli attacchi degli ex compagni erano prevedibili. Anche se poi in realtà molti di loro in privato manifestano comunque l'enorme insoddisfazione per l'incapacità di Conte di avviare un nuovo percorso e sono convinto che presto altri si uniranno al nostro progetto. Invece mi colpisce ovviamente la delusione di quanti pensano che abbiamo tradito un sogno. Avremo modo di dimostrare che a tradire è chi è rimasto». 

Un paio di parlamentari ci hanno subito ripensato e sono tornati con Conte.

«Ma ci sono altri arrivi. Come Lucia Azzolina: sono molto felice della sua scelta. La stimo moltissimo come donna e come politica e so quanto lavoro ha fatto per il bene della scuola. Il paradosso è che quel lavoro gli viene riconosciuto proprio da gran parte di quel mondo ma lei, come me ed altri, non è stata messa in condizione di poter dare il suo contributo ad un nuovo corso mai iniziato».

Come vi regolerete nel vostro gruppo con il vincolo del doppio mandato che è stato un altro motivo di frizione all'interno dell'M5S alla vigilia della scissione?

«È stato creato questo gruppo da appena 48 ore e non c'è stato, ovviamente, il tempo di discutere di diverse cose. Ed è giusto così, altrimenti avrebbe ragione Conte convinto che ne parlassimo nell'ombra da diversi mesi...». 

Non teme che la vostra possa apparire all'esterno come una mera operazione di ceto politico?

«Tutto è nato su un dibattito di politica estera. Ci saranno tempi e modi per tutto. Soprattutto per costruire e radicare il nostro progetto politico».  

"Il Movimento non esisteva più da tempo". Pasquale Napolitano il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il senatore ha seguito il Di Maio: "Siamo 11. Epilogo con le ultime uscite di Grillo".

Il dado è tratto. La scissione è servita. Luigi di Maio molla il M5s e fonda un gruppo parlamentare autonomo «Insieme per il futuro». Dovrebbero essere una sessantina tra Camera e Senato i parlamentari che aderiranno al progetto dimaiano. Vincenzo Presutto è uno di loro. «Al Senato - conferma in un'intervista al Giornale siamo in undici». Delusi da Grillo? «Le sue uscite hanno determinato l'epilogo di oggi», spiega il senatore. E poi ammette: «Il M5S non esiste più».

Senatore oggi si certifica la fine del M5S?

«Il M5s oggi esiste solo come forma associativa e giuridica. Dal punto di vista politico non esiste più da tempo. Il M5s di Fico, Di Maio e Di Battista è morto e sepolto da tempo. Quel Movimento che abbiamo conosciuto negli anni non esiste più. Non esistono più i suoi valori e le sue idee».

E Conte?

«Con Giuseppe Conte non si guarda al futuro».

Insieme per il futuro è semplicemente un gruppo parlamentare nato per puntellare la maggioranza Draghi?

«La priorità oggi è mettere in sicurezza il governo Draghi. Dopo due anni di pandemia e un conflitto militare in Europa non possiamo permetterci passi falsi. Dobbiamo essere compatti al fianco del governo e dare forza al presidente del Consiglio in Europa. Non possiamo permetterci un governo debole ai vertici europei. Non possiamo permetterci continue fibrillazioni».

E dunque Conte vuole mettere in discussione questa unità e compattezza del governo?

«Conte poneva continuamente questioni. Alcune pure condivisibili. Ma il momento ci obbliga a un forte senso di responsabilità. Non potevano andare avanti con i distinguo. Non potevamo aprire il fianco alla propaganda russa».

È ipotizzabile che ora dopo la scissione, il M5s passi all'appoggio esterno?

«Questo va chiesto a Conte. Il M5S non ha i numeri per far cascare il governo. Però ripeto: non potevamo permetterci un'Italia debole seduta ai negoziati di pace».

Veniamo ai vostri numeri. Quanti siete?

«Al Senato siamo 11. È un dato certo. Alla Camera penso una cinquantina. Posso dirle che formeremo un gruppo parlamentare con circa 60 parlamentari. Posso confermarle solo il dato del Senato: 11».

Il regolamento vi impedisce di formare un gruppo autonomo.

«Il numero minimo è 10. Ci siamo. C'è l'ostacolo del simbolo. Posso confermarle che anche questo ostacolo sarà superato. Però ora non è il momento di concentrarci su questi aspetti tecnici».

E su cosa?

«Sul conflitto. Dobbiamo far sentire al governo il pieno sostegno».

E sui territori come siete messi?

«C'è grande entusiasmo».

Ecco, il progetto. Sarete una lista elettorale?

«No, vogliamo essere un movimento trasversale senza barriere ideologiche».

Un partito draghiano?

«No comment».

Ha sentito negli ultimi giorni il ministro di Maio?

«Si certo, molte volte».

E' deluso da Grillo?

«Luigi aveva un rapporto profondo con Beppe Grillo. Anche io sono legatissimo a Beppe. Purtroppo le sue ultime uscite hanno determinato l'epilogo di oggi».

L'ultima suggestione sul post-grillismo: avanza il "partito degli influencer". Francesco Boezi il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dai "Ferragnez" alla blogger che sostiene Calenda, i divi digitali sono pronti a scendere in campo. L'esperto: può arrivare al 30%.

Neanche ventiquattro ore dall'annuncio della partecipazione di Chiara Ferragni al Festival di Sanremo e tra gli addetti ai lavori ci si chiede già se non sia arrivato il momento del «partito degli influencer». Pure perchè nel mondo di internet c'è un fermento. Il contesto è liquido, dunque non c'è da stupirsi: le idee non fanno che ribollire. Al netto dei possibili interpreti, iniziano a circolare progetti di simboli e nomi. Ne abbiamo visto uno: «Rivoluzione» ma con una erre rovesciata. Quasi come se qualcuno, appresa la scomparsa del grillismo, si fosse già messo all'opera per un'evoluzione naturale che possa riempire un vuoto.

Sono almeno tre i fattori capaci di alimentare quella che rischia di smettere d'essere una mera suggestione in breve tempo. Uno riguarda lo spazio: il web, il luogo in cui è nato e cresciuto l'ormai dissolto Movimento 5 Stelle, è privo di una forza dominante. Poi c'è un motivo di opportunità: in questi ultimi anni, ci hanno provato in molti, dai No Vax ai Sì Putin (due mondi spesso coincidenti), ma nessuno si è dimostrato in grado di convogliare i «mi piace» o le visualizzazioni in qualcosa di politicamente rilevante. Il terzo fattore è relativo al piano culturale: le battaglie che trovano eco nell'istantaneità del web fanno fatica a passare in Parlamento. Il Ddl Zan - immaginiamo pensino dalle parti degli «influencer» - ne è la prova. Tanto varrebbe estendere gli orizzonti e fare un tentativo pratico: una formazione partitica che faccia arrivare al grande pubblico le istanze che, almeno per ora, vengono percepite come prioritarie quasi soltanto o quantomeno soprattutto dalle giovani generazioni.

Quanto sarebbe stata evidente la frattura tra i cosiddetti boomer ed i nativi digitali se, al referendum che si è appena svolto, l'Italia avesse avuto anche la possibilità di esprimersi sulla liberalizzazione della cannabis? Insomma qualcuno potrebbe voler sdoppiare lo schema, sgombrando il campo dal limite imposto dalla virtualità: i «seguaci» su internet e la politica nella realtà. Sarebbe troppo facile presentare l'esempio della potenzialità dei Ferragnez. Peraltro l'imprenditrice milanese sarà al Festival della canzone italiana in piena campagna elettorale. Dovesse decidere di scendere in campo (ipotesi che comunque sembra essere peregrina), si porrebbe quantomeno un tema. Fedez sembra avere un profilo più politico della moglie e continua ad intervenire sui temi d'attualità. Però anche il cantante non sembra disponibile ad un vero e proprio impegno in prima persona. Il fatto è che i nomi in questa storia contano eccome: «Il partito degli influencer può valere lo 0% o il 30% - dice al Giornale Tiberio Brunetti, consulente politico ed istituzionale - . Dipende da chi lo rappresenta e dai temi bandiera. Se ci pensiamo abbiamo un precedente: il M5S ha avuto per capo un influencer ante litteram, Grillo».

Claudio Cecchetto, che ha i suoi 83mila followers su Instagram e che proviene dallo spettacolo, si è candidato a sindaco di Riccione arrivando terzo e sfiorando il 9%: può costituire un segnale ulteriore. Cristina Fogazzi, ossia l'«Estetista cinica», ha endorsato Carlo Calenda qualche mese fa: «Mi ha invitato nella sede di Azione, che è popolata di Fagiane (l'appellativo riservato alle Fan) e ho avuto un'ottima impressione. Vi dico che mi piace, così domani i giornali hanno qualcosa da scrivere» ha dichiarato, durante le amministrative, come ha riportato Repubblica. Insomma: se quella in corso è una progressione, i tempi sembrano essere maturi. C'è chi è già al lavoro su quelle che vengono chiamate «anagrafi».

L'obiettivo degli studi certosini è tirare fuori un «capo influencer» dal cilindro entro primavera 2023. Serve qualcuno in grado di fare sintesi. Poi, come molti progetti partoriti nel contesto del web, il «partito degli influencer» può non partire, sparire poco dopo tempo o esplodere contro ogni previsione. Comunque, converrà «seguire» anche questo.

Quella tragedia trasformata in burla. Augusto Minzolini il 21 Giugno 2022 su Il Giornale.

Una volta, ormai tanto tempo fa, ai tempi della prima e della seconda Repubblica, se c'era un argomento su cui non si scherzava, cioè su cui non si inscenavano diatribe per guadagnare qualche voto, quello era la politica estera.

Una volta, ormai tanto tempo fa, ai tempi della prima e della seconda Repubblica, se c'era un argomento su cui non si scherzava, cioè su cui non si inscenavano diatribe per guadagnare qualche voto, quello era la politica estera. Per un motivo semplice quanto sensato: un conto dare spettacolo nel cortile di casa, un altro sul palcoscenico internazionale non fosse altro per non farsi ridere dietro o, alcune volte, per non far piangere il mondo intero. Nella terza Repubblica, caratterizzata dall'approdo dei grillini in Parlamento, anche questa bella abitudine è andata in gloria. In fondo un partito fondato da un comico non può che dar spettacolo, appunto.

Solo che, al solito, i 5stelle a digiuno di politica non sono capaci di scegliere il momento opportuno per la loro tradizionale pagliacciata: un conto infatti è atteggiarsi a rivoluzionari appoggiando il Venezuela di Maduro, nel qual caso si resta nell'ambito della commedia o al massimo rubi il mestiere ai clown; ma se la stessa operazione la tenti mentre è in corso una guerra a poco più di un migliaio di chilometri da noi, mettendo in piedi una sceneggiata sulla fornitura di armi all'Ucraina per intercettare il voto di tutti i putiniani del Belpaese, rischi che la commedia si trasformi in tragedia. Ti ritrovi ad essere lodato solo dall'ambasciatore russo a Roma, con Zelens'kyj che ti tira in ballo implorando il Parlamento italiano a non glissare sul tema degli armamenti e con il tuo ministro degli Esteri Luigino Di Maio, che pure ne ha viste tante vendendo bibite allo stadio San Paolo, che è costretto ad arrossire per la vergogna, a chiudersi in un silenzio imbarazzato e a mettere l'avviso: cercasi partito.

Fin qui la tragedia. Ma l'esperienza insegna che nella cosmologia grillina alla fine la tragedia torna sempre a rincontrarsi con la commedia. Così quando l'ex-premier Giuseppe Conte, che ha abitato per tre anni a Palazzo Chigi, che ha avuto a che fare con le cancellerie e le diplomazie di tutto il mondo, che ha giocato con i servizi segreti, che ha bazzicato magari senza capirci molto l'Alleanza Atlantica (e pensare che Il Foglio lo aveva pure lodato) rammenta il suo passato, si rende conto che in certi frangenti non si può scherzare. A quel punto se non vuole impegnare il resto della sua vita nel ruolo di istrione di piazza ha due strade: o ammette pubblicamente che il suo è stato solo un bluff, che non può chiedere al governo di rimangiarsi la scelta di fornire armi a Kiev, ma la sincerità non è roba da grillini. O si adegua alla tecnica dello struzzo: non pretende il no alle armi nella risoluzione del governo, accetta che non se ne parli, così lui insisterà a predicare il pacifismo disarmato e il governo continuerà a spedire obici e munizioni a Kiev. Insomma, si acconcia al bluff camuffato, al paradosso del doppio bluff. Un'altra burla. L'unica consolazione è che fra meno di un anno, se gli italiani recupereranno finalmente il senno, nel nuovo Parlamento di burle del genere non ne vedremo più.

Un discorso per smentirsi: così Gigino ha rinnegato il suo credo. Andrea Indini il 23 Giugno 2022 su Il Giornale. Tuonava contro i voltagabbana, voleva uscire dall'euro e "superare" la Nato. Aveva scherzato.  

C'era un tempo in cui Luigi Di Maio seguiva pedissequamente la linea barricadera dei 5 Stelle. Mai un pasdaran alla Di Battista, ma sicuramente un duro e puro dei totem grillini. Era uno di quelli, per intenderci, che «entriamo in Parlamento e lo apriamo come una scatoletta di tonno». Poi, però, è arrivato al governo. Una carica via l'altra. Cambiavano alleanze e premier, lui restava sempre in sella. Inossidabile. Una carriera formidabile, invidiatissima dai suoi. Non manca chi gli ricorda ancora lo stadio San Paolo. Ma il passato è passato. Come sono passati tutti i totem in cui credeva quando ha aderito al M5s e che martedì sera in un discorso di pochi minuti per dare l'addio al Movimento ha rinnegato.

VINCOLO DI MANDATO, UN'UTOPIA

Il web non dimentica. Basta spulciare un po' e subito viene a galla tutto. I voltagabbana, per esempio. Di Maio non li poteva proprio sopportare. Nel 2017 su Facebook scriveva: «Se vieni eletto con il Movimento 5 Stelle e scopri di non essere più d'accordo con la sua linea, hai tutto il diritto di cambiare forza politica. Ma ti dimetti, torni a casa e ti fa rieleggere, combattendo le tue battaglie. Chi cambia casacca, tenendosi la poltrona, dimostra di tenere a cuore solo il proprio status, il proprio stipendio e la propria carica». Già. Rileggerlo oggi, a fronte di quanto fatto nelle ultime ore, fa sorridere. E dire che, durante la scorsa legislatura, inveiva contro la creazione di nuovi gruppi parlamentari? «Molti di questi non erano neanche sulla scheda elettorale». E tuonava: «Un vero e proprio mercato delle vacche che va fermato». Voleva addirittura multare chi lo faceva: 100mila euro di ammenda da pagare sull'unghia. Non è andata così.

UNO NON VALE PIÙ UNO

Per anni i 5 Stelle sono stati in piedi su uno degli assunti più qualunquisti della storia della politica: «uno vale uno», i politici sono tutti intercambiabili e il politico di professione (ecco un altro totem scardinato) è un mostro da abbattere. Da qui, altra pietra miliare del grillismo della prima ora, il vincolo del doppio mandato: finito il secondo giro, si va a casa. E, guarda un po', Di Maio è ormai al giro di boa. Da tempo si vociferava che non avrebbe ottenuto la deroga sperata. Col nuovo partito non avrà di questi problemi. Anche perché ha messo in chiaro di non crederci più all'uno vale uno. «Uno - ha detto - non vale l'altro». Nel 2014 ovviamente la pensava diversamente. «Ci sono migliaia di anime in questo movimento, però uno vale uno - spiegava a Che tempo che fa - come Grillo, Casaleggio, io e il gruppo parlamentare e i cittadini che partecipano sul portale».

NESSUNO SPAZIO PER ODIO E POPULISMI

Già nei giorni scorsi, prima che trapelasse la bozza sull'Ucraina, Di Maio si era preoccupato per le sorti del movimento: «Temo che diventi una forza politica dell'odio». Una preoccupazione campata per aria visto che il M5s è da sempre il partito dell'odio. Davvero non ricorda i Vaffa Day, l'antipolitica ingiuriosa, le gogne social, le liste di proscrizione contro i giornalisti, le campagne giudiziarie usate come clava per demonizzare gli avversari politici? Ieri ha promesso che nel suo partito «non ci sarà spazio per i populismi, i sovranismi, gli estremismi e l'odio». E l'impeachment a Mattarella che lui stesso aveva chiesto quando era il capo politico del M5s? Per il capo dello Stato, ieri sera, ci sono stati soltanto elogi. Tutto un altro Di Maio, insomma.

LA POLITICA ESTERA

Tra tutte, però, la più plateale inversione a u fatta da Di Maio attiene la sfera dei rapporti internazionali. C'era un tempo in cui il M5s era profondamente contrario alla moneta unica. Erano i tempi del FirmaDay, #fuoridalleuro. Nel 2014 Gigino sbraitava contro le élite, la Troika e la Merkel. «Se non ci liberiamo dall'euro - diceva - il Mezzogiorno diventerà una terra desolata e spopolata». Tre anni dopo, presentando il «Libro a 5 Stelle dei cittadini per l'Europa», aveva ribadito che l'euro «non è democratico» e che «bisogna prevedere procedure per uscirne». Non deve quindi stupirci se, sfogliando vecchi album, dovessimo imbatterci in fotografie coi Gilet gialli francesi. Era il 2019, neanche troppo in là negli anni. Con lui c'era pure Dibba. Oggi, però, la strada col Che Guevara di Roma Nord si è divisa e Di Maio si professa europeista e pure atlantista, fermamente convinto dell'impegno dell'Italia nella Nato. E dire che, in passato, mai si è opposto alla richiesta del M5s di «superare la Nato». Ma erano altri tempi, appunto.

A Pomigliano bocciano il loro "enfant prodige". "È una furbata per conservare la poltrona". Pasquale Napolitano il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

Pure il parroco si dissocia: "Voglio bene a Luigi ma non condivido più nulla"

Pomigliano d'Arco (Napoli) Nella «Di Maio land» le stelle grilline brillano ancora. La comunità campana boccia la scissione. Nella terra che alle ultime elezioni politiche ha tributato al Movimento percentuali del 70%, la maggioranza dei cittadini non condivide la scelta del ministro degli Esteri di rompere con i Cinque stelle. Quel che resta della base di attivisti si schiera con Conte.

La protesta esplode a Pomigliano d'Arco: nella città d'origine del ministro Di Maio la rabbia è incontenibile. «Il sogno è svanito», «traditi», «venduti», è il tono dei commenti in paese. Un fiume di indignazione. In quel pezzo di terra, a forte vocazione operaia, lo strappo tra Di Maio e il Movimento genera tanta delusione. Basta fare un giro tra la comunità e sulle pagine social per comprendere il malcontento. La pagina Pomigliano Indignata, un tempo cannone per le battaglie grilline, dà sfogo alla rabbia: «Quando una nave affonda i topi scappano. Il buon Luigi sta tentando una ennesima furbata, per qualcuno può sembrare scaltrezza, fatto sta che il suo obiettivo è quello di cercare di uscirne purificato» scrive Antonio Pirozzi.

Più duro Felice Romano, un tempo amico personale del ministro Di Maio: «A giudicare dalla coerenza del ministro è logico attendersi che il suo nuovo partito insieme per il futuro si chiamerà tra un po' divisi per il passato. Ti abbiamo votato e difeso fino all'inverosimile. Hai fatto tutto ed il contrario di tutto pur di conservare la poltrona. Vergognati».

C'è anche chi però difende la mossa di Di Maio: «Luigi non meritava di esser trattato così da Conte», si infervora il titolare di un bar all'angolo in piazza Mercato a Pomigliano d'Arco. Pensiero identico a quello di Antonio Cassese, professore di storia dell'ex capo politico ai tempi del liceo Imbriani di Pomigliano: «Luigi deve fissare nuovi orizzonti politici, fa bene».

La delusione per la scissione non risparmia il prete Don Peppino Gambardella, confessore spirituale di Di Maio: «Ci hanno rubato un sogno. Assicuro il mio affetto a Luigi, che immagino stia soffrendo, ma non condivido più nulla. Che delusione».

Alla rabbia della comunità fa da contraltare l'umore euforico che si respira nel Palazzo della città: il gruppo consiliare del M5s (ormai ex) di Pomigliano d'Arco trasloca in blocco con Insieme per il Futuro. Il M5S si scioglie come neve al sole. Il sindaco di Pomigliano Gianluca Del Mastro potrebbe essere il primo sindaco della Campania in quota Di Maio. Il clima che si respira a Pomigliano è simile con quello percepito in altre zone della Campania: Nola, Afragola, Castellammare, Caivano. In pochi condividono la scissione. Ma anche nelle città di Caserta, Avellino, Benevento, Salerno la scelta del ministro degli Esteri appare incomprensibile.

In Campania pesa il no del senatore Agostino Santillo. Una storia che merita di essere raccontata. Santillo e Di Maio sono i due testimoni di nozze della capogruppo grillina in Regione Campania Valeria Ciarambino (passata con Insieme per Futuro): un rapporto solido e di amicizia che si è rotto nel giorno della scissione. Santillo resta con Conte. Stavolta la delusione (personale) è tutta da parte del ministro Di Maio.

Con il ministro molti campani e siciliani. E quaranta peones alla prima legislatura. Fabrizio De Feo il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

All'Europarlamento il gruppo M5s resta compatto. Ma si era già dimezzato.

Luigi Di Maio è uscito dal gruppo. Anzi ne ha creato uno tutto per sé. Non si parla di band, ma di truppe parlamentari, e del grande divorzio tra i due leader pentastellati, con Giuseppe Conte da una parte e il ministro degli Esteri dall'altra. Un big bang che fa seguito al lento, inesorabile stillicidio di addii che ha segnato la storia dei Cinquestelle nel corso della legislatura e ora si conclude con una operazione strutturata e organizzata, anche se ancora da definire nella sua prospettiva futura. Sì, perché al momento Di Maio ha creato Insieme per il futuro, ma questa creatura è soltanto un gruppo parlamentare e non un partito e la sua collocazione futura è oggetto di ipotesi, congetture e speculazioni.

Insieme per il futuro al momento ha incassato l'adesione di 51 deputati e 10 senatori, ma è possibile che altri parlamentari provenienti dal Gruppo misto possano traslocare nel nuovo contenitore. Tra i big che lasciano i Cinquestelle ci sono il viceministro dell'Economia Laura Castelli, il questore della Camera Francesco D'Uva, l'ex ministro dello Sport Vincenzo Spadafora, il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri e il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano. Dei 61 parlamentari, 40 sono al primo mandato (30 alla Camera e 10 al Senato) e 21 al secondo. Si fanno già i nomi dei possibili capigruppo: Vincenzo Spadafora per Montecitorio e Primo Di Nicola o Vincenzo Presutto per Palazzo Madama.

Ieri mattina, prima delle comunicazioni di Mario Draghi in vista del Consiglio europeo del 23 e 24 giugno, il presidente della Camera Roberto Fico ha ufficializzato la nascita del nuovo gruppo Insieme per il futuro e ha elencato i nomi dei deputati che ne fanno parte. Le truppe di Luigi Di Maio hanno una fortissima connotazione sudista. Guardando al gruppo della Camera, su 51 iscritti, 16 sono campani; 10 siciliani; 5 pugliesi, 4 sardi; 4 laziali; 2 calabresi. Il Piemonte può contare su 2 eletti. Basilicata, Abruzzo, Marche, Toscana, Umbria e Veneto hanno tutte un solo deputato. Al Senato la situazione è più mobile ed è anche scattata qualche controffensiva. Il senatore Emiliano Fenu, tra i parlamentari che due giorni fa avevano deciso di lasciare il gruppo M5s (ma senza passare a Insieme per il futuro), ci ha ripensato e resta con Conte. Resiste il gruppo a Strasburgo. La delegazione M5s di eurodeputati guidata da Tiziana Beghin non sembra aver risentito della nascita di Insieme per il futuro. Le perdite nel corso della legislatura però non sono mancate. Da 14 eletti si è passati a 7: in 4 sono passati a Greens, uno al Ppe, uno a Renew e un europarlamentare siede invece al Misto.

La cerimonia degli addii, comunque, non sembra conclusa. Manlio Di Stefano, fa capire, parlando con Fanpage, che qualcos'altro potrebbe muoversi. «Se oltre 60 parlamentari di cui due terzi alla prima legislatura, hanno fatto questa scelta, significa che non c'era alternativa. Solo nei due rami del Parlamento sono 61, ma il numero è destinato a crescere senza contare che lo stesso sta avvenendo dal Parlamento europeo fino ai Consigli comunali». E si registrano anche casi particolari e curiosi. Maria Pallini e Giovanni Currò, infatti, si sposeranno sabato ma hanno già divorziato in Parlamento. Lei è di Avellino, è stata eletta con il M5s in Campania, e ha seguito Luigi Di Maio. Lui è di Como ed è rimasto fedele a Conte. Un inno alla pluralità di pensiero. Salvo ripensamenti.

Luigi Di Maio, addio M5s? "Perché la colpa è di Roberto Fico". Libero Quotidiano il 21 giugno 2022

La colpa non sarebbe di Giuseppe Conte, ma di Roberto Fico. Se Luigi Di Maio ha deciso, o forse semplicemente accelerato il passo per la scissione del Movimento 5 Stelle, spiegano gli uomini più vicini al ministro degli Esteri, sarebbe stato per "le parole di Fico", le critiche del presidente della Camera "hanno segnato la rottura definitiva. Sono state il punto di non ritorno...". 

Mentre procede senza sosta lo scouting dei fedelissimi di Di Maio per la formazione dei nuovi gruppi di Camera e Senato, insomma, si procede già allo "scaricabarile" delle responsabilità, un modo come un altro per marcare confini politici e sgravare la coscienza davanti agli elettori per una scelta che, con ogni probabilità, decreterà la fine del Movimento per come l'abbiamo conosciuto fino a oggi. Dal punto di vista parlamentare, la fuoriuscita dei parlamentari è pesante: si parla di una quindicina di senatori e addirittura una cinquantina di deputati. 

Come suggerito all'agenzia Adnkronos dai parlamentari dimaiani che confluiranno, presto, nel gruppo "Insieme per il futuro" (sarebbe questo il nome scelto), Di Maio non avrebbe gradito la difesa di Conte portata da Fico. Una rottura che sembra arrivare sulla scia di una vecchia faida "napoletana", visto che entrambi ambiscono al ruolo di leader in uno dei feudi elettorali a 5 Stelle.  

E Beppe Grillo? C'è chi fa notare, maliziosamente, che i dimaiani sono usciti allo scoperto "bruciando" il fondatore, atteso a Roma giovedì. La scissione è stata annunciata addirittura due giorni prima, segno di quanto ormai il clima nel Movimento sia irrespirabile, anche nei confronti del guru schierato apertamente con Conte. 

L’ira di Fico: «Non è Di Maio contro Conte. Ma Di Maio contro il Movimento». Il presidente della Camera sulla faida M5S: «Siamo con l'Ucraina e la Nato, non capisco perché dice il contrario». Il Dubbio il 21 giugno 2022.

«Non c’è nessun Conte-Di Maio, state sbagliando prospettiva. L’unica cosa che c’è, al massimo, è Movimento-Di Maio, perché attaccare il Movimento su posizioni che non sono in discussione dispiace a tutta la comunità del Movimento». Così il presidente della Camera Roberto Fico entra nella faida che da giorni attraversa il M5S, con il ministero degli Esteri a un passo dall’addio al Movimento.

«Siamo un pò dispiaciuti da questo atteggiamento, non c’è nessun attacco nei confronti di Luigi Di Maio. Non è questo, è solo che non capiamo e non capisco perché si attacca su una cosa che non è in discussione», aggiunge Fico, che preferisce però non parlare dell’ipotesi espulsione.  «Dico solo, perché si deve attaccare il Movimento e metterlo in fibrillazione in un momento in cui queste cose nel Movimento non sono in discussione?», sottolinea Fico con riferimento alle presunte posizioni anti Nato e anti Unione Europea nel M5S. «Mi è incomprensibile e personalmente mi fa anche un po’ dispiacere, e da un punto di vista capisco che la comunità del Movimento, quando c’è un’operazione non aderente alla realtà, si debba anche difendere. Il Movimento non sta attaccando, si sta difendendo da questo».

«Il Movimento 5 Stelle è con l’Europa, siamo all’interno di un Patto atlantico e sosteniamo l’Ucraina in tutti i modi, sarebbe assurdo non esserlo soprattutto e ancor di più in questo momento. Questa discussione interna al Movimento 5 Stelle non c’è», prosegue Fico. «Queste posizioni – aggiunge – vanno in contrasto con il Movimento perché non sono vere. Non c’è un lavoro con Giuseppe Conte o con vicepresidenti e coordinatori dei comitati sulla questione se dobbiamo rimanere in Europa o no, se siamo nella Nato o meno. Da mesi si ribadisce sempre l’Alleanza atlantica e l’Unione Europea, non capisco perché a un certo punto qualcuno si sveglia la mattina e dice che il Movimento è contro la Nato o contro l’Unione europea. Anche il leader attuale del Movimento 5 Stelle è andato a battere i pugni in Europa e ha costruito il Recovery fund con il Next generation Eu, di cosa stiamo parlando? Sono dispiaciuto perché vengono poste questioni non reali, poi i giornali fanno i titoli sulle questioni non reali e sembra che il Movimento sia contro la Nato. È una stupidaggine, tutto qua».

«Di Maio costruisce una sua posizione al di là del M5S? Non ne ho idea, lo vedremo solo vivendo», chiosa il presidente della Camera Roberto Fico. «Quello che mi interessa – dice – è lavorare in modo tranquillo e costruttivo nel Movimento 5 Stelle e oggi ci sono tanti gruppi di lavoro, c’è un consiglio nazionale, abbiamo i comitati, gli organi funzionanti, stiamo completando l’operatività totale dello statuto che oggi è al 100% operativo perché il Tribunale di Napoli ha rigettato la causa degli ex M5S».

Grillo, Casaleggio, Di Maio… Sta a vedere che è Conte il rottamatore. Nel giro di pochi mesi l’Avvocato è riuscito a fare ciò in cui chiunque prima di lui aveva fallito, spianando via vecchie liturgie e avversari interni. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 21 giugno 2022.

Secondo una vulgata di Palazzo, Giuseppe Conte non brilla per coraggio. Strilla, strilla, ma alla fine non ha mai la baldanza dello strappo. Un’attitudine, quella alla prudenza estrema, sviluppata dopo la lezione del Papeete e abbondantemente utilizzata durante il suo secondo governo. Ma, dicevamo, di vulgata si tratta.

Perché a ben guardare Conte è tutt’altro che un mite avvocato catapultato nel mondo della politica. E per rendersene conto è sufficiente riavvolgere il nastro di un solo anno, l’anno della scalata al Movimento 5 Stelle. Dopo essere stato disarcionato da Palazzo Chigi, infatti, l’ex premier, forte di un consenso popolare ancora alto, ha concentrato ogni sua energia nella ricostruzione di un partito rimasto senza guida. Un percorso accidentato, pieno zeppo di insidie e scogli da aggirare per plasmare un carrozzone lacerato da una guerra fra bande favorita da una “non organizzazione” capace di cristallizzare rendite di potere inamovibili: un pezzo a Beppe Grillo, un pezzo a Davide Casaleggio, un pezzo a Luigi Di Maio. Il tutto retto da un’infinità di non detti, non scritti e consuetudini che solo un profondo conoscitore della grammatica pentastellata avrebbe potuto comprendere.

Insomma, governare quella macchina anarchica e autoritaria allo stesso tempo sarebbe stata impresa ardua per chiunque, figurarsi per un leader estraneo a quella storia e spuntato dal nulla. Ma forse è stata proprio questa la forza di Conte, che invece di perdersi in indistricabili trattative barocche condotte col misurino dei contentini, è entrato come un panzer nella casa grillina spianando via vecchie liturgie e avversari interni. E nel giro di pochi mesi l’avvocato è riuscito a fare ciò in cui chiunque prima di lui, Di Maio compreso, aveva fallito: rottamare l’intero “gruppo dirigente” pentastellato.

Uno alla volta l’ex premier ha “licenziato” Casaleggio, figlio del cofondatore e dominus assoluto di Rousseau, ridimensionato a un ruolo poco più che onorario lo stesso Grillo, accompagnato alla porta Di Maio, il volto politico più noto e potente del Movimento dalla cui fantasia era nata l’idea di trasformare Conte in un presidente del Consiglio. Difficile definire “prudenza” o “indecisione” questo modo di incedere. Nel giro di un anno il presidente grillino è stato in grado di realizzare quel sogno che Renzi nel Pd non è riuscito a portare a termine in un percorso durato oltre sei anni: esautorare la “ditta”.

Senza la spocchia dello «stai sereno», del «Fassina chi?», del «ciaone», ma col passo felpato e brutale dell’avvocato con la pochette. Il senatore di Rignano sull’Arno alla fine ha dovuto fondare un nuovo partito per avere una piccola arena senza avversari interni, Conte ha rifondato il suo. Forse entrambi saranno destinati all’irrilevanza politica ed elettorale. Ma di rottamatore vero, a conti fatti, ce n’è solo uno.

"Da domani i 5 Stelle non più prima forza politica". La scissione di Di Maio, dopo 9 anni rinnega se stesso: “Addio Movimento, nuovo partito senza odio e populismo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 21 Giugno 2022.

“Da domani il Movimento non è più la prima forza politica del Parlamento“. La politica fa miracoli e nel giro di pochi anni porta un suo giovane esponente, Luigi Di Maio, a rinnegare o meglio rivalutare il proprio credo (impeachment di Mattarella, contro l’Euro, contro la Nato) e, incarico dopo incarico (vicepremier, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, capo politico del Movimento, oggi ministri degli Esteri), a salutare quel partito che nel 2013, con appena 189 preferenze online alle cosiddette elezioni parlamentarie dei 5 Stelle, lo portò quasi per miracolo a entrare nella Camera dei deputati.

Nove anni dopo, in un hotel Bernini di Roma affollato di giornalisti e suoi fedelissimi (Sergio Battelli, Laura Castelli, Primo Di Nicola, Carla Ruocco, Francesco D’Uva, Simone Valente, Daniele Del Grosso, Simona Nocerino, Vincenzo Presutto e tanti altri), pronti a convergere in un gruppo parlamentare che dovrebbe chiamarsi “Insieme per il futuro”, Di Maio saluta il Movimento di Beppe Grillo e dell’oramai nemico Giuseppe Conte perché “dovevamo scegliere da che parte stare” in merito al conflitto in Ucraina e alla risoluzione approvata oggi in Senato sugli aiuti, armi comprese, da inviare a Kiev.

Una scelta istituzionale la sua, anche per il ruolo che ricopre, dettata da uno scontro alimentato – a detta del ministro – soprattutto da motivi mediatici riconducibili al ruolo da pacifista che si sarebbe ritagliato l’ex premier per ottenere, o provare a farlo, consensi in vista delle prossime elezioni politiche in programma nella primavera del 2023.

Secondo Di Maio “i dirigenti del Movimento hanno rischiato di indebolire l’Italia, di mettere in difficoltà il governo per ragioni legate alla propria crisi di consenso. La guerra non è uno show mediatico, è da irresponsabili picconare il governo“. L’ex capo politico ringrazia il Movimento “per quello che ha fatto per me, ma da oggi inizia una nuova strada” ma lo “lascio”. “E’ una scelta sofferta che non avrei mai pensato di fare” aggiunge.

Poi lancia la sua campagna acquisti con la solita cantilena che accompagna i nuovi progetti politici: “Da oggi inizia un nuovo percorso. Per costruire un futuro servono soluzioni e idee realizzabili. Per avere un modello vincente da nord a sud abbiamo bisogno di aggregare le migliori capacità e talenti. Perché uno non vale uno”. Poi la chicca: “Nascerà una forza politica che non sarà personale”, dove “non ci sarà spazio per odio, sovranismi e populismi“. 

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Conte e Grillo non sono uguali: i 5 Stelle esistono perché c’è Beppe. Piero Sansonetti su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Lo espelleranno o no? Diciamo pure che comunque vada non sarà uno di quegli avvenimenti che passeranno alla storia. Il problema casomai riguarda la tenuta del governo, se i 5 Stelle dovessero decidere di rompere sulla politica estera. Ma non succederà. Per una ragione molto semplice: i 5 Stelle non sanno molto bene cosa sia la politica estera e invece sanno piuttosto bene che se il governo va a casa e si sciolgono le camere è un bel guaio per i loro stipendi. Che poi Di Maio resti alla corte di Conte o esca e si faccia una sua corticina, o passi alla corte di Letta o di qualche altro spezzone centrista, resta un fatto abbastanza secondario.

La verità è che i 5 Stelle non ci sono più. Per una ragione essenziale. Noi continuiamo a chiamarli 5 Stelle ma loro sono semplicemente “grillini”. Il 30 per cento ed oltre dei voti alle elezioni politiche li hanno presi per quel semplicissimo motivo: erano i ragazzi di Beppe. Grillo è un personaggio di statura politica non molto elevata ma di personalità e carisma esplosive. E un bel giorno ha fatto irruzione nella politica italiana mandando tutto a carte quarantotto. La politica italiana non pensava che potesse esprimere una forza così dirompente e distruggente. E invece lui la possedeva. Aveva messo in piedi un movimento qualunquista tutto costruito sulle sue capacità comunicative e su alcune idee di demolizione del potere.

I movimenti qualunquisti sono una costante nella politica mondiale, ci sono stati in passato in Italia (Giannini), in Francia e altrove. Hanno avuto un peso. Talvolta il qualunquismo si diffonde orizzontalmente infiltrandosi nei i partiti (ce n’era parecchio sia nel Pci, sia nel Msi, sia nella Dc) talvolta si auto-organizza e diventa una spina nel fianco del sistema.

Il qualunquismo di Grillo era speciale, sia perché Grillo era speciale, sia perché conteneva una percentuale di anarchismo non indifferente. Ma i qualunquisti hanno sempre un limite grosso: sono a tempo. In questo caso avevano due limiti: il tempo e l’essere legati a filo triplo alla personalità del capo. Quando il capo si è ritirato, è iniziata la dissoluzione.

Ora possono mantenere qualche voto, ma peso politico, quando sarà eletto il nuovo parlamento, zero. Tutti i partiti che avevano fatto male i conti quando arrivarono i grillini, rischiano oggi di fare lo stesso errore di allora. Aver pensato che Conte fosse un leader politico è stato il più grande abbaglio degli ultimi trent’anni.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 22 giugno 2022.

Draghi è più forte. Conte e Grillo sono più deboli. Il premier incassa la nascita del primo nucleo parlamentare dichiaratamente sostenitore dell'Agenda Draghi, quello dimaiano, e allo stesso tempo vede ridursi le truppe dei malpancisti di Conte («le mosche tze tze», li chiamano i democrat) e registra l'ennesima «figuraccia» - così la chiamano tutti - dell'ex avvocato del popolo incapace di rompere e di dare l'assalto al governo e costretto a innescare la retromarcia automatica e prevedibilissima.

«M'hanno rimasto solo sti quattro cornuti», potrebbe inveire Conte (citando L'audace colpo dei soliti ignoti) riferendosi sia a Salvini, che promette sempre fuoco e fiamme e poi si allinea docilmente a Draghi (altro che Papeete bis!), sia a Di Maio che s' è fatto il suo partito con una velocità, una determinazione e una spietatezza che il leader M5S non aveva previsto e così ha blindato Draghi. 

I fedelissimi dell'ex premier, tutti contenti perché senza i dimaiani ci sono più posti disponibili nelle liste elettorali, non fanno che dirgli: «Giuseppe, no problem. Di Maio farà, con la sua scissione, la fine di Fini e di Alfano. Va a sbattere il muso». Conte però non condivide fino in fondo questo entusiasmo, anche se pubblicamente fa il duro. Ha perso Giuseppi in questa giornata campale.

E ha perso pure Beppe però. Il quale ha dovuto constatare che la sua creatura politica, dopo tanti anni di successi, è arrivata alla fine. E non per colpa di Di Maio ma anche a causa di un leader «senza capacità organizzativa né visione politica» (proverbiale stroncatura di Grillo su Conte). E infatti, il post anti-Di Maio di Grillo non è affatto un post filo- Conte. Ma la constatazione del passato di un'illusione. L'uscita di Grillo ha fatto precipitare tutto. Ovvero ha spinto Di Maio a strappare. Come Crono che divora i suoi figli, l'Elevato, il Garante, il Barbapapà ha visto che le sue creature si scannavano ed è entrato a gamba tesa con tre colpi molto forti.

Il primo contro tutti: siamo delle amebe ormai, non più grilli fritti e scoppiettanti, e dice questo il Fondatore ricorrendo a una immagine scientifica. Quella del Dictyostelium. «Beppe, che stai a di?», vorrebbero chiedergli gli stellati appena arriva sui loro smartphone questa strana parola seguita dal post ancora più criptico ma in realtà molto chiaro. Il Dictyostelium, s' informano tutti appena vedono lo strano fonema, è il sistema delle amebe che si auto-riproducono in maniera asessuata creando altre amebe su amebe, invertebrate e smidollate.

Ossia, secondo Beppe, i grillini oggi. Ma lui dice ancora di più scagliandosi, secondo colpo tremendo, addosso a Di Maio: «Qualcuno non crede più nelle regole del gioco? Che lo dica con coraggio e senza espedienti. Deponga le armi di distrazione di massa e parli con onestà». Di Maio accoglie l'invito alla chiarezza, e strappa. Ma c'è di più e di peggio nel post che fa precipitare tutto. 

C'è la dichiarazione di morte di M5S. Il de profundis. «Siamo tutti qui per andarcene, comunque, ma possiamo scegliere di lasciare una foresta rigenerata o pietrificata». Demolisce e si auto-demolisce l'Elevato, e questo sembra un canto del Grillo. Che cita Steve Jobs: «Disse agli studenti: oggi siete giovani, ma diventerete vecchi e verrete spazzati via». Perciò c'è chi sostiene che Beppe, in tanto crepuscolo, possa rinunciare a venire a Roma domani rischiando di comparire come l'Ameba Beppe.

Le pentacomiche. Cosa c’è dietro lo scontro tra Conte e Di Maio, storia dell’amicizia (che fu) tra due big per caso. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Lo cacciano o non lo cacciano, a Gigi Di Maio? Questa domanda agita il governo si ripercuote sul Paese, mette in crisi l’Unione Europea che secondo Medvedev – il cucciolo di Putin – chissà se fra due anni ancora esiste, scuote i delicati equilibri tra le potenze del Pianeta e potrebbe avere ripercussioni lungo la frontiera indo-cinese.

È una questione divisiva, quindi divide. Io personalmente, sto per Gigino perché seguita a vestirsi come per la prima comunione e poi ha imparato un sacco da quando gli hanno spiegato che per fare il ministro degli Esteri in un governo Draghi deve solo leggere i foglietti già recapitati da Palazzo Chigi via motociclista perché s’è rotta la scatola Wi-Fi., E chi è il nemico di Di Maio, quello che lo vorrebbe espellere? È l’avvocato de noantri Giuseppe Conte. E perché e per come? Ma quante ne volete sapere.

Ricordiamo sommariamente la storia. Si era nel 2018 e il movimento 5 Stelle guidato da Di Maio, e la Lega di Salvini vinsero le elezioni ciascuno per essersi connotato fieramente nemico dell’altro. Quindi decisero di fare insieme un governo di destra, ma al bim-bum-bam nessuno dei due voleva lasciare il posto di primo ministro all’altro, finché l’avv. Bonafede, frequentatore dello studio Conte, disse: “Ho io il tipo che ci vuole” e portò Conte a un appuntamento segreto con Di Maio e Salvini, i quali dissero: “Avvocato, si aggiusti la cravatta, la pochette va bene, prenda il trolley e venga con noi”. E lo portarono da Mattarella che disse: “Avvocato, l’hanno beccata con il curriculum ritoccato, non ci faccia fare altre brutte figure. E adesso ci dica: vuole lei, avvocato Conte, fare il Primo Ministro di questo Paese?”.

Lo sciagurato ripose di sì. Adesso andiamo un po’ alla svelta sennò ci facciamo notte e arriviamo fino al governo Draghi dove Di Maio viene riconfermato ministro degli Esteri, senza sapere che zio Putin stava preparando una delle sue peggio guerre. Il partito, movimento accozzaglia o come vi piace chiamarlo, si sfascia a ogni tornata elettorale e capisce di essere un movimento morto, anche se Enrico Letta l’ha scelto come sposa sperando di riportarsi a casa dei voti che un tempo appartenevano al Pd.

Catastrofe, Tutti per uno e nessuno per tutti, Conte tanto fa e tanto non fa, che si fa bollare da un giudice la patente di guida del partito e poi fra le previsioni del tempo vede che la politica detta del “Non diamo nuove armi agli ucraini, sennò quelli le usano per sparare ai russi”, è molto gettonata e l’assume come sua. Fa un discorso tortuoso che lo impegna a morte su congiuntivi e condizionali ma poi alla fine dice: “Basta nuove armi agli ucraini, finché si tratta di qualche sasso da fionda va bene, ma qui si esagera e annuncio che abbiamo cambiato idea”. La notizia che l’avvocato Conte avesse anche delle idee fa il giro del mondo e torna puntuale da dove era partita.

L’idea che Conte aveva avuto era semplice: dire che il movimento Cinque stelle, benché rappresentato nel governo dal ministro degli esteri, ha cambiato idea sulla fornitura di aiuti anche in armi all’Ucraina invasa dai russi e così andiamo due volte al giorno sui tiggì e sui giornali, che è tutta salute per un movimento politico dichiarato morto dagli elettori. Allora Di Maio si imbufalisce e dice di no, e però arriva certo Grillo detto Beppe, con scafandro e supercazzola, che dice tu piccolo Di Maio hai finito i due mandati e torni a casa. E allora Di Maio risponde con il saluto del movimento che si chiasma “Vaffa”. E allora Conte si presenta ovunque ci siano delle telecamere e diventa simpatico e autorevole di colpo a tutti i pacifisti. E tira e molla, e molla e tira, siamo arrivati ad oggi che non si sa che aria tira. Ma non fa niente perché Di Maio si fa un movimento suo, tanto adesso sono di moda, anche il sindaco Sala se lo fa e Calenda non è mai contento perché vuole essere l’unico movimentista di taglia medio-nana.

La questione delle armi all’Ucraina era già diventata nodale in quel curioso consesso, perché Petrocelli per aver fatto la stessa cosa da Presidente della commissione Esteri, era stato già espulso. Poco male perché tutti i pentastellati sono espulsi o annullati, o sottoposti a verifica giudiziaria. Ora i penta si contano per vedere se ne mette più insieme Conte o Di Maio e si diffondono cifre vistosamente rimaneggiate. Draghi dice di non volerne sapere niente e che già ha molto da fare con l’amico Macron che si è giocato la maggioranza assoluta e che si ritroverà con un primo ministro che ha idee opposte alle sue. Nel più grande imbarazzo resta Enrico Letta che vuole salvare più Pentastellati possibile e vuole vedere come finisce questa storia perché lui, legalitario com’è, deve stare dalla parte di Conte che per sentenza giudiziaria deve essere considerato il leader dei Cinque Stelle, anche se sono pochi a crederci.

L’Italia è dunque appesa a un filo, che è anche la sua condizione naturale. Lo sconcerto è grande, anche se nessuno ci ha capito granché essendo il M5S per sua natura “fluido”: non sa bene come è nato e perché e meno che mai perché si ritrova a capo un tale che un giorno rispose all’avvocato del suo studio, il quale un giorno gli disse vieni, ti porto a conoscere un mio amico che si chiama Luigi Di Maio e se stai buono quello di fa fare anche il capo del governo. Ed era tutto vero. La puntata di oggi finisce qui.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Dai gilet gialli alla fede atlantista. Chi è Luigi Di Maio, il migliore e peggiore della scuderia di Casaleggio. David Romoli su Il Riformista il 22 Giugno 2022. 

“Non è uno scontro tra Di Maio e Conte ma tra Di Maio e l’intero M5S”: parola di Roberto Fico, presidente della Camera, pentastellato di vecchissima data, uno che di solito pesa le parole. Proprio per questo quella dichiarazione secca suona come un de profundis per il Movimento di cui nessuno più di Luigi Di Maio, classe 1986, è stato negli anni il volto pubblico e soprattutto, nel bene e nel male, l’emblema. Il contrario di Conte, arrivato alla presidenza del consiglio su spinta del Movimento ma senza essere neppure mai stato iscritto, esaltato dai media proprio come l’uomo capace di “normalizzare” e istituzionalizzare il Movimento. Insomma di domare quelli come Di Maio.

Il campione dell’atlantismo, il ministro in carica da cinque anni con tre governi diversi, il volto oggi più accettabile e accettato da quelli che per anni i 5S neppure sopportavano di sentirli nominare era all’epoca reprobo quanto e più del gemello e amico/nemico Alessandro Di Battista. E Giggino da Pomigliano d’Arco pareva farlo apposta a calcare la mano, andare fuori dalle righe, esagerare sempre: deputato a 26 anni grazie ai 189 voti online ottenuti nelle parlamentarie online del 2013; vicepresidente della Camera nello stesso anno, il più giovane della storia e probabilmente il meno votato, appena 173 voti furono sufficienti; beniamino di Gianroberto Casaleggio, il solo vero capo che il Movimento abbia mai avuto; capo politico del Movimento, stavolta con 30.936 voti degli iscritti, quasi un plebiscito, l’82,% dei votanti; vicepremier e ministro dello Sviluppo a 32 anni, poi ministro degli Esteri in due governi opposti, uno dei pochissimi a passare indenne nel terremoto che espulse da palazzo Chigi Conte, con il suo silente beneplacito, per rimpiazzarlo con Mario Draghi, di cui oggi è fedelissimo.

Nulla di strano. Sembra la carriera, certo molto brillante, di un politico di professione che in altri tempi, probabilmente, avrebbe tentato la scalata con la tessera dello scudo crociato in tasca. Ciò che rende l’avventura anomala, la scalata improbabile è che l’enfant prodige si è fatto strada nelle istituzioni usando come leva l’anti-istituzionalismo più vibrato, inanellando dichiarazioni roboanti che deliziavano quanti non vedevano l’ora di dimostrare la pericolosità estrema, l’improntitudine insanabile, di quello strano movimento tenuto a battesimo da un comico a colpi di Vaffa. Gigino era quello che nei giorni del braccio di ferro col capo dello Stato che si rifiutava di nominare ministro dell’Economia il no euro Paolo Savona non esitava a chiederne l’impeachment. Quello che incurante del senso del ridicolo, la sera in cui fu varato il reddito di cittadinanza, apostrofava la scarna folla dal balcone di palazzo Chigi annunciando “la fine della povertà”. Peggio ancora era il numero due del governo che nel gennaio 2019 non esitava a incontrare la bestia nera d’Europa in quel momento, i gilet jaunes che mettevano a ferro e fuoco Parigi e poi a dichiarare entusiasta che “le posizioni e i valori comuni sono molti. Il vento del cambiamento ha valicato le alpi”.

Sia chiaro: nonostante il populismo ruggente, la solidarietà con i barricadieri e l’abolizione della povertà, il giovanotto rampante non ha mai cercato di farsi passare per uomo di sinistra. Al contrario, nel gioco delle parti inventato da Casaleggio per foraggiare la leggenda del Movimento “né di destra né di sinistra” a Di Maio toccava la parte del leader in grado di rivolgersi all’area dell’elettorato più tradizionalista: “Da cattolico penso che la famiglia sia quella con un papà e una mamma. Sulle adozioni per le coppie gay bisogna andare con i piedi di piombo”. Del resto nella meteorica esperienza del primo governo Conte, quello retto dalla maggioranza gialloverde, i suoi rapporti con Salvini erano idilliaci mentre proprio quelli con Conte, che avrebbe di gran lunga preferito il Pd alla Lega e non mascherava l’intento di “civilizzare” il Movimento, non sono mai stati davvero rosei.

Nel Movimento Di Maio era l’uomo di sfondamento contro la sinistra. Il capofila della campagna di Bibbiano: “Con il partito che in Emilia toglie i bambini alle famiglie io non voglio avere niente a che fare”. Il primo a lanciare la campagna contro le Ong colpevoli di salvare immigrati nel Mediterraneo: “Sono taxi del Mediterraneo. Quelli che le difendono sono ipocriti che fingono di non vedere il business dell’immigrazione”. Casaleggio aveva occhio. Di Maio era portato naturalmente per quel ruolo. Già al liceo s’era inventato una lista per sconfiggere la sinistra da sempre egemone nella scuola e c’era pure riuscito. La leggenda del “bibitaro” ha un fondo di verità. Di Maio ha fatto davvero un po’ di tutto: tecnico informatico, bravissimo a suo dire, aiutoregista, cameriere e anche steward allo stadio. Ma viene da una famiglia di imprenditori edili e la politica contro la sinistra la ha respirata sin da piccolo, col padre militante del Msi e poi di Alleanza nazionale. È vero che ad Antonio Di Maio il salto in politica come candidato al consiglio comunale di Napoli non era riuscito e anche per questo era contrarissimo alla scelta del figlio di scegliersi proprio quella carriera. È anche vero che tra i due non sempre i rapporti sono stati facili, ma sul pedigree antisinistra del futuro ministro degli Esteri non c’erano dubbi e Gianroberto l’Impresario, in cerca di volti nuovo da lanciare sul palcoscenico della politica, aveva fatto la scelta giusta.

Questione anche d’immagine, che nella politica contemporanea, che di politico ha ben poco, conta eccome. Se Di Battista era l’immagine descamisada del Movimento, il look capace di incendiare le piazze, Gigino è stato sin dall’inizio il doppio petto, la cura dell’aspetto, votato come “il più elegante tra i 5S” quando sbarcò in Parlamento. Quando nel gennaio 2020 lasciò l’incarico di capo politico, non senza denunciare quanti “vengono al fronte solo per pugnalare alle spalle”, si tolse emblematicamente la cravatta. Nessuno dubitò sul fatto che se la sarebbe rimessa prestissimo e così è stato. Tra i tantissimi catapultati in Parlamento dall’ondata grillina Di Maio è certamente quello che ha più testa politica, se per politica s’intende il fiuto per vento temperie e convenienza, la capacità di cogliere al volo l’occasione, le doti strategiche di cui difettano spesso anche le volpi della politica. È stato il primo a capire che il grande momento del populismo barricadero era passato e allo stesso tempo il più astuto e pericoloso rivale di Conte il normalizzatore.

Ha lavorato con diligenza per minare il potere di quell’ultimo arrivato nominato capo di un Movimento del quale non aveva mai fatto parte, collaborando senza mai esporsi alla sua cacciata da palazzo Chigi: quando Conte, sopravvissuto all’uscita di Renzi dalla sua maggioranza pensava già di essersi salvato fu Di Maio a chiarirgli che l’eventuale sfiducia contro il guardasigilli Bonafede avrebbe imposto anche a lui le dimissioni. Non era scritto da nessuna parte e per Conte fu un suicidio. Allo stesso tempo il ministro degli Esteri ha fatto il possibile per sostituire l’ “avvocato del popolo” come figura più affidabile, in Italia e all’estero, del Movimento. Ma dai gilet gialli alla fede atlantista assoluta è un bel salto e quel che resta dei 5S non glielo ha perdonato. In un modo o nell’altro la dipartita dal Movimento è già segnata. Resta solo da vedere il quando e il come. Ma con Luigi Di Maio il migliore e il peggiore tra i pargoli della scuderia Casaleggio, quello che più di ogni altro ha mantenuto e tradito le promesse, finisce il Movimento per come è stato sinora. David Romoli

Il governatore garantista con "Luigino". De Luca corteggia Di Maio: da “coniglio” e “carpentiere” a “interlocutore”: “Meglio tardi che mai…” Redazione su Il Riformista il 22 Giugno 2022.

“Il solo nome di questo soggetto mi procura reazioni d’istinto che vorrei controllare”. E poi ancora. Dalle sfide a fare un dibattito pubblico “dove, come e quando vuole purché in diretta televisiva, spero che non faccia il coniglio” all’apertura delle ultime ore. Dalla lettura in diretta tv, tra una battuta e l’altra, del suo curriculum alla possibilità di averlo come “interlocutore per un comune progetto riformista“. Come cambia la politica nel giro di pochi anni.

Lo sa bene anche Vincenzo De Luca, governatore della Campania, che dopo aver attaccato a testa bassa Luigi Di Maio e l’intero Movimento 5 Stelle, da qualche tempo ha fatto marcia indietro, aprendo al dialogo e, dopo la recente fuoriuscita di “Luigino” (così come lo chiamava, ndr) dal partito di Beppe Grillo, invitando il “carpentiere” mancato di Pomigliano D’Arco a collaborare per la creazione di un’unica grande forza politica che aggreghi il centrosinistra. Di Maio può essere un interlocutore perché – osserva De Luca – “se parla di concretezza, di rifiuto della demagogia, se ricorda a me che uno non vale uno, io che c’ero arrivato dieci anni fa per la verità, forse ci poteva arrivare un po’ prima, ma meglio tardi che mai, dico di sì”.

Per il governatore campano non c’è alcuna preclusione contro quelle componenti politiche che “vivono un processo di maturazione e che escono dall’infantilismo, dalla demagogia e in qualche caso da posizioni di vera e propria stupidità, credo sia un bene per il Paese”. Stessa apertura anche agli esponenti del Movimento 5 Stelle: “Se c’è un’innovazione anche nell’ambito dei Cinque Stelle – spiega – se c’è un processo Di maturazione politica, io credo che debba essere guardato con grande rispetto e anche con grande interesse”.

Già nei mesi scorsi De Luca aveva riposto l’ascia di guerra e provato a dialogare con il mondo pentastellato e con i suoi principali esponenti politici. Pur mantenendo la consueta ironia, “sono molto caritatevole”, in occasione dell’elezione di Gaetano Manfredi a sindaco di Napoli (grazie alla coalizione Pd-5 Stelle) il governatore si fece immortalare insieme a Di Maio e al presidente della Camera Roberto Fico dopo anni di dure polemiche, deflagrate poi durante l’emergenza covid. “C’erano più dirigenti che voti dei 5 Stelle a Napoli” commentò nei giorni successivi, sottolineando che “oggi dobbiamo essere molto aperti con gli amici 5 Stelle. Io sono tra quelli che non hanno un doppio linguaggio in privato e in pubblico. Non ho problemi a dire che ho un rapporto di cordialità e di amicizia con Roberto Fico. Lo considero una persona di grande qualità umana, di grande valore, così come ho apprezzato che Di Maio abbia cambiato la sua posizione. Abbiamo avuto conflitti, ma quando Di Maio ha trovato il coraggio di chiedere scusa al sindaco di Lodi, che era stato incarcerato ingiustamente è un dato di novità di cui prendere atto”.

La diaspora 5 Stelle. Chi sono i 62 parlamentari che hanno seguito Di Maio: i nomi degli iscritti a ‘Insieme per il futuro’. Redazione su Il Riformista il 22 Giugno 2022. 

Ci sono, come ovvio, tanti parlamentari, una quarantina, al secondo mandato, tutti esponenti del Movimento 5 Stelle che per la ‘linea dura’ di Beppe Grillo non sarebbero stati ricandidati tra un anno. Tra i 62 fedelissimi che hanno deciso di seguire la scissione dal Movimento di Luigi Di Maio, aderendo al gruppo parlamentare di ‘Insieme per il futuro’, la maggioranza è composta da deputati e senatori che salvo clamorosi colpi di scena sarebbero ‘in scadenza’.

L’addio del ministro degli Esteri ai pentastellati a guida Giuseppe Conte è un durissimo colpo per il Movimento: nel pomeriggio di ieri fonti vicine all’ex premier davano per certo l’uscita di un massimo di 25-30 parlamentari, diventati invece il doppio nel volgere di poche ore e con una ‘campagna acquisti’ che potrebbe continuare anche nei prossimi giorni.

E i conti in Parlamento sono drammatici per i 5 Stelle. I pentastellati dopo l’uscita di Luigi Di Maio non sono più il gruppo di maggioranza relativa alla Camera: ai 155 di lunedì (erano 227 a inizio legislatura) vanno sottratti i 51 che hanno seguito il titolare della Farnesina nel gruppo ‘Insieme per il futuro’, con la Lega che diventa la forza più presente a Montecitorio con i suoi 132 deputati. Stesso discorso al Senato, dove da 72 i rappresentati dei 5 Stelle scendono a 61, gli stessi del Carroccio, dopo l’addio di undici senatori di fede ‘dimaiana’.

I 51 deputati di IF

A comunicare ufficialmente i membri del gruppo parlamentare del ministro Di Maio è stato questa mattina il presidente della Camera, l’ormai ex compagno di partito Roberto Fico. Nella formazione, ovviamente, vi sono tutti ex 5 Stelle, con l’eccezione di Antonio Lombardo, ex deputato di Coraggio Italia.

Quindi i nomi dei nuovi iscritti a ‘Insieme per il futuro’, che presenta nel lungo elenco alcuni ‘big’ fuoriusciti dal Movimento come la viceministra dell’Economia Laura Castelli, l’ex sottosegretario di Stato Vincenzo Spadafora, Manlio Di Stefano, attuale sottosegretario di Stato al Ministero degli affari esteri, Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia.

Quanto agli altri, nel nuovo gruppo vi sono Cosimo Adelizzi, Roberta Alaimo, Alessandro Amitrano, Giovanni Luca Aresta, Sergio Battelli, Luciano Cadeddu, Vittoria Casa, Andrea Caso, Giampaolo Cassese, Luciano Cillis, Federica Daga, Paola Deiana, Daniele Del Grosso, Margherita Del Sesto, Giuseppe D’Ippolito, Gianfranco Di Sarno, Iolanda Di Stasio, Francesco D’Uva, Mattia Fantinati, Marialuisa Faro, Luca Frusone, Chiara Gagnarli, Filippo Gallinella, Andrea Giarrizzo, Conny Giordano, Marta Grande, Nicola Grimaldi, Marianna Iorio, Luigi Iovino, Giuseppe L’Abbate, Caterina Licatini, Pasquale Maglione, Alberto Manca, Generoso Maraia, Vita Martinciglio, Dalila Nesci, Maria Pallini, Gianluca Rizzo, Carla Ruocco, Manuele Scagliusi, Davide Serritella, Patrizia Terzoni, Gianluca Vacca, Simone Valente, Stefano Vignaroli.

Gli 11 del Senato

A Palazzo Madama le uscite dal Movimento 5 Stelle sono state minori, ma comunque significative. A lasciare Conte per sposare il progetto di Luigi Di Maio sono stati Primo Di Nicola, Vincenzo Santangelo, Pietro Lorefice, Daniela Donno, Sergio Vaccaro e Simona Nocerino.

Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.  

Il trasloco di Luigi Di Maio e della sua brigata di scissionisti e stato veloce ed essenziale: dal M5S si sono portati dietro solo la poltrona e il conto corrente. 

Carla Ruocco, ex grillina dura e pura, in un paio di efferate interviste ha spiegato: «Beh, che volete? Ci siamo evoluti». E-vo-lu-ti? No, aspetti, onorevole Ruocco: e troppo facile chiuderla cosi.

Voi avete responsabilità politiche profonde e tragiche, e sarebbe giusto che ne rendeste conto. Niente puo essere dimenticato. A cominciare dal gigantesco e terrificante inganno con cui nasceste, quel Vaffa progettato a tavolino con la pericolosa astuzia di Casaleggio padre e con la feroce arroganza del suo compare, Beppe Grillo. 

Un tranello nel quale caddero milioni di italiani, che vi spedirono in Parlamento. Dove siete arrivati promettendo di aprire tutto come una scatoletta di tonno e invece tra i velluti rossi e i lampadari luccicanti vi siete trovati subito comodi, rimanendo sedotti da quel potere che avevate promesso di combattere.

Quanta miserabile debolezza. E quanto male avete seminato con la folle bugia dell’«uno vale uno»: inoculando nel tessuto del Paese l’idea malvagia che la competenza fosse inutile, l’esperienza un limite, la modestia un valore. 

Ricorda? Barbara Lezzi, ex impiegata in un’azienda che fa pezzi di ricambio per orologiai, nominata ministro per il Sud. O vogliamo parlare di Danilo Toninelli, il ministro delle Infrastrutture che da Vespa sghignazzava davanti al plastico del ponte Morandi, mentre a Genova le macerie erano ancora fumanti?

Ha dimenticato, onorevole Ruocco, quella memorabile sera in cui vi affacciaste eccitati come bambini dal balcone di palazzo Chigi per urlarci che avevate «abolito la povertà»? Che pena: perchè poi, poco alla volta, ma sempre fingendo cordoglio, avete cambiato idea su tutto. Sulla democrazia diretta e sullo streaming (indimenticabile la pagliacciata di cui fu vittima Pier Luigi Bersani nel 2013), sull’Europa e sulle banche, su Tav e Tap, sulle auto blu (adorate sprofondare nei sedili di pelle) e naturalmente sul limite del doppio mandato. Ora avete mollato lo zatterone di Giuseppe Conte, che inesorabilmente punta gli scogli. E pensavate di farla franca. «Ci siamo evoluti». No, onorevole Ruocco: ormai sappiamo chi siete. Ogni trucco e inutile.

Insieme per il futuro: da Vincenzo Spadafora a Carla Ruocco, ecco chi lascia i 5 stelle per seguire Luigi Di Maio. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 22 Giugno 2022.

Ufficializzata alla Camera e al Senato la lista del nuovo gruppo dei fuoriusciti dal Movimento, guidati dal ministro degli Esteri.

Il presidente della Camera Roberto Fico ha comunicato l’elenco formale dei componenti del nuovo gruppo parlamentare nato dalla scissione del Movimento 5 stelle con l’uscita di Luigi Di Maio e di sessanta tra deputati e senatori.  

Al Montecitorio del gruppo, annuncia Fico, fanno parte i deputati: Cosimo Adelizzi, Roberta Alaimo, Alessandro Amitrano, Giovanni Luca Aresta, Sergio Battelli, Luciano Cadeddu, Vittoria Casa, Andrea Caso, Gianpaolo Cassese, Laura Castelli, Luciano Cillis, Federica Daga, Paola Deiana, Daniele Del Grosso, Margherita Del Sesto, Luigi Di Maio, Giuseppe D'Ippolito, Gianfranco Di Sarno, Iolanda Di Stasio, Manlio Di Stefano, Francesco D'Uva, Mattia Fantinati, Marialuisa Faro, Luca Frusone, Chiara Gagnarli, Filippo Gallinella, Andrea Giarrizzo, Conny Giordano, Marta Grande, Nicola Grimaldi, Marianna Iorio, Luigi Iovino, Giuseppe L'Abbate, Caterina Licatini, Anna Macina, Pasquale Maglione, Alberto Manca, Generoso Maraia, Vita Martinciglio, Dalila Nesci, Maria Pallini, Gianluca Rizzo, Carla Ruocco, Emanuele Scagliusi, Davide Serritella, Vincenzo Spadafora, Patrizia Terzoni, Gianluca Vacca, Simone Valente e Stefano Vignaroli, già iscritti al gruppo Movimento 5 Stelle, e Antonio Lombardo, già iscritto al gruppo Coraggio Italia.

Al Senato ne faranno parte Emiliano Fenu, Fabrizio Trentacoste, Antonella Campagna, Vincenzo Presutto, Primo Di Nicola, Simona Nocerino, Sergio Vaccaro, Daniela Donno.

Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte su Di Maio: “Non si permetta di minare il nostro onore”. Valentina Mericio il 22/06/2022 su Notizie.it. 

Dopo l'abbandono di Luigi Di Maio del Movimento 5 Stelle, il capo politico Giuseppe Conte ha attaccato: "Gli ricordo i gilet gialli". 

Il capo politico del Movimento 5 Stelle ed ex premier Giuseppe Conte, dopo l’uscita di Luigi Di Maio dal partito ha mantenuto una linea inflessibile e categorica. Intervenuto nella trasmissione “Otto e Mezzo” condotta da Lilli Gruber ha affermato che il Movimento continuerà a rimanere al Governo: “Noi nel governo ci siamo e ci saremo fino a che saremo in grado di tutelare gli interessi dei cittadini e continuare le nostre battaglie”.

Sul capo del Viminale: “Non si permetta di minare il nostro onore, gli ricordo i gilet gialli”.

Giuseppe Conte, le parole “al veleno” contro il ministro degli Esteri Di Maio: “Non chiederò le sue dimissioni”

Nel corso della sua intervista a La7, Giuseppe Conte ha puntato l’attenzione su uno degli aspetti più scottanti dell’abbandono di Di Maio ossia il fatto che non abbia voluto lasciare la sua carica da ministro degli Esteri.

Riguardo a ciò ha spiegato che non avrebbe chiesto le dimissioni: “Non le chiederò, interroghi la sua coscienza”.

Alla domanda di Lilli Gruber se Di Maio avesse voluto salvaguardare la sua poltrona, Conte ha spiegato: “Lo spiegherà quando cercherà il consenso elettorale, ieri non si è compreso”. Sulla creazione di un nuovo gruppo parlamentare il capo politico dei Cinque Stelle non crede che sia stata una cosa decisa nel giro di poche ore, ma che anzi, dietro c’è stata della pianificazione: “C’è stato un lavoro dietro, avevamo notizia di questi movimenti […] è stato chiaro che Di Maio perseguiva una sua agenda personale e non lavorava con il Movimento, siamo andati in difficoltà anche per questo”.

Giuseppe Conte ha poi ribadito che il Movimento 5 Stelle si oppone all’invasione della Russia in Ucraina: “Perché c’è chi ha strumentalizzato anche l’ultima risoluzione…”. La giornalista ad un certo punto lo ha incalzato: “Eh, è il suo ex amico Di Maio”.

Il capo politico del Movimento non ci sta e, alla fine, ha rincarato la dose: “Non si deve permettere di minare l’onore del Movimento 5 Stelle, lui per primo dovrebbe essere consapevole del lavoro e della fatica che serve fare per tenere la barra dritta […] Non voglio parlare del passato, ma se parliamo del Conte 1 e del Conte 2, bisogna anche ricordare dei gilet gialli”.

Otto e mezzo, Giuseppe Conte silura Di Maio: "Dimissioni da ministro? La sua coscienza..." Libero Quotidiano il 22 giugno 2022

"Le dimissioni di Luigi Di Maio da ministro degli Esteri? Non le chiederò, interroghi la sua coscienza". Giuseppe Conte sceglie Lilli Gruber e Otto e mezzo, su La7, per la sua prima uscita televisiva dopo il terremoto della scissione nel Movimento 5 Stelle, con Di Maio che ha formato due gruppi autonomi e alla Camera e al Senato con una sessantina di grillini. Il nome del nuovo progetto politico? Insieme per il futuro. 

Al rientro dalla pubblicità, Conte scarica una raffica di velenose riflessioni sul suo ormai ex compagno di partito. "Ha visto la conferenza stampa di Di Maio?", gli chiede la Gruber. "Ho letto le agenzie, non ho capito qual è il suo progetto politico. L'obiettivo è difendere l'euro-atlantismo? Tutti quanti ribadiamo la collocazione euro-atlantica. Seconda obiettivo: appoggiare il governo Draghi. Lo stiamo appoggiando in tantissimi...". 

"Di Maio ha voluto salvare solo la sua poltrona da ministro?", incalza la Gruber. "Lo spiegherà quando cercherà il consenso elettorale, ieri non si è compreso", taglia corto l'ex premier, visibilmente innervosito da quanto accadere in queste ore. "Di questa storia si sa pochissimo - lo stuzzica Antonio Padellaro del Fatto quotidiano -. Cos'è successo negli ultimi giorni?". 

"La creazione di un gruppo non è credibile sia frutto di poche ore - insinua Conte -. C'è stato un lavorio dietro, avevamo notizia di questi movimenti". Secondo il leader M5s tutto risale alla disputa sul Quirinale: "E' stato chiaro che Di Maio perseguiva una sua agenda personale e non lavorava con il Movimento, siamo andati in difficoltà anche per questo". "Qualcun'altro ha contribuito a questo lavorio?", chiede la Gruber. "A chi si riferisce? Sia più esplicita", risponde sornione Conte. Il nome è quello ovviamente di Mario Draghi, considerato il grande sponsor della scissione. "Draghi sarà contento? Lo deve chiedere a lui e a Di Maio. Il Movimento c'era, c'è e ci sarà fino a quando saremo in condizione di tutelare gli interessi dei cittadini. Si sta scatenando uno tsunami economico che colpirà anche il ceto medio". Per la crisi di governo, dunque, appuntamento in autunno.

Controcorrente, Veronica Gentili toglie la parola a Conte: "Questo non si può dire". Libero Quotidiano il 23 giugno 2022

Tutto l'imbarazzo di Giuseppe Conte. Ospite di Veronica Gentili a Controcorrente, su Rete 4, il leader del Movimento 5 Stelle alterna gelo, rabbia e qualche incertezza nel commentare la scissione portata avanti da Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri martedì ha annunciato la sua uscita dal Movimento, con la creazione di due gruppi autonomi in Parlamento, dal nome un po' banale: Insieme per il futuro. Banale, però, non è l'impatto dell'operazione: in aula, perché hanno seguito Di Maio oltre 60 onorevoli, tra deputati e senatori, e fuori, perché è interessante ora capire l'impatto elettorale del nuovo partito sul bacino di voti grillini. 

"Ha parlato con Beppe Grillo?", domanda la Gentili a Conte. "Assolutamente sì, è consapevole del momento che stiamo vivendo e dei problemi più generali che si sono innescati. Siamo anche a fine legislatura - prova a minimizzare l'avvocato - ci sono tante dinamiche complicate, non solo nella nostra politica obiettivamente, anche nelle altre forze politiche. In prossimità delle elezioni spesso si sono create delle formazioni nuove, c'è molto movimento e legittimamente ognuno guarda al suo futuro personale, professionale e politico. Sono cose che possono accadere". 

"Non è arrabbiato con Di Maio, insomma, lo aveva messo in conto", lo pungola ancora la padrona di casa. Conte arranca. "No ma guardi, con Grillo ci siamo scambiati varie considerazione e si siamo tutti e due, da questo punto di vista...". L'ex premier balbetta e la Gentili lo "soccorre" togliendogli la parola: "Tranquilli, perché sereni non si può dire".

Grillo si defila, rabbia tra i 5S: "Perché ci hai abbandonati?". Matteo Macor su La Repubblica il 23 Giugno 2022.

Il fondatore rinuncia al viaggio a Roma programmato. Conte minimizza: "Beppe è umanamente dispiaciuto, ma sta dalla parte del Movimento".

È nella pace apparente di Sant'Ilario, cinquecento chilometri dal terremoto romano di queste ore, che si respira più da vicino il senso di distanza tra le tante anime del M5S (quelle che rimangono, come quelle in fuga) e il suo stesso fondatore. Nelle prime ore del day after della scissione, in questo angolo silenzioso di Genova, la villa vista mare di Beppe Grillo rimane nascosta da cancellate e gelsomini, il figlio Ciro si allontana in moto, la domestica di casa prova a difendere la privacy del fondatore a modo suo, con schema a confusione: "Il signor Grillo non c'è, - assicura alla porta - è in vacanza in Sardegna, non andrà a Roma, rimarrà in Toscana"....

La solitudine di Grillo davanti all’abisso del fallimento. Sebastiano Messina su La Repubblica il 23 Giugno 2022.

Come se stesse colando a picco il Movimento di un altro, Beppe Grillo risulta non pervenuto. È sparito dai radar. Viene a Roma, no non viene, magari la settimana prossima, chissà. È introvabile ma non irraggiungibile, perché quando un cronista dell'Adnkronos lo chiama al telefono per domandargli della scissione dei Cinquestelle, lui si diverte a rispondere come farebbe con la telefonista di un call center: "Attenda un attimo.

Sebastiano Messina per repubblica.it il 23 giugno 2022.

Come se stesse colando a picco il Movimento di un altro, Beppe Grillo risulta non pervenuto. È sparito dai radar. Viene a Roma, no non viene, magari la settimana prossima, chissà. È introvabile ma non irraggiungibile, perché quando un cronista dell'Adnkronos lo chiama al telefono per domandargli della scissione dei Cinquestelle, lui si diverte a rispondere come farebbe con la telefonista di un call center: "Attenda un attimo. 

Paaaarviiin, siamo abbonati? Mi dispiace, non siamo abbonati. Non posso risponderle". Clic. Ed è nascondendosi dietro quel clic che il fondatore, padrone e garante del Movimento che in nove anni conquistò il Parlamento - ormai tocca usare il passato - rivela la sua paura di sprofondare nell'abisso del fallimento, prigioniero del gorgo che sta risucchiando la sua creatura. 

Grillo ombra di se stesso

Perché il Grillo che esce dalla latitanza solo per emettere cervellotici comunicati sul suo blog - firmandosi ancora "L'Elevato" come ai tempi in cui scendeva all'hotel Forum per ricevere il bacio della pantofola degli ambiziosissimi apostoli dell'umiltà grillina - è solo l'ombra del Grillo che fu signore e padrone dei cinquestelle, oltre che proprietario del nome, del simbolo e anche del Movimento (in comproprietà con il nipote e il commercialista, a essere precisi). 

Non è più il Grillo da combattimento del Vaffa-Day, né il Grillo d'assalto che attraversava a nuoto lo Stretto per la conquista (fallita) della terra del Gattopardo, né il Grillo irriducibile che entrava a Montecitorio solo per dire no a Renzi, né il Grillo pacificatore che calava a Roma per mettere d'accordo il governista Di Maio e il guerrigliero Di Battista, il pensoso Fico e la sfrenata Taverna. Non è neppure il malmostoso guru che non si rassegnava a cedere all'avvocato Conte il timone di un bastimento già pieno di falle, e quando quello osava definirlo "padre-padrone" gli rispondeva che lui non aveva "né visione politica né capacità manageriale", accettando infine la cessione dei poteri nella terrazza del "Bolognese" di Marina di Bibbona. 

La disintegrazione dei cinquestelle

Eppure quello che si sta inesorabilmente disintegrando, a otto mesi dalle prossime elezioni, è figlio suo. Un figlio al quale lui ha sempre imposto le scelte decisive. Come quando benedisse l'alleanza con l'ex nemico Salvini. O quando diede l'imprimatur al governo con il Pd, già simbolo di tutti i vizi. O quando ordinò ai suoi di dare il via libera a Mario Draghi, che per "l'Elevato" diventò addirittura "il Supremo". Certo, oggi che il suo ex pupillo lo ha tradito sembra lontano il tempo in cui il settantenne Grillo salì sul palco di Rimini per consegnare lo scettro di "capo politico" al giovane Di Maio che proprio quel giorno - il 23 settembre 2017 - compiva 31 anni. 

"Torno a fare il padre di famiglia e il pensionato" disse. E due mesi dopo, sul palco di Palermo, fu ancora più chiaro. Chiamò sul palco Di Maio, Casaleggio e Di Battista e dichiarò, mettendosi la mano sul cuore: "Queste persone proseguiranno il mio lavoro, sono migliori di me". Proseguire hanno proseguito, peccato che l'abbiano fatto da un'altra parte, tutti e tre. 

Le lodi di Draghi

Allora lui si ritirò nel suo blog come un peccatore in un convento. E mentre Di Maio riscriveva lo statuto con il figlio di Casaleggio, Grillo cercava le nuove frontiere dell'ecologia e tornava in teatro per staccare biglietti. Poi venne la conquista del potere, e tutti cominciarono a chiedersi che fine avesse fatto il fondatore. Nessun problema, garantiva lui. Spiegava di essere diventato "una sorta di padre nobile, un mecenate", e che forse non c'era più la rabbia dell'esordio "ma il vaffa rimarrà, ce l'avremo nel taschino: un vaffino nel taschino". Però confessava la sua nuova solitudine: "Mi aggiro nelle città come una puttana si aggira in una città senza marciapiedi. Non mi sopporta nessuno, ho fatto ridere milioni di persone, ho fatto il comico, mi amano milioni di persone ma sono da solo". 

Ma qualcosa deve essere scattato, in quella solitudine lontana dal potere. Proprio lui che si definiva "un comico governativo" cominciò il fuoco amico. Bacchettava Di Maio. Sfotteva Salvini. Ironizzava su Conte. Più il tempo passava e più era evidente l'insofferenza di Grillo per la versione governativa di un movimento che doveva fare la rivoluzione. Ma Di Maio sorrideva e minimizzava. "È il nostro più grande tifoso", assicurava, abbottonandosi la giacca blu.

Non era solo un tifoso. Quando Salvini affondò il Conte-uno per andare al voto anticipato, Beppe uscì dal suo blog per convincere anche i più riluttanti che bisognava allearsi con lo stesso Pd che fino a poche settimane prima era "il partito di Bibbiano". E quando cadde anche il Conte-due, fu lui a spegnere l'ira dei contiani tessendo le lodi di Draghi: "Pensavo che fosse il banchiere di Dio e invece è un grillino. Ha anche senso dell'umorismo, non pensavo". Fidatevi, disse. E non era un consiglio: era un comando.

Un anno e mezzo dopo, è arrivata la tempesta: un terzo dell'equipaggio abbandona la nave mentre l'azzimato capitano Conte - già marchiato dal fondatore come "l'uomo dei penultimatum" - prosegue imperterrito nella sua rotta a zigzag. Si capisce che tutti si domandino: ma Grillo cosa dice, cosa pensa, cosa fa? Nulla. Non fa nulla. Si tiene lontano da Roma. Non ha chiamato Di Maio, dopo averlo definito "un sedicente Grande Uomo". Non ha dato nessun appoggio pubblico a Conte. E l'altra domenica, a Genova, non è neanche andato a votare per i cinquestelle. Come se si trattasse, appunto, del Movimento di qualcun altro.

DAGOREPORT il 24 giugno 2022.

Questa volta, per la prima volta, Beppe Grillo è ben consapevole di non aver perso una battaglia. Ciò che si ritrova davanti agli occhi sono le macerie di un fallimento. Il suo Movimento 5 Stelle che precipita da 227 deputati eletti nel 2018 a 105 sopravvissuti oggi. Una disfatta, spiffera chi l’ha visto nelle ultime ore, che l’ha fatto uscire di testa: ‘’Il Movimento non esiste più…basta, è finita, me ne vado!’’. E giù vaffa erga omnes.

Era giusto un anno fa quando, rivolgendosi agli elettori M5S, l’Elevato sodomizzò senza vaselina l’avvocaticchio dello Studio Alpa trasformato da Bonafede e Di Maio in un premier: “"Mi sento come se fossi circondato da tossicodipendenti che mi chiedono di poter avere la pasticca che farà credere a tutti che i problemi sono spariti e che dia l’illusione (almeno per qualche mese, forse non di più) che si è più potenti di quello che in realtà si è davvero, pensando che Conte sia la persona giusta per questo perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione. Io questo l’ho capito, e spero che possiate capirlo anche voi".

Ma il “burattino” si è rivelato tutt’altro che un “fuoco di Puglia” e l’ha infinocchiato di quotidiane supercazzole prematurate con doppio scappellamento a destra. Alla biscia con pochette, l’ex comico di Pippo Baudo ha dovuto aggiungere la sorpresa delle sorprese: il calcio nel culo arrivato dal suo pupillo Luigino. 

Sì, proprio colui che perculava come “il deputatino” si è portato via un terzo dei parlamentari (altro che “saranno 20!”, come affermavano facendo spallucce la triade Conte-Travaglio-Casalino). 

Una diaspora consumata nottetempo da perfetto partenopeo e parte-doroteo per evitare di soccombere alla discesa romana di Grillo che, col suo carisma, lo avrebbe biodegradato in una insignificante molecola. E Di Maio si frega le manine: “Finora abbiamo avuto un timing perfetto”. 

Agli strepiti "il Movimento non esiste più…basta, è finita, me ne vado!’’, ha fatto da contraccolpo il raziocinio della moglie Pavrim: “Beppe, cerca di ragionare: dove vai? il simbolo del movimento è tuo! E questi continuano a farsi chiamare grillini!”.

A questo punto, al fu Elevato non rimane che gingillarsi sul vincolo dei 2 mandati per i parlamentari eletti nel Movimento 5 Stelle: ‘’È l'ultima regola identitaria che abbiamo - è il suo messaggio - e non possiamo cambiarla”. Con il probabile risultato di rendere più roseo il futuro di “Insieme per il futuro”.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 24 giugno 2022.

Luigi Di Maio lascia in «mutande» Giuseppe Conte. La scissione grillina svuota le casse del Movimento e costringe il capo politico al taglio di spese inutili e consulenze. La prima consulenza in odore di sforbiciata, che è anche la più onerosa per il portafoglio dell'avvocato del popolo, è quella tra il Movimento e la società BeppeGrillo Srl.

Ecco l'ultima vendetta che il ministro degli Esteri consuma contro il suo (ormai ex) padrino politico. Questo spiegherebbe anche la decisione di Grillo, irritato per le ripercussioni sul proprio conto corrente generate dallo strappo tra Di Maio e Conte, di annullare la visita a Roma in programma oggi. E di mandare tutti a quel paese.

C'è da fare un passo indietro. Nel mese di aprile, il Movimento e la BeppeGrillo Srl, la società che gestisce il Blog del fondatore, stipulano ben due contratti di partnership. «I termini dell'accordo - come riporta il Corriere della Sera - sono coperti da clausole di riservatezza. Ma i ben informati parlano di 200mila e 100mila euro annui per i due contratti.

Entrambi i contratti sono relativi alla comunicazione e al ruolo del garante. In altre parole eventuali spese, come ad esempio un eventuale contratto a Nina Monti, collaboratrice storica di Grillo, graveranno direttamente sulle spalle del fondatore dei Cinque stelle».

Il garante avrebbe incassato la somma di 300mila euro dal Movimento-partito e non dai gruppi parlamentari. L'accordo viene salutato dai vertici con grande euforia. «Il Movimento 5 stelle ha raggiunto un accordo con Beppe Grillo che comprende attività di supporto nella comunicazione con l'ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della Scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche», si leggeva nella nota diffusa dai vertici 5s.

Tra gli obiettivi c'è la promozione delle attività del Movimento all'estero attraverso la partecipazione a convegni, giornate di studio, incontri con personalità scientifiche e istituzionali. L'intesa, a suon di quattrini, segna anche la tregua politica tra Conte e Grillo in una guerra iniziata con lo scontro sullo statuto.

«Quei due contratti, molto onerosi - racconta al Giornale un parlamentare dimaiano - blindano di fatto la leadership di Conte che da quel momento in poi gode di totale protezione politica da parte del garante». 

Una saldatura emersa anche nella faida tra Di Maio e Conte: Grillo ha preso posizione in favore dell'ex premier spingendo Di Maio verso l'addio. Il comico non aveva fatto però i conti con le ricadute economiche che la scissione dimaiana avrebbe provocato sulle casse del Movimento. E anche sui suoi conti correnti.

L'esodo dei 61 parlamentari dal Movimento, passati nel gruppo di Insieme per il Futuro, avrà un impatto economico di circa 2,3 milioni di euro in meno sui fondi dei gruppi di Camera e Senato.

«Per ogni eletto la Camera versa 52.000 euro l'anno» spiega l'Adnkronos. Ma poiché mancano circa 9 mesi alla fine della legislatura, i 52.000 euro scendono a circa 39mila, che moltiplicati per i 61 eletti passati con Di Maio si traducono in oltre 2,3 milioni di euro.

Un ammanco che arriva in un momento di difficoltà economica per il Movimento 5 stelle: le casse del partito sarebbero già vuote tanto che alcuni creditori si sarebbero rivolti agli avvocati per avere ciò che gli spetta. 

Le consulenze di Grillo dovevano essere pagate con i soldi del partito. Quali? Il Movimento non ha un proprio tesoretto economico. Si finanzia con le restituzioni degli eletti: mille euro per ogni parlamentare, il ché moltiplicato per dodici mesi e per 61 parlamentari fa altri 732mila euro.

Ora con la scissione si registra un ammanco di più di mezzo milione di euro per le casse del partito che sarebbero già a secco. Perché vuote? Il Movimento, per via del contenzioso legale sullo statuto, non ha avuto accesso al 2 per mille. E dunque l'unica soluzione, dopo la scissione dimaiana, è tagliare tutto per sopravvivere. 

Si comincia da Grillo. Il primo sacrificio spetta al fondatore. Forza Beppe, rinuncia alle consulenze.

 Matteo Macor per “la Repubblica” il 24 giugno 2022.

Più forte infuria la bufera, più forte è il richiamo dei porti sicuri, ancora meglio se un po' nascosti. Nelle ore in cui tutti cercavano Beppe Grillo, a Roma come a Sant' Ilario, tra post enigmatici e viaggi saltati all'ultimo minuto, il garante del Movimento si trovava dalla parte opposta della città rispetto al suo quartiere, a Pegli, estremo ponente genovese, in poltrona nello studio del suo dentista. 

È nell'abbraccio di Flavio Gaggero, 85 anni, odontoiatra di fiducia ma soprattutto amico di sempre, che in questi giorni il (fu?) Elevato si è rifugiato a discutere del momento della sua creatura in piena crisi. Nessuna otturazione in programma, però. Piuttosto una «ritirata di riflessione», viene definita nel partito, da quei pochissimi che hanno ancora un contatto più o meno diretto con il fondatore, che comunque andrà a finire non gli ha impedito di mandare messaggi «precisi» - si fa capire - a quello che rimane del suo partito.

Amici stretti sin dai tempi in cui la politica faceva solo da sfondo ad altre carriere, il Grillo di passaggio in visita a Gaggero, nello studio dentistico che a Genova è un'istituzione (sono di casa vecchi compagni di scuola come Renzo Piano o Gino Paoli, ma si allunga l'orario e si cura gratis per comunità, centri di accoglienza e richiedenti asilo) viene descritto come «profondamente deluso, quasi distaccato, ancora più che arrabbiato ». 

Non tanto dall'addio di Luigi Di Maio, né dalla scivolata più dolorosa (tra le tante) della pur breve gestione di Giuseppe Conte. Quanto dall'osservare più o meno a distanza un Movimento finito «disperso » per strade troppo lontane da quelle delle origini, e sentire troppa ingratitudine nei suoi confronti. 

«Io c'ero quando è nato il Movimento, a muovere Beppe e chi gli stava vicino era puro spirito francescano, era la convinzione ci fosse bisogno di persone per bene in politica - è l'unica concessione che fa alla richiesta di non parlare della crisi di queste ore Gaggero, che due anni fa si candidò alle Regionali liguri senza troppa fortuna - Poi però è venuto tutto il resto, le elezioni, il posto in Parlamento, gli stipendi, e al posto dello spirito francescano, guardate qua. La politica non è farsi eleggere o prendere parte alle commissioni, la politica è ben altro».

Non una questione di responsabilità personali, insomma. Nessuna colpa particolare attribuita al pur troppo ambizioso Di Maio, né a Conte e alla sua inesperienza, come viene definita. Il problema è cronico, quasi endemico. E riguarda ancora quell'identità irrisolta su cui il mondo grillino si interroga da sempre.

L'eterno cruccio di un Movimento diventato partito, che non a caso potrebbe, vorrebbe "riconquistare" il suo fondatore sul campo della prossima discussione interna all'orizzonte, quella sulla deroga ai due mandati. Viste le implicazioni del caso nelle future primarie siciliane del campo progressista, dove il nome forte del M5S avrebbe dovuto essere Giancarlo Cancelleri, attuale sottosegretario del governo Draghi e già due mandati da consigliere regionale alle spalle, l'idea dei vertici grillini sarebbe quella di ragionare sull'ipotesi di prendere più tempo su un eventuale voto, e lasciare che un tema così sensibile venga affrontato più avanti, a tempesta superata. La sua contrarietà a un rinvio, però, non solo dallo studio del suo dentista, Beppe Grillo l'ha fatta arrivare chiaro e tondo. «È l'ultima regola identitaria che abbiamo - è il suo messaggio - e non possiamo cambiarla». 

La scissione del Movimento costa cara a Beppe Grillo: ecco i contratti di consulenza che saltano. Il Tempo il 24 giugno 2022

La scissione del Movimento Cinque Stelle costa cara a Beppe Grillo. Non bastassero gli effetti in Parlamento, dove il partito non ha più il primato di deputati alla Camera, ora spunta anche il problema dei soldi per mandare avanti il Movimento.

L’esodo dei 61 parlamentari, passati nel gruppo di "Insieme per il Futuro" di Luigi Di Maio, avrà - si legge sul Giornale - un impatto economico di circa 2,3 milioni di euro in meno sui fondi dei gruppi di Camera e Senato. La prima consulenza in odore di essere drasticamente tagliata, che è anche la più onerosa per il portafoglio di Giuseppe Conte, è quella tra il Movimento e la società BeppeGrillo Srl. L'accordo economico è segreto ma si parla di due contratti, uno di 200 mila euro e l'altro di 100 mila all'anno.

"Quei due contratti, molto onerosi - spiega al Giornale un parlamentare dimaiano - blindano di fatto la leadership di Conte che da quel momento in poi gode di totale protezione politica da parte del garante".

Grillo ha preso posizione in favore dell’ex premier spingendo Di Maio verso l’addio. Le consulenze di Beppe dovevano essere pagate con i soldi del partito. Quali? Il Movimento si finanzia con le restituzioni degli eletti: mille euro per ogni parlamentare, il ché moltiplicato per dodici mesi e per 61 parlamentari fa altri 732mila euro. Ora con la scissione si registra un ammanco di più di mezzo milione di euro per le casse del partito che si ritroverebbe già a secco.

Pietro De Leo per “Libero Quotidiano” il 23 giugno 2022.

Ci sono certi giorni che segnano il senso di un'intera fase. È il caso di quelli a cavallo tra la scorsa settimana e l'inizio di quella in corso. La deputata Simona Vietina se ne va da Coraggio Italia, facendo mancare la quota necessaria di componenti, 20, per la sopravvivenza in maniera autonoma della compagine.

E poi l'altroieri, quando Luigi Di Maio rompe gli indugi e se ne va dal Movimento 5 Stelle, fondando il gruppo Insieme per il futuro. Vicende che compongono la radiografia di una legislatura tormentata, al pari se non più di quella precedente, solcata da accelerazioni dei processi politici, il Covid, un governo di unità nazionale, oggi una guerra che fa irrompere nelle dialettiche interne il dossier internazionale.

E così nell'era di partiti quasi tutti di debole identità e di fragili strutture, gli scossoni della storia infieriscono su pareti già assai molli. Che spesso vengono giù. Aggiungiamo l'ultimo tassello, ossia che nella prossima legislatura entrerà in vigore il taglio dei parlamentari, da mille si passerà a 600, e la nube del panico avvolge i tanti che temono di non essere rieletti. Dunque, questa serie di concause fa sì che sugli scranni di Montecitorio e Palazzo Madama si strepiti, nascano mal di pancia, le fratture si esasperino.

C'è chi si mette in Aventino e chi fa la valigia. O magari all'ultimo ci ripensa. Come nel caso del neo gruppo dimaiano, dove il Senatore Emiliano Fenu già sulla porta è rimasto in casa pentastellata dopo un ripensamento notturno. 

Oppure, quando nacque Coraggio Italia, della deputata Fucsia Fitzgerald Nissoli, che anche lei non compì l'ultimo passo verso l'uscita da Forza Italia. Già, perché andar via è sempre un tormento e un patimento, specie quando si è condiviso un percorso di anni.

In ogni caso, sono circa 400 i cambi di gruppo di appartenenza in questa legislatura (non sempre per spontanea volontà, basti pensare agli ex Movimento 5 Stelle espulsi). Si tratta di 196 deputati e 73 senatori. 

Il totale fa 269, ma si arriva ad un totale ben più alto considerando che molti l'hanno cambiato due o più volte. È il caso, per esempio, del senatore Giovanni Marilotti, che ha all'attivo ben 5 trasferimenti, in una traversata del deserto che lo porta dal M5S al Pd. Di mezzo c'è un passaggio al Misto, alle Autonomie, al Maie, poi di nuovo Misto e, infine, appunto, al Pd.

Segnatevi questo nome: Maie. È la sigla del movimento degli italiani all'estero. Per breve tempo divenne tetto di quell'ipotetica area dei "responsabili" chiamati a sostenere l'altrettanto ipotetico governo Conte 3, ed architrave di un partito personale dell'ex premier, che pareva potesse nascere. 

Al Maie, dunque, transitarono nomi come Mariarosaria Rossi, già strettissima collaboratrice di Silvio Berlusconi, e Sandra Lonardo, moglie di Clemente Mastella.

Entrambe, infatti, andarono a supportare l'idea del progetto contiano. Aderì, tra gli altri, anche il comandante Gregorio De Falco, già espulso dal Movimento 5 Stelle. Poi non se ne fece nulla, né del terzo governo né del partito, e il Maie si sciolse a marzo dello scorso anno. 

Nel compulsare la contabilità delle uscite si riassume il travaglio vissuto da alcuni partiti in questi cinque anni di continui cambiamenti. Lo sfaldamento del Movimento 5 Stelle, che prima dell'emorragia Di Maio aveva conosciuto addii su altri rivoli.

Da quello di Gianluigi Paragone, che ha creato Italexit, a quello di Lorenzo Fioramonti, ministro dell'Istruzione nel Conte2, poi andato a cofondare la componente ecologista "Facciamo Eco" nel Misto alla Camera. 

Passando, poi, per qualche sodale di Alessandro Di Battista, contrario all'ingresso di M5S nel governo Draghi. Poi c'è il Pd, che ha subito l'addio della porzione renziana con la nascita di Italia Viva. Infine, Forza Italia. Prima se ne vanno i parlamentari che seguono la scissione di Toti.

Poi si uniscono ad altri eletti e fanno sintesi con il progetto del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro nel gruppo Coraggio Italia, il cui scioglimento è stato decretato ieri. Un paio di parlamentari, peraltro, se n'erano già andati con Azione, di Carlo Calenda, che perla sua pattuglia tra Camera e Senato ha pescato qualcosa anche in Pd e Fi. Perché in questo vorticare di nomi, simboli e numeri c'è sempre la speranza del grande centro che salvi tutti. 

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 23 giugno 2022.

Qualcosa rimarrà. Agonizza il grillismo politico, ma quello culturale è un segno dei tempi, e non riguarda solo i Cinque Stelle. 

Il Movimento è nato il 4 ottobre 2009 e da allora a oggi ha registrato frotte di parlamentari che non hanno pagato la quota, la cassa in rosso, altri che hanno sentito scricchiolare la nave e sono già fuggiti, ora poi si scindono, i più erano prostituiti al governo con chiunque ci stesse (dalla Lega al Pd) e tutto pur di stare al potere: ma presto spariranno assieme a quell’aria severa e ottusa, futile e inconsistente, goffa e imbarazzante, svaporeranno quelle macchinette automatiche che mescolavano a random frasi fatte. 

Rimarrà l’asticella abbassata per tutti, la convalida politica e culturale degli idoli di un minuto, dei loro comici e satiri, dei loro servi di procura, di coloro che seguiteranno a legittimare a posteriori ogni analfabetismo, trasformeranno ogni giudizio in legittimità di giudizio, ogni apparenza in certezza, ogni capra qualunquista in elettore innocente. Rimarranno i social, la democrazia elettronica degli anonimi, dei frustrati, di chi non perdona ciò che non possiede a chi lo possiede.

Rimarranno una destra e una sinistra che per anni sono rimasti a guardare i cantieri grillini come fanno i vecchi, guardare i vacui tentativi di costruire sulle macerie, senza fare fondamenta, senza bonificare, senza abbattere nulla né costruirlo. Per anni abbiamo avuto il niente, e niente, tuttavia, sembra pronto a sostituirlo.

Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 23 giugno 2022.  

Polvere di (5) Stelle: sic transit gloria mundi. Tanto più se la "gloria" e il sogno di palingenesi palesavano già dall'inizio i segni della propria insostenibilità. E mettevano in bella mostra un codice genetico pieno zeppo di paradossi e contraddizioni che, prima o poi, finiscono necessariamente per presentare il conto.

Salatissimo, come quello della capitolazione di fatto di Giuseppe Conte nella "madre di tutte le battaglie" sull'ultima risoluzione di maggioranza. Come, peraltro, era giusto che fosse, vista la posta in gioco (la credibilità dell'Italia nel suo sistema di alleanze internazionali). Insomma - ancora una volta -, tanto rumore pentastellato per nulla sul piano della politica generale. 

Anche se non su quello della propria "politica interna" ed esistenziale, perché stavolta il Magma 5 Stelle ha ribollito così tanto da scindersi (dopo svariate espulsioni ed emorragie preparatorie), portando Luigi Di Maio e i suoi a fare armi e bagagli e a far decadere l'ex Movimento dal trono di partito più rappresentato alle Camere.

La «Supernova» delle origini è esplosa, e si è convertita in uno spettacolo pirotecnico di stelle cadute. Comunque la si pensi, da un paio di giorni a questa parte, le Guerre (penta)stellari hanno - finalmente - prodotto un esito chiaro. Una rottura all'insegna di due (grosso modo) distinte linee politiche, anche se non così "lineari".

E, tra di esse, è quella contiana che continua a presentare (come da consuetudine dell'Avvocato del popolo, sempre colto ma anche "azzeccagarbugliesco") dei caratteri di ambiguità - a cominciare dall'atteggiamento nei confronti del premier Mario Draghi, destinatario da subito di (malriposte) diffidenze e, col passare del tempo, di un'evidente escalation di tentativi di sgambetto.

E, dunque, nel comprensibile - e rispettabilissimo - travaglio privato di alcuni degli attori coinvolti, si è trattato, a tutti gli effetti, di un evento salutare per il nostro affaticato sistema partitico. Oltre che di un passaggio obbligato nel ciclo vitale iper-accelerato (rispetto a quello della forma-partito della modernità) del M5S, «informe-partito» intermittente e postmoderno, che si è gonfiato di voti promettendo l'«insurrezione contro il sistema» e la rottamazione della casta, e ha finito per governare con tutti, nessuno escluso (una specialità politico-olimpionica che trova il proprio imbattuto recordman proprio nell'odierno presidente dei pentastellati).

Del resto, se l'estremismo parolaio è la malattia infantile del grillismo, il trasformismo e il governismo ne rappresentano quelle senili - e, sicuramente, sono i secondi, più recenti malanni quelli che hanno contagiato trasversalmente gli ex descamisados dai quali era stata annunciata al popolo la "lieta novella" dell'apertura del Parlamento «come una scatoletta di tonno». 

Così, mentre gli "ideali di gioventù" tramontavano di fronte alle dure repliche della realtà, l'assenza di un dibattito codificato e "trasparente" - per quanto possibile - fra le correnti ha generato una girandola di personalismi sempre più aggressivi, fino al duello finale in stile cavalleria rusticana tra Di Maio e Conte (supportato da un redivivo Roberto Fico), con i fedelissimi di quest' ultimo, perfino più realisti del re - come assai di frequente accade nelle umane vicende - intenti a ricoprire di contumelie l'ex capo politico.

Un deterioramento e uno scadimento della controversia politica, trascinata sul terreno personale, di cui, in fin dei conti, non ci si deve particolarmente stupire, proprio perché il dna grillino contiene - specie nella sua base, ma non soltanto, per l'appunto - i filamenti originari del «Vaffa» rabbioso (e dell'hate politics). 

Naufragata l'impresa di fondare una «Balena gialla» - che, al momento dei fasti elettorali, sembrava a portata di mano soprattutto dell'attuale ministro degli Esteri -, il M5S diventato partito notabilare si è attorcigliato nelle spire dei suoi numerosi nodi irrisolti. A partire dall'istituzionalizzazione a singhiozzo (oltre che costellata di opportunismi) e da una partitizzazione e strutturazione organizzativa decisamente incompiute.

 E se dismetteva i panni antisistemici, continuava, però, invariabilmente a pascersi della comoda ambivalenza tra partito di governo e movimento di lotta. Dove alcuni figli delle (5) stelle appaiono in odore di essere pure dei «figli di Putin» o, quanto meno, si rivelano alquanto «Putin-comprensivi», in "coerenza" con la fase arrembante della loro storia (antipartitocratica, ma soprattutto antiliberale, antiamericana, anti-Ue). E, infatti, è sempre a quelle radici antioccidentali che rimanda il riflesso pavloviano grillino quando va a caccia di consensi. Ed è su questo richiamo della foresta che il titolare della Farnesina ha voluto (opportunamente) tirare una riga definitiva.

 La formazione politica personale - il Movimento ha rappresentato a lungo il «partito bipersonale» di Casaleggio e Grillo che ostentava la retorica dell'«uno vale uno» - Conte non l'ha costruita, e ora il treno è perduto. Mentre l'antagonista Di Maio, che sapeva di non avere più agibilità - tra clima interno antipatizzante, coordinatori regionali esclusivamente di fede contiana e tabù del doppio mandato -, ha costituito i suoi gruppi parlamentari autonomi.

Quel che succederà, a naso, non lo sa neppure l'«Elevato» Oracolo genovese, il quale continua a sfornare post a metà tra la supposta visionarietà e un certo cerchiobottismo rispetto alle lotte intestine. La sola cosa certa è che la pattuglia dimaiana offre un elemento di stabilizzazione per il lavoro di Draghi, mentre i contiani, se non riusciranno a esercitare un potere di interdizione rivendibile in chiave elettoralistica, potrebbero passare dall'essere una spina nel fianco e un fattore di turbolenza alla fuoriuscita dall'esecutivo. Con la metamorfosi, in tutto e per tutto, di quel che resta del M5S in una bad company.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 23 giugno 2022.

Il gran generatore automatico di nomi e simboli che incessantemente rifornisce la decomposizione del sistema post-partitico all'italiana ha fatto dunque germogliare "Insieme per il futuro". Ma per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti guidati da Di Maio? 

Di sicuro l'ultimissimo scisma a cinque stelle non brilla per originalità evocativa. Così, poche ore dopo l'annuncio Gabriele Maestri, costituzionalista e studioso di diritto dei partiti, ma soprattutto pontefice massimo e super erudito dell'odierna micropolitica, poteva già comunicare sul suo blog, "I simboli della discordia", che quella denominazione era già stata usata la bellezza di 50 volte negli ultimi quattro anni, per lo più in elezioni amministrative.

A riprova, forniva la più scontata e mediocre iconografia elettorale a base di torri, montagnette, strette di mani e girotondi stilizzati. Per concludere con sconsolato distacco che, sempre secondo i precedenti, di solito le esperienze scissioniste battezzate all'insegna dell'unità sono destinate a loro volta a frammentarsi, per poi dissolversi senza lasciare traccia. 

Ma è proprio quando girovaghi e fuoriusciti, speranzosi o furbi che siano, cedono alla retorica del futuro, che il destino si accanisce contro di loro. E qui il pensiero corre a "Italia futura", l'ectoplasmico raggruppamento di Luca di Montezemolo che favorì il sorgere del partitello di Monti, Scelta civica, prima logorato dalle liti intestine e infine trascinato nel dileggio, pure di innominabile risonanza, per cui irresistibilmente tuttora lo si ricorda come "Sciolta civica".

Sempre rispetto al futuro, ancora di più fa riflettere il caso di Gianfranco Fini che, sulla scorta della Fondazione Fare Futuro, volle intitolare "Futuro e libertà" ciò che era riuscito a tirarsi appresso dopo la rottura con Berlusconi e il Pdl. 

In verità Fli durò poco e senza gloria, molti chiesero perdono e rientrarono nei ranghi del centrodestra, così come la fine di Fini - una scomparsa definitiva, senza riscatto né ricominciamento - divenne da allora, più che un monito, un esito esemplare, paradigmatico, proverbiale. 

Anni e anni di osservazione dicono che quasi mai le scissioni - generose od opportunistiche fa poca differenza - riescono a conseguire i risultati per cui vengono pensate e messe in atto, rivelandosi piuttosto come la sconfitta certo della spregiudicatezza, ma anche dell'ottimismo e comunque del pensiero calcolante.

Per rimanere al passato prossimo, se ne può chiedere mesta conferma ad Angelino Alfano, che l'altro giorno è stato nominato Cavaliere di Gran Croce, ma la cui esperienza alla testa di un Nuovo Centrodestra liberatosi del berlusconismo ha lasciato cenere, macerie e amarezze. 

Allo stesso modo, sia pure comprendendo le motivazioni che hanno portato Bersani, Speranza (e D'Alema) a mollare il Pd renziano, non pare così lontana dal vero l'impressione che sia andato decisamente a ramengo anche il progetto di Articolo 1 - di cui peraltro è complesso stabilire quanto abbia a che fare con la sigla Leu. Anche in questo caso all'orizzonte s' intravede un ritorno nel Pd, o se si preferisce l'anticipo di un andirivieni. 

Quanto a Renzi e a Calenda, ennesimi scismatici, boh: vai a sapere cosa hanno in testa, magari fuori dalla politica. Tutto oggi balla, per non dire che sta per crollare, niente è più sicuro. Al centro, dove abbondano i punti esclamativi ("Cambiamo!" di Toti, "Fare!" di Tosi, "Coraggio" di Brugnaro), il formicolio è da emicrania. I cinque stelle, prima di Di Maio, hanno visto "Alternativa" e "Italexit". Difficile appassionarsi dinanzi a "Insieme per il futuro". Di norma, per operare, il Grande Nulla non chiede il permesso.

Mistero buffo. Prendere sul serio il dibattito grillino è la peggiore forma di antipolitica. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 24 Giugno 2022.

Continuare a fare finta di niente, o peggio, a cercare fumose giustificazioni per scelte che non trovano paragoni nell’occidente democratico, potrà anche essere tatticamente astuto, ma è il modo più sicuro di spianare la strada ai Conte, Di Maio e Di Battista di domani

Da qualche giorno in tv e sulla stampa si susseguono analisi, commenti e retroscena sulle vicende interne all’ex primo partito della maggioranza, com’è logico che sia dinanzi a un ministro degli Esteri che guida una scissione perché «uno non vale l’altro», perché «le competenze di ciascuno devono contare» e soprattutto per non «disallineare» l’Italia dalla Nato e dalla Ue.

Il problema è che quel ministro si chiama Luigi Di Maio e quel partito è il Movimento 5 stelle. Di conseguenza, con tutta la buona volontà, è difficile prenderlo sul serio mentre accusa Giuseppe Conte di tradire, sulla politica estera, i valori originari di un movimento che nel 2015 proponeva il referendum per uscire dall’euro, nel 2016 partecipava al congresso di Russia Unita (il partito di Vladimir Putin) e nel 2019 firmava il memorandum sulla via della seta con la Cina.

Come se non bastasse, a seguire Di Maio nella scissione motivata dalla necessità di non «disallineare» l’Italia dalla Nato e dall’Ue è Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri dal 2018, che nel 2016 definiva l’Ucraina uno «stato fantoccio della Nato» e volava personalmente a rappresentare il M5s proprio al congresso di Russia Unita. Mentre ieri, a denunciare sul Corriere della sera il fatto che nel partito «in questi due anni i competenti sono stati messi da parte», era Laura Castelli (essendo Castelli viceministra all’Economia, si sarebbe persino tentati di darle ragione).

Nulla però è paragonabile al sentire Di Maio dichiarare che nel nuovo soggetto «non ci sarà spazio per odio, sovranismi e populismi». Per non parlare di quando, proprio lui, denuncia gli attacchi personali e la politica fondata sull’odio (qui mi rifiuto persino di fare la fatica di andare a ripescare i virgolettati del passato, da Bibbiano in su e in giù, perché c’è un limite a tutto). Per non parlare della diatriba con Alessandro Di Battista, che accusa l’ex compagno di partito di «ignobile tradimento».

Fermiamoci un momento, facciamo un bel respiro e cerchiamo di restare lucidi. Non è questione di coerenza. Non si tratta di contestare questa o quella contraddizione, questo o quel voltafaccia, questa o quella giravolta, anche perché, se davvero lo si volesse fare, non basterebbe una vita anche solo per finirne l’elenco.

La domanda è piuttosto se la peggiore forma di antipolitica non sia invece proprio la pretesa di prenderli sul serio, lo sforzo grottesco di analizzare affinità e divergenze ideologiche tra Di Maio e Conte, tra Di Stefano e Di Battista, tra le ricette economiche di Laura Castelli e le idee geopolitiche di quello che due giorni fa proponeva di mandare pigiami agli ucraini, invece di armi (per non disallinearci dalla Nato, s’intende). Non è una questione di parole, di singole scelte o di singole dichiarazioni, ma del senso che attribuiamo – se ancora un senso vogliamo e possiamo darlo – alla politica e al dibattito pubblico in generale.

Da questo punto di vista la responsabilità storica del Partito democratico, da Nicola Zingaretti a Enrico Letta, senza dimenticare ovviamente il rilevante contributo di Goffredo Bettini, è gigantesca e incancellabile. Avere accreditato come punto di riferimento dei progressisti il capo del governo gialloverde, corresponsabile di tutti i più violenti e illiberali provvedimenti salviniani, non ha contribuito solo al discredito della sinistra, quanto allo svuotamento della politica nel suo complesso di qualsiasi parvenza di senso.

Stiamo parlando, a proposito di «allineamento» alla Nato e all’Unione europea, di chi meno di due anni fa non ha esitato a stendere il tappeto rosso dinanzi alla parata dell’esercito putiniano lungo la penisola, e non molto tempo prima a mettere i vertici dei servizi segreti a disposizione delle manovre paragolpiste dell’amministrazione Trump.

Continuare a fare finta di niente, o peggio, a cercare fumose giustificazioni per scelte che non trovano paragoni nell’occidente democratico, potrà anche essere tatticamente astuto, potrà persino ottenere il risultato di assorbire, consumare ed espellere i malconci populisti di oggi, ma è il modo più sicuro di spianare la strada ai Conte, Di Maio e Di Battista di domani.

Thread di Jacopo Iacoboni su Twitter il 23 giugno 2022.

Forse è il caso, visto che ne parlano tutti, che dica anch’io qualcosa su Conte, Di Maio e il tema della coerenza, agitato strumentalmente da tutte le parti.

In fondo, un po’ mi ero occupato del Movimento fondato da Casaleggio e Grillo. 

Luigi Di Maio è stato a lungo il leader populista, e in certi momenti quasi sovranista, del M5S. Figlio di un dirigente locale del Msi, orientato dall’ambiente di provenienza su posizioni law and order, considerato l’anima conservatrice, e talvolta di destra, del M5S. Gli inizi.

Sono in realtà Casaleggio e Grillo a costruire l’alleanza con Salvini. Che Di Maio accetta con convinzione, giudicando Salvini comunque un anti-sistema con i 5S. In quella fase, Di Maio si dedica però soprattutto a consolidare la presa interna nel M5S. Per lunghi anni lo scala. 

Di Maio si segnala per tanto ultrapopulismo. I gilet gialli (iniziativa di Di Battista). La richiesta di impeachment di Mattarella (iniziativa partorita però dalla comunicazione M5S, oggi fedelissima di Conte). Le ong definite “taxi del mare”. il Pd partito di Bibbiano.

L’incontro politico che lo cambia e apre la sua lunga nuova fase è quello con Augusto Rubei, il suo portavoce. Inizia allora un lungo percorso che vede Di Maio diventare un interlocutore sempre più abile dell’amministrazione profonda italiana, e anche americana. Dura anni

Di Maio, parentesi, capisce l’importanza di dialogare con personaggi come Mario Draghi da ben prima che Draghi arrivi a Palazzo Chigi. Questo cancella il passato che ho ricordato? Ovviamente no. Ma sarebbe erroneo ascrivere quel passato a Di Maio, e scontarlo a Conte. 

Conte esordisce come ignoto professore di diritto pugliese, capitato a Palazzo Chigi perché a Salvini e Casaleggio serviva una figura terza, per trovare l’accordo, come suggerito a Salvini e Casaleggio anche da Steve Bannon. Sì lui, vecchio Steve, il senior strategist di Trump.

In quella stagione Conte si fa fotografare a Palazzo Chigi come volto dei decreti Salvini sull’immigrazione. Al primo vertice internazionale da premier è l’unico premier del G7 a sostenere l’idea di Trump di riammettere Putin nel G8

Concede a Barr (ministro della Giustizia di Trump) di incontrare i capi dei nostri servizi segreti, in una vicenda nebulosa a dire poco, e che mette a serio rischio le procedure della sicurezza nazionale. I capi dei servizi fortunatamente non consegnano ai trumpiani nulla.

Conte celebra a Villa Madama (4 luglio 2019) da premier una cena per Putin in cui la quantità di oligarchi e alti burocrati russi oggi (e alcuni gia alllra) sanzionati è notevolissima. La presenza a quella cena di Savoini è una mera nota di colore.

Conte concede da premier una sfilata di mezzo militari, generali russi e uomini del GRU russi su suolo di un Paese Nato, facendola presentare ai russi (psy ops) come aiuti per il Covid, Dalla Russia con amore 

(una storia che s’intreccia con opache manovre lobbistiche russo-italiane, prima per sviluppare, poi per far adottare il vaccino Sputnik in Europa, usando l’Italia come anello debole e sperimentatore. Un vaccino tuttora non riconosciuto dall’Ema)

Nel frattempo, in una delle torsioni più nebulose imho della storia recente, Conte riesce a passare da volto dell’alleanza con Salvini, a volto dell’allleanza col Pd di Zingaretti. Restando a Palazzo Chigi. Renzi benedice quella operazione, con la necessità di far fuori Salvini 

Ma la benedice soprattutto Trump, col celebre tweet di endorsement a “Giuseppi”. E nonostante questo endorsement, inizia una fase in cui Conte per miracolo viene offerto al pubblico (da un gruppo di politici romani) come “punto di riferimento fortissimo dei progressisti”

Di Maio soffre nel vedersi scavalcato, e sicuramente motivazioni personali tra i due si alimentano. Ma in quel momento, Conte è posizionato addirittura come aspirante candidato leader di tutto il campo progressista. Chi osa criticarlo, va contro un muro compatto. 

Sulla lunga guerra tra i due non aggiungo altro: poco interessante. Interessante invece è che Conte - uscito da Palazzo Chigi perché Renzi ritira la fiducia di IV, e nessuno dei “parlamentari responsabili” si materializza a soccorrerlo in numero bastevole - cambia ancora.

Non è più, ora, il punto di riferimento fortissimo dei progressisti, ma una spina nel fianco di Draghi (vicina alle idee di Travaglio e Di Battista), la cui strategia di fondo è ricavarsi una nicchia di populismo ma stavolta non salviniano-casaleggiano, bensì melenchoniano

Ho riassunto molto, e me ne scuso. Il tratto finale è che, sul no all’invio di altre armi all’Ucraina, Conte si ritrova de facto nella stessa posizione auspicata da Razov, ambasciatore russo, e del Cremlino. Anche Grillo era molto apprezzato, a Villa Abamelek.

Da liberoquotidiano.it il 23 giugno 2022.

Lo chiama "Di Maione" Giuliano Ferrara. Un "politico trasformista e schizofrenico", come "in certa misura" lo sono tutti i politici italiani, scrive nel suo editoriale su Il Foglio. Secondo Ferrara Luigi Di Maio è "emulo di un grandissimo poeta", Arthur Rimbaud. 

Il quale, ricorda, "definì così il manifesto vero di tutta la sua breve, intensa vita di poeta: Je est un autre, Io è un altro". In versione più modesta, il ministro degli Esteri, uscito dal Movimento 5 stelle, ha "sibilato al Sé di ieri, al grillino passato, 'uno non vale l'altro'. Come dire, io sono io e voi non siete un ca***, altro che uno vale uno".

Quindi Ferrara mostra il suo trasformismo: "ha abolito quasi la povertà (e il senso del lavoro) con il Reddito di cittadinanza e il decreto 'Dignità', ha dato una sforbiciata di due, trecento parlamentari alle Camere, con una riforma costituzionale riuscita e convalidata da referendum (miracolo!), è stato ministro in tre governi di segno opposto, ha manifestato con i gilet gialli e ha messo su una pochette da paura alla Farnesina, roba che neanche al vecchio e compianto Giulio Andreotti era riuscita". 

Il punto è che Luigi Di Maio "la sua vita la sta moltiplicando, la salva a ogni angolo, la rende una promessa senza passato e carica di futuro. Insieme per il futuro, infatti. E con questa scelta, che ha tutto di occidentale e di euroatlantico", prosegue Ferrara, "fa un favore al suo paese, ne sia o no cosciente il sublime bibitaro moro di Pomigliano d'Arco, rivelatosi statista non per caso. Tutti sono alla ricerca di un Io convincente per gli elettori smarriti: una è donna, madre, cristiana", scrive riferendosi a Giorgia Meloni, "uno è i pieni poteri, e prima gli italiani e i russi; noi poveri occidentalisti della Ztl diciamo prima gli ucraini e le armi, poi il gas e l'inflazione da domare per proteggere care, effimere libertà".

Insomma, conclude Ferrara, "la sola esistenza di Di Maione" "dimostra che la soluzione non verrà da elezioni politiche semi maggioritarie, ma da un ferreo e funzionante, anzi pienamente efficiente, sistema trasformista, il nostro blasone, il nostro distintivo, il nostro unico fattore di stabilità e governabilità".

«Sulla giustizia M5S immaturo». Parla Macina, figura chiave per Di Maio. Intervista alla sottosegretaria di via Arenula che ha scelto di lasciare Conte e proseguire col ministro degli Esteri. «Spesso si è ceduto alla tentazione della condanna preventiva, a una comunicazione semplificata soprattutto sulle indagini relative alla politica. Poca solidarietà interna per le mie iniziative sul carcere? Forse è un tema che non porta consensi…» Valentina Stella su Il Dubbio il 24 giugno 2022.

L’onorevole Anna Macina, sottosegretaria alla Giustizia, figura tra i nomi di spicco che hanno abbandonato il Movimento 5 Stelle per approdare nel nuovo gruppo parlamentare Insieme per il Futuro, fondato da Luigi Di Maio. I temi della giustizia sono tra quelli in cui dovremmo aspettarci una certa discontinuità rispetto al metodo tradizionalmente adottato dai pentastellati. Abbiamo cercato, in questa intervista, di capire se effettivamente sarà così.

Sottosegretaria Macina, come mai ha lasciato il Movimento ed è entrata nel nuovo gruppo fondato da Luigi Di Maio?

Può sembrare strano dirlo, ma io sono rimasta dov’ero. Se mi giro e guardo il nuovo gruppo vedo che ci sono le stesse persone con cui ho condiviso temi e battaglie per anni, anche fuori dal Parlamento. È il Movimento 5 Stelle invece che ha deciso di tornare indietro. Era stato annunciato un nuovo corso, quello della maturità politica, ma non mi sembra che sia mai partito.

Lei in questo ultimo anno ha lavorato fianco a fianco alla ministra Cartabia. Che bilancio fa? E si è sentita sostenuta, nella sua funzione di governo, dal Movimento?

Il lavoro è complesso, ho deleghe di grande responsabilità. Dalla ministra ho ricevuto da subito una grande apertura di credito che credo di aver ricambiato con l’impegno e la passione che da sempre ho avuto per il diritto e la giustizia, a cui ho dedicato studio e professione. Nell’ultimo anno sono state approvate riforme importanti. E in alcuni passaggi è vero che il Movimento ha scelto la via del consenso facile. Ma governare a mio avviso è una cosa diversa. I valori restano gli stessi ma le questioni, specialmente quando parliamo di giustizia, sono complesse e meritano di passare dal confronto.

È vero che non ha trovato una sponda sul tema del carcere? Lei visita regolarmente gli istituti di pena.

Forse perché il tema carcere non porta consensi. Eppure, il fine rieducativo della pena è un principio garantito dalla Costituzione.

Sia Di Maio che Spadafora hanno ripetuto che sono stati commessi degli errori in passato. Quali, in tema di giustizia?

Si può e si deve essere molto severi ed esigenti sui temi di giustizia e sull’etica in politica, io lo sono. E pretendo trasparenza e comportamenti limpidi da parte di chi amministra la cosa pubblica. Altra cosa invece è la condanna preventiva: su questo occorre il coraggio di saper riconoscere gli errori fatti in passato.

Si riferisce alla gogna mediatica?

Un conto è dare l’informazione di una indagine in corso, soprattutto quando i soggetti coinvolti sono amministratori pubblici, altro è emettere una sentenza di condanna prima ancora che ad esprimersi sia stato il giudice. Certo, da un punto di vista di opportunità politica chi ricopre incarichi pubblici ed è sotto processo dovrebbe fare un passo indietro, ma ciò non equivale a dire che quella persona è colpevole. E soprattutto bisogna stare attenti al tipo di comunicazione utilizzata. Delle volte sono state usate parole eccessive nei confronti di indagati e imputati.

Ricordiamo che infatti il Movimento 5 Stelle non era neanche favorevole al recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza, perché sosteneva che bastava il comma 2 dell’articolo 27 della Carta costituzionale.

Anche il governo precedente decise di non recepirla. Però, tornando alla sua domanda, le ripeto quanto dichiarai nel momento in cui la norma di recepimento è stata approvata. Quello raggiunto dal testo a mio parere è un giusto compromesso che tutela sia la libertà di informazione che i diritti degli indagati.

Diciamolo: il Movimento è partito con lo slogan del “Vaffa” che si è riverberato anche sul tema giustizia, dando vita a un populismo estremo. Forse in questi anni il M5S non è riuscito a fare un lavoro di tipo culturale, garantista sulla base elettorale.

Si sarebbe dovuta graduare la forza della comunicazione, argomentare e spiegare approfonditamente le questioni. Qualche volta invece ci si è lasciati andare a facili semplificazioni su temi così sensibili come quelli della giustizia e dell’esecuzione penale.

Dentro Insieme per il Futuro non ci sarà posto per i populismi e per gli slogan, è stato ribadito. Per situazioni complesse occorrono soluzioni complesse. Come si tradurrà questo nuovo metodo sul terreno della giustizia?

Ricordo mesi fa una delle prime riunioni del presunto nuovo corso del Movimento 5 Stelle in cui Conte disse chiaramente che dovevamo modificare certi atteggiamenti politici del passato per orientarli al pieno rispetto della Carta costituzionale. Poi però, nel raccontare alcune posizioni, ha scelto una strada diversa fatta di slogan. Peccato. Io ero d’accordo con quella impostazione e adesso conto di lavorare in quella direzione.

Secondo Lei perché Conte ha sterzato rispetto ai propositi iniziali?

Voglio sperare che non si sia basato sui facili consensi.

Cosa invece non cambierà sempre in tema di giustizia rispetto al passato?

Il nostro Paese è aggredito dalla corruzione e dalla criminalità organizzata. Su questo non ci sarà mai un arretramento di neanche mezzo centimetro. Pochi giorni fa ho contribuito alla realizzazione di un importante risultato per portare a Foggia i magistrati della Dda di Bari che indagano sulla mafia locale. È una piccola grande cosa che può aiutare molto quel territorio sofferente. Ed è la dimostrazione che si possono ottenere molte cose governando bene e senza bisogno di ricorrere a strumenti di propaganda.

Rimane aperto il grande capitolo sui decreti attuativi delle tre riforme di mediazione Cartabia. Quali sono le sfide più importanti?

Dobbiamo dare concretezza ai principi declinati nei testi di riforma. Il ministero è al lavoro da tempo e le posso dire che entro l’estate i decreti saranno inviati all’esame del Parlamento, per il parere delle commissioni di merito. È un traguardo ambizioso ma sono convinta che sia alla nostra portata.

Un anno fa la svolta su Uggetti. Di Maio garantista, chissà se poi è vero. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Giugno 2022. 

Non è nato l’altra sera in un grande albergo di Roma, il nuovo Luigi Di Maio. Aveva fatto capolino giusto un anno fa -era il 28 maggio 2021 e stavamo faticosamente cercando di uscire dalla tragedia del Covid- dalle pagine del Foglio. Un testo inedito e inaspettato a sua firma, sovrastato dal titolo “Mai più gogna, chiedo scusa”. Chissà perché quella svolta da parte di un ex ragazzino nato con il movimento dei “vaffa” ma poi diventato vicepresidente della Camera e poi vicepremier e infine ministro degli esteri in due governi, non ebbe il rilievo politico che meritava.

Eppure, nelle sue parole di quel giorno, c’era già un programma, non sulla giustizia, ma su un futuro fatto di relazioni umane e di reciproco rispetto. Un mondo fatto di persone, prima di tutto, in cui il Parlamento non è una scatola di tonno da aprire e espugnare, dove i partiti non sono un’ accozzaglia di ladri delinquenti da annientare e la giustizia non è la sacra inquisizione chiamata a tagliare teste dopo sentenze mai sfiorate dall’ombra del dubbio. La svolta di un anno fa è stata espressa in modo chiaro due sere fa nell’albergo romano, quando Di Maio ha buttato lì: “Uno non vale l’altro”, così distruggendo l’intero programma politico del movimento di cui lui stesso è stato leader. E accantonando anche il se stesso che, ancora quattro anni fa, si esibiva sui social annunciando, con sprezzo nei confronti degli ex parlamentari, di aver “abolito i vitalizi”, e naturalmente non era vero, come era ridicola la pretesa di “aver abolito la povertà”.

L’abrogazione, nel nuovo corso, di quel finto e demagogico egualitarismo che era lo slogan “uno vale uno”, ha molto a che fare con il rispetto per gli altri. Oggi una deputata storica come Carla Ruocco, che ha scelto di tentare la nuova avventura politica con Di Maio, rivela (non ne aveva mai fatto cenno in passato) di non aver mai condiviso quel concetto, anche perché l’esperienza e la competenza sono importanti. Naturalmente sta parlando di sé, e non saremo certo noi a sospettare, insieme a Di Battista e altri piccoli uomini come lui, che dietro certe scelte ci sia il desiderio di ricandidarsi alle elezioni politiche tra un anno e possibilmente tornare in Parlamento anche alla terza legislatura, cosa vietata dal regolamento del Movimento cinque stelle. Non diremo mai la parola “poltrona”, proprio per una questione di rispetto. Se solleviamo l’argomento è per rimarcare due aspetti, il primo è che occorrono molto tempo e molta fatica per diventare bravi parlamentari, il secondo è che le ambizioni manifestate dai deputati e senatori di oggi potevano essere le stesse di quelli di ieri, della prima come della seconda repubblica. Quelli disprezzati dai “grillini”.

Se questo è il discorso sul rispetto, ed è la prima tappa necessaria per il cambiamento, il secondo è quello del dubbio, e ha molto a che vedere con la giustizia e il circo mediatico-giudiziario. E così arriviamo al giorno di un anno fa, quando Luigi Di Maio scrisse una lettera di scuse a Simone Uggetti, ex sindaco di Lodi, arrestato nel 2016 per turbativa d’asta, poi assolto nell’appello che andrà ricelebrato per volere della cassazione. Le scuse, sulla cui sincerità siamo disposti a scommettere, riguardavano le modalità con cui in occasione dell’arresto il Movimento cinque stelle, con la presenza a Lodi dello stesso Di Maio, aveva manifestato in piazza e condotto una vera campagna persecutoria sui social fino alle dimissioni del sindaco.

“Con grande franchezza vorrei aprire una riflessione –scriveva il ministro degli esteri- che anche credo sia opportuno che la forza politica di cui faccio parte affronti quanto prima”. Perché “Una cosa è la legittima richiesta politica (di dimissioni, ndr), altro è l’imbarbarimento del dibattito, associato ai temi giudiziari”. Di Maio porta anche altri esempi, oltre a quello di Simone Uggetti, come quello della ministra Federica Guidi e il processo Eni. Mostra di essersi preparato. Non tralascia di ricordare l’imbarazzo del suo partito quando, nello stesso periodo, fu indagato il loro sindaco di Livorno Filippo Nogarin. Ma tralascia la sospensione di Pizzarotti, sindaco di Parma, condotto alle dimissioni per un’informazione di garanzia per abuso d’ufficio in un procedimento che finirà archiviato.

Ma vien da chiedersi se la “riflessione”, partita da questi casi e allargata a principi generali, sia stata poi avviata, a partire da un anno fa, nel movimento di Beppe Grillo. Perché sono nobili, frasi come “esiste il diritto delle persone di vedere rispettata la propria dignità fino a sentenza definitiva e anche successivamente”. Ma è dovere di un deputato, soprattutto di un leader, dare sempre corpo alle parole. Finora non ci sono stati segnali. Ora forse Di Maio ne ha l’occasione. L’ex ministra Elena Boschi, con la pelle che ancora brucia per le offese ricevute da quelli del Di Maio che fu, ne saluta positivamente l’apertura “a un timido garantismo”. Aspettiamo il semaforo verde. Con l’ottimismo della volontà.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Sarina Biraghi per “la Verità” il 24 giugno 2022.

«La scissione di Luigi Di Maio è il completamento di un cinico voltafaccia e di uno squallido gioco di potere personale. Il cinismo è dato anche dall'aver ucciso Gianroberto Casaleggio e rinnegato il figlio, cosa che fa senza rendersene conto anche Conte». Secco e inclemente il commento di Gianluigi Paragone, leader di Italexit ed ex grillino, sulla scissione del M5s. 

La molla è stata il vincolo del secondo mandato?

«No no, c'è qualcosa di più. Di Maio si sta muovendo perché determinati ambienti stanno lavorando da un po' per creare un contenitore centrista che servirà per la prossima legislatura per rinnovare l'incarico a Draghi o a un altro salvatore della patria tipo l'ex banchiere della Bce». 

Giggino quindi ha giocato d'anticipo?

«Lui è stato bravo a tessere una rete con cui riesce a spostare un gruppo di disperati, una sessantina di deputati molti dei quali al primo mandato, e a collocarli in una comfort zone, cioè in quella zona moderata superaffollata». 

Cambiamento di pelle?

«Gente che era stata eletta sulla spinta di rivendicazioni forti, e forse eccessivi sogni, si ritrova a chiedere il simbolo a Tabacci. Ecco, da Casaleggio a Tabacci c'è l'essenza di Di Maio».

Dallo strappo ne esce meglio Conte?

«Conte è fatto della stessa pasta di Di Maio, semplicemente come si direbbe a Milano, un pirla». 

Perché?

«Di Maio è più furbo, è riuscito a restare attaccato al potere con linguaggio felpato e quirinalizio. Anche Conte è cinico e non può rifarsi una verginità. Non dimentichiamo che l'avvocato di Volturara Appula è quello del Cts e dei Dpcm, è quello che ha fatto diventare Arcuri supercommissario dell'emergenza con le mascherine, la primula vaccinale, l'Ilva di Taranto È quello che durante il lockdown giocava da solo e ora chiede la centralità del Parlamento. Ricordo che mentre oggi fa lo schizzinoso è lo stesso che aveva provato a fare il Conte ter con una scialuppa di scappati di casa. Non è un verginello. Ora non può gestire il potere e dimostra di essere un bidone della politica».

Di Maio resta ministro

«Di Maio ha le spalle coperte dal Quirinale che vive nell'anomalia di un settennato bis che vuole portare fino in fondo. Napolitano nella stessa situazione chiedeva di fare presto, Mattarella continua a stare bene nel suo ruolo e si gode lo spettacolo. Di Maio non ha nulla da temere». 

Del resto ha solo fatto una scissione.

«No, è artefice di una truffa: ha guidato il M5s fino al 33% e ora sovverte la parte politica del Movimento e fa l'opposto, una mossa ideologica autorizzata da Draghi».

Ma se Di Battista torna ci va con Conte?

«Dibba se rientra non trova il M5s. Doveva pensarci prima». 

E gli elettori capiranno questa scissione?

«La gente del M5s non c'è più. Ci sono alcuni disperati che restano attaccati al reddito di cittadinanza ma il sogno è finito. Del resto Conte con questo Movimento si è inventato ministri come Speranza e Lamorgese. C'è poco da sognare. Piuttosto c'è da pensare alla gente che lavora, agli agricoltori dimenticati e in ginocchio per una crisi aggravata dalla siccità. Niente fondi solo promesse compreso il pnrr che sarà un salvadanaio vuoto».

E il silenzio di Grillo?

«Meglio che non parli. Anche il suo ultimo post è incomprensibile, perfino a lui stesso». 

Lite tra Di Battista e Dadone sui social. E arriva in soccorso la moglie Sahra. Il Tempo il 24 giugno 2022

Volano gli stracci nel Movimento Cinque Stelle. E ora inizia la fase dei "rinfacci". "Però quando fece il tuo nome per farti diventare ministra, Alessandro non ti dispiaceva...":. scrive la compagna di Alessandro Di Battista, Sahra Lahouasnia. Con chi ce l'ha?

Andiamo per ordine. La ministra alle Politiche giovanili Fabiana Dadone, con una storia personale nel Movimento iniziata con le battaglie No Tav, scrive un post social in cui dice che resta nel M5S, a fianco a Giuseppe Conte, ma riconosce il lavoro a favore della pace in Ucraina di Luigi Di Maio. Aggiunge infine che è fondamentale che il suo partito resti al governo, senza dar peso alle "sirene degli uomini della provvidenza che ci vogliono fuori dal governo dovrebbero restare in vacanza". Il riferimento è all'ex collega deputato e amico, cioè Di Battista. 

Lo stesso "Dibba" risponde così: "Ancora una volta signora ministro il problema sono io, un libero cittadino che vive del proprio lavoro, senza essere pagato con denaro pubblico a differenza sua. Il problema sono io, sempre io. Mica Renzi con il quale governa. Mica l’ignobile legge Cartabia che ha avuto il coraggio di votare. Mica Brunetta che le siede accanto nel Cdm. Mica l’avvocato di Berlusconi sottosegretario alla giustizia. Siete diventati ciechi. O qualcosa vi ha accecato. Auguri".

Poi si aggiunge la moglie Lahouasnia: "Lo stato del 'vacanziere' non è cambiato da quando lo portavi sul palmo della mano in campagna elettorale nel 2018 né tantomeno quando ha fatto il tuo nome quando si chiedevano consigli per il tuo posto da ministro. E comunque in vacanza non sta, si chiama lavoro". 

La conversione del sottosegretario. Miracolo Di Stefano, ospite di Russia Unita di Putin e anti-Nato diventato euroatlantista: le giravolte del fedelissimo di Di Maio. Carmine Di Niro su Il Riformista il 24 Giugno 2022 

Di acqua ne è passata sotto i ponti per Manlio Di Stefano. Il sottosegretario agli Esteri, fedelissimo del ministro Luigi Di Maio, è passato col titolare della Farnesina in ‘Insieme per il futuro’ abbandonando la barca in difficoltà del Movimento 5 Stelle.

Di Stefano segue così la svolta euroatlantica e moderata di Giggino, in rotta con Giuseppe Conte, accusato di aver messo a rischio la tenuta del governo Draghi con posizioni ambigue su Ucraina e Russia.

Ma se sulle prossime mosse di ‘Insieme per il futuro’ restano tanti dubbi, a partire dalla possibilità di unirsi in un terzo polo centrista e draghiano, il passato del sottosegretario della Farnesina è invece chiarissimo.

Cambiare idea in politica non è un reato, eppure la svolta di Manlio Di Stefano resta un caso a suo modo impressionante, anche perché ad oggi la giravolta non è stata spiegata dal diretto interessato. Basta tornare a pochi anni fa, siamo nel gennaio 2017, per leggere le parole dell’allora capogruppo del Movimento 5 Stelle in Commissione Esteri attaccare a testa bassa la Nato sul blog di Beppe Grillo.

Nell’articolo del 12 gennaio Di Stefano chiedeva di ridiscutere la presenza dell’Italia nella Nato, una tesi che per Di Maio oggi sarebbe una bestemmia. Alleanza atlantica che per Di Stefano all’epoca stava “giocando con le nostre vite”, evocando una “immonda strategia della tensione” nei confronti della Russia di Vladimir Putin.

Quella della Nato era una vera ossessione per Di Stefano. Nel 2017 il responsabile esteri dei 5 Stelle organizzava anche un convegno dal titolo “Se non fosse Nato”, dove anche in questo caso di parlava di uscita del Belpaese dall’Alleanza, definita “strumento di aggressione per il perseguimento di tre obiettivi strategici degli Stati Uniti: mantenere il dominio militare in Europa, controllare qualsiasi possibile rinascita della Russia e avere ‘il cappello’ da utilizzare per tutti gli interventi bellici in cui si è voluto ‘esportare la democrazia’ e i diritti umani”.

Lo Zar del Cremlino è un secondo punto chiave della politica estera di Di Stefano. Fu proprio lui nel 2016 a volare a Mosca per rappresentare il Movimento 5 Stelle al congresso di Russia Unita, il partito di Putin, facendosi fotografare anche con due big del movimento come Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak. 

Vicinanza al Cremlino dimostrata anche in occasione dell’invasione russa della Crimea: nel 2014 Di Stefano si era detto contrario alle sanzioni, parlando all’agenzia stampa Sputnik. Ucraina che, sempre sul blog di Grillo, diventata una Paese “violato con un vero e proprio colpo di stato ad opera dell’Occidente, poi si è rimpiazzata la sua amministrazione con una vicina agli Usa e, adesso, la si vuole trasformare in una base Nato per lanciare l’attacco finale alla Russia”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 24 giugno 2022.  

Giuliano Ferrara ha scritto che Luigi Di Maio sarebbe un «politico trasformista e schizofrenico» come «in certa misura» lo sarebbero tutti i politici italiani, e che la sua scelta «ha tutto di occidentale e di euroatlantico». Conclude Ferrara: «La soluzione verrà da un ferreo e funzionante, anzi pienamente efficiente, sistema trasformista, il nostro blasone, il nostro distintivo, il nostro unico fattore di stabilità e governabilità». 

Giusto: ma allora suicidiamoci tutti.Il sistema trasformista, studi alla mano, è quello della Nigeria, del Messico, della Grecia, del Nicaragua, del Costa Rica, del Perù e del Regno delle Due Sicilie: questo spiega ogni studio sul personalismo familiare, sull'«amistad» che batte il civismo, sullo Stato visto come gabellatore, sulla vocazione ai servizi improduttivi. Già lo scrivevano, dell'Italia pre-garibaldina, i Montesquieu, i Nitti e i Farini. 

Cinque anni fa l'ha scritto persino L'Economist. Non è blasone, non è distintivo, non è realpolitik: il trasformismo fa schifo. C'è un Italia ex asburgica che cerca un modus più divincolato dal condizionamento statale, poi c'è un Italia ex borbonica che cerca solo un grande corpo che le dia sicurezza. Anch' io voglio che il governo Draghi duri a lungo: ma Di Maio non è il mio Paese, e la sua scelta non è occidentale o euroatlantica. È la Nigeria.  

La dura legge del contrappasso sui social: piovono insulti e sfottò su Di Maio. Francesco Maria Del Vigo il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

Di Maio travolto dalla furia dei grillini: "Ogni qualunquista è un trasformista in attesa dell'occasione giusta". Beffa per l'ex capo M5s, asceso grazie al web.

Chi di social ferisce di social perisce. E lo sa bene Luigi Di Maio, ex leader del movimento più internettiano d'Italia e forse del mondo, che, dopo la sua giravolta circense è finito trafitto dalla furia del grillini (e non solo) proprio sul web. Chi si avventura nelle pagine social del ministro degli Esteri e di Cinque Stelle, si prepari a una discesa negli inferi tra insulti, prese in giro, battute al vetriolo e citazioni dello stesso Di Maio che, col senno di poi, paiono quanto meno contraddittorie. Sulla pagina Facebook ufficiale del titolare della Farnesina, il tempo sembra essersi fermato. Non è accaduto nulla. La strategia è chiara: silenzio assoluto. L'ultimo post, datato 13 giugno, ritrae un Di Maio, sereno e artatamente concentratissimo che discute ad Addis Abeba con il ministro etiope. Sotto il post, mentre stiamo scrivendo, ci sono più di 12mila commenti. Come è facile immaginare, ahinoi, la politica del Corno d'Africa interessa molto poco gli astanti. Parlano tutti della fuoriuscita di Giggino. E ne parlano malissimo. «Hai dimostrato di essere un miserabile», sentenzia Maria con tono lapidario. Ed è una delle più delicate. «Insieme per il futuro E prevedo che il futuro durerà meno di 10 minuti», ironizza, ma non troppo, un tal Luca. Ma c'è anche chi, tra un insulto e l'altro, dispensa consigli agrodolci al ministro: «Ma perché semplicemente non torni a fare quello che facevi prima di essere un politico? È più dignitoso lo Steward devi continuare ad aprire partiti che valgono lo zero niente %?», si interroga Giulia. E chi, con notevole sagacia, dal particolare degli accadimenti di questi giorni trae massime sempre valide nel mondo della politica: «Ogni qualunquista è un trasformista in attesa dell'occasione giusta. Lei è la conferma di questa regola eterna», stigmatizza Alessandro. Ovviamente spopolano fotomontaggi e meme, la grande fuga di Di Maio dai Cinque Stelle si presta alla perfezione a qualunque forma di satira e sberleffo. C'è chi gli ha appiccicato una gobba sulla schiena, trasformandolo nel nipote di Andreotti (qualcuno lo ha anche prontamente ribattezzato Giggino Pomicino, la Prima repubblica è un sempreverde), chi lo ha inserito in una pubblicità di «Poltrone e sofà» e chi ironizza sulla fondazione di un nuovo partito «Poltrona viva». Quello dello scranno è un altro grande classico che imperversa un po' ovunque, in questi giorni che vedono l'ex steward nell'occhio del ciclone. L'affaticato social media manager del ministro - al quale va tutta la nostra solidarietà -tenta il depistaggio anche su Instagram, dove pubblica una foto di Di Maio a Belgrado intento a stringer mani e distribuire pacche sulle spalle. Ma i commentatori non ci cascano neppure questa volta e parte la lapidazione digitale con parole ed emoticon molto eloquenti. Due i più diffusi: la faccina del pagliaccio e quella di chi, con buona probabilità, ha mangiato del cibo avariato e ora lo sta espellendo... D'altronde da un movimento che ha fatto del «vaffanculo» il proprio slogan fondativo non ci si poteva certo aspettare una prosa elegante ed alata. Sulla pagina ufficiale del Movimento, che conta un milione e mezzo di seguaci, invece è tutto un incitamento a Conte affinché lasci questo «governaccio» e traslochi all'opposizione. Di Maio, nella migliore (e più pubblicabile) delle ipotesi viene dipinto come un traditore che ha accoltellato alle spalle l'avvocato di Volturara Appula. Stesso scenario anche su Twitter dove, per tutta la giornata, l'hashtag DiMaio è il più gettonato. Se il web e i social sono la cartina tornasole della nostra società, beh, allora per il ministro degli Esteri le cose si sono messe davvero male.

Le giravolte di Luigi. Michel Dessì il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

Protagonista di questa settimana Luigi Di Maio e le sue innumerevoli giravolte: in questi anni, ha infatti cambiato idea non una, non due, non tre ma decine e decine di volte. Ospiti speciali della puntata, Vittorio Sgarbi e Andrea Indini.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Settimana movimentata tra i palazzi romani. Tanti, troppi retroscena su chi va con chi e in cambio di cosa. Perché si sa, le elezioni si avvicinano e a pensare male si fa bene. C’è sempre un interesse personale dietro ad ogni “movimento”. Inutile nasconderlo. Potremmo parlare degli umori dei grillini rimasti con Giuseppe Conte, tra chi vorrebbe uscire dal governo e tra chi, invece, vorrebbe restare; delle aspettative per una prossima candidatura dei dimaiani che, finalmente, dopo mesi di guerra interna al movimento, hanno deciso di gettare la maschera; delle preoccupazioni del PD: “e ora, con chi ci alleiamo, con Giuseppe o con Di Maio?”; o delle manovre per la costruzione del grande centro con l’aiuto di Tabacci.

E invece no, parliamo di Luigi Di Maio, delle sue innumerevoli giravolte. Di come, in questi anni, ha cambiato idea non una, non due, non tre ma decine e decine di volte. “Di Maio ha offerto il suo contributo al suicidio assistito del Movimento. Ha pensato di portare verso una buona morte i grillini e Grillo. Dall’albergo di lusso a cinque stelle all’Rsa “casa di riposo per grillini stanchi insieme per il futuro”, ci dice Vittorio Sgarbi. È proprio vero, nulla è per sempre, soprattutto in politica dove è facile dimenticare. Ma fino a che punto? Di Maio sicuramente ha già dimenticato, a partire dal motto che, per anni, lo ha accompagnato alla guida del movimento: “uno vale uno!” a “uno non vale l’altro”.

Ha proprio ragione Andrea Indini, che mi onoro di ospitare a La Buvette: “Se ci mettessimo a rileggere tutte le dichiarazioni rilasciate sei, sette anni fa, a stento riconosceremo il Di Maio di oggi. Ora non schifa più i voltagabbana, ora non crede più che “uno vale uno”. Ora è europeista dopo essere stato anti UE e anti euro. È anche diventato atlantista dopo aver sognato il superamento della Nato”.

E noi, quei momenti della (breve) vita politica di Gigi da Pomigliano li ripercorriamo nel podcast attraverso la sua stessa voce. Quella ancora non è cambiata. È lì, sul web che, sicuramente, è l’unico a non dimenticare. Impietoso, anche con Luigi. Oggi impeccabile nel suo vestito sartoriale il ministro degli Esteri si dice pronto a tutto pur di salvare il governo di Mario Draghi.

“La parte più divertente del trasformismo di Luigi Di Maio è l’abiura all’odio e al populismo. - sottolinea Andrea - Ci arriva dopo anni di gogne sui social, di liste di proscrizione contro i giornalisti nemici, i vaffa day, di campagne mediatiche giustizialiste… se ne accorge solo ora? Meglio tardi che mai, però ora staremo a vedere se ha cambiato davvero o è solo una mossa politica”. Ma Vittorio è severo: “Difficile che Di Maio cambi idea, non ne ha mai avute”.

Da Fini a Bersani, le scissioni infauste finite nel nulla. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 22 Giugno 2022.  

Il nuovo gruppo di Di Maio, "Insieme per il futuro", non brilla per originalità evocativa. Per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti a cinquestelle?

Il gran generatore automatico di nomi e simboli che incessantemente rifornisce la decomposizione del sistema post-partitico all'italiana ha fatto dunque germogliare "Insieme per il futuro". Ma per quanto insieme? E quale futuro attende gli scissionisti guidati da Di Maio?

Di sicuro l'ultimissimo scisma a cinque stelle non brilla per originalità evocativa. Così, poche ore dopo l'annuncio Gabriele Maestri, costituzionalista e studioso di diritto dei partiti, ma soprattutto pontefice massimo e super erudito dell'odierna micropolitica, poteva già comunicare sul suo blog, "I simboli della discordia", che quella denominazione era già stata usata la bellezza di 50 volte negli ultimi quattro anni, per lo più in elezioni amministrative.

La maledizione del vincitore. Di Maio conferma la regola: da 15 anni il primo partito nelle urne poi va in pezzi in aula. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 23 Giugno 2022.

Dalla scissione finiana del 2010 a quella bersaniana del 2017, nelle ultime tre legislature non è mai accaduto che la forza più votata arrivasse tutta intera alle elezioni successive.

Generalmente in politica, come in ogni altra vicenda della vita, sono le vittorie a unire e le sconfitte a dividere. Eppure nella politica italiana, dal 2008 a oggi, capita sistematicamente il contrario: è il partito più votato a non arrivare intero alla fine della legislatura. Sono infatti quasi quindici anni che la formazione più votata nelle urne, arrivata a metà del percorso, entra in crisi e si spacca clamorosamente in aula, subendo una scissione organizzata o dal leader della precedente stagione (Luigi Di Maio contro Giuseppe Conte oggi, Pier Luigi Bersani contro Matteo Renzi nel 2017) o dal leader di uno dei due partiti fondatori del nuovo soggetto (Gianfranco Fini contro Silvio Berlusconi nel 2010), portandosi dietro decine di parlamentari, ministri e dirigenti storici. È la maledizione del vincitore.

Come si vede, non si tratta di scosse di assestamento, cambiamenti al margine, minime scalfitture, ma di vere e proprie crisi esistenziali, che chiamano in causa l’identità e la sopravvivenza stessa del partito: la scissione finiana del 2010 portò alla caduta dell’ultimo governo Berlusconi e fece passare il Partito delle libertà dal 37 per cento del 2008 al 21 per cento del 2013 (il partito di Fini, in compenso, totalizzò lo 0,4 e non entrò nemmeno in Parlamento); la scissione bersaniana del 2017 lasciò il Partito democratico di Renzi al minimo storico, dal 25 per cento del 2013 al 18 per cento del 2018 (la formazione di Bersani, in compenso, in parlamento riuscì a entrare, ma solo perché alleata di Sinistra italiana, già accreditata del 2 per cento, con cui superò di un soffio la soglia al 3); la scissione dimaiana dal movimento contiano vedremo quali effetti avrà – al voto non manca molto comunque – ma certo le prospettive elettorali non appaiono particolarmente rosee per nessuna delle due formazioni.

Vista all’interno di questa notevole serie storica, la scissione del Movimento 5 stelle assume quindi un valore diverso, come indicatore di un fenomeno più generale. Al di là delle cause e delle peculiarità della vicenda grillina, quello che emerge è un problema strutturale.

Mi domando se esista un altro paese al mondo in cui per quasi quindici anni di fila è il partito vincitore delle elezioni, non lo sconfitto, ad andare letteralmente in pezzi nel corso della legislatura. Mi domando, soprattutto, se esista una certificazione più lampante della crisi terminale di un sistema politico, e cosa debba ancora succedere perché i suoi protagonisti prendano atto che si tratta di un gioco in cui non può vincere nessuno.

Non ripeterò qui per l’ennesima volta la mia diagnosi (mi limito, per chi non fosse mai passato da queste parti, a ricordare la medicina: ritorno a un vero sistema proporzionale, senza coalizioni pre-elettorali, senza premi di maggioranza, senza nessuna costrizione bipolare). Quello che mi sembra maggiormente degno di nota, infatti, non è tanto la diversità di opinioni circa le ragioni della crisi o le eventuali terapie da adottare, quanto la rimozione del problema.

Ogni volta come se fosse la prima volta, i leader di partito dati per vincitori dai sondaggi, o anche soltanto per migliori sconfitti (tentati quindi dall’idea di poter lucrare una rendita di posizione dal voto utile e dal vincolo di coalizione, sia pure all’opposizione), si immolano in difesa dello «spirito del maggioritario» e del «bipolarismo». Mettono cioè essi stessi la testa sul ceppo, allegri come un bambino a Natale, nella convinzione che il signore incappucciato dietro di loro si appresti a metterci sopra una bella corona.

La domanda è: quante altre leadership dovranno rotolare nella polvere prima che l’ultimo arrivato mangi la foglia? Il bipolarismo all’italiana, con le sue parvenze plebiscitarie e la sua reale ingovernabilità, non è infatti, come credono loro, un palcoscenico per i sogni di gloria e le vanità dei leader. È un patibolo.

·        La Democrazia a modo mio.

Estratto di “Polvere di Stelle”, di Emanuele Buzzi (ed. Solferino) il 9 settembre 2022.

«Allora, ci dimettiamo e andiamo all’opposizione: un governo Draghi non lo possiamo accettare. La linea è: o Conte o morte.» «Sì, questo non si discute.» La riunione in via Arenula, a Roma al ministero della Giustizia, è segretissima, al punto che è rimasta ignota finora. 

 Tra presenti e collegati in videocall ci sono tutti i rappresentanti che contano del Movimento: da Di Maio a Patuanelli, da Bonafede a Crimi, reduce da un’assemblea parlamentare nel pomeriggio. Il reggente ha appena spiegato ai gruppi parlamentari: «Un governo tecnico avrebbe mai potuto fare il reddito di cittadinanza? Avrebbe potuto fare misure costose ma innovative e di rilancio come il superbonus al 110% e le comunità energetiche? Queste sono operazioni che può fare un governo politico, non un governo che ha la necessità di far quadrare i conti. Un premier tecnico non farebbe il bene del Paese, abbiamo già dato».

Sei persone si confrontano e hanno di fronte una grande responsabilità: quella di scegliere se aderire o meno a un governo di unità nazionale. A un certo punto il telefono di Di Maio squilla. È Grillo, che per mezz’ora spiega le novità. Il garante è reduce da una telefonata di un paio d’ore con Mario Draghi, in quel momento premier incaricato. Il colloquio tra i due ha avuto esiti inattesi: Draghi ha mostrato interesse per i temi della transizione ecologica e ha anche registrato le motivazioni del Movimento nel difendere il reddito di cittadinanza.

A propiziare il confronto è stato Fico, che li ha messi in contatto. Quando Grillo conclude la telefonata con Di Maio, il messaggio che viene riferito al gotha del Movimento è chiaro: «Beppe dice che dobbiamo fare il governo». I partecipanti incassano. Tutti, tranne uno. Bonafede, in quel momento padrone di casa, sbotta. 

Lui è il ministro che ha messo in contatto Conte con i Cinque Stelle, lui è quello che Conte ha difeso dagli attacchi di Renzi, il «capro espiatorio» – come dicono nel M5S – su cui si è giocata la stabilità dell’esecutivo. Contatta Fico, che ha fatto da trait d’union tra Grillo e Draghi, e parte una call che coinvolge tutti i presenti. Bonafede, di fronte alle parole del garante stellato e al cambio di rotta dei colleghi, si infuria: «Questa è una resa, è un tradimento nei confronti di Giuseppe. Non possiamo abbandonarlo così». Poi si alza e lascia la riunione e la sede del suo ministero.

L’ (anti)democrazia interna del M5S a guida di Giuseppe Conte. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Agosto 2022 

I più votati alle Parlamentarie rischiano quindi di vedere gli scanni della Camera e del Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste a cause della «comparsa» imposta dei prescelti di Giuseppe Conte o per la sua stessa candidatura in lista in ben 4 regioni.

Nelle chat romane gira uno “schemino” che spiega come chi ha preso ben oltre le mille preferenze sia stato scalzato: Angela Salafia (1.402 voti) dal docente De Santoli, Marco Bella (1139) dal notaio Colucci. I più votati alle Parlamentarie rischiano quindi di vedere gli scanni della Camera e del Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste a cause della «comparsa» imposta dei prescelti di Giuseppe Conte o per la sua stessa candidatura in lista in ben 4 regioni. 

In quelle stesse chat si leggono le contestazioni dei fedeli di Virginia Raggi finiti supplenti o addirittura fuori, anche se per ora nessuno di loro intende ritirarsi. Decisione questa invece adottata da Nicolino Di Michele, molisano slittato al secondo posto per l’alternanza di genere: «Non ho più lo spirito per affrontare la campagna elettorale».

La deputata uscente Francesca Flati, con quasi 1.695 clic, è risultata la più votata del Lazio, ma si troverà davanti in lista il neo capogruppo Francesco Silvestri: “Certo, mi spiace. Sarebbe stato bello essere capolista. Il listino di Conte è una novità, ma è stato votato. Ora è il momento di lavorare ascoltando i cittadini”.

Luca Migliorino, vice presidente della commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi al MPS

Luca Migliorino, vice presidente della commissione d’inchiesta che si occupa della morte di David Rossi ( ex direttore relazioni esterne del MPS), è risultato il più votato nella seconda circoscrizione toscana, ma è stato collocato al terzo posto per la parità a causa della presenza in lista di Ricciardi «paracadutato» da Conte. Certamente non può dirsi soddisfatto ma, contattato, ci tiene a rispondere: «Non rilascio dichiarazioni sul tema».

In molti si stanno chiedendo se, considerata anche l’impostazione dei 5 Stelle, a proposito di legalità…l’ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho non sia imbarazzato a vedersi in lista insieme a Riccardo Tucci, imputato per frode fiscale. Ma quello che in realtà si chiedono, quale sia il senso di queste liste: «Dal secondo posto in poi bisogna prendere percentuali davvero alte per far scattare i seggi», è la consapevolezza dei più. Ad avere reali chance alla fine restano solo i quindici “fedelissini” cortigiani di Conte. Chissà se adesso Beppe Grillo avrà ancora il coraggio di ripetere il suo mantra grillino : “uno vale uno”. Redazione CdG 1947

Giulia Ricci per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.

I più votati alle Parlamentarie rischiano di vedere Camera e Senato solo in fotografia, scivolati giù nelle liste per la «comparsa» dei prescelti di Giuseppe Conte (o per la sua stessa presenza in 4 regioni). Nelle chat romane gira uno schemino che mostra come chi ha preso ben oltre le mille preferenze sia stato scalzato: Angela Salafia (1.402 voti) dal docente De Santoli, Marco Bella (1139) dal notaio Colucci.

L'uscente Francesca Flati, con quasi 1.695 clic, è la più votata del Lazio, ma avrà davanti il neo capogruppo Francesco Silvestri: «Certo, mi spiace. Sarebbe stato bello essere capolista. Il listino di Conte è una novità, ma è stato votato. Ora è il momento di lavorare ascoltando i cittadini». 

In quelle stesse chat si sentono i malumori dei fedeli di Virginia Raggi finiti supplenti o addirittura fuori, anche se nessuno (per ora) intende ritirarsi. Lo farà invece Nicolino Di Michele, molisano slittato al secondo posto per l'alternanza di genere: «Non ho più lo spirito per affrontare la campagna elettorale».

Luca Migliorino, vice della commissione d'inchiesta che si occupa della morte di David Rossi, è risultato il più votato nella seconda circoscrizione toscana, ma sarà al terzo posto per la parità e il «paracadutato» Ricciardi. Non può dirsi soddisfatto ma, contattato, ci tiene a rispondere: «Non rilascio dichiarazioni sul tema». 

A proposito di legalità, in molti si stanno chiedendo se, considerata anche l'impostazione dei 5 Stelle, l'ex procuratore antimafia Federico Cafiero De Raho non provi disagio a essere in lista con Riccardo Tucci, imputato per frode fiscale. Ma quello che in più si chiedono è il senso di queste liste: «Dal secondo posto in poi bisogna prendere percentuali davvero alte per far scattare i seggi», è la consapevolezza dei più. Ad avere reali chance finiscono per essere solo i quindici fedeli di Conte.

UNO NON VALE UNO. Massimiliano Panarari racconta le strategie comunicative del M5S: dalla piattaforma Rousseau, alla politica della scatola vuota. E a Salvini – Zelig. Michele Boroni su luz.it.

Massimiliano Panarari, sociologo della comunicazione, saggista, consulente di comunicazione politica e pubblica, docente della Luiss e della Bocconi, editorialista su La Stampa e su altri quotidiani. Nella neolingua del 2019 “quelli là” direbbero che è uno della casta.

Ultimo libro di Panarari per i tipi di Marsilio: Uno non vale uno. Democrazia diretta e altri miti d’oggi. Il volume smonta e analizza nel dettaglio il gergo populista e sovranista – che chiama in confidenza pop-sov – partendo proprio da uno dei suoi cardini.   

Uno non vale uno: sembra che anche molti attivisti pentiti dei 5 Stelle se ne siano accorti

Il fatto che “uno non vale uno” sta diventando sempre più chiaro anche a coloro che avevano pensato di trovare all’interno del MoVimento 5 Stelle, ma anche di altre formazioni neopopuliste, la possibilità di far valere quest’idea di una totale orizzontalizzazione. In pratica “uno non vale uno” perché, come nella Fattoria degli animali di Orwell, all’interno del MoVimento 5 Stelle esiste un centro di potere, una gerarchia non dichiarata, una filiera di comando che prende le decisioni.

La Casaleggio Associati

Naturalmente. È un inner circle di cui fanno parte dei soggetti privati e questo rende praticamente l’idea dell’impraticabilità dell’orizzontalizzazione. Quindi uno vale uno, tranne che per la Casaleggio Associati.

Però anche nei vecchi partiti c’erano le correnti

Sì, la politica del “correntismo” ha prodotto una serie di degenerazioni; tuttavia negli altri partiti vi erano sempre una condizione di dibattito e di conflitto palesi. Mentre sulla base de l’“uno vale uno” del MoVimento 5 Stelle diventa impossibile poter esprimere il dissenso. Nella discussione del decreto sicurezza e delle politiche migratorie si è visto chiaramente che un dissenso esiste, ma fatica a esprimersi e a trovare una posizione visibile e dichiarata. 

La loro dichiarazione “uno vale uno” è di fatto un rifiuto alla diversità e al pluralismo che sono, per un verso, un dato di realtà e, per l’altro, il fondamento della civiltà occidentale e delle società socialdemocratiche. L’idea forzata, omologatrice e riduzionistica dell’“uno vale uno” intende soffocare tutto questo.  

A proposito di omologazione: se è vero che “uno vale uno”, allora tutti sono sostituibili?

Esatto, i partiti neopopulisti dichiarano l’uno vale uno dei propri eletti in tema di interscambiabilità, ma anche di facile rimozione. Questo rafforza il fatto che il centro di potere che governa il decision making del partito neopopulista – la Casaleggio Associati – risulti ancora più forte e inscalfibile.

E in tutto questo la Lega come si pone?

La Lega, come del resto gli altri partiti della destra radicale a tendenza neocomunitarista e xenofoba che si stanno affermando in tutta Europa, richiama il valore de l'”uno vale uno” e dell’omologazione come forma di opposizione alla tolleranza e convivenza tra i diversi, ovvero il pilastro delle società aperte liberal-democratiche. In questo caso anche sulla base di un’idea di radici etniche e di un “uno vale uno” che si basa su chi sta all’interno di una comunità di sangue o di legami etnici.

Prima gli italiani, quindi?

Esattamente, ma anche prima gli americani. Il fenomeno è decisamente globale.

Il suo libro è organizzato come Miti d’oggi di Roland Barthes, in questo caso legato all’egemonia linguistico-politico e culturale dei pop-sov. Popolo, autenticità, tecnologia, disintermediazione e democrazia diretta sono i “miti” coinvolti. Ho l’impressione però che alcune di queste parole stiano franando, penso agli ultimi cambiamenti di rotta sul referendum. È così?

Nel caso del referendum propositivo deve obbligatoriamente prevedere un quorum: un’occasione di democrazia diretta senza quorum è una mitologia antitetica all’idea della partecipazione civica e mobilitazione delle persone. Tornando alla domanda, qui il mito si sta scontrando con la realtà: in questo confronto-scontro con il dato di realtà, la cronaca politica italiana ci sta restituendo l’immagine strumentale di questi miti – perché, non dimentichiamocelo, stiamo parlando di mitologie strumentali consensus oriented – come appunto la disintermediazione e la democrazia diretta, conseguenza della ipostatizzazione che “uno vale uno”.

Qual è la reazione dell’elettorato di fronte a questo confronto?

Generalmente disillusione e disincanto, un tipico passaggio dall’utopia alla distopia. Gli elettori si accorgono che la mitologia è irrealistica e non praticabile. Ma c’è anche la possibilità che le mitologie vengano rilanciate, ed è quello che vediamo della democrazia diretta nell’evoluzione del pensiero politico del MoVimento 5 Stelle, ovvero il fatto che ogni volta che sono costretti a recedere rispetto all’impianto originario, costruiscono altri miti collaterali o danno vita a una comunicazione che è un elemento strutturale della diversione e distrazione di massa.   

Anche il tema della tecnologia e della piattaforma Rousseau sta traballando: il potere logora la rete?

Il potere logora la rete quando la rete stessa è finalizzata alla conquista del potere. Se tutto emerge nella condizione di strumentalità e nella dimensione consapevole del rifiuto delle regole per impedire la tutela del pluralismo, il risultato è quello di generare alcune forme di disillusione. La vera questione è che nel momento in cui le istanze antisistemiche diventano sistema, comincia a diventare chiaro che una parte significativa di queste istanze avesse un presupposto di conquista del consenso e prescindesse da tutta una serie di dati concreti come il fatto che governare sia molto complicato.  Si è visto bene nella discussione della manovra di bilancio. 

I 5 Stelle sono nella stanza dei bottoni ma comunicano come se stessero ancora all’opposizione, magari schierandosi con i gilet gialli

Già, ma c’è di più. La Casaleggio Associati, soggetto privato detentore della piattaforma Rousseau, attraverso un rappresentante delle istituzioni democraticamente eletto – Luigi Di Maio – ha messo a disposizione la piattaforma a un movimento ribellistico nei confronti di un altro politico alleato e democraticamente eletto – Emmanuel Macron – generando un cortocircuito devastante in maniera lucida e razionale. 

Prima parlava di diversione e distrazione di massa. È in quest’ottica che si spiega il ritorno di Di Battista?

Il richiamo in servizio del riservista Di Battista, essenza del populismo movimentista barricadero, serve per ammaliare l’anima più pseudo-rivoluzionaria e contestatrice del movimento, cioè quella che ha garantito gran parte del consenso al MoVimento 5 Stelle. 

Quale sarà secondo lei il suo ruolo nel futuro?

È difficile capire cosa succede e cosa succederà dentro il MoVimento 5 Stelle, dal momento che non esiste un dibattito pubblico, non ci sono correnti o sensibilità formalizzate. In fondo il Movimento fondato da Grillo è la cosa più vicina a un serial postmoderno. E come nella capacità degli showrunner di costruire caratteri o cambiare la sceneggiatura in relazione all’audience, in questo caso il richiamo di Di Battista corrisponde a un calo di consenso per l’esperienza governativa, così affiancherà il protagonista Di Maio e si dedicherà alla funzione di ristrutturare l’offerta di populismo movimentista e antisistemica del MoVimento 5 Stelle tenendo un piede dentro e un piede fuori.

Di Battista è il cliffhanger…

Esattamente. È precisamente questo, è l’esportatore del modello rivoluzionario ritornato dal sudamerica che si propone ai movimenti dei gilet gialli e rispetto ad altre realtà ribellistiche e insurrezionali. Una sorta di commesso viaggiatore della rivoluzione. 

C’è da dire che tutto questo ha una sua logica perversa: funziona davvero?

Il lavoro che il MoVimento 5 Stelle fa sulla comunicazione, o meglio sull’istantaneità della comunicazione, è estremamente efficace. 

In questo forte mutamento del clima di opinione, di grande confusione collettiva e di riduzione d’impatto del dato di realtà, i partiti pop-sov si propongono come scatole vuote nei quali ciascuno può scegliere l’istanza o l’elemento ritenuto curativo o che può sublimare le frustrazioni individuali. 

In questo il MoVimento 5 Stelle è un esperimento fortemente riuscito che risponde al bisogno di autocomunicazione del narcisismo individualista di massa, come dice Castells, dove ciascun mittente appartenente alla massa elabora in modo autonomo il messaggio e lo trasmette alle sue reti di destinatari attraverso i social. 

L’istantaneità della comunicazione ha contribuito a tagliare le gambe alla sinistra, che ha già i suoi problemi congeniti e assenza di leadership

Questo tipo di comunicazione ha in effetti soffocato il dibattito parlamentare, basato sul dialogo e sul compromesso. La sinistra è strutturalmente in difficoltà perché ha mancato l’appuntamento con la postmodernità. 

Quali sono oggi gli elementi richiesti dalla postmodernità in politica?

Sono principalmente cinque: una leadership adeguata, una capacità di comunicazione in grado di reggere la comunicazione della società, efficacia ed efficienza rispetto ai processi e alle trasformazioni sempre più rapide, capacità di costruire una forma organizzativa e infine capacità di definire l’agenda non da inseguitore ma da precursore. Di fronte a tutte queste trasformazioni della postmodernità la sinistra è rimasta completamente spiazzata e la possibilità di restare oggi nel mercato politico richiede un’offerta che sia in grado di risultare forte rispetto a queste dimensioni. 

Renzi ci aveva provato?

Renzi ha adottato modalità e tecniche di populismo soft. Ha intercettato il cambiamento, però la brevità di questa sua esperienza è legata al fatto che probabilmente il modello progressista in generale non è a proprio agio con queste trasformazioni.

Durante le presentazioni si è mai trovato di fronte interlocutori che confutavano le sue riflessioni e analisi? Penso che un potenziale rischio del suo libro, come altri del genere, sia quello del confirmation bias e che quindi venga letto e commentato da chi già è convinto di questo

Per adesso di presentazioni ne ho fatte davvero poche e tutte abbastanza in una dimensione di confirmation bias. Sono d’accordo con lei. Anche in questo caso l’America è stata l’apripista riguardo a dibattiti pubblici in cui non si riescono a confrontare posizioni differenti. La polarizzazione è la conferma dell’esattezza del direttismo tecnologico e che abita nelle filter bubble, un contesto in cui i partiti neopopulisti costruiscono varie e diverse isole di discorso e dibattito pubblico. Tornando alla domanda, da parte mia ovviamente c’è la massima disponibilità. 

In un suo libro del 2010 L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip lei critica l’ideologia dominante di una sottocultura televisiva formata dai vari Ricci, Signorini, Vespa e Maria De Filippi. Qual è la situazione oggi?

La prima considerazione che mi viene da fare è che gli anni ’80 non sono mai finiti in Italia, e questo confermerebbe la tesi per cui oggi viene utilizzata la rete in una modalità neotelevisiva. L’utilizzo della rete di Grillo specie nel momento antecedente all’ascesa è stato un utilizzo fondamentalmente verticale. La tv degli anni ’80 ingloba il pubblico, ne fa un attore importante ma non primario, cioè lo introietta, ne apprende delle istanze, costruisce un meccanismo di rispecchiamento che però è già scritto, sceneggiato, controllato al suo interno. 

Esiste già un’egemonia mediatica?

La piattaforma Rousseau. È un’apparente dimensione di interazione che è la grande richiesta del web dal 2.0 alle numerazioni successive, ma in cui tutto è particolarmente controllato, dove gli spazi di libertà sono definiti nel loro percorso e rispetto all’esito finale. 

È come il Bandersnatch di Black Mirror, tutto è scritto: quanto meglio è scritto, tanto più è possibile percepire e vivere una dimensione di libertà e di scelta da parte del consumatore /spettatore / fruitore. Non è un caso che Grillo venga dalla tv anni ’80 e che uno dei suoi principali autori sia Antonio Ricci. 

Cosa c’entra Ricci?

Guardi, lungi da me qualunque dimensione vagamente dietrologica e complottistica, che è peraltro tipica dei pop-sov. Tuttavia quello che è avvenuto è una sorta di grande vittoria postuma del situazionismo: la tv berlusconiana è una tv in cui la componente ricciana è puramente situazionista, come ad esempio lo è oggi anche Freccero. 

Il mondo e l’opinione pubblica neopopulista è immersa in una sorta di grande blob dove l’“uno vale uno” e l’orizzontalizzazione danno la sensazione dell’impossibilità di ordinare messaggi e contenuti. 

Ed è quello che accade precisamente sulla rete: potremmo dire che la rete è una sorta di grande realizzazione dell’idea del Rizoma del 1977 e della punta finale del situazionismo. Mi pare che l’ecosistema mediatico odierno vada molto in questa direzione e in questo c’è la realizzazione delle premesse che c’era nella tv anni ’80, berlusconiana in particolare, anche con una dimensione nostalgica. 

Erano gli anni delle grandi aspettative individuali, c’era un ottimismo di fondo

Quella dimensione ottimistica dell’autorealizzazione degli individui porta oggi a un contesto di totale individualizzazione con le premesse che sono venute a mancare, per cui rimane solo rabbia, rancore, l’impossibilità di realizzarsi e la possibilità di comunicare e di autocomunicare. Però secondo me, o meglio, secondo fonti più autorevoli di me, quello è il turning point, cioè non si può pensare l’Italia oggi senza il berlusconismo culturale, la trasformazione profondissima che ha impresso. Oggi l’Italia è il Paese in cui rispetto a certi indicatori la distanza tra realtà e percezione è il più elevato dell’intero UE. Questo è l’inevitabile effetto del berlusconismo.

Chiudiamo: e la comunicazione di Salvini – Zelig con le divise e testimonial-consumatore di prodotti di largo consumo?

In termini di plausibilità possiamo dire che c’è per un verso una dimensione di comunicazione molto attenta e forte e che ha prodotto il consenso che conosciamo. C’è sicuramente un talento individuale e una capacità di interpretare e di essere ricettivi rispetto allo spirito dei tempi. 

È chiaro che il personaggio Matteo Salvini è un personaggio costruito, si capisce dalla sua evoluzione da giovane comunista padano che era fino al campione della destra europea che è diventato. 

La sua caratteristica di Zelig nell’indossare con costanza le uniformi delle forze dell’ordine ci dicono che la forma è sostanza e che la divisa delle forze dell’ordine è la divisa di tutti: questi cortocircuiti comunicativi tendono a far coincidere il ruolo di capi politici, uomini di governo e istituzione. Ma il tema principale è quello del principio maggioritarista, cioè scambiare il governo non per l’esecutivo che ha la responsabilità del “corpo della nazione”, ma l’idea che il governo corrisponda alla maggioranza che lo ha eletto. Questo è il segnale più preoccupante.

(ANSA il 17 giugno 2022) - "E' normale che l'elettorato sia disorientato ma alle elezioni amministrative non siamo andati mai così male". Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (M5S) parlando con i cronisti davanti alla Camera. Secondo Di Maio "non si può risolvere l'analisi del voto facendo risalire i problemi all'elezione del presidente della Repubblica".

"Credo che M5S debba fare un grande sforzo nella direzione della democrazia interna: nel nuovo corso servirebbe più inclusività, anche a soggetti esterni": lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (M5S) aggiungendo, rivolto ai cronisti: "lo dico a voi perché non esiste un altro posto dove poterlo dire".

"Non si può sempre dare la colpa agli altri, non si può risalire all'elezione del Presidente della Repubblica per dire che le elezioni amministrative sono andate così male. Credo che bisogna assumersi delle responsabilità rispetto ad una autoreferenzialità che andrebbe superata". 

Così il ministro 5 Stelle Luigi Di Maio che commenta il risultato delle amministrative, premettendo: "Il corpo diplomatico italiano lavora 7 giorni su 7 dal primo giorno di questa guerra, anzi da prima che scoppiasse: non lavora solo la domenica. E in questi giorni molte persone mi hanno chiesto un commento sulle elezioni". "Non abbiamo mai brillato nelle elezioni amministrative: io ne sono testimone. Ma non siamo mai neanche andati così male. E questo succede quando l'elettorato è disorientato. Credo che il M5s debba fare un grande sforzo di democrazia interna".

(ANSA il 17 giugno 2022) - "Il mio telefono non è mai squillato". Così il presidente del M5s Giuseppe Conte risponde a chi gli fa notare le parole di Di Maio sulla mancanza di democrazia interna nel M5s. "La posizione del Movimento è stata ribadita nel consiglio nazionale e Di Maio si è anche dimesso dal comitato di garanzia".

"Di Maio intende fondare un nuovo partito? Non mi faccia entrare nella testa altrui: questo ce lo dirà lui in queste ore". Così il leader M5s Giuseppe Conte. 

 "Negli ultimi giorni ho riunito un consiglio nazionale e ho fatto due conferenze stampa in cui abbiamo analizzato il risultato del voto: io so come assumermi le responsabilità". Lo ha detto il presidente del M5s Giuseppe Conte, parlando con i giornalisti

 Con l'avvio del voto sul doppio mandato "siamo alla vigilia di momenti molto importanti per il M5s. Fibrillazioni erano prevedibili perché ci sono in campo questioni che riguardano le sorti personali di tanti nel M5s". Lo ha detto il presidente del M5s Giuseppe Conte, parlando con i giornalisti. "Su questo punto, io l'ho detto subito: decidono gli iscritti. Invito tutti ad affrontare questo snodo con serenità".

"Quando era leader Luigi Di Maio come organismo del M5s c'era solo il capo politico: che ci faccia lezioni lui oggi fa sorridere". Lo ha detto il leader M5s, Giuseppe Conte, a Roma, parlando con i giornalisti.

"E' una stupidaggine dire che in politica estera il M5s sia anti-atlantista. La nostra posizione è chiara e non è mai stato messo in discussione il nostro atlantismo". Lo ha detto il presidente del M5s Giuseppe Conte, parlando con i giornalisti.

(ANSA il 17 giugno 2022) - "Noi non stiamo guardando al 2050 ma è una forza politica che sta guardando indietro. Che senso ha cambiare la regola del secondo mandato? Io invito a votare gli iscritti secondo i principi fondamentali del Movimento perché questa è una forza che si sta radicalizzando all'indietro". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in dichiarazioni alla stampa a Castellamare sul tema del secondo mandato.

"Mi sono permesso semplicemente di porre dei temi per aprire un dibattito su questioni come la Nato, la guerra in Ucraina, la transizione ecologica e ho ricevuto insulti personali come quello che ho visto sui giornali stamattina. 

Temo che M5s rischi di diventare la forza politica dell'odio, una forza politica che nello statuto ha il rispetto della persona. Credo che dobbiamo parlare dei temi, il nostro elettorato è disorientato perché quando si pongono dei temi ci sono attacchi personali e questo non è accettabile". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, parlando con i giornalisti a Castellamare, sullo scontro con Conte.

"Siamo alla vigilia di un importante Consiglio Ue, noi faremo di tutto perché Draghi vada al tavolo con la massima forza e con la massima possibilità di rappresentare il Paese con una coalizione compatta. Leggo in queste ore che una parte di M5s vuole inserire nella risoluzione frasi e parole che disallineano l'Italia dalle sue alleanze storiche, la Nato, l'Ue e da quella che è la sua postura internazionale. Noi non siamo un Paese neutrale, siamo un Paese che ha alleanze storiche. Non diamo grande prova di maturità politica quando strumentalizziamo il presidente del Consiglio". Così il ministro Luigi Di Maio a Castellamare.

"Non è chiara la nostra ricetta per il Paese e questo spiega perché nella nostra coalizione il Pd sale e noi scendiamo. Forse perché non abbiamo ben chiare le ricette per il nostro Paese". Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio parlando con i giornalisti a Castellamare.

Stefano Folli per “la Repubblica” il 17 giugno 2022.  

Allora sembra che siano i Cinque Stelle i primi a esplodere. Dopo la disfatta di domenica era solo questione di tempo, ma c'era la curiosità di capire chi dei due, Conte o Salvini, avrebbe inaugurato la resa dei conti. Salvini è riuscito a guadagnare tempo con l'espediente di rinviare a settembre un'improbabile "verifica" sull'agenda di Draghi. 

Viceversa i 5S, molto meno strutturati e organizzati della Lega, sono subito andati in cortocircuito. Da tempo Di Maio ha ben poco in comune con l'avvocato pugliese e anche con quel che resta dello spirito originario del "grillismo". Tuttavia egli è il responsabile degli Esteri in una situazione di crisi internazionale, con la guerra che lambisce l'Europa: fa parte a tutti gli effetti dell'establishment e agisce da ministro in stretto raccordo con il presidente del Consiglio e il capo dello Stato.

È credibile che le manovre tattiche di Conte, peraltro impacciate, possano incrinare il governo in un momento come questo? In un certo senso è possibile, tanto che Di Maio è uscito dai suoi silenzi e ha attaccato il rivale, pur senza nominarlo. Ha capito di essere lui la vittima designata: lui e il suo incarico alla Farnesina che rappresenta la garanzia di tenere il M5S, il gruppo più forte nell'attuale Parlamento, ancorato alla politica estera europea e atlantica (testimoniata giusto ieri dalla visita a Kiev di Draghi insieme a Macron e Scholz). 

Non a caso nei 5S si parla adesso di un'ipotesi bizantina, forse troppo per essere credibile: uscire dal governo, ma restare nella maggioranza parlamentare. Sarebbe un'operazione tipica degli anni lontani della Prima Repubblica, proprio quel mondo che i "grillini" dicevano di voler contestare. Va detto che Conte ieri a Bologna, a Repubblica delle Idee, l'ha smentita in modo abbastanza netto. Peraltro, messa in atto oggi, questa manovra danneggerebbe il governo Draghi in forme quasi irreparabili.

Lo indebolirebbe, proprio per il peso rilevante dei 5S alle Camere. E al tempo stesso costringerebbe il premier ad assumere l'interim degli Esteri oppure ad assegnare quel ruolo delicato a un altro partito della coalizione. Ma a chi? Qualunque scelta creerebbe uno squilibrio che di questi tempi è consigliabile evitare. 

Ecco allora che Di Maio difende se stesso, ed è inevitabile che lo faccia anche pensando al rischio di non essere candidato per il terzo mandato. Ma difende altresì un assetto generale in politica estera che Draghi e Mattarella vogliono tutelare. In altre parole, le mosse di Conte tendono a creare una certa instabilità, a cominciare dal tema cruciale della lealtà atlantica in uno scenario di guerra.

Ora, è evidente che l'alleanza con il Pd asse portante del famoso "campo largo" - impone ai Cinque Stelle il dovere di chiarire chi sono e dove vogliono andare. In questo momento tutto lascia pensare che Conte e Di Maio non siano più in grado di convivere. E la spaccatura è proprio sulla politica estera, benché l'ex premier - forse non del tutto a torto - abbia insistito a Bologna nel dire che il problema urgente del ministro è più che altro l'incertezza sul terzo mandato.

In realtà l'ambiguità del partito "contiano" sull'Ucraina e su altro è oggi un tema cruciale che Letta non potrà mettere tra parentesi. A maggior ragione se si arrivasse alla frattura finale con l'ala governativa rappresentata da Di Maio.

Federico Capurso per “la Stampa” il 17 giugno 2022.

Deve aver vissuto un déjà vu, Giuseppe Conte, quando ieri mattina ha visto le immagini di Luigi Di Maio attorniato dai cronisti in piazza del Parlamento. Lo stesso luogo in cui, nel gennaio scorso, dopo la rielezione di Sergio Mattarella a presidente della Repubblica, si era consumato il primo strappo tra i due. Stesso luogo, stessi toni incendiari. 

Ma stavolta nessuno intorno a Di Maio, nemmeno tra i suoi fedelissimi, si spinge a dire: «Luigi non lascerà mai il Movimento». Una frase che negli anni più turbolenti vissuti dall'ex capo politico M5S era diventata un punto fermo di ogni prospettiva politica, una convinzione incrollabile su cui si infrangevano polemiche e schermaglie interne. E che in queste ore, invece, non si vuole ripetere.

Conte è spiazzato, «ma non lo cacciamo via», assicura parlando con La Stampa, perché «in realtà Di Maio si sta cacciando da solo». Aveva notato, in mattinata, la dichiarazione con cui il senatore del Pd Andrea Marcucci benediva la possibilità di un'alleanza con «un Movimento di Di Maio». I suoi collaboratori gli avevano portato l'agenzia e Conte, adesso, unisce i puntini: «È un assist centrista, un bacio telematico. Si parla di movimenti al centro, si vedrà cosa succederà». 

L'ex premier è convinto che Di Maio elettoralmente non abbia peso. Potrebbe entrare nel grande centro, è vero, ma un conto è farlo al fianco di Carlo Calenda, Giancarlo Giorgetti e Mara Carfagna, con cui - sostiene Conte - non avrebbe davanti a sé floridi orizzonti elettorali. Diverso, invece, sarebbe se in questa forza politica entrassero anche governatori di peso come i leghisti Massimiliano Fedriga e Luca Zaia. 

L'ipotesi di una scissione è davvero concreta. Si potrebbe consumare il 21 giugno, quando Mario Draghi sarà in Parlamento e la maggioranza dovrà votare una risoluzione in cui Conte vorrebbe inserire lo stop all'invio di altre armi all'Ucraina. Qualcuno ventila anche l'ipotesi che i Cinque stelle, in quell'occasione, possano provocare una crisi, ma l'ex premier allontana certe suggestioni: «Macché usciamo! È vero, tutti mi chiedono di farlo, ma io non sono uno che gioca partite doppie. E vi sembro poi un antiatlantista e antieuropeista? Non lo sono affatto e non lo sono mai stato».

 I rapporti con palazzo Chigi però sono ridotti all'osso, lo riconosce lo stesso leader M5S: «Il problema vero, con Draghi, è che manca una dialettica politica.

Noi abbiamo un gigantesco problema di politica economica, ma che cosa vuole fare il governo, qualcuno lo ha capito? Io no, perché Draghi non lo spiega».

Per Conte, sopra ogni cosa, «manca un luogo nel quale discutere. Ormai sono saltate anche le cabine di regia, mentre c'è una recessione alle porte. È questa una sana democrazia?». 

Niente di personale, assicura, «io non ce l'ho con Draghi, ma lui deve ascoltarci e trovare luoghi nei quali questa dialettica politica si deve sviluppare, perché altrimenti, così, non possiamo andare avanti».

L'ex premier è concentrato sull'attività di governo e sulle risposte che il Movimento deve dare ai cittadini, perché anche da qui passa il risultato deludente delle Amministrative. Conte a La Stampa non nasconde che «abbiamo avuto una scarsa performance elettorale alle Amministrative, su questo non ci sono dubbi». 

Lo ripete anche per scacciare l'accusa di non volersi assumere la responsabilità della sconfitta, lanciata ieri da Di Maio. Però, aggiunge, «abbiamo studiato un'analisi molto approfondita del voto e quello che viene davvero fuori con forza è il peso dell'astensionismo», dice. Un peso che grava soprattutto sulle spalle dei Cinque stelle: «I nostri elettori sono i più astensionisti, rispetto a tutti gli altri partiti, ma questo è un problema che riguarda tutta la nostra democrazia».

L'astensione in alcune città, come a Palermo, «è arrivata al 60% - fa notare ancora Conte -. Dobbiamo tutti fare una grande riflessione». Nel frattempo, i tentativi di riallacciare i fili tra Conte e Di Maio falliscono, uno dopo l'altro. Interviene anche Beppe Grillo, ma il Garante non ha certo il carattere più adatto a smussare gli angoli e ricomporre le fratture. Ieri mattina ha cercato Di Maio, senza riuscire a parlarci.

Poi nel primo pomeriggio ha chiamato Conte e il senso del messaggio recapitato è questo: «Se non vuoi ricucire con Luigi, ne hai tutto il diritto, ma preparati alle conseguenze. La responsabilità è tua». Un via libera ruvido, in cui resta sommersa una marea di obiezioni, ma il leader M5S di più non poteva chiedere.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 17 giugno 2022.

Quello di ieri è solo il gong: è l'inizio di un duello che potrebbe protrarsi a lungo (e che ha radici antiche, che partono dal governo gialloverde). Giuseppe Conte e Luigi Di Maio sono metaforicamente come due pugili pronti a darsele di santa ragione, tutti e due in nome del Movimento. 

Stavolta il ministro degli Esteri ha atteso, non ha agito d'impulso come fu a gennaio per il Quirinale: ha soppesato le parole del presidente. Ha guardato i risultati elettorali, ipotizzato l'andamento dei Cinque Stelle, sentito le giustificazioni del leader (comprese le interferenze dovute alle tensioni interne), ascoltato i parlamentari a lui vicini. E si è mosso.

I vertici sono rimasti «sorpresi» dalla tempistica, visto che le dichiarazioni del ministro sono state rilasciate in un «giorno importante» per la politica estera e sottolineano anche come siano sembrate inappropriate le frasi sulla democrazia interna. 

Secondo l'inner circle che guida il M5S a spingere il titolare della Farnesina sono le votazioni sul tetto dei due mandati (la norma che vincola gli stellati a fare solo due legislature da politici di professione, limite che molti M5S hanno raggiunto) e il fatto che Conte non abbia voluto esprimersi in difesa dei big. I dimaiani fanno spallucce: sorridono all'idea che Di Maio possa essere spaventato dai due mandati. E aprono una questione politica: c'è chi parla di visione del Paese, chi di mancata inclusività, chi di «progettualità assente».

La sensazione che circola nel Movimento è che ci siano due idee radicalmente diverse, inconciliabili, della rifondazione stellata (voluta anche da Di Maio).«Luigi ha detto cose giuste, ma nel modo sbagliato», dicono alcuni insospettabili. Di sicuro il tema dei due mandati infiamma anche chi si è schierato con Conte ed è alla seconda legislatura. Diversi sono i big a rischio. Il presidente è deciso ad andare avanti: vuole un partito compatto con volti nuovi e una nuova identità. Il ministro, invece, teme che gli stellati si stiano infilando in un vicolo cieco, con una identità indefinita e con un blocco monolitico ai vertici miope nei confronti delle altre sensibilità.

Cosa accadrà ora? Le espulsioni non sono una carta sul tavolo. E poi, viste le controversie legali in atto che indirettamente limitano l'azione dei probiviri, al momento la sanzione più probabile potrebbe essere una sospensione per eventuali dissidenti. La scissione è una carta che va tenuta in considerazione, ma non con tempi rapidi. Ciò che è certo è che una scissione spaccherebbe in modo irrimediabile il Movimento. 

Ci saranno altri round. Il primo, che potrebbe far precipitare la situazione, è tra soli quattro giorni. La risoluzione sull'Ucraina del 21 giugno potrebbe essere uno spartiacque. Le frasi sull'antiatlantismo contiano sono solo l'antipasto.

Le due visioni si scontreranno e potrebbero nascere polarizzazioni con percorsi opposti. «L'Italia ha bisogno di un sistema politico che sappia mettersi in discussione per dar vita a una fase costituente e affrontare le riforme di cui il Paese ha bisogno. Il leaderismo ha fallito», dice Vincenzo Presutto. Per il senatore «il Movimento è morto, quello che sta nascendo è qualcosa di anacronistico».

Il round successivo potrebbe arrivare una settimana dopo proprio con la votazione sul limite dei due mandati. Al momento, secondo le indiscrezioni, l'ipotesi più probabile è che agli attivisti venga prospettata una possibilità di inserire eventuali deroghe per meriti. «Una lista di nomi ancora non c'è», assicurano nel partito.

Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 17 giugno 2022.  

Dice Di Maio che "il nostro elettorato è disorientato e non ben consapevole di quale sia la visione". E noi, per quel che vale, siamo totalmente d'accordo con lui. Basti pensare che c'è un ministro M5S che, mentre la base respira di sollievo per la vittoria di Conte al Tribunale di Napoli, si affretta a riaprirgli la guerra in casa e a regalare ai media il pretesto per parlare di nuovi casini interni, anziché di salario minimo e stop al riarmo.

Lo stesso ministro che disorienta gli elettori scattando come un misirizzi al solo annuncio del voto degl'iscritti sui 2 mandati dopo averli sempre difesi: "Dopo il secondo mandato lascio la politica. Da noi c'è una regola: dopo due mandati, a casa. Non solo per la corruzione, ma per la perdita di entusiasmo. Perciò ci votano: siamo persone serie" (6.2.2017);

"La regola dei due mandati non si tocca, né quest' anno né il prossimo né mai. È certo come l'alternanza delle stagioni e come il fatto che certi giornalisti continueranno a mentire scrivendo il contrario" (31.12.18); "I due mandati mai messi in discussione, ma si fa politica anche senza cariche" (21.11.19). 

Di Maio aggiunge che "i nostri elettori sono molto disorientati per l'ambiguità sulle alleanze internazionali". Sante parole: deve avercela con l'ex capo politico che nel 2019, da ministro e da vicepremier, abbracciava i Gilet gialli e ora si scappella ai piedi di Macron.

E come non condividere il disorientamento degli elettori per la minaccia contiana di dire basta alla cobelligeranza con invii di armi sempre più pesanti all'Ucraina "mettendo nella risoluzione, che impegna il premier in Consiglio Ue, frasi o contenuti che ci disallineano dalle nostre alleanze storiche", magari con la scusa dell'art. 11 della Costituzione?

Queste magliarate può farle solo quell'ex capo politico disallineato che il 15.4.18 condannò il raid missilistico di Usa, Uk e Francia contro la Siria: "Bene ha fatto Gentiloni a non partecipare all'attacco, bisogna continuare con la diplomazia. Per me il faro rimane l'articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra".

Da applausi poi le parole di Di Maio sull'assenza di un organo democratico del M5S per discutere la sconfitta alle Comunali. Ma, più che a Conte che di organi e comitati ne ha creati fin troppi, la polemica pare rivolta a quell'ex capo politico che, mentre il M5S crollava dal 33 al 17%, ne discuteva nella sede più democratica mai vista: lo specchio. 

È lo stesso che prima attaccava Draghi e ora lo idolatra. Che a gennaio ha sabotato la trattativa del suo leader per il Quirinale con Renzi e Guerini. E che, quando non è in pizzeria con Giorgetti, comizia con la signora Mastella. È una fortuna, per Di Maio, che quel capo politico si sia dimesso: sennò l'avrebbe già espulso da un pezzo.

La vergogna di Travaglio messa a nudo da Crosetto. Francesco Storace Il Tempo il 29 dicembre 2020

Merita davvero applausi Guido Crosetto. Per il suo tweet in cui svergogna Marco Travaglio che istiga Giuseppe Conte a fare incetta di parlamentari “dall’altra parte” pur di mandare al diavolo Matteo Renzi e continuare a stare a Palazzo Chigi a gestire potere.

Etica addio, potrebbe essere il titolo ideale di un articolo come quello che ha messo su Il Fatto Quotidiano. Crosetto non si è fatto sfuggire l’occasione di dire pane al pane e vino al vino e le ha cantate come si deve: “Travaglio auspica che Conte trovi 10 parlamentari dell’opposizione, in vendita. Chiaramente non pensa a gente come Razzi o Scilipoti che lui ha insultato per mesi. No, giammai! Quelli non aiutavano un suo protetto. Lui è tutto ciò che ha sempre criticato, solo più in grande”.

Ha fatto bene, Crosetto, perché dovrebbe esserci un limite a tutto. Il giornale campione della lotta alla vecchia politica si è trasformato peggio dei Cinque stelle – pari sono – e ora vorrebbe dare una ripassatina di campagna acquisti alla politica per salvare Conte. Ma non vi facevano schifo questi metodi, Travaglio? E poi, perché un quotidiano deve scrivere certe cose? La “politica” fagliela fare al clan di Palazzo Chigi, non ti mischiare ancora con loro.

M5S, Grillo si getta nella mischia. Tra Conte e Di Maio sacrifica il ministro: "La regola del secondo mandato non va toccata". Il Tempo il 17 giugno 2022

Alla fine anche Beppe Grillo si getta nella mischia della contesa tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. E pare scegliere il primo. Il garante del M5S interviene sul suo blog e parla della necessità di non rinunciare alla regola del secondo mandato. E Di Maio è proprio al secondo mandato, quindi stando alle regole del Movimento non potrebbe ricandidarsi alle prossime elezioni politiche.  "Negli Stati Uniti, per esempio - scrive Grillo - ci sono diverse regole che favoriscono il ricambio dei gestori nelle società quotate, da quelle sulle offerte pubbliche d’acquisto, a quelle sulla raccolta di deleghe, a quelle sul cosiddetto attivismo societario, e così via. Regole che favoriscono il ricambio dei gestori esistono, in teoria, anche nei sistemi politici democratici. Tuttavia in questi casi l’interesse dei cittadini è troppo parcellizzato rispetto allo sforzo necessario per sostituire i governanti, sicché accade che gli unici a farlo siano i cittadini il cui unico obiettivo è di sostituire sè stessi ai governanti di cui si chiede il ricambio, e non di tutelare meglio l’interesse dei cittadini".

Poi, dopo questa premessa, Grillo continua: "Per questa ragione appare sempre più opportuno estendere l’applicazione delle regole che pongono un limite alla durata dei mandati. Il dilemma può essere superato in altri modi, senza per questo privarsi di una regola la cui funzione è di prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo". Fonti parlamentari "contiane" vicine al garante M5S sottolineano come quest’ultimo passaggio di Grillo sia un riferimento al "sacrificio" di Di Maio per il doppio mandato. 

Dagospia 16.06.2022.

Matteo Macor e Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 16.06.2022.

La domanda a questo punto sorge spontanea: se non ci crede più neanche il creatore, fondatore e garante, perché dovrebbero farlo gli elettori? Sì, perché Beppe Grillo domenica scorsa non è andato a votare il Movimento 5 Stelle alle elezioni comunali. Nel seggio 617 di Genova, quello dove si recano i residenti della bella collina a ridosso del mare di Sant' Ilario, tra gli otto voti ai 5 Stelle (ovvero il 2,5 per cento delle preferenze in quella sezione) non c'era il suo. Il comico da giorni è fuori città e a confermarlo, più o meno direttamente, sono gli stessi portavoce locali del M5S.

Cinque anni fa Grillo si presentò fuori dall'istituto di agraria non molto distante dalla sua villa in scooter, assieme alla moglie Parvin Tadjk; plateale come sempre, entrò nella cabina elettorale col casco in testa. «Invito tutti ad andare a votare: è importante!», scrisse quel giorno sui social. Nel 2017 il comico fece un comizio davanti a Palazzo Ducale, ma soprattutto intervenì direttamente sulla competizione genovese quando d'imperio decise di annullare il voto online delle comunarie perché aveva vinto una candidata sindaca non di suo gradimento, Marika Cassimatis.

Un protagonismo anche eccessivo, con quel colpo di spugna che in un tratto solo cancellò tutte le ripromesse sulla democrazia diretta della rete. Ma comunque, nel frattempo è cambiato qualcosa, anzi parecchio. Come detto ne sono accorti gli stessi attivisti locali del Movimento: Grillo in campagna elettorale non s' è mai fatto vedere, neanche quando Giuseppe Conte e il presidente della Camera Roberto Fico, nella sua prima e vera uscita pubblica non istituzionale di questi mesi, sono venuti a Genova per tirare la volata alla lista.

Oggi il candidato scelto nel 2017 al posto della candidata sindaca nominata dalla base sul blog e destituita da Grillo, cioè Luca Pirondini, è rimasto l'unico reduce in Consiglio comunale, l'ultimo nella città del (fu) "elevato": «Beppe non ha votato? Il problema è un altro - taglia corto sul tema, senza smentire la notizia sul voto mancato del garante - Mai come ora ci serve con urgenza questa benedetta riorganizzazione sul territorio del Movimento, sennò saremo condannati a dire per sempre che le amministrative non sono il nostro terreno elettorale più adatto, e commentare sconfitte».

In alleanza con il Pd, nella tornata appena conclusa i 5 Stelle sostenevano la corsa di Ariel Dello Strologo, il candidato sindaco scelto in accordo con i dem per allargare e testare il fronte anche in vista delle Politiche del prossimo anno. È andata parecchio male: il sindaco uscente del centrodestra Marco Bucci ha vinto al primo turno, e il M5S ha racimolato il 4,4 per cento, sorpassato anche da Europa verde- Linea condivisa di Ferruccio Sansa (5,2 per cento).

Certamente almeno al momento del voto l'"uno vale uno" per davvero e quindi la preferenza di Grillo avrebbe cambiato di niente l'esito finale, ma in fondo Genova non è più la città culla del Movimento ormai da tempo. A raccontarlo, in questi anni, è stata anche la diaspora continua dei parlamentari di casa, passati - tra espulsioni e fuoriuscite, le ultime dopo la nascita del governo Draghi - da otto a tre. Come dimenticare l'addio di una delle preferite di Grillo, la ormai ex plenipotenziaria Alice Salvatore che fu candidata alla presidenza della Liguria nel 2015? Oppure quello di Paolo Putti, exploit alle Comunali del 2012, poi transitato nella sinistra radicale?

Così oggi la valenza della diserzione del fondatore, proprio in una tornata che certifica l'affossamento elettorale delle cinque stelle nelle varie salse, è tutta politico-simbolica. Nonostante l'accordo da 300 mila euro l'anno con il suo (?) M5S per veicolare attraverso beppegrillo. it materiali politici e di propaganda proprio del M5S, il fondatore pare freddo rispetto al cosiddetto nuovo corso. "Corea del Sud: sempre più aziende sostituiscono i lavoratori con i robot", è l'ultimo articolo pubblicato sul blog. Prima ancora, altri post su pannelli solari, fertilizzanti e «il controllo di dispositivi tramite segnali elettrici del cervello».

C’era una volta. Le baruffe chiozzotte tra Di Maio e Conte per quel che resta del Movimento (cioè nulla). Mario Lavia su L'Inkiesta il 17 Giugno 2022.

Dopo la batosta alle amministrative, il ministro degli Esteri si è svegliato e ha deciso di riprendersi la leadership dei grillini. L’avvocato teme una scissione e non può permettersi in questo momento di far cadere il governo.

Primo effetto delle amministrative: si apre ufficialmente la guerra civile nel Movimento 5 stelle, il partito-fantasma che si aggira nei meandri della politica come un vecchio Re abbandonato da tutti. Non sarà un caso che proprio nel giorno in cui il detestato successore a Palazzo Chigi, Mario Draghi, si conferma con il viaggio a Kiev più che mai un punto di riferimento fortissimo a livello mondiale, sulla testa di Giuseppe Conte, ormai non più punto di riferimento di nessuno, piombi la botta di Luigi Di Maio. 

Ha bruciato i tempi, il ministro degli Esteri, di cui si attendeva lo sgancio della bomba dopo i ballottaggi. Ma ha scelto di parlare subito, ora che la cenere è ancora calda nel braciere della disfatta di domenica scorsa, tagliando la strada all’avvocato così che egli non possa avere tempo di riprendere fiato (d’altronde la sentenza di Napoli che lo ha confermato presidente del Movimento non ha avuto alcun peso).

Il momento è adesso, almeno per un primo uppercut per farlo vacillare, il tempo per mandarlo al tappeto verrà. Giunge dunque a maturazione, nel senso che ormai è squadernato, il conflitto tra Di Maio e Conte, uno scontro che non nasce certo oggi ma che già era evidentissimo nei giorni del Quirinale quando il legale della provincia di Foggia ne aveva combinate più di Carlo in Francia, in tandem con Salvini, prima di essere sbattuto fuori dalle trattative grazie al consenso crescente per la conferma di Sergio Mattarella. 

«Bisognerà discutere…», aveva detto allora Di Maio, ma poi non se n’era fatto niente almeno pubblicamente pur essendo sempre stato chiaro a tutti che il punzecchiamento pacifista di Conte mirava a creare problemi alla linea pro-Ucraina del governo italiano. Ed è questo il punto politico sul quale avviene la rottura.

Di Maio non ne può più di un Conte antigovernativo. Meglio regolare subito i conti con il Mélenchon de’ noantri. E infatti è da mesi che il ministro degli Esteri attendeva passare sul fiume il cadavere di Giuseppi anche se forse nemmeno lui si attendeva una disfatta così clamorosa: «Non abbiamo mai brillato alle amministrative ma non siamo mai andati così male». 

L’altro punto dolente è questo: che nel Movimento c’è «troppa autoreferenzialità», cioè non c’è neppure «un posto in cui dire queste cose», il che è vero ma suona singolare che Di Maio si ricordi solo adesso di questa a-democraticità che è un aspetto intrinseco alla natura antipolitica e populista del M5s di cui lui stesso è stato per anni il numero uno. Forse a furia di frequentare le cancellerie di Paesi democratici effettivamente ha maturato un’idea diversa da quella che condivideva con Beppe Grillo e Alessandro Di Battista fatta di politica-spettacolo, insulti a mezzo mondo («Il partito di Bibbiano» è opera sua) e una pratica della democrazia interna a colpi di clic e di formazione di cordate di potere.

A ogni modo meglio tardi che mai, ma Conte su questo ha avuto gioco facile: «Che faccia lezioni democrazia interna fa sorridere». E lo ha invitato a una «audizione» in consiglio nazionale. È sdegnato, l’avvocato. Colpito duro.

Il succo dello scontro che suggerisce alcune interpretazioni.

La prima l’abbiamo accennata: si va verso una crisi irreversibile della leadership di Giuseppe Conte. Vedremo come reagirà l’avvocato, che teme una scissione dimaiana che non è impossibile, ma obiettivamente egli non ha molte frecce al suo arco: fare un suo Papeete non sembrerebbe facilmente spiegabile agli italiani in un momento in cui preme la crisi economica ma al tempo stesso l’Italia è guidata da un leader di caratura mondiale. 

È possibile che nei prossimi mesi Conte darà sempre maggiori segni di nervosismo ma dovrà combattere non solo contro Di Maio (e Beppe Grillo che nemmeno è andato a votare di fatto separandosi dall’avvocato nel momento del bisogno, quello del voto) ma contro un sentiment dell’opinione pubblica di quelli che non perdonano, cioè l’aleggiare dell’odore acre del fallito, il «cadavere che putre», come scriveva Dostojevskji.

La gente non perdona. Da un momento all’altro i contiani possono squagliarsi come dopo il 25 luglio. 

Una seconda considerazione è questa, persino ovvia: i leader antidraghiani per eccellenza, Conte e Salvini, sono ormai messi in discussione nei rispettivi partiti, ma anche nel Partito democratico c’è da notare che un forte sostenitore di Draghi come Enrico Letta si è rafforzato – e di converso i più insofferenti, quelli della sinistra, sono costretti a tacere e acconsentire – e persino nel minuscolo Articolo Uno i filo-contiani vicini a Pier Luigi Bersani hanno molto meno forza del più fedele al governo, cioè Roberto Speranza. 

È una fase molto complicata, insomma, ma nella quale il draghismo sembra prevalere un po’ in tutti i partiti (lasciamo ovviamente stare Fratelli d’Italia che vive in un mondo suo). È un’ipotesi, una lettura. 

Quello che è sicuro è che l’azzeccagarbugli di Volturara Appula, cioè il meno draghiano di tutti, è all’ultima spiaggia e forse si trascinerà appresso chi lo cantò come leader dei progressisti italiani, i quali fischiettano ma prima o poi qualcosa dovranno pur dirla, ora che insieme all’ex punto di riferimento dei progressisti anche l’alleanza strategica con lui è tramontata.

È "guerra civile" tra i Cinque stelle sugli armamenti da inviare a Kiev. Pasquale Napolitano il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Spunta una bozza della risoluzione "pacifista" che i 5s intendono portare al Senato martedì. Di Maio si infuria: "Così ci allontaniamo da Nato e Ue, odio contro di me". L'irritazione del Pd.

I contiani preparano l'offensiva finale contro Di Maio e Draghi. La trappola per far cascare il governo e liberarsi del ministro degli Esteri è nascosta nella risoluzione che i senatori grillini stanno scrivendo in vista del 21 giugno, quando il presidente del Consiglio Mario Draghi interverrà a Palazzo Madama e alla Camera, prima del vertice europeo sull'Ucraina del 23 e 24 giugno.

Da ieri circola una bozza del documento grillino, che basta per far esplodere la «guerra civile» in maggioranza e nel Movimento. Una mossa della coppia Casalino-Conte per mettere spalle al muro Di Maio e costringerlo allo strappo? Per la prima volta i Cinque stelle, partito di maggioranza relativa, mettono nero su bianco il no a un nuovo invio (il quarto) a Kiev: «Si impegna il governo a non procedere, stante l'attuale quadro bellico in atto, a ulteriori invii di armamenti che metterebbero a serio rischio una de-escalation del conflitto pregiudicandone una soluzione diplomatica».

Nella bozza della risoluzione, che sarà messa ai voti in Senato, i senatori 5s chiedono di insistere sull'azione diplomatica dopo tre invii di armi. La bozza scatena un terremoto politico. Il ministro degli Esteri Di Maio avverte: «Ho letto che c'è una parte dei senatori M5s che avrebbero proposto una bozza di testo della risoluzione che di fatto ci disallinea dall'alleanza Nato e dall'Ue. La Nato è un'alleanza difensiva e se ci disallineiamo dalla Nato mettiamo a repentaglio la sicurezza dell'Italia, non ce lo possiamo permettere». Per Di Maio «il presidente del Consiglio che deve andare a un tavolo europeo così importante deve avere il Paese dalla sua parte, deve avere la coalizione di maggioranza compatta dalla sua parte e aggiungerei anche l'opposizione».

L'ex capo dei Cinque stelle è certo: «Non possiamo fare cose che possono essere utilizzate dalla propaganda russa per dire che l'Italia sta più con la Russia che con la Nato. Ci sono molti parlamentari che non sono d'accordo con questa linea e io credo da ministro degli Esteri di dover difendere la collocazione geopolitica del nostro Paese».

E infatti l'ambasciatore russo a Roma Sergey Razov si infila nella polemica: «Non tutti in Italia d'accordo su invio armi a Kiev» gongola il diplomatico.

Al ministro degli Esteri, replica la contiana Alessandra Todde, viceministro allo Sviluppo economico: «Se stiamo per cacciare Di Maio? Parlando in una certa modalità credo si stia ponendo fuori dal movimento. Abbiamo organi interni in cui dibattere, il consiglio nazionale». I dimaiani affilano le armi. Laura Castelli, viceministro all'Economia, avvisa i colleghi di partito: «Non voto la risoluzione». Il capogruppo al Senato, Mariolina Castellone (vicina a Di Maio) prova a gettare acqua sul fuoco: «Stiamo lavorando a una risoluzione di maggioranza, sono in corso riunioni tra capigruppo, presidenti delle commissioni Politiche Ue di Camera e Senato con il sottosegretario Amendola sulla risoluzione di maggioranza. Il punto Ucraina sarà inserito lunedì. Ma non è quella la risoluzione a cui stiamo lavorando».

L'uscita dei senatori grillini, però, irrita anche il Pd. «Tutte le forze di maggioranza stanno lavorando per una risoluzione, in vista delle comunicazioni del Presidente Draghi, che abbia come principale obiettivo la costruzione di un percorso condiviso per il raggiungimento, attraverso lo sviluppo dell'azione diplomatica, del cessate il fuoco e del rilancio dei negoziati. Per questo qualsiasi fuga in avanti o iniziative parziali rischiano di complicare il lavoro» recita una nota fatta circolare da fonti Pd. La guerra civile durerà altre 48 ore. Poi si andrà in Aula.

Il post di Beppe Grillo. Un killer di nome “Terzo Mandato”: chi sono i big del Movimento 5 Stelle che sarebbero trombati dalla regola. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

“No al terzo mandato”, lo ha ribadito il garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo in un post messianico e articolato quanto chiaro mentre infuria la faida interna tra il leader politico Giuseppe Conte e il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Il regolamento del M5S prevede ancora oggi che un parlamentare non possa essere eletto per più di due volte, un principio fondante del Movimento che Grillo argomenta come misura di prevenzione al “rischio di sclerosi del sistema di potere” o a una “deriva autoritaria”.

È nel pieno dello scontro Conte-Di Maio, scaturito dalla debacle storica alle amministrative, che esplode il caso in casa 5 Stelle. “Quando era leader Di Maio quello statuto prevedeva un solo organo, il capo politico. Che ora faccia lezioni di democrazia interna a questa comunità fa sorridere. Di Maio vuole fondare un nuovo partito? Ce lo dirà lui in queste ore. Siamo alla vigilia di un appuntamento importante con la valutazione sul doppio mandato. Quindi è un momento di fibrillazione preventivabile per le sorti di moltissime persone del movimento”, ha detto l’ex presidente del Consiglio piccato dalle parole del ministro degli Esteri. “Alle elezioni amministrative non siamo andati mai così male. Credo che M5S debba fare un grande sforzo nella direzione della democrazia interna: nel nuovo corso servirebbe più inclusività, anche a soggetti esterni. Lo dico a voi perché non esiste un altro posto dove poterlo dire”, erano state le parole di Di Maio

Non un bell’ambientino insomma. La regola del secondo mandato potrebbe essere il viatico a una fase tanto nuova quanto incerta del nuovo Movimento. Al momento sui 227 parlamentari pentastellati stanno completando il secondo mandato in 66. E tra questi ci sono anche diversi big del Movimento tra Montecitorio e Palazzo Madama. L’“avvocato del popolo” ed ex premier aveva provato a gestire la situazione pronosticando un voto online degli iscritti. Poi è arrivato il post inequivocabile dell’“Elevato” sul Blog.

“Alcuni obiettano – soprattutto fra i gestori che si arroccano nel potere – che un limite alla durata dei mandati non costituisca sempre l’opzione migliore, in quanto imporrebbe di cambiare i gestori anche quando sono in gamba: ‘cavallo che vince non si cambia’ sembrano invocare ebbri di retorica da ottimati. Ciò è ovviamente possibile, ma il dilemma può essere superato in altri modi, senza per questo privarsi di una regola la cui funzione è di prevenire il rischio di sclerosi del sistema di potere, se non di una sua deriva autoritaria, che è ben maggiore del sacrificio di qualche (vero o sedicente) Grande Uomo”.

A essere tagliati fuori dalle candidature sarebbero tra gli altri lo stesso Di Maio, il presidente della Camera Roberto Fico e la vicepresidente del Senato Paola Taverna. Sarebbe già così una strage di volti e nomi di primo livello del Movimento. Fuori anche i ministri Fabiana Dadone e Federico D’Incà, la viceministra dell’Economia Laura Castelli e altri protagonisti degli anni pentastellati Danilo Toninelli, il capogruppo alla Camera Davide Crippa, il sottosegretario Manlio Di Stefano, il probiviro Riccardo Fraccaro, l’ex capo reggente Vito Crimini, l’ex ministro della Giustizia Alfonso Bonafede.

Altri esclusi eccellenti sarebbero il deputato Sergio Battelli e il tesoriere Claudio Cominardi. La regola non riguarda chi dei due mandati ne ha fatto uno a livello locale. “Noi non stiamo guardando al 2050 ma è una forza politica che sta guardando indietro. Che senso ha cambiare la regola del secondo mandato? Io invito a votare gli iscritti secondo i principi fondamentali del Movimento perché questa è una forza che si sta radicalizzando all’indietro”, ha dichiarato Di Maio prima dell’affondo: “Mi sono permesso semplicemente di porre dei temi per aprire un dibattito su questioni come la Nato, la guerra in Ucraina, la transizione ecologica e ho ricevuto insulti personali come quello che ho visto sui giornali stamattina. Temo che M5s rischi di diventare la forza politica dell’odio, una forza politica che nello statuto ha il rispetto della persona”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Emanuele Buzzi per corriere.it il 29 giugno 2022.

Paola Taverna contro Beppe Grillo. la vicepresidente vicaria dei Cinque Stelle attacca duramente il garante: «Perché stai delegittimando il nostro capo politico? Il Movimento non è di tua proprietà, il Movimento lo abbiamo costruito tutti insieme mettendoci tempo, fatica, denaro». «Succedono cose inverosimili», scrive su Facebook Taverna. «Succedono cose inimmaginabili e spesso senza un perché». «Perché sta succedendo questo Beppe?», domanda Taverna che posta l’immagine dell’intervista di De Masi al fatto, intitolata « Draghi chiede a Grillo di far fuori Conte».

Dopo pochi minuti, mentre l’intervento inizia a giare tra gli stellati, il post viene rimosso. «Ho allontanato chi ha pubblicato per errore sulla mia pagina una sua personale opinione che non rispecchia assolutamente il mio pensiero». «Ho chiamato Conte, ora sentirò Beppe, ma sono disperata - si sfoga in lacrime con l’Adnkronos - mai avrei fatto o pensato nulla di simile, perché, mi chiedo, perché è successe questa cosa?». Sono giornate molto convulse con il garante ancora a Roma per decidere su eventuali deroghe al tetto dei due mandati.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 30 luglio 2022.

Un po' istrione, un po' guastatore. Beppe Grillo nelle sue giornate romane si è ripreso la scena e lo ha fatto a modo suo. Ha detto tutto e il contrario di tutto disorientando eletti e vertici Cinque Stelle. «Il Movimento non esce dall'esecutivo». «Valutiamo l'appoggio esterno». 

«Il limite dei due mandati è un totem? Sì, certo». Eppure: «Si potrebbe pensare a qualche eccezione, ma vediamo ora i dettagli con Giuseppe». L'ex premier è anche il bersaglio di battute pubbliche: «Avevo un progetto» sulle tecnologie digitali, «l'ho dato anche a Conte, ma darlo a Conte è come buttarlo dalla finestra».

E di sfoghi privati, come quello raccontato da Domenico De Masi. «Secondo Grillo, Draghi gli ha chiesto di rimuoverlo dal M5S, perché inadeguato», racconta il sociologo al Fatto parlando di Conte. 

Proprio questo episodio però diventa il caso incendiario del giorno. E Grillo ancora una volta spiazza i cronisti: «Storielle». Ma in realtà il caso lascia il segno. «Ogni volta vengo strumentalizzato e raccontano ca...ate su di me e su Draghi...». Le parole raccolte dall'Adnkronos e il fatto che il leader abbia scelto di far saltare la riunione con i ministri M5S hanno l'effetto di riaccendere il dibattito interno. E innescare congetture.

«Beppe è una furia. Per tutto», dicono gli stellati. «Ora farà sentire il suo dissenso ogni volta che potrà: è stato un errore cercare di metterlo all'angolo». «Ma no, è solo stanco», controbattono esponenti contiani commentando gli impegni disdetti all'ultimo dallo showman. E anche fonti vicine al garante ribadiscono: «Ha avuto giornate pesanti». 

Sta di fatto che il garante riesce nel giro di 72 ore a destabilizzare qualsiasi certezza e a trascinare anche Conte in uno show dove solo lui è mattatore. «Ci sta triturando e noi siamo qui ad applaudirlo come pagliacci», masticano amaro alcuni Cinque Stelle al secondo mandato. 

«Conte e Grillo sono inconciliabili: che ne prendano atto», dicono ai piani alti del Movimento. Insomma, l'uragano Grillo, anche se velato di amarezza riesce comunque a scombinare i piani.

E così l'unica certezza è che salta la candidatura alle primarie in Sicilia di Giancarlo Cancelleri: uno stellato che Grillo lanciava dieci anni fa sul palcoscenico della politica attraversando a nuoto lo Stretto, uno stellato che nel 2021 si è schierato al fianco di Conte proprio contro il garante. 

Lo stop a Cancelleri - che ieri ha annunciato il suo passo indietro alla candidatura dopo che Skyvote ha reso noto che era impossibile procedere a una votazione entro i tempi richiesti - potrebbe dare il la a nuovi addii nei prossimi giorni. Ma l'Elevato, come si fa chiamare, è irremovibile.

Grillo non accetta di metterci la faccia sulle deroghe. La partita per ora è sospesa, ma molto probabilmente sarà il presidente M5S a doverci mettere la faccia, salvando i big storici «in nome delle competenze». 

Conte ieri in serata ha poi fatto il punto al Quirinale con il capo dello Stato sull'affaire De Masi. Il colloquio con Sergio Mattarella è durato un'ora. Scossoni in vista per il governo al momento non ce ne sono, ma tra gli stellati c'è chi sottolinea come «luglio sia un mese complicato» e come «le situazioni possano evolversi in fretta, anche nel giro di poche settimane».

E suona come un campanello d'allarme il fatto che sia stato bocciato ieri l'emendamento del Movimento al dl Aiuti che puntava a bloccare la realizzazione dell'annunciato termovalorizzatore a Roma. 

La proposta è stata respinta dalle commissioni Bilancio e Finanze della Camera, con 22 voti favorevoli e 14 contrari. Se sul decreto ci sarà la fiducia, potrebbe aprirsi uno squarcio nell'esecutivo. Sempre che Grillo istrione-guastatore lo permetta. Non a caso la questione del termovalorizzatore è stata una delle prime affrontate dal garante nel corso della sua trasferta romana. «Non esco dal governo per un c... di inceneritore», ha detto Grillo. Un avvertimento, forse, o il preludio del prossimo show. 

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 30 luglio 2022.

Mario Draghi che chiama Beppe Grillo e gli chiede di fare fuori Giuseppe Conte. Un velenoso retroscena, smentito da Palazzo Chigi, rende ancora più scomoda la posizione del Movimento 5 stelle nella maggioranza di governo. Un caso che scoppia proprio mentre il fondatore si aggira per i palazzi romani, provando a mettere ordine dopo l'addio di Di Maio e lo scontro sulla regola dei due mandati. Il presunto intervento del premier per sollecitare la rimozione di Conte viene rivelato da un articolo de La Stampa a firma di Federico Capurso e ribadito da un'intervista radiofonica al sociologo Domenico De Masi a Un giorno da pecora. 

Uscendo dal Senato, dopo l'ennesima riunione, il comico cade dalle nuvole: «Ma cos' è questa storia, ma cosa state dicendo...», replica ai giornalisti che gli chiedono spiegazioni.

Con i suoi collaboratori, invece, si sarebbe sfogato, perché «ogni volta vengo strumentalizzato e raccontano cazz... su di me e su Draghi». Ma ormai il sospetto è instillato e per Conte, che fin dall'inizio ha avuto con il suo successore un rapporto complicato, è un sospetto più che fondato. Tanto che, subito dopo aver letto le dichiarazioni di De Masi, il presidente Cinque stelle si dice «sconcertato», perché è «grave che un premier tecnico, che ha avuto da noi investitura, si intrometta nella vita di forze politiche che peraltro lo sostengono».

E poi precisa che «Grillo mi aveva riferito di queste telefonate, vorrei chiarire che siamo una comunità, lavoriamo insieme». Comunque il governo non rischia contraccolpi, assicura Conte, che in serata va al Quirinale, per un colloquio di un'ora con il presidente Mattarella: «Il nostro atteggiamento non cambia neppure di fronte a episodi così gravi - dice - Perché il nostro obiettivo non è sostenere Draghi, ma tutelare gli interessi degli italiani». 

Parole rimbalzate in tempo reale a Madrid, dove il presidente del Consiglio è impegnato nel vertice Nato. E cerca di spegnere sul nascere le polemiche: «Ci siamo parlati con Conte, abbiamo cominciato a chiarirci, ci risentiamo domani (oggi, ndr) per vederci al più presto. Il governo non rischia», taglia corto. «Non mi pare ci sia stata una smentita», fa notare il ministro delle Politiche agricole, Stefano Patuanelli, capo delegazione M5s al governo.

Poi in serata, da Palazzo Chigi arriva la precisazione: «Il presidente del Consiglio non ha mai detto o chiesto a Beppe Grillo di rimuovere Giuseppe Conte dal M5s». Ma l'episodio è destinato ad avere strascichi pesanti e fa passare in secondo piano il caso interno scoppiato in mattinata, per un post su Facebook di Paola Taverna, poi cancellato e rinnegato dalla vicepresidente del Senato. «Beppe, perché stai delegittimando il nostro capo politico? Il Movimento non è di tua proprietà, il Movimento lo abbiamo costruito tutti insieme - si leggeva nel testo - Questa volta ci devi dare delle spiegazioni valide. Noi siamo con Giuseppe Conte».

Poi Taverna si è disperata, dando la colpa a «uno dei miei assistenti, che ha pubblicato per errore». E precisando che «il post ovviamente non rispecchia in alcun modo le mie opinioni: sto dando la vita per il M5S, mai lo danneggerei con un affondo simile». Peraltro, un affondo anch' esso verosimile, visto che molte fonti Cinque stelle hanno raccontato di una Taverna inferocita con Grillo per il suo balletto sulle deroghe al tetto dei due mandati, su cui aveva aperto, salvo poi fare marcia indietro, gelando le speranze della senatrice di restare in Parlamento. Un muro che ha fermato anche le ambizioni di Giancarlo Cancelleri, che con due mandati da consigliere regionale alle spalle avrebbe voluto partecipare alle primarie del campo progressista per le elezioni d'autunno in Sicilia. «Per il bene del Movimento sono pronto a fare un passo indietro», fa sapere, anticipando la decisione di rinunciare.

Federico Capurso per “la Stampa” il 30 luglio 2022.

Giuseppe Conte, intorno alle 7 di sera, prende la strada che porta al Quirinale. Ha chiesto un incontro con il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, per riportare al Capo dello Stato «la gravità» delle parole di Mario Draghi, che in alcune telefonate con Beppe Grillo avrebbe chiesto al fondatore dei Cinque stelle - come rivelato ieri anche da La Stampa - di scaricare l'ex premier e di appoggiare invece il progetto di Luigi Di Maio. Il leader del Movimento aveva sentito Mattarella già i giorni scorsi, dopo la scissione, e avevano concordato un confronto, senza però fissare una data.

Poi ieri, dopo le notizie apparse sui giornali, la necessità di un faccia a faccia si è fatta impellente. Durante il colloquio di un'ora e mezza con il Capo dello Stato, Conte ha comunque assicurato che non ci saranno reazioni di pancia: «Continueremo a sostenere il governo». 

L'intromissione del premier nella vita interna del Movimento, per il leader grillino, non è qualcosa che può passare in silenzio. Mentre è al Quirinale, da Palazzo Chigi e da Grillo partono due smentite, quasi in simultanea, «mai chiesto di abbandonare Conte», ma sono passate ormai dodici ore dalla deflagrazione del caso Grillo-Draghi. Troppo tardi per spegnere l'incendio.

La strada dei Cinque stelle per uscire dal governo nei prossimi mesi, tra fine luglio e inizio settembre, garantendo solo un appoggio esterno, adesso è in discesa. Le spinte interne al partito sono fortissime. Conte resiste, ma «come possiamo fidarci ancora del premier?», è la domanda che rimbomba da ieri nel suo studio. Anche con Grillo, però, si è aperto un problema di fiducia. Non c'è nulla al mondo, infatti, che faccia infuriare il Garante del Movimento come una fuga di notizie. 

Martedì aveva rivelato a Conte il contenuto delle telefonate con Draghi. Lo aveva confidato a lui, a due big del Movimento e al sociologo Domenico De Masi, ma non ne aveva messo a conoscenza anche i parlamentari. «La notizia è trapelata, succede», alzano le braccia dal Movimento. «È stata usata contro di me», sbotta invece Grillo che ieri mattina, dopo aver aperto i giornali, ha chiamato l'ex premier furibondo: «Sono stato strumentalizzato».

Il sospetto del Garante è che la storia delle sue telefonate con Draghi sia stata veicolata proprio dai vertici del Movimento per delegittimarlo agli occhi delle truppe parlamentari. 

Chi è vicino al fondatore ne è quasi certo: «Si è voluta dare l'impressione che Beppe stesse facendo il doppio gioco, dicendosi vicino a Conte e trattando dietro le quinte con Draghi. L'ha presa molto male». Molto male è un eufemismo. Ma perché ai piani alti del partito vorrebbero screditare Grillo? I motivi vengono elencati con facilità da chi ha sentito il Garante: perché non vuole modificare la regola dei due mandati (che Conte ha invece promesso ai suoi fedelissimi); perché preme per restare al governo mentre la maggioranza dei parlamentari chiede di uscire e, soprattutto, dopo il suo arrivo a Roma ha di fatto commissariato il leader, riprendendo in mano le redini del partito e togliendo di colpo a tutti i pretoriani contiani il loro piccolo pezzo di potere interno.

Conte è costretto a convocare un punto stampa sotto la sede del partito: «Grillo mi aveva parlato delle telefonate di Draghi», assicura ai cronisti. Un tentativo in corner di scacciare l'immagine del fondatore intento a tenere i piedi in due staffe, ma non è abbastanza. Una volta terminato il giro di incontri programmato in mattinata con i senatori, Grillo fa saltare la riunione con i membri M5s del governo e l'appuntamento fissato con Conte per prendere una decisione su eventuali modifiche alla regola dei due mandati: «Parto, me ne vado. Cavatevela da soli». E il limite del doppio mandato «è un nostro totem».

Di un voto online per modificarlo, dunque, non se ne parla. Panico nella sede del partito. «Decide il presidente, non il Garante», protestano i fedelissimi di Conte. Si cerca disperatamente di far trapelare la notizia che l'incontro con Grillo sarebbe saltato perché era «stanco», qualcuno parla di «un malore dovuto al caldo». Lui, il malato, esce dal taxi in splendida forma, sale in hotel e un'ora dopo, valigia in mano, riprende la strada verso casa. Senza guardarsi indietro.

Tommaso Labate per corriere.it l'1 luglio 2022.

Racconta nelle ultime ore un ministro dei suoi vecchi governi, che gli è rimasto affezionato e con cui si sente spesso, che «il problema di Conte non è Draghi ma Grillo». Racconta che «Draghi è finito in mezzo» a una faida politica tra omonimi, Giuseppe contro Beppe e viceversa; che «se Grillo avesse dato il via libera al terzo mandato dei parlamentari, le nuove tensioni tra il M5S e il governo sarebbero riesplose semmai dopo l’estate»; insomma, che «tenere sulla corda il presidente del Consiglio e l’esecutivo, a cui Grillo tiene tantissimo, è l’ultima strada per provare ad avere finalmente mani libere da capo politico».

Che abbia tutte le ragioni del mondo, come sostengono gli amici, oppure che non ne abbia neanche mezza, come ripete la pletora di nemici, il Giuseppe Conte delle ultime settimane abbandona la strada di quel «governismo dolce» quasi oltre i limiti del buonismo, che ne aveva accresciuto gli indici di popolarità prima, durante e anche dopo l’esperienza di Palazzo Chigi; e veste i panni del barricadero socio di una maggioranza di governo che passa il tempo a tenere l’esecutivo sul filo del rasoio, minacciando dietro le quinte l’appoggio esterno salvo poi smentirlo (ieri), ventilando voti contrari che all’ultimo minuto diventano a favore (nell’ultima risoluzione sull’Ucraina), appiccando politicamente incendi che forse si spengono e forse no, di certo lasciano cenere e macerie.

Del cinquantenne bonario autoproclamatosi «avvocato del popolo italiano», di quel «Giuseppi» che evocava tenerezza anche se evocato da una personalità come Donald Trump, del compagnone che davanti a una birra raccontava l’Italia a un’Angela Merkel che lo ascoltava assorta, del presidente del Consiglio che annunciava i lockdown accarezzando con le parole i titolari dei «negozi di prossimità» e promettendo loro «i ristori che arriveranno», di tutto questo resta adesso poco o nulla. 

Avvicinatosi più per vocazione umana che per professione di fede politica a uno stile che faceva gridare all’avvento del messia di una nuova Democrazia cristiana — con ex dc devoti come Gianfranco Rotondi e Bruno Tabacci che sognavano di costruire attorno a lui uno Scudo crociato nuovo di zecca — Conte è diventato una specie di Mr.Hyde di se stesso, con movenze stilistiche che ricordano tanto il Matteo Salvini che si avvicinava pericolosamente al Papeete e poco, pochissimo, il morigerato uomo di fede che di fronte alle insistenze di Bruno Vespa («Vogliamo vederla questa immagine?», «Andiamo proprio sul personale, allora?») tirava fuori dal taschino della giacca l’immaginetta di Padre Pio, perché «io ho una via personale religiosa e quindi prego anche, e penso spesso a Padre Pio».

Quella strana sintesi tra l’ultra-cristiano dovere di porgere l’altra guancia e l’ultra-laico approccio da chi il pugno di ferro lo riveste saggiamente con un guanto di velluto, un mix che era stato la sua fortuna, cede terreno al rancore che l’ex presidente del Consiglio ha riversato pubblicamente su Draghi, a quello «sconcerto per le parole che ha rivolto contro di me» nella vicenda della presunta richiesta del presidente del Consiglio a Grillo di togliergli i galloni di capo politico del M5S. 

 La circostanza è stata smentita da Palazzo Chigi e da Beppe Grillo, confermata dal sociologo Domenico De Masi al Fatto quotidiano e da Conte stesso ma, vera o falsa che sia la storia, il punto è forse un altro: l’uomo che a ragione o a torto era stato baciato da un gradimento che evocava cose grandi ed epocali come «pandemia» ma anche «vaccini», «sacrifici» ma anche «ristori», «chiusure» ma anche «riaperture di massa», adesso rischia di diventare una maschera che rimanda a questioni piccole come possono esserlo terzi mandati di parlamentari e consiglieri regionali, deroghe a statuti, cavilli, regolamenti, governi sostenuti a metà, appoggi esterni. 

È l’universale che si fa particolare, il senso di una storia grande che si fa cronaca piccolissima, in fondo l’opposto del Conte che sceglieva la piccola storia dei migranti tenuti a Malta nel gennaio del 2019 e che rispondeva a Salvini, suo ministro dell’Interno, con una grande lezione di umanità: «Se lui tiene i porti chiusi, vorrà dire che andrò a prenderli io con l’aereo». 

Non tornerà a essere «il punto di riferimento dei progressisti», com’era stato salutato anche nel Pd, e forse rischia una fine politica da Totò Schillaci nei Mondiali di calcio del ’90, eroe indiscusso di una grande partita finita male. Nel suo presente c’è lo strano destino del personaggio tormentato della vecchia canzone di Tonino Carotone, «vita intensa / felicità a momenti /e futuro incerto». Domani chissà. 

Beppe Grillo tradito dai suoi "miracolati". Il M5S consuma l'ultimo parricidio. Carlantonio Solimene su Il Tempo l'01 luglio 2022

E poi viene il giorno in cui cominci a sentirti un estraneo in casa tua. E non importa se quelle mura le hai edificate tu. Conta solo che i tempi sono cambiati e non sei riuscito a stare al passo. Sei solo una presenza ingombrante e fastidiosa. Come quei nonni che parlano, parlano, ma nessuno più li ascolta. Ognuno, ormai, fa di testa sua.

Dev’essersi sentito così Beppe Grillo al termine della sua paradossale, confusa e inconcludente tre giorni romana. Era arrivato per riportare ordine nel Movimento, se ne è ripartito con la consapevolezza che la sua moral suasion non sortisce più alcun effetto. Peggio: nella sua creatura politica il sentimento più diffuso è l’insofferenza nei confronti del fondatore. Perché dopo le giravolte, l’attaccamento alla poltrona, le faide e le scissioni, il Movimento 5 stelle ha introiettato anche il vizio peggiore della politica tradizionale: l’ingratitudine.

Il post comparso sui social di Paola Taverna (e addebitato a un «errore di un collaboratore»...) ha rappresentato un flash di verità: «Il Movimento non è tuo, Beppe. Noi siamo tutti con Conte». I fatti hanno confermato con crudezza quelle parole. A partire dal «complottone» ordito ai danni del fondatore: le sue frasi usate da De Masi in un’intervista al Fatto per mostrare plasticamente ai militanti chi fosse il vero responsabile delle umiliazioni subìte da Draghi e per riportare Conte al centro della scena.

Così Grillo, dopo essersi sentito tradito da chi credeva amico (lo stesso De Masi, il direttore del Fatto Travaglio) e dai suoi «miracolati», furiosi per la conferma del tetto dei due mandati, ha abbandonato il campo. Ha rinunciato alla riunione con i membri pentastellati del governo e ha tolto il disturbo. Ferito anche nell’orgoglio: all’incontro con i senatori ad attenderlo nell’anticamera c’era il solo Cioffi. Gli altri erano distratti o in ritardo. Che differenza con i «bei tempi», quando c’era la fila per un selfie o solo per una battuta. Anche perché, va detto, pure del repertorio comico non è che sia rimasto un granché. Le solite stilettate ai giornalisti, sempre più stanche e ripetitive, qualche guizzo isolato («Conte se ne va con Di Maio»), altre uscite che hanno strappato giusto risate di circostanza («scusate, squilla il telefono, è Draghi»).

La stessa diatriba sul doppio mandato è significativa. Lo strumento che, ufficialmente, dovrebbe servire a evitare che nascano dei professionisti della politica più attenti a quello che avviene nel Palazzo che nella società, aveva nelle intenzioni del fondatore soprattutto un’altra funzione: quella di evitare che si affermassero nuove leadership in grado di fare concorrenza alla sua. Ora, però, nessuno più condivide la regola. E tutti contestano il potere di Grillo di decidere vita e morte di intere carriere istituzionali.

È lo stesso motivo, peraltro, che causò lo scontro con Conte un anno fa. L’avvocato aveva varato uno statuto in cui a Grillo restava sostanzialmente la funzione di soprammobile. Il comico andò su tutte le furie e strappò qualche potere in più. Oggi quella struttura che creava una sorta di «diarchia» sta dimostrando tutta la sua inadeguatezza. Conte si sente imbrigliato in un meccanismo che non gli consente di condurre l’azione politica come vorrebbe. Non può mollare il governo e non può garantire ai fedelissimi la rielezione per il terzo mandato. Il gioco ha retto fino a quando l’ex premier non vantava neanche il controllo dei gruppi parlamentari. Ora che Di Maio ha levato le tende e i superstiti sono al 90% dei contiani di ferro, tutto è cambiato. Conte reclama un potere a 360 gradi e il gruppo parlamentare si fida molto più di lui che di Grillo. Il fondatore, preso atto della situazione, deve decidere come concludere la sua avventura politica. Se accontentarsi del contratto di comunicazione siglato col Movimento o provare a far saltare il banco e giocarsi l’ultima carta rimasta nel mazzo, il barricadero Di Battista. Un tempo sarebbe bastato un suo schiocco di dita per cambiare tutto. Ora gli tocca trattare senza truppe. Sic transit gloria mundi.

Estratto dell’articolo di Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 2 luglio 2022.  

[…] Nel M5s c'è anche chi sostiene che il post di Grillo contro i traditori pubblicato ieri pomeriggio sul Blog sia un messaggio rivolto a Conte, De Masi e Marco Travaglio, più che al ministro degli Esteri scissionista. «Su Di Maio non avrebbe reagito così a scoppio ritardato, su quello ha già commentato», dicono da un Movimento in ebollizione. Resta il fatto che nessuno, né Grillo né Draghi, abbia mai smentito che ci siano state delle telefonate. Mentre, per quanto riguarda i messaggini, il presidente del Consiglio ha sfidato Conte: «Se ha le prove vediamole». […]

Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 2 luglio 2022.  

La pace tra Mario Draghi e Giuseppe Conte appare lontana. I due si vedranno lunedì pomeriggio a palazzo Chigi, un incontro che forse servirà a chiudere il caso delle presunte intromissioni del premier nella vita del M5S […]. Ieri si sono sentiti brevemente al telefono e hanno convenuto che si incontreranno di persona.

A sera Conte è tornato però a punzecchiare il presidente del Consiglio. «Draghi deve essere conseguente se davvero per lui l'M5S è importante». E poi ha reso pubblici i sospetti, che circolano nel Movimento, su una regia dell'ex banchiere nell'abbandono di Luigi Di Maio: «Una scissione così non si coltiva in poche ore. Da un po' c'era un'agenda personale al di fuori della linea politica del Movimento. È stato Draghi a suggerirlo? Ne parlerò con lui lunedì». Bum!

[…] I grillini continuano a dire che esistono anche dei messaggi scritti tra Grillo e Draghi: la riprova che non intendono far chiudere mediaticamente il caso. Del resto le parole del premier in conferenza stampa giovedì («non governo senza l'M5S»), non hanno placato gli animi, anche perché sono state lette come un aut aut più che come una mano tesa.

Ed è dell'altra notte un altro fatto che rischia di gettare benzina sul fuoco: alla Camera è passato un emendamento presentato dal centrodestra al Dl Aiuti che pone una stretta al reddito di cittadinanza. Ora bastano due no ad un'offerta congrua a chiamata diretta da un datore di lavoro privato per far perdere il beneficio. 

[…] Conte e Draghi sono troppo diversi. Conte reputa Draghi uno che gli ha portato via il posto. Il feuilleton riserverà altre puntate. Anche perché la pattuglia parlamentare grillina preme per uscire dalla maggioranza. «L'intromissione è una sgrammaticatura», insistono. […]

Da repubblica.it il 2 luglio 2022.

Da una parte la "fenomenologia del traditore", un testo senza riferimenti diretti ma che, dalle colonne del blog di Grillo, attacca gli scissionisti M5S. Dall'altra Luigi Di Maio, il protagonista dello strappo che ha decimato il gruppo grillino in Parlamento, che tuona contro i "picconatori del governo che indeboliscono il Paese". Non si placa la polemica tra i 5 Stelle e i suoi ex parlamentari che fa traballare la tenuta dell'esecutivo Draghi. 

Inizia Grillo, con un post non a sua firma in cui si parla di un "traditore", senza citare Luigi Di Maio. Eppure il testo apparso sul blog di Beppe Grillo sembra indubbiamente un attacco diretto al ministro degli Esteri dopo la scissione dai 5S che lo ha portato all'addio al partito di Conte.

Proprio oggi il presidente del Movimento ha avuto un colloquio telefonico con il premier Draghi dopo i dissidi degli ultimi giorni. "Questo nostro è forse il tempo in cui tradire non lascia traccia nell'animo del traditore che con ogni probabilità non si sente neanche tale", si legge nell'intervento del professor Pasquale Almirante sulla "fenomenologia del tradimento e del traditore" pubblicato sul blog di Grillo. "Talvolta il traditore - prosegue - può perfino tendere a sentirsi un eroe, ma agli occhi solo di qualche suo compare Jago, giammai nell'animo di chi ha fatto della lealtà e della schiettezza la sua bandiera e la sua ragione di vita".

L'articolo, che come si evince dal link originale è un testo pubblicato due anni fa sul sito "Tecnica della scuola", passa in rassegna personaggi simbolo del tradimento, da quelli collocati da Dante nel IX cerchio dell'Inferno, ai "traditori seriali" come Uriah Heep nel David Copperfield di Dickens. 

"In ogni caso i traditori più tradimentosi - si sottolinea nel post - sono quelli depositati nella Giudecca infernale, coloro che hanno violato il sacro principio di bene dovuto ai benefattori e che sono i più vicini a Lucifero che è poi il prototipo di colui ha ingannato la persona a cui è stata affidata la massima fiducia. Come fece Bruto o Efialte di Trachis che tradì gli Spartani in guerra. E come tradirono il buon Dantes, nel Conte di Montecristo, Fernando, Danglars e Cauderousse".

Nel pomeriggio è lo stesso ministro degli Esteri a definire "surreale" il dibattito che "c'è stato rispetto a presunti e non verificati scambi di messaggi nel mezzo di un vertice storico della Nato". "È surreale - aggiunge Di Maio - che ci siano forze politiche che passino il tempo a parlare di se stesse anche nei giorni in cui il governo, al massimo livello, sedeva a un tavolo importantissimo". Poi un attacco diretto contro chi, quotidianamente in questa fase tiene sulla corda l'esecutivo Draghi, dunque non solo M5S ma anche Lega: 

"In un momento così difficile per l'Italia non si può proseguire a picconare il governo", sottolinea il fondatore di Insieme per il Futuro (Ipf), incontrando i giornalisti. "In questo momento servono serietà e stabilità al Paese. Chi fa propaganda parla di pace la mattina e poi la sera trama per crisi di governo. Dobbiamo andare avanti e occuparci dei problemi seri. Faccio un appello a quelle forze politiche che hanno messo al centro della loro azione la loro crisi di voti: non si possono seguire i sondaggi o il calo di consensi in questo momento". 

Grillo e i traditori? "Si riferiva a Conte e Travaglio", cosa spunta nella chat 5s. Libero Quotidiano il 02 luglio 2022

Nelle chat del Movimento 5 stelle non sono pochi a sostenere che il post di Beppe Grillo contro i "traditori" in realtà non sia rivolto a Luigi Di Maio - sul quale l'Elevato si è espresso a suo tempo - ma a Giuseppe Conte e a Marco Travaglio. Insomma, si tratterebbe di una sorta di messaggio al leader del M5s, al direttore del Fatto quotidiano e anche a Domenico De Masi, il quale, proprio sul quotidiano di Travaglio aveva parlato della telefonata tra Draghi e Grillo in cui il premier avrebbe chiesto la testa di Conte. "Su Di Maio non avrebbe reagito così a scoppio ritardato, su quello ha già commentato", dicono al Giornale alcune fonti grilline. Nessuno dei diretti interessati ha smentito la telefonata ma sui messaggini, il presidente del Consiglio ha sfidato Conte: "Se ha le prove vediamole". 

Tant'è. Ieri primo luglio Beppe Grillo scrive sul suo blog un post intitolato appunto "Fenomenologia del traditore e del tradimento". Dopo aver passato in rassegna alcuni traditori storici e letterari, da Giuda a Jago a Uriah Heep, l'Elevato, nell'ultimo capoverso, dedicato ai nostri giorni, si chiede: "Ma perché ci siamo intrattenuti nel tradimento e nel traditore? Perché questo nostro è forse il tempo in cui tradire non lascia traccia nell'animo del traditore che con ogni probabilità non si sente neanche tale. Talvolta può perfino tendere a sentirsi un eroe, ma agli occhi solo di qualche suo compare Jago, giammai nell'animo di chi ha fatto della lealtà e della schiettezza la sua bandiera e la sua ragione di vita". 

M5S e il post di Grillo sul "traditore". De Masi: "Non sono io, ho solo rivelato cose che già si sapevano". La Repubblica il 2 Luglio 2022.  

Il sociologo nei giorni scorsi ha rilasciato un'intervista in cui ha fatto sapere che il fondatore del Movimento gli aveva detto che Draghi voleva la rimozione di Conte.

"Non ho svelato nulla di segreto, non sono un pettegolo e non faccio politica. Non ho tradito Grillo". Dice di non sentirsi colpito dalle parole del fondatore del Movimento il sociologo Domenico De Masi ma, sentito al telefono dall'Adnkronos, commenta, quasi per difendersi, il post apparso ieri sul blog di Beppe Grillo contro "il traditore che si sente un eroe". In molti hanno pensato che le parole del Garante dei 5S fossero in realtà rivolte a Luigi Di Maio, responsabile della scissione dopo l'addio ai pentastellati. De Masi risponde a chi ipotizza che il post fosse contro di lui, dopo le rivelazioni dei giorni scorsi secondo cui Grillo gli avrebbe detto che Draghi aveva chiesto la rimozione di Conte dalla presidenza del Movimento. "Il post di Grillo - spiega De Masi - parla di persone a cui è stato dato molto e che hanno tradito. Sicuramente tra queste non ci sono io, perché non ho ricevuto nulla e non ho mai tradito. Credo si riferisse a Di Maio".

"Se volessi potrei dire chissà quante cose, ma non lo faccio - aggiunge - La riservatezza è un elemento fondamentale tra galantuomini. Non avrei mai fatto quell'intervista al Fatto Quotidiano se Grillo non avesse già detto tutto ai deputati e ai senatori. Inoltre sottolineo che Conte ha dichiarato che Grillo aveva parlato delle pressioni di Draghi anche a lui. Grillo lo ha detto a Conte e a vari parlamentari, ben prima che uscisse la mia intervista". 

Commentando il rapporto con Grillo, De Masi sottolinea: "Ho sempre avuto legame positivo con lui, se quanto successo incrina l'amicizia beh... pazienza". E rispetto alle parole di Draghi che ha negato di aver fatto pressioni sul fondatore del Movimento per chiedere la rimozione di Conte, il sociologo osserva: "Se è una bugia, è una bugia che Grillo ha detto a me, ai deputati e a Conte".

Mattia Feltri per “La Stampa” il 2 luglio 2022.

Audace tentativo di ricapitolazione con domanda finale. In una conversazione con Beppe Grillo, di cui conosce la riservatezza ai confini dell'omertà, pare che Mario Draghi abbia caldeggiato la rimozione di Giuseppe Conte. Pare, perché Draghi nega. 

Grillo è nuovamente riparato nel tradizionale mutismo, tranne la diffusione di note dantesche su traditori e tradimenti, ma a confermare sono lo stesso Conte e una settantina di parlamentari e amici dei cinque stelle, destinatari della confidenza dell'Elevato. 

Del resto, a chi non è capitato di rivelare un segreto a una settantina di interlocutori? Della settantina, l'unico a essere scosso da un moto di ribellione è il sociologo Domenico De Masi che, contattato dal Fatto, rivela l'ignobile manovra. Letta l'intervista, gli altri sessantanove colgono l'entità del sabotaggio e gridano allo scandalo. Abbiamo le prove, dicono. E noi: fatecele vedere. E loro: no. Intanto il premier, impegnato all'estero, ma grazie al cielo in un'assise di modesto rilievo come il summit della Nato, dove le leadership planetarie ingannano il tempo con frivolezze tipo la guerra mondiale, è richiamato alle più gravose responsabilità da una vibrante telefonata con Conte.

Decide di affrettare il ritorno a Roma. Per altri motivi, dirà, ma comunque ce lo si immagina così: scusate tanto, ma De Masi Non dire altro, Mario: vai! Ieri Conte annuncia il drammatico faccia a faccia: ci vediamo oggi. Draghi ha un'idea diversa: non ne so nulla. Serve almeno un'altra delicatissima telefonata: è ok se ci vediamo lunedì? Sì, per me è ok. Rimane la domanda: siamo sicuri che un po' di Putin non ci servirebbe?

Da “Posta & Risposta – la Repubblica” il 2 luglio 2022.

Caro Merlo, io non ci credo che Draghi mandasse WhatsApp a Grillo - "dimettilo, dimettilo" - per convincerlo a cacciare Conte, né che mai gliel'abbia chiesto a voce. Chiara D'Amico - Milano

 Risposta di Francesco Merlo:

A me pare che la caccia ai "pizzini fantasmini" di Draghi a Grillo, "prove inconfutabili del complotto" contro Conte, con quel titolo da noir comico di Neil Simon, "il conticidio", sia il canovaccio di un'opera buffa, nella quale Draghi è tirato in mezzo, come Gulliver a Lilliput, dove "i tramecksan, tacchi alti" (Di Maio) contendono il potere agli "stamecksan, tacchi bassi (Conte)".

E Gulliver-Draghi quasi si smarrisce sulla panca del Prado, dove è solo sì, ma col suo telefonino (la foto sembra uno spot della Tim): "Di cosa parlava e con chi?". "Ero stanco, non ricordo".

E tutti pensano che non sospirasse per la signora Serenella, ma per Domenico De Masi: Who' s this De Masi? chiede Biden a Macron quando Draghi se ne scappa a Roma. È il più mattacchione dei professori "prestati alla politica". Infatti nei 5 Stelle omericamente dirige la "squola", e non si offenda per la "q": anche l'aceto è prodotto dal vino. In radio al Giorno da Pecora (che ormai è il nostro New York Times ) De Masi, che, pensate, da ragazzo riordinava la libreria di Jean Paul Sartre, nel ruolo di Balanzone riferisce che Draghi "continuamente" parla male di Conte.

E l'indomani al Fatto Quotidiano aggiunge che Draghi, il quale "manda a Grillo messaggi sulle cose da fare", ha chiesto a Grillo di "rimuovere Conte perché è inadeguato". Così i pizzini fantasmini diventano "aforismi telefonici" che nessuno vede, ma tutti analizzano come le lettere di Moro. 

Conte, quasi offeso, va da Mattarella e quasi fa una crisi. Dice Draghi: "Mi dicono che ci sarebbero dei riscontri oggettivi, come sono stati definiti, beh, vediamoli, li aspetto". E il giornale grillino scrive: "lo scandalo tracima". Urca. Non ce la dai a bere, caro Gulliver. Qui a Lilliput, solo quando nessuno la vede, siamo sicuri che esiste la prova. Si assolve per insufficienza di prova e si condanna per assenza di prova.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 2 luglio 2022.

«Abbiamo le prove», insistono dallo staff di Giuseppe Conte. «Macché, è l'ennesimo bluff», ribattono i tanti grillini - anche contiani - che non credono alla storia dei messaggi whatsApp tra Beppe Grillo e Mario Draghi. 

Dopo il giallo delle telefonate, il mistero delle chat. E sì perché, stando alle voci che filtrano dall'entourage dell'ex premier, non ci sarebbero soltanto le chiamate tra l'Elevato e il presidente del Consiglio, ma gli sherpa dell'ex avvocato del popolo italiano custodirebbero anche gli screenshot dei presunti messaggini che si sarebbero scambiati Draghi e Grillo.

Contatti durante i quali il premier, addirittura, avrebbe chiesto al Garante di aderire alla scissione di Luigi Di Maio con l'obiettivo di isolare Conte. Almeno è questa la ricostruzione pubblicata dal Fatto Quotidiano di giovedì mattina.

Un'ampia fetta dei 5 Stelle reagisce alle indiscrezioni con una grassa risata. Una fonte pentastellata di primo livello, con entrature a Palazzo Chigi, commenta la storia dei messaggi con un misto di sarcasmo e indignazione. 

«Secondo me si tratta dell'ennesimo spin - riflette la fonte del Giornale - ma il problema principale è che sarebbe molto grave se Conte avesse queste conversazioni, perché saremmo in presenza di una violazione della privacy e di un'intrusione nella corrispondenza privata del presidente del Consiglio».

Quel che è certo, in ambienti pentastellati, è che Draghi e Grillo si sentono regolarmente. Una o due volte al mese, a seconda dell'attualità politica e delle fibrillazioni all'interno del Movimento. E quel che è sicuro è anche che tra i due ci sia una certa intesa. E nel M5s non ci sono dubbi nemmeno su un altro fatto: «Beppe non vuole uscire dal governo e non vuole l'appoggio esterno». Eccola, la voce che arriva dai gruppi stellati. Una truppa ancora divisa tra governisti e anti-Draghi. 

In Parlamento i grillini raccontano che Grillo, durante tutti e tre i giorni di permanenza a Roma, è stato continuamente oggetto di pressioni intense da parte di molti parlamentari, in maggioranza senatori, che durante gli incontri gli hanno chiesto di uscire dal governo. Richieste a cui il fondatore ha sempre risposto picche.

Fino a quando si è inferocito per l'intervista del sociologo Domenico De Masi al Fatto Quotidiano e poi per la storia delle prove e dei messaggi. Una spy story che disturba e non poco il comico genovese, perché rischia di minare il rapporto di fiducia costruito con Draghi. 

«È ovvio che se Conte continua a dire che ha le prove dei messaggi vorrebbe dire che sarebbe stato Beppe a fornirgli queste prove», chiosa un parlamentare vicino al Garante. Ma l'Elevato è già nero con l'avvocato di Volturara Appula perché ritiene di essere stato utilizzato come una pedina nello scontro tra l'ex premier e il suo successore a Palazzo Chigi.

Nel M5s c'è anche chi sostiene che il post di Grillo contro i traditori pubblicato ieri pomeriggio sul Blog sia un messaggio rivolto a Conte, De Masi e Marco Travaglio, più che al ministro degli Esteri scissionista. «Su Di Maio non avrebbe reagito così a scoppio ritardato, su quello ha già commentato», dicono da un Movimento in ebollizione. Resta il fatto che nessuno, né Grillo né Draghi, abbia mai smentito che ci siano state delle telefonate. Mentre, per quanto riguarda i messaggini, il presidente del Consiglio ha sfidato Conte: «Se ha le prove vediamole».

E poi ci sono i buchi nella storia di De Masi. Il sociologo, contattato dal Giornale, non risponde né alle telefonate né alle richieste di chiarimento su whatsApp. All'interno del multiforme universo pentastellato non manca chi nota le discordanze nelle versioni fornite dal professore al Fatto Quotidiano e a Un Giorno da Pecora. Al quotidiano di Travaglio De Masi ha spiegato che Draghi avrebbe chiesto a Grillo di rimuovere l'ex premier e che gliel'avrebbe detto il comico. Su Rai Radio1, il giorno prima, De Masi ha chiamato in causa i senatori, che gli avrebbero riferito che il Garante negli incontri con i parlamentari avrebbe rivelato: «Draghi parla male di Conte».

Da uno vale uno a un pettegolezzo tira l'altro. 

Nic. Car. per “La Stampa” il 3 luglio 2022.

Dopo aver sganciato la bomba, Domenico De Masi si è inabissato. Non ha più detto una parola, non ha risposto al telefono. Non ci sta a passare per quello che ha messo nei guai Beppe Grillo, per aver rivelato la confidenza del fondatore del Movimento 5 stelle, la telefonata in cui Mario Draghi gli avrebbe chiesto di disarcionare Giuseppe Conte dalla poltrona di presidente. 

«Le cose che ha detto a me Grillo le aveva già raccontate ai parlamentari, erano già di dominio pubblico - spiega il sociologo -. Non ho svelato nulla di segreto, non sono un pettegolo e non faccio politica».

De Masi ricorda l'articolo uscito su La Stampa lo stesso giorno della sua intervista al Fatto Quotidiano, in cui si fa riferimento alla presunta sollecitazione del premier nei confronti di Grillo a «mollare Conte», raccontata dal comico ad alcuni parlamentari. 

«Io sarò stata la quindicesima, forse la ventesima persona a cui lo ha detto - ricostruisce De Masi - dopo il nostro incontro all'Hotel Forum, ci siamo lasciati promettendoci di tenere tutto riservato e invece lui è andato a parlare con i gruppi e ha detto le stesse cose che ha detto a me. E da quel momento sono diventate pubbliche».

Nessuno, però, ha raccontato il retroscena mettendoci la faccia su un giornale: «La riservatezza è un fondamentale tra galantuomini. Non avrei mai fatto quell'intervista se Grillo non avesse già detto tutto ai deputati e ai senatori. Inoltre, Conte ha dichiarato che Grillo aveva parlato delle pressioni di Draghi anche a lui, ben prima che uscisse la mia intervista». 

Poi il fondatore del Movimento ha detto di essere stato «strumentalizzato» e ha bollato come «cazzate» i dettagli usciti. Lo stesso premier ha smentito di aver fatto pressioni su Grillo per rimuovere Conte. 

«Se è una bugia, è una bugia che Grillo ha detto a me, ai deputati e a Conte», precisa De Masi, che esclude che il post apparso sul blog di Grillo contro i «traditori» fosse diretto a lui: «Ce l'aveva con Di Maio», spiega. 

Ma il futuro della loro amicizia è in dubbio: «Non ci siamo sentiti, ho avuto sempre un rapporto positivo con Beppe, ma se questo incrina l'amicizia, beh, pazienza».

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 3 luglio 2022.  

Caro Merlo, dall'estero dove vivo, mi domando perché in Italia nessuno spiega a Conte, per il suo bene, che sta facendo proprio una brutta figura e che sarebbe il caso che la smettesse. Da quando è alla guida del Movimento, continua a prendere batoste e accusa sempre gli altri. È possibile che qualcuno lo consigli male, ma un dubbio mi assale Giuseppe Palmiotta - Ginevra 

Risposta di Francesco Merlo

Tutti sanno che Conte ha dei consiglieri, da Casalino a Travaglio, e più segretamente, da Bettini a D'Alema. Ma lei qui si chiede se Conte ci fa o ci è. Ebbene, se ripercorre i cinque anni della sua confusa storia politica, si accorgerà che è stato via via scavalcato, messo tra parentesi, trattato con alzate di spalle e sguardi al cielo, ma è ancora là, sempre più rimpicciolito ma ancora là, come quel personaggio di Longanesi che diceva di sé: "Sono passato attraverso ogni specie di tendenza per cercarmi. E non riesco a trovarmi".

Il viaggio infernale di Beppe Grillo nel girone dantesco dei traditori. Il “Garante” ha riprodotto sul suo blog un articolo di Pasquale Almirante di due anni fa proprio sul tradimento. Francesco Damato su Il Dubbio il 5 luglio 2022.

Scherzo ma non troppo. L’avevo scritto – qui, sul Dubbio – che per esplorare il MoVimento 5 Stelle, specie dopo la scissione di Luigi Di Maio, occorresse ripetere il viaggio di Dante nell’Inferno della sua Divina Commedia. E Beppe Grillo in persona, il fondatore, il “garante”, tornato a casa dopo una fuga da Roma, dove aveva concluso una missione di ricognizione e d’ordine aumentando il disordine nel suo movimento, si è immerso proprio nell’opera dantesca facendosi accompagnare da un Virgilio dei nostri tempi. Che sarebbe l’autore di Marsilio e insegnante di liceo Pasquale Almirante, un cui articolo di due anni fa egli ha riprodotto sul suo blog con tanto di ringraziamenti finali e titolo – “Fenomenologia del tradimento e del traditore”- sovrastato da un’illustrazione di Gustave Dorè del nono cerchio dell’Inferno dantesco: quello dove Lucifero si gode la compagnia dei suoi simili.

Dal singolare della fenomenologia Grillo è passato al plurale dei traditori, andando anche oltre quelli sistemati da Dante nelle quattro zone del nono cerchio dell’Inferno: Caina, Antenora, Tolomea e Giudecca, da Giuda, “il più famoso che si vendette per trenta denari, tradendo la fiducia”. E tutti hanno pensato a Luigi Di Maio scrivendone sui giornali, qualcuno cercando anche di raccoglierne le reazioni. Che sono state infastidite, ma non rancorose.

Oltre ai nove cerchi dell’Inferno dantesco l’erudito Pasquale Almirante ha accompagnato Grillo in una sommaria rilettura di Shakespeare, di Dickens ed altri che hanno prodotto nelle loro opere figure di traditori e occasioni di tradimento.

Di Charles Dichens, nel famosissimo David Copperfield che i meno giovani ricorderanno nella traduzione televisiva della Rai sceneggiata e diretta nel 1965 da Anton Giulio Majano, è la figura che sembra avere maggiormente colpito Grillo: Urial Heep, recitata in quello sceneggiato dal compianto Alberto Terrani. “Mani sempre umide e appiccicaticce, che non guarda mai negli occhi il suo interlocutore, che si contorce e che alla fine, dopo aver carpito tutti i segreti del suo benefattore, ne diventa socio attraverso sempre il tradimento e il mescolamento delle carte”, racconta Pasquale Almirante a Grillo.

Oddio – mi sono chiesto – chi può essere scambiato per Urial Heep fra i tanti pentastellati, usciti o rimasti nel movimento, che Grillo ha conosciuto, persino allevato, e dai quali si è sentito tradito anche nella sua recente missione a Roma, interrotta dalla delusione e dalla rabbia per essersi sentito “strumentalizzato” – ha detto lui stesso – nelle confidenze fatte loro sui rapporti prevalentemente telefonici con Mario Draghi. Che, condividendo evidentemente il giudizio di “inadeguato” affibbiatogli una volta dallo stesso Grillo, gli avrebbe chiesto di “farlo fuori” dalla guida del movimento. Ne è seguita una tragedia, anzi una tragicommedia da cui si è capito solo che il problema di Conte, più che Draghi, è Grillo stesso.

Purtroppo, almeno per soddisfare la mia curiosità, ho scarsa dimestichezza col mondo, parlamentare e non, delle 5 Stelle. Non ho mai stretto “mani sempre umide e appiccicaticce” o notato occhi “sfuggenti” nelle interlocuzioni avute. L’unico col quale mi sono scontrato una volta alla Camera – il non ancora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede per avere lui indicato anni fa alla tv nei giornalisti parlamentari in pensione i più sospettabili di lobbismo per far passare modifiche alle leggi utili a piccoli e grandi pseudocorruttori- mi guardò fisso negli occhi per dirmi che avrebbe continuato a sostenere quella convinzione che io gli avevo contestato.

Un autorevole amico reduce dal ricevimento di giovedì scorso fa a Villa Taverna per la festa americana dell’Indipendenza, e che ha avuto modo di salutare e parlare col ministro degli Esteri Luigi Di Maio, accompagnato dalla bella fidanzata Virginia Saba avvolta in un lungo abito colore avorio, mi ha assicurato di averne raccolto uno sguardo ben diretto e di non avere stretto mani in qualche modo umide. E mi ha anche detto di non avere visto fra i grillini presenti il pur ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Dalla lista dei presunti responsabili della delusione e della rabbia di Grillo confermo – dopo il disconoscimento di un post d’attacco sul suo sito internet all’amico Beppe e la punizione del responsabile- l’esclusione di Paola Taverna. Con la quale mi scuso peraltro di averla distrattamente indicata qualche giorno fa come vice presidente della Camera, anziché del Senato.

Quando Grillo diceva: "Conte? Incapace. Non ha visione politica". Francesca Galici il 3 Luglio 2022 su Il giornale.

Era il 29 giugno 2021 quando nel M5s sembrava compiersi la rottura tra Beppe Grillo e Conte, colpevole di voler mettere da parte l'Elevato. 

Esattamente un anno fa, o poco più in là, Beppe Grillo certificava la rottura del Movimento 5 stelle. Ma con la parte sbagliata. O, per lo meno, con quella che un anno fa si sarebbe dimostrata la parte sbagliata per una serie di reboanti congiunture che si sono dimostrate fatali per il M5s. Era il 29 giugno del 2021 e Giuseppe Conte, investito della carica di leader politico, stava riscrivendo lo statuto del MoVimento, creandone uno quasi ad personam, nel quale la figura di Beppe Grillo veniva resa fin troppo marginale, come dire, "ora che ci sono io, tu non servi più. Tante belle cose".

"Vi dico io perché Grillo si è ripreso il M5S"

Beppe Grillo poteva mai accettare di buon grado un simile smacco? No di certo. Colto dalla sindrome di "nessuno mette Baby in un angolo", Beppe Grillo ebbe una reazione piuttosto veemente contro Giuseppe Conte. "Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco", tuonò l'Elevato dalle righe del suo blog, unico pezzetto d'orticello che Giuseppe Conte gli stava lasciando per esprimersi. E preso da un rigurgito di coscienza davanti alla sua creatura, diventata ormai incontrollabile, e sicuramente tramortito da un travaso di bile, Beppe Grillo diede quello che per molti sembrava essere il colpo ferale alla carriera politica dell'avvocato con la pochette: "Conte, mi dispiace, non potrà risolvere i nostri problemi perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione". Crack, il rapporto con l'ex premier sembrava essersi definitivamente rotto e Grillo meditava di azzerare i vertici del partito. Alle spalle di Conte scalpitava un intrepido Di Maio, pronto all'investitura da leader.

M5s in tilt, Conte evoca l'appoggio esterno. Grillo smentisce ancora

Il canto del Grillo s'era compiuto ma senza mai dare il colpo di grazia a Giuseppe Conte. E infatti, pochi giorni dopo, tra l'Elevato e l'avvocato ci fu un riavvicinamento. Ma le pezze, si sa, non riparano il buco. Si limitano a coprirlo alla bell'e meglio. E a Beppe Grillo non è mai andato giù lo strappo creato da Giuseppe Conte, convinto di poterlo mettere da parte. Tra i due i rapporti non si sono mai del tutto sanati e quando l'Elevato parla di Luigi Di Maio appellandolo come traditore, forse c'è dell'altro oltre alla semplice rabbia per l'uscita dal Movimento insieme a buona parte dei suoi parlamentari.

Forse Grillo si è sentito tradito dal ministro degli Esteri, che così facendo ha lasciato il partito interamente nelle mani del suo più acerrimo nemico interno, quello che un anno fa lo voleva far fuori dal suo movimento. Beppe Grillo e Mario Draghi hanno smentito lo scambio di corrispondenza virtuale che vedeva Conte come protagonista, ma a rileggere la storia non sarebbe stato poi così assurdo se l'Elevato si fosse davvero sfogato sulle (mancate) reali capacità di Giuseppe Conte. Il 2050 è sempre più lontano per il Movimento.

Massimiliano Panarari per “La Stampa” il 3 luglio 2022.

Nel Movimento 5 Stelle, si sa, c'è sempre stato qualcuno più uguale degli altri. A dispetto del motto favolistico-strumentale per cui «uno vale uno» (sconfessato pubblicamente, in finale di partita, dal fuoriuscito Luigi Di Maio). 

Così, adesso che il M5S si rivela - letteralmente - il Movimento 5 Schegge si può dire che c'è qualcuno più "scheggia" itinerante - o pallina ad alta velocità - degli altri (che pure non scherzano...). Una scheggia «super-Elevata» e turbinosa che, di recente, è transitata da una parte all'altra dello spettro di tutte le posizioni politiche possibili e immaginabili. 

Si tratta, ça va sans dire, di Beppe Grillo, tornato prepotentemente al centro della scena nelle ultime settimane di passione del "suo" Movimento travolto dall'ennesima disfatta alle amministrative e dalla scissione dei dimaiani, e percorso dall'irrefrenabile tentazione di andare all'opposizione. Un contrappeso rispetto a questa spinta i vertici 5 Stelle lo incontrano proprio in Grillo, che sta puntellando il governo di unità nazionale di Mario Draghi, con il quale - stando a cronache e rumors - nel corso del tempo si è costruita una "strana alchimia".

Nondimeno, da ultimo, anche per responsabilità sua è esploso un incidente di percorso largamente cavalcato (e ingigantito) dagli spin doctor di Conte per innalzare ulteriormente il tasso di fibrillazione e far mettere al M5S un piede fuori dalla maggioranza. 

Una slavina tamponata in queste ore anche in virtù delle parole di apprezzamento tributate dal presidente del Consiglio al contributo pentastellato all'azione di governo, ma che continua a incombere come una spada di Damocle su Draghi e, in qualche modo, come un supplizio di Tantalo per le stesse frenesie "antisistemiche" di ritorno di molti dirigenti 5 Stelle. Un rischio per il futuro anche ravvicinato, dati i prossimi passaggi del decreto aiuti (che potrebbe prevedere la riattivazione delle trivellazioni) e di quello sugli aiuti militari all'Ucraina.

Di sicuro, dunque, a non aiutare il clima generale e la stabilità è anche il comportamento di Grillo: "trottolino amoroso" dell'organizzazione che considera come una sua creatura - e della quale si sente per molti versi defraudato -, ma con atteggiamenti da "trottola impazzita" fattisi così frequenti da destabilizzare anche quello che vorrebbe, invece, consolidare. 

Le traiettorie molto ellittiche e le geometrie variabili (applicate con una considerevole dote di furbizia e più di un pizzico di cinismo) sono una delle specialità di Grillo. Uno dei pilastri, insieme all'ambiguità e all'ambivalenza spacciate anche come visione postideologica, del successo avuto in passato, oltre che una maniera per levarsi di torno varie gatte da pelare, cambiando repentinamente posizione senza pagare dazio. 

Quelli erano, però, i bei tempi (andati) degli applausi scroscianti. Il performer c'è ancora (sebbene sempre più «stanchino», per citarlo). Ma è obbligato ad agitarsi tantissimo alla ricerca di una qualche agibilità politica (che Conte, da leguleio di prim' ordine, gli ha ristretto meticolosamente). 

Così, il gioco del fool-giullare impunito gli riesce sempre meno, e della figura del trickster che ha a lungo incarnato rimane più la componente del "briccone" che quella del "divino". Le contraddizioni risultano sempre maggiormente appariscenti e, alle strette, il già Cofondatore e Garante si è dovuto riciclare in consulente (lautamente retribuito) per la comunicazione.

Un destino piuttosto inglorioso, se osservato dall'esterno, per chi - in simbiosi con Gianroberto Casaleggio - ha costruito il M5S come un partito bipersonale a tutti gli effetti, orientandone e guidandone in modo incontestato ogni passo. Per poi ritrovarsi costretto ad assistere a una sequenza incessante di metamorfosi, che hanno condotto il «partito-non partito» ad allontanarsi alla grande da quell'ortodossia originaria di cui il già capo-comico trasformatosi in capo politico continua a sentirsi il custode per antonomasia. 

Come nella riaffermazione del dogma del divieto del terzo mandato, che - naturalmente - ha fatto infuriare parecchi dei «suoi (ex) ragazzi», prontamente innamoratisi di quel professionismo politico che maledivano sui social. Oggi l'Oracolo (volutamente) incomprensibile - e, pertanto, buono per tutti gli usi - non c'è più, al pari del Joker populista-antagonista.

Resta un supporter - a corrente alternata - della «formula Draghi» che, peraltro (e malauguratamente), non riesce più a trascinare i suoi «portavoce» (i quali, per inciso, gli devono molto, se non tutto). Una stagione appare finita, e l'impressione è che ne rimarrà una manciata di polvere di stelle. O, se si preferisce, di cocci a 5 Stelle.

Pier Ferdinando Casini, l’uomo che sussurra al neodemocristiano Luigi Di Maio. I due politici si insultavano fino a pochi anni fa. Ma nelle ultime mosse dell’ex 5 Stelle pare ci sia stata proprio l’influenza del centrista con cui ormai si sentono quotidianamente. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 4 luglio 2022.

«Dici sciocchezze…dilettante». Correva l’anno 2018 e Pier Ferdinando Casini si rivolgeva con questi toni a Luigi Di Maio, l’allora barricadero leader del Movimento 5 stelle che si era appena insediato al ministero dello Sviluppo economico nel primo governo Conte, sostenuto anche da Matteo Salvini. I due, Di Maio e Salvini, a Casini non piacevano proprio. E il sentimento era reciproco: come dimenticare l’intemerata di Di Maio durante la campagna elettorale delle scorse Politiche proprio nella città del fondatore dell’Udc, Bologna, contro «quel Casini che ha affossato la commissione sulle banche e ora viene candidato non a caso dal Pd»?

Ma se con il segretario della Lega anche oggi, a quattro anni di distanza, i rapporti sono a dir poco freddi, specie dopo il “tradimento” di Matteo che non ha più sostenuto la corsa al Quirinale dell’eterno democristiano, tra Casini e Di Maio qualcosa è cambiato. I due adesso si sentono giornalmente e di solito la discussione va così: uno parla (Casini) l’altro ascolta e prende appunti ( Di Maio). Per molti, le mosse del ministro degli Esteri da un anno a questa parte sono di «puro stampo casiniano». Lo scorso novembre Di Maio ha aperto all’ingresso del Movimento 5 stelle nel gruppo del Partito socialista europeo: «Una grande intuizione di Luigi», diceva entusiasta il suo (ex) delfino, Giancarlo Cancelleri. Ma chi è sempre stato un forte sostenitore dell’aggancio dei partiti nazionali a famiglie storiche del Parlamento Europeo? Lui, Casini. Poi sono arrivati il sostegno al governo Draghi e all’atlantismo, diventati da mesi due tasselli fondamentali della politica del ministro degli Esteri. E chi c’è dietro questo cambio di rotta? Sempre lui, Casini.

Resta una domanda: come ha fatto l’ex presidente della Camera a prendere il ruolo di gran suggeritore politico di Di Maio? La risposta sta tutta in un luogo: la Farnesina. Un palazzo nel quale Casini è sempre stato di casa e che conosce stanza per stanza, dirigente per dirigente, diplomatico per diplomatico. Tanto che una funzionaria di peso oggi è anche la sua fidanzata, Maddalena Pessina, responsabile della promozione culturale del ministero. È stata lei la chiave di volta per ammorbidire certe rigidità del ministro nei confronti del fidanzato eccellente. Di certo anche grazie a lei i rapporti tra i due sono migliorati fino a diventare idilliaci. Sembra passata un’era geologica rispetto al dicembre del 2019 quando Casini, proprio grazie ai suoi buoni uffici alla Farnesina, portava a segno un colpo mediatico che metteva a dir poco in ombra il titolare del dicastero, cioè Di Maio, facendolo infuriare: Casini in quei giorni era volato a Caracas per parlare direttamente con il comunista Maduro e liberare dei deputati dell’opposizione venezuelana che rischiavano il carcere a vita perché accusati di un fallito colpo di Stato. Missione compiuta con tanto di complimenti del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma non di Di Maio, che però aveva già capito che se voleva fare strada, soprattutto in quelle stanze, doveva per forza avvicinarsi a Casini.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 4 luglio 2022.

La borsa con i soldi di Ipf, il nuovo movimento politico fondato dal ministro degli Esteri Luigi di Maio, è nelle mani di un ex gelataio napoletano. Il senatore Sergio Vaccaro è l'uomo prescelto da Di Maio e Spadafora per gestire la cassa dei gruppi parlamentari «Insieme per il Futuro». 

Sarà lui a ricoprire l'incarico di tesoriere del gruppo a Palazzo Madama. Nel suo passato Vaccaro aveva il compito di dosare bene gli ingredienti del gelato artigianale napoletano. Ora avrà una sfida più ardua da vincere: far quadrare i conti del gruppo Ipf. Chi è Vaccaro? Il misterioso senatore individuato da Di Maio per un incarico così delicato.

Il neo tesoriere del gruppo è un senatore della provincia di Napoli: nel 2018 è stato eletto nel collegio di Volla, comune noto per l'abusivismo edilizio e confinante con Pomigliano d'Arco. Fu piazzato in quarta posizione nella lista del M5S. Ma grazie al boom riuscì a centrare un'elezione storica. In Parlamento fa coppia fissa con Andrea Caso, altro deputato di fede dimaiana. 

Vaccaro è un fedelissimo del ministro degli Esteri. Al punto da seguirlo nella scissione: una scelta premiata con la nomina a tesoriere del gruppo. Un bel po' di milioni di euro, staff e consulenze da gestire nel prossimo anno. Vaccaro inizia la carriera politica a Volla, dove tenta (senza successo) anche la scalata per la poltrona di sindaco.

Sul sito del Senato non figura alcun curriculum vitae e nessun cenno ai titoli di studio. Master alla Bocconi in Economia? Studi londinesi in finanza pubblica? Nulla di tutto ciò. Vaccaro è un ex gelataio. A Volla gli attivisti del Movimento lo ricordano bene, prima dell'ingresso in Parlamento. 

Vaccaro aveva una gelateria all'interno del noto centro commerciale le «Ginestre»: coni, coppe e crepes. Sembrava quella la sua vera passione prima di essere folgorato sulla strada grillina. «Bravissimo nell'abbinare i gusti più strani», ricordano i suoi clienti. Il pezzo pregiato? Cono pistacchio e limone. 

Un gelataio a 5stelle, insomma. Ma prima di tentare fortuna con i gelati, Vaccaro aveva svolto il lavoro in una pescheria all'interno dell'Auchan, altra catena commerciale. 

Mansione mollata per abbracciare la prima passione: i gelati. Lavoro che ha svolto fino al 2018, quando nella notte del 4 marzo il boom grillino gli regala un seggio in Parlamento. Si è subito avvicinato alla linea dell'ex capo politico Di Maio. 

Al punto da seguirlo anche nelle missioni all'estero. Sempre in compagnia del suo fido Andrea Caso. Ora la «ricompensa» con la nomina a tesoriere. Nella nuova avventura Vaccaro punta in alto. L'incarico di tesoriere è arrivato grazie all'aiutino di Bruno Tabacci. I dimaiani a Palazzo Madama non potevano formare il gruppo.

Tabacci ha messo a disposizione il simbolo. Sono 10 i senatori di Ipf che hanno scelto come capogruppo l'ex M5s Primo De Nicola. L'Ufficio di presidenza è formato invece da Vincenzo Presutto, vice presidente vicario; Antonella Campagna, Daniela Donno, Raffaele Mautone, Simona Nocerino Vice-presidenti; Sergio Vaccaro, tesoriere. Gli altri componenti sono Loredana Russo, Pierpaolo Sileri, Fabrizio Trentacoste.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.

Claudio Messora, nella palude dell'informazione - soprattutto della controinformazione italiana è un caso da studio, simile a quello delle radio libere anni '70. Nato ad Alessandria d'Egitto in un anno imprecisato, quest' ex musicista (ha vinto perfino Castrocaro) è partito come Mazarino della Comunicazione del M5S, pioniere del citizen journalism dinamitardo, vessillifero del sovranismo, nonché tenutario di un sito, ByoBlu, che, solo su Youtube, faceva 100 milioni di visualizzazioni frequentando politica e grandi inchieste spesso a senso unico. Dopo la rottura col M5S, Messora è a oggi a capo di un piccolo impero mediatico che tra, radio, tv e digital sta spazzando via la concorrenza. Il suo de profundis per i 5 Stelle è un po' venato da nostalgia. Un po'. Tra i 5 Stelle s' avverte un delirio diverso.

Grillo che dice a Draghi di licenziare Conte, la crisi di governo. Cosa accadrà? Non è che se i 5 Stelle vanno al voto spariscono (alle elezioni hanno fatto il 2,5%)?

«I 5 stelle sono già spariti. Sono anni che non esistono più per chi li ha eletti. Continuano ad esistere solo nei palazzi. Sono quello che resta di un sogno, come quando la mattina ti svegli a letto tutto sudato». 

La scissione di Di Maio. Grillo gli dà del "traditore". Cosa è successo? Chi lo seguirà? Perché tutto questo, diomio?

«Conte aveva ereditato il M5S, capendo che, così come era diventato, alle prossime elezioni non avrebbe più preso un voto. Così ha tentato di riconquistare una fetta di elettorato priva di rappresentanza, contraria all'invio delle armi in Ucraina. Ma questo rischiava di far cadere il governo. Che, se cade, significa che i M5S vanno tutti a casa. Di Maio ha atteso l'esito delle elezioni, e poi si è "messo in proprio" in salvataggio di Draghi. Promettendo un terzo mandato a chi non aveva più speranze...». 

È il caos. Qual è la differenza col M5s delle origini? Questo M5S non ha esaurito la sua mission, diventando parte del sistema?

«I 5 stelle di Casaleggio volevano democrazia diretta, trasparenza nei palazzi, erano contro la finanza speculativa e i finanziamenti statali. La mossa dell'Alde al Parlamento Europeo, con M5S che voleva entrare nel partito più europeista in cambio di poltrone e potere, fu l'inizio. Poi fu proprio Di Maio a dare il colpo di grazia, inaugurando la stagione degli incontri con le lobby a porte chiuse, dei pranzi con la Trilaterale, delle rassicurazioni alle banche sui pignoramenti più rapidi. E adesso finisce di smembrare i 5Stelle, per guadagnarsi la gratitudine di Draghi. Per questo Grillo lo chiama traditore». 

Hai detto che Rocco Casalino, ti deve molto. In che senso? Cosa consiglieresti nella comunicazione di Conte, ora?

«Lo ha detto lui. In effetti fui io ad assumerlo e a dargli il ruolo di gestione dei rapporti con le tv, a difenderlo da Casaleggio che non lo voleva e poi a caldeggiarlo in sostituzione mia, quando andai in Europa. Il resto lo ha fatto tutto da solo. Era un "grillino" sui generis. Noi predicavamo la semplicità, lui veniva in Senato con abiti firmati e cinture di Gucci. Però è un lavoratore infaticabile e - a differenza mia - ha un'ambizione senza freni. Se vuole aiutare Conte e il M5S ad invertire la parabola, gli consiglierei la comunicazione degli inizi: umiltà e tornare a picconare il sistema da fuori».

Come vedi Di Battista e i duri e puri del M5S? C'è un'altra possibilità per loro?

«Di Battista è stato molto in gamba, uscendo dai palazzi dopo il primo mandato. Si è riservato la possibilità di farne un secondo, e non si è reso corresponsabile del declino. Lui ha l'immagine, i contenuti e la credibilità per rilanciare un Movimento sull'orlo dell'estinzione».

Quell’inevitabile “cupio dissolvi” del Movimento nato per sparire. L’arrivo di Draghi ha accentuato il carattere populista dei partiti alla ricerca del consenso facile. Aldo Varano su Il Dubbio il 7 luglio 2022.

Partiamo dall’inizio. Il termine populismo col quale vengono indicati in Italia i 5s e la Lega di Salvini, non ha nulla a che fare col movimento politico e culturale che si affermò alla fine dell’Ottocento in Russia. In Italia, oggi, populista è usato in senso dispregiativo. Secondo il Grande dizionario dell’uso di Tullio De Mauro, indica un “atteggiamento politico di esaltazione velleitaria e demagogica dei ceti più poveri”. Non a caso né i 5s né la Lega si sono mai autodefiniti populisti. Definizione cucitagli addosso dai loro avversari o comunque da chi vuole attaccarli e indebolirli.

Il termine si è imposto in Italia quando le elezioni politiche del 2018 (che registrarono l’affluenza più bassa nella storia repubblicana) consegnarono al paese un Parlamento dove Lega e 5s, le forze destinate a cavalcare e rappresentare il populismo, insieme raggiungevano un’ampia maggioranza assoluta. Insomma, nessuno dei due blocchi tradizionali della politica italiana, centrodestra e centrosinistra, sarebbe stato in grado di fare un governo. I 5s, il partito del “visionario” Casaleggio e del comico Beppe Grillo, era forte alla Camera di 225 seggi con oltre il 32%. Il partito di Salvini si era fermato a 123 diventando il più forte partito del centrodestra, coalizione che comunque non aveva la maggioranza. Insieme, 5s e Lega avevano alla Camera una maggioranza schiacciante di 348 seggi su 630. Mattarella si trovò a fronteggiare una situazione drammatica. O prendere atto dell’impossibilità di fare un qualunque governo rispedendo gli italiani al voto, con tutti i guasti che questa scelta avrebbe provocato; o promuovere un governo dei vincitori per il quale la Lega di Salvini (mollando i suoi alleati storici col retropensiero di impadronirsi del patrimonio elettorale del Cavaliere ormai al tramonto), apparve immediatamente disponibile. Entusiasti, quasi e forse più della Lega, i 5s.Conte emerse dall’anonimato, quindi, perché nessuno dei due leader dei partiti populisti (Di Maio e Salvini) avrebbe concesso all’altro la carica di Presidente del Consiglio. Conte (che non mise mai bocca nelle decisioni del ministro dell’Interno Salvini), lo cacciò poi dal governo solo quando ebbe la certezza che Salvini volesse cacciare lui e capì di poter sostituire il leader leghista col Pd.

L’operazione gestita con maestria movimentista e spregiudicata venne diretta dall’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi (allora Pd) che portata a termine l’operazione uscì dal Pd. Del resto, sempre di più sia Salvini che Di Maio avevano continuato ad alimentare le proprie strategie populiste convinti entrambi di far crescere i propri consensi e di poter trionfare, da soli, il giro successivo. Il Covid bruciò i sogni di entrambi. Conte, sballato Salvini dal governo e immaginando di essersi rafforzato, faceva confusione come presidente del Consiglio dirigendo un governo opposto a quello che aveva diretto in precedenza. Intanto Salvini occhieggiava con tutti i malumori che, anche grazie al Covid, iniziarono a crescere nel paese. Quando successivamente Renzi ritirò la delegazione del suo partito dal governo, aprendo di fatto la crisi, Mattarella, incaricato il 5s Fico, presidente della Camera, di esplorare la situazione, fu costretto a prendere atto che tutti i ponti tra 5s e Pd e tra 5s e Lega erano ormai consumati. Tutti immaginavano lo scioglimento delle Camere (il Covid sempre a infuriare) ma Mattarella, convinto dell’impossibilità del voto proprio per il pericolo di far crescere il Covid, ma anche per l’urgenza di metter fine alla confusione, diede l’incarico di formare il governo a Mario Draghi.

Con quest’ingresso la partita della politica italiana si modificò profondamente. Trucchi, furbizie e rinvii sparirono all’improvviso. Draghi chiese a tutti i partiti in parlamento di entrare nel governo. Rinunciò a farne parte soltanto Giorgia Meloni che, partita da irrilevante 4 e rotti per cento del 2018, era ormai in competizione con Salvini (in arretramento) per diventare il partito più pesante dell’area di centrodestra. Né è una forzatura pensare che la stessa Meloni non spinse per entrare nel governo per favorire Draghi (con cui ha mantenuto un ottimo ed equilibrato rapporto) date le sue posizioni antieuropeiste e gli antenati politici ritenuti (a ragione o a torto) ancora imbarazzanti. Problema: l’arrivo di Draghi ha accentuato il carattere populista dei partiti populisti? È evidente che è accaduto. Forse era inevitabile. Draghi ha spinto più in alto l’impegno politico ed ha quindi accentuato le spinte populiste alla ricerca di consenso tra le fasce meno evolute politicamente e meno attrezzate culturalmente nel paese. Si tenga conto che i 5s, ad ognuno dei passaggi che abbiamo ripercorso, hanno perso peso con un ritmo sempre più imbarazzante. Inevitabile perché i 5s per definizione sono un partito che ha puntato ad annullare la politica. Se uno vale uno, ed è questo il convincimento vero che ha consentito la molla del 32% nel 2018, non c’è bisogno di alcun partito e di alcun politico. Il M5s è il solo partito della storia d’Italia nato consapevolmente col lucido obiettivo di evaporarsi senza lasciar traccia.

A seguire la logica dei 5s la propria scomparsa sarebbe il segno del proprio trionfo. Ma quando ha iniziato a indietreggiare, essendo ormai finita la chiacchiera dell’uno vale uno, sostituita dai vantaggi del seggio parlamentare per la totalità dei quasi sconosciuti rappresentanti eletti tra i 5s, sono nate nuove dottrine. I 5s si sono sempre più spaccati tra una fascia che s’è interamente allontanata dalle teorie iniziali del Movimento, che avrebbe poi rappresentato Di Maio fino alla scissione, e un’altra che apparentemente segue le vecchie teorie ma che si guarda attorno con attenzione e non ha ancora deciso se restare sotto la guida di Conte o se richiamare in servizio il rumoroso e fantasioso Di Battista. Il guaio per il paese è che sia la Lega di Salvini, ormai ampiamente surclassata da FdI della Meloni, che l’ormai 5s di Conte si sono radicalizzati nella propria parte. Salvini è convinto che alla fine, anche grazie a Berlusconi, e piegando la parte più moderata di Fi, potrebbe riacciuffare la supremazia nel centrodestra. Tiene conto che la Meloni continua ad avere una difficoltà d’immagine e ad ogni buona occasione punta a metterla in difficoltà. Il punto più alto di questa strategia s’è giocato durante l’elezione del presidente della Repubblica con l’emarginazione della alleata/avversaria. Intanto Salvini rilancia tutti i punti politici delle vecchie impostazioni leghiste: dal regionalismo differenziato (preteso dai presidenti di Regione del Nord, e non solo del nord) alle spinte per favorire i padroncini della vecchia area leghista. P

er non dire delle pulsioni internazionali che lo hanno imbarazzato e indebolito per la sua storica vicinanza al putinismo e a Putin, che in passato, quando girava indossando le magliette col volto del dittatore russo, avrebbe volentieri barattato offrendo in cambio almeno due Mattarella. Ancora più in crisi il populismo necessario a Conte per giustificare la sua presenza nella politica italiana. La sua situazione s’è aggravata dopo la scissione dai 5s di Di Maio, che del Movimento fu a lungo il maggior leader e interprete. Conte in questo momento appare privo di strategia politica specie dopo il raffreddamento del Pd nei suoi conformi. Una difficoltà di rapporto che potrebbe perfino far restare i 5s senza rappresentanza se le cose dovessero ancor di più aggrovigliarsi senza arrivare al 2023 per le elezioni (possibilità comunque abbastanza difficile perché i 5s scissionisti o no temono le prossime elezioni).

Una poco divina commedia di quel che fu il MoVimento 5 Stelle. Beppe Grillo a Roma per tentare di mettere ordine tra i suoi, dopo l’uscita di Di Maio, ha raccolto una voglia di crisi rigeneratrice, e di Governo…Francesco Damato su Il Dubbio l'1 luglio 2022.

Ci vorrebbero Dante e la sua divina commedia, in qualcuno dei gironi dell’inferno, per rappresentare ormai la vicenda umana e politica del MoVimento 5 Stelle. Che nacque nel giorno della festa di San Francesco del 2009 col proposito del compianto Gianroberto Casaleggio e del sopravvissuto Beppe Grillo per farci vivere tutti nella povertà felice cercata dal patrono d’Italia e al tempo stesso per mandare a quel paese tutti i renitenti a quell’antico e rigenerante modello di vita.

Arrivato addirittura nel giro di soli quattro anni a sfiorare nel 2013 la vittoria sul malcapitato Pier Luigi Bersani, del Pd, che prendendoli in parola pensò di poterne ottenere l’aiuto ad un governo “di minoranza e di combattimento” di spirito appunto francescano, il movimento arrivò in altri quattro anni a conquistare, nel 2018, con la maggioranza relativa la posizione “centrale” in Parlamento che era stata per tanto tempo della Democrazia Cristiana.

In soli quattro anni tuttavia di governo, nel quale ha avvicendato come alleati o soci occasionali quasi tutti i partiti, presiedendo addirittura con Giuseppe Conte, presentatosi al pubblico come “avvocato del popolo”, due dei tre esecutivi avvicendatisi in questa legislatura, il movimento ha perso per strada un po’ di pezzi. L’ultimo dei quali, uscitone al seguito di Luigi Di Maio, gli ha dato il penultimo colpo facendogli mancare la maggioranza relativa in entrambe le Camere, a vantaggio della Lega di Matteo Salvini.

L’ultimo colpo in questa commedia un po’ meno divina di quella di Dante se lo contendono curiosamente – sotto gli occhi immagino sgomenti di Mario Draghi a Palazzo Chigi, fra un summit internazionale e l’altro cui partecipa nel contesto di una guerra vera, quella in Ucraina con tutti gli effetti collaterali- il segretario del Pd Enrico Letta e il fondatore residuo e garante dello stesso movimento, Beppe Grillo. Il segretario del Pd succhiandone le ultime risorse elettorali in quello che doveva essere il “campo largo” dei progressisti ma sta diventando solo il campo più largo semplicemente di quello cui Matteo Renzi aveva ridotto il partito nel 2018. L’altro, Grillo, correndo a Roma non per soccorrere l’infortunato Conte ma per dare praticamente ragione a chi l’aveva di fatto investito con la scissione, cioè di Di Maio.

Guardate che non vi sto raccontando una balla prendendola per spirito di gruppo o di redazione come preferite, dalla prima pagina di ieri del Dubbio. Dove si gridava lo stop di Grillo a Conte per lasciare ben saldo Draghi a Palazzo Chigi, minacciato secondo Di Maio dalle tentazioni pur negate dallo stesso Conte di “disallineare” l’Italia dall’alleanza atlantica e dall’Europa nel fronteggiare la guerra di Putin all’Ucraina. E per negare agli aspiranti sotto le stelle un terzo mandato con apposita deroga al divieto voluto alla nascita del movimento, come se veramente tra i tagli apportati ai seggi con una riforma autoflagellante e la crisi elettorale sopraggiunta ci fossero le condizioni per fare arrivare ancora qualcuno in Parlamento sotto quelle insegne o simili.

Vi giuro che, nonostante l’amicizia, la colleganza e quant’altro con i colleghi di questo giornale, e fedele alla sua stessa testata, che è appunto Il Dubbio, ho diffidato dei primi lanci di agenzie e simili che rappresentavano Grillo più vicino a Di Maio che a Conte. Mi sono arreso alla realtà, decidendomi a scriverne, solo dopo avere letto, stropicciandomi gli occhi di prima mattina, il titolo di prima pagina dell’insospettabile Fatto Quotidiano dell’ancor più insospettabile Marco Travaglio, da mesi impegnato a consigliare a Conte, quando ancora disponeva sulla carta della maggioranza relativa in Parlamento, di staccare la spina a Draghi per perdere il meno possibile – a suo avviso- alle prossime elezioni politiche. Eccovelo il titolo, di apertura per quanto modesta, del Fatto: “Grillo aiuta Di Maio: sì Draghi e 2 mandati”. “Il Garante completava il messaggio nel cosiddetto occhiello- mette in difficoltà Conte” nella gestione di quel che è rimasto delle 5Stelle, stampate in rosso.

Alla luce delle “difficoltà” certificate da chi lo difende sino ad averne scritto come del migliore presidente del Consiglio avuto dall’Italia e averne denunciato la sostituzione a Palazzo Chigi come un omicidio, inferiore solo al “regicidio” lamentato dal mio amico e compianto Enzo Bettiza sul Giornale di Indro Montanelli quando fu costretto alle dimissioni il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon; alla luce, dicevo, delle “difficoltà” procurategli da Grillo ho avvertito persino qualche moto di solidarietà umana vedendo la foto di Conte in arrivo a piedi, temo con un filo di sudore col caldo che fa in questi giorni anche a Roma, nell’albergo dove gli aveva dato appuntamento Grillo. E non credo, visto il racconto anche del Fatto, solo per contemplare il solito, pur suggestivo spettacolo dei resti dei Fori Imperiali: imponenti rispetto a quelli ormai del movimento fondato nel 2009.

C’è tuttavia da aggiungere che le rovine del movimento debbono essere poi apparse al garante superiori al previsto se ha raccolto dai parlamentari rimasti una voglia tale di crisi rigeneratrice di governo da avere concesso che si potrebbe, se proprio necessario, passare all’appoggio esterno a Draghi: non comunque all’opposizione.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 29 giugno 2022.

Il numero uno è sempre lui, ma non è più uguale all'uno che era, anche perché ce n'è un altro che non è più uguale a uno neanche lui, perché non c'è più, ha fatto una scissione, mentre un altro ancora, di fatto, è un imbucato di Volturara Appula e pensa di valere tre, ma non ha neanche un mandato, e in compenso, appunto, ne vuole tre per alcuni altri, neanche tutti, solo alcuni, ma gli altri - tutti gli altri - vorrebbero essere loro quelli che valgono tre, e così il numero uno non sa che cosa fare, o così sembra, e manda messaggi contraddittòri, manda affanculo i giornalisti che dieci anni fa dovevano essere morti e però sono vivi, ma non pendono più dalle sue labbra, non pensano più che «vaffanculo» sia un dirompente messaggio politico, pensano solo che sia un vaffanculo alla vecchia maniera che il numero uno non riesce più a dirsi neanche da solo, allo specchio, anche perché lo specchio è frantumato in mille pezzetti come succede ai vetri di sicurezza delle auto, i pezzetti si sparpagliano ovunque ma non tagliano, non incidono, non servono, si sa soltanto che il vetro non è più trasparente (da anni) e che andrebbe sostituito per intero, perché così non serve a niente, ed è l'unica certezza: niente è uguale a niente, zero è uguale a zero, ci sono due forze «politiche» che si sono separate ma potrebbero restare nello stesso governo, ed è un'agonia, un'autoconsunzione in diretta, una decomposizione a cielo aperto, un tramonto dopo una notte polare col sole che non ha neppure fatto in tempo ad alzarsi.

Che pena anche solo scriverne, cercare qualche parola per l'orazione funebre, leggere le «invenzioni» di quei «morti» che sarebbero i giornalisti ma i cui necrologi sembrano tutti plausibili, i morti fanno l'autopsia a un cadavere, con Beppe Grillo che è legato al tetto dei due mandati per affetto verso un morto vero (Gianroberto Casaleggio) e che però si dice disposto, Grillo, a riciclare i suoi 49 parlamentari in una sorta di scuola di formazione grillina: quando basterebbe una qualsiasi scuola media. Questi parlamentari grillini, cioè, dovrebbero insegnare qualcosa a qualcuno. 

Poi Grillo che biascica improbabilissimi attestati di stima per Giuseppe Conte («Abbiamo caratteri diversi, ma un ottimo rapporto»: manco ai tempi di Gava) mentre lui, Conte, non si capisce neppure se voglia restare al governo oppure no, e in ogni caso, come detto, vorrebbe una deroga di mandato almeno per alcuni parlamentari amici suoi, all'apparenza i più stupidi.

Si legge di trattative per deroghe da calcolare in percentuale tipo un dieci per cento (manco in Piazza del Gesù) e insomma l'idea di ricandidarne non più di cinque per le prossime elezioni politiche: ma sarà vero? 

E se anche fosse, in concreto, che cosa ce ne frega? Sino a che punto equivale a scrivere di «politica» il descrivere un vivido e impietoso funerale di gruppo?

Peraltro le urla delle prefiche più disperate devono ancora venire, ne scriveremo e scriveranno nei prossimi giorni, quando cominceranno le epurazioni e il fuggi-fuggi generale, e la conta anche dei soldi rimasti in cassa, e le voci sul cambio di una sede troppo esosa, e la stra-conferma dell'irrilevanza politica e manageriale di Giuseppe Conte e relativi consigliori porta-sfiga, soprattutto la prospettiva di lotte titaniche (rendetevi conto) tra soggetti come Paola Taverna, Vito Crimi, Alessandro Di Battista e altri ancora, questo mentre Grillo è stato visto scendere dall'auto (e l'Ansa lo rileva) con in mano una banana.

A chi importa che cosa farà, a chi frega delle primarie per le regionali in Sicilia, se Conte resterà presidente del Movimento? Importa solo chi resterà al governo, ma sino a un certo punto: Mario Draghi rimarrà in piedi lo stesso, e il Movimento è destinato alla tomba lo stesso.

Neanche lo scissionista trasformista, del resto, riuscirebbe a garantire niente a transfughi di una forza ridotta a meno di un quarto dei voti (a scendere) rispetto a quando il Paese fu così stupido da votarli in gran massa. Poi raccontano che Grillo sul tetto dei due mandati sarebbe irremovibile come una salma, e che abbia incontrato l'ex guardasigilli Alfonso Bonafede che andrebbe a casa pure lui: «Alfonso, dai, tornerai a fare l'avvocato». 

Dicono pure che stia puntando al foro di Milano, Bonafede: che per uno come lui suonerebbe probabile come se diventasse, chessò, ministro della giustizia. Insomma è triste, è tutto triste, come quei giornalisti che iniziano la carriera scrivendo necrologi, e ora, in fondo, ne stanno solo scrivendo un altro.

Stefano Folli per “la Repubblica” il 29 giugno 2022.  

L’ultimo paradosso italiano è anche il più spettacolare. Da un lato, Mario Draghi che si muove da protagonista al G7 e subito dopo al vertice della Nato convocato per ridisegnare, in tempi di guerra, le priorità geopolitiche e militari dell'Occidente: un momento che potrebbe diventare storico, o quantomeno in grado di essere riconosciuto come tale fra qualche anno. Per adesso viene ribadita la solidarietà attiva con l'Ucraina e anche su questo punto il presidente del Consiglio è esplicito.

Dall'altro lato, c'è lo spettacolo provinciale di una politica domestica che non riesce a sollevarsi dalle sue beghe. Draghi sembra muoversi sulla scena internazionale ostentando indifferenza, cioè senza curarsi delle convulsioni dei partiti che pure fanno parte della maggioranza di quasi unità nazionale. Dietro il rispetto formale del protocollo politico e parlamentare, s' indovina un distacco che un tempo sarebbe stato impensabile. Non è l'effetto dell'"arroganza tecnocratica", come dice qualcuno, bensì del collasso della politica.

O almeno di quei segmenti che hanno dominato la scena negli ultimi quattro anni. Forse non è un caso se Draghi ha scelto di fare una valutazione molto politica quando ha insistito, a margine del G7: "La crisi energetica non deve produrre un ritorno del populismo". Frase che definisce una linea discriminante: e ciò proprio nei giorni in cui si misura il cortocircuito dei movimenti, appunto, populisti.

Ne è conferma il fenomeno più clamoroso: i Cinque Stelle dopo la scissione del gruppo Di Maio. È comprensibile che Conte e i suoi si sforzino di sopravvivere, tuttavia è evidente che sono privi di qualsiasi idea che non sia la guerriglia pressoché quotidiana, ma di corto respiro, nei confronti del governo e del premier. 

Del resto, l'antico padre carismatico, Beppe Grillo, maschera a malapena il fastidio, se non il disprezzo, per la sua creatura. Lungi dall'essere venuto a Roma per dare una mano a Conte - a parte le frasi di circostanza - , egli si preoccupa di far capire a tutti di essere ancora la "guida suprema" di quel che resta del M5S. E di aver deciso che si continua ad appoggiare Draghi, quindi si resta nel governo. Collocazione che in verità Grillo, per motivi pubblici e privati, non ha mai messo in dubbio. Si dirà che un giorno o l'altro i "contiani" vorranno liberarsi dalla tutela del padre-padrone.

Può darsi, ma non siamo certo a quel punto. Per ora l'avvocato del popolo si trova stretto nella solita tenaglia. Se sospende le ostilità verso Palazzo Chigi delude i più accesi tra i suoi sostenitori e si espone alla domanda ovvia: ma allora perché avete rotto con Di Maio sulla politica estera, se poi continuate a votare nello stesso modo? Se viceversa ascolta i consiglieri più bellicosi, deve preparare l'uscita dall'esecutivo e il reingresso nel movimento dell'irrequieto Di Battista, simbolo stesso della deriva massimalista.

La mossa avrebbe una sua logica, visto che già oggi la scissione tende a spingere i 5S verso i confini della maggioranza. Ma esige una tempra che Conte non ha mai dimostrato di avere, tant' è che al momento il suo impegno è dedicato a introdurre eccezioni alla regola dei due mandati, nella speranza di costruirsi un piccolo cerchio di fedeli. Non proprio un orizzonte rivoluzionario. Ecco perché gli stessi che vogliono i 5S fuori dal governo desiderano anche affidare la risalita elettorale alla verve demagogica di Di Battista. Per Conte si preparano tempi cupi.

DAGOREPORT il 28 giugno 2022.

Lo show romano di Beppe Grillo è stata la prova verificata che di Elevato, in mezzo a questa ammucchiata di pipparoli a 5 stelle, ce n’è uno solo. Il solo a possedere un intuito politico e una leadership sociale: con quattro lazzi ha messo termine alla ricreazione dell’asilo Mariuccia messo su dall’irrilevanza di Giuseppe Conte. (E bene ha fatto Di Maio a tagliare la corda 24 ore prima dell’arrivo di Beppemao all’Hotel Forum: l’ex bibitaro sarebbe stato travolto dal carisma del Fondatore).

Così la pochette di Peppiniello Appulo si è rivelata utile a Grillo per pulirsi gli occhiali. 

Primo punto: Caro Giuseppe, si resta al governo. Anche se noi usciamo, e facciamo felici Travaglio e Di Battista, Draghi rimane in piedi a palazzo Chigi, quindi diventiamo ininfluenti, il Pd ci ripudia e conteremo meno di quel poco che contiamo adesso.

Secondo punto: Caro Conte, il limite ai due mandati deve restare "un tema identitario imprescindibile" e "senza deroghe". Qual è il criterio per fare una distinzione sulle deroghe: l’anzianità, l’amicizia, la simpatia? Tu dici che, senza deroghe, ci sarebbe un esodo verso Di Maio? Ma anche Luigino non riuscirà mai ad eleggerli tutti: siamo passati dal 32% all’8, meno di un quarto, a cui si deve aggiungere anche il taglio dei parlamentari (200 senatori, 400 deputati), previsto dalla nostra legge. Anche Di Maio avrà presto i suoi problemi. 

Terzo punto: Caro avvocato, una deroga al limite dei due mandati per sbloccare la candidatura di Giancarlo Cancelleri in Sicilia, te la puoi sognare. Griillo si ricorda benissimo che quando si aprì uno scontro contro di lui, il comitato di garanzia era formato da Cancellieri, Roberta Lombardi e da Crimi.

Permaloso com’è, l’Elevato non permetterà mai a Cancellieri di ricandidarsi al terzo mandato. Non solo: se Cancellieri non verrà candidato, Conte prende l’1% in Sicilia. Ancora: malgrado le supercazzole che spara dalla Gruber, Conte non vuole il ritorno di Dibba perché andrebbe ad oscurare Taverna e Crimi. 

Ultimo punto: Egregio avvocato, se ti interessa ancora fare il presidente del Movimento, devi seguire quello che ti dico io. Amen.

(ANSA il 28 giugno 2022) - "Ma siete esaltati, coprite con non cose le cose vere. Quando vi comporterete bene con me, con noi, con il Movimento faremo delle belle interviste". Lo ha detto il garante del Movimento Beppe Grillo arrivando in Senato, rispondendo a chi gli domandava se il M5s sta valutando l'appoggio esterno al governo. Grillo è sceso dall'auto con in mano una banana.

(ANSA il 28 giugno 2022) – È assolutamente necessario presentare un candidato del M5s alle primarie per le Regionali in Sicilia: è la richiesta ribadita dai deputati del Movimento a Beppe Grillo, nelle riunioni con il garante in corso alla Camera. 

Per sbloccare la candidatura di Giancarlo Cancelleri - spiegano fonti parlamentari dei 5 stelle - servirebbe in tempi strettissimi una deroga al limite dei due mandati, regola che deve restare "identitaria" per il Movimento, secondo quanto ha ribadito anche oggi Grillo. L'altra candidatura forte, secondo le stesse fonti, è quella di Nuccio Di Paola, capogruppo 5 stelle all'Ars.

Simone Canettieri per ilfoglio.it il 28 giugno 2022.  

Il Grillo-tour fra i parlamentari M5s in ansia per la ricandidatura continua. Questa mattina, prima di trasferirsi in Senato, il garante ha continuato ad ascoltare "i miei ragazzi". Salvo ribadire, ancora una volta, che "il tetto dei due mandati è imprescindibile". Stesso discorso in Sicilia, dove per le regionali Giancarlo Cancelleri chiede la deroga: "Per me non se ne parla". E allora bisogna ricostruire queste sedute di autocoscienza di Grillo con i parlamentari nel panico, al chiuso della Sala Tatarella, secondo piano di Montecitorio.

Quelli al primo mandato si fanno paladini dei principi inderogabili: "Beppe siamo con te!". Quelli al secondo tacciano, mettono sguardi vaghi e parlano di temi. Il siparietto che più merita è quello fra Grillo e Alfonso Bonafede. L'ex ministro della Giustizia, arrivato al secondo giro di boa, prende la parola: "Come ti ho già detto in privato, sono a favore del rispetto della regola. Non bisogna derogare". E Grillo: "Ma certo, Alfonso, dai. Tornerai a fare l'avvocato". L'ex ministro del Conte I e II la prende a ridere, ma pare che si stia davvero attrezzando per il futuro puntando al foro di Milano.

Giuseppe Brescia, anche egli al secondo mandato, racconta l'incontro così: "Sono intervenuto per parlare di temi e collocazione politica. Non di mandati". Perché? "Ero in conflitto d'interessi, come d'altronde i miei colleghi che si trovano alla prima legislatura". Il Grillo tour continua nel Palazzo anche nel pomeriggio. Parola d'ordine: non vi lascerò soli ragazzi, sarete i prof. della nostra scuola di formazione. Una sistemazione che sembra non interessare agli eletti: "Sì, va bene ma quanto si guadagna?".

 Marcello Veneziani per “la Verità” il 26 giugno 2022.

Se fossi Beppe Grillo scioglierei il Movimento 5 Stelle. Non ha più ragione di esistere, ha perso tra scissioni, defezioni ed espulsioni più della metà dei suoi rappresentanti eletti in Parlamento, è destinato a un'ingloriosa decimazione e il trasformismo lo ha divorato, snaturato e svuotato. Pensare che il più camaleonte di tutti Giuseppe Conte debba oggi rappresentare e difendere l'identità del Movimento dai traditori voltagabbana come Luigino Di Maio, è qualcosa che va oltre il teatrino dell'assurdo.

La cosa peggiore che si può dire di loro è che a ruoli invertiti farebbero ambedue la stessa cosa: Conte al governo avrebbe le stesse posizioni di Di Maio in tema di euroatlantismo, guerra, Mattarella, Mastella e compagnia bella. E Di Maio fuori dal governo sarebbe il leader dei grillini veraci e risentiti. Sono situazionisti, per non dire paraculi.

Conte e Di Maio hanno insieme vissuto, promosso e condiviso tutte le quattro stagioni del transgrillismo: identitari quando non sono al governo, alleati con Salvini per andare al governo, alleati ai dem per restare al governo, infine sostenitori di Draghi, della Nato e delle Vecchie Zie euroamericane per restare al governo. E ambedue hanno fatto di tutto per non andare alle urne: lo chiedevano i loro stessi parlamentari che a loro volta, come i loro capi, hanno a cuore solo la sopravvivenza personale. E perciò votano qualsiasi governo sia in carica, pur non di tornare al voto.

Sintetizzo così la situazione del divorzio tra Volta&Gabbana: il trasformista Di Maio si è separato dal contorsionista Conte. Giuseppe Zelig sposa da avvocato la causa del Movimento 5S ma non s' azzarda a rompere col governo, altrimenti il voto sbaracca i grillini. E Fregoli Di Maio si fa euro-atlantico, draghino e centrista, tra Mastella e Mattarella e si piazza al centro. 

Sono statisti acrobatici, specialisti nel salto multiplo della quaglia. Uno vale uno quando non sei nessuno; altrimenti pussa via, non sapete chi sono io.

Quando Giggino apparve da cucciolo di Grillo in tv, ascoltandolo e vedendo i suoi modi poco grillini, le sue mani di fata, il suo argomentare e il suo abitino, gli predicemmo il futuro: diventerà democristiano, senza offesa per i dc. Così è stato. E così sarà.

Solo un paio di settimane fa ipotizzavamo un Cartello Surreale costituito da Di Maio, Mastella, Renzi, Carfagna e i centristi sparsi e oggi quello scenario dell'assurdo è l'ipotesi più probabile su cui stanno lavorando gli stessi interessati, salvo non riuscire nell'intento e allora invocare la loro purezza: non saremmo mai andati con lui. Dal canto suo Conte, stando fuori dal governo, serbando rancore per la sua cacciata da Palazzo Chigi e dovendo rappresentare la clientela grillina, ha recitato per poche ore la parte dell'Intransigente per poi squagliarsi come burro e calarsi le braghe, uscendo con la coda tra le gambe.

Alla fine è rimasto nel governo e nella maggioranza pure lui come il suo rivale transgenico, votando pure il via libera per le armi all'Ucraina e rimandando ancora una volta la rivoluzione, causa maltempo, a data da destinarsi. E allora per cosa si sono divisi? Per la sola e ridicola ragione del secondo mandato? 

Ma dai, fatela finita con questa pagliacciata. Alla fine, l'unico grillino coerente è Ale Di Battista, purissimo grillissimo, che è fuori dal Movimento ma rappresenta lo spirito originario, confusionario ma coerente. Dovrebbe essere lui l'ultimo leader del Movimento, pur ridotto a partitino d'opposizione almeno per concludere in bellezza con la sigla di chiusura. Lui è l'unico in questa vicenda a uscirne a testa alta; magari vuota ma alta.

L'unica argomentazione seria a queste mie osservazioni è sempre la solita: ma gli altri partiti sono forse meglio? No, non sono meglio, ma questi sono peggio. 

Trasformisti ce ne sono, eccome, anche dalle altre parti, gente che si rimangia quel che dice il giorno prima ce ne sono a iosa, ma nessuno è riuscito a essere così trasformista come loro e a vivere tutte le stagioni passando dal bianco al nero, dal rosso al verde, dal giallo al grigio, dall'antipolitico al peggior politicante. Ma un amico grillino mi incalza: e allora per te chi dovremmo votare? Le soluzioni sono due: se siete coerenti, per nessuno. 

Se siete realisti e pensate al male minore, a tutti gli altri, uno a vostra scelta, ciascuno secondo le sue preferenze. I grillini sono riusciti nell'arco di questi quattro anni di governo e di movimento maggioritario a dimostrare due cose opposte: quanti danni, errori, sciocchezze può commettere un movimento antipolitico di dilettanti arrabbiati al governo, dal reddito di parassitanza in poi.

E quanto accomodante, servile, trasformista, poltronista può diventare un movimento del genere, superando in queste specialità tutti gli indecenti politicanti delle due repubbliche precedenti. Se fossi Beppe Grillo annuncerei di sciogliere il movimento, magari col consenso del ritrovato sodale Casaleggio, pur avendo la certezza che i suddetti grillini, grilloidi e grillacchioni se ne fregherebbero e resterebbero attaccati all'ultimo straccio di Movimento e di seggiola fino a che non saranno cacciati dall'elettorato.

Ma per lui sarebbe perlomeno un modo per scindere la sua immagine e la sua responsabilità di leader e ora di garante da quel circo penoso. E se non vuole dichiarare fallimento del progetto, se non vuole dirsi veramente sinceramente deluso dalla sua creatura, potrebbe perfino chiudere con un colpo di teatro, dicendo che la missione dei grillini è compiuta e perciò può dirsi soddisfatto e ora non hanno più ragion d'esistere: ha dimostrato che dal nulla un movimento può diventare il primo partito e andare al governo, e ha dimostrato pure il contrario, che un partito di governo, primo per consensi, può ridursi al nulla. Dal nulla al nulla, passando per il potere. Sarebbe il vero ritorno alle origini.

Il doppio mandato e il trasloco dal Palazzo: l'incubo per le settanta anime perse grilline. Francesco Boezi il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Salvo deroghe, dovrebbero mollare pure Fico, Taverna, D'Incà e Bonafede.

Alessandro Di Battista ha svolto, prima di optare per uno stop, un solo mandato ed essendo anti-sistemico in geopolitica - proprio come piace alla versione attuale di Giuseppe Conte - potrebbe rientrare in Parlamento e nel MoVimento 5 Stelle. Quello che potrebbe valere per «Dibba», però, non varrà, con ogni probabilità, per tanti storici grillini che sono rimasti. Quelli che dovranno scegliere tra il buen ritiro, la speranza in deroghe (quelle che magari scatteranno per qualche contiano di ferro) ed il riposizionamento partitico, che potrà essere facilitato dalla sempre più ventilata scissione.

Quanti sono, però, i parlamentari pentastellati che, per via della regola del limite dei due mandati, saranno quantomeno costretti a saltare un giro? Più o meno una settantina. Tutti esponenti che, grazie al crollo della creatura nata sull'onda delle «piazze del Vaffa» ed al taglio degli scranni imposto dalla riforma targata proprio M5S, sono in predicato di salutare la politica, oltre che il Parlamento. L'idea di Beppe Grillo, che sui due mandati ha ribadito d'essere indisponibile a trattare, sarebbe quella di aprire alle candidature nei Consigli regionali o al Parlamento europeo, ma il M5S non può più contare sui voti di qualche anno fa. La discesa fotografata dalle recenti amministrative non ha bisogno di interpretazioni: il nervosismo non può che circolare tra chi sta per varcare di nuovo le porte di casa. Se non altro perchè, ora come ora, correre a preferenze non può che essere considerato chimerico. Al netto della narrativa sulla distanza siderale dai palazzi - quella che è ormai in disuso - resta comunque difficile rintracciare un parlamentare grillino disposto a mollare la politica.

Il nervosismo ed i tumulti dei settanta sono percepibili con facilità. Di nomi se ne potrebbero fare tanti. Quello che pesa di più, sia in termini storico-politici sia in chiave istituzionale, è quello del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. L'Inquilino della Farnesina, che per le norme interne non potrebbe fare parte delle liste per le prossime elezioni politiche, è il candidato principe a fare la mossa capace di spaccare a metà l'universo pentastellato: la scissione, appunto. Anche il presidente della Camera Roberto Fico non sarebbe ricandidabile. Per lui, come per il ministro Federico D'Incà e per l'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, Conte potrebbe fare qualche eccezione.

Poi un lungo elenco di volti storici: Paola Taverna, Vito Crimi, Carlo Sibilia, Roberta Lombardi (al secondo mandato in Regione Lazio), Giancarlo Cancelleri, Manlio Di Stefano, Riccardo Fraccaro, Luca Frusone (che guida la delegazione italiana del Parlamento alla Nato), Gianluca Vacca, Nunzia Catalfo, Danilo Toninelli, Giulia Grillo, Marta Grande, Giulia Sarti, Sergio Battelli, Fabiana D'Adone (ministro in carica), e tanti altri.

Qualcuno seguirà il destino di Di Maio. Altri, come premesso, spariranno dalle scene. Il MoVimento 5 Stelle si prepara alla trasformazione in «MoVimento anime perse». E non sarà indolore.

"Si pone fuori dal M5s". La Todde "spara" su Di Maio. Francesca Galici il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

La critica della risoluzione di Luigi Di Maio non è piaciuta al M5s. E il vicepresidente Todde coglie l'occasione per un nuovo attacco al ministro.

La rivelazione della bozza di risoluzione del Movimento 5 stelle ha aperto un ulteriore fronte di rottura all'interno del M5s. Il primo attacco diretto è arrivato proprio da Luigi Di Maio: "Ho letto in queste ore che c'è una parte dei senatori della forza politica cui appartengo che avrebbe proposto una bozza di testo da inserire nella risoluzione, che di fatto ci disallinea dall'Alleanza Nato e ci disallinea dall'Ue". Parole che hanno creato ulteriore tensione all'interno del partito guidato da Giuseppe Conte.

L'affondo di Di Maio contro il suo partito è stato totale: "Se è un'Alleanza difensiva e ci siamo tutti quanti dentro, lavoriamo tutti quanti insieme per una soluzione pacifica. Non è che ci sganciamo e cominciamo a fare cose che magari possono essere utilizzate dalla propaganda russa per dire che l'Italia sta un po' di più con la Russia che con la Nato: questo non ce lo possiamo permettere". Ma alle sue parole sono seguite a stretto giro quelle di un altro esponente governativo, Alessandra Todde, viceministro allo Sviluppo economico e vicepresidente del M5S.

"No ad altri invii di armi". Spunta la bozza di risoluzione del M5s

"Chiunque dica che noi facciamo una politica che non è all'interno del contesto europeo e della Nato, che è anti-atlantica, non lo sta dicendo in buona fede. In realtà stiamo semplicemente ponendo al governo dei temi democratici e necessari in una dialettica politica", ha tuonato il viceministro, in riferimento alla critica mossa da Di Maio sulla bozza di risoluzione. Ma il punto di vista di Alessandra Todde non incontra nemmeno quello di Laura Castelli, viceministro dell'Economia: "Io di sicuro non voterei una risoluzione, qualora presentata dal mio gruppo, in cui si chiede di non inviare armi all'Ucraina. Un punto che va fuori dalla collocazione storica dell'Italia".

"Discutiamo se ci rappresenta...". Bomba contro Di Maio

Ma ancora una volta, il ministro degli Esteri è stato preso di mira per le esternazioni pubbliche contro il partito. Prima, Alessandra Todde ha ribadito la posizione già espressa da Giuseppe Conte: "Credo che Di Maio, parlando in una certa modalità, si stia ponendo fuori dal Movimento. Abbiamo degli organi interni in cui dibattere, come il Consiglio nazionale. La discussione deve essere fatta lì, se viene fatta a mezzo stampa ci assume la responsabilità di quello che si fa". Poi, Michele Gubitosa, vice presidente M5s, ha rincarato la dose: "Oggi Di Maio è un ministro della Repubblica perché è espressione della prima forza politica, non perché si chiama Luigi Di Maio, e mi domando quanto al governo rappresenti ancora il M5s, o se stia rappresentando solo sé stesso o qualcun altro".

"Quel movimento con le ruote a terra". Francesco Boezi il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il sociologo: "Era un'auto, ora è una bici. E in futuro vedo una scissione".

Il sociologo Domenico De Masi, che ha seguito il MoVimento 5 Stelle sin dalla comparsa sul palcoscenico politico, parla di rischio «deflagrazione» ed analizza le cause del crollo dei pentastellati.

Il MoVimento 5 Stelle è in via di sparizione. Come se lo spiega?

«Beh, il M5S può ancora contare sul 14%. Sono dati di sondaggi che non sono stati commissionati dai grillini. Se Bettino Craxi avesse mai avuto il 14%...».

Sì, però Craxi non guidava un partito a vocazione maggioritaria in un sistema bipolare.

«Vero. Resta che Conte e Di Maio sono le uniche due novità della politica italiana degli ultimi dieci anni, e non vanno d'accordo tra loro. Anzi, sono in contrapposizione frontale, pensi!».

Ripercorriamo la parabola grillina?

«Hanno avuto un exploit nel 2018. Poi il M5S ha perso metà elettorato con il governo gialloverde. Matteo Salvini, ai tempi, è cresciuto, in percentuale, tanto quanto è sceso il M5S. Poi i pentastellati sono rimasti attorno al 16-18% per ventisei mesi, in una situazione cristallizzata. Dopo il Quirinale, con il primo diverbio tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, sono scesi al 14%».

Una parabola discendente esiste.

«Certo, non c'è dubbio».

Inoltre, c'è un caos interno. Come lo spiega?

«Un caos è un caos. Come si può spiegare un caos? Le ripeto che gli unici due esponenti politici definibili nuovi, almeno rispetto all'ultimo decennio, sono nemici tra di loro».

Il MoVimento non è più antisistemico: questa è la causa della crisi?

«Tutti i movimenti tendono a diventare partiti. Un movimento è come un mucchio di sabbia, con tanti granelli diversi al suo interno. In questo caso, i granelli erano uniti dal rancore contro la casta. I mucchi di sabbia, però, tendono a diventare come un mattone. Non tutti ci riescono e spesso qualcosa viene perso per strada. Con il governo giallorosso, la situazione elettorale grillina era rimasta uguale a se stessa. Adesso, con l'animata dialettica tra Conte e Di Maio, rischiano la deflagrazione finale».

C'è solo questo aspetto?

«Il M5S aveva quattro ruote. Una era il movimentismo antisistemico, che era impersonato soprattutto da Alessandro Di Battista. C'era l'ala governativa, che era incarnata da Di Maio. Poi c'erano il carisma dei due fondatori e la piattaforma. Di queste quattro ruote, ne sono rimaste soltanto due: quella governativa e quella della linea di protesta, per cui ora c'è Conte. Il MoVimento era un'automobile, ora è una bicicletta. In una bicicletta, se le due ruote non concordano, è un bel problema».

Lei prevede una scissione?

«O si mettono d'accordo, e non lo vedo probabile, oppure si scindono. Se dovessero scindersi, tre quarti resterebbero con Conte, mentre un quarto andrebbe con Di Maio. I due tronconi, comunque sia, non corrispondo al tutto. Ovvio che il potere di due partiti non sarebbe quello avuto da un movimento unico ed unito».

La fase finale del grillismo tra profezie e decrescita. Casaleggio senior diceva: attivi o sarà inutile votarci.

Domenico Di Sanzo il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dal boom del 2013 al disastro delle Comunali, i fondatori avevano previsto il declino.

E se i fondatori avessero previsto tutto questo? Se davvero il Movimento non fosse altro che un «virus» destinato a estinguersi col tempo, come suggerito da Beppe Grillo? Oppure, se come scrisse Gianroberto Casaleggio, alla fine dei conti «i movimenti in Rete nascono spesso per ottenere un obiettivo. Informano, coinvolgono, fanno proseliti»? Possiamo anche non credere alle profezie, ma sembra proprio che, a tredici anni dalla sua fondazione, il M5s abbia raggiunto il suo scopo di spalancare le porte delle istituzioni ai cittadini e sia pronto per autodistruggersi. Come un messaggio di una chat di Telegram che, una volta arrivato a destinazione, scompare da solo e non se ne ha più traccia.

A proposito di predizioni, ce n'è una ancora più esplicita. Una dichiarazione che, letta oggi attraverso le lenti dello scontro tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, suona ancora più profetica. La pronuncia Grillo alla fine del 2012, proprio prima dello sbarco in Parlamento dei grillini. Il comico è in giro per l'Italia con il #Massacrotour, alle prese con la raccolta firme per presentare le liste delle elezioni politiche che si svolgeranno a marzo del 2013, quando un attivista gli chiede quale sarà il futuro dei Cinque Stelle. Questa la risposta del Garante: «Il futuro del M5s è sciogliersi. Quando noi avremo anziché il 20% dei consensi il 100%, quando i cittadini saranno diventati istituzioni, noi non avremo più senso». E i due esempi più lampanti di cittadini diventati istituzioni sono Conte e Di Maio. L'avvocato sconosciuto ai più che si è ritrovato presidente del Consiglio di due governi, l'ex studente fuori corso della provincia napoletana che a 35 anni può vantare il cursus honorum di un veterano della politica. Vicepresidente della Camera, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, vicepremier, ministro degli Esteri.

Suona come una profezia anche un'altra frase di Casaleggio senior, contenuta nel libro «Il Grillo canta sempre al tramonto», pubblicato nel 2013. «Non basta osservare quello che il MoVimento fa o non fa. Se uno ci crede deve diventare attivo, altrimenti perderemo, altrimenti è inutile votarci. In parlamento saremo magari cento, ma saremo dieci milioni fuori», la riflessione del cofondatore del M5s. Nove anni dopo ci troviamo di fronte a un partito fortissimo in Parlamento, con 227 eletti, ma i sondaggi sono in calo costante e il ricorso alla democrazia diretta digitale è sempre più raro.

Ma come siamo arrivati al big bang? L'impressione è che l'unica decrescita propiziata da Grillo sia stata quella infelice dei voti del Movimento. E se è stato lui, al battesimo del fuoco del 2013, a trascinare la sua banda di carneadi verso un sorprendente 25%, è stato sempre lui a benedire tutti i salti della quaglia del M5s al potere.

Dopo l'altro boom del 2018, il demiurgo del Vaffa, il profeta dell'antipolitica, ha dato il via libera prima alla creazione di un governo con la Lega e poi di uno con i nemici storici del Pd. Infine il capolavoro: entrare in un esecutivo di larghissime intese con a capo l'ex governatore della Bce Mario Draghi, definito per l'occasione un «grillino» dall'uomo che mandava a quel paese le banche, l'Europa e tutti i partiti. Per questo non deve meravigliare la dissipazione del consenso pentastellato a cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Dal 32% delle politiche del 2018 al 17% delle europee dell'anno successivo. Fino alle migliaia di voti persi alle comunali, con la caduta delle due roccaforti di Roma e Torino conquistate nel 2016 e passate al Pd nel 2021.

La storia del grillismo è da manuale di Scienza delle distruzioni. Anche se, come spiega al Giornale Nicola Biondo, ex spin doctor dei Cinque Stelle alla Camera, giornalista e autore dei libri Supernova e Il Sistema Casaleggio, «per quanto riguarda la comunicazione la profezia dello scioglimento del M5s in altri partiti si è già avverata, basti pensare alle tecniche di Luca Morisi per Salvini, a Tommaso Longobardi, guru social di Giorgia Meloni che ha iniziato alla Casaleggio Associati e all'influenza che in un certo periodo ha avuto la comunicazione di Rocco Casalino persino su una parte del Pd».

Analfabetismo politico. Augusto Minzolini il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

La fine dei 5stelle diventerà un fenomeno di studio per i posteri, come l'epilogo dell'"uomo qualunque".

C'è un a,b,c della politica che probabilmente si è perso negli ultimi anni. Si può parlare di regole, culture, chiamatele come volete, venute meno, che hanno lasciato il campo ad un analfabetismo dilagante. A sinistra come a destra. L'esempio più lampante sono i grillini, ma non solo. La fine dei 5stelle diventerà un fenomeno di studio per i posteri, come l'epilogo dell'«uomo qualunque». Il Movimento si è trasformato in una supernova, è esploso e il detonatore è stato quel Giuseppe Conte che è approdato alla guida dei 5stelle quasi per caso. Ormai è una guerra di tutti contro tutti. L'ex premier contro Giggino Di Maio, ma pure Beppe Grillo che la pensa diversamente da Casaleggio, mentre il Dibba imperversa sull'uscio. Il punto è che i grillini si sono liquefatti per autocombustione. Per un'assenza di guida, di professionalità sono affogati nel giro di qualche anno nelle loro stesse contraddizioni. L'ultima è clamorosa: come fa un ex premier che ha trascorso tre anni a Palazzo Chigi, a prendere le distanze in politica estera da un governo che ha come inquilino della Farnesina il principale esponente politico del suo partito?

È chiaro che quella polemica avrebbe contrapposto Giuseppi a Giggino. Ma l'assurdo è che lo scontro, che probabilmente sarà la premessa di una scissione, era scontato, era nelle cose ma Conte non solo non ha fatto nulla per evitarlo ma ha acceso la miccia. Ha trascurato un'ovvietà e cioè che la scelta di mettere in discussione la linea di politica estera - perché porre il problema della fornitura delle armi a Kiev significa questo - si sarebbe trasformata in una sfiducia al titolare della Farnesina prima che a Draghi.

Di Maio, punto sul vivo, messo sul banco degli imputati da chi sulla carta è il leader del suo partito, non poteva non rispondere. Al netto degli altri contrasti che scuotono il Movimento, a cominciare dal tetto dei due mandati parlamentari.

Appunto, Conte per l'ennesima volta ha dato prova di analfabetismo politico, perché ha messo a dura prova pure il suo rapporto privilegiato con Enrico Letta che ora probabilmente, volente o nolente, sarà costretto a scegliere Di Maio come interlocutore.

Una débâcle.

Un altro esempio di analfabetismo politico rischia di andare in scena a Verona sul versante del centrodestra. Il sindaco uscente e candidato di Fdi e della Lega, Federico Sboarina, arrivato al ballottaggio contro il candidato di sinistra, ha avuto la bella idea di rifiutare per ora l'apparentamento al secondo turno con Flavio Tosi, neo-esponente di Forza Italia. Probabilmente il nostro personaggio ignora che per vincere l'apparentamento è quasi un obbligo dal punto di vista strategico. Invece, Sboarina o per risentimenti personali, o per egoismo politico, ancora dice no ad un'alleanza alla luce del sole. Preferirebbe un inciucio sotto traccia con Tosi. Un modo per umiliarlo. L'atteggiamento, però, rischia di condannarlo alla sconfitta e dimostra il masochismo di un centrodestra che riesce a perdere anche partite già vinte. Giorgia Meloni, leader di Sboarina, parla di ritorno al bipolarismo, ma a quanto pare il suo candidato ne ignora completamente le logiche. Ma, soprattutto, se in vista delle elezioni politiche esiste un disegno, perseguito da qualcuno nel centrodestra, che punta a non allargare l'alleanza per paura di spostarne il baricentro, be', va detto subito, che sarebbe la solita sciocchezza dalle conseguenze letali.

Il M5s è sempre stato "una forza d'odio". Andrea Indini il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

Di Maio preoccupato per il M5s: "Temo diventi una forza d'odio". Ma, dalle gogne social alla giustizia usata come clava, il partito del vaffa da sempre fomenta la base contro gli avversari politici.

Colpisce sentire Luigi Di Maio preoccupato per le sorti del Movimento 5 Stelle. "Temo che diventi una forza politica dell'odio", ha esternato all'apice di un botta-e-risposta a distanza col capo Giuseppe Conte e col consulente massimo Beppe Grillo. Colpisce perché il rischio paventato dal ministro degli Esteri non esiste: non deve preoccuparsi che il M5s diventi "una forza politica dell'odio" perché lo è già, e da sempre per giunta.

Il Movimento 5 Stelle nasce col vaffanculo in bocca. Gli spettacoli sboccati del comico genovese, i meet up e i "Vaffa Day" sono l'origine di una forza politica che ha sempre usato la violenza verbale, la demonizzazione dell'avversario e la gogna social come armi per sbaragliare i partiti tradizionali e arrivare in parlamento e nei palazzi della politica. Senza queste continue aggressioni non esisterebbe il grillismo. "Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno", prometteva Grillo nel 2013. "Scopriremo tutti gli inciuci, gli inciucetti e gli inciucioni: quando illumini un ladro il ladro non ruba più!". I Cinque Stelle sono nati come forza anti sistema. Per farlo a pezzi, il Sistema, lo hanno infangato, calpestato e, infine, bistrattato finché non hanno capito che tutto sommato gli calzava a pennello. La loro è una parabola con infiniti cortocircuiti, cambi di casacca e dietrofront. La "scatoletta di tonno", tanto per intenderci, è stata sì aperta, ma poi ci si sono trovati tanto bene che vi si sono accomodati e, in barba alle regole contro i politici di professione, non vogliono più schiodarsi. Adesso che hanno tutti quanti indossato giacca e cravatta, fanno volare qualche vaffanculo in meno ma la solfa non è cambiata.

Per esempio. Oggi inorridiscono (giustamente) contro le spregevoli liste dei filo Putin. Si sono forse dimenticati delle liste di proscrizione che quotidianamente pubblicavano sul blog di Grillo? Il giornalista del giorno. Si chiamava così, la rubrica. Il post era breve: nome e cognome del giornalista da impallinare, testata, breve descrizione del "reato" commesso. A scorrere una selva di commenti (e insulti) dei lettori. A fine anno, poi, maxi lista finale per nominare il giornalista (peggiore) dell'anno. Gogna social. I grillini, dopotutto, sono da sempre campioni di sputtanamento. Soprattutto quando ci sono le Procure di mezzo. La sete di giustizialismo li ha spinti a gettare nelle galere virtuali del web politici indagati o rinviati a giudizio. Poco importa se poi, a distanza di anni, si sono rivelati innocenti. Nessuno, per certe campagne d'odio, hai mai chiesto scusa. Li hanno letteralmente massacrati, infischiandosene bellamente della presunzione di innocenza. Hanno sempre avuto un solo obiettivo: fare a pezzi l'avversario. E ci sono sempre riusciti.

I grillini incanalano l'odio del web contro i propri avversari sin dagli albori del Movimento. È una costante. Nel 2014 era stato Grillo in persona a scatenare l'assalto all'allora presidente della Camera, Laura Boldrini, chiedendo ai propri follower: "Che fareste in auto con Boldrini?". Non serviva un professorone della comunicazione a suggerire che un post di tale ambigua portata avrebbe scatenato commenti violenti. L'intento - possiamo facilmente immaginarlo - era proprio quello. Per questo fa sorridere sentire Di Maio preoccuparsi. Il M5S è sempre stato "una forza politica dell'odio". L'unica differenza è che da movimento d'odio è diventato partito d'odio. Ora che incassa i finanziamenti pubblici, che inciucia a destra e a manca pur di conservare la poltrona, che alle elezioni non disdegna apparentamenti per non soccombere, ora che vanta uomini nei ministeri che contano si è solo fatto più istituzionale. Non tema, dunque, Gigino. Il M5S continuerà a odiare. E continuerà a riversare questo odio contro gli avversari politici e contro quella Casta che, oggigiorno, anche loro rappresentano.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 19 giugno 2022.

Una domenica sul filo della tensione. I vertici M5S riuniscono il Consiglio nazionale in serata. Tema del giorno le dichiarazioni pubbliche di Luigi Di Maio. «Ora basta», dicono i contiani facendo intuire che il presidente del Movimento punta su una linea dura per chiarire l'affaire Di Maio. 

Alle 21,30 inizia la riunione dei big stellati per decidere che linea adottare. Giuseppe Conte pone la questione subito su un piano politico, cercando di evitare toni da processo. Una possibile espulsione, insomma, non è sul tavolo. 

Tra i quattordici al tavolo il dibattito è acceso, movimentato. Dopo due ore di conciliabolo non trapela nulla. In piena notte, nella nota conclusiva, i vertici m5s ribadiscono la collocazione euro-atlantica dell'Italia, bollando come «immotivate» le accuse del ministro.

«Comunicheremo le nostre decisioni per tempo», dicono nel Movimento. Quello che viene ripetuto come un mantra dai contiani è che il ministro «ha passato il segno». I dimaiani, invece, ostentano sicurezza. «Noi abbiamo agito per il bene del Paese e per il bene del partito: se ci devono processare per questo facciano pure», è il ragionamento che viene ripetuto da più parti. 

Eppure il filo conduttore della giornata è scandito dalle voci in merito a una possibile espulsione dell'ex leader dal M5S. I vice di Giuseppe Conte sono sul piede di guerra. «Trovo gravissimo che un ministro degli Esteri si esprima in questo modo, a fronte forza politica che ha sempre rivendicato di essere all'interno di una compagine euro atlantica e della Nato e che, peraltro, è rappresentata da un ex presidente del Consiglio», attacca Alessandra Todde a Sky tg24 . I dimaiani si schierano compatti a fianco del titolare della Farnesina: sono almeno una dozzina gli interventi a sostegno di Di Maio. 

In realtà, la strada per l'espulsione è in salita. E molto. Il Consiglio nazionale non ha il potere di cacciare gli eletti, ma può segnalare il caso al collegio dei probiviri. Qui entrano in gioco una serie di complicazioni non indifferenti. 

Anzitutto, l'opportunità politica. Due esponenti su tre del collegio (Fabiana Dadone e Barbara Floridia) fanno parte del governo: «Espellere un ministro che cerca di difendere l'esecutivo non sarebbe un gran segnale d'immagine», commenta uno stellato. Il terzo componente del collegio, Danilo Toninelli, non potrebbe comunque deliberare da solo. In secondo luogo, c'è una questione legale. 

Le cause aperte - in particolar modo il reclamo presentato a Napoli sulla votazione per lo statuto contiano - pendono come spade di Damocle sulle decisioni interne. Intanto Lorenzo Borré, il legale storico degli espulsi M5S, dice all'Adnkronos : «Sarei disponibile a difendere Di Maio».

Se la strada per l'espulsione è tortuosa, la «convivenza interna» tra contiani e diamaiani appare ancora più ostica. Gli ostacoli sul percorso vanno ben oltre la risoluzione sull'invio di armi in Ucraina. Dovesse Beppe Grillo riuscire a far rientrare temporaneamente la crisi interna, ci sono altri fronti pronti ad accendersi, a partire dalla questione dell'inceneritore di Roma. 

Intanto L'ex M5S Vito Petrocelli punge i Cinque Stelle: «Martedì e mercoledì prossimi il Parlamento può togliere la delega in bianco conferita al governo sulle armi all'Ucraina. Io non l'ho votata e mi hanno espulso dal M5S. Ora hanno l'occasione di agire oppure è meglio che tacciano per sempre?», twitta il senatore. Intanto i dimaiani serrano le fila ed è partita la guerra dei numeri.

Secondo i contiani con il ministro sono schierate poche persone, «al massimo una ventina», mentre nell'inner circle dell'ex capo politico si danno cifre diverse. Si parla di 30-40 parlamentari schierati al fianco dell'ex capo politico e - assicurano fonti qualificate - «la cifra è destinata a crescere ulteriormente se Conte continuerà a tenere posizioni troppo radicali». Insomma, si ha l'idea di assistere a una partita che è solo al calcio d'inizio e che si preannuncia piena zeppa di tatticismi.

Antonio Bravetti per “La Stampa” il 19 giugno 2022.  

La notte delle stelle cadenti. È iniziato il processo a Luigi Di Maio: ieri sera l'ex capo politico è ufficialmente finito sul banco degli imputati per le sue «accuse strumentali» al Movimento 5 stelle. La resa dei conti si consuma col buio, fin dopo la mezzanotte, in una riunione fiume del Consiglio nazionale del partito convocata da Giuseppe Conte.

Il leader M5S esprime «forte rammarico» per le parole del ministro degli Esteri e ribadisce «i cittadini non vogliono vedere l'invio di altre armi all'Ucraina». Vuole schierare tutto il Movimento contro di lui, chiedendo un chiarimento pubblico di fronte agli iscritti, nessuno chiede la sua espulsione, ma «è un problema che va risolto», fanno sapere i fedelissimi di Conte. 

Quando ormai è notte e il Consiglio nazionale è ancora riunito, però, sono in tanti a protestare con il leader e i suoi vice per «la guerra comunicativa di questi giorni». Il partito che l'ex premier sognava muoversi granitico contro Di Maio, si rivela essere pieno di sfumature e di colombe che chiedono una tregua.

Quella di ieri, d'altronde, è stata una giornata di cannoneggiamenti, l'ennesima. Durissimi i vicepresidenti pentastellati. Per Michele Gubitosa «siamo a un punto di non ritorno». Riccardo Ricciardi sostiene che il ministro «da tempo è un corpo estraneo al Movimento». Quanto alla sua possibile espulsione, «vorrei ricordare che da capo politico Di Maio ha espulso persone per cose molto, molto meno gravi». La colpa di Di Maio, per Ricciardi, è di aver «detto che il M5S ha una posizione anti-atlantica o anti-europea. Non è così». 

Stesso giudizio da Alessandra Todde, che ricorda che il M5S ha «una sola linea» e giudica così le critiche dell'inquilino della Farnesina: «Dichiarazioni forti, neanche supportate dai fatti, perseguendo obiettivi personali, delegittimando la forza politica che rappresenta». L'atteggiamento di Di Maio, all'interno del partito, non è piaciuto a nessuno, ma in molti durante la riunione chiedono di evitare una guerra fratricida. Gli stessi vertici M5S, nel pieno della riunione, percepiscono che se si continuerà su questa strada verranno messi nel mirino i vicepresidenti. Primo tra tutti, Ricciardi, che ha guidato l'assalto più violento.

Di Maio, da parte sua, non desiste. Risponde a metà giornata con una lunga nota. Si aspettava dai dirigenti pentastellati che facessero «autocritica» e invece, sottolinea, «decidono di fare due cose: attaccare, con odio e livore, il ministro degli Esteri e portare avanti posizioni che mettono in difficoltà il governo in sede Ue. 

Un atteggiamento poco maturo che tende a creare tensioni e instabilità all'interno del governo. Un fatto molto grave». Per il titolare della Farnesina «l'Italia non può permettersi di prendere posizioni contrarie ai valori euro-atlantici. 

Valori di democrazia, di libertà, di rispetto della persona e di difesa degli Stati. In ballo c'è il futuro dell'Italia e dell'Europa». Con lui Francesco D'Uva, che accusa i vertici stellati di essere «di giorno atlantisti ed europeisti, di notte attenti accusatori pronti a puntare il dito contro Di Maio». Sergio Battelli, altro deputato di area, chiede conto di un «fuoco incrociato sui giornali con parole di una violenza e un odio senza precedenti». 

In una situazione già di per sé rovente, s' inserisce l'avvocato Lorenzo Borrè, il legale che ha assistito i militanti che con i loro ricorsi al tribunale di Napoli hanno fatto vacillare la leadership di Conte. «Non compete al Consiglio nazionale espellere Di Maio», precisa. Per cacciare dal Movimento il titolare della Farnesina «deve essere avviato un procedimento disciplinare ad opera del Collegio dei probiviri su istanza motivata del presidente, cioè di Conte». 

All'articolo 13, comma C, del nuovo statuto pentastellato si legge infatti: «Il Consiglio nazionale esprime un parere circa la decisione da assumere nei confronti di un eletto che non abbia rispettato la disciplina di gruppo in occasione di uno scrutinio in seduta pubblica o non ottemperi ai versamenti dovuti al M5S». Per Borrè, quindi, «non ci sono i presupposti per l'avvio di una sanzione disciplinare. Perché al momento sono state espresse solamente delle opinioni».

Dagonota il 19 giugno 2022.

Benvenuti all’ennesimo Casalino fuffa show! Ma quale scissione: Di Maio non esce e Conte non può cacciarlo dal M5S per il semplice motivo che non e stato ancora istituzionalizzato il collegio dei probiviri (tant’è che Petrocelli non è stato espulso ancora). Conte, per esistere come leader, può continuare ad attaccarlo con le sue supercazzole. E martedì, vedrete, in parlamento si rimangerà la risoluzione politica, che porta all’uscita dal governo, in una semplice mozione di comunicazione critica sull’invio di armi a Kiev. Altrimenti, Conte sa benissimo che verrebbe “cancellato” da Mattarella e Usa. Finirà nella solita manfrina acchiappa-titoli di Tarocco Casalino…

Dagospia il 20 giugno 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Le ricostruzioni fatte dal sito Dagospia, in un articolo in cui si parla di “Casalino show”, sono prive di fondamento. È inaccettabile che io venga puntualmente tirato in ballo per cose in cui non c’entro nulla” Lo afferma Rocco Casalino Dott. Ing. Rocco Casalino 

(ANSA il 20 giugno 2022) - "Siamo arrabbiati e delusi. Non riesco a comprendere che il ministro degli esteri Di Maio attacchi su delle posizioni rispetto alla Nato e all'Europa che nel Movimento non ci sono e non se ne dibatteva prima". Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico, commentando a Napoli le frizioni all'Interno del M5S.

"Non capisco perché nel Movimento ci sono questi attacchi su Ue e Nato in questo momento. Subiamo una cosa che secondo me è mistificatrice, non aderente alla realtà del M5S rimasto sempre legato a Ue e Nato". Lo ha detto il presidente della Camera, Roberto Fico, a Napoli, commentando la parole del ministro degli Esteri Luigi Di Maio. 

Fico, tensioni? Non sono Conte-Di Maio ma M5s-Di Maio (ANSA il 20 giugno 2022)  - "Non c'è nessun Conte-Di Maio, state sbagliando prospettiva". Lo ha detto il presidente della Camera Roberto Fico a Napoli sulla tensione nel M5S. "L'unica cosa che c'è è, al massimo, Movimento-Di Maio - ha aggiunto - perché attaccare il M5s su posizioni che non sono in discussione dispiace a tutta la comunità del Movimento. È questo il punto"

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 20 giugno 2022.

L'addio è già nei fatti, mancano solo i dettagli notarili a futura memoria, il chi-lascia-chi e come; ma a chi in queste ore sta telefonando e lasciando messaggi di vicinanza al ministro degli Esteri, ex capo politico del M5S portato al record del 33 per cento nel 2018, lui risponde di essere «assolutamente sereno».

La serenità di chi «in piena libertà ha espresso le proprie idee, si chiama democrazia, non potevo più censurare il mio pensiero».

 Dopo quasi quattro mesi di silenzio sui fatti di politica interna al Movimento, il giovedì di fuoco di Luigi Di Maio - quando disse che gli sembrava assurdo far finta di nulla dopo il flop dei 5 Stelle alle Amministrative, inchiodati a una media del 3 per cento - ha dato il via a una carambola di reazioni e controreazioni il cui esito era stato messo in conto dal ministro.

E se fino a qualche tempo fa tra gli obiettivi, o perlomeno le possibilità sul piatto, c'era quello di provare a riprendersi i 5 Stelle, oggi Di Maio ha la testa altrove. Anche perché, a maggior ragione dopo il voto della settimana scorsa, il Movimento appare sempre più una specie di bad company a corto di un qualsiasi appeal . Se un'epoca è davvero finita, perché lasciarsi confinare dentro a un guscio inospitale?

Così il più giovane vicepresidente della Camera della storia (nella scorsa legislatura), poi diventato vicepremier, ministro del Lavoro e due volte ministro degli Esteri (in questa), comprovate capacità politico- camaleontiche che sanno di antica e innata sapienza democristiana, a neanche 36 anni ha potenzialmente ancora una lunga strada davanti che limitare nei dogmi e nelle beghe del M5S non aveva più senso, perlomeno dal suo punto di vista. 

La "serenità" di cui prima è anche figlia della consapevolezza che a differenza di altri (ex) compagni di partito, Di Maio non ha alcun assillo di dover rientrare in Parlamento nel 2023. Probabilmente succederà, ma non è ciò che ne decreterà la fine o il prosieguo di carriera. Ha un curriculum spendibile a 360 gradi e il suo standing, perlomeno ormai dall'autunno 2019, è di quelli che funzionano nel mondo che conta, tra economia e relazioni internazionali.

La scommessa di Di Maio e dei suoi fedelissimi è che anche dopo il 2023 rimarrà in campo Mario Draghi, se non come presidente del Consiglio di sicuro come "metodo". «Davanti a problemi complessi occorrono soluzioni complesse », ha spiegato il ministro ai suoi. Ai partiti di stampo personale non crede più, lo va ripetendo nei vari colloqui trasversali che ha da tempo, e perciò l'idea di un nuovo soggetto politico incentrato sulla sua figura non rientra nell'ordine delle idee («perché non ha più un voto», è la spiegazione acida che danno alla cosa i vecchi compagni di Movimento, peraltro alcuni tornati in Parlamento grazie al Di Maio che aveva i voti).

Le interlocuzioni per costruire qualcosa d'altro però ci sono: col sindaco di Milano Giuseppe Sala, posizionato su sponde liberalsocialiste ed ecologiste; col sindaco uscente di Parma Federico Pizzarotti, un altro ex 5 Stelle oggi a pieno titolo in uno schema moderatamente progressista. E poi: Dario Nardella sindaco di Firenze, Luigi Brugnaro sindaco di Venezia, Stefano Bonaccini presidente dell'Emilia Romagna, Giovanni Toti presidente della Liguria. 

Una terra di mezzo che messa assieme potrebbe contare qualcosa, specie perché avrebbe un posizionamento utile un po' per tutte le stagioni. «Non c'è nulla di scritto o programmato », assicurano le persone più vicine al ministro. Si dovrà procedere a tappe. Ufficializzato il distacco dal M5S, si formeranno dei gruppi parlamentari o delle componenti. L'estate servirà per mettere a frutto e a compimento relazioni e imboccamenti in corso, per poi - se ci saranno le condizioni - lanciare la proposta politico-elettorale in autunno.

Guardando ancora più in là, lo schema ideale dei (possibili) promotori sarebbe una coabitazione con il Pd e Azione, magari pure con i verdi e la sinistra, ma senza il M5S. Convincere insomma Enrico Letta che il Movimento sia ormai elettoralmente inconsistente e politicamente inaffidabile, ragione per cui sarebbe necessario sostituirlo col rassemblement neocentrista. Alchimie di palazzo, per adesso. La scommessa sarà trasformarle in consenso. 

Federico Capurso per “La Stampa” il 20 giugno 2022.

Per tutto il tempo dell'intervista, la vicepresidente vicaria del Movimento, Paola Taverna, non vuole mai chiamarlo «Luigi», ma sempre e solo per cognome, «Di Maio», come fosse un estraneo. E in effetti, «non lo riconosco più - ammette Taverna -, sembra di sentir parlare Renzi, si comporta come un centrista qualunque». 

Il Consiglio nazionale si riunirà in piena notte, con il favore delle tenebre - per dirla con Giuseppe Conte - e deciderà la linea da tenere nei confronti del ministro degli Esteri, anche se l'epilogo sembra già scritto nelle pieghe delle accuse che gli vengono rivolte: «Sta cercando di distruggere il nuovo corso del Movimento. Lo vuole terremotare».

Arriverete mai all'espulsione di Di Maio?

«Prima ancora di chiedere se Di Maio deve essere espulso, bisognerebbe chiedere a lui perché fa di tutto per uscire. Ha mentito sulla risoluzione, sapeva benissimo che era un testo vecchio e superato, eppure l'ha usata per attaccarci. 

Fa un danno enorme al Movimento e non offre nessun servizio al Paese. Per me è solo tattica: le sue critiche sono iniziate subito dopo l'annuncio di Giuseppe Conte di voler chiedere alla nostra base un voto per modificare o meno il limite dei due mandati». 

Continuate a ripetere che Di Maio fa di tutto per uscire, ma perché non lo espellete? Perché aspettate che sia lui ad andarsene?

«Ripeto, al momento mi sembra che sia stato lui a dirsi fuori dalla casa che lo ha ospitato per anni e che lui stesso ha contribuito a costruire. In ogni caso decisioni così importanti vanno discusse negli organi preposti e previsti dallo Statuto.

Deve prima dare delle spiegazioni alla comunità del Movimento. Innanzitutto, sul motivo per cui ha deciso di mentire sulla risoluzione. Le sue parole non mi hanno provocato rabbia, ma tristezza. Ci dice che stiamo tornando al vecchio movimento radicale, ma la sua è una politica da anni Ottanta».

L'ambasciatore russo in Italia Sergej Razov sottolinea con soddisfazione le spaccature in Italia sugli aiuti militari. Non ne avete alcuna responsabilità?

«Si sta ancora lavorando in Parlamento al testo della risoluzione. Noi stiamo ponendo una questione politica. Abbiamo già inviato delle armi, questo conflitto rischia di essere lunghissimo, e ora serve un'escalation diplomatica nell'interesse dell'aggredito, non di questa folle guerra. Il Parlamento deve restare centrale». 

Se nella risoluzione punterete su una de-escalation militare e in Consiglio europeo si chiederà un ulteriore invio di armi a Kiev, non si verrà a creare quel pericoloso disallineamento rispetto all'Europa e alla Nato di cui parla Di Maio?

«Io mi aspetto che l'Italia si faccia promotrice di questa posizione in Europa. Dopodiché, saremo sempre aderenti rispetto alle decisioni che si prenderanno al Consiglio europeo. L'Italia però deve avere questo ruolo, in favore della diplomazia». 

Sfiduciando Di Maio non temete che si possano creare fibrillazioni sul governo?

«È lui che sta provocando fibrillazioni. Il nostro problema interno non deve influire in nessuna maniera sulla tenuta dell'esecutivo. Se si scusa con la sua comunità si può aprire un dialogo, ma credo che lui abbia già deciso di lasciare il Movimento 5 stelle.

Forse sta guardando al centro, si comporta come un centrista, come qualche senatore fiorentino che usa la politica come se stesse giocando una partita di Monopoli». 

Crede alla suggestione che possa unirsi al sindaco di Milano, Beppe Sala, per fondare una nuova forza politica?

«Se ne parla tanto in questi giorni, ma non ho visto da parte sua nessuna smentita. Lo vedrei bene in quell'area, poi sceglierà lui. Di certo non lo riconosco più come grillino, non è più il Di Maio dei primi tempi del Movimento». 

E voi resterete nel partito? Se resterà intatta la regola dei due mandati, in tanti, lei compresa, non potrete più candidarvi.

«Decideranno gli iscritti. Io sarò sempre a disposizione del Movimento, qualunque cosa accadrà. La politica deve essere al servizio dei cittadini».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 20 giugno 2022.  

Giggino 'o atlantista. "I dirigenti della prima forza politica in Parlamento, invece di fare autocritica, attaccano con odio e livore il ministro degli Esteri e portano avanti posizioni che mettono in difficoltà il governo in sede Ue. Un fatto molto grave.

Vengo accusato dai dirigenti della mia forza politica di essere atlantista ed europeista.

.. Rivendico con orgoglio di essere fortemente atlantista ed europeista. Abbiamo precise responsabilità: in ballo c'è il futuro dell'Italia e dell'Europa" (Luigi Di Maio, M5S, 19.6.2022). 

"La nostra posizione sulla Nato è sempre stata coerente: andare oltre la Nato. Cambiare il livello di impegno. In questo momento siamo dei pazzi a portare le nostre truppe al confine con la Russia. Questo è un dibattito che non abbiamo scatenato noi, ma addirittura il presidente degli Stati Uniti d'America, mettendo anche lui in dubbio la Nato.

Quindi noi, nel nostro piccolo, siamo stati precursori di un dibattito che ci sarà a livello planetario sulla Nato e nello specifico tra i Paesi membri. Vi ricordo che la Nato in questo momento sta portando truppe al confine della Russia quando noi crediamo che non sia assolutamente indicato. È da folli fare questa cosa. Quello che chiediamo noi è rivedere quello che è l'impegno dell'Italia nella Nato. E ci fa piacere che anche Trump venga su questa linea" (Di Maio, vicepresidente M5S della Camera, Lapresse, 13.1.2017).

"L'Euro non è democratico. Bisogna prevedere procedure per uscirne con un referendum consultivo per chiedere ai cittadini italiani se vogliono uscire della moneta unica: uno Stato sovrano deve poter gestire la propria moneta. 

In caso di esito favorevole, ci si potrà organizzare con altri Stati usciti dall'Euro oppure prevedere un ritorno alla Lira. Servirà prima una legge costituzionale che ci impegneremo a realizzare nella prossima legislatura"

Da lastampa.it il 20 giugno 2022.

E' arrabbiato, furente, per gli stracci che volano tra i suoi e finiscono dritti sui giornali. A quanto apprende l'Adnkronos da autorevoli fonti, ieri Beppe Grillo avrebbe espresso tutto il proprio disappunto con diversi esponenti M5s. Per i toni usati e per i titoli che parlavano di una possibile ''espulsione'' di Luigi Di Maio. Una guerra interna che non piace al garante del Movimento: «così ci biodegradiamo in tempi record», si sarebbe sfogato il fondatore dei 5 Stelle. 

Il termine espulsione usato contro l'ex capo politico e attuale ministro degli Esteri lo avrebbe mandato su tutte le furie: per Grillo, spiegano le stesse fonti, le 'punture' di Di Maio andavano ignorate, non cavalcate in tempi comunque complessi come non mai per il Movimento. 

Grillo, giovedì atteso a Roma, già nei giorni scorsi aveva fatto trapelare nervosismo per la questione 'morosi', ovvero per la mancata restituzione di parte delle entrate dei parlamentari, altra regola aurea -assieme a quella del limite del due mandati- che per il garante del M5S non si può ignorare.

Ora la guerra sui giornali, senza esclusione di colpi, e con alcune dichiarazioni -vedi l'intervista di Riccardo Ricciardi su Di Maio bollato come 'corpo estraneo'- che Grillo fatica a mandar giù. Quanto al dossier Ucraina, assicurano fonti vicine al leader Giuseppe conte, i contatti tra Grillo e l'ex premier sarebbero continui, concordi sulla necessità di una de-escalation militare e su una riflessione che coinvolga il Parlamento su nuovi invii di armi a Kiev. 

L'attesa per l'arrivo di Grillo sale tra Camera e Senato, anche perché in molti confidano che questo nuovo blitz possa sciogliere una volta per tutti i dubbi sulla regola del limite ai due mandati, che Conte ha per ora messo in freezer. 

Il fondatore e garante del Movimento, che sulla questione è intervenuto venerdì scorso con un post sul suo blog in cui ha ribadito la ratio di una regola aurea del Movimento, sembra aver aperto spiragli per una possibile soluzione. Che potrebbe essere trovata nel cosiddetto principio di 'rotazione', ovvero consentire a chi ha già due mandati alle spalle di candidarsi ad altre cariche pubbliche, leggi Parlamento europeo e Regioni. 

Era stato lo stesso Grillo a scherzare coi suoi nei mesi scorsi sulla questione, incitandoli con la solita ironia a non mettersi di traverso: «dai che guadagnate anche di più...», lo sfottò usato con alcuni fedelissimi, come riportato dall'Adnkronos. Ma in realtà, chi è davvero vicino al garante del Movimento assicura che a Grillo neanche l'espediente del 'due più due' andrebbe giù, convinto di dover preservare la regola dei due mandati -cara anche a Gianroberto Casaleggio- a oltranza, senza deroghe di sorta.

Ma un punto di caduta va trovato, ne va della tenuta stessa del Movimento. Su cui, tra l'altro, l'ascendente di Grillo sembra essersi in parte 'offuscato' per via del contratto stretto col Movimento sulla comunicazione, dietro compenso: molti parlamentari non lo hanno infatti mandato giù. 

Simone Canettieri per ilfoglio.it il 19 giugno 2022.

E' una guerra di nervi, quella che sta vivendo il M5s. Un remake di quanto già visto a gennaio per l'elezione del capo dello stato. A differenza da cinque mesi fa, però, qualcosa questa volta dovrà accadere. Lo dicono, con toni diversi, entrambe le fazioni in guerra  che fanno capo a Luigi Di Maio e a Giuseppe Conte. 

Alle 21 il capo politico del M5s ha riunito d'urgenza (su Zoom) il Consiglio nazionale dei grillini, l'equivalente della direzione Pd, per trovare un metro di paragone. 

Statuto alla mano, è impossibile che questo organismo (composto dal capo politico, dai suoi vice, dai capigruppo di Camera e Senato, dal capo delegazione al governo, al Parlamento europeo e dai coordinatori dei principali comitati tematici) possa decidere d'imperio l'espulsione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio dal M5s. 

Lo dice appunto la costituzione bizantina dei pentastellati, ancora in balia di ricorsi e quindi sotto la scure del tribunale di Napoli. 

Lo statuto, all'articolo 13 comma C, dà al Consiglio nazionale il "potere di esprimere un parere circa la decisione da assumere nei confronti di un eletto che non abbia rispettato la disciplina di gruppo in occasione di uno scrutinio in seduta pubblica o non ottemperi ai versamenti dovuti al MoVimento per lo svolgimento delle attività associative o alla collettività, così come disciplinato dal presente Statuto e dal relativo Regolamento". Non è il caso di Di Maio. 

Al massimo il Consiglio nazionale pentastellato potrà decidere di deferire ai probiviri il titolare della Farnesina per aver contrastato la linea politica del leader e per avere creato una corrente. Tuttavia, per attivare questa procedura disciplinare servirà l'input di Conte. Ma i tempi, prima di arrivare a un fatto politico, sono lunghi. 

E comunque, in via molto teorica, dovranno essere i probiviri grillini a emettere la sentenza dopo novanta giorni nei confronti dell'ex capo  del MoVimento.

Dato di cronaca: Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia da quando sono si sono insediati ai vertici del tribunale interno del M5s non hanno ancora espulso nessuno. Non solo: nemmeno hanno attivato le procedure propedeutiche per farlo. Basti pensare che il cartellino rosso non è stato sfoderato neanche per Vito Petrocelli, l'ex presidente della commissione Esteri del Senato decaduto per via della sua posizione filoputiniste, il quale è stato solo allontanato sì dal gruppo parlamentare, ma non dal partito.

Perché? Si ritorna sempre alla vicenda legale dello statuto in preda ai ricorsi degli ex iscritti in quel di Napoli. In attesa che la faccenda si chiuda, qualsiasi decisione presa ora se venisse ribaltata dai giudici permetterebbe all'espulso di rifarsi legalmente e civilmente sui probiviri. Un rischio che nessuno si vuole prendere. Ecco perché Petrocelli, il compagno Petrov, fa parte ancora a tutti gli effetti del M5s, inteso come associazione. 

Finora ad agitare l'espulsione di Di Maio in maniera netta sono stati due dei cinque vicepresidenti del M5s: Riccardo Ricciardi e Michele Gubitosa, con altrettante interviste.

Alessandra Todde, invece, ha ribadito la linea pro Ucraina e la vicinanza al patto atlantico del M5s, senza risparmiare dure critiche al titolare della Farnesina, accusato di "inseguire obiettivi personali"  

Paola Taverna, al contrario, è l'unica vicepresidente a non essere ancora intervenuta (forse perché in conflitto d'interessi: della compagnia di vertice si trova nella posizione di essere al secondo mandato, altro tema che sarà affrontato a fine mese). 

Di Maio li chiama "dirigenti" per indicarli come burocrati polverosi, coloro che con "parole d'odio" continuano ad attaccarlo perché "europeista e atlantista". Il Consiglio nazionale M5s però potrebbe sfiduciare politicamente il suo ministro degli Esteri spiegando che interpreta la linea del partito: operazione complicata da spiegare perché porrebbe subito l'ex premier dall'altra parte, quella dei simpatizzanti di Putin.

C'è poi un argomento ancora più complesso che fa interrogare i vertici contiani: "Siamo sicuri che se anche riuscissimo a espellere Luigi, Draghi lo toglierebbe da ministro degli Esteri?". 

La domanda non è peregrina, anzi. Soprattutto in questa fase così delicata della guerra in Ucraina. C'è chi è convinto, infatti, che il premier non muoverebbe comunque il suo ministro degli Esteri nemmeno davanti a una sfiducia formale del partito da cui proviene. 

Sarebbe una figura barbina davanti agli altri paesi della Nato, un favore alla Russia, a pochi giorni dal viaggio a Kyiv con Macron e Scholz. Una destabilizzazione del quadro istituzionale su un argomento così strategico come la geopolitica, posto che con un premier che si chiama Mario Draghi è naturale che la politica estera sia diretta dal capo del governo.  

Di sicuro a Palazzo Chigi non entrano nel dibattito interno al M5s, anche se si tratta del partito di maggioranza relativa. Ma va anche detto che il premier è stato informato dal primo giorno delle intenzioni del suo ministro di indicare la rotta sulla risoluzione in programma martedì in Parlamento. Una linea che li accomuna, fino a sovrapporli. 

Se è forte e forse fuoriluogo dire che ci sia uno scudo di Draghi per Di Maio e altrettanto approssimativo pensare che il governo si faccia trascinare in un rimpasto o "peggio ancora nella guerra interna dei partiti", riflettono nelle stanze di Palazzo Chigi. 

 Dunque questa sera, al di là di un profluvio di agenzie, difficilmente si arriverà a una svolta. Prima c'è il passaggio parlamentare di martedì. Domani le forze di maggioranza si incontreranno per cercare un'intesa su un documento condiviso. Manca la parte più complicata: quella sull'Ucraina.

I grillini spingono per ottenere nel testo "il no alle armi" da inviare a Zelensky.  Sarà quello il primo test per il M5s, propedeutico a seconda della piega che la risoluzione prenderà in Aula, a una scissione. Il giorno dopo, mercoledì, è prevista l'assemblea congiunta dei parlamentari: l'ora del chiarimento, ma forse nemmeno quello definitivo. Giovedì ecco Beppe Grillo, chiamato a Roma per motivi legati al suo contratto da 300mila euro con il Movimento ma costretto a intervenire su un fronte a dir poco infuocato. Con la scissione di Di Maio data ormai come un fatto più che possibile. Nei corridoi della Farnesina si fanno i calcoli: sarebbero una sessantina i parlamentari pronti a seguire di Di Maio.

Da open.online il 19 giugno 2022.

Con una nota il ministro degli Esteri Luigi di Maio risponde in «via ufficiale» agli attacchi sempre più diretti che sta ricevendo in questi giorni dai vertiti del suo partito, il Movimento 5 Stelle, la cui unità si è progressivamente frantumata attorno a diversi temi, uno su tutti l’invio di armi all’Ucraina. In uno scenario globale complicato, scrive Di Maio, «i dirigenti della prima forza politica in Parlamento, invece di fare autocritica, decidono di fare due cose: attaccare, con odio e livore, il Ministro degli Esteri e portare avanti posizioni che mettono in difficoltà il Governo in sede Ue», ha detto Di Maio, definendo quello dei leader del partito «un atteggiamento poco maturo».

«È un fatto molto grave che tende a creare tensioni e instabilità all’interno del Governo. Vengo accusato dai dirigenti della mia forza politica di essere atlantista ed europeista. Lasciatemi dire che, da Ministro degli Esteri, davanti a questa terribile guerra rivendico con orgoglio di essere fortemente atlantista ed europeista», ha scritto. Poi ha concluso: «Ricordo innanzitutto a me stesso che abbiamo precise responsabilità: in ballo c’è il futuro dell’Italia e dell’Europa».

La spaccatura interna al partito, che vede Di Maio e Conte ai poli opposti da ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina, sembra ormai insanabile: con il risultato disastroso delle elezioni comunali i toni sono precipitati rapidamente, con un botta e risposta tra i due che ha portato a parlare addirittura di espulsione per il ministro degli Esteri che, se dovesse scegliere di andarsene di sua spontanea volontà, potrebbe essere seguito da molti fedelissimi. La prossima attesissima puntata è il Consiglio Nazionale convocato con urgenza per oggi da Giuseppe Conte che, finora, non ha commentato l’ipotesi, sempre più concreta, di una scissione definitiva del partito.

La Balena gialla. Il Movimento 5 Stelle è così spiaggiato che neppure nella notte fatale è successo qualcosa. Mario Lavia su l'Inkiesta il 19 Giugno 2022 

Il Consiglio nazionale del M5S si è sgonfiato. Troppo complicato cacciare il ministro degli Esteri, troppo pericoloso giocare con le armi a Kiev. Tutti a casa. Ma il giocattolo grillino si è rotto per sempre

È l’8 settembre del Movimento, tutti a casa, il formicaio che definitivamente impazzisce all’ombra della maxi-rissa tra Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. E, anche se al conclave di ieri sera non è successo nulla di serio (nessuna espulsione, nessuna rottura con Mario Draghi sull’Ucraina), c’è da dire che da qualche ora i M5s sono almeno due – contiano e dimaiano – più un pulviscolo di posizioni individuali, tutte accomunate dal terrore di quelli che quelle posizioni mantengono di essere finiti nel labirinto che conduce all’inferno della politica: la sconfitta, l’irrilevanza, infine l’estinzione.

L’improvviso Consiglio nazionale del M5s, organo mai riunitosi prima, più che essere un 25 luglio – in fondo non è stato deposto il Capo e nemmeno cacciato l’antagonista Di Maio – ha decretato l’addio ai giorni felici dell’Italia ai piedi del grillismo. Doveva essere il giorno del diluvio, non hanno combinato niente. Troppo complicato cacciare il ministro degli Esteri, troppo pericoloso giocare con le armi a Kiev. Tutti a casa.

Ora importa relativamente il futuro del ministro degli Esteri, vittima di quello stalinismo alle vongole da egli co-fondato, che comunque resta dov’è, e ancor meno quello di Giuseppe Conte, un uomo senza qualità che ancora una volta ha sparato ad acqua, sull’Ucraina il governo non rischia perché Giuseppi sa bene che i parlamentari grillini vogliono far passare (domani in Senato, il giorno dopo alla Camera) una mozione di maggioranza sufficientemente di mediazione per essere votata da tutti.

Oggi si stenderà il testo della mozione che ricalcherà le comunicazioni di Mario Draghi senza andare a sbattere sul tema delle armi, in questi casi i professionisti della politica sanno come si scrivono questi documenti. E tuttavia il senso di queste ore è chiaro: adesso non c’è solo un Movimento ma due, tre, quattro, nessuno, vattelappesca. Il giocattolo si è rotto per sempre.

Ma vi ricordate? «Siamo indistruttibili!», urlò Beppe Grillo quel lontanissimo 4 ottobre 2009 al teatro Smeraldo di Milano. Si sbagliava. Sono passati tanti anni ma oggi il suo Movimento Cinque stelle è distrutto: un balenottero spiaggiato. Ne hanno combinate di tutti i colori, hanno rinverdito la tradizione del populismo e del qualunquismo italiano, hanno abbaiato alla luna di una immaginaria nuova politica, hanno illuso grandi masse, si sono alleati con gli xenofobi e con i progressisti, hanno occupato pezzi di Stato e cambiato il lessico politico intrecciandolo con la celebrazione dei clic, sono rimasti sostanzialmente degli ignoranti della sintassi democratica: e oggi eccoli lì nel loro ultimo rantolo finale, il che è un’ottima notizia per la qualità della politica sebbene gli ultimi sbuffi della balena potrebbero essere imprevedibili.

Alla lunga, però, la Moby Dick grillina è destinata a una fine ingloriosa, senza più voti, in preda a una guerra civile interna, un incubo che svanisce dopo l’ubriacatura dell’antipolitica lasciando sullo sfondo la figura di un uomo dalle idee vaghe, quell’avvocato del popolo che ha dilapidato qualsiasi cosa sull’altare del potere, un personaggio in sé effimero e conformista come il Marcello Clerici di Moravia.

Conte è ormai un ex leader che solo la rozzezza intellettuale di qualche dirigente romano del Partito democratico ha tenuto in vita, elevandolo a punto di riferimento dei progressisti, quando lui, l’avvocato, non sa neppure cosa voglia dire progressismo altrimenti non avrebbe firmato i decreti Salvini che avrebbero potuto portare a morte decine di immigrati. Ieri sera l’azzeccagarbugli della provincia di Foggia ha capito che rompere sull’Ucraina avrebbe sgonfiato l’unico salvagente che ha, cioè l’alleanza con il Pd che malgrado tutto potrebbe garantirgli un seggio parlamentare, e però non rompere equivale a dare ragione a Di Maio, ormai punto di riferimento fortissimo dei grillini con un po’ di sale in zucca in procinto forse di fare un M5s 2.0 di governo – e comunque in ogni caso lui resta ministro degli Esteri.

Dunque è l’ora di un de profundis che non si nega nemmeno ai ribaldi, e dunque neppure al partito dei Toninelli e delle Taverna, dei Giarrusso (Michele o Dino fa lo stesso), del vecchio Di Battista che, chissà, forse raccoglierà il testimone del peronismo-guevarismo del “primo” Movimento imbevuto nella vodka di Vladimir Putin e Sergej Lavrov.

Di Maio magari andrà altrove a coltivare il suo orticello – nell’Ulivetto di Enrico Letta uno spazio si trova – mentre sul futuro di Conte cala il buio. Ci ha messo molto del suo, Giuseppi, per suicidarsi. Ma va anche ricordato l’impegno di tutti coloro che in questi anni hanno impedito il prolungarsi di un’esperienza umiliante per la nostra democrazia, da Matteo Renzi a Carlo Calenda, per fare due nomi di politici che hanno guidato la resistenza al populismo grillino vezzeggiato invece dagli eredi della Ditta e dai campioni della destra anch’essa populista ma in chiave più reazionaria, per finire al razionalismo politico di Mario Draghi che del grillismo ha definitivamente svelato la pochezza.

Demolita dopo anni e anni di lavoro la gamba più “di massa” del bipopulismo italiano si apre di conseguenza uno spazio nuovo, se non altro perché nel 30 per cento ottenuto dal Movimento alle ultime elezioni c’è sicuramente qualcosa di salvabile da estrarre dalla palude contiana per tenerla dentro l’area del riformismo di governo. Dove andranno i consensi di quattro anni fa, questo è il problema. Non è facile dare una risposta adesso. Ma dopo la lunga notte del Movimento diventa più facile immaginare un nuovo giorno per l’avvenire della politica italiana.

Da Conte a Taverna e Bonafede: ecco il tribunale che "giudica" Di Maio. Federico Garau il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.

Sul tavolo il tema Di Maio e la questione relativa alle posizioni da assumere per quanto concerne il conflitto in Ucraina.

La questione Ucraina e le posizioni da assumere nei confronti di Luigi Di Maio sono al centro del Consiglio nazionale del Movimento CinqueStelle che si riunirà nella serata di oggi.

Il clima teso in casa grillina, esacerbato dai deludenti risultati elettorali e dalle recenti esternazioni del ministro degli Esteri in carica, è evidente da giorni e all'orizzonte pare delinearsi una frattura difficile da ricomporre. I membri del Consiglio nazionale del M5S chiamati a pronunciarsi sui due delicati temi sono, oltre il presidente del partito Giuseppe Conte, i capigruppo di Senato, Camera e Parlamento europeo Mariolina Castellone, Davide Crippa e Tiziana Beghin, i quattro vicepresidenti del Movimento Michele Gubitosa, Mario Turco, Alessandra Todde e Riccardo Ricciardi, il capo della delegazione al governo, il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli. Prenderanno parte al delicato incontro anche il coordinatore del Comitato nazionale progetti Gianluca Perilli, il coordinatore del comitato per la formazione e l'aggiornamento nonchè ex primo cittadino di Torino Chiara Appendino, il coordinatore del Comitato per i rapporti europei e internazionali Fabio Massimo Castaldo e il coordinatore del Comitato per i rapporti territoriali, nonché ex ministro della Giustizia del governo Conte con la Lega, Alfonso Bonafede. Secondo le normative previste dallo statuto del Movimento dovrebbe essere presente anche un rappresentante dei parlamentari pentastellati eletti nelle Circoscrizioni estere.

Lo scontro

"Oggi Di Maio è un ministro della Repubblica perché è espressione della prima forza politica, non perché si chiama Luigi Di Maio", aveva affondato in un'intervista concessa a Fanpage il vicepresidente del Movimento Michele Gubitosa senza troppi giri di parole, "e mi domando quanto al governo rappresenti ancora il M5s, o se stia rappresentando solo sé stesso o qualcun altro". Sollecitando una riflessione interna per comprendere come comportarsi, Gubitosa aveva toccato anche il tema di una probabile scissione da parte di Di Maio, minimizzando tuttavia la portata che un evento del genere avrebbe potuto avere per il partito: "Più semplicemente uscirà dal movimento con alcuni parlamentari perseguendo un interesse personalistico".

"Discutiamo se ci rappresenta...". Bomba contro Di Maio

La questione ucraina, specie dopo l'affondo del ministro degli Esteri, continua a tenere banco nelle ultime ore." Ritengo inopportuno che una forza politica di maggioranza attacchi, con particolare livore, il suo ministro degli Esteri per posizioni che proprio oggi alcuni esponenti dicono di sostenere", ha infatti spiegato in una nota ufficiale il deputato pentastellato Francesco D'Uva, accusando i suoi di manifesta ambiguità sul tema. "Sono stati gli stessi vertici M5s a dichiarare oggi di essere atlantisti ed europeisti e che il Movimento 5 Stelle non vuole mettere a rischio la collocazione atlantica del nostro Paese", ha proseguito il parlamentare grillino, dicendosi per questo motivo stupito per gli attacchi subiti da Di Maio. "Non si possono accettare queste continue ambiguità su un tema delicato come la politica estera", ha aggiunto, "soprattutto se lo si fa per meri fini propagandisti o per questioni legate a equilibri interni al Movimento 5 Stelle".

Da “Un giorno da Pecora – Radio1” il 17 giugno 2022.

La compagna di Davide Casaleggio e membro Rousseau a Un Giorno da Pecora: Conte? Ha idea di democrazia narcisistica ed autoreferenziale. 

“La distanza tra il M5S pensato da Gianroberto Casaleggio e quello attuale è siderale, è un'altra cosa. Rousseau? Era un'architettura per la partecipazione, è stata premiata come una delle migliori piattaforme al mondo, SkyVote sostanzialmente offre un servizio per il voto”.

Lo dice a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, Enrica Sabatini, membro dell'associazione Rousseau, attivista della prima ora del M5S e compagna di Davide Casaleggio. Come valuta i contrasti tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte? “Il movimento è liquido e si adatta al contenitore, questi dissidi mi fanno più sembrare i due come Calenda contro Renzi. 

L'idea di democrazia diretta di Conte è totalmente autoreferenziale e narcisistica, pensa che democrazia voglia dire votare per lui e parlare con lui”. Chi dei due leader Cinquestelle pensa di più al bene del Movimento? "Nessuno dei due - ha detto Sabatini a Un Giorno da Pecora - lo utilizzano per le carriere personali”. 

Voi di Casaleggio farete un nuovo movimento con Di Battista? “Stiamo lavorando e studiando alcune prospettive future e mi fermo qua”. Si sente di escludere che creerete un nuovo soggetto politico? “Io nella vita non escludo niente”.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 25 giugno 2022.  

Davide Casaleggio, lei ha bollato come disastrosa la gestione di Conte.

«Lo dicono i risultati. Con la guida Conte si sono persi l'80% degli elettori rispetto al 2017, si sono candidati 10 sindaci contro i 224 nel 2017, i gruppi locali sono scomparsi, si è persa la vicepresidenza in Europa, sono rimasti 5 europarlamentari su 14, e solo 167 parlamentari sui 339 iniziali perdendo anche la maggioranza relativa in Parlamento.

Per molto meno un amministratore delegato di una azienda verrebbe licenziato in tronco o si dimetterebbe».

La scissione era evitabile?

«Oggi il processo è accentrato in una persona nominata che si consulta con organi nominati da lui stesso e che stranamente decidono tutto all'unanimità. Se non ci sono spazi di confronto è fisiologico che le persone escluse, che siano parlamentari, attivisti o elettori, ti abbandonino». 

Che errori imputa a Conte?

«Aver distrutto in soli 15 mesi un progetto politico costruito con grandi successi in 15 anni. Come già detto da Grillo credo che Conte sconti la sua totale inesperienza manageriale e anche l'assenza di una visione innovativa. Ha accentrato potere nelle stanze romane cancellando con un tratto di penna i gruppi locali che erano la rete strategica per promuovere i territori, e decidendo di non utilizzare un'architettura della partecipazione unica al mondo che consentiva di creare valore tra oltre 200 mila persone e che custodiva un know how decennale fondamentale». 

Ha detto che Di Maio è stato costretto ad andarsene, ma non ha delle responsabilità se si è arrivati a questo punto?

«Se vedo una responsabilità da parte delle persone che non hanno gestito direttamente questo nuovo corso è il non rendersi conto che i grandi risultati raggiunti dal M5S fossero conseguenza di questo importante progetto di partecipazione e di consapevolezza popolare». 

Come valuta il progetto di Di Maio?

«Per ora mi sembra solo un gioco di palazzo in cui sono stati spostati parlamentari in un altro contenitore. Alle prossime elezioni al centro potrebbero esserci più partiti che elettori».

Il M5S può risollevarsi?

«Credo si sia andati oltre il punto di non ritorno. Mi fa pensare a quel film comico in cui per poter prendere la pensione della nonna deceduta, i nipoti la mettevano nel congelatore facendo finta che fosse ancora viva. Tuttavia la pensione è sempre più magra vedendo il 2,2% di voti delle ultime amministrative». 

Di Battista ha detto che è pronto a rientrare se lasciasse il governo Draghi. Il M5S dovrebbe uscire dal governo?

«Il M5S dovrebbe avere il coraggio di chiedere se rimanere o meno al governo ai propri elettori. Perché la premessa e la promessa fatte a chi votato il M5S erano di coinvolgerli nelle scelte politiche importanti e non arrogarsi il potere di farlo in qualche stanza con quattro persone nominate dall'alto».

Come è possibile che il M5S si sia così logorato? Sente di aver sbagliato qualcosa?

«Una comunità per funzionare deve reggersi su principi, metodi, valori e regole condivise. Forse avrei dovuto denunciare pubblicamente prima la loro violazione evitando di fidarmi in buona fede che chi aveva la responsabilità di farle rispettare lo facesse». 

Se potesse ricostruire un nuovo M5S chi vorrebbe?

«Coloro che pensano che "utopia" sia una parola inventata da chi non ha la voglia o capacità di immaginare un nuovo mondo e che non hanno l'ambizione di una carriera politica».

Elena G. Polidori per “La Nazione” il 19 giugno 2022.

«Il M5s è un’esperienza finita. Varrebbe la pena che si prendesse atto serenamente di questa realtà. È inutile l’idea di poter risollevare qualcosa che ormai è rifiutato dall’elettorato. Persino il simbolo è ormai un brand svuotato di tutti i contenuti positivi, che evoca solo un tradimento e smuove solo rancorosità. Insomma, sarebbe meglio prendere quel che resta del Movimento, metterlo in una bottiglia e buttarla nell’Oceano…». 

Chi parla è lei, Lady Rousseau, Enrica Sabatini, moglie di Davide Casaleggio e madre dei suoi due gemelli che davanti allo scontro che si sta consumando nel partito di maggioranza relativa tra il leader Giuseppe Conte e Luigi Di Maio, alza lo sguardo al cielo: «Io però l’avevo detto che sarebbe finita così, cioè male…».

Peggio di così…

I problemi sono cominciati quando il potere si è accentrato nelle mani di alcune persone, ma in particolare con Conte che non è uomo che nasce nel Movimento, è un estraneo e anche oggi dice e fa cose che connotano chiaramente questa estraneità. È stato bravo nel suo ruolo istituzione ed ha saputo gestire il governo in pandemia, ma un conto è essere un soggetto di garanzia, un altro è essere un leader. E per essere un leader devi avere la tua visione».

Invece?

«Invece lui non ce l’ha, è incastrato nella ricerca del consenso personale, mentre sul Movimento ha problemi politici, organizzativi ed elettorali e prima delle amministrative hanno pensato di risolverli prendendo il bacino di elettori di Conte. I risultati parlano da soli ed è emerso chiaramente che Conte non è il Movimento e gli elettori non lo votano. Sarebbe meglio che si facesse il suo partito, un partito personale anziché personalizzare il movimento». 

E Di Maio, invece? Che farà?

«Luigi combatterà sino alla fine. Per come lo conosco, penso che difficilmente mollerà il Movimento, ma poi alla fine anche lui si dovrà rendere conto che il M5s è ormai una bad company e che sarà meglio mettere in naftalina questo soggetto politico per costruire qualcosa di nuovo,  con un simbolo diverso e con una visione diversa da quella che ha contrassegnato i 5 stelle degli esordi. Non credo si siano altre possibilità». 

Che senso ha allora votare per il vincolo del secondo mandato?

«Ci sono dei capisaldi che potrebbero, e dovrebbero, resistere anche in un n uovo soggetto come l’idea che la politica non deve essere un lavoro. In Gianroberto c’era questo, la necessità di garantire un rinnovamento sempre, altrimenti la politica diventa lavoro: uno dei problemi che ha distrutto il M5s».

Report: Casaleggio conferma l'incontro per non far diventare Di Battista capo del M5s. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 05 giugno 2022

Davide Casaleggio e la compagna Enrica Sabatini confermano per la prima volta alla Rai un incontro nel 2020 che ha fatto sì che lo storico attivista già parlamentare Di Battista non prendesse il sopravvento e diventasse leader del Movimento.

L’ex reggente Vito Crimi: «Grillo ci disse di non far partire la guerra per la leadership». Nella puntata di lunedì gli affari di Grillo con Onorato, gli interessi di Casaleggio e le ricostruzioni dell’arrivo del nuovo capo Conte.

Di Battista dice a Domani di non voler avere più niente a che fare con i pentastellati: «Di Movimento parli chi fa parte del Movimento».

Cosa sarebbe accaduto se Alessandro Di Battista fosse diventato il nuovo leader del Movimento 5 stelle? Lunedì sera Report ne parla nella puntata chiamata “Stelle cadenti” e si scopre che la possibilità c’è stata e non è stata voluta da qualcuno all’interno.

Il Movimento è passato dal 32,7 per cento dei consensi nel 2018 ai sondaggi che lo danno al 13, con il fondatore e garante Beppe Grillo indagato per traffico di influenze illecito e il presidente Giuseppe Conte in attesa dell’esito di un ricorso sulla sua investitura.

Prima dell’addio alla piattaforma Rousseau che ha segnato i passaggi storici del gruppo, uno dei pilastri del Movimento era Davide Casaleggio, presidente dell’omonima associazione, che insieme alla compagna, Enrica Sabatini, conferma per la prima volta alla Rai un incontro nel 2020 che ha fatto sì che Di Battista non prendesse il sopravvento e diventasse leader dei grillini.

LA VERSIONE DI CASALEGGIO

La rivelazione arriva da Sabatini. Luigi Di Maio si era dimesso dal suo ruolo di capo politico a gennaio 2020. La socia di Rousseau e compagna di Casaleggio, nel suo libro Lady Rousseau. Cosa resta dell’utopia di Gianroberto Casaleggio?, parla di una riunione a luglio 2020.  

Si presentarono ministri e sottosegretari del Movimento e decisero di non procedere con le votazioni per il nuovo capo politico, proseguendo invece con la reggenza di Vito Crimi: «In questa riunione – spiega lei – fu evidente a Davide che le persone avevano deciso di non votare il capo politico e le motivazioni emersero, anzi la motivazione: il fatto che Alessandro Di Battista avrebbe potuto raggiungere un risultato anche eclatante e diventare il nuovo capo politico», racconta. Casaleggio conferma: «È stato detto» di non votare, perché altrimenti sarebbe potuto diventare nuovo capo politico.

LA POSIZIONE DI CRIMI

Crimi, rispondendo al giornalista di Report Danilo Procaccianti, conferma che la riunione c’è stata e anche che qualcuno avrebbe sollevato obiezioni su Di Battista: «Ognuno ha le sue idee e ci sarà stato qualcuno che avrà detto questo». Qualcun altro, assicura, avrà detto «invece votiamo subito». A quel punto, racconta, è intervenuto Beppe Grillo che gli avrebbe detto di non «portare a una guerra sulla leadership» in piena pandemia: «Era una follia». Crimi non ha detto di no per Di Battista: «E se qualcuno lo dice sta dicendo il falso».

Che i problemi ci fossero, poco prima, lo aveva raccontato in pubblico lo stesso Di Battista. A giugno aveva esplicitato una divergenza di vedute, bisognava «organizzare un congresso, un’assemblea costituente».

E criticava i suoi colleghi senza risparmiare Giuseppe Conte. Per diventare nuovo capo, spiegava, «si deve iscrivere al M5s e partecipare al prossimo congresso». Così non è stato e dopo la caduta del Conte II a inizio 2021. Di Battista era già fuori dal parlamento dal 2018 e ha deciso di lasciare il Movimento dopo l’adesione di quest’ultimo al governo Draghi.

Da lì si è aperta la strada per la leadership di Conte, sancita poco dopo da un altro incontro, questa volta in presenza, a Roma, all’hotel Forum. Pochi mesi dopo, anche Casaleggio romperà con i pentastellati e, solo dopo, il voto nell’estate del 2021 sulla nuova piattaforma del Movimento consacrerà il nuovo presidente.

Di Battista oggi si limita a ribadire di non voler avere più niente a che fare con la questione e contattato da Domani non vuole commentare: «Di Movimento parli chi fa parte del Movimento». Eppure molti dei fuoriusciti continuano a vedere lui come punto di riferimento.

LE QUESTIONI IRRISOLTE

Intanto, nella puntata vengono raccontate tutte le questioni irrisolte che accompagnano i pentastellati. Beppe Grillo, il garante del Movimento è indagato, insieme all'armatore Vincenzo Onorato, per traffico di influenze illecite dalla procura di Milano.

Onorato, infatti, ricorda il programma Rai, secondo le ipotesi della procura dopo aver pagato Grillo attraverso alcuni contratti commerciali ha richiesto al garante dei 5 stelle una serie di interventi in favore di Moby spa che Beppe Grillo avrebbe poi veicolato a esponenti politici, incluso l’allora ministro Danilo Toninelli. Toninelli finora ha sempre replicato di non aver mai subìto pressioni ma non si espone sull’ipotesi che il suo nome non sia stato confermato nella rosa dei ministri apposta.

Nell'ambito della stessa inchiesta della procura, sono state eseguite perquisizioni anche nella sede della Casaleggio Associati. Anche Davide Casaleggio ha preso soldi da Onorato per un contratto da 600mila euro all’anno per la stesura di un piano strategico per sensibilizzare gli stakeholder alla tematica dei benefici fiscali.

Mentre al nord si cerca di fare chiarezza sui fondatori del Movimento, al sud traballa la nuova leadership. Da presidente del Movimento Conte è stato colpito dal ricorso dell’avvocato Lorenzo Borré e di alcuni iscritti sulle votazioni che hanno decretato la sua ascesa, il 7 giugno arriverà dopo mesi di incertezza il verdetto del Tribunale di Napoli. Una situazione tutt’altro che pacifica a meno di una settimana dal voto per le amministrative, e poco prima delle primarie in Sicilia organizzate per la prima volta con il Pd.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Dagospia il 21 maggio 2022. Da “Un giorno da Pecora – Radio1”

Meglio Salvini o Conte? “Sicuramente Salvini. Lui ha un rapporto umano coi suoi parlamentari molto meglio di quello di Conte, che ho trovato estremamente spiacevole sul piano personale”. 

A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Ugo Grassi, senatore appena passato al Misto, che in questa legislatura ha militato anche con Cinquestelle e Carroccio. “Conte nei miei confronti non si comportò in modo corretto. Mi chiamò a Palazzo Chigi e mi chiese: caro Ugo, vuoi qualche incarico? Sembrava quasi mi volesse comprare per farmi restare nel Movimento, fu di cattivo gusto”.

Cosa le offrì? “Nulla, mi chiese se volessi un incarico e gli risposi che volevo solo un progetto politico”. Lei però fu eletto con il M5S, che ha lasciato dopo circa un anno e mezzo. “Me ne sono andato perché i 5S non hanno mai utilizzato quasi tutti gli eletti della società civile, che infatti poi hanno lasciato il Movimento”. 

Poi è approdato alla Lega. “Che in quel momento mi sembrò il partito più vicino alle posizioni moderate, Salvini voleva farne un aggregatore dei conservatori più moderati. E poi avevo legato molto con alcuni leghisti, in particolare Calderoli”.

Nella Lega ci è rimasto più di due anni. Prima di lasciare anche questa...”Me ne sono andato prima perché non mi è piaciuta la politica nazionale sui vaccini, troppo indecisa. E poi, recentemente, per la posizione della Lega sulla guerra”. 

Come mai non si è dimesso invece di cambiare gruppo? “Perché ho provato rabbia, mi sono accorto di esser caduto in trappola ma voglio ancora provare a cambiare le cose. Finché il mandato dura proverò fare qualcosa di positivo”.

Nel Gruppo Misto, tuttavia, lei non deve restituire nulla del suo stipendio, a differenza di quanto doveva fare nei 5S e nella Lega...”Allora - ha spiegato a Rai Radio1 Grassi - viene erogato uno stipendio di circa 13.500 da cui vanno tolte tutte le spese. Tra dipendenti, segreteria, addetti stampa....” Lei quanti dipendenti ha in questo momento? “Ho un addetto stampa”. E quindi quanto le rimane dello stipendio da parlamentare? “Circa la metà di quella cifra”. Potrebbe passare in qualche altro partito in futuro? “No, non vedo nessun partito vicino alle mie idee", ha concluso il senatore a Un Giorno da Pecora. 

ALLE ORIGINI DI UN FALLIMENTO. Romanizzare i “barbari” del M5s non era un’operazione da fare in fretta. MARCO FOLLINI su Il Domani il 14 maggio 2022

Comincia a essere matura la possibilità di giudicare costi e benefici, o se vogliamo ascesa e declino, di quella parola d’ordine – civilizzare i barbari – con cui i detentori dell’antico sapere politico hanno accompagnato l’ascesa del Movimento 5 stelle.

L’operazione sembrava avesse senso: il M5s, nel volgere di qualche mese, si è acconciato a governare con l’odiato Pd, e poi perfino a camminare sul tappeto rosso in compagnia del tecnocrate Mario Draghi.

Ma non appena con la crisi ucraina s’è aperto un varco abbiamo visto subito riaffiorare come per incanto quello che avevamo pensato di avere seppellito: per intenderci, quell’asse gialloverde di cui son piene le cronache degli ultimi giorni.

MARCO FOLLINI. È un politico e giornalista italiano. È stato un esponente di spicco dell'Udc, che ha abbandonato per fondare il movimento politico Italia di mezzo, confluito nel processo costituente del Partito democratico. Nel giugno 2013 ha abbandonato il Pd. È stato vicepresidente del Consiglio dei ministri nel governo Berlusconi II dal 2 dicembre 2004 al 15 aprile 2005.

DAGONOTA il 23 maggio 2022.

Attenzione: si può dire “Casalesi e associati”, anziché “Casaleggio e associati”. Lo ha stabilito un giudice di Trani, che ha assolto il giornalista del “Corriere della Sera”, Carlo Vulpio. 

Vulpio era stato denunciato per aver detto, durante la trasmissione televisiva “Speaker’s Corner” su Tele Dehon, che il M5S è ‘proprietà privata di una ditta commerciale’, accostando la Casaleggio Associati al clan dei Casalesi, aggiungendo: “Politicamente i casalesi stanno lì e da lì profilano tutti i loro adepti, come una setta quale può essere Scientology”.

Ebbene, per il tribunale pugliese non è diffamazione, ma Vulpio ha solo descritto “con un linguaggio colorito fatti sostanzialmente veri”. 

E chissà che non ci sia almeno uno dei 350 giornalisti di Via Solferino che si degnerà di dare spazio a questa notizia, come scrive in una mail inviata ai colleghi Vulpio: “Non dico due pagine, come fanno con Saviano, ma almeno un pezzullo…” (Stoccata a Cairo che ha portato lo “sgomorrato” al “Corriere”).

Da lagazzettadelmezzogiorno.it il 23 maggio 2022.

Non è diffamatorio affermare che i Cinque Stelle sono «proprietà privata di una ditta commerciale che attraverso una piattaforma informatica […] comandano come dei burattini 338 parlamentari», nè tantomeno paragonare la Casaleggio Associati al clan camorristico dei Casalesi o descrivere i grillini come una «setta». 

Lo ha stabilito il Tribunale civile di Trani, cui la società milanese (che nel 2005 ha contribuito a inventare il fenomeno di Beppe Grillo) si era rivolta chiedendo un risarcimento da 100mila euro a Carlo Vulpio, inviato del «Corriere della Sera», e all’emittente Tele Dehon. 

Durante il programma «Speaker’s corner» del 30 gennaio 2019 il giornalista ha parlato della Casaleggio come una «setta» che imporrebbe ai parlamentari grillini il pagamento di 300 euro al mese e - «in caso di dissenso dall’indirizzo politico del Movimento» - anche «la somma di 100.000,00 euro». 

Ma il Tribunale (giudice Elio Di Molfetta) ha ritenuto che il giornalista (difeso dall’avvocato Vincenzo Giancaspro) abbia esposto «con un linguaggio colorito» fatti sostanzialmente veri attraverso «una narrazione dei fatti inestricabilmente legata ad opinioni personali».

Il giudice ha infatti osservato che il rapporto tra Casaleggio, associazione Rousseau e partito politico è stato analizzato negli anni da articoli di giornale e libri, e che lo stesso statuto dell’associazione (che gestiva il blog grillino) prevede in effetti «che tutte le decisioni formalmente ascrivibili al “Movimento 5 Stelle” sono o sono state vagliate e assunte attraverso la piattaforma Rousseau» di cui sarebbe dominus Davide Casaleggio, «al contempo legale rappresentante della Casaleggio Srl e creatore della piattaforma».

Stesso discorso per i 100mila euro, previsti dal codice etico del Movimento «(anche) in caso di dimissioni anticipate dalla carica determinate da “motivi di dissenso politico”». 

Il Tribunale ha poi ritenuto legittimo l’accostamento tra la Casaleggio e il clan dei Casalesi. Vulpio aveva parlato di «un’associazione che ha fini politici», che «fa capo alla società privata dei Casalesi, la Casalesi e Associati», e aggiungendo che «politicamente per me i veri Casalesi in Italia sono questi della Casalesi e Associati.

Gli altri sono un gruppo cruento, sanguinario, pericoloso, ma ormai anche fuori gioco, ma politicamente i Casalesi d’Italia stanno lì e da lì profilano tutti i loro adepti come una setta quale può essere Scientology». 

La Casaleggio aveva ritenuto diffamatorio l’accostamento con la mafia, ma la sentenza ha inquadrato il discorso in un quadro più ampio: Vulpio, ha scritto il giudice, «non ha usato il nome dei Casalesi in assenza di qualsiasi elemento di verità a suo sostegno e in assenza di alcuna giustificazione, ma ha ben circostanziato tale uso al modo di agire della Casaleggio nel rapporto con i parlamentari e gli esponenti politici del “Movimento 5 Stelle”, nel senso di ritenere strettamente verticistico tale rapporto e quanto meno discutibile da parte di questi ultimi una qualsiasi forma di dissenso dalle direttive asseritamente loro imposte dalla società attrice». Casaleggio dovrà pagare 5mila euro di spese legali.

Camilla Conti per “La Verità” il 13 aprile 2022.

Milano, addio. La Casaleggio associati trasloca a Ivrea. Lo scorso 28 marzo, nello studio di Largo Donegani del notaio Valerio Tacchini, l'assemblea dei soci ha infatti approvato il trasferimento della sede legale dell'srl dalla meneghina via Uberto Visconti di Modrone a via Palestro, nella città in provincia di Torino.

Come nuovi vicini, due studi legali, un odontoiatra e gli uffici di una banca. Sono stati quindi lasciati gli oltre 450 metri quadrati nel cuore del capoluogo lombardo, a due passi da corso Monforte, che erano stati inaugurati pochi mesi prima delle Politiche del 2018.

Prima rimasta orfana del governo di Giuseppe Conte, con cui si è ormai consumata la rottura, e poi bastonata dal Covid, la società fondata dal guru M5s Gianroberto Casaleggio e oggi presieduta dal figlio Davide - che è anche l'azionista di maggioranza - ha chiuso il bilancio 2020 (l'ultimo disponibile nella banca dati della Camera di Commercio) con un rosso di 320.295 euro ripianato grazie all'utilizzo delle riserve.

A picco anche il fatturato che è sceso di quasi il 25% a quota 1,7 milioni. Tanto che girano già voci di messa in liquidazione. Di certo, sono lontani i tempi della vittoria elettorale del Movimento 5 stelle e della nascita del governo gialloverde quando i ricavi della società attiva nel settore della consulenza strategica e dell'innovazione digitale per le imprese erano passati da 1,17 milioni del 2017 ai 2,24 milioni del 2019 e i profitti erano stati di 181.000 euro nel 2018 e di 100.346 euro nel 2019.

A pesare sono state la svalutazione per 260.000 euro dei crediti verso clienti, in ragione della loro possibilità di recupero, e anche il fatto che nel frattempo, i costi sono lievitati da 2,08 a 2,17 milioni. 

Al netto dei conti, che un'epoca sia davvero finita lo si era capito anche qualche settimana fa quando la sesta edizione dell'evento Sum organizzato dalla società è stata un mezzo flop. Non più fan grillini e big del Movimento che riempivano le vecchie strutture industriali dismesse della Olivetti, a Ivrea, per commemorare Gianroberto parlando di futuro e nuove tecnologie.

Al cinema teatro milanese del Meet di fondazione Cariplo, la sala di duecento posti era forse occupata a metà. Pochi anche i politici presenti (solo l'ex ministra della Difesa nel Conte 1, Elisabetta Trenta, e il deputato eletto con il M5s e oggi in Coraggio Italia, Emilio Carelli, assente pure Alessandro Di Battista). Lo stesso giorno, in un'intervista pubblicata sul Corriere della Sera, Casaleggio jr aveva ammesso che «il Movimento che abbiamo conosciuto non esiste più.

Si ha paura di chiedere agli iscritti anche solo una rosa di nomi per il Quirinale, consultarli per cambiare il programma sulla politica estera o per capire chi candidare in un Comune come a Palermo o in una regione come la Sicilia o ancora di permettere le candidature dal basso inventando addirittura consultazioni con un monocandidato.

Questa paura delle decisioni dei cittadini sta annichilendo il consenso ai minimi storici e penso che il trend sia ormai irreversibile». Quanto al futuro, aveva aggiunto, «la partecipazione e la cittadinanza digitale rimarranno sempre al centro dei miei interessi». Proprio ieri, a sei anni dalla sua morte, il M5s ha ricordato Gianroberto Casaleggio, che fondò il Movimento assieme a Beppe Grillo. Su Twitter il M5s ha pubblicato una sua foto con citazione: «Un'idea non è di destra né di sinistra. È un'idea. Buona o cattiva». Forse ne servono di nuove. 

Il Movimento ai minimi termini. La caduta dei 5 Stelle traditi dalla banalità e dalla stupidità del verbo utilizzato da Grillo. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

Giuseppe Conte fa il suo possibile per riaccendere il seguito per i 5 Stelle (tentando, con le sue ultime posizioni di conquistare, almeno in parte, il consenso di quel 35% di italiani – fonte Eumetra – che è contrario all’incremento degli strumenti di difesa e reputa che abbiamo fatto male a inviare armi in Ucraina), ma, probabilmente, non c’è molto da fare: i grillini sono politicamente (e, quel che più conta, elettoralmente) sempre più irrilevanti. Ma, si badi, non lo sono le posizioni di populismo: quest’ultimo è tutt’altro che finito e le sue sirene sono tuttora assai diffuse nel nostro paese (e in diverse altre nazioni europee e non).

Che il partito dei grillini sia in crisi di consensi è un fatto noto a tutti e rilevabile quotidianamente dai sondaggi. Oggi i Cinque Stelle sono valutati al poco più del 13%, a fronte del 32% ottenuto in occasione delle elezioni politiche del 2018: il 60% dell’elettorato di allora ha abbandonato il Movimento. I motivi del successo ottenuto a suo tempo sono stati più volte sottolineati. Si collegano al distacco e all’insoddisfazione (peraltro ancora presenti a tutt’oggi) per i partiti politici tradizionali, alla protesta e, non ultimo, alla capacità di trascinamento di Beppe Grillo. Gli argomenti usati allora da quest’ultimo erano, come si sa, spesso banali e superficiali, ma, proprio per questo, alla portata di molti, senza troppa fatica o impegno nel riflettere. Erano cioè “facili” e, proprio per questo, attrattivi. Talvolta anche stupidi. Ma si sa, come scrive Marais nel suo ultimo romanzo, che la stupidità e la rabbia sono contagiose. Proprio la facilità e la semplificazione degli argomenti ha condotto in Parlamento persone spesso poco preparate e sovente completamente inadatte a quel ruolo. E, infatti, l’esperienza di governo dei Cinque Stelle è stata disastrosa.

Di fronte alla complessità dei temi e delle scelte, molti eletti grillini hanno mutato le loro idee originarie. E, al tempo stesso, non pochi, una volta assaggiati i piaceri del potere, si sono prontamente adeguati a quest’ultimo. Di qui la caduta di appeal del Movimento e il calo drammatico di voti, causato anche dai persistenti conflitti interni. Per questo, è ragionevole prevedere che, in occasione delle prossime elezioni, nel 2023, il declino dei grillini sarà ancora maggiore. Mutatis mutandis, anche la Lega ha visto un calo di consensi nei sondaggi sulle intenzioni di voto, quando ha usato argomenti di stampo populista, nel tentativo di creare il partito nazionale. Anche quell’esperimento è in larga misura fallito e il Carroccio si deve ora rifugiare nel tradizionale e consolidato consenso storicamente ottenuto nel nord del paese. Il fatto che i temi populisti paiano aver comportato il declino dei partiti che li hanno maggiormente sostenuti, non significa però che l’appeal di queste tematiche sia decaduto per sempre.

Lo vediamo oggi nel dibattito sulla guerra in Ucraina. Sempre più spesso, al confronto tra argomentazioni serie e ponderate, basate su fatti e ragionamenti, si contrappongono parole d’ordine e slogan semplicistici e superficiali (spesso enfatizzati dai programmi televisivi che sovente li ospitano per allargare l’audience). Come mostrano i sondaggi più recenti, tuttavia, queste argomentazioni “facili” trovano un terreno di coltura in una parte significativa della pubblica opinione. Specie in quegli strati che Paolo Natale (in un articolo su Gli Stati Generali) chiama i “perdenti della globalizzazione”. Si tratta di persone deboli socialmente, con basso titolo di studio, che, sovente a causa del loro disagio sociale, guardano spesso con favore ai movimenti e alle contestazioni “antisistema”, come i no vax, i no green pass e oggi i sì Putin (Lo stesso Natale rivela che tra le suddette posizioni si registra una sovrapposizione enorme, oltre l’80%). Tutto ciò suggerisce che lo spazio per temi populisti ci sia ancora, tanto che alcune forze politiche tentano ancora oggi di raccoglierli e farli propri, in modo da allargare i propri consensi.

Come si sa, molti elettori che erano stati attratti nel 2018 dal populismo si sono oggi rifugiati nelle astensioni che, come è noto, hanno sempre più caratterizzato le ultime consultazioni elettorali amministrative. Ma non è detto che sia sempre così. Nei prossimi mesi potrebbe rinfocolarsi, anche a seguito della guerra, un’offerta politica di carattere populista, capace di raccogliere, forse, le simpatie di almeno una parte di coloro che oggi disertano le urne. E condizionare così, ancora una volta, i prossimi risultati elettorali.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Annalisa Cuzzocrea per "la Stampa" il 21 Febbraio 2022.  

Giuseppe Conte?

«Un temporeggiatore seriale». 

Vito Crimi?

«Un debole vestito di protervia». 

Il nuovo Movimento 5 stelle?

«Un'operazione di trasformismo politico, dovuta all'irriconoscenza e alla smania di potere delle persone più insospettabili: quelle a cui Gianroberto Casaleggio aveva dato più fiducia e che, per interessi personali, sarebbero state le più feroci nel tradirlo».

Lady Rousseau, il libro di Enrica Sabatini, compagna oltre che socia di Davide Casaleggio, più che un'autobiografia è un lungo J'accuse. L'ex consigliera comunale di Pescara, diventata responsabile degli affari interni del Movimento nei giorni in cui Luigi Di Maio ne lasciava la guida, lo ha scritto mentre aspettava i gemelli che ora hanno tre mesi e che non la fanno dormire la notte («Quando uno si addormenta, l'altro si sveglia!») e lo ha fatto soprattutto per una ragione: dimostrare che il progetto di Casaleggio non è fallito, è stato tradito. 

Chiedere - come fa in quest' intervista - che chi ha preso la guida del Movimento lasci andare la sua storia, rinunci al suo simbolo: «Faccia come si fa con i messaggi in bottiglia affidati alle onde dell'oceano. Lo restituisca, perché quel logo lo aveva disegnato Gianroberto seduto alla sua scrivania e nulla ha a che fare con chi adesso lo detiene».

Giuseppe Conte si è assunto la responsabilità di rinnovare una forza politica in crisi di leadership e consensi in uno dei momenti più difficili della sua storia. Cosa gli imputa?

«Ha una visione diversa da quella che ha sempre mosso i 5 stelle. Invece di farsi un partito personale, ha pensato di personalizzare il Movimento e provare a trasformarlo in un partito. Un'evoluzione che diventa trasformismo e infine aberrazione. Per questo secondo me oggi il M5S è al minimo storico del consenso: non risponde più a quel patto di fiducia che aveva fatto con i cittadini».

Perché dice che temporeggia? Su Rousseau una decisione l'ha presa e in modo netto.

«Lo fa perché le persone attorno a lui sono paralizzate dalla paura del futuro. Si è creato un meccanismo per cui si lancia la palla sempre in avanti, come sul ricorso di Napoli».

Cosa pensa accadrà?

«Quella causa è emblematica perché invece di affrontare la situazione facendo quel che si doveva per statuto, votare su Rousseau l'organo collegiale e poi far discendere tutto il resto, si è cercata una scorciatoia che non ha rispettato le decisioni degli iscritti. Una forzatura che ha portato il Movimento in un vicolo cieco. La magistratura non sta facendo un indebito intervento in politica, sta tutelando i diritti degli associati. Conte ha cercato per sé una strada che potesse controllare, la nuova struttura è composta da persone nominate». 

Com' erano il direttorio, i primi probiviri. Lei sembra dimenticare che il Movimento di Grillo e Casaleggio è sempre stato verticistico, non era affatto orizzontale quando si trattava di grandi decisioni.

«Nel libro ammetto questo errore. Soprattutto nei momenti di difficoltà c'è spesso stato il ricorso a una centralizzazione improvvisa. Per questo Gianroberto aveva immaginato Rousseau: per distribuire il potere rendendo chiari i processi».

Ci ha provato a lungo, ma i risultati non sono arrivati. Non è che è sbagliata l'idea di partenza: cioè che la politica per funzionare debba indebolire la delega e rafforzare i meccanismi di democrazia diretta?

«Il Movimento ha sofferto il fatto di essere una macchina in corsa, ha dovuto procedere per prove ed errori, ma secondo me il modello funziona e stiamo pensando a come sia possibile utilizzarlo in altri ambiti». 

Dalle sue accuse sembra salvare Beppe Grillo, che pure sta sostenendo la nuova strada. Anzi, l'ha indicata.

«Sono molto legata a Beppe, gli riconosco il grande merito di aver costruito tutto, di essersi scarificato per i 5 stelle. Lui come Davide e Gianroberto sono rimasti fuori consentendo a migliaia di persone di entrare nelle istituzioni».

Indirizzandone le scelte però. Come può non attribuire anche a Grillo le responsabilità del nuovo corso?

«Il ruolo del Garante è delicato quando dall'altra parte hai persone che fanno parte del governo. Ha dovuto affrontare l'assenza di Gianroberto, che lo compensava. Lo sforzo che ha fatto è stato notevole e ha spinto affinché certi principi e metodi non fossero traditi». 

Pare pronte a deroghe sul vincolo del doppio mandato.

«Per ora si tratta di indiscrezioni fatte uscire da chi vorrebbe quelle deroghe. Senza il divieto di superare i due mandati viene giù tutto. Il Movimento è stato creato perché fosse aperto al rinnovamento, non per generare nicchie di potere e opportunità di carriere».

Forse segna un principio di maturazione, la comprensione che in politica servono esperienza e competenza.

«Come in una staffetta, si può dare una mano passando il testimone». 

Lei non è d'accordo sul fatto che la selezione dei candidati in rete non funzioni, ma le parlamentarie hanno portato nelle istituzioni persone come Sara Cunial, deputata no vax poi espulsa e famosa per uscite a dir poco irrazionali.

«Rousseau dovrebbe essere l'ultimo step per votare persone che sono già state selezionate per alcune caratteristiche. I processi devono essere ben più lunghi, gli attivisti coinvolti anni prima delle elezioni».

Davvero crede che non si sia votato per un anno il successore di Di Maio per paura che vincesse Di Battista?

«È stato detto alla riunione di cui scrivo ed è quello che ha fatto sobbalzare Davide sulla sedia: "Violiamo lo statuto perché non ci piace il possibile risultato di una votazione? " ha chiesto. Crimi ha fatto di tutto per mantenere un potere per cui non aveva titolo. Se il comitato di garanzia non rispetta lo statuto, è normale che gli altri si sentano legittimati a violare ogni regola». 

Crede che Rousseau possa lavorare ancora con Di Battista?

«Alessandro ha come noi una forte passione per la partecipazione, si sta interessando ai referendum e crede si possa incidere anche non stando dentro le istituzioni. A legarci c'è un'enorme sintonia oltre che un'amicizia personale».

E con gli altri, l'amicizia?

«Quando si prendono strade così diverse è impossibile mantenerla». 

Di Battista con Conte è molto meno duro di lei, sembra quasi pronto a rientrare, una volta conclusa l'esperienza del governo Draghi.

«Non lo so, è una decisione che prenderà Alessandro». 

Davvero hanno offerto a Davide Casaleggio un ministero?

«Sì, ha rifiutato, così come io ho rifiutato una candidatura alle elezioni europee, alle regionali, una nomina pubblica. Eravamo concentrati sul progetto, mentre erano pronti a usarci come capro espiatorio di ogni fallimento.

Nella controstoria del M5s di Lady Rousseau si salvano solo Grillo e Di Battista. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 18 febbraio 2022

Enrica Sabatini racconta la sua versione sui primi dieci anni del Movimento 5 stelle e la risoluzione del rapporto con Rousseau, alla fine di una lunga serie di scontri interni. Le valutazioni dei vertici dei Cinque stelle sono impietose

Il nuovo libro Lady Rousseau di Enrica Sabatini (Piemme), socia di Rousseau insieme al suo compagno Davide Casaleggio, racconta la “verità” della pasionaria della piattaforma inventata da Gianroberto Casaleggio sugli scontri con i vertici politici dei Cinque stelle. Gli screzi hanno portato al divorzio con la piattaforma, fino a qualche mese fa indivisibile dal Movimento 5 stelle. 

“Lady Rousseau” dà la sua versione su come il Movimento si è allontanato progressivamente dai presupposti con cui era nato nelle menti di Beppe Grillo e Casaleggio. Le vittime della storia  sono lei e gli altri soci di Rousseau, oltre a Casaleggio, Pietro Dettori, che ha sempre curato i rapporti con Luigi Di Maio, e Max Bugani, consigliere comunale a Bologna e capo dello staff di Virginia Raggi quando era sindaca. 

I CASALEGGIO

Gianroberto prima e Davide poi hanno segnato il percorso nel Movimento di Sabatini. Fin dalle prime pagine viene ribadito più volte quanto l’idea di Casaleggio senior abbia cambiato la vita di Sabatini: «Quando la notizia della scomparsa di Gianroberto irruppe nelle nostre vite, ci sentivamo così: cittadini chiamati a svolgere la nostra piccola, ma importante, missione per cambiare quello che ritenevamo ingiusto».

Lady Rousseau racconta come, dopo qualche anno da consigliera comunale in Abruzzo, insieme a Nicola Morra («che mi sorride, mentre la metro gialla sfreccia a tutta velocità») aveva proposto a Davide Casaleggio la riorganizzazione di Rousseau per condividere le esperienze di ciascun portavoce.

Davide è anche il principale protagonista degli scontri, negli ultimi mesi sempre più frequenti, con i vertici del Movimento. Sabatini racconta quello con il capo politico reggente Vito Crimi, che aveva proposto di far votare agli iscritti un quesito per estromettere Rousseau dalla vita del Movimento. 

Ma Casaleggio e la sua socia si sono scontrati anche con Di Maio quando si è trattato di tagliare definitivamente i ponti con il Movimento. Casaleggio e Sabatini sono presentati come custodi della missione originaria del M5s, mentre i politici romani lottano solo per i propri interessi: ricorre più volte la questione sull’abolizione del vincolo dei due mandati, tasto dolente soprattutto per Di Maio e i suoi. 

GIUSEPPE CONTE

Al nuovo leader politico del Movimento, Sabatini non riserva parole gentili. Gli rinfaccia di essersi appropriato di un’associazione non sua a di aver ridotto, con il suo atteggiamento da «temporeggiatore seriale»,  un sogno visionario in un partito come tutti gli altri.

Lady Rousseau rimprovera a Giuseppe Conte di non aver studiato la struttura del Movimento e di Rousseau né di averla voluta conoscere quando i due soci glielo avevano proposto.

I due nutrivano sospetti nei confronti dell’ex premier fin da quando la sua popolarità era diventata la ragione per disattendere le indicazioni degli Stati generali, che avevano chiesto una guida collegiale per il Movimento.

La disistima si era aggravata con la fine del governo Conte II e la ricerca disperata di numeri per il Conte III e li aveva portati a disertare la riunione all’hotel Forum di fine gennaio in cui i vertici avevano chiesto a Conte di diventare capo unico del M5s.

L’ultimo atto arriva quando Conte in riunione chiede: «A che titolo parla la dottoressa Sabatini?». Attacco imperdonabile. 

LUIGI DI MAIO

Per Sabatini, Di Maio è il traditore. Di lui scrive che nei primi anni nei palazzi aveva rappresentato al meglio i grillini, ma che poi era entrato a pieno titolo nella campagna dei vertici Cinque stelle contro Rousseau. Una presa di posizione che Sabatini non gli ha mai perdonato.

Il ministro degli Esteri appare come un ingrato che non ha più rispetto di chi gli ha dato quel che ha oggi e come uno dei protagonisti dello smantellamento del Movimento delle origini.

In uno degli episodi Sabatini racconta di aver subodorato che nella creazione del team del futuro, che avrebbe dovuto sostituire Di Maio dopo le sue dimissioni e rispondeva in parte alla stessa Lady Rousseau, c’erano già i presupposti per far diventare la piattaforma il capro espiatorio di tutti i problemi dei Cinque stelle. 

«Quello che però non avevo compreso era che tra le persone che questo meccanismo (l’accentuazione della controversia, ndr) lo avrebbero sostenuto ci sarebbe stato anche chi avevo lasciato alle mie spalle uscendo da quella saletta quel giorno: Luigi Di Maio». 

BEPPE GRILLO

Il fondatore del Movimento appare solo marginalmente, ma sempre sotto una luce positiva. Sabatini enfatizza questa rappresentazione raccontando episodi in cui Grillo appare con un’aura paterna e bonacciona.

Come quando lui e i soci di Rousseau giocano insieme a calcio balilla vicino a Ivrea nel 2018, occasione in cui «si aggiusta i capelli con quel gesto tipico con cui scuote la sua chioma caratteristica». Lady Rousseau passa poi a celebrare «la sua potenza comunicativa» che «è pari alla sua conoscenza dei media». 

Sabatini è più pragmaticamente entusiasta di Grillo quando stralcia il quesito di Crimi sull’estromissione di Rousseau dalla vita del Movimento o quando nell’ultimo scontro tra Rousseau e M5s interviene per far saldare almeno una parte dei debiti che i Cinque stelle hanno nei confronti della piattaforma. «L’intervento di Beppe Grillo fu determinante, ma non risolutivo, nonostante le roboanti dichiarazioni di Giuseppe Conte».

ALESSANDRO DI BATTISTA

Se Di Maio ha tradito l’impostazione originaria del Movimento e Conte è un usurpatore, Alessandro Di Battista è il leader che Il M5s avrebbe meritato. Puro di sentimenti e appassionato, Sabatini fa di lui il protagonista di uno dei capitoli centrali del libro.

A metà 2020, racconta, una tesa conversazione con Casaleggio la mette a parte del fatto che i vertici del Movimento si sono messi d’accordo per non votare il successore di Di Maio come capo politico per paura che possa vincere proprio Di Battista, considerato un ostacolo sulla strada di Conte.

Lady Rousseau condivide anche la decisione dell’ex parlamentare di lasciare i Cinque stelle dopo l’adesione al governo Draghi, unica mossa possibile per quello che secondo Sabatini era diventato «un obiettivo da eliminare» per il Movimento. 

VITO CRIMI

Secondo Sabatini, il capo politico reggente Vito Crimi ha contribuito come ha potuto a mettere il Movimento sulla via della trasformazione in partito e da responsabile di quesiti e votazioni ha anche avuto un ruolo nel progressivo allontanamento di M5s e piattaforma, approfittando della «nostra buona fede».

Secondo lady Rousseau, ha ignorato la volontà degli iscritti, forzato la mano rispetto alle decisioni dei tribunali sul destino del M5s ed è stato responsabile di una delle peggiori performance elettorali del Movimento nel voto del 2020.

Ma la sua colpa più grave, per Sabatini, è quella di non aver mai definito il rapporto tra il Movimento e Rousseau: un vuoto che poi è costato alla piattaforma la possibilità di far valere le proprie ragioni in maniera più efficace sulla base di accordi scritti. 

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Alessandro D’Amato per open.online il 17 febbraio 2022.

Il 5 luglio 2020 una riunione tra i maggiorenti del MoVimento 5 Stelle bloccò il voto sul nuovo capo politico per fermare l’ascesa di Alessandro Di Battista alla leadership. Dieci eletti M5s al secondo mandato stabilirono di violare la carta fondativa del Movimento perché non era utile ai loro interessi. 

Parola di Enrica Sabatini, socia della piattaforma Rousseau e compagna di Davide Casaleggio. E oggi pronta ad anticipare in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera questa e altre verità. Come quella che vuole una “rete invisibile” all’opera nel 2018 per decidere le candidature in barba all’«uno vale uno» di Beppe Grillo. E la nascita di un Movimento ControVento per raccogliere le istanze perdute del grillismo.

Chi è Enrica Sabatini

Pescarese, 39 anni, Sabatini ha cominciato l’avvicinamento al mondo 5 Stelle grazie ai meet-up e al Movimento. Nella primavera del 2014 è stata candidata sindaca dei Cinque Stelle a Pescara, arrivando terza (con 11.152 voti e il 16,1% delle preferenze). Ph.D. in Scienze, laurea specialistica con lode in Psicologia e un Executive Master in Innovation Strategy & Digital Transformation sono i suoi titoli di studio. 

È stata docente a contratto all’Università “G. D’Annunzio” di Pescara-Chieti e si è definita “consulente per la creazione, realizzazione e monitoraggio di interventi formativi basati sull’utilizzo di metodi simulativi (virtualgame, DGBL, serious game etc) e/o di attività finalizzate al brand engagement”.

In Rousseau è entrata per fare e-learning sulle potenzialità della piattaforma e presto ha sostituito come socia Massimo Bugani. Da quel momento è cominciata la sua ascesa. Arrivata in un momento in cui il M5s partiva dalla vittoria alle elezioni del 2018 e affrontava i due governi di Giuseppe Conte. Oggi, dice nell’intervista, è disponibile a lasciar votare su Rousseau i grillini ma «ai prezzi di mercato».

Ma avverte: «Se i contiani credessero davvero nella leadership di Conte gli consiglierebbero di affrontare la situazione e non di fuggire. Evitare il voto dell’organo collegiale per paura che Giuseppe Conte non venga poi scelto come capo politico rende lo stesso Conte un leader debole agli occhi di tutti. E se ottieni la leadership solo perché hai fatto in modo di essere l’unico a concorrere, è ovvio che la tua guida verrà sempre messa in discussione». 

La querelle su Di Battista

Poi parla del suo libro, “Lady Rousseau”, in uscita il 22 febbraio per Piemme. E delle rivelazioni sulle candidature. Come quelle del 2018: «Per la selezione dei candidati nelle liste proporzionali alle Politiche nel 2018 venne creata una rete invisibile di referenti regionali che decisero, attraverso un potere discrezionale e illimitato, chi poteva candidarsi e chi no.

Venne così creato un sistema di valutazione delle candidature arbitrario, privo di standard oggettivi, viziato da interessi personali, non legittimato dalla comunità e, soprattutto, ignoto a tutti». Infine racconta che il 5 luglio 2020 si tenne una riunione per bloccare il voto sul nuovo capo politico. Con l’unico scopo di impedire l’elezione di Alessandro Di Battista. 

«E venne esplicitamente dichiarato che il reale motivo per non votare il capo politico era la possibile elezione di Alessandro in quel ruolo. Una decina di persone al secondo mandato e neanche legittimate a prendere decisioni stabilì di violare la carta fondativa del Movimento. Perché fare la cosa giusta non era utile ai loro interessi». Non solo: Sabatini profetizza anche un allontanamento di Grillo dal M5s.

«È un fatto incontrovertibile che il nuovo statuto, ora sospeso dal tribunale e bocciato dall’organo di garanzia sui partiti per carenza di democraticità, volesse relegare la figura del garante alla periferia del Movimento. Il garante è lì per ricordare da dove si viene e dove si è promesso di andare. Eppure a qualcuno fa comodo dimenticarlo».

Anticipazione da “Oggi” il 16 febbraio 2022.  

Su OGGI, in edicola domani, il sindaco di Parma Federico Pizzarotti, eletto nel 2012 con i 5 Stelle e poi isolato dai grillini fino alla decisione di lasciarli e correre per la rielezione senza di loro, parla del passato e del presente del Movimento. 

«È stata una grande occasione persa. Enorme. Irripetibile… È stato imbarcato chiunque senza manco ci si ponesse il problema di una selezione vera. Uno spreco mai visto di intelligenze». 

E poi: «Riportare i cittadini a sperare in un rinnovamento della politica, ora, dopo aver visto come è andata anche in queste ultime settimane di scontri e veleni, mi pare dura». Nell’intervista a Gian Antonio Stella, Pizzarotti ricorda il “trattamento” subito: «Prima la vaghezza delle accuse. Poi un ordine di scuderia: mai più rapporti con Pizzarotti. La cosa più dolorosa è che fu applicata direi quasi militarmente.

Vecchi amici che non salutavano più… La verità è che al di là della politica, la cosa più deludente è stata la qualità umana di tanti ex compagni di strada». Poi alcuni giudizi. Di Battista: «Per carità, visti gli altri gli do atto d’aver conservato una sua coerenza». Di Maio: «Gli riconosco, dal suo punto di vista, un capolavoro: è riuscito a scalare un partito non scalabile». 

E sul proprio futuro dice: «Non so bene cosa fare. Sono ancora dipendente, in aspettativa, della banca in cui lavoravo come informatico. Vedremo. Certo vorrei portare avanti un piccolo progetto mio e di mia moglie. Abbiamo comprato un ciuffo di casette abbandonate in un posto bello sull’Appennino, a castello di Casola, sulla via Francigena, e lo stiamo un po’ alla volta sistemando. Vorremmo attrezzare qualche spazio per un po’ di accoglienza diffusa e produrre dei liquori fatti in casa con le bacche dei dintorni». 

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.  

I sospetti, i cavilli e il garante. Il Movimento ripiomba nel caos. 

«Siamo fermi a un anno fa: è un disastro», commentano all'unisono nelle diverse ali dei Cinque Stelle. Certo, poi responsabilità e punti di vista continuano a divergere. «Supereremo in fretta la questione», dicono i contiani.

Ma anche per i più fedeli all'ex premier, la decisione del tribunale di Napoli è stata una doccia fredda: non si aspettavano un esito diverso nel reclamo rispetto a quanto deliberato dai magistrati alla vigilia di Natale. 

Frenetici sono i contatti tra i vertici, l'avvocato che guida i Cinque Stelle consulta altri legali, si riunisce con Vito Crimi. Due ore circa di summit per decidere la linea: far votare chi era rimasto tagliato fuori dalla precedente consultazione. I vertici escono dal confronto decisi e più sollevati, convinti che si tratti dell'opzione migliore.

Ma la decisione scatena altre polemiche. «Si sono consultati con noi parlamentari?», dicono diversi esponenti. C'è chi attacca in modo più veemente: «Conte non può fare questa mossa. 

Una votazione sullo statuto la può indire solo il presidente del comitato direttivo o del comitato di garanzia»: figure tecnicamente vacanti. La decisione del tribunale di Napoli ha quindi come effetto-domino quello di rimettere in discussione gli equilibri , di inasprire il fronte della guerra interna. Ecco perché la decisione dei vertici di accelerare, tentare subito un nuovo voto.

«Non ci faremo trascinare in mezzo a discussioni che hanno come solo scopo quello di ledere il futuro del Movimento», ribattono i contiani. Conte decide di confermare il suo appuntamento in tv a Otto e mezzo su La7 anche per ribadire il concetto. 

Tuttavia la discussione presenta anche tecnicismi che non si possono eludere. Uno dei principali è su chi sia titolato o meno a usare i dati personali degli iscritti. 

C'è chi ipotizza di sondare il garante della privacy per evitare eventuali sanzioni e ricorsi. «Non possiamo sbagliare: c'è il rischio di un danno finanziario ingente». 

La situazione, insomma, è molto scivolosa. E va presa con le pinze. La chiave di volta, l'uomo che potrebbe essere determinante per sbloccare l'impasse torna a essere Beppe Grillo. Il garante, infatti, è sempre stato in carica e da lui il Movimento si aspetta una mossa. Da ambienti vicini allo showman, però, filtra la notizia che Grillo non ha al momento intenzione di incontrare a Roma parlamentari e big.

Il garante si sta informando sul da farsi, proprio perché è consapevole che la situazione non permette ulteriori ritardi o errori. Il Movimento è in attesa di una sua mossa. Le varie anime lo stanno tirando per la giacca, ma ora Grillo si trova d'un tratto di nuovo plenipotenziario del destino di tutti: da Conte ai vice, dai malpancisti al secondo mandato a Luigi Di Maio. Il ministro degli Esteri, intanto, non si muove. 

Di Maio ha scelto in queste prime ore un profilo attendista: non ha intenzione di gettare benzina sul fuoco in una fase delicatissima. Il titolare della Farnesina non ha fretta nemmeno di risolvere il conflitto con Conte. «Il tempo è un problema dell'ex premier», dicono i dimaiani. 

E se Di Maio tace, Alessandro Di Battista punge. L'ex deputato, una pedina importante nelle ultime settimane (si parla di un suo riavvicinamento), evoca Gianroberto Casaleggio sui social, facendo scattare la reazione rabbiosa del gruppo parlamentare. «Come si permette?», è uno dei commenti più teneri nei confronti dell'ex esponente del direttorio.

Se non è l'anno zero per il Movimento poco ci manca: diviso al suo interno, con un leader «congelato» dal tribunale e con un orizzonte poco chiaro. Non a caso in serata, cominciano a farsi più insistenti voci di addio di alcuni pentastellati. Pronti all'addio sarebbero tra i 5 e i 10 parlamentari, tutti però solo in via ipotetica. Ma c'è il timore che la discussione possa proseguire (e allargarsi) nei prossimi giorni. «Ormai viviamo alla giornata», commenta amaro un parlamentare.

Dal "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022.

Avvocato Lorenzo Borrè, attendeva questo esito? Ha decapitato il M5S.

«L'esito era già scritto nello statuto che il M5S si era dato nel febbraio del 2021. Se la norma prescrive che il voto per modificarlo abbia un quorum di almeno metà degli iscritti non puoi pensare che se ne escludi indebitamente oltre un terzo la votazione sia valida, né puoi sostenere di aver raggiunto il quorum con la partecipazione al voto della metà degli ammessi all'assemblea anziché, appunto, della metà degli iscritti. I decapitati hanno messo la testa da soli sulla ghigliottina e quando gli è stato detto, hanno risposto "facciano pure"».

Cosa rappresenta questa ordinanza?

«Rappresenta la riaffermazione del principio di legalità, correlato a quello di democraticità. Non si può escludere dal voto un numero di iscritti superiore a quello di quanti hanno votato». 

Il Movimento ha annunciato che vuole sottoporre a ratifica le delibere sospese.

«Lo devono fare secondo le procedure del vecchio statuto e non lo può fare certamente Conte, ormai privo di poteri». 

Quindi l'esito sarebbe impugnabile?

 «Assolutamente sì».

Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 7 febbraio 2022.

La domenica dopo il «mezzogiorno di fuoco» scatenato dalle dimissioni di Luigi Di Maio dal comitato di garanzia è di calma apparente nel M5S. La quiete prima di una nuova tempesta, che il meteo pentastellato prevede nel corso della settimana (quando è previsto anche l'arrivo di Grillo a Roma). 

Perché è in questi giorni che si terrà l'assemblea pubblica chiesta dal ministro per confrontarsi in maniera schietta con il leader Giuseppe Conte. Entrambi i contendenti, in vista del primo redde rationem , stanno schierando le truppe e studiando gli interventi. 

Ma è chiaro a tutti che Di Maio, dopo aver risposto picche alle sirene che gli chiedevano di aderire al nuovo partito di centro, abbia lanciato il guanto di sfida per tentare di riconquistare la leadership del partito.

«Assolutamente niente scissione», assicurano dalla Farnesina, ma battaglia politica a viso aperto. Visioni politiche opposte a parte, uno dei nodi chiave su cui si incentra il duello sarà chi deciderà le prossime candidature, alle Comunali prima e alle Politiche poi. 

Su 230 parlamentari rimasti nel M5S (73 senatori e 157 deputati) ben 66 stanno per completare il secondo mandato. Un parlamentare su tre, secondo le regole interne in vigore, oggi non sarebbe ricandidato nel 2023. 

È una lista lunga e con tanti big. Conte tra pochi mesi, nonostante un'organizzazione partitica rigida (con pesi e contrappesi), avrà il potere maggiore di decidere le candidature. Sarà un momento chiave per la «rifondazione» avviata dall'ex premier, che, avendo preso in corsa il timone dei 5S, oggi non può contare su un numero così ampio di «fedelissimi». 

Le truppe sono molto frammentate e una discreta fetta di eletti è controllata appunto da Di Maio. A breve, quindi, i vertici del Movimento dovranno decidere come muoversi sulla delicatissima questione del terzo mandato. Il regolamento pentastellato, specchio della strategia «anticasta» delle origini, afferma che un parlamentare non può essere eletto per più di due volte. 

Ma in base a questa norma rimarrebbero fuori una folta schiera di volti noti. Il primo è appunto Di Maio. Ma ci sono anche deputati a lui vicini come Sergio Battelli o la viceministra dell'Economia Laura Castelli. 

In cima alla lista dei non ricandidabili ci sono anche vertici istituzionali come il presidente della Camera Roberto Fico (capo degli ortodossi) e la vicepresidente del Senato Paola Taverna, oggi fedelissima di Conte. 

Sul fronte Palazzo Chigi, oltre a Castelli, rimarrebbero esclusi anche tutti i membri M5S del governo, come Fabiana Dadone e Federico D'Incà.

Si salverebbe invece Stefano Patuanelli, che potrebbe sfruttare il «mandato zero», che non conta il suo mandato da consigliere comunale. 

Altri grandi esclusi sarebbero Danilo Toninelli, il capogruppo alla Camera Davide Crippa (avverso a Conte), il sottosegretario Manlio Di Stefano, il probiviro del partito Riccardo Fraccaro. 

Ci sono anche diversi fedelissimi di Conte, come l'ex capo reggente Vito Crimi. C'è pure un «mediatore» come l'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede.

Ma anche, e sopratutto, Claudio Cominardi: il deputato ha fatto due mandati, non si è mai esposto mediaticamente, ma oggi è il tesoriere che gestisce tutti i soldi per le attività del Movimento. 

Conte come gestirà la patata bollente del terzo mandato? Difficile che lo abolisca in blocco, perché così il Movimento perderebbe la presa sulla macchina politico-istituzionale, traguardo raggiunto solo grazie all'esperienza accumulata dai parlamentari di lungo corso. Più probabilmente verrà scelta la strada di un pacchetto di deroghe per il 2023.

Ma quanti posti verranno concessi per rimettere in lista chi non potrebbe? E quali saranno i nomi? La strada è sempre più stretta per due motivi. La prossima legislatura, proprio con il taglio dei parlamentari, avrà 345 posti in meno e il partito molto difficilmente conquisterà la valanga di seggi del 2018. Inoltre, proprio nelle ultime ore, il fondatore Grillo ha rilanciato un monito chiaro: «Limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione».

Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 7 febbraio 2022.

Quella che arriva dal tribunale di Napoli è una notizia che, di fatto, manda in frantumi tutto il percorso fatto in questi mesi da Giuseppe Conte. Il quale nei fatti non è più presidente del M5S, né esistono più sul piano formale i vicepresidenti e i responsabili dei comitati (compreso quello di garanzia dal quale si è dimesso Luigi Di Maio) e lo Statuto stesso. Rimane solo il garante che c'era prima, cioè Beppe Grillo. Ma l'ex premier non ci sta e annuncia: "La mia leadership del M5S è un legame politico prima che giuridico, non dipende dalle carte bollate". 

Gli attuali vertici del Movimento da oggi sono tali ma non sul piano formale, però. Questo perché sono il nuovo Statuto e poi la nomina stessa del presidente votate e adottate lo scorso agosto a non essere più valide. Il giudice Gian Piero Scoppa scrive che "l'adozione della presente cautela (cioè il ritorno alla vecchia struttura, ndr) non potrebbe dirsi preclusa dall'asserita potenziale insorgenza di problematiche di ordine tecnico connesse al funzionamento della pregressa 'piattaforma', trattandosi di eventuali aspetti di carattere meramente operativo suscettibili di svariate possibili soluzioni la cui individuazione resta concretamente riservata agli organi della associazione". Tradotto: non ci sono scappatoie per non far decadere tutta la struttura politica. 

Lo stop è avvenuto perché dalla votazione di modifica sono stati esclusi 81 mila iscritti al M5S, ma l'errore originario è stato quello di non modificare il vecchio statuto passando dalla vecchia piattaforma, cioè Rousseau. Peraltro di questo rischio di futura invalidazione se non si fosse rimasti sul vecchio sito aveva parlato proprio Grillo (oltre che Davide Casaleggio): "Sarebbe proprio il votare su una piattaforma diversa che esporrebbe il movimento, e te in prima persona, ad azioni anche risarcitorie da parte di tutti gli iscritti. Come ti ho sempre detto prima di poter votare su un'altra piattaforma è, infatti, necessario modificare lo statuto con una votazione su Rousseau", scrisse il fondatore lo scorso giugno rivolgendosi a Vito Crimi. Che nel pomeriggio, insieme al notaio, ha incontrato Conte nella sua casa romana per studiare le contromosse annunciando alla fine: "La nostra comunità è stata chiara su Conte. Ora si procederà ad una nuova votazione secondo le indicazioni del giudice di Napoli".

Non essendo più valido lo Statuto a cui ha lavorato per mesi Conte, adesso sarà necessario far eleggere i cinque membri del Comitato direttivo, ovvero l'organo collegiale che - si era deciso, prima che si virasse su Conte - doveva prendere la guida del Movimento dopo la fine della figura del Capo politico. 

M5S: dal tribunale solo sospensione delibere, le rivoteremo

Ma ora il Movimento con una nota annuncia che le delibere saranno rivotate a breve anche dagli iscritti con meno di 6 mesi di anzianità: "Il provvedimento del Tribunale di Napoli non ha accertato l'invalidità delle delibere adottate, ma dispone, in via meramente provvisoria, la sola "sospensione" delle suddette delibere" sulla base del nuovo Statuto del M5S. E ancora. 

"Il Tribunale di Napoli - si legge sempre nella nota - che in prima istanza aveva respinto il ricorso cautelare per la sospensione delle delibere dell'agosto 2021 di approvazione del nuovo statuto e di elezione del Presidente, ha accolto in seconda istanza il suddetto ricorso". "Nonostante le varie eccezioni sollevate, riguardanti anche l'incompetenza territoriale Foro di Napoli, il Tribunale ha accolto il ricorso fornendo una specifica interpretazione del vecchio statuto secondo cui avrebbero avuto diritto di partecipare al voto anche gli iscritti da meno di sei mesi. 

L'interpretazione fornita dal Tribunale di reclamo, peraltro - prosegue la nota - contrasta la prassi consolidata nelle votazioni seguite dal Movimento e un indirizzo che mirava a scongiurare che la comunità fosse infiltrata da cordate organizzate ad hoc al fine di alterare le singole votazioni, complice anche la gratuità e semplificazione dell'iscrizione". E ribadisce al nota che "il provvedimento del Tribunale di Napoli non ha accertato l'invalidità delle delibere adottate, ma dispone, in via meramente provvisoria, la sola "sospensione" delle suddette delibere. Il Movimento aveva già in programma, proprio in questi giorni, la convocazione di un'assemblea per sottoporre al voto degli iscritti alcune modifiche statutarie in adesione ai rilievi della Commissione di garanzia per gli statuti e la trasparenza dei partiti politici. Sarà questa l'occasione per proporre agli iscritti - anche con meno di sei mesi di anzianità - la ratifica delle delibere sospese in via provvisoria". 

Rousseau: denunciati più volte vizi tribunale

Sembrava già aver previsto tutto l'associazione Rousseau. Che ora, dopo l'ordinanza del Tribunale di Napoli che sospende, in via cautelativa, il nuovo statuto del M5S e la nomina di Giuseppe Conte a presidente, con un  post sul blog delle stelle spiega: "Come molti ricorderanno, per mesi abbiamo sollecitato i dirigenti che si erano autoproclamati tali a capo del Movimento a seguire la legge e ad adempiere alle decisioni degli iscritti durante gli Stati generali ossia a procedere a un voto su Rousseau per definire la governance del M5S composta da un organo a 5 componenti chiamato Comitato direttivo in sostituzione della figura del capo politico. Anche il Garante Beppe Grillo ribadì in due comunicazioni pubbliche - ''Una bozza e via'' pubblicata il 29 giugno e una comunicazione il giorno successivo - la necessità di votare, nel rispetto dello Statuto del Movimento 5 Stelle, il Comitato direttivo su Rousseau".

"Purtroppo quello che accadde successivamente è cosa nota a tutti: gli autoproclamatosi dirigenti del M5S decisero, invece, di proseguire la loro azione in violazione delle regole associative e delle decisioni degli iscritti e avviarono le votazioni su Sky Vote che oggi sono state di fatto invalidate accogliendo il ricorso proposto da diversi attivisti del MoVimento 5 Stelle in tutta Italia. In più occasioni abbiamo evidenziato quanto la gestione delle votazioni e della comunità degli iscritti richiedesse un livello di attenzione e professionalità che non possono essere improvvisati con modelli di gestione, invece, approssimativi e dilettantistici così come, invece, avvenuto. In un post del primo giugno 2021 Davide Casaleggio consigliava al Movimento 5 Stelle di operare nel pieno rispetto delle regole avvertendo: 'Gli scogli sono vicini. Ripeto. 

Gli scogli sono vicini'. E oggi il Movimento è tristemente andato a sbattere su quegli scogli e sarà costretto ad effettuare nuove votazioni indette dal Garante Beppe Grillo - unico organo in grado oggi di convocare gli iscritti - per individuare un guida collegiale al posto del decaduto presidente e capo politico Giuseppe Conte e dovrà farlo, questa volta, nel rispetto delle regole e delle modalità previste dal precedente Statuto e che da ora è di nuovo in vigore", conclude l'associazione Rousseau.

M.Pucc. per "la Repubblica" il 7 febbraio 2022.  

«Conte ha un problema: se il migliore dei goleador, e lui lo è, è in una squadra senza gioco o con qualche brocco, non segna mai», dice Dino Giarrusso, eurodeputato dei 5 Stelle da 116mila preferenze e che valuta di candidarsi alla presidenza della Sicilia in ottobre.

"Squadra senza gioco", "qualche brocco": si riferisce ai vice di Conte?

«No: penso a tutte le possibili scelte di Conte, passate, presenti e future, se non prenderà in considerazione alcuni elementi. Il M5S è nato come forza di partecipazione popolare e democrazia diretta. Se perde l'entusiasmo della base, riduce la partecipazione degli iscritti limitandoli a ratificare decisioni già prese e non valorizza quegli esponenti con un reale consenso personale, rischia l'irrilevanza. In passato sono stati commessi errori, da evitare: penso per esempio agli uninominali dove c'è chi scelse persone non votate dalla base che hanno abbandonato il Movimento». 

Ma lei nella discussione tra Conte e Luigi Di Maio come si pone? Davvero il ministro ha tramato contro il presidente?

«Non amo parlare di cose di cui non ho certezza e non voglio avallare assunti fatti da altri, certamente è un peccato non aver eletto un nuovo presidente ma ancor più grave è che una lite interna trasformi la clamorosa debacle del centrodestra nella nostra autoflagellazione, per questo invoco pacificazione».

Ma Conte e Di Maio sono ancora politicamente compatibili?

«Questo lo sanno solo loro due». 

Gli attivisti come la vedono?

«Vogliono essere coinvolti, ma seriamente, nelle discussioni e nelle scelte. Se ci sono controversie vogliono essere ascoltati. Che poi è stata la ragione del successo del M5S. Capisco che Conte curi molto il rapporto coi nostri gruppi parlamentari, e con alleati come Letta, ma deve anche valorizzare chi sta sul territorio, che per noi è fondamentale». 

Ma anche lei percepisce l'esistenza di due Movimenti?

«Io ritengo mortale creare fazioni e tifoserie. Conte ha ribadito che nel M5S le correnti non sono ammesse, ottimo. Però sappia che c'erano e ci sono ancora, eccome, e c'è chi ha dovuto subirle. Personalmente posso dire di subire da tempo ostracismo e attacchi indegni da colleghi di partito e persino da nostri dipendenti, rimasti impuniti. Dunque se si punisce chi fa correnti, si puniscano tutti i comportamenti del genere». 

Conte è presidente da diversi mesi, è una critica anche per lui.

«Assolutamente no: ha avuto diverse matasse da sbrogliare, anche di carattere formale, poi c'è stata l'elezione del Capo dello Stato. È uno sprone, piuttosto: ora è il momento di fare i referenti locali e farli votare dagli iscritti, che sanno bene chi si è impegnato e chi no. Conte ha molti che gli sorridono e poi gli remano contro, mentre chi è fedele davvero sono iscritti e attivisti: deve ridare loro un peso reale. Ricominciamo a parlare di temi sentiti e facciamolo coinvolgendo la base, altrimenti diventeremo una forza marginale». 

Senta ma lei sul limite dei due mandati cosa pensa?

«Una delle ragioni per la quale ci hanno votato milioni di persone fu che gli avevamo promesso che non saremmo diventati dei politici di professione. Sono contrario a modificare il principio. Dopodiché anche questo è giusto farlo votare ai nostri iscritti, così come la legge elettorale, che vorrei proporzionale e con le preferenze».

Estratto dell’articolo di Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa" il 7 febbraio 2022.

«Nel Movimento nessuno deve sentirsi indispensabile, nemmeno io». Giuseppe Conte dice di aver preso in mano i 5 stelle «per costruire, non per favorire scissioni». Ma anche che «le correnti non possono esistere, si decide la linea insieme, poi la si rispetta». Presidente, il caso Belloni è diventato una sorta di giallo. 

Davvero pensava, quando ha chiamato Beppe Grillo, che su di lei ci fosse un accordo pronto e già avallato dalle altre forze politiche? E non, come ha detto il Pd, un'intesa di massima su una rosa che andava ancora vagliata?

«Ho già chiarito che su quel nominativo non si è arrivati all'ultimo. Quando l'abbiamo proposto a Salvini con Letta eravamo consapevoli che era un nome solido e super partes, lo stavamo vagliando da giorni, fermi restando i passaggi finali interni che ciascun partito si riservava di fare. Il sì di Salvini è stata una svolta importante, insieme a quello della Meloni, eravamo a un passo. Poi è intervenuto il partito trasversale che non vuole il cambiamento nel Paese».

Si è molto arrabbiato per la dichiarazione arrivata dal ministro degli Esteri a trattativa in corso. È stata però proprio Belloni a definire Di Maio sempre leale. Questo smentisce i vostri sospetti?

«Tanto Elisabetta Belloni quanto Paola Severino rispondevano all'identikit che ci eravamo dati: personalità di alto profilo, super partes. In aggiunta, entrambe offrivano l'occasione storica di introdurre un elemento di forte innovazione nel sistema politico italiano eleggendo al Colle una donna per la prima volta». 

Ma Di Maio già il giorno prima del fatidico venerdì aveva detto: «Elisabetta è mia sorella, si stia attenti a non usare il suo nome per spaccare la maggioranza». Lei sapeva che quel nome avrebbe creato problemi.

«Quelle dichiarazioni mi hanno sorpreso, visto che Di Maio stesso ha sempre sostenuto che i nomi non vanno bruciati. Infatti io in pubblico ho sempre evitato di farli. E non mi sono mai arrivate, all'interno del Movimento e della cabina di regia, obiezioni di sorta. Anzi». 

Non teme che quest' insistenza sulla necessità che al Colle andasse una donna sia irrispettosa nei confronti di Sergio Mattarella?

«Il nostro gruppo parlamentare ha sempre apprezzato Mattarella ma all'inizio non c'era la disponibilità del capo dello Stato e non c'era una sufficiente maggioranza numerica. Siamo un movimento che osa, prova a cambiare le cose. 

Abbiamo tentato la strada di una donna autorevole al Colle, ce l'hanno sbarrata. Non è mai stata una linea irriguardosa nei confronti del presidente, un'opzione di garanzia che come Movimento abbiamo fatto crescere costantemente nelle votazioni». 

Non è stato Di Maio?

«Non so cosa abbia fatto concretamente Di Maio. So solo che con i capigruppo abbiamo sempre vigilato perché quest' opzione crescesse giorno dopo giorno e rimanesse valida sino alla fine. E aggiungo che la mia più forte premura è che ci fosse un'ampia maggioranza numerica. Condizione che si è realizzata solo la mattina del voto finale, con l'apertura della Lega».

Quando ha preso in mano il Movimento ha promesso meno verticismo rispetto al passato. Ma il conflitto nato sembra dimostrare il contrario. Non è che il padre padrone lo sta facendo lei?

«Mi dicono che nella storia del Movimento non ci siano mai stati tanti incontri e cabine di regia come in questi mesi. Questo sforzo serve a mettere a punto in maniera collegiale una linea politica che spetta a me riassumere e portare avanti. Seguire un diverso indirizzo, andare in direzioni opposte, non significa tanto indebolire una leadership quanto creare confusione e danneggiare il Movimento».

Quindi non può esserci un'idea di minoranza?

«Quando una linea passa in assemblea congiunta e viene costantemente aggiornata in cabina di regia va rispettata. Non possono esserci agende personali, doppie o triple». 

È consapevole che dire no alle correnti possa significare anche vietare il pluralismo delle idee?

 «La forza del Movimento è sempre stata quella di non cedere al correntismo della vecchia politica. I nostri iscritti si possono esprimere online sui passaggi più salienti. La possibilità di discutere progetti e idee e di elaborare proposte anche nella varietà di opinioni è per noi fondamentale.

Preannuncio anzi che con la nuova piattaforma della Scuola di formazione, che inaugureremo tra breve, moltiplicheremo i luoghi di discussione. Ma certo non potrò permettere che mentre prima si andava in piazza a fare battaglie civili e politiche, oggi si vada in piazza a palesare correnti. 

Quella mossa ha creato dolore e malumori nella nostra comunità. Anche per questo ho valutato come doverose le dimissioni di Di Maio dal comitato di garanzia».

Vincenzo Spadafora ha chiesto un congresso, non un processo pubblico. Che cosa ha in mente?

«Ci saranno dei momenti di confronto dove potremo analizzare quanto successo anche al fine di evitare che questi errori si ripetano. Né possiamo tollerare per il futuro guerre di logoramento interno: la nostra comunità è sana e si opporrà in modo compatto a queste degenerazioni della "mala politica" da chiunque provengano». 

Preferirebbe che Di Maio uscisse dal M5S?

«Io sono qui per costruire e rilanciare il Movimento, non ho mai lavorato per distruggere o provocare divisioni».

Dovrebbe dimettersi anche da ministro degli Esteri? Possono esserci conseguenze sul governo?

«Ho chiarito anche al presidente Draghi che il Movimento vuole contribuire a realizzare un patto per i cittadini per rafforzare l'azione di governo: nel nostro orizzonte non ci sono rimpasti o discussioni sulle caselle di governo». 

L'ex capo politico M5S l'ha chiamata nella sua squadra. Ha rinunciato a fare il premier per non accettare un accordo con Berlusconi e ha proposto lei al suo posto. Non è che la vera battaglia riguarda le liste delle prossime politiche e la necessità di superare il vincolo del doppio mandato?

«Lavorerò perché tutti nel Movimento possano sentirsi parte di una medesima comunità, possano condividere principi e valori, siano generosi e non si lascino distrarre dai propri destini personali. Tutti devono sentirsi importanti ma nessuno, a partire da me, deve mai sentirsi indispensabile». 

Non ha ancora preso una decisione sul terzo mandato?

«Non è ancora all'ordine del giorno, ma comunque nella decisione saranno coinvolti gli iscritti».

(…) La pensa come Salvini, che preme per nuove misure. Dopo il gelo seguito alla caduta del suo primo governo, avete trovato una nuova intesa nella trattativa sul Quirinale?

«Si è molto fantasticato su questo dialogo che ho intrattenuto con il centrodestra e Salvini in particolare anche a nome del Pd e di Leu. Ma dialogo non significa sotterfugi né accordi inconfessabili. Le trattative si sono svolte con costante coinvolgimento di Enrico Letta e Roberto Speranza e nella consapevolezza che non essendoci numeri sufficienti, come abbiamo sempre detto, sarebbe stato necessario puntare a personalità super partes e cercare un'ampia condivisione a garanzia di tutti».

Di Battista, che si è riavvicinato a lei, dice che perché rientri deve togliere l'appoggio a Draghi. Che non si fida di Letta e che l'alleanza con il Pd è la morte nera. Che farà?

 «Rispetto le opinioni di Alessandro Di Battista, ma il Movimento è entrato in questo governo consapevole di assumersi una responsabilità che va portata avanti sino a quando non verranno raggiunti gli obiettivi che ci siamo prefissati. Quanto al Pd il dialogo andrà coltivato nel rispetto reciproco».

(…)  L'inchiesta sul traffico di influenze che ha coinvolto Grillo dimostra che il Movimento è permeabile a interessi privati?

«Sono fiducioso che le verifiche in corso dimostreranno la piena correttezza dell'operato di Beppe Grillo». (…)

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per "la Repubblica" l'8 febbraio 2022.  

La battuta che è andata per la maggiore nella ridda di telefonate, messaggi, vocali e caffè amari, in una ennesima giornata di impazzimento generale per i 5 Stelle, è stata una: «E menomale che è pure un grande avvocato...». 

La faccenda a colpi di ricorsi, cavilli e legalese è in realtà tutta politica e comunque verrà risolta Giuseppe Conte ne esce un po' più ammaccato di quanto già non lo fosse.

C'erano voluti dei mesi per arrivare a concludere la transizione, ed era stata piena di affanni: la rottura con Davide Casaleggio, la creazione di una nuova piattaforma neutra, il lavoro sullo statuto riscritto daccapo, la lite a un passo dalla rottura totale con Beppe Grillo e poi la riappacificazione. Ora, nel mezzo di una nuova bagarre - stavolta con Luigi Di Maio, l'ex capo politico - rieccoci punto e a capo, tutto da rifare.

Appena uscita la notizia del provvedimento cautelare, l'ex presidente del Consiglio ha riunito i cinque vice e i fedelissimi, poi s' è visto con Vito Crimi e il notaio di fiducia Alfonso Colucci e sono questi ultimi due, si vocifera, ad aver sbagliato alcuni riferimenti normativi nell'amministrare il passaggio; ma insomma, al netto dei perché e dei per come, c'è anche chi al presidente ha consigliato a mezza voce, «Giuseppe cogli la palla al balzo, rifacciamo una cosa tutta nuova e daccapo ».  (…)

Antonio Atte e Ileana Sciarra per adnkronos.com il 7 febbraio 2022.  

Da Napoli arrivano nuove grane per il Movimento 5 Stelle. Secondo quanto apprende l'Adnkronos, il Tribunale del capoluogo partenopeo ha sospeso le due delibere con cui, lo scorso agosto, il M5S ha modificato il suo statuto e 'incoronato' Giuseppe Conte come presidente dei pentastellati. 

I provvedimenti (che risalgono rispettivamente al 3 e al 5 agosto 2021) sono stati sospesi in via cautelare per la sussistenza di "gravi vizi nel processo decisionale", in primis l'esclusione dalla votazione di oltre un terzo degli iscritti e il conseguente mancato raggiungimento del quorum, nell'ambito del processo intentato da un gruppo di attivisti del Movimento, difesi dall'avvocato Lorenzo Borrè.

Tra i militanti: Steven Hutchinson, Renato Delle Donne e Liliana Coppola, i quali hanno presentato il ricorso supportati da centinaia di attivisti che hanno contribuito al pagamento delle spese legali.

Da adnkronos.com l'8 febbraio 2022.

"Prima Di Maio andava in piazza per sostenere le nostre battaglie civili, oggi per esibire una corrente e attaccare la leadership". 

Così Giuseppe Conte, ospite di Lilli Gruber a 'Otto e mezzo' su La7. "Nella lettera di dimissioni ha scritto diversi buoni propositi per alimentare il dibattito e le idee. 

L'ho sentito per telefono e mi ha detto che é desideroso di esprimere idee e progetti. E' vero, un passaggio difficile c'è stato ma l'interesse del Movimento viene sempre prima delle persone", ha aggiunto. 

"Non è nell'orizzonte delle cose -ha aggiunto l'ex premier- che Di Maio venga espulso ma è ovvio che lui - che è l'ex leader - ha delle responsabilità in più. Una leadership vera non ha mai paura del confronto sulle idee ma di fronte a un attacco così plastico, in televisione, non si può fare finta di nulla".

Federico Capurso per "la Stampa" l'8 febbraio 2022.  

Ex presidente del Movimento 5 stelle: deve suonare strano anche a Giuseppe Conte, eppure è così, almeno per il momento. 

Dopo sei mesi e un giorno di leadership, l'avvocato si ritrova all'improvviso senza più scettro né trono, per mano di un tribunale. Lui rivendica la sua leadership, sostiene che «non dipenda dalle carte bollate», perché va distinto il «piano politico-sostanziale» da quello «giuridico formale». 

Ma la verità è che i due piani non si possono separare, neanche volendo. Perché dopo la sentenza del tribunale di Napoli, Conte non ha più alcun potere.

E perché insieme a lui è crollata tutta la struttura gerarchica che aveva costruito, dai vicepresidenti ai comitati. Tabula rasa. Un colpo che viene inferto nel momento più delicato per l'ex premier. 

Da una parte costretto a difendersi da Luigi Di Maio, dall'altra intento a sedare le preoccupazioni che arrivano dal Pd, con cui i rapporti vengono vissuti - specie dopo la partita del Quirinale - in una nuova atmosfera di tensione. Il leader M5S si sente sotto attacco, nonostante continui ad attestare la sua «fiducia in Enrico Letta».

Teme la sponda dei Dem con Di Maio e che questa venga usata per rafforzare l'idea di subalternità dei Cinque stelle rispetto al Pd. Non a caso chiede di nuovo «chiarezza e autonomia», utili a ridefinire i confini del loro rapporto. Ma prima degli alleati, Conte deve risolvere le grane interne. 

Dopo aver parlato con il suo avvocato, Francesco Astone, nutre la speranza che il 1 marzo venga respinto il ricorso a Napoli e che tutto possa tornare come prima.

Ma è una speranza e come ogni speranza nasconde un rischio. L'ex premier vuole quindi muoversi in fretta e rispondere alla sospensione dei suoi poteri «con un bagno di democrazia». Insomma, si ripeterà la votazione - annuncia ospite di Otto e mezzo -, «senza aspettare i tempi di un giudizio processuale». 

Conte avrebbe voluto affidare la pratica a Vito Crimi, che prima ricopriva il ruolo di reggente del partito, ma Crimi si è dimesso dalla carica e dunque nemmeno lui può più nulla. La ratifica che dovrebbe essere richiesta da Beppe Grillo, unico rimasto in carica. Conte lo ha sentito telefonicamente nella convulsa giornata di ieri, ma nonostante il desiderio di entrambi di superare l'impasse, non è ancora stata presa una decisione definitiva.

E aleggia qualche preoccupazione per le pressioni interne al Movimento, soprattutto dal lato Di Maio, che potrebbero arrivare sul Garante per convincerlo a scegliere un'altra strada. Ci sono infatti delle alternative. Una di queste prevedrebbe la nomina di un comitato direttivo di cinque membri a cui affidare il potere - così come era stato deciso prima della nomina di Conte. 

I cinque, una volta eletti, dovrebbero stabilire un nuovo voto per la modifica dello Statuto e un altro per l'elezione di Conte a presidente del partito. Ma è una strada che i vertici del Movimento vorrebbero evitare. Hanno paura che si creino di cordate, legate a Di Maio e a Virginia Raggi, in grado di prendere la maggioranza del direttivo e di rendere più complicata la transizione. 

Anche se un deputato considerato molto vicino al ministro degli Esteri si affretta a smentire qualunque volontà di interferire: «In questo caos nessuno vuole entrarci. Restiamo a guardare. Abbiamo già preso i popcorn», scherza. L'altra opzione prevede la nomina di un nuovo comitato di garanzia, con un nuovo reggente, che indica le due votazioni.

Ma dove votare? Sulla nuova piattaforma di voto online Sky Vote? Anche qui, sorge un dubbio agli avvocati M5S, legato ai ricorsi a cui sarebbero pronti gli attivisti in caso di mancato utilizzo di Rousseau, l'unica piattaforma citata dal vecchio statuto grillino. Certo, nonostante i pessimi rapporti con Davide Casaleggio, i vertici grillini si dicono sicuri che una soluzione, nel caso, si troverebbe: «Basterebbe pagarlo». Resterebbe lo smacco di dover tornare in ginocchio da Casaleggio, ancora ieri definito «un problema». Ma vie indolori per Conte, in questo momento, non ce ne sono.

(ANSA l'8 febbraio 2022) - "A seguito dell'Ordinanza del Tribunale di Napoli", "ha acquisito reviviscenza lo Statuto approvato il 10 febbraio 2021. Le sentenze si rispettano. La situazione, non possiamo negarlo, è molto complicata". Lo scrive sui social Beppe Grillo in riferimento alla situazione del Movimento 5 Stelle.

(ANSA l'8 febbraio 2022) - "In questo momento non si possono prendere decisioni avventate. Promuoverò un momento di confronto anche con Giuseppe Conte. Nel frattempo, invito tutti a rimanere in silenzio e a non assumere iniziative azzardate prima che ci sia condivisione sulla strada da seguire". Lo scrive Beppe Grillo sui suoi canali social facendo riferimento alla situazione dei 5 Stelle.

L'ultima beffa per i giustizialisti. Ora la palla passa all'indagato Grillo. Pasquale Napolitano l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il comico torna al timone. Defilato per le inchieste, tocca a lui sbrogliare la matassa.

Il Tribunale di Napoli rimette in pista un «Grillo azzoppato». La sentenza, pronunciata sul ricorso di un gruppo di attivisti che demolisce la leadership di Giuseppe Conte, riconsegna le chiavi del Movimento al «riservista» Beppe Grillo (nella foto). E riabilita Casaleggio. Si ritorna al 2013. Alle origini. Ai giorni in cui il Movimento fu saldamente nelle mani del comico. Immune da correnti, contese per la leadership e guerre di potere.

Otto anni azzerati in tre minuti: il tempo impiegato dal giudice del Tribunale di Napoli per la lettura del dispositivo che spazza via Conte, Casalino e la sua corte. Tre minuti che segnano la resurrezione del fondatore. Ma non è più il leader spavaldo di otto anni fa. Che marciava incontrastato, con la spinta del popolo, verso i Palazzi romani. Oggi è un capo al tramonto. Azzoppato. Un padre nobile triste e deluso. Che si ritrova (di nuovo) alla testa del Movimento nel momento più difficile: i sondaggi in picchiata e la guerra Conte-Di Maio hanno trasformato il sogno pentastellato in un incubo. La sentenza cancella gli ultimi sei mesi: via Crimi (il reggente), via Conte (il leader) e via i vicepresidenti.

Un assist inaspettato per il ministro degli Esteri Luigi Di Maio e la sua pattuglia schiacciati dalla leadership contiana. Riecco Grillo. Unico e solo al comando. Il comico, travolto dalle due inchieste (sul figlio per violenza sessuale e l'altra sui presunti favori al gruppo Moby), viene ri-catapultato al centro della scena politica. Lo showman era già pronto al passo d'addio. L'ultimo tentativo di mediazione, nei giorni scorsi, per siglare la tregua tra Di Maio e Conte era fallito. Ai suoi più stretti collaboratori aveva confidato la tentazione di gettare la spugna. Soprattutto dopo la gaffe su Belloni. Nelle ore calde della trattativa per l'elezione del Capo dello Stato, Conte aveva chiesto l'aiuto di Grillo sull'operazione che doveva portare al Colle la numero uno del Dis. Il suo tweet («Benvenuta Signora Italia, ti aspettavamo da tempo. #ElisabettaBelloni») si rivela un clamoroso autogol: la candidatura della Belloni salta. A Grillo restano la figuraccia e l'irritazione verso Conte. Epilogo di un declino.

Negli ultimi due anni a spingere Grillo verso il passo di lato sono state le inchieste. Le due indagini. La prima che coinvolge il figlio Ciro sulla presunta violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza. La seconda inchiesta, quella sui presunti favori ricevuti da Moby, è stata la mazzata finale. Grillo risulta indagato per traffico di influenze illecite. Ora il colpo di scena. Grillo si ritrova al timone di una nave che rischia il naufragio. Solo e senza vice. Monarca assoluto. Ma è un re nudo. Debole. Accerchiato. La sentenza impone a Grillo di convocare la votazione del direttorio. Votazione già indetta, e poi revocata, ad agosto quando entrò in rotta di collisione con Conte sulle modifiche dello Statuto. Da un lato, Grillo dovrà guidare l'azione politica del partito di maggioranza relativa in Parlamento e primo socio del governo Draghi. C'è subito il dossier nomine: 350 poltrone da assegnare o rinnovare per i prossimi mesi. Chi tratterà in nome e per conto del Movimento? I grillini di governo spaccati nelle due correnti (dimaiana e contiana)? O sarà Grillo in quanto leader di fatto dei 5s?

E poi il dossier Giustizia. Chi darà la linea al Movimento su un tema così caro? Grillo, Di Maio o Travaglio? Dall'altro dovrà sbrogliare la matassa sull'organizzazione del Movimento. Non è in programma alcuna visita a Roma. L'ipotesi più gettonata nelle chat è che il comico possa optare per un vertice collegiale tenendo dentro Di Maio e Conte. Ma è difficile che l'ex premier possa accettare un ridimensionamento. C'è chi azzarda. In una situazione di totale caos non si esclude che Grillo possa tenere in mano le redini del Movimento. Bloccare tutto: votazione del direttorio ed elezione del nuovo capo politico. Un colpo di scena che riporterebbe Di Maio al suo originario ruolo di figliuol prodigo. E metterebbe Conte fuori gioco. Un colpo di teatro. Da parte di un comico. Pasquale Napolitano

Annalisa Cuzzocrea per "La Stampa" l'8 febbraio 2022.  

Sarà forse Nemesi, figlia dell'oceano e della notte, a perseguitare il Movimento 5 stelle. Una forza politica cresciuta nelle piazze negli ultimi quindici anni urlando, insieme al suo Vaffa, che «i partiti sono tutti morti». 

Lo ha ripetuto per anni Beppe Grillo, mentre la forza politica cui aveva dato vita insieme a Gianroberto Casaleggio cominciava a entrare nelle istituzioni.

Lo hanno rivendicato i suoi adepti, ogni volta aggiungendo insulti verso questo o quel leader politico con cui - dicevano - non si sarebbero alleati mai. 

Così, dacché le cose hanno cominciato a farsi serie, con l'ingresso nei consigli regionali, in quelli comunali, infine in Parlamento, c'è sempre stata una causa legale che chiedeva di invalidare una qualche decisione del Movimento che si faceva partito senza ammetterlo neanche con se stesso.

È toccato a Beppe Grillo, a Genova, quando decise di annullare il voto sulla candidata sindaca Marika Cassimatis semplicemente perché non era quella per cui tifavano lui e Casaleggio. Anche allora ci furono un procedimento perso e un'associazione da rifondare, per evitare di dover dare ragione a chi pretendeva di stare alle regole dello Statuto. E non all'arbitrio del capo. Ma nessuno ha imparato la lezione, sebbene l'avvocato che indice le cause per conto dei ribelli sia sempre lo stesso.

Dopo una primavera trascorsa dagli iscritti a fare Stati generali on line per decidere che alla guida del Movimento doveva esserci un comitato direttivo, gli stessi dirigenti che avevano guidato quella decisione cambiano idea. Vogliono dare le chiavi dei 5 stelle a Giuseppe Conte e solo a lui. Grillo - tra un gamberetto e una tartina sul terrazzo dell'hotel Forum - fa lo stesso.

A un certo punto ci ripensa, vede troppi poteri nelle mani dell'ex premier, ma Luigi Di Maio e Roberto Fico corrono a Bibbona per calmarlo e di nuovo prevale l'arbitrio, si cancella la regola. Così non si fa, dice un tribunale a Napoli. Così si è sempre fatto, risponde il Movimento. 

Perché è vero, da sempre alle votazioni on line possono partecipare gli iscritti solo fino a una certa data: una vecchia fissazione da "democrazia diretta" in stile Casaleggio per evitare truppe cammellate e cordate in entrata. Non basta però che una cosa si sia sempre fatta, perché sia giusta. E così, il Movimento che voleva distruggere i partiti sta riuscendo a distruggere solo se stesso nel continuo e maldestro tentativo di imitarli.

L'immagine dello stallo odierno vede l'avvocato del popolo sommerso da quelle che egli stesso definisce «carte bollate», senza più né un ruolo né un potere. Senza più vice, perché tutto è decaduto insieme a lui. Mentre resta - eterno motore immobile dei 5 stelle - Beppe Grillo. Cui Conte pensava di aver tolto la guida politica, ma da cui dovrà di nuovo tornare per chiedere: «Scegli me». Sempre che i nemici interni, a partire da Di Maio, non convincano il Garante a cercare un'altra strada. E che quella strada non porti, in questo assurdo gioco dell'Oca, a un altro ritorno: quello della dismessa piattaforma Rousseau.

"Menomale che è un avvocato...". Giuseppe Conte è lo zimbello dei grillinI: il retroscena ad Omnibus. Il Tempo l'08 febbraio 2022.

Un brutto colpo per Giuseppe Conte e la sua leadership del Movimento 5 Stelle dopo la decisione del tribunale di Napoli di sospendere il nuovo statuto e la conseguente nomina dell’ex presidente del Consiglio a numero uno del partito. Francesco Specchia, giornalista ed ex capo-redattore di Libero, è ospite della puntata dell’8 febbraio di Omnibus, programma mattutino di La7 con Alessandra Sardoni alla conduzione, e non risparmia feroci critiche a Giuseppi: “Si sapeva che c’era questa situazione, Grillo e Casaleggio avevano avvertito tutti nei giorni precedenti al distacco dalla piattaforma Rousseau. Conte ha seguito delle procedure del tutto irregolari, meno male che è avvocato… Lo ha detto qualcuno all’interno del Movimento. Conte si è lasciato prendere dal fatto della presa del comando del M5S il prima possibile e poter procedere con i suoi piani. Ma questa cosa ha determinato una spaccatura maggiore all’interno di un Movimento che è già balcanizzato. Di Maio si è dimesso due giorni prima dal comitato di garanzia e poi è arrivata questa decisione dal Tribunale di Napoli, ci sono delle strane coincidenze. Adesso ci troviamo in un gioca dell’oca, si riparte dall’inizio, Conte rimette in discussione la leadership”.  “Di Maio - prosegue Specchia - sta lavorando da più settori contro Conte, lavora all’interno del governo e quindi continua ad aumentare il proprio network e la propria credibilità, è in attesa molto democristiana, il suo attendismo si vede in ogni mossa, sul referendum della giustizia e della cannabis e soprattutto le elezioni amministrative, che per il M5S saranno un bagno di sangue senza le alleanze con il Partito Democratico. Ci sarà - la fosca previsione del giornalista sul destino dei pentastellati - la morte politica sul territorio, a lungo andare si rischia l’annientamento completo”. Tra la stangata dalla giustizia e le mosse del ministro degli Esteri non è un bel momento per Conte.

Crimi e misfatti. Adesso i Cinquestelle hanno bisogno di un avvocato bravo. Mario Lavia su l'Inkiesta l'8 Febbraio 2022. Giuseppe Conte è stato scalzato dalla guida del partito poi lista da una sentenza di tribunale (e già questo fa ridere) e la colpa è proprio sua, che ha redatto uno statuto sbagliato. Ma il provvedimento del magistrato è solo il suggello formale della fine di una leadership che di sostanziale non aveva nulla. 

All’avvocato che cade a causa delle sue leggi verrebbe da dire: ben ti sta. Scivola, l’avvocato, Giuseppe Conte, sulle scale della giustizia e della correttezza delle norme, e dai ieri non è più presidente del M5s. Altro che «rivoluzione divora i suoi figli» come gridò il girondino Pierre Victurnien Vergniaud davanti alla ghigliottina: quella era tragedia, qui è pura farsa.

La tristezza dello spettacolo di un leader politico scalzato da un’ordinanza di un tribunale civile è evidentemente in se stessa: bei tempi quando un segretario di partito cadeva in un congresso democratico!

Ma la colpa non è attribuibile al dottor Gian Piero Scoppa, presidente della settima sezione civile del Tribunale di Napoli, che ha emesso l’ordinanza che cancella la nomina di Giuseppe Conte a presidente del M5s, la colpa è proprio di Conte avvocato Giuseppe che ha impiegato cinque mesi per scrivere uno Statuto sbagliato, come le sue ambizioni, e del M5s che si inventò il plebiscito pro-Conte su una piattaforma diversa dalla mitica Rousseau e dunque monca di ben 81.839 iscritti che avrebbero dovuto votare (di qui il reclamo degli esclusi accolto dall’ordinanza napoletana).

Un pasticcio cui la fantastica prosa azzeccagarbugliesca dell’ordinanza aggiunge un sublime tocco settecentesco, come in un’opera di Cimarosa: «L’adozione della presente cautela non potrebbe dirsi preclusa dall’asserita potenziale insorgenza di problematiche di ordine tecnico connesse al funzionamento della pregressa “piattaforma”…».

Ma al di là del latinorum dei magistrati, la sostanza è che il tribunale ha in sostanza dato ragione a Beppe Grillo e Davide Casaleggio che avevano messo in guardia l’avvocato del popolo dall’utilizzare una piattaforma diversa da Rousseau senza aver prima modificato lo statuto: una bagatella di paese che nulla a prima vista avrebbe a che fare con la politica, addirittura con il partito più votato dagli italiani (quattro anni fa però), parendo invece una commedia degli equivoci da film minore di Risi o Monicelli, o meglio una farsa di Armando Curcio o Eduardo Scarpetta – non può essere un caso che l’ordinanza sia stata emessa a Napoli – e tanto per aggiungere ridicolo al ridicolo c’è il fatto che la “vittima” del marchingegno sia l’avvocato già presidente del Consiglio, incapace di regolare la vita del suo partito, figuriamoci quella del suo Paese.

Colpito ai fianchi dal rampante ministro degli Esteri adesso sulla testa di Giuseppi è piombata la forza della legge, proprio quella legge di cui egli si picca di esser cantore (e in nome del popolo!), quando invece ha dimostrato di non essere capace nemmeno di farsi eleggere con regole trasparenti. Così il punto di vista formale in un certo senso anticipa quello sostanziale, visto che non passa giorno senza che la leadership di Giuseppe Conte venga in qualche modo minata.

Ora lui minimizzerà, derubricherà il fattaccio a problema tecnico, anzi forse griderà al complotto o che altro. Della questione formale interessa tutto sommato poco: chi ha mai creduto alla forza di legge di un clic, alla pantomima della democrazia sottoforma di plebiscito telecomandato, alle leadership fabbricate nelle stanze di una srl incontrollabile?

Il fatto di oggi è politico e cioè che il drappo telematico posto dai grillini sulla faccia della democrazia è squarciato dalla logica prima ancora che dalla legge; che quella che era parsa a molti una cattedrale della nuova politica appare per quel che è, una baracca per sbandati, un circo equestre di quart’ordine, una moneta fuori corso.

Lui, Conte avvocato Giuseppe, a questo punto dovrà cercarsi un avvocato vero, mentre sul M5s incombe il ritorno di Vito Crimi, un altro statista, chiamato a riparare – lui, Crimi – i misfatti che ha contribuito a generare, mentre scommetteremmo che in queste ore il ministro degli Esteri Di Maio stia godendo per l’ennesimo inciampo quanto mai simbolico del rivale avvocato, infilzato dalla legge.

Simona Brandolini per "il Corriere della Sera" il 9 febbraio 2022.

Steven Brian Hutchinson. E subito si sognano le strade della California dove Starsky&Hutch scorrazzavano a bordo di una fiammante Gran Torino. Invece no. Steven Brian Hutchinson (padre americano) è il capotreno che ha fermato il vagone Cinque Stelle. È uno dei tre attivisti napoletani che hanno fatto ricorso contro le modifiche dello statuto, azzerando (temporaneamente?) le nomine e l'incoronazione del leader Giuseppe Conte.

Eppure la vita di Hutchinson è una serie di incastri, coincidenze e sliding doors all'ombra del Movimento.

Un esempio? Ha un volto conosciuto agli appassionati di quell'«esperimento sociale» che è stato Matrimonio a prima vista Italia. Un cult. Due sconosciuti s' incontrano il giorno delle nozze e iniziano una vita di coppia. L'attivista ha partecipato alla seconda edizione con Sara. Per otto mesi sua moglie.

«Ma non sono proprio uno da reality. Quella è stata un'esperienza diversa, unica, intensa, vera. Quando è finito il programma mi hanno offerto di partecipare al Grande fratello Vip . A parte che non sono un vip, ma non fa proprio per me».

Praticamente avrebbe potuto avere una carriera come Rocco Casalino.

«Fa sorridere, non ci avevo mai pensato, ma non abbiamo molto in comune». Dice ironico. La sua militanza politica inizia, invece, nel 2007 «tra Pomigliano e Napoli», nei meetup, i germogli grillini su cui è cresciuto il Movimento. Pomigliano, sua città d'origine, ha dato i natali a Luigi Di Maio, il potente ministro degli Esteri ora avversario diretto di Conte. Napoli è la città di un altro pezzo da novanta, Roberto Fico, attuale presidente della Camera che nella lotta intestina ai 5 Stelle s' è ritagliato la casella di Svizzera neutrale.

«In realtà conosco più Luigi di Roberto». 

E cosa ne pensa?

«La domanda è: quale versione dei due? Sono cambiati molto negli ultimi tempi, da quando siamo al governo è impossibile parlare con loro». 

Ecco il noi, è un'altra caratteristica.

Perché «il Movimento siamo noi», par di sentire migliaia di attivisti delusi nelle sue parole. «Con Grillo ci siamo visti a luglio dell'anno scorso, io gli ho consegnato una lettera sottoscritta da 400 attivisti in cui chiedevamo di andare avanti con la strada da lui indicata nel post "Una bozza e via" (post del garante del 30 giugno 2021). Invece le modifiche sono state fatte». 

E con Di Battista? Girano foto in cui ci siete voi dissidenti con lui: «Incontri pubblici, non ci conosciamo proprio. Non ho neanche il suo numero di telefono». 

Tra una ventina di giorni il Movimento contiano torna in tribunale, Hutchinson che è ancora un iscritto la butta in politica: «L'unica possibilità di sopravvivere è decentralizzare il potere. Si torni a far decidere gli iscritti, si torni alla democrazia». 

Si torni al Movimento originario, questo è il succo: «Il più bel ricordo resta il Cozza day». Era il 2011, in ogni mollusco c'era il nome di un «parlamentare abusivo» chiuso nel Palazzo. «Attualissimo, direi». 

Da liberoquotidiano.it il 7 febbraio 2022.

La partecipazione a programmi televisivi sembra essere un filo rosso che unisce tutti gli uomini più "vicini" a Giuseppe Conte. La provenienza dal mondo della tv non riguarda solo Rocco Casalino, che partecipò alla prima edizione del Grande Fratello, ma anche Steven Hutchinson, uno degli attivisti che sta cercando di affossare (con successo) il leader del Movimento. 

Hutchinson è infatti una delle persone che ha depositato il ricorso contro l'avvocato al tribunale di Napoli, ottenendo anche un primo riscontro positivo. Insomma, è sua la "manina" dietro la detronizzazione del presunto avvocato del popolo. 

Il Tribunale di Napoli, infatti, ha sospeso la modifica allo statuto e l'elezione di Conte leader, rendendo nulli di fatto due provvedimenti dello scorso agosto. La decisione è arrivata a seguito di un ricorso presentato da un centinaio di attivisti guidati, tra gli altri, da Hutchinson. Cosa c'entra lui con la tv? Come ricorda il Tempo, si tratta del protagonista del programma tv Matrimonio a prima vista Italia: "Da un reality show veniva Rocco Casalino, l'uomo che ha creato Giuseppe Conte. E da un reality viene Steven Hutchinson, l'attivista grillino che può distruggere l'avvocato del popolo assurto a capo del Movimento 5 Stelle". 

Nella trasmissione da cui arriva Hutchinson, i concorrenti sposano "al buio" un perfetto sconosciuto e dopo sei mesi devono decidere se continuare la relazione oppure no. Steven, oggi capotreno di Trenitalia, vi ha partecipato ormai due anni fa sposando una donna di nome Sara. Alla fine, però, avrebbe chiesto il divorzio. All'epoca lui raccontò: "E’ stata un’esperienza molto forte, emozionante e le cause della rottura sono da attribuire a entrambi, soprattutto per i problemi derivati dal trasferimento di lei a Napoli, una cosa non facile da superare".

Insieme ad altri 2 napoletani ha raccolto il malcontento e ha portato le carte in Tribunale. Chi è Steven Hutchinson, l’attivista che ha scatenato la tempesta M5S: “Non siamo stati noi, lo hanno fatto da soli”. Rossella Grasso su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Nelle ore in cui la tempesta sconquassa gli ordini e gli equilibri nel Movimento Cinque Stelle, parla Steven Hutchinson, uno dei firmatari del ricorso al tribunale di Napoli contro il nuovo statuto dei pentastellati. Una decisione, quella del Tribunale, che ha di fatto azzerato le nomine delle cariche del Movimento. “Una vittoria sofferta come la decisione di portare le carte in tribunale – ha spiegato Hutchinson, attivista del Movimento 5 Stelle – Nel momento in cui bisogna ricorrere alla Giustizia per fare politica credo che sia un fallimento per tutti”.

Hutchinson è uno dei tre attivisti napoletani ad aver firmato il ricorso al tribunale di Napoli che ha scatenato il terremoto all’interno del Movimento. Accanto a lui nella battaglia contro lo statuto, Renato Delle Donne, 32 anni, e Liliana Coppola, 62 anni. Steven Hutchinson è un quarantenne napoletano, di mestiere fa il capotreno ma ha sempre partecipato attivamente alla vita del Movimento 5 Stelle. È diventato famoso in Tv per aver partecipato al programma “Matrimonio a prima vista”. Sposò una sconosciuta davanti alle telecamere per divorziare 6 mesi dopo.

Hutchinson è un grillino della prima ora, che ha sempre creduto nei valori fondanti del Movimento, nella democrazia e nella partecipazione dal basso. Ed è per questo che ha raccolto il consenso del malcontento generale di una parte degli attivisti, ha raccolto firme e ha deciso di portare in tribunale le carte. Ha anche avviato una raccolta fondi per pagare le spese legali di questa operazione a cui hanno partecipato in tanti raggiungendo già 9mila euro sul traguardo degli 11mila proposto.

“Il malcontento andava avanti da troppo tempo – ha spiegato – La reggenza di Vito Crimi che doveva durare un solo mese dopo le dimissioni di Luigi di Maio in realtà è durata un anno. Beppe grillo a causa del Covid ha temporeggiato, quell’anno è stato devastante sostanzialmente. Forse anche lo stesso Crimi non si aspettava di dover gestire tutte queste problematiche. Le voci sono arrivate e abbiamo cercato di accelerare e cercare di fare gli stati generali quanto prima, cosa che poi siamo riusciti a fare. Forse gli stati generali sono stati il momento più democratico del Movimento 5 Stelle. Ci sono stati mesi di riunioni e incontri fatti online alle quali hanno partecipato tutti gli attivisti compresi i portavoce. C’era una rappresentanza di tutte le categorie all’interno dell’associazione”.

“A febbraio 2021 c’è stato questo nuovo Statuto – continua l’attivista – che però non è piaciuto. Invece di andare a riempire questo nuovo contenitore che prevedeva nuovi organi, una collegialità nella gestione dell’associazione, è stato cancellato con questa votazione fatta ad agosto dove anche Beppe Grillo, il nostro garante, aveva messo in guardia Crimi perché ci sarebbero potuti essere dei ricorsi. E così è stato ma loro non ci hanno ascoltati. Grillo ha ricevuto forti pressioni dai gruppi parlamentari che gli hanno chiesto di andare vanti per la modifica statutaria e di incoronare Giuseppe Conte come Presidente. Tutto questo abbiamo ritenuto che fosse illegittimo e il Tribunale ci ha dato ragione”.

In sostanza per Hutchinson era venuta meno la democrazia e così è partito il terremoto. “A chi ci accusa di aver decapitato il Movimento rispondiamo che lo hanno decapitato loro. I responsabili, la classe dirigente, hanno portato a tutto questo. Ricordiamoci che nel 2018 grazie a una maggiore partecipazione degli iscritti e alla vita associativa, il Movimento aveva raggiunto il 33%. Oggi se andiamo a guardare i sondaggi il Movimento ha perso circa il 60% dei consensi quindi io qualche domanda me la farei su chi è veramente il responsabile”.

Hutchinson e il manipolo di dissidenti nonostante la delusione non è intenzionato a lasciare il Movimento. “Abbiamo intrapreso questa battaglia perché ci teniamo a cambiare le cose e ci auguriamo che il nostro garante, che fin ora è stato molto rispettoso delle ordinanze, non faccia gli stessi errori del passato”.

Rossella Grasso.  

Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

"Basta con la cupola 5S a cui bisogna obbedire". Edoardo Sirignano il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'autrice del ricorso: "I vertici continuano a incartarsi sulle regole troppo complesse".

«Il M5s può esistere, ma non deve esserci più un cerchio magico. Gli attuali vertici continuano a incartarsi sulla complessità delle loro regole». Non usa giri di parole Liliana Coppola, che insieme ad altri due attivisti ha presentato il ricorso che ha costretto Giuseppe Conte alle dimissioni.

Cosa c'era di illegittimo?

«Non si possono escludere 81mila iscritti tutto d'un colpo. Pur essendo previsto un preavviso di 15 giorni, ad agosto, sotto l'ombrellone, siamo stati costretti a votare, senza avere il tempo di pensare, sul cellulare, uno statuto stravolto, di 40 pagine e non più di 15 e dove appunto si parlava di capo unico. Le persone votarono solo perché lo disse Conte. La cosa grave è che tutti eravamo d'accordo per un direttivo composto da 5-7 persone».

Perché è contraria al capo unico?

«Una persona sola al comando non funziona. Dopo Crimi e Di Maio si poteva fare solo peggio. Ci saremmo aspettati almeno un confronto tra due soggetti».

Come si chiuderà la vicenda?

«Deve agire il garante Grillo con i suoi avvocati. Scopriremo con il corso degli eventi se il M5s esisterà».

Ci crede ancora?

«Ho creduto nel primo M5s, quello che partiva dal basso, dove non c'erano stanze chiuse e vertici e dove davvero ognuno vale uno».

È la prima volta che i 5 Stelle si incartano sulle loro regole?

«È successo altre volte, pur non essendo coinvolta in modo diretto. A Napoli gli errori sono stati diversi. Basti pensare alle espulsioni o alla gestione delle amministrative».

Dopo che ha firmato il ricorso, quale la reazione degli amici 5 Stelle?

«Poiché le spese legali sono state cospicue, c'è stata una raccolta fondi. Abbiamo ricevuto donazioni provenienti da tutta Italia. Quando si è saputo dell'ordinanza di sospensione dello statuto, migliaia i messaggi e le telefonate di persone che ci ringraziavano per il coraggio».

È favorevole alla proposta di superare la regola del secondo mandato?

«Contraria perché i portavoce terminato il secondo mandato possono mettersi a disposizione in altro modo. Fare il deputato o il senatore non è lavoro a tempo indeterminato».

L'attuale vertice avrebbe come priorità solo conservare la poltrona

«Sui territori non c'è più nessuno di loro. A Napoli hanno eletto persone provenienti da altri partiti. Il problema non è Conte, ma l'esistenza di una cupola a cui bisogna solo ubbidire».

Edoardo Sirignano. Sono nato a Mirabella Eclano il 4 gennaio 1990, in tempo per le “notti magiche”, che pur non ricordandole, ho sempre portato dentro di me. Sono diventato giornalista professionista a 22 anni, ma ho iniziato a scrivere molto tempo prima di politica locale. La mia palestra è stata il Mattino e in Irpinia mi sono allenato per dieci anni mangiando pane e politica, infatti, non è conferenza quella dove dopo non c’è cena. Da pochi mesi, su intuizione della Macchioni, sono sbarcato a Roma in quel di Spraynews. Adesso mi ritrovo nel Giornale.it e spero di rimanerci ancora per un po'…

L'ospitata "chirurgica". Faida nei 5 Stelle, Conte torna a casa-Gruber dopo la mazzata in Tribunale. Marco Zonetti su Il Riformista il 7 Febbraio 2022.

Su giornali e in Tv si parla solo dell’ospitata di Papa Francesco a Che tempo che fa, che ha fruttato a Fabio Fazio un record di ascolti mai visto nella storica trasmissione di Rai3, distaccando anche Rai1 e infrangendo in un sol colpo “l’effetto Sanremo“. Ma le emozioni non sono finite, perché è in arrivo un’altra ospitata d’eccezione prevista per questa sera su La7 a Otto e mezzo. Se Fazio è riuscito ad avere nientemeno che Papa Bergoglio, ecco che Lilli Gruber risponde con il leader del M5s Giuseppe Conte.

Una presenza che non rappresenta una novità nello studio di Otto e mezzo, nel quale Conte è già stato ospite per ben due volte. La prima con record di ascolti, la seconda con riscontri ben più sottotono, battuto nei dati Auditel anche da Carlo De Benedetti, ospite la sera precedente. Ma le mere e fredde cifre non hanno alcuna importanza perché Giuseppi questa sera tornerà in pompa magna nella trasmissione televisiva che più ne ha tessuto le lodi, che più ne ha alimentato il mito, che più ha resistito strenuamente accanto a lui quando, un anno fa, il governo giallo-rosso cadeva sotto i colpi del nemico e l’usurpatore Mario Draghi s’impossessava di Palazzo Chigi.

A fargli da agguerritissimo contraddittorio, assieme al direttore de La Stampa Massimo Gianni e a Monica Guerzoni del Corriere della Sera, chi se non il suo principale aedo con Travaglio, ovvero Andrea Scanzi del Fatto Quotidiano?

Proprio nel momento in cui la sua posizione vacilla all’interno del Movimento, dilaniato dalla faida con Luigi Di Maio, ecco che Otto e mezzo invita Conte. “Coincidenza? Non credo!” avrebbero scritto qualche anno fa sui social pentastellati, ora divisi tra chi sostiene Giggino e chi invece parteggia per Giuseppi. Offrendo uno strategico e tempistico palcoscenico a quest’ultimo, Otto e mezzo almeno si dimostra coerente.

Chissà se la Lilli nazionale chiederà al leader grillino cosa ne pensa della sentenza del Tribunale di Napoli, che proprio oggi ha sospeso le delibere con cui, lo scorso agosto, il M5s ha modificato lo statuto ed eletto Conte presidente pentastellato, e che di fatto ha sospeso il provvedimento che lo ha incoronato leader. Seppur rampante, sarà a tutti gli effetti un Conte dimezzato quello che la Gruber avrà stasera in trasmissione… Marco Zonetti

Otto e Mezzo, Giuseppe Conte pugile suonato: Lilli Gruber lo assedia, 100 difficilissimi secondi per il grillino. Libero Quotidiano l'08 febbraio 2022.

Nel giorno in cui il tribunale di Napoli ha de facto sospeso la sua leadership nel M5s, Giuseppe Conte si ritrovava nel salottino di Lilli Gruber, a Otto e Mezzo su La7. Tempismo perfetto, insomma. E l'ex premier ribadisce quanto detto nel pomeriggio, ossia che la leadership non si decide a carte bollate e che il capo resta lui (anche se, formalmente, ora non lo è più: probabile che si ricorra a un nuovo voto). E al netto della spavalderia, Conte appare un pugile suonato. E i 100 secondi mal contati di video che potete vedere qui in calce lo dimostrano in modo piuttosto lampante.

La Gruber, infatti, sente il metaforico odore del sangue e non gli dà tregua. Lo incalza sulla possibilità da lei vista come il demonio che il M5s contiano possa riallearsi con la destra, con i sovranisti. "Creare l'ipotesi gialloverde, che Conte si alleava segretamente con Salvini, è una bella e fantasiosa ricostruzione", si difende il presunto avvocato del popolo che parla di sé in terza persona. E ancora: "L'ho smentita tre, quattro, cinque, sei volte... è l'ottava volta che la smentisco".

Ma Lilli la rossa non molla. "Voglio solo capire se ho capito bene: il M5s di Giuseppe Conte che verrà rieletto alla grande presidente del M5s, sarà un movimento che si collocherà nel fronte di centrosinistra". Apriti cielo, Conte non tollera la parola "centrosinistra" e corregge la Gruber: "Progressista, accidenti". E Lilli, sbrigativa: "Nel fronte progressista. E comunque non si alleerà più con la destra". "Guardi...". A quel punto Gruber lo incalza in modo selvaggio: "No... o sì o no". E l'avvocato: "La nostra carta dei valori mi sembra che sia molto distante". "Le sembra o lo è?". "C'è distanza, c'è disatanza. Saremo la forza trainante e propulsiva del fronte di centrosinistra".

Ma il cannoneggiamento è continuo, serratissimo, Conte sempre più in difficoltà. "Sarà contento Enrico Letta...", lo dileggia la conduttrice. L'ex premier sorvola, e riprende: "Ritornando alla fiducia nei confronti del Pd, attenzione: è un discorso personale. Non funziona bene tra forze politiche, funziona tra le persone. Certo che mi fido di Enrico Letta". "E Letta si fida di lei?". Ancora nessuna risposta. "Ma il dialogo col Pd è da declinare nel segno della chiarezza, della reciproca autonomia e riconoscimento", aggiunge Conte. E la Gruber infierisce: "Va bene, ma Enrico Letta si fida di lei?". "Lo ha dichiarato anche, non avrebbe motivi per non fidarsi", risponde (finalmente) un Giuseppe Conte sempre più in affanno.

L'ex premier in caduta libera...Aiutate Conte: non espelle Di Maio, apre a deroghe sui due mandati e attacca i giornaloni. Redazione su Il Riformista il 7 Febbraio 2022. 

Da presidente “sospeso” del Movimento Cinque Stelle, dopo la decisione della settima sezione civile del Tribunale di Napoli che ha accolto il ricorso presentato dagli attivisti del partito (sulle modifiche dello Statuto e la nomina, oggi illegittima, dell’ex premier), Giuseppe Conte prova a mediare all’interno di un partito oramai spaccato e, ancora una volta, cambia le carte in tavola. Dalla espulsione di Di Maio, che non avverrà, al vincolo dei due mandati, sui quali sarà possibile intervenire con qualche deroga.

I 5 Stelle sono sempre di più nel caos e il loro leader, al momento non riconosciuto dopo la decisione dei giudici napoletani, cerca di salvare il salvabile ma continua a fare un passo in avanti e due indietro. Al termine dell’ennesima giornata da dimenticare, l’ex premier, ospite a Otto e Mezzo su La7, prova a ricucire, mediare, trattare. “La discussione sul limite di mandati produce maldipancia comprensibili. E’ un principio forte e un’intuizione giusta e Beppe Grillo lo ha ribadito in un post. Ma resta un principio ispiratore – osserva – che la politica non è una professione ma una vocazione. Secondo me questa regola ha un fondamento che va mantenuto, ne vorrei discutere con Grillo, ma ragionerei sul trovare qualche volta delle deroghe… Una deroga a Di Maio? Adesso non personalizziamo, a tempo debito faremo le valutazioni del caso”.

Sulla posizione del ministro degli Esteri, che dopo la scellerata settimana delle elezioni del Capo dello Stato ha di fatto disconosciuto la leadership di Conte annunciando una riflessione interna al partito, l’ex presidente del Consiglio è morbido: “Non è nell’orizzonte delle cose che Di Maio venga espulso ma é ovvio che lui – che è l’ex leader – ha delle responsabilità in più. Una leadership vera non ha mai paura del confronto sulle idee ma di fronte ad un attacco così plastico, in televisione, non si può fare finta di nulla”. Insomma va bene una tiratina d’orecchie ma nonostante l’attacco e la fuoriuscita di Di Maio dal comitato di garanzia nei giorni scorsi, l’ex leader politico (bocciato dopo una serie di flop, ndr) è diverso dai suoi predecessori: ragion per cui, secondo Conte, non rischia l’espulsione e, forse, potrebbe addirittura rientrare in quelle ‘deroghe’ per aggirare il vincolo dei due mandati.

Altro che leader, Conte prova a mediare perché probabilmente preoccupato di un ulteriore ridimensionamento del suo partito dopo le recenti figuracce. “Prima Di Maio andava in piazza per sostenere le nostre battaglie civili, oggi per esibire una corrente e attaccare la leadership” ha ammonito Conte salvo poi addolcire il tutto: “Nella lettera di dimissioni ha scritto diversi buoni propositi per alimentare il dibattito e le idee. L’ho sentito per telefono e mi ha detto che è desideroso di esprimere idee e progetti. E’ vero, un passaggio difficile c’è stato ma l’interesse del Movimento viene sempre prima delle persone”.

Sullo scenario politico post Mattarella-bis, l’ex premier allontana Salvini dopo la figuraccia relativa al caso Belloni (con lo stesso Grillo lanciato allo sbaraglio con quel tweet ai quattro venti) e annuncia fiducia in Letta: “Rispetto i tormenti del giovane Renzi, non so quale prospettiva politica si darà, se starà a destra o starà a sinistra… L’Asse gialloverde? Una sciocchezza, in vari momenti abbiamo pubblicamente detto di volerci confrontare con l’opposizione, quindi è ovvio che poi ci fossero questi incontri, in accordo con Letta e Speranza”. Sul segretario del Pd chiosa: “Certo che mi fido di Enrico Letta ma il dialogo con i Dem è un dialogo nel segno della chiarezza e della reciproca autonomia”. 

Per Conte “non è vero che sull’azione di questo governo o che sul Quirinale non abbiamo toccato palla, dal bonus casa al rinnovo del Presidente Mattarella siamo stati determinanti. Dal primo giorno, insieme a Letta e Speranza abbiamo fatto crescere la sua candidatura”. “Ho lavorato con i parlamentari, con i capigruppo, in cabina di regia – dove c’era anche Di Maio – e abbiamo portato 230 parlamentari a votare uniformemente ma nessun giornale ce lo ha riconosciuto”. Avete capito bene? Dopo una settimana di candidature bruciate e veti incrociati, alla fine Conte si compiace di aver portato 230 parlamentari grillini a votare uniformemente al settimo scrutinio per il Mattarella bis.

Poi rincara la dose contro i media: “Non è vero che usciamo sconfitti noi ma escono sconfitti i giornaloni, i principali quotidiani che sostenevano che fosse meglio avere Draghi al Quirinale”.

Infine sulla decisione del Tribunale di Napoli si mostra sereno: “C’e’ un piano politico-sostanziale e uno giuridico-formale, che segna questa sospensione. Sospensione a cui si risponde con un bagno di democrazia. Erano già in programma delle modifiche dello statuto, si aggiungerà una ratifica da parte di tutti gli iscritti, anche quelli da meno di sei mesi, senza aspettare i tempi di un giudizio processuale. Curioso che si era sempre votato così, con il vecchio statuto, e ora viene impedita questa cosa”.

Estratto dell'articolo di Pasquale Napolitano per "il Giornale" l'8 febbraio 2022.

Il Tribunale di Napoli rimette in pista un «Grillo azzoppato». La sentenza, pronunciata sul ricorso di un gruppo di attivisti che demolisce la leadership di Giuseppe Conte, riconsegna le chiavi del Movimento al «riservista» Beppe Grillo. […] 

Unico e solo al comando. Il comico, travolto dalle due inchieste (sul figlio per violenza sessuale e l'altra sui presunti favori al gruppo Moby), viene ri-catapultato al centro della scena politica. Lo showman era già pronto al passo d'addio. […]

Negli ultimi due anni a spingere Grillo verso il passo di lato sono state le inchieste. Le due indagini. La prima che coinvolge il figlio Ciro sulla presunta violenza sessuale di gruppo ai danni di una ragazza. La seconda inchiesta, quella sui presunti favori ricevuti da Moby, è stata la mazzata finale. Grillo risulta indagato per traffico di influenze illecite. Ora il colpo di scena. Grillo si ritrova al timone di una nave che rischia il naufragio. Solo e senza vice. Monarca assoluto. Ma è un re nudo. Debole. Accerchiato.

La sentenza impone a Grillo di convocare la votazione del direttorio. Votazione già indetta, e poi revocata, ad agosto quando entrò in rotta di collisione con Conte sulle modifiche dello Statuto. Da un lato, Grillo dovrà guidare l'azione politica del partito di maggioranza relativa in Parlamento e primo socio del governo Draghi. C'è subito il dossier nomine: 350 poltrone da assegnare o rinnovare per i prossimi mesi. 

Chi tratterà in nome e per conto del Movimento? I grillini di governo spaccati nelle due correnti (dimaiana e contiana)? O sarà Grillo in quanto leader di fatto dei 5s? E poi il dossier Giustizia. Chi darà la linea al Movimento su un tema così caro? Grillo, Di Maio o Travaglio? Dall'altro dovrà sbrogliare la matassa sull'organizzazione del Movimento. […]

Estratto dell'articolo di Sebastiano Messina per "la Repubblica" l'8 febbraio 2022.

E così il destino cinico e baro ha voluto che il Movimento nato incitando i giudici a giustiziare i vecchi partiti scoprisse, un lunedì di febbraio, di essere stato decapitato da un tribunale civile. È nullo il nuovo statuto, così faticosamente partorito l'estate scorsa dalla fantasia giuridica dell'avvocato professor Giuseppe Conte, e quindi è nulla anche la sua successiva, trionfale elezione senza concorrenti alla carica di presidente, che purtroppo non era prevista nello statuto precedente. Tutto azzerato: lui, i suoi vicepresidenti, il suo organigramma, le sue delibere.

L'«avvocato degli italiani» è riuscito a combinare un pasticcio legale senza precedenti nella storia della Repubblica. Riuscendo a farsi cancellare tutti gli atti della Grande Svolta solo perché l'assemblea degli iscritti del 3 agosto 2021 ha deliberato «in prima convocazione» senza la partecipazione della metà più uno degli iscritti, violando cioè quella regola che conosce a memoria ogni amministratore di condominio. 

[…] l'astutissimo Conte perde il suo regno per un cavillo, detronizzato da un altro avvocato che lo ha trascinato in tribunale per conto di un pugno di iscritti napoletani ai quali era stato negato non un seggio, una carica o una poltrona ma solo il diritto di votare. È la prima volta che un partito - sia pure mascherato da movimento - si vede destituire il suo quartier generale non per una battaglia politica ma per una semplice disputa legale, per una questione di principio.

[…] un gigantesco pasticcio giuridico creato dagli stessi protagonisti. C'è l'idea folle che si potesse organizzare un non-partito con un non-statuto. Ci sono gli atti stipulati in gran segreto, tante associazioni fondate tutte con lo stesso nome, «Movimento 5 Stelle», da quella con cui Beppe Grillo acquisì la proprietà del simbolo presentandosi davanti a un notaio di Cogoleto con suo nipote Enrico e con il suo commercialista Enrico Maria Danasi a quella con cui - la notte del 20 dicembre 2017, nello studio del notaio Tacchini - Luigi Di Maio e Davide Casaleggio riscrissero da soli lo Statuto assegnando al primo tutto il potere politico e al secondo il controllo dell'unico luogo virtuale dove sarebbe stato possibile prendere qualunque decisione, la Piattaforma Rousseau.

È da questo garbuglio di carte bollate che nasce la grana di oggi. La cui colpa ricade anche su Conte, che l'estate scorsa aveva l'occasione e la competenza - da esperto avvocato di cause civili - per rimettere in ordine la struttura giuridica del Movimento. Invece ha commesso, dicono i giudici, un errore dietro l'altro. Ed è dunque l'ex premier, che fino a ieri mattina pensava alla resa dei conti con Di Maio, lo sconfitto del giorno: lui che non si dimette dopo essere stato dimesso, mentre l'altro si è dimesso prima di essere dimesso.

Giada Oricchio per iltempo.it l'8 febbraio 2022.

Scontro tra Giuseppe Conte, presidente “sospeso” del M5S e i giornalisti a “Otto e Mezzo”, il talk politico di La7, lunedì 7 febbraio. Il Quirinale, il duello con Luigi Di Maio (“Non è nell'orizzonte una sua espulsione ma è ovvio che da ex leader ha delle responsabilità in più. Davanti a un attacco così plastico, in televisione, non si può fare finta di nulla e in passato altri sono stati espulsi per molto meno”), il Tribunale di Napoli che accoglie un ricorso sulla leadership dell’avvocato, il terzo mandato, l’ipotetico asse gialloverde (“una sciocchezza” secondo Conte) e infine la critica alla stampa.

C’è tutto nell’intervista tambureggiante di Gruber e colleghi a Conte che esce dal confronto un po’ come un pugile suonato. Il presidente dei 5 Stelle ha precisato che il Tribunale di Napoli non ha emesso una sentenza, ma un provvedimento cautelare: anche gli iscritti al Movimento da meno di sei mesi devono poter votare la sua leadership.

Così, in attesa della causa civile, tra qualche settimana i 5 Stelle torneranno al voto. In politichese però Conte aggiunge: "Non mi permetto di pensare o dire che è giustizia a orologeria, ma è curioso che una regola sempre applicata in quel modo con il vecchio Statuto, ora non vada bene per me”.

Poi rassicura che i rapporti con Draghi non sono “imbarazzanti” dopo che gli ha sbarrato la strada per il Quirinale, ma il direttore de “La Stampa”, Massimo Giannini, dice tondo e chiaro: “Non avete toccato palla”. Un’osservazione che fa rifugiare l’ex premier nel più trito e ritrito dei cliché: è colpa dei giornali.

Il capo del Movimento replica: “Forse Giannini è stato fuorviato dai giornali nei giorni delle Quirinarie scrivevano che Di Maio controllava i parlamentari e io no, non era così, sono teste pensanti che decidono.

Ho lavorato con loro, con i capigruppo, in cabina di regia - dove c'era anche Di Maio - e abbiamo portato 230 parlamentari a votare uniformemente ma nessun giornale ce lo ha riconosciuto e ho dimostrato che i 230 del nostro gruppo hanno votato compatti. Il Mattarella bis è da intestare a noi” e poi lo scivolone: “Possiamo ripetere ai telespettatori delle litanie, ma non esce sconfitto il M5S, escono sconfitti i giornaloni che sostenevano che fosse meglio avere Draghi al Quirinale”.

Monica Guerzoni del “Corriere della Sera” esplode in un “Nooo, questo no”, Giannini si ribella e punge: “Non è da lei, lei è stato premier, non può parlare di giornaloni”. Ma Conte insiste con l’appellativo: “Beh c’era una linea abbastanza condivisa dai giornaloni a un certo punto hanno sostenuto che fosse meglio Draghi al Quirinale, il M5S invece compattamente ha ritenuto non fosse soluzione nell’interesse nazionale”.

Gruber lo invita a una maggior grammatica politica: “Togliamo dal tavolo la parola ‘giornaloni’” e Conte: “Va beh, grandi giornali? I giornali principali?”. E avanti con tanta confusione.

Quando mi disse "io da avvocato..." Belpietro fa a pezzi il Conte decaduto. Il "capolavoro" del giurista M5s. Il Tempo l'08 febbraio 2022

Il terremoto del Movimento 5 Stelle è al centro del dibattito, martedì 8 febbraio, a #Cartabianca, il programma condotto da Bianca Berlinguer su Rai3. Il tribunale di Napoli ha di fatto dichiarato illegittima l'elezione di Giuseppe Conte a capo politico dei 5Stelle accogliendo il ricorso di tre attivisti ai quali non è stato consentito di partecipare al voto in quanto iscritti meno di sei mesi prima della votazione online. 

Il direttore della verità Maurizio Belpietro non si capacita come un giurista come l'ex premier sia potuto cadere in questo modo, una vera e propria nemesi. E racconta di quando Conte "mi ha detto che da avvocato aveva vinto il 99 per cento delle cause - ricorda il giornalista - Ebbene, ha perso quella fondamentale: questa". 

In collegamento c’è anche Candida Morvillo del Corriere della sera. "Non credo che l'implosione de 5stelle metterà in crisi il governo di Mario Draghi", il caos nella galassia grillina fa parte dei "problemi interni ai partiti". poi c'è Luigi Di Maio che si è intestato la rielezione di Sergio Matteralla al Quirinale, argomenta la giornalista, per non mettere in difficoltà Draghi e avrebbe ora qualche problema a giustificare una crisi per l'esecutivo. "Ne perderebbe di credibilità . dice la Morvillo - e neanche Matteo .Salvini ha interesse a mettere in difficoltà il governo con una Giorgia Meloni molto più forte di lui in questo momento". 

Ma Conte come uscirà dalla vicenda del ricorso, accolto, che annulla la sua elezione a presidente del Movimento?  L'ex premier "era già ammaccato prima dall'opposizione con Di Maio, ma parliamo di cavilli...  - conclude Morvillo - se tornano a votare con tutti gli iscritti", anche quelli dell'ultim'ora, "verrebbe comunque rieletto, Ma è innegabilmente un  colpo all'immagine, da avvocato è riuscito a scrivere un non statuto".

E Beppe Grillo? Il co-fondatore del Movimento ha congelato tutto adducendo la motivazione che le sentenze vanno sempre rispettate. In studio c'è Luca Telese che entra a gamba tesa sul comico genovese: "Quando hanno indagato il figlio ha detto 'venite a prendere me' - attacca il giornalista - ora dice che le sentenze vanno rispettate... Comunque è folle - conclude Telese - che un giudice annulli l’elezione di un leader politico". 

M5S, la faccenda tragicomica che paralizza un partito da commedia. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 9 Febbraio 2022.

L’Italia è così e molti grillini sono buffi, ma ogni giorno che passa lo sono di più.

Un paio di settimane fa è arrivato un pacco a casa Grillo. Aiuto! Allarme! Artificieri! Non è una barzelletta, ma quando l’hanno aperto c’erano dentro dei carciofi, delle orecchiette e delle cime di rapa, recate in dono da un devoto benefattore.

Inutile, prima che disonesto, fingere sussiego. Ma dagli involti pseudo-esplosivi ai gran pasticci legali, le avventure dei Cinque stelle fanno ridere.

M5S, Pizzarotti: "Conte leader azzoppato. Nel Movimento le regole valgono per i nemici". Giovanna Casadio su La Repubblica l'8 Febbraio 2022.

Intervista al sindaco di Parma, ex esponente grillino. "L’avvocato d’Italia, come si definì, non ha verificato che dal punto di vista formale fosse tutto a posto. Già questo non dà molta credibilità per il futuro". “Nel Movimento 5Stelle le regole valgono per i nemici ma vengono interpretate per gli amici. Io non feci ricorso perché non volli rimanere in un contesto in cui le norme si sbandierano, ma non si applicano”. Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, ex grillino della prima ora, riavvolge il filo della scommessa pentastellata: “La democrazia diretta per i 5Stelle è come la secessione per la Lega: fuori moda”.

L'azzeccagarbugli Conte vittima dei suoi stessi errori. Andrea Indini l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Statuto M5S bocciato dal tribunale di Napoli. Renzi inchioda Conte: "Scritto con la stessa chiarezza con cui scriveva i Dpcm". E infatti quei Dpcm a inizio pandemia a fecero schiantare l'Italia.

Ha perfettamente ragione Matteo Renzi quando sui social inchioda il "professor" Giuseppe Conte alle sue colpe: "Ha scritto lo Statuto dei Cinque Stelle con la stessa chiarezza con cui scriveva i Dpcm". Ironizza, il leader di Italia Viva. Perché, se sui Dpcm partoriti in malo modo dal governo giallorosso durante il primo anno di pandemia si è incartato l'intero Paese, sullo statuto del movimento si è schiantato il Movimento 5 Stelle. Meglio loro che noi, viene da dire ora che l'esperienza del governo Conte bis ce la siamo bella che messa alle spalle. Resta, però, l'evidenza dell'incapacità dell'avvocato del popolo, un azzeccagarbugli in piena regola, non solo a gestire l'Italia, ma anche solo a mandare avanti un condomino a Cinque Stelle (laddove tutto quel firmamento lì non è certo sintomo di lusso).

Ce li ricordiamo ancora i guazzabugli di errori infilati nei Dpcm. E chi se li dimentica. Uscito indenne dalla crisi scatenata da Matteo Salvini nell'estate del Papeete e conservata la poltrona di Palazzo Chigi, Conte si è ritrovato, da lì a pochi mesi, a dover affrontare un'emergenza senza precedenti: lo scoppio di un morbo pandemico che, nel giro di un paio di mesi, ha messo tutto il pianeta in ginocchio. Per carità, nessun premier, nessun capo di Stato, nessun leader era preparato a gestire uno scossone simile. I piani per contrastare una pandemia c'erano, ma erano vecchi e, il più delle volte, lontani dalla realtà. E così i governi hanno dovuto improvvisare. C'è chi lo ha fatto meglio. I giallorossi no: hanno fatto tutto il peggio possibile. Oltre agli errori di valutazione, agli strafalcioni politici, ai continui ritardi e soprattutto alle tempistiche cannate, Conte e compagni sono riusciti a peggiorare la situazione scrivendo male i decreti che avrebbero dovuto cavar fuori il Paese dai guai.

L'ultimo esempio in ordine temporale è la maxi truffa (oltre 440 milioni di euro!) sugli aiuti stanziati dai giallorossi (in particolare il superbonus edilizio e il bonus sugli affitti). Uno dei tanti furbetti, che si era inventato un sistema fittizio per intascarsi i soldi attraverso operazioni inesistenti, si vantava bellamente della facilità con cui riusciva a metterla in quel posto (scusate il francesismo) allo Stato. "Lo Stato italiano - diceva al telefono - è pazzesco, praticamente vogliono essere inculati...". Non era certo l'unico ad essersene accorto. In molti hanno approfittato dei vuoti lasciati dal governo. "Su 'sti crediti - commentava un altro - non se capisce un cazzo... faccio un po' come mi pare...". Farabutti, per carità. Ma anche i giallorossi ci hanno messo del loro. Perché, come giustamente annotava Franco Bechis giorni fa sul Tempo, "quando le leggi vengono scritte con i piedi da chi non sa farlo il risultato è identico a quello in cui le leggi vengono scritte fin dall'inizio con intento criminale".

Oggi, dopo due anni di pandemia, l'Italia sembra vedere (finalmente) la luce alla fine del tunnel. Da venerdì prossimo non si dovrà più uscire con la mascherina, a fine marzo verrà tolto lo stato di emergenza e anche il Cts potrebbe avere le settimane contate. Ma noi, che abbiamo la memoria lunga, ce li ricordiamo ancora molto bene tutti gli strafalcioni dei giallorossi che ci hanno tristemente trasformati nella "Repubblica delle Faq". Portano tutti la firma del premier Conte: le zone rosse annunciate nottetempo e le rocambolosche fughe sui treni, le autocertificazioni che cambiavano ogni due giorni, le chiusure assurde (bar off limits dopo le 18 come se all'aperitivo il virus fosse più contagioso), il computo degli invitati sotto le festività natalizie e l'indimenticabile carta dei "congiunti". La lista è sterminata. Se dovessimo poi estenderla ai decreti cha avrebbero dovuto essere fatti ma che per mancanza di coraggio sono saltati e alle numerosissime ordinanze firmate dai suoi ministri (Roberto Speranza in primis), non la finiremmo davvero più.

Con la stessa approssimazione con cui sono stati "partoriti" i Dpcm, Conte sembra aver scritto anche lo statuto su cui si regola il Movimento 5 Stelle e che è stato ratificato lo scorso 3 agosto. Giusto ieri il Tribunale di Napoli ne ha disposto la sospensione facendo di fatto saltare anche la sua nomina a presidente. Un durissimo colpo per i grillini ormai da mesi in balia di uno tsunami politico che vede l'avvocato del popolo ormai in guerra aperta con Luigi Di Maio. "La mia leadership non dipende dalle carte bollate", ha commentato l'azzeccagarbugli dopo che i giudici partenopei gli hanno portato via la carica. Ma Beppe Grillo lo ha subito rimesso in riga: "Le sentenze si rispettano". Si consuma così l'ultima beffa di un partito profondamente giustizialista che ha fatto la propria fortuna a suon di "vaffa" e di persecuzioni manettare e che oggi si trova a doversi inchinare ad un cavillo giuridico che lo inchioda al suo stesso errore: aver scritto con i piedi le regole del gioco.

Andrea Indini. Sono nato a Milano il 23 maggio 1980. E milanese sono per stile, carattere e abitudini. Giornalista professionista con una (sincera) vocazione: raccontare i fatti come attento osservatore della realtà. Provo a farlo con quanta più obiettività possibile. Dal 2008 al sito web del Giornale, ne sono il responsabile dal 2014. Con ilGiornale.it ho pubblicato Il partito senza leader (2011), ebook sulla crisi di leadership nel Pd, e i saggi Isis segreto (2015) e Sangue occidentale (2016), entrambi scritti con Matteo Carnieletto. Nel 2020, poi, è stata la volta de Il libro nero del coronavirus (Historica Edizioni), un'inchiesta fatta con Giuseppe De Lorenzo sui segreti della pandemia che ha sconvolto l'Italia.Già autore di un saggio sulle teorie economiche di Keynes e Friedman, nel 2010 sono "sbarcato" sugli scaffali delle librerie con un romanzo inchiesta sulla movida milanese: Unhappy hour (Leone Editore). Nel 2011 ho doppiato l'impresa col romanzo La notte dell'anima (Leone Editore).Cattolico ed entusiasta della vita. Sono sposato e papà di due figlie stupende.

Morire in tribunale. Augusto Minzolini l'8 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A volte la Storia è spietata, ti mette davanti alle bugie che hai raccontato, alle follie che hai coltivato, alle menate che hai dichiarato, alle contraddizioni che hai celato.

A volte la Storia è spietata, ti mette davanti alle bugie che hai raccontato, alle follie che hai coltivato, alle menate che hai dichiarato, alle contraddizioni che hai celato. È quello che sta capitando ai 5 Stelle e ai loro vertici. Immaginate un soggetto politico nato sul giustizialismo, sul fiancheggiamento senza «se» e senza «ma» dei magistrati (basta guardare alle riforme di Bonafede), sullo slogan «onestà, onestà» come se le persone probe fossero solo i suoi militanti e tutti gli altri dei delinquenti, che muore in Tribunale. Di carte bollate. Per le regole che autonomamente si è dato e che inopinatamente ha violato.

È la vendetta della Storia. Il fallimento di un modo di vedere la politica, di interpretarla, di farla. Non è più il movimento dell'uno vale uno, ma un meccanismo che tritura leadership, personalità, principi e valori. In questa prospettiva Giuseppe Conte, l'avvocato d'affari che dovrebbe cibarsi di cavilli - sospeso dal vertice dei 5 Stelle per una decisione del tribunale di Napoli - per i giudici sul piano delle regole è a tutti gli effetti un usurpatore. Una condizione che lo trasforma anche in una figura tragica sul piano politico. E chi ne prende il posto, o meglio chi torna al vertice? L'indagato Beppe Grillo: anche qui per qualsiasi garantista non ci sarebbe nulla da eccepire, ma i sacerdoti del giustizialismo ad oltranza dovrebbero imporsi almeno una riflessione sul veleno che hanno sparso in passato.

La verità è che sta venendo giù tutto un mondo. E il granellino di sabbia che ha mandato in tilt il meccanismo perverso sono gli esposti o le querele di semplici militanti, per lo più sconosciuti, espulsi dal movimento. Quelli che hanno creduto davvero al teorema dell'uno vale uno e lo hanno messo in pratica mandando in crisi quelli che lo avevano solo teorizzato. Ora c'è da chiedersi se qualcosa nascerà da queste macerie, o se qualcosa almeno resterà. La crisi appare irreversibile e, per alcuni versi, letale. La metamorfosi profonda è per alcuni versi paradossale: Luigi Di Maio, il personaggio delle origini, il primo leader, è diventato l'immagine del grillismo di governo, di quello che si è abituato alle regole del Palazzo e forse ne è stato inghiottito; mentre Giuseppe Conte, l'avvocato d'affari, il professionista della società civile, scelto anche da Di Maio come nome potabile per Palazzo Chigi, ora tenta di rappresentare, con tutti i suoi limiti, il grillismo d.o.c. Più che uno scambio di ruoli è la rappresentazione del caos che regna nel movimento o in ciò che ne resta. Un movimento che, invece, di avviarsi verso un nuovo inizio, sembra che si stia contorcendo in una lunga agonia. Augusto Minzolini

L'intervento a Riformista Tv. “Conte è un avvocaticchio di quartiere, Grillo riprende in mano il M5S”, Attenti a quei due di Liguori e Sansonetti. Redazione su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

“Basta con questa magistratura che mette i piedi anche negli affari della politica“, afferma il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti in una discussione a due con il direttore del TgCom Paolo Liguori davanti alle telecamere del Riformista Tv, intervenendo sulla sentenza del tribunale di Napoli che sta scuotendo le fondamenta del M5S.

Le attenzioni tornano tutte su Beppe Grillo, che ora diventa “nuovamente plenipotenziario grazie alla squalifica di Giuseppe Conte“, dice Liguori che sottolinea come il fondatore del Movimento sia tornato con “un suo diktat“, per cui nessuno dei pentastellati può esprimersi sul M5S tranne lo stesso Grillo.

“Se si prova adesso a chiedere un’intervista o semplicemente un giudizio a qualcuno dei cinque stelle i più affettuosi rispondono di non poter parlare“, afferma Liguori, facendo riferimento al silenzio con i media cui sono costretti i pentastellati. In questo modo, sottolinea il direttore del TgCom, “torna il vecchio leader libertario in veste autoritaria“. “Ma Grillo – replica Sansonetti – si è trovato di fronte a un problema che segnalavo da tempo: hanno certificato che Conte non esiste“. “Ma è la stessa magistratura a dire che Conte non esiste“, ribatte Liguori.

Ponendo in un angolo l’ironia, Sansonetti incalza sul ruolo che la magistratura ha avuto in un caso politico. “La magistratura ha fatto a mio parere una cosa gravissima“, afferma il direttore de Il Riformista che ricorda come in passato sia già intervenuta per stabilire se una certa fondazione politica è effettivamente una fondazione o invece è il partito di Matteo Renzi.

“Chi piange, in questo caso, è il Pd che aveva scommesso su un’alleanza con un leader che è stato squalificato“, prende le parola Liguori. “Ma Bettini non si ricorda cos’è la politica?“, domanda Sansonetti. “Questo è un avvocaticchio di quartiere“, afferma Sansonetti, che ricorda come l’Italia per cinque anni sia stata in mano “a questa banda di scapocchiati“. “Era un movimento che aveva come caratteristica precipua l’ignoranza“, sentenzia Liguori. E Sansonetti incalza: “Questo è un partita stalinista, populista e ignorante“.

"L'abolizione" dell'avvocato del popolo. Conte sospeso per decreto del giudice, una follia su cui i grillini hanno responsabilità gigantesche. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Un giudice della settima sezione civile del tribunale di Napoli ha dichiarato illegittima la nomina di Conte a presidente dell’M5S e ha decretato l’illegittimità anche del nuovo statuto dei poveri grillini. Conte è stato sospeso dall’incarico e anche la pletora di vice presidenti che si era messo attorno vanno a casa. Ora una cosa è chiara: se voi di solito leggete il Riformista sapete che noi abbiamo sempre sostenuto scherzosamente un paradosso forse mica tanto fantasioso: che Conte non esista. Beh, vedete che non ci eravamo andati lontano…

La notizia dell’“abolizione” di Conte spinge a due riflessioni. La prima è a suo favore: ma voi mi sapete spiegare perché la magistratura deve impicciarsi di cose che non la riguardano? Possibile che debba essere un giudice a stabilire chi debba essere il capo dei 5 Stelle (così come un giudice è stato chiamato a stabilire se una certa fondazione politica è effettivamente una fondazione o invece è il partito di Renzi)? Vi immaginate se nella prima Repubblica, quando vigeva ancora il Diritto, un giudice si fosse azzardato a decidere chi fossero i vicesegretari di Berlinguer o il segretario del Psi, o il ministro designato della Dc? Vabbé, chiaro che su questa degenerazione totalitaria esistono responsabilità gigantesche proprio dei 5 Stelle, ma questo non giustifica la follia di deporlo per decreto del giudice.

La seconda considerazione riguarda i 5 Stelle. Partito che già da tempo era allo sbando e ora lo è sempre di più dopo che proprio Conte ha tentato una spericolata operazione di alleanza con Salvini e Meloni per imporre al Quirinale il capo dei servizi segreti. Seguendo chissà quale disegno non proprio limpido, sventato, per fortuna, dall’intervento di Berlusconi, di Renzi e alla fine anche del Pd. Una cosa è certa. Un ridimensionamento dei 5 stelle non nuocerà all’Italia. Questo non vuol dire che i giudici possono fare quello che vogliono. Qualcuno, in Parlamento, reagirà?

Piero Sansonetti.  Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

DagoFLASH! - QUALCUNO AVVISI MARCO TRAVAGLIO CHE IL GIUDICE CHE HA "DECAPITATO" L'AMATO GIUSEPPE CONTE SI CHIAMA EDUARDO SAVARESE. E ALLORA? E QUI VIENE IL BELLUM: SAVARESE SCRIVE SUL "RIFORMISTA" DI PIERO SANSONETTI...

DAGOREPORT l'8 febbraio 2022.

A Grillo non è sembrato vero che lo statuto di Conte finisse nel cestino della Procura Di Napoli. Fin dall’inizio – correva il 20 giugno del 2021 – l’Elevato aveva bruciato così la bozza e il suo autore con pochette a tre punte: “Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco…E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli perché non ha né visione politica, né capacità manageriali. Non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione”.  

Certo, mai poteva pensare che l’azzimato avvocato dello studio Alpa fallisse sulla stesura dello Statuto e si è imbufalito, come al solito. Da parte sua, Conte, conoscendo del movimento solo Ta-Rocco Casalino, non si aspettava grillini così puntigliosi. Saltati tutti gli organi, decapitato il vertice, Di Maio che sapeva come sarebbe andata a finire fin dal momento delle sue dimissioni da garante, ride sotto i baffi: adesso Peppiniello Appulo non può neanche permettersi quello che minacciava fino a ieri: abbandonare l’alleanza di governo.

Ora, delegittimato così dalla Magistratura, l’ex presidente ha messo in ambasce Enrichetto Letta. Dentro il Pd, lo perculano così: “Che facciamo ora, parliamo con Crimi?”

Intanto, Franceschini e l’amico Fassino stanno muovendosi per fondersi con la corrente di Orlando per guerreggiare ad armi pari con la fortissima corrente di ex renziani, Base Riformista, guidata da Guerini e compagni. 

Simone Canettieri per ilfoglio.it l'8 febbraio 2022. 

Se si votasse fra un mese, oggi il M5s non potrebbe presentare le liste elettorali. L'ordinanza del tribunale di Napoli di fatto azzera tutti i poteri di firma di Giuseppe Conte, che non è più il legale rappresentante del partito. 

La situazione è così "complicata" che Beppe Grillo è sceso in campo questa mattina con un post molto netto: blocca qualsiasi iniziativa e fuga in avanti dell'ex premier, invita tutti al silenzio. E torna a ribadire, qualora ce ne fosse bisogno, che il vero capo è lui. E si fa come dice lui. 

Perché? Gli avvocati dell'ex comico sono al lavoro per cercare di fare luce in questo caos. Ci sono anche diverse interpretazioni sul fatto che oggi il primo partito del Parlamento e principale partner del governo Draghi sia senza un rappresentante legale. Sotto un certo punto di vista, ma ci sono pareri discordanti, l'unico titolato è Grillo. 

Che in questa fase ha congelato tutto. Sul suo capo potrebbero pendere una serie di richieste di risarcimento e di spese gestionali non da poco: dalla sede del Movimento (12mila euro al mese), all'affitto della piattaforma Skyvote (che ha sostituito Rousseau).

Anche per evitare di finire impigliato in questioni economiche gravose, Grillo ha deciso di tirare il freno a mano. Non parla nessuno. E chissà se anche Conte rispetterà il diktat del Garante (questa sera doveva andare a Porta a Porta da Bruno Vespa). 

Le anime del Movimento sono confuse e senza bussola. Tutti cercano Luigi Di Maio che sabato scorso, con un tempismo che alimenta veleni, ha deciso di dimettersi da presidente del comitato di garanzia (organismo decaduto con l'ordinanza del tribunale, così come le nomine dei vicepresidenti).

Il ministro degli Esteri non parla. La sua agenda oggi prevede una full immersion nel caso Russa Ucraina: in mattinata sarà audito dal Copasir, nel pomeriggio dalla commissione congiunta Esteri-Difesa.

Brogli e buoi. Che cosa insegnano le opposte parabole di Boris Johnson e Trump (per non parlare di Conte). Francesco Cundari Linkiesta l'8 Febbraio 2022.

I conservatori inglesi mettono sotto accusa il loro leader per aver partecipato a delle feste durante il lockdown, i repubblicani difendono l’ex presidente persino dopo un tentato colpo di stato

La grande domanda della politica mondiale è se l’onda populista rappresentata da Donald Trump, Boris Johnson e i loro epigoni – ma in Italia dovremmo parlare piuttosto di precursori, a cominciare ovviamente dal Movimento 5 stelle – sia destinata a rivelarsi la fiammata di un momento o invece l’inizio di un incendio che continuerà a bruciare Stato di diritto, divisione dei poteri, razionalità e correttezza del dibattito pubblico, fino a ridurli in cenere. Cioè fino a quando, in pratica, anche le più antiche democrazie del pianeta appariranno pressoché indistinguibili dai peggiori regimi autoritari.

A questa grande domanda si collegano naturalmente diverse domande ulteriori: esistono degli anticorpi (nei partiti, nelle leggi, nella cultura)? E laddove scarseggiano, è possibile introdurli, riattivarli, rafforzarli? Con queste domande in testa, guardate un po’ che cosa sta accadendo, giusto in questi giorni, ai diversi protagonisti dell’onda populista partita nel 2016, nei loro rispettivi paesi e soprattutto nei loro rispettivi partiti.

Da un lato abbiamo il caso di Trump: nonostante la secca sconfitta elettorale e nonostante tutto quello che è stato capace di fare da allora in poi, il suo partito non ha esitato a censurare gli unici due repubblicani che hanno avuto il coraggio di denunciarne il delirio golpista, accusandoli di essersi uniti alla persecuzione di «semplici cittadini impegnati in un legittimo dibattito politico» (quelli che hanno assaltato il parlamento nel tentativo di impedire la convalida del risultato elettorale). Insomma, in America, persino l’aperta istigazione al colpo di stato non è ragione sufficiente per vedersi scaricare dal proprio partito, perlomeno se quel partito è il partito repubblicano.

Negli stessi giorni, tuttavia, uno spettacolo ben diverso si sta svolgendo a Londra, dove al contrario Johnson è sottoposto ad attacchi sempre più pesanti dai parlamentari conservatori, e per responsabilità decisamente imparagonabili a quelle del suo amico americano (del quale non condivide solo l’hair stylist).

Una settimana fa la baronessa Ruth Davidson, già leader dei conservatori scozzesi, è scoppiata in lacrime in diretta televisiva per l’indignazione, parlando dei festini di Johnson a Downing Street durante il lockdown (quando cioè tutti gli altri cittadini non potevano vedere nessuno).

Se vi fosse una regola o almeno una proporzione fissa tra azioni e reazioni, cosa dovrebbero fare a Washington i repubblicani, strapparsi i capelli davanti alle telecamere? Le riunioni del loro partito, come minimo, dovrebbero assomigliare a una telenovela brasiliana.

Si potrebbe osservare che Johnson ha fatto assai di peggio che partecipare a qualche festicciola, anche durante il lockdown, ad esempio quando si è ostinato a non prendere alcuna seria misura restrittiva, finché in terapia intensiva non c’è finito pure lui; ma niente di quello che ha fatto o detto è ovviamente paragonabile a istigare i propri sostenitori ad assaltare il parlamento per rovesciare l’esito del voto, come ha fatto Trump.

Né vale argomentare che i conservatori hanno cominciato a criticare Johnson quando hanno visto calare i suoi consensi, semplicemente perché temono di perdere le elezioni. Trump infatti le elezioni le ha già perse, e di brutto. Eppure è ancora lì, anzi se possibile sembra persino peggiorato, ma soprattutto è peggiorato enormemente il suo partito.

L’ipotesi più inquietante è che la vera differenza tra Johnson e Trump stia nel fatto che alla fine, per quanto controvoglia, in modo insufficiente e tardivo, Johnson qualche misura restrittiva è stato costretto a prenderla, e che sia quello, in verità, che il suo partito non gli ha perdonato. Dunque che a fregare i leader populisti non siano mai i loro eccessi, ma l’esatto contrario.

A fronte di tutto questo, comunque, la lenta e inesorabile agonia dei Cinquestelle appare da noi decisamente rassicurante. Il fatto poi che a mettere fuori gioco Giuseppe Conte sia stato ieri un tribunale, per questioni di quorum e norme statutarie, è una doppia nemesi, considerando che l’Avvocato del popolo ha passato praticamente tutto il suo tempo a occuparsi di regolamenti. È stato un anno a parlare solo di statuto, norme e codicilli, e prima si è visto respingere la richiesta di accedere al finanziamento pubblico, perché non aveva pensato a iscriversi per tempo all’apposito registro dei partiti, e adesso questo.

Vale dunque più che mai il commento twittato da Sebastiano Messina all’indomani del primo incidente: «Il Movimento avrebbe bisogno di un avvocato, ma uno bravo».

Forse, infatti, la vera regola generale che si può trarre da tutte queste vicende è che ciascuno deve fare il suo mestiere: se ti sei conquistato la leadership con discorsi degni del dittatore dello Stato libero di Bananas, il minimo che i tuoi sostenitori si attenderanno da te, come segno di coerenza, è un tentato colpo di stato; non certo che all’improvviso tu ti metta a fare il leader responsabile che impone a tutti di stare chiusi in casa e andare a letto presto (tanto più se nel frattempo tu ti sbronzi coi colleghi, per di più).

Se il tuo movimento ha conquistato i suoi maggiori consensi gridando che i partiti facevano tutti schifo, non li recupererai passando il resto del tempo a illustrarne gli organigrammi, lo statuto, i cinque vicepresidenti, i molteplici dipartimenti e gli immancabili forum tematici.

La nostra fortuna è che mentre nella war room di Trump si discuteva l’ipotesi di chiamare l’esercito, a Palazzo Chigi, nel momento culminante della crisi, Conte telefonava a Ciampolillo.

Comma M5S. La sentenza di Napoli su Conte e il rischio del diritto penale totale. Giuliano Cazzola su Linkiesta il 9 Febbraio 2022.

La magistratura civile che entra nel merito di un regolamento congressuale è un abominio. Nei partiti sono già operativi ordinamenti che gestiscono la propria vita interna con forme di giurisdizione autonoma. Vogliamo davvero che il confronto politico interno sia condotto nelle aule giudiziarie?

Potrei cavarmela ricorrendo alla saggezza contenuta in un proverbio: chi la fa l’aspetti. Anzi, potrei persino compiacermi della decapitazione per via giudiziaria del vertice del Movimento 5 Stelle, proprio perché quel movimento è nato e cresciuto da una costola della magistratura deviata. Ma sarebbe una manifestazione del medesimo istinto dei polli di Renzo Tramaglino, ché di natura è frutto ogni loro vaghezza.

Invece è venuto il momento di resistere, resistere, resistere. E di cominciare a reagire, anche se è un avversario ad aver subito l’abuso della sospensiva delle cariche, creando così problemi per l’azione di uno dei poteri fondamentali dello Stato, essendo il primo partito (già scombinato di suo) presente nell’attuale assetto politico ora privato di una guida che possa svolgere il ruolo di interlocutore nelle decisioni da assumere, nell’interesse del Paese.

Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario di Tangentopoli, l’inchiesta che ha dato il via alla Grande Purga di quella parte della classe politica che aveva governato – con alterne vicende – dal dopoguerra fino ad allora. Da quel momento le forze politiche – che avevano ricevuto il potere per via giudiziaria – si sono messe al servizio delle procure garantendosi così la possibilità di tenere sotto scacco gli avversari (verso i quali si era indirizzata la nuova offensiva togata) continuando la lotta politica su quel terreno.

I partiti, poi, sono arrivati persino a soffrire della sindrome di Stoccolma, anticipando le mosse dei loro aguzzini. Praticamente si sono suicidati: rinunciando alle guarentigie costituzionali per i rappresentanti del popolo; privandosi volontariamente del finanziamento pubblico e delle risorse necessarie per fare politica; abbandonando a se stesse le persone inquisite (vi sono stati casi clamorosi per la loro testimonianza di viltà). E hanno spalancato, in questo modo, le porte alle scorribande delle procure di cui ricordiamo le campagne che si sono susseguite per un lungo periodo contro gli amministratori locali e regionali (le cosiddette spese pazze), i manager pubblici e le fondazioni dei partiti.

In sostanza la politica – per sua stessa volontà – si trova alla mercé di una sorta di comma 22: una norma in base alla quale un aviatore che cerca in tutti i modi di evitare le missioni spacciandosi addirittura per pazzo, non può considerarsi pazzo in quanto è razionalmente giusto aver paura per la propria vita e sicurezza; al contrario potrebbe essere dichiarato pazzo se volesse affrontare le missioni spontaneamente.

Ai partiti viene consentito di ricevere finanziamenti da privati purché sia conformi a regole di trasparenza. Capita però che le procure si riservino il diritto di giudicare il loro corretto utilizzo o la presenza di una forma indiretta di corruttela o di altri illeciti. Insomma, ne abbiamo viste di tutti i colori, anche se, per fortuna, la magistratura giudicante – magari dopo anni – smonta i teoremi costruiti dalle procure. Vi sono casi però di una gravità assoluta come quelli della trattativa Stato/Mafia o, più recentemente, del processo sulla presunta corruzione internazionale Eni/Nigeria.

Non era ancora capitato, però, di assistere a una vicenda nella quale è la magistratura civile a entrare nel merito di un regolamento congressuale: perché di questo si è trattato nella sentenza del tribunale di Napoli. Chi ha fatto esperienze di vita associativa sa che, nel momento delle verifiche interne per la scelta della linea di azione e l’elezione dei gruppi dirigenti, la gestione delle iscrizioni è un passaggio fondamentale, proprio per evitare le campagne di iscrizioni fasulle al solo scopo di consentire ai leader e alle correnti di aumentare la loro influenza, facendo valere tessere di anime morte.

Una delle misure più ragionevoli che si adottano in tali eventi è quella di porre un limite temporale alle iscrizioni con diritto di voto. Poi siamo tutti troppo scafati per non conoscere le manovre che si compiono prima e durante i congressi, non solo quelli delle associazioni di fatto (come sono i partiti e i sindacati e tante altre organizzazioni della vita civile), ma anche in enti dotati di personalità giuridica o nelle società di capitali.

Ovviamente non tutte le situazioni sono uguali. Ma in una libera associazione (ex articolo 36 e seguenti del codice civile) come i partiti sono operativi ordinamenti (senza scomodare le teorie di Santi Romano) che gestiscono la propria vita interna con forme di giurisdizione autonoma. Pensiamo, per esempio, alla parte disciplinare degli Statuti: se un iscritto viene espulso o radiato per questioni ritenute attinenti al suo comportamento o alle sue convinzioni in contrasto con i valori e la linea del partito, può appellarsi al giudice ordinario per valutare la conformità della sanzione dei collegi dei probiviri o degli organi interni di garanzia?

Ammettiamone anche la possibilità teorica, ma il buon senso dovrebbe avere il posto che gli spetta nella vita quotidiana. Ce lo immaginiamo un confronto politico interno ai partiti condotto nelle aule giudiziarie, fino a quando la sentenza non passa in giudicato? Nel frattempo spetterebbe al tribunale nominare un commissario giudiziale?

Vogliamo arrivare al punto in cui un segretario uscente, criticato dagli oppositori interni per gli errori nella direzione del partito, li accusa di diffamazione e li querela? Considerando proprio il prorompere di una volontà di fare giustizia – presunta – nella vita delle persone e delle comunità (Filippo Sgubbi lo ha definito il «diritto penale totale») io sono totalmente contrario all’idea, a mio avviso peregrina e penitente, di dare applicazione (non prevista) all’articolo 49 della Costituzione: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

La Carta non richiama, in questo caso, l’esigenza di una legge ordinaria attuativa. Dove lo ritiene opportuno non esita a scriverlo come, per esempio, nell’articolo 39 riguardante l’organizzazione sindacale (i sindacati si sono guardati bene – in via di fatto – dal chiederne l’attuazione); nell’articolo 40 sul diritto di sciopero; nell’anacronistico comma 2 dell’articolo 41; nell’articolo 98 sulle limitazioni al diritto d’iscriversi ai partiti politici per i magistrati, i militari di carriera in servizio attivo, i funzionari e agenti di polizia, i rappresentanti diplomatici e consolari all’estero. Per come è formulato, l’articolo 49 non lascia dubbi: vi è incluso tutto ciò che serve. 

ENTI DI FATTO ASSOCIAZIONI NON RICONOSCIUTE. Da dirittoeconomia.net:

Le associazioni non riconosciute sono enti di fatto che si prefiggono scopi culturali, sportivi, ricreativi, filantropici, ecc..

Esse non sono persone giuridiche, proprio perché manca il riconoscimento.

Il fenomeno è piuttosto diffuso: partiti politici, sindacati, associazioni culturali e sportive sono spesso privi di personalità giuridica. In particolare, per quanto riguarda i partiti e i sindacati, spesso la scelta di non chiedere il riconoscimento è dettata dal desiderio di non essere soggetti ai controlli governativi sulla loro normativa e sulla loro organizzazione, controlli che sono previsti, invece, in caso di riconoscimento da parte dello Stato.

Il nostro ordinamento giuridico fissa alcune norme generali per la disciplina delle associazioni non riconosciute.

EFFICACIA DEGLI ACCORDI TRA GLI ASSOCIATI

L'associazione non riconosciuta nasce da un gruppo di persone che si uniscono tra loro e stipulano un accordo al fine di raggiungere uno scopo comune.

Gli accordi stipulati tra gli associati, per ciò che concerne l'ordinamento interno dell'associazione e l'amministrazione dei beni sono pienamente efficaci e vincolanti tra gli associati.

L'associazione non riconosciuta può stare in giudizio nella persona che ne ha la presidenza o la direzione, secondo quanto stabilito dagli accordi degli associati (art.36 Codice civile).

FONDO COMUNE

I contributi versati dagli associati e i beni acquistati con tali contributi vanno a formare il fondo comune dell'associazione (art. 37 Codice civile).

Fino a quando dura l'associazione, i singoli associati non possono chiedere la divisione del fondo comune, né possono chiedere la loro quota in caso di recesso (art.37 Codice civile).

AUTONOMIA PATRIMONIALE IMPERFETTA

Le associazioni non riconosciute hanno una minore protezione rispetto alle persone giuridiche: esse, infatti, godono come le persone giuridiche, di autonomia patrimoniale, ma tale autonomia patrimoniale è imperfetta.

L'autonomia patrimoniale esiste: di conseguenza i creditori dell'associazione di fatto possono far valere i loro diritti sul fondo comune dell'ente e non sul patrimonio dei singoli associati. Inoltre i creditori del singolo associato non possono far valere i loro diritti sul fondo comune.

Tuttavia l'autonomia patrimoniale è imperfetta, la distinzione del patrimonio dell'associazione e di quello degli associati presenta un limite: infatti, i creditori dell'associazione di fatto possono far valere i loro diritti, oltre che sul fondo comune dell'ente, anche sul patrimonio personale delle persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione (art.38 Codice civile).

La responsabilità personale di coloro che agiscono in nome e per conto dell'associazione non riconosciuta è prevista dal legislatore in quanto, non essendovi il riconoscimento, non è possibile stabilire a priori se l'associazione dispone dei mezzi necessari per realizzare lo scopo dell'ente e garantire i futuri creditori di esso.

Associazioni non riconosciute: la guida completa. Costituzione, organi, finanziamento e responsabilità. Di Marcella Ferrari, Professionista - Avvocato, su altalex.com il 19/04/2021

L’associazione non riconosciuta è un’associazione priva della personalità giuridica, questo non significa che essa non abbia una propria soggettività ed una correlativa capacità. Infatti, un’associazione può liberamente costituirsi ed operare anche senza il riconoscimento. Si pensi ai partiti politici o ai sindacati che esprimono le massime forze sociali del Paese e sono associazioni non riconosciute (C. M. BIANCA, Diritto Civile. La norma giuridica. I soggetti, 1, Milano, Giuffrè, 2002, 380).

Le associazioni sono organizzazioni collettive aventi come scopo il perseguimento di una finalità non economica; possono essere dotate di personalità giuridica (associazioni riconosciute) oppure no (associazioni non riconosciute).

Nella presente trattazione, ci soffermeremo sulle seconde, analizzando la disciplina normativa, i costi e la documentazione necessaria. Si farà cenno anche al Codice del Terzo settore, a tal proposito si ricorda che, a causa dell’emergenza da Covid-19, il termine assegnato alle associazioni e gli altri enti per adeguare i propri statuti alle disposizioni del Codice è stato prorogato al 31 marzo 2021 (d. l. 125/2020 art. 1 comma 4 novies che ha modificato l’art. 101 c. 2 del d. lgs. 117/2017).

Sommario

1. Premessa: le organizzazioni

2. Che cosa sono le associazioni non riconosciute?

3. Cos’è la personalità giuridica e cosa comporta

4. La normativa di riferimento

5. Differenza tra associazione riconosciuta e non riconosciuta

6. Le varie tipologie di associazione

7. Gli Enti del Terzo settore

8. Iscrizione nel Registro del Terzo settore

9. Perché costituire un’associazione non riconosciuta?

10. Come si crea un’associazione non riconosciuta?

11. Il patrimonio dell’associazione non riconosciuta: il fondo comune

12. La documentazione necessaria per creare un’associazione non riconosciuta

13. I costi per creare un’associazione non riconosciuta

14. I tempi per creare un’associazione non riconosciuta

15. Gli organi dell’associazione non riconosciute

16. Come si finanziano le associazioni non riconosciute?

17. Le responsabilità delle associazioni non riconosciute?

18. Diritti e obblighi degli associati

19. La durata di un’associazione non riconosciuta

20. Il recesso e l’esclusione degli associati

21. La trasformazione di un’associazione non riconosciuta

22. L’estinzione di un’associazione non riconosciuta

1. Premessa: le organizzazioni

Il Codice civile distingue le organizzazioni in tre macro-gruppi. Vediamo, in breve, di cosa si tratta.

Le associazioni sono organizzazioni collettive aventi come scopo il perseguimento di una finalità non economica; possono essere dotate di personalità giuridica (associazioni riconosciute) oppure no (associazioni non riconosciute). Ad esempio, un gruppo di amici può decidere di fondare un’associazione con finalità umanitaria oppure di istituire un’associazione per aiutare i cani randagi.

Le fondazioni sono organizzazioni che si avvalgono di un patrimonio per il perseguimento di uno scopo non economico; sono dotate di personalità giuridica. Tra le più note al pubblico, si citano, a titolo di esempio, la fondazione per la ricerca sul cancro (AIRC) o alla fondazione Umberto Veronesi per il progresso delle scienze o la Cassa Nazionale di Previdenza Forense (CNPF)

I comitati sono organizzazioni di più persone che, attraverso una raccolta pubblica di fondi, costituiscono un patrimonio con cui realizzare finalità altruistiche; solitamente, sono privi di personalità giuridica, ma possono chiedere il riconoscimento, per quanto si tratti di un’ipotesi rara, stante la durata temporanea dell’ente. Ad esempio, si pensi ai comitati di beneficienza, di soccorso, di promozione di opere pubbliche.

2. Che cosa sono le associazioni non riconosciute?

Le associazioni sono organizzazioni collettive aventi come scopo il perseguimento di una finalità non economica; le associazioni prive di personalità giuridica sono dette non riconosciute.

Le associazioni non riconosciute sono enti collettivi che nascono tramite un atto di autonomia. Il contratto concluso tra i fondatori è detto atto costitutivo. Il suddetto atto non è soggetto ad alcun vincolo di forma. Pertanto, potrebbe essere redatto tramite una semplice scrittura privata o addirittura oralmente. Questa caratteristica rappresenta la prima differenza rispetto alle associazioni riconosciute ove l’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico (cioè da un notaio). Infatti, le associazioni non riconosciute non chiedono il “riconoscimento”, per questa ragione non è necessaria alcuna specifica formalità per la loro creazione.

L’associazione non riconosciuta non dispone della personalità giuridica, ma è in ogni caso un soggetto di diritto. Infatti, può essere titolare di un immobile, può concludere un contratto di locazione o comodato, può essere titolare di un conto corrente e così via.

Ricordiamo che:

la soggettività giuridica appartiene a tutte le organizzazioni,

la personalità giuridica appartiene solo agli enti che chiedono e ottengono il riconoscimento.

Cerchiamo di capire cosa sia la personalità giuridica.

3. Cos’è la personalità giuridica e cosa comporta

Il concetto di personalità giuridica è connesso a quello di autonomia patrimoniale.

Le persone giuridiche godono di un’autonomia patrimoniale perfetta, in buona sostanza, le vicende dell’organizzazione incidono solo sul patrimonio dell’ente e non su quello delle persone fisiche che lo compongono. Ad esempio, in una società per azioni, se la compagine sociale ha un debito, il creditore non può aggredire il patrimonio del singolo socio, ma può attaccare solo il patrimonio della società. Lo stesso accade in un’associazione riconosciuta: se l’ente non paga il canone di locazione, il proprietario può rivalersi solo sul patrimonio associativo e non su quello dei singoli associati.

Viceversa, le associazioni prive di personalità giuridica godono di un’autonomia patrimoniale imperfetta, per cui le vicende dell’organizzazione producono effetti anche sul patrimonio delle persone fisiche che ne fanno parte. Ad esempio, in una società semplice, il creditore sociale può rivolgersi anche al socio, che risponde con il suo patrimonio personale, salvo il beneficio di preventiva escussione (art. 2268 c.c.).

Come vedremo, le associazioni non riconosciute hanno un patrimonio detto fondo comune; non tutti gli associati rispondono solidalmente e personalmente delle obbligazioni sociali, ma solo quelli che hanno agito in nome e per conto dell’ente (art. 38 c.c.).

4. La normativa di riferimento

Innanzitutto, occorre menzionare la Costituzione:

art. 18 Cost, prevede la libertà di associazione, che concretamente consiste nella possibilità per i privati di costituire e aderire ad enti, come le associazioni, le fondazioni e i comitati.

Le organizzazioni non riconosciute trovano una disciplina nelle norme del Codice civile, in particolare:

art. 36 c.c. sull’ordinamento e amministrazione delle associazioni non riconosciute,

art. 37 c.c. sul fondo comune,

art. 38 c.c. sulle obbligazioni,

art. 42 bis c.c. trasformazione.

Inoltre, si occupa delle organizzazioni anche il Codice del Terzo settore (d. lgs. 117/2017). La riforma del Terzo settore comprende un insieme di norme che ha disciplinato ex novo il no profit e l'impresa sociale. Tale intervento innovativo non è stato ancora completato, in quanto non sono stati emanati tutti gli atti previsti dai decreti legislativi di attuazione della legge delega 106/2016. In considerazione del contesto emergenziale, è stato rinviato al 31 marzo 2021, il termine entro il quale le Onlus, le organizzazioni di volontariato (Odv) e le Associazioni di promozione sociale (Aps) devono adeguare i propri statuti alle disposizioni contenute nel Codice del Terzo settore (art. 101 c. 2 come modificato dal d. l. 125/2020 art. 1 comma 4 novies).

5. Differenza tra associazione riconosciuta e non riconosciuta

Le associazioni:

riconosciute hanno chiesto e ottenuto il riconoscimento,

non riconosciute non hanno chiesto (oppure lo hanno chiesto ma non ottenuto) il riconoscimento.

Per ottenere la personalità giuridica occorre formulare un’apposita domanda da depositare presso la Prefettura. Il riconoscimento della personalità giuridica comporta che l’ente sia titolare di un’autonomia patrimoniale perfetta e che i creditori sociali non possano aggredire il patrimonio dei singoli associati. Nel periodo di tempo in cui l’associazione attende il riconoscimento, essa è già attiva ma opera come associazione non riconosciuta (A. TORRENTE - P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, 153).

Sono associazioni non riconosciute i partiti e i sindacati.

Differenze

Associazioni riconosciute

Associazioni non riconosciute

Personalità giuridica

No personalità giuridica

Autonomia patrimoniale perfetta

Autonomia patrimoniale imperfetta

Requisiti di forma: atto pubblico

Nessun requisito di forma

6. Le varie tipologie di associazione

Le associazioni rappresentano un gruppo eterogeneo caratterizzato dall’assenza dello scopo di profitto. Tra le varie tipologie associative si ricordano:

le Aps, ossia le associazioni di promozione sociale (associazioni riconosciute o non riconosciute),

le Odv, ossia le organizzazioni di volontariato (associazioni riconosciute o non riconosciute).

Le Associazioni di promozione sociale (art. 35 d. lgs. 117/2017) sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre associazioni di promozione sociale per lo svolgimento in favore dei propri associati, di loro familiari o di terzi di una o più attività di cui all'articolo 5, avvalendosi in modo prevalente dell'attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati.

Le Organizzazioni di volontariato (art. 32 d. lgs. 117/2017) sono enti del Terzo settore costituiti in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, da un numero non inferiore a sette persone fisiche o a tre organizzazioni di volontariato, per lo svolgimento prevalentemente in favore di terzi di una o più attività di cui all'articolo 5, avvalendosi in modo prevalente dell'attività di volontariato dei propri associati o delle persone aderenti agli enti associati.

Per completezza espositiva, si ricordano anche gli Enti filantropici (art. 37 d. lgs. 117/2017) che possono assumere la natura di associazione riconosciuta o di fondazione al fine di erogare denaro, beni o servizi, anche di investimento, a sostegno di categorie di persone svantaggiate o di attività di interesse generale.

7. Gli Enti del Terzo settore

Si ricorda che sono enti del Terzo settore (art. 4 c. 1 d. lgs. 117/2017):

le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali,

le reti associative, le società di mutuo soccorso,

le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento, in via esclusiva o principale, di una o più attività di interesse generale in forma di azione volontaria o di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, o di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi.

L’art. 5 del Codice del Terzo settore individua le attività di interesse generale esercitate per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale. Si considerano di interesse generale, se svolte in conformità alle norme particolari che ne disciplinano l'esercizio, le attività in ambito socio-sanitario, educative e formative, valorizzazione dell’ambiente e del patrimonio culturale, ricerca scientifica, sviluppo economico dei paesi svantaggiati e così via.

Non sono enti del Terzo settore le formazioni e le associazioni politiche, i sindacati, le associazioni professionali e di rappresentanza di categorie economiche, le associazioni di datori di lavoro, nonché gli enti sottoposti a direzione e coordinamento o controllati dai suddetti enti (art. 4 c. 2 d. lgs. 117/2017).

8. Iscrizione nel Registro del Terzo settore

Il Codice del Terzo settore ha previsto l’istituzione di un Registro unico nazionale (RUNTS). Tale registro è così suddiviso:

Organizzazioni di volontariato (Odv);

Associazioni di promozione sociale (Aps);

Enti filantropici;

Imprese sociali, incluse le cooperative sociali;

Reti associative

Società di mutuo soccorso;

Altri enti del Terzo settore.

Quindi, le associazioni non riconosciute, sono Enti del Terzo Settore, se iscritte al Registro Unico Nazionale del Terzo Settore. Inoltre, la denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l'indicazione di ente del Terzo settore o l'acronimo ETS. Di tale indicazione deve farsi uso negli atti, nella corrispondenza e nelle comunicazioni al pubblico (art. 12 d. lgs. 117/2017).

Le associazioni e gli altri enti hanno tempo sino al 31 marzo 2021 per adeguare i propri statuti alle disposizioni del Codice del Terzo settore. Infatti, l’art. 101 c. 2 del d. lgs. 117/2017 (come modificato dal d. l. 125/2020 art. 1 comma 4 novies) dispone che “Fino all'operatività del Registro unico nazionale del Terzo settore, continuano ad applicarsi le norme previgenti ai fini e per gli effetti derivanti dall'iscrizione degli enti nei Registri Onlus, Organizzazioni di Volontariato, Associazioni di promozione sociale che si adeguano alle disposizioni inderogabili del presente decreto entro il 31 marzo 2021. Entro il medesimo termine, esse possono modificare i propri statuti con le modalità e le maggioranze previste per le deliberazioni dell'assemblea ordinaria al fine di adeguarli alle nuove disposizioni inderogabili o di introdurre clausole che escludono l'applicazione di nuove disposizioni derogabili mediante specifica clausola statutaria”.

Si segnala che è stato pubblicato il decreto istitutivo del RUNTS (decreto 15.09.2020), operante presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ma gestito operativamente e con modalità informatiche su base territoriale da ciascuna Regione e Provincia autonoma. “Oltre alle modalità di iscrizione, aggiornamento dei dati, cancellazione e migrazione in altra sezione degli enti interessati, la disciplina assoggetta ciascuno degli enti iscritti al Registro ad una revisione periodica almeno triennale finalizzata alla verifica della permanenza dei requisiti richiesti. Pertanto, le Regioni e le Province autonome entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale dovranno disciplinare le procedure per l'emanazione dei provvedimenti di iscrizione e di cancellazione degli ETS nelle sezioni regionali. I primi ETS ad accedere al nuovo Registro unico saranno le organizzazioni di volontariato (ODV) e le associazioni di promozione sociale (APS), che verranno trasmigrate nelle corrispondenti sezioni regionali del RUNTS, con l'eliminazione contestuale dei registri attuali delle APS e delle ODV. Ogni sezione del Registro prevede infatti specifici requisiti di accesso e diversi benefici fiscali ad essa connessi. Per quanto riguarda le ONLUS, che costituiscono una qualifica fiscale (e non una specifica categoria di ETS) e che risultano quindi iscritte nell'apposita Anagrafe tenuta presso l'Agenzia delle entrate, si ricorda che con la Riforma del Terzo settore, la normativa sulle ONLUS sarà definitivamente abrogata a decorrere dal periodo di imposta successivo al parere favorevole della Commissione Europea sulle norme fiscali introdotte dal Codice del Terzo Settore e dal periodo di imposta successivo all'operatività del RUNTS. Fino a quel momento continueranno ad applicarsi le norme del D.Lgs 460/1997” (Fonte: camera.it, pagina 6).

9. Perché costituire un’associazione non riconosciuta?

Le associazioni non riconosciute rappresentano un fenomeno molto diffuso, sia per i costi contenuti che per le formalità ridotte. Soprattutto, a livello locale, nelle piccole realtà, rappresentano un istituto molto utilizzato per il perseguimento di uno scopo comune, culturale, ideale o altruistico.

10. Come si crea un’associazione non riconosciuta?

Come abbiamo visto, l’associazione non riconosciuta non postula alcuna formalità. Essa nasce semplicemente tramite l’accordo tra i fondatori. L’atto costitutivo e lo statuto hanno natura contrattuale e non sono soggetti a vincoli di forma. Nondimeno, sotto il profilo fiscale, se si vuole approfittare delle agevolazioni previste, è necessaria la forma scritta. Il contratto associativo è un contratto aperto, tuttavia, ciò non significa che esista un diritto del soggetto ad entrare nell’associazione e un correlato dovere dell’ente di accogliere la domanda di qualsiasi soggetto dotato dei requisiti necessari. Si rinvia la paragrafo sui diritti e doveri degli associati.

L’atto costitutivo delle associazioni non riconosciute (e riconosciute), secondo quanto previsto dal Codice del Terzo settore (art. 21), deve recare il seguente contenuto:

la denominazione dell'ente;

l'assenza di scopo di lucro,

le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite;

l'attività di interesse generale che costituisce l'oggetto sociale;

la sede legale,

le norme sull'ordinamento,

l'amministrazione e la rappresentanza dell'ente;

i diritti e gli obblighi degli associati, ove presenti;

i requisiti per l'ammissione di nuovi associati, ove presenti, e la relativa procedura, secondo criteri non discriminatori, coerenti con le finalità perseguite e l'attività di interesse generale svolta;

la nomina dei primi componenti degli organi sociali obbligatori e, quando previsto, del soggetto incaricato della revisione legale dei conti;

le norme sulla devoluzione del patrimonio residuo in caso di scioglimento o di estinzione;

la durata dell'ente, se prevista.

Inoltre, secondo il Codice del Terzo settore, lo statuto contenente le norme relative al funzionamento dell'ente, anche se forma oggetto di atto separato, costituisce parte integrante dell'atto costitutivo. In caso di contrasto tra le clausole dell'atto costitutivo e quelle dello statuto prevalgono le seconde.

11. Il patrimonio dell’associazione non riconosciuta: il fondo comune

L’associazione non riconosciuta, anche se priva di personalità giuridica, gode di una propria soggettività. Essa è titolare di un fondo comune (art. 37 c.c.). Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione, i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune. Delle obbligazioni stesse rispondono anche personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione (art. 38 c.c.).

Il fondo comune è un patrimonio distinto da quello degli associati, i quali non possono chiedere la divisione per tutta la durata dell’associazione né pretenderne la quota parte in caso di recesso (art. 37 c.c.).

Per le obbligazioni del singolo associato non risponde l’associazione con il suo fondo,

per le obbligazioni dell’associazione non risponde l’associato con il suo patrimonio, ma risponde solidalmente e personalmente chi ha agito in nome e per conto dell’associazione (art. 38 c.c.).

Così, ad esempio, l’iscritto ad un partito non risponde dei debiti dell’associazione. Oppure, nel caso in cui l’associazione non abbia pagato il canone di locazione, il proprietario potrà rivalersi sul fondo comune o su chi ha concluso il contratto. Nonostante il debito sia dell’associazione, il locatore – come qualsiasi creditore – può rivolgersi immediatamente verso il rappresentante, senza dover agire contro il fondo comune. Si tratta di una sorte di garanzia ex lege assimilabile alla fideiussione (A. TORRENTE - P. SCHLESINGER, Manuale di diritto privato, Milano, Giuffrè, 2013, 158).

12. La documentazione necessaria per creare un’associazione non riconosciuta

La documentazione necessaria è la seguente:

atto costitutivo e statuto,

modello per la richiesta del Codice fiscale (modello AA5/6 per codice fiscale; modello AA7/10 per Partita IVA),

modello per la richiesta di registrazione (modello 69),

La richiesta del Codice fiscale non è obbligatoria ma risulta necessaria nel caso in cui si compiano atti giuridici, come prendere in locazione l’immobile da destinare a sede dell’associazione. Ad esempio, la nota di trascrizione, in relazione all’acquisto di un immobile, deve recare la denominazione, la sede e il numero di codice fiscale delle associazioni non riconosciute, con l'indicazione, per queste ultime anche delle generalità delle persone che le rappresentano secondo l'atto costitutivo (art. 2659 c.c.).

L’associazione deve chiedere l’attribuzione di Partita IVA se intende svolgere l’attività commerciale.

13. I costi per creare un’associazione non riconosciuta

I costi da sostenere per la creazione di un’associazione non riconosciuta sono più bassi rispetto a quelli previsti per un’associazione riconosciuta. Infatti, è previsto il pagamento per la registrazione dell'atto costitutivo e dello statuto presso l'Agenzia delle Entrate. L’imposta di registro è pari a 200,00 euro, a cui vanno aggiunte le marche da bollo da 16,00 euro per ogni 4 pagine o 100 righe. Per talune categorie di associazioni è prevista l’esenzione dal pagamento dell’imposta di registro.

Non sono previsti i costi notarili per la redazione dell’atto costitutivo e dello statuto come, invece, accade per le associazioni riconosciute.

Se l’associazione svolge un’attività commerciale subordinata a quella istituzionale, bisogna considerare le competenze del commercialista.

Per la sede dell’associazione, occorre concludere in contratto di locazione, quindi, tra le spese, bisogna considerare il canone locatizio e le utenze.

In linea generale, le spese possono così riassumersi:

pagamento dell’imposta di registro (200 euro) da pagare tramite modello F23 (salvo esenzioni),

imposta di bollo da applicare ad atto costitutivo e statuto, 16 euro ogni 4 facciate scritte e, comunque, ogni 100 righe,

competenze del commercialista per la compilazione dei modelli indicati nel paragrafo precedente (F23, modello 69, modello AA5/6)

14. I tempi per creare un’associazione non riconosciuta

I tempi per la creazione di un’associazione non riconosciuta sono piuttosto brevi. Nel momento stesso in cui le parti redigono l’atto costitutivo, l’associazione esiste già. Sono, poi, necessari i tempi tecnici per la registrazione presso l’Agenzia delle Entrate.

Nel caso in cui l’associazione non riconosciuta voglia ottenere la qualifica di ETS (Ente del Terzo Settore), occorre considerare le tempistiche per l’iscrizione del relativo registro (RUNTS).

Di seguito, si ricorda, in breve, la procedura (art. 47 d. lgs. 117/2017).

L'ufficio del Registro, entro 60 giorni dalla presentazione della domanda, può:

iscrivere l'ente;

rifiutare l'iscrizione con provvedimento motivato;

invitare l'ente a completare o rettificare la domanda ovvero ad integrare la documentazione.

Decorsi 60 giorni dalla presentazione della domanda o dalla presentazione della domanda completata o rettificata ovvero della documentazione integrativa, la domanda di iscrizione s'intende accolta.

Se l'atto costitutivo e lo statuto dell'ente del Terzo settore sono redatti in conformità a modelli standard tipizzati, predisposti da reti associative ed approvati con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l'ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore, verificata la regolarità formale della documentazione, entro 30 giorni dalla presentazione della domanda iscrive l'ente nel Registro stesso.

15. Gli organi dell’associazione non riconosciuta

L’ordinamento interno dell’associazione non riconosciuta è rimesso agli accordi tra gli associati (art. 36 c.c.). Nel caso in cui l’associazione non riconosciuta rientri negli enti del Terzo settore, bisogna rispettare quanto previsto dagli artt. 23 e seguenti d. lgs. 117/2017.

L’organo deliberante è l’assemblea (art. 24 d. lgs. 117/2017). Hanno diritto di voto tutti coloro che sono iscritti da almeno tre mesi nel libro degli associati, salvo che l'atto costitutivo o lo statuto non dispongano diversamente. Ciascun associato ha un voto e può farsi rappresentare nell'assemblea da un altro associato mediante delega scritta, anche in calce all'avviso di convocazione. Ogni associato può rappresentare sino ad un massimo di:

3 associati nelle associazioni con un numero di associati inferiore a 500,

5 associati in quelle con un numero di associati non inferiore a 500.

L'atto costitutivo o lo statuto possono prevedere l'intervento all'assemblea mediante mezzi di telecomunicazione ovvero l'espressione del voto per corrispondenza o in via elettronica, purché sia possibile verificare l'identità dell'associato che partecipa e vota.   

Le competenze dell’assemblea (art. 26 d. lgs. 117/2017) sono le seguenti:

nomina e revoca i componenti degli organi sociali;

nomina e revoca, quando previsto, il soggetto incaricato della revisione legale dei conti;

approva il bilancio;

delibera sulla responsabilità dei componenti degli organi sociali e promuove azione di responsabilità nei loro confronti;

delibera sull'esclusione degli associati, se l'atto costitutivo o lo statuto non attribuiscono la relativa competenza ad altro organo eletto dalla medesima;

delibera sulle modificazioni dell'atto costitutivo o dello statuto;

approva l'eventuale regolamento dei lavori assembleari;

delibera lo scioglimento, la trasformazione, la fusione o la scissione dell'associazione;

delibera sugli altri oggetti attribuiti dalla legge, dall'atto costitutivo o dallo statuto alla sua competenza.

Oltre all’assemblea, deve essere nominato un organo di amministrazione (art. 26 d. lgs. 117/2017):

Nelle associazioni, riconosciute o non riconosciute, del Terzo settore deve essere nominato un organo di amministrazione. La nomina degli amministratori spetta all'assemblea, fatta eccezione per i primi amministratori che sono nominati nell'atto costitutivo. La maggioranza degli amministratori è scelta tra le persone fisiche associate ovvero indicate dagli enti giuridici associati.

Non può essere nominato amministratore, e se nominato decade dal suo ufficio (art. 2382 c.c.):

l'interdetto,

l'inabilitato,

il fallito,

chi è stato condannato ad una pena che importa l'interdizione, anche temporanea, dai pubblici uffici o l'incapacità ad esercitare uffici direttivi.

L'atto costitutivo o lo statuto possono subordinare l'assunzione della carica di amministratore al possesso di specifici requisiti di onorabilità, professionalità ed indipendenza, anche con riferimento ai requisiti al riguardo previsti da codici di comportamento redatti da associazioni di rappresentanza o reti associative del Terzo settore.  L'atto costitutivo o lo statuto possono prevedere che uno o più amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie di associati.

Gli amministratori, entro 30 giorni dalla notizia della loro nomina, devono chiederne l'iscrizione nel Registro unico nazionale del terzo settore, indicando per ciascuno di essi il nome, il cognome, il luogo e la data di nascita, il domicilio e la cittadinanza, nonché a quali di essi è attribuita la rappresentanza dell'ente, precisando se disgiuntamente o congiuntamente. Il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori è generale. Le limitazioni del potere di rappresentanza non sono opponibili ai terzi se non sono iscritte nel Registro unico nazionale del Terzo settore o se non si prova che i terzi ne erano a conoscenza.

Nelle associazioni, riconosciute o non riconosciute, del Terzo settore, la nomina di un organo di controllo, anche monocratico, è obbligatoria quando siano superati per due esercizi consecutivi due dei seguenti limiti:

totale dell'attivo dello stato patrimoniale: 110.000,00 euro;

ricavi, rendite, proventi, entrate comunque denominate: 220.000,00 euro;

dipendenti occupati in media durante l'esercizio: 5 unità.

Tale obbligo cessa se, per due esercizi consecutivi, i predetti limiti non vengono superati.

16. Come si finanziano le associazioni non riconosciute?

L’associazione non riconosciuta dispone di un proprio patrimonio, detto fondo comune. In esso sono compresi:

i cespiti conferiti dai fondatori (ad esempio, un immobile),

le quote di iscrizione degli associati,

i proventi dell’attività svolta (attività commerciale secondaria o attività istituzionale primaria),

le donazioni provenienti da privati,

i contributi delle istituzioni (comune, provincia, regione, enti pubblici et cetera),

le raccolte fondi.

Dal momento che le associazioni non hanno scopo di profitto, è vietata la distribuzione, anche indiretta, di utili ed avanzi di gestione, fondi e riserve comunque denominate a fondatori, associati, lavoratori e collaboratori, amministratori ed altri componenti degli organi sociali, anche nel caso di recesso o di ogni altra ipotesi di scioglimento individuale del rapporto associativo (art. 8 c. 2 d. lgs. 117/2017).

Si ricorda che, secondo l’attuale disciplina normativa, le associazioni non riconosciute (al pari di quelle riconosciute) possono effettuare acquisti immobiliari, ricevere eredità e donazioni senza necessità di alcuna autorizzazione (in passato, non era così). Circa gli acquisti immobiliari, l’art. 2659 c.c., in materia di nota di trascrizione, indica espressamente i dati da inserire per le associazioni non riconosciute: la denominazione, la sede e il numero di codice fiscale delle associazioni non riconosciute, con l'indicazione, per queste ultime anche delle generalità delle persone che le rappresentano secondo l'atto costitutivo (art. 2659 c.c.).

L’eredità devoluta ad un’associazione non riconosciuta (come ad una riconosciuta) si può accettare solo con beneficio di inventario (art. 473 c. 1 c.c.).

17. Le responsabilità delle associazioni non riconosciute?

Come abbiamo visto, le associazioni non riconosciute non hanno la personalità giuridica, quindi, godono di un’autonomia patrimoniale imperfetta (art. 38 c.c.).

Per le obbligazioni assunte dalle persone che rappresentano l'associazione:

i terzi possono far valere i loro diritti sul fondo comune;

rispondono personalmente e solidalmente le persone che hanno agito in nome e per conto dell'associazione.

Quindi, i rappresentanti legali dell’associazione rispondono solidalmente delle obbligazioni sociali; tale responsabilità ha carattere accessorio rispetto all’obbligazione principale, come accade nella fideiussione (Cass. 29733/2011; Cass. 12508/2015).

La responsabilità solidale e personale di chi agisce in nome e per conto dell’associazione non è riferibile all’obbligazione propria dell’associato ma ha carattere accessorio rispetto alla responsabilità primaria dell’associazione (Cass. 455/2005).

I creditori del singolo associato non possono aggredire il fondo comune.

L’associazione non riconosciuta è responsabile del fatto illecito commesso da persona del cui operato debba rispondere e al terzo non possono essere opposti accordi statutari che limitino la suddetta responsabilità (Cass. 15394/2011).

18. Diritti e obblighi degli associati

Nelle associazioni, siano esse riconosciute o non riconosciute, l’elemento personale assume un rilievo determinante. Vige il principio della porta aperta, ossia ciascuno ha diritto di chiedere di entrare a far parte dell’associazione, ma non gode del diritto di entrarvi. Il Codice del Terzo settore non muta tale orientamento (art. 23), infatti, si limita a disciplinare il procedimento di ammissione. Se l'atto costitutivo o lo statuto non dispongono diversamente, l'ammissione di un nuovo associato avviene con deliberazione dell'organo di amministrazione su domanda dell'interessato. Entro 60 giorni l’organo deliberante deve motivare la deliberazione di rigetto della domanda di ammissione e comunicarla agli interessati. Il soggetto destinatario del rifiuto può formulare un’istanza affinché sulla sua domanda si pronunci, l'assemblea o un altro organo eletto dalla medesima, che deliberano sulle domande non accolte.

Nelle associazioni vige il principio di uguaglianza sociale, pertanto, tutti gli associati godono di medesimi diritti e doveri.

Per quanto riguarda i doveri degli associati, si sostanziano nel rispetto dell’atto costitutivo e dello statuto, e nel versamento della quota associativa.

19. La durata di un’associazione non riconosciuta

La durata dell’associazione è prevista dallo statuto. È possibile stabilire una durata precisa (ad esempio, 30 anni) oppure una durata illimitata.

20. Il recesso e l’esclusione degli associati

La giurisprudenza considera applicabili alle associazioni non riconosciute la stessa disciplina dettata per le associazioni riconosciute. In particolare, trova applicazione l’art. 24 c.c. (Cass. 18186/2004). Naturalmente, si tratta di una norma derogabile e, in quanto tale, lo statuto può stabilire diversamente (Cass. 6554/2001).

Si rimanda a quanto detto nella guida sulle associazioni riconosciute.

21. La trasformazione di un’associazione non riconosciuta

Il Codice del Terzo settore ha inserito nel Codice civile il nuovo art. 42 bis in materia di trasformazione, fusione e scissione. La norma dispone che, salvo l’esclusione nell'atto costitutivo o nello statuto, le associazioni riconosciute e non riconosciute e le fondazioni possono operare reciproche trasformazioni, fusioni o scissioni.

La trasformazione produce gli effetti previsti in ambito societario (2498 c.c.), ossia l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione. In buona sostanza, si realizza la continuità dei rapporti giuridici. L'organo di amministrazione deve predisporre una relazione relativa alla situazione patrimoniale dell'ente in via di trasformazione contenente l'elenco dei creditori, aggiornata a non più di 120 giorni precedenti la delibera di trasformazione, nonché la relazione indicante le motivazioni e gli effetti della trasformazione, prevista in materia di società di capitali (art. 2500 sexies c. 2 c.c.).

Si applicano, inoltre, le seguenti norme in materia societaria: gli articoli 2499, 2500, art. 2500 bis del c.c., 2500 ter, secondo comma, 2500 quinquies e 2500 novies, in quanto compatibili.

Gli atti relativi alle trasformazioni, alle fusioni e alle scissioni per i quali è necessaria l'iscrizione nel Registro delle imprese sono iscritti nel Registro delle Persone Giuridiche ovvero, nel caso di enti del Terzo settore, nel Registro unico nazionale del Terzo settore.

22. L’estinzione di un’associazione non riconosciuta

L’associazione si estingue per le cause previste nell'atto costitutivo e nello statuto.

Inoltre, l’ente si estingue:

quando lo scopo è stato raggiunto o è divenuto impossibile,

quando tutti gli associati sono venuti a mancare.

Dichiarata l'estinzione dell’associazione o disposto lo scioglimento, si procede alla liquidazione del patrimonio. Il Codice del Terzo settore (art. 9) dispone che, in caso di estinzione o scioglimento, il patrimonio residuo è devoluto, previo parere positivo dell'Ufficio regionale del Registro unico nazionale del Terzo settore, e salva diversa destinazione imposta dalla legge, ad altri enti del Terzo settore secondo le disposizioni statutarie o dell'organo sociale competente o, in mancanza, alla Fondazione Italia Sociale. Il parere è reso entro 30 giorni dalla data di ricezione della richiesta che l'ente interessato è tenuto a inoltrare al predetto Ufficio con raccomandata a/r o secondo le disposizioni previste dal Codice dell’Amministrazione Digitale (d. lgs. 82/2005) decorsi i quali il parere si intende reso positivamente. Gli atti di devoluzione del patrimonio residuo compiuti in assenza o in difformità dal parere sono nulli.

L’art. 49 del Codice del Terzo settore dispone che l'ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore accerta, anche d'ufficio, l'esistenza di una delle cause di estinzione o scioglimento dell'ente e ne dà comunicazione agli amministratori e al presidente del tribunale ove ha sede l'ufficio del registro unico nazionale presso il quale l'ente è iscritto affinché provveda ai sensi dell'articolo 11 e seguenti delle disposizioni di attuazione del codice civile.

Chiusa la procedura di liquidazione, il presidente del tribunale provvede che ne sia data comunicazione all'ufficio del registro unico nazionale del Terzo settore per la conseguente cancellazione dell'ente dal Registro.

Scontro tra grillini, il garante riprende in mano il Movimento. “Conte non esiste più per l’intervento di Grillo, il Pd perde un alleato”, l’editoriale di Paolo Liguori. Redazione su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.  

“Giuseppe Conte che per tanto tempo è stato presidente del Consiglio, anche al di sopra delle sue possibilità, ha finito per il momento la sua carriera politica” – il direttore Paolo Liguori commenta così la presa di posizione d Beppe Grillo dopo la sentenza del Tribunale civile di Napoli che ha sospeso Conte dal ruolo di capo politico del Movimento.

“Beppe Grillo oltre ad aver decretato che Conte, dichiarato fuori legge da un Tribunale, non deve più comparire, ha anche mandato un messaggio che vale per tutto il Movimento: nessuno deve comparire più senza l’autorizzazione del garante”.

Il direttore di Tgcom si chiede se questa decisione valga “oggi o anche a futura memoria”. Occhi puntati dunque sulla durata del diktat di Grillo che “probabilmente varrà per sempre e cioè, finché Conte non sarà eletto in qualche carica istituzionale, non avrà più agibilità politica nei mezzi di informazione, pena finire in scontro con tutto il resto del Movimento che obbedisce a questo diktat del garante Grillo”.

“Non solo, ma anche per le prossime scadenze elettorali non sarà lui a fare le liste” – ha proseguito Liguori – “naturalmente può darsi che a Conte non importi molto di questo, aveva un suo lavoro prima, c’è finito per caso in politica grazie all’accordo tra Salvini e Di Maio e se ne esce e torna a fare il suo lavoro e i suoi affari, perché ne faceva tanti, legittimi, ma abbastanza consistenti”.

Una decisione, quella di Grillo, che cambia le carte in tavola nel mondo della politica, soprattutto per il Pd che “aveva puntato molte carte sull’alleanza con Conte e ancora adesso sta cercando di rimettere in piedi quel rapporto. Purtroppo per il Pd, Conte è sfumato e non solo per l’effetto della sentenza di Napoli, ma soprattutto per l’intervento di Beppe Grillo che ha detto ‘basta’. E se Crimi si azzarda a intervenire e a sostenere quello che ha sostenuto finora, anche Crimi farà la stessa fine perché neppure lui è autorizzato a parlare”.

“Quindi il Movimento cambia faccia, ora torna quella di Grillo e solo di quelli autorizzati da Grillo, e Conte cambia lavoro, torna cioè a fare l’avvocato, non del popolo, quello privato. Conte è esistito forse, certo ora non esiste più”, ha concluso Paolo Liguori, direttore di Tgcom24.

Annalisa Cuzzocrea per “La Stampa” il 9 febbraio 2022.  

«L'ho fatto per proteggervi», dice Beppe Grillo. È per proteggere il Movimento, che il Garante è tornato e si è ripreso tutto. Il potere di dire: «Da oggi state zitti fino a nuovo ordine». Quello di fermare ogni decisione azzardata, intravista nelle parole di Giuseppe Conte e Vito Crimi.

«L'idea di indire una nuova votazione con l'assemblea degli iscritti al completo per rivotare il nuovo Statuto dimostra come non abbiate capito quanto la cosa sia seria. Adesso bisogna trovare il modo di uscirne seguendo le regole», ha detto il fondatore dei 5 stelle a tutti coloro che lo hanno chiamato.

Grillo è a Genova. Chiuso nella sua casa in collina, costantemente al telefono con gli avvocati che cercano di trovare un modo per uscire dall'ennesima impasse creata dal groviglio di regole dentro cui da anni si dibatte il Movimento. Potrebbe spostarsi nelle prossime ore, andare a Roma nel consueto quartier generale dell'hotel Forum, o chiedere ai dirigenti 5 stelle di vedersi a metà strada, a Marina di Bibbona, la villa delle grandi decisioni. Il santuario dell'ultima tregua.

Perché di una tregua, ancora una volta, c'è bisogno. Un pezzo di Movimento spera che il Garante approfitti di quanto successo per tornare a otto mesi fa. Quando Grillo aveva deciso di fermare Conte e la sua voglia di pieni poteri chiedendo che si votasse quel che era stato stabilito in primavera agli Stati generali: un comitato direttivo.

Cinque persone in grado di rimettere i 5 stelle sulla strada giusta, prendendo tutte le decisioni che c'erano da prendere. Nel caso, anche quella di avere un nuovo capo politico. Di Maio e Fico lo avevano convinto a tornare indietro. Conte e Crimi - gli stessi che oggi il fondatore ha voluto bloccare - avevano insistito per fare diversamente.

«Ma hanno fatto un pasticcio - spiega chi ha parlato con Grillo - perché per permettere che a votare fossero solo gli iscritti fino a sei mesi prima, come abbiamo sempre fatto, serviva un parere che il comitato di garanzia non ha mai prodotto. E che in realtà non poteva produrre: avrebbe dovuto stabilirlo di concerto con il comitato direttivo, che nel frattempo non è stato mai eletto».

E quindi è da lì che bisogna ripartire. Chi è ostile a Conte, preme perché Grillo segua ora tutti i passaggi saltati. Che addirittura torni a votare sulla piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio, in modo che l'avvocato dei ribelli Lorenzo Borrè non abbia più nulla a cui appellarsi. Ma questo sarebbe, per l'ex premier, uno scenario inaccettabile. 

Grillo lo sa, è stata una delle ragioni della lite che in estate ha segnato una frattura profonda tra i due. Quando volarono parole grosse: «Non sono un prestanome», diceva Conte; «Non hai visione politica né capacità manageriali», ribatteva il Garante.

Adesso le strade di cui Grillo ha parlato con chi lo sta consigliando in queste ore sono due: la prima e più sicura sarebbe quella di indire la votazione per un nuovo comitato di garanzia, tre persone che vanno scelte stavolta tra i non eletti (non possono essere parlamentari, né consiglieri regionali o comunali). Il nuovo organo avrebbe il compito di stabilire le regole per la votazione del comitato direttivo, nella prima ipotesi. 

O per far rivotare daccapo lo statuto voluto da Giuseppe Conte per poi incoronarlo di nuovo presidente, nella seconda. Quella per cui l'ex premier tifa apertamente. 

Conte non ha infatti alcuna intenzione di mettersi a gareggiare con avversari pronti a correre, come l'ex sindaca di Roma Virginia Raggi o - seppure con una posizione meno ostile rispetto a lui - l'europarlamentare Dino Giarrusso. Né tanto meno se a decidere di entrare di nuovo nell'agone fossero Luigi Di Maio o qualcuno dei suoi fedelissimi, che avrebbero così un posto nella "segreteria" M5S. 

È vero che potrebbe approfittare dell'occasione per riaffermare il suo consenso tra gli iscritti, ma il rischio che le cose si complichino ancora di più è troppo alto per decidere di correrlo. «La verità - diceva già nei giorni scorsi Roberta Lombardi, assessora alla Transizione della Regione Lazio - è che doveva fare quello che gli era stato consigliato a giugno. Creare un soggetto politico tutto suo e liberarsi da tutti questi bizantinismi. Era quasi convinto, poi lo hanno fermato». 

È a questa possibilità che, anche senza nominarla, Conte fa riferimento quando - nelle interlocuzioni di queste ore - pone le sue condizioni. Vuole risolvere le cose, la decisione di dare retta a Grillo e di non forzare annullando il suo impegno in tv con Porta a Porta va in questa direzione, ma non resterà a tutti i costi. Ed è certo che, se decidesse di strappare, non resterebbe solo.

"M5S? Momento molto difficile" "Sì, ma non è morto. Ha il 15%". Francesco Curridori il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il M5S è in forte crisi. Per la rubrica Il bianco e il nero, abbiamo interpellato il sociologo Domenico De Masi e Carlo Buttaroni, presidente di Tecnè.

Giuseppe Conte e Luigi Di Maio sono alla resa dei conti. L'arrivo di Beppe Grillo a Roma servirà a calmare le acque, dopo la sentenza del tribunale di Napoli. Sulla crisi del M5S, per la rubrica Il bianco e il nero, abbiamo interpellato il sociologo Domenico De Masi e Carlo Buttaroni, sociologo e presidente di Tecnè.

Alla luce della sentenza del tribunale di Napoli, crede che la leadership di Conte si sia ulteriormente indebolita?

De Masi:"Non so se sia più o meno debole però, di sicuro, è una leadership confermata dalla base, dai social e anche dagli ultimi sondaggi: il 75% è per Conte e il 10% per Di Maio. Credo che entrambi resteranno due personalità di spicco del Movimento".

Buttaroni: "Sicuramente è indebolita la leadership di Conte che derivava da un percorso che è stato anche molto enfatizzato dal M5S. È indebolita sia nei confronti degli attivisti del M5S, parlamentari compresi, sia nei confronti dell'opinione pubblica".

Che futuro si prospetta per il M5S?

De Masi: "Il Movimento nel 2018 aveva ottenuto il 32%, poi è piombato intorno al 15% durante il governo con Salvini e dall'ottobre del 2019 è rimasto intorno a queste percentuali. Il 15% è, quindi, il suo zoccolo duro. Tutti i giornali, da due anni, continuano a dire che è morto, ma la sua forza reale è questa".

Buttaroni: "Il M5S deve attraversare un guado. Diciamo che questa prova è una sorta di esame di maturità perché deve dimostrare di sapersi risollevare davanti a una situazione difficile seppur la vicenda riguardi aspetti di natura giuridica e non politica. Questa vicenda, poi, rende il Movimento opaco e meno vincente agli occhi dell'opinione pubblica e apre una frattura al suo interno. Il futuro dipenderà molto da come risovelleranno questa crisi e non sarà facile. Il M5S del 2018 è totalmente diverso da quello attuale perché quattro anni fa non vi erano divisioni e anche la linea politica sembra molto diversa. Oggi il M5S appare un partito istituzionale meno in grado di attuare un cambiamento rispetto al 2018 e gli sarà molto difficile mantenere anche l'attuale 13%".

Mesi fa circolavano dei sondaggi che attribuivano percentuali superiori al 20% a un M5s guidato dall'ex premier. Secondo lei, perché l'effetto Conte non c'è stato?

De Masi: "Era il periodo in cui Conte aveva appena lasciato la presidenza del Consiglio e aveva ancora un ottimo consenso, ma è stato ostacolato da Davide Casaleggio che non voleva dargli i nominativi degli iscritti. Ci sono voluti 7 mesi perché Conte diventasse leader e, ormai, non aveva più quel tesoretto di voti che aveva a febbraio del 2021".

Buttaroni: "Anche se io non avevo segnalato un incremento così significativo, Conte mesi fa godeva sicuramente di un'ampia popolarità e fiducia nell'opinione pubblica. Fiducia che è andata via via scemando. Il problema è che spesso non si tiene conto del fatto che quel consenso possa non essere solubile con il consenso della base elettorale che oggi è ben diversa da quella del 2018. All'epoca l'elettorato grillino era composto da persone che nel M5S cercavano un riscatto alla propria condizione sociale ed economica. Il M5S del 2021 ha cambiato la propria base elettorale e spesso risulta in conflitto con quella presente. I Cinquestelle, alle amministrative, hanno perso voti proprio nelle periferie. Conte è stato un bravo mediatore come premier però questa capacità di mediazione si scontra con la base elettorale storica del M5S che non accetta mediazioni".

Cosa pensa di Luigi Di Maio e di Giuseppe Conte?

De Masi: "Sono due fuoriclasse, gli unici due uomini politici nuovi usciti fuori negli ultimi 10 anni. Tutti gli altri, c'erano già. Di Maio è una personalità molto interessante per un sociologo come me perché a 26 anni era vicepresidente della Camera, ruolo che ha svolto in maniera inappuntabile. Poi ha portato il suo partito dal 23 al 33% alle Politiche del 2018, poi è stato vicepremier, capo del Movimento e ministro degli Esteri. Tutto questo a soli 35 anni. Tutto questo è straordinario se si pensa che io, all'univerisità ho vari allievi che, a 35 anni, non si sono ancora laureati. Conte, a sua volta, ha fatto un'ottima carriera universitaria e un'ottima carriera da avvocato. Poi si è innamorato della politica, è riuscito a fare per due volte il presidente del Consiglio con compagini completamente diverse e, a mio avviso, ha affrontato bene la pandemia".

Buttaroni: "Sono due leader che hanno entrambi delle qualità, ma sono l'uno l'opposto dell'altro ed è difficile che trovino un punto d'incontro. Hanno competenze e storie diverse. Di Maio ha un'indubbia capacità oratoria e ha le radici nella parte dell'elettorato del 2018 che ha così ben rappresentato come difensore degli ultimi e degli sconfitti. Conte, invece, è una persona molto colta, cresciuta in ambienti d'elitè. I difetti dell'uno e dell'altro si compensano e non sono due facce della stessa medaglia, ma proprio due medaglie diverse. Si rivolgono a pubblici diversi".

Tra i due chi avrà la meglio?

De Masi: "Conte ha 57 anni, Di Maio 35 e, quindi, penso che nel M5S ci sia spazio per entrambi. Se fossi in Di Maio, io sarei molto alleato di Conte. Insieme potrebbero essere una forza. Separati, invece, si sottraggono forza a vicenda".

Buttaroni: "Di Maio, dentro il M5S, ha più capacità di resistenza perché Conte, pur essendo stato eletto da un'ampia maggioranza, è sempre stato vissuto come un leader venuto da fuori tant'è vero che Di Maio è più forte tra gli attivisti e tra i parlamentari. Di Maio, dunque, sembra destinato a vincere questa sfida. Chiunque vinca, credo che difficilmente lo sconfitto rimarrà nel Movimento". 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono

Il ruolo della giustizia. Il grande equivoco sulla sentenza anti Conte e il canone dell’onestà grillina. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 10 Febbraio 2022.

Portare una persona a giudizio non è uno sgarbo mafioso, ma una scelta che ogni cittadino può fare se ritiene che il suo diritto sia stato violato. Per questo motivo il tribunale di Napoli ha fatto bene a risolvere civilmente la controversia sullo statuto del Movimento 5 stelle che non poteva essere decisa da un talk show.

C’è un malinteso – lo definisco sofficemente in questo modo – a proposito della presunta interferenza giudiziaria nei pasticci statutari e deliberativi del Movimento 5 Stelle affidato alle cure dell’avvocato professor Giuseppe Conte. 

Dal complesso garantista – lo definisco vagamente in questo modo – viene  la denuncia secondo cui quel procedimento civile, instaurato da pregressi affiliati a quel movimento, sarebbe appunto lo strumento di una indebita intromissione della magistratura nella politica (categoria sociologica, o per meglio dire da talk, che ormai sta a partiti come Chigi sta a governo). 

E il malinteso non è per il fatto che in realtà non si tratta di intromissione, ma per il fatto che essa non è in nessun modo indebita. Salvo credere che la legalità statutaria e deliberativa di un movimento politico sia presidiata dallo Spirito Santo, o dal canone dell’Onestà amministrato senza appello dal legale rappresentante pro tempore, chi partecipi alla vita di quella realtà associativa e ritenga violata quella legalità dove va a lamentarsene e a chiedere che sia ripristinato il diritto: a Telecinquestelle aka la7? E a chi rimette la decisione: a Marco Travaglio?

Gioca sicuramente, a determinare questo fraintendimento, il caso di diverse iniziative giudiziarie – queste sì indebitamente interferenti – con cui la magistratura pretende di monitorare, intralciandolo, il corso politico delle associazioni partitiche, frugando nelle tasche e nella corrispondenza di chi le rappresenta: una pratica inaugurata dal manipolo meneghino che intimava a chi avesse scheletri negli armadi di non candidarsi, e continuata bellamente dagli epigoni della magistratura televisiva che davano istruzioni sui criteri di composizione delle liste elettorali. 

Ma tutto questo non c’entra proprio nulla con il ricorso di un privato cittadino che – fondatamente o no, questo è un altro discorso – assuma che nel proprio partito si siano registrate violazioni meritevoli di sanzione. 

Ma non basta. Perché a dar corpo a quel fraintendimento c’è poi il pregiudizio – frutto di una cultura da clan di cui probabilmente è inconsapevole proprio chi la esprime – secondo cui portare qualcuno in tribunale equivale a una specie di sgarbo mafioso, e che meglio, più leale, sarebbe la rissa in sezione o il match nella bolgia dei talk sopraddetti, gli equivalenti del duello rusticano in luogo dell’aula di giustizia: dove i gentiluomini non vanno. 

Magari non sempre e magari, come ripeto, inconsapevolmente, ma c’è quello, a muovere la presunta obiezione garantista e anti-giustizialista cui stiamo assistendo: c’è l’idea che solo gli spioni, solo gli infami chiamano la gente per bene in cibbunale. 

Si tratta invece della sede in cui risolvere civilmente una controversia facendo appello a un diritto che – a torto o a ragione – si ritiene violato. Non si tratta di giudici che fanno politica. Si tratta di cittadini che chiedono – a costo di apparire noioso lo ripeto ancora: che chiedono a torto o a ragione – che quell’associazione politica rispetti la propria legalità, come il Tizio del piano di sotto chiede all’amministratore del condominio di far rispettare il regolamento o come un creditore reclama quel che gli è dovuto.

L'attrazione dei grillini per le carte bollate. Conte, l’azzeccagarbugli colpito dai garbugli…Roberto Cota su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.

I Cinque Stelle hanno sempre avuto una passione smodata per le carte bollate ed in generale per i tribunali. Secondo la linea più ortodossa, in ambito penale, basta l’esistenza di un’indagine per fermare tutto, l’indagato si deve dimettere. Non sempre tutto però va secondo i piani: le inchieste hanno cominciato a riguardare anche loro esponenti (la ex Sindaca di Torino Appendino, ad esempio, ha riportato in primo grado due condanne). Inoltre, una icona del giustizialismo come Piercamillo Davigo si trova sotto processo e nubi minacciose si avvicinano al fondatore del movimento Beppe Grillo.

L’ attrazione per le carte bollate ha influito anche nella scelta del leader . Giuseppe Conte era sconosciuto ai più, ma era “professore e avvocato”. Tanto che subito si è autodefinito “l’ avvocato del popolo”. Anche su questo, qualche contraddizione è emersa. Ciò in quanto Conte come avvocato non aveva certo clienti del popolo, ma staccava parcelle per consulenze da centinaia di migliaia di euro al colpo. Il professor Conte potrebbe dire che, in fondo, lui non è l’ultimo arrivato e per questo gruppi importanti lo cercano e (lautamente) lo pagano. Può essere, però, non potrà evitare di attirarsi l’invidia di molti suoi colleghi forse più “ avvocati del popolo” che non hanno la capacità di essere così ben retribuiti per un’attività consulenziale. Invidia, appunto, perché Conte avrà certamente speso molto impegno e molte ore di lavoro.

Tutto questo, per dire che le carte bollate non sempre si sono rivelate utili alla politica dei Cinque Stelle. Dell’altro giorno, la notizia che il Tribunale di Napoli ha sospeso la delibera con cui lo scorso agosto il movimento aveva indetto l’elezione di Giuseppe Conte. Il contrappasso è compiuto, Il capo è stato disarcionato proprio dalle carte bollate. I detrattori potrebbero dire che l’azzeccagarbugli si è incartato in un garbuglio. Agli amanti del genere, al di là delle posizioni politiche, va detto che è assurdo che la politica venga decisa nei tribunali. Questo vale sia in sede penale che civile o amministrativa. La leadership di Conte ( esistente o meno) è un fatto politico, non è questione da risolvere in un’aula di giustizia. Roberto Cota

Accuse a Grillo, siluro a Conte: due colpi che travolgono il patto fra toghe e politica. Da Tangentopoli in poi in tanti hanno teorizzato il primato del controllo giudiziario sui partiti. Ma le indagini su Grillo e le vicende di Conte potrebbero aver chiuso un’epoca. Paolo Delgado su Il Dubbio il 10 febbraio 2022.

Ancora pochi giorni e sarà il giorno della trentesima candelina. Il 17 febbraio 1992 finì in manette Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Fu colto in flagrante mentre intascava 7 milioni di lire, metà della tangente pattuita, il 10 per cento di un appalto da 140 milioni. I giornali diedero alla notizia un certo risalto. Comparve su molte prime pagine mai però in apertura. Non era la prima volta che un’indagine sfiorava o toccava il Psi di Bettino Craxi, ma se nessuno s’immaginava uno tsunami epocale molti profetizzavano guai per la Milano da bere dell’ex sindaco socialista Paolo Pillitteri. Craxi cercò di minimizzare: «Mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito».

Il “mariuolo” si sentì abbandonato, vuotò il sacco, il sasso diventò frana, travolse la prima Repubblica, spazzò via un’intera classe politica, passò come lava ribollente su partiti che si credevano intoccabili, rivelò anche la fragilità di un edificio le cui fondamenta erano marcite senza che gli abitanti dei piani alti ne avessero il minimo sentore. La catastrofe fu accolta dai più, a partire all’intero apparato dei media, con entusiasmo, speranza, spesso partecipazione attiva. Sulle rovine del palazzo crollato si andava a costruire un nuovo edificio: moderno, trasparente, dinamico, efficiente. Poco più di un anno dopo quell’arresto, il referendum sulla legge elettorale caricatosi di valenze molto più vaste del suo già fondamentale merito, diede il colpo di grazia alla prima Repubblica.

Le cose, si sa, non sono andate proprio come auspicato. Soprattutto tra i politici e i giornalisti le battute sulle meraviglie di quella Repubblica già dipinta come sentina di corruzione sono da un bel pezzo luogo comune, pane quotidiano, ovvietà condivise. I giudizi caustici sul presente e sul passato prossimo sembrano dire che la nuova magione si è rivelata peggiore di quella travolta dalla tempesta di tangentopoli. Però non è così e il problema è diverso. Su quelle rovine non è stato costruito nessun nuovo Palazzo: piuttosto tendopoli e casette prefabbricate destinate a resistere giusto un paio di stagioni. La domanda è dunque perché in una trentina d’anni la politica è rimasta in mezzo al guado, senza mai ricostruire davvero ma limitandosi a soluzioni provvisorie.

Una delle ragioni principali, pur se certamente non l’unica, è nel vizio originario costituito da un terremoto politico quasi senza precedenti provocato in ampia misura da un’inchiesta giudiziaria. Forse, anzi probabilmente, la prima Repubblica era destinata a concludere comunque la propria esperienza. L’avanzata che sembrava irrefrenabile della Lega a nord, il referendum che avrebbe comunque sferrato un colpo fatale a quel sistema erano segnali chiari in quella direzione. Di fatto però fu un’azione giudiziaria a mettere traumaticamente fine alla prima Repubblica e da allora la politica non ha mai smesso di essere considerata, e di considerarsi, una specie di sorvegliata speciale, paralizzata dall’ipoteca del controllo della magistratura.

È possibile che quella lunga fase si avvii al tramonto e da questo punto di vista la parabola del M5S è molto eloquente. Nel Movimento erano confluite disordinatamente varie spinte ma il terreno unificante era stato proprio il primato del controllo giudiziario sulla politica e la riduzione della politica a questione di legalità e onestà. Sin dall’approdo in Parlamento, «la scatoletta di tonno», sono stati evidenti sia il feticismo dei regolamenti che i guasti che questo induceva. La vicenda della leadership di Conte revocata dalla magistratura, come se la politica si potesse ridurre a una lite di condominio, segna il fallimento di quella visione perché porta alle estreme conseguenze uno smarrimento del Movimento nel labirinto costituito dai suoi stessi feticci, coincidenti però con la fede illimitata del primato del potere giudiziario su tutti gli altri.

L’indagine su Grillo da un lato, la scelta dei 5S di chiudere gli occhi sulla valanga di truffe pur di difendere il Superbonus dall’altro, segnano probabilmente la fine di un’epoca. Non solo per quanto riguarda i 5S ma per l’intera visione della politica della quale i 5S sono stati massima e più esplicita espressione e che ha contribuito più di qualsiasi altro elemento a tenere il Paese immobile per tre decenni.

Come può essere chiamata questa azione? Persecuzione. La prepotenza della magistratura: in due giorni impallinati Renzi e Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

Non è che noi abbiamo l’ossessione della magistratura, e perciò ogni giorno finiamo col parlare della magistratura, e lamentarci per la sua invadenza. È che l’invadenza della magistratura ha superato ogni possibile limite di ragionevolezza. Prendete gli ultimi due giorni. Cosa è successo in politica negli ultimi due giorni? Solo due cose. Che lunedì la magistratura ha impallinato l’ex premier Conte – eliminandolo dalla scena – e mercoledì ha impallinato l’ex ex premier Renzi – che però è un po’ più difficile da eliminare-.

Non li ha impallinati perché essi abbiano commesso qualche reato o qualche infamia, ma semplicemente perché alla magistratura non sono piaciute alcune iniziative politiche realizzate dai due ex premier. Non è piaciuto il modo nel quale i 5 Stelle hanno modificato il proprio statuto e hanno eletto Conte loro capo, e non è piaciuta la Fondazione messa in piedi da Matteo Renzi, e anzi hanno stabilito che questa fondazione non era una fondazione ma era un partito politico del quale Renzi era il capo e quindi era finanziata illegalmente. Perché illegalmente? Perché alcune leggi molto strampalate, approvate da geniali partiti suicidi (praticamente tutti), hanno recentemente stabilito che i partiti non devono né essere finanziati dallo Stato né dai privati, cioè devono morire. Qualunque associazione di qualsivoglia genere può essere finanziata sia dai privati che dallo Stato, ma i partiti no, probabilmente perché sono considerati pericolosi. E quindi chi viene beccato a farsi finanziare o a finanziare un partito, zac scatta l’incriminazione. Spiego meglio.

La magistratura ha stabilito che tocca a lei (a lei magistratura, dico) decidere come si fanno gli statuti dei partiti, e non agli iscritti ai partiti. E che spetta sempre a lei stabilire chi è un partito e chi no. Se per esempio io fondo una società di pasticceri con lo scopo di far pressione per detassare le uova, e poi mi faccio finanziare dagli allevatori di polli, e un magistrato decide che il mio non è un libero sindacato o qualcosa del genere, ma è il partito dei pollari, zacchete mi incriminano e mi sequestrano i soldi, le uova e i bignè. Forse anche i polli. La storia di oggi, quella di Firenze, è clamorosa. Credo che nessuna persona ragionevole possa ignorare che si tratta non di una iniziativa giudiziaria ma di una autentica persecuzione contro Matteo Renzi e i suoi. Le indagini, oltretutto, sono state realizzate in spregio delle leggi. Cioè violando le leggi e i diritti dell’indagato. Possiamo anche dire che in tutta questa vicenda un reato c’è, ed è quello commesso dai sostituti procuratori che hanno deciso di provare a eliminare Renzi dalla scena politica. Con l’avallo del loro Procuratore, che peraltro non si capisce bene neppure perché sia ancora Procuratore di Firenze, visto che il Csm ha accertato che si è reso responsabile di un reato piuttosto grave, anche se non perseguibile penalmente perché non denunciato entro un anno dalla vittima (che però lo ha confermato).

Vedete bene che non è una ossessione, la nostra. È solo il timore che l’Italia, giorno dopo giorni, scivoli in un catino dove vigono le regole di una società autoritaria, una sorta di repubblica giudiziaria dove tutti i poteri democratici sono sottomessi a una piccola oligarchia composta da un certo numero di Procuratori, e sostituti e Gip, riuniti in correnti, o forse anche il Logge segrete, e ai quali è riconosciuto il potere assoluto sulla vita dei sudditi, cioè quella forma di potere che in Europa era stato cancellato ai tempi del passaggio alle monarchie costituzionali e dell’avanzare timido dell’illuminismo. La vicenda Renzi mi pare limpida. Non c’è molto da spiegare. Il copione è sempre lo stesso: quello della persecuzione politica che si realizza anche grazie al sostegno legislativo fornito dalla stessa politica la quale – per ragioni in parte spiegabili, e riconducibili fondamentalmente alla vigliaccheria, e in parte inspiegabili – lo ha fatto sempre in modo sereno e ossequioso.

L’esempio più chiaro e conosciuto del meccanismo della persecuzione è quello che dura da quasi trent’anni nei confronti di Berlusconi. Ma ce ne sono tanti altri. Butto lì un po’ di nomi alla rinfusa: Bassolino, Mannino, Mancino, Lombardo, Penati, Del Turco, il generale Mori, Nunzia De Girolamo, Federica Guidi… E se vogliamo andare indietro negli anni, c’è un nome più pesante di tutti, perché è quello di uno statista socialista che fu perseguitato per colpire le idee che incarnava: appunto l’essere statista e l’essere socialista. Forse non c’è bisogno che io scriva il nome, però lo scrivo: Craxi. Anche perché penso che soprattutto noi di sinistra, anche i più garantisti tra noi, siamo un po’ in debito con Craxi, quantomeno per non averlo difeso abbastanza e per aver assistito piuttosto indifferenti all’accanimento col quale fu portato alla morte. È stato uno dei capitoli più vergognosi della politica italiana.

Dicevo di Renzi, occhei, tutto prevedibile. Ma Conte? Come è potuto succedere che la magistratura abbia deciso di eliminare dalla scena politica il capo del movimento, anzi del partito, che è stato la clava e la baionetta e il cannone e la mitragliatrice che hanno sostenuto, chiesto, ottenuto e difeso la sua avanzata (l’avanzata della magistratura, dico)? Ecco, questo è quasi inspiegabile. Ha lasciato tutti attoniti. E vero che con ogni probabilità Conte sarebbe comunque sparito dalla ribalta senza bisogno della magistratura, per inconsistenza politica evidente e ormai a tutti nota. Però colpisce il fatto che dei magistrati abbiano voluto mettere la firma sull’atto di scomparsa. Il povero Travaglio è rimasto senza parole. L’altro giorno sulla “7”, con Lilli Gruber, balbettava a braccia conserte. Diceva: “ma guardate che se si vota altre cento volte Conte sarà sempre rieletto, e invece del 92 per cento prenderà il 99”.

Travaglio era fiero del successo del suo protetto: il 92 per cento! Dunque amatissimo, amatissimo davvero? Non diceva niente Travaglio su come era fatta la scheda per votare Conte. Sulla scheda c’era solo il suo nome. C’era scritto: volete voi Conte come vostro capo? Poi c’era un Si o un No da metterci la croce. Diciamo pure che un sistema di voto come questo non ha precedenti. Però resta il fatto che ogni partito ha il diritto di scegliersi il sistema di voto che vuole. Almeno, era così prima che fosse instaurata la repubblica giudiziaria. Anzi no. C’è un precedente: le elezioni politiche del 1938. Allora sulla scheda c’era un elenco di nomi, ed erano i nomi da mandare al Parlamento. Una lista unica. Non si poteva scegliere Chiedeva la scheda: Vi va bene questa lista Si o No? Vinsero i Sì col 99,85%. Pazzesco. Un risultato fantastico, migliore, addirittura, di quello di Conte…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il caos 5 stelle. Grillini vittime dei propri pasticci, nessuna ingerenza dei Pm. Salvatore Curreri su Il Riformista il 10 Febbraio 2022. 

Le reazioni suscitate dalla ordinanza del Tribunale di Napoli che, a seguito dell’illegittima esclusione dall’assemblea degli iscritti al M5S da meno di sei mesi, ha sospeso le modifiche dello Statuto approvate nell’agosto scorso e la conseguente nomina di Giuseppe Conte a suo Presidente, meritano qualche puntualizzazione anche ai fini di una riflessione più generale sull’annoso tema sulla democrazia all’interno degli attuali partiti politici.

In primo luogo si lamenta la mancata attuazione dell’art. 49 Cost. sui partiti politici quando invece esso non contiene un espresso riferimento né ad una legge in tal senso né alla natura democratica della loro organizzazione interna. Quella a favore dell’autonomia dei partiti fu una precisa scelta dell’Assemblea costituente, la quale respinse le proposte per un riferimento esplicito alla democrazia nei partiti per il timore, specie del Partito comunista, che il Governo avrebbe potuto in tal modo ingerirsi nei loro affari interni fino al punto da metterli fuori legge. E del resto, quando la Costituzione ha voluto imporre la democrazia all’interno di una associazione, l’ha fatto espressamente, imponendo ai sindacati di avere “un ordinamento interno a base democratica” per potersi registrare (art. 39 Cost. rimasto inattuato a causa degli stessi timori da parte principalmente della CGIL). Non c’è, dunque, alcuna inadempienza costituzionale da parte del legislatore.

Peraltro, è parimenti inesatto affermare che oggi non esista una legge sui partiti politici. In occasione della riforma del finanziamento pubblico dei partiti (2012), fu stabilito che vi potessero accedere solo i partiti dotati di uno statuto che contenesse taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori, soggetti alla verifica di una apposita Commissione di garanzia ai fini della loro iscrizione nel Registro nazionale dei partiti. Si tratta, invero, di contenuti minimi e esteriori (composizione e attribuzioni degli organi interni, cadenza delle assemblee, diritti e doveri degli iscritti, modalità di selezione delle candidature, ecc.), privi di specifiche indicazioni sull’effettivo funzionamento democratico dei partiti. Una disciplina dunque basilare, molto soft e per questo poco incisiva, come confermano gli statuti finora adottati, improntata al massimo rispetto dell’autonomia organizzativa e procedurale dei partiti.

Il M5S si è sempre potuto sottrarre al rispetto di tali pur minimi contenuti democratici interni imposti per legge poiché ha finora rinunciato ad accedere al finanziamento pubblico indiretto tramite il c.d. due per mille e le donazioni fiscalmente agevolate (salvo comunque continuare a fruire dei contributi erogati dalle camere ai gruppi parlamentari per le loro attività latamente politiche). Per partecipare alle elezioni politiche il M5S non deve dunque dotarsi di uno statuto conforme alla legge (come in modo più efficace prevedeva la precedente legge elettorale, sul punto improvvidamente abrogata dalla attuale) ma solo presentare una dichiarazione minimale che indichi il legale rappresentate del partito e la composizione e le relative attribuzioni dei suoi organi.

La recente decisione di accedere al finanziamento pubblico (sembra però non destinata a produrre effetti per il corrente anno) impone dunque al M5S di affrontare una volta e per tutte il tema della sua organizzazione interna. Una struttura particolarmente complessa, in cui la distribuzione dei poteri tra Garante, Presidente, Comitato direttivo e Comitato di garanzia determina un precario equilibrio e che esprime l’irrisolta, e forse irrisolvibile, esigenza di conciliare l’anima assembleare/movimentista dell’“uno vale uno” e l’istanza fortemente dirigista che ne caratterizza i vertici. Il risultato è tutta una serie di decisioni calate dall’alto che la base degli iscritti è chiamata solo a ratificare, pronunciandosi su quesiti formulati talora in modo volutamente tendenzioso e con percentuali di partecipazione al voto quasi sempre risibili rispetto sia al numero degli aventi diritto sia, soprattutto, degli (ormai in gran parte ex) elettori.

Che questa ossessiva, leguleia pretesa di disciplinare tutto e tutti si sia tradotta in regole incerte, che lo stesso M5S non ha potuto o voluto rispettare, “incartandosi”, lo dimostra la lunga sequenza di sentenze che l’hanno visto soccombere, grazie alla asfissiante “marcatura a uomo” dell’ormai mitico avv. Borré e di cui l’ordinanza del Tribunale di Napoli costituisce solo l’ultimo anello. Sotto questo profilo, i timori espressi da taluni commentatori a seguito di tali sentenze circa un’eccessiva ingerenza dei giudici sull’attività interna ai partiti non hanno ragione d’essere. Premesso che il rispetto delle regole interne, poste a garanzia di tutti, e specialmente delle minoranze, non può essere interamente affidato alla lotta politica dove prevale la forza dei numeri e non la forza del diritto, i giudici si sono potuti pronunciare grazie ai varchi loro offerti da regole organizzative e procedurali non ben coordinate tra loro e talora volutamente oggetto di forzature, come nel caso in specie della mancata approvazione del regolamento per escludere dal voto gli iscritti da meno di sei mesi, frutto della diffidenza da sempre nutrita verso chi avrebbe potuto “inquinare” il risultato elettorale atteso.

In tutte queste occasioni, il giudice si è sempre potuto pronunciare non tanto invadendo la legittima autonomia decisionale dei partiti in nome di un’astratta assenza di loro democraticità interna, quanto piuttosto in forza della difformità dei provvedimenti impugnati rispetto alle regole che lo stesso M5S si era dato. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso. L’incidenza dei giudici non dipende quindi dalla natura legislativa o statutaria delle regole interne quanto dalla loro chiarezza, coerenza e, non ultimo, dalla capacità di rispettarle, anche quando questo intralci i piani prestabiliti, senza ricorrere a inutili quanto – alla resa dei conti – controproducenti forzature procedurali.

Quello della democrazia interna ai partiti politici è certamente uno dei tasselli fondamentali – insieme alla legge elettorale, alle norme regolamentari sui gruppi parlamentari ed alla riforma del finanziamento pubblico – se si vuole rimediare alla attuale debolezza dei partiti, rendendo le loro necessarie leadership criticabili e contendibili, anche attraverso i canali digitali.

L’importante è che, nel superare l’attuale disciplina legislativa – chiaramente inadeguata nel considerare i partiti mere associazioni non riconosciute, ignorandone il fondamentale ruolo di partecipazione democratica – si trovi un punto di equilibrio tra la tutela dei diritti dei singoli e l’autonomia del partito, così da evitare il rischio di “giuridicizzare” eccessivamente dispute per loro natura intrise di politicità. In tal senso, quello del M5S è esempio da non seguire. Salvatore Curreri

Lo scontro fratricida. Di Battista, sponda a Conte e attacco a Di Maio: “Da bibitaro a sommelier, è un uomo di potere”. Redazione su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

C’eravamo tanto amati. Il rapporto tra Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio, ex compagni di ‘partito’ nel Movimento 5 Stelle fino alla fuoriuscita del primo, il ‘Che Guevara di Roma nord’, è ormai ridotto ai minimi termini.

Una ulteriore riprova è arrivata venerdì sera dalle parole di Dibba ospite di ‘Accordi&Disaccordi’, il talk politico del Fatto Quotidiano condotto da Luca Sommi e Andrea Scanzi su Nove. 

Nella lotta tra il titolare della Farnesina e Giuseppe Conte, che si è appena visto sfilare la leadership del Movimento dopo una clamorosa ordinanza del Tribunale di Napoli a seguito del ricorso presentato da alcuni attivisti contro la modifica dello Statuto e della conseguente ‘incoronazione’ dell’avvocato di Volturara Appula a presidente pentastellato, Di Battista pur non prendendo apertamente posizione per quest’ultimo usa parole al vetriolo per Di Maio.

Così Dibba azzarda un paragone ‘tremendo’ per Di Maio per quelle dichiarazioni rilasciate alla stampa dopo la rielezione di Mattarella al Quirinale, in cui il ministro degli Esteri parlava di “leadership che hanno fallito” e della necessità di “aprire una riflessione politica interna”. Per l’ex pasdaran grillino quelle parole “erano indirizzate a Conte, con tutta quella claque dietro. Mi sembravano, ora si incazzeranno, ma non me ne frega niente, mi sembravano i forzisti che occuparono il tribunale di Milano, per protestare”. Un riferimento alla giornata, dell’11 marzo 2013 in cui i parlamentari dell’allora Pdl fecero un’azione dimostrativa durante una delle udienze del processo Ruby sfilando davanti al tribunale di Milano.

Di Maio che ora “è diventato un uomo di establishment, di potere. È cambiato, oggi è un uomo di sistema, pensa alla prosecuzione della sua carriera politica nonostante avesse giurato più volte ‘due mandati e poi a casa, torno alla mia vita’”, lo etichetta Di Battista.

“Un tempo dai giornali di sistema come Repubblica veniva sbeffeggiato”, ricorda Di Battista, “veniva considerato il ‘bibitaro’ ora è Luigi il sommelier…”.

Secondo l’ex parlamentare, che da tempo viene dato in predicato di rientrare nel Movimento in caso di definitiva rottura con l’ala fedele al ministro degli Esteri, quest’ultimo “pensa a collocare sé stesso, ma anche il Movimento perché io dubito voglia lasciarlo. Secondo me – aggiunge Di Battista – vorrebbe spostarlo soltanto il più possibile al centro. Cosa che ha sempre fatto dicendo ‘siamo liberali, moderati’, chiedendo scusa per ogni cosa“.

Poi, nascosti, da complimenti, altri affondi all’ex amico: “È scaltro, è preparato, è un grande lavoratore e una persona onesta. Se si è innamorato della politica o della poltrona? Nel caso di Luigi non c’è molta differenza in questo momento“, prosegue Di Battista, che pure confessa di sentirsi con Di Maio “ogni tanto”.

Tommaso Labate per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.

«Amiche mai», sintetizzano quelli che giurano di conoscerle bene entrambe, le due protagoniste «local» del Movimento Cinque Stelle dei bei tempi andati, rimando nostalgico all'epoca gloriosa in cui il successo nelle urne nazionali veniva accompagnato dalle clamorose conquiste delle Capitali d'Italia del passato remoto e del presente, Torino e Roma. 

E adesso che «l'opzione donna» per la leadership si affaccia tra le ipotesi allo studio di Beppe Grillo per uscire dal pantano di carte bollate che ha portato alla destituzione di Giuseppe Conte, tutti tornano a guardare verso di loro. Loro sono Virginia Raggi e Chiara Appendino, le «amiche mai», due rette parallele che parevano destinate a non incontrarsi. Roma di qua, Torino di là; lo studio Previti dove si è fatta le ossa la prima da una parte, la Juventus, dov' era professionalmente cresciuta la seconda, dall'altra; gli studi di Diritto della prima, la laurea in Economia internazionale e management della seconda.

Gelida e diffidente l'una, decisamente più empatica l'altra, Raggi e Appendino sono state divise da un destino che ha sorpreso tutti i loro compagni di strada del Movimento e forse, nel bene e nel male, anche loro stesse. Nell'efficace sintesi di un grosso calibro del gotha grillino, «all'improvviso è successo quello che nessuno di noi aveva messo in preventivo: abbiamo pensato per anni che la poltrona da primo cittadino avrebbe portato Virginia a una condanna in primo grado e invece è finita che la condanna è arrivata per Chiara». 

Quella condanna in primo grado per falso in atto pubblico che aveva spinto l'allora sindaca di Torino a non ricandidarsi per un secondo mandato; cosa che invece Raggi ha fatto a Roma, arrivando addirittura fuori dal podio. Il 25 ottobre scorso, poco prima delle elezioni amministrative, eccole insieme in uno dei rari momenti trascorsi fianco a fianco, corredati dall'immancabile foto pubblicata sui social. «Credo che quello con Virginia sia stato il primo pranzo senza guardare l'orologio», annotava Appendino. «Un'occasione per confrontarci e parlare anche di tanti progetti per il nostro futuro», aggiungeva Raggi. Le condanne in primo grado della prima, al momento, sembrano sbarrarle la strada della possibile leadership pentastellata a cui ambisce la seconda, decisamente più popolare nel popolo del M5S che nel Palazzo.

Nella guerra di nervi contro Giuseppe Conte, iniziata dopo lo scontro sulla candidatura al Quirinale di Elisabetta Belloni, Luigi Di Maio le ha coinvolte entrambe; Raggi incontrandola alla Farnesina, Appendino sentendola per telefono e dandone notizia alla stampa. L'ex sindaca di Roma ha la stima di Beppe Grillo, un legame antico con Alessandro Di Battista (che oggi è fuori dal Movimento), un rapporto stretto con alcuni calibri del Movimento che non vivono a Roma (l'europarlamentare Dino Giarrusso era stato invitato a salire sul palco nel comizio finale della sua campagna elettorale per le Comunali di Roma, alla Bocca della Verità); l'ex prima cittadina di Torino, che sta alla finestra, ha una rete di rapporti interni al Cinque Stelle ugualmente consolidata e la stima di Giuseppe Conte, che l'ha voluta nella segreteria nazionale poi decaduta appresso alla sua leadership.

Entrambe, come base d'asta, sognavano e sognano di proseguire in Parlamento la carriera istituzionale interrotta nell'autunno scorso (anche se Raggi è consigliera comunale di Roma). La storia dei prossimi giorni potrebbe prevedere, chissà, un salto in avanti. L'«opzione donna» è una formula che passa di bocca in bocca. Anche se l'uscita dal tunnel non s' intravede. Neanche all'orizzonte.

Mario Ajello per "il Messaggero" l'11 febbraio 2022.

«Ah, Virginia, ce ne fossero di avvocati bravi come te...». Grillo dice così a Virginia. Con chiara allusione a Conte che pur essendo giurista ha sbagliato a fare lo statuto inguaiando se stesso e tutti gli altri? Quel che è certo è che, nella sua sortita a Roma, il Fondatore si è rivolto alle doti politiche - lui gliene riconosce tante - e alle qualità professionali della Raggi. Beppe la chiama al telefono mentre lui sta con gli altri big (ma lei no, perché sprovvista di green pass) all'Hotel Parco dei Principi per salvare il salvabile, poi eccola con Grillo e Conte nello studio del notaio Luca Amato che sta a via Po.

Non fidandosi tecnicamente di Giuseppi, Grillo si è affidato a Virginia. A lei ha chiesto più volte spiegazioni e aiuto: «Vedi, cara, qui mi sembrano tutti impazziti...». Ha bisogno di una donna Grillo, tra tante comari maschi che litigano sul ballatoio, e la donna affidabile per lui non da oggi è Virginia: «Una tosta che sa resistere agli attacchi e non perde mai lucidità». No, ora Beppe non può scalzare Conte a favore della sua pupilla. Un Piano B, o Piano V, che a Di Maio non sarebbe dispiaciuto affatto. Non è questa l'aria, e tuttavia le donne del movimento - Raggi ma anche Chiara Appendino, ex sindaca di Torino - sono quelle su cui Grillo ripone molte speranze. Le giudica, tra tutte le sue creature, le migliori, sicuramente le più capaci a coniugare il messaggio grillino delle origini con una duttilità politica tipica di chi, nel bene o nel male, si è trovata a gestire la Capitale e una delle città più importanti del Nord.

LE MOSSE Appena Beppe vide che Conte annaspava nella guida del movimento, già da dopo l'estate aveva pensato: Raggi e Appendino come vice, ecco l'unico modo per rilanciarci. Non se ne fece nulla, e Grillo ancora si morde le mani. Ora la carta Chiara sarebbe una carta di pacificazione. Nella nuova leadership, quale che ne sarà la forma, la Appendino è destinata ad esserci. Perché è un outsider, non è mai stata trascinata nella guerra civile tra stellati e ha fatto la mossa abile, quando pareva che Conte potesse diventare il padrone del movimento, di non farsi cooptare in alcun modo da lui. Che il suo mentore (ossia Grillo) giudica «senza visione politica né capacità organizzative».

Rispetto alla Appendino (su cui però pendono due condanne), il peso della Raggi è superiore. Cattivi rapporti con Conte (non gli ha mai perdonato il blando appoggio nella corsa al bis come sindaca e la sparizione al momento della sconfitta) e ottimi con Grillo (la chiama «la nostra gran guerriera»), con Di Maio e anche con Dibba. E' un trait d'union tra il grillismo delle origini e il post-contismo Virginia. «Prima o poi si arriverà a lei, perché Conte è cotto», assicurano i dimaiani. Non è detto che sbaglino.

Claudio Bozza per corriere.it l'11 febbraio 2022.

«Va tutto bene. Mi usano un po’ come condom per la protezione del Movimento. Devo dire che inizia bene e finirà ancora meglio». Questa la battuta con cui Beppe Grillo, uscendo dall’hotel Parco dei Principi a Roma, riassume il senso della raffica d’incontri avuti con tutti i big del suo partito, la cui leadership è stata di fatto destituita dalla sentenza del tribunale di Napoli.

E il fondatore del Movimento, dopo le stilettate che gli aveva riservato negli ultimi giorni, torna ad a sostenere l’ex premier: «Io non ho mai messo in dubbio la leadership di Conte. Assolutamente non l’ho mai fatto. Non scherziamo». I due, giovedì sera, si erano abbracciati davanti alle telecamere uscendo dal ristorante ai Parioli dove avevano cenato.

La strategia scelta, adesso, potrebbe segnare per sempre la storia e la sopravvivenza dei Cinque stelle, così come sono oggi. Secondo quanto emerso al termine degli incontri con legali e il notaio di fiducia Luca Amato, il Movimento presenterà ricorso a Napoli contro la sospensiva stabilita dal tribunale. 

Fonti pentastellate fanno sapere come tutti i legali concordino sul fatto che le delibere approvate dall’assemblea degli iscritti sono valide alla luce del regolamento interno che fa data al 2018, per cui l’attesa è che la decisione dei giudici venga revocata tempestivamente.

Beppe Grillo era arrivato a Roma giovedì ed ha incontrato i vertici di M5s (oltre un’ora con Luigi di Maio) poi l’incontro sui nodi giuridici sollevati, infine la cena con Conte. Una giornata di attesa per gli eletti M5s e fatta di appostamenti per i giornalisti in cerca di scoprire il luogo scelto dal cofondatore del Movimento per i suoi colloqui.

Con i cronisti, Grillo ha scherzato: «Abbiamo fatto una riunione antibiotica per ripristinare il sistema immunitario di M5s. Quindi state tranquilli». 

Secondo chi, in punto di diritto, non condivide la strada legale che si vuol fare intraprendere, viene, fra l’altro, sottolineato che la revoca del provvedimento può essere richiesta solo su fatti sopravvenuti e non sulla base del regolamento «ritrovato», mentre resta rilevante anche il presupposto sul quale l’oradinanza è stata emessa: la mancanza del quorum sulle decisioni assunte attraverso la rete.

«Abbiamo avuto una riunione dove abbiamo analizzato tutti gli aspetti giuridici. Siamo fiduciosi, offrendo al tribunale un nuovo documento, che potrà essere riconosciuta la piena validità delle delibere assembleari», spiega Conte. E poi: «Noi la piattaforma ce la abbiamo», ha risposto l’ex premier a chi gli chiedeva se il M5s tornerà sulla piattaforma Rousseau.

Il caos in M5s? «Non sono solito commentare i problemi e i litigi altrui e spero che le loro fibrillazioni non incidano sul governo e non rallentino l’azione riformatrice», commenta invece il leader della Lega Matteo Salvini.

Sebastiano Messina per la Repubblica il 12 febbraio 2022.

«Mi usano come un condom per la protezione del Movimento». Tra le mille similitudini che aveva a disposizione, Beppe Grillo ha scelto quella che raffigura il M5S con un'immagine che neanche i suoi peggiori nemici si sono mai azzardati a usare. Il Grillo di una volta si sarebbe querelato da solo.

Mattia Feltri per la Stampa il 12 febbraio 2022.  

Beppe Grillo, che prometteva una rivoluzione stellare, la cancellazione dei partiti e delle leadership ovvero degli sfruttatori maledetti, realizzata attraverso la rete, strumento post-rousseauiano della democrazia diretta, con la conseguente abolizione dei parlamenti, i probi cittadini come costanti legislatori e detentori del potere per il bene del popolo, e tramite loro sarebbero state cancellate le abnormi ricchezze,

sconfitta la povertà, sbaragliata la disonestà, il mondo trasformato in un villaggio verde coi mulini a vento, una detonazione d'amore senza gas e petrolio, tutti a curarsi con erbe di campo coltivate da ex vampiri di Big Pharma, e aveva affidato questa rivoluzione, che in confronto Robespierre sembrava un impiegato dell'anagrafe, a un gruppo di senzatetto vagamente alfabetizzati, pressoché estratti a sorte e capaci - si è scoperto ieri - di scrivere una legge sul superbonus con un tale ingegno che i suddetti probi cittadini si sono rubati quattro miliardi di euro, di cui due e mezzo ormai irrecuperabili - due miliardi e mezzo di euro!

Che non basterebbero le tangenti di ottanta Psi per assommarli - ed è finito nottetempo con lapis, visiera e mezze maniche a cercare il comma da opporre a un tribunale di Napoli per tenere in piedi questa combriccola di titani, e soprattutto per salvarsi le tasche, dopo avere devastato di scemenze un Paese che quanto a scemenze se la cavava benissimo senza il suo definitivo contributo, ecco, Beppe Grillo ieri ha detto senza pentimenti e senza imbarazzi di sentirsi il condom dei cinque stelle. In quanto fondatore, la testa giusta al posto giusto.  

Giuseppe Conte, lo sfogo più duro contro Luigi Maio: "Sapeva, ma non ha fatto niente". Libero Quotidiano il 12 febbraio 2022

Il M5S si aggrappa a una norma interna del 2018 per mettere al riparo Giuseppe Conte. Si tratta dell'atto che ammette alle votazioni online solo gli iscritti con almeno 6 mesi di anzianità. All'interno del Moviento però rimane un clima di diffidenza: perché il regolamento salta fuori solo ora? Le congetture dei contiani si dirigono verso Luigi Di Maio, già accusato di avere remato contro nel match Quirinale. "Qui il tema non è politico, è solo giudiziario. Dispiace per chi in maniera subdola avrebbe forse voluto sfruttare questo momento per riaprire fronti politici interni", si è sfogato Conte. "Nelle chat M5S circola da ieri una mail che, sostengono i contiani, inguaierebbe il ministro degli Esteri", rivela Repubblica.

In una mail, datata 8 novembre 2018, Di Maio chiede al comitato di Crimi di ratificare un principio: che alle votazioni "possano prendere parte gli iscritti con più di 6 mesi di anzianità". Crimi dà "parere favorevole". Le beghe giudiziarie "rischiano di compromettere i passaggi formali che ci portano verso le amministrative", spiega sempre Conte. Beppe Grillo si è definito "il condom a protezione del M5S. La leadership di Conte non è in discussione", ha anche ribadito.

I dissidi, dentro al M5S, covano, ma anche fuori dal Movimento, un ex come Alessandro Di Battista continua ad attaccare. Ha il dente avvelenato con Di Maio: «Un uomo di potere vuole portare il M5S al centro", Non risparmia neanche Conte: "Non trovo ragioni per tornare. Conte me lo ha chiesto? In un certo senso...". Insomma le acque, fuori e dentro il mondo grillino, sono molto agitate.

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.  

Che lo spettro di Rousseau agiti e divida le diverse anime dei Cinque Stelle lo si capisce quando Enrica Sabatini, una dei due soci dell'associazione milanese, pubblica su Instagram una foto romana proprio nel giorno degli incontri di Beppe Grillo nella capitale. 

Lo scatto manda in tilt i parlamentari: «Che ci fa qui?». Dietro alla domanda, si nasconde però il ritorno della guerra delle piattaforme. Rousseau contro Skyvote, il secondo atto. Una parte (importante) della partita che divide i legali di Beppe Grillo da quelli di Giuseppe Conte si gioca proprio nell'utilizzo di Rousseau.

Per uscire dall'impasse c'è chi ipotizza un ritorno (temporaneo) alla vecchia piattaforma. Un passaggio che anche i legali di Beppe Grillo reputano fondamentale per evitare di nuovo ricorsi (e cause che potrebbero bloccare il Movimento a ridosso delle prossime Politiche).

La frase-chiave, quella che secondo alcuni avvocati, inchioda i Cinque Stelle a richiedere i servizi di Davide Casaleggio è nell'articolo del vecchio statuto (tornato vigente) dedicato all'assemblea. «La verifica dell'abilitazione al voto dei votanti ed il conteggio dei voti sono effettuati in via automatica dal sistema informatico della Piattaforma Rousseau», si legge nel testo. 

Parole che i contiani invece sostengono si possano bypassare, sia per velocizzare l'iter (più è lungo più i fedelissimi dell'ex premier temono una guerra di logoramento al leader) sia per risparmiare una cifra importante. «Di sicuro Rousseau non si farà pagare meno di quanto il M5S dia a Skyvote», sostengono fonti vicine all'associazione milanese. Un ritorno comporterebbe cifre a cinque zeri.

E soprattutto, uno smacco politico per l'ala contiana sempre molto critica con Casaleggio. I manager di Skyvote, d'altronde, hanno ricordato in questi giorni la piena legittimità dei loro contratti e i Cinque Stelle potrebbero trovarsi a dover pagare due fornitori. Ma c'è un altro aspetto fondamentale che i Cinque Stelle dovranno risolvere prima di decidere il da farsi: il trattamento dei dati personali degli iscritti.

Sul tema è intervenuto il legale dei ricorrenti a Napoli, Lorenzo Borrè, che oggi presenterà una istanza al garante della privacy. Il legale ha detto all'Agi : «A questo punto si pone il problema del trattamento dei dati degli iscritti. Chi è il responsabile? Faremo un'istanza al Garante della privacy. Credo che la faranno anche gli esponenti del M5s, considerate pure le multe salate previste in questi casi». 

Proprio eventuali sanzioni suggeriscono prudenza nell'uso dei dati. C'è chi si chiede se Conte possa utilizzare i dati per la ratifica-lampo che aveva preannunciato qualche giorno fa senza incorrere lui o il titolare dei dati indicato dal garante della privacy in un conto salato. Ecco perché la vicenda dei dati si intreccia con quella delle piattaforme.

«Il titolare dovrà scegliere la via della prudenza», suggeriscono diverse fonti all'interno dei Cinque Stelle. La partita è ancora lunga e stavolta - per il bene del Movimento - le diverse anime dovranno seppellire vecchie ruggini e necessità di parte per trovare una soluzione ragionata che non diventi un boomerang nei prossimi mesi.

Simone Canettieri per ilfoglio.it l'11 febbraio 2022.  

Almeno iscriviti al M5s". Beppe Grillo prima di andarsene dal ristorante fulmina Giuseppe Conte. La battuta rivela anche un punto del reclamo contro lo statuto del M5s sub judice a Napoli. 

L'ingresso ufficiale di Conte nel Movimento è avvenuto nel luglio 2021: in quel periodo le iscrizioni erano state sospese (per permettere la migrazione degli iscritti da Rousseau a SkyVote). 

L'ex premier ottenne una deroga ad personam da Vito Crimi, eccezione che viene contestata. Alla battuta di Grillo Conte in imbarazzo risponde: "Sì sono in coda".

Scene dalla Pariolina, uno dei pochi ristoranti dove si può mangiare fino a tarda notte. E dove si sono dati appuntamento l'ex premier e il Garante grillino (con i rispettivi avvocati) per brindare all'intesa raggiunta: il M5s farà ricorso contro l'ordinanza del tribunale di Napoli chiedendo l'immediata istanza di revoca del provvedimento (l'avvocato Lorenzo Borrè che difende gli attivisti esclusi è già pronto a dar battaglia).

Federico Capurso per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.

La soluzione era sotto gli occhi di tutti, da sempre, ma Vito Crimi, l'ex capo politico reggente dei Cinque stelle, non se ne era accorto. Un documento, il regolamento del 2018, avrebbe reso possibile «la presentazione immediata di una istanza di revoca della sospensione cautelativa al tribunale di Napoli», fanno sapere gli avvocati a Beppe Grillo e Giuseppe Conte, che li ascoltano increduli, seduti nello studio del notaio Luca Amato.

L'ex premier è furioso. Crimi non aveva capito - fanno sapere fonti M5S - che con quel documento si sarebbe potuta evitare la sospensione cautelativa dello Statuto e il conseguente azzeramento dei vertici grillini. Insomma, probabilmente si sarebbe potuto evitare il caos. Anche Grillo è sconcertato. 

La prenderebbe con ironia, se non si fosse dovuto precipitare a Roma per trovare una soluzione a un groviglio che sembrava inestricabile. Tanto complicato da costringerlo persino a rivedere le liturgie che finora lo avevano sempre accompagnato nei suoi viaggi nella Capitale.

A partire dalla scelta del quartier generale dove incontrare i big del partito: non più l'hotel Forum, a due passi da Montecitorio, ma l'hotel Parco dei Principi, nel cuore di Roma Nord, dove la densità di studi notarili e di avvocati rendeva più semplice l'organizzazione di incontri che hanno poco a che fare con la politica e molto più con i tribunali. Il Garante ha voluto ascoltare soprattutto loro, gli avvocati, per trovare una soluzione lampo che potesse dare ossigeno ai Cinque stelle.

«Le delibere sono valide, alla luce del regolamento del 2018», gli hanno spiegato i legali del Movimento. Quel regolamento, nei loro ragionamenti, certifica la «piena regolarità» delle votazioni passate e si confida, quindi, che il giudice possa revocare la sospensione. Scartata, dunque, l'ipotesi di nominare un nuovo Comitato di garanzia (lo stesso di cui facevano parte Luigi Di Maio, Virginia Raggi e Roberto Fico), di far indire al Comitato non appena insediato un voto per lo statuto di Giuseppe Conte e, successivamente, un altro voto per la sua elezione a presidente del partito. 

Questa mossa - hanno avvertito i legali - avrebbe avuto un rischio e cioè quello, in vista delle sentenza del tribunale di Napoli prevista per il 1° marzo, di riconoscere di fatto le ragioni di chi aveva presentato ricorso. Un'ammissione di colpevolezza, quindi, prima ancora che ci fosse stata la sentenza. La strada di eleggere un comitato di Garanzia, però non è archiviata. È un'uscita di sicurezza sempre in piedi, se la richiesta di revoca della sospensione dovesse essere respinta.

Ma è una strada complicata, perché si dovrebbe tornare con ogni probabilità a bussare alla porta di Davide Casaleggio per chiedergli di usare Rousseau. Conte avrebbe preferito evitare lo smacco politico di un ritorno alla piattaforma di Casaleggio, «ma aggirare Rousseau porterebbe al rischio di un ulteriore ricorso», gli hanno detto gli avvocati. Messi in guardia - per assurdo - anche da Lorenzo Borrè, l'avvocato della parte avversa, quella dei ricorrenti di Napoli che hanno provocato il terremoto.

Non è però solo una questione politica e di forma, ma anche di soldi. Casaleggio avrebbe chiesto 30 mila euro per far votare il nuovo Comitato di garanzia sulla sua piattaforma. E sempre su Rousseau si sarebbe dovuto votare il nuovo statuto. La cifra, dunque, sarebbe potuta salire a 60mila euro. Non solo. Il figlio del cofondatore M5S chiedeva anche che venisse saldato un arretrato. 

Riguarda una votazione che Grillo aveva indetto lo scorso luglio, durante lo scontro con Conte per la leadership, quando con un post sul blog annunciò di voler dare vita a un Direttorio di 5 membri a cui affidare la guida del partito. Poi la votazione non si tenne più, perché i pontieri riuscirono a ricucire lo strappo con Conte, ma Casaleggio ora rivendica il lavoro preparatorio fatto e mai pagato.

La trasferta romana di Grillo è servita però anche a riannodare i fili lacerati del partito. Ha visto Luigi Di Maio e i due hanno convenuto sulla necessità di ritrovare una «compattezza interna» e di fare squadra con Conte, sempre che ci sia una disponibilità anche da parte sua. Grillo però chiede anche di non logorare il leader e di remare tutti nella stessa direzione. 

Lo ha fatto presente a Di Maio come anche alla capogruppo in Senato Mariolina Castellone e a Virginia Raggi, incontrata più tardi. Una processione silenziosa, uno alla volta alla corte del fondatore, come chiesto da Roberto Fico, assente per un'influenza. «Non vediamoci tutti insieme solo per fare una foto da pubblicare sui social», è il ragionamento espresso dal presidente della Camera a Grillo, «altrimenti non risolveremo nessun problema».-

Dalla bacheca Facebook di Lorenzo Borrè il 13 febbraio 2022.

Vito Claudio Crimi, con le sue dichiarazioni, si conferma il più formidabile, involontario alleato dei ricorrenti. 

Già in altri procedimenti, ricordo tra gli ultimi quello relativo all'espulsione di Carla Cruccu, le sue "dichiarazioni, azioni, omissioni" sono state la chiave di volta dei successi delle impugnazioni. 

Confido quindi nel trend.

 Ma al di là della consistenza di queste dichiarazioni, che saranno esaminate in contradditorio in Tribunale allorché si terrà l'udienza di discussione dell'istanza di revoca (ad oggi non fissata), presenteremo un interpello al Garante della Privacy (gli esperti della materia che mi leggono comprenderanno al volo l'oggetto dell'interpello).

Scritto questo, mi chiudo in silenzio stampa, accogliendo - da iscritto al m5s - l'invito del Garante Beppe Grullo (rivolto erga omnes) a cessare con le esternazioni sul caso. Almeno fino al giorno della prossima udienza. 

Lorenzo De Cicco per la Repubblica il 13 febbraio 2022.

«Neanche mi ricordo di tutti i regolamenti che abbiamo approvato nel M5S, ne facevamo tanti ». Vito Crimi è tornato al centro della scena stellata. Perché dall'archivio mail dell'ex viceministro dell'Interno, capo politico ad interim del Movimento nell'interregno tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, è spuntato l'atto che può mettere al riparo dalle beghe legali la leadership dell'ex premier, sospesa dall'ormai famosa ordinanza del Tribunale di Napoli. 

I giudici contestano un passaggio della votazione che ha incoronato Conte presidente del M5S, ad agosto del 2021: a quella tornata di clic sono stati ammessi solo gli iscritti con più di 6 mesi di anzianità. Non tutti gli altri. La sforbiciata alla platea elettorale, sostiene il presidente sospeso con i suoi avvocati, è perfettamente legittima, perché prevista da un regolamento approvato dal M5S nel 2018. Averlo saputo prima, ha commentato con i suoi, si sarebbero potuti evitare molti guai.

«Quel regolamento era noto a tanti attivisti», racconta Crimi. 

Conte lo conosceva?

«No, non glielo avevo detto. Era una prassi talmente consolidata, che lo davamo tutti un po' per scontato. Mi sono dimenticato di farlo presente a Giuseppe, mi sembrava superfluo». Ai magistrati la "prassi" non è bastata. Serve una carta. Per questo Conte, chiedendo la revoca della sospensione, ha allegato il regolamento del 2018. «Si è scatenata una caccia alle streghe su questo documento, mi pare tanto rumore per nulla». 

Ma è il documento chiave, a cui si aggrappa Conte per tornare leader.

«Infatti sono rimasto basito quando ho visto l'ordinanza. A quel punto ho detto a Giuseppe: ora mi metto a cercarlo, ho fatto il ripristino del backup, ho dovuto richiamare il mio ex segretario che lavorava con me quando ero sottosegretario all'Editoria, all'epoca dei fatti. Mi sono messo a spulciare migliaia di mail. L'indirizzo del comitato di garanzia era aperto a tutti gli iscritti, ogni giorno arrivavano lettere di ogni tipo, i reclami... Non mi ricordavo nemmeno se il regolamento fosse del 2018 o del 2019. Ho riscoperto alcuni regolamenti di cui nemmeno ricordavo l'esistenza».

Col regolamento del 2018 com' è andata?

«Di Maio ci mandò una mail in cui chiedeva di fissare questa regola: che le convocazioni online degli iscritti fossero aperte a chi avesse più di 6 mesi di anzianità. Ho telefonato ai colleghi del comitato di Garanzia che presiedevo, Roberta Lombardi e Giancarlo Cancelleri, e ho risposto: diamo parere favorevole». 

 Il regolamento è una mail, dopo una telefonata?

«No, c'è stato anche un verbale. Ma stiamo parlando di legalese, davanti a un fatto politico inattaccabile: il riconoscimento plebiscitario degli iscritti del M5S verso Conte. Nessuno può mettere in dubbio che sia il punto di riferimento di un Movimento che si sta rinnovando». 

Roberto Fico ieri ha attaccato gli attivisti che hanno presentato il ricorso a Napoli. Sostiene che avendo perso la battaglia politica, ora si divertano con le cause in tribunale. Condivide?

«Mi sembra scontato che sia così. E mi chiedo una cosa: se per caso, e non me lo auguro, seguissimo le regole che questi attivisti considerano le uniche corrette, poi loro che farebbero? Rimarrebbero nel Movimento con Conte leader? Tanto rivincerebbe lui. La verità è che vogliono solo trasferire nelle aule giudiziarie una battaglia politica persa». Si dice che Conte, parlando con i suoi, se la sia presa con chi «in maniera subdola avrebbe forse voluto sfruttare questo momento per riaprire fronti politici interni, quando qui di politico non c'è niente». 

Nel M5S c'è una guerra tra bande?

«Dico questo: dato che qualcuno sta provando a portare lo scontro politico a livello giudiziario, tutti quanti, al di là delle diversità di opinioni, dobbiamo essere compatti. Non c'è nulla da strumentalizzare. C'è solo un attacco a Conte e non dobbiamo prestare il fianco a chi ci vuole male». 

 Da liberoquotidiano.it il 13 febbraio 2022.

 “Neanche mi ricordo di tutti i regolamenti che abbiamo approvato nel M5S, ne facevamo tanti…”. Lo ha detto, in un’intervista al quotidiano Repubblica, Vito Crimi, ex viceministro dell’Interno e capo politico ad interim del Movimento Cinque Stelle. “Quel regolamento era noto a tanti attivisti” racconta Crimi. Conte lo conosceva? “No, non glielo avevo detto. 

Era una prassi talmente consolidata, che lo davamo tutti un po’ per scontato. Mi sono dimenticato di farlo presente a Giuseppe, mi sembrava superfluo”. Ai magistrati la “prassi” non è bastata. Serve una carta. Per questo Conte, chiedendo la revoca della sospensione, ha allegato il regolamento del 2018. “Si è scatenata una caccia alle streghe su questo documento, mi pare tanto rumore per nulla”.

Ma è il documento chiave, a cui si aggrappa Conte per tornare leader. “Infatti sono rimasto basito quando ho visto l’ordinanza. A quel punto ho detto a Giuseppe: ora mi metto a cercarlo, ho fatto il ripristino del backup, ho dovuto richiamare il mio ex segretario che lavorava con me quando ero sottosegretario all’Editoria, all’epoca dei fatti. Mi sono messo a spulciare migliaia di mail. L’indirizzo del comitato di garanzia era aperto a tutti gli iscritti, ogni giorno arrivavano lettere di ogni tipo, i reclami… Non mi ricordavo nemmeno se il regolamento fosse del 2018 o del 2019. Ho riscoperto alcuni regolamenti di cui nemmeno ricordavo l’esistenza…”.

Emanuele Buzzi per il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.

I vertici Cinque Stelle fanno la loro contromossa: hanno presentato a Napoli istanza di revoca contro la sospensiva che ha decapitato il Movimento, bloccando la validità del nuovo statuto e la successiva elezione di Giuseppe Conte a presidente. 

Dietro la mossa - sostengono i pentastellati - c'è un piccolo giallo: il ritrovamento di uno scambio di mail del 2018 che proverebbe l'esistenza di un regolamento atto a modificare le norme sui partecipanti all'assemblea (norme che così sarebbero in linea con il voto effettuato la scorsa estate). I fatti risalgono all'8 novembre 2018.

Sono le 10.05 e l'allora capo politico M5S Luigi Di Maio, in una missiva indirizzata al Comitato di garanzia - racconta l'Adnkronos - scrive: «In qualità di capo politico, propongo che lo stesso criterio per l'accesso al voto degli iscritti applicato alle votazioni e alle consultazioni su Rousseau, venga esteso anche per le votazioni che hanno come oggetto la convocazione dell'Assemblea degli iscritti». Il leader propone: «Potranno quindi prendere parte a tutte le future convocazioni dell'Assemblea, gli iscritti da almeno sei mesi con documento certificato. 

Fatto salvo che, come già da voi adottato in data 20 luglio 2018, tutti gli iscritti fino al 22 giugno 2018 (sei mesi dalla costituzione dell'Associazione MoVimento 5 Stelle) potranno votare per le consultazioni che si svolgeranno successivamente al 22 giugno 2018 anche se dalla loro iscrizione non sono trascorsi sei mesi».

Crimi, all'epoca membro anziano del comitato di garanzia, replica esprimendo il «parere favorevole» dell'organo. Lo scambio è stato «dimenticato» e poi ritrovato dall'ex reggente. Crimi sostiene che si tratti di una norma «non solo nota, ma applicata a tutte le Assemblee da 4 anni, ininterrottamente, senza che nessuno abbia mai messo in dubbio che prima di applicare tale restrizione non avessimo fatto i passaggi formali». Lorenzo Borré, legale degli attivisti che hanno promosso l'azione sullo statuto contro il Movimento, vede almeno tre motivi per i quali il ritrovamento a suo avviso non è dirimente.

«In primo luogo uno scambio di mail privato non è un regolamento», puntualizza al Corriere Borré. «In secondo luogo, la questione dell'inesistenza di tale regolamento è già stata processualmente risolta». «Anche se non lo fosse - conclude l'avvocato - sarebbe inammissibile ai fini della revoca in quanto si tratta di un fatto pre-esistente a conoscenza dell'associazione mentre la revoca può essere richiesta solo su circostanze e fatti sopravvenuti di cui la parte istante non era a conoscenza prima dell'emanazione dell'ordinanza cautelare». 

Sui tempi di una decisione sulla revoca c'è incertezza: nel Movimento c'è chi spera possa essere sufficiente una settimana per decidere, ma c'è anche chi ricorda che c'è già un'udienza fissata per inizio marzo e che, quindi, potrebbe essere quella la data per conoscere l'esito dell'istanza. Per una questione che è ancora irrisolta, c'è un'altra che pare essersi chiarita. 

Dopo la battuta - raccolta dal Foglio - con Grillo che chiede a Conte di iscriversi al Movimento Cinque Stelle, arrivano i dubbi e la replica dei contiani. L'ex premier è iscritto al M5S? «Sì», replicano i vertici, chiarendo che l'uscita di Beppe Grillo era «solo una battuta». Intanto rompe il silenzio Roberto Fico: «La situazione è molto più semplice di quella che voi descrivete.

La questione è assolutamente burocratica, non politica. Quindi faremo i nostri passi che abbiamo già annunciato, sperando che vadano a buon fine. Conte è il leader del M5S, leader riconosciuto e stravotato: non c'è nessuna questione politica. Conte è ben saldo - ha detto il presidente della Camera parlando con i cronisti al salone della nautica NauticSud, a Napoli -. Tanti ex attivisti, invece di dire abbiamo perso la battaglia politicamente, si divertono tramite un avvocato fare cause al Movimento, ma noi non ci arrenderemo mai». 

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.  

«Abbiamo fatto una riunione antibiotica per ripristinare il sistema immunitario del Movimento, quindi state tranquilli». Sono le dieci e mezza passate quando Beppe Grillo si concede a telecamere e fotografi a braccetto di Giuseppe Conte. È l'immagine plastica - sostengono i contiani - di un asse forte tra il garante e il presidente dei Cinque Stelle.

Dopo centocinquanta minuti di discussione c'è l'accordo su come tentare di dipanare la matassa politico-legale in cui si trovano i Cinque Stelle dopo l'ordinanza di Napoli. In realtà, a Roma, come da copione, il garante si riprende almeno dal punto di vista dell'immagine le redini del Movimento. 

Grillo tenta di stare lontano dalle luci dei riflettori - opta per un altro hotel, il Parco dei Principi, al posto del consueto Forum e, in seguito, si sposta negli uffici del notaio Luca Amato - ma mette in fila una serie di incontri con i big Cinque Stelle per sondare umori e prospettive. L'unico assente è Roberto Fico, bloccato da un'influenza. Il fondatore dei Cinque Stelle vede anzitutto Luigi Di Maio, al centro delle tensioni con Giuseppe Conte dopo le votazioni per il Quirinale.

Grillo sa che l'unità del Movimento è centrale per la sua tenuta sulla lunga distanza e ribadisce che è fondamentale rafforzare l'intesa tra l'ex premier e il ministro, sottolineando anche che Di Maio ha un ruolo fondamentale per i Cinque Stelle. Il garante dispensa così un assist a entrambi per la mediazione e smorza le voci delle sirene centriste verso Di Maio.

L'incontro tra i primi due capi politici della storia M5S dura quasi due ore. Il titolare della Farnesina mette in chiaro che debba prevalere nel Movimento il primato della politica, che bisogna ripartire dai territori e dai temi e che non è il momento delle divisioni. «Ora tutti compatti», dice Di Maio. A seguire Grillo cerca di tastare il terreno dei gruppi parlamentari: vuole sondare equilibri e umori.

Trascorre tre quarti d'ora con i capigruppo, Davide Crippa e Mariolina Castellone, e altrettanti minuti con l'ex sindaca di Roma, Virginia Raggi, da sempre molto vicina al garante, che preferisce non rilasciare dichiarazioni al termine del faccia a faccia. Durante gli incontri si diffonde la voce di una nuova accelerazione dei contiani, che preferirebbero un passo immediato o quasi sul nuovo statuto per poter incoronare di nuovo Conte presidente.

I legali del garante e dell'ex premier si stanno sentendo da giorni per trovare una exit strategy. Nelle ore precedenti al summit sembrava esserci stato un avvicinamento tra le parti sulla necessità di individuare in primis un nuovo comitato di garanzia, che possa poi (grazie ai poteri che ha secondo il vecchio statuto) far partire l'iter per ristabilire leader e nuove norme del Movimento. Con queste premesse si arriva all'incontro serale tra Grillo e Conte (con legali al seguito).

Un vertice fiume che si conclude con Grillo che asseconda, almeno in questa prima fase, le istanze di Conte. E i Cinque Stelle che parlano di una intesa tra i legali: «Le delibere sono valide alla luce del regolamento del 2018: si chiederà immediatamente al tribunale di Napoli la revoca (della sospensiva delle cariche, ndr ) sulla base di questo documento che certifica la piena regolarità, offrendo al giudice della causa la possibilità di prendere atto della validità e quindi efficacia delle delibere contestate».

E concludono: «Si confida che gli elementi emersi consentano di poter ottenere una tempestiva revoca». Il passaggio, però, trova già le prime contromosse dell'avvocato Lorenzo Borré, che ha ottenuto il congelamento dei vertici M5S. «La revoca può essere richiesta solo su circostanze e fatti sopravvenuti. La questione del regolamento "ritrovato" non è un fatto sopravvenuto. 

Né è comunque rilevante perché l'ordinanza è stata emessa anche sul presupposto della mancanza del quorum (senza considerare che l'ordinanza non ha esaminato gli altri motivi di impugnazione perché assorbiti da quello relativo al mancato raggiungimento del quorum)». Poi Borré, sottolineando come una eventuale revoca sia comunque soggetta a reclamo, precisa: «L'esistenza di un eventuale regolamento approvato su richiesta del capo politico non è idonea a legittimare l'esclusione dal voto adottata nella vigenza di uno statuto che consente tale esclusione solo a fronte di un regolamento adottato su richiesta del comitato direttivo».

Sabino Cassese per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.

In un magistrale saggio del 1956, uno dei maestri del diritto civile italiano, Pietro Rescigno, osservava che i partiti, «pur vivendo ai confini del diritto privato, non vogliono lasciare gli schemi del diritto privato» e perciò la richiesta dei partiti «si traduce in un'esaltazione del diritto privato come ultima garanzia di libertà». 

A più di sessant' anni, la persistente forza del diritto privato dei partiti è dimostrata dalle vicende giudiziarie che coinvolgono il Movimento Cinque Stelle e il Partito democratico, il primo dinanzi al Tribunale di Napoli, VII sezione civile, il secondo dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze e alla Corte di Cassazione, VI sezione penale. I giudici napoletani hanno stabilito che una modifica statutaria dell'associazione chiamata M5S, che escludeva dal voto gli iscritti degli ultimi sei mesi, poteva essere introdotta solo con regolamento adottato dal comitato di garanzia, su proposta del comitato direttivo.

Hanno quindi accolto, a norma del codice civile, la richiesta di alcuni iscritti, sospendendo in via cautelare una deliberazione dell'agosto scorso, perché violava la norma statutaria allora vigente, e di conseguenza hanno sospeso la nomina del presidente. Insomma, i giudici hanno deciso che i partiti, essendo associazioni regolate dal diritto civile, debbono rispettare, nell'interesse dei propri iscritti, le norme che essi stessi si sono date e che sono scritte nei loro statuti. 

Pare che, dopo la decisione del Tribunale di Napoli del 3 febbraio scorso, si sia scoperta l'esistenza di un regolamento del 2018 che avrebbe consentito l'esclusione dei nuovi iscritti dal voto. Ma la scoperta è un'ulteriore prova della anomia del M5S. La vicenda fiorentina ha caratteristiche diverse, perché riguarda i presupposti civilistici su cui si innesta una norma penalistica.

La Procura della Repubblica di Firenze ha ritenuto che il divieto di finanziamento ai partiti o a loro articolazioni politico-organizzative, regolato da leggi del 1974, 1981, 2013 e 2019, si possa applicare anche a fondazioni non previste dallo statuto dei partiti, né istituite o controllate dai partiti (su questa base, l'1 febbraio scorso ha chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, di persone allora esponenti del Partito democratico e della fondazione Open).

La Corte di Cassazione, invece, in particolare con la sentenza del 15 settembre 2020 della VI sezione penale, ha stabilito che bisogna partire dall'esame dello statuto del partito e dei suoi regolamenti, per decidere se la fondazione è uno strumento nelle mani di un partito e accertare se ha una propria individualità e operatività o è un mero tramite di finanziamento del partito.

Da queste due vicende possono trarsi numerosi insegnamenti. Primo: i partiti sono un ponte tra popolo e Stato, sono il veicolo della rappresentanza politica. Sono, dunque, uno strumento essenziale della democrazia. Sarebbe stato opportuno che, come proposto fin dai tempi della Assemblea costituente, fossero disciplinati da apposite norme, ovviamente rispettose della loro natura associativa, come fu disposto per i sindacati (i quali peraltro hanno aggirato la norma costituzionale). 

In assenza di disposizioni «ad hoc» (quelle del 2012 contengono solo una rudimentale regolazione che consente di accedere al finanziamento pubblico indiretto), debbono rispettare la sottile trama del codice civile sulle associazioni e, principalmente, i propri statuti e i propri regolamenti (i partiti non possono darsi norme e poi non rispettarle).

È, quindi, sbagliato affermare che il codice civile non può regolare i partiti, perché nella vita associativa non può esistere uno spazio vuoto di regole giuridiche. Secondo: se i partiti sono regolati dal codice civile, vi deve essere una autorità che ne faccia rispettare le disposizioni, su richiesta degli iscritti, e questa autorità è il giudice. È quindi sbagliato lamentare una interferenza dei giudici nella vita dei partiti ed affermare che non sono i giudici che possono decidere chi dirige un partito.

Terzo: se i partiti sono associazioni che appartengono alla società civile, sottoposte all'imperio del codice civile, gli stessi giudici ne debbono rispettare le regole, non possono ritenere due soggetti, una fondazione e una associazione, l'uno articolazione dell'altro, senza che questo legame trovi un fondamento nello statuto di ambedue i soggetti o in un rapporto di partecipazione o di controllo. Il 29 gennaio scorso, su questo giornale, un editoriale del suo direttore Luciano Fontana, era intitolato «le macerie dei partiti».

Esprimeva una giusta preoccupazione sulla loro condotta in occasione della elezione presidenziale e sulla loro incapacità di dare una guida al Paese e di indicare una prospettiva ai suoi cittadini. Aggiungo che i partiti, nel corso della storia repubblicana, sono andati perdendo iscritti, tanto da essersi ora ridotti al lumicino, se comparati a quello che erano nei primi anni di democrazia. 

 Inoltre, perdono progressivamente votanti, non riescono a formulare una offerta politica che attragga consensi, hanno una vita interna ricca di tensioni ma priva di dibattiti politici, sono prigionieri di una grave contraddizione, quella di essere lo strumento della democrazia, ma di non essere essi stessi democratici al loro interno. Uno dei nostri maggiori costituzionalisti, Vezio Crisafulli, si chiedeva, nel 1967, se dietro la partitocrazia si celassero i primi germi di un processo di involuzione e di decadenza dei partiti. Più di mezzo secolo dopo, dobbiamo riconoscere la sagacia di quella osservazione.

·        Ipocriti.

Poltronari - La casta a 5 stelle. Giuseppi piazza i suoi a spese nostre. Michel Dessì il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Chiusa una porta si apre un portone. E se il portone è stretto c’è sempre la finestra. Quella al primo piano di via di Campo Marzio, sede del Movimento 5 Stelle. Ed è proprio dalla finestra che sono (ri)entrati nel Palazzo Paola Taverna e Vito Crimi. Due veri e propri poltronari. Incollati alle sedie del potere. Alle lussuose e comode poltrone della politica. Pagate con i nostri soldi. Come poter rinunciare al gusto forte e deciso del caffè de la buvette? Impossibile. Anche per loro, per i duri e puri del movimento. Per i grillini della prima ora che, abbandonato lo scranno a causa del vincolo del secondo mandato, hanno occupato un bel posto nel partito. Un posto da 70mila euro l’anno a spese dei gruppi parlamentari del Movimento 5 Stelle, ovvero pagato da noi contribuenti.

"Sono solo una lavoratrice come tutti" ci dice Paola Taverna che intercettiamo a Roma, in via degli Uffici del Vicario. Una via popolata da politici che collega il suo nuovo ufficio fino a Palazzo Montecitorio.

Guai a parlare di privilegi e di casta. È solo una ricompensa per il lavoro svolto in dieci anni per il Movimento 5 Stelle. Un movimento tramutato in partito che, non una, non due ma più e più volte ha cambiato pelle. Ha cambiato anche l’anima. Vendendola per quattro spicci. Dove sono finite le battaglie contro la casta? Sicuramente nel cassetto del dimenticatoio. Direte voi: ma è una cosa comune tra tutti i partiti. Vero! Ma gli altri non ne hanno mai fatto mistero né, tantomeno, bandiera delle proprie battaglie.

Farebbero bene la signora Paola Taverna e il signor Vito Crimi a riconoscere il "cortocircuito" e ad ammettere: "Sì, è vero! Siamo parte della casta." Un po’ alla Totò "Io sono io e voi non siete un ca**o!" Eppure preferiscono nascondersi e fuggire alle domande. Certo, non è un vitalizio ma comunque è un impiego. Una sorta di bonus. Un gettone d’oro che Giuseppi, leader massimo, ha voluto riconoscere a chi, in questi lunghi anni, si è arrampicato sugli scranni urlando (come fosse un mercato) "vergogna".

M5S, per Crimi e Taverna “contratti da 70 mila euro l’anno come collaboratori parlamentari”. Con i soldi pubblici! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Novembre 2022

Hanno passato una carriera politica all'insegna della lotta contro la casta, denunciando a squarciagola ogni singolo centesimo fuori posto di chi occupava la tanto disdegnata "poltrona". Ma nel giro di pochi mesi lo spirito guerriero e le battaglie di bandiera del M5s sono finite nel cassetto.

L’ex reggente del Movimento e l’ex vicepresidente del Senato, esclusi dalla regola del doppio mandato, starebbero per essere assunti dai gruppi 5 Stelle di Camera e Senato a 3 mila euro al mese, con i fondi pubblici assegnati ai gruppi parlamentari. Per i due 5 Stelle si prevede un contratto da collaboratori parlamentari, “come dipendenti del gruppo grillino. Un imponibile da 70 mila euro l’anno. Tremila euro netti al mese”, con le firme in arrivo per l’incarico entro fine mese. Il Movimento starebbe preparando anche un’altra decina di contratti d’assunzione da parte dei singoli parlamentari. Eppure hanno passato una carriera politica all’insegna della lotta contro la casta, denunciando a squarciagola ogni singolo centesimo fuori posto di chi occupava la tanto disdegnata “poltrona”. Ma nel giro di pochi mesi lo spirito guerriero e le battaglie di bandiera del M5s sono finite nel cassetto.

La Taverna “premiata” da Conte con 3mila euro (pubblici) al mese

C’erano una volta gli strali della Taverna contro la casta, quella che voleva intascarsi i vitalizi, mentre lei no, “perché nun so’ politica”, come da memorabile concione nella borgata romana di Tor Sapienza. Era il 2014, un’era politica fa. “Avrò 70mila euro dal mio gruppo? Ma io non ne so nulla, sono una cittadina normale che la domenica fa altro, e comunque non sono stati determinati i contratti…“, ha detto all’AdnKronos Paola Taverna commentando la notizia, senza spiegare di quale altro reddito vivrebbe ora che non è più parlamentare.

Rocco Casalino, portavoce di Giuseppe Conte, mantenuto con i soldi dei contribuenti

Silenzio invece dei vertici del M5S sul contratto a Rocco Casalino sinora “mantenuto” dei gruppi parlamentari. Il portavoce di Conte una volta lasciato palazzo Chigi, aveva ottenuto da “Giuseppi” di essere assunto dai gruppi parlamentari (pagato con soldi del contribuente) per consulenze in fatto di comunicazione televisiva, considerato che il contratto dell’esperto di comunicazione, scaduto a luglio scorso, non era stato rinnovato. “Con la presente Le comunichiamo che il giorno 15 luglio 2022 il Suo contratto scade e non è più richiesta alcuna prestazione da parte Sua“. Firmato: Gruppo Movimento 5 Stelle Camera. Ma adesso il gruppo è controllato dai “contiani” ed il rinnovo è garantito. La famosa lotta anti-casta s’è persa per strada.

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 14 novembre 2022.

Uno non vale uno, a questo giro. Sfogo di un dipendente M5S lasciato a casa di fresco: «Ci hanno detto che stavolta non potevano rinnovarci il contratto, perché non c'erano abbastanza fondi. E invece...». Invece il Movimento ha deciso di assumere due ex senatori, Paola Taverna e Vito Crimi, 140mila euro l'anno in due, per collaborare con i gruppi grillini di Camera e Senato. Venti dipendenti, alcuni storici, che hanno lavorato per i 5 Stelle dalla prima legislatura del 2013, sono stati lasciati a spasso. 

Niente contratto, gli è stato detto: ci dispiace, gli eletti sono calati, il budget è ridotto e non c'è più posto per tutti. La protesta naturalmente monta nelle vecchie chat dei collaboratori grillini. Soprattutto adesso che Repubblica ha rivelato come per i due ex parlamentari, non ricandidati per il tetto del doppio mandato, sono pronti contratti a 5 stelle, da 70mila euro l'anno ciascuno. 

Proprio per un incarico di diretta collaborazione con i gruppi parlamentari, soldi dei contribuenti dunque. Un importo, quello che intascheranno Taverna e Crimi, con cui si sarebbero potuti rinnovare i contratti di almeno 3-4 collaboratori. Ma ai piani alti del M5S hanno deciso di premiare gli ex senatori, a danno dei dipendenti semplici. 

È vero che il Movimento nella passata legislatura, dopo la sbornia elettorale del 2018, annoverava oltre 300 parlamentari - dimezzati anche a causa della scissione di Luigi Di Maio - mentre oggi sono solo 80 e quindi la riduzione dello staff era nell'aria. Ma il fatto che i tagli siano stati più sanguinosi per dare un salvagente, molto ben remunerato, a due ex parlamentari crea malumori e frustrazioni.

«Non mi hanno confermato, nonostante io abbia sempre raggiunto tutti gli obbiettivi, dopo aver partecipato a tutte le campagne elettorali degli ultimi anni», racconta uno degli esclusi, chiedendo l'anonimato. Il motivo? «Ci hanno detto che non c'erano abbastanza fondi». 

Tra i sacrificati, spuntano nomi noti nel sottobosco degli addetti ai lavori 5S. Per esempio lo storico fotografo e videomaker del Movimento, assunto dai tempi di Gianroberto Casaleggio, Nicola Virzì: «In questi ultimi 9 anni e mezzo - ha scritto su Facebook nel post d'addio - ho avuto l'onore di lavorare nella comunicazione del Movimento, prima al Senato poi alla Camera dei deputati, ho fatto un milione di foto e centinaia di video, ho percorso non so quanti km in giro per il Paese». Ma «dopo 15 anni la mia avventura finisce qui».

Luca Sablone per ilgiornale.it il 13 novembre 2022.

Hanno passato una carriera politica all'insegna della lotta contro la casta, denunciando a squarciagola ogni singolo centesimo fuori posto di chi occupava la tanto disdegnata "poltrona". Ma nel giro di pochi mesi lo spirito guerriero e le battaglie di bandiera sono finite nel cassetto. Vuoi per opportunismo politico, vuoi per circostanze mutate nel tempo. Sta di fatto che di quel Movimento 5 Stelle non c'è più ombra. Tanto che Giuseppe Conte starebbe pensando a una strategia per "aggirare" le assenze pesanti dovute al vincolo del doppio mandato e permettere ad alcuni "trombati" di trovare ancora spazio nel palazzo nonostante non siano stati eletti. 

Taverna e Crimi tornano a Palazzo?

A creare una emorragia all'interno del M5S è stato il combinato disposto della riduzione del numero dei parlamenti e il limite dei due mandati che ha costretto molti big a restare fuori dalla corsa per le ultime elezioni politiche. Prima del ritorno alle urne si è tenuta una discussione molto animata all'interno della galassia grillina, ma alla fine è stato scelto di non modificare uno degli ultimi pilastri storici rimasti ancora intatti. 

Di conseguenza più di qualcuno non ha potuto proseguire la propria esperienza in politica, anche se una fronda aveva paventato l'idea di concedere una deroga a pochi. Ma questo sarebbe stato visto come un vantaggio ai "figli di serie A" contro i "figli di serie B". Polemiche sotterrate? Tutt'altro. Un'accusa del genere è pronta a essere rivangata perché Paola Taverna e Vito Crimi potrebbero rientrare nel palazzo. Questa volta, però, non in veste di politici eletti dagli italiani.

A riportare l'indiscrezione è La Repubblica, secondo cui per entrambi sarebbe in arrivo "un contratto di tutto rispetto" dal valore di circa "70mila euro l'anno" con il ruolo di collaboratori dei gruppi parlamentari. Il quotidiano ha riferito che tutti e due dovrebbero essere assunti, uno alla Camera e l'altra al Senato, come dipendenti del gruppo grillino con un "imponibile da poco meno di 70mila euro l'anno". 

Al momento non ci sono conferme pubbliche in via ufficiale, ma a microfoni spenti la pratica viene definita addirittura "in lavorazione". La firma potrebbe arrivare entro la fine del mese. Dal Movimento 5 Stelle tengono a sottolineare che si tratta dei due "più meritevoli, i più esperti". Saranno gli unici a poter intraprendere il sentiero del ritorno? Solo il tempo fornirà la risposta. Di certo gli altri dovranno aspettare, almeno per il momento.

La lotta anti-casta s'è persa

La notizia, qualora dovesse essere confermata, non sorprenderebbe affatto. Era stato lo stesso Giuseppe Conte ad assicurare che, in mancanza di una deroga al secondo mandato, si sarebbero valutate altre strade: "A questo inconveniente ovvieremo trovando le forme e i modi per valorizzare il patrimonio di competenze ed esperienze dei portavoce che durante questa legislatura hanno contribuito a fare del Movimento una vera, notevole forza riformatrice".

Ecco perché si starebbe discutendo di quali ruoli assegnare agli ex. Professori della scuola di formazione del Movimento, cariche interne al partito o collaboratori dei gruppi? Certo, non ci sarebbe nulla di malvagio. È ovviamente lecito che il M5S pensi di "riservare" dei posti a personalità politiche che ritiene adeguate e coerenti al nuovo corso. Ma annotiamo che la famosa lotta anti-casta s'è persa per strada.

Tutti contro tutti: i “trombati” grillini si contendono 12 posti (a spese dello Stato). Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Ottobre 2022 

Sono 49 gli ormai ex deputati "stoppati" dal vincolo del doppio mandato, altri si sono candidati alle ultime elezioni, ma non sono stati eletti. Sono molti i "trombati" grillini a ricoprire anche delle posizioni all'interno del partito e sono in corsa per essere nominati come referenti provinciali, anche se in questo caso si tratta di incarichi a titolo gratuito.

Per una dozzina di grillini rimasti fuori dal Parlamento è pronto un lavoro ( e sopratutto uno stipendio pubblico) negli staff dei gruppi del M5S di Camera e Senato. “D’altronde lo ha detto anche Grillo quando ha confermato la regola dei due mandati, l’esperienza di chi può essere utile non deve essere dispersa“, si giustifica con i giornalisti un ex deputato pentastellato che vuole restare anonimo. In questi giorni si susseguono gli incontri riservati tra i vertici del Movimento Cinque Stelle in pectore (e cioè rieletti) e gli ex parlamentari rimasti senza poltrona per la norma interna dello stop dopo il secondo mandato. Sono soltanto 49 gli ormai ex deputati “stoppati” dal vincolo del doppio mandato, altri si sono candidati alle ultime elezioni, ma non sono stati eletti. Sono molti i “trombati” grillini a ricoprire anche delle posizioni all’interno del partito e sono in corsa per essere nominati come referenti provinciali, anche se in questo caso si tratta di incarichi a titolo gratuito. 

Secondo i piani di Giuseppe Conte chi verrà “risarcito” con un nuovo lavoro, verrà ricollocato negli uffici dei gruppi parlamentari con stipendi pagati dai sodi pubblici stanziati dalla Camera e Senato. Secondo quanto trapela, gli incarichi disponibili tra Montecitorio e Palazzo Madama sono circa 12, soprattutto negli uffici legislativi e nello staff della comunicazione “governato” da Rocco Casalino. I nomi in corsa per dare una mano ai neo-eletti sono sempre gli stessi. Dai “big” Paola Taverna, Roberto Fico, Vito Crimi, Fabiana Dadone ad altri ex parlamentari rodati e di fede “contiana” come l’ex tesoriere del gruppo alla Camera Claudio Cominardi, Laura Bottici, l’ex vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni e l’ex sottosegretario Carlo Sibilia. 

L’ex “reggente” del M5S Crimi, ad esempio, dovrebbe riciclarsi nel legislativo, dato che è considerato un esperto di burocrazia parlamentare, regolamenti e scartoffie varie. Porte sbarrate per l’ex ministro Danilo Toninelli, che si era allontanato da “Giuseppi” Conte, e per un altro big come il già Guardasigilli Alfonso Bonafede, che ormai sembra intenzionato a ripiegare a tempo pieno alla guida del suo studio legale a Firenze. 

Chi non ha un lavoro verrebbe assunto dai Gruppi parlamentari del M5S, mentre chi svolge un’altra professione potrebbe invece rientrare in squadra con un contratto di collaborazione o consulenza. Il ricollocamento degli esclusi, quasi sicuramente, sarà a carico dei gruppi (quindi soldi pubblici), non del partito. “Calcolavamo di eleggere 40 parlamentari, ne abbiamo eletti 80, le cose sono andate meglio del previsto, e poi ogni parlamentare porta in dote al gruppo un terzo in più rispetto a prima, con il taglio dei parlamentari”, evidenzia un altro grillino non rieletto. Ma ci sono anche degli indecisi. “Chi ha un lavoro deve regolarsi con i propri interessi, non a tutti conviene perdere magari un cliente che non simpatizza per il M5s per continuare a lavorare in politica, ad alcuni non conviene economicamente”. Ma sono la stragrande maggioranza quelli pronti a rientrare nel Palazzo dalla porta di servizio.

Lorenzo De Cicco per repubblica.it il 15 ottobre 2022.

Dai vice di Giuseppe Conte alla vecchia guardia M5S pensionata dal doppio mandato, quasi tutti nel Movimento difendono Roberto Fico per essersi tenuto ufficio e staff nel palazzo di Montecitorio, proprio sotto al tetto dove i grillini, nel 2013, salirono per protestare contro la casta e a protezione della Costituzione. 

Altri tempi, appunto. Tra i 5 Stelle la difesa del benefit non fa più scalpore, anzi. La notizia riportata ieri da Repubbilca, e commentata con vis polemica dal grande ex Alessandro Di Battista, fa scattare la difesa d'ordinanza nei confronti dell'ormai ex presidente della Camera dei deputati.

"Spero siano menzogne", si era augurato Dibba, taggando l'ex compagno di partito. "Ho restituito l'indennità di carica per 5 anni", aveva replicato in serata Fico, "ma ho tenuto solo l'ufficio, per un tempo limitato" (i prossimi 5 anni...). E dunque "non accetto lezioni di principio da nessuno". Oltre all'ufficio - questo Fico nel suo post Facebook non lo scrive - conserverà anche 2 collaboratori fiduciari, entrambi stipendiati da Montecitorio. Nel Movimento, come detto, tanti giustificano la mossa. E se la prendono con Di Battista. 

Ecco l'ex sottosegretario Carlo Sibilia: "Che triste dover rispondere anche a quelli che prima hanno sfruttato il Movimento e poi gli hanno sputato sopra". Frecciata non troppo velata all'ex deputato ora scrittore. Sotto ai commenti alla pagina di Fico, sbuca Danilo Toninelli. Il quale si complimenta: "Bravo Roberto. Sappiamo chi sei". Tra le reazioni, si notano anche quelle di due vice-presidenti M5S. Alessandra Todde, viceministra al Mise: "Bravo Roberto!". E il senatore Mario Turco: "Grazie Roberto per il tuo prezioso lavoro ed esempio di appartenenza politica".

Fico-Di Battista e la polemica sull’ufficio, l’ex presidente della Camera: «Non accetto lezioni». Redazione politica su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022.

L’ex presidente di Montecitorio conferma che terrà un ufficio come previsto dalle regole: «Ho restituito 700 mila euro di indennità, ora non avrò nemmeno un rimborso spese» 

«Ho sempre rispettato tutte le regole del Movimento: sulle restituzioni così come sui due mandati. E dunque non accetto lezioni di principio su questo, da nessuno». Appare una implicita replica a Alessandro Di Battista, che sui social aveva criticato l’ufficio messo a disposizione dell’ex presidente della Camera, la nota che arriva da Roberto Fico. «Da presidente della Camera ho rinunciato a 300 mila euro di indennità di carica in poco meno di cinque anni, cui si aggiungono 130 mila euro cui ho rinunciato da presidente della Vigilanza Rai. E in questi anni — sottolinea ancora l’esponente M5s — ho restituito più di 300 mila euro dei miei stipendi alla comunità. Per un totale di oltre 700 mila euro». 

L’ex presidente di Montecitorio non ci sta a passare per chi vuol conservare i privilegi del ruolo ricoperto. «E adesso da ex presidente della Camera, come è giusto, non avrò diritto a nessuna indennità, nessuna diaria e a nessun rimborso spese, ma solo - precisa Fico - a un ufficio alla Camera per un tempo limitato, come previsto dalle norme di Montecitorio».

Il caso è scoppiato dopo che era emersa l’indiscrezione sulla volontà di Fico di mantenere, come previsto dalle regole, un ufficio alla Camera (per una legislatura, come già successo per altri ex presidenti). Subito era intervenuto l’ex deputato 5 Stelle Alessandro Di Battista con poche parole tranchant: «Spero si tratti di una menzogna». L’ex compagno di partito ora risponde e conferma non solo che non è una bufala ma che si tratta di una scelta consapevole che, a suo avviso, non tradisce le storiche battaglie del Movimento 5 Stelle contro i privilegi della cosiddetta «casta».

Giuseppe Scarpa per “La Repubblica” il 2 ottobre 2022.

Tre ricche consulenze per altrettanti collaboratori della ministra alle Politiche giovanili, la grillina Fabiana Dadone. Un neosenatore, sempre 5S, a suo dire all'oscuro dell'intera faccenda. L'intervento della Corte dei Conti richiesto in fretta e furia da chi è incaricato di proteggere le finanze pubbliche. Accade tutto sull'asse Roma-Genova, un'autostrada a quanto pare lastricata di contratti d'oro. 

La storia, vicenda a puntate raccontata nelle ultime settimane sul sito di Repubblica , è ormai diventata un caso. L'incastro di coincidenze che ne è alla base parte da lontano. Meglio, quindi, procedere un passo alla volta. Si parte. Dopo anni di vuoto, il 27 agosto 2021, la ministra Dadone sceglie di ristabilire la buona consuetudine della Conferenza sulle dipendenze. La città scelta dalla pentastellata è Genova, nonostante il primato in materia di operazioni antidroga spetti a Lombardia, Lazio e Campania. L'evento va in scena il 27 e il 28 novembre 2021 con due giorni di discussioni a palazzo Ducale e una serata al teatro Carlo Felice.

Proprio l'Opera di Genova, sei mesi più tardi, ingaggerà i tre fedelissimi della ministra. In un sol colpo finiscono sotto contratto Marco Sanzari, consigliere della ministra grillina per le relazioni istituzionali, e i due assistenti Manuela Svampa e Matteo Ventricelli. Tre che lavorano gomito a gomito nello stesso ufficio capitolino di largo Chigi. Al primo la Fondazione teatro Carlo Felice assicura una collaborazione da 100 mila euro come project manager. Per gli altri due un compenso da 50 mila euro a testa come project assistant.

Il progetto in questione è l'organizzazione della prossima edizione del premio Niccolò Paganini, un concorso per violinisti. Nei curriculum dei tre consulenti non si ravvisano expertise in materia e la nomina ha già fatto scattare sull'attenti il collegio dei revisori della Fondazione. Così la questione è rimbalzata di nuovo a Roma, all'attenzione della Corte dei Conti e di Palazzo Chigi.

Il caso, però, interessa gli stessi vertici del Carlo Felice. Nel suo consiglio d'indirizzo siede Luca Pirondini.

Unico 5S in Comune a Genova, è stato appena eletto senatore. Contattato, sulle nomine reagisce così: «Non ne so nulla e non ero tenuto a saperlo. Le collaborazioni non passano dall'organismo di cui faccio parte».

Eppure, scrivono i revisori, a spiegare «le ragioni delle contrattualizzazioni nel settore comunicazione» doveva essere proprio il consiglio di indirizzo, che non le aveva «mai prospettate». 

Il soprintendente Claudio Orazi spiega di aver scelto i tre consulenti dopo averli visti lavorare per la Conferenza sulle dipendenze. Per due giorni. E il sindaco Marco Bucci? Presidente della Fondazione, parla di «congetture». Senza, però, commentare una serie di curiose coincidenze da 200 mila euro.

Liquidazione in beneficenza. L’incognita delle restituzioni dei parlamentari M5s. Il Domani il 30 settembre 2022

Nel 2018 i Cinque stelle avevano restituito, oltre a parte dello stipendio, anche la liquidazione del parlamento, in caso di non rielezione. Di Battista addirittura per intero, prima che il nuovo trattamento economico stabilisse il limite a 15mila euro. Ora, tanti dei parlamentari che hanno completato i due mandati, si trincerano dietro al silenzio in attesa di una mossa del partito

«Non è mica semplice essere un “populista”», ,diceva Alessandro Di Battista quattro anni fa, quando annunciava con un video la restituzione del trattamento di fine rapporto (Tfr) al termine del suo mandato parlamentare alla Camera dei deputati. All’epoca, l’ex parlamentare grillino aveva rinunciato a più di 43mila euro di liquidazione per rispettare una promessa che aveva fatto – insieme a tanti colleghi – ai suoi elettori in campagna elettorale, nel 2013. Conclusa la XVIII legislatura, sono parecchi i parlamentari Cinque stelle al secondo mandato che dovranno lasciare il parlamento. Tra questi, tanti volti noti del M5s, come Paola Taverna, Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Roberto Fico e Carlo Sibilia. Anche loro ora dovranno misurarsi con la decisione se donare la liquidazione in beneficenza, come fece Di Battista rivolgendosi al Fondo per le Pmi, o utilizzare il denaro per costruirsi una nuova vita dopo la fine dell’esperienza in parlamento ignorando le regole del Movimento. 

IN PASSATO

Nel 2018 non tutti i Cinque stelle hanno applicato la stessa fedeltà allo spirito francescano del Movimento di Di Battista. Tanti hanno approfitto di un cambiamento delle regole interne: nel 2018 è infatti stato stabilito il nuovo trattamento economico degli eletti: nel capitolo dedicato alla liquidazione finale, il limite della restituzione del Tfr è fissato a 15mila euro netti. 

Da allora, il Movimento è cambiato profondamente. Il capo politico è diventato Giuseppe Conte, lo statuto è stato modificato. Quel che è rimasto è il limite dei due mandati: dopo un lungo dibattito interno, l’avvocato del popolo ha deciso di mantenerlo.

Provocando così la fine delle carriere di un gran numero di parlamentari di prima linea. Ora dovranno trovarsi una nuova strada, dove il denaro che otterranno dal parlamento può far comodo. Nelle regole stese dall’ex premier non c’è nessun riferimento alla gestione delle liquidazioni. Continua a valere la norma dell’ultima legislatura. 

COSA FARÀ CHI STA LASCIANDO

La cifra, che continua ad aggirarsi intorno ai 41mila euro a legislatura, sarà corrisposta nelle prossime settimane. Chi avrà partecipato a più legislature otterrà direttamente l’importo complessivo: per i Cinque stelle al secondo mandato si tratta dunque di cifre ben oltre gli 80mila euro. Per ora, però, il Movimento non si è pronunciato sugli obblighi per gli eletti che non si sono potuti ricandidare. 

I maggiorenti in uscita, interpellati su cosa faranno se dovesse arrivare la richiesta, preferiscono rimanere sul vago: mentre fonti vicine al presidente uscente di Montecitorio assicurano che «Roberto Fico ha già dimostrato abbondantemente che le regole interne le rispetta», tanti preferiscono non rispondere. 

L’ormai ex senatore Danilo Toninelli si trincera dietro un «non lo so» e di fronte alla domanda se pagherebbe in caso vengano richiesti i 15mila euro del 2018, risponde che «coi se e coi ma la storia non si fa».

Così le sigarette elettroniche possono danneggiare i polmoni. Gli adolescenti che "svapano" sono più soggetti a bronchiti croniche e a respiri sibilanti. L'appello ai politici: informate i giovani e le famiglie, potrebbero esserci anche rischi cardiovascolari. Gioia Locati su Il Giornale l'1 Settembre 2022

Sono entrate in commercio nel 2007 con il proposito di distogliere i fumatori più accaniti dal vizio del fumo, e ora, dopo 15 anni, ci si accorge che le sigarette elettroniche, seppur senza nicotina, danneggiano il sistema respiratorio e, nelle cavie, anche quello cardiovascolare. Alcuni studi di evidence based medicine (la cui traduzione è "medicina basata sulle prove di efficacia" e non sulle evidenze, poiché l’evidenza non ha bisogno di prove) hanno trovato legami tra l'uso di sigarette elettroniche contenenti liquidi aromatizzati e asma, respiro sibilante o sintomi correlabili a bronchiti croniche, come tosse persistente e catarro, tra gli adolescenti.

Da qui la preoccupazione dell'American Heart Association (AHA), pubblicata sulla rivista Circulation Research e ripresa anche dalla rivista Jama.

Negli Stati Uniti, dal 2019, il limite di età per svapare è stato alzato dai 18 ai 21 anni; in Italia basta essere maggiorenni (i divieti si riferiscono all’acquisto dei prodotti).

Si legge su Circulation

“Al di là del contenuto di nicotina e del rapporto tra glicerina vegetale (VG) e glicole propilenico (PG), la composizione dei liquidi all'interno di questi dispositivi (comunemente chiamati liquidi elettronici) non è pubblicamente nota, il che rende difficile prevedere gli effetti sulla salute, compresi gli effetti sui polmoni e sul cuore”.

Quindi: “A causa della novità di questi prodotti, non sono disponibili studi epidemiologici a lungo termine. La personalizzazione delle sigarette elettroniche, inclusi i livelli di potenza, il contenuto di liquidi elettronici e l'abbondanza di aromi, rende difficile la regolamentazione dei prodotti”.

Gli autori proseguono: “È diventato sempre più evidente che i sistemi elettronici di somministrazione della nicotina sono in continua evoluzione. Pertanto, la comprensione dei loro effetti sulla salute è fondamentale […]”.

In sintesi

Le sigarette elettroniche sono state anche commercializzate come ausili per smettere di fumare; sebbene la Food and Drug Administration (FDA) statunitense non abbia approvato le sigarette elettroniche come aiuto alla cessazione, l'industria a volte ha posizionato i propri prodotti in quel modo.

Rispetto al cerotto la loro efficacia nel ridurre il consumo di nicotina è assente. Anzi si è osservato che gli adolescenti che iniziano a svapare sono più propensi poi a diventare dipendenti dalle sigarette.

La tossicità del vapore di sigaretta elettronica rimane poco conosciuta, con alcuni piccoli studi che suggeriscono una potenziale tossicità cardiopolmonare. Con l'eccezione della nicotina, la maggior parte dei componenti di e-liquid elencati sono nell'elenco della FDA è generalmente considerato sicuro (GRAS). Tuttavia, è importante sottolineare che la maggior parte delle sostanze chimiche nell'elenco GRAS erano intese come componenti alimentari e un aspetto chiave dell'atto GRAS è che "la sostanza deve essere 'generalmente riconosciuta' come sicura alle condizioni della sua destinazione d'uso”.

Molti componenti del GRAS non sono stati testati per la tossicologia per inalazione e il loro impatto sul sistema polmonare è sconosciuto.

Numerosi studi hanno scoperto che acetaldeide, acroleina, diacetile e formaldeide si formano dopo lo svapo. L'acroleina e la formaldeide sono potenti irritanti e noti cancerogeni.

Le raccomandazioni ai politici

In sintesi ecco l'appello che gli studiosi rivolgono ai responsabili politici di ogni nazione:

· Adottare misure per ridurre l'accesso dei giovani alle sigarette elettroniche, inclusa la rimozione di tutte le sigarette elettroniche aromatizzate

· Limitare la commercializzazione di sigarette elettroniche ai giovani nelle piattaforme online

· Offrire programmi atti a smettere di fumare per i giovani che comprendano anche le e-cig

· Includere nella formazione dei medici anche programmi sui rischi a breve e lungo termine dello svapo

· Incorporare anche le sigarette elettroniche nelle leggi che regolano il fumo nei luoghi chiusi.

Conclusioni

"Gli adolescenti che iniziano a svapare possono restare dipendenti per tutta la vita e, al momento, non si sa quali malattie potrebbero sviluppare nel corso della loro vita; i medici possono aiutare a educare genitori e bambini sui pericoli dello svapo, oltre a promuovere leggi più severe per vietare la vendita e la commercializzazione di sigarette elettroniche agli adolescenti", hanno concluso gli autori.

Casaleggio a libro paga della Philip Morris, tutti i dettagli della maxi consulenza. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Novembre 2020 

Casaleggio Associati srl – che ha manifestamente operato fino a oggi come società di servizi per il Movimento Cinque Stelle – ha incassato da Philip Morris Italia la maxi somma di 1.950.166 euro e 74 centesimi, al netto dell’Iva. Quasi due milioni di euro tondi, che con l’Iva arrivano a 2.379.203 euro. Una cifra impressionante, riferita ad un periodo di fatturazione, da noi analizzato, compreso tra il settembre 2017 e lo scorso mese di ottobre 2020. Il rapporto di consulenza tra il gigante mondiale dell’industria del tabacco e la Casaleggio Associati riveste carattere di continuità: le fatture non sono relative ad un evento specifico ma regolarmente cadenzate nel tempo.

Quelle che abbiamo avuto modo di verificare riguardano 49 pagamenti, molti dei quali da 50.000 euro tondi, alcuni minori ed altri, in particolare la fattura di fine anno, staccata a fine novembre, di 140.000 euro. La media dei bonifici partiti da Philip Morris e ricevuti dalla società di Davide Casaleggio è stata nel tempo di 40.000 euro al mese nel periodo esaminato. Rispetto all’arco di tempo tra il 2017 e il febbraio 2018 si nota un incremento nelle cifre versate a partire dal marzo 2018, quando il Movimento Cinque Stelle va al governo con la Lega. Sarà un caso, ma quando la settimana scorsa è esploso il caso dell’europarlamentare Dino Giarrusso, lo stesso s’è abbandonato a uno sfogo dal sen fuggito: «Ho ricevuto un contributo come tutti i parlamentari del Movimento. Io odio il fumo, non ho nulla a che fare con la lobby del tabacco. Ho pensato solo: se hanno finanziato tutti gli eletti alle politiche del 2018, potranno finanziare anche me».

Corroborati dall’ammissione inequivocabile dell’ex Iena, abbiamo focalizzato la lettura degli interventi normativi mirati. Siamo andati a spulciare i conti. A verificare le transazioni. E soprattutto, abbiamo ricollegato quella gigantesca e continua operazione di sostegno finanziario ai servigi resi. Ne risulta che l’industria del tabacco, e Philip Morris in modo particolare, ha beneficiato di un trattamento di favore relativo soprattutto al regime di tassazione agevolata che riguarda il tabacco bruciato. Le sigarette elettroniche. I prodotti innovativi come Iqos, per intenderci. Su di loro è stata applicata, in via fiduciaria, dando per buona l’asserita minore nocività sulla salute, una riduzione importante sull’applicazione dell’accise. La tassa che lo Stato esige sui prodotti del tabacco è stata ridotta negli anni.

Nel 2014, quando il primo prodotto da tabacco bruciato compare sul mercato italiano, la riduzione è del 50%. Quando il Movimento Cinque Stelle vince le elezioni del 4 marzo 2018 e dà vita al primo governo Conte, ecco che lo sconto sulle accise si riduce di un ulteriore 25%, diventando così del 75%. A dispetto della valutazione delle autorità sanitarie, che nello stesso periodo chiedono alle case produttrici di approfondire test ed esami clinici, la liquidità che viene garantita dal minor gettito si fa gigantesca. Per intenderci: se un pacchetto di sigarette tradizionali costa 5 euro, 4 sono quelli che vanno all’erario, tra accise ed Iva. 50 centesimi vanno al tabaccaio, come agio. Il margine per il produttore è di 50 centesimi a pacchetto venduto. Per i prodotti da tabacco riscaldato, no: il pacchetto costa 4,50 euro in media. Al tabaccaio vanno anche in questo caso 50 centesimi. Ma all’erario va meno. Diciamo 1,50 euro. Il margine per Philip Morris è di 2,50 euro per ciascun pacchetto venduto; non a caso il marketing delle grandi aziende di tabacco è così fortemente orientato su quei prodotti.

Per capirci: in Italia sono stati venduti in quattro anni 13 milioni di Iqos, per ognuno dei quali devono essere acquistate le ricariche, continuamente. Il margine realizzato raggiunge cifre stratosferiche. Tanto che alla voce “investimenti” figurano società di lobbying e realtà ibride in grado di dialogare con la politica. Di incidere sulla sfera pubblica e sui decisori. Siamo nell’ambito dell’illecito? Non sta a noi dirlo.

Siamo però in un campo minato, dove dietro a ogni piantina di tabacco possono nascondersi grandi insidie. Perché una industria così potente in Italia sembra aver messo tramite i lobbisti i propri artigli sui parlamentari del primo partito politico, perno del governo del Paese da due anni. Forti di un gettito di 14 miliardi di euro, le industrie del tabacco sembrano essere riuscite a influenzare direttamente le decisioni che le riguardavano, realizzando profitti a scapito dell’erario pubblico. Aiuto di Stato, potremmo definirlo, e non sapremmo dire come la prenderebbe l’Europa. Minor introiti per finanziare scuola, ricerca, sanità e trasporto pubblico in un momento di grave crisi per il Paese, certamente.

Di nuovo regime fiscale si è iniziato a parlare qualche settimana fa, quando il Direttore dell’Agenzia delle Dogane, l’economista Marcello Minenna, ha preparato un intervento specifico da sottoporre al governo, per il collegato alla manovra di bilancio. Minenna prevedeva un nuovo regime fiscale con il superamento dell’equivalenza e l’introduzione di un prelievo calcolato sul prezzo di vendita al pubblico dichiarato dal produttore, obbligo del bollino dei Monopoli e vendita solo dopo il via libera dell’Agenzia delle dogane per le sigarette elettroniche e i liquidi utilizzati per lo svapo, chiedendo alla maggioranza di introdurli nella nuova legge di Bilancio in preparazione. Poi però è arrivata – anche quest’anno – una manina. Invisibile, come avvolta in una nube di fumo. E ha cancellato tutto.

«Niente più rincari per le sigarette elettroniche – attesta Ansa il 15 scorso – nell’ultima bozza della manovra salta, infatti, la previsione di una accisa del 25% del prezzo di vendita sui prodotti derivati dal tabacco, i tabacchi da inalazione senza combustione, le sigarette elettroniche e i prodotti accessori che sarebbe scattata dal primo gennaio». Quando si indaga è importante trovare la pistola fumante. Noi abbiamo trovato un Iqos.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste. 

Il Parlamento italiano fa un altro regalo alle multinazionali del tabacco. L'Indipendente il 23 febbraio 2022.

Il cosiddetto decreto legge Milleproroghe, dopo la fiducia accordata dalla Camera il 21 febbraio ed il voto finale del giorno seguente, dovrà ora essere approvato definitivamente dal Senato: al testo, però, sono state apportate alcune modifiche passate in sordina ma estremamente rilevanti, in quanto costituirebbero un vero e proprio regalo per le multinazionali del tabacco. Al suo interno, infatti, è stato inserito l’articolo 3-novies, che prevede il congelamento del previsto aumento del 5% delle accise sulle sigarette elettroniche nonché l’arrivo sul mercato di un nuovo prodotto: le “nicotine pouches”, ovvero bustine di nicotina da inserire tra il labbro superiore e la gengiva che permettono di assorbire la sostanza senza alcuna combustione. Non si tratta comunque della prima volta che in Italia ci si muove a favore delle aziende del tabacco: basterà ricordare l’emendamento alla finanziaria, presentato nel dicembre scorso da quattro parlamentari leghisti, atto ad eliminare l’incremento progressivo dell’incidenza fiscale per il 2022 e il 2023 applicata al tabacco riscaldato, un settore nel quale la Philip Morris International (PMI) gioca il ruolo di leader mondiale.

Per quanto riguarda il congelamento dell’aumento delle accise, nello specifico, quella per i prodotti succedanei dei prodotti da fumo viene prorogata “al 20 e al 15 per cento dal 1° gennaio 2022 al 31 marzo 2022”, mentre poi viene abbassata “al 15 e al 10 per cento dal 1°aprile 2022 fino al 31 dicembre 2022”. Tutto ciò si tradurrebbe dunque in introiti aggiuntivi per 7 milioni e 200 mila euro per le multinazionali del tabacco, essendo questa la cifra che viene indicata come “oneri derivanti dal comma 1”, ossia quello che ha introdotto le disposizioni sulle accise appena citate. Un importo a cui lo Stato italiano farà fronte tramite risorse che arrivano da fondi Mef (Ministero dell’economia e delle finanze) e, per circa 1 milione, dalle nuove imposte: le “nicotine pouches”, infatti, saranno soggette ad “imposta di consumo pari a 22 euro per chilogrammo”.

Di conseguenza, probabilmente con la motivazione di coprire le spese, è stato dato il via libera a questo nuovo prodotto, che però non solo a sua volta beneficerà delle accise più basse, ma sembrerebbe fare felici i colossi del tabacco. In particolare, potrebbe ritenersi soddisfatta la British American Tobacco (BAT), ovverosia la seconda più grande azienda mondiale produttrice di sigarette. Quest’ultima, infatti, starebbe pensando di avviare la produzione delle nicotine pouches nello stabilimento che aprirà a Trieste, per il quale saranno investiti fino a 500 milioni di euro nell’arco di 5 anni.

Detto ciò, merita menzione anche il modo in cui si è arrivati ad introdurre nel testo quanto detto finora. La modifica, infatti, è stata approvata a larga maggioranza: ad opporsi sono stati in pochissimi, tra cui il deputato di Alternativa ed ex membro del Movimento 5 Stelle Raffaele Trano che, tramite delle dichiarazioni rilasciate al giornale Tag43, ha denunciato non solo il fatto che «queste norme-riforma entrino con emendamenti notturni» ma altresì che siano appunto supportate da «partiti come il Movimento 5 stelle, che un tempo le denunciava mentre oggi nemmeno si astiene». Anche Forza Italia però ha votato contro, con il vicecapogruppo a Montecitorio Raffaele Nevi che ha affermato: «È impensabile inviare un emendamento così complesso, che regolamenta di fatto un intero settore, poco prima di metterlo in votazione e senza discuterne in maggioranza».

[di Raffaele De Luca]

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L'inchiesta sulla Fondazione Open. I Pm e le ‘indagini creative’ su Renzi, ma su Philip Morris chiudono gli occhi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Novembre 2021 

Il ministro degli Esteri Di Maio, intervenendo a un convegno nell’ambito di Expo 2020, si è detto soddisfatto per gli investimenti che Philip Morris sta realizzando in Italia. Già. E così mi è venuta in mente tutta la vicenda dei rapporti stretti tra i 5 Stelle e Philip Morris della quale in realtà ha parlato quasi solo il nostro giornale ma è una vicenda bella grossa. Mi è venuta in mente anche per un’altra ragione. Ho messo mentalmente a confronto il rumor di grancassa intorno all’inchiesta dei Pm fiorentini su “Open” e il silenzio ovattato intorno a questa vicenda di Philip Morris. Vediamolo bene questo confronto.

“Open” è una Fondazione che è stata finanziata in maniera volontaria e con somme relativamente modeste da alcune centinaia di sostenitori. Non sottobanco. Ogni euro versato è stato bonificato, registrato, dichiarato e segnalato. Non c’era niente di illegale né di losco. I Pm di Firenze hanno deciso di mettere sotto indagine “Open” per due ragioni. Una evidentemente vera, l’altra evidentemente pretestuosa. La ragione vera è che “Open “è roba di Matteo Renzi, e un pezzo di magistratura e di informazione (entità talvolta quasi coincidenti) da tempo hanno messo Renzi nel mirino. Se non si trovano reati a suo carico resta solo la possibilità dell’”indagine creativa” che invece di fondarsi sul codice penale si fonda sulla capacità di inventiva degli inquirenti.

L’inventiva, a pensarci bene, è una qualità, non un difetto. E così i Pm hanno deciso che siccome finanziare una Fondazione non è reato, neppure un pochino, basta però stabilire che “Open” non è una Fondazione ma un partito e il finanziamento (almeno una parte del finanziamento) anche se dichiarato e trasparente diventa reato, sulla base di una legge recente che equipara il finanziamento dei partiti politici a quello delle associazioni a delinquere. Ok. Ma come si fa a stabilire che “Open” non è una fondazione ma un partito? I Pm hanno deciso che per fare questo è sufficiente la loro parola. Se loro dicono che è un partito, è un partito. E allora hanno detto: è un partito. La parola dell’inquirente diventa prova. Anche questo è diritto creativo, uno degli aspetti più originali della modernità.

La faccenda Philip Morris invece è molto più semplice. L’abbiamo denunciata con scarsi risultati circa un anno fa. Cosa era successo? La Philip Morris aveva finanziato con circa 2 milioni di euro la Casaleggio. E – ovviamente in modo del tutto casuale – i 5 Stelle – che all’epoca erano molto legati a Casaleggio – in Parlamento avevano ottenuto un clamoroso sconto fiscale a vantaggio dei prodotti della Philip Morris.

Abbiamo calcolato che questo sconto produceva una riduzione delle tasse di circa 500 milioni all’anno per la Philip Morris. E, di conseguenza, produceva mancate entrate all’erario per mezzo miliardo. Una quantità di denaro clamorosa, se pensate che la maxitangente Enimont – quella che nel ‘92 provocò la caduta della Prima repubblica, centinaia di arresti tra i politici, la fine e poi la morte in esilio di Bettino Craxi – era una tangente di circa 60 milioni di euro. Noi del Riformista, quando fummo informati di questa storia, cercammo di parlarne sul nostro giornale e di farci notare. Ottenemmo che nella legge di bilancio del 2021 lo sconto fiscale fosse ridotto un pochino, ma non troppo. Però questa modesta riduzione, scritta nella legge mandata alle Camera, nella notte fu ritoccata con un ulteriore piccolo favore a Philip Morris (anche in questo caso, lo so benissimo, i fatti furono del tutto casuali e privi in ogni caso di dolo).

Ora non credo che ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni per capire che i due casi – “Open” e Philip Morris – sono molto diversi. Nel primo caso non c’è l’ombra né di reati né di scambio tra finanziamenti e favori. Nel secondo caso sicuramente ci sono stati sia i finanziamenti (molto cospicui) sia i favori (clamorosamente cospicui) anche se niente ci autorizza e credere che tra favori e finanziamenti ci fosse una relazione. In genere, a essere onesti, i Pm non sottilizzano molto, in questi casi, e se vedono un finanziamento e subito dopo un favore, anche piccolino, stangano. C’è gente che ha avuto la vita rovinata per 10 mila euro, non per due milioni. Stavolta, per fortuna, sembra che i Pm vogliano comportarsi in modo parecchio più cauto. E questa è una cosa buona. Che noi apprezziamo molto. Sarebbe ancora migliore se qualche cautela la dimostrassero anche i Pm fiorentini. Ma forse è chiedere troppo.

Così come è una domanda veramente stronza quella di chi vorrebbe sapere dai grandi giornali come mai si sono entusiasmati per “Open “e se ne fregano del tabacco. Proprio stronza: noi ci guardiamo bene dal porre questa domanda.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le buone pratiche per il lavoro in Philip Morris. Luca Romano su Il Giornale il 30 Agosto 2022

Philip Morris International, azienda leader nel mercato del tabacco, da anni sta vivendo una profonda trasformazione riguardante la sua visione aziendale

Un ambiente di lavoro inclusivo, che garantisce pari opportunità e trattamento a tutti i dipendenti, con un’attenzione particolare nei confronti della valorizzazione del talento femminile e nell’eliminazione delle differenze di trattamento tra uomini e donne. Sono questi alcuni dei pilastri fondamentali sui quali poggiano le buone pratiche per il lavoro in Philip Morris International, azienda leader nel mercato del tabacco, da anni al centro di una profonda trasformazione riguardante la sua visione aziendale.

Obiettivo Gender Equality

Con oltre 69,600 dipendenti provenienti da ogni angolo del mondo, operante in più di 180 mercati e dotata di 39 strutture produttive, Philip Morris International (PMI) ha intenzione di costruire un futuro senza fumo. Si tratta di un obiettivo ambizioso, che ha spinto l’azienda ad attuare una profonda trasformazione, tanto per quanto concerne il modello di business – che necessita nuove competenze - quanto per l’organizzazione.

Tutto questo va di pari passo con altri obiettivi lavorativi. Da anni, ad esempio, Philip Morris si è impegnata a contribuire al raggiungimento del SDG n. 5, Gender Equality, volto ad attuare pienamente la parità di genere nel lavoro. Philip Morris Italia e Philip Morris Manufacturing & Technology Bologna, le due affiliate dell’azienda presenti in Italia, sono le prime tra le realtà aziendali del nostro Paese ad aver ottenuto l’EQUAL-SALARY Certification, che attesta la parità di retribuzione a parità di mansione svolta tra uomini e donne.

Più in generale, nel 2019 PMI è stata la prima multinazionale al mondo a certificare tutte le affiliate, diventando il primo gruppo mondiale certificato EQUAL-SALARY, a conferma dell’impegno concreto per combattere il gender gap a conferma dell’impegno per garantire la parità nella retribuzione a parità di mansione tra uomo e donna.

Il valore della forza lavoro femminile

Un altro aspetto focale riguarda la forza lavoro femminile in azienda. In PMI, infatti, molte posizioni manageriali sono ricoperte da forza lavoro femminile. A questo proposito, un altro obiettivo consiste nell’incrementarle ulteriormente, valorizzando, appunto, le competenze e i talenti di ciascuno. Le affiliate italiane sostengono non a caso Valore D, ovvero la prima associazione di imprese che promuove l’equilibrio di genere e una cultura inclusiva per la crescita delle aziende e del Paese.

Non solo: l’azienda è entrata a far parte anche della Rete CapoD, la Comunità di aziende per le Pari Opportunità nata sul territorio bolognese in stretta collaborazione con le istituzioni pubbliche locali e alla quale hanno aderito, oltre a Philips Morris Manufacturing & Technology Bologna, altre grandi realtà aziendali da sempre sensibili alle pari opportunità sul lavoro.

Inclusività e valorizzazione della diversità

L’impegno di PMI di creare un ambiente lavorativo in cui coniugare il benessere e la qualità di vita delle persone, nel segno dell’inclusività e della valorizzazione della diversità, trova conferma nelle numerose iniziative sostenute dal gruppo. Prendiamo il Global Parental Leave (GPL), un programma globale introdotto dal novembre 2021 per riconoscere la necessità di un equilibrio tra genitorialità e carriera. Il GPL consente ai futuri genitori di concentrarsi sulla cura del/la figlio/a nel periodo successivo alla nascita o all'adozione, garantendo un periodo minimo retribuito al 100% per entrambi i genitori, ad integrazione di quanto già previsto dalla normativa nazionale e dal contratto integrativo aziendale.

Sempre in merito alla parità di genere, le due affiliate in Italia di PMI hanno lanciato varie iniziative per sensibilizzare e favorire l’avvicinamento delle donne alle discipline STEM, ovvero alle discipline scientifico-tecnologiche e ai relativi corsi di studio. In questo ambito è importante consolidare la presenza femminile.

Il benessere dei dipendenti al primo posto

Philip Morris ha inoltre garantito il regime di lavoro agile smart working per tutta la durata dello stato di emergenza Covid. Al termine di questo periodo ai dipendenti è stata data la possibilità di sottoscrivere un accordo innovativo individuale per il lavoro agile, sempre nell’ottica di favorire un maggiore equilibrio di vita e lavoro per tutte e tutti.

Assistenza e benefit

PMI mette a disposizione dei dipendenti anche Employee Assistance Program (EAP). Si tratta di un programma di assistenza totalmente confidenziale, rivolto anche alle famiglie, per garantire supporto nell’affrontare specifiche situazioni in ambito psicologico, legale e finanziario. Con EAP è possibile, in sostanza, consultare consulenti certificati, specialisti e materiale online per ricevere supporto in maniera del tutto gratuita per affrontare situazioni di stress, ansia e depressione e, più generale, risolvere molteplici problemi.

Vale infine la pena concentrarsi su un particolare molto importante ma troppo spesso trascurato. Per favorire giornate di lavoro in cui i dipendenti non siano costretti a meeting continui senza pause e soluzione di continuità, PMI ha introdotto una pausa di cinque minuti per le riunioni più brevi e di dieci per quelle più lunghe. Un modo per venire incontro, anche da lontano, alla necessità di piccoli break tra una riunione e l’altra.

Voto di scambio in salsa grillina. È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Augusto Minzolini il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.

È difficile, anche in un Paese strano come il nostro, inventarsi una ragione per votare 5stelle. Dopo la fallimentare esperienza - per usare un eufemismo - dei due governi Conte o devi essere affetto da puro masochismo, o devi essere del tutto fuori di testa, o deve piacerti il travaglismo più «hard» se desideri davvero rivedere i grillini alla prova. Eppure a guardare i sondaggi Conte e soci sono ancora là. Attorno al 10%. E dalla analisi accurata delle indagini che ha riportato ieri su questo giornale Paolo Bracalini le zone dove lo zoccolo duro grillino appare più radicato sono al Sud, in particolar modo dove c'è una maggiore presenza di percettori del reddito di cittadinanza. Una situazione che rende difficile per i candidati degli altri partiti in loco proporre almeno una riforma della legge viste le tante distorsioni che presenta. Alla fine c'è chi preferisce perdere i freni inibitori come Dario Franceschini che, candidato in Campania dove il reddito di cittadinanza ha assunto il valore del dogma, ha rimosso del tutto dalla sua mente le cronache delle truffe che hanno costellato l'applicazione della norma e lo ha trasformato in un tabù ideologico che precede pure l'agenda Draghi. «Giù le mani dal reddito» è il suo slogan elettorale: punto e basta.

Ma nel Paese che si è inventato il reato del «voto di scambio», nel quale c'è una larga applicazione di quelli sulla «corruzione elettorale» o «sul traffico di influenze», dove per una raccomandazione per un lavoro finisci dietro le sbarre, stride o almeno suscita un minimo di ironia che il meccanismo del «do ut des» sia stato addirittura istituzionalizzato: tu mi garantisci quella cifra (che a seconda dei nuclei famigliari va da 500 a 1200 euro) per starmene a casa e io ti voto. Perché alla fine di tutti i discorsi e di tutti i ragionamenti la sostanza è questa.

E lo «scambio» non si chiude in un'elezione come le scarpe che Achille Lauro prometteva agli elettori, cioè una prima del voto e una dopo, ma si prolunga nel tempo perché l'unico argomento che hanno i 5stelle in questa campagna elettorale è la promessa che il reddito non sarà cancellato o, magari, riformato. Per cui anche chi lo prende di straforo, anche chi truffa guarda ai grillini. Così il «do ut des» rischia di essere perpetuo: il reddito in cambio del voto per una vita.

Eppure il provvedimento è pieno di lacune, era stato immaginato innanzitutto per trovare un lavoro ai disoccupati. Addirittura era stata introdotta la figura dei «navigator» per raggiungere questo obiettivo ma da questo punto di vista la legge si è rivelata un fallimento. Ha creato, però, un meccanismo paradossale: i candidati grillini promettono di garantire il reddito ai loro elettori che lo percepiscono in poltrona a casa e in cambio si assicurano una poltrona in Parlamento e uno stipendio da parlamentari. Reddito per reddito. Una furbizia ben congegnata. In linea con la filosofia grillina, ma che a quanto pare sta facendo adepti in un Pd sbandato che non trova argomenti. Vedi, appunto, Franceschini. E se questo è il ricatto è difficile che questa norma piena di limiti sarà mai riformata. Continuerà a non trovare lavoro chi non ne ha, ma nel contempo proseguirà questa sorta di «voto di scambio» tra nullafacenti della società civile e nullafacenti del Palazzo. 

Movimento 5 nullafacenti: Conte al 10% grazie al reddito minimo. I dati sui percettori del reddito rispecchiano i voti che prenderanno i grillini. Salvatore Di Bartolo su Nicola Porro.it il 4 Settembre 2022.

È il reddito di cittadinanza a mantenere in vita i Cinque Stelle. A certificarlo il sondaggio sulle intenzioni di voto curato da Nando Pagnoncelli per il Corriere della Sera, secondo cui è proprio il sussidio che riesce ad assicurare al Movimento un bacino di voti superiore al 10 per cento. La tesi di Pagnoncelli è peraltro suffragata da numeri che appaiono inequivocabili. Su un totale di 30 milioni circa di elettori che domenica 25 settembre si recheranno alle urne (il dato tiene già in considerazione gli astenuti) il M5s si attesterebbe attorno al 12 per cento, ovvero 3,4 milioni di voti circa. Un numero che, dati alla mano, appare perfettamente sovrapponibile all’attuale platea dei beneficiari del sussidio.

Secondo i dati Inps, infatti, i nuclei familiari beneficiari di reddito di cittadinanza sono attualmente 1,61 milioni, per un totale di 3,52 milioni di soggetti coinvolti. Più o meno il numero degli elettori che – secondo il sondaggio – il prossimo 25 settembre dovrebbero barrare il simbolo del Movimento 5 Stelle sulla scheda elettorale. Potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza? La risposta è no. Perché ad avvalorare ulteriormente la tesi di Nando Pagnoncelli ci pensa la geografia. Secondo i già citati dati Inps, al Nord i percettori del sussidio grillino ammontano a 443 mila, al Centro a 340 mila, mentre oltre 1,7 milioni si trovano nelle regioni del Sud.

Osservando nel dettaglio la distribuzione dei percettori si può osservare come il 22 per cento di essi si trovi in Campania, regione che da sola conta più beneficiari dell’intero nord Italia. Dando un’occhiata ai sondaggi politici realizzati da Pagnoncelli si scopre poi come i Cinque stelle siano accreditati al 20 per cento in Campania, guarda caso una percentuale quasi corrispondente a quella dei beneficiari dell’assegno pentastellato. Al contrario, il consenso di cui godono i grillini al Nord è alquanto limitato, esattamente come il numero dei percettori.

Lo studio di Pagnoncelli conferma dunque, laddove ve ne fosse ancora la necessità, cosa realmente sia il reddito di cittadinanza: una gigantesca operazione di voto di scambio. Probabilmente la più imponente che sia mai stata realizzata nella storia repubblicana. Salvatore Di Bartolo, 4 settembre 2022

Estratto dall'articolo di Lorenzo d’Albergo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 10 agosto 2022.

Un sacco pieno di immondizia, di quelli neri, e una scatola di cartone abbandonati accanto a un cassonetto pieno in viale Ezra Pound, nel quartiere Talenti. E poi il blocco del bocchettone di un bidone dell’indifferenziata per gettare i rifiuti caricati a bordo dell’auto di servizio. È una storia di comune degrado, ma aggravata dal ruolo pubblico che ha rivestito e riveste ancora in Campidoglio, quella di cui è protagonista Stefano Brinchi. 

L’ex amministratore delegato di Roma Servizi per la Mobilità, candidato senza fortuna alle Comunarie del M5S nel 2016 ma comunque premiato dall’ex sindaca Virginia Raggi con un posto da top manager, lo scorso gennaio è stato multato tre volte dai vigili urbani dopo essere stato immortalato dalle fototrappole anti-sporcaccioni. Gettava la spazzatura senza rispettare le norme messe nero su bianco proprio dai 5S nel regolamento di gestione dei rifiuti urbani.

Ora il guaio non sono tanto i 600 euro di sanzione comminati al dirigente dagli agenti del Nucleo Ambiente Decoro della polizia municipale. Brinchi rischia anche un provvedimento disciplinare. La notizia, infatti, è già arrivata ad Anna Donati, presidente del cda di Roma Servizi per la Mobilità che a marzo ha sostituito il tecnico pentastellato. […] 

In realtà, però, i lavoratori di Roma Servizi per la Mobilità segnalano molto di più. Negli uffici che per conto del Comune si occupano di disegnare l’assetto del trasporto pubblico cittadino non si parla d’altro. 

Dell’auto di Brinchi e delle tre multe, certo. Ma nella denuncia si legge pure dell’uso della tessera carburante e del Telepass. Accuse sottoposte all’organismo di vigilanza dell’agenzia, che avrebbe già inviato un dossier ai nuovi vertici. […]

Brinchi, contattato al telefono, si difende e rilancia: «Ero perfettamente cosciente che c’erano le telecamere, ben visibili anche i cartelli che le segnalavano. Ma ero convinto di essere nel giusto visto lo stato dei cassonetti. Quando sono arrivate le multe ho pensato di fare ricorso. Ma poi, visto il mio ruolo, ho capito che non sarebbe stato il caso. Così ho pagato e basta. L’auto di servizio? L’ho usata per i miei spostamenti di lavoro. Per scelte di chi c’era prima di me non c’era nemmeno l’autista. Tornando ai rifiuti, ora sono io che denuncio ai vigili i cassonetti pieni. Ormai sono una costante».

Pasquale Napolitano per polisnews.it il 23 luglio 2022.

Arriva la prima deroga nel M5S al limite del doppio mandato: Roberto Fico guiderà la lista dei Cinque stelle nel collegio plurinominale Campania 1 che comprende oltre alla città di Napoli anche il comune di Giugliano. 

Decisione ormai presa dai vertici del Movimento, al netto della contrarierà di Beppe Grillo: “Siamo in un momento caotico e potremmo essere morti tra 15 giorni ma i nostri due mandati sono luce in questa tenebra incredibile, sono l’interpretazione della politica come un antibiotico quasi un servizio civile.

La regola pentastellata dei due mandati dovrebbe diventare Legge di Stato, l’Italia lo merita come una Legge contro i cambi di casacca, si merita una legge elettorale con sbarramento, una per la sfiducia costruttiva. Non siamo riusciti a farle, mi sento colpevole anch’io, però abbiamo di fronte qualcosa di straordinario: sono tutti contro di noi e quando è così vuol dire cha abbiamo ragione” ha attaccato oggi il comico. Parole al vento: il presidente della Camera correrà, grazie all’intesa con Giuseppe Conte, per il terzo mandato.

Estratto dell’articolo di Francesco Malfetano per “il Messaggero” domenica 24 Luglio 2022. 

[…] Beppe Grillo […] prova a lanciare il nuovo corso del Movimento 5 stelle. Uno slancio che è più che altro un ritorno al passato. […] l'Elevato da un lato difende gli ultimi avamposti di ciò che fu il Movimento immaginato con Gianroberto Casaleggio come il limite al secondo mandato e, dall'altro, rispolvera chi quell'anima l'ha già incarnata, finendo però ai margini. 

Sulle barricate ci saranno con ogni probabilità le ex sindache Virginia Raggi (candidata a Ostia, dove ha ottenuto buoni risultati anche alle Comunali dello scorso anno) e Chiara Appendino (a Torino). Ma anche un rivoluzionario buono per tutte le stagioni come Alessandro Di Battista […] e, perché no, un comunicatore di razza come Rocco Casalino.

Restano un paio di però. Non solo sul cosa Giuseppe Conte possa davvero incarnare in questa stagione (nonostante un seggio a Roma dato per certo), ma anche sul come verranno integrate le truppe. […] 

[…] Grillo […] marca il territorio, attraverso la sola regola aurea dei grillini non smantellata: il limite al secondo mandato. […] È la parola fine sull'esperienza politica di molti dei volti più noti di oggi (dalla vicepresidente Paola Taverna ai ministri governisti Federico D'Incà e Fabiana Dadone, fino a Carlo Sibilia e Riccardo Fraccaro) e di ieri: come il presidente della Camera Roberto Fico, l'ex capo politico ad interim Vito Crimi e Roberta Lombardi, prima capogruppo alla Camera.

Ma anche gli ex ministri Alfonso Bonafede e Danilo Toninelli. A restare fuori saranno in 49. La lista è lunga e lastricata di insoddisfatti. Anche perché dopo l'intervento di Grillo appare tramontata la possibilità di deroghe ad personam (il comico peraltro è il proprietario del simbolo M5S che va presentato entro il 21 agosto per consegnare le liste), ma non degli incarichi retribuiti nel partito. Tant' è che nelle chat già montano le polemiche perché, se il limite ai due mandati è stato mantenuto, non lo è stato il no al 2xmille, fondamentale anche a pagare il contratto da 300mila euro di consulenze allo stesso Grillo. […] 

M5S, la linea «granitica» di Grillo per colpire chi si schierò contro di lui. Emanuele Buzzi su Il Corriere della Sera il 28 Luglio 2022.

Da Crimi a Lombardi, chi si ribellò al leader storico nel 2021 ora rischia. L’esito del duello potrebbe arrivare «entro domenica». Di Maio attacca. 

«Ne resterà soltanto uno»: c’è chi cita Highlander per sdrammatizzare lo scontro tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo. La mediazione sul tetto dei due mandati e la forte opposizione del garante, al di là dei toni usati, sta delineando nel Movimento l’ultimo estremo scontro. «Se Conte molla, dimostra al mondo intero che a comandare è Beppe», dicono alcuni esponenti alla seconda legislatura che si sentono traditi dal leader. Diversi parlamentari temono che l’ex premier li voglia scaricare dopo aver promesso loro una deroga. Altri insistono sulla natura politica dello scontro. Uno scontro che — sostengono in ambienti vicini all’ex premier — il presidente M5S avrebbe evitato volentieri. Specie con questi toni così accesi.

Ma Grillo non ne vuole sapere. «È un muro», dice chi ha avuto modo di sentirlo. Il motivo è duplice. Da un lato il garante ha a cuore i principi delle origini, si sente il custode di quei valori messi in campo insieme a Gianroberto Casaleggio e crede fermamente che «resettare» il Movimento dopo l’esperienza di governo degli ultimi anni possa solo rinverdire le sorti dei Cinque Stelle.

Dall’altro lato, Grillo non concepisce di dove r «aiutare» personalità che lo scorso anno nella querelle con Conte si sono schierate apertamente contro di lui. Il garante ha ben presente le prese di posizione di Vito Crimi, Roberta Lombardi, Giancarlo Cancelleri, che nel 2021 usarono toni molto duri per attaccarlo . E non ha gradito nemmeno il ruolo svolto all'epoca da Paola Taverna. Grillo, insomma, si è sentito «tradito» da una parte di quei «figli politici» che lui stesso aveva lanciato nell’agone dei palazzi romani. La cicatrice è rimasta ed è ben visibile. E anche per questo il fondatore del M5S non vuole saperne di venire incontro a Conte per delle micro-deroghe. Troppo rischioso.

«Così ci uccide tutti», si lamentano però alcuni lealisti del garante. «Noi non abbiamo fatto nulla». Tra le vittime sacrificali c’è anche il presidente della Camera, Roberto Fico, che con Grillo vanta un rapporto strettissimo da anni, ma che negli ultimi mesi è stato in prima linea al fianco di Conte nella gestione del partito. Come riporta anche Dagospia, alcune fonti vicine a Grillo spiegano come il garante sia convinto che alla base di questa situazione in parte ci sia l’addio di Luigi Di Maio (e come è stata gestita la pratica nel Movimento). Ecco, quindi, la necessità per vari motivi di essere «granitici».

Il problema è che lo scontro vede due contendenti a rischio di stallo perpetuo. Conte ha dalla sua la forza dei fedelissimi (una buona fetta del gruppo parlamentare anche se circolano voci di altri venti addii), ma il leader potrebbe far valere la propria voce anche tra la base e gli eletti per cercare la prova di forza. Grillo dal canto suo ha il simbolo: c’è chi teme che più che sfilarsi dal M5S il garante possa far saltare l’uso del logo a Conte a due mesi dal voto. Una mossa estrema, che metterebbe il leader del Movimento in seria difficoltà e che aprirebbe un’altra faglia (insanabile). Tutte e due i contendenti, insomma, hanno punti di forza e punti deboli. Nessuno — come era già successo un anno fa — sembra in grado però di vincere il duello senza uscirne a sua volta fortemente danneggiato.

Tra i due litiganti, Di Maio gongola: «Probabilmente Grillo cederà ancora una volta, di certo non è un bellissimo spettacolo vedere forze politiche che si azzuffano al loro interno per qualche poltrona», dice a Controcorrente su Rete 4 il ministro degli Esteri.

Nel partito lo «spettacolo» viene guardato con preoccupazione. «Non è che Beppe voglia chiudere il Movimento?», si domanda smarrito uno stellato. «Devono smetterla. Conte si faccia sentire, trovino una sintesi: gli altri partiti hanno già iniziato la campagna elettorale. Il nostro presidente e il garante sono al mare a parlarsi addosso per un tema di poltrone: gli italiani cosa capiranno?», si sfoga un altro Cinque Stelle. La resa dei conti arriverà comunque «entro domenica», sostengono i ben informati.

Grillo minaccia l’addio sul terzo mandato e fornisce l’alibi a Conte. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 27 luglio 2022.

Mentre il gruppo della Camera si riorganizza dopo l’addio dell’ex capogruppo Davide Crippa e di una parte del direttivo del gruppo, si alza la temperatura sul limite dei due mandati. Dopo che Conte ha detto che «non è un diktat», il fondatore Beppe Grillo l’avrebbe minacciato di lasciare il Movimento. Ma c’è chi vede nello scontro soltanto la costruzione di una scusa per Conte

La battaglia per la deroga al vincolo dei due mandati nel Movimento 5 stelle inizia con lo scontro tra i suoi vertici. Il fondatore del Movimento, Beppe Grillo, avrebbe minacciato il presidente Giuseppe Conte di lasciare la sua creatura se il leader dovesse concedere delle deroghe alla regola del secondo mandato. Il tema è in discussione da molti mesi e in un’intervista al Corriere della Sera Conte ha spiegato che il limite «non è un diktat».

Parole che avrebbero fatto infuriare il fondatore, che da tempo si batte per continuare ad applicare il criterio, secondo cui un parlamentare, un sindaco o consigliere regionale non può essere eletto per la terza volta. Grillo avrebbe posto dunque un ultimatum all’ex premier durante una telefonata, in cui avrebbe minacciato di lasciare il Movimento nel caso in cui Conte optasse per la deroga, fosse anche solo a pochi fedelissimi. Conte ha poi smentito la telefonata, spiegando che non c’è stato «nessun aut aut».

«Smentisco categoricamente tutte le indiscrezioni in merito. Abbiamo di fronte una grande battaglia da combattere tutti insieme per il paese, guardiamo uniti nella stessa direzione», ha detto. Ma una soluzione va trovata, e in fretta, per risolvere le ambiguità che ancora circondano il destino di chi rischia di non essere più candidato. C’è però anche chi interpreta lo scontro come un gioco delle parti, un conflitto solo apparente per garantire all’ex premier un alibi nel momento in cui dovrà negare, anche a chi negli ultimi mesi gli è stato più vicino, la possibilità di ricandidarsi.

LA DEROGA

Negli ultimi giorni era circolata l’ipotesi di una deroga limitata a quattro-cinque nomi di parlamentari vicini al leader, arrivati a fine corsa secondo le regole originarie. Tra i nomi più citati ci sono quelli della vicepresidente Paola Taverna, del presidente della Camera Roberto Fico, dei ministri Fabiana Dadone e Federico D’Incà. Ma, di fronte all’insofferenza del garante del Movimento, anche quest’ultima possibilità è sfumata col passare dei giorni. Resta da capire quanto e come verrà presa la decisione.

A giugno, Conte aveva promesso di coinvolgere la base del partito nella scelta, non prendendo posizione sul tema. I vertici dovrebbero valutare nei prossimi due giorni, al rientro a Roma di Conte, come procedere. Potrebbero indire una votazione o decidere direttamente per la conferma del vincolo, come chiede il senatore ed ex ministro Danilo Toninelli (lui stesso sarebbe escluso dalle prossime elezioni). Gli attivisti sono ostili alle deroghe e la votazione, che comporta una modifica del codice etico, aprirebbe nuovi scenari per possibili ricorsi giudiziari sulla natura della votazione stessa. D’altra parte, Conte non ha interesse a rompere con Grillo dopo la scissione del ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

LE INDISCREZIONI SUL SIMBOLO

Grillo mantiene ancora la proprietà del simbolo del Movimento e dei primi domini ad esso associati, attraverso la prima organizzazione che ha fondato a Genova nel 2013. Un dato che dà a Grillo margini di trattativa molto importanti. «Parziali modifiche del simbolo non farebbero venir meno il potere di interdizione di Grillo», dice Lorenzo Borrè, l’avvocato che ha difeso gli attivisti che più volte si sono scagliati contro il nuovo corso di Conte. Il garante dovrebbe quindi dare il suo via libera a tutti i cambiamenti a cui i vertici del Movimento starebbero pensando in vista delle elezioni.

Nel nuovo logo in preparazione, il nome di Conte potrebbe sostituire la data del “2050”, oppure potrebbe affiancarlo. «Se non approvasse le modifiche, essendoci anche una sentenza della Corte d’appello di Genova passata in giudicato che attribuisce simbolo e nome del Movimento all’associazione di Genova, Grillo potrebbe impedire a Conte l’utilizzo di tutti i simboli graficamente similari e togliergli anche la possibilità di impiegare il nome del M5s», dice Borrè.

Una volta risolta la questione dei due mandati e quella del simbolo, il Movimento dovrà capire come coinvolgere la base in quel che resta delle parlamentarie, le votazioni online che nelle ultime elezioni hanno selezionato i candidati da inserire nelle liste elettorali.

Nonostante lo statuto le preveda, è difficile che il meccanismo possa essere usato anche stavolta, considerati i tempi stretti e tutti i documenti sulla propria condotta giudiziaria che gli aspiranti candidati devono procurarsi per correre alle parlamentarie online. Il garante tiene parecchio anche a questo elemento caratteristico per il Movimento. La soluzione potrebbe essere quella di sottoporre al voto online delle liste già stese, ma Conte ora deve dare delle risposte. 

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Da Fico a Taverna: i Cinque stelle che Grillo non vuole più in parlamento. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 23 luglio 2022

Sono poco meno di 50 i parlamentari tra Camera e Senato che Beppe Grillo ha scientemente tagliato fuori dal Movimento 5 stelle ribadendo il limite dei due mandati, anche se al presidente Giuseppe Conte, che rischia di rimanere senza contiani, la nuova linea non piace.

Dalla periferia che ormai si sta allontanando sempre di più dai vertici romani (una situazione in verità che non riguarda solo il Movimento 5 stelle) rumoreggiano perché ancora non ci sono i responsabili provinciali, nomine che, quasi come tutte, sono appannaggio di Conte.

Dopo che Conte è andato incontro a scissioni e malumori, è arrivata la presa di posizione di Grillo, detentore del simbolo, ben più decisa dei “penultimatum” del leader. Che fino a oggi sulla gestione interna del movimento non ha fatto trapelare niente.

Sono poco meno di cinquanta i parlamentari che Beppe Grillo vuole tagliare fuori dalle liste elettorali del Movimento 5 stelle. Oggi ha ribadito il limite dei due mandati e di fatto ha dettato la nuova linea del Movimento: tutto cambi perché tutto torni come prima. Anche se al presidente Giuseppe Conte, che rischia di rimanere senza contiani, la linea non piace.

Al fianco del fondatore ci sono gli eletti della prima ora considerati duri e puri, tra cui Danilo Toninelli, che per primo ha dimostrato la sua fedeltà: è pronto a lasciare la poltrona per far tornare il M5s «sé stesso», quello contrario ai politici di professione e con il desiderio di aprire il parlamento come una scatoletta di tonno. E dalla Russia apre a un grande ritorno anche Alessandro Di Battista. 

IL VIDEO DI GRILLO 

Il fondatore ha parlato con un video arrivato all’improvviso ieri mattina. Dopo l’immagine della colla su WhatsApp e i post profetici, questa volta Grillo è stato chiarissimo: «Siamo in un momento caotico e potremmo essere morti tra 15 giorni», ha detto, «ma i nostri due mandati sono luce in questa tenebra incredibile, sono l’interpretazione della politica come un antibiotico». Quasi «un servizio civile», spiega nel suo video intitolato “Un cuore da ragionere” che mima il «cuore di banchiere» del premier dimissionario Mario Draghi.

La regola pentastellata dei due mandati, ha proseguito, «dovrebbe diventare legge di stato, l'Italia lo merita come una legge contro i cambi di casacca, si merita una legge elettorale con sbarramento, una per la sfiducia costruttiva. Non siamo riusciti a farle, mi sento colpevole anch'io, però abbiamo di fronte qualcosa di straordinario: sono tutti contro di noi», e quando è così «vuol dire che abbiamo ragione» ha concluso nel video.

GLI ESCLUSI

La lista dei parlamentari che rischiano di rimanere fuori dal parlamento è lunga. Si va dalla senatrice Paola Taverna, all’ex ministro della Giustizia e deputato, Alfonso Bonafede. Dalla ministra per le Politiche giovanili Fabiana Dadone, al ministro per i Rapporti con il parlamento Federico D’Incà, quest’ultimo tra i più alacri mediatori perché il Movimento non rompesse col Pd e votasse la fiducia a Mario Draghi. Nel novero ci sono anche la vice presidente della Camera, Maria Edera Spadoni, il sottosegretario alle Infrastrutture Giancarlo Cancelleri, l’ex ministra della Salute Giulia Grillo.

Una nota a parte meritano quattro parlamentari: il presidente della Camera, Roberto Fico, il presidente della Commissione Industria Gianni Girotto, la mamma del Reddito di cittadinanza, Nunzia Catalfo ex ministra del Lavoro, e Riccardo Fraccaro, l’ideatore del Superbonus che è diventato l’oggetto dello scontro aperto tra Draghi e i pentastellati. Per loro ancora si parla dell’ipotesi di una qualche deroga che pure le parole di Grillo sembrano escludere. Fico sembrava un intoccabile, mentre gli altri tre sono stati recentemente elogiati dal profilo Instagram dell’ “Elevato” per il loro lavoro al governo e in parlamento. Davvero caccerà anche loro? Girotto risponde: «L'argomento non mi interessa, non lo sto minimamente seguendo».

IL QUASI RITORNO DI DI BATTISTA

Di Battista, is back, è tornato, o quasi. In giro in Russia a produrre reportage per ora è tornato a fare sognare i pentastellati di una volta anche lui con un video. Lui ha alle spalle un mandato solo, e oggi che ha «passato i 40 anni» potrebbe riproporsi per un secondo, magari al Senato. Lì dove vuole candidarsi il nemico di sempre: Silvio Berlusconi.

Di Battista aveva già detto che se il Movimento 5 stelle avesse lasciato il governo Draghi, si sarebbe potuto aprire anche un dialogo, e ieri non ha chiuso la porta, anzi: «Non sono disposto a entrare in parlamento rinunciare alla libertà» ma «vedrò quello che succede nei prossimi giorni». Secondo l’Huffington Post è in costante contatto con l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi.

IL SILENZIO DI CONTE E “GIGGINO CARTELLETTA”

Conte, si era detto pronto a mettere ai voti questa importante decisione, ma Toninelli dice sarebbe un trucco per non mantenere il limite dei due mandati. La proposta di Conte era arrivata poco prima che Luigi Di Maio e un gruppo di parlamentari decidessero di formare un gruppo a parte e mettesse di fatto il Movimento in imbarazzo qualora volesse procedere a deroghe. Grillo nel suo video non ha dimenticato nemmeno questo passaggio, chiamandolo “Giggino ‘a cartelletta”: «C'è gente che entra in politica per diventare una cartelletta. “Giggino a cartelletta” adesso è là che aspetta di archiviarsi in qualche ministero della Nato».

IL RITARDO

Senza che la scelta sul doppio mandato venga formalizzata, la campagna elettorale non può cominciare e soprattutto non si possono fare le liste. Sulla carta la scadenza è il 22 agosto, ma la verità è che la decisione potrebbe essere obbligatoria anche prima. Infatti il simbolo deve essere depositato entro il 14 e il proprietario è Beppe Grillo, lui che può decidere le sorti dei pentastellati e tenere sotto scacco Conte.

Intanto dalla periferia, che ormai si sta allontanando sempre di più dai vertici romani (una situazione in verità che non riguarda solo il Movimento 5 stelle), rumoreggiano perché ancora non ci sono i responsabili provinciali, nomine che, quasi come tutte, sono appannaggio di Conte.

La lista dovrebbe essere già pronta e anche se la defezione dei dimaiani ha cambiato alcune previsioni. Massimo De Rosa, ex parlamentare e oggi al consiglio lombardo commenta: «Che la struttura venga definita al più presto è necessario, perché abbiamo bisogno di organizzarci. Noi ci siamo sempre mossi su base volontaristica, ma adesso anche i meetup chiedono un sostegno».

In questo stato, dal Movimento ligure non escludono che si faccia ricorso ai pentastellati cacciati perché non hanno votato la fiducia a Draghi. D’altra parte, un eventuale riavvicinamento potrebbe essere coordinato dall’ex ministro Stefano Patuanelli e Alessandro Di Battista, figura di richiamo per tutti quelli che non avevano appoggiato la piega di unità nazionale del Movimento. Lui stesso era stato il primo a lasciare apposta.

Senza prendere decisioni Conte ha ricominciato prendersela col Pd. Come ai vecchi tempi, contro il partito di cui Grillo voleva diventare segretario per poi decidere di passare ai vaffa. Troppo poco. Dopo che Conte è andato incontro a scissioni e malumori, è arrivata la presa di posizione di Grillo ben più decisa dei “penultimatum” del leader. Che fino a oggi sulla gestione interna del Movimento non ha fatto trapelare niente. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Federico Capurso per “la Stampa” domenica 24 Luglio 2022.  

Se non fosse stata chiara la prima volta, la seconda fosse sfuggita e la terza dimenticata, ecco Beppe Grillo tornare sul blog con un videomessaggio per ricordare ai suoi «ragazzi», con «cuore da ragioniere» che la regola dei due mandati non potrà essere modificata. «È la nostra luce nelle tenebre», dice il Garante delle regole e dei princìpi grillini, con la volontà di chiudere definitivamente la questione. E spegnere, magari, il cicalio dei big tornati a bersagliarlo di messaggi per ottenere una deroga che li salvi dall'incubo di scomparire.

Gran parte della nomenclatura pentastellata è destinata a dare l'addio al Palazzo, se Giuseppe Conte non riuscirà a trovare una soluzione. Raccontano che la sua vice, Paola Taverna, sia «furibonda». Vito Crimi «affranto», come anche il presidente della Camera Roberto Fico, che aveva già fatto la bocca su un collegio blindato in Campania. 

E poi Stefano Buffagni, Alfonso Bonafede, Virginia Raggi, i ministri Federico D'Incà e Fabiana Dadone: la lista è lunga e adesso sono in pochi a volersi spendere in campagna elettorale: «Se non mi candidano, è escluso che passi la mia estate ad aiutare un Movimento che vuole scaricarmi», dice a La Stampa uno degli interessati.

È un pensiero «diffuso», quello di disertare i palchi e le piazze estive, che rischia di minare il cammino verso il giorno del voto. Per il senatore Gianluca Perilli, poi, lo stop alla ricandidatura avrebbe proprio il sapore della beffa: incaricato di stilare il programma di governo grillino, in una girandola di riunioni infinite, dovrebbe lasciare che altri colleghi raccolgano il frutto del suo lavoro. 

Mentre i maggiorenti pentastellati si trincerano in un silenzio che meglio di ogni altra cosa ne fotografa il dramma, alcuni loro colleghi intervengono per applaudire il Garante.

Danilo Toninelli è al secondo giro, ma aveva già annunciato che non si sarebbe ricandidato e ora brinda: «Ho le lacrime agli occhi. Benissimo Grillo!

Ora avanti a testa alta e se qualche altra zavorra si staccherà dal M5S, vorrà dire che riusciremo a volare ancora più alti».

Potrebbe invece rientrare Alessandro Di Battista, di ritorno dalla Siberia, anche se resta prudente: «In tanti mi state dicendo che è il momento di buttarmi nella mischia - spiega in un video affidato ai social -, ma io non sono disposto a tutto pur di ritornare in Parlamento». E in quel «tutto» c'è soprattutto l'alleanza con il Pd.

C'è anche chi aveva due legislature alle spalle e ora è pronto a candidarsi in un altro partito. 

Categoria a cui Grillo rivolge uno sfottò: «Entrano in politica per diventare poi una "cartelletta". Giggino' a cartelletta" - punge il Garante riferendosi a Luigi Di Maio - ora è di là che aspetta il momento di archiviarsi in qualche ministero della Nato. E con lui decine di altre cartellette che lo hanno seguito». Di Maio però è convinto di poter ottenere almeno qualche seggio. E dal suo punto di vista, forse, questo basta anche a sopportare l'imbarazzo di essere entrato nel Palazzo con l'idea di scardinare la «vecchia politica», per poi trovarsi costretto - si racconta - a correre alle prossime elezioni a braccetto del Centro democratico dell'infinito Bruno Tabacci, giunto alla sua sesta legislatura.

Nel Movimento, però, in pochi pensano al destino del ministro degli Esteri. Tira una brutta aria. Conte è preoccupato, le liste elettorali vanno chiuse rapidamente e adesso rischia di avere pochi nomi di peso con cui trainare il partito. Si sta ragionando sull'ipotesi di modificare almeno le due regole interne che prevedono l'obbligo di candidarsi nel collegio elettorale in cui si ha la residenza e di portare gli over40 in Senato e gli under alla Camera, ma non basta.

E trovare una strada per aggirare il limite di due mandati «ora è complicato», ammettono ai piani alti del M5S. Grillo ha persino riesumato la vecchia battaglia per introdurre in Costituzione il limite di due legislature, perché adesso si è accorto che «tutti questi sconvolgimenti, queste defezioni nel nostro Movimento sono provocate da questa regola che è innaturale, contro l'animo umano». Peccato se ne ricordi dopo aver visto passare tre governi con i Cinque stelle a bordo, durante i quali l'argomento è stato sempre evitato. Vorrebbe anche una legge proporzionale e una legge che introduca la sfiducia costruttiva, ma il suo partito ha contribuito alla caduta del governo Draghi. E il tempo è finito.

M5S, nessuna deroga al tetto dei due mandati. Conte ai big: Grillo «irremovibile». Emanuele Buzzi su Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022.

La scelta impedirà al presidente della Camera Fico, a Paola Taverna, Vito Crimi, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede di ricandidarsi. I contiani esultano: ,«bye bye... 

Il presidente della Camera Roberto Fico, la vice vicaria di Conte Paola Taverna, i ministri Fabiana Dadone e Federico D’Incà e molti altri big storici come Alfonso Bonfede, Riccardo Fraccaro non saranno candidati dai Cinque Stelle. Nessuna deroga. Come richiesto dal cofondatore, Beppe Grillo. Il Movimento 5 Stelle ha deciso che non ci saranno «scappatoie» alla regola del tetto dei due mandati .

La decisione, secondo quanto anticipato da Ileana Sciarra dell’AdnKronos, che cita «autorevoli fonti» nel Movimento,è stata già comunicata dal leader del movimento Giuseppe Conte ai «veterani» del M5S. Una serie di telefonate, quelle di Conte ai big per ribadire che Beppe Grillo è stato «irremovibile» su questo tema. 

In una intervista al Corriere , Giuseppe Conte aveva spiegato che il tetto dei 2 mandati non era da intendersi come «un diktat»: «Non è un diktat, ma lo spirito della regola sarà salvaguardato», aveva detto, rassicurando che «non manderemo in soffitta chi per 10 anni ha preso insulti per difendere i nostri ideali e per contribuire in Parlamento a realizzare le nostre battaglie».

Le reazioni non si sono fatte attendere. La notizia della conferma del tetto dei due mandati è stata accolta con umori opposti all’interno dei Cinque Stelle. I contiani esultano maliziosi: “Bye bye...”. Mentre nell’ambiente c’è chi commenta: «Ormai è tutti gli effetti il partito di Conte».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 28 luglio 2022. 

[…] Conte corre da solo con i 5Stelle. E Grillo, dopo 18 mesi di impegno indefesso per affossarli, pare minacci di fare finalmente qualcosa per loro: andarsene.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 28 luglio 2022.

Vatti a fidare dei giornalisti, soprattutto di quelli con G maiuscola che credono di essere l'ombelico del mondo politico. 

Succede che Giuseppe Conte, a questo punto il povero Giuseppe Conte, ha seguito alla lettera, fin da quando era Presidente del Consiglio, i consigli e le indicazioni di Marco Travaglio e dal mattino alla sera si è trovato prima fuori da Palazzo Chigi, poi senza soldati e senza futuro e da ieri forse anche senza più la copertura di Beppe Grillo che non potendone più, pur essendo un comico di professione, di questa strana coppia tipo Gianni e Pinotto ha definitivamente sbottato: o si fa come dico io - quindi niente doppio mandato - o lascio i Cinque Stelle.

Che è un po' come se ieri Berlusconi avesse annunciato di lasciare Forza Italia perché in disaccordo con Tajani perché prendeva ordini da me invece che da lui. 

Non era poi così facile far esplodere un partito che solo cinque anni fa aveva vinto le elezioni con il 34 per cento dei consensi. Ognuno dei Cinque Stelle ci ha messo del suo, certo, ma il detonatore è stato la strategia dello sponsor Giornalista che è riuscito nell'altrettanto difficile impresa di mettere tutti contro tutti, non si capisce poi a che titolo se non la sua sindrome narcisista che aveva già portato a schiantarsi altri illustri personaggi finiti sotto la sua tutela.

Chi non ricorda la campagna a sostegno di Antonio Ingroia, magistrato eroe dell'antimafia finito sotto i ponti dopo essere stato cacciato con disonore per alcune inchieste farlocche - cosa assai rara- dalla magistratura prima e aver ciccato alla grande il suo ingresso politico poi. Stessa sorte di disgrazia, con sfumature diverse, è toccata ad altri due eroi di fatto (Quotidiano), il pm De Pasquale, quello dell'inchiesta farsa su Eni sostenuta alla grande dal nostro, e il super moralista Davigo, oggi indagato.

Stendiamo un velo sulla scomparsa dalla scena politica per manifesta incapacità dell'ex ministro Alfonso Bonafede, della Raggi e dell'Appendino, altri clienti del Giornalista, e fermiamoci qui perché l'elenco sarebbe lungo. E già tutti si chiedono: chi sarà il prossimo? A chiunque tocchi, buona fortuna.

Conte: «Ci ho provato». Ma rischia di essere lui la vera vittima di Beppe. Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 29 Luglio 2022. 

Il leader M5S giura ai big di aver fatto tutto il possibile e ora chiede aiuto per la campagna elettorale. 

«Per favore, tu comunque dammi una mano in campagna elettorale». Ci sono tanti modi per mostrare la propria debolezza. Uno è senz’altro quello di chiedere aiuto alle persone che hai appena ucciso, politicamente parlando, si intende. E infatti i parlamentari in uscita che hanno sentito Giuseppe Conte chiudere in questo modo la sua telefonata piena di «ci ho provato a fargli cambiare idea», «non è colpa mia», «ti giuro che ce l’ho messa tutta», hanno pensato quello che ora pensano in molti, dentro e fuori il Movimento Cinque Stelle. È tutto finito. 

La nascita di una simil lista Conte senza i contiani è tutto quel che resta di un mese cominciato con una scissione motivata con la politica estera ma in realtà generata dalla consapevolezza che non ci sarebbe stata alcuna deroga, proseguito facendo cadere un governo che almeno in via ufficiale non si aveva intenzione di far cadere, e terminata con questo nuovo capolavoro all’incontrario. «Tradire i propri uomini per salvare sé stesso» come dice in modo più colorito un ormai ex parlamentare di un certo peso. 

Alla fine, si tratta sempre della cara vecchia questione umana, oltre che di incapacità politica, come sottolineano molti epurati che speravano nel celebre «mandato zero» inventato proprio dal reprobo Luigi Di Maio come ultima spiaggia. Lo hanno pregato in ginocchio, tutti. Non basta qualche sms, lo sai come è fatto Beppe, prendi l’aereo e vai in Sardegna. Devi coccolartelo, devi finalmente farlo sentire importante, e ti porti a casa questa ennesima deroga all’anima dei vecchi 5 Stelle. In fondo che ci vuole, dopo che Grillo ha già ingoiato anche la recente sconfessione del «mai soldi ai partiti» che fu la linea del Piave di Gianroberto Casaleggio con il tentativo di gennaio, per altro anch’esso fallito, di accedere al 2 per mille con le dichiarazioni dei redditi dei cittadini. 

Ma lui, niente. Ogni ego è grande a mamma sua. Conte non si è mai mosso dal Gargano, dalla vacanza al mare per la quale è partito dopo aver fatto cadere un governo a sua insaputa, anche questa una scelta che ha destato perplessità nei gruppi parlamentari. La villeggiatura, non il siluro a Mario Draghi, si capisce. E qui si ritorna indietro di un anno esatto, a quella singolare fiera dell’incomunicabilità che sancì l’ingresso dell’ex presidente del Consiglio in casa d’altri, con il proprietario che prima aveva definito il nuovo affittuario «senza visione, autore di uno statuto secentesco», e poi aveva cambiato idea all’improvviso. A farlo tornare sui suoi passi era stata la ribellione dei tre membri del Comitato di garanzia, organismo che secondo le vecchie regole di fatto certificava le opinioni espresse da garante, altrimenti detto l’Elevato. 

A Roberta Lombardi, Vito Crimi e Giancarlo Cancellieri l’aveva giurata da quel giorno. Si era sentito tradito, obbligato ad avallare una scelta che non ha mai smesso di sentire come un innesto innaturale. Nell’abborracciato accordo del luglio 2021 c’era anche il superamento della regola del secondo mandato, ma il Grillo ferito nell’orgoglio ha sempre avuto altre intenzioni. Sapeva che si sarebbe arrivati alla resa dei conti. Sarà stanco, sarà ormai nauseato dallo spettacolo che in qualche modo porta anche il suo nome, ma non ha resistito alla tentazione di mostrare ai suoi ex fedelissimi, che tutto gli dovevano, chi comanda sulle spoglie del Movimento Cinque Stelle. Il proprietario del simbolo è lui, avrebbe pur sempre potuto ritirarlo. 

Anche l’avvocato del popolo ha sempre saputo della spada di Damocle che pendeva sulla sua testa. Eppure, ha dilazionato, ha fatto vaghe promesse e caute affermazioni in senso contrario. Chi aveva orecchie per comprendere aveva capito tutto dopo l’abituale capitombolo alle Amministrative, quando Conte fece una surreale conferenza stampa per caldeggiare la deroga a Cancellieri per le primarie di coalizione siciliane, dicendo che sulla questione del doppio mandato avrebbe fatto votare la base, ma che lui non avrebbe espresso una opinione e comunque era contro i politici di professione. Da allora, è apparso chiaro che Grillo avrebbe vinto su tutta la linea. 

Poco importa che si giunga al paradosso della mancata ricandidatura della terza carica dello Stato, quel Roberto Fico per il quale Grillo ha più volte detto di provare affetto e stima, di quella Paola Taverna che è stata l’architrave del consenso di Conte nel gruppo del Senato, dell’esperto di allunaggi Carlo Sibilia, tutte figure dal relativo peso elettorale che però rappresentano un pezzo di vita del Movimento. Prima grillini oggi contiani. La necessità della riaffermazione del proprio io, il rancore verso i tre triumviri dai quali si è sentito tradito un anno fa, la costante sensazione di essere tenuto ai margini della sua creatura, che in psicanalisi si chiama sindrome del beneficiario irriconoscente, hanno portato Grillo a usare l’arma totale del mondo pentastellato. 

E così, in un inevitabile concorso di colpe, è stato fatto il male definitivo al Movimento. Oggi chi vota M5S lo fa per Conte. Ma voterà un leader che non ha saputo proteggere chi ha lavorato per accreditarlo come tale, da corpo estraneo che era. E che sarà obbligato a continuare un matrimonio di convenienza che si regge solo sulla reciproca debolezza, circondato da una nuova classe dirigente di perfetti sconosciuti. Un matrimonio nel quale l’unica cosa chiara è chi è il più debole tra i due sposi forzati.

Di che vi stupite? Il doppio mandato conferma la regola: Conte governa i Cinquestelle come governava l’Italia. Francesco Cundari su l'Inkiesta il 30 Luglio 2022.

Dopo aver ripetuto mille volte ai parlamentari, fino a due giorni fa, che avrebbe trovato «una soluzione», senza mai dire quale, alla fine li ha lasciati a casa, ma con molti elogi. 

Da quando è diventato leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte ha passato gran parte del suo non poco tempo libero assicurando ai parlamentari, e in particolare a quelli che si erano schierati al suo fianco nelle numerose diatribe interne, che sulla questione del doppio mandato avrebbe trovato «una soluzione». Ciclicamente, ogniqualvolta Beppe Grillo confermava o faceva filtrare l’intenzione di tenere fermo il principio e non accettare deroghe, l’ex punto di riferimento fortissimo di tutti i progressisti non si scomponeva, faceva la faccia di chi la sa lunga e ripeteva ai suoi seguaci, comprensibilmente sempre più nervosi, che non c’era motivo di agitarsi. E passava oltre, lasciando il problema irrisolto, fermissimamente deciso a non occuparsene affatto fino a quando non si fosse risolto da sé.

Queste le sue parole di giovedì – appena due giorni fa – riportate dall’Ansa: «Se io e Grillo abbiamo risolto la questione del doppio mandato? Stiamo discutendo in queste ore e risolveremo entro questa settimana sulle modalità anche per valorizzare esperienze e competenze». La «soluzione» tante volte annunciata è stata resa nota ieri: resta la regola del doppio mandato. Lo ha confermato lo stesso Conte in un post su Facebook, che comincia così: «Alle prossime elezioni politiche non troverete, tra i candidati del M5S, chi ha già svolto due mandati». Semplice e chiaro, per una volta. Ma il passaggio più bello arriva qualche riga dopo: «Lasciando il seggio non potranno più fregiarsi del titolo formale di “onorevoli”. Ma per noi, per la parte sana del Paese, saranno più che “onorevoli”. Stanno compiendo una rivoluzione che nessuna forza politica ha mai avuto il coraggio neppure di pensare».

Portato istintivamente a solidarizzare sempre con le vittime, devo ammettere che nel caso dei «più che onorevoli» faccio fatica. Non solo perché la fregatura era evidente sin dal principio, perché di fronte a uno che dice chiaro e tondo di non volerti ricandidare e a un altro che risponde di voler trovare «una soluzione», è ovvio chi dei due ti sta prendendo in giro. Ma anche perché, non fosse stata sufficiente la cristallina chiarezza del suddetto scambio, c’erano alcune tonnellate di precedenti.

Rinviare sempre, non decidere niente e cercare di uscire dai guai con una formulazione che dica tutto e il contrario di tutto è da sempre il modus operandi dell’Avvocato del popolo, è il modo in cui ha (non) affrontato tutte le questioni aperte dentro il suo partito, ma soprattutto è il modo in cui ha governato l’Italia. Ricordate l’incredibile autunno 2020, quello dei quattro decreti in quattro settimane, per un’emergenza Covid che ogni settimana si cercava di ridimensionare, per non smentire la narrazione della grande vittoria sul virus, salvo dover prendere sette giorni dopo i provvedimenti che non si erano voluti prendere sette giorni prima, e così via fino all’esplosione della seconda ondata?

In entrambi i casi, al governo dell’Italia e al governo del Movimento 5 stelle, l’esito ultimo, o per meglio dire l’ultima scappatoia, è sempre la stessa: una infornata di nomine e un pacco di soldi per tenere buoni tutti, eletti ed elettori, amici e nemici, dirigenti e diretti. Super task force, super bonus e super consulenze.

È il modo in cui evidentemente Conte pensava di avere risolto anche il problema Grillo, con un lucroso contratto per fare un po’ di propaganda al movimento da lui fondato. Come al solito, aveva fatto male i conti. E tuttavia, impermeabile a ogni smentita della realtà, state pur sicuri che l’ultima «soluzione» sarà ancora e sempre la stessa: ai «più che onorevoli» privati del seggio il movimento provvederà ad assegnare incarichi di qualche genere, ovviamente retribuiti. Ma almeno non da noi.

Da open.online il 29 luglio 2022.

Dopo il niet alla deroga alla regola del tetto dei due mandati nel Movimento 5 Stelle, la pasionaria vicepresidente vicaria del M5s, Paola Taverna, ha deciso di congedarsi dai pentastellati con un post su Facebook. 

«Il Movimento 5 Stelle è figlio di una visione, un sogno che ha saputo farsi realtà portando nei palazzi la voce di chi non veniva ascoltato. Ringrazio tutti voi per avermi dato la possibilità di essere parte di quella voce in questi 10 anni. Sorrido pensando che forse l’eco delle mie urla contro il sistema e le sue storture continuerà a sentirsi ancora per qualche tempo a Palazzo Madama!», scrive la senatrice del M5s. 

E guardando indietro nel tempo, Taverna osserva come la sua militanza nel M5s, così come la sua elezione in Parlamento, sia stata «un’esperienza meravigliosa, che ho cercato di interpretare nel migliore dei modi, al servizio esclusivo del Paese, delle Istituzioni e dei nostri valori fondanti.

Dal Movimento ho avuto tanto. Al Movimento ho dato tanto, come è giusto che sia quando si crede in qualcosa e si è spinti da ideali alti». E la senatrice partita dalle borgate del Quarticciolo, sino a diventare una delle esponenti di maggior spicco all’interno della galassia pentastellata, conclude: «È il momento di guardare avanti e di farlo tutti insieme! Con l’entusiasmo delle origini e la voglia di cambiare che ci ha consentito di vincere tante battaglie. Io c’ero, ci sono e ci sarò sempre! Viva il Movimento 5 Stelle!».

M5s: “Nessuna deroga sul tetto dei due mandati”. Nuovi disoccupati in arrivo! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Luglio 2022. 

Per i 'veterani' del M5S salta anche la possibilità di candidarsi nelle Regioni o in Europa e viceversa. Per chi ha due mandati alle spalle non esiste piano B. Dovranno trovarsi un lavoro.

Secondo quanto apprende e diffonde l’agenzia Adnkronos da autorevoli fonti, non ci sarà nessuna deroga alla regola del tetto dei due mandati. E’ passata la linea del co-fondatore e garante Beppe Grillo. La decisione, a quanto si apprende, è stata già comunicata dal leader del movimento Giuseppe Conte ai ‘veterani’ del M5S. Saltano, dunque, nomi storici del Movimento. Tra questi, Roberto Fico, Paola Taverna, Vito Crimi, Riccardo Fraccaro e Alfonso Bonafede, artefice e responsabile dell’ingresso di Giuseppe Conte nel M5S.

La notizia è stata ufficializzata con una nota pubblicata da Conte sulla sua pagina Facebook, in stile “Casalino“. Questa mattina, intervenendo ai microfoni di Rtl 102.5, Conte ha annunciato la decisione in giornata: “A fine giornata valuteremo il grado di coerenza del Movimento 5 stelle”. 

Esclusi dalla corsa elettorale non solo alla Camera e al Senato. Per i ‘veterani‘ del M5S salta anche la possibilità di candidarsi nelle Regioni o in Europa e viceversa. Per chi ha due mandati alle spalle non esiste piano B. Dovranno trovarsi un lavoro.

Non si sono fatte attendere le reazioni. La notizia della conferma del tetto dei due mandati è stata accolta con differenti umori all’interno del Movimento Cinque Stelle. I fedelissimi di Conte, molti dei quali al loro primo mandato, esultano maliziosi: “Bye bye…”. Mentre in Transatlantico c’è chi commenta: “Ormai questo è tutti gli effetti il partito di Conte”.

Chi sono gli altri parlamentari M5S esclusi

Fra i parlamentari che hanno già alle spalle due legislature ci sono anche il ministro delle Politiche giovanili Fabiana Dadone, e quello per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà, l’ex ministro Danilo Toninelli, che in questi giorni ha difeso la regola del limite ai mandati, Riccardo Fraccaro, il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia, Nunzia Catalfo, ex ministro del Lavoro e prima firmataria del disegno di legge sul salario minimo, il tesoriere del M5s Claudio Cominardi, Gianni Pietro Girotto e l’ex ministro della Salute Giulia Grillo.

E chi sono quelli in uscita in dissenso con Conte

Ormai questione di ore ed anche il ministro ai Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà ed il capogruppo uscente del M5S alla Camera Davide Crippa lasceranno il Movimento5 Stelle guidato da Conte. Altri due addii di grande “peso” interno a quello che fu il movimento. La frattura si era consumata nelle convulse giornate che hanno anticipato la fine del governo Draghi. Entrambi avevano cercato di convincere Giuseppe Conte ad andare avanti, salvaguardando con ciò anche la tenuta del fronte progressista. Per lunedì è stata convocata una conferenza stampa di D’Incà e Crippa, con anche la ex vicecapogruppo Alessandra Carbonaro – la quale ha lasciato il M5S giusto ieri, per passare al Misto – e lì verranno spiegate le ragioni politiche della rottura. I tre sono diretti nel centrosinistra. Le indiscrezioni di una candidatura di Crippa con il Pd girano ormai da giorni. Redazione CdG 1947

Da corriere.it il 30 luglio 2022.

Dopo aver ribadito con forza il no alla deroga per il tetto dei due mandati, riportando il Movimento all’anno zero e falciando di colpo la carriera politica di tutti i big 5 Stelle, Beppe Grillo torna con un post sul suo blog: «Non esiste un vento favorevole per chi non sa dove andare, ma è certo che per chi va controcorrente il vento è sempre sfavorevole. Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci.

E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati — scrive riferendosi molto probabilmente ai fuoriusciti con la scissione di Luigi Di Maio e ha chi ha contestato la regola del doppio mandato, tra i capisaldi del M5S — . Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà: siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie».

Il terremoto che ha colpito i 5 Stelle non fa vacillare il garante e fondatore del Movimento, che nel post intitolato «l’Italia si desti» e accompagnato da una foto minacciosa di zombie scrive: «Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio. Ma soprattutto ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Per alcuni è il tempo di farlo con la forza della precarietà, perché solo così potremo vincere contro gli zombie, di cui Roma è schiava. Onore a chi ha servito con coraggio e altruismo, auguri a chi prosegue il suo cammino! Stringiamoci a coorte! L’Italia ci sta chiamando».

"Contagiati dagli zombie, ma vinceremo". Grillo si autoconvince. Il comico fa un appello al trionfo: "L'Italia ci sta chiamando, vinceremo". Poi la stoccata agli ex: "Qualcuno è stato contagiato ed è caduto". Luca Sablone il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

"Ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Onore a chi ha servito con coraggio e altruismo, auguri a chi prosegue il suo cammino!". Così Beppe Grillo interviene pubblicamente per esprimere riconoscenza nei confronti di chi non potrà ricandidarsi con il Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni politiche.

Alla fine è passata la linea del comico genovese: il limite dei due mandati è stato confermato, senza alcuna deroga neanche a favore dei big. Dunque chi ha svolto già due legislature non avrà la possibilità di tornare in Parlamento tra le fila del M5S. Ma il co-fondatore chiude gli occhi e sogna una vittoria (quale?).

Grillo si autoconvince

Da parte di Grillo è arrivata una sorta di operazione di autoconvincimento, scommettendo sul fatto che i 5 Stelle in fin dei conti potranno sbandierare un trionfo: "Siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà. Siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie".

Il comico genovese sul suo blog ha pubblicato un articolo dal titolo "L'Italia si desti". Tra le righe scrive che per alcuni è arrivato il tempo di combattere con la forza della precarietà, ritenuto un mezzo attraverso cui arrivare alla vittoria definitiva contro gli zombie "di cui Roma è schiava". Il tutto accompagnato da un appello finale, con gli occhi rivolti verso un indefinito successo e con un richiamo all'Inno di Mameli: "Stringiamoci a coorte! L'Italia ci sta chiamando".

La stoccata ai fuoriusciti

Grillo non ha fatto mancare una serie di stoccate all'indirizzo di chi ha preferito abbandonare il Movimento 5 Stelle per accasarsi altrove o per fondare un nuovo gruppo politico. Ed è proprio sulla figura degli zombie che ha posto le basi per lanciare frecciatine che, anche se in maniera implicita, sembrano essere rivolte a Luigi Di Maio e a chi lo ha seguito.

"Sapevamo fin dall'inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio", è stata la punzecchiatura del co-fondatore del M5S.

Forse l'allusione ironica può rappresentare un monito anche nei confronti di chi in questi giorni ha contestato la conferma del doppio mandato senza eccezioni. Infatti all'interno del Movimento c'è chi avrebbe preferito concedere delle deroghe ai volti noti e più influenti, ma i 5S hanno preferito escludere modifiche di apertura rispetto alle origini.

Non va dimenticato che Giuseppe Conte aveva garantito che a fine giugno ci sarebbe stata una votazione online in merito al vincolo storico. Non solo la scelta è arrivata con oltre un mese di ritardo, ma la decisione finale è stata assunta senza consultare la base (come invece annunciato).

Mattia Feltri per "La Stampa" il 30 luglio 2022.

Ricapitoliamo. Nel 2007 arriva Beppe Grillo. Raduna in una piazza decine di migliaia di persone e le inebria con un vaffanculo. Fonda i meet up. I meet up diventano un partito. Ma non è un partito: non ha leader, non ha sede, non ha statuto. Non ha onorevoli, si chiamano cittadini, scelti pressoché a caso nelle frange più incazzate della popolazione.

Devono: abolire la democrazia parlamentare e introdurre la democrazia diretta digitale, abolire la povertà, abolire la disonestà, abolire l'inquinamento, cambiare il clima del pianeta. Allearsi con nessuno. Poi si alleano con la Lega nel governo più populista della storia dell'umanità. Il governo va in crisi. Stavolta allearsi con nessuno. Si alleano col Pd.

Poi arriva Draghi. Allearsi con nessuno. Si alleano con tutti nel governo meno populista della storia dell'umanità. Contribuiscono a far cadere Draghi non dandogli la fiducia dicendo che non significa dare la sfiducia. Nel frattempo il partito è diventato un partito: ha un leader, ha una sede, ha uno statuto. Ha gerarchi. La democrazia parlamentare c'è ancora e se la sono palpeggiata in lungo e in largo. La povertà c'è ancora. La disonestà c'è ancora.

L'inquinamento c'è ancora. Il clima è quello che è. Grillo è stanco, offeso. Questi cretinetti gli hanno rovinato la rivoluzione. Torna, impone l'unica regola sopravvissuta all'evoluzione castale del Movimento: due mandati e poi a casa. Elimina in un colpo i gerarchi, il leader è mezzo accoppato, tornerà l'altro offeso, Alessandro Di Battista. Avrà una truppa parlamentare nuova di zecca, cioè nuovi incazzati per un partito che non è un partito, abolirà la povertà, la disonestà 

M5S : “Dilemma su terzo mandato svela questione identitaria non banale”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Agosto 2022 

Si capisce che alla fine l’abbia avuta vinta Grillo e che i dirigenti prossimi alla decapitazione parlamentare si siano trovati, chi più chi meno, a dover fare buon viso a cattivo gioco. Impresa che non è detto porti una gran fortuna alle sorti elettorali del M5S. Ma senza la quale è assai probabile che i consensi sarebbero stati ancora più esigui.

di Marco Follini

Ci si può infilare nei panni grillini e chiedersi se si doveva proprio tenere il punto sul divieto del terzo mandato oppure no. Se alla campagna elettorale e poi al prossimo Parlamento sarebbe servita la competenza -invero non proprio scintillante- delle Taverna, dei Toninelli, dei Crimi. O se invece era preferibile, come poi è successo, tener ferma la regola che dieci anni seduti sui banchi bastano e avanzano.

Il dilemma, è ovvio, è di principio e di potere. Nasconde un conflitto tra Grillo, fautore della ghigliottina dei due mandati, e Conte, più aperto all’idea di fare come gli altri e ricandidare almeno la sua guardia pretoriana. E insieme svela una questione identitaria tutt’altro che banale. Per un Movimento che ha dovuto ammainare una discreta quantità di bandiere, acconciandosi a governare con questo e con quello e a farsi carico di provvedimenti che stridevano non poco con il suo codice identitario, accompagnare alla porta la vecchia guardia era anche un modo -l’ultimo rimasto- per rivendicare una sorta di coerenza con i miti delle sue origini. 

Dunque, si capisce che alla fine l’abbia avuta vinta Grillo e che i dirigenti prossimi alla decapitazione parlamentare si siano trovati, chi più chi meno, a dover fare buon viso a cattivo gioco. Impresa che non è detto porti una gran fortuna alle sorti elettorali del M5S. Ma senza la quale è assai probabile che i consensi sarebbero stati ancora più esigui.

Si vedrà. Fatto sta che l’argomento non riguarda solo gli interna corporis di una forza che pure appena quattro anni fa raccoglieva il consenso di un elettore ogni tre. Riguarda un principio. E cioè se la politica sia solo una vocazione, o sia anche un mestiere. Se essa richieda competenza e specializzazione, o invece abbia bisogno di un certo grado di improvvisazione. Se le sorti di un paese possano venire affidate a un “ragioniere” (versione Giannini) o magari a una “cuoca” (versione Lenin). Oppure se quelle sorti abbiano bisogno di un ceto specialistico vero e proprio, un esercito di professionisti capaci qualche volta di tramandarsi le competenze e qualche altra volta (più spesso, e più volentieri) di confidare nelle risorse della propria affaticata longevità.

E qui l’argomento scivola via dalle spalle dei “grillini” e si rivolge a tutti gli altri. I quali troppe volte sembrano attratti dalla suggestione di carriere sempiterne e seggi che si tramandano di padre in figlio. Così da perpetuare se stessi e perpetuarsi tra loro. 

C’è da dire che l’argomento non è affatto nuovo. Con una differenza però. E cioè che ai tempi della prima repubblica la tenace volontà dei leader dell’epoca di restare il più a lungo possibile sugli scranni parlamentari poggiava almeno sulla base del voto di preferenza, e dunque sulla possibilità che fossero gli elettori a mandarli a casa. Mentre oggi deputati e senatori vengono in gran parte eletti per una sorta di automatismo a seconda del posto in lista che i leader graziosamente assegnano loro. Dopo averli assegnati a se stessi, peraltro.

Così, sembra infine di venirsi a trovare dinanzi a una sorta di alternativa del diavolo. Se si dà retta a Beppe Grillo si finisce per decretare la decapitazione dei parlamentari nel momento più sbagliato: e cioè non appena hanno cominciato -solo cominciato- a maneggiare i ferri del mestiere. Ma se si dà retta ai volponi più attempati del professionismo politico si rischia che nessun ricambio venga mai facilitato pur di non minacciare la quasi infinita longevità dei professionisti del ramo.

Come spesso avviene, dovrebbe essere la misura a fare la differenza. In un regime ideale dovremmo poter contare nelle aule parlamentari su deputati e senatori non così improvvisati e al tempo stesso non così usurati. Speranza legittima, a cui forse gli elettori, se potessero, darebbero anche una mano. Nel frattempo, sarebbe bello se una mano la dessero anche i partiti -vecchi e nuovi.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 31 luglio 2022.

La tentazione sarebbe quella di rispolverare la vecchia immagine del Beppe Grillo in versione Amleto, alle prese con il dilemma del suo eterno ritorno.

Faccio il vecchio saggio oppure il guastatore, mi riprendo il Movimento oppure lo lascio in mani di cui non mi fido.

Ma la realtà è molto più crepuscolare, come quella della sua creatura. Oggi l'Elevato cofondatore è una persona che si sente bruciata dai compromessi che ha dovuto accettare e che ha avallato, consapevole del fatto che gli hanno nuociuto, sia come credibilità che a livello personale.

Prima il governo con la Lega imposto da Luigi Di Maio, poi l'alleanza con il Partito democratico, voluta da lui e da Roberto Fico, infine il sì al governo Draghi, frutto di un suo «volli fortissimamente volli».

Adesso che ogni ponte è stato bruciato, che ogni strada è sbarrata, è solo una questione di sopravvivenza, mascherata dall'illusione del ritorno alle origini. Fonti a lui molto vicine lo dicono convinto del fatto che il futuro M5S sarà una scialuppa capace di contenere al massimo 20-30 parlamentari. Grillo, che è stato capo assoluto, trascinatore, e garante del Movimento, si trova a convivere con Giuseppe Conte, del quale continua a non avere stima e ancora meno vera interlocuzione. La sua visione è rimasta quella di un anno fa, quella di un aspirante leader «che non ha capacità», e i fatti di questi giorni hanno rinforzato le sue certezze in tal senso.

L'imposizione della regola dei due mandati, calata dall'alto come dimostra l'imbarazzato commento di Conte rilasciato al Fatto quotidiano , «ha espresso la sua opinione consapevole che la decisione spettava a me», può essere vista come la decisione di ripartire da zero, oppure di spegnere le insegne del Bar a Cinque Stelle, che ormai non riconosce più. 

Senz' altro gli è servita per regolare i conti con quelli che nelle assemblee gli davano del «rincoglionito» e insinuavano che l'appoggio al governo Draghi derivava dalla necessità di tutelarsi con il processo del figlio Ciro, immemori del fatto che è un uomo molto vendicativo.

Non è un «muoia il M5S con tutti i filistei», è qualcosa che somiglia più alla mozione di sfiducia verso il modo in cui è stato guidato nell'ultimo anno il Movimento. Non è la svolta all'insegna dell'ortodossia ritrovata, piuttosto una manovra percepita anche da chi gli è rimasto fedele come pura tattica di sbarramento, la prima di altre che verranno.

All'orizzonte sempre più ristretto dei Cinque Stelle si profilano infatti altri scogli mascherati da questioni di principio. 

Grillo non ha alcuna intenzione di cedere sul principio della territorialità, candidati che corrono solo dove hanno radici, senza paracadute nei listini proporzionali di altre regioni. Anche per questo alcuni nomi di un certo peso e di un qualche richiamo, vedi alla voce Chiara Appendino, stanno alla finestra in attesa di sapere quali saranno le regole di ingaggio.

Non sfugge a nessuno che senza posti sicuri da promettere, l'acqua nella quale nuota Conte si fa sempre più bassa. 

Se anche qui non ci fosse alcuna deroga, alcuni suoi colonnelli, primo tra tutti il triestino Stefano Patuanelli, non hanno alcuna possibilità di tornare a Roma, se non come turisti. Da statuto, Grillo pretende che la selezione dei potenziali deputati passi dalla strada delle Parlamentarie, nonostante i tempi stretti.

Conte chiede invece un sistema misto, che gli consenta di distribuire le non molte carte che gli rimangono in mano, calando dall'alto qualche nome a lui caro. A questo punto pare difficile che possa superare il muro del garante.

L'ex presidente del Consiglio aveva chiesto il permesso di cambiare il simbolo. Gli è stato risposto che bisogna evitare le personalizzazioni. Quanto a un suo coinvolgimento vecchio stile, Grillo ha già fatto sapere che non intende essere disturbato. Forse si farà vedere alla chiusura della campagna elettorale. Se sarà dell'umore giusto e le cose verranno fatte come dice lui, al massimo chiuderà la campagna elettorale. Ma i tempi e l'impegno dello Tsunami Tour del 2013 sono ormai un ricordo sbiadito. La mossa dei due mandati forse è un tentativo di ritorno alle origini. Ma può preludere al sipario che cala. Anche su Beppe Grillo.

Da beppegrillo.it l'1 agosto 2022.

Non esiste un vento favorevole per chi non sa dove andare, ma è certo che per chi va controcorrente il vento è sempre sfavorevole. 

Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà: siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie.

Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio. Ma soprattutto ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Per alcuni è il tempo di farlo con la forza della precarietà, perché solo così potremo vincere contro gli zombie, di cui Roma è schiava.

Onore a chi ha servito con coraggio e altruismo, auguri a chi prosegue il suo cammino! 

Stringiamoci a coorte! L’Italia ci sta chiamando. 

M5S, Beppe Grillo dà il colpo di grazie ai fuggitivi: “Album degli zombie”. La schedatura. Il Tempo l'1 agosto 2022

Mentre Luigi Di Maio presenta la sua nuova creatura politica, il ministro Federico D’Incà e l’ex capogruppo Davide Crippa motivano le ragioni del loro addio al M5S, arriva la zampata di Beppe Grillo. Sui social, dove il fondatore del Movimento posta «l’album degli zombie», «in edicola: con 4 bustine l’album è in regalo!». Seguono tutte le foto dei ‘transfughi’ M5S - la galleria è lunga - e non mancano i big, da Di Maio a D’Incà, passando per Lucia Azzolina e Vincenzo Spadafora. Non manca neppure l’ultima uscita in casa M5S, Federica Dieni, che ha detto addio al Movimento proprio oggi. «Da oggi in tutte le edicole», scrive Grillo nel commento che accompagna il post. 

Nelle foto c’è la ‘schedatura’ di 60 parlamentari che hanno lasciato il Movimento. Appaiono anche i nomi di Laura Castelli, Manlio di Stefano, Carla Ruocco e Sergio Battelli. Intuibile il tono di gran parte dei commenti, anche se qualcuno risulta critico nei confronti dello stesso Grillo, che giusto un paio di giorni fa aveva parlato per la prima volta degli zombie, usando queste parole: «Non esiste un vento favorevole per chi non sa dove andare, ma è certo che per chi va controcorrente il vento è sempre sfavorevole. Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà. Siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie».

Da Di Maio a D'Incà: "Ecco l'album degli zombie". Grillo contro gli ex. Massimo Balsamo l'1 Agosto 2022 su Il Giornale.

Da Di Maio a D’Incà, passando per Crippa, Castelli e Spadafora: il comico genovese ironizza sui “traditori” del Movimento 5 Stelle e pubblica le loro "figurine" 

Le elezioni del 25 settembre potrebbero mettere la parola fine alla parabola del Movimento 5 Stelle. Da progetto anti-sistema a grande protagonista delle ammucchiate di sinistra, con tanto di scissioni a raffica, tanto care agli (ex) amici del Partito Democratico. Tra addii, rotture e contrasti con Conte, Beppe Grillo non abbandona la barca che affonda. Anzi, rilancia: nel mirino del comico genovese sono finiti i “transfughi”.

Grillo "bracca" Conte e blinda il simbolo. Ma apre sui capilista

Da Luigi Di Maio fino a Federico D’Incà, passando per Laura Castelli, Davide Crippa e Vincenzo Spadafora. I “traditori” del Movimento sono stati trasformati in figurine da collezione da Beppe Grillo. Ironia tagliente in una campagna elettorale senza esclusioni di colpi. E l’emorragia potrebbe non terminare qui: dopo il no alla deroga al tetto dei due mandati, altri pezzi grossi del M5s potrebbero salutare, alla ricerca di qualche candidatura grazie a partiti “amici”.

Luigi Di Maio è pronto ad accogliere altri grillini nel suo nuovo progetto politico, pronto a correre al fianco del Partito Democratico. Ma non è l’unico. D’Incà e Crippa hanno lanciato l’associazione “Ambiente 2050”: “Un laboratorio che guarda ai cittadini, alle persone, agli educatori, agli insegnanti, agli imprenditori che ogni giorno cercano di dare sostenibilità ambientale al nostro paese”, l’analisi del ministro dei Rapporti con il Parlamento. Altre destinazioni possibili per gli ex grillini sono Pd, Articolo 1 – Mdp e Alternativa c’è, i primi veri “scissionisti”.

I dem imbarcano i grillini: tre ex M5s nelle liste

Grillo deve fare i conti con una situazione piuttosto complicata: i sondaggi danno il M5s in caduta libera e la leadership di Giuseppi è sempre più in discussione. Per tentare di ricompattare il Movimento, il comico genovese già sabato aveva “pizzicato” gli “zombie”: “Sapevamo fin dall’inizio di dover combattere contro zombie che avrebbero fatto di tutto per sconfiggerci o, ancor peggio, contagiarci. E così è stato: alcuni di noi sono caduti, molti sono stati contagiati. Ma siamo ancora qui, e alla fine vinceremo, perché abbiamo la forza della nostra precarietà: siamo qui per combattere, non per restare, e questa nostra diversità è spiazzante per gli zombie. Compiangiamo chi di noi è caduto e non ha resistito al contagio. Ma soprattutto ringraziamo chi di noi ha combattuto e combatte ancora. Per alcuni è il tempo di farlo con la forza della precarietà, perché solo così potremo vincere contro gli zombie, di cui Roma è schiava”. Ora la nuova stoccata. A caccia di qualche spunto per risorgere.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 2 agosto 2022.

Non ha perso il gusto macabro per la foto segnaletica, per le schedature online, lo sberleffo wanted . Linciaggi digitali un tempo riservati al «Giornalista del giorno», titolo di una famigerata rubrichetta del sacro blog. 

Ora a venire crocefissi sono i «traditori», nel frattempo diventati così numerosi da meritarsi «Il grande album di figurine degli zombie». Naturalmente Grillo è sempre Grillo, trasforma la sua rabbia in divertissement , in show social: niente fotoceramiche funerarie, ma simpatiche figurine stile Panini. Al posto di Pizzaballa, Di Maio; al posto di Boranga, Di Stefano.

Horror pop ad usum social, per dileggiare i transfughi e far divertire quel che resta dei militanti. E giù grasse risate, come ai tempi dello «psiconano» Berlusconi, dei «pidioti», di «cancronesi», di Renzi «ebetino». Grillo scodella ben settanta figurine di zombie, «contagiati dal morbo dei partiti», «schiavi di Roma». Tutti figli suoi, tra l'altro. Che ora protestano, ma fino a un attimo fa si spanciavano agli insulti di Grillo. 

«Morti viventi» che hanno lasciato la nave alla deriva dei 5 Stelle. Forse frastornati dai cambi di rotta, dal governo con Salvini all'esecutivo «con il Pd di Bibbiano», dal governo con «Dracula» Draghi fino alla svolta laburista dimentica del «non siamo né di sinistra né di destra». O forse solo gente in cerca di un seggio, per scampare alla tagliola del doppio mandato. Quando l'identità si affievolisce, l'insulto ricompatta.

Peccato per Giuseppe Conte, che nello statuto aveva fatto un bel compitino: «Le espressioni verbali aggressive devono essere considerate al pari di comportamenti violenti». Ma è quel Conte che Grillo definì, per una volta senza insulti, uno «senza visione politica, né capacità manageriali».

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 2 agosto 2022.  

La lista degli zombie di Beppe Grillo, altri due addii in direzione Luigi Di Maio, le discussioni sul simbolo, sulle regole per la composizione delle liste e la delusione dei parlamentari che non saranno rieletti e che promettono di boicottare un'altra regola aurea: la restituzione dell'indennità di fine mandato.

In casa M5S si discute molto e per ora si conclude poco. Le scorie di questi ultimi mesi conditi da addii e polemiche sono difficili da smaltire. Il garante, che alterna mesi di silenzio a periodi di grande attivismo mediatico, ieri ha pubblicato un post in vecchio stile, quando era normale ridursi agli attacchi personali verso gli avversari. 

Stavolta il fondatore dei 5 Stelle si è inventato un album di zombie, con le figurine dei suoi figli ripudiati o che l'hanno ripudiato, politicamente parlando, additati al pubblico ludibrio. Sarà un po' il mood di questa campagna elettorale: verrà rispolverata la retorica pre-2018, il noi contro tutti, avversati dal sistema, i buoni contro i cattivi.

Il problema è che Grillo ha da discutere anche con il presidente del partito. C'è da decidere come comporre le liste e si stanno scontrando due diverse filosofie. Affidare tutto alla rete, cioè agli iscritti al portale del M5S; oppure mixare la scelta della base con qualche nome calato dall'alto, cioè da Conte. 

 E poi: derogare o meno al principio di territorialità, storicamente caro al Movimento, che permetteva di candidarsi solo dove si è residenti? Senza modificare la norma, viste le proiezioni, alcuni big - vedi ad esempio Stefano Patuanelli e Chiara Appendino - rischierebbero di restare a casa.

Altra deroga: ci potranno essere delle candidature multiple? Tra Grillo e Conte c'è diversità di vedute: il primo teme che il Movimento si trasformi definitivamente nel partito personale dell'ex presidente del Consiglio, il secondo invece pretende di far valere il proprio peso decisionale. 

Stesso discorso vale per il nome di Conte nel simbolo: Grillo non ama personalizzare così la contesa elettorale, i contiani credono invece che il nome dell'ex presidente del Consiglio possa fare da traino. Resta in stand-by, poi, la candidatura di Alessandro Di Battista: il ritorno del figliol prodigo non dispiace al fondatore. 

Nel frattempo, dopo il ministro Federico D'Incà e l'ex capogruppo Davide Crippa, anche Federica Dieni e Giuseppe D'Ippolito hanno salutato i 5 Stelle. Da qui ai prossimi i giorni potrebbero esserci altri addii e una ragione è (anche) veniale. Il regolamento interno infatti prevede che l'assegno di fine mandato - destinato per legge a tutti i parlamentari che non saranno rieletti - debba essere restituito, fatta salva la cifra di 15 mila euro.

Il grosso va versato «ad un conto dedicato intestato ad apposito comitato operativo, nazionale o regionale, in attesa di individuare periodicamente la destinazione finale, o ad un apposito conto corrente intestato al M5S, dedicato a questa finalità», è la postilla.

Per chi entrò in Parlamento nel 2013, si parla di cifre attorno agli 80-90 mila euro. 

Uno scivolo a cui in parecchi, a desso, non sono disposti a rinunciare in base alle regole di un partito che - particolare che non è stato ancora pienamente elaborato da tutti - ha deciso di non ricandidarli. Abbandonare il M5S accampando motivazioni politiche, le più disparate e magari anche condivisibili, può quindi permettere di evitare la tagliola economica. 

Mattia Feltri per “La Stampa” il 5 agosto 2022.

Eh ragazzi, mi dispiace ma le regole sono regole. 

E quella dei due mandati, ha ragione Beppe Grillo, proprio non può essere toccata sennò svanisce quel poco d'anima che vi resta. 

Cari Roberto Fico e Alfonso Bonafede e Paola Taverna, e tutti gli altri, due mandati li avete già fatti. Adieu. Le regole sono regole. E poi mica solo voi. 

Prendete Chiara Appendino. Condannata in primo grado e i condannati non possono candidarsi.

Ne va della nostra onestà, e il regolamento lo dice chiaro, leggete qua Ah no, è cambiato dice che un condannato in primo grado per reato colposo e non doloso in realtà può candidarsi. 

Ma guarda un po', Appendino può candidarsi Vabbè, un'eccezione, perché poi c'è anche Rocco Casalino. 

Ha svolto lavoro subordinato per il Movimento e i subordinati non possono candidarsi.

Ne va della nostra trasparenza, e il regolamento lo dice chiaro, leggete qua Ah no, è cambiato la regola è proprio scomparsa dev' essere successo stanotte. Ma guarda un po', anche Casalino può candidarsi... 

Vabbè, un'altra eccezione, perché poi c'è Alessandro Di Battista, e qui non si scappa. 

Il regolamento dice che per candidarsi col Movimento bisogna essere iscritti da almeno sei mesi e Di Battista non è iscritto da un sacco di tempo. 

Mica possiamo imbarcare il primo che passa, spiace per Alessandro, ma il regolamento lo dice chiaro, leggete qua Ah no, è cambiato...anche questa regola è scomparsa dev' essere successo mentre eravamo al bar. 

Ma guarda un po', pure Di Battista può candidarsi Vabbè ragazzi, fatemi controllare eh no, carta canta, la regola dei due mandati è rimasta. Mi dispiace, ma le regole sono regole. 

 Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 5 agosto 2022.

Dalla trasparenza alle parlamentarie dei cavilli. Blindata la regola dei due mandati sembrava che il M5s stesse ingranando la retromarcia, per mantenere almeno l'involucro della purezza dei bei tempi andati. 

Ma lo spettacolo che sta andando in scena sulle regole per le candidature alle prossime elezioni politiche è il compendio della postilla, il trionfo dell'azzeccagarbugli. 

Giuseppe Conte si sta rifacendo con le regole per le parlamentarie, che partono oggi su SkyVote. 

Dalle tre paginette del regolamento pubblicato sul sito dei Cinque Stelle si evince che a Conte non sarà data la facoltà di indicare i capilista, ma si legge comunque che «Il Presidente, sentito il Garante, valuta la compatibilità della candidatura con i valori e le politiche del M5s, esprimendo parere vincolante e insindacabile sulla candidatura».

In poche parole, al giurista foggiano spetterà l'ultima parola sui candidati. Sul punto si tratta di una mezza vittoria di Beppe Grillo e della componente del Comitato di Garanzia Virginia Raggi, che si erano opposti alla possibilità di blindare prima i capilista. Eppure Conte, da scafato leguleio, ha disseminato qua e là delle eccezioni alle regole per far eleggere i suoi uomini, più la mina vagante Alessandro Di Battista.

Infatti non c'è un vero e proprio strappo alla regola della territorialità, ma viene consentito comunque di presentare l'autocandidatura in una regione diversa da quella di residenza per chi ha altrove il domicilio professionale oppure il «centro principale dei propri interessi». 

Come volevano gli ortodossi saltano le pluricandidature, ma, ad esempio, il ministro contiano Stefano Patuanelli, grazie a questa deroga, può evitare la corsa nel suo Friuli Venezia Giulia, dove il M5s viaggia su percentuali da prefisso telefonico, e candidarsi a Roma.

Stesso discorso per il vicepresidente Riccardo Ricciardi, toscano, che incontrerebbe non poche difficoltà nella sua regione. Ma non solo. Chiara Appendino, nonostante la condanna in primo grado per il disastro di Piazza San Carlo, potrà candidarsi. Infatti il regolamento consente ai condannati di entrare in lista, purché il reato contestato non sia colposo. E poi c'è Rocco Casalino. Al braccio destro di Conte fa comodo un altro dei cambiamenti rispetto alle regole del passato. Sì perché stavolta potranno partecipare alle parlamentarie anche i titolari di contratti di lavoro con il M5s, proprio come nel caso dello spin doctor.

Infine i dossier Virginia Raggi e Alessandro Di Battista. «Su Di Battista scioglieremo la riserva», spiega Conte. Intanto, però, è stata eliminata la regola sugli almeno sei mesi di anzianità di iscrizione al Movimento per potersi candidare. Nel regolamento non c'è nessuna menzione di questo limite temporale, un'altra prassi del passato più o meno recente. Dibba potrà iscriversi di nuovo al M5s e partecipare alle parlamentarie. Invece è particolarmente fumoso il caso-Raggi.

Nel testo del regolamento c'è scritto che non potranno candidarsi «coloro che ricoprano attualmente una carica elettiva, salvo che la stessa non abbia scadenza nell'anno 2022 o che si tratti di consiglieri comunali, municipali e/o Presidenti di Municipio in carica per il loro secondo mandato indipendentemente dalla scadenza dello stesso». Per qualcuno si tratta di uno stop a Raggi, perché il suo secondo mandato da consigliere comunale scadrà nel 2026. L'altra interpretazione invece vede nel testo una deroga per gli attuali consiglieri comunali al secondo mandato.

Che sarebbe una norma su misura, in quanto Raggi è stata eletta in Assemblea Capitolina nel 2021, ed è al suo secondo mandato in Comune, dato che i primi tre anni da consigliere d'opposizione iniziati nel 2013 rientrano nella regola del «mandato zero». Nel frattempo lei rilancia la linea ortodossa. «Le liste si fanno alla luce del sole e devono essere aperte a tutti. Il M5s non può diventare un tram per portare in Parlamento gli amici degli amici», la stoccata a Conte. Ma l'avvocato ha trovato il modo di limitare i danni grazie a qualche cavillo.

Aldo Grasso per corriere.it il 31 luglio 2022.

Che requiem! La decisione di Beppe Grillo di ribadire il limite dei due mandati è epocale, potrebbe anche segnare la fine del M5S. Di fronte all’irrisolutezza di Giuseppe Conte, forse per regolare i conti con i «traditori» (Crimi, Lombardi, Taverna, Fico…), più probabilmente stomacato dallo show che lui stesso ha messo in piedi, Grillo ha falcidiato il cerchio magico del M5S, fingendo di consolarli: «Non lascerò nessuno a spasso, fidatevi di me».

In realtà, nessuno più si fida di nessuno. Salvo l’immarcescibile Danilo Toninelli. È l’unico felice del diktat di Grillo, anche se gli costerà il Senato: «La politica di professione ha un unico fine: garantirsi un eterno posto in Parlamento».

Accusa i compagni di strada di voltagabbanismo (dovranno pur cercarsi un lavoro!) ed è sempre più concentrato a inanellare gaffe. Per dire, non sa ancora far di conto: «Su Rousseau, il 48% ha votato contro la fiducia a Draghi e il 58% a favore». Mentre i big del partito faranno valere le amicizie coltivate negli anni, mentre i peones si disperano in attesa di Santoro, Toninelli frequenta garrulo i social con una rubrica di controinformazione. 

Lo scorso anno ha scritto un libro, «Non mollare mai», agiografia epica dell’uomo qualsiasi. Perché è felice? Perché, nella qualsiasità, la qualsiasità non ha nulla da perdere.

Da "la Repubblica" il 31 luglio 2022.

Caro Merlo, se in Usa e Gran Bretagna fosse stato valido il limite dei due mandati, Churchill e Roosevelt non sarebbero stati in carica durante la Seconda guerra mondiale. Giuseppe Zannoni, Emilia Romagna 

Rispista di Francesco Merlo: C'è una crudeltà della storia nei pomposi tontoloni a 5 stelle, suonatori suonati, buttati fuori dallo stesso arruffapopolo che li aveva reclutati con grotteschi esami di ammissione in rete. Grillo si è liberato di Crimi, Fico, Taverna, Bonafede come ci si alleggerisce dei rifiuti. Ha loro negato l'onore di essere sconfitti dagli elettori e dunque dalla politica, li ha espulsi dal campo di battaglia. E impone un comico calvario a Conte, di cui certifica l'ormai famosa "quasità". Neppure Berlusconi, che pure diceva "eravate zucche e vi ho trasformato in deputati", ha mai trattato così i suoi servitori e le sue maîtresse di Stato. Ma Grillo non si illuda: i suoi pezzi di legno non sono diventati Pinocchio perché lui non è Geppetto ma Minosse. Nel fallimento dei burattini c'è il fallimento del burattinaio. Il loro destino sarà, comunque, migliore del suo.

M5s, la scelta suicida sul doppio mandato: il trionfo della stupidità. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 31 luglio 2022

Doverosa premessa: gli eletti dovrebbero essere sempre superiori agli elettori. Non uguali. Superiori. Nel 431 a. C. Pericle raggiunge lo zenith della democrazia col famoso discorso agli ateniesi: «Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenze di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito. Qui ad Atene noi facciamo così». Aveva ragione. Uno vale uno, anche un po' sticavoli. Col M5S , qui, se non il governo dei migliori serviva almeno un governo dei meno peggio. Sicché, il fatto che oggi il presidente della Camera Fico , la vicepresidente del Senato Taverna («Ahò, mo' li sfonnamo», è rimasta sfonnata lei...) gli ex ministeri Bonafedee Fraccaro , l'ex reggente Crimi , perfino l 'ex sindaca Raggi , vengono decapitati dalla mannaia del limite inderogabile del doppio mandato di Grillo , be', di per sé nulla ha di disdicevole. Anzi. Per una volta, segue la linea della coerenza grillesca. Specie considerando le affannose capriole regolamentari in cui, in queste ore, si sta producendo Conte per affidare ai prossimi de cuiusruoli (pagati) di consulenza in seno al Movimento; e specie assistendo allo scatto d'orgoglio dell'Elevato sull'impedire qualsiasi "rotazione" d'incarichi in forza del principio del doppio mandato, la "luce nelle tenebre". E io autorevolezza politica e la competenza tecnica, in democrazia, non s'improvvisano; si costruiscono pazientemente. Sin dai primi comizi milanesi del M5S, invece, sventolava su cartelli e gonfaloni la parola "oclocrazia", ​​​​che Polibio riferiva alla forma degenerata della democrazia. In sostanza: la Taverna torna rispettosamente a fare la segretaria in un centro di analisi; e, istintivamente, tiriamo un sospiro di sollievo. Fine della doverosa premessa. tiriamo un sospiro di sollievo. Fine della doverosa premessa. tiriamo un sospiro di sollievo. Fine della doverosa premessa.

ROGHI E PALETTI - Poi, però, la palingenesi dei 5 stelle e il rogo della vecchia guardia necessita di una lettura oltre l'istinto. La regola dei due mandati non rappresenta solo il trionfo di Beppe Grillo , ma anche il trionfo della stupidità politica. Il M5S ha imposto sin dall'inizio dei paletti invalicabili: era il patto stretto tra Casaleggioe Grillo e molti degli scappati di casa finiti in Parlamento. Ma, dal punto di vista dell'economia istituzionale, in un membro vincolante dai risultati ottenuti, a una una da yogurt, è un elemento di per sé destabilizzante. Per vari motivi. Primo: lo Stato non fa in tempo a investire nella formazione di una nuova classe politica, che subito deve ricominciare a foraggiare educazione e istruzione di quella nuova. D'altronde ci sarà un motivo se, per esempio, nelle accademie militari l'ufficiale con vitto, alloggio, grado e lauree sovvenzionate dallo Stato costretto alla firma di un impegno di ferma preventiva per un numero variabile di anni. Solo dopo un periodo passato nel prendere e nel dare ordini, nel tessere strategie di comando nei reparti operativi, il militare di carriera può liberarsi del vincolo dello Stato patrigno.De Gasperi , né Renzi- tutto faranno di tutto per adeguarsi al più comune degli isti: guadagnare il più possibile durante il tempo a disposizione. Ecco, quindi, le quote di non più corrisposte al partito; l'alternarsi di cambi di casacca nel gruppo Misto, il limbo parlamentare privo di vincoli economici; il andare di rabbia verso quelle istituzioni che forzatamente abbandonare. Un'imprevedibile crisi psicologica che può portare a demenziali suicidi "rivoluzionari" di massa con precedenti solo nella cronaca, tipo quello della setta del Tempio del Sole del Reverendo Jones, nella Guyana del '78. E il M5S s'è suicidato. alternarsi di cambi di casacca nel gruppo Misto, il limbo parlamentare privo di vincoli economici; il andare di rabbia verso quelle istituzioni che forzatamente abbandonare. Un' imprevedibile crisi psicologica che può portare a demenziali suicidi "rivoluzionari" di massa con precedenti solo nella cronaca, tipo quello della setta del Tempio del Sole del Reverendo Jones, nella Guyana del '78. E ilM5S s'è suicidato. 

DIKTAT IRRISPETTOSI - Terzo motivo di stupidità. Il M5S avrebbe dovuto rispettare tutte le forme diktat ei progetti che s'era imposto; oppure nessuno. In caso contrario, l'etica della rivoluzione va a farsi fottere. Perché, si può, è regola i militanti, per esempio è utilizzatore elusa la movimento non fondi pubblici»? «Il popolare se finanziamento è illegittimo si considera la volontà base di una democrazia», si leggeva nel 2011 sul blog. Ma nel novembre 2021- Grillo benedicente - i militanti aderirono al 2 per mille riservato ai partiti. Grillo da garante non impedì quell'atto che andava contro ogni dogma: e, mesi dopo, firmò due contratti per 300mila euro annui come consulente M5S. Ovvio che poi i parlamentari ululino alla luna il loro disappunto. Alcuni ululano, altri passano con Di Maio. Tra l'altro, la norma dei due mandati non fu inserita nello Statuto del Movimento nel 2017 in stesura, ed è presente soltanto nel Codice Etico M5S. Per salvare e soprattutto per poter ricandidare Virginia Raggi e Chiara Appendino . Il primo requisito di una legge - diceva sempre Pericle - è che sia intelligente...

Federico Capurso per “La Stampa” il 9 agosto 2022.

Sognare un posto alla Camera o in Senato? Sembra proprio che non ne valga più la pena. Sulla striscia di partenza per le tradizionali “parlamentarie” grilline, alla chiusura dei termini per presentare la propria candidatura, si sono schierati solo 1.922 tra attivisti, parlamentari uscenti, ex assessori, consiglieri comunali e regionali: «1165 per la Camera, 708 per il Senato e 49 per la circoscrizione Estero», viene comunicato con un post sui social del Movimento 5 stelle.

Un risultato lontano anni luce dall’ondata di oltre 15 mila candidati che si erano proposti nel 2018. Colpa dell’estate o del taglio dei parlamentari. Magari anche del desiderio di Giuseppe Conte di «garantire candidature di alto profilo, espressione della migliore società civile», in modo da arginare l’arrivo nel Palazzo di «cittadini semplici» che mai hanno maneggiato la cosa pubblica. Ma più verosimilmente, come si ammette anche nel partito, «si è soprattutto affievolita la spinta che c’era cinque anni fa». E così, oggi, in tanti hanno scelto di restare a guardare.

Non sarà della partita – come anticipato ieri da La Stampa – nemmeno Alessandro Di Battista. L’ex deputato romano «non si è iscritto al Movimento e non credo voglia partecipare a queste parlamentarie, né rientrare nel partito – conferma Conte in mattinata intervenendo a Radio Capital –. Se vorrà farlo ne parleremo, per me rimane sempre un interlocutore leale e privilegiato».

Resterà a guardare anche Virginia Raggi, da sempre vicinissima a Di Battista, che come ricorda Conte «rientra nel vincolo del doppio mandato. Se ne parla come se non stesse facendo nulla di importante – sottolinea il leader M5S –, ma è presidente della commissione per l’Expo e sta combattendo battaglie importanti a Roma». L’ex sindaca fa il suo in bocca al lupo sui social «a tutti i candidati alle parlamentarie. Vi sostengo», ma resta con l’amaro in bocca, perché da mesi contava di poter ottenere una deroga e fare il suo ingresso alla Camera.

Chi poteva, ma non ha voluto, è invece Rocco Casalino, lo spin doctor di Conte, suo portavoce ai tempi di palazzo Chigi, «indeciso – raccontano – fino all’ultimo minuto». Ha chiesto consiglio ai diversi big del partito e se un tempo era convinto di volersi mettere alla prova per entrare in Senato, nelle ultime ore ha invece prevalso la voglia di continuare ad occuparsi della comunicazione di Conte e del M5S. 

Anche perché a palazzo Madama, a questo giro, sarà difficile per i Cinque stelle. Tanto difficile che molti attuali senatori pentastellati hanno preferito presentare la propria ricandidatura a Montecitorio, come l’ex capogruppo Ettore Licheri, sollevando i malumori dei colleghi nelle chat interne: «Ci vogliono rubare il posto!».

I nomi dei candidati non sono ancora stati resi noti, ma quasi tutti i deputati e senatori attualmente al primo mandato proveranno a rientrare (anche se qualcuno, come la deputata Sabrina De Carlo, lascerà invece definitivamente il partito). Insieme a loro, anche alcuni ex assessori, come Alberto Unia e Antonino Iaria, che si occupavano di Ambiente e di Urbanistica nella giunta di Chiara Appendino. Qualcuno poi ci prova, pur non potendo. 

Scoppia a Roma il caso del consigliere capitolino e fedelissimo di Raggi, Paolo Ferrara, che sui social del Movimento romano dà l’annuncio di voler correre per un posto in Parlamento. Sarebbe la sua quarta esperienza politica con il M5S e, per di più, interromperebbe il terzo mandato iniziato da nemmeno un anno, nonostante il regolamento interno lo impedisca chiaramente. 

Le chat romane degli attivisti grillini in un attimo si incendiano e l’assessora in regione Lazio Roberta Lombardi sbotta: «Ferrara è doppiamente incandidabile, perché per lui si tratterebbe del quarto mandato e perché ha in corso un mandato che non termina entro il 2022». Proprio per evitare certi problemi, la lista di candidati resterà coperta fino a quando non sarà concluso il vaglio dei nomi e dei loro requisiti, pochi giorni prima delle parlamentarie del 16 agosto.

Conte nel frattempo sta riunendo le assemblee regionali degli attivisti M5S per tirare le fila in vista della campagna elettorale. E tra una videochiamata e l’altra, contatta telefonicamente esponenti della società civile per sondare la loro disponibilità a correre con il Movimento senza passare dalle parlamentarie. Dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico al magistrato Cafiero De Raho, passando per il giornalista Michele Santoro e il pensiero di provare a portare in squadra anche l’ex capo della Squadra Mobile di Napoli e vicedirettore dell’Agenzia interna dei Servizi segreti, Vittorio Pisani. Ed è alla ricerca, in queste ore, del nome di un economista da poter spendere nei collegi del Nord. Sempre che per loro valga ancora la pena sognare un posto a Roma.

M5S, da Fico a Di Maio: la classe dirigente affondata da Grillo. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022

La regola sul tetto del secondo mandato ha azzerato il gruppo storico. Tra gli esclusi ex ministri come Bonafede e Toninelli. E poi Raggi e Crimi. 

Erano in 339, erano giovani e forti e sono (politicamente) morti. O comunque non si sentono granché bene perché, a distanza di soli quattro anni dallo sbarco trionfale in Parlamento, il Movimento si è sfasciato, è esploso in mille frammenti, con il pianeta più importante che resiste ancora, sotto il dominio post-populista e «laburista» di Giuseppe Conte, ma ormai acefalo di buona parte della classe dirigente storica. Tutt’intorno, satelliti impazziti e polvere di stelle che hanno brillato per pochi anni, risucchiate fuori dall’atmosfera terrestre. Il parallelo con l’impresa tentata da Carlo Pisacane nel 1857, che da Sapri provò a innescare il processo rivoluzionario in tutto il Meridione, può sembrare azzardato, ma provare ad aprire come una scatoletta di tonno il Parlamento era già una piccola rivoluzione. Fallita, visto che il Movimento aveva grandi prospettive palingenetiche per l’Italia e si ritrova ridotto ai minimi termini (10 per cento nei sondaggi), con alle spalle una grave sconfitta alle amministrative, una scissione dolorosa e l’idolo delle folle Alessandro «Attila» Di Battista che, chiuso nel non luogo di un’auto parcheggiata, lancia strali contro Di Maio «ducetto», contro il «sinistro» Fico e perfino contro l’«elevato», l’uomo che l’ha creato e che ha abbracciato mille volte in lacrime sul palco. Quel Beppe Grillo diventato «padre padrone», una divinità iraconda, modello Crono, che divora i suoi figli.

Ricostruire l’albero genealogico di un Movimento che non c’è più mette i brividi. In principio erano Grillo con Gianroberto Casaleggio, scomparso nel 2016. La successione con Davide, come spesso accade in queste vicende dinastiche, non ha funzionato. Tanto che l’informatico se n’è andato a giugno, sbattendo la porta: «Mio padre non riconoscerebbe questo Movimento». Sotto i due fondatori, brillavano le stelle di Di Maio e Di Battista. Coppia perfetta perché complementare: l’incravattato con un grande futuro da democristiano e lo scamiciato, barricadero ma allergico alla pugna. Ora il primo ha fondato «Insieme per l’Italia», coccola il Pd, che accusava di orrori inenarrabili, tratta con il partito animalista per raggiungere il 3 per cento e viene chiamato da Grillo «Giggino ‘a cartelletta» («aspetta di essere archiviato in qualche ministero»). Il secondo, reduce dalla Russia, prosegue in un fuoco sempre meno amico e spara veleno contro i poltronari che hanno il sedere «flaccido come la loro etica».

Poi c’era la «classe dirigente» del Movimento. Una combriccola molto eterogenea, che ci ha fatto compagnia per anni. La mannaia del tetto del secondo mandato, fatta calare da un irremovibile Beppe Grillo, ha annientato molti di loro. Il «padano» Stefano Buffagni, gran tessitore di rapporti nell’imprenditoria del nord, tornerà a fare il commercialista. L’«orsacchiotto» Vito Crimi , rimasto abbarbicato al suo ruolo di capo pro tempore per un’eternità, sarà probabilmente costretto a tornare a fare l’assistente giudiziario. E Paola Taverna? Dal suo monolocale di Torre Maura ancora lavora alla campagna elettorale, dice che si «sentirà a lungo l’eco delle mie urla» in Parlamento, ma presto potrebbe vedersi avverare il celebre sfogo di Tor Sapienza: «Io nun so’ politica». Roberto Fico prepara gli scatoloni, anche se difficilmente tornerà a commerciare in tappeti orientali, dopo Montecitorio. Danilo Toninelli non si vedrà più in Parlamento, con i pettorali a mettere a dura prova la tenuta delle camicie: lo troverete a torso nudo, mentre fa jogging lungo le sponde del Tevere, o su TikTok, dove si è trasferito a tempo pieno per fare l’influencer (14 mila follower, non male, ma deve vedersela con Khaby Lame che ne ha 142 milioni). Addio a Carlo Sibilia, che considerava «una farsa» lo sbarco sulla luna. E ancora, a Fabiana Dadone, Davide Crippa, Federico D’Incà, Nunzia Catalfo, Riccardo Fraccaro. Perfino Alfonso Bonafede, l’avvocato che andò a pescare un ignoto Giuseppe Conte: perfidia della sorte, è stato fatto fuori proprio dal suo pupillo.

Tutti a casa, tutti disarcionati per volere di Crono-Grillo, nel nome del dilettantismo in politica (ancora l’altro giorno Conte se n’è vantato: «Non siamo professionisti della politica»). Un’ecatombe. Tutti «zombie», inchiodati come farfalle morte nell’album digitale del loro creatore. Altri si erano già persi per strada. Il filosofo calabrese Nicola Morra, che è ancora incollato alla poltrona dell’Antimafia. Paolo Bernini, complottista e animalista, che licenziò l’assistente, colpevole di non essere vegano. Il funambolico Gianluigi Paragone, no vax e no euro, che alle elezioni potrebbe superare il 3 per cento con la sua Italexit.

Grillo l’aveva già detto nel 2012, durante il «massacrotour»: «Il futuro del Movimento è sciogliersi». Futuro vicino: qualcuno pensa che il fondatore da un momento all’altro potrebbe andarsene, portandosi via la palla e il simbolo. Ingenuità: da poco ha firmato un contratto come consulente e riceve 300 mila euro dal Movimento. La dissipatio grillina è quasi compiuta, anche se nel Paese non si è dissolto l’humus del populismo. Ci sono ancora gli scontenti, i frustrati, i malpagati. La società del rancore è ancora qui. Solo che troverà altri sfoghi, altre vie di fuga. Di Battista e Raggi, dicono, sono pronti a riprendersi il Movimento, dopo le elezioni. Bisogna vedere cosa ne resterà.

M5s e Beppe Grillo? Quanti danni hanno fatto con la scusa dell'onestà. Francesco Carella su Libero Quotidiano il 21 luglio 2022

Tutta colpa "dell'onestà". Che il governo del nostro Paese possa dipendere da un movimento che ha trasformato quella parola in un progetto politico indica quanto grave sia stata la rottura di sistema avvenuta con il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica. In quei mesi convulsi, ad opera soprattutto dei post-comunisti, si accredita l'idea secondo cui sia indispensabile, per rimettere in sintonia governanti e governati, comprimere l'autonomia della politica in nome della morale. Una forzatura i cui effetti destabilizzanti sulla democrazia italiana non si sono ancora dispiegati del tutto a giudicare dalla crisi del governo Draghi e dai comportamenti di Giuseppe Conte.

Intanto, non deve suscitare stupore il fatto che nella strategia delle alleanze del Partito democratico - il cosiddetto campo largo targato Enrico Letta - continui ad essere previsto per il M5Stelle un ruolo privilegiato. Infatti, i pentastellati non sono il prodotto di una strana concertazione degli astri, ma, come rivela il loro Dna ideologico, possono essere considerati a pieno titolo parenti stretti della sinistra comunista. Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio non hanno fatto altro che aggiornare la berlingueriana "diversità morale" in uno slogan più efficace sul piano ritmico, "onestà-onestà".

ORDINE ETICO - È il 1980, quando il segretario del Pci- fallita la stagione del compromesso storico e interrotta ogni possibilità di dialogo con il Partito socialista di Bettino Craxi- inaugura una stagione politica nella cui agenda prevalgono i temi di ordine etico a discapito delle questioni politiche ed economiche. 

Come spesso accade nella storia ogniqualvolta un partito cambia registro strategico favorisce, nel contempo, anche letture inedite circa le passate vicende del proprio Paese. La storia italiana da quel momento in avanti- e per il tramite di un intenso lavoro condotto per via mediatica dagli intellettuali di area - viene rappresentata, senza alcun fondamento, come una lunga ed ininterrotta catena di malaffare e di corruzione. In ragione di ciò, si assiste al ridimensionamento della politica - intesa come luogo di scontro fra interessi legittimi portati a sintesi attraverso le regole della democrazia liberale - e al contemporaneo potenziamento dell'opera dei magistrati, che, per dirla con il sociologo Alessandro Pizzorno, si trasformano in "controllori della virtù" della classe dirigente. È questo, per sommi capi, il contesto politico-culturale in cui nel corso degli ultimi decenni matura e si diffonde la convinzione che la politica sia solo una faccenda per faccendieri da contrastare a colpi di sonori quanto riduttivi "vaffa...". 

Si è trattato di un colossale equivoco che ha portato in pochi anni ai vertici dello Stato un ceto impolitico a dir poco imbarazzante e sprovvisto delle conoscenze minime, per riuscire ad affrontare le complessità che il governo di un Paese presenta.

LA VIRTÙ DEL PRINCIPE - Scriveva Benedetto Croce che «un'altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell'onestà nella vita politica. Si tratta dell'ideale che canta nell'animo di tutti gli imbecilli. L'onestà politica - concludeva il filosofo - non è altro che la capacità politica». Siamo dalle parti della machiavelliana "virtù" del Principe. Ed è proprio quella "virtù" che oggi occorre recuperare, per cercare di chiudere definitivamente con la demagogia moralistica della sinistra e con l'analfabetismo politico dei 5 Stelle.

Poltrone in scadenza e rimborsi dimenticati: finisce miseramente la “diversità” grillina. Circa la metà tra deputati e senatori sarebbe indietro con le restituzioni, che consistono in mille euro al partito e 1500 alla società civile, con una destinazione da scegliere di volta in volta. Giacomo Puletti Il Dubbio il 7 giugno 2022.

I fatti: decine, forse centinaia di parlamentari del Movimento 5 stelle non hanno resistito parte dello stipendio, come avrebbero dovuto in base al regolamento interno. Le opinioni, in primis quella del leader Giuseppe Conte: «ci sono delle restituzioni che non sono pervenute da parte di alcuni parlamentari, che però hanno assunto l’impegno a farle pervenire». E ancora: «chiariremo questo aspetto nelle prossime settimane».

Da quando è uscita la notizia di mancanza di fondi in cassa, si è aperto un caso rimborsopoli tra i pentastellati. Con tanto di un Beppe Grillo su tutte le furie, visto che proprio la restituzione di parte dello stipendio è uno dei capisaldi del Movimento sin dalla fondazione. Lo staff del comico non conferma né smentisce, trincerandosi dietro a un “no comment”. Ma di quali cifre stiamo parlando? Dopo il via libera del Consiglio nazionale grillino al bilancio, si parla di diversi milioni. Ma l’intero bilancio non è ancora stato comunicato ai parlamentari, tanto che in molti chiedono spiegazioni al tesoriere Claudio Cominardi (quello che ha condiviso la foto del murale con Draghi al guinzaglio di Biden). «Noi siamo per la trasparenza e ci aspettiamo una mail con il bilancio approvato in allegato, per comprendere quali siano le spese e come vengono investiti i soldi – ha detto un parlamentare grillino – Ci sembra il minimo e siamo certi che arriverà a breve, altrimenti lo pretenderemo».

Circa la metà tra deputati e senatori sarebbe indietro con le restituzioni, che consistono in mille euro al partito e 1500 alla società civile, con una destinazione da scegliere di volta in volta. A gettare benzina sul fuoco Vittoria Baldino, deputata grillina ma anche coordinatrice del Comitato politiche giovanili del partito, che a Repubblica ha dichiarato di essere in regola, invitando i colleghi a fare altrettanto. Il problema è che sarebbero proprio gli eletti scelti da Conte per riempire le caselle del nuovo organigramma del Movimento, tra questi anche Baldino, a essere tra i pochi in regola con i conti. Che era una precondizione per ambire al ruolo, tanto che alcuni hanno ammesso di aver ricominciato a restituire durante il periodo della scelta per poi smettere di nuovo.

Il malcontento tra i parlamentari pentastellati è ormai noto, soprattutto per la possibile deroga al limite dei due mandati, ultimo dei totem degli inizi in procinto di cadere. Secondo Adnkronos, «ci sarebbe non a caso una forbice significativa nelle restituzioni tra coloro che siedono in Parlamento da questa legislatura e i veterani al secondo giro, più restii a restituire» . E mentre diventa di dominio pubblico la mail con cui Conte si iscrisse al movimento, il 17 luglio 2021, lo stesso leader difende gli interessi del Movimento. «Nessuno dica che c’è un buco nel bilancio del Movimento – ha scandito ieri – In Italia, quando si tratta dei Cinque Stelle, anche le questioni contabili appassionano». Nessuno gli riveli che i più appassionati sono i suoi stessi parlamentari.

Andrea Rossi per “la Stampa” il 17 maggio 2022.

«Non riesco a smettere di piangere. Lacrime liberatorie. Era stata messa in discussione la mia buona fede, una cosa che mi ha fatto malissimo». È l'unica cosa che dice, pochi minuti dopo aver postato una foto dal salone di casa sua che dice tutto: la felicità, la stanchezza, la tensione. Ma anche quel che è oggi Chiara Appendino: una donna che ha scelto, almeno per ora, di privilegiare la sua dimensione privata. 

Ascoltata la sentenza ha pianto. Poi ha ringraziato la Corte d'appello di Torino che l'ha assolta ed è tornata di corsa a casa. Falso ideologico in atto pubblico, secondo il gergo barocco della giustizia; falso in bilancio, nella sostanza. Una macchia per chi amministra la cosa pubblica.

Peggio ancora per chi politicamente è cresciuto nel Movimento 5 Stelle delle origini, quello per cui una condanna era prova di colpevolezza. Chiara Appendino, anche per questa macchia, ha scelto di non ricandidarsi alla fine del primo mandato. Si votava nemmeno un mese prima delle Atp Finals, una sua conquista proprio come l'Eurovision che si è chiuso sabato. 

Ora dice che il dado era tratto, comunque: «È stata una scelta consapevole. Ho deciso sapendo che avrei potuto ribaltare la sentenza di primo grado, anzi credendoci, perché ero convinta che la verità sarebbe emersa. È stato doloroso», racconta. Ma inevitabile. Due condanne, totale 24 mesi, quel che basta per giocarsi la condizionale ed essere esposta agli eventi: impossibile, ammesso di essere rieletta (e non sarebbe stato facile), governare con un'ipoteca del genere.

Piazza San Carlo era la sua ferita umana: il disastro organizzativo della macchina comunale e dell'ordine pubblico costato la vita a due donne, una serata in cui nulla aveva funzionato ma dalle responsabilità molteplici e molto combattute. Ream, invece, era la sua ferita politica: perché frutto dell'esposto di un avversario politico, l'attuale sindaco di Torino Stefano Lo Russo, allora capogruppo del Pd, e per i fatti che le venivano contestati. 

Per la procura di Torino Appendino - insieme con l'allora assessore al Bilancio Sergio Rolando, il capo di gabinetto Paolo Giordana e il direttore finanziario Paolo Lubbia - aveva falsificato i conti del Comune perché potessero chiudere in pareggio a fine 2016, i suoi primi sei mesi da sindaca.

Aveva iscritto un'operazione immobiliare da 20 milioni alla voce entrate senza fare altrettanto - alla voce uscite - con una caparra da 5 milioni sulla stessa area che la Città aveva già incassato. I conti così quadravano, ma per i pm grazie a un trucco contabile. E con un'asfissiante pressione nei confronti dei revisori dei conti, indotti ad avallare l'artificio.

Questa la tesi che ha retto in primo grado ma non in appello: stavolta il falso esiste ma è frutto di un errore, non di un reato. Ed è una sfumatura che stravolge tutto, e riabilita. Appendino non accettava il ritratto della sindaca che trucca i conti, lei che da consigliera d'opposizione aveva costruito la sua ascesa a Palazzo Civico martellando ossessivamente la giunta di Piero Fassino su bandi, procedure, poste di bilancio. Giovanna d'Arco, la chiamava Fassino, e per lui non era un complimento. Ecco, Giovanna d'Arco che si riduce a falsificare i bilanci per farli stare in piedi era - per una come lei - un'ombra tale da mettere fine a una carriera politica. 

Appendino è uscita da Palazzo Civico e si è come dileguata. Poche apparizioni pubbliche e sempre defilate, moltissima vita privata («devo alla mia famiglia tutto il tempo che le ho sottratto in cinque anni»), una certa ostentata assenza dal dibattito pubblico. Solo un tema l'ha scaldata davvero in questi mesi: lo stop alle trascrizioni degli atti di nascita dei figli di coppie omogenitoriali.

Torino era stata la prima città a forzare lo status quo e ora la prima a fermarsi sotto la spinta della Prefettura. Il resto era sguardo da lontano, apparente disinteresse. Gli ultimi quindici giorni hanno segnato una sorta di riscossa: la scuola di formazione del Movimento 5 Stelle di cui ha assunto la guida, gli Internazionali d'Italia, l'Eurovision di Torino e gli attestati di chi ha riconosciuto i suoi meriti. «Si chiude una pagina che è stata fonte di grandi sofferenze ma oggi sono contenta», dice l'ex sindaca e in qualche modo lascia intendere un possibile nuovo inizio. 

Anche il Movimento 5 Stelle la riaccoglie. «Un abbraccio a Chiara Appendino, una donna che ha sempre dato il massimo per la sua città e per il Movimento. La sua assoluzione ci rende felici», dice Luigi Di Maio. «Chiara, non abbiamo mai avuto dubbi sulla tua integrità e sull'azione politica che hai portato avanti.

La sentenza di oggi ti rende giustizia», è il messaggio di Giuseppe Conte. Le agenzie riportano i commenti di almeno una trentina di esponenti di primo piano dei Cinquestelle. 

Erano molti di meno il giorno della condanna: Di Maio, la vice ministra Laura Castelli, amica da sempre, Beppe Grillo, Roberto Fico, pochi altri. Il Movimento, con lei, ha giocato di opportunismo: assecondandone l'autosospensione quando faceva comodo mettere un po' di distanza; e chiamandola nella squadra di Conte, senza che nessuno si premurasse di riammetterla ufficialmente, quando ce n'era bisogno. 

Fa parte del gioco, lei lo sa e ringrazia chi le è stato vicino, M5S compreso. Ma, a lacrime non ancora asciutte, le parole sono per la sua ex maggioranza e la giunta: «Mi hanno sempre difesa credendo alla mia buona fede. Oggi è facile dirlo; allora, di fronte a una condanna, lo era molto meno».

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

Allargarsi al metaverso (quindi alla realtà virtuale), focalizzare la comunicazione sul sito movimento5stelle.eu e lanciare una serie di eventi all'estero: Beppe Grillo sale in cattedra da comunicatore M5S. 

Il garante, che solo pochi giorni fa ha siglato un contratto di collaborazione con il Movimento, improvvisa la sua prima «lezione», il suo esordio davanti a una trentina di consiglieri regionali. Conte prepara la sorpresa per gli stellati e lascia la scena al garante, che racconta le sue idee. 

Grillo invita a canalizzare la comunicazione sul sito ufficiale del Movimento (e non sul suo blog), sostiene che bisogna allargare gli orizzonti comunicativi: da qui l'idea della realtà virtuale. Il garante annuncia nuovi progetti e racconta che vuole promuovere i 5 Stelle all'estero con una serie di iniziative. 

Intanto il Movimento diventa a tutti gli effetti un partito. Con la pubblicazione dello statuto sulla Gazzetta Ufficiale, il M5S potrà tra l'altro accedere alla ripartizione del 2 per mille

Elisa Calessi per “Libero Quotidiano” il 29 aprile 2022.

È ufficiale: il Movimento Cinque Stelle è un partito. Come tutti gli altri. Ha uno statuto. E, grazie a questo, potrà accedere al 2 per mille. Addio, dunque, al non statuto e al non partito, all'utopia di un soggetto politico dove "uno vale uno" e le decisioni sono prese dagli iscritti, online, saltando mediazioni e mediatori, in un grande esperimento di democrazia partecipata e orizzontale. Fine dell'utopia. Che ci fosse un'evoluzione nella creatura di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio è sotto gli occhi di tutti.

Ma il grande passo, ora, è certificato nella Gazzetta Ufficiale del 27 aprile alla pagina 33.

La Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei partiti politici ha, infatti, pubblicato lo Statuto del Movimento Cinque Stelle. Il passaggio non è solo ideale. Si tratta di un documento senza il quale, finora, il Movimento non poteva accedere al 2 per mille. Ora, invece, potrà. E lo farà. Così cadrà un altro tabù, ossia il rifiuto del finanziamento pubblico, altro totem delle origini.

Il M5S, come tutti gli altri partiti, potrà godere dei contributi che i cittadini decidono di destinare ogni anno ai partiti, evoluzione di quel finanziamento pubblico che venne abolito da un referendum. Ma la politica costa. Anche quella del M5S. E perciò anche i pentastellati utilizzeranno il 2 per mille. 

Lo Statuto che segna la grande svolta riporta anche il simbolo che verrà utilizzato nelle competizioni elettorali. I contrassegni che si potranno utilizzano sono due. Uno con la scritta, MoVimento, le cinque stelle e nella parte inferiore la scritta IlBlogdellestelle.it. Un altro in cui cambia solo la parte inferiore: al posto della dicitura che fa riferimento al blog, la data 2050. La sede legale è a Campo Marzio 46. Per il resto la carta fondativa, quella attorno cui si consumò una lotta tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, è formata da 25 articoli.

Il primo riguardala "denominazione, la sede e il simbolo", il secondo la "carta dei principi e dei valori e le finalità" del Movimento, il terzo prevede l'assenza di fine lucrativo, il quarto dispone il "funzionamento dell'associazione", il quinto regola la vita degli "iscritti", il sesto quella dei "gruppi territoriali". 

Il settimo spiega cosa si intenda per "democrazia diretta e partecipata", l'ottavo parla dei "forum", il nono dell'organizzazione. Si passa, quindi, agli articoli che fissano i compiti e poteri dei vari organismi direttivi del M5S: l'Assemblea (articolo 10), il Presidente (articolo 11), il Garante (articolo 12), il Consiglio Nazionale (articolo 13), i Comitati (articolo 14), la Scuola di Formazione (articolo 15), il Collegio dei Probiviri (articolo 16), il Comitato di Garanzia (articolo 17).

L'articolo 18 regola il procedimento attraverso cui vengono disposte le sanzioni disciplinari. L'articolo 19 si occupa della figura del Tesoriere, il 20 dei Bilanci, il 21 dell'Organo di controllo, il 22 del Finanziamento delle attività, poi della Mediazione, della Clausola arbitrale e della Sospensione e autosospensione. In tutto sono dieci pagine. 

Il legame con le origini, per quanto ormai sempre più flebile, resta nella Carta dei Principi e dei Valori, laddove si ricorda che le 5 stelle, «punti cardine dell'azione politica del M5S, sono i beni comuni, l'ecologia integrale, la giustizia sociale, l'innovazione tecnologica e l'economia eco-sociale di mercato.

Risponde, invece, alle tradizionali caratteristiche della forma-partito il tipo di organizzazione definito nel nuovo statuto. Gli organismi sono 8. La struttura è piramidale e in cima c'è il presidente, oggi incarnato da Giuseppe Conte. Anche se resta la figura del garante, Grillo, per quanto con poteri di custodia dei valori, più che operativi.

Nel frattempo, tiene banco il caso Petrocelli, il presidente della commissione Esteri che ha fatto discutere per le sue posizioni filo-putiniane. Per i Cinque Stelle il regolamento non permette di spostarlo, mentre per tutti gli altri non è così. E tra i senatori di maggioranza cresce il sospetto che manchi «la volontà politica» da parte degli alleati di chiudere il caso. «Il regolamento è estremamente chiaro», ha detto ieri la presidente dei senatori pentastellati, Mariolina Castellone. E ha messo in chiaro che «non è nostra intenzione fare forzature che potrebbero determinare un precedente pericoloso». 

Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 3 maggio 2022.

Fornitori, analisti, esperti e professionisti. Con qualcuno che ha messo in mora il M5S perché, dopo aver emesso fattura ormai da mesi e mesi, i soldi non sono mai arrivati. A fine marzo Enrica Sabatini, socia con Davide Casaleggio di Rousseau, lo aveva detto chiaro e tondo: "Ci sono più soggetti che si sono dovuti rivolgere agli avvocati per avere ciò che gli spetta. È imbarazzante: professionisti costretti a vie legali verso una forza politica che governa il Paese, ma che non ha neanche la dignità di rispettare le proprie obbligazioni verso dei lavoratori".

Sennonché la notizia del contratto da 300 mila euro per Beppe Grillo ha riacceso gli animi dei creditori: prima di pagare il fondatore (un milionario...) non ci sarebbero gli altri? 

Secondo alcune indiscrezioni il debito complessivo, risalente ai tempi della gestione di Vito Crimi, si aggira sui 2-300mila euro. "Pian piano stiamo saldando...", è l'assicurazione che arriva da via di Campo Marzio, la sede del partito.

Il punto però è capire quali sono le effettive pendenze perché ad esempio sabato scorso parlando con Adnkronos il notaio milanese Valerio Tacchini, per anni professionista di fiducia del Movimento, ha fatto capire che dopo aver prestato consulenze a gratis, quasi per militanza, ora intende battere cassa. Casaleggio padre e figlio non ci sono più, Grillo pensa per sé, e allora a questo punto "il lavoro va pagato". 

Un altro pronto a fare il grande passo - cioè chiedere di essere saldato - potrebbe essere l'avvocato Andrea Ciannavei, perlomeno da quel che si racconta nel dietro le quinte. Il suo studio romano è stato per anni la sede formale dei 5 Stelle, anch'egli è un legale molto vicino al comico genovese, ma ora il nuovo corso contiano si sta affidando ad altre consulenze. E quindi le cose ovviamente cambiano.

Tutto il dossier è nelle mani del tesoriere Claudio Cominardi. Se i gruppi parlamentari non hanno problemi di liquidità, anzi (ma quei fondi non possono essere versati al partito ma sono destinati solo all'attività appunto relativa al Parlamento), le casse del partito sono invece legate alla contribuzione degli eletti del M5S. 

E anche su quel versante sono in parecchi - si parla di decine di persone - che da mesi non versano più la propria quota complessiva di 2.500 euro al mese. La legislatura si avvia alla fine, la rielezione per la maggioranza di loro è già oggi una chimera e i destini del Movimento non paiono radiosi: e perciò tanto vale tenerseli per sé.

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 3 maggio 2022.

Sarà un caso, o forse no, ma adesso i creditori bussano alla porta del M5s. Lo fanno proprio pochi giorni dopo il raggiungimento di un accordo economico tra il Movimento e il Blog di Beppe Grillo, con il Garante che dovrebbe ricevere 300mila euro per ospitare sul suo spazio online anche i post ufficiali del partito guidato da Giuseppe Conte. 

E, altra casualità sospetta, la somma delle richieste dei professionisti che non sono stati pagati dai Cinque Stelle ammonterebbe esattamente a 300mila euro, la stessa cifra pattuita con Grillo per la partnership tra il Blog e il M5s. Insomma, fornitori, analisti, esperti e professionisti pressano perché le loro fatture siano pagate.

La mossa sembra una reazione nei confronti del flusso di denaro che dovrebbe partire dal partito verso le casse della Srl che gestisce il sito di Grillo. Un do ut des per Conte, che punta a distendere i rapporti con il fondatore in cambio di un contratto che permetterebbe al Blog di ripianare i debiti accumulati dopo la pandemia. Ma l'accordo, ora, potrebbe rivelarsi un boomerang per l'ex premier. Con i creditori che bussano alla porta.

Tra di loro due professionisti che hanno segnato la vita dei Cinque stelle. Il notaio Valerio Tacchini, ex certificatore di tutte le votazioni su Rousseau e scappato dal Movimento dopo il divorzio burrascoso con Davide Casaleggio, grande amico di Tacchini. 

Lo storico notaio, dopo aver lavorato gratis per 15 anni, aveva già comunicato in estate la sua decisione di voler emettere la parcella per tutte le prestazioni professionali effettuate. Il fedelissimo di Casaleggio, solo qualche giorno fa, aveva detto all'Adnkronos di non aver ancora ricevuto un euro da Conte. E poi ci sarebbe l'avvocato Andrea Ciannavei, ancora vicinissimo a Beppe Grillo.

Nel suo studio romano di Via Nomentana 257 i grillini avevano persino stabilito la loro sede ufficiale. Sempre nell'ufficio di Roma di Ciannavei è stato sottoscritto, a fine dicembre 2017, lo Statuto del M5s che consegnava le chiavi dei Cinque stelle all'allora capo politico Luigi Di Maio e alla piattaforma Rousseau di Davide Casaleggio. 

E non è casuale nemmeno il fatto che pochi giorni fa a denunciare i mancati obblighi dei Cinque stelle di Conte nei confronti dei creditori sia stata Enrica Sabatini, compagna di Casaleggio e socia di Rousseau. Infatti nemmeno il debito con la piattaforma pare sia stato ancora saldato, nonostante le voci di accordi tra le parti dopo la separazione tra il figlio del cofondatore e il M5s. 

La maggior parte dei 300mila euro di debiti sono stati accumulati durante la gestione del reggente Vito Crimi, ma anche con Conte le casse languono. Pesa l'affitto per la prestigiosa nuova sede a due passi da Montecitorio, pesano le spese per il tour di Conte del settembre 2021. Ma incidono soprattutto i mancati versamenti dei parlamentari.

«Pochissimi saranno rieletti e ormai quasi nessuno vuole versare più al partito», dice un deputato al Giornale. Proprio per questo motivo, a pagare Grillo dovrebbero essere i gruppi parlamentari e non direttamente il M5s. Il Garante nel suo ultimo viaggio a Roma non a caso ha incontrato il tesoriere Claudio Cominardi. Intanto i creditori bussano alla porta di Conte.

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 6 giugno 2022.

L'ultima volta che il tesoriere Claudio Cominardi inviò una mail di sollecito a deputati e senatori - era il dicembre dello scorso anno - scoppiò un putiferio interno che, come si suol dire, la metà basta.

Perciò la stagione degli inviti a regolarizzarsi per adesso si è interrotta, meglio non mettere il dito nella piaga, però nell'approvare il bilancio del 2021 Cominardi ha spiegato che i mancati introiti per l'associazione Movimento 5 Stelle si aggirano sui 2 milioni di euro. 

Ogni mese infatti i parlamentari dei 5 Stelle devono versare 1.000 euro al partito, una pratica comune a tutte le formazioni politiche per autofinanziarsi. Altri 1.500 euro invece vanno indirizzati al cosiddetto fondo restituzioni, un conto corrente gestito dai capigruppo; di volta in volta gli iscritti sono chiamati a decidere dove destinarli. 

L'ultima volta, il mese scorso, 75 mila euro furono destinati all'associazione papa Giovanni XXIII, per pagare viaggio e accoglienza di 63 bambini ucraini.

Il problema però non è tanto di natura burocratica, quanto politica. Circa un terzo degli eletti del M5S infatti versa le somme a singhiozzo oppure ha smesso direttamente di farlo. Sarebbero 80-90 persone quelle coinvolte. 

Confida uno di loro: «Pende anche la questione della legittimità degli attuali vertici politici, quindi sul fatto se siano titolati o meno a spenderli: quando verrà chiarita una volta per tutte la vicenda giuridica al tribunale di Napoli allora sarà diverso. Oggi non c'è il clima di fiducia necessario, dal punto di vista politico, amministrativo e legale».

Ognuno sulla carta ha delle ragioni più o meno legittime. La consulenza da 300 mila euro a Beppe Grillo non è andata giù a parecchi; la scelta della sede nella centrale e costosa via di Campo Marzio a Roma, quartier generale dove pochi parlamentari mettono piede non avendone particolare bisogno, idem; ma probabilmente la principale è la più semplice: considerato che in pochissimi hanno la possibilità di essere rieletti, visto il taglio dei parlamentari e il calo di consensi del Movimento, la tentazione di tenersi tutta l'indennità è altissima.

Nei mesi scorsi Giuseppe Conte ha fatto un'infornata di nomine interne ratificate online, tra vicepresidenti, responsabili e membri dei comitati quasi 100 persone. Tra i requisiti necessari per ottenere la carica, c'era quella di essere in regola con i versamenti. 

Insomma, almeno su quei nomi c'è la ragionevole certezza che non siano "morosi". «Non sono preoccupato perché il bilancio è in attivo - rassicura l'ex presidente del Consiglio, in trasferta elettorale a Portici, sollecitato dopo l'indiscrezione di Adnkronos -. Ovviamente il tema delle restituzioni esiste, l'affronteremo, ma molto serenamente perché per me gli impegni presi coi cittadini hanno, al di la dell'aspetto giuridico, un alto valore etico».

Di sicuro non sono previste espulsioni, almeno sul breve termine: proprio per via della causa aperta a Napoli da un gruppo di attivisti, a giorni è atteso un primo verdetto, tutti i procedimenti disciplinari sono congelati. 

A proposito di denaro, c'è una certa trepidazione nei 5 Stelle per la puntata di Report questa sera. 

Infatti la trasmissione condotta da Sigfrido Ranucci tornerà a parlare del gruppo Onorato e dei suoi passati rapporti con Grillo e con la Casaleggio associati, con un'inchiesta aperta per traffico di influenze illecite alla procura di Milano.

«Questo dobbiamo trattarlo bene», scriveva per sms e mail il fondatore ad alcuni esponenti del M5S, riferendosi all'armatore della Moby. E poi, altro focus, sulle "parlamentarie" del 2018, i clic in rete per scegliere i candidati. 

Un attivista racconta infatti delle confidenze ricevute da Vito Crimi, all'epoca la democrazia diretta su Rousseau non funzionò a dovere: «Centinaia di persone erano state estromesse dal voto pur avendo tutti i requisiti, questo perché i big del partito avevano i loro protetti che dovevano far candidare.

Avevano la possibilità di togliere la spunta accanto al nome sul sito, così togliendo le persone dalla votazione. E io ero uno di questi come tanti altri». Insomma, più che i problemi tecnici furono le scelte politiche ad aggiustare le liste finali. 

Pratica ammessa di fronte alla telecamera di Report dallo stesso Crimi, che poi è stato capo reggente del Movimento prima dell'arrivo di Conte: «Qualcuno aveva il potere di indicare magari a Luigi Di Maio, che era il capo politico e che aveva il diritto e il dovere di valutare le candidature: "Guarda quella persona forse non è il caso di candidarla. Per questo e quest' altro motivo...". L'ho fatto anche io? Beh, sì...».

Le restituzioni scomparse. Ai Cinque Stelle mancano 2 milioni di euro, 90 parlamentari non versano più. Linkiesta il 6 Giugno 2022.

Circa un terzo degli eletti del M5S versa le somme a singhiozzo oppure ha smesso direttamente di farlo. Contano i dissidi interni, ma anche il fatto che in pochissimi hanno la possibilità di essere rieletti, visto il taglio dei parlamentari e il calo di consensi. La tentazione di tenersi tutta l’indennità è altissima.

Circa 2 milioni di euro. È tempo di bilanci per i grillini. Ed è questa la cifra, secondo il tesoriere dei Cinque Stelle Claudio Cominardi, che manca al Movimento in seguito allo stop nelle restituzioni di parte dello stipendio di deputati e senatori – come riporta Repubblica.

Ogni mese è previsto che i parlamentari Cinque Stelle versino 1.000 euro al partito, una pratica comune a tutte le formazioni politiche per autofinanziarsi. Altri 1.500 euro invece vanno indirizzati al cosiddetto fondo restituzioni, un conto corrente gestito dai capigruppo. Di volta in volta gli iscritti sono chiamati a decidere dove destinarli. L’ultima volta, ad esempio, 75mila euro furono destinati all’associazione papa Giovanni XXIII, per pagare viaggio e accoglienza di 63 bambini ucraini.

Il problema è che circa un terzo degli eletti del M5S versa le somme a singhiozzo oppure ha smesso direttamente di farlo. Sarebbero 80-90 persone quelle coinvolte. «Pende anche la questione della legittimità degli attuali vertici politici, quindi sul fatto se siano titolati o meno a spenderli: quando verrà chiarita una volta per tutte la vicenda giuridica al tribunale di Napoli allora sarà diverso. Oggi non c’è il clima di fiducia necessario, dal punto di vista politico, amministrativo e legale», dice uno dei parlamentari morosi.

La consulenza da 300mila euro a Beppe Grillo non è andata giù a parecchi. Poi c’è la scelta della sede nella costosa via di Campo Marzio a Roma. Ma probabilmente la ragione principale è la più semplice: considerato che in pochissimi hanno la possibilità di essere rieletti, visto il taglio dei parlamentari e il calo di consensi del Movimento, la tentazione di tenersi tutta l’indennità è altissima.

Nei mesi scorsi, Giuseppe Conte ha fatto un’infornata di nomine interne ratificate online, tra vicepresidenti, responsabili e membri dei comitati quasi 100 persone. Tra i requisiti necessari per ottenere la carica, c’era quella di essere in regola con i versamenti. Insomma, almeno su quei nomi c’è la ragionevole certezza che non siano “morosi”.

«Non sono preoccupato perché il bilancio è in attivo», rassicura l’ex presidente del Consiglio. «Ovviamente il tema delle restituzioni esiste, l’affronteremo, ma molto serenamente perché per me gli impegni presi coi cittadini hanno, al di la dell’aspetto giuridico, un alto valore etico».

Non sarebbero previste espulsioni, almeno sul breve termine. A Napoli a giorni è atteso un primo verdetto e tutti i procedimenti disciplinari sono congelati. Domani è invece previsto il ricorso davanti ai giudici di Napoli sulla seconda votazione per il nuovo statuto del Movimento che ha portato alla presidenza di Conte.

"Vi racconto l'ossessione dei grillini per i soldi". Luca Sablone il 25 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'analisi del sociologo Panarari sul chiodo fisso dei 5 Stelle: così i grillini nel palazzo hanno fatto crollare la morale sulla loro diversità e superiorità rispetto agli altri partiti.

La metamorfosi del Movimento 5 Stelle è lampante: un soggetto politico dichiaratamente anti-casta che si è incarnato in un vero e proprio partito, ormai ben radicato all'interno del palazzo con quelle connotazioni che in passato aveva tanto disprezzato. Le infinite giravolte hanno finito anche per far cadere l'ultimo tabù: è bastato poco per veder crollare quel concetto secondo i cui i grillini sarebbero diversi dagli altri e con valori morali superiori.

Hanno sempre parlato delle restituzioni come se ciò fosse l'unico strumento di valutazione per votare un partito. E ora il sociologo Massimiliano Panarari, attraverso un'analisi pubblicata su La Stampa, ha fatto notare come i pentastellati abbiano tradito l'utopia della politica vergine e a costo zero. Nei fatti hanno smentito il loro magnifico mondo puro, fatto di trasparenza assoluta e di impegni politici senza compensi. Altro che anti-casta.

L'accordo con Grillo

La notizia di pochi giorni fa va proprio in questo senso. In queste ore Beppe Grillo ha assunto nuovamente un ruolo centrale, tornando a Roma per segnare un ulteriore punto di svolta. Il Movimento 5 Stelle ha raggiunto un accordo con il comico genovese: l'intesa si traduce in supporto nella comunicazione che va dall'ideazione di campagne all'organizzazione eventi, passando per la promozione di strategie digitali e la produzione video.

Il fatto di per sé non costituirebbe scandalo. C'è un però, e la domanda sorge spontanea: quanti soldi girano dietro questo accordo? Che tipo di patto economico è stato siglato? Grillo quanto incasserà? Va fatta una precisazione: allo stato attuale non sono ancora state snocciolate cifre ufficiali. Alcuni rumors, al momento non confermati, riferiscono che l'entità dell'accordo si aggirerebbe attorno a una cifra pari a 300mila euro.

L'ossessione per i soldi

"Una (tutt’altro che) magnifica ossessione", scrive il sociologo Panarari. Le indiscrezioni hanno mandato su tutte le furie molti eletti. Ad esempio un deputato grillino - racconta l'Adnkronos - si chiede per quale motivo "dovremmo pagare con le restituzioni il blog di Grillo, mentre prima tutto ciò avveniva gratis". Nel corso di questi anni sono state innumerevoli le polemiche legate alle restituzioni dei parlamentari 5 Stelle, con tanto di fuoco incrociato tra fedeli e morosi. Qualcuno aveva mosso l'accusa di finti bonifici, facendo scatenare altri malumori e litigi interni.

"Le fibrillazioni interne erano partite dalla crescente insofferenza per le donazioni al fondo di sostegno alle pmi, e avevano poi visto ampliarsi il numero dei parlamentari coinvolti in spese, diciamo così, allegre che venivano infilate nei rimborsi", ha ricordato il sociologo Panarari. Tra le altre tappe della via crucis vi è quella dello scorso anno, quando si arrivò al divorzio con l'Associazione Rousseau dopo una serie di tira e molla. La scorsa estate erano state avviate le procedure per la cassa integrazione "a fronte dell'enorme mole di debiti cumulati dal Movimento 5 Stelle nei confronti dell'Associazione Rousseau".

Passano pochi mesi e il M5S apre a una nuova rivoluzione, chiedendo agli iscritti il via libera per l’accesso al finanziamento del 2xmille e al finanziamento privato in regime fiscale agevolato mediante iscrizione al registro nazionale. Eppure nel 2014 la storia era ben diversa: su Il Blog delle Stelle veniva scritto che "i partiti vogliono i soldi del tuo 2xmille, il M5S no". E veniva ribadito a chiare lettere: "Il M5S non è un partito e non vuole i soldi del tuo 2xmille".

Il sociologo Panarari ha sottolineato: "Una caterva di picconate al mito della diversità morale e della trasparenza, perché la maledizione dei soldi non risparmia nessuno. Specialmente quelli che fanno i duri e i puri, e promuovono le crociate ispirate a una presunta superiorità etica". In effetti riposizionamenti e ripensamenti con il passare degli anni sono diventati l'unica costante coerente dei 5 Stelle.

Dallo sterco del diavolo ai 300 mila euro per il guru Grillo. L’armistizio tra i 5S e la pecunia. Sebastiano Messina su La Repubblica il 24 Aprile 2022.

Nel 2010 il comico genovese teorizzò sul suo blog il definitivo rifiuto di ogni finanziamento: "Il costo della politica è un’invenzione linguistica dei politicanti per diventare ricchi, o almeno benestanti, con le risorse dello Stato. Io non conosco un solo politico povero".

Diciamo la verità: se l'è cercata. Perché se oggi lascia tutti a bocca aperta la notizia che i Cinquestelle verseranno a Beppe Grillo 300 mila euro l'anno per "l'ideazione di campagne e la promozione di strategie digitali", è perché sembra ancora di sentirlo, il fondatore, garante e padrone del Movimento, mentre tuona che "i soldi trasformano la politica in una montagna di merda".

Il M5s ora paga Grillo, 300mila euro all’anno per la comunicazione. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 22 aprile 2022

Il Movimento 5 Stelle ha raggiunto un accordo con Beppe Grillo: il fondatore ha firmato due contratti rispettivamente da 200mila e centomila euro per “attività di supporto nella comunicazione” dei gruppi parlamentari

Beppe Grillo, fondatore e garante dei Cinque stelle, è riuscito a strappare al suo Movimento contratti per 300mila euro all’anno. Dopo due giorni di trattative, con Grillo che faceva base all’hotel Forum a Roma, l’accordo è stato raggiunto ieri sera. 

L’intesa «comprende attività di supporto nella comunicazione con l’ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche», si legge in nota del M5s diffusa ieri sera. 

Il comico è arrivato nella capitale da qualche giorno per incontrare le figure più importanti del partito. Ha visto il presidente Giuseppe Conte, il capodelegazione al governo Stefano Patuanelli, ma anche i capigruppo di Camera e Senato Davide Crippa e Mariolina Castellone e il tesoriere Claudio Cominardi. 

Inizialmente, Grillo è riuscito a concordare con il presidente Giuseppe Conte un pacchetto da 200mila euro per il suo inquadramento nelle attività del Movimento. Al termine delle trattative, però, Grillo è riuscito a strappare centomila euro in più, raggiungendo la cifra complessiva di 300mila euro all’anno.

Il fondatore sarà incluso non solo nelle attività e nella comunicazione italiana dei Cinque stelle, ma potrà occuparsi anche «della promozione delle attività del Movimento all’estero attraverso la partecipazione a convegni, giornate di studio, incontri con personalità scientifiche e istituzionali».

Un altro tassello della strategia messa in piedi dell’ex presidente del Consiglio è l’introduzione nel nuovo sistema di gestione della comunicazione condiviso tra blog e Movimento è l’inclusione di Nina Monti, vicina al garante da parecchio tempi. Monti, già cantante e figlia d’arte del paroliere di Patty Pravo, e già da parecchio tempo deputy editor del sito di Grillo. Il suo coinvolgimento più stabile nella strategia del Movimento è stata evocata già parecchie volte in passato, ma l’iniziativa non è mai andata in porto.

Monti potrebbe essere inserita nel gruppo Cinque stelle alla Camera, ma il suo stipendio non dovrebbe essere a carico del partito. Sarà probabilmente Grillo, all’interno dei due contratti di consulenza, ad occuparsene. 

Non è la prima volta che incarichi e datori di lavoro si confondono nel Movimento: anche Rocco Casalino, portavoce di Conte, che però non ha nessun incarico parlamentare, è assunto dal gruppo Senato. VANESSA RICCIARDI

Ilario Lombardo per “La Stampa” il 24 aprile 2022.  

L'Eletto della democrazia diretta vale 300 mila euro. È quanto riceverà Beppe Grillo dal M5S. A quanto pare 80 mila euro o qualcosa di più andranno a Nina Monti, sorta di anti-Casalino che si è accasata nella comunicazione grillina per conto del comico.

Ma soprattutto 100 mila euro Grillo li prenderà per il suo ruolo di garante, che fino a oggi ha svolto ovviamente gratis. Ma prima faceva spettacoli, la pubblicità lo inseguiva sul blog, perché ogni sua alzata di sopracciglio era un terremoto politico. È un po' come se Steve Jobs quando venne cacciato da Apple, azienda che lui aveva creato, avesse detto: se vi sistemo un paio di computer, mi date qualcosa?

Beppe Grillo e il vitalizio contro il portafoglio «miscio». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 23 aprile 2022.

Beppe Grillo pensa anche al portafoglio, pare sia miscio (al verde, in genovese). Per 300 mila euro ha affittato il suo blog per ospitare contenuti del M5S, insegnare tecniche di comunicazione, sviluppare contenuti sulla transizione ecologica e sull’innovazione tecnologica. Quando ci sono di mezzo le palanche, la sua leggendaria oculatezza viene fuori: il blog costa all’anno 200 mila euro di spese vive, di cui la metà vanno alla società che glielo cura.

Spettacoli in giro non ne fa più (del resto, bravi autori disposti a scrivergli testi ora è difficile trovarne), in tv non lo chiamano perché ormai è leader carismatico di un partito, le ville bisogna pur mantenerle e allora non resta che battere cassa a quelli che ha piazzato in Parlamento.

Ma la riconoscenza non è di questa terra. Alcuni parlamentari grillini, pur di non tirare fuori un euro, gli suggerivano di salvaguardare la sua autonomia di Garante. Altri malignavano sull’attuale dirigenza del movimento che, in questo modo, si sarebbe comprata il silenzio di Beppe (altra versione: è in atto un commissariamento del M5S).

Era difficile pensare che l’Elevato, l’impavido uomo del «Vaffa Day», scendesse a Roma con il cappello in mano per chiedere ai suoi un vitalizio. Pareva una di quelle notizie che si leggono sui blog. Invece, era tutto vero. 

I valori del garante Da Grillo a Bannon, il triste autunno dei piazzisti del populismo. Francesco Cundari su L'inkiesta il 23 Aprile 2022.

Nel pieno della più grave crisi internazionale degli ultimi decenni il fondatore del M5s è sceso a Roma per discutere con i vertici del suo partito i dettagli della «partnership» con il blog. 

Se il trucco più riuscito del diavolo è stato convincerci che non esiste, la battuta migliore di Beppe Grillo è stata sostenere di aver fondato un movimento politico. Non era niente del genere, come si dimostra in questi giorni.

Nel pieno della più grave crisi internazionale degli ultimi decenni, infatti, il fondatore del Movimento 5 stelle è sceso a Roma per discutere con i vertici del suo partito, dal presidente (sub judice) Giuseppe Conte al presidente della Camera Roberto Fico, dal ministro Stefano Patuanelli ai capigruppo di Camera e Senato: per parlare della guerra in Ucraina? Dei rapporti con la Russia, delle sanzioni, dell’allargamento della Nato? Macché. Del blog. O per meglio dire, di soldi. Cioè dell’unico motivo per cui il «garante» del Movimento 5 stelle ha messo in piedi l’uno e l’altro, il blog e il partito.

Stando almeno a quanto riportato da tutti i giornali, questo sarebbe stato infatti l’oggetto dei colloqui: i soldi che il movimento gli dovrebbe dare per «l’uso» del blog. Per essere sicuro di non sbagliare, cito da una fonte sicuramente non ostile come il Fatto quotidiano, che la mette così: «Un coinvolgimento maggiore di Beppe Grillo nella divulgazione delle idee del Movimento e quindi una vera e propria partnership (a pagamento) con il blog». Capito bene? Una partnership.

«Il Movimento 5 stelle – informa una nota ufficiale del partito in serata – ha raggiunto un accordo con Beppe Grillo che comprende attività di supporto nella comunicazione con l’ideazione di campagne, promozione di strategie digitali, produzione video, organizzazione eventi, produzione di materiali audiovisivi per attività didattica della Scuola di formazione del Movimento, campagne elettorali e varie iniziative politiche».

Se non fosse tragico sarebbe da morire dal ridere.

Di sicuro, oltre che tragico, è un episodio molto istruttivo. Perché chiarisce definitivamente la genesi, la natura e il movente dell’impegno politico di Grillo, che a ben vedere non è diverso da quello di Steve Bannon negli Stati Uniti, con le sue mille attività che ne hanno preceduto e accompagnato la pseudo-carriera politica, dal banchiere d’investimento (proprio lui, certo) al consigliere d’amministrazione in Cambridge Analytica (proprio quella, ovvio).

Potremmo definirli i piazzisti del populismo. Non credono a quello che dicono più di quanto i protagonisti di certe televendite credano davvero alla crema sciogli-pancia o alla pallina lava-vestiti (a suo tempo pubblicizzata da Grillo, peraltro).

Anzi, come è sempre più evidente, non è tanto che non ci credano. È proprio che non gliene frega niente.

Matteo Pucciarelli per “la Repubblica” il 29 marzo 2022.

Per Paola Taverna dev' essere stato veramente un dramma, o forse una specie di insopportabile e oscuro presagio, visto il baccano piantato. Un collega d'aula riassume così l'accaduto: «È scoppiato un bordello». 

La storia è questa: il 15 marzo scorso agli eletti del Movimento 5 Stelle a Palazzo Madama - attualmente sono rimasti in 73 - arriva una comunicazione del direttivo del gruppo su Telegram. Si spiega che si è deciso per una nuova disposizione dei posti a sedere in aula. Allegata c'è una cartina con le assegnazioni della poltroncina, modifica generale fatta con l'intenzione di avvicinare tra loro i componenti delle stesse commissioni.

Tra i vari cambiamenti di postazione c'è pure quello della vicepresidente vicaria del partito nonché vicepresidente del Senato. Così alla prima seduta utile Taverna arriva e scopre che anche lei ha perduto la sua solita posizione nell'emiciclo, la stessa che ha dal 2018.

Nello schema infatti viene fatta salire di una fila, anche se sulla stessa direttrice, sul laterale sinistro. Un posto vale uno? Macché, apriti cielo, la senatrice - ben nota per il carattere fumantino e le (passate) intemerate da cittadina prestata alla politica - è andata su tutte le furie. 

Il malcapitato investito dalle rimostranze di Taverna è stato Fabrizio Trentacoste, senatore siciliano e uno dei tre segretari del gruppo M5S, oggi guidato dalla capogruppo Mariolina Castellone. 

«Come vi siete permessi?», ha protestato Taverna. E ancora: «Ho lo stesso posto da quattro anni, io non me ne vado». Chi ha assistito alla scena la definisce "ridicola", o in alternativa "vergognosa", ma comunque sia la sostanza è che alla fine la vicepresidente, interpellando direttamente gli uffici del Senato e quindi scavalcando il direttivo, ha ottenuto che tra i vari cambiamenti di posto venisse depennato il suo. Ovviamente a parecchi compagni di partito, i quali invece si sono spostati come richiesto, la scenata non è piaciuta e da giorni le battute si sprecano.

Di sicuro tutta la faccenda, apparentemente marginale, ha tutto un suo risvolto simbolico, soprattutto visto che si parla dei 5 Stelle e di una figura di spicco di quel Movimento delle origini che prometteva di mandare in Parlamento semplici e disinteressati "portavoce" del "popolo". Quasi dieci anni dopo invece ci si avvinghia alla celeberrima poltrona, ma proprio letteralmente.

Politica a pagamento e addio trasparenza nel M5S. Ultima giravolta grillina. Gaetano Mineo su Il Tempo il 24 aprile 2022.

Il francescanesimo del MoVimento 5 stelle s’è trasformato in una macchina da soldi. O almeno così pare, soprattutto in questo periodo nel corso del quale sono state ammainate le ultime bandiere grilline. A sventolare con un flebile vento, è rimasta soltanto quella del limite del doppio mandato. Ma anche questa, sembra pronta per essere abbassata. E così, soldi e affari si prendono la scena, sollevando polemiche e malumori in un partito, qual è quello dei 5 stelle, già lacerato dalla guerra fratricida Conte-Di Maio, dalle controversie giuridiche sullo statuto e non ultimo dalla leadership di Giuseppe Conte, mai decollata e da non tutti ben accolta, a partire dal cofondatore del movimento, Beppe Grillo. Ed è proprio il comico genovese a battere cassa e a strappare un contratto con il M5s - di cui è Garante, quindi anche del contratto stesso - di circa 300mila euro all’anno, per fornire servizi di comunicazione, organizzazione di eventi e mettere a disposizione del partito il blog storico dello stesso comico. In soldoni, una sorta di ufficio stampa da 25mila euro al mese che andranno nelle tasche di Grillo e di cui non c’è traccia del relativo contratto stipulato con i vertici del partito, Giuseppe Conte in primis.

«Top secret», si direbbe in ambienti investigativi. Altro che dirette streaming e scatoletta di tonno. A pagare il comico (travolto da due inchieste: sul figlio per violenza sessuale e sui presunti favori al gruppo Moby) non saranno i gruppi parlamentari ma il partito, finanziato a sua volta dalle contribuzioni dei parlamentari già sul piede di guerra. «Perché mai dovremmo pagare con le restituzioni il blog di Grillo, mentre prima tutto ciò avveniva gratis?» è il leitmotiv che riecheggia tra deputati e senatori grillini. Gli affari sono affari, direbbero gli americani. E Grillo, in questo caso. D'altronde, non è una questione politica. Lui, a oggi, è il Garante del partito (non retribuito), il «padre nobile». Ma la comunicazione ha un prezzo, si paga: 25 mila euro al mese. Come dire, con la politica si possono fare affari. È la legge del contrappasso che riaccende i tempi di quando il comico megafonava nelle piazze il varo del «Politometro», uno strumento per verificare i redditi dei politici prima, durante e alla fine del mandato parlamentare. L’aria di business, intanto, colpisce anche il grillino della prima ora Alessandro Di Battista. L’ex falegname ha deciso di fare un po’ di soldi con la politica: il 18 maggio terrà online un corso di comunicazione politica, appunto, per i candidati alle elezioni amministrative 2022 al costo di 39 euro per chi si iscrive entro il 27 aprile, poi - testualmente - «il prezzo salirà». Gli affari sono affari. Il Movimento è costellato di questioni di soldi.

«Lady Rousseau», la compagna di Davide Casaleggio ha attaccato recentemente Conte perché vuole 450mila euro, una somma pari al debito che ha maturato il M5s nei confronti di Rousseau, a dire dell’Associazione stessa. Ma non è tutto. Per circa un anno è andata avanti la telenovela delle mensilità che i parlamentari dovevano sborsare al partito. Somme riviste dopo il divorzio da Rousseau e che hanno alimentato sempre più la lista dei morosi. Tutti dati che prima venivano pubblicati in Rete mentre a oggi non ce n’è più traccia. Nulla si sa più del contributo di 1.000 euro che il parlamentare deve dare mensilmente al partito, oltre alla restituzione da 1.500 euro per alimentare il «fondo sociale». Sembra che non si rendiconti più nulla. Già è sparita dai radar un altro dei fiori all’occhiello della creatura di Grillo: la rendicontazione pubblica delle spese. Per non parlare dell’addio dato dal M5s alla decisione di non prendere i soldi pubblici per finanziare la politica. Infatti, i 5stelle hanno detto sì al 2 per mille tanto osteggiato quando Enrico Letta lo introdusse al posto dei rimborsi elettorali. «Il M5S non è un partito e non vuole i soldi del 2 per mille. Il M5S ha dimostrato che non servono soldi pubblici per fare politica», scriveva il Blog delle Stelle. Ma questa è un’altra storia. 

 Dai vaffa ai redentori, da centomila a nessuno: il calderone spento del M5s. VITTORIO FERLA su Il Quotidiano del Sud il 24 aprile 2022.

Dove sta andando il M5s? Dopo le ultime vicissitudini del movimento che avrebbe dovuto rivoluzionare la politica italiana è legittimo chiederselo. Al suo esordio, il partito fondato da Beppe Grillo era un calderone di pulsioni contrastanti. Prima di tutto, c’era il “Vaffa” contro la politica italiana, accusata di essere un agente della corruzione e del degrado morale. Grazie alla retorica anti casta, il movimento raccolse gli insoddisfatti di ogni origine politica. Più di tutti, i delusi del Pd.

Fin dalle origini, insomma, i grillini incarnano la parte dei “redentori”, un po’ come accade da sempre nei populismi sudamericani: basti pensare alla storia di Castro o di Chavez. L’idea messianica dei pentastellati – alla Di Battista, per intenderci – si risolveva appunto nel compimento di una missione redentrice. Il loro popolo di cittadini offesi dalle bricconate della politica cattiva era elevato a comunità organica, virtuosa ma vessata.

Grazie a questa narrazione, i grillini riuscivano a raccogliere di tutto: scarti della destra e della sinistra, personaggi improbabili in cerca d’autore, parvenu dell’attività politica, drop out della vita reale. Centomila anime diverse alle quali corrispondevano altrettante idee confuse. Un miscuglio di no alla crescita, allo sviluppo, al mercato, al liberismo, alla democrazia rappresentativa, al capitalismo, all’Europa, all’euro, alla Nato.

Il M5s accontentava così tutte le pulsioni antisistema, raccogliendo soprattutto nel vasto elettorato protestatario (ma velleitario) del nostro Mezzogiorno. Nella legislatura scorsa, passata sui banchi dell’opposizione, ha campato sulla poesia del cambiamento senza mai scontrarsi con la prosa della realtà. La vittoria alle elezioni del 2018 cambia tutto. Il M5s diventa l’architrave della legislatura e di tutti i governi che vi si sono succeduti.

L’identità multiversa delle origini si traduce sempre più in una facciata monolitica. Non soltanto perché forgiata dal fondatore Beppe Grillo. Ma soprattutto perché il destino del nuovo soggetto politico si realizza nella figura del capo di governo: Giuseppe Conte. E la molteplicità di attese di cambiamento si esauriscono in una domanda univoca di assistenzialismo: le misure redistributive come il reddito di cittadinanza e Quota 100 (concordate con la Lega, che raccoglie le medesime pulsioni da destra) sono l’eredità di questa fase. Sotto l’immagine unificatrice del presidente del consiglio, il M5s cerca di tacitare le sue mille anime.

La verità, ovviamente, è molto diversa. Tanto è vero che, tra fughe disperate e purghe autoritarie, decine di parlamentari transitano verso altri lidi: o nel gruppo misto o, direttamente, in altre formazioni concorrenti. Sacrifici politici (e umani) necessari per garantire una coriacea conformità nella figura di Giuseppe Conte. A un certo punto, il vento comincia a cambiare.

Dopo le note vicende, Conte cade in disgrazia e viene sostituito e surclassato dalla stella di Mario Draghi. È l’ultima fase del movimento: prima ‘centomila’ (cose diverse), poi ‘uno’ (Conte, capo di governo), poi… ‘nessuno’ (Conte capo politico). Proprio mentre Draghi fa il grande timoniere euroatlantico, guidando la nave Italia verso la meta dell’attuazione del Pnrr e della ritrovata credibilità internazionale, tra i pentastellati scoppia la crisi di identità definitiva.

Nessuno sa cosa sia, oggi, il M5s. A partire dalla scelta del presidente della Repubblica, Conte pasticcia su tutto. L’acclamato “punto di riferimento fortissimo dei progressisti” è già un ex, indeciso a tutto. La Russia invade l’Ucraina? E lui: né con Putin, né con la Nato. L’Europa sostiene Kiev a spada tratta? Sì ok, ma niente armi. L’Ue rilancia la difesa comune come risposta alla minaccia imperialista di Mosca? Voglio i sussidi, no alle spese militari. La Francia deve scegliere tra europeismo e nazionalismo? L’avvocato assicura: né con Le Pen, né con Macron. Alla fine della storia, il M5s si guarda allo specchio e non ci trova più nessuno.

L’emendamento per strappare il finanziamento. Soldi pubblici, grillini a caccia del malloppo di stato. Salvatore Curreri su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Come tutti gli automobilisti sanno, in autostrada sono vietate le inversioni a U. Se vuoi tornare indietro, devi aspettare la prossima uscita. Invece, i pentastellati, per accedere al finanziamento pubblico (indiretto), non vogliono aspettare il 2023. Lo vogliono subito. E se le regole oggi vietano questa inversione a U, nessun problema: basta cambiarle. Per comprendere meglio quel che potrebbe accadere occorre fare un passo indietro. Oggi i partiti che vogliono accedere al cosiddetto 2×1000 e alle donazioni fiscalmente agevolate devono iscriversi in un apposito Registro. A sua volta, per iscriversi a tale Registro i partiti devono avere rappresentanza parlamentare e uno Statuto che contenga taluni elementi essenziali di democrazia interna e di trasparenza nei confronti degli elettori, stabiliti per legge. In tal modo il legislatore ha collegato l’accesso dei partiti al finanziamento pubblico alla loro democrazia interna.

Insieme al vincolo di mandato dei parlamentari-portavoce dei cittadini e al limite dei due mandati, il no al finanziamento pubblico era uno dei tre pilastri identitari del M5s. “Era” perché lo scorso 30 novembre l’assemblea degli iscritti (peraltro senza numero legale: rispetto ai 131.760 aventi diritto hanno votato appena 33.967 iscritti e di questi a favore 24.360: il 18,5% del totale) ha approvato la proposta del presidente Conte di accedere a tale finanziamento. Si dà il caso però che il 30 novembre sia il termine ultimo entro cui i partiti registrati devono presentare richiesta per accedere al finanziamento pubblico per l’anno successivo (art. 10.3 d.l. 149/2013). Era scontato quindi che, non essendo ancora registrato, la richiesta del M5s di accesso al finanziamento per il 2022 venisse respinta dalla competente Commissione di garanzia (delibera del 23 dicembre 2021). Poiché per registrarsi occorre, come detto, avere uno Statuto democratico, ecco spiegata l’esigenza del MoVimento di vararne uno nuovo e per di più rispondente ai requisiti richiesti dalla suddetta Commissione.

E già, perché nel frattempo tale Commissione, rilevate non poche difformità dello Statuto rispetto ai requisiti prescritti per legge, ha imposto al M5s talune specifiche modifiche per potersi registrare. Prescrizioni peraltro la cui lettura è caldamente consigliata a chi, lamentando l’ingerenza dei giudici, vuole capire meglio quali siano le garanzie minime per la democrazia nei partiti. Tali modifiche sono state giustappunto recepite nel nuovo Statuto che sarà sottoposto all’approvazione degli iscritti giovedì e venerdì prossimi. Iscritti convocati anche per ripetere la deliberazione assembleare del 2-3 agosto 2021, sospesa dal Tribunale di Napoli (ce ne siamo occupati su queste colonne lo scorso 10 febbraio), con cui era stato approvato il nuovo Statuto sulla cui base Conte era stato eletto Presidente del M5s. Mentre, infatti, gli altri partiti cambiano dirigenti, anziché Statuto, nel M5s cambiano gli Statuti per modellarli ai nuovi dirigenti: così abbiamo avuto lo Statuto di Grillo (2012), quello di Di Maio (2017), quello del Comitato direttivo, mai eletto (febbraio 2021) e ora quello di Conte (agosto 2021).

Vi chiederete: tali modifiche statutarie cosa c’entrano con il finanziamento pubblico? In ogni caso, si potrebbe obiettare, il nuovo Statuto, se approvato e giudicato conforme dalla Commissione di garanzia, permetterà al M5s d’iscriversi nel Registro e quindi di accedere al finanziamento pubblico ormai per il 2023, essendo scaduto il termine del 30 novembre 2021. Inoltre: perché tutta questa fretta di approvare il nuovo Statuto se il Tribunale di Napoli non si è ancora pronunciato sulla legittimità dell’approvazione del precedente a causa dell’esclusione degli iscritti con meno di sei mesi, peraltro ora nuovamente esclusi il prossimo 10-11 marzo, esponendosi al rischio di una nuova impugnazione? Rischio di nuova impugnazione peraltro alimentato dall’avvcato Borré secondo cui le regole previste nel nuovo Statuto per l’elezione del Comitato di garanzia e (in via transitoria) del primo presidente del M5s introdurrebbero meccanismi di cooptazione vietati dalle Linee guida per la redazione degli Statuti prescritte nel 2018 dalla Commissione di garanzia.

La risposta del perché di tanta fretta si trova in un emendamento presentato dal senatore Fantetti (n. 9.0.8, segnalato e quindi da votare) al decreto legge n. 4/2022 (c.d. sostegni-ter). Esso, infatti, prevede la riapertura dei termini per accedere al finanziamento pubblico indiretto per il 2022, postergandoli dal 30 novembre 2021 al 31 marzo 2022, per gli “operatori” (ohibò) politici che fossero registrati entro la data di conversione del decreto legge (e cioè massimo entro il prossimo 28 marzo). L’obiettivo dunque è chiaro: approvare subito il nuovo Statuto secondo le indicazioni della Commissione di garanzia, così da avere il tempo per presentare o richiesta di registrazione e, una volta ottenuta, accedere subito al finanziamento pubblico per il 2022 profittando dell’approvazione nel frattempo dell’emendamento Fantetti. Approvazione peraltro probabile visto che permetterebbe l’accesso al finanziamento di forze politiche al momento escluse: anche Coraggio Italia, registratasi lo scorso 27 gennaio, Idea-Cambiamo!-Europeisti-Noi di Centro (Noi Campani), cui il sen. Fantetti appartiene; Rifondazione Comunista che ha ottenuto la necessaria rappresentanza parlamentare grazie alla componente politica del misto Manifesta-Potere al Popolo-Partito della Rifondazione comunista costituitasi lo scorso 8 febbraio.

Ovviamente è sempre possibile cambiare idea. Anzi è certamente apprezzabile che il M5s abbia superato l’idea demoniaca del denaro in politica (salvo comunque aver sempre utilizzato i contributi erogati ai rispettivi gruppi parlamentari e consiliari per finanziare anche le correlate attività del partito, non facilmente separabili). Meno apprezzabile che per raggiungere tale scopo si debbano cambiare le regole del gioco, introducendovi deroghe a proprio vantaggio. Una forzatura che la dice lunga su chi invocava legalità-tà-tà. Salvatore Curreri

Dallo statuto del M5S sparisce il limite dei due mandati. Francesco Curridori il 24 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nel nuovo statuto del M5S che verrà messo a votazione il prossimo 10-11 marzo manca il limite dei due mandati tanto caro a Beppe Grillo. 

Niente tetto dei due mandati. Questa è la principale novità del nuovo statuto del Movimento 5 Stelle che verrà messo a votazione il prossimo 10-11 marzo.

Il nuovo statuto contiano, si legge sul Corriere della Sera, rispetto alla versione precedente che è stata "congelata" dal tribunale di Napoli recepisce i rilievi mossi dalla Commissione di garanzia per gli Statuti così da poter accedere al finanziamento del due per mille. "Posto che le indicazioni per ottenere il due per mille richiedono che i requisiti per le candidature siano disciplinate in via diretta dallo statuto, è sintomatico che il testo in votazione non preveda il tetto dei due mandati; limite di mandati che invece è previsto, ad esempio, nello statuto del Pd", spiega l'avvocato Lorenzo Borré. Nello statuto dei dem, infatti, ci sono due passaggi molto dettagliati (articoli 25 e 28) sulle regole per le candidature. Dettagli che mancano nello statuto grillino, sebbene il decreto legislativo 149 del 2013 che disciplina il due per mille prevede all'articolo 3, comma 2, lettera l che vengano indicate "le modalità di selezione delle candidature per le elezioni".

Quello del tetto dei due mandati è un nodo ancora irrisolto da parte del leader Giuseppe Conte tant'è vero che anche nel testo dello statuto approvato lo scorso agosto mancava un'indicazione chiara a tal proposito. All'epoca, però, il Movimento non aveva ancora deciso di aderire ai fondi del due per mille e, pertanto, non era necessario dirimere la questione. Anzi, si era deciso di affidarsi a regolamenti extra statutari, che ora non sono compatibili con la situazione attuale. I Cinquestelle, ora, hanno due strade: emendare il testo al voto oppure modificare nuovamente lo statuto prima delle Politiche del 2023 così da lasciare intatta quella che Beppe Grillo considera una regola aurea del Movimento.

La nuova versione dello statuto all'articolo 7 contempla, invece, le Parlamentarie, ossia una "consultazione in rete" con cui si votano "le proposte di autocandidatura presentate dagli iscritti". Intanto Conte, in vista delle prossime comunali, agita il fontre progressista con dichiarazioni che mettono in allarme i lettiani:"Possiamo anche parlare di politiche astratte, come la questione del campo largo, ma - avverte 'l'avvocato del popolo' - se questo significa solo confrontarsi su politiche annacquate allora noi non ci stiamo". Parole che non sono piaciute in casa Pd, dove è forte anche la preoccupazione per la cena che Conte avrebbe avuto con Marco Travaglio e Alessandro Di Battista. L'ex deputato grillino, però, sembra intenzionato a non rientrare nel M5S finché il Movimento appoggerà il governo Draghi. Ad alimentare un clima teso tra i pentastellati c'è anche la comparsata che Davide Casaleggio avrebbe fatto a Palazzo Madama per incontrare la capogruppo Mariolina Castellone.

Nei 5Stelle vince la linea manettara. Pasquale Napolitano il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Ennesimo schiaffo a Di Maio che aveva aperto a tesi garantiste. Il blocco giustizialista impone il no ai referendum sulla giustizia nel M5s. La linea Travaglio-Conte-Bonafede regge. Anzi, appare invalicabile anche per l'ex leader dei Cinque stelle Luigi Di Maio, che resta isolato dopo le sue (seppur timide) aperture al fronte garantista.

Il diktat arriva netto dalle pagine del Fatto Quotidiano, la voce più ascoltata nel Movimento a trazione Conte-Di Battista: «Volete i ladri liberi e pure in Parlamento?», titolava ieri il quotidiano diretto da Marco Travaglio. Un monito. Non aprire varchi e cedimenti sul fronte garantista. Una linea già preannunciata nelle parole del leader Giuseppe Conte: «Da ampio confronto interno è emersa una valutazione: i quesiti referendari sulla giustizia offrono una visione parziale e sicuramente sono inidonei a migliorare il servizio e a rendere più efficiente e più equo il servizio della giustizia».

L'ala giustizialista è ancora la maggioranza tra i Cinque stelle. Restano da capire le opzioni: no al quesito o astensione, per impedire il raggiungimento dei quorum. Si aspetterà anche l'esito delle valutazioni in casa Pd. Enrico Letta convocherà la direzione per capire quale posizione assumere sui referendum sulla giustizia. Nel Pd il fronte garantista è più solido. La difesa del fortino giustizialista, ragionano gli spin di Conte, servirà a recuperare anche uno spicchio di identità e voto degli ortodossi.

Si consuma così un nuovo schiaffo al ministro degli Esteri. Di Maio, non più tardi di un anno fa, in una lettera al Foglio, aveva aperto la stagione garantista nel Movimento con le letture di scuse all'ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, condannato e poi assolto in appello dall'accusa di turbativa d'asta. L'ex capo politico si era detto pentito per aver «esacerbato il clima» e trova oggi «grottesche e disdicevoli» le modalità scelte allora per combattere la battaglia politica. Ma ora il suo partito imbocca, di nuovo, la strada del giustizialismo urlato. Di Maio sarebbe orientato a votare solo il quesito sulla Severino.

L'ex leader è finito in un cul de sac. Schiacciato dalla fronda giustizialista e anti-Draghi nel Movimento, rischia di finire nella trappola del limite al doppio mandato. Di Maio ha già alle spalle due legislature. E in base alla regola madre del Movimento, blindata in questi giorni da Beppe Grillo, nel 2023 dovrà mollare la poltrona. Si ragiona su un lodo per concedere alcune deroghe. Di Maio, Fico e lo stesso Bonafede. Di Maio ci spera. È a un bivio: lanciare la sfida a Conte per strappargli la leadership o trovare rifugio in un altro partito. I centristi lo corteggiano sfacciatamente. Di Maio per ora non cede. Pasquale Napolitano

DiMartedì, Di Battista fuori controllo: "I politici? Deretani flaccidi che la magistratura ha perseguitato troppo poco". Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Alessandro Di Battista a ruota libera. Ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, l'ex grillino commenta l'attualità e, in particolare, gli scandali legati alla magistratura. Nella puntata di martedì 15 febbraio, Dibba premette di essere dalla parte di Piercamillo Davigo: "In 5 anni da parlamentare non ho mai ascoltato dibattiti interessati a far funzionare la giustizia, erano interessati a salvare i colletti bianchi, che in Italia in carcere non ci vanno. Ha ragione Berlusconi, parte della magistratura è politicizzata: non perché perseguita i politici, ma perché in Italia li ha perseguitati troppo poco". 

E ancora, questa volta in chiaro riferimento ai partiti: "Tutti governano per farsi vedere e mettere deretani, spesso, flaccidi su poltrone governative all'insegna del diamo agli italiani ma gli italiani dicono che i loro conti corrente sono prosciugati rispetto a un anno fa". Tornando all'attualità nel salotto di La7 si discute della lettera sequestrata nell'ottobre 2019 dalla Guardia di Finanza in un pc di Tiziano Renzi e finita agli atti del processo per bancarotta in corso a Firenze che vede tra gli imputati i genitori dell'ex premier. 

Qui Renzi senior scriveva al figlio Matteo, in una sorta di sfogo personale finito alla gogna. Nonostante molti, da parti diverse, prendano le difese del leader di Italia Viva, Di Battista si dice con i magistrati. Questi, a suo dire, "non depositano quella lettera per farci sapere i rapporti con il figlio, ma per dimostrare una sua condotta illegale".

Un pm al “Fatto”: «Al nostro posto vogliono metterci gli avvocati, ci sarà una sostituzione etnica». Bum!. Incredibile dichiarazione (anonima) riportata sul quotidiano di Marco Travaglio: un «alto magistrato» commenta le nuove norme sulle porte girevoli come il segno di un piano per inserire la professione forense nei gangli della macchina pubblica oggi presidiati quasi esclusivamente dalle toghe. Ma sembra solo la rabbia preventiva per un paradiso che, forse, sarà perduto. Errico Novi su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

Si stenta a crederci. Eppure è una frase testuale, riportata da un giornale certamente molto letto come il Fatto quotidiano, in un  articolo a firma di una giornalista sempre molto informata: a proposito dello stop alle porte girevoli previsto nella riforma dell Csm, un «alto magistrato» spiega, «dietro promessa di anonimato», che le norme sui capi di gabinetto nascondono una «volontà chiara», quella di «penalizzare le toghe al rientro da questi incarichi. E poi dove dovrebbero finire queste persone e a far cosa per tre anni? Rischiamo», sostiene l’anonimo pm, o giudice, interpellato dal Fatto, «nel migliore dei casi di creare una riserva indiana. Ma la verità è che si punta a una sostituzione etnica: fuori i magistrati dentro gli avvocati».

Sostituzione etnica. Addirittura. Ma innanzitutto: come si può usare un termine del genere? Come si fa a evocare uno scenario da genocidio? Siamo improvvisamente precipitati da un mondo che alcuni descrivono come una «repubblica delle Procure» a una specie di ex Jugoslavia, con gli avvocati a fare la faccia feroce tipo tigre Arkan?

Certo, c’è da ironizzare. Ma un po’ anche da riflettere. Secondo la certamente autorevole fonte interpellata dal Fatto, le misure sulle porte girevoli tenderebbero a dissuadere giudici, pm, toghe amministrative e via così dal distaccarsi presso i ministeri come capi di gabinetto o direttori di dipartimento. Si tratterebbe di questo. Al loro posto, schiere di avvocati. Un’iperbole. Incredibile. Persino offensiva, se si pensa all’attuale realtà dei fatti. Vogliamo fare un esempio? Andiamo sul classico, ministero della Giustizia: i magistrati addetti all’ufficio Legislativo sono abbastanza da poter organizzare tornei di calcetto interni. Senza considerare che il capo dell’ufficio è una magistrata. Il fatto che Marta Cartabia abbia voluto nominare, come vice di quest’ultima, un professore di Diritto penale che è anche un avvocato penalista, Filippo Danovi, è stato salutato l’anno scorso come un evento clamoroso.

Ora, da una scena simile, dal quadro attuale, le fonti del Fatto temono si arrivi alla sostituzione etnica o, per dirla con termini meno pulp, al ribaltone. A noi sembra il moto di rabbia che proviene dal profondo di una categoria, la magistratura, improvvisamente preoccupata di non poter più avere il monopolio della macchina pubblica. Di non essere più in maggioranza bulgara nel cuore dello Stato, dove spesso la politica è costretta all’opposizione, giacché il potere vero lo detengono loro, i giudici. I giudici che fanno da capo di gabinetto e i tanti che, soprattutto alla Giustizia, presidiano ogni più piccolo ganglo dell’amministrazione.

È la nostalgia preventiva per il paradiso perduto. Forse basterebbe scendere solo un attimo coi piedi sulla terra.

«L’ha detto Travaglio!». Se per i grillini la linea la detta sempre il “Fatto”. Non solo Di Battista, anche Raggi cita il direttore per dar forza alle proprie posizioni. Fausto Mosca su Il Dubbio il 16 febbraio 2022.

«L’ha detto Marco Travaglio». Il direttore del Fatto quotidiano è sempre stato un punto di riferimento per il mondo pentastellato. Ma da quando Gianroberto Casaleggio non c’è più e Beppe Grillo ha optato per il passo di lato, il giornalista è diventato l’unico punto fermo per i grillini più battaglieri. La linea del Movimento 5 Stelle passa per le colonne del Fatto. Che sia per bombardare il «governo dei migliori», per impallinare Luigi Di Maio il «traditore» di Giuseppe Conte o per mettere in discussione il Green Pass non importa, se lo dice Travaglio significa che è giusto. L’apostolo più fedele del direttore è ovviamente Alessandro Di Battista, più grillino di Grillo ed ex (ma non troppo) pentastellato. Un giorno sì e l’altro pure, il leader scapigliato sponsorizza sui suoi canali social gli editoriali del direttore, perché «io non avrei saputo dirlo meglio», ripete spesso.

Ma finché è Dibba, a lungo collaboratore del Fatto, a diffondere il verbo nulla di strano. Solo che negli ultimi tempi l’ala “travagliana” del Movimento sembra espandersi. Così, ecco Virginia Raggi, da tempo incastrata su posizioni similnovax, trincerarsi dietro all’editoriale del direttore per rafforzare il proprio punto di vista. «È una questione di buonsenso e Marco Travaglio l’ha esposta in un suo editoriale che condivido: oggi scatta l’obbligo del Green Pass sui luoghi di lavoro per gli over 50, una misura decisa il 7 gennaio (circa 40 giorni fa) prima del crollo, ad oggi evidente, dei contagi», premette l’ex sindaca di Roma su Facebook. «Altri paesi, Spagna e Portogallo ad esempio, stanno riaprendo senza aver mai adottato l’utilizzo delle carte verdi dimostrando dati alla mano che l’utilizzo di questa misura è pressoché inutile», aggiunge Raggi, che neanche in campagna elettorale ha voluto chiarire agli elettori la sua posizione in merito ai vaccini, attirando le critiche di detrattori e avversari politici. Perché esprimere dubbi, anche sul vaccino, non è lesa maestà, l’importante è esporli alla luce del sole per chi si propone al governo della cosa pubblica. E Raggi ha sempre preferito sorvolare, ma ieri ha approfittato dell’articolo di Travaglio sul Green Pass per esprimere qualche opinione. «Saranno almeno 1,5 milioni i lavoratori che potrebbero rimanere a casa senza reddito in un paese che non riesce a ripartire perché zavorrato da un provvedimento che sta alimentando divisioni sociali, vax contro no vax», argomenta l’ex sindaca. «Un provvedimento che, tra le altre cose, sta disincentivando il turismo. È il momento di guardare in faccia la realtà. Poniamoci una domanda: è necessario il Green Pass rafforzato obbligatorio per gli over 50? La risposta è no». Finalmente una risposta chiara. Tanto, l’ha detto Travaglio.

Superbonus e stop trivelle. I grillini scaricati da tutti. Lodovica Bulian il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa. Il governo cerca di rispondere pensando ad uno stock di energia a prezzo calmierato ma anche all'aumento della produzione nazionale di gas. Venerdì il ministero della transizione tecnologica ha pubblicato il Pitesai, il piano che individua le aree idonee alla prospezione all'estrazione di idrocarburi su terra e offshore, dopo la moratoria imposta nel 2019. Il piano nato sotto il governo Conte I, ma con l'intento di mettere vincoli alla ricerca di idrocarburi. Ora invece potrebbe essere accompagnato da un pacchetto di norme per sbloccare le trivelle tanto contestate dal M5s. È un documento di oltre 200 pagine che individua le aree in cui sarà possibile riavviare le ricerche e che arriva nel momento più drammatico per gli equilibri di approvvigionamento del gas. E ora volano le accuse incrociate contro i pentastellati: «La furia ideologica di M5S e Lega lo bloccò nel 2019: tre anni cruciali persi. A proposito di costi della politica: ci è costato più questo o i 345 parlamentari tagliati con la riforma gialloverde?», attacca Italia Viva con Marco Di Maio.

Nel mirino le politiche del No del Movimento, diventate negli anni battaglie contro il Tap, ma anche la Tav e grandi opere. Il M5s definiva il gasdotto pugliese «opera da criminali». E non basta oggi agli avversari l'inversione del sottosegretario agli Esteri dei cinque stelle Manlio Di Stefano: «È una questione di contesto storico differente. Quando abbiamo iniziato a parlare di Tap non si parlava ancora di transizione ecologica. Oggi abbiamo un contesto che mi fa dire: fortunatamente c'è il Tap». Gli risponde il viceministro alle Infrastrutture Teresa Bellanova: «Spiace dover contraddire Di Stefano ma la giravolta del M5S sul gasdotto Tap non è una questione di contesto storico differente. Ho purtroppo vissuto sulla mia pelle ciò che di violento, poco corretto, intimidatorio e umanamente miserabile il Movimento ha saputo scagliare contro chi invitava chiunque a ragionare sul tema gasdotto. Noi siamo ancora qua in attesa di quell'unico atto che sarebbe doveroso da parte vostra: chiedere scusa». E del resto anche sulle trivelle Luigi Di Maio parlava così: «Lo stop alle trivelle è una battaglia per la sovranità nazionale. Io alla mia terra ci tengo, io al mio mare ci tengo e non ho intenzione di svendere nulla ai petrolieri del resto del mondo. Sviluppiamo questo Paese in maniera sostenibile e proiettati al futuro».

M5s che ora finisce nel mirino anche per le frodi sul Superbonus, ma contrattacca la Lega sulle parole del ministro Giancarlo Giorgetti che ha criticato la misura: «Apprendiamo che il ministro è contrario al Superbonus 110%, misura che ha prodotto un terzo dell'aumento del Pil nel 2021. È dunque lecito chiedersi se anche Matteo Salvini e la Lega abbiano cambiato idea rispetto alla nostra misura. Salvini si rimangia i voti a favore del Superbonus espressi dal suo partito in Parlamento?», dicono i deputati Patrizia Terzoni, Luca Sut e Riccardo Fraccaro. «Mi pare che la strategia sia ormai chiara, tutti contro il Movimento. Se è già iniziata la campagna elettorale basta che ce lo dicano», lamenta il capo delegazione M5s al governo, il ministro Stefano Patuanelli. Lodovica Bulian

Reddito di cittadinanza e bonus, quanto ci sono costati i Cinque stelle al governo. Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 13 febbraio 2022

Quando Daniele Franco gli ha sbattuto in faccia che è grazie a loro, che hanno scritto male la misura, se il Superbonus fa acqua da tutte le parti e le frodi sono arrivate alla mostruosa cifra di 4,4 miliardi («livelli mai visti», ha detto), i grillini sono andati su tutte le furie. Ma è un fatto che la cessione del credito senza controlli per tutti i bonus edilizi è stata voluta dal Conte II nell'estate del 2020, così come è un fatto che uno dei principali ostacoli all'aumento della produzione di gas in Italia, vitale oggi con le bollette alle stelle, è la moratoria sulle trivelle (in queste ore sbloccata dal governo) voluta dal Conte I nel febbraio del 2019. La realtà, piaccia o no al Movimento e al popolo dei vaffa, è che da quando hanno messo piede a Palazzo Chigi i Cinquestelle non ne hanno fatta una giusta. La famosa scatoletta di tonno è stata aperta, bisogna dirlo, ma quello che ne è uscito più che l'onestà e il cambiamento promessi sono stati provvedimenti rabberciati, leggi malfatte, passi falsi e miliardi di soldi dei contribuenti gettati al vento.

Tutto comincia a pochi mesi dall'insediamento nel governo in coabitazione con la Lega. È il luglio del 2018 e Luigi Di Maio annuncia con orgoglio l'approvazione del decreto dignità. Una misura che avrebbe dovuto abolire il precariato mettendo all'angolo sfruttatori e avidi imprenditori. Com' è finita lo sappiamo. Per tenere insieme i cocci del mondo del lavoro mandato in frantumi dalla pandemia è stato lo stesso premier Giuseppe Conte, tanti i problemi provocati dalla stretta grillina sui contratti a termine, a dover sospendere l'applicazione del decreto.

CAPOLAVORO - Il capolavoro a Cinquestelle è, però, quello che arriva qualche mese dopo. È il settembre del 2018 quando sempre Di Maio, ancora più orgoglioso, esce dal balcone di Palazzo Chigi e grida alla folla festante di aver abolito la povertà. Inizia la grande epopea del reddito di cittadinanza. La legge istitutiva è del gennaio 2019, ma la paghetta grillina parte ad aprile. Da allora ci è costata la bellezza di 20 miliardi finiti anche, grazie ad un sistema di controlli basato sulle autocertificazioni, in tasca ad assassini, mafiosi, terroristi, detenuti, parassiti, truffatori, spacciatori, ladri ed evasori fiscali. Nello stesso periodo Alfonso Bonafede, allora ministro della Giustizia, dava vita all'altro grande orgoglio del popolo grillino: la legge spazzacorrotti, con annessa abolizione della prescrizione. Una roba in totale contrasto con l'unica richiesta che da sempre tutti gli organismi internazionali ci fanno: velocizzare i processi. Anche in questo caso la toppa hanno dovuto metterla da soli, approvando lo scorso autunno la riforma Cartabia sulla improcedibilità, che ha di fatto mandato in soffitta le trovate di Bonafede.

Passano pochi giorni, è il febbraio del 2019, e i grillini ne combinano un'altra. Spinto dal generale della Forestale, Sergio Costa, fino allo scorso febbraio ministro dell'Ambiente, Conte blocca tutte le trivelle del Paese. La scusa è una moratoria in attesa di capire dove è meglio traforare a caccia di idrocarburi. Il risultato è che rispetto ai 20 miliardi di metri cubi di gas che venivano estratti in Italia nel primo decennio del 2000 lo scorso anno, proprio quello in cui il costo del metano importato dall'estero ha iniziato a far impennare le bollette, siamo scesi a 3,3 miliardi, con una flessione del 18% rispetto al 2020. Grazie anche a questa bravata il governo ha già dovuto tirare fuori, considerando l'intervento previsto per la settimana entrante, circa 16 miliardi di aiuti pubblici.

AMBIENTE - E arriviamo così al Superbonus del maggio 2020, i cui pasticci originari stanno venendo a galla ora, con l'esplosione delle truffe e una serie di modifiche in corsa che stanno rischiando di far saltare tutto. È di un paio di mesi dopo, invece, il colpo da maestro di Conte. A metà luglio, dopo avere, lui e i grillini, per due anni invocato la revoca forzata delle concessioni per il disastro del Ponte Morandi, decide di siglare un accordo con i Benetton per acquistargli le Autostrade a prezzo di mercato. Costo dell'operazione: 8 miliardi di euro, di cui circa 4 pagati dalla Cdp. Lo scorso dicembre pure la Corte dei Conti si è chiesta a chi sia convenuto l'affare, non propendendo per lo Stato. L'ultima genialata è di qualche giorno fa. Con il contributo, va detto, della maggioranza del Parlamento, i grillini sono riusciti a far inserire nella Costituzione la tutela dell'ambiente. Come non ci fossero già abbastanza giurisdizioni a cui appellarsi quando c'è da bloccare qualche opera strategica per lo sviluppo e il benessere del Paese.

"I politici rubano i cappotti". Storia surreale del grillismo. Laura Cesaretti il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La tragica storia del cappotto di «apprezzato brand» è però finita ieri in farsa

«INDIGNATA», tutto maiuscolo: la senatrice Cinzia Leone (Cinque Stelle, e come ti sbagli) era veramente indignata. Le avevano rubato il cappotto «al transatlantico di Montecitorio», denunciava in un esilarante post su Facebook indirizzato a «care e cari», non meglio specificati, e pieno zeppo di strafalcioni.

Un cappotto, specificava, «di buona manifattura e un apprezzato brand LSpagnoli (sic)», che lei aveva appoggiato su un divano «giusto il tempo della votazione» per il presidente della Repubblica e che poi «non l'ho trovato laddove lo lasciai, al che iniziai a controllare nei (sic) vari divani ma niente». La affranta senatrice palermitana - nessuna occupazione conosciuta prima dell'elezione, con un reddito imponibile schizzato da 360 euro annui nel 2018 ai 100mila di ora, il che spiega il cappotto «da 600 euro» - annunciava con «profonda tristezza», e senza punteggiatura, che «qualcuno lo ha RUBATO impensabile in un ambiente frequentato da parlamentari, commessi, giornalisti». Seguita a ruota da colleghi come la deputata Angela Raffa: «È una vergogna che in questo paese si ruba (sic) e si corrompa, e che a farlo sono proprio i più insospettabili, coloro chiamati ad incarichi pubblici». Logica la conclusione: «Per questo c'è ancora bisogno di M5s».

La tragica storia del cappotto di «apprezzato brand» («E cosa ne sa la gente del valore che tu metti dentro un cappotto, le emozioni che ricopre?», si chiedeva la senatrice) è però finita ieri in farsa: il pregevole indumento non era stato preso da nessuno, ed è stato ritrovato esattamente dietro il divano su cui era stato (malamente, si immagina) appoggiato. «Ora Leone chieda scusa alla Camera, e in futuro usi gli spazi appositi per lasciare il cappotto», avverte il deputato questore di Montecitorio Edmondo Cirielli (FdI), e che non sono certo i divani del Transatlantico. Ma lei, implacabile, non demorde: dichiara «offensive» le parole di Cirielli, e capisce al volo che si tratta di un Grande Complotto Kasta versus kappotto: «Vogliono far credere che è (sic) stato trovato dietro il divano. Ma come ci è andato a finire, lì? Tutto questo è offensivo per la mia persona e per il lavoro che porto avanti». Quello di disseminare capispalla dietro i divani. Laura Cesaretti

Cinzia Leone, senatrice M5s: "Mi hanno rubato il cappotto alla Camera, sono indignata". Dopo pochi minuti... Figuraccia epica. Libero Quotidiano il 04 febbraio 2022.

Dalla indignazione alla figuraccia, il passo è molto breve. Giovedì Cinzia Leone, senatrice del Movimento 5 Stelle, denuncia su Facebook il furto del suo cappotto a Montecitorio, venerdì scorso, durante le operazioni di voto per il Quirinale. "Buongiorno care e cari, scusate lo sfogo ma sono profondamente INDIGNATA su quanto mi è accaduto, al transatlantico di Montecitorio, venerdì scorso al termine della votazione del PdR", scrive sui social la vicepresidente della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio. Un fatto "impensabile" perché avvenuto "in un ambiente frequentato da Senatori, Deputati, Commessi, giornalisti".

Nella foga, l'italiano lascia un po' a desiderare: "Premesso che in aula non è consentito entrare con il cappotto lo lasciai, giusto il tempo della votazione, su di uno dei divani nel transatlantico ebbene il cappotto non l'ho trovato laddove lo lasciai, dopo il voto, al che iniziai a controllare nei vari divani ma niente". "Provo profonda tristezza poiché pur comprendendo che era un cappotto di buona manifattura e un apprezzato brand LSpagnoli, quel qualcuno lo ha RUBATO impensabile in un ambiente frequentato da Senatori, Deputati, Commessi, giornalisti".  

Poco dopo, ecco la svolta: il cappotto della Leone è stato ritrovato. Nessun furto, il soprabito era semplicemente scivolato dietro uno dei divanetti del Transatlantico, dove era stato lasciato prima di entrare in Aula a votare. Lo conferma all'agenzia Adnkronos il questore-deputato di Fdi, Edmondo Cirielli, che invita la parlamentare grillina a scusarsi con l'amministrazione della Camera: "Ci aspettiamo che la senatrice chieda scusa alla Camera e che in futuro usi gli spazi appositi per lasciare il cappotto e non sui divani che sono fatti per altro...". 

Così l’Elevato Grillo ha dissolto il brivido mistico dei Cinque stelle. 12/10/2019 Napoli. Gli interventi alla festa Italia a 5 Stelle, organizzata per i 10 anni di vita del Movimento 5 Stelle. BRUNO GIURATO su Il Domani il 04 febbraio 2022.

L’ultimo post firmato da Beppe Grillo sul blog è un invito a «rinunciare a sé per il bene di tutti», ad accettare «ruoli e regole», ma appoggiato su una massima sapienziale del Mahatma Ghandi. Nel messaggio torna anche a definirsi ironicamente l’Elevato.

Una delle componenti dei Cinque stelle è quella mistica, sapienziale, iniziatica, di “nuovo movimento magico”, tratto che però si è perso lungo la via. E con quello si è perso anche il fondamento politico.

«Oggi Grillo riprende i riferimenti para-religiosi che erano stati di Gianroberto Casaleggio e che successivamente il figlio Davide aveva abbandonato. Ma lo fa, ormai, in modo caricaturale», dice Massimo Introvigne, fondatore del Cesnur, l’istituto per lo studio delle nuove religioni.

BRUNO GIURATO. Laurea in estetica. Ha scritto per Il Foglio, Il Giornale, Vanity Fair e altri. Ha lavorato a Linkiesta.it e al giornaleoff.it. Ha realizzato trasmissioni di cultura e geopolitica per La7 e Raidue. È anche musicista (chitarrista) e produttore di alcuni dischi di world music.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 4 febbraio 2022.  

Quando gli uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di finanza di Milano hanno bussato alla porta della filiale di una delle più importanti banche italiane era novembre. Le Fiamme gialle avevano con sé un ordine di esibizione di atti e documenti firmato dalla pm Cristiana Roveda.

I risk manager dell'istituto hanno capito che esisteva un procedimento penale e, mentre gestivano la richiesta degli inquirenti, hanno individuato «un'operatività potenzialmente sospetta» che hanno deciso di segnalare all'Antiriciclaggio della Banca d'Italia. 

Questo accadeva il 21 gennaio, tre giorni dopo le perquisizioni effettuate nelle sedi della Casaleggio associati e della Grillo srl. Il rapporto dei funzionari ricostruisce per la prima volta in modo esaustivo gli affari della Casaleggio («società operante nel settore della consulenza aziendale ricollegabile a movimento politico»), indicando tutti principali clienti dell'azienda e i suoi consulenti.

Gli analisti ricordano che Davide Casaleggio è presidente, legale rappresentante e socio di maggioranza (65 per cento) dell'azienda che «dal 2015 al 2021 si è occupata del blog di Beppe Grillo, partecipando alle dinamiche di aggregazione e sviluppo favorite dall'online, che hanno portato alla fondazione e successivo percorso politico del Movimento 5 stelle».

Il conto è stato acceso nel 2005 e i funzionari hanno verificato che «viene alimentato con bonifici provenienti da società terze a titolo di pagamento fatture e prestazioni professionali». Ed ecco la prima stoccata: «Tra queste emergono operazioni che, per importo e controparti, appaiono poco coerenti con l'attività svolta dalla società cliente soprattutto in relazione ai rapporti con il Movimento politico M5s». In questi anni diversi giornalisti hanno provato a ricostruire i business della ditta, prendendo un'informazione di qua e una di là.

Ma per la prima volta, grazie a questa segnalazione di operazione sospetta, è possibile avere un quadro ben delineato della situazione. Infatti i bancari hanno controllato i conti dal gennaio 2019, cioè dall'epoca del primo governo Conte, quello gialloblù, e sono arrivati ai giorni nostri, anche se i movimenti più interessanti sono quelli che si fermano all'aprile del 2021 quando il sodalizio tra il Movimento e la Casaleggio con la sua piattaforma Rousseau si è interrotto definitivamente. 

Nel decreto di perquisizione era citato il contratto tra l'azienda milanese e la Moby dell'armatore Vincenzo Onorato. Un accordo sottoscritto il 7 giugno 2018 (primo governo Conte) e durato sino 7 giugno 2021 (quando si era appena consumata la rottura con il Movimento) che ha portato la Casaleggio a incassare 600.000 euro annui più Iva e premi vari. 

Il procedimento milanese nasce da una costola di quello sul fallimento della Moby dove erano confluite le chat di Onorato con politici di schieramenti diversi sequestrate nell'inchiesta fiorentina sulla fondazione Open riconducibile a Matteo Renzi. 

I pm hanno iscritto Grillo e non Casaleggio perché il primo si sarebbe attivato per far ottenere provvedimenti governativi favorevoli all'amico Onorato, mentre il secondo non si sarebbe mosso. «Io non firmo decreti, né voto leggi e non ho mai fatto ingerenze» ha ribadito il figlio di Gianroberto, negando ogni possibile conflitto di interessi. In ogni caso il testo di una vecchia Sos ipotizzava che il pagamento dei 600.000 euro fosse «il tentativo di sensibilizzare una forza politica di governo a sostenere la campagna per modificare le norme sull'imbarco dei marittimi sulle navi italiane».

I migliori clienti della Casaleggio, nell'ultima segnalazione, risultano i produttori di sigarette della Philip Morris. Mentre la British american tobacco cercava, a colpi di donazioni, di portare dalla propria parte il mondo renziano, la Philip Morris si rivolgeva alla società più vicina ai grillini, inviando, a partire dal gennaio del 2019, bonifici per 1.473.906 euro. Su questi rapporti la Procura di Milano ha aperto un fascicolo ancora in fase di indagine. 

Nell'estratto conto della Casaleggio vengono evidenziati anche i già citati pagamenti della Moby per 642.640 euro, ma soprattutto i 389.790 provenienti dalla Merita srl.

Su quest' ultima azienda su Internet si trova poco o nulla. Con questo nome sulla banca dati delle Camere di commercio c'è una sola società attiva, si occupa di assistenza alle imprese ed è di proprietà di due commercialisti. 

Nel 2019 il fatturato è stato di 318.000 euro e nel 2020 è salito a 424.000; gli utili, invece, sono scesi da 23.000 a 2.000 euro. Tra i costi di produzione la voce più consistente è quella per i servizi, che nel 2019 e nel 2020 hanno pesato per 428.000 euro, una somma quasi sovrapponibile a quella che la ditta avrebbe corrisposto alla Casaleggio.

Nella lista, che comprende chi ha inviato «bonifici di ingente importo e spesso caratterizzati da importo tondo» anche due aziende genovesi: la Asg superconductors spa (172.665 euro), leader mondiale nella produzione di magneti, e la Spinelli srl, con ogni probabilità azienda del gruppo dell'omonimo imprenditore del settore dei trasporti e dei terminal portuali (261.577 euro). 

Aldo Spinelli nella sua carriera ha fatto anche politica in prima persona con il centrosinistra in quota socialista. È stato un fan di Bettino Craxi, ma ha avuto anche grande feeling con l'ex potente ministro Dc Giovanni Prandini. Ma, da buon imprenditore, si dice «amico di tutti» e per questo è passato dal frequentare l'associazione del piddino Claudio Burlando, Maestrale, a quella di Giovanni Toti, Change.

L'elenco prosegue con la Pfe spa (141.520 euro), azienda romana che si occupa di pulizie e sanificazione, con la Lottomatica (119.341), che opera nel settore del gioco legale su concessione dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, con l'impresa di costruzioni Impreme spa (72.200) e con il gruppo Edico, cooperativa napoletana fornitrice di materiali da costruzione (69.052). Pagamenti, ma di «importi meno evidenti», sono arrivati anche da Deliveroo, Dedalus, Flixbus, Moleskine, Nexi, Poste italiane, Minerva picture.

«Si tratta di realtà operanti in settori merceologici diversi e in alcuni casi titolari di licenze statali, che potrebbero essere interessate da provvedimenti del governo, formato anche da esponenti del M5s» ribadiscono gli analisti. Che in un altro passaggio sottolineano il concetto dell'interessamento a «potenziali interventi governativi». Ma le sorprese non sono finite. Si legge nella segnalazione: «Tra gli accrediti emergono anche dei bonifici esteri tra cui emerge la controparte Studio Rebus Shpk (totale 161.780), società di architettura e design albanese che ha gestito progetti anche in Italia».

Su sito si trovano, per esempio, i progetti per un centro commerciale e una sede della Ascom. La segnalazione registra anche le uscite per spese come utenze, stipendi, canoni di locazione, carte ricaricabili. Ma non solo. La nota evidenzia i bonifici a società o persone fisiche «operanti nel medesimo settore» della Casaleggio. L'elenco è piuttosto lungo: Fattoretto agency, Binoocle institute, Linkdesign, Petercom srl, Visverbi, Giustino Mucci, Nicola Attico, Stefania Francesco e altri.

«Degne di nota sono le operazioni in favore della Noesi srl, società di consulenza specializzata in attività di pubblic affair, lobbying e communication (225.041 euro), iscritta presso il registro dei rappresentanti di interessi della Camera dei deputati». La Noesi, nata nel 2015, appartiene a Ignazio Maria Sestili e al figlio Claudio. Il genitore è stato direttore generale della Agecontrol, agenzia pubblica per i controlli e le azioni comunitarie. Sul conto della Casaleggio vengono evidenziate le entrate provenienti dalla piattaforma Stripe (340.500 euro) con accrediti di importo oscillante da un minimo di 8,62 euro a un massimo di 5.869,39 euro.

Si tratta di soldi raccolti in rete, non sappiamo se come fundraising o ad altro titolo. In uno dei report annuali della Casaleggio associati, uno degli esperti chiamati a parlare era proprio il country manager della Stripe. Argomento: i pagamenti digitali.

Nel frattempo i conti della società sono in sofferenza, soprattutto dopo la chiusura traumatica del rapporto con i grillini. Già nel 2020 il fatturato era passato da 2,2 milioni a 1,8. E, in un anno, i 100.000 euro di utili sono diventati 320.000 euro di passivo. Un quadro a cui si è aggiunto il problema del Covid, che, si legge nel bilancio «ha avuto un impatto sull'organizzazione del lavoro e sugli effetti economici futuri non ancora prevedibili allo stato attuale».  

Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” il 4 febbraio 2022.

L’altro giorno ho rivisto Davide Casaleggio in un tigi. Il taglio del servizio era di stampo giudiziario: caso Moby-Onorato, favoritismi, giro di soldi, Beppe Grillo indagato dalla Procura di Milano, la Guardia di Finanza aveva appena perquisito gli uffici della Casaleggio Associati. Brutta storia, poi capiremo. 

Pero, in quelle immagini, lo sguardo di Davide Casaleggio valeva piu di mille editoriali. E spiegava – alla perfezione – il fallimento della gigantesca e tragica bugia dell’«Uno vale uno» inventata dal padre Gianroberto, il lievito madre del clamoroso inganno grazie al quale Grillo riusci a costruire il Movimento 5 Stelle e a far sbarcare in Parlamento centinaia di deputati e senatori, attualmente tutti perfettamente aggrappati alla poltrona, a caccia di poltrone, pronti a litigare e a epurarsi sempre e solo per le loro adorate poltrone.

Che sguardo aveva Davide alla tv? Lo stesso che gli vidi un giorno al Circo Massimo di Roma, alcuni anni fa, mentre era circondato da migliaia di militanti grillini che – eccitati, minacciosi – urlavano addosso a noi cronisti «Onesta! Onesta! Onesta» (il coro era guidato da Alessandro Di Battista). Davide osservava gelido. Immobile. Di cera. 

Francamente spaventoso. Poi, di colpo, fece un cenno: e tutti si azzittirono. Cosi comincio a parlare rivelandosi tutt’altro che magnetico, anzi aveva un tono pedante. Eppure veniva interrotto da applausi di puro entusiasmo. Se li prendeva con occhiate di vetro: pensai a un giocatore di poker che non deve far scoprire le carte che ha in mano.

Perche non ne ha. Sta solo bluffando. Da quel pomeriggio, poco alla volta, i grillini hanno cambiato idea su tutto: sulla democrazia diretta e sullo streaming (ricordate la pagliacciata di cui fu vittima Bersani nel 2013?), sulle banche e sull’Europa, su Tap e Tav, e naturalmente sulle auto blu. Che adorano. Perche si sono trovati comodi proprio dentro quel potere che promettevano di combattere guidati da un comico feroce e da un giovane uomo d’affari che aveva ereditato dal padre una strana azienda legata a uno strano partito. Come sapete le strade di Davide Casaleggio e del M5S si sono separate. Davide e Beppe si detestano. Beppe non ride piu. E Davide ha sempre quella faccia li. Che infatti viene da chiedersi: ma come hanno fatto a credergli?

Il Movimento è il plastico di un grande battaglia perduta. Cosa resta del disastro Movimento 5 Stelle tra sparate, idiozie e chiacchiere da bar. Fulvio Abbate su Il Riformista il 3 Febbraio 2022 

C’erano una volta i “grillini”? La domanda periodicamente è d’obbligo. Esiste addirittura un verso di Bertolt Brecht idoneo a descrivere il destino procelloso del Movimento 5 stelle: «Di queste città, resterà il vento che le attraversa». Se non proprio a una città, il M5s assomigliava, sia nei giorni del suo esordio sia in assoluto, a un plastico: ferroviario o piuttosto destinato a ricostruire una grande battaglia, di quelle che si concludono magari con cocente sconfitta. Un plastico in scala N, la più piccola, davvero troppo infatti pretendere la scala H0 per un’operazione espressamente artigianale. E questa, volendo, può essere perfino letta come una metafora della debolezza nelle lunghe distanze della politica improvvisata.

Suo capo-modellista, o magari capovaro, sempre agli esordi, era Beppe Grillo, attore, agitatore mediatico planato infine sul web dopo un’iniziale riluttanza verso gli stessi aggeggi informatici. Lui al centro del plastico: su un canotto da diportista domenicale, trascinato come sovrano sugli scudi da una marea umana festante, lì a colmare idealmente l’intera piazza d’Italia, a suggello del consenso montante, in attesa di mostrarsi vittoriosi nelle urne elettorali. E tutto ciò proprio grazie a un notevole uso del baracchino della rete. Tra appelli alla democrazia diretta, sorta di remake del “riprendiamoci la città”, slogan appartenuto ad altri e adesso perfetto per indicare un nuovo corso politico rigenerante, forse anche casual, post-ideologico, inclusivo d’ogni opzione subculturale.

Accanto a Grillo, nel medesimo plastico, altrettanto in scala N, nel tempo dell’inizio, un signore con aria da scienziato, Gian Roberto Casaleggio, e qui, come nei cieli di stagnola stellata pronto dei presepi casalinghi, c’era subito modo di cogliere suggestioni fantascientifiche da albo “Urania”. Tuttavia, a dispetto di ogni possibile sarcasmo, quel movimento techno-artigianale, a dispetto delle scie chimiche ventilate da alcuni, quel plastico risultò convincente a un ampio elettorato che guardava ormai la politica dall’alto del disincanto, gli sembrò appunto che potesse riassumere molte sue pulsioni, gli calzava bene, come una comoda salopette, come già Grillo al tempo degli esordi in Rai. Accade perfino che un signore convinto che la politica la sapesse fare soltanto lui, già dirigente di un partito di massa, sfidò il geometra capo del plastico, invitandolo a presentare proprie liste.

Mal gliene incolse, poiché, terminato lo spoglio elettorale, il plastico prese a popolarsi sempre nuovi “cittadini” convinti che, appunto, quel diorama innalzato da un comico rappresentasse una dono nello scenario complessivo della politica, ed effettivamente i Convinti non avevano torto, al netto del magma antropologico che c’era modo di reperire dentro il plastico: fascisti dal sempre caro “Boia chi molla!“ e “Duce tu sei la luce”, come sulle piastrelle acquistate a San Marino, e perfino altri con ancora addosso l’eskimo da “compagni”. Per un po’ di anni insomma il plastico apparve a molti convincente, addirittura catartico, e va detto a onor del vero che al Movimento 5 Stelle va riconosciuto d’avere dato ad alcuni individui destinati altrimenti all’anonimato rionale, simposio da Punto Snai, la possibilità di conoscere il “Palazzo” da vicino. Adesso qualcuno potrà obiettare che, così facendo, addio competenze, ma si tratta comunque di un’obiezione secondaria, visto il modo in cui viene cooptato ovunque il personale politico.

Arriverà persino l’occasione del governo, e come già altri da Palazzo Venezia, perfino nel nostro plastico figurerà un “balconcino”, pertinenza di Palazzo Chigi, da lassù addirittura uno dei suoi principali modellisti, Luigi Di Maio, vorrà affacciarsi per dichiarare “abolita la povertà”. Chissà come, sempre in occasione dell’allestimento del plastico governativo, i grillini dovettero cercare un signore in blazer, un nuovo omino, sempre in scala N, da piazzare con altrettanta convinzione nel proprio diorama, lo trovarono in un garbato professionista del Foro, Giuseppe Conte, succedaneo dell’avvocato Antonio Pandiscia, già compianto biografo di Padre Pio, così il plastico prese a mostrarsi con nuovi personaggi in cerca di ulteriore definizione.

Ogni tanto nel medesimo luogo, come l’angelo di plastica legato al soffitto con filo di nylon per penzolare dall’alto nei presepi, ricompariva Beppe Grillo, per poi sparire d’improvviso, oberato da questioni esterne all’attività politica, difficoltà giudiziarie riguardanti la prole o chissà cos’altro. Nel tempo, il dubbio che si trattasse di una comitiva di “scappati di casa” (cit.) si affacciava nella mente dei più critici, così rispetto all’improvvisazione creativa, eppure non si può dire che gli altri plastici contigui potessero definirsi migliori e dunque più attendibili. Alla fine, l’immagine del plastico, del presepe occasionale sembrò essere la più convincente per riassumere la parabola di un flusso politico-emozionale che, salvo imprevisti, sembra destinato a trovare un destino simile a ciò che accadde al Fronte che mostrava un omino sotto un torchietto, così un tempo.

Che ne sarà di Di Maio, che pure ha studiato ed è cresciuto, cui Mimmo De Masi, consulente del Movimento, suggerì, inascoltato, d’andare a Cambridge a studiare per poi ricomparire per la prossima tornata? E Roberto Fico, anche lui avrà un futuro? In quali nuovi plastici di ulteriori battaglie o presepe del tempo ulteriore li ritroveremo? E Di Battista, e la Raggi, sarà vero che sono in procinto di farsi un plastico tutto per loro?

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Marco Imarisio per il "Corriere della Sera" il 3 febbraio 2022.

Più che il testo, vale il titolo. Quel Cupio dissolvi riguarda sé stesso e la propria volontà di scomparire, non rompetemi le scatole, vedetevela tra voi, che poi è il fermo immagine del suo attuale stato d'animo. 

Ma siccome la situazione all'interno del M5S è quella che tutti conoscono, volatile e instabile oltre ogni possibile fantasia, ecco che le parole dell'ultimo post di Beppe Grillo ricevono tanti cuori da parte dei sostenitori di Giuseppe Conte, con il consueto lavoro dietro le quinte a veicolare un messaggio rinforzato, lo vedete che sta con noi, che invita all'unità e quindi si schiera contro il reprobo Luigi Di Maio?

Anche martedì un suo criptico testo di para antropologia sui femori rotti e poi curati era stato veicolato in extremis come un segnale di endorsement alla causa dell'ex presidente del Consiglio, ma persino il suo ufficio stampa conveniva sul fatto che non ci si capiva poi molto. 

Ci sono voluti due tentativi, e se non altro ora conosciamo l'opinione dell'Elevato in merito all'ennesima lacerazione interna della sua creatura. 

Sappiamo anche, perché bisognerebbe leggere tutto e non prendere solo le parti favorevoli alla propria causa, che Grillo non sprizza esattamente entusiasmo per un nuovo corso al quale lui si adeguò a malincuore, «per consentire il passaggio dall'impossibile al necessario». 

Insomma, siamo allo stretto necessario, una presa di posizione favorevole a uno dei duellanti, con richiamo alla «forza di una sola voce» che rimanda dritto alla sua nostalgia per il vecchio Pci, il suo unico vago riferimento di natura politica.

Ma l'euforia e l'entusiasmo sono un'altra cosa. Questo è invece un testo quasi notarile, un minimo indispensabile che sembra avere come funzione primaria la necessità di essere lasciato fuori dalla tenzone. 

C'è da capirlo, e non solo per via delle sue questioni giudiziarie.

Fu lo stesso Di Maio a insistere perché tornasse sui propri passi dopo aver bruciato i ponti con Conte con un video nel quale definiva «incapace» l'autonominato Avvocato del popolo e «seicentesco» lo statuto del M5S che stava scrivendo. In quel post di cinque minuti c'era davvero un riassunto di Beppe Grillo, del suo pensiero quando vuole davvero esprimersi, e del suo modo di agire. 

I rapporti sono migliorati da allora, siccome tutti glielo chiedevano, l'eremita genovese ha avallato le decisioni del nuovo plenipotenziario con il proprio silenzio pubblico e con una sostanziale copertura alle sue mosse. Anche a quelle sbilenche e azzardate, come ha provato sulla propria pelle con il tweet quirinalizio fortemente indotto che dava il benvenuto sul Colle più alto a Elisabetta Belloni.

Se non altro, a Conte il trattamento brutale che più di ogni altra cosa rivela il vero sentire di Grillo, venne riservato una sola volta, per quanto violenta nei toni. Con Di Maio è sempre stata una specie di tortura della goccia cinese, un distillato di diffidenza in dosi omeopatiche. Fin dall'inizio. 

«Vi presento un aspirante deputatino», disse il 25 gennaio 2013 dal palco di Pomigliano d'Arco. Quattro anni dopo, il deputatino si prese il Movimento approfittando di uno dei suoi consueti momenti alla Cincinnato. Il passaggio di consegne fu piuttosto freddo.

Di Maio spinge per governare con la Lega: l'altro posta un video sui panda che sono nati per stare da soli. Indice la consultazione online sul caso della nave Diciotti: l'altro commenta che con lui ci vuole molta pazienza. E dopo la batosta alle Europee si fa vivo per consigliargli un po' di riposo, e quando Di Maio prova a mettersi di traverso all'alleanza con il Pd, esplode sul blog sostenendo che Dio gli ha consigliato di «lasciarli alla loro Babele».

Troppo diversi, per trovare reciproca empatia, come invece avvenne subito con la filiera degli scapigliati alla Roberto Fico e Alessandro Di Battista, che l'Elevato definiva «i miei ragazzi». Infatti, non ci sarebbe neppure bisogno di leggere ogni singolo messaggio per capire come può pensarla davvero. Basterebbe solo guardarli. Prima Conte e Di Maio, così simili tra loro. E poi Grillo.

Massimo Franco per "il Corriere della Sera" l'1 febbraio 2022.

C'è chi lo definisce «auto-squadrismo» grillino, pensando a tutte le volte in cui il Movimento Cinque Stelle ha versato fango, spontaneo o pilotato, sugli avversari. Si può chiamare in qualunque modo, ma certo gli attacchi che sta subendo il ministro degli Esteri Luigi Di Maio dall'interno del M5S sanno di pestaggio digitale; e contro il massimo esponente grillino al governo. 

Per paradosso, più che mettere in evidenza le presunte difficoltà di un ex leader , sottolineano insieme un fallimento e la cultura di chi oggi guida i Cinque Stelle. Il fallimento è quello di un Movimento che sul Quirinale ha dato una prova di insipienza e di trasformismo non all'altezza della maggioranza relativa dei «grandi elettori». La cultura è quella di una formazione politica refrattaria a qualunque discussione interna; e incline a risolverla minacciando di cacciare chi dissente o critica il leader, vero o presunto che sia.

I tweet che da ieri bombardano il responsabile della Farnesina si chiamano, non a caso #DiMaioOut e cioè fuori Di Maio, accusato da un esponente vicino a Conte come Alessandro Di Battista di «pensare al potere». Ma l'elemento più grave è che gli attacchi risulterebbero provenienti da 289 «profili» informatici, molti dagli Stati uniti, accomunati da un elemento: sarebbero per lo più appartenenti a persone fittizie; «create» probabilmente dall'Italia, contro il ministro che ha dato voce all'insoddisfazione per la goffaggine di Giuseppe Conte nella conduzione dei negoziati.

Ritenere, tuttavia, che l'«auto-squadrismo» del Movimento di Beppe Grillo nasca solo dalla rielezione di Sergio Mattarella sarebbe fuorviante. Come accade spesso, le votazioni per il capo dello Stato catalizzano ed esasperano ambiguità e contraddizioni delle forze politiche, già esistenti. E, nel caso dei Cinque Stelle, hanno soltanto rivelato un conflitto sordo che andava avanti da oltre un anno; e che riguarda il rapporto con il premier Mario Draghi, l'affidabilità delle alleanze, e il controllo dei gruppi parlamentari.

Su questo, Conte e Di Maio erano destinati a confliggere: in particolare per l'ostilità vistosa del primo nei confronti di Draghi. La campagna orchestrata contro il titolare della Farnesina, però, promette di esasperarlo pericolosamente. Racconta non quanto Di Maio rischi di essere espulso dal Movimento Cinque Stelle, ma quanto sia indebolita la leadership di Conte. 

E come, pur di puntellarla in qualche modo dopo giorni di oscillazioni dal Pd di Enrico Letta fino alle braccia perdenti della Lega di Matteo Salvini, c'è chi è pronto a spostare l'obiettivo anche organizzando un diluvio di tweet sfavorevoli a Di Maio. Il risultato è di confermare uno scontro di potere dagli esiti imprevisti. Può darsi che la guerra in atto non porterà a una scissione: non ancora. Ma l'asse Mattarella-Draghi si conferma una bomba a orologeria nella crisi dell'emblema del populismo italiano.

DAGONOTA il 2 febbraio 2022.

Dove nasce il grande scontro tra Conte e Di Maio? Ha origine quando al Senato, galvanizzato dal Conte II, “Giuseppi” comincia ad accogliere gli animi degli scontenti verso la leadership di Luigino. E dice loro: io ci sono. 

Il punto di non ritorno è quando guida indirettamente la redazione di un documento per la sfiducia di Di Maio capo politico. Quel documento portava la prima firma dell’ex senatore Emanuele Dessì, guarda caso braccio destro e sinistro di Paola Taverna. È in quel frangente che Conte ha fallito.

Doveva finire Di Maio, invece ha pensato al suo ego ossessionando il paese con le sue dirette Facebook. Giggino ha incassato, ha imparato l’arte della politica e ora è pronto alla vendetta.

Domenico Di Sanzo per "il Giornale" il 2 febbraio 2022.  

Il nemico del mio nemico è mio amico. In mattinata, alla Farnesina, Luigi Di Maio e Virginia Raggi si vedono per circa un'ora. Quello che va in scena è l'incontro di due risentimenti e il bersaglio è Giuseppe Conte. Tra il presidente del M5s e il ministro degli Esteri le ruggini sono emerse dopo la partita del Quirinale.

I rancori della Raggi risalgono all'ultima campagna elettorale per le comunali a Roma, quando l'ex sindaca si è sentita abbandonata a se stessa durante la battaglia per una riconferma difficilissima. Da allora Raggi non ha mai rinunciato all'idea di insidiare la leadership di Conte. Ed eccoli, Raggi e Di Maio, a discutere del futuro del Movimento.

«È stato fatto un punto politico sul M5s», filtra dagli entourage. I due, disallineati su temi come i vaccini e il green Pass, con l'ex sindaca che liscia il pelo agli scettici e il ministro convinto pro-Vax, si trovano in sintonia «sulla necessità di un chiarimento interno». Nel gioco di ruolo del grillismo il titolare della Farnesina, ormai governista per definizione, fa asse con Raggi, sempre affezionata alle parole d'ordine del passato.

Dal lato opposto l'altra strana coppia: l'azzimato Ieri il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha ritenuto opportuno postare su Facebook una sua foto con la responsabile dei Servizi segreti Elisabetta Belloni, a lungo segretario generale della Farnesina, e corredarla da queste parole: «"Con il Ministro Di Maio c'è un'amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale"». 

Queste le parole di Elisabetta Belloni, alla quale mi legano una profonda stima e una grande amicizia (...) Oggi a pranzo ho fatto una piacevole chiacchierata con lei. Grazie Elisabetta (...)». 

Dopo che Di Maio si era speso contro l'ipotesi Belloni al Quirinale, pace fatta. Almeno sui social giurista e il descamisado Alessandro Di Battista. 

Di Maio e Raggi con il faccia a faccia di ieri pongono le basi per un'alternativa a un M5s schiacciato su Conte. Lontana la tentazione di un colpo di mano attraverso i cavilli dello Statuto.

Un blitz possibile, perché il ministro, l'ex sindaca e Roberto Fico fanno parte del Comitato di garanzia. 

Un organismo che può sfiduciare il leader, ma solo con il parere favorevole del Garante Beppe Grillo e dopo un voto degli iscritti. L'impresa è ardita e i neo alleati lo sanno. Invece, se tutto dovesse precipitare, Raggi potrebbe seguire Di Maio in una nuova avventura. 

La scissione è l'extrema ratio che non viene esclusa dai diretti interessati. Nel frattempo l'ex capo politico tesse la tela e nel pomeriggio sente Chiara Appendino per un lungo «focus sulla situazione politica».

Dall'altra parte del cielo c'è Conte. Il professore vuole un'assemblea aperta agli iscritti, che potrebbe essere convocata a stretto giro. L'ex premier così intende blindarsi con una legittimazione dal basso. 

Ma Di Maio non teme la conta e anche per questo stringe il patto con Raggi, molto radicata tra i militanti romani e amata dalla base. 

Conte minaccia ritorsioni in un'intervista al Fatto quotidiano: «Di Maio dovrà rendere conto di diverse condotte, molto gravi». Mentre nel caos è tornata l'armonia tra il leader e Alessandro Di Battista. L'ombra di Dibba spaventa i parlamentari. 

Trenta eletti autonomi dalle due correnti potrebbero lasciare il M5s se rientrasse Dibba, mal visto nei gruppi di Camera e Senato. Intanto i contiani pressano per l'espulsione di Di Maio.

Un provvedimento complicato, «dato che le prescrizioni dello Statuto sono ora molto blande per far entrare il M5s nel registro dei partiti», dice l'avvocato degli espulsi Lorenzo Borrè. Borrè difende anche gli attivisti partenopei che chiedono la sospensione del nuovo Statuto. 

Oggi a Napoli è prevista l'udienza e il ricorso è una spada di Damocle che pende sulla contesa. Se venissero accolte le richieste dei ricorrenti si tornerebbe al Comitato direttivo votato a febbraio del 2021 e l'attuale leadership non esisterebbe più. Ma sono i dimaiani a spingere per la scissione.

«Non è Conte che caccia Luigi, siamo noi che ce ne andiamo in settanta», dice un parlamentare vicino a Di Maio. Nel mezzo una vasta zona grigia che spera nella pace e confida nel lavoro dei pontieri. E non è escluso un intervento in questo senso da parte di Grillo, che per ora rimane in silenzio.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 2 febbraio 2022.  

Ognuno dei due, Di Maio e Conte, ha la sua rete di relazioni e di potere, sia dentro sia fuori M5S. Il tandem tra Luigi e la Belloni è sotto gli occhi di tutti. 

Così come quello tra lui e la Raggi e lui e la Appendino, con cui ieri si sono sentiti e l'ex sindaca di Torino è quella che ha rifiutato di entrare al vertice di M5S con Conte. 

E se nella Chiesa l'ex premier Giuseppi (ah, che nostalgia il vecchio rapporto con Trump che coniò questa storpiatura del nome di battesimo dell'allora premier) ha potuto vantare ottimi rapporti, qualcuno lo ha ancora: per esempio con monsignor Bregantini e altri strenui sostenitori del Conte 2.

Il rivale Di Maio ha stabilito a sua volta una buona intesa con la diplomazia vaticana e con la Comunità di Sant' Egidio. Nella Rai, il ministro non ha nessuno in Cda (ma non è così nei tiggì), mentre Conte ha piazzato a Viale Mazzini il prof Alessandro Di Majo, anche se questo non è bastato a mantenere in quota 5 stelle la poltrona del Tg1 nella nuova lottizzazione.

Il diplomatico Pietro Benassi, braccio destro e sinistro di Conte a Palazzo Chigi e attuale Rappresentante dell'Italia nella Ue, è la proiezione internazionale di Giuseppe. Ma Luigi, dato il proprio ruolo ministeriale, su questo terreno è assai più attrezzato. 

Mariangela Zappia, ambasciatrice a Washington, è un pezzo pregiato di questa rete. Così come Ettore Sequi, successore della Belloni come segretario generale alla Farnesina e dimaiano doc. Una figura di rilievo nelle strategie istituzionali di Di Maio è Paolo Glisenti, commissario dell'Italia per l'Expo Dubai.

Così come Vito Cozzoli, presidente e ad di Sport e Salute. Nella casematte del sistema Italia, Di Maio è andato stabilendo notevoli legami. Per esempio quello con Barbara Beltrame, vice-presidente di Confindustria.

Conte conserva però un ottimo rapporto con Gennaro Vecchione, che era a capo dei servizi segreti (Dis) con Conte a Palazzo Chigi, e con Domenico Arcuri, l'attuale ad di Invitalia già rimosso da Draghi come commissario per l'emergenza Covid.

Conte, che nel Pd è in forte caduta (non è più «il grandissimo punto di riferimento dei progressisti», come lo avevano definito) può vantare qualche legame con figure ormai marginali (gli altri, da Guerini a big del Nazareno e del governo considerano nei 5 stelle «affidabile» quasi il solo Di Maio), mentre gli resta l'ammirazione, a sinistra, di D'Alema: uniti nell'anti-draghismo.

Giacomo Lasorella di Agcom è considerato vicino a Di Maio. Il ministro ha un buon rapporto con Marco Bellezza, ad di Infratel, per non dire dell'asse con Pasquale Tridico, numero 1 dell'Inps. Nei vertici istituzionali, ottimo il dialogo fra Luigi e Ugo Zampetti, segretario generale del Colle.

Scendendo di livello: Grillo con chi sta? Con Conte nella vicenda Belloni ma di Conte pensa che «non ha visione politica né capacità manageriali».

Conte però ha i vicepresidenti M5S con sé (la Taverna meno degli altri), ovviamente Casalino, i ministri Patuanelli e D'Incà, il presidente Brescia (commissione Affari costituzionali, dove si decide del proporzionale) ma i capigruppo Castellone e Crippa non sono annoverabili tra i contiani.

La viceministra Castelli è dimaiana di ferro. Con Luigi anche la ministra Dadone, Spadafora e Di Nicola (pesi forti alla Camera e al Senato), il deputato Sergio Battelli che ci mette sempre la faccia, il questore D'Uva e via così. Quelle che Conte non ha sono le sponde negli altri partiti.

A parte Salvini con cui ha bruciato la carta Belloni o Meloni con cui condivide la voglia di abbattere il governo Draghi e andare al voto. 

Per Di Maio i fiancheggiatori esterni abbondano: da Brunetta a Brugnaro (l'ex stellato Carelli fa da pontiere tra il dimaismo e il centrismo), da gran parte delle correnti Pd e del vertice lettiano alla Carfagna. Per non dire di Renzi che in questi giorni ha mandato tanti complimenti a Di Maio e su Conte usa due parole: «Un disastro».

L'incontro del ministro degli esteri con Raggi e Belloni. M5S verso la scissione: Travaglio scomunica Di Maio, Conte in tribunale prova a difendere la sua leadership. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Il Movimento 5 Stelle è come quelle cittadine dei film Western: troppo piccolo per ospitare due rivali. Dove i due contendenti sono Luigi Di Maio e Giuseppe Conte, la carica contesa è quella della leadership – la Presidenza, nel nuovo statuto – e l’obiettivo vero quello di guadagnare quel che serve per tornare in Parlamento con dignità. Bersaglio non facile da centrare, avendo i Cinque Stelle voluto ridurre di un terzo i seggi, ed avendo prima subìto il dimezzamento nei sondaggi e poi un dimezzamento da fuoriusciti.

Se riavvolgiamo il nastro, nell’ultimo anno (che è stato anche l’annus horribilis di Beppe Grillo, alle prese con due brutte vicende penali) tutto si è svolto intorno a una diarchia di fatto. Conte nell’agosto 2021 ha sfilato il Movimento a Di Maio, che lo guidava come Capo politico dal 2017. Appena sei mesi in cui il M5S ha perso un po’ tutto quello che poteva perdere: uno sfracello le amministrative, con il simbolo caduto in disgrazia un po’ ovunque e tante città rimaste senza candidati, le sconfitte sonore di Roma e Torino, le fughe continue dei parlamentari con sei formazioni gemmate dalle scissioni, la mala parata in Rai, conclusa tra le gaffes, infine le trattative sul Quirinale che certificano più che l’ininfluenza di Conte, la sua eterodirezione. Le manovre per eleggere Belloni sul Colle rimangono oscure.

Sul fronte opposto, il ministro Di Maio per il quale d’un tratto tutti fanno il tifo: “Sta imparando, sta migliorando”, dice un coro crescente, neanche fosse un nipotino mandato a studiare all’estero. E proprio come nelle vicende scolastiche, ecco che ieri titolare degli Esteri ha prima riunito alla Farnesina una storica alleata di Conte, Virginia Raggi, poi pranzato con Elisabetta Belloni, alla quale ha intestato, virgolettandoli, i complimenti che lei avrebbe rivolto al Ministro. «“Con il Ministro Di Maio c’è un’amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale”. Queste le parole di Elisabetta Belloni, alla quale mi legano una profonda stima e una grande amicizia. Una professionista straordinaria, con un immenso attaccamento alle Istituzioni. Oggi a pranzo ho fatto una piacevole chiacchierata con lei. Grazie Elisabetta, condivido pienamente quello che pensi del nostro rapporto», sigla con solennità adolescenziale il ministro. La nota di colore sul “loro rapporto” è tutta indirizzata a Conte.

Se Di Maio aveva definito “indegno” l’aver tirato fuori il nome della Belloni senza un accordo, Marco Travaglio si è incaricato di contestare il titolare della Farnesina: «Lui ha spinto Draghi per giorni senza un accordo. Un giorno Di Maio dovrà ripensare a questi giorni e chiedersi cosa ci fa ancora nel M5S». Una scomunica in piena regola, quasi una fatwa. La trama da dipanare adesso è quella che lega il Movimento al Pd. Se Conte si dichiara grande amico di Letta e vanta un rapporto confidenziale con Bettini, Di Maio non è da meno: i suoi interlocutori vanno da Franceschini a Zingaretti. Ieri Enrico Letta è parso prudentemente distaccato. Ha cura di non mettere i piedi nel campo minato degli alleati pentastellati. E d’altronde – a sentire Carlo Calenda – quello dell’asse giallorosso è un tema che non si porrà più, nel futuro.

Per l’ormai prossima dissoluzione del Movimento. «Io non è che non mi posso fidare di Conte perché è cattivo ma perché quel movimento è il gas, è un gas che ha inquinato la politica italiana», ha dichiarato il leader di Azione. «I 5 stelle devono scomparire perché hanno preso per i fondelli i cittadini», è la conclusione sempre sopra le righe di Calenda. Quanto alla previsione di porre fine all’agonia pentastellata, però, potrebbe averci visto giusto. Si terrà oggi alle 10.30 dinanzi alla settima sezione civile del Tribunale di Napoli l’udienza sul reclamo presentato da alcuni attivisti storici, difesi dall’avvocato Lorenzo Borrè, contro il rigetto dell’istanza di sospensione del nuovo statuto del Movimento 5 Stelle e della nomina di Giuseppe Conte a presidente del Movimento.

Verrà esaminata la richiesta di annullare le delibere con le quali il 2 e 3 agosto 2021 è stato modificato lo statuto del M5S e il 5-6 agosto è stato nominato alla carica di presidente del partito come candidato unico Giuseppe Conte. E Borrè di cause non ne perde mai una. Se invece Di Maio dovesse decide di uscire, riunendo i suoi parlamentari – si parla di venti nomi che potrebbero arrivare al doppio – in un soggetto esterno, c’è già chi è pronto ad accoglierli nel lievitante centro. Emilio Carelli rivela al Riformista che «siamo pronti ad accogliere il nuovo partito di Di Maio al fianco di Coraggio Italia, nella federazione di centro che stiamo costruendo».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Belloni vede Di Maio per chiudere il caso Quirinale. Polemiche nel Movimento M5S. Giuliano Foschini La Repubblica il 2 febbraio 2022. 

La direttrice Dis pranza con l'ex capo 5S: "Lui leale, amicizia sempre più solida". Poi incontra anche Gabrielli. La critica di Iv: "Inopportuno"Il quotidiano Il Domani: "La Finanza a casa di Conte per le consulenze Acqua Marcia".  

Un'acquisizione di documenti da parte della Guardia di finanza avvenuta nelle scorse settimane a casa e nello studio di Giuseppe Conte e del professor Guido Alpa nell'ambito dell'inchiesta sul crac di Acqua Marcia. Nessuno è indagato ma la notizia - pubblicata dal quotidiano Il Domani - contribuisce ad agitare il clima nel mondo dei 5 Stelle alle prese con il caso Belloni che ha fatto esplodere la contesa dei leader.

Prima il pranzo con il ministro degli Esteri, Luigi di Maio, in un ristorante nel centro di Roma. Poi un incontro a Palazzo Chigi con il sottosegretario alla Presidenza, con delega all'intelligence, Franco Gabrielli. Elisabetta Belloni, direttrice generale del Dis, ha voluto cominciare la settimana rinunciando alla discrezione che ha caratterizzato i suoi 30 anni di carriera alla Farnesina prima e ai Servizi poi, e lanciando invece alla politica ma anche all'ambiente degli apparati, da giorni in subbuglio, un messaggio pubblico: quello della donna delle istituzioni che non si fa tirare nelle beghe di partito e che riprende il lavoro, dopo il tritacarne della corsa al Quirinale, con due dei suoi interlocutori naturali e diretti. In realtà, però, il messaggio è stato letto con lenti differenti. E, per il Movimento, ha avuto per esempio l'effetto di una deflagrazione.

In questi giorni, infatti, il nome della Belloni era stato usato da Giuseppe Conte come una clava contro Di Maio nell'ottica della guerra interna al Movimento. In sostanza, il ministero degli Esteri era stato accusato dall'ex premier di aver sabotato l'elezione della direttrice del Dis al Quirinale, come Conte e lo stesso Beppe Grillo avrebbero invece voluto. Tradendo così il Movimento. "E oggi Luigi - commentava, ieri sera, sconsolato uno dei deputati più vicini a Conte - risponde con una foto proprio con la Belloni con tanto di parole della direttrice del Dis: "Con il ministro Di Maio c'è un'amicizia sempre più solida. Di Maio è sempre leale ". Praticamente un colpo da ko per chi accusava Di Maio di tradimento ". Così è. Tanto che anche Italia Viva ha fatto sapere di essere "sconcertata" per le parole della Belloni riportate nel post di Di Maio.

"Siamo al paradosso che un ministro sia giudicato leale o meno da un funzionario", hanno detto "fonti ufficiali" del partito di Renzi. Eppure - ragiona un funzionario dell'intelligence - nelle intenzioni della nostra numero uno dei Servizi non c'era sicuramente alcuna intenzione di entrare nel dibattito interno di un partito, meglio di un Movimento. Ma, al contrario, quello di affermare la propria terzietà dalla politica. E la sua unica interlocuzione con le istituzioni. Perché, è vero che la Belloni ha sempre avuto un ottimo rapporto con il ministro Di Maio alla Farnesina (ma lo stesso aveva fatto con Paolo Gentiloni e prima anche con i governi di centrodestra), ma è anche vero che nella sua interpretazione del ruolo al Dis - dove sicurezza fa rima con relazioni internazionali e lettura dei fenomeni gepolitici - il ministro degli Esteri ha un ruolo cruciale.

Non a caso, dopo l'incontro con Di Maio, e dopo la pubblicazione su Facebook della fotografia con didascalia, la Belloni è salita a Palazzo Chigi per incontrare l'altro suo interlocutore naturale, l'autorità delegata, il sottosegretario Gabrielli. La necessità era anche tranquillizzare il mondo degli apparati in subbuglio negli ultimi giorni: dopo i mesi complessi della gestione Vecchione, dopo l'uscita di una figura ingombrante come quella di Marco Mancini, tutto il sistema intelligence era alla ricerca di una normalità. E riappacificazione. La tribolata corsa al Quirinale ha riacceso antichi fuochi che sembravano ormai spenti e rilanciato antichi veleni. Un clima reso ancora più complesso dalla notizia della perquisizione di Conte.

Jacopo Iacoboni per lastampa.it l'1 febbraio 2022.  

Nel momento più confuso della settimana delle elezioni per il Quirinale, la giornata e poi la serata di venerdì 28 gennaio, quando Giuseppe Conte ha tentato di nuovo una soluzione che non prevedeva Mario Draghi al Quirinale, Luigi Di Maio ha continuato fin dalla mattina a lavorare per un esito istituzionale, fosse sul nome di Sergio Mattarella o di Mario Draghi, ma ciò che è meno noto è che anche una serie di parlamentari M5S con un loro peso interno si stava già muovendo, dentro il gruppo parlamentare, nella stessa direzione del ministro degli Esteri. Uomini non tutti appartenenti al suo giro di fedelissimi.

Molto attivi, su questo fronte che appunto chiameremo “istituzionale”, sono stati personaggi come il deputato Sergio Battelli, Stefano Buffagni, Gianluca Vacca. O come Primo Di Nicola e Vincenzo Presutto, che certo non nascono dimaiani, ma sono stimati e seguiti dalle truppe grilline in Parlamento, perchè dotati di capacità di ascolto che non viene riconosciuta da tutti all’ex premier. 

Il presidente della Camera Roberto Fico, che nella vicenda si è tenuto in corretta posizione di distacco, ha comunque fatto percepire quanto fosse favorevole a una soluzione istituzionale (in quei momenti poteva essere sia Draghi sia, nelle ore successive sempre più, Mattarella), finendo, come sempre in tutti i tornanti decisivi della storia M5S, dallo stesso lato del suo più giovane conterraneo Di Maio.

Mentre Giuseppe Conte otteneva la sponda rumorosa, ma esterna di Alessandro Di Battista – che non è più nelle chat principali del Movimento, e non è amatissimo nel gruppo parlamentare grillino - Di Maio poteva contare su parlamentari meno appariscenti ma di sostanza, come quelli su elencati. 

Di Battista, che ha lavorato anche per un riavvicinamento tra Conte e Davide Casaleggio, ha poi detto: «Credo che a Luigi interessi più salvaguardare il suo potere personale che la salute del movimento. O si arriva a una resa dei conti, o faranno prima a cambiare il nome del M5s in Udeur». Ma in una battaglia politico parlamentare muove poco.

Di Maio è finito sotto attacco in quella che poteva sembrare una “rivolta della base” (secondo l’analista Pietro Raffa sarebbero in realtà 289 account fake, metà in America e Sud America; mentre secondo un altro analista, Alex Orlowski, si tratta solo di account "inattivi" da anni, “sockpuppets”, account-burattino magari mobilitati o rimobilitati, con persone vere dietro, all'occasione). A quel punto hanno cominciato a uscire in tanti, anche pubblicamente. Cosa singolare, per parlamentari da sempre molto incline a parlare dietro le quinte, ma poco a esporsi. Si sono schierati.

«Chiediamo che ci sia maggior ascolto da parte del presidente Conte e dei 5 vicepresidenti», spiega Cosimo Adelizzi. «In queste ore Luigi Di Maio è attaccato per aver detto la verità. Ovvero che l'elezione del presidente della Repubblica è stata evidentemente gestita male», sostiene Davide Serritella. «Questa ripugnante caccia all'uomo verso Luigi Di Maio deve finire e non è degna dei nostri valori», ha scritto su facebook Manlio Di Stefano (che però è in posizione terzista, «né lui né Giuseppe Conte sono mai scappati dalle loro responsabilità»).

Battelli, che da tempo riceve apprezzamenti anche in alta sede istituzionale, è insofferente, e esercita da tempo una sua leadership nel gruppo: «Oggi abbiamo un problema: molti, io per primo, vogliono spiegazioni. Il Minculpop interno l'ho sempre detestato e non inizierò certo a farmelo piacere oggi». «Chiunque ci sia dietro quest'ultima campagna contro Di Maio, si fermi immediatamente. Forza Luigi, siamo tutti con te», scrive nelle chat interne Sergio Vaccaro. 

Il fronte contiano, molto presente sui social e sui giornali d’area, è assai più silenzioso e ritratto nel gruppo. Viene fuori soprattutto attraverso figure come Stefano Patuanelli, o come i vicepresidenti, scelti direttamente da Conte. Come Michele Gubitosa, il numero due della gestione contiana, aiutato nella comunicazione da Rocco Casalino, che ritiene: «Conte non ha sbagliato nulla. Abbiamo proposto figure femminili di assoluto valore, parliamo di profili straordinari sui quali c'era condivisione. Ma nella notte sono arrivati dei veti incomprensibili da parte di altre forze politiche».

O come Riccardo Ricciardi, che va ripetendo: «Di Maio dovrà rendere conto al Movimento di alcuni passaggi». Tuttavia, almeno per ora, non sono in tanti a esporsi pubblicamente su questa linea. 

Con Di Maio invece, anche se silenti, ci sono personaggi storici e abilissimi nella conduzione delle dinamiche interne, da Laura Castelli – che sa tutto, del Movimento e dei suoi uomini - a ex ministri con relazioni nei palazzi, come un Vincenzo Spadafora dato ormai lontanissimo da Conte. Altri, come Roberto D’Incà, l’antico francescano del gruppo, uno dei veterani, stanno provando a mediare tra i due fronti: «Se riusciremo a restare insieme? L'importante è che in questo momento cerchiamo di condividere un momento di confronto». Al punto in cui siamo, anche questo è assai difficile.

Pietro De Leo per “Libero Quotidiano” il 22 gennaio 2022.  

Lamentazione, piagnisteo e anche qualche furbata. Sarà pure che da mesi le strade con il Movimento 5 Stelle si sono separate, ma la sortita di Davide Casaleggio sull'inchiesta Moby, attraverso un post pubblicato ieri sulla sua pagina Facebook, ricalca il tradizionale schema vittimistico dei pentastellati. Premessa: né lui né alcun componente della sua azienda sono indagati.

Tuttavia, avendo la Casaleggio Associati sottoscritto un contratto con Moby per erogare un servizio di consulenza di comunicazione, la Guardia di Finanza ha effettuato una perquisizione nei suoi uffici di Milano. E di nuovo i nomi di Casaleggio e Beppe Grillo, che invece è indagato, si sono ritrovati appaiati sui giornali e tg. In quelle strane connessioni magnetiche dove il fato malandrino appaia di nuovo ciò che la politica ha separato.

Ma Casaleggio non ci sta, e lo si capisce leggendo la sua lunga nota. Parla da imprenditore solo imprenditore. Quasi come se né lui né la sua azienda fossero stati, in tutti questi anni, nella prassi politica e nell'immaginario collettivo un ingranaggio fondamentale della storia del Movimento 5 Stelle di cui il padre Gianroberto, assieme a Grillo, fu fondatore. «Le rassegne stampa sono nuovamente piene del nome Casaleggio Associati», è l'incipit.

E attacca con la lacrimazione: «Non penso che esista un caso simile, in cui uno studio di consulenza sia oggetto da dieci anni di un ossessivo e costante discredito mediatico di tale portata senza alcuna base oggettiva». E ancora: «A questo si somma la campagna di fango sui falsi finanziamenti venezuelani che viene portata ancora avanti da parte dello sciacallaggio mediatico italiano contro mio padre, la cui foto viene pubblicata e associata alla solita calunnia ormai smentita».

SENZA MACCHIA Insomma, a leggere lui, evidentemente la Casaleggio Associati è un'azienda politicamente incontaminata. Estranea dalla storia di quel Movimento 5 Stelle che della mistura mediatico-giudiziaria, a scapito degli avversari, ha fatto propellente di consenso. Quel «servirebbe il senso della misura» che l'imprenditore invoca, dunque, lo tira dentro la nemesi da cui non può fuggire, al pari dei suoi ex compagni di strada. Poi aggiunge: «Casaleggio Associati, come molte Pmi, ha attraversato un momento di difficoltà negli ultimi due annidi pandemia, in particolare per la situazione creditizia di alcuni suoi clienti. A questo si sono sommati costanti attacchi mediatici che sembrano rispecchiare il modo scientifico che qualcuno suggeriva di attuare con una 'character assassination contro Davide Casaleggio e la sua società».

E qui posta il link ad un articolo sul famoso documento riservato del giornalista Fabrizio Rondolino inviato a Matteo Renzi, emerso dalle carte dell'inchiesta Open. Insomma, gira e gira sempre colpa dei giornalisti e di qualcuno che muoverebbe i fili, oggi come ieri. Poi passa a trattare dell'indagine Moby: «Casaleggio Associati», spiega, «è parte lesa in quanto oggi i crediti ai quali dovrebbe accedere» verso la società «sono, invece, oggetto di un concordato di continuità di Moby che sostanzialmente ha portato allo stralcio quasi totale del credito vantato, causando così una condizione di forte tensione finanziaria per la nostra società. Una situazione che le diffamazioni mediatiche non aiutano di certo a risolvere».

Di nuovo, dagli alla stampa cattivona. E poi la chiusura: «Lo ribadisco per l'ennesima volta: nessun nostro cliente ha mai avuto favoritismi politici grazie a me. È un fatto incontestabile, non un'opinione. Non è più tollerabile dovermi difendere da accuse per fatti che non ho mai commesso». 

ANNO DEL CAMBIAMENTO In sintesi, l'imprenditore scava un solco rispetto alla posizione di Beppe Grillo, accusato di presunte pressioni sui parlamentari pentastellati per realizzare iniziative normative favorevoli al fondatore di Moby Vincenzo Onorato, che con il blog del comico aveva un contratto di pubblicità. Non cita mai, Casaleggio, né Grillo né il Movimento. Come se negli anni dei fatti contestati non si conoscessero. Come se quella storia sola non fosse esistita mai. «Il 2022 sarà un annodi cambiamenti», conclude l'imprenditore. Ma attenzione alle scorie di quelli passati.

Quando erano indagati gli altri. Le urla dei 5s che oggi tacciono. Nicola Porro il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale. 

Il reato di traffico di influenze è un assurdo, sia come è stato pensato nel 2012 dall'allora ministro Severino con l'approvazione anche di Forza Italia, sia come è stato modificato, nel 2019, dal ministro Bonafede. 

Il reato di traffico di influenze è un assurdo, sia come è stato pensato nel 2012 dall'allora ministro Severino con l'approvazione anche di Forza Italia, sia come è stato modificato, nel 2019, dal ministro Bonafede. Come l'abuso di ufficio, come il concorso esterno in associazione mafiosa (in realtà mai stabilito da una norma positiva), come il voto di scambio. Tutti reati buoni per un titolo di giornale e per distinguere i virtuosi dai mascalzoni durante i dibattiti parlamentari che ne hanno visto la nascita. Ora che c'è incappato anche Beppe Grillo per i suoi rapporti con l'armatore Vincenzo Onorato, che ancora deve allo Stato 180 milioni, i grillini tacciono, il Fatto non titola, i moralisti si accucciano. Leggete questo breve e non esaustivo elenco delle loro grida moraliste, quando ad essere indagati erano i cattivi, cioè tutti gli altri, esclusi i grillini.

Nel 2016 la ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi viene intercettata mentre rassicura il compagno, allora indagato per traffico di influenze illecite, su un emendamento che sarebbe passato. La vicenda era quella dell'impianto di Tempa Rossa per cui poi la procura di Roma chiederà l'archiviazione. Ecco qualche delicata dichiarazione.

- 31 marzo 2016: «Le dimissioni del ministro Guidi sono un'ammissione di colpa, dimostrano il coinvolgimento del ministro Boschi e del Bomba che fanno l'interesse esclusivo dei loro parenti, amici, delle lobby e mai dei cittadini. Devono seguire l'esempio della Guidi e dimettersi subito». Blog di Beppe Grillo

- 31 marzo 2016 «Io non ho più parole per dire quanto ribrezzo mi diano questi schifosi al Governo. Gentaglia che mette gli interessi personali, spesso illeciti, davanti alla salute e al benessere degli italiani». Manlio Di Stefano, Facebook.

- 2 aprile 2016 «La vicenda Guidi è solo la punta di un iceberg . Erano tutti d'accordo e lo facevano sulla pelle della salute pubblica e sull'ambiente di regioni importanti come la Basilicata e non solo». Luigi Di Maio

- 10 aprile 2016 «Di fronte allo scandalo trivellopoli per il Bomba la soluzione è non far pubblicare le intercettazioni e non farle utilizzare ai giudici: quello che chiedeva Berlusconi alcuni anni fa. Mettere il bavaglio alla magistratura e all'informazione libera rimasta per coprire le vergogne del governo». Blog di Beppe Grillo.

Dopo dieci giorni sul medesimo blog che si è preso 240mila euro di spot da Onorato si lamentava della poca informazione su quel presunto scandalo. All'epoca ci fu una eco dieci volte superiore a quella che riguarda Grillo oggi.

Dopo un anno per traffico di influenze ci passa il papà di Matteo Renzi. Ecco solo alcune delle prese di posizione dei moralisti grillini.

- 1 marzo 2017 «Renzi, vogliamo vederci chiaro. Ce le hai le rendicontazioni delle donazioni della tua fondazione e in particolare quelle di Romeo? Escile!» Blog di Beppe Grillo. Oggi al medesimo blog potremmo chiedere di «uscire» le chat di Grillo con Onorato, o potremmo chiederci perché il telefono dell'Elevato non sia stato sequestrato.

- 4 marzo 2017 «L'unica notizia vera è la frase più infelice e stupida della storia, quella del rottamatore che riuscì a rottamare solo il padre. Ma cosa vuol dire per mio padre doppia condanna?». Blog di Beppe Grillo. Renzi infatti aveva chiesto doppia condanna per il padre in caso di colpevolezza.

- 30 marzo 2017 «Una vera e propria ragnatela. Adesso però la smettano con questo silenzio assordante, omertoso. Rappresentano le istituzioni e, dunque, hanno il dovere, l'obbligo di parlare e dare le dovute spiegazioni ai cittadini, che vogliono evidentemente tenere all'oscuro». Luigi Di Maio dal Blog di Beppe Grillo. E non contento poco dopo sempre Di Maio, ancora in veste Vaffa, diceva su Facebook: «Sono mentitori seriali, inadeguati per il Governo di questo Paese. Hanno infettato le istituzioni della Repubblica con la menzogna».

E come dimenticarsi del caso Siri che scoppia quando trapela la notizia che il sottosegretario ai Trasporti della Lega e consigliere economico di Matteo Salvini è indagato per corruzione. Armando Siri è accusato di aver accettato denaro per inserire una norma sulle energie rinnovabili nella manovra. Tutto ruota intorno a una presunta tangente da 30mila euro, «data o promessa» a Siri in cambio di un «aggiustamento» al Def 2018 sugli incentivi al mini-eolico. Bazzecole rispetto alle ipotesi dell'indagine su Grillo sia in termini di contratti del blog e di Casaleggio, sia della presunta entità del favore: la conversione di Onorato valeva 72 milioni l'anno. Sentite la lista dei grillini:

- 18 aprile 2019 «Sarebbe opportuno che il sottosegretario Siri si dimetta. Gli auguro di risultare innocente e siamo pronti a riaccoglierlo nel governo quando la sua posizione sarà chiarita. Se i fatti dovessero essere questi, stiamo parlando di accuse gravi che riguardano la Mafia, è chiaro che Siri si deve dimettere dal Governo. Va bene aspettare il terzo grado di giudizio ma c'è una questione morale e se c'è un sottosegretario coinvolto in un'indagine così grave non è più una questione tecnico-giuridica ma morale e politica. Non so se Salvini concorda con questa linea intransigente ma il mio dovere è tutelare il Governo e le istituzioni. Credo che anche a Salvini convenga tutelare l'immagine della Lega». Luigi Di Maio, dichiarazione a margine di un incontro di Unioncamere.

- 18 aprile 2019 «Alla luce delle indagini il ministro delle infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, ha disposto il ritiro delle deleghe al sottosegretario Armando Siri, in attesa che la vicenda giudiziaria assuma contorni di maggiore chiarezza. Secondo il ministro, una inchiesta per corruzione impone infatti in queste ore massima attenzione e cautela». Nota del Mit

- 7 maggio 2019 «Non capirò mai perché la Lega in queste settimane abbia continuato a difendere Siri invece di fargli fare un passo indietro. Oggi è l'ultimo giorno utile perché Salvini comprenda l'importanza di questa vicenda. Mi auguro faccia la cosa giusta». Luigi Di Maio su Facebook.

La lista è molto più lunga e credete al cuoco di questa zuppa abbiamo riportato solo le dichiarazioni più educate e ragionate. E oggi cosa hanno da dire questi signori su Grillo disOnorato. Nulla of course.

Nicola Porro. Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, conduce il programma d'approfondimento "Virus, il contagio delle idee", il venerdì in prima serata

Emanuele Buzzi per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2022. 

La fine di un'era. O almeno di un pezzo di storia recente legata in modo indissolubile alla nascita del Movimento 5 Stelle. Secondo alcune indiscrezioni, la Casaleggio Associati - società fondata da Gianroberto Casaleggio e ora diretta dal figlio Davide - sarebbe in una fase finanziaria negativa, al punto da considerare la messa in liquidazione. Le voci - che circolano con insistenza sia in ambito parlamentare sia in ambienti milanesi - per ora non trovano conferme.

Ciò che appare certo è che negli ultimi mesi c'è stata una riduzione del personale e che la sede (di oltre 450 metri quadrati) nel cuore di Milano, vicino a corso Monforte - inaugurata pochi mesi prima delle Politiche del 2018 -, è stata dismessa e, addirittura, secondo alcuni rumors sarebbe già disponibile per nuovi affittuari da alcuni mediatori immobiliari. Certo, a pesare sui risultati degli ultimi mesi è stata anche e soprattutto la pandemia, che - secondo quanto si legge nel rendiconto d'esercizio depositato presso la Camera di Commercio - «ha imposto l'esigenza di contenere il più possibile lo sviluppo del contagio, comportando la modifica delle procedure e attività». 

Ora le indiscrezioni parlano di un bivio: chiudere o continuare con un nuovo percorso. Casaleggio Associati - finita al centro delle cronache in questi giorni per il caso Moby - ha curato la comunicazione all'inizio degli anni Duemila dell'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, poi dal 2005 ha gestito la rete dei meet up civici grillini e ha sostenuto dal 2009 i Cinque Stelle: un percorso che si è fermato con la morte di Gianroberto Casaleggio e la fondazione di Rousseau.

Ora, dopo alcuni anni positivi dal punto di vista finanziario, la società vive un momento di difficoltà. Il bilancio dell'anno 2020 della società milanese ha fatto segnare un saldo negativo - come risultato di esercizio - pari a -320.295 euro. A Roma, nonostante lo strappo burrascoso dal Movimento, preceduto da un lungo periodo di tensioni e polemiche tra i rappresentanti di Rousseau e i vertici pentastellati, alcuni parlamentari si dicono «preoccupati» e «sinceramente dispiaciuti» per la situazione della Casaleggio Associati.

«Nonostante tutto, rappresenta una parte importante del nostro percorso: speriamo si possa riprendere con successo», auspica un eletto 5 Stelle. Intanto, c'è chi fa notare che anche il blog delle Stelle, ex punto di riferimento M5S, è fermo: l'ultimo post risale allo scorso 29 novembre. 

Inchiesta presunti fondi illeciti, il nuovo memoriale di El Pollo: "Dal regime venezuelano finanziamenti al Movimento". Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 21 gennaio 2022.

 Non c'è solo il caso Onorato. Una seconda inchiesta della procura di Milano sta creando qualche imbarazzo al Movimento 5 Stelle. La storia, nota, è quella del presunto finanziamento illecito ricevuto nel 2010 dal governo venezuelano di Hugo Chavez. C'è una novità. Un memoriale. È stato depositato presso il giudice spagnolo: l'ex capo dei servizi segreti venezuelani Hugo Armando Carvajal, detto El Pollo, arrestato a Madrid e in attesa dell'estradizione negli Stati Uniti, conferma la dazione del denaro, accusando di nuovo il fondatore Gianroberto Casaleggio di averla incassata.

Da lastampa.it il 16 settembre 2022.

Davide Casaleggio attacca duramente Giuseppe Conte, sulla vicenda del presunto finanziamento dal Venezuela di Chavez-Maduro a Gianroberto Casaleggio – finanziamento che Davide Casaleggio ha sempre negato, querelando il giornale spagnolo che per primo aveva diffuso la notizia riportando un documento dei servizi segreti spagnoli. 

Ora però Casaleggio sostiene che Conte, in quella storia, ebbe un ruolo. A pochi giorni dal voto del 25 settembre, con un video su Facebook, il figlio del cofondatore del M5S attacca il leader del Movimento, l’avvocato del popolo: «Aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla».

E avanza il dubbio, tra l'altro, che dietro quel caso ci fosse la volontà di cambiare il corso del Movimento 5 Stelle. «Devo raccontarvi un fatto grave che è successo in questa legislatura. Molti di voi lo conosceranno come il "caso Venezuela". Un'infamia che è stata condotta contro mio padre - esordisce Casaleggio - Bene, in questi anni ho condotto diverse ricerche e questo mi ha permesso di farmi un'idea di cosa sia successo.

E anche di quali sono gli attori che sono stati coinvolti in questa vicenda. Anche i servizi segreti italiani, anche persone nel governo italiano sono state coinvolte in questa vicenda. Speravo che la giustizia avesse già fatto il suo corso per la fine di questa legislatura, ma così non è stato. Credo sia quindi importante condividere alcune informazioni pubblicamente». 

«Molti di voi ricorderanno il "caso Venezuela" perché è finito su tutti i giornali. Tutte le televisioni, tutte le inchieste di approfondimento in televisione parlavano del “caso Venezuela”. Una valigetta con 3,5 milioni di dollari - ricorda Davide Casaleggio - che sarebbe arrivata nelle mani di mio padre per cambiare il corso delle idee del governo italiano tramite il Movimento 5 Stelle che a suo tempo - si parla del 2010 almeno dalla storia raccontata - era fuori dal Parlamento, fuori dal Governo e quindi sostanzialmente parliamo di una storia irrealistica, che però molti giornali hanno sposato comunque. Ma cosa ho scoperto in questi anni?

Beh, innanzitutto i tempi. Questo documento falso è arrivato al giornale spagnolo, che poi lo pubblicò, proprio nel momento in cui il capo politico del Movimento 5 Stelle si era dimesso. Un momento delicato per il Movimento 5 Stelle. L'inchiesta esce sul giornale sei mesi dopo. Proprio nel momento in cui si sta discutendo del fatto di fare o meno il voto per il capo politico che doveva essere rivotato. Proprio in quel periodo in cui - come molti di voi ricorderanno - io sostenevo la necessità di fare un voto aperto a candidature multiple con il voto degli iscritti, per poter avere un nuovo capo politico».

«Questo non successe mai - rimarca Casaleggio - perché nel frattempo è stato cambiato lo statuto. È stato nominato sostanzialmente un monocandidato, che alla fine è stato ratificato da alcuni iscritti. Ora questo per quanto riguarda i tempi. Chi era invece a conoscenza di questo documento prima che arrivasse nelle mani del giornalista spagnolo? 

Bene, questo documento era custodito in un cassetto del governo italiano già da un anno. Tra l'altro prima della pubblicazione, il 27 di aprile del 2019 i servizi segreti italiani con in mano questo documento vanno da Giuseppe Conte - sostiene il foglio del cofondatore del M5S - vista la gravità del fatto denunciato dal documento e lo sottopongono per una sua valutazione. Quello che è stato fatto? Nulla». «Non si fece né un'indagine su un fatto che effettivamente poteva essere molto grave, parliamo di corruzione, riciclaggio, cercare di pagare una forza politica per indurre il governo a fare qualcosa per un Paese straniero.

È qualcosa di molto grave ma il Presidente del Consiglio al tempo non fece nulla. Non fece nulla neanche nell'altro senso. Se pensava che questo documento fosse falso, era una chiara calunnia. Un tentativo di calunnia perché al tempo il documento era segreto, ma non fece nulla neanche quando questo documento uscì sui giornali. Tutti i giornali italiani ne hanno parlato e Conte aspettò ben due giorni per fare la sua dichiarazione in cui sostanzialmente faceva finta di non saperne nulla». 

«Ora tutto questo usciva, e il governo? Nulla. Conte che aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla. Ora io spero che nel prossimo governo, che nella prossima legislatura, tutte le persone che avranno a che fare con i servizi segreti: sia le persone che controlleranno i servizi segreti, sia le persone che li gestiranno, abbiano il senso dello Stato. Perché io non tollero che si infanghino le persone che non possono difendersi. Non tollero che si infanghi mio padre. E quindi spero che si faccia chiarezza su un'operazione di calunnia pubblica che è stata portata avanti contro mio padre».

Il dossier finito in un cassetto. Davide Casaleggio accusa Conte, cosa c’è dietro il video del figlio del fondatore del M5S. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Settembre 2022 

A nove giorni dal voto il figlio del fondatore del M5S entra in campagna elettorale di peso. Con un video accorato, non brevissimo, si rivolge ai suoi amici e sostenitori. Compare in camicia bianca, il tono grave, gli occhi sulla telecamera e le parole scandite una a una. Le polemiche sui soldi russi ai partiti hanno infiammato il dibattito e riportato sulla breccia, a margine, anche le voci sulla presunta donazione di 3,5 milioni di euro dal Venezuela.

Casaleggio tira in ballo i servizi segreti italiani, all’epoca rappresentanti dal direttore generale del Dis, Gennaro Vecchione. Dice che il 27 aprile 2019 gli agenti della nostra intelligence avrebbero consegnato all’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, l’informativa che anticipava “le infamanti accuse”, come le chiama Davide Casaleggio, indirizzate contro suo padre. La colpa di Conte? Aver tenuto il dossier in un cassetto “senza fare niente”. Verbalizzo qui parola per parola: “Devo raccontarvi un fatto grave, il “caso Venezuela”. Un’infamia che è stata condotta contro mio padre. Bene, in questi anni ho condotto diverse ricerche e questo mi ha permesso di farmi un’idea di cosa sia successo. E anche di quali sono gli attori che sono stati coinvolti in questa vicenda. Anche i servizi segreti italiani, anche persone nel Governo italiano sono state coinvolte in questa vicenda”. Ricostruiamo: a monte c’erano le dichiarazioni dell’ex capo dei servizi segreti venezuelani, Hugo Armando Carvajal, detto “El Pollo”, ex capo dei servizi segreti militari del governo di Caracas.

El Pollo avrebbe riferito che nel 2010 il console venezuelano a Milano, Gian Carlo Di Martino, si recò in veste di intermediario negli uffici della Casaleggio per consegnare una valigetta contenente tre milioni e mezzo di euro. Denaro funzionale alla causa di una migliore reputazione presso l’opinione pubblica italiana del Venezuela di Chàvez, cui succederà nel 2013 Nicolas Maduro. Pratica attuata, secondo le ipotesi, in Spagna e in Francia oltre che in Italia. Tanto che è a Madrid che il caso prende piede. Il giornalista Marcos Garcìa Rey, del quotidiano conservatore ABC, racconta la vicenda e viene querelato da Davide Casaleggio. Il giudizio è ancora pendente. Così come l’inchiesta della magistratura milanese che indaga per appurare se si trattò di corruzione o meno, mentre il reato – ipoteticamente commesso nel 2010 – è comunque prescritto. Negli ultimi giorni la vicenda ha fatto risuonare qua e là qualche eco. Debora Serracchiani, capogruppo Pd alla Camera, era ospite degli studi tv de La7 quando ha commentato le voci sui dossier americani: “Mi sembra di ricordare che anche il Venezuela ha pagato il M5S, se non ricordo male”. È insorto Alessandro Di Battista, ospite collegato da casa: “Spero che Casaleggio la quereli”. Da Giuseppe Conte nessuna replica. Figurarsi se il nuovo Conte si va ad arrovellare nel botta e risposta con Davide. E poi cosa potrebbe rispondere a Casaleggio? Gennaro Vecchione avrebbe ricevuto le informazioni sulla presunta tangente dai suoi uffici e le avrebbe girate a Conte.

“Gli arrivò l’informativa e fece finta di niente, la mise in un cassetto”, l’accusa del titolare della Casaleggio Associati. Che insiste: “Tra l’altro prima della pubblicazione (su ABC, ndr) i servizi segreti italiani con in mano questo documento vanno da Giuseppe Conte. Vista la gravità del fatto denunciato dal documento, lo sottopongono per una sua valutazione. Quello che è stato fatto? Nulla. Non si fece né un’indagine su un fatto che effettivamente poteva essere molto grave, parliamo di corruzione, riciclaggio, cercare di pagare una forza politica per indurre il Governo a fare qualcosa per un Paese straniero. È qualcosa di molto grave – prosegue il presidente dell’Associazione Rousseau – ma il Presidente del Consiglio al tempo non fece nulla”. Così come non fece nulla neanche nell’altro senso. “Se pensava che questo documento fosse falso, era una chiara calunnia. Un tentativo di calunnia perché al tempo il documento era segreto, ma non fece nulla neanche quando questo documento uscì sui giornali”. Suona tanto singolare, intempestiva, esorbitante questa intemerata tutta rivolta contro Conte, da essere rivelatoria di un clima, tra ex compagni del Movimento, diventato ormai di guerra.

L’accusa, neanche tanto velata, è che il dossier contro suo padre sarebbe rimasto custodito nei cassetti dell’allora premier quasi come un’arma di ricatto. E Casaleggio va oltre, trovando nella coincidenza tra le date della vicenda un sinistro incedere: “Proprio in quei momenti si decideva la successione come capo politico. Io suggerii una lista tra più competitor, ma sui giornali si provò a fare scandalo infamando mio padre”, ricostruisce Davide. Il rinnovamento interno sarebbe stato inficiato da una macchina del fango alla quale Conte non sarebbe stato estraneo, si evince tra le pieghe del ragionamento. Conte sta facendo la miglior campagna che un populista potesse fare. Sta risalendo nei sondaggi, mandando in soffitta definitivamente le speranze di chi ambiva a riprendere in mano i Cinque Stelle. Beppe Grillo tace e si nega. Davanti alle richieste di interviste, continua a tacere. Per la prima volta in una campagna elettorale in venti anni la sua voce manca dalle piazze. Quella di Bonafede, Toninelli, Lezzi è totalmente silenziata. Ed è muta da un mese l’ex sindaca di Roma, Virginia Raggi, che qualcuno aveva indicato come possibile sfidante alla successione al trono di Conte. Se avesse perso le elezioni.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

"Non succederà nulla", "È finito". Le 'profezie' su Grillo. Francesco Curridori il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Per la rubrica Il bianco e il nero, abbiamo parlato con il filosofo Paolo Becchi e con il politologo Gianfranco Pasquino del periodo buio che sta attraversando il M5S.

Il M5S, dopo la tegola giudiziaria che colpito il fondatore Beppe Grillo, sta vivendo una nuova crisi proprio nel momento cruciale della legislatura: l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Per la rubrica Il bianco e il nero, ne abbiamo parlato con il filosofo Paolo Becchi e Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza Politica all'università di Bologna.

Cosa succede nel M5S dopo la vicenda giudiziaria che ha colpito Beppe Grillo?

Becchi: "Quella è la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Io sono un garantista con tutti e questo vale anche per Beppe Grillo, però una cosa è la vicenda giudiziaria che chiarirà la magistratura e un'altra è la vicenda politica. Credo che, considerate anche le grandi difficoltà finanziarie in cui si trova la Casaleggio Associati (che ormai non ha più nulla a che fare con i pentastellati), il M5S è finito. Questo non esclude che alle prossime elezioni possano prendere dei voti, ma non è quasi manco più corretto utilizzare questa sigla. Quella trasformazione per la vita civile e politica che molti italiani, compreso me, si aspettavano non c'è stata. Queste ultime vicende politicamente lo confermano. Non si vede molta diversità tra il M5S e il resto degli altri partiti. La tanto decantata 'onestà, onestà' mi sembra molto messa in discussione".

Pasquino: "Se è una vicenda che riguarda solo Grillo, non succederà niente perché lui, in qualche modo, si era già 'elevato'. Se non ha influenzato nessuno dei parlamentari dei Cinquestelle, loro dovrebbero proseguire esprimendo rammarico e augurandosi che Grillo esca pulito da tutta questa vicenda".

Conte ha incontrato prima Letta e Speranza e, poi, Salvini. Che ruolo sta svolgendo dentro il M5S e nella partita per il Colle?

Becchi: "Teniamo presente che il M5S è il partito di maggioranza relativa e, invece, secondo me, Conte non sa che pesci pigliare e, per cercare di sembrare in partita, si attiva da una parte e dall'altra. Credo che anche il tentativo di rinnovamento del Movimento, per mezzo di Conte, sia fallito. Il M5S, quando si voterà, sopravviverà grazie ai voti presi al Sud col reddito di cittadinanza, ma andrà sicuramente sotto il 10%. il M5S non esiste più come progetto politico, mentre Conte rappresenta proprio una nullità politica".

Pasquino: "Conte sa che non controlla del tutto i gruppi parlamentari e cerca sponde fuori per negoziare il nome del prossimo presidente. Di più non può fare, deve stare in equilibrio, sperando che una parte del gruppo parlamentare ci ripensi e che i Cinquestelle non vadano in ordine sparso. Conte deve cercare di mettere insieme le 'sparse membra' del Movimento che, poi, è un obiettivo anche di Di Maio".

Chi sarà il prossimo leader del M5S? Conte o Di Maio?

Becchi: "Credo che al momento questo problema non si ponga neanche. Penso che proseguirà questa facciata formale con Conte capo politico e una segreteria che ruota intorno a lui. Bisognerà vedere cosa succederà alle Politiche del 2023 e chi prenderà le redini del Movimento per cercare di salvare un minino di posti in Parlamento. Lì si arriverà alla resa dei conti tra Di Maio e Conte".

Pasquino: "Da qui al 2023 c'è un secolo di tensioni e difficoltà e, perciò, è difficile dirlo. Io credo che al M5S non convenga far fuori Conte. Poi, bisogna vedere se l'ex premier acquisisce tutto il peso che dovrebbe avere in quanto leader".

Il M5S è il gruppo parlamentare più numeroso. Perchè non sta svolgendo un ruolo da protagonista nella partita per il Colle?

Becchi: "Ormai non c'è più una guida. I parlamentari dei Cinquestelle non li controlla di certo Conte, al massimo ce n'è una quindicina fedele a Di Maio. Tutto il resto, però, è una palude. Voteranno qualcuno che consenta a Draghi di rimanere dov'è di modo tale che loro possano restare in Parlamento fino alla scadenza naturale della legislatura. Penseranno a salvarsi la pelle e, quindi, voteranno un qualunque candidato eccetto Draghi perché i grillini vogliono la certezza che non si vada a votare".

Pasquino: "Credo che nessuno debba dare le carte, ma tutti dovrebbero proporre dei nomi. Mi stupisce che LeU non abbia fatto nemmeno 3 nomi. Io mi aspetto che anche il M5S faccia una rosa di nomi. Non dovrebbe essere difficile nemmeno per loro, ma ci vorrebbe un po' di immaginazione e di buona volontà".

Conte, Letta e Speranza, dopo il loro incontro, hanno scritto un tweet uguale. Qual è il reale stato di salute dell'alleanza giallorossa?

Becchi: "Hanno fatto un tweet identico per indicare che c'è un'estrema condivisione. E mi pare anche normale. Dopo la parentesi rivoluzionaria del governo gialloverde, si sta andando verso la normale suddivisione di un fronte di centrodestra e uno di centrosinistra".

Pasquino: "Dire che avranno una posizione comune è già un passo avanti. La convergenza sul tweet, secondo me, è un segnale politico di primaria importanza...".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Michele Serra per "la Repubblica" il 20 gennaio 2022.

Per una (modesta) vicenda di fondi pubblicitari non chiari destinati al suo blog, Beppe Grillo è sotto inchiesta. Il nome stesso del reato, "traffico di influenze illecite", lascia intendere la zona d'ombra sulla quale la Procura di Milano indaga. Si tratta di quel vischioso viluppo di rapporti tra economia, politica e media che oscilla tra il lobbismo, il vassallaggio, la compravendita di favori e simpatie.

Stabilire dove è il reato, dove la mollezza etica, non è mai facile. Per utile paradosso, lo strale destinato a Grillo rimbalza anche da un'altra inchiesta, quella della Procura di Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Questo per dire che non conviene mai imputare agli altri ciò che potrebbe essere imputato a te stesso. E anche per dire che finalmente, con generale sollievo (forse anche dei grillini), la storia del grillismo approda al suo esito naturale, che è la politica come bene comune e al tempo stesso come male comune. In una parola sola: come problema comune. 

Quando si va alla guerra, è difficile conservarsi innocenti. Troverete in altra parte del giornale ampio resoconto tecnico-giudiziario dell'accaduto. Qui posso solo riferire ciò che mi ha maggiormente colpito nella vicenda. Il finanziatore illecito, o comunque non trasparente, è un armatore, il signor Onorato, boss della Moby, compagnia di navigazione in fallimento. Degli undici milioni, diciamo così, di elargizioni amichevoli, solamente due erano destinati alla politica.

Oltre che al blog di Grillo, i soldi sarebbero andati alla Casaleggio Associati, alla fondazione di Matteo Renzi e alla fondazione di Giovanni Toti, più qualche briciola al Pd e a Fratelli d'Italia. Gli altri nove milioni erano destinati ad attività di rappresentanza, appartamenti costosi e auto di lusso: il signor Moby avrebbe dunque speso in Aston Martin e in Maserati molto di più di quanto stanziato per ingraziarsi il ceto politico, compreso il capo carismatico del partito di maggioranza della diciottesima legislatura. 

Tangentopoli, almeno quantitativamente, fu davvero un'altra cosa. Questo la dice lunga sulla perdita di peso, e di potere, della politica. Con un paio di convention aziendali, ai tempi d'oro, Grillo portava a casa gli stessi quattrini che il signor Moby oggi avrebbe elargito al suo blog, secondo l'accusa, in cambio di una buona parola presso i suoi gruppi parlamentari (sarebbe questo il "traffico di influenze illecite"). È molto dubbio che l'interessamento parlamentare dei cinquestelle avrebbe portato giovamento alla causa della navigazione marittima. 

Non è in dubbio, invece, la perdita di indipendenza, di prestigio, in fin dei conti di potere, che il passaggio di Grillo dallo show business alla politica gli ha inferto, fino a trascinarlo nella fangosa routine giudiziaria, come un qualunque sottosegretario o assessore, di quelli che pigliava per i fondelli ai tempi d'oro.

L'aggravante è che proprio sulla intemerata battaglia alla corruzione, al malaffare, alla connivenza, Beppe Grillo aveva fatto leva per avviare la sua clamorosa parabola politica. Due erano i cavalli di battaglia del suo movimento, entrambi difficilmente criticabili: la lotta contro la corruzione (onestà! onestà!) e la virtuosa selezione "dal basso" di una nuova classe dirigente immacolata e di vigorosi ideali. 

Molti di costoro sono andati a ingrossare le fila del gruppo misto, enorme agglomerato di fuorusciti di tutti i partiti, e sono tra i maggiori indiziati nella campagna acquisti di Berlusconi - speriamo in via di fallimento - per il Quirinale.

Di altri, rimasti nel folto esercito grillino in Parlamento, è lecito sospettare una lealtà molto labile alle indicazioni dei vertici: potrebbe prevalere, dicono le cronache, il bisogno di conservare il seggio, chiamato con spregio "poltrona" quando il potere era solo un nemico da abbattere, e oggi sudato posto di lavoro per carneadi di ogni regione e ceto sociale. Si chiude un cerchio, dunque: ed è bastata una sola legislatura per chiuderlo. 

La "diversità" grillina ha retto pochi anni, a differenza dei decenni occorsi, per auto-sopprimersi, alla "diversità" comunista, più sostanziosa perché più sudata, studiata, istruita. È puro cinismo compiacersi del fallimento dei tentativi di moralizzazione. Ma è pura stupidità non leggere, nel disfacimento strutturale del grillismo, la meritata sconfitta dell'improvvisazione e della presunzione. Che alla politica non fanno meno danni dell'immoralità.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 20 gennaio 2022.

Che il furore inquisitorio e penitenziario dei cinque stelle, fatto di spazzacorrotti e aumento di pene come panacea sociale, piombi sulla testa di Beppe Grillo, coi suoi ridicolissimi inciuci ribattezzati traffici d'influenza, mi fa sorridere ma con amarezza. In fondo i grillini sono solo vittime delle loro superstizioni, ma diffuse per decenni con inchiostro di fiamma da tutti noi. La favola dell'Italia terra di delinquenti è uno degli abbagli più mirabolanti degli ultimi otto secoli, e nemmeno a dare testate contro il muro dei numeri ci si riaccende il cervello. Tutti i reati sono in calo da decenni.

Sugli omicidi ce la battiamo ogni anno con Lussemburgo su chi ne commette di meno in Europa. Sulle rapine siamo sotto la media continentale. I nostri criminali eccellono soltanto nel furto di automobili, a parte la suggestione per corrotti e concussori, misurabile con classifiche basate non sui numeri ma sulla percezione. Capirai. Ma, per esempio, gli ultimi dati sulle truffe europee ci collocano fra i più onesti: i tedeschi truffano più di noi, i francesi truffano per il triplo.

Eppure non c'è partito che non si riprometta - fino al parossismo grillesco - di redimerci buttando la chiave. Ricordate che in Italia soltanto quattro processi su dieci arrivano a dibattimento, e di questi soltanto il 43 per cento si chiude con la condanna: il 30 per cento con l'assoluzione, il resto con archiviazioni. Dunque, di cento indagati, se ne condanneranno meno di venti. In compenso - in quello ci battono in pochi - abbiamo le galere piene di gente in attesa di giudizio. Ma quando la pianteremo di fare traffico di demenze?

Dalla rubrica delle lettere del "Fatto quotidiano" il 21 gennaio 2022.  

Perfino Il Fatto Quotidiano ha già processato e condannato Beppe Grillo. "Politicamente", stando a Marco Lillo, è indifendibile. Cos' è, avete già letto le chat?! Impossibile, visto che le indagini non sono chiuse! Eppure Grillo, politicamente, è già indifendibile! Perché ha sempre "rivendicato una diversità"! Ciò significa che non può ricevere messaggi né inoltrarli a chicchessia. Il solo farlo è "tradimento politico"! Non importa cosa ci sia scritto nei messaggi. Gli altri, non avendo "rivendicato diversità", se anche si intascano 200 mila euro, cosa vuoi dirgli? 

La "diversità politica" di Grillo è quella di non essere un politico stipendiato dagli italiani, come invece lo sono gli altri! Nessuno dei parlamentari, ministri ed ex ministri del M5S è indagato! Perché allora il M5S , anche se una colpa di Grillo ci fosse, dovrebbe pagare un prezzo politico? Senza contare, ovviamente, che adesso è Giuseppe Conte il capo politico del Movimento. Giuliano Checchi 

Risposta di Marco Travaglio

Caro Giuliano, condivido in pieno il commento di Marco Lillo. Il reato è tutto da dimostrare e se ne occuperà la magistratura con i suoi tempi e procedure. Ma il fatto di ricevere soldi da un concessionario pubblico, inoltrare le sue richieste a ministri e parlamentari 5 Stelle e poi girare a lui le loro risposte è un comportamento inaccettabile. Soprattutto per il fondatore del Movimento che fa della trasparenza e dell'onestà le sue bandiere. Per sua fortuna, i ministri e i parlamentari 5 Stelle - diversamente da renziani e piddini - hanno ignorato quelle chat e non hanno fatto alcun favore a Onorato. Perché non hanno dimenticato (almeno loro) chi li ha votati e perché. Dimostrando così - checché ne dicano i giornaloni festanti - di non essere "uguali agli altri". 

Traffico di influenze. Svolta di Travaglio, il Fatto Quotidiano diventa garantista: niente gogna per Grillo indagato. Il Gaglioffo su Il Riformista il 20 Gennaio 2022. 

La notizia che il povero Beppe Grillo è indagato per il reato inventato dalla ministra Severino e inasprito dal prode Bonafede – fustigatore di ogni malefatta dei politici – ieri ha fatto sorridere un po’ tutti i commentatori. In effetti è una notizia molto divertente. Qualche giorno fa Marco Travaglio, che di Grillo è il principale figlioccio, durante un dibattito televisivo con Renzi sorrideva e sventolava le mani strusciando tra loro i due pollici i due indici per far capire che i pregiudicati veri son quelli che prendono denaro, anche se magari non vengono condannati, e tutti gli altri reati contano poco.

Travaglio sosteneva che questo tipo di reato era tutto una specialità dei partiti non-cinque-stelle, e in particolare dei renziani e dei berlusconiani. E adesso si trova in un bel guaio. Qui c’è la magistratura che sostiene che Grillo ha preso i soldi per dire ai suoi (cioè ai deputati e ai senatori del partito del quale era garante) di favorire la Moby Traghetti. E, secondo i Pm, i suoi deputati e senatori obbedirono, come spesso a loro capita. E su questa base i magistrati hanno ipotizzato il reato di traffico di influenze. Ora è ben vero che nessuno sa in cosa possa consistere questo reato misterioso, inventato solo allo scopo di consegnare ai Pm uno strumento per colpire i politici e gli imprenditori anche in totale assenza di episodi di corruzione; però resta il fatto che a difendere strenuamente questo reato, e ad inasprirne le pene, c’era proprio il partito di Grillo, che lo fece anche in modo rumoroso, e quando (con l’aiuto della Lega) impose al parlamento quell’obbrobrio di legge forcaiola che battezzò “spazzacorrotti”, festeggiò e festeggiò e si gloriò e insultò sanguinosamente chiunque provasse a opporsi a quella follia da sbirri. E Grillo era lì. Felice. Convinto. Contento. Era lì in bonafede.

Poi tutto tornò in pianto. E dalla nuova terra un turbo nacque… Se lo guardate oggi, Grillo, fa simpatia. Si proclama innocente, ripete le frasi che cento volte hanno ripetuto, non credute, centinaia di vittime della malagiustizia – come lui- che però, da lui, furono insolentite e infangate. Ora è lui a imitare le sue vittime. Traffico di influenze non è una cosetta. La pena può arrivare a quattro anni e mezzo di prigione. Che vuol dire addirittura tre volte la pena che Grillo a suo tempo rimediò come responsabile di un triplice omicidio colposo. Si sa che nella filosofia dei 5 Stelle omicidio e reati contro il patrimonio o la pubblica amministrazione non sono comparabili. A una persona onesta può succedere di uccidere, e passi; ma se davvero è onestà onestà non gli capiterà mai di essere sospettata di avere preso o dato dei soldi illeciti.

E così, nell’ilarità generale, Grillo è finito anche lui alla gogna. Tanto che tutti i giornali italiani, salvo uno, ieri hanno dedicato a Grillo il titolo di apertura della prima pagina. Come fanno da molti anni ogni volta che un politico prende una stangata da un sostituto procuratore allegro e baldanzoso. Salvo uno, dicevamo. Indovinate quale? Eh già, proprio lui: Il Fatto del fido Travaglio. Il quale per la prima volta nella sua storia – dieci anni di storia – ha ridimensionato la notizia e ha deciso che era una notizietta da dare in prima in un trafiletto piccolo piccolo. E questo, naturalmente ha aumentato l’ilarità generale. Perché poi è così: è giusto, quando un povero epuratore finisce epurato (Nenni aveva previsto tutto) e un fustigatore fustigato, e un savonarola savonarolato, non fare i maramaldi e difenderlo, come vanno difesi tutti quelli che finiscono sotto le manganellate dei Pm. Però, ridere un po’ è lecito. Di Grillo? Sì, certo, di Grillo, ma più ancora del suo scudiero che dirige il Fatto. Il Gaglioffo

Elvira Lucia Evangelista passa con Renzi: «M5S giustizialista con gli altri e garantista con Grillo». Il Dubbio il 20 gennaio 2022.  

La senatrice Elvira Lucia Evangelista commenta il suo passaggio con Matteo Renzi. «Il M5S con Beppe Grillo si è improvvisamente riscoperto garantista»

«Ho deciso di aderire a Italia Viva per una sofferenza che provavo dentro il Movimento a causa di una linea politica che non poteva appartenermi: la mia formazione giuridica, da avvocato, mi porta a valutare le questioni avendo come faro la Costituzione, che è garantista, non giustizialista. Il partito di Matteo Renzi non poteva quindi che essere il mio naturale approdo». Così in una nota la senatrice Elvira Lucia Evangelista, commentando la sua adesione al gruppo Italia Viva.

«Sia nel mio ruolo di membro della Giunta per le elezioni e le immunità che in quello di membro della Commissione Giustizia, ho provato più volte disagio per quella doppia morale che contraddistingue il M5S in merito alle questioni giudiziarie. Basti osservare l’atteggiamento tenuto sull’indagine che riguarda Beppe Grillo, dove improvvisamente si sono riscoperti garantisti…», conclude Evangelista.

Marino sbatte la porta in faccia a Grillo: «Inchiesta poco chiaro, me ne vado». Bernardo Marino lascia il M5S, attaccando il Movimento fondato da Beppe Grillo: «Passo al Gruppo misto, abbiamo completamente perso la bussola». Il Dubbio il 21 gennaio 2022.

Bernardo Marino, deputato che ieri ha ufficializzato il suo passaggio dal M5s al gruppo Misto, intervistato da “Il Corriere della Sera“, parla dell’inchiesta che ha coinvolto anche il garante del M5s: «Ha fatto emergere aspetti poco chiari. Io non ho mai ricevuto una pressione. Ma, senza fare polemica alcuna con i colleghi, ho deciso di fare un passo indietro: ho lasciato tutte le chat e dato l’addio al M5S».

«Nel 2018, quando sono stato eletto deputato, avevo in testa una sacrosanta missione: migliorare la qualità del servizio dei traghetti per i sardi verso la penisola – racconta il parlamentare sardo – la cosiddetta “continuità territoriale”, che proprio a causa del monopolio del servizio in mano a Onorato ci ha costretto per anni a viaggiare su vere e proprie “carrette del mare”. Avevo presentato una proposta di legge per assegnare il servizio con una gara europea, perché lo Stato erogava a Onorato 72 milioni l’anno di sovvenzioni, per avere poi un servizio disastroso. Una battaglia che purtroppo, finora, abbiamo perso».

«Per adesso passerò al gruppo Misto. Sarò anche più libero di decidere chi votare per il Quirinale. Ho deciso l’addio perché non vedo più una strada politica nel Movimento: abbiamo completamente perso la bussola. La trasformazione dei Cinque stelle non si è compiuta. Le nomine per gestire le varie aree tematiche e la riorganizzazione sui territori sono state calate dall’altro, con criteri a dir poco non chiari», conclude.

Da “Libero quotidiano” il 2 gennaio 2022.  Una beffa. I Cinquestelle che hanno appena votato, contro il loro stesso Dna, per poter ottenere i fondi del 2 per mille, rischiano comunque di non ottenere quei soldi perché il Movimento non risulta iscritto al registro nazionale dei partiti. Ricapitolando: lo scorso 30 novembre il M5S aveva chiesto ai propri iscritti di esprimersi sulla possibilità di incassare il 2 per mille attraverso le dichiarazioni dei redditi dei cittadini, in quella che era stata interpretata come una svolta per il partito, dato che a lungo era stato contrario a ogni forma di sostegno pubblico ai partiti. Gli iscritti si erano espressi a favore di questa possibilità, ma adesso una commissione del Parlamento ha stabilito che i grillini non potranno ricevere i fondi del 2 per mille, perché non iscritti al registro nazionale dei partiti come stabilito dal decreto legge numero 149 del 2013. A deciderlo è stata la Commissione di garanzia degli statuti e per la trasparenza e il controllo dei rendiconti dei partiti politici il 23 dicembre, con una delibera in cui sono state respinte anche le richieste di altri partiti, come Coraggio Italia. L'eventualità che il Movimento 5 Stelle non potesse ricevere il 2 per mille non era però inaspettata: già il 28 novembre il Fatto Quotidiano, house organ grillino, aveva scritto che «bene che vada, il M5S potrà accedere al 2 per mille non prima del 2023». Il motivo è che ci vuole tempo. Soprattutto per svolte epocali come questa.

Beppe Grillo indagato? Nel mirino anche Luigi Di Maio: quegli incontri sospetti. Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2022.

La linea politica dei Cinquestelle sta prendendo la piega più oscena: è arrivato il tempo del cannibalismo. Come le tribù della Papua Nuova Guinea, gli ultimi superstiti del Movimento iniziano a nutrirsi dei propri feriti per sopravvivere. Nessuna pietà, neppure se a terra ad agonizzare c'è una preda indigesta: il Fondatore, Beppe Grillo. Ancora prima di leggere le novità sul caso Onorato uscite ieri pomeriggio (il comico nelle chat suggeriva a ministri e parlamentari di "trattare bene" l'armatore che lo aveva messo a libro paga) sono partite le coltellate alla schiena del Garante plurindagato.

Sono stati proprio i vecchi amici del Fatto Quotidiano i primi a stroncarlo e a definirlo semplicemente "indifendibile" in un commento di Marco Lillo. Da notare: Marco Travaglio nella faida tra Conte e Grillo si è schierato con il primo, senza risparmiare bastonate al Creatore. Una simile ferocia però colpisce, da parte del giornale più vicino al partito degli Onesti. La ricostruzione del Fatto: il comico ha accettato soldi - 240mila euro in due anni dal proprietario della Moby per scrivere sul blog alcuni articoli e appoggiare le campagne di Onorato. E a prescindere dalla liceità dell'operazione resta un problema: «Se un politico si fa pagare da un armatore e perora i suoi interessi si trasforma in un lobbista».

E a spulciare i conti della Beppegrillo Srl, si scopre che la società avrebbe fatto molta più fatica a stare a galla senza questi rapporti. Insomma, il Garante s' è messo a pubblicare marchette a dir poco imbarazzanti per denaro («Vincenzo Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi», scriveva senza risparmiar saliva). A questo aggiungiamo: nell'operazione aveva coinvolto anche Di Maio, come dimostrano alcuni degli articoli: «A Febbraio ho partecipato con Luigi di Maio all'incontro con l'associazione no profit "Marittimi per il Futuro" a Torre del Greco, perché credo fortemente che i diritti dei lavoratori vengano prima di ogni cosa».

Così nelle chat dei grillini emergono altre considerazioni preoccupanti, per loro. Quanto successo rischia di gettare un'ombra su tante battaglie pentastellate. Qualcuno potrebbe mettersi a ragionare su altri innamoramenti e passioni di Beppe, per esempio quella per la Cina. La linea difensiva scelta da alcuni senatori, ovvero il tentativo di qualificare Grillo come un privato cittadino esterno al Movimento, fa sorridere. «Da quando il M5S è in Parlamento, Grillo non ha mai messo bocca neanche su mezzo emendamento», hanno scritto mercoledì i parlamentari delle commissioni Lavori Pubblici e Trasporti. Spiegare agli elettori che i grillini non c'entrano con Grillo sarà però un'impresa ardua.

La barca affonda e due parlamentari ieri hanno annunciato l'addio. Uno è il deputato Bernardo Marino, che conferma che il suo problema con i Cinquestelle è rappresentato proprio dal caso Moby: «Sono entrato in Commissione trasporti proprio per il problema della continuità territoriale e della convenzione con Onorato. Ritrovarsi in questa situazione ti lascia con l'amaro in bocca». La seconda è la senatrice Elvira Evangelista, che ha scritto un curioso messaggio d'addio: «La linea del Movimento non poteva appartenermi. La mia formazione giuridica, da avvocato, mi porta ad avere come faro la Costituzione, che non è giustizialista». L'onorevole si sarebbe accorta solo ora che i grillini non sono esattamente dei garantisti. Roba da cannibali.  

Quando Barrile, due mesi fa, viene annunciata quale prossimo Direttore Generale, la sua biografia viene accuratamente ripulita da esperienze sdrucciolevoli. Anche se la sforbiciata poi si nota. Per quale ragione sul sito di Confagricoltura sono stati sbianchettati gli anni di lavoro della prossima Dg al servizio di Vincenzo Onorato? Una cautela preventiva? Stiamo parlando di una delle figure di maggior fiducia del patron di Moby. La sensibilità del numero uno di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, d’altro canto, è sempre stata attenta al dialogo con la politica. E decisamente sintonica con i Cinque Stelle. Basti ricordare che quando il grillino Stefano Patuanelli è diventato ministro dell’Agricoltura, il tifo da stadio di Confagricoltura ha sfidato il rischio di esagerare i toni: «La persona giusta al posto giusto», aveva detto subito Giansanti. Confagricoltura segue, insieme a Coldiretti, tutte le dinamiche del mondo del tabacco in Italia, di cui Philip Morris è big player per antonomasia. A capo della comunicazione di Philip Morris è stato, anche lui fino all’aprile 2019, Francesco Luti, marito della Barrile. Eccoli, i vasi comunicanti di quella simbiosi che lega tra loro Moby e Grillo, Philip Morris e Casaleggio.

Luti oggi è capo della comunicazione di IGT, la International Game Technology, PLC (in precedenza Lottomatica Group S.p.A). Barrile e Luti hanno percorsi professionali paralleli, ed insieme hanno diretto le strategie di relazione e di comunicazione esterna di brand che nello stesso periodo hanno avuto verso la galassia di Grillo le stesse simpatie ed attenzioni, oggi finite sotto la lente degli inquirenti. Grillo, sempre secondo l’accusa, gira i messaggi di Onorato ai politici M5S che occupavano ruoli chiave come l’ex titolare dei Trasporti Danilo Toninelli, l’ex ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e l’allora suo vice Stefano Buffagni, tutti non indagati. È il Mise, ad aprile 2020, ad autorizzare i commissari straordinari di Tirrenia a sottoscrivere l’accordo con la Cin, controllata del gruppo Moby. Qualche mese dopo c’è il rinnovo della convenzione fra lo Stato e la compagnia di navigazione.

La vicenda non rimane senza conseguenze politiche e segna l’inizio di un fuggi fuggi dall’esito imprevedibile. Il deputato Bernardo Marino rilegge le notizie, mette insieme le vicende Philip Morris, Venezuela e Moby, poi apre il portatile e detta una mail al suo capogruppo: «Considerami fuori». È il primo di una nuova serie di abbandoni. «Se lascio il M5S per la vicenda Grillo? Lo faccio per una serie di motivi, l’indagine che riguarda Beppe è uno di questi ma non l’unico». Il parlamentare sardo, promotore di una proposta di legge per ‘arginare’ i progetti di Moby sulle rotte per la Sardegna, non nasconde la sua delusione: «Sono entrato in Commissione trasporti proprio con questo obiettivo, in Sardegna abbiamo sempre avuto il problema della continuità territoriale e della convenzione con Onorato. Ritrovarsi in questa situazione, in cui si parla di pressioni di questo genere da parte di una persona che ha sempre avuto il monopolio, ti lascia con l’amaro in bocca».

Anche l’ex senatrice grillina Elvira Lucia Evangelista ha fatto sapere ieri che dopo aver lasciato il M5S ha deciso di unirsi al partito di Matteo Renzi, che aumenta così anche la sua forza negoziale a Palazzo Madama. Il bello deve ancora venire. Le attività di analisi dei tabulati e delle chat sono in corso e le sorprese non mancheranno: dal telefono intestato a Annamaria Barrile – individuato tra tanti come avente interesse probatorio – si diramerebbe una fitta rete di contatti con personaggi-chiave della galassia dei finanziatori grillini. Nomi che tornano, si sommano e si intrecciano in una osmosi dentro alla quale sarà bene guardare con attenzione.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Beppe Grillo, perché fa bene ad essere preoccupato: qual è la vera tegola in arrivo sul comico. Pieremilio Sammarco, Ordinario di Diritto Comparato, su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2022

L'indagine penale nei confronti di Beppe Grillo e Davide Casaleggio porta alla luce alcune anomalie genetiche che il Movimento 5 stelle reca con sé sin dalla sua origine. Leggendo gli stralci del provvedimento emesso dalla Procura di Milano, le società dei fondatori del Movimento 5 stelle avrebbero operato una mediazione illecita «veicolata a parlamentari in carica in quanto finalizzata a orientare l'azione pubblica dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby». Oltre all'ipotizzato reato di traffico di influenze illecite a carico di Grillo, Casaleggio e Onorato, il collegamento così stretto tra le società dei due fondatori del M5s e il gruppo Moby pone al centro del dibattito anche un altro rilevante tema troppo spesso sottovalutato: quello delle nuove forme di rappresentanza e partecipazione alla vita politica da parte di società a scopo di lucro, nonché, più in particolare, sul condizionamento delle dinamiche democratiche che può derivare da soggetti estranei ai partiti ma ad essi in qualche modo collegati. 

E proprio quest' ultimo aspetto, vale a dire lo stretto legame tra partito e società di capitali è significativo, perché se intercorrono tra questi soggetti flussi finanziari, si crea un corto circuito che ha rilievo penale. La Corte di Cassazione (sentenza 28796/2020) per il caso della Fondazione Open ha precisato che vi è il reato di finanziamento illecito quando il denaro arriva al partito anche in forma indiretta, come nel caso in cui un contributo venga elargito ad una persona fisica o altro soggetto privato, quale è una società. E quando vi è una concreta simbiosi operativa tra il partito politico ed il soggetto privato (sia esso una società o una fondazione), quest' ultimo viene considerato alternativamente o un posticcio schermo intermedio tra il finanziatore ed il partito, o un'articolazione del partito politico, cioè una sua organica derivazione. Infatti, le articolazioni di un partito politico sono da intendersi non solo le strutture che un partito contempli formalmente nello statuto come propria compagine organizzativa, ma anche quegli enti, tra cui le fondazioni o società, che, a prescindere dalla loro veste giuridica, si pongono stabilmente al servizio del partito, circostanza da verificare in concreto alla luce di un'analisi delle modalità operative dell'ente, dell'attività svolta, nonché dei flussi finanziari in entrata e in uscita. E proprio per salvaguardare il principio di trasparenza patrimoniale dei partiti, la legge 195/1974 sanziona come delitto di finanziamento illecito l'erogazione di somme di denaro o di contributi (corrisposti o ricevuti) sotto qualsiasi forma, diretta o indiretta, da parte di società in favore di partiti o loro articolazioni politico-organizzative. E la pena della reclusione va da 6 mesi a 4 anni. Un'altra possibile tegola per Grillo e company. Pieremilio Sammarco

L'indagine su Grillo e lo scandalo 5s del tabacco. Grillo indagato: tra Moby e Philip Morris i panni sporchi si ‘lavavano’ in famiglia…Aldo Torchiaro su Il Riformista il 21 Gennaio 2022. 

Fari accesi sui traghetti Moby: dietro al traffico di passeggeri ci sarebbe stato, secondo la Procura di Milano, un gran traffico di influenze illecite, con versamenti di denaro a Beppe Grillo e alla Casaleggio Associati (non indagata). Dazioni dalle finalità poco chiare, come quelle che altre indagini hanno evidenziato da parte di altri soggetti: Philip Morris, ad esempio. Il Riformista ha scoperto che esiste una linea di comunicazione sottocoperta che unisce, in un gioco di vasi comunicanti, Moby Spa e Philip Morris. C’è un cellulare, tra quelli sequestrati nell’ambito dell’indagine, che continua a parlare anche da spento e che ad ascoltarlo bene potrebbe portare lontano. Quello di Grillo, no. Quello non si tocca: “scotta”.

Il cellulare di Grillo non si tocca: scotta, nel senso che gli inquirenti hanno per ora deciso di non metterci mano. Un timore reverenziale? Si fa evidente la scelta della Procura, ben descritta dal Corriere: «Così come non si è azzardata a cercare chat su apparecchi di deputati 5 Stelle tutelati dalle garanzie parlamentari, ha rinunciato anche al telefonino del fondatore ed ex capo politico e poi garante dei 5 Stelle: forse per minimizzare le intrusioni nella privacy e sterilizzare le polemiche che sarebbero nate dall’acquisizione di un cellulare «sensibile», dove è ovvio che sarebbero state presenti tutta una serie di chat ad esempio sulle dinamiche interne del Movimento, sui rapporti altalenanti tra Grillo e l’ex premier Conte, sugli attuali posizionamenti dei 5 Stelle in vista del voto per il Quirinale». Un riguardo istituzionale, quindi. Malgrado ieri gli inquirenti abbiano reso note le chat: «Questo dobbiamo trattarlo bene», era il tenore dei messaggi che Beppe Grillo aveva indirizzato ai parlamentari più direttamente coinvolti nelle questioni legate alle concessioni delle tratte e alle norme sugli sgravi fiscali nel settore del trasporto marittimo.

Una indicazione che suona come un ordine, per di più impartito dal padre-padrone di un partito-azienda registrato a nome di due soci. Ma il cellulare di Beppe Grillo resta intoccabile. «Meno male, si afferma per stavolta un principio di civiltà giuridica», fa notare Matteo Renzi. Quando indagarono su Open la sensibilità dei magistrati fu ben diversa. In ogni caso qualche telefono viene analizzato. Annamaria Barrile, che per Moby Spa era responsabile delle Relazioni Esterne, subisce la perquisizione dei finanzieri e il suo cellulare viene sequestrato. La donna, 46 anni, è l’attuale vice direttore generale di Confagricoltura, dove è entrata nell’ottobre 2019, mantenendo lo stesso ruolo che rivestiva in Moby per Onorato. La confederazione degli agricoltori le aveva riservato grandi fasti, lanciato fior di comunicati sulla prima donna in posizione di vertice apicale, con una operazione di Cv washing alla carbonara.

·        Son Comunisti…

Francesco Curridori per il Giornale il 12 ottobre 2022.

I l M5S «vede» il Pd. La distanza tra i due partiti, secondo l'ultimo sondaggio Swg, è di appena mezzo punto percentuale (17,5 i dem e 17 i grillini) e, ora, Giuseppe Conte punta a diventare il leader dell'intera opposizione e strizza l'occhio alla sinistra radicale occupando le piazze pacifiste. 

L'ex premier, in più occasioni, ha promosso una manifestazione per la pace senza bandiere di partito, ma non ha ancora ufficialmente aderito a nessuna iniziativa. Enrico Letta, che probabilmente sente il fiato sul collo del M5S, è corso ai ripari organizzando per domani un sit-in davanti all'ambasciata russa. Andrea Orlando, invece, ha annunciato la sua partecipazione all'evento dell'Arci previsto per metà novembre, mentre l'ex deputato Filippo Sensi ne invoca già una terza. Un corto circuito del Pd, spaccato in tre, che potrebbe favorire Conte. 

La sinistra radicale, infatti, ha organizzato per il prossimo 22 ottobre un'assemblea «con l'intento di costituire una rete di persone che hanno provenienza di sinistra e ambientalista per definire un rapporto politico col M5S e per rafforzarne il profilo progressista», spiega l'ex parlamentare Stefano Fassina. D'altronde, l'ex premier, quando ha guidato il governo giallorosso, ha portato avanti politiche di sinistra. 

«Ha resisto alla richiesta di fare ricorso al Mes che veniva anche dalla sua maggioranza e ha promosso il blocco dei licenziamenti durante la pandemia», ricorda l'ex vicepremier all'Economia del governo Letta che aggiunge: «Ha fatto cose di sinistra anche durante il suo primo governo come il decreto dignità e il reddito di cittadinanza e, ora, ha proposto un'iniziativa per la pace e la diplomazia che nessun altro leader politico sta portando avanti».

Il verde Paolo Cento, anch' egli tra gli organizzatori dell'evento, crede che Giuseppe Conte «possa rappresentare il riferimento con cui riorganizzare un campo progressista ed ecologista, non ideologico, caratterizzata dalla protezione delle fasce sociali più deboli». 

Secondo l'ex parlamentare verde «la novità delle ultime elezioni è la fine della centralità solo del Pd e, ora, in campo, ci sono due soggetti elettoralmente equivalenti». Per il sondaggista Federico Benini è possibile che Conte sfrutti i mesi che il Pd dedicherà alla fase congressuale per lanciare la sua Opa verso la sinistra. 

«Se nei prossimi mesi gli elettori del Pd non troveranno risposte sui temi di sinistra, Conte potrà cannibalizzare ancora di più quello spazio politico», spiega il fondatore di Winpoll. Una tesi condivisa anche dal politologo Lorenzo Castellani della Luiss che azzarda: «Conte può aspirare a diventare il Melenchon italiano perché rappresenta una calamita per tutti i movimenti a sinistra del Pd, ma anche per la sinistra del Pd che continua a guardare a lui con grande interesse».

Un paragone che, per Fassina, non è fuori luogo perché le basi elettorali del M5s e dell'Unione popolare francese sono simili. Il M5s è il primo partito tra i disoccupati e i precari, mentre se la gioca alla pari con Fratelli d'Italia tra gli operai. Se il Pd continuerà ad essere «scoperto» sul fronte sinistro rischierà maggiormente di essere sorpassato da Conte e dal M5S. Anche figure come Elly Schlein potrebbero non essere adeguate al ruolo di segretaria del Pd. 

«Lei spiega Castellani - è considerata vicina alla sinistra Ztl, ambientalista e dei diritti civili incapace di sfidare Conte sui temi sociali». Se i democratici si chiudono sempre più, allora il leader del M5S può davvero prendersi la leadership del futuro centrosinistra. A tal proposito, il sondaggista Bonini, però, avverte: «Il problema principale di Conte è riuscire a sfondare nel Nord. 

Se vorrà diventare veramente un leader dovrà tirar fuori anche i temi cari al popolo del Nord e che sono mancati in campagna elettorale di Conte».

Promemoria per la Cgil. Conte abbraccia la Cgil ma non ricorda che i 5 Stelle erano nati per distruggere i sindacati…Michele Prospero su Il Riformista l'11 Ottobre 2022 

Ormai ovunque si raduni una folla è quasi certo che arriverà Conte a fare qualche selfie e stringere una mano. E però che il capo politico dei 5 Stelle si presenti nella piazza della Cgil rimane un (piccolo) avvenimento. Il non-partito fu infatti ideato da un imprenditore che modellava il partito-piattaforma come una sua cosa privata e da un comico che intendeva tagliare “i vecchi privilegi e le incrostazioni di potere del sindacato”.

Il bello della politica ridotta a pura comunicazione è che il chiacchiericcio che si presenta a flusso continuo cancella la memoria di cose appena dette. Evapora il principio di non contraddizione. E nessuno più a Corso Italia ricorda cosa sosteneva il M5S sul sindacato. Quando era ancora una esponente di rilievo dei grillini, Roberta Lombardi (che peraltro vedeva nel fascismo “un altissimo senso dello Stato e della famiglia”, una bella “dimensione nazionale di comunità”) chiedeva con determinazione l’abolizione dei sindacati, da lei dipinti come dei “grumi di potere che mercanteggiano soldi”. La convinzione profonda del non-partito in tema di relazioni industriali era così scolpita da un inequivocabile motto di Grillo: “Voglio uno Stato con le palle, eliminiamo i sindacati che sono una struttura vecchia come i partiti politici”.

La volontà di allontanare la mediazione svolta dalle confederazioni era collegata alla ripulsa della contrattazione nazionale e alla opzione per una legislazione curvata a favore della contrattazione aziendale. La “governance disintermediata” auspicata dal blog di Grillo combatteva in radice la funzione di rappresentanza dei sindacati, perché l’azienda era concepita come una omogenea dimensione di comunità nella quale non poteva entrare alcun segno di un conflitto di classe. “Classe”, che parola diabolica. Quando domenica in Tv Gianni Cuperlo l’ha evocata come concetto chiave per interpretare la tarda modernità, poco ci mancava che Rosy Bindi reagisse con il segno della croce.

Il populismo, che sta evolvendo in una salsa progressista, preferisce parlare di “diseguaglianze”, ma guai a fare come il mefistofelico Cuperlo, che osa parlare della persistenza di una organizzazione “di classe” della società. E’ più semplice per tutti i “progressisti” riempirsi la bocca con una categoria alternativa, e aconflittuale, così elastica che sembra fatta apposta per non vedere le classi come fenomeno di esclusione, precarietà, privatizzazione dei beni pubblici. Così contano solo i redditi o la residenza nelle odiate Ztl, e non resta che adottare, sulla base del modello 730, la rassicurante nozione di poveri come universo di esclusione e marginalità da aiutare con misure statali elargite a poteri sociali invariati.

Anche quando gli operai votavano in massa per Grillo o Salvini, il nemico per i populisti era la “casta” del sindacato. L’allora “capo politico” del Movimento, Di Maio, invocava “un paese competitivo” e per questo intimava: “I sindacati? O si riformano o ci pensiamo noi”. Il governo gialloverde adottava una “manovra choc” per ridurre il costo del lavoro e favorire le imprese, qualcuno proponeva anche di licenziare i dipendenti di migliaia di enti inutili. Conte era il garante di un contratto di governo che prometteva, con le parole del suo vice Di Maio, un “programma choc alla Trump: meno tasse alle imprese”, anzi “la riforma fiscale di Trump andrebbe copiata”, si faranno “grandi cose”.

Nell’80% del programma elettorale realizzato, cifra di cui Conte (che ne fu il Presidente del Consiglio “esecutore”) ancora tanto si vanta, c’è anche il reperimento delle risorse estratte dal lavoro e poi elargite a favore dei ricchi (con lo stesso reddito, il dipendente paga quasi il 45% di tasse alla fonte, l’autonomo o l’imprenditore cede solo il 15). Le risorse dirottate in maniera improduttiva dai governi della stagnazione verso i bonus o le agevolazioni fiscali non recuperano gli spazi necessari per sostenere politiche di cittadinanza. Il vero ritorno dello Stato come attore di innovazione e di inclusione sociale passa attraverso politiche industriali, il rilancio della sanità, della scuola, dei servizi, dell’amministrazione.

Da anni il Censis fotografa nei suoi rapporti una elevata propensione del voto dei ceti operai verso i sovranisti e i populisti. Agisce nelle coscienze una passione per il culto dell’uomo forte da vedere solo al comando, in una ubriacatura per le semplificazioni drastiche ordinate dal “martello del dittatore”, come direbbe Gramsci. La crisi dei soggetti della rappresentanza (politica e sociale) determina nel largo corpo elettorale suggestioni per la “velocità” eccezionale promessa dal decisore percepito come un essere baciato dal dono carismatico.

Nelle fasi critiche si assiste ai cedimenti dell’opinione pubblica, sedotta da politiche emozionali e infatuata per il richiamo delle simbologie regressive che, con le strategie eccitanti di media e “stampa gialla”, preparano “colpi di mano elettorali”. Secondo Gramsci, nelle scivolose crisi di sistema gli “organismi che possono impedire o limitare questo boom dell’opinione pubblica più che i partiti sono i sindacati professionali liberi”.

Il plebiscitario consenso operaio e popolare raccolto da movimenti che promettono meno tasse e più salari o pensioni, e contro il parlamentarismo acefalo accarezzano forme di democrazia autoritaria, chiama in causa l’eclissi della capacità rappresentativa del sindacato. La contrazione delle sue funzioni pubbliche non è meno grave nelle sue implicazioni di quella, ormai da tempo esplosa, dei partiti, incapaci di dare una efficace rappresentanza sociale a quelli che i Quaderni definiscono “i sedimenti di rabbia” che sempre affiorano nei tempi di crisi. Dinanzi allo smarrimento cognitivo di ceti sociali subalterni che si ritrovano regolarmente sedotti dalle narrazioni più inverosimili, occorrerebbe, secondo Gramsci, “un tirocinio della logica formale” per liberare le masse dalla contagiosa credulità prestata alle proposte di governo più contraddittorie (flat tax, bonus e superbonus per gli agiati). Quando in un sistema politico manca, come si esprime il pensatore sardo, “ogni movimento vertebrato”, con i soggetti del pluralismo sociale che appaiono incartati e inadeguati nella comprensione dei fenomeni di offuscamento delle coscienze collettive, il cammino trionfale del commissario antidemocratico con le sue “pose gladiatorie” diventa assai più rapido.

Incapaci di dare una efficace rappresentanza al lavoro, da un decennio i partiti e i sindacati hanno favorito, con i loro limiti culturali e cedimenti ideologico-organizzativi, le condizioni obiettive per l’insorgenza della crisi della democrazia. Nella loro indagine sulle “cause della catastrofe”, accanto alla condotta eccentrica dell’avversario, che alimenta con astuzia la fabbrica della “apoliticità irrequieta” della società civile e aggredisce la forma politica con la riduzione dei partiti a corruzione, scandalo, “casta” si direbbe oggi, i Quaderni sollevano anche la domanda circa la “immaturità delle forze progressive” che emerge dinanzi all’avanzata della soluzione carismatica.

Da dove ripartire dopo la sconfitta che registra l’esplicita disconnessione sentimentale tra le classi subalterne e i partiti e i sindacati della sinistra? Il discorso di Cuperlo, che riscopre la “classe” quale radice delle differenze che nascono nei rapporti sociali, è più convincente della predilezione di Bindi e dei nuovi “progressisti” per i poveri. Non ci sarebbero politiche per il lavoro, la crescita, per l’eguaglianza e i diritti fondamentali più sostanziali se, oltre alla dimensione del cittadino astratto, non si facesse un puntuale riferimento anche al corpo che lavora, all’asimmetria di potenza che nella produzione sussiste tra capitale e forza-lavoro, tra essere e avere. Nel suo Manuale di diritto privato anche un giurista cattolico come Pietro Rescigno avvertiva che, ancora nelle società industriali di oggi, “l’individuazione su basi classiste rimane il criterio che nella maniera più esatta spiega la rilevanza di situazioni che non sono status, ma nemmeno sono riducibili a situazioni isolate e momentanee nella vita delle persone”. La sinistra è la traduzione in un progetto politico delle differenze che nascono nei rapporti sociali, entro i quali la persona con la sua capacità e i suoi bisogni è ostacolata nella sua realizzazione dal principio organizzativo che rinvia al potere direttivo del capitale.

Nell’economia tecno-industriale moderna a base contrattuale esistono rapporti di dominio e di subordinazione che distinguono, nei poteri disponibili per i soggetti sociali, le figure del capitalista e del lavoratore. Aver rimosso le implicazioni più generali di questa realtà dello sfruttamento come potere dispositivo-organizzativo-selettivo, per cui il capitale decide in ultima istanza il senso della vita della persona, è alla genesi dei populismi di oggi. Queste manifestazioni di rivolta senza un progetto alternativo sorgono quando la sinistra e il sindacato rinunciano a politiche pubbliche e invocano una spartizione microcorporativa di bonus. Con la sottrazione di risorse già scarse alla fiscalità generale, i “progressisti” dimenticano il carattere costruttivo (di libertà e di diritti) del conflitto, possibile anche dentro l’universo della frantumazione e scomposizione dei produttori, delle figure sociali che ci si illude di unificare con un selfie. Michele Prospero

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 5 ottobre 2022.

Era un vecchio pallino di Giuseppe Conte, l'idea di una manifestazione «per la pace». Ne parlava quando il M5S ancora teneva un piede dentro e uno fuori dal governo. Prima della crisi, prima delle elezioni. Nel giorno del compleanno del M5S (13 candeline) l'ex premier cita San Francesco e rilancia l'idea. E fa breccia nell'ex campo largo: da Nicola Fratoianni a frange della sinistra Pd e dei cattolici dem. 

Tanti concordano, con diverse sfumature. Il leader stellato ripropone l'idea della piazza pacifista dalle colonne del quotidiano dei vescovi, Avvenire.

Il timing non è casuale: lo fa nel giorno in cui il ministro della Difesa uscente, Lorenzo Guerini, illustra al Copasir il quinto decreto sulle armi all'Ucraina. L'ex presidente del Consiglio pizzica le stesse corde della scorsa estate. «L'ossessione di una ipotetica vittoria militare sulla Russia - dice - non vale il rischio di un'escalation con ricorso all'utilizzo di armi nucleari e di affrontare una severa depressione economica da cui sarà difficile uscire». 

Dunque secondo il presidente del Movimento urge «una manifestazione, senza bandiere». Critica il decreto con cui Zelensky sospende i negoziati con la Russia. E si mette in scia alle richieste che giungono da più parti, dai territori, dal mondo cattolico. «La manifestazione - è convinto - rafforzerebbe il protagonismo dell'Italia sulla strada della diplomazia, coinvolgendo gli altri partner Ue e uscendo da questa situazione in cui l'Europa risulta non pervenuta».

Una data non c'è. Nemmeno una location, anche se probabilmente sarebbe Roma. Eppure la proposta trova consensi. Il primo endorsement, via tweet, arriva da Luigi de Magistris, capofila di Unione popolare. Si accoda Rifondazione comunista. Ma le aperture non arrivano solo dal fronte extraparlamentare, a sinistra del M5S. Al partito di Nicola Fratoianni l'idea piace. «Quando ci sono manifestazioni per la pace ci siamo sempre, purché non siano iniziative di parte», mette a verbale Elisabetta Piccolotti, della segreteria di Sinistra Italiana. «Per noi va sempre bene andare in piazza per la pace», commenta Arturo Scotto, coordinatore di Articolo 1, il partito di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza. 

Anche nel Pd si aprono spiragli.

Dice Laura Boldrini: «Ci sarò». Per l'ex presidente della Camera, «si sente la mancanza di una mobilitazione per la pace. Va rilanciata l'azione diplomatica ad alto livello, anche se Putin è un guerrafondaio. E il Pd deve esserci, non va lasciato un vuoto». Soprattutto se poi c'è il M5S a riempirlo. Per Gianni Cuperlo «qualsiasi manifestazione per la pace è auspicabile, anche se va confermato il nostro sostegno all'Ucraina. Ma il Papa non può essere lasciato da solo». 

L'ex ministro Graziano Delrio, esponente di punta dei cattolici dem, non ha dubbi: in piazza ci andrebbe di sicuro. «Sostegno alla pace e al negoziato sempre. Per questo abbiamo appoggiato gli sforzi di Draghi e Macron. E abbiamo sostenuto come gruppo Pd la manifestazione a Kiev del Movimento europeo azione nonviolenta». Altri, al Nazareno e dintorni, sono decisamente più freddi. Inquadrano la mossa come l'ennesima Opa a sinistra dei 5 Stelle. Non solo la corrente Base riformista di Guerini, che appoggia Stefano Bonaccini. «Ovviamente siamo tutti per la pace ragiona Matteo Orfini - E le manifestazioni per la pace sono sempre una cosa buona e giusta. Quanto a Conte, abbiamo avuto idee molto diverse su come la si costruisce. Consideravo le sue posizioni sul tema ambigue e discutibili. E non ho cambiato idea».

Estratto dell’articolo di Fabrizio D’Esposito per il Fatto Quotidiano il 5 ottobre 2022.

Massimo D'Alema è in partenza per l'Albania. "Collaboro con quel governo". A dicembre, poi, andrà in Messico e di lì in Brasile, dove incontrerà Lula a San Paolo. "Spero vincitore (il ballottaggio è il 30 ottobre, ndr). Mi ha detto: 'Comunque ci abbracceremo sia che vinca sia che perda'. Io sono andato a trovarlo da presidente ma anche in carcere. In fondo, sono un vecchio comunista". Presidente parliamo dell'Italia. "Già l'Italia". 

La destra ha vinto.

La destra ha preso 12 milioni di voti, gli stessi del 2018, con una forte concentrazione in FdI: un balzo in avanti compensato dal dimezzamento degli alleati. È un risultato sconvolgente, perché la maggioranza parlamentare poggia su un consenso espresso dal 28% dell'elettorato, in termini assoluti. (…)

I dirigenti del Pd hanno pensato che la fine di Draghi provocasse un'ondata popolare nel Paese, travolgesse Conte e portasse il Pd, la forza più leale a Draghi, a essere il primo partito. Io non so che rapporti abbiano i dirigenti del Pd con la società italiana. Mi domando persino dove prendano il caffè la mattina, perché il risultato ha detto esattamente l'opposto. La scena del voto è stata dominata dai due leader che hanno contrastato Draghi. La tecnocrazia evoca sempre il populismo e la vicenda Monti avrebbe dovuto vaccinare il Pd. 

La rottura con il M5S è stata irreversibile.

Un confronto era obbligatorio.

Bisognava fare punto e a capo.

Il Pd ha seguito il piffero magico dell'establishment e dei suoi giornali. Il problema è che le élite economiche e culturali del Paese, quelle che leggono i giornali, non hanno più rapporti con la realtà. Sa che mi hanno detto alcuni vecchi compagni comunisti? Questo: "Votiamo Conte perché i grandi giornali ne parlano male". 

Tutto torna. Però è saltata anche l'alleanza con Calenda e Renzi.

In questo Letta è stato fortunato. Quest' alleanza avrebbe portato Conte al 20 per cento.

Ma era una coalizione riformista.

Riformismo è ormai una parola talmente ambigua da essere diventata impronunciabile.

Detto da lei, presidente.

Il riformismo era imbrigliare il capitalismo sulla base delle esigenze sociali, un processo di graduale trasformazione in senso democratico. 

E oggi?

È imbrigliare le questioni sociali sulla base delle esigenze del capitalismo globale. 

Definizione formidabile. Alla fine Conte e i 5S sono stati la sinistra.

Vorrei ricordare che i 5S già all'inizio della legislatura avevano scelto il Pd come partner naturale, ma ci fu il diniego dell'allora leader del Pd (Renzi, ndr). Conte ha rifondato e ricollocato i 5S e il Pd ha bisogno di lui perché non intercetta più il voto popolare.

Legga qua (un'analisi dei flussi di Swg, ndr): tra chi ha difficoltà economiche il 29% ha votato Meloni, il 23 il M5S e il 14 il Pd. Il risultato dei 5S è 8 punti sopra la loro media nazionale, quello del Pd 5 sotto. Il voto dei poveri, degli operai si è polarizzato tra la destra e i 5S, il Pd ne prende davvero pochi. Ora bisogna ricomporre il campo largo e fare un lavoro profondo per riguadagnare la passione di chi non vota più. Sapendo che c'è una coalizione democratica e di centrosinistra potenzialmente maggioranza. 

Lei consiglia Conte?

Mi capita di sentire Conte, ma io non faccio più politica attiva. È un uomo che ascolta e valuta e ha anche un tratto di grande civiltà personale. Per esempio se viene a sapere che stai male ti chiama e ti chiede: "Come stai?". Qualità rara oggi. 

Il Pd è un partito morto?

Non ho la passione per il rito delle autocritiche e non sono più iscritto al Pd. Il centrosinistra sarebbe molto più forte se avessimo avuto un partito socialista e un altro di sinistra cattolica. (…) Le sembra normale che in campagna elettorale una forza di sinistra non abbia mai pronunciato la parola pace?

Paolo Bracalini per “il Giornale” il 5 maggio 2022.

La nuova direzione politica dei grillini si capisce anche dai nomi messi in cattedra da Conte per la scuola di formazione del Movimento Cinque Stelle (non si può sempre avere la fortuna di scovare per caso talenti politici quali Paola Taverna, Danilo Toninelli, Alfonso Bonafede, Virginia Raggi, meglio formarseli in casa). 

L'avvocato foggiano, consigliato da Rocco Casalino e dagli altri strateghi che lo circondano, ha capito che l'unico spazio per il M5s è a sinistra, d'altronde è l'area in cui è nato il movimento di Beppe Grillo, dunque un tentativo di tornare alle origini (e alle percentuali del passato).

Ecco infatti la svolta pacifista contro le armi, i nuovi veti contro i termovalorizzatori, le posizioni che lisciano il pelo all'elettorato anti-americano anti-Nato. Mancava però una scuola di partito, come hanno i partiti tradizionali, quelli che il M5s voleva seppellire («siete morti!» gridava Grillo ai parlamentari degli altri), salvo poi buttare nella spazzatura tutti i principi originari e trasformarsi in un partito con gli eletti inamovibili e ricandidabili, le auto blu, il finanziamento pubblico, la lottizzazione delle poltrone pubbliche, e appunto una scuola di formazione.

Questa inizierà in autunno, a coordinarla c'è l'ex sindaca di Torino Chiara Appendino, congedata senza onore dagli elettori torinesi (M5s all'8%) e che quindi, forte di questi successi, si occuperà della formazione della nuova classe dirigente grillina. Insegneranno i parlamentari M5s, gli ex ministri, gli eletti a vario titolo.

Ma Conte ha voluto mettere in campo un po' di nomi prestigiosi per un ciclo di lezioni preparatorie. Quasi tutti nomi, appunto, riconducibili alla cultura di sinistra, la direzione a cui guarda Conte per recuperare un po' dei molti voti persi dai grillini.

Tra i docenti c'è Domenico De Masi, il sociologo partenopeo già assessore di Bassolino a Napoli e già consulente del M5s (a pagamento, lui che teorizza il lavoro gratis come soluzione alla disoccupazione). Poi c'è la politologa Nadia Urbinati, membro del comitato di indirizzo della Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema; quindi ecco Gustavo Zagrebelsky, insigne costituzionalista sempre presente negli appelli degli intellettuali contro i governi di centrodestra.

Non poteva mancare Tomaso Montanari, critico d'arte di area sinistra radical-grillina-pacifista, secondo cui il ricordo delle foibe è «revanscismo fascista». Poi ci sono Daniele Lorenzi, presidente dell'Arci, Vanessa Pallucchi numero due di Legambiente, poi Pasquale Tridico, economista organico al M5s che l'ha piazzato all'Inps.

Poi, di area centrosinistra, ci sono Vincenzo Visco, ex ministro Ds, Andrea Riccardi fondatore della comunità di Sant'Egidio (candidato di Letta al Quirinale), l'ex ministro Pd Fabrizio Barca, il fondatore di Slow Food Carlo Petrini, più qualche ospite straniero tra cui il politologo Colin Crouch, teorico delle postdemocrazie e Joseph Stiglitz, premio Nobel per l'economia (nel 2013 Grillo disse che aveva contribuito a scrivere il programma del M5s, ma poi Stiglitz fece sapere che era una balla).

Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2022.

«Guai a chiamarle Frattocchie pentastellate», in memoria della scuola per i dirigenti comunisti. Eppure ecco un altro tassello che dimostra quanto il Movimento si stia strutturando come un vero e proprio partito, anche se i protagonisti, ovviamente, lo negano. E ribadiscono, come spiega un deputato, che «la scuola di formazione ha come obiettivo quello di rinnovare la classe dirigente». 

Così alle sette di sera inizia un altro step del nuovo corso dell'era Conte, con la prima di dieci lezioni destinate ai dirigenti del M5S. I posti nell'«aula» di Piazza di Pietra, nel cuore di Roma, sono 70. E il format ricorda proprio quello di un'aula universitaria.

Da una parte i docenti: il teologo Vito Mancuso e il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky. Dall'altra gli allievi. Luca Carabetta, prima legislatura nel M5S, professione ingegnere: «Non le chiamerei Frattocchie. Semmai è un percorso necessario per noi. Sarà occasione di confronto con esperti sulle principali sfide del futuro, con un focus su economia, lavoro, diritti, transizione digitale ed ecologica». 

Gianfranco Di Sarno, altro pentastellato al primo giro a Montecitorio, è già in modalità allievo: «Stimola riflessioni su importanti tematiche. Non la vedo come uno strumento negativo». Si scorgono diversi partecipanti con penna e taccuino. Giuseppe Conte si è definito «il primo degli allievi» e si accomoda in prima fila.

«In questo laboratorio lavoreremo e studieremo insieme, miglioreremo le nostre conoscenze e cureremo i nostri percorsi di crescita. Anche da presidente del Consiglio ho sempre continuato a studiare. Tutti i dossier che mi sono arrivati hanno richiesto impegno, competenza, ci mancherebbe... Sarebbe stato fortemente irresponsabile limitarsi all'imposizione delle mani». 

Al fianco dell'ex premier c'è il presidente della Camera Roberto Fico che poco prima di entrare si dice contento che «oggi si inauguri la scuola di formazione del Movimento, anche perché dobbiamo affrontare tematiche complesse».

Nelle prime file ci sono il capogruppo Davide Crippa, la presidente dei senatori Maria Domenica Castellone. E ancora: Riccardo Ricciardi, Gilda Sportiello, Giuseppe Brescia, Michele Gubitosa. Insomma, c'è tutto lo stato maggiore. Il comandamento è: «Ascoltare e imparare». Si parte. Il titolo della prima lezione è: «Etica e Politica». 

Apre i lavori Miriam Mirolla, professoressa di psicologia dell'Arte all'Accademia delle Belle Arti, che presenta Mancuso e Zagrebelsky, i docenti della prima lezione. A Mancuso il compito di spiegare il rapporto tra etica e politica attraverso la filosofia. Zagrebelsky, invece, si sofferma sull'Europa, la guerra, e i compiti della politica. «La politica - osserva - non è il luogo per cui semplicemente si galleggia. Chi solo galleggia è un'opportunista, uno che non merita di essere creduto, né tantomeno sostenuto».

A questo punto qualcuno rumoreggia e Zagreblesky si rivolge scherzosamente a Fico: «Signor Presidente, mantenga l'ordine». Quanto al conflitto in corso fra Russia e Ucraina, Zagrebelsky mette in fila due concetti utili ad ingraziarsi gli allievi pentastellati. «La ricerca della pace è il più politico fra gli obiettivi del politico». 

E ancora: «L'Europa ha senso se si differenzia». Spazio alle domande, anche se saranno solo due. Chiude Conte: «L'Unione Europea deve farsi sentire, non può identificarsi nell'Alleanza euro-atlantica». «Sono emersi tanti spunti» dirà un deputato. E un altro sorride: «Altro che uno vale uno...».

·        Beppe Grillo.

Estratto dell'articolo di Davide Milosa e Marco Franchi per “il Fatto quotidiano” il 17 novembre 2022.

Per l'armatore Vincenzo Onorato, gli sgravi fiscali rispetto a chi sui traghetti assume personale comunitario è battaglia di sopravvivenza. Il tema riguarda buona parte dell'inchiesta della Procura di Milano, che da gennaio indaga Onorato e Beppe Grillo per traffico illecito di influenze. 

Il reato, per i pm, nasce da un contratto biennale (240 mila euro) fino al 2019 tra la società del blog del fondatore del M5S e Onorato. Contratto "fittizio" e che secondo i pm rappresenterebbe il pagamento per i favori che sarebbero stati fatti da Grillo che, assecondando i desiderata di Onorato, ha allertato i suoi parlamentari (nessuno di loro è indagato).

L'inchiesta, alle battute finali, si basa anche su una catena di chat di 60 pagine tra Grillo e Onorato già contenuta negli atti dell'indagine fiorentina sulla fondazione Open riferibile all'ex premier Matteo Renzi. Fin dal 2016, il tema sgravi fiscali sta a cuore a Grillo. Il 28 luglio invia a Onorato la risposta ritenuta poco incisiva che l'allora ministro dell'Economia Padoan dà al question time dell'onorevole 5S Carla Ruocco.

E commenta: "Le facce di cazzo rispondono così". E ancora: "Così impari a dare mille euro per cena a bimbominchia". Il primo agosto Grillo gira a Onorato un appunto del vicepresidente della Camera, Luigi Di Maio: "Come promesso sono qui ad aggiornarla in merito alla sua segnalazione. Noi continueremo a vigilare affinché il tutto si svolga nel migliore dei modi. Luigi Di Maio". Il 22 novembre 2017 è Onorato che scrive a Grillo: "Visto emendamento respinto, grazie". 

Grillo: "Sono figli di puttana dobbiamo andare a governare". Nello stesso giorno, Grillo propone a Onorato la sua presenza alla manifestazione dei marittimi a Torre del Greco: "Veniamo io e Di Maio. Senza dire che ci sentiamo ok?".

[…] Il 19 luglio con Di Maio vicepremier e doppio ministro, Sviluppo economico e Lavoro, Onorato torna alla carica con Grillo: "Il decreto Dignità non si applica al settore marittimo (). Se si applicasse () 50.000 posti di lavoro. Mi dicono che a Luigi sia arrivata una proposta in questo senso. Spero non si sia persa nei corridoi dei palazzi". Due mesi dopo, il 19 settembre, Onorato torna sul tema: "Caro Comandante, non ti voglio stressare (...) mi fai incontrare Luigi?". Grillo: "Mi informo". 

La questione marittimi atterra anche sul tavolo dell'allora ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Il 12 giugno 2019 Grillo a Onorato: "Ho convinto Toninelli a occuparsi della questione a Bruxelles". E inoltra una chat del ministro: "Eccoci Beppe. Ciò che mi chiedi è già avviato. Unico dubbio è di natura politica. Onorato è amico e finanziatore di Renzi. Siamo sicuri di volerci muovere?".

Grillo: "Toninelli scrive, io ho risposto di andare avanti a Bruxelles". Onorato: "Toninelli, mi sembra che ragioni come il Pd dove hanno prevalso gli interessi delle lobby". Alla fine Onorato il 2 luglio scrive: "Con Toninelli è andata benissimo". E però il 30 luglio: "Il ministero da gennaio non ci paga più la sovvenzione (a Tirrenia, ndr). Ci devono 62 milioni! Toninelli è circondato da Giuda".

Grillo: "Ho attivato Luigi e Toninelli vediamo". Poche ore dopo, l'ex comico inoltra a Onorato una chat di Toninelli: "Prima di ferragosto la mia direzione paga. Il problema è che c'è pendenza di fronte all'Antitrust. Comunque dovrei aver risolto". 

Sempre Grillo: "Tony Nelly. Dai che non muori scornacchiato, paganooo, non trattarmi male Toninelli dai". E Onorato: "A me lui è piaciuto". La conferma arriva il 9 agosto con Onorato che scrive: "Hanno pagato".  […]

Da open.online il 17 novembre 2022.

Il fondatore del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo è indagato a Milano per traffico di influenze illecite. Nell’inchiesta ci sono i contratti pubblicitari che la compagnia di navigazione Moby di Vincenzo Onorato con il suo blog. Un accordo che prevedeva, per il 2018/2019, un compenso di 120 mila euro l’anno. E commissionava alla risorsa online di Grillo uno spot mensile con messaggi pubblicitari, contenuti redazionali e interviste a «testimonial» della Moby da far uscire anche sui social. L’inchiesta si basa anche su 60 pagine di chat tra Grillo e Onorato acquisite agli atti perché contenuti nell’indagine sulla Fondazione Open. E oggi Il Fatto Quotidiano racconta cosa c’è nelle carte.

Il 28 luglio Grillo invia a Onorato la replica dell’allora ministro dell’Economia Padoan a Carla Ruocco. E commenta: «Le facce di cazzo rispondono così». Poi: «Così impari a dare mille euro per cena a bimbominchia». Il primo agosto sempre Grillo gira un appunto di Luigi Di Maio: «Come promesso sono qui ad aggiornarla in merito alla sua segnalazione. Noi continueremo a vigilare affinché il tutto si svolga nel migliore dei modi». Successivamente Onorato ringrazia per un emendamento e Grillo replica: «Sono figli di puttana, dobbiamo andare a governare».

Il 12 giugno 2019 Grillo torna a scrivere a Onorato: «Ho convinto Toninelli a occuparsi della questione a Bruxelles». Toninelli fa notare che Onorato è amico e finanziatore di Renzi: «Siamo sicuri di volerci muovere?». Grillo fa sapere di aver risposto di andare avanti a Bruxelles. E Onorato: «Toninelli, mi sembra che ragioni come il Pd dove hanno prevalso gli interessi delle lobby». Poi cambia idea e fa sapere a Grillo che l’incontro con Toninelli è andato benissimo. Il 30 luglio c’è uno stop: il ministero non paga più la sovvenzione. La risposta di Grillo: «Ho attivato Luigi e Toninelli, vediamo». Poche ore dopo inoltra a Onorato una chat proprio di Toninelli: «Prima di ferragosto la mia direzione paga. Il problema è che c’è pendenza di fronte all’Antitrust. Comunque dovrei aver risolto». 

Il traffico di influenze

Il 9 agosto effettivamente il ministero paga. Mentre Toninelli ha annunciato di aver fatto causa a chi ha scritto che lui ha cercato di favorire il rinnovo delle concessioni di Moby. A settembre Grillo invia il contatto di Marcello Minenna per un problema che Onorato non spiega nel dettaglio. Il 24 ottobre sempre Onorato chiede a Grillo di intervenire su Unicredit che gli impedisce la vendita di due navi. Grillo gli invia il contatto di Stefano Patuanelli, allora ministro dello Sviluppo Economico. I due si sentono in alcune occasioni. Patuanelli spiega al Fatto: «Grillo mi chiamò per incontrare Onorato. Rispetto a questo mi sono interessato solo della amministrazione straordinaria come per altri casi».

La fine solitaria di Grillo: ora il burattinaio è un vecchio comico. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2022.

Addio alla modestia trasformata in valore, basta con i parlamentari come marionette. Il 74enne fondatore del Movimento Cinque Stelle non è più circondato da folle di fotografi e giornalisti quando scende a Roma

E Beppe Grillo, in tutto questo? Beppone, dove sei andato a ficcarti? Che finale triste e solitario, anche se il titolo originale del bellissimo libro di Osvaldo Soriano era Triste, solitario y final, con Philip Marlowe che, a Los Angeles, indagava sulle ragioni del declino di due comici meravigliosi come Stan Laurel e Oliver Hardy, cioè Stanlio e Ollio. Noi cronisti, qui a Roma, alla fine ce ne siamo invece un po’ fregati di Grillo. L’ultima volta che il comico genovese è sceso l’abbiamo trattato come uno Scilipoti qualsiasi. Nelle riunioni dei giornali: ah, sì, certo, poi ci sarebbe pure Grillo che incontra i gruppi parlamentari. Dove? Boh. Vabbé: ma ci mandiamo qualcuno a seguirlo o buttiamo dentro un paio di agenzie?

Così, in un pomeriggio di sole autunnale, solo un paio di annoiati fotografi appostati sotto l’hotel Forum, albergo a 5 stelle in tutti i sensi, dove invece per anni ci furono tonnare micidiali, tutti ad aspettare di veder salire in processione la sua corte dei miracoli (il povero Di Battista con i basettoni da piacione e la camicia di fuori, Di Maio -porca miseria - vestito addirittura da ministro degli Esteri, e poi gli altri, da Crimi a Fico, dalla Taverna a Bonafede). Capitava si affacciassero pure dalla suite del capo con terrazza vista sui Fori per farci, un po’ sprezzanti, ciao con la mano. Poi scendevano tronfi, in stato di ebbrezza politica, con lui avanti, una volta persino nascosto dentro un casco da astronauta, la visiera appannata, ma aveva ancora fiato per urlarci «giornalisti schifosi, cadaveri, fantasmi, piattole della società, lombrichi!».

Noi gli ridevamo in faccia perché la fine pareva ormai inevitabile. Era solo un’avventura di pericoloso populismo, la feroce eresia dell’uno vale uno, la modestia trasformata in valore, centinaia di parlamentari grillini trattati come marionette e umiliati da un burattinaio prima arrogante, poi distratto e incattivito dai guai giudiziari di famiglia.

Tutti sappiamo che Giuseppe Conte, per abilità insospettata e anche purissimo caso, lo scorso 25 settembre gli ha portato via il giocattolo inventato con quell’altro visionario di Gianroberto Casaleggio. E ora? Se vi resta voglia di Grillo, dovete andarvelo a cercare in qualche teatro. Troverete un vecchio comico, con un noioso repertorio.

Matteo Marcelli per “Avvenire” il 3 novembre 2022.

È possibile dimezzare l'utilizzo di beni e risorse assicurando energia sufficiente al nostro fabbisogno e lavorando la metà di quanto facciamo adesso? Per Beppe Grillo sì, basta praticare un po' di "parsimonia", nuova parola d'ordine del lessico pentastellato inaugurata ieri dal garante sul suo blog. Al centro del rinnovato manifesto grillino per il 2050, la parsimonia sarebbe la chiave attraverso cui ripensare l'attuale modello di produzione e realizzare una transizione equa e sostenibile entro la metà del secolo. 

Come? È lo stesso Grillo a spiegarlo: «Il segreto per arrivare felici al 2050 senza stravolgere il benessere e il pianeta è la virtù della parsimonia. A Genova la pratichiamo da secoli - scherza l'ex comico -. La parsimonia è "l'arte della giusta misura nell'uso dei beni". 

Con un po' d'intelligenza tecnologica possiamo preservare sia il benessere sia il pianeta se dimezziamo l'uso di energia, di materiali e di tempo di lavoro, ossia l'uso dei tre principali fattori che creano il benessere, ma anche pesano sulla natura. Non dobbiamo essere così maldisposti al progresso da pensare che le moderne tecnologie e i comportamenti oculati non ci permettano di dimezzare il nostro peso sulla natura».

Una visione plasmata a partire da riferimenti culturali come « Platone e Sant' Agostino», che però, spiega Grillo, «la chiamano temperanza, la prima virtù cardinale. La parsimonia, invece, è un peccato mortale nella società usa-e-getta». 

Per essere più concreti, il fondatore del M5s chiede esplicitamente che «il governo realizzi un piano trentennale per dimezzare l'uso di energia primaria da 4000 a 2000 watt in media per abitante». Questo perché «il benessere che abbiamo raggiunto può essere mantenuto o aumentato anche con la potenza media di soli 2000 watt per abitante, se usiamo tecnologie più efficienti e se adottiamo comportamenti più oculati». 

Un'idea che Grillo sostiene di aver preso in prestito da ricercatori svizzeri, i cui studi dimostrano come si possa vivere con quel limite energetico in modo soddisfacente, grazie a stili di vita più sostenibili e tecnologie adeguate. A dimezzarsi, però, non sarebbe soltanto l'energia ma anche il lavoro, «perché lavorare troppo fa male al "pianeta esterno" e al "pianeta interno"».

Riparare, riciclare, riusare sono i verbi che ricorrono più spesso nel post, nella convinzione che la strada maestra per preservare il pianeta più a lungo possibile sia l'economia circolare. Non mancano gli esempi da cui trarre ispirazione, come «il tram "ATM 1928" che circola ormai da un secolo» ed «è in servizio a Milano dal 1928». Tra l'altro con un «costo ecologico ed economico di ogni chilogrammo dei suoi materiali diviso per il numero di passeggeri trasportati in un secolo quasi irrisorio». 

Oppure «i taxi di Londra» che «circolano per mezzo secolo». Seguono poi altre indicazioni, come la manutenzione della propria automobile o la sostituzione dei soli colletti per il riutilizzo delle camicie. Parole a parte, è chiaro che si tratta di un nuovo capitolo del processo di ritorno al passato inaugurato con la campagna elettorale e confermato anche dalle parole di Giuseppe Conte. Il valore politico è l'imprimatur del garante alla strategia attuata dallo stesso presidente pentastellato, che solo la settimana scorsa, non a caso, è intervenuto all'incontro di Coordinamento 2050, la piattaforma di dialogo con il Movimento proposta dalla sinistra ecologista.

"Manifesto della parsimonia". Grillo vuole ancora la decrescita felice. Dimezzare l'energia, i materiali, il lavoro: il comico teorizza la propria idea di progresso sostenibile. Ma il "manifesto" è un mix di ambientalismo, contraddizioni e ricette no-global. Marco Leardi su Il Giornale il 3 Novembre 2022. 

"Il segreto per arrivare felici al 2050 è la virtù della parsimonia. A Genova la pratichiamo da secoli". Beppe Grillo è tornato a fare il guru. A vestire i panni del visionario con la soluzione pronta in tasca. Dopo aver indicato la linea politica ai parlamentari pentastellati, il comico ligure è salito di nuovo in cattedra e ha stilato un manifesto per esprimere la propria idea di progresso sostenibile. Lo ho ha fatto dalle pagine del suo blog, pubblicando una dissertazione sotto sotto riconducibile a un vecchio tarlo grillino: quello della decrescita felice.

Il "manifesto della parsimonia"

Dopo aver citato Platone e Sant'Agostino, forse per dare un tono a quella sua prolusione, Beppe ha iniziato a elencare i punti del proprio "Manifesto della parsimonia per il 2050". "È ora che la politica pensi in mezzi secoli! Non in mezze legislature", ha esordito, avanzando così l'auspicio di una politica abituata a ragionare a lungo termine. Peccato che i Cinque Stelle siano tra i più strenui oppositori del presidenzialismo, che secondo illustri giuristi (come Sabino Cassese) sarebbe utile proprio alla stabilità dei governi e dunque a un'ottica di una progettualità. E peccato pure che, in tempi non sospetti, siano stati proprio i pentastellati a innescare le turbolenze dalle quali è poi scaturita l'implosione del governo Draghi, con la fine anticipata della legislatura.

L'ecologismo di facciata

"Per fermare la Grande Accelerazione del degrado del pianeta dobbiamo coltivare una civiltà della parsimonia", ha ancora teorizzato Grillo, spiegando: "Con un po' d'intelligenza tecnologica possiamo preservare sia il benessere sia il pianeta se dimezziamo l’uso di energia, di materiali e di tempo di lavoro, ossia l'uso dei tre principali fattori che creano il benessere, ma anche pesano sulla natura". Da qui, un mix proposte ispirate ai dettami dell'ambientalismo e dell'ecologismo di facciata. "Il governo realizzi un piano trentennale per dimezzare l’uso di energia primaria da una potenza di 4000 a una di 2000 watt in media per abitante. Il benessere che abbiamo raggiunto può essere mantenuto o aumentato anche con la potenza media di soli 2000 watt per abitante", ha deliberato il comico genovese.

"Rivoltiamo i colletti delle camicie"

E di nuovo, sempre rivolgendosi all'esecutivo, il fondatore del Movimento ha chiesto "un piano trentennale per dimezzare gradualmente entro il 2050 l’uso di materiali dalle attuali 40 tonnellate pro capite a meno di 20". Ridurre, risparmiare, produrre di meno: ma simili teorie non ricordano l'utopistico e fallimentare miraggio della decrescita felice? "Raddoppiare la durata di un'automobile vuol dire dimezzare il numero di automobili costruite. Vuol dire spendere più soldi nella manodopera locale di manutenzione che non nei robot, nei materiali e nell’energia importati", ha proseguito Grillo, strizzando l'occhio a certi mantra del mondo no-global. Non poteva poi mancare il vecchio consiglio della nonna, rivisitato il chiave ideologica: "Invece di buttare via le camicie quando il solo colletto è usurato, dobbiamo tornare a far rivoltare o a cambiare i colletti, come abbiamo fatto per secoli. E dobbiamo poter fare riparare molte altre cose, non solo le camicie, con vantaggio ecologico, economico e per la manodopera e la finanza locali".

"Lavorare meno": le ideologie e la realtà

A proposito di riciclo, Grillo ha poi riproposto una sua vecchia ricetta: quella del lavorare meno. "Il governo realizzi un piano per dimezzare gradualmente e a tappe il tempo dedicato in una vita al lavoro retribuito dalle 70.000 ore attuali a 35.000 ore. Perché? Perché lavorare troppo fa male al 'pianeta esterno' e al 'pianeta interno'", ha scritto il comico, talmente visionario da aver forse perso di vista l'attualissimo tema della disoccupazione in Italia. Del resto, come si fa a lavorare meno quando il lavoro non c'è o è già di per sé precario? Tanta retorica, tante elucubrazioni; poi dietro l'angolo ecco spuntare la realtà.

Il fondatore incontra i parlamentari nella Capitale. Grillo incontra i parlamentari 5S e batte cassa: “Il mio contratto di consulenza non si tocca”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Beppe Grillo è ripartito ieri sera da Roma dove era venuto ad incontrare Giuseppe Conte e – quel che più aveva a cuore – i nuovi gruppi parlamentari. Curiosamente, la sua visita nella Capitale coincide con il più grande evento della lobby del tabacco. Ma andiamo con ordine: la 24 ore romana del Garante è trascorsa tra l’hotel Forum e Montecitorio. A cena con Conte, a quanto si apprende, gli avrebbe fatto capire che sull’accordo per i 300 mila euro annui dai Gruppi, a tanto ammonta la sua consulenza di comunicazione strategica, non è disposto a rinunciare. E anzi, ieri ha voluto marcare il territorio e stringere le mani dei deputati e dei senatori.

Uno a uno. “Chiamami”, “Sentiamoci”, “Scrivimi un messaggio, la sera li leggo”, dice loro. Si fa fotografare con ciascuno. Promette attenzione a tutti. Ristabilisce con i suoi parlamentari, sotto allo sguardo corrucciato di Conte, quel rapporto confidenziale che aveva avuto con i deputati (che allora si chiamavano “portavoce”) della legislatura trascorsa. I toni sono da battaglia, nel giorno della fiducia al Senato. Ma si capisce che quella tra Grillo e Conte è solo una tregua armata. Se l’avvocato del popolo vuole intestarsi l’opposizione più dura, il fondatore sembra più orientato a riconquistare il ruolo del comico mattatore. E infatti tiene a far sapere che riprenderà presto la tournée nei teatri. È sempre lui il capo del Movimento, e Grillo lo fa capire ai giornalisti senza lesinare le battute (“Volete una dichiarazione? Ecco l’Iban…”) ma l’accenno a un ragionamento lo concede, alla fine dei suoi incontri: «Se il governo dura, il Movimento può crescere sempre di più».

Grillo viene visto aggirarsi in via di Campo Marzio, dove avrebbe preso possesso per un giorno anche della sede nazionale del partito, altro tema tabù per il Movimento delle origini. A poche decine di metri, al Tempio di Adriano, una delle nomine dell’età dell’oro grillina, Marcello Minenna, presenta il libro blu dei Monopoli di Stato. È la grande convention che il mondo del tabacco aspettava. Cade solo per un caso nello stesso giorno in cui Beppe Grillo attraversa quella stessa piazza. Dei rapporti tra Philip Morris e Casaleggio abbiamo scritto per primi, due anni fa. E ieri, sempre per una coincidenza della sorte, abbiamo visto allineati i vertici di Philip Morris Italia, British American Tobacco e Japan Tobacco International nel giorno in cui l’Agenzia dei Monopoli di Minenna chiede e ottiene per il mondo del tabacco una deroga di peso. Da oggi infatti i tabaccai sono esonerati dall’obbligo di utilizzo del Pos per le transazioni che riguardano l’acquisto di prodotti da fumo: sigarette, sigari e prodotti da tabacco riscaldato possono essere venduti sempre in contanti senza incorrere in sanzioni.

Si tratta dell’unica eccezione oggi esistente alla nuova legge sul pagamento elettronico. E guarda caso, con l’insediamento del nuovo governo, ecco che il mondo del tabacco “presenta la forza”: scende a suo modo in piazza, nella piazza antistante Montecitorio. Questo incontro del “libro Blu” di Minenna si tinge di giallo. Era circolata infatti una locandina, nelle scorse settimane, con cui si invitava a partecipare a una tavola rotonda dei Monopoli in cui c’era, insieme con il presidente di Confesercenti e quello della Federazione Tabaccai, il solo Ad di Philip Morris, Marco Hannappel. Le polemiche non devono essersi fatte attendere, in materia di abuso di posizione dominante: a pochi giorni dall’evento il panel è stato cambiato in tutta fretta ed è diventato un più corale confronto tra gli attori del mercato.

Gli argomenti di chi vende tabacco non sono fumosi: le accise da regolare, le modalità di vendita dei prodotti, l’occhio opportunamente chiuso sul contante sono istanze che arrivano chiare e tonde agli interlocutori della politica. Quelli di ieri e quelli di oggi, tutti presenti nelle commissioni che decidono. E che stanno per insediarsi. È sul terreno degli interessi particolari di questo o quel settore che potrebbero verificarsi, alla prova dei fatti, convergenze insperate, perfino imprevedibili, per non scontentare troppo il mondo delle grandi aziende, delle multinazionali e delle lobby. Hannappel, Pmi, rivendica: «Noi siamo tra i grandi investitori in Italia. La nostra fabbrica esporta in 40 paesi nel mondo e impiega 35 mila persone. Le dogane lavorano con noi con una presenza in azienda giornaliera».

Ed ecco Giuseppe Conte, ieri: «L’atteggiamento serio e responsabile di chi vuole governare il Paese sarebbe quello di lavorare insieme, noi per primi, per migliorare le politiche del reddito». Poi però torna a interpretare il nuovo ruolo: «La nostra opposizione sarà implacabile», ruggisce. Ma ecco che sull’uso del contante, sulle deroghe al Pos nelle tabaccherie, si apre una stagione di intese tra destra e grillini. I parlamentari ai quali ha appena parlato il Garante, capiscono l’antifona. Quando Grillo riparte, il messaggio che lascia ai suoi è chiaro. È tornato per riprendersi il Movimento, o meglio per rendere chiaro a tutti la sua titolarità del marchio. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Da lastampa.it l'1 ottobre 2022.

Confermata la condanna in appello per il comico Beppe Grillo. La terza sezione penale della Corta d’Appello di Bari ha condannato il fondatore del Movimento 5 Stelle per diffamazione aggravata nei confronti della ex parlamentare barese del Pd Cinzia Capano. Le ragioni del dibattere sono le dichiarazioni pronunciate da Grillo durante una puntata della trasmissione Anno Zero andata in onda il 9 giugno 2011. In primo grado Grillo era stato assolto. 

In quella trasmissione Grillo parlò dell’assenza della parlamentare barese in aula in occasione del voto sulla proposta di accorpare nell’Election day il referendum sull'acqua pubblica a quello del voto per le elezioni amministrative del maggio 2011, accusando Capano (e gli altri parlamentari del Pd assenti) in sostanza di avere volutamente fatto fallire l’accorpamento per boicottare la consultazione popolare a vantaggio delle lobby della privatizzazione dell’acqua. 

Il giorno del voto, il 16 marzo 2011, Capano spiegò di essere stata assente perché ricoverata d’urgenza in ospedale a causa di un malore. Da lì la decisione di denunciare il leader comico genovese. A Grillo è stata comminata la pena del risarcimento economico del danno da definire in sede civile oltre al pagamento delle spese processuali. 

Diffamò la parlamentare barese del Pd Cinzia Capano: Beppe Grillo condannato. La accusò in tv insieme ad altri parlamentari di avere volutamente fatto fallire l’accorpamento per boicottare la consultazione popolare a vantaggio delle lobbies della privatizzazione dell’acqua. Redazione online su La Gazzetta del mezzogiorno l'01 Ottobre 2022

La terza sezione penale della Corte d’Appello di Bari ha condannato Beppe Grillo per diffamazione aggravata nei confronti della ex parlamentare barese del Pd Cinzia Capano per alcune dichiarazioni fatte dal fondatore del M5s durante la trasmissione 'Anno Zero' del 9 giugno 2011. In primo grado Grillo era stato assolto.

In quella trasmissione Grillo parlò dell’assenza della parlamentare barese in aula in occasione del voto sulla proposta di accorpare nell’Election day il referendum sull'acqua pubblica a quello amministrativo del maggio 2011, accusando Capano (e gli altri parlamentari del Pd assenti) in sostanza di avere volutamente fatto fallire l’accorpamento per boicottare la consultazione popolare a vantaggio delle lobbies della privatizzazione dell’acqua. Il giorno del voto, il 16 marzo 2011, Capano spiegò di essere stata assente perchè ricoverata d’urgenza in ospedale a causa di un malore e querelò il leader M5S. Grillo è stato condannato al risarcimento del danno da definire in sede civile e a rifondere le spese processuali.

Alessandro Trocino per il “Corriere della Sera” il 10 agosto 2022.

Erano in 339, erano giovani e forti e sono (politicamente) morti. O comunque non si sentono granché bene perché, a distanza di soli quattro anni dallo sbarco trionfale in Parlamento, il Movimento si è sfasciato, è esploso in mille frammenti, con il pianeta più importante che resiste ancora, sotto il dominio post-populista e «laburista» di Giuseppe Conte, ma ormai acefalo di buona parte della classe dirigente storica. 

Tutt' intorno, satelliti impazziti e polvere di stelle che hanno brillato per pochi anni, risucchiate fuori dall'atmosfera terrestre. Il parallelo con l'impresa tentata da Carlo Pisacane nel 1857, che da Sapri provò a innescare il processo rivoluzionario in tutto il Meridione, può sembrare azzardato, ma provare ad aprire come una scatoletta di tonno il Parlamento era già una piccola rivoluzione.

Fallita, visto che il Movimento aveva grandi prospettive palingenetiche per l'Italia e si ritrova ridotto ai minimi termini (10 per cento nei sondaggi), con alle spalle una grave sconfitta alle amministrative, una scissione dolorosa e l'idolo delle folle Alessandro «Attila» Di Battista che, chiuso nel non luogo di un'auto parcheggiata, lancia strali contro Di Maio «ducetto», contro il «sinistro» Fico e perfino contro l'«elevato», l'uomo che l'ha creato e che ha abbracciato mille volte in lacrime sul palco. Quel Beppe Grillo diventato «padre padrone», una divinità iraconda, modello Crono, che divora i suoi figli.

Ricostruire l'albero genealogico di un Movimento che non c'è più mette i brividi. In principio erano Grillo con Gianroberto Casaleggio, scomparso nel 2016. La successione con Davide, come spesso accade in queste vicende dinastiche, non ha funzionato. Tanto che l'informatico se n'è andato a giugno, sbattendo la porta: «Mio padre non riconoscerebbe questo Movimento». Sotto i due fondatori, brillavano le stelle di Di Maio e Di Battista.

Coppia perfetta perché complementare: l'incravattato con un grande futuro da democristiano e lo scamiciato, barricadero ma allergico alla pugna. Ora il primo ha fondato «Insieme per l'Italia», coccola il Pd, che accusava di orrori inenarrabili, tratta con il partito animalista per raggiungere il 3 per cento e viene chiamato da Grillo «Giggino 'a cartelletta» («aspetta di essere archiviato in qualche ministero»). Il secondo, reduce dalla Russia, prosegue in un fuoco sempre meno amico e spara veleno contro i poltronari che hanno il sedere «flaccido come la loro etica».

Poi c'era la «classe dirigente» del Movimento. Una combriccola molto eterogenea, che ci ha fatto compagnia per anni. La mannaia del tetto del secondo mandato, fatta calare da un irremovibile Beppe Grillo, ha annientato molti di loro. Il «padano» Stefano Buffagni, gran tessitore di rapporti nell'imprenditoria del nord, tornerà a fare il commercialista. L'«orsacchiotto» Vito Crimi, rimasto abbarbicato al suo ruolo di capo pro tempore per un'eternità, sarà probabilmente costretto a tornare a fare l'assistente giudiziario. E Paola Taverna? Dal suo monolocale di Torre Maura ancora lavora alla campagna elettorale, dice che si «sentirà a lungo l'eco delle mie urla» in Parlamento, ma presto potrebbe vedersi avverare il celebre sfogo di Tor Sapienza: «Io nun so' politica».

Roberto Fico prepara gli scatoloni, anche se difficilmente tornerà a commerciare in tappeti orientali, dopo Montecitorio. Danilo Toninelli non si vedrà più in Parlamento, con i pettorali a mettere a dura prova la tenuta delle camicie: lo troverete a torso nudo, mentre fa jogging lungo le sponde del Tevere, o su TikTok, dove si è trasferito a tempo pieno per fare l'influencer (14 mila follower, non male, ma deve vedersela con Khaby Lame che ne ha 142 milioni). Addio a Carlo Sibilia, che considerava «una farsa» lo sbarco sulla luna.

E ancora, a Fabiana Dadone, Davide Crippa, Federico D'Incà, Nunzia Catalfo, Riccardo Fraccaro. Perfino Alfonso Bonafede, l'avvocato che andò a pescare un ignoto Giuseppe Conte: perfidia della sorte, è stato fatto fuori proprio dal suo pupillo.

Tutti a casa, tutti disarcionati per volere di Crono-Grillo, nel nome del dilettantismo in politica (ancora l'altro giorno Conte se n'è vantato: «Non siamo professionisti della politica»). Un'ecatombe.

Tutti «zombie», inchiodati come farfalle morte nell'album digitale del loro creatore. Altri si erano già persi per strada. Il filosofo calabrese Nicola Morra, che è ancora incollato alla poltrona dell'Antimafia. Paolo Bernini, complottista e animalista, che licenziò l'assistente, colpevole di non essere vegano. Il funambolico Gianluigi Paragone, no vax e no euro, che alle elezioni potrebbe superare il 3 per cento con la sua Italexit.

Grillo l'aveva già detto nel 2012, durante il «massacrotour»: «Il futuro del Movimento è sciogliersi». Futuro vicino: qualcuno pensa che il fondatore da un momento all'altro potrebbe andarsene, portandosi via la palla e il simbolo. Ingenuità: da poco ha firmato un contratto come consulente e riceve 300 mila euro dal Movimento. La dissipatio grillina è quasi compiuta, anche se nel Paese non si è dissolto l'humus del populismo. Ci sono ancora gli scontenti, i frustrati, i malpagati. La società del rancore è ancora qui. Solo che troverà altri sfoghi, altre vie di fuga. Di Battista e Raggi, dicono, sono pronti a riprendersi il Movimento, dopo le elezioni. Bisogna vedere cosa ne resterà.

Lorenzo D' Albergo per “la Repubblica” il 10 agosto 2022.

Secondo Domenico De Masi, sociologo d'area 5S e amico di vecchia data di Beppe Grillo, non ci sono dubbi: «Il Movimento è stato dato per morto quando ha preso il 33%, figurarsi ora che è dato a poco più del 10. Gli addii di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista? La parabola del partito è ancora lunga. Ne riparleremo tra qualche anno». 

Professore, ora però c'è la fuga dei leader. È un fatto.

«Tutti i partiti nascono come movimenti. Ma non tutti riescono a compiere il salto. Guardate le Sardine. Il M5S è arrivato a conquistare un terzo dei voti. Il Pci di Berlinguer ci mise più tempo. Il Psi di Craxi non ci è mai riuscito».

I protagonisti di quel successo non ci sono più. Alessandro Di Battista pare intenzionato a lanciare una nuova creatura politica con Davide Casaleggio.

«Il padre, Gianroberto, era un visionario. Il figlio è più una reliquia che un ideologo. Non mi pare che abbia scritto nulla di rilevante. Per lanciare un nuovo movimento servono grandi visionari, eroi e delinquenti. Non ne vedo in Italia. Poi, per carità... massima stima per Di Battista e Davide Casaleggio. Ma non mi pare che possano ripetere la storia del Movimento 5 Stelle».

Insomma, non vede un nuovo Grillo nei paraggi?

«Lui e Gianroberto hanno tradotto in ironia la rabbia che un tempo avrebbe prodotto una rivoluzione. Penso all'epoca delle Brigate rosse e credo che Grillo abbia salvato l'Italia da un'ondata di violenza». 

Per Di Battista, Grillo è uno di cui non ci si può fidare più. Un «padre padrone». Per il M5S è ancora un fattore positivo o una zavorra?

«Sono un sociologo, lavoro da esterno e cerco di capire quello che succede. Grillo sarà cacciato? Può accadere. Tutti i movimenti si sono liberati dei loro padri fondatori.

Vale anche per il cristianesimo originario e per i suoi valori. A un certo punto la fase della predisposizione al martirio si è esaurita». 

E quello di Luigi Di Maio cos' è? Un martirio politico? Una fuga? Un tradimento? «Tradimento è un parolone. Lo ha usato anche Grillo. Quando due si sposano, le preferenze alla lunga possono cambiare. Di Maio è diventato presidente della Camera da ragazzino e prima ancora vendeva bibite allo stadio. Da ministro degli Esteri ha incontrato il presidente degli Stati Uniti, ha ricevuto i capi di mezzo globo. Ha appreso una visione del mondo diversa».

Come?

«Prima parlava tre volte al giorno con Grillo, poi ha iniziato a passare 12 ore al giorno a contatto con Mario Draghi. A 35 anni, davanti a un cambiamento così grosso, si può restare per sempre della stessa idea? No. L'evoluzione è stata repentina, altrimenti Di Maio non avrebbe mai abiurato i valori del 5S nel suo messaggio di addio al Movimento». 

E lei? Si candiderà?

«Ho 84 anni e sono stato io a elaborare il concetto di "ozio creativo". Se dovessi mettermi a lavorare per 10 ore al giorno nelle commissioni parlamentari, rinuncerei a tante cose strepitose. Preferisco tenere bassi i consumi».

Sostenibilità ambientale.

«Esatto». 

Giuseppe Conte non le ha chiesto di correre?

«Sì, certo. Ma gli ho spiegato i miei motivi e li ha capiti». 

Grillo padre padrone del M5S, Conte un maggiordomo. E gli zombie sfilano. Sul blog del fondatore l'album degli zombie con le figurine dei fuoriusciti. Tra i ripescati c'è la Raggi. Sì alle "Parlamentarie", la Dieni lascia. D'Incà e Crippa fondano "Ambiente 2050". CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud il 02 Agosto 2022

Il fondatore è il nuovo padre padrone del Movimento. Pubblica le fotine dei fuoriusciti mettendoli alla berlina e definendoli zombie. Una figurina sull’album come per i calciatori.  Tratta Giuseppe Conte alla stregua di un maggiordomo. Lo convoca, o sconvoca, gli nega il nome accanto al simbolo ma gli concede la mancia: il recupero in extremis di qualche veterano tanto per non farlo sentire completamente isolato. Una deroga ad personam tanto per riaffermare che in casa-Grillo le regole si fanno per aggirarle, sono uguali per tutti “salvo- eccezioni”.

Dalla linea dura sul tetto dei due mandati si passa così alla linea possibilista.   Frutto del pressing del Comitato di garanzia composto dal presidente della Camera Roberto Fico, dal questore del Senato  Laura Bottici e all’ex sindaca di Roma Virginia Raggi. L’ex comico cede su alcuni punti ma punta i piedi sulle “Parlamentarie”: entro oggi si conosceranno le regole.

Grillo potrebbe sui capilista lasciando al suo sottoposto Giuseppe Conte la possibilità di indicarli. In alcuni casi si potrebbe anche derogare al principio di territorialità. Un mantra grillino, la regola per cui ci si candida nella propria regione di residenza.  Norma mai messa in discussione prima di ora, voluta dal cofondatore Roberto Casaleggio, norma che se applicata avrebbe tagliato fuori gli ultimi  big.

VIA LIBERA PER DIBBA

Il via libera del garante genovese darebbe a Conte la possibilità di indicare  i nomi da mettere ai primi posti nei listini proporzionali. Di conseguenza le “Parlamentarie” si farebbero ma con il sistema misto. Proprio come chiede l’ex premier.

Nessuna deroga invece per il “disiscritto” Alessandro Di Battista: la regola dei 6 mesi di pre-iscrizione al Movimento non figura nel nuovo statuto ma nei regolamenti elettorali, dunque è bypassabile. Ma qui la questione è un’altra. E molto dipenderà dai rapporti tra “Giuseppi” e “Dibba”.  Con il primo che teme di finire in un secondo cono d’ombra. Servo di due padroni, come Arlecchino.

Non è un mistero che Giuseppe Conte avrebbe voluto inserire il suo nome nel logo, convinto che in questo modo avrebbe capitalizzato il consenso ricevuto nei mesi in cui da Palazzo Chigi gestì la prima ondata del Covid. Ma il tempo stringe.

Entro giovedì prossimo al massimo si dovrà chiudere la partita delle liste.  Consiglio nazionale e Comitato di garanzia spingono per imporre, come si diceva, capilista scelti dall’alto e il resto dei candidati approvati da una consultazione su SkyVote.

LASCIA IL M5S FEDERICA DIENI, VICEPRESIDENTE DEL COPASIR

Non bastassero i problemi, ecco anche le noie di carattere tecnico: vanno   eliminati dal database coloro che in queste settimane hanno lasciato il partito. L’ultima in ordine di apparizione è  Federica Dieni, deputata M5s e vicepresidente del Copasir.

«È da tempo che le decisioni che vengono prese dai vertici – ha spiegato la sua scelta la Dieni – non mi appartengono più. Erano ormai troppe le scelte non condivise a cui mi sono attenuta per mera disciplina di partito, ma che hanno determinato in me un profondo disagio interiore e uno scollamento rispetto ad un progetto in cui non posso riconoscermi. Chi ha seguito la mia azione politica – ha proseguito – sa che non ho mai nascosto il mio disaccordo riguardo a molti temi cruciali che hanno toccato questioni importanti in ambito nazionale e locale. Ho condotto le mie battaglie a viso aperto. Ho tentato, dall’interno del Movimento, di portare avanti un confronto costruttivo, ma ogni volta che ho intrapreso la via del dialogo ho trovato solo un muro». Conte non ha molti margini di trattativa. Grillo è legalmente proprietario del simbolo.

D’INCÀ E CRIPPA FONDANO AMBIENTE 2050 E VANNO CON IL PD

Un altro simbolo, di una nuova associazione politica denominata Ambiente 2050 verrà presentato oggi dal ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà e l’ex capogruppo alla Camera Davide Crippa,  entrambi in rotta per la scelta di non dare la fiducia al governo Draghi.

Troveranno un posto nelle liste del Pd. «Che vadano liberi, in pace, a cercarsi una nuova collocazione ma non ci rompano le scatole – ha reagito, irritato e sempre più solo Conte – ma ci risparmino le lacrime di coccodrillo, le giustificazioni ipocrite, le prediche farisaiche”.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai

Alessandro Sallusti contro Beppe Grillo, "risposte cretine a domande intelligenti": sì alla pace, no al suicidio. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 27 aprile 2022.

Durante i dibattiti cui partecipo, spesso sento dire agli interlocutori che la pensano diversamente da me una frase che sta diventando un mantra: «Ma insomma, sarà possibile o no porsi delle domande?». Certo che è possibile, anzi porsi domande non solo è utile ma necessario. E infatti le mie contestazioni alle loro tesi non riguardano le domande bensì le risposte che si danno, il più delle volte strampalate, retoriche o banali teorie di buoni propositi. Per esempio la domanda che ieri si è posto Beppe Grillo su come evitare la Terza Guerra mondiale è ovviamente legittima. Ma se la risposta che lui dà è: «Disarmiamoci, aboliamo i nostri eserciti come ha fatto il Costa Rica», ecco che la tragedia assume i contorni della farsa e non penso proprio che questo sia il momento di sparare castronerie.

La ricetta di Grillo è vecchia come il mondo, addirittura ci aveva pensato il buon Dio - ben prima dell'apparire dei Cinque Stelle - quando in uno slancio di malriposta fiducia nelle sue creature collocò il primo uomo, Adamo, e la prima donna, Eva, nel giardino dell'Eden perché l'umanità vivesse in armonia con se stessa e con la natura. Non aveva, il Creatore, previsto che Eva avrebbe mangiato la mela proibita e quindi la storia dell'uomo andò diversamente. Disarmare l'Italia, l'Europa, o addirittura il mondo intero, è una idea geniale che però non tiene conto del peccato originale, quindi è una stupidaggine da comico in là con gli anni. I Cinque Stelle del resto sono specialisti a dare risposte cretine a domande intelligenti. Tipo individuare nella "decrescita felice" la soluzione per le ingiustizie sociali, o nel "reddito di cittadinanza" la ricetta economica per abbattere la disoccupazione, nel "no oleodotti" la risposta immediata all'inquinamento, nel "no vaccini" l'arma per vincere la pandemia Covid. "Come mettere fine alla guerra?" è una domanda necessaria, merita risposte forti e immediate che non possono però essere rese o rinunce unilaterali né fondate sui ricatti e sulle menzogne. In attesa quindi che l'umanità rinsavisca teniamoci i nostri eserciti che non si sa mai cosa ci riserva il domani: la storia dell'uomo è disseminata di serpenti.

Grillo il Cinese. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 28 aprile 2022.  

Beppe Grillo si è schierato, finalmente. Non per la Russia, come immaginava qualche anima semplice, ma direttamente per la Cina. Da vero visionario, ha saltato i passaggi intermedi della Storia per gettarsi subito tra le braccia del futuro padrone, lubrificando il proprio blog con un soffietto imbarazzante sulle meraviglie del «pacifico» modello di globalizzazione cinese. Da contrapporre, s’ intende, a quello guerrafondaio dei sulfurei occidentali che hanno invaso l’Ucraina per interposto russo, così da poter sparare addosso ai russi per interposto ucraino. Purtroppo, il mancato apritore di scatolette di tonno, riciclatosi in collezionista di ecoballe cinesi, è già stato smentito dalla realtà. I suoi pacifici modelli di efficienza hanno sbagliato completamente strategia sul contenimento del Covid e hanno dovuto riconoscere che il loro vaccino era persino più scalcagnato dello Sputnik. Perciò adesso stanno sperimentando a Shanghai una forma piuttosto estensiva di green pass: sigillano i cittadini dentro le case, mettendo i recinti intorno agli edifici, oppure li costringono a dormire direttamente in fabbrica. Sarebbe interessante sapere che cosa ne pensano certi intellettuali nostrani, giustamente sensibili alle ragioni della libertà. Quanto al Grillo folgorato sulla via della Seta, l’unica motivazione plausibile è l’invidia per il collega ucraino. Da quando gli hanno spiegato che l’ex comico Zelensky è il fantoccio di Biden, muore dalla voglia di diventare quello di Xi Jinping.

M5S, non solo Petrocelli: il vergognoso post di Grillo. Orlando Sacchelli il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Nel suo blog Beppe Grillo torna sugli scenari geopolitici e conferma una linea filo Pechino: "La Repubblica popolare cinese sembra fornirci un approccio unico ed efficace per costruire la pace". Il post è stato scritto dal professor Fabio Massimo Parenti, che insegna alla China Foreign Affairs University di Pechino.  

Nel pieno di una grave crisi internazionale e di una guerra sanguinosa, con un paese (la Russia) che ne ha invaso un altro (l'Ucraina), la politica italiana purtroppo ancora una volta si distingue per alcune prese di posizione a dir poco bizzarre, per non dire imbarazzanti. Vito Petrocelli (M5S), presidente della Commissione Esteri del Senato, alla vigilia del 25 aprile ha pensato bene di scrivere questa frase: "Buona festa della LiberaZione". L'uso della Z maiuscola non è stata una svista, il senatore ha voluto strizzare l'occhio alla Z con cui i russi hanno deciso di firmare i propri carri armati spediti in gran numero sul territorio ucraino. Il Movimento 5 Stelle ha messo alla porta il senatore, come chiesto a gran voce da Di Maio e ribadito da Conte. Anche se non sono mancate le polemiche.

Ma ad agitare ancora di più le acque è il fondatore del M5S, Beppe Grillo. Sul suo blog cita Xi Jinping e, di fatto, esalta il modello cinese. Ecco cosa ha scritto Fabio Massimo Parenti, Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University di Pechino: "La Repubblica popolare cinese sembra fornirci un approccio unico ed efficace per costruire la pace, agendo per la stabilizzazione dei rapporti internazionali". Prima dell'articolo viene riportata una frase pronunciata da Jinping lo scorso 21 aprile: "I paesi di tutto il mondo sono come i passeggeri a bordo della stessa nave che condividono lo stesso destino. Affinché la nave resista alla tempesta e salpi verso un futuro radioso, tutti i passeggeri devono lavorare insieme. L'idea di buttare qualcuno fuori bordo è semplicemente non accettabile".

Non stupisce questa sviolinata di Grillo a Pechino. Cerca un faro che illumini il suo cammino, e dato che non crede nell'Europa né tantomeno negli Stati Uniti - e per ovvie ragioni contingenti non può abbracciare Putin (salvo la sparata di Petrocelli) - Grillo strizza l'occhio alla Cina. Non è la prima volta che il fondatore del M5S diffonde le tesi del prof. Parenti, ospitandolo sul proprio blog e rilanciandolo sui social. Per trovare la pace è indispensabile la Cina, spiega Parenti: "L'Occidente non sta investendo in piani per l'integrazione, ma sta scegliendo la corsa al riarmo, che può e deve essere assolutamente fermata". A imporre la pace, quindi, può essere solo la Cina. Senza entrare troppo nei dettagli e trascurando che la Cina è il maggior alleato di Mosca e non solo: di recente, infatti, Pechino ha avviato un potente piano di riarmo nucleare. Sempre in nome della pace. Se a farlo è l'Occidente è perché è intrinsecamente guerrafondaio, se invece è Pechino va tutto bene.

Un tempo, nei suoi show, Grillo sfasciava i computer, poi giustamente ne capì l'importanza e se ne servì per creare la sua rete e fare politica. È solo uno degli esempi dei ripensamenti del "fondatore". Del resto nella vita si può cambiare idea. Lui l'ha fatto varie volte, anche nella scelta degli alleati: mai con questo (e poi ci è andato al governo), mai con quest'altro (e giù un altro governo). Il Gattopardiano "bisogna cambiare tutto affinché nulla cambi" non l'ha inventato certo Grillo, questo si sa.

Magari un giorno si renderà conto di cosa è davvero la Cina e di come i valori dell'Occidente, tanto bistrattati, siano ancora oggi migliori di quelli di un regime liberticida che nega all'uomo il diritto stesso di pensare ed essere contro chi detiene il potere. Lo stesso "fenomeno Grillo", figlio dei "Vaffa" sparati ad alzo zero, in Cina non sarebbe mai esistito né avrebbe mai potuto durare così a lungo. Lo sanno bene quelli che ricordano Piazza Tien an Men.

Fabio Massimo Parenti  per beppegrillo.it il 27 aprile 2022.  

 “I paesi di tutto il mondo sono come i passeggeri a bordo della stessa nave che condividono lo stesso destino. Affinché la nave resista alla tempesta e salpi verso un futuro radioso, tutti i passeggeri devono lavorare insieme. L’idea di buttare qualcuno fuori bordo è semplicemente non accettabile” – Xi Jinping, 21 aprile 2022, Hainan 

Dopo un colpo ben assestato da due anni di pandemia, il mondo è ripiombato in un baratro di crisi e sfide globali simultanee. Dalla competizione geopolitica alla crisi economica, fino allo stravolgimento climatico. 

Si cerca la pace, si vuole a tutti costi la pace, ma la lancetta dell’orologio sembra essere sempre ferma sulle stesse vecchie convinzioni.

Non abbiamo altra strada se non impegnarci ogni giorno nella costruzione dell’unità del genere umano nel pieno rispetto della diversità dei popoli. L’unico obiettivo da perseguire è unire l’umanità in tutte le sue diversità. Al riguardo, la Repubblica popolare cinese sembra fornirci un approccio unico ed efficace per costruire la pace, agendo per la stabilizzazione dei rapporti internazionali. Spogliandoci dalla nostra autoreferenzialità eurocentrica, potremmo allora prendere in prestito le linee guida della politica estera di Beijing: uscire dalla logica dei blocchi, rifiutare le pratiche da nuova guerra fredda e mettere al centro il multilateralismo, il dialogo e la cooperazione. 

La Cina, con l’estensione delle nuove vie della seta a più di 140 paesi, è divenuta la principale promotrice di una globalizzazione inclusiva ed il primo polo economico mondiale senza mai indulgere ad espansione militare, guerre di invasione, strategie di “blocco”, imposizione di modelli. La pace si costruisce con gli scambi culturali, il dialogo e il commercio. Più quest’ultimo cresce, più ci saranno scambi tra persone – i vettori culturali per eccellenza – più aumenterà la conoscenza reciproca e quindi il coordinamento politico necessario alla coesistenza pacifica.

Purtroppo, l’Occidente non sta investendo in piani per l’integrazione tra popoli, paesi, economie, ma sta scegliendo la corsa al riarmo, che può e dev’essere assolutamente fermata. 

I paesi di vecchia industrializzazione teorizzano e praticano la de-globalizzazione, sulla scia degli interessi geostrategici anglosassoni ed in antitesi a quelli europei e mediterranei: separazione e fratturazione del continente euroasiatico – dove non a caso sono occorse tutte le principali guerre degli ultimi decenni – al fine di rivendicare un predominio egemonico globale, erososi ma non esauritosi del tutto. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, con le guerre commerciali, a suon di sanzioni unilaterali ed arbitrarie, perché motivate da calcolo politico-strategico e pertanto contrarie ai princìpi dei regimi commerciali e finanziari da loro stessi costruiti. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, con innumerevoli guerre di invasione, guerre per procura, cambiamenti di regime (cioè, colpi di stato), ecc. Lo hanno fatto, e continuano a farlo, aizzando minoranze, gruppi di estremisti, terroristi, usati alla bisogna.

Non controllando più la globalizzazione, i “nostri capi” preferiscono smantellarla, operando a discapito della de-escalation in Ucraina ed a danno dei civili, lanciando invettive, moniti ed insulti, tra uno slogan ed un altro. E’ chiaro che questo non sia un atteggiamento costruttivo, soprattutto in un momento che richiederebbe ben altri toni, approcci, capacità d’analisi e visione strategica nell’interesse dei popoli. 

Ciò premesso, proviamo ad inquadrare il ruolo della Cina nell’attuale crisi e l’inevitabile dialettica con gli Usa. Dopo averla quotidianamente dileggiata e provocata su qualsiasi questione internazionale ed interna, all’improvviso, molti in Occidente hanno invocato la Cina affinché svolgesse un ruolo nelle drammatiche vicende europee. Generali, analisti, giornalisti e, come detto, gli stessi Usa. Questi ultimi vorrebbero che la Cina contribuisse ad isolare la Russia, mentre favoriscono la “sirianizzazione” del conflitto in Ucraina, spingendo l’Europa sull’orlo del baratro, attraverso un’escalation sanzionatoria che tocca più noi che loro. Se la Germania e la Francia, forse, cominciano a prendere le distanze, è un segno chiaro degli errori che stiamo compiendo.

Negli ultimi settant’anni il rapporto statunitense verso Cina e Russia è stato caratterizzato da una continua alternanza tra l’uno e l’altro paese al fine di isolare l’uno o l’altro. Se nella guerra fredda gli Usa avevano portato la Cina dalla loro parte (con il duo Kissinger-Nixon), contribuendo ad isolare l’URSS, in seguito essi hanno tentato di integrare la Russia nell’orbita NATO (tra fine anni Novanta e primi anni Duemila), questa volta tentando di isolare una Cina in ascesa. Le previsioni sono state tuttavia errate e le manovre strategiche ritardatarie e mal concepite. Cina e Russia si sono avvicinate sempre di più negli ultimi venti anni. 

Gli Usa erano convinti che la Cina sarebbe andata incontro a problemi interni e che comunque avrebbe trasformato il proprio sistema politico-economico, emulandoci. Le previsioni sono state tutte fallaci e ciò che speravano non è accaduto, anzi, al contrario, la Cina ha rafforzato il proprio status economico-politico al livello mondiale, perseverando sulla strada di un modello di sviluppo autoctono di socialismo di mercato, seguendo la logica della doppia circolazione, ovverosia la combinazione dialettica tra integrazione internazionale e sviluppo domestico.

L’obiettivo degli Usa è quello di separare l’Europa dalla Russia, dandogli modo di rinvigorire la loro influenza sul vecchio continente ed acquisire più spazio di manovra in Asia. “La gara militare americana con la Cina nel Pacifico definirà il ventunesimo secolo. E la Cina sarà un avversario più formidabile di quanto lo sia mai stata la Russia”, asseriva diciassette anni fa Robert D. Kaplan (si vedano How We Would Fight China, 2005, e The One-Sided War of Ideas With China, 2021). A questo punto è possibile ipotizzare che gli Usa possano dedicarsi ulteriormente alla destabilizzazione della Cina. Almeno a parole Biden dice di non cercarla, ma viste le azioni di segno opposto messe in campo dagli Usa negli ultimi decenni, la Cina non riesce a fidarsi. Come sintetizzato da una famosa conduttrice televisiva cinese, Liu Xin, sembrerebbe che gli Usa stiano chiedendo alla Cina: “Puoi aiutarmi a combattere il tuo amico in modo che più tardi io possa concentrarmi a combatterti?”

A partire da questa contestualizzazione è possibile capire sia la persistenza delle principali contraddizioni nei rapporti tra le prime potenze economiche del mondo, sia il ruolo della Cina sulla questione ucraina. La Cina continua a suggerire di lavorare insieme per ricostruire un regime di sicurezza regionale sostenibile in Europa e nel mondo (è di questi giorni anche la proposta di una “Iniziativa sulla Sicurezza Globale”, centrata sul dialogo, la consultazione costante ed aderente ai principi della carta dell’Onu). Quindi, da questo punto di vista, la Repubblica popolare è in linea totale con quella che dovrebbe essere la priorità dell’Europa, dei suoi popoli. 

La Cina sta giocando un ruolo di relativa equidistanza e non seguirà ciecamente quel mondo “liberal-democratico” che ogni santo giorno l’ha aspramente criticata e provocata per la gestione dei suoi affari interni ed internazionali. Non c’è una soluzione facile, veloce ed a buon mercato alla risoluzione di problemi storico-politici e geostrategici accumulatisi nel tempo. In questo contesto la proposta cinese sembra essere la più equilibrata ed in linea con un approccio pacifico alle relazioni internazionali, perché tiene conto degli interessi di tutte le parti coinvolte, dando forma ad un pragmatismo orientato alla pace, più ampio, responsabile e non manicheo.

In ultima istanza, la Cina continuerà a rafforzare l’amicizia di ferro con la Russia, traendone eventualmente vantaggio a medio-breve termine, per motivi economici ed energetici, ma non potrebbe mai accettare una destabilizzazione del vicino russo, come Washington auspica, ovvero un cambio di regime. Oltre ad inviare aiuti umanitari, la Cina sta rispondendo in modo risoluto alle pressioni americane per isolare la Russia, chiedendo spiegazioni, ad esempio, sui programmi militari batteriologici in Ucraina e nel mondo, e chiedendo di non favorire, con armi, denari e attività di intelligence, un’escalation del conflitto. 

Solo con uno sforzo collettivo di inquadramento geo-storico dell’attuale crisi, su concause, corresponsabilità e tendenze strutturali di cambiamento del sistema-mondo, sarà possibile trovare soluzioni efficaci di lungo termine, al fine di evitare il riprodursi di sempre nuovi conflitti, come fossimo condannati ad una guerra fredda permanente. Tuttavia, dobbiamo volere la pace, non solo per l’Ucraina, ma per tutti i paesi e le regioni del mondo ancora vittime della iper-competitività strategica del sistema US-Nato.

Una reale pacificazione delle relazioni internazionali esige il rispetto reciproco, il dialogo, la cooperazione economica e la risoluzione delle tensioni esistenti per via esclusivamente diplomatica, rifiutando categoricamente qualsivoglia imposizione di un unico modello a tutti. A questo punto si tratterà di capire quale sarà l’entità del danno generato dalla volontà dell’Occidente di rimanere l’unico polo dominante. Indubbiamente, la crisi ucraina è un banco di prova che solleva grande preoccupazione. 

Se guardiamo alla destabilizzazione globale generata nei decenni dall’egemone in declino e dai suoi più stretti alleati, non possiamo non prendere in considerazione che un mondo più influenzato dalla Cina potrebbe essere caratterizzato da maggiore cooperazione e minore competizione. Ed il principio del rispetto reciproco tra i diversi sistemi politici, che oggi non è soddisfatto, potrebbe divenire una pietra angolare delle relazioni internazionali.

L’AUTORE. Fabio Massimo Parenti è attualmente Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University, Beijing. Ha insegnato anche in Italia, Messico, Stati Uniti e Marocco. È membro del think tank CCERRI, Zhengzhou, di EURISPES – Laboratorio BRICS e del comitato scientifico dell’Istituto Diplomatico Internazionale (IDI) a Roma. Il suo ultimo libro è “La via cinese, sfida per un futuro condiviso” (Meltemi 2021).

Ciro Grillo, via al processo per violenza sessuale. Giulia Bongiorno gioisce per la “prova regina”. Il Tempo il 16 marzo 2022.

L'udienza è stata solo 'tecnica', come viene chiamata in gergo giudiziario, ma non sono mancate le prime schermaglie, tra accusa e difesa, ma soprattutto tra la parte civile, cioè la presunta vittima della violenza sessuale, e le difese degli imputati, nel processo per stupro di gruppo a carico di Ciro Grillo e dei suoi tre amici, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, iniziato oggi davanti al Tribunale di Tempio Pausania (in provincia di Sassari). Una udienza interlocutoria - assenti i quattro imputati - nel corso della quale il Presidente della Corte, Marco Contu, che ha disposto la celebrazione del processo a porte chiuse, ha sciolto le riserve sull'ammissione delle richieste di prova e sulla lista testi, con oltre settanta persone chiamate a deporre. Alla fine ha accolto tutta la lista, o quasi.

Dovranno presentarsi in aula, nel corso delle prossime udienze, la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadijk, che la notte del presunto stupro, tra il 16 e il 17 luglio 2019, dormiva nello stesso residence a Porto Cervo, ma anche il ragazzo norvegese, David Enrique Bye Obando, citato dalla difesa degli imputati, che secondo quanto raccontato dalla ragazza agli investigatori, avrebbe abusato di lei. Anche se la giovane non lo ha mai denunciato. "Ma sarà sentito solo sui fatti riguardanti il processo e non sulle sue abitudini sessuali - tiene a sottolineare Giulia Bongiorno - dunque la sua testimonianza è stata ammessa”. Il padre del ragazzo nega la citazione: "Mio figlio non è stato convocato dalle autorità giudiziarie norvegesi, l'unica autorità di fronte alla quale è responsabile. Né ha ricevuto citazioni da altre autorità. Non ha altro da aggiungere", è stato il commento secco all'Adnkronos di Vegard Bye. 

E poi verranno sentiti, psicologi e medici legali, tra cui la psicologa che ha in cura la giovane, che nel frattempo si è trasferita all'estero, in un paese europeo dove studia. Ma la legale non nasconde la sua preoccupazione "per i tempi del processo". "Ci riteniamo soddisfatti per le decisioni del giudice ma siamo molto preoccupati per i tempi processuali", denuncia Bongiorno. E spiega: "Abbiamo fissato un calendario fino al 18 gennaio 2023 - dice la legale della giovane - considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori. Io auspico che ci sfaccia il processo in aula e non ci siano diffusioni, che io reputo molto gravi, non di notizie, ma parlo di dati e referti medici sulla mia assistita che sono stati pubblicati, anche di sue foto che permettono la sua identificazione". 

All'uscita del Tribunale parla anche uno dei legali di Ciro Grillo, l'avvocato Andrea Vernazza che difende il figlio del fondatore del M5S con il collega Enrico Grillo, cugino del comico genovese. "Oggi era superfluo che Ciro Grillo venisse", spiega ai giornalisti. "Si comincerà con i testi dell'accusa, per noi è ancora prematuro stabilire il calendario dei nostri testi. Intanto, il giudice ha calendarizzato le udienze fino al gennaio 2023", ha poi aggiunto. Ma la difesa della giovane studentessa si dice convinta che la "prova regina" del processo sia stata acquisita agli atti. "E' stata ammessa la 'prova regina' di questo processo, cioè l'hard disk con tutte le intercettazioni", dice Giulia Bongiorno, uscendo dall'aula. "In quell'hard disk c'è tutto lo scambio di messaggistica, di chat che c'è stato tra la mia assistita e altre persone, a mio avviso è una prova importante perché attesta la genuinità di quanto racconta dopo la sua esperienza. Dunque questo hard disk farà parte del patrimonio in dibattimento". La prossima udienza si terrà il 1 giugno, e poi è prevista almeno una udienza al mese, fino al gennaio 2023. I tempi si preannunciano piuttosto lunghi.

C.Gu. per “il Messaggero” il 16 marzo 2022.

In aula saranno chiamati a deporre la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjik, l'insegnante di kite surf con cui si allenò la ragazza il giorno dopo la presunta violenza e il proprietario del bed and breakfast dove alloggiavano le amiche. Sono circa settanta i testimoni convocati dal Tribunale di Tempio Pausania dove oggi prenderà il via il processo a carico di Ciro Grillo, figlio del garante del M5S, di Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. I ragazzi, che hanno 22 anni, sono accusati di violenza di gruppo: il 16 luglio 2019, dopo una serata in discoteca, nel residence in Costa Smeralda di proprietà di Beppe Grillo avrebbero stuprato una ragazza italo-norvegese di 19 anni.

Una quarantina sono i testi che compaiono nella lista depositata dal Procuratore Gregorio Capasso, che rappresenta l'accusa, circa trenta quelli del pool difensivo degli avvocati Alessandro Vaccaro per Lauria, Andrea Vernazza ed Enrico Grillo per Ciro Grillo, Ernesto Monteverde e Mariano Mameli per Capitta, Gennaro Velle e Antonella Currureddu per Corsiglia. Proprio all'ultimo il legale Romano Raimondo, scelto dalla famiglia Corsiglia, ha rinunciato al mandato: «Decisione condivisa», fa sapere. Ma non è il primo avvocato che si defila. Ad aprile 2021 Paolo Costa ha lasciato il collegio difensivo di Vittorio Lauria, al quale aveva suggerito di non concedere interviste: lui parlò al telefono con Fabrizio Corona e il colloquio venne mandato in onda in una trasmissione tv.

A ottobre inoltre, in un drammatico incontro con gli indagati e i genitori, il fronte difensivo ha mostrato qualche crepa: i legali di Capitta e Lauria puntavano al rito abbreviato (processo sulla base degli atti, senza testimoni e sconto di un terzo della pena in caso di condanna), quelli di Grillo e Corsiglia per l'ordinario, che alla fine ha prevalso.

Ora in aula si preannuncia battaglia tra i testi di accusa e difesa: la Procura ha convocato la moglie di Grillo che quella notte dormiva nell'appartamento, ma sostiene di non aver sentito nulla, la difesa il figlio acquisito del fondatore del M5S, Matteo Scarnecchia. Sarebbe stato lui a filmare Ciro mentre baciava in discoteca la presunta vittima dello stupro. E sarà acceso il confronto anche tra i consulenti. Alla psicologa dell'accusa, i legali oppongono Lucia Pattoli, che ha scandagliato i ricordi delle due studentesse e la coerenza dei loro comportamenti dopo le violenze denunciate. L'avvocato di parte civile Giulia Bongiorno, che rappresenta la giovane italo-norvegese, ha chiesto che il processo sia tenuto a porte chiuse.

Ciro Grillo. Ciro Grillo e gli amici, la prima udienza. Oltre settanta i testimoni convocati. Giusi Fasano su Il corriere della Sera il 15 marzo 2022.

Chat fra un ragazzo accusato di violenza sessuale di gruppo e un suo amico poche ore dopo le «prodezze» di cui si vanta: «Non puoi capire». «Cosa?». «No…3 vs 1 stanotte, lascia stare». «Chi era questa?». «Ma che ne so…Poi ti racconterò». Seguono particolari che inducono l’amico a scrivere: «Poveraccia». E lui: «All’inizio non sembrava che volesse…».

Stesso fatto ma visto dall’altra parte. Stavolta è la ragazza che ha denunciato la violenza a scrivere a un’amica, sempre poche ore dopo i fatti: «La verità è che la sola cosa che sento dopo questa esperienza è che io non valgo niente… le persone mi usano soltanto quando e come vogliono e poi mi buttano via come spazzatura». Lei che si dice vittima dello stupro se la prende con se stessa, i quattro ragazzi che sono sott’accusa si autoassolvono: «Lei ci stava».

È arrivato il momento di portare tutto questo nell’aula del tribunale di Tempio Pausania, dove comincia mercoledì il processo per il cosiddetto Caso Grillo. I quattro imputati non saranno presenti, o almeno così giurano gli avvocati che li difendono dal reato appunto, di violenza sessuale di gruppo (da un minimo di sei a un massimo di dodici anni in caso di condanna).

Ciro (figlio di Beppe Grillo) e i suoi amici Vittorio Lauria, Edoardo Capitta e Francesco Corsiglia, hanno preferito scartare i riti alternativi e puntare sul dibattimento in aula che, in teoria, sarebbe aperto al pubblico anche se Giulia Bongiorno, legale di Silvia (la ragazza che ha denunciato tutto) ha presentato ieri mattina un’istanza per chiedere che udienze a porte chiuse.

Il fascicolo di chiusura indagini è pieno di fotografie, chat, filmati, consulenze, interrogatori... E alla montagna di documentazione agli atti si aggiungeranno in aula i settanta e più testimoni che le parti chiedono di ammettere. L’accusa, rappresentata dal procuratore Gregorio Capasso, chiama a deporre fra gli altri anche la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadijk, mentre il collegio difensivo di Ciro Grillo vuole fra i suoi testi Matteo Scarnecchia, l’uomo che ha filmato Ciro mentre baciava in discoteca la ragazza che lo ha poi denunciato.

Fra tutte peserà la testimonianza di un ragazzo che Silvia aveva accusato di violenza sessuale nel 2018 e al quale ha poi chiesto scusa. I fatti del processo di Tempio Pausania risalgono invece alla mattina del 17 luglio 2019. In una villetta a Cala di Volpe, in Sardegna, i quattro ragazzi – tutti genovesi e amici d’infanzia – erano con due ragazze di Milano conosciute la sera prima in discoteca, al Billionaire, a Porto Cervo.

Il 26 luglio, quindi nove giorni dopo, una delle due ragazze (Silvia è un nome falso) racconta ai carabinieri che in quella villetta, quel giorno, dopo essere stata costretta a bere vodka, ha subito violenza. Ripetutamente e da tutti e quattro, mentre la sua amica Roberta (anche questo è un nome falso) dormiva sul divano. Le indagini porteranno alle accuse dei quattro amici e anche per Roberta sarà poi contestata la violenza sessuale: perché tre di loro hanno scattato fotografie oscene accanto a lei che dormiva.

Giusi Fasano per corriere.it il 15 marzo 2022.

Il 16 marzo è arrivato. Per Ciro Grillo e i suoi amici comincerà domani il processo a Tempio Pausania per violenza sessuale di gruppo. A porte aperte, teoricamente. Anche se Giulia Bongiorno, avvocatessa di una delle due ragazze abusate, ha inviato stamane al tribunale un’istanza per chiedere che invece, vista la delicatezza del caso, le udienze si tengano a porte chiuse. 

Sott’accusa, lo ricordiamo, il figlio del fondatore del Movimento cinque stelle, Beppe Grillo, e i suoi tre amici, Edoardo Capitta, Vittorio Lauria e Francesco Corsiglia.

L’inchiesta era partita a fine luglio del 2019, i fatti risalgono al 17 luglio di quell’anno.

Le due ragazze, da sempre chiamate con i nomi falsi di Silvia e Roberta, avevano conosciuto in discoteca il gruppetto di Ciro Grillo e dei suoi amici che le avevano invitati a Cala di Volpe, in Costa Smeralda, nella casa di vacanza in uso alla famiglia Grillo. È lì che Silvia racconta di essere stata violentata, prima da Francesco Corsiglia e in seguito dagli altri tre assieme. I tre hanno girato un breve video (agli atti) e -stado al racconto di Silvia – l’avrebbero costretta a bere vodka. 

Tutti negano e tutti giurano che la ragazza fosse consenziente. E i tre dicono che Francesco Corsiglia stesse dormendo mentre loro erano con silvia che “ci stava”, secondo i loro racconti. 

Diversa la situazione di Roberta, l’amica di Silvia che era con lei in quella casa. Dormiva, mentre gli stessi tre che avevano abusato di Silvia le scattavano fotografie oscene che sono finite in un secondo capo di imputazione a loro carico. 

Anche se i fatti contestati a Francesco Corsiglia potrebbero sembrare più lievi rispetto alle accuse mosse ai suoi amici la procura di Tempio – procuratore Gregorio Capasso – lo accusa lo stesso di violenza sessuale di gruppo tenendo conto delle dichiarazioni della ragazza (Silvia) che lo smentisce e che, se anche lui non compare nei filmati, dice di ver sentito la sua voce nella stanza. 

Con l’apertura del dibattimento si stabilirà il calendario delle udienze e si affronteranno eventuali eccezioni preliminari. Non è prevista né la presenza degli imputati né quella delle ragazze in aula.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 15 marzo 2022.

È arrivato il giorno del giudizio. Domani a Tempio Pausania prenderà il via uno dei processi più attesi dell'anno, quello a Ciro Grillo e ai suoi tre amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti accusati di violenza di gruppo aggravata dall'utilizzo di sostanze alcoliche. 

Le presunte vittime, come sanno bene i nostri lettori, sono due coetanee milanesi: S.J. e R.M.. In Sardegna accusa, difese e parti civili utilizzeranno tutte le armi a loro disposizione. Gli avvocati degli indagati per esempio hanno deciso di chiamare a testimoniare un ex amico di S.J., già accusato dalla ragazza di violenza carnale, ma mai denunciato.

La parte civile, invece, schiererà dalla sua parte gli inviati di Corriere della sera e della Repubblica, giornali trasformati così non in osservatori neutrali, ma in partigiani. I quattro giovani sono stati rinviati a giudizio il 26 novembre dopo mesi di schermaglie processuali e mediatiche. L'accusa e il gup, forse pungolati dai media e dall'opinione pubblica colpevolista, sono giunti alla determinazione che, anche se la ragazza in alcuni video appariva consenziente, il suo libero arbitrio era stato condizionato in modo determinante dall'alcol assunto (volontariamente o forzosamente che sia). 

A peggiorare la situazione degli imputati i filmati e le foto realizzati vicino a R.M. dormiente con i falli sguainati ad altezza del viso. Una presunta goliardata di pessimo gusto che la legge equipara a un vero e proprio stupro. E lì le immagini non sono equivocabili. Ma la violenza vera e propria, la penetrazione contro la volontà di S.J. c'è stata o no? A deciderlo sarà un collegio di tre magistrati presieduto da Marco Contu. L'aula, vista la delicatezza dell'argomento non sarà aperta al pubblico, né ai giornalisti. Il procuratore Gregorio Capasso ha messo in lista 40 testimoni.

Tra questi la mamma di Ciro, Parvin Tadjik, che all'alba del 17 luglio si trovava nell'appartamento adiacente a quello del presunto stupro; i vicini di casa, i maestri di kite surf, compreso Marco G., che ai carabinieri ha dato una versione, in tv un'altra. Tra i testimoni anche A.M. l'amica di S.J. che ha raccontato ai magistrati di aver visto lividi che in ospedale non sono stati rilevati, ma che ha anche raccontato che S.J. era una ragazza «un po' troppo influenzabile», che inviava su chat di incontri le proprie immagini in déshabillé e che, mentre le conoscenze femminili la rispettavano, i maschi pensavano che fosse «una ragazza più facile di altre».

Questi atteggiamenti disinibiti di S.J. sono stati equivocati dagli imputati? La parte civile oltre a medici e psicologi della clinica Mangiagalli di Milano, che per primi hanno visitato S.J., ha chiamato come testimoni anche Giusi Fasano del Corriere della sera per l'intervista che le aveva rilasciato la maestra di kite, Francesca B., chiamata a testimoniare direttamente. E allora perché sentire l'intervistatrice? Probabilmente la Bongiorno vuole far confermare davanti ai giudici le parole attribuite all'insegnante: «Silvia sembrava confusa. Non riuscì a finire la lezione». 

L'opposto di quanto l'istruttrice aveva detto ai carabinieri nell'immediatezza dei fatti a proposito dell'ora passata insieme poco dopo il presunto stupro: «Quando ci siamo presentate mi è sembrata una ragazza vivace, solare ed estroversa. Posso dire che era eccitata ed euforica [] era molto entusiasta e felice della sua performance, nonostante fosse stanca [] Escludo che la ragazza abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto gli effetti di alcoolici, anche perché non le avrei consentito di iniziare la lezione».

Anche Fabio Tonacci della Repubblica è stato chiamato a riferire sull'intervista fatta a Francesca B. (titolo: «Dopo la notte a casa Grillo parlai per prima con Silvia. Era stordita e poco lucida») lo stesso giorno della collega Fasano. Quindi i cronisti dovranno confermare di aver raccolto da Francesca B. una versione opposta rispetto a quella consegnata agli uomini dell'Arma. L'obiettivo è dimostrare che gli investigatori, nella fase iniziale, avevano indirizzato le dichiarazioni verso una linea innocentista? Per accertarlo è stato chiamato a ripetere la propria versione anche Daniele Ambrosiani, titolare del b&b in cui soggiornavano le ragazze.

L'arma segreta delle difese è invece l'ex amico del cuore di S.J. in Norvegia, David Enrique Bye Obando, giovane originario del Nicaragua e figlio dell'ex deputato di sinistra Vegard Bye. Nel febbraio del 2020, davanti ai pm, come aveva già fatto con le sue amiche, la presunta vittima lo aveva accusato di aver approfittato di lei durante un campeggio in Norvegia, quando lei si era addormentata: «Mi sono svegliata e lui stava venendo» aveva detto. 

Ammettendo, però, di non averlo denunciato per quell'abuso. Vegard Bye ci ha riferito: «David nega categoricamente. Dice di aver sentito S. e che lei si è scusata per la diffusione di una falsa accusa». Ieri, a proposito della testimonianza, ha scritto: «David non è mai stato interpellato da nessun se non da voi giornalisti. Se convocato dalla magistratura norvegese, ovviamente collaborerà».

Gli facciamo notare che a convocarlo sarà un tribunale italiano e lui replica: «No signore, David è responsabile solo nei confronti della magistratura norvegese, e non ha avuto notizie da questa, né da quella italiana, del resto». Le difese schiereranno anche il figlio di primo letto di Parvi Tadjik, Matteo Scarnecchia, che ha girato il video di un bacio furtivo tra S.J. e Ciro nella discoteca Billionaire. Tra i testimoni anche il tassista che ha accompagnato presunte vittime e presunti carnefici tutti insieme nell'appartamento dove si sono svolti i fatti. In aula verranno sentite pure la mamma e la sorella diciottenne di S.J..

 È stata chiamata a testimoniare anche la giovane Mai Rikter che in un lungo messaggio Whatsapp aveva scritto a S.J.: «Ti hanno manipolato, umiliandoti []. Tu sei abbastanza insicura e loro ti hanno usato». Sia le difese che la parte civile schiereranno i loro interpreti di fiducia per tradurre alcune parole pronunciate in un audio in inglese spedito a Mai da S.J., come hook up, che per qualcuno significa rimorchiare per qualcun altro divertirsi. I medici legali Marco Salvi ed Enrico Marinelli, da fronti opposti, proveranno a stabilire il tasso alcolemico della ragazza e il suo eventuale stato di alterazione. 

Le difese vogliono sentire anche Cinzia Piredda, la psicologa scelta come consulente dei pm e secondo cui S.J. avrebbe delle «difficoltà a esprimere la propria volontà e a rispondere con un diniego a richieste poste dagli altri». Verrà ascoltata anche la psicologa Lucia Tattoli che valuterà la «compatibilità e coerenza dal punto di vista psicologico» delle dichiarazioni di S.J. «con i comportamenti effettivamente tenuti» e anche «con l'asserita sindrome post traumatica lamentata».

La parte civile le contrapporrà la psichiatra Marina Loi, chiamata a «illustrare gli effetti delle violenze sessuali» su S.J. e il collega Pablo Zuglian, lo specialista che ha in cura S.J. dal febbraio del 2020, il quale dovrà riferire sullo stato psicologico della ragazza. Domani i giudici stabiliranno il calendario delle udienze, ma per la fase calda occorrerà attendere ancora qualche settimana.

I testimoni e l'avvocato che rinuncia: (ri)parte il processo a Ciro Grillo. Luca Sablone il 15 Marzo 2022 su Il Giornale.

Domani partirà il processo per Ciro Grillo e i suoi tre amici genovesi: l'accusa è di violenza sessuale. Un altro avvocato della difesa ha deciso di lasciare.

Domani prenderà il via il processo per Ciro Grillo e i suoi tre amici genovesi, accusati da Silvia (nome di fantasia) di violenza sessuale. Una tesi che dovrà essere dimostrata e che vede ovviamente accusa e difesa su fronti del tutto opposti: la ragazza ritiene di essere stata coinvolta nei rapporti sessuali contro la sua volontà, mentre i quattro compagni ritengono che Silvia fosse consenziente in quei momenti. Il 26 novembre il gup di Tempio Pausania ha deciso di rinviare a giudizio il figlio del fondatore del Movimento 5 Stelle, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria.

Imputati e testimoni

Grillo jr e i suoi tre compagni dovranno difendersi dalla pesantissima accusa di Silvia, convinta di essere stata costretta a del sesso di gruppo nonostante la sua contrarietà. I ragazzi non hanno negato di aver preso parte a dei rapporti sessuali, ma hanno messo in evidenza che la giovane studentessa italo-norvegese fosse a conoscenza di quanto stava accadendo. Sul Corriere della Sera si legge che non dovrebbe essere prevista la presenza degli imputati in aula.

La lista dei testimoni, per entrambi i fronti, è lunga. C'è ad esempio Parvin Tadjik, mamma di Ciro, che quella notte si trovava nell'appartamento adiacente a quello dove si sarebbe verificato il presunto stupro. Un ruolo importante è ricoperto da Anna (nome di fantasia, amica di Silvia) che aveva raccontato di aver ricevuto foto di Silvia con dei lividi sul corpo. Ci potrebbero essere poi - tra gli altri - il maestro di kite surf, alcuni amici e il titolare del bed and breakfast in cui soggiornavano le ragazze in quel periodo. L'Adnkronos aggiunge che potrebbero essere citati anche alcuni giornalisti, come Giusi Fasano (Corriere della Sera) e il collega Fabio Tonacci (La Repubblica) per alcune interviste realizzate in Sardegna.

Lascia un avvocato della difesa

Nel frattempo, come riporta La Repubblica, un altro avvocato del collegio difensivo si è sfilato: si tratterebbe di Romano Raimondo, scelto dalla famiglia Corsiglia, che avrebbe così rimesso il mandato. "Non c'è una ragione, è una scelta condivisa", sarebbe la versione. Dunque alla base non vi sarebbe alcuna divergenza difensiva né con i Corsiglia né con i colleghi. Al suo posto dovrebbe subentrare Antonella Cuccureddu, che domani dovrebbe essere presente alla prima udienza al tribunale di Tempio Pausania.

Perché la notizia assume un certo valore? La spiegazione è semplice: già ad aprile 2021 Paolo Costa, che difendeva Vittorio Lauria, aveva deciso di fare un passo indietro e di rimettere il proprio mandato per "alcune divergenze con il mio assistito sulla condotta extra-processuale da tenere sempre, specie in processi come questi". A far discutere era stata un'intervista rilasciata dal giovane a Non è l'arena, trasmissione condotta da Massimo Giletti.

La vicenda

I fatti risalgono alle ore tra il 16 e il 17 luglio 2019, quando Ciro Grillo e i suoi tre amici incontrano le due ragazze in discoteca al Billionaire. La comitiva decide poi di andare nella villetta a Cala di Volpe ed è proprio qui, secondo la versione fornita da Silvia, che si sarebbero consumate le violenze sessuali. E racconta di essere stata costretta a bere un cocktail (di vodka e lemonsoda?). Sono molti gli elementi su cui fare chiarezza: si parla di video che immortalano gli attimi e di foto a Roberta - mentre dormiva - con i genitali vicino al volto.

Una consulenza medico-legale (di parte) sostiene che i lividi potrebbero essere "compatibili con un meccanismo di pressione e afferramento attuato da più persone contemporaneamente con le mani". Inoltre metterebbero in evidenza un disturbo post-traumatico da stress, giudicato "coerente con un rapporto non consenziente e invasivo".

"Preoccupano i tempi". Perché il caso Grillo va per le lunghe. Marco Leardi il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.

Al termine della prima udienza del processo per stupro di gruppo, l'avvocata della presunta vittima confida: "Preoccupata per i tempi". Il giudice ammette la "prova regina", un hard disk con tutte le intercettazioni.

I tempi della giustizia preoccupano l'avvocata Giulia Bongiorno. Il processo per violenza sessuale di gruppo a carico di Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria rischia infatti di trasformarsi in uno stillicidio emotivo per la presunta vittima, difesa proprio dalla nota penalista. Del resto per l'italo-norvegese, che aveva denunciato di essere stata stuprata dai quattro ragazzi nel luglio 2019, l'intera vicenda era stata motivo di "sofferenze e dolori" prima ancora di approdare in tribunale e ora eventuali lungaggini processuali non farebbero altro che rievocare quei tormenti. Lo racconta la stessa avvocata, rivelando che ora Silvia (nome di fantasia) ha lasciato l'Italia.

A margine dell'udienza tenutasi stamani, nella quale sono state calendarizzate le fasi del processo e sono stati definiti alcuni aspetti formali, Giulia Bongiorno ha affermato: "Ci riteniamo soddisfatti per le decisioni del giudice ma siamo molto preoccupati per i tempi processuali. La ragazza nel frattempo, per ovvi motivi, ha lasciato l'Italia e vive in un altro Paese". In particolare, in merito alle date del procedimento, l'avvocata ha aggiunto: "Abbiamo fissato un calendario fino al 18 gennaio 2023". L'iter processuale, del resto, dovrà seguire tutti i canonici passaggi, le cui tempistiche rischiano di essere ulteriormente allungate dalla mole di testimoni e dal serrato confronto che si prospetta tra le parti in causa.

"Considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori", ha aggiunto Bongiorno, soffermandosi sugli aspetti emotivi e psicologici legati alla presunta vittima. "Io auspico che ci sfaccia il processo in aula e non ci siano diffusioni, che io reputo molto gravi, non di notizie, ma parlo di dati e referti medici sulla mia assistita che sono stati pubblicati, anche di sue foto che permettono la sua identificazione", ha osservato. Nella stessa occasione, Bongiorno ha stigmatizzato il rischio che "si dilati la sofferenza dell'assistita", in particolare con una "spettacolarizzazione" che andrà evitata. Il processo non a caso si terrà a porte chiuse, proprio come aveva chiesto la stessa penalista.

Caso Grillo, Bongiorno: "Ammessa la prova regina"

Al termine della Camera di consiglio, giudice ha deciso di ammettere tutti i testi citati sia dall'accusa sia dalla difesa, a eccezione dei due giornalisti Giusi Fasano e Fabio Tonacci, che per ora non saranno sentiti. In tutto, davanti al giudice sfileranno 56 testimoni: un numero corposo, che contribuirà con ogni probabilità a dilatare i tempi del processo. Tra gli altri, dovranno così presentarsi in aula, nel corso delle prossime udienze, la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadijk, che la notte del presunto stupro dormiva nello stesso residence, ma anche il ragazzo norvegese - citato dalla difesa degli imputati - che secondo il racconto della ragazza agli investigatori avrebbe abusato di lei (ma non è stato mai denunciato). Inoltre, la stessa avvocata Bongiorno ha rivelato che "è stata ammessa la 'prova regina' di questo processo, cioè l'hard disk con tutte le intercettazioni".

"In quell'hard disk c'è tutto lo scambio di messaggistica, di chat che c'è stato tra la mia assistita e altre persone, a mio avviso è una prova importante perché attesata la genuinità di quanto racconta dopo la sua esperienza. Dunque questo hard disk farà parte del patrimonio in dibattimento", ha spiegato al riguardo l'avvocata. Il suddetto materiale passerà al vaglio del giudice e diventerà chiaramente oggetto di confronto anche tra le parti in causa. Anche questo aspetto influirà sulle tempistiche.

"Ci sono poi state delle discussioni su alcuni documenti. Quello che è entrato nel fascicolo è l'accertamento irripetibile di intercettazioni e chat che a mio avviso sono molto importanti", ha precisato Bongiorno. Il processo è stato rinviato al prossimo primo giugno, quando saranno ascoltati primi testimoni fra quelli indicati dalla Procura. Il numero e i nomi dei convocati saranno comunicati alle parti dal giudice nei prossimi giorni. 

Sul processo al figlio di Beppe Grillo si allunga l'ombra della prescrizione. Luca Fazzo il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Giudizio a porte chiuse, i legali: non stupro, sesso consenziente.

Dopo le indagini lumaca, il processo lumaca. La brutta storia che nel luglio di tre anni fa, nella grande villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda, ebbe per protagonisti il giovane figlio dell'ex comico, tre suoi amici e due ragazze approda ieri finalmente in un aula di tribunale. Davanti ai giudici di Tempio Pausania non si presenta nessuno dei quattro imputati, e questo era praticamente scontato. Altrettanto prevedibile la richiesta di Giulia Bongiorno, parlamentare leghista e difensore di una delle vittime, di celebrare il processo a porte chiuse, subito condivisa dagli imputati ed accolta dal tribunale. Meno scontato il ritmo assai diluito con cui il processo viaggerà nel suo lungo percorso verso la sentenza: ieri i giudici danno appuntamento per la prossima puntata addirittura al 6 giugno, poi si proseguirà con una sola udienza al mese. Finora il calendario è stato ufficializzato al giugno 2023, ma poiché il processo si annuncia non solo complicato ma anche assai combattuto, è legittimo prevedere che ci vorranno decine di udienze per arrivare alla conclusione, (oltretutto ieri il tribunale ammette ben settanta testimoni). A questo ritmo il processo potrebbe durare anni. Che si vanno aggiungere ai sedici mesi impiegati dalla Procura per chiudere le indagini preliminari, e al quasi anno passato tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'inizio del processo. Ritmi che, anche se la prescrizione non è imminente, fanno dire alla Bongiorno che «a preoccuparmi sono i tempi del processo».

La linea difensiva di Grillo junior e dei suoi coimputati è nota: ammettono che alcuni di loro hanno avuto contatti sessuali con una delle ragazze, ma con il pieno consenso della stessa. Per dimostrare che la ragazza - una modella di origine scandinava - era tutt'altro che scioccata dalla nottata nella villa, hanno prodotto immagini e post dove nei giorni successivi appare rilassata e sorridente. E soprattutto punteranno su un'altra vicenda analoga risalente a qualche anno prima, quando la stessa ragazza aveva denunciato di essere stata denunciata da un conoscente in una tenda in Norvegia. Un episodio che, secondo i legali, fa sospettare che si tratti di una ragazza di facili costumi, pronta però a pentirsi delle sue nottate allegre. E a riviverle, e a raccontarle, come stupri.

Il rischio che il processo ai quattro giovanotti genovesi si trasformi in qualche modo in un processo alla loro presunta vittima, insomma, c'è: e anche per questo la Bongiorno ha chiesto che si proceda a porte chiuse, anche se sottolinea che il giovane norvegese ammesso a testimoniare «potrà essere sentito solo sui fatti del processo e non sulle abitudini sessuali della vittima». Ma intanto, racconta l'avvocato, «a lasciare stupita la mia assistita sono i tempi annunciati. Fino a quando processo non finirà questa ferita per la ragazza resterà aperta. Mi hanno detto che il tribunale di Tempio Pausania è sommerso di processi, e che lunghi rinvii sono la normalità. Ma sapere che il nostro processo inizierà di fatto a tre anni dalla vicenda mi preoccupa molto».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 marzo 2022.

Notizia: a Tempio Pausania (Sardegna, provincia di Sassari) ieri è formalmente cominciato il processo a Ciro Grillo e ai tre suoi amici accusati di violenza sessuale ai danni di due ragazze che li hanno denunciati. Lo stupro ci sarebbe stato nella notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 nella dimora di Ciro Grillo in Costa Smeralda. 

I presunti colpevoli dicono che le presunte vittime si erano prestate al gioco, cioè erano consenzienti, mentre le presunte vittime dicono che i presunti colpevoli invece le hanno stordite, violentate e sbeffeggiate contro la loro volontà. Detto questo, non ha l'aria del processo del secolo.

Nonostante gli sforzi titanici di noi giornalisti, presi a celebrare dibattimenti paralleli e talk show intrisi di manicheismi improbabili (carnefici e vittime, feroci stupratori e cuori innocenti, o viceversa goliardici coglioncelli e serpi che lucrano su una giurisprudenza sbilanciata) il dibattimento per violenza di gruppo a Ciro Grillo & company ha il suo difetto nel manico: tra gli imputati c'è il figlio di Giuseppe Piero Grillo, e questo è tutto; c'è, ossia, un protagonista per luce riflessa di una vicenda che si gioca tutta su inquadramenti giurisprudenziali di comportamenti che paiono ambigui da ambo le parti; la denuncia della violenza è in effetti avvenuta tardivamente (quando una delle due ragazze era tornata a Milano) e comunque vada ci sarà qualcuno che griderà all'ingiustizia a margine di una storiaccia di quasi minorenni a cui resterà la vita segnata: vale per tutti.

Secondo la richiesta di rinvio a giudizio (accolta) una delle due giovani sarebbe stata costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, afferrata perla testa e costretta a bere mezza bottiglia di vodka prima di subire rapporti di gruppo con tutti e quattro; in pratica i maschi avrebbero «approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica». Gli accusati dicono che non hanno stuprato né fatto violenza su nessuno. Non si può neppure escludere che tutti siano sinceramente convinti della propria tesi, ma in questo campo il pareggio non è contemplato: lo sono, bene che vada, delle condanne miti.

Vediamo qualche noioso dettaglio di cronaca. Sono stati proposti - il giudice dovrà vagliarli- ben 70 testimoni, una quarantina su proposta dall'accusa e gli altri di conseguenza. L'avvocato di parte civile delle due presunte vittime (di parte civile significa che chiederà soldi, e in questo è bravissima) è Giulia Bongiorno, che ieri ha chiesto che il dibattimento si svolga a porte chiuse (niente giornalisti o pubblico) e ha lamentato che sulla sua assistita possa concentrarsi una «rincorsa bulimica al dettaglio» e quindi dati, referti medici o fotografie che peri media siano fonte di attenzione: così, per sviare, l'avvocato Bongiorno per ora ha deviato tutta l'attenzione su di sè. Si è detta molto preoccupata per i tempi processuali (non si è capito perché) e ha precisato che la sua assistita «per ovvi motivi» (non intesi) «ha lasciato l'Italia e vive in un altro paese».

Poi: «Abbiamo fissato un calendario fino al 18 gennaio 2023: considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data, e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori». Insomma, l'avvocato Bongiorno ha cominciato il processo fuori dall'aula, prefigurando da subito l'immagine di una vittima traumatizzata a vita che è proprio il contrario di quanto sostenuto da chi - i difensori degli accusati, opinionisti vari - aveva portato elementi per sostenere che dopo il presunto stupro lei fosse tutto fuorché traumatizzata. Ma di Giulia Bongiorno è nota la passione per la causa femminile, al punto che in passato si spinse a proporre l'ergastolo per tutti i maschi colpevoli di cosiddetto femminicidio. 

L'avvocato ha seguito molti processi per stupri e violenze e «spero in tempi rapidi» lo disse anche in occasione di altri casi come quello in cui difendeva Lucia Ciccolini, vittima dell'ex fidanzato. Passando agli altri tre imputati- Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria - la formazione dei loro difensori è ora composta da Sandro Vaccaro, Enrico Grillo, Gennaro Velle, Ernesto Monteverde, Antonella Cuccureddu e Mariano Mameli.

Vaccaro ha detto soltanto che le liste dei 40 testi chiesti da loro e quella dei 30 chiesti dalla Bongiorno «sono praticamente sovrapponibili». Tra questi: la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjik che quella notte del 2019 dormiva a poca distanza dal luogo della presunta violenza, e anche il maestro di kitesurfing (una tavola da surf trainata da un aquilone) che dopo la violenza avrebbe visto le due ragazze esercitarsi nonostante la nottata. 

Dovrebbe esserci anche David Enrique Bye Obando, un ragazzo norvegese-sudamericano che a sua volta era stato accusato di stupro da una delle due ragazze durante una gita in campeggio: ma non è mai stato denunciato. Comunque: il processo mediatico è stato già fatto, ora comincia quello vero e c'è da pensare che interesserà meno della sua rappresentazione mediatica.

Ci sono di mezzo alcool e droghe che possono notoriamente alterare gli stati mentali dei vari attori: il consenso di lei non è l'unico punto, in un processo c'è anche da valutare - succede in molti dibattimenti per stupro - l'eventuale alterazione della capacità di lei di difendersi, o l'eventuale alterazione della capacità dei ragazzi di mantenersi equilibrati in una condizione di predominanza fisica e numerica. Insomma, c'è da valutare tutto, e i processi servono per questo, anche se la realtà - giudiziaria o effettiva - non si rivelasse dichiaratamente bianca o nera come piace a chi guarda i processi come un tifoso.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 17 marzo 2022.  

Il collegio presieduto dal giudice Marco Contu ha iniziato a dirigere il traffico del processo a Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. E lo ha fatto con una certa personalità, senza mostrare, almeno in prima battuta, alcuna soggezione nei confronti di giornali e tv o di avvocati di grido come Giulia Bongiorno, che rappresenta S.J., la presunta vittima dello stupro di gruppo (la coetanea R.M. ha, invece, subito molestie mentre dormiva).

La senatrice della Lega aveva chiesto di sentire come testimoni due giornalisti del Corriere della Sera e della Repubblica sull'intervista fotocopia rilasciata da Francesca B. l'istruttrice di kite surf che per prima aveva avuto a che fare con S.J. dopo la denunciata violenza. All'epoca dei fatti la donna aveva riferito ai carabinieri che la ragazza le era sembrata «euforica» e «felice della sua performance» sportiva e che non l'avrebbe mai lasciata fare la lezione se fosse stata in condizioni non ottimali e sotto l'effetto dell'alcol.

Ma poi nelle interviste quel racconto era stato completamente ribaltato, sebbene a distanza di due anni, S.J., a suo giudizio, era arrivata «stonata» e «non lucida», addirittura «in semi-hangover». Ebbene i giudici hanno deciso che sarà sufficiente sentire in aula Francesca B., per conoscere la sua versione definitiva, senza dover ascoltare quella «de relato» dei cronisti che, in coppia, avevano registrato la clamorosa retromarcia. Per i giudici le testimonianze dei giornalisti «allo stato appaiono superflue e irrilevanti».

I due potrebbero essere sentiti solo nel caso in cui «emergano tangibili contraddizioni tra quanto dichiarato in sede di indagini preliminari e quanto sarà reso in dibattimento» dall'istruttrice. Quindi se il racconto di Francesca B. non differirà troppo da quanto riferito nell'immediatezza dei fatti ai carabinieri pare di capire che l'audizione dei giornalisti non si renderà necessaria. Nonostante la parte civile si sia opposta il Tribunale ha invece ammesso la testimonianza richiesta dalle difese di David Enrique Bye Obando il ventenne di origini nicaraguensi, accusato da S.J. di essersi approfittato di lei dormiente durante un campeggio. 

Con noi il padre di David, l'ex parlamentare norvegese Vegard Bye aveva detto: «David nega categoricamente. Dice di aver sentito S. e che lei si è scusata per la diffusione di una falsa accusa». Adesso suo figlio verrà convocato dalle difese e se non si presenterà toccherà al Tribunale provvedere. Per le toghe questa prova testimoniale è «funzionale anche a una valutazione complessiva in ordine alla credibilità e attendibilità» di S.J. visto che riguarda «fatti specifici» e non le «condotte di vita, le abitudini e i costumi sessuali» della presunta vittima. 

Una precisazione doverosa per ribadire che il compito della giustizia è punire gli stupratori e non censurare i comportamenti anche liberi di chi ha subito violenza. Un altro discorso è accertare se chi lancia un certo tipo di accuse sia credibile quando lo fa. La Bongiorno ha chiesto e ottenuto che il processo si svolga a porte chiuse vista la delicatezza degli argomenti trattati. La sua richiesta è stata condivisa da tutte parti e alla fine i pochi giornalisti presenti sono stati lasciati fuori dall'aula.

Un cronista è stato gentilmente accompagnato alla porta dai carabinieri. Un altro scontro c'è stato sulla metodologia dell'acquisizione delle fonti di prova. Il procuratore Gregorio Capasso ha provato a depositare buona parte del materiale acquisito nell'indagine. Le difese hanno chiesto che, invece, venisse prodotto gradualmente, udienza per udienza. Un modo per non far inondare il collegio di informazioni avulse dal contesto e difficilmente valutabili.

Per questo la corte ha disposto la restituzione al procuratore del «compendio documentale» a eccezione dei verbali degli atti e degli accertamenti irripetibili compiuti ossia il sequestro dei cellulari e le attività di estrazione delle copie forensi. I giudici in questo modo acquisiscono fisicamente i telefonini e il loro contenuto, ma non ancora i dati estratti dai tecnici e resi utilizzabili, a partire dai video, «riservandosi la valutazione e l'eventuale acquisizione del residuo nel corso dell'istruttoria dibattimentale».

La decisione è stata presa anche considerando «la notevole mole» del materiale e «la conseguente onerosità che richiederebbe un'approfondita valutazione» su «ammissibilità e utilizzabilità» dei singoli atti. Valutazione che andrebbe contro «le esigenze di speditezza e celerità del procedimento». 

Rapidità che deve essere contemperata con la cronica mancanza di personale del Tribunale. Ieri i giudici hanno messo in calendario sei udienze da qui a novembre, meno di una al mese: la prossima sarà l'1 giugno, seguiranno quelle del 6 luglio, 21 settembre, 19 ottobre, 2 e 16 novembre. Le toghe adesso dovranno decidere quando iniziare a sentire i testimoni, a partire dalle presunte vittime.

Al via il processo Grillo Jr, Bongiorno: «Evitiamo spettacolarizzazioni». Oggi la prima udienza del processo a carico di Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S, e di altri tre amici, accusati di violenza sessuale di gruppo. Il processo si terrà a porte chiuse. Il Dubbio il 17 marzo 2022.

«Dobbiamo evitare la spettacolarizzazione e quindi il riacutizzarsi del trauma della mia assistita». Lo ha detto l’avvocata Giulia Bongiorno prima di entrare in aula, a Tempio Pausania, per la prima udienza del processo contro Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S, e i tre amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, tutti accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti una studentessa italo-norvegese.

Il processo si terrà a porte chiuse, per disposizione del Presidente della Corte Mauro Contu che ha così accolto la richiesta avanzata ieri dall’avvocata Bongiorno, legale di parte civile della ragazza. Alla sua richiesta si sono associate anche le difese dei quattro imputati e il Procuratore Gregorio Capasso. Bongiorno spiega che il trauma subito dalla giovane «si acutizza ogni volta che si è verificata la rincorsa al colpo di scena e alla rivelazione di aspetti intimi della vicenda». Bongiorno si è detta dunque preoccupata per la possibilità che si allunghino i tempi processuali: «Parliamo di fatti accaduti nel 2019 e siamo nel 2022: vediamo che calendario si può organizzare» perché «il rischio è che si dilati la sofferenza della mia assistita». Parlando con i giornalisti davanti al palazzo di giustizia ha aggiunto: «Pensate che la psicologa mi ha chiesto di sentirla una sola volta per tutte le richieste e informazioni perché ogni mia chiamata è un trauma».

«Abbiamo fissato un calendario fino alo 18 gennaio 2023 – spiega Bongiorno – considerate che la mia assistita dovrà continuare a vivere questa sua ferita fino a quella data e tutto questo comporterà il riaprirsi di sofferenze e dolori. Io auspico che ci sfaccia il processo in aula e non ci siano diffusioni, che io reputo molto gravi, non di notizie, ma parlo di dati e referti medici sulla mia assistita che sono stati pubblicati, anche di sue foto che permettono la sua identificazione».

Ciro Grillo e gli amici al telefono «Ci sono di mezzo anch’io?». In aula parlano i carabinieri. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.  

Il passaggio è scritto in burocratese: «Si dà atto che non è stato possibile procedere alla perquisizione personale in quanto il nominato in oggetto è stato prelevato dalla spiaggia dagli operanti in costume da bagno e si è vestito in presenza degli stessi». Gli operanti sono agenti di polizia giudiziaria della Compagnia dei carabinieri di Milano Duomo e il «nominato in oggetto» è Ciro Grillo, il figlio del più noto Beppe, fondatore del Movimento Cinque Stelle. Ecco. C’è anche questo scorcio da spiaggia, diciamo così, fra le pagine del processo in corso a Tempio Pausania per violenza sessuale di gruppo contro Ciro Grillo e i suoi tre amici: Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. È uno dei tanti verbali firmati dagli agenti di polizia giudiziaria che domani saranno in aula a testimoniare. Sette in tutto: cinque marescialli, un luogotenente e un capitano delle Compagnie di Milano Duomo, appunto, e Genova San Martino.

Il verbale

Nel verbale in questione, di cui gli avvocati e i giudici chiederanno conto domani, si precisa che «i sottoscritti ufficiali e agenti di P.G. danno atto che presso le cabine spogliatoio del Lido Le Gazzelle Focette, sito in Marina di Pietrasanta (Lu), hanno proceduto al materiale sequestro del telefono cellulare del nominato in oggetto, da lui spontaneamente consegnato». Sembra di vederlo, Ciro Grillo: in costume da bagno che consegna il suo cellulare, nelle stesse ore in cui altri carabinieri perquisiscono le case dei suoi amici. Era il 29 di agosto del 2019, il giorno in cui i quattro ragazzi genovesi, oggi 22enni, scoprono di avere qualche guaio giudiziario in corso di cui fino ad allora non sospettavano nulla. Non sanno ancora con precisione quel che è successo. E cioè che la ragazza con la quale hanno passato una notte e una mattina fra il 16 e il 17 luglio di quell’anno (nella casa che Ciro Grillo ha preso per l’estate a Cala di Volpe, in Sardegna) li ha denunciati tutti per stupro. E non l’ha fatto soltanto lei. Anche l’amica che era con lei li ha denunciati: per essere stata oggetto di fotografie oscene mentre dormiva sul divano.

I perquisiti

Per i quattro genovesi quelle ore sono ormai archivio di vacanza. Ma i carabinieri che piombano nelle loro vite all’improvviso accendono qualche ricordo, e molta agitazione. I perquisiti si chiamano fra loro. Per esempio Vittorio Lauria chiama Francesco Corsiglia sul telefonino di suo padre. Francesco farfuglia qualcosa su una denuncia. «Qualcosa che ho fatto in Sardegna... non ho capito... Fra, non ho capito cosa è successo», dice. E Lauria: «Ma quindi ci sono di mezzo anche io?». Oppure Edoardo Capitta che — convocato dalle forze dell’ordine — chiama Vittorio e gli spiega che «mi ha chiamato la polizia, ha chiamato anche te?». «Sì, sì», risponde lui. «Ma per cosa, scusa? Che abbiam fatto?». «Non lo so, mi stanno venendo a prendere», annuncia. «Anche a me al porticciolo, mi han detto di vederci lì» (è a Genova). Vittorio dice all’amico che ha provato a chiedere spiegazioni «ma quello mi fa: “non si può dire al telefono”... Io c’ho paura che quella lì ci abbia denunciato».

I testimoni

Tutto questo fa parte degli accertamenti, delle informative, delle perquisizioni e dei sequestri di cui si sono occupati i sette testimoni in aula domani. Non ci saranno gli avvocati delle due ragazze, Giulia Bongiorno e Vinicio Nardo, che hanno affidato l’udienza ai loro collaboratori. Saranno invece tutti presenti i legali dei quattro imputati. Fra gli atti firmati dai carabinieri-testimoni ci sono anche i racconti delle due ragazze e il resoconto di quel che successe nella sala d’attesa della caserma di Genova Quarto il 1° settembre 2019. Tutto videoregistrato. C’è Edoardo Capitta che fa il gesto delle manette agli amici quando li vede arrivare, con sua madre che gli dice di «non fare lo stupido e non ridere». C’è Ciro che dice agli altri: «In questi giorni non dobbiamo né vederci né frequentarci anche se non abbiamo nulla da nascondere» e sua madre che lo invita a parlare d’altro. Ma lui insiste, lei sbotta: «Sei veramente uno stupido, stai zitto». I carabinieri fanno uscire gli accompagnatori e i ragazzi restano soli. La scena è descritta così: Ciro si porta le mani vicino alle orecchie per dire «ci ascoltano». E Vittorio: «Siamo indagati ma sappiamo di essere innocenti».

Violenza sessuale di gruppo, al via il processo al figlio di Beppe Grillo. Il Tempo il 30 maggio 2022.

Al via il processo a Ciro Grillo, il figlio di Beppe Grillo. Il luogotenente dei Carabinieri in servizio alla Compagnia di Milano Duomo che nell’estate del 2019 ha eseguito la perquisizione e i sequestri a carico di Ciro Grillo, il maresciallo dei Carabinieri che presta servizio al Nucleo Operativo di Genova San Martino che ha eseguito le perquisizioni e i sequestri nei confronti di Edoardo Capitta, e ancora, il maresciallo che ha eseguito la perquisizione a casa di Francesco Corsiglia. Sono soltanto 3 dei 7 rappresentanti della Polizia giudiziaria che mercoledì, 1 giugno, saranno chiamati a deporre al Tribunale di Tempio Pausania, in Sardegna, per l’inizio del processo a carico del figlio di Beppe Grillo e dei suoi tre amici, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Sono tutti accusati di violenza sessuale di gruppo nei confronti di una studentessa di 19 anni. Lo stupro di gruppo sarebbe avvenuto nel luglio del 2019 nella villa in Costa Smeralda di Beppe Grillo. I ragazzi si sono sempre difesi dicendo che i rapporti fossero «consenzienti» ma per la Procura, che sarà rappresenta in aula direttamente dal Procuratore Gregorio Capasso, la violenza ci sarebbe stata. Sono 7 gli ufficiali di polizia giudiziaria che saliranno sul banco dei testimoni. Prestano servizio tra Milano e Genova, dove risiedono rispettivamente la vittima e i 4 imputati. I 4 giovani, che non saranno in aula, sono stati rinviati a giudizio lo scorso novembre. «Oggi finalmente ricomincio a respirare», aveva detto attraverso la sua legale, Giulia Bongiorno, la ragazza che ha denunciato lo stupro, dopo avere appreso del rinvio a giudizio dei 4 giovani. «La mia assistita è finita sul banco degli imputati», aveva denunciato la senatrice Bongiorno prima di lasciare il Tribunale.

Ma quali sono le accuse contro i quattro imputati? «Costretta ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box del bagno», «afferrata per la testa a bere mezza bottiglia di vodka» e «costretta ad avere rapporti di gruppo» dai 4 giovani indagati che hanno «approfittato delle sue condizioni di inferiorità psicologica e fisica» di quel momento. Sono soltanto alcune delle accuse della Procura di Tempio Pausania (Sassari) a carico dei 4 ragazzi della Genova bene. Pagine su pagine di orrori raccontati dalla giovane studentessa italo-norvegese, di appena 19 anni, che avrebbe subito, quel 17 luglio di tre anni fa. Come si legge nelle carte della Procura «il residence è stato individuato grazie a un selfie scattato» dalla giovane ragazza ed «è riconducibile a Beppe Grillo». Le indagini sono state chiuse per due volte, una prima volta a novembre e una seconda volta a inizio maggio, dopo i nuovi interrogatori dei giovani. E nei mesi scorsi Ciro Grillo è stato riascoltato ma non dal Procuratore, come era accaduto le prime due volte, bensì dai Carabinieri di Genova, su delega del magistrato.

Secondo i magistrati non fu «sesso consenziente», come dice invece la difesa degli indagati. Per l’accusa è stata «violenza sessuale di gruppo». E per dimostrarlo hanno allegato agli atti, il racconto crudo della giovane che spiega di essere stata stuprata a turno. «Verso le 6 del mattino - si legge in un verbale - mentre R. M. (l’amica della vittima ndr) dormiva», scrivono i magistrati, la giovane è «stata costretta» ad avere rapporti sessuali in camera da letto e nel box doccia del bagno, con uno dei ragazzi. «Gli altri 3 indagati hanno assistito senza partecipare». Poi un’altra violenza, costringendo la giovane a bere mezza bottiglia di vodka contro il suo volere. La Procura ha anche una serie di fotografie e immagini che ha inserito nel fascicolo. «La ragazza ha poi perso conoscenza fino alle 15 quando è tornata a Palau», scrivono i pm. La «lucidità» della vittima «risultava enormemente compromessa» quando è stata «condotta nella camera matrimoniale dove gli indagati» l’avrebbero costretta ad avere «5 o 6 rapporti» sessuali.

Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, che negano tutte le accuse di violenza sessuale, a metà luglio del 2019, erano in vacanza in Costa Smeralda, tra serate danzanti al Billionaire e cene con gli amici. Ma una notte, il 16 luglio, come poi ha raccontato la ragazza di 19 anni, si sarebbero resi responsabili di stupro di gruppo. A loro carico ci sarebbero anche alcune fotografie che i consulenti della Procura hanno trovato sui cellulari e qualche intercettazione. La ragazza, che è difesa dall’avvocata Giulia Bongiorno, ex ministra leghista nel primo governo Conte, è stata più volte dagli inquirenti e ha raccontato, fin nei minimi particolari, quanto sarebbe accaduto in quella notte. I magistrati in oltre 1 anno e mezzo di indagini hanno anche messo sotto controllo i telefoni non solo dei ragazzi ma anche di altre persone, tra cui quello di Parvin Tadjik, madre di Ciro Grillo e moglie del comico genovese. La donna, sentita dai pm, ha sempre raccontato che quella sera dormiva nell’appartamento accanto a quello in cui si sarebbe consumata la violenza, dicendo di non essersi accorta di niente.

Secondo quanto ricostruito dagli investigatori, grazie al racconto della vittima ma anche di alcuni testimoni, quella notte di metà luglio 2019, Ciro Grillo e i suoi 3 amici avevano trascorso la serata al Billionaire. Poi, quasi all’alba, avevano lasciato il locale con 2 giovani studentesse milanesi. Le ragazze avevano seguito i 4 giovani nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda. Solo che su quello che è accaduto qui ci sono diverse versioni. Da un lato la ragazza, che ha raccontato di essere stata stuprata, dopo che l’amica si era addormentata. La giovanissima ha detto di essere stata costretta a un rapporto sessuale con uno dei ragazzi. E poi essere stata stuprata anche dagli altri 3. Per «5 o 6 volte».

Ma la versione fornita dai giovani rampolli della Genova bene è del tutto diversa. Hanno raccontato che il rapporto di gruppo con la giovane c’era stato ma che era «consenziente». E per rafforzare la loro tesi hanno raccontato ai magistrati che li hanno interrogati più volte che dopo il primo rapporto, lei e il primo ragazzo, sarebbero andati insieme a comprare le sigarette, e al ritorno, nella villa del Pevero, a Porto Cervo, lei avrebbe avuto rapporti consenzienti con gli altri 3. E che nei giorni seguenti ci sarebbero stati scambi di messaggi con i ragazzi. La denuncia è avvenuta solo successivamente, quando la ragazza era tornata a casa a Milano, quando ha raccontato quanto avvenuto durante una visita alla clinica Mangiagalli. Una versione che contrasta totalmente con quanto raccontato dalla ragazza, una studentessa italo-norvegese in vacanza con l’amica. Da mercoledì prenderà il via il processo. Ma i 4 imputati non ascolteranno le deposizioni dei 7 ufficiali di Polizia giudiziaria.

Grillo jr, al via il processo ma i giudici vanno piano. Luca Fazzo l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il figlio del fondatore M5s alla sbarra per stupro: soltanto un'udienza al mese e porte chiuse.

E adesso si prepara il drammatico momento del faccia a faccia. Perché delle due l'una, e una terza verità non può esistere. O S. è una giovane donna pronta a facili avventure e altrettanto facili pentimenti. O nella villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda si è consumato, in una sera d'estate ormai di tre anni fa, il più brutale degli stupri di gruppo, con quattro ragazzotti pieni di soldi - compreso il figlio del padrone di casa - pronti a ubriacare una giovane donna e a passarsela poi come un oggetto.

Da quando, dieci giorni dopo la notte nella villa, la ragazza bussò alla porta dei carabinieri milanesi della compagnia Duomo per raccontare tutto, le due verità si fronteggiano. Ma adesso è arrivato il momento del processo, che si apre oggi a Tempio Pausania. E alla prossima udienza, il prossimo 6 luglio, S. dovrà venire in aula a raccontare la sua verità. E dalla sua capacità di convincere i giudici, di reggere al controinterrogatorio dei legali degli imputati si giocheranno in buona parte le sorti del processo.

Udienza oggi, la prossima tra un mese, poi le vacanze, poi una udienza al mese fino a novembre: già i ritmi singolarmente blandi dedicati dal tribunale di Tempio ad un processo di grande gravità e altrettanta eco, la dicono lunga su come la giustizia ha affrontato il caso dello stupro attribuito a Grillo junior. Mentre il fondatore e garante dei 5 stelle in tivù sparava ad alzo zero sulla presunta vittima, inchiesta e passaggi procedurali hanno viaggiato al ralenti per anni.

Il procuratore di Tempio, Gregorio Capasso, che oggi sarà in aula di persona, dà la colpa ai carichi di lavoro: «È un ufficio faticosissimo, con tre soli sostituti e un carico di lavoro enorme». Ma questo non spiega il ritmo di una udienza al mese con cui andrà avanti il processo.

L'interrogatorio di S. avverrà a porte chiuse, come tutto il processo, per proteggere la privacy della ragazza. Privacy che per alcuni aspetti è stata già violata, rendendola quasi identificabile e divulgando un precedente caso in cui si era dichiarata vittima di violenze sessuali poi non riscontrate. A porte chiuse oggi verranno sentiti i carabinieri che per primi hanno indagato. Quattro sono di Milano, tra loro c'è il maresciallo che riferirà «in ordine alla perquisizione e sequestro eseguiti il 29.8.2019 nei confronti dell'imputato Ciro Grillo»; nello stesso giorno vengono perquisiti dai carabinieri di Genova gli altri tre giovani (Vittorio Lauria, Francesco Consiglia e Edoardo Capitta).

Dalla denuncia della ragazza, presentata il 26 luglio, è passato più di un mese. Quante prove siano svanite in quel mese di attesa non si saprà mai. Dopo i carabinieri di Milano e Genova verranno interrogati i loro colleghi, Antonio Cossu e Luca Levrini, che vennero inviati a fare un sopralluogo «in località Pevero, frazione di Arzachena», ovvero nella villa affittata dall'ex comico. Data del sopralluogo: 12 settembre 2019. Un altro ritardo inspiegabile, ed altre prove potenzialmente evaporate. Come i ricordi di Parvin Tadijk, la moglie di Beppe Grillo, che quella notte era nella villa ma quando finalmente viene sentita dirà di non ricordare nulla di particolare. E che dovrà anche lei venire nell'aula di Tempio a testimoniare.

In ogni caso il piatto forte, l'udienza chiave, sarà quella in cui verrà sentita S., la ragazza italo-norvegese che ha denunciato il quartetto. Insieme a lei verrà sentita l'altra presunta vittima, la ragazza cui uno dei giovani appoggiò i genitali in faccia mentre dormiva, immortalando la scena.

Il processo a Grillo jr. con tempi da moviola. E una teste chiave non si presenta in aula. Luca Fazzo il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

La prossima udienza per il figlio di Beppe accusato di stupro tra un mese.

Già un anno fa, inaugurando l'anno giudiziario, il presidente della Corte d'appello di Cagliari scrisse che nel tribunale di Tempio Pausania si era davanti alla «vera e propria paralisi dell'attività giurisdizionale verificatasi in vasti settori» a causa del fuggi fuggi di magistrati e cancellieri. Da allora nulla è cambiato, l'allarme al ministero della Giustizia è come se non fosse arrivato. La conseguenza si materializza ieri, quando nel palazzo di giustizia nel cuore della Gallura si apre il processo più delicato di sua competenza: il dibattimento a carico dei quattro giovani genovesi accusati di avere violentato una coetanea, la notte del 16 luglio 2019, in una villa di Arzachena.

Sarebbe un processo importante anche se tra gli imputati non ci fosse Ciro Grillo, il figlio di Beppe, ex comico e fondatore dei 5 Stelle: perché è il processo a una degenerazione dei rapporti umani, dove appare normale che una ragazza venga portata in una casa, che si ubriachi o la si faccia ubriacare, che - volente o meno - la si passi di mano in mano. Ma il nome di Grillo junior ne ha fatto inevitabilmente un processo ad alto impatto politico, specie dopo il furibondo sfogo di Grillo senior in difesa del ragazzo.

Eppure i ritmi del processo sono da terzo mondo. Ieri praticamente non succede niente, l'unica testimone davvero importante - la carabiniera che raccolse, dieci giorni dopo i fatti, la denuncia della ragazza - non si presenta in aula per «legittimo impedimento», ed è un peccato perché fu lei la prima a vedere in faccia la studentessa, e a poterne oggi descrivere le condizioni, la precisione dei ricordi, le eventuali contraddizioni. Invece la Procura si deve accontentare di altri cinque testimoni, tutti carabinieri, mandati a eseguire i primi accertamenti. Niente di rilevante, anche se il difensore di uno degli imputati, Antonela Cuccureddu, fa già sapere che «ci sono delle incongruenze». Il problema vero è che la prossima udienza si farà solo il 6 luglio, per sentire la marescialla che ieri non è potuta venire. E ancora più significativo è che il processo rischi a quel punto un nuovo stop, perché non è sicuro che gli apparecchi elettronici disponibili in aula consentano di riprodurre i video e gli audio acquisiti agli atti. E di cui giustamente la Cuccureddu chiede «che siano resi visibili e ascoltabili sin dalla prossima udienza». Il tribunale ha fatto sapere che «verificherà».

Ciro Grillo, l’imputato che adesso studia legge a Genova. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.

Ogni tanto lo si vede al quarto piano del Palazzo di Giustizia di Genova. Segue le udienze, è attento ai passaggi tecnici di magistrati e avvocati. Non ha ancora scelto, pare, quale strada prendere per il futuro, se la magistratura o l’avvocatura. Una cosa però gli è già chiara: la materia penale gli interessa, e molto.

Gli abusi

Stiamo parlando di Ciro Grillo. Del ragazzo dal cognome ingombrante che finora ha pesato tantissimo sulla visibilità dei suoi guai giudiziari. Lui, il figlio di Beppe che è il fondatore e garante del Movimento cinquestelle, ha deciso di iscriversi al corso di laurea in Giurisprudenza a Genova, la sua città. E lo ha deciso dopo i fattacci che lo hanno travolto, nell’estate del 2019, facendo di lui un imputato per violenza sessuale di gruppo assieme ai suoi amici di sempre, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, accusati anche loro dello stesso reato. A raccontare degli abusi, nella casa dove i ragazzi erano in vacanza in Costa Smeralda, fu una loro coetanea (avevano tutti 19 anni) e la procura di Tempio Pausania (Sassari) si è occupata dell’inchiesta. Ieri era giorno d’udienza per il loro processo, che si tiene a porte chiuse. Davanti ai giudici del tribunale di Tempio avrebbero dovuto comparire sette ufficiali di polizia giudiziaria (cinque marescialli, un luogotenente e un capitano) ma la testimone che secondo gli avvocati dei ragazzi era la più importante non si è presentata (era assente giustificata). Era stata lei, che è una marescialla, a seguire le prime fasi dell’inchiesta e a firmare quattro informative fra luglio e novembre del 2019; sue anche le firme per gli accertamenti sui tabulati telefonici. Senza la sua presenza l’udienza si è chiusa in meno di due ore, durante le quali il tribunale ha anche confermato ai legali, com’era ovvio, che in aula saranno ascoltati gli audio e saranno visti i filmati ammessi come fonti di prova. Prossima udienza: 6 luglio.

In aula

Niente di importante, dunque, è arrivato ieri dall’aula mentre dettagli sconosciuti sulle vite degli imputati sono emersi fuori dal Palazzo di Giustizia, nel racconto degli avvocati dei ragazzi. Come l’università scelta da Ciro Grillo, appunto. Che nel tribunale genovese segue gli stage universitari e che si interessa molto di processi penali, chiede informazioni ai suoi avvocati, Andrea Vernazza ed Enrico Grillo (suo cugino). Sua madre, Parvin Tadijk, è sollevata perché «lo vedo più tranquillo, finalmente la notte ora dorme», ha confidato ai legali. Al di là di come andrà a finire dal punto di vista giudiziario, è chiaro che questa storia ha cambiato le vite di tutti i protagonisti, imputati compresi. La ragazza che ha denunciato tutto è all’estero e oggi, come ha più volte spiegato la sua avvocata Giulia Bongiorno, sta faticosamente cercando di costruire il suo futuro e la sua tranquillità. È fuori dall’Italia anche Francesco Corsiglia, uno dei quattro amici sott’accusa che, come gli altri, non è certo felice della risonanza di ogni singolo passaggio di questa vicenda. E infine: l’inchiesta, lo stress e il processo hanno fatto perdere anni di studio a Vittorio Lauria che affronterà adesso, a 22 anni, l’esame di maturità.

Andrea Bulleri per il Messaggero il 2 giugno 2022.

Lui, il figlio del Garante del Movimento 5 stelle, in aula ha scelto di non presentarsi. Così come non si sono fatti vedere al tribunale di Tempio Pausania (in provincia di Sassari) gli altri tre imputati, gli amici genovesi Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria. Ma il processo per stupro di gruppo a carico di Ciro Grillo, figlio ventunenne del comico e fondatore del M5s Beppe, è cominciato lo stesso, con un'udienza durata poco meno di tre ore. A parlare di fronte al giudice Marco Contu, ieri all'ora di pranzo, sono stati i primi sei di oltre 50 testi ammessi al dibattimento. 

Si tratta dei carabinieri di Milano e Genova che per primi raccolsero le testimonianze delle due presunte vittime delle violenze, avvenute - secondo la ricostruzione - la notte tra il 16 e il 17 luglio 2019, dopo una serata al Billionaire di Porto Cervo. Teatro degli abusi, denunciati dalle due giovani all'epoca diciannovenni, la villa di Beppe Grillo in Costa Smeralda, dove il figlio del comico e i suoi tre amici stavano trascorrendo le vacanze. 

Il processo si svolge a porte chiuse. Ma secondo i difensori di Grillo junior e degli altri tre imputati, dal racconto dei sei militari di ieri sarebbero emerse alcune «incongruenze» con quanto finora riportato agli atti del procedimento. 

«È stata una seduta utile ha detto uscendo dall'aula l'avvocata Antonella Cuccureddu, che difende Corsiglia alcune delle dichiarazioni agli atti hanno trovato riscontro, altre no». «Il processo si svolge a porte chiuse per tutelare tutte le parti - ha ribadito il difensore di Ciro Grillo, Andrea Vernazza Stiamo parlando di ragazzi ventenni all'epoca dei fatti: se risultassero innocenti, sarebbero loro le vere vittime». 

Assenti alla prima udienza anche le due ragazze, che nel corso delle prossime settimane potrebbero essere sentite in audizioni «protette». Le indagini partirono dalla denuncia di una di loro, una giovane italo norvegese che vive a Milano. Rientrata a casa, la ragazza raccontò ai carabinieri di essere stata stuprata dai quattro amici nella villa di Beppe Grillo, dopo una serata trascorsa in discoteca in compagnia di quei giovani che aveva appena conosciuto. 

Una volta a casa di Grillo jr i ragazzi l'avrebbero costretta a bere vodka, aggiuse, poi l'avrebbero violentata. Abusi che i quattro avrebbero immortalato con il cellulare, con foto e video estrapolati dai carabinieri nel momento in cuii loro smartphone sono stati sequestrati. Agli atti sono finiti anche gli sms che i quattro ventenni si scambiarono tra loro e con le due ragazze. Anche per gli abusi nei confronti della seconda giovane la procura ha ipotizzato l'accusa di violenza sessuale di gruppo. I quattro l'avrebbero fotografata e filmata mentre dormiva su un divano, avvicinandole i genitali al viso e ridendo tra loro. «Rapporti consensuali», secondo la difesa dei quattro giovani. Il processo riprenderà il 6 luglio: tra i testi che verranno ascoltati anche la moglie di Beppe Grillo, Parvin Tadjik, madre di Ciro.

Giuseppe Filetto per "la Repubblica" il 2 giugno 2022.

La marescialla della Compagnia Duomo di Milano che il 26 luglio 2019 raccolse la denuncia di Silvia sarà ascoltata nella prossima udienza. Ieri assente perché in licenza, era la testimone chiave attesa dagli avvocati della difesa di Ciro Grillo, figlio del fondatore del M5S, e dei suoi tre amici genovesi che la notte tra il 16 e il 17 luglio di quell'anno, in Sardegna, avrebbero stuprato la studentessa milanese e fatto violenza sessuale nei confronti della sua amica Roberta (entrambi i nomi sono di fantasia). I legali degli imputati avevano pronte le domande per la carabiniera. Ci riproveranno alla prossima udienza, il 6 luglio.

Ieri sono stati sentiti gli altri sei colleghi: tre di Milano e altrettanti della Compagnia San Martino di Genova. Quelli che iniziarono per primi le indagini, le intercettazioni, le perquisizioni e i sequestri dei telefonini sui quali erano memorizzati i video e le foto di una notte scivolata tra alcol, sesso di gruppo e immagini oscene. 

Il giudice Marco Contu, come previsto, ha confermato che quel materiale sarà riproposto in aula: saranno riascoltati gli audio e visionati i filmati, prove regine dell'accusa, ma sempre a porte chiuse per tutelare le presunte vittime e gli accusati, tutti poco più che ventenni.

Ieri i 4 imputati non c'erano: oltre a Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Né le due ragazze, anche se la loro presenza sarà inevitabile in futuro. 

I testimoni ieri hanno confermato quanto verbalizzato agli atti presentati dal procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso sull'accaduto nella villetta di Cala di Volpe, in Costa Smeralda, in uso ai Grillo. Alla prossima udienza testimonieranno tre vicini di casa del residence, più il tassista che trasportò le due ragazze al B&B di Arzachena dove alloggiavano, e il titolare del Billionaire dove la sera prima i giovani conobbero Silvia e Roberta.

L'udienza di ieri è stata passaggio formale di un processo lungo, in cui dovranno essere sentiti 56 testimoni, e che ha già lasciato i segni. Se Silvia si è trasferita in Norvegia, perché - dice l'avvocata Giulia Bongiorno - «in Italia non avrebbe potuto vivere», Ciro studia Giurisprudenza. 

Dicono che tema di finire in carcere: per violenza sessuale si rischiano fino a 12 anni. La sua foto a bordo piscina diventata icona di questa brutta vicenda fa da contraltare all'immagine dello studente in giacca e cravatta stagista in questi giorni a Palazzo di Giustizia a Genova. Grillo jr. frequenta lo studio legale del suo avvocato Andrea Vernazza, penalista: «Mi chiede dei processi che seguo».

Sua mamma, Parvin Tadijk, moglie di Beppe, avrebbe raccontato che il figlio dopo due anni da incubo «ora sta meglio. E di notte dorme». Vittorio Lauria, invece, ha perso anni di scuola e non riesce a superare l'esame di Maturità. Corsiglia studia all'estero. 

Giacomo Amadori per “la Verità” il 7 Luglio 2022.

Il processo di Tempio Pausania sul presunto stupro ai danni di una giovane italo-norvegese, S.J., e molestie nei confronti di una coetanea milanese, R.M., ieri è entrato nel vivo e non sono mancate le prime schermaglie tra difesa, accusa e parti civili.

Il procedimento vede imputati Ciro Grillo, Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria, quattro genovesi classe 2000, che la notte tra il 16 e il 17 luglio trascorsero alcune ore con le presunte vittime, tra una discoteca e l'appartamento in uso ai ragazzi nel golf club di Arzachena, immobile situato di fianco a quello dei genitori di Ciro. È qui che i quattro giovani avrebbero abusato delle studentesse.

Gli avvocati degli imputati, meno esperti di processi mediatici rispetto ai colleghi delle parti civili, hanno comunque sorpreso i giornalisti, presentandosi davanti alla corte (composta dal presidente Marco Contu e dai giudici a latere Nicola Bonante e Marcella Pinna) accompagnati da due imputati, Capitta e Lauria. Una scelta che aveva certamente l'intento di segnalare alle toghe come gli imputati non siano indifferenti rispetto a quanto successo e al procedimento in corso.

Insomma ventenni sì, ma non insensibili e fuori dal mondo. Capitta e Lauria (camicia azzurra il primo, bianca il secondo, pantaloni scuri per entrambi) si sono seduti nei banchi riservati al pubblico, vuoti perché il processo si celebra a porte chiuse. Nessuno dei due è stato interrogato, né ha rilasciato spontanee dichiarazioni. Durante l'udienza, durata ben sei ore a partire dalle 13, sono stati sentiti otto testimoni.

Tra questi il maresciallo dei carabinieri Cristina Solomita, della compagnia Duomo di Milano, che all'epoca dei fatti ha raccolto la denuncia della ragazza italo norvegese e svolto i primi accertamenti tecnici sulle celle telefoniche dei protagonisti della nottata. I difensori dei ragazzi hanno chiesto quali domande abbia fatto a S.J. durante la videoregistrazione della denuncia che così diventano temi di indagine su cui legali potranno sentire la presunta vittima a 360 gradi, come ha potuto fare la carabiniera. 

Tantissime domande sono state poste anche sui tabulati che dovranno essere sviluppati dal consulente tecnico delle difese e che saranno utili negli interrogatori degli imputati e nell'esame degli altri testimoni, soprattutto per quello che riguarda l'aggancio delle celle e quindi il posizionamento dei telefoni con i quali sono state scattate alcune foto. Qui il tema è il presunto spostamento in auto di S.J. con due dei suoi presunti aguzzini per andare a comprare in paese le sigarette tra il primo e il secondo stupro. 

Sono stati ascoltati anche i due carabinieri, Luca Levrini e Antonio Cossu, che hanno svolto il sopralluogo nell'appartamento in uso ai ragazzi ed effettuato le attività investigative e le trascrizioni dei file contenuti nei telefonini delle presunte vittime e degli imputati. Sentiti in aula pure Roberto Pretto, l'amministratore del Billionaire, il locale di Porto Cervo dove i ragazzi trascorsero la serata prima di trasferirsi a casa, il tassista che portò le ragazze a casa di un amico a inizio serata, ma soprattutto tre vicini, la cui testimonianza è stata accolta dalle difese come un punto a favore.

Si tratta di Maria Beatrice Picco, Maria Luisa Attena e Ibrahim Bedawi. La stanza da letto del secondo è ubicata sopra l'ala della casa dove si sarebbe consumato lo stupro; il terzo era ospite in un appartamento che si trova esattamente di fronte al patio, circa dieci metri in linea d'aria, dove S.J. sarebbe stata costretta a bere la vodka dai suoi violentatori.

Tutti e tre hanno sostenuto di non avere visto stranezze o udito grida, quella notte di tre anni fa, ma solo «chiacchiere» e «canzoni». Insomma, nulla che facesse pensare a uno stupro di gruppo. 

«È stata un'udienza molto utile, le dichiarazioni dei vicini di casa e le spiegazioni dei pubblici ufficiali che hanno svolto accertamenti e indagini confermano l'impianto difensivo sulla innocenza dei nostri assistiti», ha commentato l'avvocato della difesa, Antonella Cuccureddu.

Ma per l'avvocato Giulia Bongiorno (non presente in aula) e il suo sostituto, Dario Romano, «non cambia nulla»: «Questo non è uno stupro avvenuto in mezzo alla strada», hanno dichiarato la Bongiorno e Romano all'Adnkronos, «quindi non è rilevante sapere se qualcuno abbia sentito le urla. Questo contesto è completamente diverso. Mai la ragazza ha detto di avere gridato, anzi al contrario ha detto sempre di avere perso conoscenza e di essere stordita». I legali hanno anche aggiunto: «Quindi stiamo parlando di un contesto in cui si deve accertare se lei è stata oggetto di questi atti sessuali in una situazione di incapacità».

Anche perché i video della serata, della durata complessiva di meno di un minuto, non mostrano un'aggressione, ma un rapporto sessuale di gruppo in cui la ragazza non appare forzata. Ma secondo la parte civile in quel momento la giovane non sarebbe stata in grado di esprimere un rifiuto, soprattutto a causa del suo stato di ubriachezza; infatti, dopo il primo rapporto con Corsiglia, sarebbe stata costretta a bere, come detto, vodka dagli altri tre amici. Gli imputati hanno dichiarato che la giovane italo-norvegese avrebbe tracannato il superalcolico spontaneamente. La prossima udienza è prevista dopo la pausa estiva, il prossimo 21 settembre.

Giacomo Amadori per "La Verità" il 9 luglio 2022.

Giovedì i giornali hanno riportato con enfasi che nel processo a Ciro Grillo e a tre suoi amici sarebbero entrate nuove chat favorevoli alla presunta vittima di stupro di gruppo, la ventunenne italo-norvegese S. J.. Peccato che le ipotetiche prove inedite fossero già state ampiamente raccontate sulla Verità un anno fa. Si tratta delle trascrizioni dei messaggi vocali, di Whatsapp e di Messenger che a partire dalle 14 e 36 del 17 luglio, cioè circa sei ore dopo la supposta violenza, S. scambia con il suo istruttore di kitesurf, Marco G.. 

La studentessa descrive la sua alba complicata. Racconta di aver fatto qualcosa, di cui sembra essersi pentita, in uno stato di ebrezza, ma non parla di violenze.

Di nuovo ci sono le vive voci dei due interlocutori, disponibili in anteprima sul sito del nostro giornale (Laverita.info).

Questi messaggi erano stati fatti ascoltare per la prima volta il 25 agosto 2019 dall'insegnante, quarantacinquenne originario di Gorizia, ai carabinieri del Reparto territoriale di Olbia, da cui era stato convocato come testimone.

Riavvolgiamo adesso il nastro sino alle 12 e 10 del 17 luglio. Marco G. scrive a S. per avvertirla che si è infortunato e che quindi non potrà essere presente alla lezione delle 15: «Ciao grande kiter, ci tenevo ad avvisarti di persona che sono fuori uso, ho la caviglia destra enorme». L'uomo allega anche la foto del «piedone».

Alle 14 e 36 l'italo-norvegese, che in quel momento è stata appena svegliata dall'amica R.

M. e si trova ancora a casa di Ciro & C., sembra voler far finta di nulla con l'istruttore: «Uddio come stai? Come cazzo hai fatto?». Passano 20 minuti e S. realizza: «Nooo quindi oggi non sono con te giusto? Mi spiaceeeeee. Spero che tu ti rimetta presto». Altri 25 minuti e S. digita: «Marco ieri sera ho fatto casino poi quando ci vediamo ti racconterò». Alle 15 e 47, mentre la studentessa sta andando a lezione, Marco G. replica: «Spero non si tratti di nulla di grave». 

E lei alle 15 e 58 gli manda questo vocale, ascoltabile sul nostro sito: «No, Marco tranquillo, non ti preoccupare ehm ho fatto una cazzata, poi te la racconterò, eh, niente, cioè parliamo un attimo ehm mi serve un po' una dritta diciamo proprio cinque dita in faccia mi servono, comunque ehm sto andando a lezione, mi spiace un casino che non ci sei, spero che tu rimetta presto perché ci tengo anche io prima per la tua salute ovviamente, poi ci tengo anche per le lezioni con te. E niente spero di vederti presto così, cioè, parliamo e ci divertiamo (ride, annotano gli investigatori, ndr)».

Davanti ai militari Marco G. ipotizza che quel riferimento alle «5 dita in faccia» potesse significare «che per quello che aveva fatto si meritava una sberla».

Ma torniamo al dialogo tra maestro e allieva. Il primo, alle 20 e 10, avverte che richiamerà dopo cena.

Verso le 20 e 30 S. manda due audio uno dietro l'altro.

Nel primo descrive la sua lezione («Con voce soddisfatta» precisa Marco G. con i carabinieri) che «è andata abbastanza bene», racconta come si sia trovata con la nuova istruttrice Francesca B. e specifica di aver lavorato sulla tecnica non essendoci un gran vento.

Francesca B., a verbale, ha specificato come S. fosse «eccitata ed euforica», ma ha anche aggiunto: «Escludo che la ragazza abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto gli effetti dell'alcol, anche perché non le avrei consentito di iniziare la lezione».

Nell'audio delle 20 e 27 S. dice anche che avrebbe voluto che ci fosse Marco per vedere questo «improvement (miglioramento, ndr) bellissimo (ride, ndr)». Nell'altro messaggio giustifica, come chiosa l'istruttore con gli investigatori, il suo essere andata in spiaggia «senza aver dormito e ubriaca» con il «bisogno di uno stacco»: «L'unica cosa che non dovevo fare oggi, anche se è andata benissimo, però avevo bisogno veramente di uno stacco diciamo mentale. Sono andata in spiaggia senza aver chiuso occhio, cioè dormito zero e in più ubriaca, cioè ero ubriachissima, infatti poi ho riletto i messaggi e cioè anche quando stavo camminando ero proprio andata. Vabbuò. Questo quindi mi sa che non lo farò più ho sgravato di brutto. Vabbé».

In questo vocale c'è una dichiarazione molto interessante della ragazza, la quale, durante gli interrogatori, ha sostenuto di aver perso conoscenza mentre veniva abusata.

Già la versione di lei inerme sembra smentita dai brevi filmati agli atti, in cui si vede la giovane partecipare attivamente al rapporto a quattro; adesso sembrerebbe cadere anche l'ipotesi che sia svenuta durante quell'amplesso e che si sia ripresa solo dopo alcune ore. Forse S. potrebbe essere rimasta sveglia a ripensare a quanto accaduto, potrebbe anche essersi pentita di come fossero andate le cose e potrebbe essere crollata solo in tarda mattinata piegata dalla stanchezza.

Di certo con le amiche ha mostrato di essere molto critica con sé stessa per i propri comportamenti con i ragazzi.

Si era anche lamentata di essere stata usata e buttata «via come spazzatura».

L'amica norvegese Mia le aveva consigliato di non darsi colpe e di consultare uno psicoterapeuta. S., dopo aver promesso di farsi vedere da uno specialista, aveva insistito (la traduzione è della consulente della Procura): «[] Magari, chi lo sa, mi aiuterà a tornare sulla strada giusta []. Hai ragione, sto accumulando così tanti episodi e altro che non riesco più a gestirli e diventa sempre più difficile capire perché cose così accadano e come evitarle []». Nelle carte c'è un ulteriore audio di S., in cui la giovane usa espressioni colorite e sicuramente esagerate per descrivere il suo rapporto con l'altro sesso e i suoi incontri in un bar di Milano: «La sfiga madornale è il fatto che magari mi faccio gente in diverse serate, poi me le ritrovo lì, tutti insieme allo stesso tavolo e son tipo "Ah guarda il gruppetto che mi sono fatta a luglio", magari, o a giugno o a marzo, sempre così, ma che cazzo di sfiga. Poi tipo gente che magari mi ferma per strada e mi fa: "Ah ma tu sei la ragazza di ieri sera". E io sono tipo: "Ah ah, io non mi ricordo della tua faccia". Però ok, ci sta. Fanculo il mondo». Per questo dice che la sua «situazione è ridicola» e che non voleva tornare a Milano dopo aver vissuto due anni a Oslo.

Tornando all'istruttore, verso le 22 del 17 luglio prova a chiamare inutilmente l'allieva, che probabilmente si è assopita, e quindi le invia questo vocale: «S. ho provato a telefonarti, ma non mi rispondi beh mi sento molto più tranquillo, se è una sbevazzata ci sta eh? Porco zio hai diciott' anni dai non essere troppo severa con te stessa poi (inc. forse "sai dartela") da sola le risposte». 

A verbale Marco G. ha riferito ai carabinieri quanto gli avrebbe confessato la ragazza successivamente, in un giorno non definito: «Durante i tempi morti della lezione ha incominciato a raccontarmi, in maniera peraltro confusionaria, che le era successa una cosa brutta e non sapeva come comportarsi». Di fronte alla richiesta di chiarimenti aveva replicato: «È che è successo di nuovo». Una frase criptica che Marco avrebbe decifrato immediatamente: «Ho subito immaginato che si stesse riferendo alla confidenza che mi aveva fatto l'anno prima, ossia che era stata abusata dal suo migliore amico» con cui in precedenza «si erano baciati senza andare oltre». Ma dopo che il giovane «era caduto dalle nuvole ritenendo il rapporto sessuale consensuale, aveva deciso di non denunciarlo».

Sull'episodio adesso indaga la Procura per i minorenni di Sassari (entrambi i giovani all'epoca aveva 17 anni). Marco, però, nell'occasione avrebbe avuto la sensazione che S. si stesse «arrampicando sugli specchi» e che stesse cercando di «attirare l'attenzione».

La descrizione («confusa e contraddittoria» a giudizio dell'istruttore) di ciò che era avvenuto il 17 luglio sarebbe stata, invece, questa: alcuni «ragazzi, forse 4, avevano abusato sessualmente di lei» e «S. sosteneva sempre di non ricordare bene l'accaduto perché era molto ubriaca e non sapeva neanche se fosse avvenuto di sera o di mattina». Per questo il quarantacinquenne goriziano ha concluso: «Non ho creduto più di tanto a quello che mi stava dicendo». Per l'avvocato di S., Giulia Bongiorno, sarebbe stata la condizione di ebrezza della presunta vittima a rendere quel sesso di gruppo uno stupro: S. «ha detto sempre di avere perso conoscenza e di essere stordita. Quindi stiamo parlando di un contesto in cui si deve accertare se lei è stata oggetto di questi atti sessuali in una situazione di incapacità». Che adesso dovrà essere dimostrata in aula, anche se sarà difficile stabilire il livello di alcolemia di S. quella mattina, non essendosi la ragazza sottoposta a immediati esami medici.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 20 settembre 2022.

«Non avevo letti sufficienti per ospitare anche gli amici di mio figlio e così ho chiesto a una mia amica con cui ci scambiamo dei favori di dare in uso la sua abitazione per farci stare i ragazzi nel periodo di vacanza. Io ero al civico 36, loro al 37. Le case sono divise da un patio»(...) «Per motivi di sicurezza, e comunque per mia tranquillità, avevo chiesto ai ragazzi di tenere le finestre della sala aperte di notte. E anche io lo facevo in modo da poter essere comunque in contatto con loro» (...)

«Quella mattina ho fatto colazione nel patio della mia abitazione e posso dire che non ho visto né sentito alcunché di anomalo» (...) «Ho chiesto come fosse andata la serata e mi hanno detto che avevano conosciuto due ragazze amiche di amici» (...) «Non mi hanno fatto alcuna confidenza specifica sulla serata. Erano tranquilli».

Questo disse e, salvo colpi di scena, lo ripeterà anche domani in aula Parvin Tadjik, moglie del fondatore dei Cinquestelle Beppe Grillo. Il loro figlio, Ciro, assieme agli amici Francesco Corsiglia, Vittorio Lauria ed Edoardo Capitta, è accusato di violenza sessuale di gruppo. E domani in Sardegna, davanti ai giudici del tribunale di Tempio Pausania, riprendono le udienze del processo (a porte chiuse) dopo la pausa estiva. Con nove testimoni da sentire, a cominciare proprio da lei, Parvin (poi la domestica, una vicina, due farmacisti e i gestori e dipendenti di un bar).

Non grandi racconti ma piccoli pezzi per comporre il puzzle di quella mattina, il 17 luglio del 2019, cioè la data del presunto stupro di due ragazze che la cronaca ha sempre chiamato con nomi falsi: Silvia e Roberta. Quell'estate del 2019 avevano tutti 19 anni - i ragazzi e le ragazze - erano stati tutti al Billionaire a ballare la sera precedente, avevano bevuto tutti una quantità di alcol che è diventato uno dei nodi da sciogliere nel processo. Erano presenti a se stessi mentre facevano sesso con Silvia (prima uno solo di loro e poi gli altri tre assieme)? Era presente a se stessa la ragazza? Era in grado di opporsi e respingerli?

Secondo la loro versione era consenziente e ha volontariamente avuto un rapporto sessuale con Francesco prima e con gli altri tre assieme più tardi (mentre Francesco dormiva, dicono). Ma lei racconta una versione diversa: costretta a fare quello che ha fatto sia dal primo ragazzo che dagli altri, più tardi, (con la voce di Francesco in sottofondo) dopo essere stata forzata a bere un mix di vodka e lemonsoda.

Che avesse bevuto o no, è stata invece vittima di abusi ma ignara di tutto l'altra ragazza, Roberta. Dormiva sul divano e non si è accorta che i ragazzi (escluso Francesco) hanno scattato fotografie e girato un breve video a sfondo sessuale accanto a lei. Domani i giudici di Tempio ascolteranno, appunto, nove dei testimoni di questa storia chiamati a deporre dal procuratore Gregorio Capasso. Testi che hanno già raccontato la loro versione dei fatti e nessuno di loro (Parvin Tadjik compresa) risulta abbia detto niente di fondamentale per confermare o smentire con certezza l'accusa o la difesa.

La mamma di Ciro Grillo in aula. È scontro su una vecchia chat. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 22 settembre 2022.  

Ci sono le domande e le risposte, e poi ci sono le interpretazioni. Ieri, nel tribunale di Tempio Pausania — dove si celebra il processo a Ciro Grillo e ai suoi tre amici genovesi — l’interpretazione prevalente era «è andata bene». Questione di punti di vista. Era la prima udienza importante del processo che potrà fare la differenza nelle vite di Ciro Grillo (figlio del garante del Movimento Cinquestelle) e dei suoi amici Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria. Due ragazze — che abbiamo sempre chiamato con i nomi inventati di Silvia e Roberta — li accusano di violenza sessuale di gruppo e ieri, davanti ai giudici, era il giorno della testimonianza di Parvin Tadjik, la moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro.

La testimonianza

Lei era nella casa accanto a quella del presunto stupro, la mattina di quel 17 luglio del 2019. Finestre aperte e nessun rumore sospetto, ha sempre detto. A casa con lei c’era anche la sua amica Maria Cristina Stasia, altro nome nella lista dei testimoni di ieri. Ma non sono state sui rumori di quel mattino le domande più insistenti per Parvin Tadjik. Dario Romano, dello studio di Giulia Bongiorno (che ieri non ha potuto essere presente e che difende Silvia) ha insistito su una chat fra la donna e suo figlio datata agosto 2017. Una conversazione finita agli atti nella quale lei rimprovera aspramente lui che si trova dall’altra parte del mondo, in Nuova Zelanda. Ciro era in vacanza-studio in una scuola di Auckland che a un certo punto voleva espellerlo perché il vicepreside si era molto infastidito per alcune sue affermazioni.

In Nuova Zelanda

Aveva detto a un compagno di studi che avrebbe dato volentieri due schiaffi proprio al vicepreside, aggiungendo che «ha due figlie che mi scoperei». Una professoressa aveva sentito e riferito tutto e la questione era diventata un procedimento disciplinare. Alla fine, prima che l’espulsione fosse di fatto applicata con la forza e con il coinvolgimento della polizia (perché lui voleva opporsi), il ragazzo si convinse a rientrare in Italia e la chiuse così, senza conseguenze se non lo sdegno di sua madre che gli scrisse cose tipo «il tuo è tipico atteggiamento del teppistello», oppure «non credere di arrivare e di ricominciare con i tuoi ritardi a scuola, non ti permetterò di rovinare la tua e la mia vita».

La difesa

A cinque anni di distanza la domanda è: perché tornare su quelle conversazioni? La risposta l’ha data in aula l’avvocato Romano che ha definito «tentata violenza sessuale» la frase sulle figlie del preside. «Non scherziamo» è stata la reazione dei legali del ragazzo, Enrico Grillo e Andrea Vernazza, «se fosse così dovrebbero indagare quasi tutta la popolazione maschile. È un modo di dire poco elegante ma non indica certo la propensione alla violenza sessuale». Per la difesa di Silvia invece le domande a Parvin Tadjik hanno evidenziato una contraddizione (all’inizio la donna ha negato che l’episodio della Nuova Zelanda avesse a che fare con qualche riferimento alla sfera sessuale) e hanno «cristallizzato la prova di un precedente sul quale c’è molto da riflettere». Punti di vista, dicevamo.

Un punto per l’amico

L’udienza di ieri ha segnato poi un punto a favore della difesa di Francesco Corsiglia, giurano i suoi avvocati Gennaro Velle e Antonella Cuccureddu. Corsiglia è accusato di aver violentato Silvia da solo (nella doccia) prima che gli altri lo facessero tutti assieme. L’amica di Parvin Tadjik (Stasia) ha detto ai giudici che quella mattina verso le 6.30 ha visto la ragazza in accappatoio nel patio. Stando alla ricostruzione degli inquirenti a quel punto la violenza di Corsiglia era già avvenuta. La teste dice di aver incrociato Silvia a due metri di distanza, sola e tranquilla. L’avvocato Velle fa notare: «Sei stata appena violentata, sei davanti a una persona a cui puoi chiedere aiuto. Perché non lo fai?».

Ciro Grillo, gli amici, l’accusa di stupro di gruppo, il video: il caso, dall’inizio Ciro Grillo rinviato a giudizio: lui e gli amici rischiano fino a 12 anni Ciro Grillo, dal caso nasce un’altra inchiesta: «Violentata da un amico in Norvegia» Grillo e il video per difendere il figlio Ciro: dietro c’è l’insofferenza per un’inchiesta che lo limita Minacce a casa di Beppe prima del processo al figlio: «Rafforzata la sorveglianza» La ricostruzione della vittima ai pm: «Volevo urlare, ma non ci riuscivo»

"Non ha sentito nulla", "Contraddizioni". In aula per testimoniare la madre di Ciro Grillo. Tutti i testimoni ascoltati oggi hanno dichiarato di non aver sentito nulla di anomalo la notte in cui si sarebbe compiuta la violenza in Costa Smeralda. Francesca Galici il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Udienza chiave nel processo a carico di Ciro Grillo e dei suoi amici, accusati di violenza sessuale per fatti accaduti a luglio 2019 in Costa Smeralda. Presso il tribunale di Tempio Pausania, questa mattina è stata sentita Parvin Tadjk, madre di Ciro ed ex moglie di Beppe Grillo. La donna ha preferito non parlare davanti ai cronisti che la attendevano fuori dalle aule del tribunale, ma davanti al giudice pare abbia parlato per oltre un'ora, riferendo di non aver sentito nulla quella notte che potesse insospettirla. La donna, infatti, alloggiava in una proprietà adiacente alla villa in cui si sarebbe consumata la presunta violenza.

"La signora Grillo, così come tutti gli altri testimoni, anche quelli che sono stati sentiti le volte precedenti, ha raccontato di non aver sentito niente. Né lei né le persone che abitavano nella sua casa", ha riferito Antonella Cuccureddu, che difende Francesco Corsiglia, uno dei tre amici di Ciro Grillo imputati per un presunto stupro di gruppo. La signora Tadjk ha descritto come una giornata "assolutamente normale", quella successiva ai presunti abusi avvenuti nella casa in zona Pevero. Una descrizione molto simile a quella data dalla colf della famiglia Grillo, anche lei sentita oggi. L'avvocato Cuccureddu ha fatto rilevare che se la madre di Ciro avesse sentito rumori provenienti dall'appartamento dei presunti abusi sarebbe senz'altro intervenuta, come in circostanze in cui il figlio e gli amici avevano causato rumori molesti. "Stiamo parlano di un abuso che è stato descritto con urla, spinte, ribellione eccetera", ha aggiunto l'avvocato della difesa.

La madre di Ciro Grillo dai giudici. La sua versione: "Non sentii nulla..."

Al termine dell'udienza, si è fermato a scambiare alcune battute con i giornalisti l'avvocato Dario Romano, che insieme alla collega Giulia Bongiorno difende una delle due ragazze che hanno denunciato il gruppo di amici. "Sono emerse forti contraddizioni nelle testimonianze di oggi. Siamo soddisfatti", ha spiegato senza entrare nel dettaglio l'avvocato Romano che poi, proprio in merito al fatto che i testimoni non abbiano sentito nulla, ha fornito le sue spiegazioni. "Il fatto che i testimoni sentiti oggi non abbiano sentito nulla, lo ripetiamo spesso, non ha alcuna rilevanza. Non stiamo parlando di uno stupro avvenuto per strada, ma di una persona che non era neanche nelle condizioni di urlare", ha dichiarato Romano. E senza dare specifiche, ha concluso: "Ai fini di far emergere queste contraddizioni, abbiamo dovuto fare contestazioni anche documentali. Non posso dire altro".

"Mi farei le figlie del preside". Le nuove chat che inguaiano Ciro Grillo. Massimo Balsamo il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il figlio di Beppe Grillo e tre amici accusati di violenza sessuale a due studentesse milanesi nel luglio del 2019. Clima rovente in tribunale dopo la testimonianza della madre di Ciro, Parvin Tadjk

Spuntano nuove chat nel processo a Ciro Grillo e ai suoi tre amici, Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria per stupro di gruppo. Mercoledì nuova udienza davanti al tribunale di Tempio Pausania, un appuntamento molto atteso. È stato infatti il giorno della testimonianza della madre di Ciro, Parvin Tadjk, che dormiva in una casa accanto a quella dove si sarebbero consumati i presunti abusi ai danni di due giovani milanesi.

Le nuove chat di Ciro Grillo

Gli avvocati delle parti civili – Giulia Bongiorno e Dario Romano – hanno acceso i riflettori su una chat tra Ciro Grillo e Parvin Tadjik datata agosto 2017. Una conversazione nella quale la moglie di Bepppe Grillo rimproverò aspramente il figlio, al tempo a Auckland, in Nuova Zelanda, per una vacanza-studio. La scuola voleva espellere il giovane perché il vicepreside era molto infastidito per alcune sue parole.

Quel precedente di Grillo jr. La Nuova Zelanda lo cacciò

“Se potessi darei due pugni in faccia al preside e mi farei le sue due figlie”, lo sfogo di Ciro Grillo con un compagno di classe riportato da La Stampa. Una frase choc che comportò l’apertura di un procedimento disciplinare e il rischio di espulsione dall’istituto. Per le parti civili, quelle parole sono da considerarsi molestie sessuali a tutti gli effetti. Ma non solo: dimostrerebbero il carattere aggressivo e violento del figlio del garante del Movimento 5 Stelle.

Posizioni contestate con forza dai legali di Ciro. “L’affermazione non ha nulla a che vedere con la molestia sessuale”, la precisazione dei difensori: “È un modo di dire, molto poco elegante, che nel gergo maschile viene usato”. Accuse tendenziose e ininfluenti nel processo, in altre parole.

La testimonianza di Parvin Tadjk

Interpellata da giudice, pubblico ministero e parte civile, Parvin Tadjk ha confermato la sua versione dei fatti: “Urla? Grida d'aiuto? Nulla di nulla". La 61enne ha ricostruito le ore successive alla notte del 16 luglio, ribadendo quanto detto agli inquirenti tre mesi dopo i fatti. Presente in aula anche Cristina Stasia, amica di Parvin Tadjik, anche lei nell'appartamento quella notte. La donna ha affermato di aver incrociato una delle due giovani coinvolte: “Ho incrociato la ragazza era con i piedi sul tavolo che fumava tranquilla. Non mi ha chiesto aiuto”. Nessuna avvisaglia di pericolo o di choc. Il processo a Ciro Grillo e ai tre suoi amici proseguirà il prossimo 19 ottobre.

Ciro Grillo, "ca*** durissimi qui": la chat choc che fa esplodere il caso. Libero Quotidiano il 22 settembre 2022

Nuovi guai per il figlio di Beppe Grillo. Anche l’espulsione di Ciro Grillo da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda, nel 2017, è entrata nell’udienza  nel processo per stupro di gruppo che vede imputati lo stesso figlio del fondatore del M5S e i tre suoi amici. Alla domanda dell’avvocato Dario Romano, che rappresenta la parte civile della ragazza italo-norvegese che denunciò di essere stata violentata nel luglio del 2019 in Costa Smeralda, se il figlio Ciro avesse mai avuto precedenti riguardanti molestie sessuali o violenze sessuali, Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, ha risposto: "No mai".

A quel punto, come si apprende, perché l’udienza si celebra a porte chiuse, il legale ha tirato fuori le chat del 2017 da cui emerge che Ciro Grillo era stato espulso da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda. Nel 2017, come emerge dalla documentazione che riporta l'Adnkronos, Ciro Grillo durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College, scuola di Auckland, in Nuova Zelanda, commenta: "Ca…i durissimi in Nuova Zelanda". Il figlio del fondatore del M5s, si avventura in frasi volgari anche "sulle figlie del vicepreside del Macleans College, Phil Goodyear".

Scatta a quel punto un processo scolastico. I genitori a quel punto lo rimpatriano con il primo volo per l’Italia. "Hanno parlato anche di polizia. In Nuova Zelanda minacciare qualcuno è gravissimo". Come emerge dalle chat. E ancora: "Ciro non c’è niente da fare il direttore generale ha parlato con Caterina e ti vogliono espellere con foglio di via, forse anche con la polizia se tu fai resistenza. A meno che tu non venga via di tua spontanea volontà, hanno già deciso che perderai il processo anche se tu ti scuserai o hai ragione. Non vogliono darti il nulla osta per l’altra scuola, quindi non ti puoi assolutamente spostare perché l’altra scuola non ti può accettare. Abbiamo veramente provato di tutto ormai da 16 ore, mi dispiace non c’è niente da fare". Oggi quella chat è entrata nel processo di Tempio Pausania.

Ciro Grillo a processo in Sardegna, la mamma: «Non vidi nulla di anomalo». Ripresa l'istruttoria dibattimentale (a porte chiuse) sulla presunta violenza sessuale di gruppo avvenuta nel 2019 nell'isola sarda. Sentiti diversi testimoni. Scontro in aula tra difesa e parte civile. E spunta una chat familiare...Il Dubbio il 22 settembre 2022.

Entra nel vivo il processo per violenza sessuale nei confronti di Ciro Grillo, figlio del fondatore del Movimento Cinque Stelle, e altri tre suoi amici, accusati di aver stuprato in gruppo una ragazza, in una villa di Costa Smeralda, in Sardegna, nel luglio del 2019. In aula ieri sono sfilati tanti testimoni, tra cui la moglie di Beppe Grillo. 

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, cosa ha detto la moglie del fondatore del M5S

«Non ho sentito o visto nulla di anomalo». Sono le parole di Parvin Tadjk, la madre di Ciro Grillo, in aula, la quale ha ribadito quanto detto agli inquirenti: che la notte del luglio 2019 dormiva nella casa accanto e non ha notato nulla di sospetto. A dirlo ai cronisti sono gli avvocati della difesa, dal momento che l’udienza si tiene a porte chiuse.

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, le altre testimonianze

La mattina dopo il presunto stupro che sarebbe avvenuto in una villa in Costa Smeralda, nel luglio del 2019, una delle due ragazze «fumava tranquillamente, non sembrava in difficoltà e non ha chiesto aiuto». A dirlo, in aula, al processo a carico di Ciro Grillo e di tre suoi amici, è Maria Cristina Stasia, l’amica della madre di Ciro Grillo Parvin Tadjk, ospite nella villetta di Porto Cervo.

La donna ha confermato al pm Gregorio Capasso e ai giudici che la mattina dopo il presunto stupro vide una ragazza in accappatoio e con un asciugamano a turbante sulla testa nel patio della casa dove soggiornavano i ragazzi. A riferirlo ai giornalisti è la legale di uno degli imputati, l’avvocata Antonella Cuccureddu.

«È passato troppo tempo, è impossibile ricordare se quei ragazzi sono entrati nel nostro bar. Abbiamo anche un sistema di telecamere, ma i carabinieri sono venuti da noi nell’aprile 2021, due anni dopo, le immagini erano già state cancellate», ha detto invece Ivano Carta, uno dei titolari del bar tabacchi “Il caffè degli artisti” di Porto Cervo, dove una delle due ragazze, presunte vittime dello stupro in Costa Smeralda, sarebbe andata a compare le sigarette in compagnia di uno dei quattro giovani imputati.

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, il commento degli avvocati di parte civile

«Nelle testimonianze sono emerse numerose contraddizioni che contesteremo, anche con produzione documentale, nelle prossime udienze. Non posso entrare nel merito, ma dire che non si sono sentite grida o che non ricordano di avere visto i ragazzi non ha alcuna rilevanza». Così l’avvocato Dario Romano, avvocato di parte civile del processo a Ciro Grillo, figlio di Beppe, e tre suoi amici genovesi.

«Non è stata una violenza sessuale per strada, la nostra assistita ha sempre sottolineato di non esser stata nemmeno in condizioni di chiedere aiuto, quindi quanto accaduto oggi è del tutto irrilevante. Anzi, casomai, conferma che quanto accaduto è accaduto in una condizione in cui la nostra assistita non poteva chiedere aiuto, perché non era in uno stato di piena coscienza, piena capacità» ha precisato l’avvocata Giulia Bongiorno, legale di parte civile della presunta vittima dello stupro che sarebbe avvenuto nel luglio 2019 in Costa Smeralda.

Processo contro Ciro Grillo e altri tre suoi amici, parola alla difesa

«La signora Grillo, così come tutti gli altri testimoni, anche quelli che sono stati sentiti le volte precedenti, ha raccontato di non aver sentito niente. Né lei né le persone che abitavano nella sua casa» ha detto l’avvocata Antonella Cuccureddu, legale di Francesco Corsiglia, uno dei tre amici di Ciro Grillo imputati per un presunto stupro di gruppo avvenuto nel luglio 2019 in Costa Smeralda. «Stiamo parlando di un abuso», ha dichiarato la legale della difesa, «che è stato descritto con urla, spinte, ribellione eccetera». «Nessuno ha sentito richieste d’aiuto né da dentro casa né da fuori né urla né cose che cadevano né rumori di nessun genere», ha aggiunto l’avvocata della difesa, riassumendo alcune delle testimonianze rese oggi in aula, a proposito di quanto accade nella notte fra il 16 e il 17 luglio 2019.

Il figlio di Beppe Grillo espulso da una scuola in Nuova Zelanda

Anche l’espulsione di Ciro Grillo da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda, nel 2017, è entrata nell’udienza nel processo per violenza sessuale di gruppo che vede imputati lo stesso figlio del fondatore del M5S e i tre suoi amici. Alla domanda dell’avvocato Dario Romano, che rappresenta la parte civile della ragazza italo-norvegese che denunciò di essere stata violentata nel luglio del 2019 in Costa Smeralda, se il figlio Ciro avesse mai avuto precedenti riguardanti molestie sessuali o violenze sessuali, Parvin Tadjik, moglie di Beppe Grillo e madre di Ciro, ha risposto: «No mai». A quel punto, come si apprende, perché l’udienza si celebra a porte chiuse, il legale ha tirato fuori le chat del 2017 da cui emerge che Ciro Grillo era stato espulso da una scuola ad Auckland, in Nuova Zelanda.

Nel 2017, come emerge dalla documentazione, Ciro Grillo durante un viaggio, una vacanza studio al Macleans College, scuola di Auckland, in Nuova Zelanda, commenta: «Ca…i durissimi in Nuova Zelanda». Il figlio del fondatore del M5s, si avventura in frasi volgari anche «sulle figlie del vicepreside del Macleans College, Phil Goodyear». Scatta a quel punto un processo scolastico. I genitori a quel punto lo rimpatriano con il primo volo per l’Italia. «Hanno parlato anche di polizia. In Nuova Zelanda minacciare qualcuno è gravissimo».

E ancora: «Ciro non c’è niente da fare il direttore generale ha parlato con Caterina e ti vogliono espellere con foglio di via, forse anche con la polizia se tu fai resistenza. A meno che tu non venga via di tua spontanea volontà, hanno già deciso che perderai il processo anche se tu ti scuserai o hai ragione. Non vogliono darti il nulla osta per l’altra scuola, quindi non ti puoi assolutamente spostare perché l’altra scuola non ti può accettare. Abbiamo veramente provato di tutto ormai da 16 ore, mi dispiace non c’è niente da fare». Quella chat è entrata nel processo di Tempio Pausania. Il processo riprenderà il prossimo 19 ottobre.

Grillo jr, il processo salta per i microfoni. "Attrezzatura carente". E l'udienza per lo stupro viene annullata. Luca Fazzo il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Se dietro non ci fosse un dramma sembrerebbe una commedia. Il processo in Sardegna ai quattro giovanotti genovesi - tra cui Ciro Grillo, figlio di Beppe - accusati di stupro di gruppo sta viaggiando fin dall'inizio delle udienze a ritmi singolarmente lenti, ma ieri si raggiunge il top. In programma c'era l'interrogatorio di alcuni testimoni, tra cui alcuni di rilievo, citati a deporre dalla Procura di Tempio Pausania. Tra questi, una era arrivata apposta da Milano, la psicologa della clinica Mangiagalli dove la studentessa norvegese vittima - secondo quanto afferma - delle violenze del quartetto venne curata dopo avere sporto denuncia. Ma l'udienza salta. Motivo: l'ultima volta i difensori avevano manifestato al tribunale presieduto dal giudice Marco Contu la loro contrarietà per la carente attrezzatura tecnica dell'aula, con due microfoni per dieci difensori, schermi insufficienti, eccetera. É passato un mese, durante il quale non risulta che le carenze tecniche siano state affrontate e men che meno risolte. La conseguenza è che ieri mattina i legali tornano a sollevare le loro obiezioni che il giudice stavolta accoglie in pieno annullando l'udienza e rinviando tutto di un altro mese. In calendario a dire il vero era prevista una udienza più ravvicinata, il 2 novembre, ma viene comunicato che salterà per «difficoltà tecniche» imprecisate. Le stesse segnalate oggi, che si sa già destinate a non essere risolte? O altre? Buio fitto.

L'intera vicenda sembra nata sotto una cattiva stella fin dalla fase delle indagini preliminari: nonostante la gravità delle ipotesi di reato, la Procura si mosse con tale calma che quando i carabinieri andarono a prelevare le immagini di sorveglianza di un locale erano già state cancellate dal computer essendo passati due anni dai fatti. I pm, guidati dal procuratore Gregorio Capasso, hanno impiegato un anno e mezzo per chiudere le indagini; un anno tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'inizio del processo; e quando si è cominciato i giudici hanno annunciato un calendario rarefatto, una sola udienza al mese. Ieri anche questa unica udienza salta. La prescrizione non è ancora a portata di mano, ma i ritmi del processo hanno amareggiato la presunta vittima. Tanto da far dire al legale della ragazza, Giulia Bongiorno: «A lasciare stupita la mia assistita sono i tempi annunciati. Fino a quando processo non finirà questa ferita per la ragazza resterà aperta».

Ieri oltre alla psicologa della clinica «Mangiagalli» avrebbero dovuto essere sentiti anche il medico legale e la ginecologa della stessa clinica che ebbero modo di visitare la studentessa: ma avevano altri impegni inderogabili, e hanno così potuto risparmiarsi l'inutile trasferta. Se ne riparla il 16 novembre sperando che microfoni e schermi siano arrivati, altrimenti il processo rischia il trasloco a Sassari.

La difesa dell’amico di Ciro Grillo in udienza: «Io non ho violentato nessuno». Alberto Pinna su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.

Il processo ai quattro giovani perla presunta violenza sessuale nei confronti di una studentessa italo-norvegese e di un’amica. Il medico in aula: «Le lesioni sulle gambe compatibili con una violenza ma anche con un trauma sportivo»

Tempio Pausania «Non le ho mai usato violenza. Lei era consenziente». Parla per la prima volta ed è poco più che un sibilo la voce di Francesco Corsiglia; nell’aula del Tribunale si fa silenzio per quattro minuti. L’amico di Ciro Grillo (figlio di Beppe), Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, non senza imbarazzo ma deciso, curvo sotto un giaccone verde, lo sguardo un po’ verso i giudici e un po’ nel vuoto, scandisce lentamente: «Nessuna violenza». E ripete: «Nessuna».

Le sue dichiarazioni spontanee, accanto agli avvocati Antonella Cuccureddu e Gennaro Velle, non erano previste. Silvia (nome di fantasia), la ragazza italo-norvegese lo accusa: «È stato il primo. Ha abusato di me nel letto e poi nella doccia». Corsiglia si difende: «Nessun abuso e dopo il rapporto sessuale sono andato in un’altra stanza e mi sono addormentato. Non so nulla di quel che è accaduto in seguito». E persino si scusa: «Non ho potuto essere presente alle udienze perché studio in Spagna. Ma oggi sono voluto venire per dire che sono innocente».

C’è ancora confusione su quella mattina del 17 luglio 2019. Avevano ballato fino a notte fonda, non si trovava un taxi e così Silvia e la sua amica Roberta (altro nome fittizio) hanno accettato di continuare a far festa con i quattro amici genovesi, appena conosciuti, seguendoli nella villetta di Beppe Grillo al Piccolo Pevero in Costa Smeralda. Spaghetti e vodka all’alba, l’incubo della violenza sessuale di gruppo per Silvia che lo dice ai genitori una settimana dopo, al rientro a Milano: visita medica e tutto annotato dalle dottoresse della clinica Mangiagalli di Milano, le stesse che hanno testimoniato nell’udienza di ieri. Convocati come testi anche i proprietari del B&B nel quale le ragazze alloggiavano e i due istruttori di kitesurf con i quali Silvia aveva parlato poche ore dopo i fatti.

Daniele Ambrosini e Maika Pasqui, gestori del B&B, avevano riferito ai carabinieri (e hanno confermato ieri) che le ragazze, rientrando, apparivano «serene e felici», anche se alla stampa avevano invece raccontato che erano «turbate». Marco Grasovin (kitesurf), ha invece riferito che Silvia gli ha parlato della violenza subita dicendogli che l’avevano costretta a bere. Dettaglio che fa dire alla sua avvocata, Giulia Bongiorno, che «emerge l’elemento decisivo per poter parlare di violenza, cioè la costrizione».

Un quadro contraddittorio, che tale sembra rimanere anche dopo le testimonianze dei medici della Mangiagalli di Milano. Per la psicologa Laila Micai il comportamento di Silvia e le sue reazioni erano e sono in linea con quelli «che manifestano persone vittime di stupro». La ginecologa Marta Castiglioni ha visitato la ragazza 9 giorni dopo l’asserita violenza, «troppi per rilevare segni di violenza sessuale». Il medico legale Vera Gloria Merelli, infine, ha affermato che le lesioni all’avambraccio e alle gambe «sono compatibili con violenza sessuale, ma possono essere attribuibili anche a traumi da attività sportiva». Il processo non è che ai primi passi. Devono essere sentiti più di 30 testimoni. Il tribunale ha fissato nei prossimi 5 mesi tre udienze: l’8 febbraio, l’8 marzo, il 12 aprile. Toccherà poi a pm, parti civili, ai 7 difensori. Difficile che la sentenza possa essere pronunciata nel 2023.

Da lastampa.it il 16 novembre 2022.

Nell'interrogatorio durante il processo in corso a Tempio Pausania contro Ciro Grillo e i tre amici Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, la psicologa Laila Micci, della clinica Mangiagalli di Milano, ha confermato il primo referto sulla presunta vittima della violenza di gruppo, che parlava di uno stato traumatico a livello psicologico compatibile con un episodio di stupro.

 Le sue parole hanno provocato le reazioni degli avvocati della difesa, che hanno portato a una breve sospensione dell'udienza. La psicologa sembra che stia ancora seguendo la vittima all'interno di un percorso di cura.

I tre imputati sono chiamati a rispondere di stupro di gruppo nei confronti della studentessa italo-norvegese, e di violenza sessuale verso la sua amica. Episodio avvenuto tra il 16 e il 17 luglio del 2019 in un residence di Porto Cervo. 

«La ragazza non ha ancora superato il trauma e sta seguendo un percorso di sostegno psicologico». È quanto avrebbe dichiarato in aula, appunto, la psicologa. 

Sono stati sentiti anche gli altri medici che avevano visitato la ragazza. Uno di loro ha affermato che i lividi «erano compatibili sia con lo stupro sia con l’attività sportiva».

 Mentre, a sorpresa, Francesco Corsiglia si è presentato oggi in aula. Il ragazzo, difeso dagli avvocati Antonella Cuccureddu e Gennaro Velle, era comparso solo un'altra volta per assistere al dibattimento, che si svolge a porte chiuse. Intanto procede la deposizione dei sette testi chiamati a deporre dal procuratore Gregorio Capasso.

È già stata sentita la ginecologa della clinica Mangiagalli di Milano, Marta Castiglioni: la professionista, che aveva visitato la ragazza italo norvegese nove giorni dopo il presunto stupro in Costa Smeralda, avrebbe dichiarato davanti ai giudici che i lividi rincontrati sul corpo della studentessa erano compatibili sia con una possibile violenza sessuale, sia con attività sportiva.

La ragazza, presunta vittima dello stupro, sarà sentita nel corso di una super udienza. La data è ancora da definire. Ha parlato, poi, un altro testimone, Daniele Ambrosiani, il titolare del b&b di Porto Pollo dove le due studentesse presunte vittime di una violenza sessuale di gruppo alloggiarono nel luglio 2019 durante la loro vacanza in Sardegna. «La ragazza era molto schiva, non dava molta confidenza. Il giorno dopo i presunti fatti ho pensato che fosse in "hangover”, con i soliti sintomi post sbornia» ha detto davanti ai giudici. E ha infine aggiunto: «È rimasta da noi una ventina di giorni - ha precisato Ambrosiani - i genitori la raggiungevano solo nei weekend. Mi sono sembrate persone per bene, di una classe sociale abbastanza elevata».

Caso Grillo Jr, la psicologa conferma la violenza. "Tipiche sintomatologie delle vittime di stupro". Per l'avvocato Bongiorno la giovane nella villa è pure stata "costretta a bere". Luca Fazzo il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.

E adesso arrivano i primi riscontri. Dopo i «non so», i «non ho sentito niente», i «sembravano tranquille», nell'aula del processo a Ciro Grillo, figlio di Beppe, e ai tre amici imputati insieme a lui di stupro di gruppo arrivano le prime testimonianze destinate a pesare in modo consistente sul piatto dell'accusa. Sono i racconti di chi ha incontrato la ragazza italo-norvegese sia nelle ore successive alla notte tra il 16 e il 17 luglio 2019 trascorsa nella villa dei Grillo in Costa Smeralda, sia dei medici che l'hanno presa in carico dopo la denuncia sporta ai carabinieri. Sono testimonianze importanti perché confliggono con la tesi di fondo dei legali dei quattro giovani: secondo cui la ragazza sarebbe stata protagonista lucidamente e volontariamente di una allegra notte di sesso collettivo, salvo pentirsene una volta tornata a Milano in famiglia. Lo ripete ieri in aula uno dei quattro, Francesco Corsiglia, in una breve autodifesa: «Io non ho mai commesso alcuna violenza sulla ragazza. È stato un rapporto assolutamente consenziente. Lo ripeto: consenziente».

Invece S. non era tranquilla affatto, all'indomani della notte con i quattro. Lo racconta Marco Grusovin, l'istruttore di kitesurf che il 17 luglio ebbe la ragazza a lezione. Fu lui il primo a raccogliere le sue confidenze. «Ricordo che la ragazza mi raccontò di avere subito una violenza sessuale e di stare molto male», dichiara Grusovin. L'uomo conferma quanto aveva dichiarato ai carabinieri milanesi, ricordando che la giovane gli aveva riferito di «essere uscita in un locale e di avere conosciuto dei ragazzi, tra i 5 e i sette, non lo ricordava perché aveva bevuto (....) alla fine quattro ragazzi avevano abusato sessualmente di lei. Lei diceva che non ricordava bene perché era molto ubriaca e non sapeva neanche se fosse avvenuto di sera o di mattina». É il contrario di quanto le difese avevano cercato di dimostrare finora, descrivendo la ragazza spensierata e allegra nei giorni successivi ai fatti.

É vero che un altro testimone di quelle ore, il padrone del B&B dove la ragazza alloggiava con un'amica (anche lei ospite della festa notturna, e anche lei vittima - secondo l'accusa - delle violenze di gruppo) dice che la mattina dopo le due giovani erano tranquille: ma nelle dichiarazioni a due quotidiani aveva detto il contrario. Ma quel che conta è che dopo di lui arrivano in aula i due medici della clinica Mangiagalli di Milano che hanno curato la studentessa. Una, Vera Gloria Marelli, dice che la paziente aveva su braccia e gambe compatibili con una violenza (ma anche, precisa, «con una caduta da attività sportiva»). La psicologa Laila Micci aggiunge che nove giorni dopo i fatti la ragazza «presentava le tipiche sintomatologie delle vittime di uno stupro», che «è tuttora in cura» e che «non ha ancora superato il trauma».

«É stata una giornata importante - commenta Giulia Bongiorno che insieme al collega Dario Romano rappresenta la ragazza - perchè dopo alcune udienze inutili si è entrati finalmente nel vivo. Dalla testimonianza Grusovin abbiamo avuto la conferma che la giovane era stata costretta a bere. Questo per noi è un elemento cruciale». Se i rapporti sessuali avvennero con una giovane non più in grado di decidere liberamente perché oscurata dall'alcool, e se oltretutto l'ubriachezza era stata deliberatamente indotta da Grillo e dai suoi amici, quella per la legge fu una violenza sessuale.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 18 novembre 2022.

Battute da caserma, cortocircuiti istituzionali e testimoni che denunciano di aver ricevuto offerte di denaro per andare in tv. Nel processo di Tempio Pausania a Ciro Grillo & C. mercoledì scorso è entrato tutto questo. In più il collegio giudicante per la prima volta è sembrato perplesso per la gestione del dibattimento da parte dell'accusa che non ha ancora portato in aula a testimoniare le presunte vittime della violenza sessuale di gruppo, l'italo-norvegese S. e l'amica R. 

Il presidente del collegio Marco Contu si è rivolto al capo degli inquirenti Gregorio Capasso più o meno in questi termini: «Procuratore il collegio a questo punto si chiede quando vuol sentire le persone offese». Capasso ha spiegato che per la prossima udienza ritiene più utile un confronto tra consulenti tecnici per la selezione del materiale informatico da utilizzare in vista dell'esame delle ragazze. Infatti dai cellulari è stato estratto circa un terabyte di messaggi e video. Un mare magnum difficile da gestire.

Se passerà questa linea S. potrebbe essere ascoltata nell'udienza successiva, fissata in una data evocativa: l'8 marzo, festa della donna. Ma come sempre sarà un mercoledì e l'avvocato Dario Romano, il sostituto processuale della collega Giulia Bongiorno, senatore leghista e presidente della commissione giustizia di Palazzo Madama, ha fatto sapere che l'onorevole vorrebbe essere presente all'esame della sua assistita e ha chiesto per questo un'udienza straordinaria visto che il mercoledì è giornata di seduta della commissione. 

Collegio e Procura si sono riservati di verificare i propri impegni prima di accogliere l'istanza. Noi ci permettiamo di evidenziare l'anomalia di un presidente di commissione Giustizia che chiede un'udienza straordinaria in un processo che riguarda il figlio di un avversario politico.

Ma il momento clou mercoledì è stata la testimonianza di Marco G., ex insegnante di kite di S. Il 17 luglio 2019, poche ore dopo la presunta violenza, aveva ricevuto dalla sua allieva alcuni messaggi audio (pubblicati in esclusiva sul nostro sito a luglio) riferiti agli eventi oggetto del processo. «No, Marco tranquillo, non ti preoccupare ehm ho fatto una cazzata, poi te la racconterò, eh, niente, cioè parliamo un attimo ehm mi serve un po' una dritta diciamo proprio cinque dita in faccia mi servono» aveva detto con voce squillante la ragazza. 

Marco G. ha confermato quanto già dichiarato nel 2019 ai carabinieri e cioè che la descrizione degli eventi da parte della sua allieva gli era parsa «confusa e contraddittoria» e che aveva avuto la sensazione che S. si stesse «arrampicando sugli specchi» e che stesse cercando di «attirare l'attenzione». L'istruttore, due giorni fa, ha, però, aggiunto due particolari inediti: che la ragazza gli avrebbe parlato di dolori alle parti intime e che gli avrebbe riferito di essere stata costretta a bere vodka dopo essere stata afferrata per i capelli.

Ma, al momento del controesame dei difensori, avrebbe fatto marcia indietro, spiegando che la verità era quella riferita ai carabinieri pochi giorni dopo i fatti. Gli altri ricordi sarebbero stati indotti da tutte le cose che aveva letto e sentito su giornali e tv. 

A questo punto gli avvocati gli hanno chiesto di spiegare meglio il messaggio che aveva pubblicato su Facebook nei giorni di maggiore concitazione mediatica, allorquando aveva detto: «In questi giorni mi state continuando a proporre ospitate tv per chiarire, soldi, fama, lanciare messaggi. Non mi va tutto questo e ho deciso di fare questo video così è tutto gratis». Lui ha spiegato che c'era chi gli aveva proposto denaro, chi gli aveva promesso di farlo diventare famoso facendogli fare il testimonial di campagne antiviolenza e chi gli aveva teso un'imboscata con la telecamera nascosta in un parcheggio di un supermercato.

Molto importanti anche le dichiarazioni dell'altra istruttrice, Francesca B., la quale ha descritto come funzioni il kitesurf, evidenziando la pericolosità di quello sport che richiede massima lucidità e forma fisica ottimale per essere praticato. Diversamente non conviene entrare in mare. Un concetto già espresso tre anni fa quando aveva dichiarato: «Escludo che la ragazza abbia manifestato comportamenti tipici di una persona sotto gli effetti di alcoolici, anche perché non le avrei consentito di iniziare la lezione». 

La donna ha ammesso che anche lei non di rado esce dall'acqua con dei lividi sulla pelle. Una puntualizzazione da collegare agli ematomi riscontrati in ospedale sul corpo di S., che la ragazza ha giustificato con la violenza subita, ma che mercoledì il medico legale Vera Gloria Merelli ha confermato essere compatibili oltre che con un'aggressione anche con un'attività sportiva come il kite.

La psicologa Laila Micci, che ha raccolto la denuncia e ha preso in cura S., ha assicurato che la ragazza non avrebbe ancora superato il trauma e starebbe «seguendo un percorso di sostegno psicologico». Ma la dichiarazione che ha causato più imbarazzo è quella del proprietario del bed and breakfast che ospitava le ragazze nella vacanza in Sardegna. Agli investigatori Daniele A. aveva detto che, quando vide le ragazze tornare con le scarpe con i tacchi in mano, «aveva avuto la sensazione che fossero entrambe felici».

Il procuratore ha chiesto di spiegare meglio quella frase e il teste ha risposto che in realtà aveva usato un'espressione differente, «da italiano medio», di quelle che si utilizzano tra uomini «negli spogliatoi dei campi di calcio» e che i militari avevano addolcito. Infatti avrebbe detto testualmente: «Ho pensato che quelle due avessero passato la notte in giro e ne avessero preso». 

Mercoledì ha parlato in aula uno degli imputati, Francesco Corsiglia, accusato del primo stupro singolo, a cui sarebbe seguito quello di gruppo, il quale ha dichiarato: «Innanzitutto mi scuso con tutti voi per non essere stato presente alle udienze precedenti. Già da prima di questa denuncia avevo chiesto ai miei genitori di sostenermi in un percorso di studi che difatti era ed è la mia passione.

Sto frequentando un corso di management nel settore turistico presso una prestigiosa università Svizzera con sedi anche in altre nazioni. Come previsto è molto impegnativa perché devo frequentare lezioni tutti i giorni e sostenere numerosi esami. La passione per questa materia mi aiuta a sostenere il peso di questa vicenda. Mi sento anche di dirvi che non ho commesso nessun reato, non ho commesso nessuna violenza nei confronti di questa ragazza». Invece nel secondo episodio non ero proprio presente, poiché al ritorno del Caffè degli artisti sono andato direttamente a dormire».

Estratto dell'articolo di Giuseppe Filetto per repubblica.it il 18 novembre 2022.

Dicono che sia un testimone-chiave. Che la sua deposizione potrebbe cambiare molto in questo processo - su Ciro Grillo ed i suoi tre amici genovesi Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria - per stupro nei confronti di Silvia (nome di fantasia), studentessa milanese di origini italo-norvegesi. "Perchè un caro amico di questa ragazza ha da raccontare un episodio accaduto proprio in Norvegia prima di quello del 17 luglio 2019 in Sardegna", dicono gli avvocati della difesa. 

Parliamo dello studente David Enrique Obando, ventenne norvegese di origini nicaraguensi, figlio di un noto politico di Oslo. Sarà lui ad essere sentito come testimone in una delle prossime udienze. L'hanno chiesto gli avvocati Andrea Vernazza, Alessandro Vaccaro, Ernesto Monteverde, Gennaro Velle, Enrico Grillo, Mariano Mameli ed Antonella Cuccureddu. E il giudice di Tempio Pausania, dove si svolge il processo, l'ha concesso.

Obando ha da chiarire quanto Silvia (difesa dagli avvocati Giulia Bongiorno, senatrice della Lega, e Dario Romano) confidò al maestro di kitesurf Marco Grusovin qualche giorno dopo il presunto stupro avvenuto il 17 luglio del 2019 a Cala di Volpe, nella villetta in uso alla famiglia di Beppe Grillo, ad opera dei quattro giovani genovesi oggi imputati: "Questa non è la prima volta, mi era già accaduto in Norvegia", avrebbe detto la ragazza.

Silvia avrebbe subito una violenza sessuale nell'estate del 2018 da parte del nicaraguense mentre i due si trovavano in vacanza, in tenda. Grusovin lo ha ripetuto in aula, durante l'udienza di mercoledì scorso. Tant'è che adesso sia gli avvocati che il collegio giudicante vogliono sentire Obando.   

C'è di più: l'istruttore ha aggiunto: «La ragazza mi raccontò che aveva avuto un confronto con il suo amico dopo i fatti e che lui, mentre gli contestava l’abuso sessuale, era caduto dalle nuvole, dicendo che lo riteneva un rapporto consensuale. Perciò non l'aveva denunciato». Lo stesso Grusovin in aula ha precisato che quel racconto non gli era sembrato veritiero. […]

Stelle cadenti. Report Rai PUNTATA DEL 06/06/2022 di Danilo Procaccianti Collaborazione di Norma Ferrara 

Beppe Grillo, il garante del Movimento 5 Stelle è indagato, insieme all'armatore Vincenzo Onorato, dalla procura di Milano per traffico di influenze illecite. 

Il reato, commesso da chi si fa promettere o dare denaro sfruttando le sue relazioni con un pubblico ufficiale, è stato inasprito proprio dai 5 stelle. Onorato, secondo le ipotesi della procura, dopo aver pagato Grillo attraverso alcuni contratti commerciali, avrebbe richiesto al garante dei 5 stelle una serie di interventi in favore di Moby Spa che Beppe Grillo avrebbe poi veicolato a esponenti politici. Nell'ambito della stessa inchiesta sono state eseguite perquisizioni anche nella sede della Casaleggio Associati e si è scoperto che anche Davide Casaleggio avrebbe preso soldi da Onorato. Si tratta di un contratto da 600mila euro l’anno per la stesura di un piano strategico per sensibilizzare gli stakeholders alla tematica dei benefici fiscali. Oggi le strade dei Cinque stelle e di Davide Casaleggio con la sua Associazione Rousseau si sono divise, ma qual è stato il ruolo di Casaleggio all'interno del Movimento? Esisteva il conflitto di interessi sempre negato?

STELLE CADENTI di Danilo Procaccianti Collaborazione di Norma Ferrara Immagini di Carlos Dias, Cristiano Forti, Chiara D'Ambros Giovanni De Faveri, Andrea Lilli Ricerca immagini di Paola Gottardi, Alessia Pelagaggi Montaggio e grafiche di Monica Cesarani

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE TORRE DEL GRECO - 12 FEBBRAIO 2018 Quando sentite una persona dire “tanto sono tutti uguali” state molto attenti, primo non è vero che sono tutti uguali, secondo è l’alibi che si crea uno per non fare un cazzo e non dire niente perché gli sta bene così.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Torre del Greco, è il 12 febbraio 2018 il Movimento 5 Stelle porta in piazza con Beppe Grillo la battaglia per i lavoratori marittimi italiani, contro quella che definisce "una delle categorie più privilegiate di questo Paese, gli armatori" a suggerirgli il tema però è proprio un armatore.

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE TORRE DEL GRECO - 12 FEBBRAIO 2018 Quando un armatore di qua, napoletano, mi ha detto che gli armatori sono esentasse, io sono rimasto... Ho chiesto un po’ in giro, nessuno sapeva questa notizia.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’armatore di cui parla Beppe Grillo è Vincenzo Onorato, patron di Moby e Tirrenia Cin compagnia italiana navigazione. Beppe Grillo sposa in pieno la battaglia di Vincenzo Onorato tanto che firma anche un articolo sul blog: “Siamo un popolo di navigatori, disoccupati”, è il titolo dell’articolo, e all’interno si legge: “Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi”.

LUIGI DI MAIO – CAPO POLITICO M5S 2017 - 2020 TORRE DEL GRECO - 12 FEBBRAIO 2018 Io vi chiedo di farvi una domanda, quando tutti vi prometteranno di volervi aiutare se avevano e se hanno già governato questo Paese perché non vi hanno aiutato quando stavano governando? E adesso tutti vengono a promettervi il cambiamento.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Luigi Di Maio era stato l’unico candidato premier ad accettare l’invito di Marittimi per il futuro. Un’associazione di 3mila iscritti che si trasformò in bacino elettorale per il movimento 5 stelle che a Torre del Greco trionfò con il 54,4 per cento delle preferenze. 15 giorni dopo quel comizio però Beppe Grillo firma un contratto di 120 mila euro l’anno con Onorato, una cifra che rappresenta la metà del bilancio della srl di Beppe Grillo.

STEFANO MARTINAZZO – COMMERCIALISTA “AXERTA” Però se questo contratto non fosse stato sottoscritto per la Beppe Grillo le cose sarebbero andate decisamente male perché, a parità di costi, la società avrebbe chiuso con una grande perdita che avrebbe eroso l’intero patrimonio della società.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’accordo di collaborazione prevedeva per 10mila euro mensili “inserimenti pubblicitari”, sul blog del comico e la pubblicazione di “contenuti redazionali”. Alcuni articoli apparsi sul sacro blog, quello a cui gli attivisti si ispiravano per la nuova politica del movimento, non erano altro che articoli a pagamento. Ma la legge di Grillo non è uguale per tutti.

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Pensi che mi hanno fatto chiudere l'azienda. Io sono entrato con un'azienda, per non avere conflitti di interessi Beppe Grillo mi ha detto no l'azienda la devi chiudere. Quindi poi andare a essere finanziato con cifre così importanti da un'azienda che te la troverai in Parlamento, in qualche emendamento, in qualche norma, ma eticamente io personalmente per il gruppo, con un gruppo come Movimento cinque Stelle non l'avrei mai fatto.

SIGFRIDO RANUCI IN STUDIO Quei contratti tra Grillo e Onorato, finiscono sotto la lente della magistratura che ipotizza il reato di traffico di influenze illecite, ecco un reato che è stato anche inasprito proprio dal governo dei 5 Stelle. Lo commetterebbe chi raccoglie denaro o promesse di denaro, o benefit, tese a sfruttare le sue relazioni privilegiate con pubblici ufficiali. In questo caso, Vincenzo Onorato che è l’armatore di Tirrenia e Moby, è stato anche l’armatore della Moby Prince che 31 anni fa, uscendo dal porto di Livorno, impattò con la petroliera dell’Agip, si incendiò e perirono i 140 passeggeri che aveva a bordo. Sulle dinamiche di questo incidente ancora oggi si sta facendo piena luce, si cerca di fare piena luce, c’è anche una indagine della commissione parlamentare. Ora, perché Onorato si sarebbe rivolto a Grillo? Ha le convenzioni in scadenza, quelle che coprono le tratte dei suoi traghetti, e per questo chiede un aiuto a Grillo. Grillo perora la sua causa e rivolge le richieste dell’armatore ai ministri che sono al governo, quelli del Movimento Cinque Stelle, all’ex ministro dei Trasporti Toninelli e a Patuanelli, che all’epoca era ministro dello Sviluppo Economico. Il contratto tra Grillo e Onorato prevedeva anche però degli articoli a pagamento che parlassero o perorassero la sua causa. Solo che però gli attivisti, leggendo il sacro blog, pensavano che si trattava del libero pensiero del loro garante in realtà si trattava di redazionali a pagamento. Nel corso delle indagini sono anche emerse, durante le perquisizioni negli uffici di Casaleggio, che anche Casaleggio, la società di Casaleggio, aveva stipulato un contratto con Onorato di 600mila euro. Oggi le strade di Casaleggio della sua associazione e quelle dei Cinque Stelle si sono divise, però dal passato sono emerse testimonianze e chat su quello che sarebbe stato il vero ruolo di Casaleggio e anche su come sono stati realmente selezionati i candidati, i 333 parlamentari entrati nel parlamento italiano con le elezioni del 2018, emerge una rete segreta che epurava i nomi. Che cosa sta accadendo in quel movimento che nel 2018 aveva raccolto il 32,7 percento dei consensi del Paese e oggi sfiora il 13 percento? Il futuro passa dal tribunale di Napoli, domani proprio si pronuncerà sulla legittimità dello Statuto del Movimento di Giuseppe Conte. C’è il rischio che possa anche decapitare. Il nostro Danilo Procaccianti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A marzo del 2016 l’allora compagno della ministra Federica Guidi fu indagato proprio per traffico di influenze illecite. I grillini non persero tempo ad esprimersi: «Quanto scoperto in queste ore sul ministro Guidi è vergognoso! Deve andare a casa subito!», recitava la pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle. Un anno dopo il Movimento ribadiva il concetto: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi, che babbo Tiziano, resta saldamente indagato per il grave reato di traffico di influenze». Oggi lo stesso reato colpisce Beppe Grillo.

DANILO PROCACCIANTI Beppe Grillo è sotto inchiesta per traffico di influenze per la storia di Onorato, non vi mette un po’ a disagio questa cosa?

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO Noi, come sapete, siamo assolutamente ossequiosi e rispettosi delle prerogative della magistratura e quindi vedremo che cosa succederà.

DANILO PROCACCIANTI Però c'era questo contratto con Onorato perché lui scriveva articoli sul suo blog, i poveri attivisti pensavano che scrivesse in libertà, invece erano articoli a pagamento.

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO E allora, come dire, ci sarà la possibilità di chiarire se c'è stato un conflitto di interessi o meno.

DANILO PROCACCIANTI Gli articoli sul blog erano a pagamento. Insomma, il povero attivista leggeva quegli articoli.

GIANLUCA PERILLI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Sì …si guardi, io sono uno che non sottovaluta né sminuisce, però bisogna andare man mano che emergono degli elementi, valutare gli elementi che emergono adesso, sbilanciarsi su cose a cui non sappiamo ancora i contorni mi sembra prematuro.

DANILO PROCACCIANTI Al di là del reato, Beppe Grillo aveva appunto un contratto con Onorato per scrivere anche degli articoli sul suo blog. Insomma, una bella fregatura per gli attivisti che pensavano di leggere degli articoli liberi, invece erano a pagamento.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Se lei lo conoscesse un attimo, lui è un artista insomma il fatto di poter pensare di poter avventurarsi in, come dire, situazioni, spazi di opacità, non è nelle sue corde.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Agli atti della procura ci sarebbero chat e varie mail tra Grillo ed esponenti del Movimento 5 Stelle. I temi ricorrenti sono i dossier che dal 2018 preoccupano Vincenzo Onorato a partire dai debiti con lo Stato che rischiano di fermare le sue navi. Nel 2012 Onorato aveva comprato Tirrenia dallo Stato a cui doveva ancora 180 milioni di euro, nel frattempo però incassava 72 milioni di euro di contributi statali.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Ed è strano. Perché in ogni caso per lo Stato, per la pubblica amministrazione vale valeva il principio, della clausola solve et repete prima paghi e poi ti restituisco quello che eventualmente ti devo, dice lo Stato. Qui invece è l'opposto solve et repete come se lo avesse detto il privato allo Stato. Ed è bellissimo.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Visto che Onorato non pagava i debiti allo Stato, i commissari di Tirrenia volevano fermare le navi e avviare il fallimento dell’azienda. I commissari dipendono dal ministero dello Sviluppo Economico che durante i governi Conte è stato sempre in quota M5S. All’epoca il ministro era Stefano Patuanelli. Ci sarebbe un messaggio di Grillo inoltrato a diversi esponenti del Movimento 5 Stelle. Un messaggio su Vincenzo Onorato il cui senso è “questo dobbiamo trattarlo bene”.

DANILO PROCACCIANTI Ci dice solo se ha ricevuto mail o messaggi da Beppe Grillo, Onorato…

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Non ho mai ricevuto pressioni da Beppe Grillo.

DANILO PROCACCIANTI Ma mail e messaggi?

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Richieste di informazioni ma senza mai avere nessun tipo di pressione né mai abbiamo fatto alcun tipo di attività se non quella di tutelare i creditori.

DANILO PROCACCIANTI Su Moby quindi nessuna cortesia.

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI No, assolutamente no.

DANILO PROCACCIANTI Perché a un certo punto la liquidità era bloccata ed è stata sbloccata in un vertice.

STEFANO PATUANELLI – MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI E ma a tutela dei dipendenti e dell’amministrazione straordinaria e dei creditori.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’altro argomento di discussione tra Grillo e Onorato erano le concessioni statali. La legge di continuità territoriale prevedeva il versamento di 72 milioni di euro all’anno al gruppo Onorato, per garantire una serie di rotte dal continente verso Sardegna, Sicilia e isole Tremiti, anche in bassa stagione.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Non tutte le rotte erano effettivamente rotte da sovvenzionarsi. E quindi andavano fatte le gare per verificare che non ci fossero imprenditori privati disponibili a farle quelle rotte.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La concessione sarebbe scaduta a luglio 2020 ma già nel 2019 nella fase istruttoria quando cioè bisognava capire se prorogare le concessioni o fare un bando pubblico l’antitrust si era espressa rilevando risvolti critici sotto il profilo della concorrenza. Andavano fatte delle gare pubbliche che però il ministero dei Trasporti non aveva ancora predisposto aprendo di fatto il campo a una proroga della concessione.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Presentai un'interrogazione parlamentare perché il rinnovo di una convenzione non si fa dopo la scadenza, il rinnovo di una convenzione, si fa prima in modo che quando scade si sappia se c'è o se non c'è la convenzione nuova.

DANILO PROCACCIANTI In quel momento era Toninelli il ministro.

GREGORIO DE FALCO – SENATORE EX MOVIMENTO 5 STELLE Assolutamente sì, 19.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nella partita per il rinnovo della convenzione, Onorato avrebbe mirato a Grillo, secondo la procura, per arrivare all’allora ministro dei Trasporti, Danilo Toninelli. Agli atti dell’inchiesta ci sono conversazioni tra Grillo e Onorato, che parlano del fatto che le convenzioni potevano essere rinnovate. L’ipotesi dei pm milanesi è che Grillo abbia «veicolato» quelle istanze all’ex ministro Toninelli che si era però sempre espresso contro il rinnovo della convenzione e aveva più volte polemizzato con Onorato.

DANILO PROCACCIANTI Questi messaggi di Grillo, a noi risultano che sono arrivati.

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Allora io ti ripeto che non ho mai ricevuto nessun tipo di pressione da Beppe, da nessuno. Ma perché non sarebbe mai potuto capitare che qualcuno facesse pressione al sottoscritto perché lo mandavo a quel paese.

DANILO PROCACCIANTI Però le mail le hai ricevute. Magari non era pressione, però…

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Ho ricevuto un miliardo di mail in quell'anno, un miliardo.

DANILO PROCACCIANTI Anche da Grillo.

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Nessuna di queste ha mai…nessuna di queste ha mai condizionato una scelta politica.

DANILO PROCACCIANTI Ma il fatto che poi non l'hanno riconfermata ministro secondo lei c'entra in qualche modo.

DANILO TONINELLI – MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI 2018-2019 Non puoi chiederlo a me, io non ho partecipato ai tavoli decisionali della formazione dei nuovi governi. Di certo io avevo tantissimi nemici.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Tra le carte giudiziarie anche uno scambio di mail tra Grillo e la deputata 5 Stelle, Carla Ruocco. Grillo veicolava i desiderata di Onorato per un emendamento sugli sgravi fiscali e Carla Ruocco aggiornava Grillo in tempo reale.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Io ho il dovere sacrosanto di informare la gente di quello che accade in questo benedetto palazzo.

DANILO PROCACCIANTI Però quell’imprenditore aveva un contratto con Grillo.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Ma l’imprenditore aveva un contratto con Grillo, gli imprenditori sono imprenditori.

DANILO PROCACCIANTI Lei lo sapeva?

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Io non sapevo nulla di tutto questo, ma perché…

DANILO PROCACCIANTI Avrebbe scritto comunque delle mail a Grillo se avesse saputo.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Ma era l’inoltro di un…ma lei sta scherzando? Cioè quello era l'inoltro di un emendamento pubblico. Chi chiede?

DANILO PROCACCIANTI C’è un contratto, tant'è che c'è un'inchiesta per traffico di influenze.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE E vabbè ma sui contratti, perché gli imprenditori non ho capito, le persone..

DANILO PROCACCIANTI Avete fatto le battaglie per il conflitto di interessi, quello era un bel conflitto.

CARLA RUOCCO – DEPUTATA MOVIMENTO 5 STELLE Ho capito ma io avevo l’emendamento e quindi se lei mi chiede un…una cortesia, diciamo una cosa che fa parte rientra nel mio lavoro, poiché io devo immaginare che lei ha dei contratti, non devo inoltrare…

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Beppe Grillo è oggi il Garante del nuovo corso del Movimento 5 Stelle guidato da Giuseppe Conte.

DANILO PROCACCIANTI C'è il Garante che è sotto inchiesta per traffico di influenze illecite. Qual è la sua idea su quello?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Io non ho un'idea perché non ho elementi di valutazione, ma sono assolutamente fiducioso che il Garante potrà dimostrare la sua assoluta estraneità a qualsiasi ipotesi di reato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Qualche giorno dopo questa intervista il nuovo Movimento di Giuseppe Conte ha chiuso un contratto proprio con Beppe Grillo a cui andranno 300.000 euro l’anno per una consulenza non meglio precisata.

DANILO PROCACCIANTI Ma garante e consulente è compatibile come incarico?

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ascolti lei è venuto da me a parlare.

DANILO PROCACCIANTI Sì, ma è successo dopo.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Abbiamo fatto un’ora di conversazione, non mi rubate frasi per strada quando sono in ritardo peraltro…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non conosciamo i contorni della consulenza che il nuovo Movimento 5 Stelle ha elargito a Grillo. Quello che sappiamo è che percepirà 300mila euro l’anno. Abbiamo provato a chiedere a Grillo ma ha declinato l’intervista con uno scarno sms che dice: “Caro Ranucci l’unica cosa che puoi constatare è la mia dichiarazione dei redditi prima o dopo la mia entrata in politica. Saluti da l’ELEVATO”. Ecco, ora, insomma, noi non di prezzi avremmo voluto parlare ma di valori, volevamo chiedere a Grillo se quello che è successo è in linea con i valori fondanti il suo movimento. Ora i magistrati ipotizzano che Beppe Grillo abbia mandato delle e-mail, degli sms, ai politici, agli esponenti del suo movimento che erano al governo, messaggi dal tenore: “Questo dobbiamo trattarlo bene”, riferito ad Onorato. Ora tutto questo è stato fatto da Grillo, nei panni di garante del Movimento? cioè di colui che detta la linea politica o semplicemente dal responsabile del Blog? Che poi una figura non esclude l’altra perché coincidono nella stessa persona. Dalla lettura dei bilanci si capisce che Onorato ha stretto un contratto di collaborazione di 120mila euro con la società di Grillo, cioè della metà del suo bilancio annuale. L’accordo prevedeva anche per 10mila euro mensili l’inserimento di alcuni redazionali, appunto favorevoli ad Onorato. Ora Onorato è dal 2012 che attraverso la Cin, la Compagnia Italiana Navigazione, che controlla anche i traghetti della Tirrenia, cioè copre la tratta con le Isole, la convenzione era in scadenza lo sapevano da otto anni, si sono scordati di fare il bando. Ora la convenzione viene rinnovata solo però dopo che Toninelli andrà via, per ben due volte, dal Governo Conte e poi dal governo Draghi. Va detto, ad onor del vero, che Onorato ha finanziato in maniera trasversale un po’ tutti i partiti, anche associazioni, fondazioni ma anche singoli uomini che interloquivano con ministri, con politici e anche con commissari europei. Per esempio: 550mila euro di consulenza a Roberto Mercuri, già braccio destro dell’ex presidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona. Il mandato di Mercuri riguarda le attività con il Parlamento, il Governo e la Commissione europea. Poi 400mila euro ai partiti, di cui 200mila alla Fondazione Open che è vicina a Renzi. 100mila al Comitato Change, impegnato a sostenere le iniziative della Regione Liguria, facente capo all’attuale Governatore Toti, ma all’epoca era anche il coordinatore nazionale di Forza Italia. Altri 90 mila euro a singoli deputati del Pd o anche singole federazioni locali del Pd. 10mila euro anche ai Fratelli d’Italia. Si tratta di finanziamenti pubblici, lo diciamo chiaramente. Nel caso di Grillo e Onorato l’ipotesi di accusa è quella di traffico di influenze illecite e ovviamente i due sono innocenti fino a prova contraria. Però durante le investigazioni i magistrati hanno trovato negli uffici di Casaleggio anche dei documenti riguardanti un contratto di collaborazione tra Onorato e Casaleggio, che non è indagato in questa storia, ammonta a 600mila euro. Le strade di Casaleggio e della sua associazione e quelle del movimento Cinque Stelle si sono separate, però dal passato, dalle testimonianze e dalle chat che abbiamo raccolto, emergerebbe qual è stato il vero ruolo di Casaleggio in questi anni. Emergerebbe anche una rete segreta che avrebbe scelto e selezionato i candidati per le elezioni del 2018.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nell’ambito dell’inchiesta su Beppe Grillo e Vincenzo Onorato sono state fatte perquisizioni anche nella sede della Casaleggio Associati e si è scoperto che anche Davide Casaleggio ha preso soldi da Onorato. Si tratta di un contratto da 600mila euro all’anno per la stesura di un piano strategico per sensibilizzare gli stakeholders alla tematica dei benefici fiscali.

DANILO PROCACCIANTI Che cosa faceva per Moby e per Onorato? Attività di lobby?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No, non ha mai fatto attività di lobbying. Casaleggio Associati è una società di consulenza che riesce a interpretare le innovazioni tecnologiche per i modelli di business dei propri clienti.

DANILO PROCACCIANTI Però, diciamo il piano strategico prevede di sensibilizzare gli stakeholder sul tema dei benefici fiscali. I benefici fiscali li fanno i politici, quindi come dire.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No, assolutamente. Non c'è un solo parlamentare che lei possa trovare, a cui ho telefonato per chiedere favori per conto di un mio cliente.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Davide Casaleggio non risulta indagato ma i bonifici relativi ai contratti con Onorato sono stati segnalati dell’Unità Antiriciclaggio di Bankitalia, la segnalazione coinvolge Casaleggio come persona politicamente esposta.

DANILO PROCACCIANTI Però questo dimostra un po’ quello che spesso si diceva Davide Casaleggio non era un semplice tecnico. C'era un problema di conflitto di interessi.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Nell'ambito del nuovo corso io ho proposto di definire con un contratto e ripartire bene diritti e doveri e definire l'ambito dei servizi prestati. Non è stato possibile concordare un contratto, di qui la necessità di interrompere questo rapporto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il ruolo di Davide Casaleggio è sempre stato oscuro e oggetto di curiosità anche della stampa estera.

EUSEBIO VAL MITJAVILA – CORRISPONDENTE LA VANGUARDIA CONFERENZA STAMPA - 2 AGOSTO 2017 Lei ha parlato di un nuovo modo di fare politica, democrazia diretta ma a lei chi lo ha eletto signor Casaleggio, io non so forse c’è stata una votazione, un’assemblea ma io non so chi lo ha eletto a lei per questo ruolo così importante che ha nel movimento.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI CONFERENZA STAMPA - 2 AGOSTO 2017 Sono uno dei tanti attivisti e uno dei tanti volontari che ha supportato il Movimento 5 Stelle in questi anni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Non proprio uno dei tanti attivisti. L’8 aprile 2016 in una corsia di ospedale, alla presenza di Gianroberto Casaleggio, che morirà 4 giorni dopo, un notaio e Davide Casaleggio si fonda l’associazione Rousseau, la piattaforma da dove passeranno tutte le decisioni più importanti del Movimento. Davide Casaleggio ne è presidente, amministratore unico e tesoriere.

PAOLA NUGNES – SENATRICE EX MOVIMENTO 5 STELLE Io mi ricordo ancora, come noi in assemblea, fossimo molto sorpresi di questo subentrare come in una dinastia del figlio che ci fu ripetuto, è semplicemente un attivista che si occupa di tutta la fase informatica. Noi ci abbiamo voluto credere. Però eravamo come degli innamorati che necessitavano soltanto di rassicurazioni e non volevamo vedere l'evidenza.

DANILO PROCACCANTI FUORI CAMPO Nel 2017 c’è una rifondazione del Movimento 5 Stelle e Casaleggio insieme a Di Maio è tra i fondatori di quel movimento, altro che semplice attivista.

DANILO PROCACCIANTI Però a un certo punto lei era presidente, comunque fondatore, amministratore unico e tesoriere dell'associazione Rousseau, capo della Casaleggio Associati e fondatore del Movimento Cinque Stelle nel 2017.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Certo.

DANILO PROCACCIANTI Un po’ tanti ruoli. Altro che semplice volontario.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Beh, il tema del fondatore non aveva ruoli politici, quella carica.

DANILO PROCACCIANTI Il fondatore di un movimento un ruolo ce l'ha, non ci prenda un po’ per così sprovveduti. Cioè non è solo quello di aver solo messo la firma, insomma anche l'indirizzo politico.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No l'indirizzo politico si sbaglia su questo. L'indirizzo politico era degli iscritti.

DANILO PROCACCIANTI Però quando lei partecipava a dei vertici, per esempio quando si doveva decidere se allearsi o meno col Pd, non è che un semplice attivista partecipava a questi vertici?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI In qualità di presidente dell'associazione Rousseau ho partecipato a diversi incontri in cui doveva essere definito il modo in cui potevano essere coinvolti gli iscritti.

DANILO PROCACCIANTI Qual è il potere di Rousseau? Perché, appunto, Enrica Sabatini dice “noi eravamo dei meri esecutori”, la parte tecnica, decideva tutto, la parte politica.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Allora Rousseau era il mero esecutore, era quello che avremmo forse tutti voluto e sperato. In realtà il punto di rottura si ha proprio quando Rousseau, ha voluto in qualche modo influenzare. Ma c'è stato un momento che io vorrei raccontare, perché è una cosa che non sa nessuno. A luglio Davide Casaleggio, in un incontro che abbiamo avuto privato a Milano, mi disse “ma questi Stati generali a che cosa serviranno mai? Serviranno, forse perché per decidere su tre cose il limite dei due mandati, gli accordi, le alleanze con le altre forze politiche, il direttorio. Beh, sai che c'è, mettiamo ai voti queste tre cose. Vedrai che sul direttorio tutti diranno si che sono tutti d'accordo sugli altri due cose la rete vi dirà no, il 14 agosto votiamo. In quell'occasione gli iscritti, credo il 74 percento, ha votato sì alle alleanze, non solo tra l’altro lì Rousseau e Davide in particolare, ha preteso di inserire nel quesito la parola “partiti tradizionali”, ecco vede l'influenza, ad appesantire questa cosa, a far capire ma vuoi tu veramente andare coi partiti tradizionali…il 74 percento ha votato sì. Sette giorni dopo mi telefona Davide Casaleggio per dirmi che lui non si vede più in questo movimento. Evidentemente lui accetta la democrazia solo quando va, come dice lui.

DANILO PROCACCIANTI Però qui in qualche modo chiariamo un equivoco. Cioè quando lui dice io ero un semplice attivista, cioè non è uno qualunque.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Ci mancherebbe, mi dispiace che lui si sminuisse così.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Davide Casaleggio, presidente della Casaleggio Associati, presidente dell’associazione Rousseau e fondatore dell’associazione Movimento 5 Stelle avrebbe messo becco anche sulla raccolta fondi in occasione di alcune feste del movimento.

ELENA FATTORI – SENATRICE EX MOVIMENTO 5 STELLE Casaleggio era coinvolto in tutto questo perché poi, alla fine della festa, quando si stava avvicinando, mancava un po’ di denaro, mi scrisse se...come mai non stavo aiutando a raccogliere i fondi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Quello che racconta la senatrice Fattori è documentato da questa chat che vi mostriamo in esclusiva: il 4 novembre del 2017 Davide Casaleggio scrive: “Ciao Elena, spero potrai dare una mano anche tu a chiudere la raccolta fondi per l'evento di Marino”.

DANILO PROCACCIANTI A quale titolo lei interferiva su un senatore della Repubblica?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Ma in realtà questo evento specifico non lo ricordo in modo molto dettagliato. Però in generale le posso dire che i parlamentari si erano impegnati a sovvenzionare eventi territoriali proposti dagli attivisti con mille euro al mese.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma c’è di più perché la senatrice Fattori scrive a Casaleggio. I Meetup non possono trasformarsi in bancomat. Casaleggio non apprezza e risponde: mi spiace tu non abbia voluto contribuire a chiudere la questione di Marino, neanche con una donazione. A questo punto ti chiedo di non occupartene più. DANILO PROCACCIANTI E a un certo punto gli ho detto visto che non hai partecipato, mettiti da parte.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Ma in realtà…questo penso sia un qualcosa di non vero.

DANILO PROCACCIANTI A noi risulta così.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Non so.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Davide Casaleggio attraverso Pietro Dettori, socio di Rousseau e dipendente della Casaleggio, avrebbe poi chiesto alla senatrice Fattori di incontrare un imprenditore agricolo, proprio nel momento in cui si stava scrivendo il programma del Movimento 5 stelle, sull’agricoltura.

ELENA FATTORI – SENATRICE EX MOVIMENTO 5 STELLE E lui, l'imprenditore, mi disse “io sono, conosco molto bene Davide Casaleggio, ci lavoro insieme” e a quel punto io scrissi a Pietro Dettori, ho detto: guarda, però così non va. Finì lì finì lì, ma poi io non mi occupai più di agricoltura, io fui chiamata fuori dalla gestione poi successiva, dopo le elezioni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Negli anni sono tante le aziende che hanno collaborato con la Casaleggio Associati, tutte aziende che in un modo o in un altro avrebbero potuto poi essere materia di decisione politica. Ma il vero cortocircuito si è creato con la consulenza che la multinazionale Philip Morris affida alla Casaleggio Associati, poco più di due milioni di euro in tre anni.

STEFANO MARTINAZZO – COMMERCIALISTA “AXERTA” Nel 2018, cioè primo anno del governo dei 5 stelle, la Casaleggio Associati ha raddoppiato il proprio fatturato che è passato da 1 milioni e 100 del 2017 a quasi 2 milioni nel 2018. Questo incremento di circa 1 milione è dovuto alla stipula di due contratti, il primo con la Moby per circa 400 mila euro e il secondo con la Philip Morris per circa 600 mila euro.

DANILO PROCACCIANTI E nel 2019, secondo anno dei 5 Stelle al governo cosa succede?

STEFANO MARTINAZZO – COMMERCIALISTA “AXERTA” Nel 2019 la Casaleggio associati incrementa di ulteriori 200 mila euro attestando il fatturato a circa 2,3 milioni.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Che tipo di consulenza faceva la Casaleggio Associati per Philip Morris? Un indizio lo dà questa pagina qui, è sostanzialmente una community online chiamata “I Furiosi” di cui improvvisamente sono state fatte sparire tutte le tracce.

DANILO PROCACCIANTI Era la Casaleggio Associati che gestiva la community “I Furiosi” di Philip Morris?

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Non voglio entrare nel merito delle singole consulenze perché penso non sia opportuno nei confronti dei clienti. Il fatto è che noi non ci siamo mai trovati nella condizione e non ci siamo mai messi nella condizione di essere in conflitto di interessi.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma un esperto informatico era riuscito a fare copia di quanto pubblicato dalla community “I Furiosi”, poi indagando ha scoperto qualcosa di molto interessante.

FABIO PIETROSANTI – ESPERTO SICUREZZA DIGITALE, CENTRO HERMES Due informazioni importanti. La prima è che era gestito da Davide Casaleggio dell'associazione Casaleggio Associati, cioè nello stesso spazio di indirizzamento numerico in cui si trovava il server i furiosi c'erano anche il sito del Movimento Cinque Stelle, come il sito di Casaleggio Associati. La seconda informazione è stato trovare il curriculum vitae di un web designer che nel proprio curriculum dichiarava di essere l'autore ed effettivamente l'intestatario del dominio “I Furiosi” e nel 2017 avere lavorato per Casaleggio Associati per il portale “I Furiosi” che sono inequivocabilmente riconducibili a Philip Morris e a questo punto il link è stato è stato chiaro.

DANILO PROCACCIANTI Di che cosa si occupava nello specifico questo sito “I Fuoriosi”?

FABIO PIETROSANTI – ESPERTO SICUREZZA DIGITALE, CENTRO HERMES Promuovere in diverse forme diverse maniere l'utilizzo del tabacco riscaldato, arrivando a fare delle campagne di comunicazione che, non dichiarandosi Philip Morris arrivavano a sottintendere che facesse bene alla salute, fumare tabacco riscaldato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Su questa vicenda c’è un’inchiesta della procura di Milano al momento senza indagati per capire se c’è un legame tra il denaro elargito da Philip Morris alla società di Davide Casaleggio e gli interventi normativi sostenuti dal Movimento 5 Stelle in favore della multinazionale. Più volte si era tentato di alzare le tasse al tabacco riscaldato ma con quali risultati?

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Ho trovato muri, continuamente muri.

DANILO PROCACCIANTI Ci faccia un esempio.

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Nell'ultima legge di bilancio la manina è comparsa sull'emendamento Martinciglio che andava finalmente a tassare anche le Heets Stick queste sigarette della Philip Morris. C’era l’accordo del governo. All'improvviso è spuntato, riformulato in maniera diversa, sempre più favorevole nei confronti delle Heets Stick, ed è passato così, di notte. Questo accade sempre di notte.

DANILO PROCACCIANTI Di chi è sta manina? Ha indagato lei?

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE I due diciamo che le persone che si occupavano della legge di bilancio, erano i due viceministri, Misiani e la Castelli.

DANILO PROCACCIANTI Diciamo per semplificare, se ci fosse stata la volontà politica dei Cinque Stelle...

ALESSIO VILLAROSA – DEPUTATO EX MOVIMENTO 5 STELLE Potevi dire tranquillamente parere favorevole all'emendamento così com’è e aumentavi le tasse alle Heets Stick come tutte le altre sigarette.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il giallo della manina, potremmo chiamarlo, che ha fatto sparire dalla legge di bilancio l’aumento di tassazione dal 25 percento al 50 percento.

DANILO PROCACCIANTI In quel caso i parlamentari secondo lei votano secondo coscienza? Oppure pensano ma Casaleggio lavora con Philip Morris forse...

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Io non mi sono mai messo nella condizione di chiedere favori a nessuno.

DANILO PROCACCIANTI Non pensa che già quello sia il conflitto d’interesse cioè che il parlamentare sia già condizionato.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI No, non lo penso, come le dicevo, ha senso se lei mi sta dicendo che io ho chiamato ho indirizzato, ho fatto qualcosa che non dovevo fare.

DANILO PROCACCIANTI Quello sarebbe un reato. Io non sto dicendo che lei ha commesso un reato.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Perfetto. Siamo d'accordo.

DANILO PROCACCIANTI Però dico l'inopportunità esiste l'inopportunità.

DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Non mi sono mai messo neanche in situazioni inopportune.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma una certa incomprensibilità sul suo ruolo forse sì. Se è vero che anche alcuni iscritti al movimento non lo hanno mai avuto ben chiaro. Da quello che abbiamo capito alcuni punti fermi possiamo metterli. Quello di Davide Casaleggio è un ruolo che va al di là, ben al di là, di quello di semplice tecnico attivista. Lui dice io non ho mai dettato le linee politiche del movimento, non mi sono mai infilato in questioni di conflitto di interesse. Ora noi possiamo solo mettere insieme alcuni fatti. È un fatto per esempio, leggendo il bilancio della sua società, che nell’anno di governo dei Cinque Stelle il fatturato della sua società è aumentato di un milione di euro, il secondo di 200mila euro. È anche un fatto che lui avesse stretto accordi con Philips Morris e parliamo di circa due milioni di euro in tre anni e che avesse in qualche modo aiutato nella campagna di diffusione del tabacco riscaldato. Questo proprio mentre alcuni parlamentari dei Cinque Stelle cercavano invece di aumentare le tasse sul tabacco riscaldato della Philips Morris ma non ci riuscivano perché c’era una manina, il giallo della manina, che faceva scomparire l’emendamento. Ora abbiamo anche visto da alcune chat che Casaleggio ha un ruolo sulla raccolta fondi per il movimento e avrebbe anche tentato di dettare la linea politica al movimento, lo dice lo stesso ex reggente Vito Crimi, parla di un episodio specifico, quando si trattava di votare le alleanze con i partiti tradizionali dice Crimi, Casaleggio ha voluto scrivere di sua mano il quesito, appesantendolo, salvo poi constatare quando il voto non era andato come voleva lui, come si aspettava il fallimento, e a quel punto aveva deciso di prendere le distanze e anche di portarsi via la piattaforma Rosseau, quella con cui si votava. È un po’ come il giocatore che sta perdendo la partita e si porta via il pallone. Ora a proposito del pallone: la piattaforma Rosseau. I candidati, gli iscritti, pensavano che era sufficiente iscriversi su questa piattaforma, non avere dei precedenti penali o grossi problemi alle spalle, esser votati dagli altri iscritti e potevi assurgere a ruolo di candidato. Il 16 gennaio del 2018, c’erano proprio le votazioni per le politiche, per aderire entrare nella lista dei candidati al Movimento 5 Stelle per partecipare alle politiche del 2018. In quei giorni comincia a girare sulle chat un audio di un parlamentare che denuncia delle anomalie. Si scoprirà più tardi che il meccanismo delle primarie non era così puro e democratico come sempre si è immaginato e che oltre la piattaforma Rosseau c’era una rete segreta che epurava nomi.

PARLAMENTARE MOVIMENTO 5 STELLE - 16 GENNAIO 2018 Enrico ciao, scusami, sta succedendo un manicomio il sistema è andato in tilt mancano troppi candidati all’appello, addirittura manca anche un candidato senatore uscente, il sistema non sta funzionando. È una malacumparsa allucinante e io comincio a essere stanco di tutti questi problemi creati dallo staff per incompetenze ormai palesi a tutti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La voce è quella di un parlamentare 5 Stelle che non ha mai rivelato la sua identità. Il parlamentare si rende conto che nella piattaforma di voto mancano alcuni nomi, si pensa a un problema tecnico, oggi scopriamo che erano delle precise scelte politiche ma segrete.

DANILO PROCACCIANTI Partiamo da una notizia che ha fatto saltare sulla sedia in molti, cioè lei nel libro scrive che esisteva una rete segreta per scegliere i candidati nel 2018.

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Per tanti anni si è attribuito a Rousseau la selezione dei candidati. Invece nel 2018 avvenne questo, che è una rete invisibile ai più, non legittimata dalla base e quindi neanche trasparente, avesse questo ruolo fondamentale di selezionare chi sarebbe poi andato, quindi da candidato e quindi diventato anche eletto nel Parlamento. Quindi c'era la parte politica che faceva l'attività di selezione attraverso questa rete.

DANILO PROCACCIANTI Quando dice parte politica a chi ci riferiamo?

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Il capo politico, Di Maio all'epoca, il comitato di garanzia che all'epoca erano Vito Crimi, Lombardi e Cancellieri.

DANILO PROCACCIANTI Chi voleva candidarsi alle parlamentarie poteva farlo liberamente o c'era il vaglio di una rete segreta.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Allora poteva farlo liberamente, poi doveva passare al vaglio del capo politico. Quindi è chiaro che c'è una… una come posso dire, valutazione sulle candidature.

DANILO PROCACCIANTI Da Rousseau dicono c'era una rete segreta per scegliere i candidati. Altro che piattaforma.

VITO CRIMI - SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Premesso che la rete era pubblica sul blog ed erano dei referenti per ogni regione che aveva individuato l'allora capo politico. Poi si è votato su Rousseau. Quindi “altro che piattaforma Rousseau”, lo devono dire loro se qualcosa della piattaforma Rousseau russa non ha funzionato.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma non ci sarebbe stata solo la rete segreta a scegliere i candidati parlamentari all’oscuro degli attivisti. Un attivista sotto la garanzia dell’anonimato ci racconta una cosa molto grave.

ATTIVISTA MOVIMENTO 5 STELLE Io mi ero candidato, avevo fatto tutta la trafila e non avevo nessun tipo di problema giudiziario o di altro tipo. Il giorno delle parlamentarie vado sul sito e non trovo il mio nome. Ho provato chiedere spiegazioni all’Associazione Rousseau, a Casaleggio, però nessuno mi ha dato risposta.

DANILO PROCACCIANTI Poi una sera è andato a cena con Vito Crimi, che cosa le ha rivelato?

ATTIVISTA MOVIMENTO 5 STELLE Crimi mi racconta che come me centinaia di persone erano state estromesse dal voto pur avendo tutti i requisiti, questo perché i big del partito avevano i loro protetti, che dovevano far candidare e così centinaia di persona sono state tolte perché avevano la possibilità, i big, di togliere la spunta accanto al nome sul sito, così togliendo le persone dalla votazione. E io ero uno di questi come tanti altri.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Non era il flag alle candidature. Qualcuno aveva il potere di indicare magari a Luigi Di Maio, che era il capo politico e che aveva il diritto e il dovere di valutare le candidature: “guarda quella persona forse non è il caso di candidarla. Per questo questo e questo motivo”. L'ho fatto anch'io? Sì.

DANILO PROCACCIANTI Quindi mi conferma questa cosa che potevano togliere il flag?

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Sì, ma è diciamo un dato di fatto perché persone che si sono candidate poi non hanno visto il loro nome su Rousseau sanno che in qualche modo c'è stato qualcuno che ha impedito la loro candidatura.

DANILO PROCACCIANTI E parliamo sempre di Di Maio, Crimi...

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Sempre, è la parte politica che decide. Sì.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le elezioni politiche del 2018, quelle in cui il movimento ha avuto il record di preferenze eleggendo 333 parlamentari sarebbero state viziate in partenza nella scelta dei candidati ma le manovre poco trasparenti non sarebbero finite lì.

LUIGI DI MAIO – CAPO POLITICO M5S ROMA – 22 GENNAIO 2020 Oggi sono qui per rassegnare le mie dimissioni da capo politico del Movimento 5 Stelle così da favorire il percorso verso gli stati generali. Me la tolgo qui davanti a tutti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Era il 22 gennaio 2020, il reggente Vito Crimi sarebbe dovuto rimanere in carica appena un mese per poi indire le elezioni per il nuovo capo politico carica a cui correva a vele spiegate Alessandro Di Battista ma a luglio 2020 c’è un nuovo giallo.

DANILO PROCACCIANTI Lei racconta anche di manovre opache per non fare le votazioni per il nuovo capo politico dopo le dimissioni di Di Maio, perché Di Battista non si doveva eleggere, in che senso?

ENRICA SABATINI – SOCIA ASSOCIAZIONE ROUSSEAU Ci fu appunto questa riunione alla quale partecipò Davide Casaleggio, aprendo il pc si ritrova davanti una serie di persone, sottosegretari, ministri, persone che non erano legittimate a prendere queste decisioni. E quindi in questa riunione fu evidente a Davide che le persone avevano deciso di non votare il capo politico e le motivazioni emersero, anzi la motivazione: il fatto che Alessandro Di Battista avrebbe potuto raggiungere insomma un risultato anche eclatante e diventare il nuovo capo politico.

DANILO PROCACCIANTI L'ordine era chiaro. Non si vota perché altrimenti vince Di Battista.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Ognuno ha le sue idee e ci sarà stato qualcuno che avrà detto questo. Ma ci sarà stato qualcuno invece, e lo so perché l'ha detto: “Assolutamente no, invece votiamo subito” E io ho ascoltato tutti. Ho parlato con Beppe Grillo, ho cercato di capire cosa fare, e in quel momento tutti andavano alla direzione: oggi aprire una guerra interna sulla leadership del movimento era una follia. E non era Di Battista. Era una follia.

DANILO PROCACCIANTI Perché sarebbe stato grave. Cioè non votiamo perché vince Di Battista.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Le sto dicendo che il primo Beppe Grillo mi ha detto oggi portare il Movimento a una guerra sulla leadership è una follia. Gli italiani ci ridono dietro, ci tirano dietro qualcosa. Ho pure la mail di Beppe che mi dice ho chiesto mettimelo per iscritto in modo che sia nero su bianco e mi scrive di rimandare le elezioni del capo politico, visto che siamo in piena pandemia.

DANILO PROCACCIANTI Ed è stato esplicitamente detto non dobbiamo votare perché se no vince Alessandro Di Battista. DAVIDE CASALEGGIO – PRESIDENTE CASALEGGIO ASSOCIATI Sì, questo è stato detto.

DANILO PROCACCIANTI Lei però non era tra quelli quel giorno che disse non votiamo perché vince Di Battista?

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Ma assolutamente no. E se qualcuno lo dice sta dicendo il falso.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Vito Crimi rimarrà reggente fino a ottobre 2020 quando si tengono gli stati generali che decidono che non ci sarà un capo politico ma un organo collegiale da votare. Anche questa decisione non verrà rispettata. A febbraio 2021 Renzi apre la crisi di Governo cade Conte e arriva Draghi. Scende in campo Beppe Grillo e detta la linea, va votata la fiducia a Draghi.

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE ROMA – 10 FEBBRAIO 2021 E allora dico “senta Draghi lei che è un ragazzo di 74 anni, avrà anche le palle piene che è stato da Schroder, dalla Merkel…e alza lo spread e abbassa lo spread ma che vita ha fatto”. E allora partiamo e facciamo questa roba qua. Mi ha dato ragione su tutto, ha detto d’accordo su questi temi su tutto.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Alessandro Di Battista lascia il movimento. Ad aprile 2021 nuovo intervento di Beppe Grillo che affida a Giuseppe Conte il compito di scrivere un nuovo statuto e rilanciare il Movimento. Passano pochi mesi e nuovo colpo di scena.

LORENZO BORRÈ - AVVOCATO Grillo fa un comunicato in cui sostanzialmente non riconosce più quelle capacità taumaturgiche e demiurgiche a Conte e dice che quello che ha presentato è uno statuto seicentesco e dal che se ne rileva, dice Grillo, che Conte non è la persona adatta a guidare il Movimento Cinque Stelle.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE ROMA – 28 GIUGNO 2021 Con Beppe Grillo sono emerse alcune diversità di vedute su alcuni aspetti fondamentali. Spetta a lui decidere se essere il genitore generoso che lascia crescere la sua creatura in autonomia o il genitore padrone che ne contrasta l’emancipazione. Una forza politica che vuole recitare un ruolo da protagonista non può affidarsi allo schema di leader ombra affiancato da un prestanome, in ogni caso quel prestanome non potrei mai essere io.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO A Conte risponde Grillo e l’avventura dell’ex premier sembra finita.

BEPPE GRILLO – GARANTE MOVIMENTO 5 STELLE GENOVA – 1 LUGLIO 2021 Il Movimento cambia, doveva cambiare con lui era forse la persona più adatta che c’era e forse magari non è la persona più adatta di quello che serve oggi al Movimento.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Poi i due si incontrano e la bufera si placa. Conte si riappacifica con Grillo ma come in una guerra senza esclusione di colpi, scoppia un'altra grana perché a giugno 2021 Davide Casaleggio abbandona il movimento e stacca la sua piattaforma Rousseau.

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO Io sono contenta della separazione con Rousseau, perché il metodo del click for life, come lo chiamo io, ha prodotto la rappresentanza istituzionale che non sempre era adeguata.

DANILO PROCACCIANTI Da Rousseau però, la Sabatini dice noi facciamo la parte tecnica, erano i politici che decidevano.

ROBERTA LOMBARDI – ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO Sì e io so Biancaneve, su ragazzi, ciao.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Risolta la questione Rousseau Giuseppe Conte mette ai voti il nuovo statuto e la sua incoronazione da leader ottenendo una maggioranza bulgara, il tutto però viene impugnato attraverso un ricorso al tribunale di Napoli di alcuni ex attivisti guidati dall’avvocato Lorenzo Borrè, lamentano il fatto che non si sia votato su Rousseau, che non abbiano potuto votare gli iscritti da meno di sei mesi e poi perché per statuto l’unico candidato alla carica di presidente del movimento era Giuseppe Conte.

LORENZO BORRÈ - AVVOCATO Un partito, diciamo a ispirazione totalitaria.

DANILO PROCACCIANTI Cioè c'è una distanza siderale dall'uno vale uno degli inizi.

LORENZO BORRÈ - AVVOCATO Assolutamente, cioè ormai questo Movimento cinque Stelle in gran parte è l'antinomia del Movimento Cinque Stelle pensato da Gianroberto Casaleggio.

DANILO PROCACCIANTI Il movimento dell'uno vale uno è scomparso. Si è fatta una votazione in cui era presente solo il suo nome.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Ma lì c’è un fraintendimento, guardi quell'uno vale uno è una formula effettivamente che si è prestata a molto equivoci. Uno vale uno significa, e rispondo alla sua domanda, che se lei si iscrive al movimento non paga nulla, pensi, un’iscrizione gratuita, Si iscrive facilmente perché si iscrive telematicamente, e poi può partecipare anche alla votazione del presidente del Movimento Cinque Stelle, del leader politico.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO L’ex premier Giuseppe Conte non ha dato molta importanza al ricorso degli attivisti presso il tribunale di Napoli e ha derubricato la cosa a carte bollate.

DANILO PROCACCIANTI Ma definirle carte bollate? Qualcuno dice è la democrazia.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE E la democrazia quando si vota che c'entra, mica quando si va in tribunale?

DANILO PROCACCIANTI Però quelle sono le regole.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Quella è la tutela giurisdizionale dei diritti è un'altra cosa. Quindi non confondiamo, la democrazia è quando si vota. Però dopo dobbiamo anche riconoscere che uno vale uno non può valere per chi è chiamato a svolgere un compito istituzionale. Io non posso avere un ministro, una qualsiasi persona, l’uno vale uno, no, dopo bisogna mandare le persone giuste ai posti giusti. Serve la competenza, competenza, competenza. L'onestà, l'onestà, l'onestà.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il tribunale di Napoli per ben due volte ha dato torto a Giuseppe Conte, annullando la sua elezione a presidente del Movimento 5 Stelle. A quel punto il movimento era in un vicolo cieco e così Vito Crimi si ricorda che esiste un regolamento in virtù del quale gli iscritti da meno di sei mesi non possono votare.

DANILO PROCACCIANTI Sembra un po’ una barzelletta, cioè il regolamento l'avevate fatto voi.

VITO CRIMI – SENATORE MOVIMENTO 5 STELLE Non è una barzelletta. È chiaro che era un regolamento del 2018, stiamo nel 2022 e quindi quando era nel 2018 per me era scontato che una volta che una cosa è ripetuta, approvata, accettata e votata da tutti, nel senso che nessuno l'ha mai contestata, quel regolamento è noto. A quel punto, se per il giudice lo voleva proprio vedere perché sennò non ci credeva che esisteva un regolamento, me lo sono dovuto andare a cercare. Questi sono i fatti.

DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Sulla scorta di questo regolamento si rifanno le votazioni online e Conte viene nuovamente eletto. Partita chiusa? Nemmeno per idea perché è stato presentato un nuovo ricorso e la leadership di Conte è di nuovo a rischio visto che l’unico candidato votabile era lui.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Se alla fine Giuseppe Conte viene votato al 94 percento, bisogna pure rassegnarsi. Puoi avere anche opinioni politiche diverse, però devi riconoscere che un qualunque iscritto ha potuto dire a me mi sta bene, non mi sta bene, anche Giuseppe Conte.

DANILO PROCACCIANTI Però non è una leadership contendibile, di questo lo accusano…cioè.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Le dico in questa prima fase è chiaro che avendo io lavorato sono stato io proposto agli iscritti che mi avrebbero potuto comunque rifiutare. Però attenzione per le successive. Poi in futuro.

DANILO PROCACCIANTI Ci dia una notizia.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Eh certo, perché lo statuto è fatto in modo che per le successive scelte delle designazioni del leader ci sarà la piena contendibilità. Io ho un periodo limitato a quattro anni, dopo quattro anni, fermo restando che lei sa come funziona in politica, se uno perde le elezioni politiche non è che sta lì. Diciamo queste sono poltrone molto…

DANILO PROCACCIANTI Così dovrebbe essere.

GIUSEPPE CONTE – PRESIDENTE MOVIMENTO 5 STELLE Guardi come sono, sono mobili, sono leggere ecc. Se uno perde le elezioni politiche è chiaro che non rimane a dispetto dei santi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ex premier Conte si propone dunque come traghettatore di quel movimento che nel 2018 aveva raccolto il 32,7 percento dei consensi del Paese, oggi viaggia intorno al 13 percento. Ma con quali parlamentari lo farà? I 333 che sono entrati in parlamento attraverso la votazione sulla piattaforma Rousseau, insomma abbiamo visto che poi non è stata una votazione lineare, così democratica come si immaginava. Lo racconta la stessa Enrica Sabatini, che è la compagna di Casaleggio, socia dell’Associazione Rousseau, che quella piattaforma la gestiva. Sarebbero stati la selezione di una rete segreta composta da referenti regionali e dal capo politico del Movimento. Per questo alcuni di coloro che si erano iscritti sperando nella candidatura non hanno più ritrovato il loro nome. Ma la Sabatini lo racconta dopo anni questa dinamica e racconta anche che quando si è trattato di votare il capo politico, il nuovo capo politico, dopo le dimissioni di Luigi Di Maio, nel 2020 quelle elezioni non si sono svolte per un volere ben preciso – lei e Casaleggio dicono - di Crimi e Grillo. Crimi nega e dice guardate che la responsabilità semmai è di Grillo perché non voleva affrontare le elezioni per via della pandemia. In realtà, la Sabatini e Casaleggio dicono non si voleva votare per evitare che vincesse Di Battista e infatti poi Di Battista è uscito dal movimento. Ora però Casaleggio e Sabatini parlano solo dopo che il presidente del nuovo movimento, Giuseppe Conte, aveva cercato di rendere meno ambigui i loro ruoli: gli aveva proposto un contratto per gestione tecnica della piattaforma che doveva essere al servizio del Movimento 5 Stelle. Cioè praticamente un contratto da tecnici – attivisti, quelli che si sono sempre professati. Evidentemente l’hanno vissuta come una limitazione. Dicevamo sono i lati oscuri e le dinamiche di un movimento che ha perso per strada i leader, dalla morte di Gianroberto Casaleggio nel 2016, poi si è sfilato piano piano un po’ Grillo è diventato il garante, oggi è consulente esterno del movimento di Conte, poi si è dimesso di Maio da capo politico, sono usciti i leader Di Battista e Nicola Morra, che è presidente della commissione Antimafia. Il futuro del movimento verrà in qualche modo decretato domani dal tribunale di Napoli che decreterà se lo statuto che è fondante il movimento di Giuseppe Conte è in regola oppure ha violato il regolamento. A partire dal fatto che Giuseppe Conte è l’unico candidato. Potrebbe anche avversarsi l’ipotesi che il movimento verrà decapitato del suo presidente e anche degli organi decisionali. A quel punto a Conte rimarrà solo una strada: quella del partito personale. E del movimento che aveva raccolto un terzo dei consensi nel Paese, cosa ne sarà?

Domenico Di Sanzo per “il Giornale” l'8 giugno 2022.

È l'ennesimo rovescio della medaglia, l'ultimo capovolgimento di una storia fatta di nemesi. Ed ecco che Report, considerato da sempre dai grillini come il tempio del giornalismo d'inchiesta, si trasforma in un bersaglio da colpire. 

Il centro della disfida è la puntata trasmessa lunedì su Rai3. Titolo che non lascia spazio a interpretazioni: «Stelle cadenti». Un'inchiesta che ripercorre molti punti oscuri della storia recente dei pentastellati. Dalla mancata elezione di Alessandro Di Battista a capo politico nel 2020, ai presunti conflitti di interessi di Davide Casaleggio, fino all'inchiesta sui soldi della Moby dell'armatore Vincenzo Onorato, un procedimento in cui Beppe Grillo è indagato per traffico di influenze illecite. E poi le trame che hanno portato all'incoronazione di Giuseppe Conte.

Reagisce Casaleggio, che del M5s non fa più parte ma ne incarna la storia e i valori originari. Il presidente dell'Associazione Rousseau contesta i metodi di Report in un post pubblicato sul Blog delle Stelle. 

Casaleggio parla di «dieci piccole bugie», accusa la trasmissione di Rai3 di aver fatto un «taglia e cuci» della sua intervista e la ripubblica in versione integrale, compresa una frase del cronista, che alla domanda del figlio del cofondatore che gli chiedeva cosa ne pensasse del «nuovo corso» contiano, si limita a rispondere «non posso pensare». Per Casaleggio la risposta è emblematica «del problema di alcuni giornalisti italiani che finiscono per essere portatori di idee di altri non meglio precisati».

Casaleggio smonta tutto. Scrive che è falso che Conte abbia proposto a Rousseau un contratto poi rifiutato dalla no-profit milanese, anzi «una bozza di contratto fu invece richiesta da Crimi». Poi il conflitto di interessi: «Non mi ci sono mai trovato, avendo rifiutato posti da ministro e candidature». 

E ancora la riunione per stoppare Di Battista. Crimi a Report dice che avrebbe pesato la pandemia sul rinvio dell'elezione del capo politico, Casaleggio smentisce: «Il timore più grande non era la pandemia, ma la messa in discussione del proprio posto al governo o nel M5s». E ancora, «nella vicenda Moby sono parte lesa», «per il M5s ho fatto supporto gratuito da prima che nascesse» e infine «il fatturato di Casaleggio Associati, si stava meglio senza politica», che vuol dire che non è vero che la Srl ha aumentato i guadagni nei periodi in cui il M5s era al governo.

La polemica scoppia nel giorno in cui il Tribunale di Napoli esamina l'ultimo ricorso degli attivisti contro la seconda votazione per eleggere Conte leader e cambiare lo Statuto. Due ore di discussione, due lunghe memorie da parte dell'avvocato Lorenzo Borrè e dei legali del M5s. Un verdetto che dovrebbe arrivare tra non meno di una settimana. E se i giudici annullassero di nuovo il plebiscito pro-Conte a quel punto si aprirebbe un altro capitolo della storia grillina, tutto pieno di incognite.

Ma nel frattempo Conte pensa ad altro. Da Palermo rinvia la resa dei conti sul terzo mandato. «Ne parleremo dopo le amministrative», dice dal capoluogo dell'Isola. Quindi prova ad accelerare sull'intesa con il Pd per le primarie dei giallorossi in vista delle regionali siciliane del prossimo autunno: «Dobbiamo chiudere».

Da Ansa l'8 giugno 2022.

"Nella nota di Casaleggio non c'è alcuna smentita dei fatti raccontati da Report ieri sera, semmai integrazioni a conferma della bontà dei contenuti. Più che con Report credo che Casaleggio si debba chiarire con gli stessi esponenti del movimento". Così il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci, replica a Davide Casaleggio.   

"E' stato lo stesso reggente dei 5 stelle, il senatore Crimi, ad affermare che Davide Casaleggio non era un "semplice tecnico attivista" - prosegue Ranucci -. Crimi ha raccontato che fu proprio Casaleggio nel 2020 a imporre come doveva essere scritto il quesito in base al quale gli attivisti avrebbero dovuto scegliere se fare alleanze con altri partiti o meno. Il risultato non piacque a Casaleggio e decise di abbandonare il Movimento. Questo è un fatto. Così come è un fatto quello che racconta la senatrice Fattori. Un episodio che Casaleggio ha preferito non chiarire e che invece è supportato da una chat dove emerge chiaramente che ha chiesto alla senatrice Fattori di raccogliere fondi per una festa.

E quando la senatrice si è rifiutata l'ha invitata a non occuparsi più di quell' evento. E' anche un fatto che l'emendamento che alzava la tassazione per il tabacco riscaldato della Philip Morris dal 25% al 50% non sia passato, ed è un fatto che Casaleggio associati aveva un contratto di consulenza con Philip Morris, sulla cui natura non ha voluto fornire particolari.  Come non ha voluto fornire particolari sulla piattaforma che secondo un perito informatico era riconducibile alla sua società  e nella quale si lasciavano trapelare messaggi subliminali a favore del consumo di tabacco riscaldato". 

"Per quanto riguarda Moby e Onorato, Casaleggio scrive "Peccato che si è omesso di dire che Casaleggio Associati non solo non  è indagata, ma è parte lesa". Questo non risponde al vero. Basta rileggere la trascrizione letterale della puntata, perché sia durante il servizio che nell'intervento in studio è stato ribadito che Casaleggio non è indagato. E come si può leggere dal decreto perquisizione e dal comunicato stampa della procura in cui si parla della perquisizione alla Casaleggio associati. Non c'è scritto che Casaleggio Associati è parte lesa.

Infine sul contratto che Conte avrebbe proposto a Rousseau, più che Report o l'ex premier, dovrebbe smentire la sua stessa socia e compagna Enrica Sabatini che nel libro scrive di incontri e trattative con Giuseppe Conte per risolvere i problemi. Lei scrive testualmente "le richieste erano schizofreniche e arrivavano da più fronti: si chiedeva di chiudere i rapporti con Rousseau e il Movimento, poi di mantenerli in piedi, poi di rimandare la discussione, poi di poter avere solo il codice della piattaforma per poterla gestire in autonomia, poi invece di poter usufruire dei servizi di Rousseau come fornitore esterno (..)

Quindi è la stessa Enrica Sabatini ad affermare che tra le tante ipotesi proposte da Conte ci fu anche quella di un contratto come fornitore esterno. Infine Casaleggio accusa Danilo Procaccianti di pensare per conto di qualcuno".   

Ecco la trascrizione integrale dei colloqui.

DAVIDE CASALEGGIO: Cosa ne pensa di questo nuovo corso?

DANILO PROCACCIANTI: Eh io non posso pensare

DAVIDE CASALEGGIO: Questo è un problema del giornalismo italiano allora

DANILO PROCACCIANTI: No, nel senso se me lo dice, come dire, quando andiamo a cena io le dico la mia opinione, insomma cerco sempre di tenere separate le mie opinioni da quello che faccio. Procaccianti ha detto "io non posso pensare"? Sì lo ha detto,  e ha fatto bene. Meriterebbe un premio dal servizio pubblico.  Mai accetterei che un'inchiesta su Report fosse dettata o condizionata da ideologie o appartenenze politiche. Le nostre inchieste possono essere guidate dai fatti riscontrati, verificati e di interesse pubblico. Un fatto non ha colori, né sfumature politiche, può essere giudicato solo in base se è vero o no. E quelli raccontati da Report sono veri. Il problema di Report per Casaleggio è proprio questo: l'indipendenza e la capacità di raccontare fatti senza pregiudizi".

Il Grill(o) delle vanità. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2022.

Pietà, il Grillo Mistico no. C’è più trasgressione in quel cantante stonato che si è battezzato da solo sul palco di Sanremo, e ho detto tutto. Grillo che posta una sua foto travestito da Gesù in un film di quarant’anni fa diretto dal nonno di Calenda. Grillo che cita Gandhi e, senza fare nomi come nei messaggi criptici di certi vecchi capataz democristiani, invita il figliolo non più prodigo Di Maio a rinunciare a vanità ed egoismo per lasciare spazio a una sola voce, quella afona di Conte. Tutto questo detto da un uomo che sulla vanità arroventata e sull’egoismo vittimista ha costruito ben due carriere: prima il comico del «Ve la do io», poi il politico del «Vaffa». E che adesso, per salvare quel che resta del progetto originario dei Cinquestelle (un po’ di giustizialismo e nulla più) si erge a santone, anzi a mammasantissima, con il tono di chi si finge autoironico per prendersi meglio sul serio. Superfluo ricordargli che Gandhi attirò proseliti predicando la non violenza anziché la rabbia, e che non era immerso come lui nel materialismo consumista: un particolare che rende l’Elevato molto più simile al Cavaliere che al Mahatma. Il Grill(o) delle vanità ha una biografia che fa a cazzotti con le sue prediche. Forse il concittadino De André immaginava già questa sua foto da illuminato male quando cantava che la gente si sente come Gesù nel tempio e dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Beppe Grillo è indagato a Milano per traffico di influenze illecite per alcuni contratti pubblicitari sottoscritti dalla compagnia di navigazione Moby con il blog Beppegrillo.it.

Nell'inchiesta della Gdf, coordinata dall'aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Cristiana Roveda, sono in corso attività con perquisizioni e acquisizioni di documenti. Su Moby, ammessa al concordato preventivo di recente, è in corso un'inchiesta per bancarotta, coordinata dal pm Roberto Fontana, che vede indagati il patron Vincenzo Onorato e il figlio. 

Da una tranche di questa indagine, e in particolare da una relazione depositata da un consulente tecnico della Procura, è nato il filone per traffico di influenze illecite. Il fascicolo vede al centro "trasferimenti di denaro" da parte del gruppo Onorato alla società di Grillo che gestisce il sito, la Beppe Grillo srl, per il pagamento di contratti pubblicitari, tra il 2018 e il 2019.

L'indagine era partita, tra l'altro, da una relazione tecnica, allegata al concordato preventivo e firmata da Stefani Chiaruttini, nella quale si parlava di 200 mila euro versati alla Beppe Grillo srl per un contratto che va dal marzo 2018 al marzo 2020 "volto ad acquisire visibilità pubblicitarie per il proprio brand sul blog" del comico-politico, di 600 mila per due anni per la Casaleggio Associati per "sensibilizzare le istituzioni sul tema dei marittimo" e per "raggiungere una community di riferimento di 1 mln di persone". Inoltre, di 200 mila euro alla Fondazione Open "sostenitrice" di Matteo Renzi, di 100 mila euro al Comitato Change legato al presidente della Liguria Giovanni Toti, di 90 mila al Partito Democratico, per chiudere con 10 mila euro a Fratelli d'Italia.

E ancora 550mila euro destinati a Roberto Mercuri (non indagato), ex braccio destro dell'ex vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona a cui si aggiungono, oltre ai 50 mila euro all'associazione senza fini di lucro "Fino a prova contraria", l'acquisto e la ristrutturazione per 4.5 milioni di una villa in Costa Smeralda per "rappresentanza" aziendale, appartamenti di lusso a Milano "in uso a rappresentanti del Cda", noleggio di jet privato e auto come Aston Martin e Rolls Royce, Mercedes o Maserati Levante. Allo stato, comunque, eccetto Beppe Grillo, gli altri nomi indicati nella relazione non risultano iscritti nel registro degli indagati.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - I finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, nell'inchiesta che vede indagato Beppe Grillo e il patron di Moby Vincenzo Onorato con l'ipotesi di reato di traffico di influenze illecite, stanno effettuando perquisizioni negli uffici della Beppe Grillo srl.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Vincenzo Onorato ha chiesto a Beppe Grillo una serie di interventi a favore di Moby spa che il leader del Movimento 5 stelle" ha veicolato a esponenti politici trasferendo quindi" all'armatore "le relative risposte" lo si legge nel comunicato del Procuratore della Repubblica di Milano facente funzione Riccardo Targetti in merito all'indagine in cui Grillo è indagato in quanto la sua società ha percepito da Moby spa 120 mila euro all'anno nel 2018 e nel 2019.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - I finanzieri del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Gdf di Milano stanno effettuando perquisizioni anche nella sede legale della Casaleggio associati, nell'inchiesta della Procura in cui è indagato per traffico di influenze illecite il fondatore del Movimento 5 stelle Beppe Grillo e Vincenzo Onorato. L'inchiesta riguarda anche un contratto per 600 mila euro annui sottoscritto dalla stessa Casaleggio Associati con Moby spa nel triennio 2018-2020.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Ci sono una serie di chat inviate da Vincenzo Onorato a Beppe Grillo e da questo girate a esponenti politici dei Cinque Stelle con richieste per 'aiutare' il gruppo di navigazione italiano gravato da debiti finanziari, nell'indagine della Procura di Milano in cui il fondatore del M5S e l'armatore sono indagati per traffico di influenze illecite in merito a contratti pubblicitari. Da quanto è stato riferito le chat, con anche le riposte alle richieste avanzate da Onorato, sono state trasmesse dai pm dell'inchiesta Open. Ora gli inquirenti milanesi intendono accertare se tali contratti fossero fittizi e se i relativi compensi percepiti dalla società del comico fossero il pagamento per prestazioni effettive o il prezzo per la "mediazione" politica.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Nell'indagine della Procura di Milano ci sono elementi "che fanno ritenere illecita la mediazione operata" da Beppe Grillo, in merito alle richieste di interventi avanzate da Vincenzo Onorato e veicolate dal fondatore dei Cinque Stelle a "parlamentari in carica", "in quanto finalizzata ad orientare l'azione pubblica dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby". Lo si legge nel decreto di perquisizione eseguito dalla Gdf nell'inchiesta milanese che ipotizza il reato di traffico di influenze illecite per pagamenti su contratti pubblicitari.

Il pm Cristiana Roveda e l'aggiunto Maurizio Romanelli, come si legge nel capo di imputazione, hanno ritenuto "illecita la mediazione operata" da Grillo sulla base sia "dell'entità degli importi versati o promessi" da Onorato, sia della "genericità delle cause dei contratti", sia "delle relazioni effettivamente esistenti ed utilizzate" dal leader del movimento Cinque Stelle "su espresse richieste" dell'armatore "nell'interesse del gruppo Moby". In pratica, ricostruisce il decreto di perquisizione, Grillo ha percepito 120 mila euro all'anno sia nel 2018 sia nel 2019 "apparentemente come corrispettivo" per diffondere "su canali virtuali", come il sito beppegrillo.it, contenuti redazionali per il Marchio Moby. 

In cambio, secondo l'ipotesi da accertare, il fondatore di M5S avrebbe fatto avere, via chat, ai parlamentari del movimento da lui fondato le istanze di Onorato orientando l'intervento pubblico "favorevole agli interessi" della compagnia di navigazione allora in crisi finanziaria. Inoltre il comico avrebbe anche trasferito all'armatore "le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest'ultima".

Quanto al contratto tra Moby spa e la Casaleggio associati, emerge sempre dalla ricostruzione riportata nel decreto di perquisizione e sequestro, prevedeva il versamento di 600 mila euro nel triennio 2018-2020, per la stesura di un piano strategico e la campagna pubblicitaria 'io navigo Italiano'. Allo stato Davide Casaleggio, legale rappresentante e socio di maggioranza della società, non è indagato.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Tra il 2018 e il 2019, quando la società di Beppe Grillo ha ricevuto da Moby spa 120mila euro annui "apparentemente come corrispettivo di un 'accordo di partnership'", il "garante" dei Cinque Stelle ha "ricevuto da Vincenzo Onorato", fondatore della compagnia di navigazione, "richieste di interventi in favore" di quest'ultima e le ha poi veicolate "a parlamentari in carica appartenenti a quel movimento politico", trasferendo infine all'armatore "le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest'ultima". Lo scrivono i pm milanesi nel decreto di perquisizione. 

Tra le persone perquisite oggi (ma non indagate) figurano, come si legge negli atti, un "chief information officer" di Moby, l'allora "responsabile delle relazioni esterne e dei rapporti istituzionali" della compagnia, un "dipendente" all'epoca della Casaleggio Associati srl, una "disegnatrice grafica di pagine web" che lavorava per la Beppe Grillo srl e Achille Onorato, figlio di Vincenzo.

Beppe Grillo indagato per traffico di influenze illecite sui soldi dati dalla Moby al blog beppegrillo.it. Paolo Lami martedì 18 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Beppe Grillo è indagato dai pm di Milano, Cristina Roveda e Maurizio Romanelli per traffico di influenze illecite sui soldi dati dalla Moby al blog beppegrillo.it nell’ambito dei contratti pubblicitari sottoscritti fra l’azienda dell’armatore Vincenzo Onorato – anch’esso indagato – e la piattaforma web del comico genovese. 

“Sono sereno, non commento sviluppi giudiziari. Dico solo che ho grande fiducia nella magistratura”, dice Onorato raggiunto dall’Adnkronos.

La vicenda non nasce certo oggi ma risale al dicembre 2019 quando l’Uif, l’Unità antiriciclaggio di Bankitalia, segnalò “operazione sospette”, che fecero partire gli accertamenti, per quei soldi versati dalla Moby di Onorato tanto alla Fondazione Open di Matteo Renzi – 60mila euro – quanto alla società che gestisce il blog di Beppe Grillo e alla Casaleggio associati per consulenze di comunicazione.

Secondo l’Uif, le operazioni segnalate erano sospette “sia per gli importi, sia per la descrizione generica della prestazione ricevuta, sia per la circostanza di essere disposti a beneficio di persone politicamente esposte».

Al blog di Beppe Grillo erano arrivati dalla Moby 120 mila euro in due anni con la motivazione, «contratto di partnership» e che sarebbero serviti a pagare la pubblicità sulla piattaforma web del comico genovese.

Altri 600 mila euro erano arrivati nelle casse della Casaleggio associati per la redazione di un cosiddetto “piano strategico e la gestione di iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeholder del settore marittimo sulla limitazione dei benefici fiscali del Registro Internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari” e per “sensibilizzare le istituzioni e raggiungere una community di un milione di persone”.

Dalle indagini preliminari emerge che potrebbero essere stati versati 1,2 milioni di euro in favore della Casaleggio.

La faccenda mise in moto tutto un meccanismo di accertamenti successivi poiché si sospettava che il denaro fosse legato ad una normativa, approvata, sull’imbarco dei marittimi sulle navi italiane, legislazione perorata a lungo dallo stesso Onorato.

Ora la vicenda è tornata a galla perché stamattina la guardia di Finanza si è presentata per perquisire la sede legale della Beppe Grillo srl e della Casaleggio Associati srl e sequestrare alcuni documenti relativi a quell’accordo, da 120mila euro in due anni, fra la Moby – che, nel giugno dello scorso anno è stata ammessa dal Tribunale di Milano alla procedura di concordato preventivo – e la società che gestisce il blog beppegrillo.it.

Il comunicato ufficiale della Procura di Milano è molto esplicito. E ripercorrendo la vicenda ricorda che «Onorato ha richiesto a Grillo una serie di interventi a favore di Moby spa che Grillo ha veicolato a una serie di esponenti politici trasferendo quindi al privato richiedente le relative risposte». E, per questo, la Procura ha ritenuto «indispensabile acquisire la documentazione relativa ai contratti».

La pm Cristina Roveda, che si occupa dell’inchiesta sui finanziamenti di Moby a Grillo, Casaleggio e Fondazione Open assieme al collega Maurizio Romanelli, e che ha firmato i provvedimenti eseguiti stamattina dalla guardia di Finanza è anche titolare del fascicolo, inizialmente assegnato al sostituto procuratore Alessia Menegazzo, originato dall’esposto del legale romano Lorenzo Borrè, avvocato di gran parte degli espulsi Cinquestelle, sui circa 120mila euro trasferiti dal ‘Comitato eventi nazionali’, già ‘Comitato Italia 5 Stelle’ – che organizzò la festa di ‘Italia 5 Stelle’ – all’Associazione Rousseau.

La vicenda emersa anch’essa nel 2019, riguarda la raccolta fondi lanciata per la kermesse di Rimini, col trasferimento dell’avanzo di cassa all’Associazione Rousseau presieduta da Davide Casaleggio. 

Traffico d’influenze: l’inafferrabile reato inasprito dai grillini e che ora ha colpito Grillo. Michele Pezza martedì 18 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Fa bene Guido Crosetto a bollare il reato di traffico di influenze illecite, caduto oggi a mo’ di tegola sulla testa di Beppe Grillo come «assurdo, indefinito, arbitrario». E ancora meglio fa a sottolineare che rappresenta «un modo facile per “sporcare” un nemico politico, “richiamarlo all’ordine”, in un Paese dove un avviso di garanzia è condanna». Tutto vero. Al posto suo, tuttavia, avremmo aggiunto che non è questo il caso per scomodare le Procure politicizzate. Perché la responsabilità dell’esistenza di un reato tanto inafferrabile non è della magistratura bensì del Parlamento. 

Nel 2019 Bonafede aumentò la pena

Furono le Camere, nel 2012, a consentire al governo Monti di introdurre una norma da cui oggi tutti (o quasi) prendono le distanze. Ma tant’è: in quell’epoca, già spopolava il “lo vuole l’Europa” assurto oggi a inviolabile tabù. Nel caso del traffico illecito d’influenze, a reclamarne l’introduzione nel nostro Codice penale erano soprattutto alcune Convenzioni internazionali. E a tanto provvide la guardasigilli pro-tempore Paola Severino, alla cui opera si sarebbe aggiunto anni dopo il ritocchino in termini di aumento di pena di Alfonso Bonafede. Mai – c’è da scommettere – l’ex-ministro avrebbe immaginato che un giorno quel reato si sarebbe ritorto contro Grillo.

Il silenzio del M5S su Grillo

E forse è anche questo il motivo del silenzio opposto dai 5Stelle alla disavventura giudiziaria occorsa al loro capo supremo. Nulla di più facile che nelle prossime ore ritrovino la parola per spacciare come un’ulteriore tappa della loro crescita politica l’iscrizione dell’Elevato nel registro degli indagati. Magari accadesse. Almeno realizzerebbero una volta per tutte che le sventagliate di onestà-tà-tà-tà o i proclami su «apriscatole» e «Palazzo trasparente» funzionano come demagogiche banalità non come programma di governo. Già, visto oggi il Grillo innalzato dal Vaffa come tsunami purificatore della vecchia politica non è più neanche un ricordo: è una barzelletta. 

Giacomo Amadori per "la Verità" il 21 gennaio 2022.

La chat tra l'armatore Vincenzo Onorato e Beppe Grillo è lunghissima, perché come ha spiegato anche l'avvocato dell'imprenditore, Pasquale Pantano, i due sono amici da oltre 40 anni. Sembra addirittura che si conobbero corteggiando la stessa ragazza. Poi l'allora comico iniziò a lavorare sulle navi di Onorato e da allora i due non si sono più persi.

Forse l'errore è stato proprio non separare questa loro amicizia dagli affari quando «Beppe», così è salvato sul cellulare di Onorato, è diventato l'ingombrante garante del primo partito italiano.

In quella veste Grillo ha iniziato a preoccuparsi per l'amico quando l'armatore viene travolto dai guai: prima un gruppo di obbligazionisti della Moby fa istanza di fallimento, poi respinta dal giudice di Milano; quindi, per la pressione di alcuni creditori, Onorato è costretto a fare a istanza di concordato; senza dimenticare il sanguinoso contenzioso che contrappone l'armatore al Ministero dello sviluppo economico per un debito di 180 milioni legato all'acquisto della Tirrenia.

Ma i giornali italiani sono più interessati dal procedimento per traffico di influenze illecite coordinato dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e da Cristiana Roveda. Un fascicolo che vede indagati Grillo e Onorato in cui sono confluite le chat sequestrate all'imprenditore nell'inchiesta sulla fondazione Open. 

I messaggi con esponenti grillini sono più della dozzina citata ieri dai giornali e riguardano diversi temi. Ma le comunicazioni che hanno attirato in particolare l'attenzione degli inquirenti sono quelle propedeutiche a un incontro con l'allora ministro dei Trasporti Danilo Toninelli. Che, ieri, con La Verità, ha ammesso l'appuntamento e lo ha spiegato così via Whatsapp: «Sì certo che c'è stato l'incontro. Come con tutti o quasi i concessionari di beni o servizi pubblici. Mi pare fosse inizio estate 2019. Si parlò della normativa sul regime fiscale per i marittimi di origine italiana e comunitaria.

E visto che me lo chiederà le rispondo già dicendole che non parlammo della concessione in essere. E non avrebbe nemmeno avuto titolo per chiedermelo perché era già partita la pratica tutta interna al ministero per la gara pubblica finalizzata all'assegnazione della nuova concessione, visto che la precedente scadeva il 18 luglio 2020. Quindi si ricordi che la concessione quando io terminai il mandato da ministro era ancora abbondantemente in essere. Non come alcuni suoi colleghi hanno detto. Un saluto». 

Onorato sarebbe uscito da quell'incontro piuttosto allibito: «Toninelli mi ha chiesto: "Ma lei che lavoro fa?". Cosa avrei dovuto rispondergli?..» ha confidato ai suoi più stretti collaboratori. Insomma Grillo avrebbe utilizzato la sua «influenza», ma Toninelli, l'ex ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e alcuni senatori e deputati non si sarebbero adoperati più di tanto per la causa.

Ben diversa la posizione di un ex parlamentare, oggi potente lobbista, che compare nelle chat di Onorato in modo costante. C'è da capire se abbia ricevuto pagamenti e ottenuto risultati a livello legislativo. 

Ma il gran agitarsi di Onorato sarebbe motivato dal derby infinito tra armatori con la schiatta dei Grimaldi, che l'indagato considera nelle grazie della Lega di Matteo Salvini, anche perché la proposta di accordo sulla restituzione di 144 milioni (garanti da ipoteca) dei 180 dovuti al Mise è stata bocciata dal ministero guidato dal leghista Giancarlo Giorgetti. E a rendere ancora più sospettoso Onorato sono stati alcuni titoli di giornale che annunciavano come «top player» della Lega per battere Vincenzo De Luca in Campania proprio un Grimaldi. 

E la sindrome da accerchiamento forse trova una giustificazione nelle chat dell'inchiesta Open, da cui risulta che Onorato, storico elettore della sinistra e tesserato del Pd è stato gettato a mare dal suo stesso partito proprio a favore dei Grimaldi. 

Il casus belli lo spiega lo stesso Onorato ai pm: «Devo premettere che ero iscritto al Partito democratico da tempo; ho stracciato la tessera del partito nella circostanza del ritiro della legge Cociancich (il secondo emendamento Cociancich-deputato del Pd, Ndr-) dal Parlamento da parte dell'allora ministro dei Trasporti Delrio. Tale legge era finalizzata al recupero dell'occupazione dei marittimi italiani».

Ma Onorato forse ignorava che Lotti e il presidente di Open Alberto Bianchi lo avevano già scaricato a favore dei Grimaldi. Il 13 febbraio 2018, nel pieno della campagna elettorale per le politiche Bianchi scrive a Lotti: «A pranzo vedo Grimaldi c'è qualcosa di simpatico che tu pensi possa dirgli?». 

L'ex ministro risponde: «Poco. Anche se alla fine la battaglia l'ha vinta lui, grazie a Delrio». Bianchi chiede, senza ottenere risposta se Grimaldi «lo sa che è grazie a Delrio?». Qualche ora dopo Bianchi relaziona Lotti sull'incontro: «Buon impatto con Grimaldi. Sabato ti dico, non sarebbe male tu lo vedessi prima del 4 (marzo, giorno delle elezioni politiche 2018, Ndr)».

E il 29 marzo Bianchi certifica con un altro messaggino Whatsapp a Lotti la volontà di sacrificare Onorato a vantaggio del competitor: «Sei d'accordo nel coltivare rapporto con Grimaldi anche a costo di perdere Onorato, che tende ai grillini? Mi serve saperlo prima possibile». Lapidaria la risposta di Lotti: «Yes».

Giacomo Amadori François de Tonquédec per “La Verità” il 22 gennaio 2022.

C'è un comizio di Beppe Grillo e Luigi Di Maio che è finito all'attenzione della Procura di Milano. È questo il cuore dell'inchiesta per traffico di influenze illecite che vede indagati il fondatore del Movimento cinque stelle e l'armatore Vincenzo Onorato. 

Infatti il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, la pm Cristiana Roveda e gli uomini del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza hanno trovato qualcosa di diverso dalla semplice attività di promozione online nel rapporto commerciale tra i due personaggi sotto inchiesta. Il contratto con la Beppe Grillo Srl da 120.000 euro più Iva l'anno viene firmato dalla compagnia Moby di Onorato l'1 marzo 2018, tre giorni prima delle elezioni politiche del 4 marzo, che vedrà trionfare il movimento, ma anche sedici giorni dopo che l'ex comico si era recato, insieme con Di Maio, in quel momento capo politico dei pentastellati, a Torre del Greco per un comizio particolarmente concitato organizzato dall'associazione Marittimi per il futuro presieduta da Vincenzo Accardo, dipendente proprio di Onorato nella Tirrenia.

Proprio Accardo fece sapere all'uditorio in estasi che Luigino era stato l'unico candidato premier ad accettare il loro invito. Il sodalizio, che ha 3.000 iscritti, è una fucina di lavoratori dell'armatore napoletano, ma in quel caso si trasformò tra applausi scroscianti e promesse di voti in un bacino elettorale per i 5 stelle che a Torre del Greco trionfarono con il 54,4 per cento delle preferenze. 

Grillo dal palco aveva scaldato i cuori dei presenti, tutti italiani e tutti naviganti, promettendo di sbloccare la legge che garantiva sgravi fiscali agli armatori che avessero assunto personale comunitario. 

La sera del 12 febbraio 2018 il garante esordisce così: «Quando un armatore di qua, napoletano, mi ha detto che gli armatori sono esentasse, io sono rimasto Ho chiesto un po' in giro, nessuno sapeva questa notizia». 

Poi prosegue sposando di fatto la tesi di Onorato: «C'era una legge fatta da uno del Pd, Cociancich, ha fatto anche una legge buona diciamo, però poi alla fine delegava l'Europa. E poi Delrio l'ha bloccata».

«Una schifezza» per dirla con l'armatore. Ma il collegamento tra contratto, comizio e promessa di sbloccare la legge non è sfuggita agli inquirenti che nelle chat hanno trovato riferimenti a questo tema. In particolare alla ricerca di «un ponte» con l'Europa che permettesse di rendere digeribile per Bruxelles una norma che inizialmente discriminava tutti i lavoratori non italiani e che era quindi a rischio di infrazione. Adesso gli inquirenti sono interessati a capire, anche grazie al materiale sequestrato a cinque stretti collaboratori (non indagati) di Onorato, Grillo e Davide Casaleggio, se questi pontieri siano stati trovati e se abbiano garantito passi in avanti. 

Nel 2020 probabilmente questo non era ancora accaduto, visto che un'organizzazione sindacale dei marittimi, la Cisal, si era così lamentata: «Purtroppo a distanza di 2 anni dalla sua applicazione, questa legge (la Cociancich, ndr) giace nei meandri della Unione europea, per espressa volontà della stessa Confitarma (la confederazione degli armatori italiani, ndr) supportata dall'allora ministro dei Trasporti Delrio».L'avvocato Cociancich nel 2018 non è stato rieletto in Parlamento ed è diventato uno degli animatori dei comitati che hanno sostenuto la nascita di Italia viva. Nell'entourage di Onorato se lo ricordano a una manifestazione romana di Marittimi per il futuro organizzata sotto la sede di Confitarma per sostenere la sua legge.

Ma, dalle chat, emerge soprattutto il ruolo di lobbista-avvocato al fianco di Onorato di un altro ex collega di partito di Cociancich, quell'Ernesto Carbone passato alla storia per il suo «ciaone» agli avversari di Renzi. Prima delle elezioni del 2018 la Moby gli ha versato 50.000 euro come contributo e alle riunioni dell'hotel Excelsior, quartier generale romano di Onorato, era una presenza fissa. Nei messaggi depositati agli atti emerge per l'assiduità con cui ha seguito l'approvazione della Cociancich e, come già rivelato dalla Verità, fosse stato il mediatore tra Matteo Renzi e Onorato per la firma di un accordo commerciale che avrebbe dovuto portare il fu Rottamatore a trovare investitori per l'armatore in crisi.

I cellulari raccontano che l'ideatore di Mascalzone latino, che aveva imbarcato anche Massimo D'Alema, le ha tentate tutte con il suo partito di riferimento, il Pci-Pds-Ds-Pd, prima di ammainare la bandiera e puntare sui 5 stelle, a partire dal comizio del febbraio 2018, quando era già abbastanza chiaro che il Pd avrebbe lasciato lo scettro ai 5 stelle. 

Ma torniamo ai contratti del 2018. Quello con la Beppe Grillo Srl, come detto, parte dopo il comizio e prima delle elezioni, una specie di professione di fede. Quello con la Casaleggio associati arriva invece il 7 giugno, esattamente sei giorni dopo l'insediamento del primo governo a guida 5 stelle, il Conte 1. Che aveva come ministro delle Infrastrutture e trasporti un grillino doc come Danilo Toninelli.

La Procura evidenzia la «genericità delle cause» di questi accordi. Il contratto con Grillo, 10.000 euro più Iva al mese per un anno, tacitamente rinnovabile, garantiva a Moby uno «Sky Banner 300x500 (pixel, ndr)» la cui « grafica» avrebbe potuto «essere modificata per non più di 2 volte al mese» e che avrebbe dovuto essere utilizzato «per inserimenti pubblicitari». Il numero non viene, però, indicato. Inoltre il contratto, composte da sole 4 pagine (non firmate dalla società di Grillo nella copia in nostro possesso), prevedeva, «su richiesta di Moby, l'inserimento sul Blog, per un determinato periodo di tempo, di contenuti redazionali, sino ad un massimo di 1 al mese».

Anche in questo caso quantità e durata dei contenuti non vengono specificati. Più articolato il contratto tra la Moby e la Casaleggio associati, che nelle prime 13 pagine contiene la descrizione del progetto da realizzare, che, guarda caso, ha al centro la questione affrontata a Torre del Greco, ovvero la «stesura di un piano strategico e la gestione di tutte le iniziative volte a sensibilizzare l'opinione pubblica e gli stakeholder del settore marittimo sulla tematica della limitazione dei benefici fiscali del Registro internazionale alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Obiettivo da raggiungere sensibilizzando «le istituzioni sul tema dei marittimi» e raggiungendo «una community di riferimento di 1 milione di persone». Il piano si articolava in tre fasi. Durata prevista tre anni: dal 7 giugno 2018 allo stesso giorno del 2021, per 600.000 euro ogni 12 mesi Iva esclusa, di cui 150.000 di acconto, seguiti da 50.000 euro al mese fino a marzo 2021.

Totale della parte fissa: 1,8 milioni di euro, a cui andava aggiunto un «goal fee» da 250.000 euro se gli obiettivi del contratto fossero stati raggiunti entro 12 mesi o di 150.000 se entro 2 anni. Al progetto al centro del contratto si affiancavano eventuali costi delle campagne pubblicitaria online e non che andavano «via via definiti di comune accordo con il cliente e previa sua autorizzazione». L'accordo viene rescisso consensualmente dopo due anni, l'1 marzo 2020, e dopo il pagamento di 1,2 milioni di euro. Siamo alla vigilia del lockdown, ma soprattutto al Mit non siede più un grillino, ma la piddina Paola De Micheli.I due contratti sono citati anche nel documento di «analisi su alcuni fatti di gestione» della Moby redatto per il Tribunale di Milano dalla commercialista Stefania Chiaruttini.

Una professionista già accusata da Onorato di essere «in evidentissimo conflitto di interessi», essendo «contestualmente consulente sia di Tirrenia in amministrazione straordinaria (e quindi del Mise nel contenzioso contro Onorato, ndr) che dell'attestatore del piano di ristrutturazione del gruppo» oltre che «già ampiamente confutata da numerosi pareri pro veritate formulati da primari professionisti indipendenti».

Sta di fatto che nel capitolo del documento sui pagamenti di Moby «verso vari soggetti esterni al gruppo e non classificabili tra le parti correlate», la Chiaruttini elenca spese voluttuarie di ogni tipo (una casa in Sardegna da 2,1 milioni, a pochi chilometri da quella di Grillo, e super car come una Rolls Royce Wraith da 200.000 euro, una Maserati Levante noleggiata -senza riscatto- per 100.000 euro e due Aston Martin da 300.000 euro complessivi) e una serie di pagamenti che vengono collegati alle relazioni con la politica.Tra le spese di lobbying vengono segnalati 10.000 euro devoluti proprio all'associazione «Marittimi per il futuro» di Torre del Greco, quelli del comizio, 50.000 euro all'associazione Fino a prova contraria, la stessa cifra, come detto, a Carbone, 30.000 alla federazione Val di Cornia-Elba del Pd, 10.000 (suddivisi in due tranche) a Fratelli d'Italia, altri 10.000 a Maida Mataloni, definita «mandataria elettorale» della candidata Pd Silvia Velo e 100.000 al comitato Change, riconducibile al presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.

Ma la consulenza più costosa, a parte il contratto della Casaleggio associati, è quella pagata a Roberto Mercuri, dal 2016 ad di Fai service, cooperativa che offre servizi a 8.600 aziende associate nella Federazione autotrasportatori italiani, nonché braccio destro dell'ex vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona (ex presidente anche della Fai e presidente di Fai service). Mercuri ha percepito 550.000 euro tra il 2017 e il 2019 per il «supporto tecnico - specialistico legislativo in relazione alle attività con il parlamento, con il governo e con la Commissione europea». Non è chiaro a che titolo. L'unica cosa certa è che la Fai, con le sue migliaia di potenziali clienti, è un «partner privilegiato» di Onorato armatori.

"Spazi stretti fra le lettere". Chi è davvero Beppe Grillo. Evi Crotti il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Travolto dalle inchieste, rimasto ai margini del Movimento. Una firma rivela la vera personalità del comico.

La firma mette in evidenza due aspetti del carattere: da un lato c’è originalità e vivacità intellettiva e d’azione, dall’altro il desiderio di sostenere a tutti i costi la propria immagine, cercando di superare in questo modo un’insicurezza di fondo alla quale risponde con caparbietà. L’originalità e l’ostinazione potrebbero portarlo a comportamenti reazionari ma non rivoluzionari (vedi slanci verso l’alto e il basso negli allunghi). L’iniziale grande del nome nella firma segnala il bisogno di emergere socialmente anche attraverso sicurezze tangibili, per avere un posto sicuro nel mondo politico. La difficoltà d’interazione (vedi strettezza degli spazi tra le lettere, qui la firma) è dovuta alla foga di essere sempre e comunque riconosciuto come leader.

Beppe Grillo vive costantemente come fosse sul palcoscenico e quindi domina in lui la teatralità, anche a compensazione dell’insicurezza. Ciò può fargli assumere comportamenti istrionici dovuti a fattori emotivi e quindi a uno scarso controllo sulle proprie emozioni. In questo modo egli finisce per essere protagonista non più artisticamente ma politicamente, essendo condizionato dalla paura di perdere il proprio prestigio e il consenso delle masse che, come comico, aveva saputo conquistare. Possiamo quindi concludere dicendo che, almeno per quanto emerge dall’attuale firma, Beppe Grillo più che moralista potrebbe essere definito un “censore anticonformista” che ha trasformato il suo originario idealismo in una sorta d’intolleranza delle idee altrui. 

Evi Crotti. Laureata in pedagogia, giornalista, scrittrice ed esperta dell’età evolutiva. Allieva diretta di padre Moretti, ha fondato nel 1975 la prima scuola di grafologia morettiana in Milano che tuttora dirige. Ha collaborato con la clinica psichiatrica Guardia Seconda di Milano, diretta dal prof. Carlo Lorenzo Cazzullo e con il dott. Luban-Ploza, medico psicosomatista, partecipando ai gruppi Balint per l’età evolutiva.  

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.

Voleva diventare il re dei trasporti marittimi, finché un gigantesco indebitamento ha fatto colare a picco la sua flotta. Ma Vincenzo Onorato, proprietario di Moby che nel 2011 attraverso Cin ha comprato Tirrenia, non è un uomo che si arrende facilmente. Se mancano le risorse finanziarie, c'è sempre la politica che può dare una mano. In particolare l'amico di vecchia data Beppe Grillo, fondatore del M5S: «Questo dobbiamo trattarlo bene», dice di Onorato. 

È uno dei contenuti delle chat acquisite dalla Procura di Milano e al centro dell'inchiesta per traffico di influenze illecite. A scrivere è Grillo, che in numerosi messaggi come questo sensibilizza i parlamentari e i ministri Cinquestelle direttamente coinvolti nelle questioni normative ed economiche dell'armatore.

Tra i destinatari ci sono una quindicina di parlamentari, ma soprattutto ministri come l'ex titolare dei Trasporti Danilo Toninelli, l'ex numero uno dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli (oggi alla guida del dicastero delle Politiche agricole) e l'allora suo vice Stefano Buffagni, nessuno dei quali è indagato. 

Due parlamentari lasciano: la senatrice Evangelista e il deputato Marino. Non ci sono state pressioni, replicano i diretti interessati precisando peraltro di avere lasciato cadere le istanze dell'armatore. Ma le chat, secondo la Procura, non lasciano margine di dubbio: «Fanno ritenere illecita la mediazione operata» dal leader del Movimento, «in quanto finalizzata a orientare l'azione dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby», scrivono i pm nel decreto di perquisizione eseguito dalla guardia di finanza.

E proprio per questo motivo non hanno sequestrato il telefono di Grillo, perché ritengono che a corroborare l'accusa siano sufficienti i messaggi estratti (inserendo alcune parole chiave) dai faldoni arrivati da Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi. Anche presso quest' ultima, stando alle indagini, l'armatore avrebbe cercato sponda. 

Da un'informativa della finanza finita agli atti dell'inchiesta chiusa di recente dalla Procura fiorentina emerge che tra novembre 2015 e luglio 2016 siano stati versati 300 mila euro a Open, sia da Onorato sia dalla spa di cui era presidente. Denaro, secondo i pm, finalizzato a cementare i rapporti con alcuni esponenti del Pd, tra cui l'onorevole Luca Lotti, che avrebbero potuto favorire gli interessi del gruppo.

Alle donazioni, rilevano gli investigatori, avrebbero fatto seguito alcune comunicazioni tra Onorato e Lotti in materia di provvedimenti legislativi riguardanti le imprese marittime. L'armatore, in particolare, avrebbe chiesto un emendamento suggerendone il testo: venne approvato pressoché uguale. Nel 2017, stando a quanto trapela dall'inchiesta milanese, a sostenere le istanze di Onorato scende in campo Grillo. 

Ma è nel 2018, quanto il gruppo entra in crisi, che il fondatore del Movimento viene reclutato con un contratto: 240 mila euro per due anni, formalmente per fare pubblicità a Moby sul blog, in realtà - è l'accusa - per indirizzare via chat i «parlamentari in carica» del suo schieramento, con l'obiettivo di pilotare le decisioni della politica a vantaggio della compagnia.

I dossier riguardano direttamente il governo Conte, chiamato a decidere sugli sgravi fiscali destinati al settore, il ministero dei Trasporti di Danilo Toninelli e quello dello Sviluppo economico (Mise), retto tra il 2018 e il 2020 da Luigi Di Maio prima e Patuanelli poi, con Stefano Buffagni alla poltrona di viceministro.

È il Mise, nell'aprile 2020, ad autorizzare i commissari straordinari di Tirrenia a sottoscrivere l'accordo con la Cin, controllata del gruppo Moby, e qualche mese dopo c'è il rinnovo della convenzione fra lo Stato e la compagnia di navigazione. Che Toninelli aveva osteggiato: «In merito alla questione Moby sono state diffuse menzogne sul mio conto - afferma ora - Durante l'incarico da ministro avrei prorogato la concessione per i servizi di collegamento marittimo in regime di pubblico servizio con le isole maggiori e minori.

La notizia è palesemente falsa poiché la suddetta convenzione, all'articolo 4, specifica la sua durata dal 18 luglio 2012 al 18 luglio 2020. Pertanto la scadenza della sua vigenza risulta di quasi un anno successiva al termine del mio incarico da ministro, risalente al mese di settembre 2019». 

Intanto i legali di alcuni collaboratori di Grillo e Onorato perquisiti tre giorni fa stanno valutando un probabile ricorso al Tribunale del riesame. Un'eventuale impugnazione del provvedimento firmato dal pm Cristiana Roveda e dall'aggiunto Maurizio Romanelli consentirebbe una prima discovery di tutte le carte in mano all'accusa.

Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2022.  

Segnalazioni Antitrust inascoltate per almeno due anni. Avrebbero giustificato la messa a gara di alcune tratte per la Sardegna, disciplina prevista dalla normativa europea, confermate da una multa (per 29 milioni poi ridotta ad 1) per abuso di posizione dominante nel trasporto merci. Gare avviate solo da questo governo, ad aprile 2021, non dagli esecutivi a guida pentastellata.

Procedimenti societari di fusione inversa, sventati, che avrebbero svuotato della garanzie patrimoniali sufficienti a Moby per rimborsare il debito di 180 milioni nei confronti dello Stato per il modo in cui avvenne la fusione di Tirrenia nel gruppo della famiglia Onorato. Soprattutto proroghe su proroghe, decise dai due governi Conte, della Convenzione da 72 milioni di euro all'anno con cui Tirrenia copriva le rotte passeggeri/merci per la Sardegna, la Sicilia e le isole Tremiti.

Rotte definite «a fallimento di mercato», dunque da sostenere con sussidi pubblici, che però rischiavano di configurare una preoccupante concentrazione dell'offerta di posti sui traghetti che poteva determinare a cascata un aumento del prezzo dei biglietti nella stagione estiva. Concentrazione segnalata da una relazione alla Camera dell'allora presidente dell'Authority dei Trasporti, Andrea Camanzi, che rivelava come la gran parte delle rotte fosse coperta con percentuali tra il 90 e il 95% di posti offerti dal gruppo Moby, tesi che confermerebbe la totale assenza di concorrenza.

E poi le esenzioni fiscali e l'utilizzo a fini di liquidità immediata dei fondi destinati alla ristrutturazione delle navi con cui avvenne l'acquisizione di Tirrenia che finì in amministrazione straordinaria salvo essere rilevata dal gruppo della famiglia Onorato nel 2012. Una procedura che diede vita ad un lungo contenzioso con i commissari della Tirrenia finito con la decisione della Commissione Ue di decretare il rimborso all'Italia di ulteriori 15 milioni. 

Da qui i sequestri conservativi dei conti della società, su richiesta degli stessi commissari, tramutati però dall'allora ministro dello Sviluppo, Stefano Patuanelli, in un più morbido sequestro conservativo delle navi che svolgendo però un servizio pubblico non potevano fermarsi.

Ora il piano di rientro del debito di 640 milioni (160 milioni verso le banche, 180 verso lo Stato e 300 verso una pletora di obbligazionisti) della capogruppo Moby e della controllata Moby-Cin sottoposto alla valutazione dei creditori, tra cui anche i commissari di Tirrenia, a cui il pm Roberto Fontana, ha chiesto un parere. Ieri nell'udienza a Milano il gruppo Moby ha spiegato di voler immettere nuova finanza per 60 milioni e di voler pagare il debito Tirrenia all'80% in 4 anni, con garanzia ipotecaria sulle navi e con il mandato di vendita della stessa società (col rischio che però il valore dei natanti scenda ancora) quale ulteriore garanzia.

Traffico di influenze, quella legge fumosa che ingolfa la giustizia. Dal caso della ministra Guidi all’assoluzione di Alemanno, passando per Renzi senior: come nasce (e come spesso muore) uno tra i reati più cari ai grillini. Simona Musco su il Dubbio il 19 gennaio 2022.  

«Il reato di traffico di influenze illecite è come la corazzata Potemkin del film di Fantozzi, una boiata pazzesca: la si può girare come si vuole, ma alla fine i conti non tornano, perché è costruito sul nulla». A dirlo, cinque anni fa, era Tullio Padovani, professore di Diritto penale all’Università Sant’Anna di Pisa, intervistato dal Foglio sul caso giudiziario che portò alle dimissioni dell’allora ministra dello Sviluppo, Federica Guidi.

Era marzo del 2016 e i grillini non persero tempo ad emettere la loro sentenza: «Quanto scoperto in queste ore sul ministro Guidi è vergognoso! Deve andare a casa subito!», recitava la pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle, accontentato poco dopo dalla ministra, che decise di mollare. Un anno dopo il M5S ribadiva il concetto, punzecchiando l’allora premier Matteo Renzi per le indagini riguardanti il padre: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi, che babbo Tiziano, resta saldamente indagato nell’inchiesta per corruzione negli appalti miliardari in Consip per il grave reato di traffico di influenze», si legge in un post del 13 aprile 2017. Su quella stessa pagina, oggi che ad essere indagato è Beppe Grillo, il padre del Movimento, tutto tace. Quello contestato all’ex comico è un reato dai contorni vaghi, connotato da un forte intento repressivo, che punisce, in via preventiva e anticipata, il fenomeno della corruzione, sanzionando tutti quei comportamenti, in precedenza ritenuti irrilevanti, che la “preannunciano”.

Il reato è stato introdotto nell’ordinamento con l’articolo 1, comma 75, della legge 6 novembre 2012, n. 190 – la cosiddetta “Severino” -, previsto nel codice penale con l’articolo 346-bis. La norma è poi transitata nel 2019 nella cosiddetta “Spazzacorrotti”, la legge bandiera dei grillini, che adeguando il diritto penale interno a quanto previsto dalle norme sovranazionali ha esteso la portata applicativa della legge anche alle condotte che prima era riconducibili al millantato credito, contestualmente cancellato dal codice penale. La legge punisce con una pena che va da un anno a quattro anni e mezzo chiunque, fuori dei casi di concorso nei reati di corruzione, «sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, ovvero per remunerarlo, in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio». Insomma, vengono puniti i cosiddetti “faccendieri”, sia nell’ipotesi in cui si facciano pagare per l’opera di mediazione – e il denaro deve essere necessariamente indirizzato “a retribuire” quella stessa opera -, sia in quella per cui chiedono il denaro non per sé, ma per pagare il pubblico ufficiale, attività preparatoria del reato corruttivo. Attività considerate una patologia del lobbismo, tema per il quale solo una settimana fa la Camera ha approvato un testo di legge che disciplina l’attività di relazioni istituzionali per la rappresentanza di interessi.

I casi di cronaca sono diversi e anche particolarmente pesanti: il più eclatante è forse quello, già evocato, della ministra Guidi, mai indagata, ma messa alla gogna per l’ipotesi di aver inserito nella legge di Stabilità del 2015, su pressione dell’allora compagno e imprenditore Gianluca Gemelli -, ex commissario di Confindustria Siracusa – un emendamento che sbloccava il progetto di estrazione petrolifera “Tempa Rossa”, favorevole alla Total, che avrebbe poi “ripagato” l’intermediazione di Gemelli affidando un subappalto a una delle sue aziende. Quell’inchiesta provocò un vero e proprio terremoto politico, tant’è che fu proprio il pressing dell’allora premier Matteo Renzi a provocare le dimissioni di Guidi. Mesi dopo, però, tutto si dissolse in una bolla di sapone e la posizione di Gemelli fu archiviata: per gli inquirenti, infatti, sebbene la sua autorevolezza derivasse «dal fatto di essere notoriamente il compagno del ministro Guidi», condizione che spendeva «anche millantando, in modo più o meno esplicito, la possibilità di trarre vantaggio da tale sua condizione», non è emerso «che egli abbia mai richiesto compensi per interagire con esponenti dell’allora compagine governativa». L’inghippo, spiegava all’epoca Padovani, sta nel fatto «che l’incriminazione poggia tutta sulla finalità, ma la finalità sta nella testa della gente, e come fai a stabilirla?». Insomma, gli inquirenti godono in questo senso di ampia discrezionalità per indagare – con tutte le conseguenze politiche del caso -, ma al tempo stesso scontano la difficoltà di dimostrare che il loro teorema sia corretto.

Il caso Guidi non è, però, l’unico. Tra i più golosi per le cronache giornalistiche c’è quello di Tiziano Renzi, padre dell’ex segretario del Pd, rinviato a giudizio a settembre scorso nell’ambito di uno dei filoni dell’inchiesta Consip, ma anche il caso Open, che vede coinvolto proprio l’ex presidente del Consiglio, che conta tra i reati contestati anche quello previsto dall’articolo 346-bis. Ma c’è anche la vicenda di Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, assolto pochi mesi fa in uno stralcio del processo “Mafia Capitale”, sentenza nella quale sono stati i giudici a evidenziare la fumosità di tale reato e la difficoltà, per le procure, di portare a casa il risultato. Secondo la Cassazione, infatti, la norma «non chiarisce quale sia la influenza illecita che deve tipizzare la mediazione e non è possibile, allo stato della normativa vigente, far riferimento ai presupposti e alle procedure di una mediazione legittima con la pubblica amministrazione (c.d. lobbying), attualmente non ancora regolamentata».

Insomma, data la vaghezza della norma, il rischio è quello di «attrarre nella sfera penale – a discapito del principio di legalità – le più svariate forme di relazioni con la pubblica amministrazione, connotate anche solo da opacità o scarsa trasparenza, ovvero quel “sottobosco” di contatti informali o di aderenze difficilmente catalogabili in termini oggettivi e spesso neppure patologici, quanto all’interesse perseguito».

L'accusa è di traffico di influenze. Beppe Grillo indagato, nel mirino i contratti pubblicitari con la Moby di Vincenzo Onorato. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.  

A pochi giorni dal cruciale voto per il Quirinale sono ancora una volta le Procure ad entrare in gioco, questa volta mettendo nel mirino il Movimento 5 Stelle. Il fondatore e garante dei pentastellati Beppe Grillo, come scrive il Corriere della Sera, è indagato dalla Procura di Milano per traffico di influenze.

La vicenda riguarda i contratti sottoscritti nel biennio 2018-19 dal blog Beppegrillo.it con la compagnia marittima Moby dell’armatore napoletano Vincenzo Onorato.

L’indagine a carico di Grillo, scrive il Corsera, è emersa a seguito di alcuni sequestri e acquisizioni di documenti effettuati dal Nucleo di Polizia economico-tributaria della Guardia di Finanza di Milano martedì mattina in una diversa inchiesta sulla compagnia marittima, da tempo in ‘cattive acque’.

Moby è stata infatti ammessa nel giugno 2020 dal Tribunale di Milano alla procedura di concordato preventivo, proposta dal gruppo che fa capo a Onorato a obbligazionisti, alle banche e allo Stato anche in virtù della vicenda dell’acquisizione della Tirrenia.

L’inchiesta è diretta dai pm Cristina Roveda sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli. I finanzieri del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf di Milano, scrive l’Ansa, stanno effettuando perquisizioni negli uffici della Beppe Grillo srl.

Secondo l’ipotesi accusatoria della Procura, guidata dal facente funzione Riccardo Targetti, Vincenzo Onorato avrebbe chiesto a Beppe Grillo una serie di interventi a favore di Moby che il leader del Movimento 5 stelle “ha veicolato a esponenti politici trasferendo quindi” all’armatore “le relative risposte”.

Il ruolo del blog di Grillo

Ma cosa c’entra dunque Grillo nell’indagine? Il cofondatore del Movimento 5 Stelle aveva raggiunto un accordo con la Moby nel biennio 2018-19: per un compenso di 120mila euro l’anno, sul blog di Grillo sarebbero stati inseriti messaggi pubblicitari, uno spot al mese e contenuti redazionali e interviste a “testimonial” della Moby, da diffondere anche sui social del blog.

In realtà, come emerso dalle carte della procedura di concordato preventivo della Moby, l’accordo col ‘sacro bloc’ grillino non è andato poi così. Grillo viene indicato infatti tra i creditori della compagnia di navigazione per 73.200 euro.

L’inchiesta su Open

In realtà l’accordo commerciale tra Moby e blog di Grillo emerse già nel dicembre 2019 nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. In quell’occasione risultò anche la segnalazione da parte dell’Ufficio di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia di alcuni pagamenti della compagnia di Onorato, tra cui quello al blog di Grillo, come potenzialmente sensibili in base alle normative antiriciclaggio.

Segnalazione avvenuta, ricorda il Corriere, “sia per gli importi, sia per la descrizione generica della prestazione ricevuta, sia per la circostanza di essere disposti a beneficio di persone politicamente esposte”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da iltempo.it il 5 Gennaio 2022.

Dopo il danno, la beffa. Sia Davide Casaleggio che Beppe Grillo che finirono su tutti i giornali alla fine del 2019 per le indagini dell'antiriciclaggio su alcuni bonifici e i contratti che entrambi avevano con le rispettive società possedute (Casaleggio Associati e Beppegrillo.it) con il gruppo Moby. Nessuno dei due fece salti di gioia per la pubblicazione dei contratti pubblicitari che li legavano alla compagnia di navigazione. 

E si capisce facilmente perché: il sito del fondatore del M5s avrebbe dovuto pubblicare una intervista-spot al mese a testimonial di Moby in cambio di 120 mila euro l'anno, mentre la società di Casaleggio si era impegnata in un piano di comunicazione a sostegno di benefici fiscali rivolti alle sole navi che impiegavano equipaggi italiani o comunitari con un pagamento al raggiungimento di obiettivi di 250 mila euro entro 12 mesi e 150 mila euro fra i 12 e i 24 mesi.

Entrambi quei contratti sono rimasti però in  gran parte sospesi in aria e travolti dalla procedura concordataria a cui il Tribunale di Milano ha ammesso Moby nel luglio dello scorso anno. In procedura sono indicati crediti vantati nei confronti della compagnia di navigazione dalla Casaleggio Associati per 300.107 euro e da Beppegrillo.it per 73.200 euro. Cifre ora a rischio di incasso effettivo e che secondo i documenti societari depositati non sono proprio indifferenti per entrambe le società, anzi.

La Casaleggio Associati ha infatti chiuso l'ultimo bilancio depositato in camera di commercio, quello relativo al 2020, con un fatturato di 1.813.489 euro (l'anno precedente la pandemia era stato di 2.264.588 euro) e una perdita finale di 320.295 euro (l'anno prima invece c'era stato un utile di 100.346 euro). Il credito nei confronti di Moby è dunque piuttosto rilevante, pari proprio al rosso in bilancio registrato. 

Peggio ancora per la società che gestisce il sito di Grillo, che nel 2020 ha fatturato appena 57.940 euro (erano stati 240.539 nel 2019), con una perdita finale di 12.457 euro (aveva invece registrato nel 2019 un utile di 65.753 euro). Il credito per entrambi era stato inserito in bilancio nella certezza che fosse esigibile, e probabilmente andrà ora rettificato secondo il piano di rimborso parziale dei creditori approvato in tribunale.

Grillo ne ha fatto cenno anche nei documenti contabili, spiegando che però tutto è accaduto dopo la chiusura dell'ultimo esercizio e che quindi non poteva essere registrato in altro modo. Ma spiega: “a seguito della crisi epidemiologica Covid-19 iniziata nel corso del 2020 e ancora in atto, dopo la chiusura dell'esercizio e stata notificata, dal cliente Moby S.p.A., una richiesta di accordo ai sensi dell'art. 182 bis l. fall.in data 10 /02/2021, per valutare un accordo di rientro per il credito vantato dalla Vostra società per € 73.200,00. In seguito, a luglio 2021, il Tribunale di Milano ha notificato l'apertura della procedura di Concordato preventivo della Moby S.p.A”. 

Il fondatore dei 5 Stelle nel mirino. Inchiesta Grillo-Moby, il pressing di Beppe per Onorato nelle chat coi ‘big’ grillini: “Possiamo intervenire?”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 20 Gennaio 2022.  

Ci sono big del Movimento 5 Stelle come l’allora ministro dello Sviluppo Stefano Patuanelli e il suo vice Stefano Buffagni, oltre a Danilo Toninelli, nelle chat e nelle carte dei pm di Milano che indagano su Beppe Grillo e i suoi rapporti con la Moby, la compagnia marittima dell’armatore Vincenzo Onorato. 

Le attenzione dei magistrati su Grillo, indagato per traffico di influenze, sono rivolte in particolare al contratto di collaborazione stipulato tra il suo blog e la Moby per i contenuti redazionali pubblicati sul sito. 

Il contratto con Moby

Un contratto per due anni da 240 mila euro totali da pagare in dieci rate mensili da 10 mila euro da accreditare presso la filiale di Nervi della banca Passadore. Secondo i pm titolari dell’inchiesta, il procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e la pm Cristiana Roveda, un accordo economicamente senza senso: troppo esoso, dato che sul blog doveva uscire un articolo al mese.

Non solo. Alla fine i contenuti usciti sul blog, scrive Il Fatto Quotidiano, sono stati solo quattro in due anni. Da qui l’accusa nei confronti del garante e cofondatore del Movimento 5 Stelle, durante la stesura del contratto “Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di interventi a favore di Moby che ha veicolato a parlamentari in carica appartenenti” al suo “movimento politico, trasferendo al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima”.

L’impegno di Grillo per Tirrenia

L’ex comico firma anche un articolo sul blog che tratta di temi sensibili per Moby, ovvero la legge sugli sugli sgravi fiscali per i marittimi. “Siamo un popolo di navigatori, disoccupati”, è il titolo dell’articolo pubblicato sul sito, e all’interno si leggeva: “Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi”. 

In realtà nel 2019 un dirigente della compagnia di navigazione scrive all’armatore Onorato per chiedere di riconsiderare il contratto col blog di Grillo, considerato troppo oneroso. Per il numero uno di Moby però non si può tornare indietro: “Procedi con il rinnovo, è importante”.

Le chat con gli eletti

Tra le carte ci sono anche le chat in cui Beppe Grillo parla con gli eletti del Movimento 5 Stelle del settore navigazione. A rivelare alcuni di questi messaggi è Repubblica, chat risalenti al lockdown del 2020, il periodo di crisi maggiore per il settore marittimo. 

“Dobbiamo fare qualcosa per il settore”, “Il gruppo Tirrenia sta fallendo, possiamo intervenire?”, scrive Grillo ai suoi chiedendo un impegno a favore della compagnie di navigazione. 

Effettivamente nel marzo 2020 si svolge una conferenza tra i commissari di Tirrenia, i vertici di Tirrenia Cin, la ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli (che sostituisce Toninelli) e Patuanelli. 

Il tema è il blocco dell’operatività delle navi e dopo 24 ore spunta la soluzione, scrive ancora Repubblica: lo sblocco della liquidità sequestrata a Tirrenia (cioè a Onorato). Che pubblicherà una nota per ringraziare i commissari, il Mit e il Mise per aver favorito la conclusione dell’accordo.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

L'epuratore epurato. La tragicomica parabola di Beppe Grillo, finito in una trappola che si è creato da solo. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 19 Gennaio 2022. 

Povero Beppe Grillo, alla fine fa impressione e suscita una autentica pena. È incredibile come proprio lui, il fustigatore del sistema, l’accusatore dei corrotti e dei corruttori, sia caduto nelle trappole che si è creato da solo senza riconoscere il sentiero che porta diritti alla ghigliottina. Noi saremo sempre super garantisti e per di più siamo felici che esista un progetto di legge che voglia eliminare una volta per tutte la scure del boia: il reato di traffico di influenze.

Ricordiamo una delle ultime interviste di Bettino Craxi ad Hammamet, quando rispose a una giornalista che gli chiedeva come si definisse e lui rispose di essere un esule scampato all’ergastolo con l’accusa di aver venduto la propria incorrotta influenza. Ma Grillo! Come fa questo pover’uomo a non capire che scendendo come un Tarzan da Cinecittà in mezzo alla palude dei coccodrilli e dei serpenti sarebbe stato lentamente mangiato vivo? Grillo rappresenta il punto di innesto tra l’essere umano travolto dai propri errori e l’erpice di Kafka, l’erpice della giustizia e della burocrazia illiberale in un paese decrepito e in fasce quanto a godimento delle libertà. Grillo era delizioso quando da teatrante raccontava la propria storia di ragazzo di bottega in un capannone di Genova dove respirava l’odore delle merci che registrava sui registri di carico e scarico col pennino e con l’inchiostro, per conto del suo datore di lavoro mentre la sua paradossale mente cercava soluzioni e cercava fantasticamente di trovare le cause vere o immaginarie di una società profondamente ingiusta e anche profondissimamente ipocrita.

Lui si stupiva e sfornava soluzioni dal palcoscenico, forniva il balsamo per ogni piaga, energia miracolose, maneggiava una matematica creativa con cui fare i conti a banche, partiti, fondazioni, potenti e satrapi e poiché diceva cose estremamente empatiche che facevano vibrare i cuori, pensò bene di mettersi in una propria cabina di regia immaginaria per trasformare la scintillante follia teatrale in una politica che dopo aver rovinato l’Italia, adesso sta rovinando anche lui: invecchiato intanto, per distrarsi, picchia giornalisti e diffonde un video penoso in cui difende il figlio accusato di stupro con parole miserevolmente immortali: «Che cosa volete che sia due ragazzi col pisello di fuori in una casa al mare con due ragazze che ci stanno?». Travaglio che per una volta ci azzeccò scrisse che “Beppe Grillo è più fuori del pisello di suo figlio”. E poi, tutto quel ciarpame di atteggiamenti che non hanno più alcun potere provocatorio come girare per il Quirinale con uno scafandro al posto della mascherina. Dobbiamo dire a sua attenuante che Grillo ha sul cazzo l’avvocato Giuseppi e gli mette tutti i bastoni che può fra le sgangherate ruote.

Questo vuol dire che gli resta dell’istinto ma ormai la lista degli errori imperdonabili sfiora il colmo e appare come il personaggio plautino che dopo la fine della commedia viene inseguito dai militi per avere esagerato in pernacchie e perso lo smalto per cui la gente pagava il biglietto. Il traffico delle influenze, questo sterco del demonio che sa da un miglio di caccia alle streghe: è un reato del genere dell’associazione di stampo mafioso che dopo essere stata una aggravante diventò un reato a sé stante. Grillo non sa la storia e spesso neanche la geografia. Quindi non ha la più pallida idea di quanto radicati siano i mali italiani che pure sono già tutti analizzati nel saggio di Leopardi sul carattere degli italiani, nell’originale tragica fiaba di Pinocchio scritta da Collodi già arreso ai gendarmi, per non dire della colonna infame del Manzoni. Due secoli fa, un secondo fa, mille anni fa i Beppe Grillo insorti nelle contrade arringando le folle e brandendo forconi uno dopo l’altro sono finiti arrostiti sulla piazza o impiccati o sbranati dalle folle che hanno cambiato idea. Ma tutto questo il pover’uomo lo ignora e pensa davvero che esistano nella realtà i cartoni animati che lui ha filmato nella sua testa e che riscossero grande successo di pubblico.

Lui si salverà la pelle, non gli può accadere granché di male, ma solo adesso sta cominciando a capire che l’erpice omicida della giustizia italiana è una macchina che ha sempre fame di capi popolo e contemporaneamente seguita a produrne. Così Beppe Grillo ha ingoiato e sputato tutte le tossine dell’odio, dello sdegno, del linciaggio come atteggiamento politico, salvo scoprire Il mostro che lui pretendeva di attaccare e un altro e che il suo tempo è scaduto. Potrà ancora agitarsi, disperarsi e indignarsi per difendere il proprio figlio che rendendosi lui stesso imbarazzante davanti ai suoi sostenitori, Potrà parlar male di tutti tranne che di se stesso anche perché l’uomo ha una sua farraginosa e mal diretta intelligenza, ma oggi si trova già nella un bel nota condizione del candidato alla forca e non sistema politico dallo stomaco foderato di pelliccia. L’antico, paradossale e popolare bagnaccio per sua scelta, nel momento in cui e affronta il declino politico, vede la macchina antropofaga che si appresta a divorarlo senza sputarle più neanche i cespugliosi arrangiamenti dei suoi capelli inutilmente bianchi.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Traffico di influenze. Svolta di Travaglio, il Fatto Quotidiano diventa garantista: niente gogna per Grillo indagato. Il Gaglioffo su Il Riformista il 20 Gennaio 2022. 

La notizia che il povero Beppe Grillo è indagato per il reato inventato dalla ministra Severino e inasprito dal prode Bonafede – fustigatore di ogni malefatta dei politici – ieri ha fatto sorridere un po’ tutti i commentatori. In effetti è una notizia molto divertente. Qualche giorno fa Marco Travaglio, che di Grillo è il principale figlioccio, durante un dibattito televisivo con Renzi sorrideva e sventolava le mani strusciando tra loro i due pollici i due indici per far capire che i pregiudicati veri son quelli che prendono denaro, anche se magari non vengono condannati, e tutti gli altri reati contano poco.

Travaglio sosteneva che questo tipo di reato era tutto una specialità dei partiti non-cinque-stelle, e in particolare dei renziani e dei berlusconiani. E adesso si trova in un bel guaio. Qui c’è la magistratura che sostiene che Grillo ha preso i soldi per dire ai suoi (cioè ai deputati e ai senatori del partito del quale era garante) di favorire la Moby Traghetti. E, secondo i Pm, i suoi deputati e senatori obbedirono, come spesso a loro capita. E su questa base i magistrati hanno ipotizzato il reato di traffico di influenze. Ora è ben vero che nessuno sa in cosa possa consistere questo reato misterioso, inventato solo allo scopo di consegnare ai Pm uno strumento per colpire i politici e gli imprenditori anche in totale assenza di episodi di corruzione; però resta il fatto che a difendere strenuamente questo reato, e ad inasprirne le pene, c’era proprio il partito di Grillo, che lo fece anche in modo rumoroso, e quando (con l’aiuto della Lega) impose al parlamento quell’obbrobrio di legge forcaiola che battezzò “spazzacorrotti”, festeggiò e festeggiò e si gloriò e insultò sanguinosamente chiunque provasse a opporsi a quella follia da sbirri. E Grillo era lì. Felice. Convinto. Contento. Era lì in bonafede.

Poi tutto tornò in pianto. E dalla nuova terra un turbo nacque… Se lo guardate oggi, Grillo, fa simpatia. Si proclama innocente, ripete le frasi che cento volte hanno ripetuto, non credute, centinaia di vittime della malagiustizia – come lui- che però, da lui, furono insolentite e infangate. Ora è lui a imitare le sue vittime. Traffico di influenze non è una cosetta. La pena può arrivare a quattro anni e mezzo di prigione. Che vuol dire addirittura tre volte la pena che Grillo a suo tempo rimediò come responsabile di un triplice omicidio colposo. Si sa che nella filosofia dei 5 Stelle omicidio e reati contro il patrimonio o la pubblica amministrazione non sono comparabili. A una persona onesta può succedere di uccidere, e passi; ma se davvero è onestà onestà non gli capiterà mai di essere sospettata di avere preso o dato dei soldi illeciti.

E così, nell’ilarità generale, Grillo è finito anche lui alla gogna. Tanto che tutti i giornali italiani, salvo uno, ieri hanno dedicato a Grillo il titolo di apertura della prima pagina. Come fanno da molti anni ogni volta che un politico prende una stangata da un sostituto procuratore allegro e baldanzoso. Salvo uno, dicevamo. Indovinate quale? Eh già, proprio lui: Il Fatto del fido Travaglio. Il quale per la prima volta nella sua storia – dieci anni di storia – ha ridimensionato la notizia e ha deciso che era una notizietta da dare in prima in un trafiletto piccolo piccolo. E questo, naturalmente ha aumentato l’ilarità generale. Perché poi è così: è giusto, quando un povero epuratore finisce epurato (Nenni aveva previsto tutto) e un fustigatore fustigato, e un savonarola savonarolato, non fare i maramaldi e difenderlo, come vanno difesi tutti quelli che finiscono sotto le manganellate dei Pm. Però, ridere un po’ è lecito. Di Grillo? Sì, certo, di Grillo, ma più ancora del suo scudiero che dirige il Fatto. Il Gaglioffo

Grillo indagato per la Moby, la ricerca dei magistrati nelle chat e nei messaggi dei collaboratori più stretti: «Una mediazione illecita». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 19 Gennaio 2022.  

Da una parte del filo il telefonino della web grafica del blog di Beppe Grillo e figlia del paroliere che per Patty Pravo scrisse «Pazza idea», Nina Monti, e il cellulare di Luca Eleuteri, socio fondatore della Casaleggio Associati al quale nel 2018 Davide Casaleggio affidò il delicato compito di spiegare ai giornali la fine del sodalizio tra il «garante» M5S e l’azienda milanese; dall’altro lato del filo il telefonino dell’amministratore delegato Achille Onorato della compagnia marittima Moby Spa fondata dal padre Vincenzo, e i cellulari di Annamaria Barrile e Giovanni Savarese, che nella società erano responsabile delle relazioni istituzionali e capo ufficio stampa: sono queste 5 persone, tutte non indagate, a essersi viste sequestrare ieri gli apparecchi sui quali la Guardia di Finanza di Milano ha la convinzione di trovare chat e messaggi confermativi di una illecita mediazione di Grillo per spingere i suoi parlamentare a fare gli interessi legislativi dell’armatore che lo stava finanziando.

Balza subito all’occhio che proprio a Grillo, benché al centro dell’indagine per l’ipotesi di reato di «traffico di influenze illecite», non è stato sequestrato il telefonino, su cui pure si ipotizza siano intercorse in entrata le richieste dell’armatore o in uscita gli input ai parlamentari 5 Stelle. Si tratta di una evidente scelta della Procura di Milano, che, così come ieri non si è azzardata a cercare chat su apparecchi di deputati 5 Stelle tutelati dalle garanzie parlamentari, ha rinunciato anche al telefonino del (pur non parlamentare) fondatore ed ex capo politico e poi garante dei 5 Stelle: forse per minimizzare le intrusioni nella privacy e sterilizzare le polemiche che sarebbero nate dall’acquisizione di un cellulare «sensibile», dove è ovvio che sarebbero state presenti (e dunque sarebbero finite depositate poi agli atti come nel caso di Renzi a Firenze nell’inchiesta Open) tutta una serie di chat ad esempio sulle dinamiche interne del Movimento, sui rapporti altalenanti tra Grillo e l’ex premier Conte, sugli attuali posizionamenti dei 5 Stelle in vista del voto per il Quirinale, e anche sulle vicende familiari e scelte difensive legate al processo al figlio di Grillo in Sardegna.

Altrettanto ovvio, però, è che evidentemente gli inquirenti nutrono un ragionevole affidamento di trovare lo stesso sugli apparecchi delle altre cinque persone i messaggi di proprio interesse investigativo. Da quanto traspare infatti dai decreti di perquisizione, la società Beppe Grillo srl, di cui il comico è socio unico e legale rappresentante, ha percepito da Moby spa 120.000 euro all’anno nel 2018 e 2019 «apparentemente per un accordo di partnership» finalizzato alla diffusione sui canali digitali legati al blog Beppegrillo.it di «contenuti redazionali» (almeno uno al mese) promozionali del marchio Moby. Sempre dal 2018, e per tre anni, la Moby spa ha sottoscritto anche un contratto con la Casaleggio Associati srl del figlio Davide del cofondatore del M5S Gianroberto, che i pm — senza allo stato indagarlo — qualificano «figura contigua al M5S in quanto all’epoca dei fatti gestiva la piattaforma digitale Rousseau»: 600.000 euro annui per la campagna «Io navigo italiano», un pallino di Onorato per «sensibilizzare l’opinione pubblica e gli stakeholders alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarchino personale italiano e comunitario».

Solo che — e qui sta la correlazione che i pm devono dimostrare per contestare il traffico di influenze illecite — nello stesso periodo «Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di interventi in favore di Moby spa», e per i pm «le ha veicolate a parlamentari in carica appartenenti al Movimento» da lui fondato, «trasferendo quindi al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima». Un triangolo di cui gli inquirenti milanesi avrebbero già tracce, acquisite a Firenze in alcune chat di Onorato nell’inchiesta fiorentina dal 2019 sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. E «l’entità degli importi versati o promessi da Onorato, la genericità delle cause dei contratti, e le relazioni effettivamente esistenti e utilizzate da Grillo su espresse richieste di Onorato nell’interesse del gruppo Moby» sono i tre elementi che al procuratore aggiunto milanese Maurizio Romanelli e alla pm Cristiana Riveda fanno allo stato ritenere «illecita la mediazione operata da Grillo», perché «finalizzata a orientare l’azione pubblica dei pubblici ufficiali (i parlamentari 5 Stelle, ndr) in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby».

Alfredo Faieta e Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 18 gennaio 2022.

Il fondatore del Movimento 5 stelle è indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze relativamente ad accordi per sponsorizzazioni a favore della Moby di Onorato attraverso il blog del comico da 120 mila euro. Chat tra grillo e Onorato sono state rinvenute nel caso della Fondazione Open che vede indagato Renzi. 

Il fondatore del Movimento 5 stelle, Beppe Grillo, è indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze. Sono finiti sotto l’attenzione della procura i contratti pubblicitari sottoscritti per il 2018 e il 2019 dalla compagnia marittima «Moby spa» dell’armatore Vincenzo Onorato con il blog Beppegrillo.it per un valore di 120 mila euro all’anno.

L'ipotesi è che questi contratti siano in realtà fittizi, e che non siano altro che il prezzo della mediazione politica. In quegli anni in carica il governo giallo-verde, ministri Luigi Di Maio, al Lavoro e allo Sviluppo economico, e Danilo Toninelli, ai Trasporti. Il Movimento 5 stelle è rimasto in carica in tutti gli esecutivi successivi.

Un flusso di chat telefoniche bidirezionale è ciò che ha insospettito gli inquirenti della procura di Milano che hanno perquisito oggi la società di Beppe Grillo e lo hanno iscritto nel registro degli indagati per traffico di influenze illecite insieme all'armatore napoletano Onorato, proprietario delle navi Moby. 

Chat rinvenute dalla procura di Firenze durante l'inchiesta sulla Fondazione Open, che vede indagato l’ex premier Matteo Renzi per finanziamento illecito ai partiti. Alla Fondazione, Vincenzo Onorato ha girato 300mila euro nel 2015. Il patron di Moby scrisse a Lotti chiedendo un emendamento e suggerendone il testo: passò quasi identico. Quelle riguardanti Grillo, sono state inviate a Milano e sono finite sul tavolo del procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e della pm Cristiana Roveda. 

Dall'analisi, secondo quanto si sa al momento, emerge che Grillo si sarebbe fatto da interprete delle necessità di Onorato veicolando le sue richieste a esponenti di partito del Movimento 5 stelle e poi riportando le risposte che riceveva allo stesso Onorato. 

Una sorta di indebita attività di lobbying, sulla quale si sta cercando di fare luce anche verso la Casaleggio e associati, perquisita stamattina dalla Gdf insieme a Grillo, e che risulta destinataria di un altro contratto. La procura è, infatti, alla ricerca di connessioni tra quell'affare e una serie di contratti siglati sia con quest'ultima società sia con quella di Grillo dal gruppo Moby.

Come riportato da Domani, la concessione al gruppo Onorato del valore di 72 milioni di euro l’anno per i collegamenti con la Sardegna è scaduta a luglio di un anno fa, ma due diversi governi l’hanno prorogata già due volte e sono previste altre proroghe. 

Al ministero dei Trasporti si sono «dimenticati» di indire per tempo le gare per l’individuazione del miglior offerente per il servizio di «continuità territoriale». Quelle rotte, ha raccontato Daniele Martini su Domani, dovrebbero essere messe a gara una per una in base a una indicazione dell’Art (Autorità di regolazione dei trasporti) del 2019 con lo scopo di individuare il miglior offerente.

Il traffico di influenze riguarda chi, sfruttando o vantando relazioni “esistenti o asserite” con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, si fa dare indebitamente oppure fa dare ad altri denaro o altre utilità, come prezzo della mediazione. In questo caso il faccendiere con buone connessioni nella pubblica amministrazione chiede denaro a un imprenditore per svolgere il ruolo di intermediario. 

La procura spiega che dalle attività investigative svolte è emerso allo stato che la società Beppe Grillo Srl, di cui Grillo è socio unico e legale rappresentante, ha percepito da Moby s.p.a. 120.000 euro annui negli anni 2018 e 2019, quale corrispettivo di un «accordo di partnership» avente ad oggetto la diffusione su canali virtuali di «contenuti redazionali» per il marchio Moby. 

Nello stesso lasso temporale Onorato avrebbe richiesto a Grillo una serie di interventi in favore di Moby s.p.a. La Gdf ha ritenuto indispensabile acquisire la documentazione relativa ai predetti contratti ed alle prestazioni che ne costituiscono l'oggetto, nonché ogni altro documento utile a comprenderne la natura e sono state quindi disposte perquisizioni presso la sede legale della Beppee Grillo Srl e della Casaleggio Associati Srl, nonché nei confronti di ulteriori soggetti a vario titolo coinvolti nei fatti oggetto di approfondimento investigativo. Davide Casaleggio non è indagato. 

Questa mattina la Guardia di finanza si è recata anche a casa di Achille Onorato, amministratore delegato di Moby, anche lui non indagato.

Il blog di Beppe Grillo nel 2018 si era appena staccato da quello del Movimento 5 stelle. Per due anni il sito del comico si sarebbe impegnato a mandare uno spot al mese e l’inserimento di messaggi pubblicitari, contenuti redazionali e interviste da pubblicare anche su Facebook, Twitter e Instagram. Anche Gianroberto Casaleggio, il presidente della Associazione Rousseau, a cui era rimasta la gestione del Blog delle Stelle, avrebbe sottoscritto un contratto con Onorato. 

Nello specifico triennio 2018-2020 la Moby sigla con la Casaleggio Associati s.r.l. prevedeva il pagamento di 600.000 euro annui quale corrispettivo per la stesura di un piano strategico e per l'attuazione di strategie per sensibilizzare l'opinione pubblica e gli stakeholders alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarcano personale italiano e comunitario, stesso argomento su cui Onorato si era mosso con i renziani. 

Grillo «amareggiato» per i tempi dell’inchiesta del caso Moby, cinquanta parole chiave nelle chat. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 19 gennaio 2022.

Due pagine fitte di parole-chiave: sono una cinquantina le stringhe di ricerca — nei telefonini sequestrati martedì a 5 non indagati dirigenti della compagnia marittima Moby di Vincenzo Onorato e dipendenti del blog beppegrillo.it e della Casaleggio Associati — con le quali la Procura e la Gdf di Milano cercano chat che possano confermare l a mediazione illecita di nel 2018-2019 per spingere i suoi parlamentari a fare gli interessi legislativi dell’armatore, proprio mentre questo suo amico di lunga data lo stava finanziando con un contratto pubblicitario sul blog da 240.000 euro.

Diversamente dalla curiosità di politica e media, concentratisi sui messaggi in cui Grillo trasmette i desideri di Onorato a questo o a quel parlamentare o ministro (del resto notoriamente a difesa dei «disoccupati lavoratori marittimi» di Moby come ad esempio Di Maio nel comizio del 2018 a Torre del Greco), e poi gli inoltra le loro risposte spesso a loro insaputa, per sostenere l’accusa di traffico di influenze illecite gli inquirenti hanno bisogno di puntellare il primo lato della triangolazione: cioè il tenore dei messaggi tra Onorato e Grillo. Infatti, accertato il pagamento pubblicitario da Onorato a Grillo, il fatto che politici 5 Stelle non abbiano prodotto favori legislativi all’armatore è ricavabile dalla scelta della Procura di non contestare la corruzione, che richiederebbe appunto uno scambio tra soldi e contraccambio illecito. Neppure sono contestati abusi d’ufficio. E neanche si parla di finanziamento illecito al partito, perché ai pm evidentemente non pare sostenibile equiparare il blog di Grillo a una articolazione del M5S.

Cruciale, invece, è se nei messaggi tra Onorato e Grillo si possa o no ricavare la certezza che l’armatore, sotto il contratto da 120.000 euro l’anno per due anni di pubblicità al blog del fondatore del Movimento, ne stesse in realtà comprando l’influenza sul Movimento: indipendentemente dal fatto che poi parlamentari o ministri 5 Stelle l’abbiano subìta o meno, e persino indipendentemente dal fatto che Grillo l’abbia davvero spesa su essi nell’interesse di Onorato. Anzi, per assurdo, quand’anche Grillo l’avesse millantata e magari nemmeno si fosse attivato con i suoi, ricadrebbe lo stesso nel nuovo reato che sotto il governo Conte-Bonafede nel 2020 ha assorbito il vecchio millantato credito.

Conte esprime «vicinanza» a Grillo, dicendosi certo «che le verifiche dimostreranno la legittimità del suo operato». E Grillo, il 13 giugno a processo a Livorno per le lesioni personali e violenza privata denunciate da un giornalista di Rete4 nel 2020, continua a tacere, pur se esponenti 5 Stelle riportano all’ AdnKronos il suo essere «molto amareggiato per i tempi» dell’indagine ma «con la coscienza pulita». Per il gruppo di Onorato in crisi, invece, ben più urgente e importante è l’udienza oggi al Tribunale Fallimentare, dove si tornerà a verificare la percorribilità di un concordato preventivo di Moby e della controllata Cin (ex Tirrenia).

Moby, Grillo e i rapporti con Onorato. La linea: dobbiamo trattarlo bene. Emanuele Buzzi su Il Corriere della Sera il 20 gennaio 2022.

Beppe Grillo assediato, ma il Movimento fa muro intorno al garante. Continuano a emergere nuovi dettagli dell’inchiesta sul caso Mobyin cui il fondatore dei Cinque Stelle è indagato per traffico di influenze illecite. Messaggi inviati a politici del M5S del tipo «Lui dobbiamo trattarlo bene». È questo il tenore — riporta l’Adnkronos — delle parole sull’armatore Vincenzo Onorato che Grillo avrebbe indirizzato ai parlamentari più direttamente coinvolti nelle questioni legate alle concessioni sulle tratte e alla normativa sugli sgravi fiscali nel settore del trasporto marittimo.

Secondo l’accusa il garante avrebbe inoltrato i messaggi di Onorato agli esponenti M5S nei dicasteri interessati come l’ex ministro dei Trasporti Danilo Toninelli, l’ex ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e il suo vice Stefano Buffagni, tutti non indagati. I diretti interessati smentiscono coinvolgimenti. «Non ho ricevuto alcuna pressione da parte di Grillo», ha detto al Fatto quotidiano Patuanelli. «Non mi sono mai occupato di quel dossier, ma per quel che so faceva parte di un più ampio problema del settore della navigazione nel periodo lockdown», ha precisato Buffagni.

L’ipotesi degli inquirenti è che grazie a un contratto pubblicitario con il blog di Grillo Onorato stesse in realtà tentando di influenzare in suo favore le mosse del Movimento che anche all’epoca si trovava al governo. fare da scudo al garante. «Sulle indagini a carico di Grillo non ne so molto, ma da quello che leggo ho capito che si tratta di un concordato su cui la magistratura sta facendo chiarezza. È normale che vengano percorse tutte le strade, e siccome Beppe ha anche dei rapporti politici immagino che i magistrati stiano giustamente facendo tutte le verifiche del caso. Ma sono certo che Grillo abbia sempre agito nel rispetto della legge», ha commentato il vicepresidente del Movimento 5 Stelle Michele Gubitosa. Stessa linea anche per la sottosegretaria Barbara Floridia: «Su Beppe Grillo ho massima fiducia, e per una semplice ragione: lo conosco. Lui è stato per me anche ispiratore di grandi valori».

C’è chi tra i parlamentari lancia un appello alla compattezza: «Dobbiamo rimanere uniti, le indagini vanno rispettate, ma non ci sono sentenze ora. Beppe è e rimarrà sempre il custode dei nostri valori».

Grillo dice di avere la coscienza pulita ma è “amareggiato dai tempi dell’inchiesta”. Giampiero Casoni il 20/01/2022 su Notizie.it.

Indagato per traffico di influenze illecite Grillo dice di avere la coscienza pulita ma è “amareggiato dai tempi dell’inchiesta”: che ha una coda politica

Beppe Grillo avrebbe detto di avere la coscienza pulita ma di essere “amareggiato dai tempi dell’inchiesta”. Il che significa due cose: che Grillo ha accusato il colpo dell’inchiesta milanese per traffico di influenze sulla pubblicità Moby e che quello che più gli fa male non è l’inchiesta in sé ma la tempistica della stessa, che potrebbe mettere a repentaglio le legittime strategie politiche dei Cinquestelle in un momento in cui sono a repentaglio già di loro per motivi ovviamente extra giudiziari.

Presunto traffico di influenze: Beppe Grillo amareggiato dai tempi dell’inchiesta

Secondo quanto fatto trapelare da chi lo conosce ed in questo momento gli è vicino il fondatore del M5S tiene un profilo basso ma fa capire che la giustizia ad orologeria non gli piace. Parla poco e quel che si lascia scappare denota stanchezza ma soprattutto preoccupazione per le “code” politiche di quel che la Procura di Milano gli contesta in ipotesi di reato tutta da asseverare in un eventuale e lontano dibattimento.

L’Italia “manettara” dura a morire e Grillo che si dice amareggiato dai tempi dell’inchiesta

Il guaio è che l’inchiesta è ora e in Italia vige ancora la regola non scritta per cui un avviso di garanzia è una sorta di “anticamera” di colpevolezza, non uno strumento per verificarla eventualmente. E se di mezzo c’è qualcuno che bazzica la politica in Italia faccende del genere diventano guai prima ancora di prenderla, la patente di guai.

Secondo le fonti di AdnKronos Grillo ha detto di avere la “coscienza pulita” e si è detto “dispiaciuto e amareggiato per i tempi” dell’indagine.

Mentre Grillo è amareggiato dai tempi dell’inchiesta Toninelli è lapidario: “Mai aiutato nessuno da ministro”

E l’ex ministro Danilo Toninelli? Lapidario: “Non ho mai aiutato alcun concessionario nella mia azione di ministro. Con Moby e Tirrenia parlano i fatti per il sottoscritto: zero proroghe delle concessioni e gare pubbliche”.

E ancora: “Da Grillo non ho mai ricevuto pressioni o richieste di favori per aiutare questo, i Benetton, un altro concessionario, e neanche Onorato. Lo testimoniano i fatti”.

Estratto dell’articolo di Luca Serranò e Fabio Tonacci per repubblica.it il 19 gennaio 2022.

(…) L'ascesa imprenditoriale di Onorato è segnata dalle asperità con la concorrenza (…) ma anche da rapporti amichevoli e trasversali con pezzi della politica italiana, come dimostrano le donazioni a pioggia. 

È stata l'inchiesta milanese sulla bancarotta della Moby a farli emergere in tutta la loro disinvoltura: elargizioni alla Beppe Grillo srl, alla Casaleggio Associati, alla fondazione Change di Giovanni Toti, a Fratelli d'Italia, al Pd e alla Fondazione Open di Matteo Renzi, la macchina da eventi che organizzava la Leopolda al centro di un'indagine della procura di Firenze per finanziamento illecito ai partiti.

Tutti amici, quindi nessuno veramente amico. Nel 2015 l'armatore sale sul palco della Leopolda e promette ai nativi sardi una tariffa da 14 euro per i traghetti, nel 2018 parla ad Atreju, la festa di Fratelli d'Italia. Per dire.

Nell'inchiesta fiorentina Onorato è stato perquisito come "finanziatore non indagato" per 300 mila euro versati negli anni: somme che secondo la Guardia di Finanza non erano donate per autentici fini di liberalità, ma col fine di "consolidare e rafforzare i rapporti con esponenti politici del Pd collegati alla Fondazione (in particolare con i parlamentari Ernesto Carbone e Luca Lotti, quest'ultimo con incarichi di Governo), potenzialmente funzionali agli interessi del gruppo Moby".

Per anni sulla cresta dell'onda, Onorato è stato considerato modello di imprenditore visionario, progressista e di interessi poliedrici. Già scrittore di libri (uno, nel 2003, è un romanzo di fantascienza distopica), è autore della piece teatrale "Charity Party", messa in scena al Filodrammatici di Milano dalla compagnia fondata dal figlio Alessandro. 

È anche editore di Sardinia Post, un sito di informazione regionale: lo ha diretto Giovanni Maria Bellu fino al 2018, quando ha lasciato in polemica con la linea editoriale che, d'improvviso, si doveva fare neutrale.

C'erano le elezioni in Sardegna, ed era diventato sconveniente persino ricordare uno scoop di Sardinia Post: la laurea presa alla Leibniz University di Santa Fe da uno dei candidati in corsa, Christian Solinas, supportato dal partito di Salvini. Poi sono arrivati i debiti e con loro i magistrati. (…)

Moby, anche Patuanelli nelle chat con Onorato: “Rivolgiamoci a lui”. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 20 Gennaio 2022.  

Traffico di influenze, almeno dodici conversazioni al vaglio dei pm. E il leader 5S scriveva: "Tirrenia sta fallendo, possiamo intervenire?"

Era necessario, sempre più urgente, andare in soccorso di Vincenzo Onorato e della sua Moby, travolta dai debiti e dalla paralisi operativa dovuta al lockdown. Nelle conversazioni agli atti dell'inchiesta della procura di Milano, sono una dozzina le chat ritenute rilevanti, con le richieste di aiuto nei messaggi che partono dal patron della compagnia marittima, arrivano al suo vecchio amico Beppe Grillo, e da qui vengono inoltrate ai politici del movimento.

 Soldi da Moby, Grillo indagato: “Girò le richieste ai politici”. Nelle chat anche Toninelli. Sandro De Riccardis e Luca De Vito su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

L’accusa è di traffico di influenze illecite. Tra i destinatari del pressing anche il senatore, all’epoca ministro dei Trasporti. Perquisiti gli uffici del garante M5S e della Casaleggio. I legali dell’armatore: “Sono vecchi amici, qualcosa è stato equivocato”. Un'attività di lobbying partita dal fondatore di Moby Vincenzo Onorato e arrivata, tramite il fondatore dei 5 Stelle Beppe Grillo, a uomini politici del Movimento. Parlamentari, ma anche uomini di governo, come l'allora ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli, titolare del dicastero competente per le norme sulla navigazione marittima. Un fronte giudiziario che colpisce i 5 Stelle e che coinvolge il patron della compagnia marittima e lo stesso fondatore del partito, indagati per traffico di influenze illecite.

Le relazioni pericolose della galassia 5 Stelle. Ecco il Sistema del blog. Giuliano Foschini,  Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

La società di Onorato finanziava la Casaleggio per attività di lobbying: il contratto fu rescisso a marzo 2020 dopo lo strappo tra la casa madre e il Movimento. 

C'è una data dalla quale è necessario partire per ricostruire il rapporto tra Vincenzo Onorato, il patron della Moby, Beppe Grillo e Davide Casaleggio. Una data che segna la linea d'ombra della storia di un Movimento che sulla carta non accettava grandi finanziatori. Ma che in realtà quei finanziatori li dirottava nelle "srl" personali. Il sito di Beppe Grillo, dice oggi la procura di Milano. Ma - a leggere gli atti della Guardia di finanza - soprattutto la Casaleggio associati. Quella data è il primo marzo del 2020. Quel giorno viene risolto consensualmente, infatti, un contratto firmato nel 2018, "per un corrispettivo pari a 600mila euro della durata di due anni", tra la Moby e la Casaleggio associati. Un contratto che aveva lo scopo di "sensibilizzare le Istituzioni sul tema dei marittimi", e che Onorato aveva stipulato anche con, nemesi per i 5 Stelle, la fondazione Open di Matteo Renzi.

Ma perché a marzo del 2020 Onorato decide di non proseguire il rapporto di consulenza? Facendo una ricerca su fonti aperte, balza agli occhi una circostanza: da tempo sui giornali un bel pezzo di 5 Stelle fanno trapelare che il rapporto con la casa madre deve risolversi, ognuno per la sua strada. A causa delle consulenze ingombranti della società milanese ma pure delle divergenze politiche, con il "pianeta Rousseau" ostile al centrosinistra. Appare chiaro a tutti che l'influenza di Casaleggio sul Movimento, e quindi anche sul governo in carica, è terminata. E così forse per caso o forse no si interrompe anche il finanziamento. Questi atti sono, ora, all'attenzione della Finanza e dalla procura di Milano. Che, però, ha deciso di non iscrivere nel registro degli indagati il giovane Casaleggio. Il perché in realtà è una condanna politica: gli investigatori ritengono, almeno per il momento, che le ragioni del contratto siano corrette. Che quei fondi incassati da Casaleggio, come da dicitura, fossero effettivamente per attività di lobbying. E che la società era stata dunque pagata per il lavoro che, effettivamente, aveva realizzato: lobby nei confronti del partito anti-lobby per eccellenza. 

Diversa è invece la situazione di Grillo. Gli investigatori annotano "un trasferimento" da parte della Moby "in favore di Beppe Grillo srl in relazione a un accordo avente finalità" commerciali, "di euro 120mila della durata di due anni". I soldi sono per pubblicità. E, effettivamente, sul sito di Grillo appaiono alcuni banner pubblicitari. Il punto è che si tratta di una cosa straordinaria: secondo gli atti analizzati fin qui dalle Fiamme gialle, infatti, Moby è l'unico inserzionista del sito di Grillo in quel momento. Che, per il resto, intasca invece pubblicità dai motori di ricerca. Perché allora quel contratto con Onorato? Di più: negli stessi giorni in cui c'è traccia dei bonifici, c'è il giro di messaggi da Onorato a Grillo. E da Grillo ad alcuni suoi deputati. E ministri. Il tutto mentre il banner "Moby" che rimanda al sito per comprare online i biglietti lampeggia sul sito. Un pasticcio, sospetta la Finanza. Che tra l'altro ha acquisito tutti i bilanci della società.

Quello della Casaleggio ha alcuni aspetti interessanti. Innanzitutto nei numeri: nel momento in cui, siamo nel 2020, tutte le società che si occupano di digitale, e in particolare di e-commerce, hanno avuto un boom (la pandemia, l'esplosione del commercio da casa eccetera), la Casaleggio associati perde il 25 per cento del fatturato (chiuso a 1,7 milioni), chiudendo per la prima volta con una perdita di circa 300mila euro. Questo dopo che nei due anni precedenti aveva fatto registrare un raddoppio del fatturato, passando da 1,17 del 2017 ai 2,24 del 2019. A pesare è stato sicuramente l'abbandono del contratto con Moby, che rappresentava quasi un terzo dell'intero giro di affari. A conferma che l'accordo con Onorato non era uno qualsiasi.

D'altronde la società di navigazione non era stata la sola a credere alla Casaleggio in quello stesso periodo. È un fatto che nel 2017, col vento in poppa per il M5S, i bilanci della società di consulenza avevano ripreso fiato. Dopo tre anni di rosso, avevano cominciato a chiudere con il segno più. Erano entrati clienti importanti: Poste e Microsoft, ma anche Sap, Mashfrog, Mail Boxes etc. e Webperformance. Tra il 2017 e il 2020, "in diverse fatture", la Philip Morris bonifica alla Casaleggio associati 1.950.166 euro per la sua attività di azienda, perché - spiegò la multinazionale - "Philip Morris non finanzia partiti, fondazioni o movimenti politici in Italia". 

Casaleggio non ha mai voluto rendere noti i nomi di tutti i suoi clienti durante i governi 5 Stelle. Questione di privacy dei clienti, disse. Ma agli atti c'è un'interrogazione del Pd che chiede conto di un finanziamento (con cifre molto diverse, inferiore ai 10mila euro) di Deliveroo, società di food delivery. Per questo l'allora ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, fu accusato dai collettivi di rider di aver ammorbidito la propria linea in difesa dei ciclofattorini. Altra epoca comunque. Oggi, si racconta nei corridoi parlamentari, Casaleggio associati rischia grosso. Ragioni di scarsa influenza.

Grillo indagato nell'inchiesta Moby, Canestrari: "Anche Casaleggio era in conflitto di interessi".  Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

L'autore del libro Il sistema Casaleggio: "L'iscrizione del fondatore del Movimento 5 Stelle nel registro degli indagati era ampiamente prevedibile. Di questa tegola potrà approfittare Di Maio". Del caso Moby, degli accordi commerciali con il blog di Beppe Grillo e con la Casaleggio associati, Marco Canestrari — che ha lavorato in Casaleggio associati fino al 2010 e conosce quindi da dentro le origini e i meccanismi del primo Movimento — ne aveva scritto assieme a Nicola Biondo nel libro Il sistema Casaleggio - Partito, soldi, relazioni: ecco il piano per manomettere la democrazia (Ponte alle grazie), uscito nel 2019.

Grillo e l'inchiesta Moby, la “diversità” dei 5S ha retto pochi anni. È la disfatta meritata della presunzione. Michele Serra su La Repubblica il 18 Gennaio 2022. È grave che proprio sulla intemerata battaglia alla corruzione il fondatore aveva fatto leva per avviare la sua clamorosa parabola politica.  

Per una (modesta) vicenda di fondi pubblicitari non chiari destinati al suo blog, Beppe Grillo è sotto inchiesta. Il nome stesso del reato, "traffico di influenze illecite", lascia intendere la zona d'ombra sulla quale la Procura di Milano indaga. Si tratta di quel vischioso viluppo di rapporti tra economia, politica e media che oscilla tra il lobbismo, il vassallaggio, la compravendita di favori e simpatie.

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Grillo indagato nell'inchiesta Moby, l’imbarazzo dei 5S per l’accusa a Beppe: “È il reato punito da una nostra legge”. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 19 Gennaio 2022.

Fosse il titolo di un film, sarebbe La nemesi. "Un filone dell’inchiesta Open che riguarda Matteo Renzi, il reato di traffico di influenze illecite che abbiamo contribuito a rafforzare noi... E alla fine ci finisce in mezzo Beppe Grillo, quindi il M5S stesso", racconta un po’ amareggiato un influente esponente del Movimento. Nel bel mezzo delle trattative quirinalizie, il giorno dopo la pubblicazione di un sondaggio che certifica il minimo da svariati anni a questa parte del partito (13,7 per cento), ecco l’iscrizione nel registro degli indagati del fondatore e garante dei 5 Stelle.

Grillo, non solo Moby: dal figlio Ciro all'aggressione a un giornalista, tutte le grane giudiziarie del fondatore del M5S. Conchita Sannino su La Repubblica il 18 Gennaio 2022.

L'indagine di Milano per traffico di influenze non è l'unica che coinvolge il garante del Movimento. A preoccuparlo anche la vicenda che riguarda il figlio ventenne accusato di violenza sessuale. "Non è di un Beppe più debole che avevamo bisogno adesso”.  E invece, proprio come ragiona qualche big del Movimento vicinissimo al Garante, il 2021 giá funestato dal rinvio a giudizio per stupro di gruppo a carico del figlio di Beppe Grillo, Ciro - e soprattutto da quel video di un padre sotto choc - si era chiuso a fine dicembre per l’ex comico e leader politico con un’imputazione coatta davanti al Tribunale di Livorno (per la violenza ai danni di un cronista).

Estratto dell'articolo di Conchita Sannino per repubblica.it il 18 gennaio 2022.

"Non è di un Beppe più debole che avevamo bisogno adesso”.  E invece, proprio come ragiona qualche big del Movimento vicinissimo al Garante, il 2021 giá funestato dal rinvio a giudizio per stupro di gruppo a carico del figlio di Beppe Grillo, Ciro - e soprattutto da quel video di un padre sotto choc - si era chiuso a fine dicembre per l’ex comico e leader politico con un’imputazione coatta davanti al Tribunale di Livorno (per la violenza ai danni di un cronista).

E il nuovo anno si apre con una nuova, più grave grana giudiziaria: l’ipotesi di traffico di influenze illecite formulata dalla Procura di Milano per i finanziamenti erogati dalla societá Moby di Vincenzo Onorato, a favore del blog Beppegrillo.it nel 2018 e 2019, 240 mila euro. A cui vanno aggiunti altri 600mila euro forniti invece alla Casaleggio Associati. (...)

Comincia nove mesi fa il periodo di silenzio e di auto isolamento di Grillo, spezzato di recente solo da affilate, provocatorie risposte alla linea di Conte. Ed è la vicenda del figlio Ciro a infiammare il clima, tra polemiche parlamentari e odio social tra quelle che diventeranno opposte “tifoserie” . Un bubbone che diventa politico quando, il 19 aprile 2021, è lo stesso Grillo a postare un clamoroso sfogo social in cui, a indagini preliminari in pieno corso, si spende per la difesa del figlio, accusato di violenza sessuale, su una coetanea, episodio avvenuto in Sardegna nel luglio 2019.

(...) Il 16 novembre scorso, ecco il rinvio a giudizio per Grillo jr e per i suoi amici coetanei: Francesco Corsiglia, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, tutti accusati di violenza sessuale, disposto dalla giudice dell’udienza preliminare Caterina Interlandi del Tribunale di Tempio Pausania. Prima udienza, 16 marzo prossimo.  

Ma il 2021 ha in serbo per il garante anche un’altra brutta sorpresa. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Livorno, Mario Profeta, il 13 dicembre scorso, respinge la richiesta di archiviazione del pubblico ministero Sabrina Carmazzi per il Garante accusato di aver usato violenza privata contro un cronista che lo aveva raggiunto al mare per intervistarlo.

I fatti si riferiscono all’episodio avvenuto nel settembre 2020, a Marina di Bibbona: il giornalista Francesco Selvi, secondo la ricostruzione, prova ad avvicinarlo più volte e Grillo, infastidito, gli  strappa  di mano il cellulare al giornalista e lo spinge giù, dai gradini di una bassa terrazza dello stabilimento balneare. Il cronista viene assistito in ospedale per un trauma distorsivo al ginocchio sinistro. Una sequenza nera. Fino ad oggi. L’alba del ‘22 ricomincia con nuove notifiche e la Guardia di Finanza che apre cassetti e Pc della società legata al blog. Nel mirino, i rapporti tra l’imprenditore dalla gestione disordinata e i suoi riferimenti politici nei Cinque Stelle. 

Beppe Grillo indagato, ecco le carte sul conflitto d’interesse: «Soldi in cambio di interventi sui parlamentari». Nel decreto che ha portato i Finanzieri a controllare sedi e computer del sito beppegrillo.it e della Moby i magistrati non solo contestano il reato di traffico di influenze ma anche i rapporti con i deputati grillini e la campagna di comunicazione gestita dalla Casaleggio associati sul tema degli sgravi fiscali. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 18 Gennaio 2022.

Un conflitto di interesse, che al di là dei reati, sembra emerge lampante da quanto scrivono i magistrati Maurizio Romanelli e Cristiana Roveda nel decreto di perquisizione che ha portato il nucleo Pef di Milano ella Guardia di finanza oggi a casa di Beppe Grillo e Vincenzo Onorato: il primo fondatore del Movimento 5 stelle, il secondo armatore della Moby. Quest’ultimo, secondo i magistrati di Milano, avrebbe pagato contratti di marketing e comunicazione a Grillo in cambio di orientare alcune norme parlamentari. Soldi arrivati anche alla Casaleggio associati (che non ha alcun rappresentante indagato al momento) per campagne pubblicitarie per sensibilizzare l’opinione pubblica ai benefici fiscali caldeggiati dall’armatore.

Un tema delicato, quello dei finanziamenti alla politica, che l’Espresso ha trattato in una ampia inchiesta su chi ha finanziato deputati e partiti negli ultimi dodici mesi. Ma da questa storia di Grillo emergerebbe qualcosa di diverso, che va oltre il finanziamento trasparente e all’interno delle norme in materia. Grillo non è un parlamentare, non è formalmente alla guida del partito, ma ne è il fondatore e nello statuto ne risulta "garante e custode dei principi e dei valori dell'azione politica". 

Scrivono i magistrati nel decreto di perquisizione: «La società Belle Grillo srl ha percepito da Moby Spa 120 mila euro anno negli anni 2018 e 2019 apparentemente come corrispettivo di un “accordo di partnership” avente oggetto la diffusione su canali virtuali, quali il sito beppegrillo.it, di contenuti redazionali per il marchio Moby; nello stesso arco temporale Giuseppe Grillo ha ricevuto da Onorato richieste di intervento a favore di Moby Spa che poi Grillo ha veicolato a parlamentari in carica, trasferendo quindi al privato le risposte della parte politica dei contatti diretti con quest’ultima; nel triennio 2018-2020 la Moby ha anche sottoscritto un contratto con la Casaleggio associati srl, il cui socio di maggioranza è Davide Casaleggio: il contratto prevedeva il pagamento a tale società della somma di 600 mila euro annui quale corrispettivo per la stesura di un piano strategico e per l’attuazione di strategie per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana alla tematica della limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarcano personale italiano e comunitario (campagna pubblicitaria denominata “io navigo italiano”)». 

I magistrati contestano quindi il reato di traffico di influenze «in considerazione dell’entità degli importi versati o promessi da Onorato, della genericità delle cause dei contratti, delle relazioni effettivamente esistenti ed utilizzate da Grillo su espresse richieste di Onorato con pubblici ufficiali, elementi tutti che fanno ritenere illecita la mediazione operata da Giuseppe Grillpo in quanto finalizzata a orientare l’azione pubblica in senso favorevoli agli interessi del gruppo Moby».

Come scrive l’Ansa l'indagine era partita, tra l'altro, da una relazione tecnica, allegata al concordato preventivo e firmata da Stefani Chiaruttini, nella quale si parlava di 200 mila euro versati alla Beppe Grillo srl per un contratto che va dal marzo 2018 al marzo 2020 “volto ad acquisire visibilità pubblicitarie per il proprio brand sul blog" del comico-politico, di 600 mila per due anni per la Casaleggio Associati per "sensibilizzare le istituzioni sul tema dei marittimo" e per "raggiungere una community di riferimento di 1 mln di persone". Inoltre, di 200 mila euro alla Fondazione Open "sostenitrice" di Matteo Renzi, di 100 mila euro al Comitato Change legato al presidente della Liguria Giovanni Toti, di 90 mila al Partito Democratico, per chiudere con 10 mila euro a Fratelli d'Italia. E ancora 550mila euro destinati a Roberto Mercuri (non indagato), ex braccio destro dell'ex vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona a cui si aggiungono, oltre ai 50 mila euro all'associazione senza fini di lucro "Fino a prova contraria", l'acquisto e la ristrutturazione per 4.5 milioni di una villa in Costa Smeralda per "rappresentanza" aziendale, appartamenti di lusso a Milano "in uso a rappresentanti del Cda", noleggio di jet privato e auto come Aston Martin e Rolls Royce, Mercedes o Maserati Levante. 

Ecco perché Beppe Grillo rompe il silenzio sul figlio Ciro. La procura di Tempio Pausania verso il rinvio a giudizio del ventenne (e tre amici) per «stupro di gruppo», il leader grillino lo difende: «Perché non l’avete arrestato subito?». Non ha detto una parola per 21 mesi, neanche quando L’Espresso dedicò al caso una copertina. Susanna Turco su L'Espresso il 19 aprile 2021.

Per la prima volta dopo ventuno mesi, con un video su Facebook, Beppe Grillo parla del caso che vede suo figlio Ciro, oggi ventenne, accusato con tre amici (Edoardo Capitta, Francesco Corsiglia e Vittorio Lauria) di aver stuprato una studentessa, nel luglio 2019, nella casa di famiglia a Porto Cervo.  «Perché non li avete arrestati subito?», incalza Grillo che prende le difese del figlio (argomentando presunti rapporti consensuali, la linea della difesa) e utilizza per paradosso proprio l’argomento della tempistica delle indagini (lunghissime), come paletto per puntellarne l’innocenza: «La legge dice che gli stupratori vengono presi e messi in galera, interrogati in galera o ai domiciliari. Sono lasciati liberi per due anni... Perché non li avete arrestati subito?». Una ricostruzione con passaggi che provocano l'indignazione generale, nella quale si cerca addirittura di mettere in discussione la tempistica della denuncia da parte della studentessa (otto giorni), come se l’autenticità dipendesse dalla rapidità. Si cerca di «trascinare la vittima sul banco degli imputati», chiariscono puntualmente gli stessi genitori della ragazza, che descrivono quella di Grillo come «una farsa ripugnante».

Adesso che, secondo le indiscrezioni, si va verso il rinvio a giudizio da parte della procura di Tempio Pausania, il garante dei Cinque stelle rompe così un silenzio assoluto (anche di media e politica) durato quasi due anni: non disse una parola neanche quando L'Espresso, unico nella stampa italiana, dedicò al caso una copertina. 

Un silenzio che è pesato come un macigno sulla carriera di leader politico di Grillo, e che ha accompagnato tutte le sue svolte, il cambio di pelle di quello che fu il leader del Vaffa: la fine del governo con Matteo Salvini, l'apertura improvvisa a un accordo con il Pd per un nuovo esecutivo – agosto 2019, proprio nei giorni in cui la procura cominciava le indagini. Fino all'urlo di oggi, che vede il Garante tra i soci di maggioranza del governo guidato da Mario Draghi. Mentre la sua creatura politica, il Movimento 5 Stelle, arranca come mai era accaduto nella sua ormai decennale storia.

È ora di prendere sul serio la rivoluzione di Beppe Grillo. Giuseppe Genna su L'Espresso il 16 marzo 2021.

Proporsi come segretario del Pd è stato solo un passaggio del suo progetto. Essere alternativa di sinistra senza essere di sinistra. Una rivoluzione ecologica tecnologica. E disumana

Non è più tempo per le rivoluzioni?

Lo chiediamo nel tempo più rivoluzionario e rivoluzionato che abbiamo vissuto. Una pandemia mondiale, il rischio biologico di specie, l’economia che funziona su leggi altre, la politica che si autodichiara insufficiente: non è forse una rivoluzione? Una rivoluzione è pur sempre una crisi morbosa, che non porta automaticamente a una soluzione. Rivoluzione significa anche che non si rimedia al caos così radicale del nostro tempo senza una contromarcia. È labile il confine tra rivoluzione ed eversione. In entrambi i casi, la nostra attenzione al fenomeno rivoluzionario deve essere tenace e credere a ciò che le si manifesta. Dunque il 6 marzo 2021 una piccola rivoluzione è stata annunciata e bisognerà crederle: è il momento in cui si dà un’ulteriore e forse definitiva apparizione dell’“elevato” Beppe Grillo, il quale con un video scompagina il campo delle identità acquisite e propone di creare un ordine nuovo nel caos del presente. Le reazioni alla proposta di diventare il nuovo segretario del Partito Democratico testimoniano un equivoco che al quadro politico è già costato una rivoluzione a metà: si tratterebbe sempre di uno scatto da guitto, dell’istinto artistico di chi fa poesia sopra la macchina burocratica che governa pesantemente il reale.

Questa sottovalutazione delle parole emesse da Beppe Grillo è risultata fatale in passato, quando il supposto comico si è preso un terzo del Paese, costituendo la premessa più solida per il governo della legislatura. Nella quale si è misurato l’avvento di una variante aliena e cruciale, cioè il governo presieduto da Mario Draghi. Il peso enorme, il credito sconfinato di cui gode l’anomalia Draghi, è risultato capace di mettere tra parentesi la politica, esponendola in vetrina, con le sue farraginose contraddizioni, con l’assenza di palpito, con la lugubre assenza di invenzione. C’è un prima e un dopo Draghi per l’agone politico italiano e il dopo lo si misura da subito, dalla sua semplice apparizione.

Nonostante i tentativi di Salvini di accreditarsi dell’azione di governo, l’unico protagonista in grado di segnare politicamente la gestione Draghi è stato Beppe Grillo, che ha imposto il ministero e l’idea della Transizione Ecologica, ora in mano a uno degli uomini davvero migliori della nazione, il fisico Roberto Cingolani. Poteva sembrare un esotismo, un compromesso al ribasso per tenere il M5S in un solco di fedeltà parlamentare. È diventato il perno di una nuova identità, su cui erigere una fase estrema di questa formazione politica caotica, che ebbe il merito di azzeccare il momento social nella storia del Paese. Di fatto, più che verso un’utopia verde, che non esiste più dal momento in cui il capitale ha scelto la transizione ecologica come modalità per ristrutturare la realtà, Grillo sposta il suo Movimento sulle frequenze di un nuovo socialismo e, quindi, nell’angolo che fu del Partito Socialista. Il M5S si candida a essere la vera alternativa a sinistra - senza essere più di sinistra, ma nemmeno di destra. Questa strategia permette al politico genovese il rovesciamento, con cui candida se stesso a fare il segretario dem. Se non si comprende il versante letterario di ciò che da anni Grillo va dicendo, non si capirà fino in fondo la portata delle sue proposte. Essenzialmente due, al momento. La prima: un patto sul futuro, suggerito a tutte le forze politiche, con l’invito a piazzare la data 2050 nel simbolo di ogni formazione. La seconda: in ragione del patto sul 2050, smetterla con la competizione, che è una strumentazione inadatta al modello evolutivo.

Si tratta di due punti programmatici al contempo rivoluzionari ed eversivi, appunto. La concordanza comune sul percorso evolutivo del mondo e delle società da qui a trent’anni (cioè la transizione ecologica) va di fatto a disabilitare il patto costituzionale. Non è più semplicemente la Costituzione, la carta fondamentale, a stipulare un accordo sui valori democratici da parte dei singoli partiti, unificati dal credo civile; è invece un momento temporale, lo sviluppo sostenibile da qui al 2050, a essere il centro esplicito di un accordo politico comune. È una sterzata decisiva, di cui si misureranno gli esiti, che lo si voglia o meno. Nel caos, che per Grillo è creativo, le soluzioni sono quelle che va ripetendo dai Novanta. Si tratta di soluzioni tecnologiche. Il suo umanesimo è tutto tecnologico. Il lavoro del genio collettivo è continuamente una scoperta di nuovi strumenti. Per Grillo l’intelligenza collettiva è dedicata a preservare il pianeta, e l’umanità come elemento del pianeta, proprio nella fase in cui la specie dal pianeta esce e approda su Marte, ben prima che scada il timing del 2050. Non si tratta di visionarietà - qui siamo alla cronaca, non alla profezia. Grillo sembra l’unico soggetto in Italia, ma anche in certo modo fuori dell’Italia, a comprendere che la politica è qualcosa di fisicamente planetario e cosmico, al giorno d’oggi. 

C’è poi l’abbattimento del discrimine con cui si gioca la competizione politica. È anche in questo caso una rivoluzione eversiva. A venire travolta è una questione che ha radici millenarie nella scienza politica. Senza competizione, non c’è più dialettica. Grillo non si spinge a proporre un modello umano, troppo umano, in sostituzione del momento competitivo: sarebbe il cooperativismo, a cui non si fa cenno mai. Il fondatore 5S ha puntato tutto sull’emersione di competenze dalla rete. E ha sbagliato, perché dal network digitale è emerso anche e soprattutto ciò che dell’umano è viscerale, orrendamente emotivo, inconscio. Non la cooperazione ha sostituito la competizione, bensì l’isolamento progressivo, il termitaio globale, l’incattivimento degli hater, i bot tesi al condizionamento mentale delle masse. 

Qualcosa di metallico risuona nella visione del mondo che Beppe Grillo propala, eredità anche di Gianroberto Casaleggio. L’intelligenza delle cose, compresa l’emersione dell’intelligenza artificiale, si sostituisce all’intelligenza sociale. La tecnologia della sostenibilità pretende di occupare il luogo dell’invenzione umana, la quale ne diventa un’appendice, necessitata a scovare gli strumenti migliori per un pianeta sano e ripulito, rischiarato dal sole di una ragione endemica, che sta nelle cose stesse. La progettazione sociale in luogo della società è un antico sogno, filosoficamente coerente, che procede inesausto dai primordi della civiltà. Emendare la realtà dallo sporco riduce l’umanità sul piano spirituale, arricchendola su quello materiale. Prendere partito per l’intelligenza delle cose significa non riconoscerne la mistica, cioè il loro intimo mistero, il che è tutto l’atto spirituale. L’enciclica di Francesco “Laudato si’”, a cui si richiamano oggi molti ecologisti, è da questo punto di vista l’autentico avversario della prospettiva grillina e ambientalista. Quell’enciclica infatti fa perno sull’idea di spirito, cioè di ambiguità e irresolutezza che domina il fenomeno umano. Quale tipo umano è sotteso alla visione di Beppe Grillo? È felice? È pietoso? È ambiguo? È mortale? Qui si palesa il tratto più equivoco della rivoluzione grillina, probabilmente la più radicale e politica nel tempo che stiamo vivendo. Chi non la prende sul serio vive in un altro secolo, ormai scaduto. 

M5S, il partito del rancore intermittente. Donatella Di Cesare su L'Espresso il 19 luglio 2021.  

Conte e Grillo sono legati dall’ideologia del risentimento. Ma il dissenso fugace lascia il posto al conteggio dei benefici immediati e il risentito finisce per rendere omaggio a quel sistema che avrebbe voluto esorcizzare.

Il grillo e il conte – sono le due facce di un magma che, tra farsa e tragedia, sconquassa da anni lo scenario italiano, passando dall’antipolitica più sguaiata alle inveterate furbizie di palazzo. Senza mai assurgere alla politica nel senso eminente di questa parola. Qualcuno pensa che per questo Giano bifronte possano valere le tradizionali categorie di “movimento” e “istituzione”, come se si trattasse ancora di interpretare fenomeni novecenteschi. Nulla di più lontano da quel che accade nei 5 Stelle.

Già la parola “movimento” è usurpata e degradata. Hanno preteso di chiamarsi così per apparire gli eredi dei movimenti di sinistra, di cui invece non sono che una caricatura grottesca. Non basta trovarsi in piazza per essere movimento. I 5 Stelle non si sono situati ai bordi della politica per criticarne la vecchia trama concettuale – dalla sovranità alla cittadinanza, dalla nazione alle frontiere – né, men che meno, per proporre una nuova visione. Piuttosto si sono situati ai confini dei partiti, in un’ambigua sintesi che è anche contiguità. Hanno lasciato intendere che la politica sia circoscritta ai partiti, tutti corrotti, tutti inseriti nel sistema, tutti esponenti della casta. Così i 5 Stelle si sono presentati come il cambiamento da tempo atteso e hanno spinto a ritenere che, al di là dei programmi, dei contenuti, delle posizioni, o di destra o di sinistra a seconda, fossero determinanti le regole, i metodi, gli ordinamenti. Ecco perché oggi questo antipartitismo, chiuso nelle manovre tradizionali e asserragliato nelle proprie farraginose strutture, vere e proprie escrescenze burocratiche, si rivela un tentativo estremo e parossistico di conservare e ristabilire l’ordine della politica.

Di qui Conte, il grigio avvocato che “in piazza” non c’è neppure mai stato, il virtuoso del sia-sia, il maestro del rinvio, il doroteo dei mezzi toni, in cui alcuni esponenti del centrosinistra hanno creduto di riconoscere il nuovo messia. Dove abbondano cavilli e garbugli un avvocato, si sa, è indispensabile. Ma è necessario soprattutto dove si intentano cause a difesa di vittime più o meno supposte. Ecco che cosa lega l’ex comico e l’avvocato: l’ideologia del risentimento. Non la rabbia di un movimento che scuote la politica, ma il rancore giustizialista che prende di mira qualche funzionario del potere. Il dissenso fugace lascia il posto al conteggio dei benefici immediati e il risentito finisce per rendere omaggio a quel sistema che avrebbe voluto esorcizzare. Si passa in un attimo dall’animosità intransigente all’acquiescenza dimentica e opportunistica. 

Perciò il Popolo dei Rancorosi è destinato a erodersi e scindersi continuamente a causa delle ripetute defezioni, dei calcoli interessati. Funziona così l’economia del risentimento sovrano di cui Grillo e Conte sono i due volti più emblematici. Che le risse restino interne o che vengano fuori gruppi, formazioni, partiti amebici, in ogni caso il Popolo dei Rancorosi dissesterà ulteriormente il già frammentato scenario.

Arrenditi Beppe. Mattia Feltri su La Stampa il 19 Gennaio 2022.  

Sono qui da mezzora che cerco di spiegare che cosa sia il traffico di influenze illecite e non ci riesco. Occupo tutto lo spazio e non spiego niente, anche perché non sono nemmeno sicuro di averlo capito che cosa sia: una specie di scambio di favori dove il pm deve scovare del losco. Mi affido a una sintesi brusca ma efficace di Tullio Padovani, professore di diritto penale alla Sant’Anna di Pisa: «Un reato ridicolo, marginale, un pranzo di nozze coi fichi secchi». Bene, accontentatevi. Soprattutto è pressoché indimostrabile. Secondo gli ultimi dati del ministero, dal 2013 al 2016 è stato condannato il 33 per cento dei mandati a processo. E siccome i mandati a processo erano tre, il 33 per cento di tre è uno. Ammappala. Ora, auguro vivamente a Beppe Grillo, indagato ieri per traffico di influenze (tutti i dettagli in cronaca), di non essere il condannato del prossimo triennio. Anche perché prima la pena minima era di un anno, e la massima di tre. Poi ci si è messo di mezzo l’indimenticabile Alfonso Bonafede, il ministro della Giustizia degli Onesti per il quale tanta gratitudine dobbiamo a Grillo, e strozzato di furore contro i banditi della casta decise di innalzare la pena massima a quattro anni e mezzo. Fosse l’unica zappata che Grillo si è dato sugli stinchi. Mi ricordo quando – contrariamente al suo predecessore Andrea Orlando – Bonafede decise di autorizzare il processo a Grillo per vilipendio al capo dello Stato, nella circostanza Giorgio Napolitano. Col petto gonfio d’orgoglio, ma pure di imbarazzo, Bonafede spiegò che loro non guardano in faccia a nessuno. Arrenditi Beppe, ti sei circondato da solo.

Grillo, dai trasporti alla Philip Morris la catena di consulenze sospette. Jacopo Iacoboni su La Stampa il 19 Gennaio 2022.

«Qui o si risolve il conflitto di interessi o continueremo a prenderlo in quel posto», scriveva Beppe Grillo sul suo blog il 24 gennaio 2007. «Il conflitto d’interesse è un mestiere», era titolato quel post in cui Grillo attaccava, nell’ordine: lo psiconano (ossia Berlusconi), Confalonieri, Fassino, Frattini, Dario Franceschini, reo di aver escogitato una proposta di soluzione del conflitto d’interessi berlusconiano che, a detta di Grillo, era peggiore di quella di Frattini e cioè era complice del Cavaliere. «Tutto il Sistema – scriveva Grillo - è in conflitto di interessi: banche, pubbliche amministrazioni, università, informazione, mercato dei farmaci, calcio, Autorità di garanzia, cooperative, partiti». E ora, la Nemesi: i conflitti d'interessi di Grillo, breve rassegna (politica, non penale). I due casi Moby e Philip Morris (la procura arriva alla vicenda Grillo-Onorato attraverso l’indagine sui rapporti commerciali della Casaleggio associati con alcune multinazionali come Philip Morris e Moby, appunto) sono la punta emersa dell’iceberg: un «accordo di partnership» con il sito beppegrillo.it (per il 2018 e 2019, 120 mila euro all’anno) e una consulenza per la Casaleggio Associati (Davide Casaleggio non è indagato) erano alla base di una serie di pagamenti effettuati dalla Moby spa di Vincenzo Onorato, ritenuti sospetti dall’Unità di informazione finanziaria di Bankitalia già nel 2019, quando La Stampa li scoprì, e trasmessi alla Guardia di Finanza. Il contratto con la Casaleggio era di 600 mila euro in tutto per tre anni a partire dal 2018, e poi prevedeva anche premi di risultato di 250 mila euro se fossero stati raggiunti alcuni obiettivi per il primo anno e altri 150 mila per il secondo. Il documento dell’Uif ipotizzava che quei contratti fossero, testuale, «il tentativo di sensibilizzare una forza politica di governo a sostenere la campagna per modificare le norme sull’imbarco dei marittimi sulle navi italiane». Se sia così, diranno i giudici. Per gli inquirenti, l’accordo era «volto ad acquisire visibilità, con finalità pubblicitarie, per il proprio brand sul blog Beppegrillo.it, nonché attraverso canali redazionali social della Beppe Grillo srl, avvalendosi del loro supporto redazionale». E qui i possibili conflitti d’interessi di Grillo incrociano la Casaleggio associati, perché tutti i canali online di Grillo erano notoriamente gestiti lì. La Stampa pubblicò la lista delle fatture pagate dalla Philip Morris in consulenze alla Casaleggio, poco meno di due milioni e quattrocentomila euro lordi (Davide Casaleggio rispose che non esisteva nessun conflitto d’interessi perché «io non firmo decreti, né voto leggi, e non ho mai fatto ingerenze»). L’azienda Deliveroo, scrisse Il Fatto, sponsorizzava eventi della Casaleggio (mentre il M5S si mostrava impegnato per i rider senza arrivare a nulla, e i rider andarono a protestare proprio sotto la sede milanese della srl). Come anche Flixbus, i bus a basso costo; Fonarcom, il fondo per la formazione dei lavoratori. Davide Casaleggio scrisse al Fatto quotidiano ricordando, non senza una punta di veleno: «Anche Il Fatto quotidiano si rivolse alla Casaleggio associati per avviare la sua presenza online». Linkiesta elencò una serie di soggetti che avevano avuto rapporti commerciali con la srl che curava all’epoca il blog di Grillo, e il cui presidente gestiva anche la piattaforma online del M5S: dal Gruppo GeMS a Banca Intesa, Moleskine, Expedia, per citarne solo alcuni. Le partnership sono state tantissime, da Microsoft in giù. Huawei, a una domanda de La Stampa, negò di aver avuto rapporti con il blog di Grillo o con Casaleggio srl. La Stampa pubblicò consulenze della Casaleggio per colossi farmaceutici come Gilead. Tutto legittimo, ma in questi rapporti influiva anche in qualche modo la prospettiva di indirizzare gli atti legislativi del M5S? Nel 2020, la Grillo srl è andata in rosso. I «ricavi delle vendite e delle prestazioni» sono scesi da 240.538 euro (del 2019) a 57.939 euro. Un’epoca, forse, si sta chiudendo.

Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 20 gennaio 2022.

Il 3 maggio 2018, mentre lui e la Casaleggio srl avevano in corso contratti commerciali con Vincenzo Onorato, Beppe Grillo scriveva sul suo blog: «Vincenzo Onorato, armatore partenopeo, si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi. 

La sua campagna di comunicazione a favore dei marittimi italiani ha generato, nei poco informati, un turbinio di polemiche e illazioni senza senso. Condivido a pieno la battaglia di Onorato e faccio mie le sue parole». 

E tre mesi prima s' era anche portato a Torre del Greco il candidato premier del M5S, a perorare la causa. A guardarla oggi, quella del comico era una battaglia per i marittimi o per Onorato?

Al di là di come andrà adesso l'inchiesta giudiziaria - con un reato (il traffico d'influenze) tra i più impalpabili, criticati e difficili da provare - le ventuno chat, gli sms, e le carte su Beppe Grillo raccontano qualcosa di politico: un mondo di conflitti d'interesse che ruotavano attorno al fondatore del Movimento, e alla srl che ne gestiva in tutti quegli anni i processi online, la Casaleggio associati (il cui presidente Davide, che era anche presidente della piattaforma web del M5S, non è indagato).

La stessa indagine milanese su Grillo parte da un'inchiesta sui contratti commerciali della Casaleggio con Philip Morris, pubblicati da La Stampa nel 2019. Il conflitto d'interessi del comico che tuonava contro «lo Psiconano», «qui o si risolve il conflitto di interessi o continueremo a prenderlo in quel posto», sembra esser stato un metodo. Il contrappasso di Grillo.

Innanzitutto perché il blog di Grillo era di Grillo, sì, ma era anche del Movimento, e era gestito da una azienda, che faceva legittimamente affari. E un po' perché non è mai stato chiarissimo quali delle sponsorizzazioni fossero contratti commerciali dell'azienda, e se e cosa andasse eventualmente a Grillo, direttamente o indirettamente. 

Fatto è che i soggetti economici in relazione commerciale, diretta o indiretta, con il blog di Grillo sono stati tantissimi, negli anni. L'elenco può solo essere per difetto. Nel 2010, agli albori, il gruppo editoriale Gems fece un accordo per la sponsorizzazione dei libri del gruppo sul blog, poi la cosa divenne una collaborazione strutturata. Casaleggio srl ebbe in gestione la comunicazione online dell'intero gruppo, venne ristrutturato il sito voglioscendere.it, e trasformato nel blog degli autori di Chiarelettere. 

I quali non volevano, e anzi ritirarono la firma imponendo il cambio di nome al sito: Casaleggio lo chiamò, ironicamente, CadoInPiedi. Nel 2013 GeMS rescisse il contratto, da allora il blog di Grillo registrò molti cali di entrate, meno seicentomila euro nel 2014, a quota 1,5 milioni. Meno quattrocentomila nel 2015, a 1,1 milioni.

La perdita tra il 2014 e il 2016 fu di almeno 323.000 euro. È lì che il blog si apre a pubblicità e sponsorizzazioni. Grillo era inizialmente contrario, ma poi Casaleggio lo convinse. Dal giugno 2012 sul blog furono usate due piattaforme pubblicitarie, Google AdSense e Publy, con sede in Irlanda. 

Nacque la mitologica colonna destra del blog: a sinistra c'erano la politica del M5S e le battaglie. A destra la pubblicità (o i post sensazionalistici). Le sponsorizzazioni e i contratti extra (tipo appunto Moby, o Philip Morris) sono ancora un altro capitolo. 

I vari soggetti entrati in legittimi rapporti economici (o commissionando ricerche e report, o consulenze) con la srl - oltre a Gems si possono citare Banca Intesa, Moleskine, Expedia, Deliveroo, Gilead, AB Medica, Tecla.it, Boraso, Loviit, OnShop, InPost, HiPay, IrenDevice, MDirector, AccEngage, MyLittleJob, AdAbrà - aiutarono di fatto il successo del blog di Grillo e la sua gestione.

Era ciò in qualche rapporto con Grillo e il suo potere come capo partito? Marco Canestrari, in Casaleggio associati dal 2007 al 2010, racconta un aneddoto: «Nel 2010, quando il M5S era già nato, uno dei clienti della Casaleggio era Ab Medica, una importante azienda di tecnologia robotica medicale, che vendeva prodotti agli ospedali. In quel periodo Grillo nei suoi spettacoli prese a parlare di robotica, e quando parlava di robot faceva vedere, in sala, proprio il filmato di Ab Medica».

Nessun reato, sia chiaro: ma una commistione che sarebbe diventata esiziale tra spettacolo, interessi commerciali molecolari, e infine politica. Alcune storie di questi anni sono state quasi divertenti. 

Come quando sul blog di Grillo nel dicembre 2017 apparve un video in cui Di Maio, allora candidato premier M5S, indossava tuta e casco con logo di Fastweb, in un simulatore di volo «Aero Gravity», di cui l'azienda Fastweb era naming sponsor (Fastweb precisò di «non aver avuto nessun ruolo nella realizzazione del video»), e invitava la politica a «volare alto».

I critici hanno spesso fatto notare gli incredibili post di Grillo filo Huawei, di cui sono apparsi panegirici imbarazzanti sul nuovo blog, quello gestito dalla «Grillo srl» (tipo quello nel marzo 2020 intitolato, all'inizio della pandemia: «Huawei dona 200 mila mascherine e tecnologia per gli ospedali»). 

Chiedemmo a Huawei, che rispose negando qualsivoglia rapporto con Grillo e la srl. Poste Italiane (partecipata da Cdp) e Consulcesi hanno sponsorizzato i rapporti della Casaleggio, in una stagione in cui il M5S si batteva per la trasformazione di Cdp in una banca a tutti gli effetti, e per la blockchain. Ogni volta che abbiamo chiesto di possibili conflitti d'interessi, o cosa andasse a Grillo e cosa alla srl, non abbiamo ottenuto risposta. 

L’inchiesta su Grillo e Moby. Toninelli assicura di non aver mai autorizzato proroghe di concessioni. Linkiesta il 19 Gennaio 2022.

«Se mi hanno sostituito al governo anche per questa mia fermezza? Non ho elementi per rispondere, ma di certo per quello che ho fatto da ministro mi sono fatto tanti nemici potenti», dice l’ex ministro dei Trasporti dei Cinque Stelle. «Quello che so è che io volevo servizi efficienti e tariffe più basse» 

«Su Onorato non ho nulla da dire. Io ho fatto solo ciò che si doveva fare. Cioè ho detto che si fanno le gare e non le proroghe delle convenzioni». L’ex ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture Cinque Stelle Danilo Toninelli in un colloquio con La Stampa spiega la sua posizione sull’inchiesta milanese per traffico d’influenza che vede indagati Beppe Grillo e il patron del gruppo di navigazione Moby-Cin Tirrenia Vincenzo Onorato.

Nell’inchiesta della procura di Milano, l’accusa ipotizza che l’imprenditore abbia tentato di influenzare le politiche del governo Conte in tema di interventi in favore di Moby, in cambio di contratti pubblicitari a Casaleggio Associati srl e a Beppe Grillo srl per un milione e 50 mila euro di euro. Secondo le ipotesi degli investigatori, Grillo avrebbe veicolato tramite alcuni parlamentari e altre volte rivolgendosi direttamente ai ministeri dei Trasporti e dello Sviluppo economico, una serie di messaggi di Onorato mirati a ottenere leggi e finanziamenti per salvare Moby.

A ricevere le richieste via chat dal leader Cinque Stelle sono anche figure di spicco dell’allora governo Conte uno. Fra i destinatari, ci sarebbe anche Toninelli (non indagato) che, proprio in quel periodo, aveva intavolato un braccio di ferro con l’armatore sul tema del rinnovo di concessioni delle tratte, uno dei fronti più caldi per l’azienda di trasporto marittimo.

Fra il ministro e l’armatore campano, si arrivò addirittura a uno scontro frontale mezzo stampa. Il casus belli furono alcune dichiarazioni rilasciate da Toninelli nel gennaio del 2019 quando, durante una visita in Sardegna per sostenere il candidato pentastellato alle regionali, annunciò lo stop alle «vecchie concessioni che provocano solo danni ai cittadini» promettendo entro il 2020 una nuova gara per garantire la continuità territoriale dell’isola. Onorato restituì il colpo dandogli dell’ignorante e accusandolo di fare «pura campagna e demagogia elettorale». Seguirono strascichi per giorni, con Toninelli che sul Blog delle Stelle minacciava di ricorrere alle vie legali.

La vicenda giudiziaria, però, a pochi giorni dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica, rappresenta certamente «una brutta grana, che non ci voleva», dice quello che oggi è un semplice senatore Cinque Stelle.

Ieri, racconta La Stampa, confrontandosi con i suoi sostenitori durante una diretta Facebook dedicata alla pandemia e al Quirinale, nelle parole dell’ex ministro ha prevalso innanzitutto la difesa senza se e senza ma del «fondatore». «Non ne ho la più pallida idea. Non so assolutamente nulla», spiega rispondendo a una domanda. «Ma ho piena fiducia in Beppe. Come fai a non avere fiducia in uno che da quando è entrato in politica ha perso soldi? Gli altri hanno usato la politica per arricchirsi, lui no».

Sollecitato a parlare del caso, però, non resiste alla tentazione di ripercorrere il film della sua esperienza governativa: «Se mi hanno sostituito al governo anche per questa mia fermezza? Non ho elementi per rispondere, ma di certo per quello che ho fatto da ministro mi sono fatto tanti nemici potenti».

E sui rapporti tra Vincenzo Onorato e il Movimento 5 Stelle, spiega: «Non lo so proprio. Quello che so è che io volevo servizi efficienti e tariffe più basse, ma soprattutto che non concedevo mai proroghe di concessioni e che non l’ho fatto nemmeno in questo caso». Nel merito dell’indagine milanese, in ogni caso, ribadisce di non voler entrare: «Se sono stupito dall’inchiesta? Le mie sensazioni non hanno valore».

Contratti con la Moby. Grillo indagato: avrebbe chiesto ai 5s aiuti per l'armatore. Gdf alla Casaleggio.

Luca Fazzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle utilizzato come braccio operativo degli affari privati di Beppe Grillo. Il gruppo parlamentare del Movimento 5 Stelle utilizzato come braccio operativo degli affari privati di Beppe Grillo, con deputati e senatori pronti a tradurre in atti parlamentari e proposte di legge le iniziative necessarie a tenere a galla uno dei suoi clienti più facoltosi: Vincenzo Onorato, l'armatore della Moby. È questa la ipotesi d'accusa che ha portato la Procura di Milano a incriminare e perquisire sia Grillo - definito negli atti «fondatore e Garante del Movimento 5 Stelle - che Onorato, accusati di traffico illecito di influenze. Viene perquisita anche la Casaleggio e associati, destinataria di finanziamenti ancora più corposi da parte dell'armatore napoletano.

Nel decreto di perquisizione emesso dai pm milanesi Maurizio Romanelli e Cristina Roveda e eseguito ieri dalla Guardia di finanza si parla testualmente delle «relazioni effettivamente esistenti ed utilizzate da Giuseppe Grillo, su espresse richieste di Vincenzo Onorato, nell'interesse del gruppo Moby con pubblici ufficiali» («parlamentari», precisa il comunicato della Procura. Siamo di fronte, scrivono i pm, ad una «mediazione illecita operata da Giuseppe Grillo in quanto finalizzata ad orientare l'azione pubblica dei pubblici ufficiali in senso favorevole agli interessi del gruppo Moby». Secondo quanto emerge dalle carte dell'inchiesta milanese, le pressioni di Grillo sui «suoi» parlamentari non rimangono infruttuose. «Grillo - è la premessa- ha ricevuto da Onorato richieste di interventi a favore di Moby che ha veicolato a parlamentari in carica appartenenti a quel movimento politico (il Movimento 5 Stelle, ndr) trasferendo quindi al privato (Onorato, ndr) le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest'ultima». I parlamentari grillini, insomma, si mettono a disposizione del capo. Che per questo ruolo è accusato dalla Procura milanese di avere incassato 240mila euro tra il 2018 e il 2020, quando il suo partito era al governo sia nel Conte 1 che nel Conte 2. Un milione e duecentomila euro vanno nello stesso periodo alla Casaleggio e associati. Il tema che fa da sfondo all'inchiesta dei pm milanesi è quello, ampiamente noto, della crisi del gruppo guidato da Vincenzo Onorato, arrivato sull'orlo della bancarotta sotto il peso di una esposizione da quasi mezzo miliardo. Per evitare il crac e le sue ricadute sociali - sia per l'occupazione a Napoli che per i collegamenti navali con le isole - si sono mossi alla luce del sole politici di diversi orientamenti, 5 Stelle compresi. Ma l'inchiesta che piomba sul Movimento a meno di una settimana dal voto per il Quirinale apre scenari nuovi. In mano agli inquirenti ci sono le chat che intercorrono tra Grillo e Onorato e che raccontano come l'ex comico fornisse in presa diretta all'amico e cliente il resoconto delle iniziative che i parlamentari M5S prendevano a suo favore. Un caso quasi da manuale del reato di traffico di influenze, il reato che punisce con pene fino a quattro anni e mezzo di carcere chi si «fa dare o promettere denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale».

L'inchiesta che viene alla luce ieri prende spunto da un'altra indagine a alto impatto politico, quella condotta dalla Procura di Firenze sui rapporti tra Onorato e Open, la fondazione di Matteo Renzi. Gli inquirenti toscani acquisiscono le chat di Onorato, e lì insieme a quelle con l'entourage renziano saltano fuori quelle con Beppe Grillo. Questa parte delle chat dell'armatore viene inviata per competenza territoriale alla procura di Milano, dove hanno sede sia la Moby che la Casaleggio.

Qui le chat si incrociano con un materiale che la Procura milanese ha già accumulato indagando sul dissesto della compagnia di Onorato, di cui la stessa Procura ha chiesto il fallimento. Il consulente incaricato dalla procura di analizzare la contabilità della Moby, Stefania Chiaruttini, ha già inviato una sua relazione in cui evidenzia alcuni pagamenti anomali in cui si è imbattuta: sono quelli a Grillo, a Casaleggio e - in misura minore - al governatore di una importante regione del Nord. A fornire una spiegazione precisa del senso di quei pagamenti provvedono le chat che arrivano da Firenze. Il meccanismo è costante: Onorato indica a Grillo una sua necessità, Grillo si rivolge ai suoi parlamentari, poi relaziona Onorato: missione compiuta.

Ieri nelle sedi della Beppe Grillo srl in piazza della Vittoria a Genova e della Casaleggio in via Visconti di Modrone a Milano arrivano le «fiamme gialle» a perquisire computer, chiavette cloud, automobili, alla ricerca di qualunque documento sui rapporti con Onorato. Ma intanto si annuncia inevitabile l'analisi dei lavori parlamentari, incrociando le chat con i calendari delle attività in particolare della Commissione trasporti ma anche delle attività governative. Il provvedimento più caro a Onorato, la proroga del contratto di servizi per i trasporti con le isole, è stato varato quando il ministro era il grillino Toninelli, ma confermato anche dall'attuale titolare Enrico Giovannini. Ma quanti altri favori ha nel frattempo ricevuto la Moby grazie ai grillini?

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Gli sfoghi privati dei grillini. "Beppe? Una brutta grana". Domenico Di Sanzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

I big impegnati nelle trattative sul Colle scelgono il silenzio. "Un garante così debole non ci aiuta".

Proprio mentre la politica si interrogava sul suo silenzio a proposito della partita del Quirinale, con il M5s che un po' aspettava e un po' temeva una sua mossa per l'elezione di Mario Draghi, è arrivata la notizia di un'indagine a carico di Beppe Grillo da parte della Procura di Milano. L'accusa è di «traffico di influenze illecite», la vicenda è quella dei rapporti tra la società di Grillo, la Casaleggio Associati e la compagnia di navigazione Moby dell'armatore napoletano Vincenzo Onorato. A pochi giorni dal via libera della Camera alla legge, fortemente voluta dai grillini, sulla regolamentazione delle attività di lobbying, è inevitabile l'imbarazzo tra le fila del partito fondato dal comico genovese. I big sono impegnati nelle trattative per l'elezione del presidente della Repubblica e - fino al momento in cui scriviamo - tacciono. La tensione è molto alta. «È una brutta grana, non ci voleva», è l'unico commento dei vertici del Movimento consegnato all'Adnkronos. Deputati e senatori preferiscono sfuggire a tutte le domande. Anche i capi degli altri partiti, fino a questo momento, scelgono di non cavalcare la vicenda giudiziaria in un passaggio politico così delicato. Parla Francesco Silvestri, deputato Cinque Stelle primo firmatario della legge sulle lobby, cerca di ridimensionare la vicenda. «Si tratta di una questione molto differente, Grillo non è un decisore pubblico, non c'entra con la nostra legge», risponde Silvestri. Che commenta sul tempismo dell'inchiesta, arrivata proprio a ridosso dei giorni decisivi per il Colle: «Sono questioni completamente diverse dal Quirinale. Non c'è nessuna difficoltà e nessun imbarazzo, personalmente».

Secondo le accuse dei pm milanesi, Grillo avrebbe «veicolato a esponenti politici» del M5s alcune presunte richieste di Onorato. Due deputati pentastellati in Commissione Trasporti, Mirella Liuzzi e Bernardo Marino, smentiscono ogni ipotesi di pressione. «Come tutti ho letto la notizia, ma non ho ancora avuto modo di approfondire - dice Liuzzi - noi in Commissione trasporti su questo tema abbiamo sempre adottato una linea dura, quando c'era da essere critici nei confronti dell'azione di Moby, lo siamo stati. Con Grillo non abbiamo mai parlato di emendamenti e da lui non è arrivata nessuna richiesta». Marino si dice «interdetto, basito». Poi precisa: «Sono titolare di una proposta di legge per la continuità territoriale da e per la Sardegna, fatta apposta per evitare che Onorato avesse il monopolio su quelle rotte». Infine la conclusione: «Ho sempre proceduto in completa autonomia. Spero ci siano chiarimenti al più presto». Dichiarazioni a parte, nel Movimento l'umore non è dei migliori. Chi è vicino al Garante spiega che un «Beppe così debole in questo momento non ci fa gioco». Tutti coloro che speravano che, come accaduto diverse volte negli ultimi anni, Grillo togliesse le castagne dal fuoco all'ultimo minuto e appianasse le divergenze con un intervento a gamba tesa, sono ancora più spaesati. Insomma, stavolta Conte dovrà fare da solo. Domenico Di Sanzo

Prima esultavano per i nemici indagati. Ora i grillini scoprono il garantismo. Lodovica Bulian il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Conte: "Notizia enfatizzata". Ma in passato invocavano la forca contro Renzi e la Guidi. È il 18 dicembre 2018 quando diventa legge la cosiddetta «Spazzacorrotti», che comprende le modifiche introdotte al reato di traffico di influenze illecite che oggi colpisce Beppe Grillo nell'inchiesta milanese. Il Movimento cinque stelle scende a festeggiare davanti a Montecitorio. «Bye Bye corrotti», il cartello sventolato da Luigi Di Maio. «Aspettavamo questa legge dai tempi di Mani pulite. Nulla sarà più come prima - le sue parole - oggi diamo gli strumenti alle forze dell'ordine per prendere chi mette le mani nella marmellata. E obblighiamo i partiti a rendicontare tutti i soldi che prendono, così sapremo per chi governano il giorno dopo le elezioni». Accanto ad applaudire anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, volto della vittoria più importante del M5s al governo. La legge anticorruzione è dedicata «a tutti i cittadini onesti, oggi è una giornata storica».

È ricordando oggi quella piazza che la dichiarazione garantista del leader del M5s Giuseppe Conte suona come una sconfessione di fatto di tutti i mantra grillini: «Esprimo vicinanza a Grillo, sono fiducioso - ha detto ieri - Ho visto che molti giornali hanno enfatizzato la notizia di questa indagine», ma «sono assolutamente fiducioso che le verifiche in corso dimostreranno la legittimità del suo operato».

Poche parole che certificano il l'inversione di rotta dopo le feroci battaglie contro gli avversari colpiti dalle inchieste. Senza riavvolgere il nastro agli anni ruggenti delle liste di proscrizione al grido di «ecco tutti gli indagati del Pd» rilanciate da Grillo, solo pochi mesi fa quando la Procura di Firenze ha chiuso le indagini sulla Fondazione Open che coinvolgono Matteo Renzi e altre undici persone per finanziamento illecito ai partiti, i cinque stelle erano andati all'attacco così: «13 domande a tutela del confronto democratico #RenziRispondi», titolava il lungo post pubblicato dal M5s. «Queste domande sono poste nell'interesse di tutti i cittadini, a garanzia dei principi di piena trasparenza e accountability, che devono contraddistinguere l'operato di tutti i politici e che sono fondamentali per alimentare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella classe politica. Su questi aspetti il M5s non è disponibile ad arretrare di un millimetro. È questione di etica pubblica. Senza coscienza morale, il nostro Paese non ha futuro». E ancora quando il padre di Renzi, Tiziano, rinviato a giudizio nell'inchiesta Consip proprio per traffico di influenze illecite l'hashtag è diventato #Renziconfessa. Di Maio ricordava che sotto indagine c'erano «il padre e il braccio destro» dell'ex presidente del consiglio (Tiziano Renzi e Luca Lotti) e che l'imprenditore arrestato questa mattina (Romeo ndr) finanziava la Fondazione con cui Matteo Renzi sta girando l'Italia e sta facendo campagna elettorale per le primarie Pd». Quando nel 2016 l'inchiesta per traffico di influenze illecite travolse l'allora ministra Federica Guidi, costringendola alle dimissioni, la campagna grillina anticorrotti fu martellante. Il tenore dei commenti: «Io non ho più parole per dire quanto ribrezzo mi diano questi schifosi al Governo. Gentaglia che mette gli interessi personali, spesso illeciti, davanti alla salute e al benessere degli italiani», scriveva Manlio Di Stefano su Facebook. Oggi tra i destinatari delle chat di Grillo con le presunte pressioni ipotizzate dai pm per favorire Moby ci sarebbe anche Danilo Toninelli, l'ex ministro dei Trasporti che ha combattuto ferocemente contro Autostrade fino alla revoca della concessione, cantando vittoria così: «Abbiamo posto fine a una mangiatoia per politici e privati». Lodovica Bulian 

Quel reato voluto da Bonafede e che ora incastra il garante del M5s. Lodovica Bulian il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Con la "spazzacorrott"» l'ex ministro allargò i confini del millantato credito e inasprì le pene. Le inchieste su babbo Renzi e Di Donna. Conoscenze personali, relazioni esistenti o solo vantate, rapporti con la politica, contiguità con ambienti della pubblica amministrazione, del potere, dello Stato. Mediazioni illecite da parte personaggi che gravitano negli ambienti pubblici in grado di promettere di vantaggi in cambio di denaro o altre utilità. È un terreno vasto e spesso difficile da definire per gli stessi inquirenti quello in cui maturano le indagini per traffico di influenze illecite che ora colpiscono anche il fondatore del M5s Beppe Grillo. Chi evoca in queste ore la nemesi del comico ricorda che fu proprio il Movimento cinque stelle nel 2019, attraverso il suo ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, a intervenire su quel reato con la cosiddetta legge «Spazzacorrotti», ampliandolo e attirandosi le critiche anche di una parte del mondo giudiziario, che parlò di «inafferrabilità» della nuova fattispecie. L'intervento dell'allora ministro grillino ha modificato il traffico di influenze illecite - introdotto nel 2012 dal Guardasigilli del governo Monti, Paola Severino - in una direzione repressiva: ha abrogato il millantato credito e lo ha accorpato al reato di traffico di influenze, e ha alzato la pena massima da tre anni a quattro anni e sei mesi. Ora viene punito chi sfruttando o vantando relazioni «esistenti o asserite» con un pubblico ufficiale si fa dare indebitamente oppure fa dare ad altri denaro o altre utilità come prezzo della mediazione. Rientrano in questa estesa zona grigia i casi in cui per esempio un faccendiere con buone entrature e relazioni con pubblici ufficiali diventi di fatto l'intermediario di un privato disposto a pagarlo. Il pubblico ufficiale sarebbe il «trafficato» a sua insaputa, altrimenti scivolerebbe nell'accusa di corruzione.

La politica - trattandosi di un reato contro la pubblica amministrazione - ne è già finita travolta. Basti pensare che il traffico di influenze illecite ha colpito nomi eccellenti, da Tiziano Renzi nell'inchiesta Consip, all'ex ministro Federica Guidi che in seguito all'indagine si è dimessa, fino all'ex collega di Giuseppe Conte nello studio Alpa, Luca Di Donna, accusato di aver mediato affari tra imprenditori e la struttura all'epoca guidata dal commissario Domenico Arcuri (estraneo all'indagine). Ora l'ipotesi della Procura di Milano è che Grillo, sollecitato dall'altro indagato Vincenzo Onorato, abbia contattato parlamentari M5s per agevolare la compagnia Moby.

Dopo la riforma Bonafede però i pm che conducono le inchieste continuano a scontrarsi forti criticità nel definire concretamente i comportamenti che integrano il reato. E nell'individuare la linea sottile che separa l'attività di un «faccendiere» con quella di un lobbista, ruolo non regolamentato in Italia. Complessità emergono non solo in fase di indagine ma anche dal punto di vista probatorio, con l'ipotesi d'accusa sottoposta a forti rischi anche nel caso di rinvii a giudizio.

L'inchiesta su Grillo incrocia il dibattito politico concentrato sul Quirinale: «Non essendo io grillina diciamo che sulla questione giudiziaria della vicenda aspetto di vedere cosa dirà la magistratura. Tra l'altro parliamo di un reato sempre scivoloso. Sul piano politico, che un leader politico parli bene di qualcuno perché viene pagato lo considero un problema - dice la leader di Fdi Giorgia Meloni - Mi pare l'ennesima nemesi del M5s che si proponeva come grande moralizzatore della politica». Il reato di traffico di influenze illecite «è un abominio. Che cos'è? - attacca Maurizio Lupi -. Quando si determina questo reato? Qual è il vantaggio per un politico, che ricevi voti? Prima o poi, lo dico al M5s, bisogna avere il coraggio di smettere di usare la giustizia per una battaglia politica. Va abolito come l'abuso d'ufficio». Lodovica Bulian

Sulle lobby leggi fumose e ipocrite. Vittorio Macioce il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Beppe Grillo è nei guai. È finito in un territorio di confine, pieno di ombre, dove politica e giustizia giocano a rimpiattino.

Beppe Grillo è nei guai. È finito in un territorio di confine, pieno di ombre, dove politica e giustizia giocano a rimpiattino. Qui perfino i dottori della legge confessano di perdersi. L'origine è il reato di traffico di influenze. È una legge del 2012 pensata da Paola Severino. L'obiettivo era colpire il sottobosco della democrazia, quel mercato che da sempre c'è intorno al potere. Il mondo anglosassone chiama tutto questo lavoro di «lobbying». È una pressione sul Palazzo e lì è regolamentata. Quello che si chiede è la trasparenza e la consapevolezza. Gli elettori devono sapere, solo per fare un esempio, chi finanzia un partito o un singolo politico. Lobby è una parola che viene dal latino medioevale, da laubia. È la loggia, il portico, da cui si guarda, si ascolta, si interferisce con gli affari della cosa pubblica. Si racconta che il primo a usarla sia stato nel 1553 il pastore episcopale Thomas Bacon e sia stata poi ripresa da William Shakespeare nell'Enrico VI. Ora capire quanto questa pratica cada nel traffico di influenze non è affatto facile. La discrezionalità del giudice è ampia e per forza di cose finisce per avere conseguenze arbitrarie sulle dinamiche politiche. È insomma uno di quei terreni ambigui dove la giustizia può «influenzare» le sorti della democrazia. Paola Severino direbbe che il senso della sua legge è chiaro. Si tratta di estirpare dalla morale pubblica la mala erba dei faccendieri. L'obiettivo dichiarato sono proprio loro. A complicare le cose è però arrivata poi, due anni fa, la «spazzacorrotti», un sistema di leggi voluto proprio dai grillini dove i fatti finiscono per confondersi con gli atteggiamenti. È così che l'ambiguità è cresciuta ancora di più.

Grillo è inciampato nella sua stessa rete. È la vendetta di quello sceneggiatore burlone chiamato destino. L'armatore Vincenzo Onorato, amico di lunga data e fondatore di Moby Lines, ha finanziato con inserti pubblicitari per 120mila euro l'anno le società di Grillo. In cambio avrebbe chiesto qualche favore, di intercedere con alcuni parlamentari Cinque Stelle su alcune questioni che lo riguardavano: la proroga di una concessione, una controversia con Tirrenia e benefici fiscali per le sole navi imbarcano equipaggi italiani e comunitari.

Il giudizio spetta ai tribunali. Ora però bisogna fare i conti con l'ipocrisia. Questo lavoro di influenza avviene tutti i giorni nei palazzi della politica. Il lobbismo è una professione. Non è un lavoro clandestino. È riconoscere che la politica è anche mediazione tra interessi privati. È ricordare, come fece Bettino Craxi davanti a un Parlamento muto e ipocrita, che la democrazia costa e bisogna trovare il modo più trasparente per finanziarla. Vittorio Macioce  

Dai comizi ai post sul blog: così Grillo "tifava" Onorato. Luca Sablone il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Quando il M5S era al governo, il comico spendeva parole al miele verso l'armatore: "Salvaguarda i diritti dei nostri marittimi". E sul blog lanciava una petizione a sostegno del patron di Moby.  

Indubbiamente tra Beppe Grillo e Vincenzo Onorato scorre buon sangue. Un'ammissione che è arrivata anche dall'avvocato Pasquale Pantano, difensore dell'armatore, secondo cui "bisogna tener presente che Onorato e Grillo sono amici di vecchia data, da almeno 45 anni, e quindi facilmente qualcosa potrebbe essere stato equivocato". Il riferimento è all'indagine della Procura di Milano, che vuole far luce sui contratti pubblicitari sottoscritti nel 2018-2019 dalla compagnia marittima "Moby spa" di Onorato con il blog Beppegrillo.it. Andando a ripercorrere qualche passo nel passato, effettivamente emerge come il comico genovese più di una volta si sia schierato pubblicamente al fianco dell'armatore.

Il sostegno di Grillo a Onorato

Ad esempio il co-fondatore del Movimento 5 Stelle a maggio del 2018 sul suo blog aveva speso parole al miele nei confronti di Onorato: "Si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi". Grillo dunque aveva preso le difese dell'armatore dopo che alcuni media lo avevano tacciato di razzismo e di discriminazione: "Condivido a pieno la battaglia di Onorato e faccio mie le sue parole. Chi è il razzista? Chi lascia a casa i nostri marittimi a fare la fame o chi con sfruttamento selvaggio imbarca extracomunitari, con salari da fame?".

Poco più tardi, precisamente ad agosto, Grillo aveva rilanciato sempre sul suo blog una petizione dell'armatore. E anche in questo caso non aveva nascosto apprezzamenti: "Da anni è impegnato nella salvaguardia dei diritti calpestati di migliaia di lavoratori di Torre del Greco (e di molti altri comuni italiani)". Pertanto aveva invitato i lettori ad aiutare Vincenzo Onorato "in questa battaglia di rispetto e di dignità dei marittimi", sottoscrivendo i valori della petizione su cui costruire una legge in merito alle tratte nazionali.

Il comizio

C'è poi un altro "precedente", come ricorda La Repubblica. Risale però non al periodo in cui il Movimento 5 Stelle era al governo, ma al mese di febbraio del 2018. Ovvero in piena campagna elettorale per le elezioni politiche che si sono tenute a marzo. A Torre del Greco erano scesi in piazza Beppe Grillo e Luigi Di Maio per portare avanti la battaglia per i lavoratori marittimi italiani. E il comico genovese all'inizio del comizio aveva confessato: "Quando un armatore di qua, napoletano, mi ha detto che gli armatori sono esentasse... Nessuno sapeva questa notizia". Chi gli aveva "sollevato" il tema? Il riferimento era proprio all'armatore napoletano Onorato?

Luca Sablone. Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei 

Dal caso Venezuela alle lobby del tabacco. Quanti sospetti sui soldi ai grillini. Paolo Manzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Sepolta l'"onestà" sbandierata dai 5 Stelle. Dal Sudamerica 3,5 milioni in una valigia.  

«Onestà, onestà, onestà!». Mai slogan sembra essere più fuori luogo di quello dei grillini nel giorno in cui Beppe Grillo, il vate del «vaffa» movimentista trasformato nella forza politica più numerosa in parlamento, viene indagato dalla procura di Milano per traffico di influenze. Un do ut des di cui trattiamo oggi ampiamente ma che non rappresenta nulla di nuovo sotto il sole per il Movimento 5 Stelle. Ne sa qualcosa l'ex capo dell'intelligence di Hugo Chávez, quell'Hugo Armando Carvajal detto «il Pollo» per il suo collo lungo e la testa piccola che però ha un cervello fino ed una memoria da elefante. E che continua a parlare con giudici e mass-media di Spagna, dove è in carcere dallo scorso settembre.

Carvajal è tornato nei giorni scorsi sul tema dei finanziamenti illeciti ai grillini, fornendo maggiori dettagli sull'invio di denaro «a Néstor Kirchner in Argentina, Evo Morales in Bolivia; Lula da Silva in Brasile, Fernando Lugo in Paraguay, Ollanta Humala in Perù, Mel Zelaya in Honduras, Gustavo Petro in Colombia, il Movimento Cinque Stelle in Italia e Podemos in Spagna». Attraverso una lettera indirizzata al portale spagnolo «OK Diario», il generale in pensione ha ironicamente dichiarato che è «curioso che ora nessuno ne sappia niente di quei fondi che hanno aiutato a finanziare illegalmente candidature elettorali e partiti politici oltre a gruppi violenti ed estremisti».

Rinfreschiamo la memoria ai nostri lettori. Era il 2010, Grillo aveva fondato il Movimento 5 stelle da appena un anno. Al consolato del Venezuela di Milano arriva una valigetta diplomatica e, quando la apre, un ignaro addetto militare si trova di fronte a 3,5 milioni di euro in contanti. Visibilmente sorpreso, il funzionario chiede informazioni a Caracas, nella fattispecie al «Pollo», che 11 anni fa era a capo della direzione generale dell'intelligence militare. Dopo essersi consultato con l'oggi presidente Maduro, all'epoca ministro degli Esteri di Chávez, e con Tarek el Aissami, l'uomo degli iraniani a Caracas e che come ministro degli Interni nel 2010 gestiva i «fondi riservati» del regime, Carvajal rispondeva così all'addetto militare: «Abbiamo scoperto che una valigia con 3,5 milioni di euro in contanti è stata effettivamente inviata, lo stesso risulta dalle spese segrete del Paese, gestite dal ministro dell'Interno, Tarek el Aissami, approvato e autorizzato dal ministro degli Esteri, Nicolás Maduro. L'invio avveniva in modo sicuro e segreto attraverso la borsa diplomatica, la destinazione del denaro nella sua interezza è per un cittadino italiano di nome Gianroberto Casaleggio, che è il promotore di un movimento rivoluzionario di sinistra e anticapitalista nella Repubblica italiana».

Qualche giorno fa in Spagna Carvajal ha confermato tutto: «mentre ero direttore dell'intelligence militare e del controspionaggio in Venezuela, ho ricevuto un gran numero di rapporti che indicavano che questi finanziamenti internazionali stavano avvenendo».

Staremo a vedere se la Procura di Milano, che ha già ascoltato lo scorso anno a Madrid il «Pollo», vorrà approfondire il filone italiano delle denunce di Carvajal, che stanno avendo molta ripercussione nei paesi dove i politici amici della dittatura chavista sono stati chiamati in causa.

Difficile non mettere in relazione quanto denunciato da Carvajal con la posizione storicamente a favore di Maduro di Di Maio e Di Stefano e dei 5 Stelle tutti, aria di conflitto di interessi internazionali non proprio in linea con le tradizioni democratiche del nostro Paese dal 1945 in poi. E come dimenticare, sempre nel 2020, lo scandalo della mega consulenza a Philip Morris da 2,4 milioni di euro di Casaleggio, con i grillini che non volevano aumentare le tasse sul tabacco ed il dubbio, anche qui, che ci potesse essere un grosso conflitto d'interessi? Per non dire, infine, di Antonio Di Pietro, il cliente numero uno della Casaleggio Associati, che tra 2005 e 2010 con la sua Italia dei Valori versava nelle casse dell'azienda oltre un milione e mezzo di euro provenienti dai fondi pubblici. Di Pietro che, per la cronaca, è stato tra i primi a tacciare come «balle» le denunce di Carvajal. Paolo Manzo 

Grillo si dice sereno: mai favori a Onorato. Ma nelle chat del M5s le richieste su fisco e salvataggio di Moby. Luca Fazzo il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

C'è Danilo Toninelli, all'epoca ministro dei Trasporti. E insieme a lui un nugolo di altri parlamentari meno noti, peones impegnati nel lavoro oscuro ma prezioso nelle commissioni. Tutti eletti nel Movimento 5 Stelle.  

C'è Danilo Toninelli, all'epoca ministro dei Trasporti. E insieme a lui un nugolo di altri parlamentari meno noti, peones impegnati nel lavoro oscuro ma prezioso nelle commissioni. Tutti eletti nel Movimento 5 Stelle. E tutti pronti a rispondere ai messaggi del fondatore e Garante, Beppe Grillo: che trasmetteva a loro le richieste del suo amico Vincenzo Onorato, il padrone della disastrata Moby. I parlamentari rispondevano, e Grillo riferiva all'amico-cliente. In tutto, almeno una dozzina di chat raccontano agli inquirenti milanesi il ruolo abnorme che legava la Beppe Grillo srl e la Casaleggio ai gruppi parlamentari, usati come longa manus degli affari privati del fondatore.

Sono questi i dettagli che, mentre il caso scuote la politica e Grillo fa sapere di essere «sereno» e di «non avere mai fatto favori a Onorato», emergono dall'indagine della Procura di Milano per traffico illecito di influenze. Dal contenuto delle conversazioni con Onorato, i pm Maurizio Romanelli e Cristina Roveda hanno individuato almeno tre temi su cui le richieste di Onorato venivano veicolate da Grillo verso Toninelli e i gruppi parlamentari M5S: si va dal trattamento fiscale delle compagnie, alla convenzione per i collegamenti con le isole. Ma il tema chiave è il salvataggio della Moby, gravata da debiti per quasi mezzo miliardo.

Oggi, davanti al tribunale fallimentare di Milano, si tiene l'udienza decisiva per il tentativo di tenere a galla le società di Onorato. E l'armatore napoletano non fa mistero in queste ore di considerare sospetta la coincidenza di tempi tra l'udienza e la bordata partita dalla Procura sui suoi rapporti con Grillo. Ma in realtà l'inchiesta sui contratti tra l'ex comico e l'armatore è in corso da tempo. E proprio nelle carte della procedura fallimentare è stato depositato per la prima volta uno dei documenti chiave della vicenda: i contratti di consulenza tra la Beppe Grillo srl, la Casaleggio e Onorato. Il primo è stringato, prevede l'inserimento sul blog di Grillo di un banner pubblicitario e di una intervista al mese a «testimonials Moby» o di «contenuti redazionali»: 120mila euro sono considerati dalla Procura un prezzo spropositato, anche perchè non sempre interviste e redazionali venivano davvero pubblicati. Il contratto con la Casaleggio invece è lungo 13 pagine e per alcuni aspetti fumoso, si parla di «valutazione degli scenari in ottica di swot analysis» e cose del genere. Ma l'obiettivo è chiaro, propagandare la «limitazione dei benefici fiscali alle sole navi che imbarcano equipaggi italiani o comunitari». Esattamente uno dei temi su cui nelle chat Grillo invita i suoi deputati a darsi da fare. Affari privati e affari politici si incrociano, e diventa difficile distinguere gli uni dagli altri.

Che Grillo, come dice ieri, non abbia mai fatto favori a Onorato è smentito dal suo stesso blog dove sono ancora disponibili una parte dei «redazionali» pubblicati nel 2018, quelli in cui si diceva che «Onorato si sta battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi» e l'armatore veniva dipinto come la vittima di lobby di speculatori. Altri contenuti pro-Onorato sono stati invece rimossi. Ma la sproporzione tra servizio offerto e prezzo pagato resta comunque eclatatante.

Al punto che nel corso delle indagini agli inquirenti si è posto un dilemma rilevante. Se i soldi finiti a Beppe Grillo e a Casaleggio non avevano come vera motivazione le campagne di sensibilizzazione dell'opinione pubblica indicate nei contratti, siamo di fronte a una sottrazione di rilevanti fondi dalle casse aziendali. Poichè la Moby è alle prese con un concordato preventivo, la distrazione di fondi configura il reato di concorso in bancarotta fraudolenta. Si tratta di un reato ben più grave del traffico illecito di influenze contestato finora a Grillo. É vero che nell'oceano di debiti di Moby il milione e mezzo finito ai due «guru» del Movimento 5 Stelle non è gran cosa: ma quando Craxi e Martelli vennero accusati per la bancarotta del Banco Ambrosiano avevano incassato di meno.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

"Dobbiamo parlarne con lui": nelle chat di Grillo spunta Patuanelli. Luca Sablone il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Nelle chat tra Grillo e Onorato sarebbe comparso anche un riferimento all'ex ministro dello Sviluppo economico.

L'indagine della procura di Milano continua ad arricchirsi di particolari. Nei giorni scorsi Beppe Grillo è risultato indagato con l'ipotesi di reato di traffico di influenze illecite. Sotto la lente di ingrandimento sono finiti alcuni contratti pubblicitari sottoscritti nel 2018-2019 dalla compagnia marittima "Moby spa" di Vincenzo Onorato con il blog Beppegrillo.it.

Nel comunicato del procuratore della Repubblica di Milano facente funzione, Riccardo Targetti, si legge che "Onorato ha richiesto a Grillo una serie di interventi a favore di Moby spa" che poi il co-fondatore del Movimento 5 Stelle avrebbe "veicolato a una serie di esponenti politici trasferendo quindi al privato richiedente le relative risposte". Infatti, come scritto da Luca Fazzo su ilGiornale in edicola oggi, si vuole far luce sui parlamentari impegnati nel lavoro prezioso nelle commissioni per capire se abbiano o meno svolto un ruolo nella vicenda.

Spunta anche Patuanelli?

Accuse tutte ancora da verificare, ovviamente. Oggi La Repubblica scrive che nelle chat tra Grillo e Onorato sarebbe spuntato anche il nome di Stefano Patuanelli, ministro dello Sviluppo economico nel governo Conte bis ma ora titolare delle Politiche agricole e comunque non indagato. "Scrivendosi, Grillo e Onorato ragionano sulla necessità di rivolgersi a Patuanelli per sostenere i provvedimenti che potrebbero aiutare Moby. 'Dovremmo parlarne con Patuanelli' è il senso del dialogo tra i due", si legge su La Repubblica.

Proprio ieri l'Ansa aveva riferito del sospetto che i messaggi possano essere stati "veicolati anche a parlamentari del movimento legati al Mise". Ovvero al ministro dello Sviluppo economico. Ma anche in questo caso il condizionale è d'obbligo. Sempre nelle scorse ore La Repubblica aveva parlato della presenza di presunte chat con Danilo Toninelli. L'esponente 5 Stelle ha però precisato di non aver "mai ricevuto pressioni o richieste di favori per aiutare questo, i Benetton, un altro concessionario, e neanche Onorato".

Le chat

Sarebbero una dozzina le chat ritenute rilevanti e su cui la Procura di Milano sta lavorando nell'ambito dell'inchiesta che vede coinvolti Beppe Grillo e Vincenzo Onorato. Stando a quanto trapelato dalle prime informazioni dell'Ansa, i messaggi con le presunte richieste dell'armatore di interventi pubblici a favore del salvataggio di Moby "sarebbero cominciati prima della stipula dei contratti di pubblicità da 120mila euro annui tra la compagnia e la società di Grillo (che risalgono al 2018 e 2019) e sarebbero proseguiti anche dopo".

Le "mosse" di Grillo

In passato non sono mancate uscite pubbliche da parte di Grillo a sostegno di Vincenzo Onorato, descritto dal comico genovese come "da anni impegnato nella salvaguardia dei diritti calpestati di migliaia di lavoratori di Torre del Greco" e che a maggio del 2018 si stava "battendo anima e cuore per salvaguardare i diritti dei nostri marittimi". Addirittura ad agosto 2018 aveva rilanciato sul suo blog una petizione di Onorato: ai lettori era stato chiesto di aiutare l'armatore "in questa battaglia di rispetto e di dignità dei marittimi", sottoscrivendo i valori della petizione su cui costruire una legge in merito alle tratte nazionali.

Luca Sablone.Classe 2000, nato a Chieti. Fieramente abruzzese nel sangue e nei fatti. Estrema passione per il calcio, prima giocato e poi raccontato: sono passato dai guantoni da portiere alla tastiera del computer. Diplomato in informatica "per caso", aspirante giornalista per natura. Provo a raccontare tutto nei 

"Va trattato bene...". La frase che inguaia Grillo. Francesco Curridori il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

"Questo dobbiamo trattarlo bene", è la raccomandazione che Grillo avrebbe fatto ai parlamentari M5S parlando dell'amico armatore Vincenzo Onorato.

"Questo dobbiamo trattarlo bene". Beppe Grillo, garante del Movimento Cinquestelle avrebbe raccompandato ai parlamentari pentastellati che si occupavano di questioni legate al trasporto marittimo di avere un occhio di riguardo verso Vincenzo Onorato, fondatore del gruppo Moby.

Gruppo col quale Grillo nel marzo 2018 aveva stretto un accordo di partnership per pubblicizzare sul suo blog la compagnia di navigazione. Tale 'indiscrezione emerge del'inchiesta della procura di Milano che vede il comico genovese indagato per traffico di influenze illecite. L'accusa ritiene che Onorato, dietro il contratto pubblicitario biennale da 240mila euro, stesse in realtà comprando l'influenza sul M5S per uscire dalla crisi in cui versa il gruppo. La procura di Milano indaga sull'armatore sia da un punto di vista fallimentare (oggi è stato depositato un nuovo piano per il salvataggio di Moby) sia dal punto di vista penale per presunti reati tributari. Onorato, travolto dai debiti, sarebbe dunque andato a bussare alla porta dell'amico Grillo, il quale secondo l'accusa ha inoltrato i suoi messaggi ai ministri competenti dell'epoca: il titolare del dicastero dei Trasporti Danilo Toninelli, il responsabile dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli e il suo vice Stefano Buffagni. Nessuno di loro, però, al momento, risulta iscritto al registro degli indagati.

L'ex ministro Toninelli, a proposito del suo coinvolgimento nella vicenda, ha già annunciato che adirà le vie legali: "In merito alla questione Moby sono state diffuse falsità sul mio conto. Mi riferisco in particolare, ma non solo, alla notizia che il sottoscritto, durante l'incarico da ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, avrebbe prorogato la concessione per i servizi di collegamento marittimo in regime di pubblico servizio con le isole maggiori e minori". E aggiunge: "La notizia è palesemente falsa poiché la suddetta convenzione, all'articolo 4, specifica la sua durata dal 18 luglio 2012 al 18 luglio 2020. Pertanto la scadenza della sua vigenza risulta di quasi un anno successiva al termine del mio incarico da ministro, risalente al mese di settembre 2019. Non è dato sapere, dunque, come avrei potuto prorogare una convenzione pienamente in vigore".

Nell'aprile 2020 il Mise autorizza i commissari straordinari di Tirrenia a sottoscrivere l'accordo con la Cin, la controllata del gruppo Moby. Dopo qualche mese arriva il rinnovo della convenzione fra lo Stato e la compagnia di navigazione, mentre il governo Conte ha il compito di decidere sugli sgravi fiscali da destinare al settore. Grillo avrebbe contattato circa una quindicina di parlamentari pentastellati ignari della triangolazione che vede come protagonisti principali l'armatore del gruppo Moby e il fondatore del Movimento. I parlamentari interessati avrebbero risposto ai messaggi di Grillo con chiarimenti, controdeduzioni o tecnicismi, non sapendo che poi il contenuto di quelle conversazionI sarebbe finito nelle mani di Onorato.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono

Le chat di Grillo ai ministri per sostenere l'armatore "Questo va trattato bene". Luca Fazzo il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Messaggi a Toninelli e Patuanelli su Onorato. Si cercano riscontri nei lavori parlamentari.

Nell'aula del tribunale fallimentare, al primo piano del palazzo di giustizia milanese, ieri si consuma l'ultimo tentativo di Vincenzo Onorato di salvare dal crac la Moby, la sua creatura dissestata. Tre piani più su, in Procura, proseguono intanto gli accertamenti sul rapporto anomalo che legava Onorato a Beppe Grillo, e che secondo gli inquirenti si è tradotto in una serie di pressioni illecite su parlamentari grillini perché aiutassero in ogni modo la compagnia dell'armatore napoletano. E se davanti al tribunale fallimentare la situazione per Onorato sembra virare al meglio, l'inchiesta per traffico di influenze si arricchisce sempre di più di nuovi dettagli. «Questo dobbiamo trattarlo bene», è il messaggio-tipo che da Grillo arrivava ai suoi uomini al governo e a Montecitorio: una commistione illegale tra attività parlamentare e business personali del Garante.

Davanti a Alida Paluchowski, presidente della sezione fallimentare, viene presentato il nuovo accordo che Onorato propone ai creditori delle sue società. Tra questi ci sono banche, obbligazionisti e i curatori della Tirrenia, la compagnia assorbita da Onorato e poi andata in dissesto anche a causa dei mancati pagamenti dell'armatore. Erano stati propri i dubbi di Tirrenia a stoppare il primo piano di salvataggio. Ma ora Onorato propone di onorare circa l'80 per cento dei suoi crediti, e la proposta - inviata alle 5,17 del mattino di ieri, a un soffio dalla scadenza dei termini - potrebbe alla fine soddisfare l'amministrazione straordinaria di Tirrenia.

Ma proprio il dissesto del suo gruppo, sorretto in buona parte dalle commesse pubbliche, è uno dei fronti su cui Onorato ha cercato di mettere maggiormente a frutto il rapporto di ferro che lo lega a Beppe Grillo. Secondo quanto emerge dalle chat dell'armatore analizzate dalla Guardia di finanza, quando l'ex comico raccomandava ai suoi di «trattare bene» Onorato si riferiva costantemente al salvataggio delle compagnie di navigazione. Messaggi in questo senso sono stati inviati sicuramente all'ex ministro dei trasporti Danilo Toninelli e - secondo quanto riportato ieri da Repubblica e non smentito - anche a Stefano Patuanelli, ministro dell'Agricoltura nell'attuale governo Draghi. In tutti i casi in cui Grillo si è rivolto ai suoi uomini ha ricevuto risposte e promesse. E si è affrettato a trasmetterle a Onorato.

La linea difensiva di Beppe Grillo è, per quanto se ne è compreso finora, basata su un doppio binario. Da una parte Grillo intende rivendicare le battaglie pro-Moby come la difesa di una impresa con diecimila dipendenti e un importante ruolo sociale; dall'altra, intende ricondurre gli aspetti più «personali» del suo attivismo anche ad una amicizia trentennale con Onorato, e non ai contratti di consulenza stipulati dall'armatore con la Beppe Grillo srl e con la Casaleggio associati. «Ma allora dovrebbe spiegarci - è la risposta che arriva da ambienti vicini all'inchiesta - perché le chat che veicolano ai parlamentari del Movimento 5 Stelle le richieste di Onorato inizino a venire inviate solo quando Moby firma i contratti di consulenza».

La situazione, insomma, non è rosea: anche se i tempi dell'indagine non si annunciano brevi. L'analisi delle chat è sostanzialmente già terminata, ma il lavoro della Finanza sarà ora incrociarle con i lavori parlamentari per trovare riscontro. Non si esclude che in realtà Grillo abbia millantato con Onorato risultati maggiori di quelli ottenuti: ma il reato ci sarebbe lo stesso, grazie a un emendamento al codice penale voluto proprio dai grillini.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Beppe Grillo indagato, ma non gli sequestrano il cellulare: la scelta che scatena il sospetto. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 21 gennaio 2022.

C'è un peso morto e beffardo che sta zavorrando la già claudicante partita del Movimento Cinque stelle sul Quirinale: Beppe Grillo. Il fondatore Elevato, il Jocker e Mangiafuoco, l'impresario del populismo che la volta scorsa opzionò invano Stefano Rodotà per il Colle al grido di "onestà... onestà!" e che adesso si ritrova indagato per "traffico d'influenze" e nel giugno prossimo andrà a processo a Livorno, imputato per i reati di violenza privata e lesioni personali ai danni di un giornalista da lui strapazzato nel settembre del 2020. Ancora più imbarazzante per il fronte giustizialista, se possibile, è un particolare che riguarda l'inchiesta milanese in cui Grillo è sospettato d'aver ottenuto dagli armatori di Moby alcuni contratti pubblicitari per il suo blog in cambio di aiuti politici offerti dal Movimento stanziato al governo: i pm non gli hanno sequestrato il cellulare, riservandogli di fatto un trattamento equivalente a quello dovuto ai parlamentari pentastellati in carica e tutelati perciò da precise garanzie costituzionali. Come a dire che verso Grillo non si usano soltanto i guanti bianchi indossabili, ma a discrezione, quando si tratta d'ingerire nella privacy; ma che lui è più uguale di ogni altro cittadino privato e anzi cittadino privato non è affatto, a dispetto della sua intermittente ritrosia a riconoscere il proprio ruolo pubblico. Un parlamentare di fatto seppur non di diritto. Come minimo è un'anomalia procedurale per la quale la blasonata Procura di Milano, quella di Mani pulite e delle inchieste seriali contro Silvio Berlusconi giocate (anche) sul filo dello sputtanamento del Caimano via intercettazioni e brogliacci diffusi a cielo aperto, si attirerà una miriade di retropensieri.

PECCATO ORIGINALE

Ma siamo sicuri che un tale trattamento nei confronti del comico più influente d'Italia non finisca per riverberarsi come un guizzo maligno contro i suoi seguaci? Tra il progetto originario di aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno e l'attuale silenzio rubizzo della nomenclatura grillina di fronte alle disavventure giudiziarie padronali, c'è di mezzo un palinsesto di proclami e provvedimenti intrisi di virtuismo moralizzatore, per non dire di cattive intenzioni da mozzorecchi, il cui precipitato materiale si è via via raggrumato nelle norme "spazzacorrotti" e nelle "riforme" dell'ex Guardasigilli Alfonso Bonafede. Fra queste, appunto, il caliginoso e inafferrabile "traffico d'infulenze" (all'ingrosso: l'acquisizione di vantaggi materiali in cambio di presunti benefici amministrativi) che ora appesta vieppiù la già opaca reputazione del Garante. Ciò avviene proprio nel momento in cui la famiglia grillina è tutta compresa nella denuncia sgolata del rischio che il pregiudicato di Arcore varchi il soglio quirinalizio; proprio lui, il Cavaliere condannato per frode fiscale e inseguito dai togati per circa un quarto di secolo. Ecco, se c'è un aspetto di surreale comicità nella presente circostanza sta nel fatto che contestualmente Grillo si ritrova a personificare il peccato d'origine giacobina che si gli si ritorce contro con la faccia cattiva dei reati di cui viene accusato; ma in più, beneficato dalla malagrazia di quel telefonino risparmiato dall'occhio altrimenti inesorabile degli inquirenti, indossa pure la maschera di una casta superiore a quella ordinaria. Da una parte, cioè, giace esanime a trascorsa e futura memoria quella casta politica che negli ultimi decenni è stata regolarmente sputtanata e vilipesa grazie alle intime scoperte prodotte dai sequestri giudiziari e poi sapientemente distillate al circo mediatico; dall'altra c'è Beppe Grillo, con il suo cinico sodale Giuseppe Conte messo a guardia d'un flottante di parlamentari disponibili a tutto pur di rimanere aggrappati ai seggi in procinto d'essere ghigliottinati per legge (grilina anch' essa ça va sans dire).

TEATRO DELL'ASSURDO

Uno spettacoloso teatro dell'assurdo, insomma, che rende ancora più speciale il grande gioco per la successione di Sergio Mattarella, con le debite ricadute su Palazzo Chigi, e ancora più lancinante il rimpianto del bivacco di manipoli puristi che nel 2018 conquistò la stragrande maggioranza parlamentare, salvo poi chiudere la legislatura in odore del sospetto d'aver utilizzato quel potere per accrescere il patrimonio personale di un grassatore sempre innocente fino al terzo grado di giudizio soltanto per chi non fa parte della sua spersa masnada.

Beppe Grillo indagato, ecco perché siamo felici: soldi, il comico M5s come un traffichino qualsiasi. Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Dunque Beppe Grillo è indagato per una questione di soldi, finanziamenti al suo sito fatti da Vincenzo Onorato, armatore della compagnia Moby che in cambio avrebbe avuto una certa attenzione da parte dei parlamentari Cinque Stelle. Il reato ipotizzato è quello di "traffico di influenze", una trappola introdotta dal partito dei giustizialisti nel 2012 (governo Monti, ministra della Giustizia Paola Severino) e per la verità stupidamente approvata anche da Forza Italia. È un'arma che i magistrati hanno usato e usano come una clava nelle loro scorribande sul terreno della politica, il più delle volte si tratta di un teorema: siccome qualcuno ti ha aiutato a fare politica se tu ricambi la gentilezza sei equiparato a un delinquente.

Questa premessa per dire che noi di questa inchiesta della Procura di Milano non ci fidiamo fino a prova contraria. Ma siamo felici di vedere i Cinque Stelle e Grillo vittime delle armi improprie che hanno usato contro i loro avversari e sputtanati per giochetti che mi auguro non costituiscano reato ma che certamente li mettono sul piano di traffichini qualsiasi. Chissà che cosa avrà da dire oggi il ministro tontolone Toninelli, quello che sosteneva la superiorità genetica dei grillini, vediamo se qualcuno di loro avrà il coraggio di urlare in faccia agli avversari, come ai vecchi tempi, "onestà, onestà", chissà se il loro portavoce Marco Travaglio oggi farà la sua prima pagina su "Grillo ladro" come avrebbe fatto per qualsiasi altro politico.

Dubito che accadrà qualche cosa di simile. Per Grillo i magistrati sono sacri fino a che uno di loro non gli rinvia a giudizio il figlio per stupro, allora apriti cielo; per i Cinque Stelle se Salvini aggredisse un giornalista sarebbe da impiccare sulla spiaggia, nulla di grave se Grillo un giornalista lo manda all'ospedale (è indagato pure per questo); per loro un avviso di garanzia equivale a una condanna ma non se a riceverlo è il loro magistrato preferito che di nome fa Piercamillo Davigo. Mi auguro che in questo Paese non ci sia più nessuno a credere alle baggianate di questi scappati di casa (anche sui soldi che avevano promesso di restituire si potrebbe discutere a lungo) che hanno avvelenato i pozzi della politica e fatto perdere all'Italia anni di crescita con i loro inutili governi del popolo.

M5s, giustizialisti a fasi alterne: come si coprono di ridicolo ora che Beppe Grillo è indagato. Pietro De Leo su Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Fortuna che siamo nella settimana precedente all'elezione per il Colle. Giorni in cui il cucire prevale sul colpire. Così, il Movimento 5 Stelle si salva dal fuoco di ritorno sull'inchiesta che coinvolge Beppe Grillo per presunto traffico di influenze illecite. Loro fanno quasi gli gnorri, sul piano politico. C'è il deputato Francesco Silvestri, che prova a liquidare la questione osservando che «Grillo non è un decisore pubblico», e quanto accaduto «non c'entra con la nostra legge» sulle lobby. Il suo collega Luigi Gallo la butta sull'agiografico: «La vita di Beppe parla di un italiano al servizio degli altri e mai di interessi particolari e specifici». Idem il senatore Danilo Toninelli: «Beppe è l'unico a non essersi arricchito con la politica». Dagli avversari, al massimo, arriva qualche puntura di spillo ma nulla più. Tipo da Giorgia Meloni che parla di «nemesi» per il Movimento. Oppure da Matteo Renzi che auspica un atteggiamento più garantista da parte di certa stampa rispetto a quello rivolto agli indagati nell'inchiesta Open. Al di là del fatto che non c'è stata, ieri, nessuna valanga di strali, il punto politico è proprio quello: la linea che gli esponenti del Movimento, negli anni, hanno seguito sulle indagini altrui.

POST AL VETRIOLO

Ed è sufficiente agire per simmetria, ossia prendere la stessa fattispecie, il traffico di influenze illecite, per cogliere l'asprezza dei toni e l'insistenza nei messaggi. Il primo marzo 2017, quando infuriava un'indagine che ha tenuto banco a lungo, in un lungo post sul blog di Beppe Grillo, il Movimento 5 Stelle scriveva: «Oggi è stato arrestato l'imprenditore napoletano Alfredo Romeo, nell'ambito dell'inchiesta sugli appalti Consip in cui sono coinvolti anche il padre di Renzi, Tiziano, indagato con l'accusa di traffico di influenze» e gli altri (seguiva elenco) tirati dentro dall'inchiesta per svariate tipologie di reati. Poche settimane più tardi, una nota dei parlamentari del Movimento delle commissioni Giustizia e Affari Costituzionali, osservava: «Ricordiamo agli esponenti del Pd che si esercitano sempre nel tiro al bersaglio contro i pm che si occupano dell'inchiesta Consip che il quadro indiziario a carico di Tiziano Renzi, indagato per traffico di influenze, resta sostanzialmente invariato». L'indomani, 13 aprile, proprio Beppe Grillo in persona si pronunciava così: «Ricordiamo a tutto il Pd ed in particolare a Matteo Renzi che babbo Tiziano resta saldamente indagato nell'inchiesta per corruzioni negli appalti miliardari in Consip per il grave reato di traffico di influenze». Titolo del post: "Memento Renzi". Qualche mese più tardi, era il 12 dicembre, i componenti delle Commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato tuonavano: «Sull'inquietante vicenda Consip ricordiamo agli smemorati esponenti del Pd...», seguiva elenco degli indagati, tra i quali anche l'allora ministro dello Sport Luca Lotti, dove spiccava ovviamente «per traffico di influenze Tiziano Renzi». Questo il tamburellare fitto sul padre del leader di Italia Viva per il quale, va detto a onor di cronaca, la giustizia ancora sta facendo il suo corso. Ma la foga accusatoria risulta maggiormente paradossale considerando un altro caso, quello dell'indagine "Tempa Rossa".

TUTTO ARCHIVIATO

Scoppiò nel 2016, momento di apogeo politico del governo Renzi. Sempre di "traffico di influenze illecite" fu accusato l'allora compagno di colei che ricopriva l'incarico di ministro dello sviluppo economico, Federica Guidi. Secondo la procura di Potenza, l'uomo, Gianluca Gemelli, avrebbe approfittato del ruolo della sua partner per ottenere vantaggi economici intorno ad un centro di estrazione petrolifera in Basilicata. Implacabile partì la fanfara pentastellata di richiesta dimissioni all'indirizzo della Guidi, per un caso dai grillini definito "peggio di Tangentopoli". Lei le rassegnò, nonostante non fosse indagata. Gesto in cui Luigi Di Maio, a quel tempo componente del direttorio del Movimento, intravvide «un'ammissione di responsabilità chiara della Guidi». Insomma, un processo già bell'e fatto, su Facebook e sui giornali. Piccolo particolare: nemmeno un anno dopo, Gemelli fu archiviato. Ma non finisce qui: quanto i pentastellati ritenessero grave il «traffico di influenze illecite» lo dimostra anche la battaglia per inserire un emendamento nel ddl anticorruzione che prevedeva l'arresto in caso di flagranza. Era il 2018, ma pare una vita fa, come per tutte le posizioni poi dissolte nel tempo. 

Beppe Grillo indagato, spunta il nome di Danilo Toninelli: indiscrezioni dalla procura, trema il M5s. Libero Quotidiano il 19 gennaio 2022.

Ci sarebbe anche Danilo Toninelli tra i politici raggiunti dalle richieste di Beppe Grillo, che avrebbe girato loro in chat le richieste di Marzio Onorato, l'armatore fondatore della Moby e patron di Mascalzone Latino nell'avventura all'America's Cup. Forse inevitabile, visto che tra maggio 2018 e settembre 2019 Toninelli è stato ministro delle Infrastrutture e Trasporti, dunque il referente "logico" del comico e fondatore dei 5 Stelle. Ma è un nuovo scossone in una vicenda giudiziaria che getta scompiglio nel Movimento a pochi giorni dalla partita del Quirinale, forse decisiva per l'esistenza stessa dei 5 Stelle intesi come partito. 

Grillo è da ieri indagato con l'accusa di tentato traffico di influenze illecite, ai tempi del governo Conte. In altre parole: Beppe avrebbe tentato di influenzare le politiche dell'esecutivo per conto di Onorato, in favore di Moby, attraverso gli esponenti grillini in Parlamento. In cambio, è l'accusa degli inquirenti, Grillo avrebbe ottenuto contratti pubblicitari alla Casaleggio Associati srl e a se stesso per un milione e 50 mila euro di euro. Per questo, riporta Repubblica, lunedì i militari del Nucleo di polizia economico-finanziaria della Finanza di Milano si sono recati "negli uffici delle due società e nelle abitazioni di due dipendenti, oltre che del chief information officer e dell'allora responsabile delle relazioni esterne e istituzionali, non indagati, di Moby".

Sotto inchiesta, i contratti 2018 e 2019 da 120mila euro annui incassati dalla Beppe Grillo srl da Moby e un ulteriore contratto sottoscritto per il triennio 2018-2020 tra Moby e Casaleggio Associati, da 600mila euro annui, che riguardava "la stesura di un piano strategico e per l'attuazione di strategie" relative agli sgravi fiscali per le compagnie marittime italiane. "Contratti ritenuti illeciti - ricorda sempre Repubblica - sia «per l'entità degli importi versati o promessi da Onorato», sia «per la genericità dei contratti»". E anche per la mediazione di Grillo, secondo gli inquirenti "finalizzata a orientare l'azione pubblica di pubblici ufficiali". I legali di Onorato fanno notare come lui e Grillo siano "amici di antica data, da circa 45 anni" e che dunque "è facile che qualcosa possa essere stata equivocata". 

Da open.online il 27 gennaio 2022.

Vincenzo Onorato, ovvero il proprietario di Moby, ha pagato viaggi in nave a Beppe Grillo e alla sua famiglia. Così come a un ex senatore del Partito Democratico, Roberto Cociancich, padre della legge sui marittimi. 

Questo emerge dalle carte dell’inchiesta sui contratti pubblicitari della compagnia per il blog del fondatore del MoVimento 5 Stelle e dall’indagine per traffico di influenze illecite.

Dei viaggi in nave pagati a Grillo e ad altri parla oggi Il Fatto Quotidiano in un articolo a firma di Davide Milosa e Marco Franchi: la circostanza emerge grazie alle email di Onorato trovate nei supporti informatici sequestrati nell’inchiesta fiorentina sulla Fondazione Open di Matteo Renzi. 

Secondo quelle carte l’armatore si è dimostrato pronto a esaudire le richieste di viaggio di Grillo anche in tempi brevi e in periodi estivi molto affollati. Il Fatto riporta anche la conferma, con precisazione, di Cociancich: «Ho conosciuto Onorato solo dopo l’approvazione della legge, ma non ci furono pressioni, anche se quel biglietto non l’ho pagato». 

Nelle email c’è anche il nome del leghista Edoardo Rixi, che però smentisce: «Quell’estate dovevo andare in Sardegna. Mi ha solo offerto l’uso della cabina ma i biglietti li ho pagati». Tra i contatti emersi dai controlli ci sono anche i parlamentari Luigi Di Maio, Danilo Toninelli e Carla Ruocco.

Nessuno dei politici citati è indagato nell’inchiesta. E c’è un capitolo anche sulla Casaleggio Associati. L’11 agosto 2019 Achille Onorato, figlio di Vincenzo, propone al padre di tagliare voci di spesa per 6 milioni di euro. 

Tra queste c’è anche il contratto con la Casaleggio da 600 mila. Il padre gli risponde: «ti devo parlare». Alla fine i tagli vengono approvati. Tranne uno. Proprio quello della Casaleggio

Grillo finisce alla gogna e scopre anche lui che la politica ha un costo. Il fondatore del M5S indagato per traffico di influenze. Il ricorso ai finanziamenti privati è figlio di una legge fortemente voluta dal movimento: l’abolizione del contributo pubblico ai partiti. Rocco Vazzana su il Dubbio il 19 gennaio 2022.  

Il fatto che l’indagine a carico di Beppe Grillo per traffico di influenze sia figlia dell’inchiesta Open è solo una delle beffe di questa vicenda giudiziaria. Perché per una sorta di legge del contrappasso i presunti “guai” del comico genovese sono anche il frutto di scelte politiche divenute il marchio di fabbrica del Movimento 5 Stelle. E peseranno sul ruolo dei 5S nella partita per il Quirinale.

Ma andiamo con ordine. Ieri la procura di Milano ha notificato un avviso di garanzia al “garante” pentastellato ipotizzando il reato di traffico illecito di influenze. Una fattispecie scivolosa, onnicomprensiva e spesso indimostrabile riformata dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, che volle rendere la “Spazzacorrotti” il fiore all’occhiello del suo mandato. Un fiore da trasformare in clava all’occorrenza, quando a finire nel tritacarne sono gli avversari politici. E adesso per gli inquirenti milanesi – informati a loro volta dai colleghi fiorentini che indagavano su Renzi – è il turno di Grillo. Per i pm potrebbero non essere regolarissimi i contratti pubblicitari sottoscritti, tra il 2018 e il 2019, dal Blog dell’elevato con Vincenzo Onorato, armatore della compagnia marittima Moby. Centoventimila euro l’anno, per due anni, in cambio di uno spot al mese da ospitare su beppegrillo.it più banner pubblicitari, redazionali e interviste a favore della società di navigazione attualmente in concordato preventivo.

Per gli inquirenti il rapporto tra Onorato e il leader 5S non sarebbe stato di natura esclusivamente commerciale. Grillo, in altre parole, avrebbe provato a favorire l’armatore nella gestione della crisi aziendale della Moby, sfruttando il suo ruolo politico. Come? Veicolando «a parlamentari in carica appartenenti» al suo partito «le richieste di interventi a favore di Moby» avanzate da Vincenzo Onorato, si legge sul decreto di perquisizione che ha riguardato anche i locali societari dell’ex comico. Il fondatore del M5S avrebbe dunque trasferito «al privato le risposte della parte politica o i contatti diretti con quest’ultima». Per gli inquirenti sarebbe «mediazione illecita» in quanto «finalizzata a orientare l’azione pubblica dei pubblici ufficiali». E non è neanche tutto, perché tra le società finanziate dall’armatore spunta anche la Casaleggio Associati, con cui Onorato nel stipula un contratto da 600 mila euro per «la stesura di un piano strategico e per l’attuazione di strategie per sensibilizzare l’opinione pubblica italiana e gli stakeholder alla tematica delle limitazioni dei benefici fiscali alle sole naviga imbarcano personale italiano e comunitario (Campagna pubblicitaria denominata io navigo italiano)».

In quel settore la Casaleggio associati è tra i leader in Italia, si difende l’imprenditore, normale rivolgersi a loro ricorrendo a prezzi di mercato. Del resto agli atti sulla Moby risulterebbero anche 200 mila euro di finanziamento alla fondazione Open, 100 mila a Change del governatore ligure Toti , 80 mila al Pd, 10 mila a Fratelli d’Italia. Ed è questo il nodo squisitamente politico della vicenda. Convinti infatti che Grillo riuscirà a dimostrare in Tribunale la sua estraneità ai fatti contestati, resta intatto il problema di fondo: la necessità dei partiti e delle fondazioni politiche di ricorrere alle donazioni private per sopravvivere. È il frutto avvelenato della cancellazione del finanziamento pubblico, portata a casa dal governo Letta su pressione di Matteo Renzi, a sua volta terrorizzato di finire schiacciato dalla martellante campagna anticasta che aveva portato i grillini al trionfo elettorale nel 2013. Così, in cambio di una manciata di voti e pochi spiccioli di risparmio per le casse pubbliche il sistema di finanziamento è diventato opaco e i partiti suscettibili del condizionamento privato. Tutti, anche chi affrontava la “casta” a colpi di vaffa hanno nel frattempo capito che la politica è un mestiere, ha bisogno di risorse e nessuna macchina può funzionare gratis. Nemmeno quella “a costo zero”, immateriale, sventolata al suono di un clic dai grillini prima maniera.

I tempi sono cambiati per tutti. Anche per il M5S. Tanto che lo “sputtanamento” del fondatore segna la fine definitiva di un idillio, di un’intesa complice, tra pentastellati e procure. Lo “Tsunami”, tanto caro a Grillo, ha travolto anche lui. E ora persino la tempistica dell’avviso di garanzia desta sospetto in casa cinque stelle, a meno di una settimana del voto per il Quirinale. Sì, perché con i gruppi parlamentari sempre più sfaldati e con Giuseppe Conte incapace di controllare le truppe, in molti, negli scorsi giorni, si aspettavano un intervento imminente del padre fondatore per placare gli animi e serrare le file. Perché nei momenti di maggiore smarrimento Beppe Grillo resta ancora l’unico leader realmente riconosciuto dell’intero Movimento. L’indagine di Milano mette fuori gioco un protagonista della partita per il Colle. E mette in subbuglio non solo un partito, ma un intero schieramento, il centrosinistra allargato ai grillini, che da settimane fatica a trovare una strategia comune da contrapporre alle manovre del centrodestra. È solo l’ennesima beffa per il partito dell’onestà scandita al ritmo delle manette tintinnanti. Perché quel partito forcaiolo non ci sarà più, ma un certo modo di operare delle procure è rimasto invariato.

Estratto dell’articolo di Davide Milosa e Marco Franchi per il “Fatto quotidiano” il 6 febbraio 2022.

Il 22 novembre 2017 la parlamentare Cinque stelle Carla Ruocco invia una email al fondatore del movimento Beppe Grillo e nel testo mette l'emendamento del senatore Pd Roberto Cociancich sugli sgravi fiscali rispetto a chi assume marittimi italiani. Poi illustra il senso al capo del suo movimento […] Il messaggio arriva dopo una serie di chat precedenti tra l'armatore Vincenzo Onorato e Grillo, il quale poi gira tutto al suo politico di riferimento. 

Le email sono contenute negli atti […] trasmessi alla Procura di Milano che […] ha iscritto Grillo e Onorato nel registro degli indagati con l'accusa di traffico di influenze illecite. I pm ipotizzano uno scambio di favori che però penalmente vede estranei i parlamentari. […]

Secondo l'accusa, da un lato Grillo interessa i suoi politici per le tematiche che stanno a cuore a Onorato e dall'altro l'armatore campano paga l'ex comico attraverso un contratto da 240mila euro in due anni tra Moby e il blog di Grillo. Contratto che inizierà a marzo 2018 e dunque dopo lo scambio di email finito sotto la lente della Procura. Il carteggio inizia il 30 ottobre 2017 quando in serata Onorato scrive a Grillo: "Caro Beppe, in allegato ti rimetto una nota su quello che quelle m dei miei colleghi armatori stanno combinando per finire di distruggere l'occupazione dei marittimi italiani. Se passa l'emendamento Cociancich, li abbiamo salvati".

Nella nota Onorato spiega a Grillo la necessità, legata "a motivi occupazionali" per i marittimi, di far approvare il testo. Grillo il 31 inoltra la email a Ruocco che gli risponde: "Visto. Mi informo e ti faccio sapere. Un abbraccio". Il primo novembre Grillo invia a Onorato la risposta del suo politico. Poche ore dopo Onorato all'ex comico: "Grazie Comandante". Il 2 novembre l'armatore manda a Grillo l'emendamento Cociancich. Scrive: "Caro Beppe, la presentazione del testo marittimi". 

Il 22 novembre ci sarà la email di Ruocco con allegato l'emendamento e la sua spiegazione. Testo che a quella data non è stato ancora approvato. […] Il 26 gennaio Onorato scrive all'allora vicepresidente della Camera Luigi Di Maio: "Caro Luigi, da martedì pomeriggio fino a venerdì sarò a Roma, hai 5 minuti per me?".

La email risulterà mandata in copia a Grillo. L'11 giugno 2018, in pieno primo governo Conte, la Cociancich diventa legge. Onorato si dichiara pubblicamente contento. Nei mesi a seguire si renderà conto che la legge non è del tutto rispettata. Si premura così di far arrivare lettere personali ai ministri pentastellati Luigi Di Maio, all'epoca allo Sviluppo economico (Mise) e Danilo Toninelli ai Trasporti (Mit) e al futuro suo vice, il leghista Edoardo Rixi.

[…] Onorato, come è nella logica di un concessionario pubblico, cerca sponde politiche e si mostra generoso. Con Grillo ad esempio, per i passaggi gratis sulle sue navi. Il dato che non rientra nella contestazione penale, lo si riscontra dalle email che la moglie dell'ex comico Parvin Grillo scrive a Moby per avere i biglietti. Sono decine e tutte dello stesso tenore. Lady Grillo chiede a Moby di poter prenotare i biglietti per sé e la famiglia. Immancabile arriva la risposta di Onorato ai suoi dipendenti: "Trattamento vip e tutto gratis!". 

L’ARMATORE DEGLI SCANDALI. Grillo, Renzi e gli altri: tutti gli «aiutini» della politica non salvano Onorato dal declino. DANIELE MARTINI su Il Domani il 19 Gennaio 2022.

A partire dal 2013 lo stato ha versato al gruppo di Vincenzo Onorato in media circa 77 milioni di euro l’anno perché fosse garantito il collegamento con la Sardegna

Nello stesso periodo di tempo non è riuscito a farsi dare i 180 milioni di euro che l’armatore è tenuto a versare per aver comprato la compagnia pubblica Tirrenia

Oggi i collegamenti sono assicurati dai privati senza costi pubblici. Il gruppo Moby gravato da un debito di 640 milioni di euro finisce in mano ai creditori privati 

DANIELE MARTINI. Ha lavorato 15 anni all’Unità e 23 a Panorama. Ha collaborato con Il Fatto Quotidiano. Ha scritto 5 libri: le biografie di Gianfranco Fini e Massimo D’Alema e tre inchieste sulla casta, le raccomandazioni e il nepotismo

LA PARABOLA DEI CINQUE STELLE. Nella corsa al Quirinale il Movimento cinque stelle è irrilevante. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 16 gennaio 2022.

Il Movimento 5 stelle sta disperdendo il proprio peso nell’elezione del presidente della repubblica. Il maggior gruppo di grandi elettori non riesce a definire un nome da lanciare nella corsa: nel 2013 e nel 2015 Grillo aveva risolto il problema con le Quirinarie.

Dall’opposizione i Cinque stelle, pur non riuscendo a imporre il proprio nome, soprattutto nel 2013, con la candidatura del costituzionalista Stefano Rodotà si erano costruiti una reputazione di purezza. 

Oggi, con i parlamentari preoccupati per il proprio futuro e i gruppi bloccati da un conflitto interno, Conte non riesce a sfruttare comunicazione e strategia con gli alleati.

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Lettera a FRANCESCO MERLO pubblicata da La Repubblica il 16 gennaio 2021.  

Caro Merlo, nella discussione vacua sull'elezione del Presidente manca Beppe Grillo. È passato di moda? Federico Ferretti

Caro Merlo, so che non pubblicherà mai questa mia email, ma nonostante ciò gliela scrivo lo stesso. Le volevo fare una semplice domanda: perché prova tutto questo rancore e accidia nei confronti dei 5 Stelle? Sarà forse perché hanno proposto, approvato e fatto misure che avrebbe dovuto fare qualsiasi governo o partito di sinistra? O perché sono riusciti a fare anche misure che hanno svegliato un po' l'economia? Oppure ancora per quelle misure tese a punire chi corrompe, evade, elude? Un saluto, anzi nemmeno quello. Maurizio Solazzo P.S.: W Grillo, W il M5S.

LA RISPOSTA DI FRANCESCO MERLO

Caro Solazzo, è tutta da scrivere la storia dei grillini che non hanno presentato alla cassa il biglietto della lotteria che avevano vinto. Mai però sono stati di sinistra, sin dai tempi delle profezie delfiche dell'ideologo Casaleggio che profetizzava un nuovo ordine mondiale, chiamato Gaia, e un governo planetario che sarebbe stato eletto dalla Rete dopo la terza guerra mondiale. Non erano di sinistra il vaffa, la gogna, i nomi storpiati, il turpiloquio, gli insulti, l'incompetenza e l'improvvisazione, le insolenze, lo sberleffo e lo sbeffeggiamento da canaglia.

Con un'ormai completa autonomia rispetto all'origine, gli ex burattini di Grillo, i grillini appunto, oggi sono soggetti non identificati che si sono strappati le orecchie d'asino e si sono maccheronicamente impratichiti con la sintassi, con l'educazione, con il decoro estetico, con le giacche e le cravatte, con qualche libro persino, ma sono ancora inadeguati a qualsiasi progetto di governo che non sia l'odio sistematico a tutti i governi. Postgrillini, dunque. 

Sono anime vaganti nell'Italia infettata dalla pandemia, sono un'umanità politica esausta scagliata come schegge dall'esplosione del vaffa di cui portano i segni. Nel loro smarrimento e nella loro confusione c'è infatti più Grillo di quanto loro stessi credano e di quanto ce ne sia negli archivi della Rai. Non lo sanno, ma sono irrilevanti perché è diventato irrilevante il loro fondatore. Il partito di maggioranza relativa è insignificante perché è insignificante l'uomo che li ha inventati e che ha cambiato la politica italiana. Sono convinto che il destino di questi vincenti di insuccesso sia indissolubilmente legato a quello di Grillo, al loro grande capo, il solo comico italiano che ha smesso di far ridere. Nessuno meglio di lui conosce e teme la ferocia della pernacchia, che in Italia è quel che in Francia fu la ghigliottina.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 9 gennaio 2022.  

Dice Beppe Grillo che abbiamo sbagliato tutto. Contro il Covid dovevamo adottare subito la «strategia contagi zero» della Cina (dove mettono alla gogna chi esce di casa, ma questo è un dettaglio), e invece abbiamo finito per imporre «trattamenti sanitari obbligatori» che ricordano il Grande Fratello di Orwell. Ah, se al governo ci fosse stato il Movimento 5 Stelle!

Federico Capurso per “la Stampa” il 9 gennaio 2022.

Sbuffano, nel Movimento. Non ne possono più di questo strano amore di Beppe Grillo per il regime cinese. Questa volta il fondatore del M5S attacca con un post sul suo blog le «deludenti» politiche di contenimento della pandemia dei governi occidentali e, in particolare, l’obbligo vaccinale per gli over 50 approvato dal governo Draghi. «Essere soggetti a controlli del governo centrale, e ancor più a trattamenti sanitari obbligatori – scrive Grillo – evoca immagini orwelliane che pesano molto psicologicamente». I grillini sbottano: «Parla a titolo personale». 

Lui tira dritto. Si dovrebbe adottare la strategia «contagi zero» della Cina, sostiene. Un esempio? Qualche giorno fa il governo di Pechino ha messo in lockdown una città di 1, 2 milioni di persone dopo aver scovato 3 casi asintomatici di Covid. Ma questi obblighi – sottolinea Grillo – hanno anche delle «implicazioni», sia «sul piano dei diritti umani», sia su quello della «libertà di scelta degli individui».

Ecco, per iniziare, gli consiglieremmo di uscire di casa e proporre un nuovo lockdown a qualche commerciante della sua Genova. In caso andasse male, potrebbe andare in Cina per toccare con mano «i diritti umani» degli Uiguri, imprigionati nei campi di concentramento dello Xinjiang. In alternativa, potrebbe organizzare uno spettacolo a Hong Kong per parlare di «libertà di scelta». Ci faccia sapere.  

(ANSA il 7 gennaio 2022) - "Il bilancio delle strategie adottate da gran parte dei paesi occidentali è dunque deludente". Lo sostiene il fondatore del M5s, Beppe Grillo, che fa un bilancio sui due anni di pandemia in un post sul proprio blog da titolo 'Onere o obbligo?'.

"In primo luogo", aggiunge, la delusione deriva dal fatto che "quasi nessuno di essi ha adottato una strategia di contagi zero o tendenti allo zero, sopportando costi sociale ed economici molto superiori a quelli dei paesi che la hanno adottata".

(ANSA il 7 gennaio 2022) - "Si sono limitati a puntare tutto sulle vaccinazioni, quando è ormai evidente che questa sola strategia non possa bastare". Questa secondo Beppe Grillo è una delle ragioni per cui sono "deludenti" le strategie adottate da gran parte dei Paesi occidentali nella gestione del Covid. Inoltre, spiega il fondatore del M5s, "hanno sottovalutato le implicazioni delle restrizioni sia sul piano di diritti umani che sono capisaldi delle democrazie liberali, sia sul piano dei loro metodi di attuazione, che ben avrebbero potuto rispettare meglio la libertà di scelta degli individui e delle organizzazioni e delle comunità a cui fanno capo". 

(ANSA il 9 gennaio 2022) -  "Essere soggetti a controlli del governo centrale, e ancor più a trattamenti sanitari obbligatori, evoca immagini orwelliane che pesano molto psicologicamente". Così il fondatore del M5s,Beppe Grillo, sul proprio blog in un post sulla gestione del Covid. "Viceversa, lasciare decidere alle organizzazioni e/o alle comunità quali misure adottare appare nel pieno spirito di un ordinamento liberale e democratico. Senza contare - scrive - che la quasi totalità di queste organizzazioni e comunità finirebbe probabilmente per adottare misure ben più restrittive di quelle che potrebbero essere ragionevolmente adottate da un governo centrale".

Da "la Stampa" il 30 dicembre 2021. I giovani sono sempre più scontenti del modo in cui gli anziani gestiscono il mondo, sono insoddisfatti del sistema politico ed economico e, in modo crescente, rifiutano il sistema capitalistico. Sono loro i nuovi socialisti. Dal suo blog Beppe Grillo chiude il 2021 con una riflessione non firmata che guarda al futuro attraverso gli occhi dei Millennials, i nati tra il 1981 e il 1996, sottolineando come una generazione «considerata politicamente disimpegnata e apatica, con l'ascesa di movimenti di massa come Black Lives Matter e Fridays for Future, abbia infine capovolto lo scenario.

«Oggi, i Millennials - si legge - sono descritti molto più comunemente come una generazione iperpoliticizzata, che abbraccia idee "consapevoli" (woke), progressiste e anti-capitaliste. Considerazione sempre più estesa per la generazione successiva, la "Generazione Z", quella degli Zoomers, nati tra il 1997 e il 2010».

A confermare questo atteggiamento, si legge, è anche un recente studio dell'Institute for economic affairs del Regno Unito, che rivela come i giovani esprimano ostilità al capitalismo, mentre «circa il 40% dei Millennials afferma di avere un'opinione favorevole del socialismo e una percentuale simile è d'accordo con l'affermazione che "il comunismo avrebbe potuto funzionare se fosse stato attuato meglio"». 

I giovani dunque sono pronti a qualcosa di nuovo. Ma «mentre fino agli anni Ottanta si pensava al socialismo come a un modello alternativo - conclude Grillo - oggi non sembrano esserci alternative soddisfacenti. L'unico modello alternativo è quello cinese ispirato al Beijing consensus, che propone un capitalismo privato e un capitalismo di Stato sotto il ferreo controllo di un regime autocratico: un modello difficilmente adottabile nei nostri sistemi occidentali, ma che al tempo stesso pare l'unico possibile».

Andrea Bianchini per "il Giornale" il 30 dicembre 2021. Scherzi del destino. Trentacinque anni fa Beppe Grillo venne cacciato dalla Rai per una battuta sul viaggio in Cina di una delegazione di socialisti italiani: «A un certo punto Martelli ha chiamato Craxi e ha detto: "Ma senti un po', qua ce n'è un miliardo e son tutti socialisti?". Craxi ha detto: "Sì perché?". "Ma allora, se son tutti socialisti a chi rubano?"», raccontò il comico durante una puntata di Fantastico 7. Oggi la Cina, invece, è per Beppe l'ultimo avamposto di benessere, progresso e cooperazione. Si vede che da quelle parti non ruba più nessuno, evidentemente. 

Da quando i grillini sono arrivati al governo, molte delle loro bandiere ideologiche sono state riposte nell'armadio dei sogni irrealizzati. Una delle ultime a resistere è la pulsione orientale: socialismo, via della Seta, affari col Dragone tornano nei pensieri dell'Elevato con sospetta cadenza.

E ieri l'ultimo capitolo. In un lungo post titolato Millennials: generazione socialista (ospitato senza firma sul blog di Grillo), si teorizza come la stragrande maggioranza dei nati dopo il 1981- Millenials e Generazione Z, per l'appunto - rifiuti un'idea capitalista della società «che alimenta egoismo, avidità e materialismo», per arrivare a una spettrale conclusione: «L'unico modello alternativo è quello cinese ispirato al Beijing Consensus, che propone un capitalismo privato e un capitalismo di Stato sotto il ferreo controllo di un regime autocratico: certamente un modello difficilmente adottabile nei nostri sistemi occidentali, ma che al tempo stesso pare l'unico possibile».

Regime, autocrazia, modello cinese: «Bello ma non ci vivrei», direbbe ironicamente qualcuno. Nel 1986, l'anno dell'intemerata di Grillo contro i socialisti, molti dei millenials a cui si fa riferimento nello scritto non erano ancora nati. E quella è una generazione che è cresciuta a pane e internet, che non conosce regimi e solo in minima parte ha vissuto limitazioni alla pluralità, ai diritti umani e alla libertà. 

Ciò che invece oggi Beppe rilancia è praticamente l'opposto: uno Stato dove - sono notizie di ieri - è tornata la gogna pubblica e dove è stata silenziata Stand News, voce libera di Hong Kong. Un regime dove internet e social network - tanto cari all'Elevato Grillo - sono al guinzaglio dello Stato. Uno Stato dove i diritti umani sono quotidianamente calpestati. E allora torna in mente una sola domanda. Ma i cinesi, a chi rubano?

·                   Giuseppe Conte.

Giuseppe Conte, l'ipocrita pericoloso. Michel Dessì il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È vero, è il ponte dell’Immacolata. Molti di voi saranno in vacanza, magari in montagna. Almeno spero. Ma noi no, noi siamo qui per raccontarvi l’ennesima ipocrisia di Giuseppe Conte e del suo Movimento 5 Stelle che sta diventando sempre più pericoloso

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Ricordate la settimana scorsa? Nella puntata de La Buvette ci siamo occupati del maxi bonus da 5.500 euro che i parlamentari si sono fatti per natale. Un bonus tecnologico per l’acquisto di tablet, pc e telefonini di ultimissima generazione. Un provvedimento che ha fatto discutere. La determina? È stata firmata anche dal grillino Filippo Scerra che ora (dopo le polemiche) si rimangia tutto. Nonostante lui stesso abbia difeso il bonus sui suoi canali social. "La scorsa legislatura la dotazione era di circa 7.500 euro complessivi e adesso si parla di 5.500 più un piccolo budget per spese cancelleria (320 euro ). Cioè questa operazione ha fatto risparmiare al bilancio della Camera", aveva scritto su Facebook il deputato 5 Stelle, travolto poi da un fiume di commenti negativi. Diciamocelo chiaramente: una bella figura di m**da.

L’ordine di cavalleria tra i grillini ora è "indietro tutta". Anche Giuseppe Conte si smarca e ai microfoni de Le Iene, il programma di Italia uno, incalzato dalle domande di Filippo Roma dice: "Non siamo riusciti a bloccare la determina". Una sciocchezza! La verità vera e che molti parlamentari, soprattutto i grillini, pensavano che la notizia passasse inosservata. In sordina. Speravano che nessuno se ne accorgesse. A confermarlo anche l’ex parlamentare ed ex grillino Sergio Battelli che raggiungiamo al telefono.

Con quale coraggio Giuseppi può scendere in piazza per difendere il reddito di cittadinanza se poi lui e i suoi parlamentari spendono 5.500 euro per comprarsi il telefonino? Ed è proprio per queste ragioni che l’avvocato del popolo oggi, dopo il fiume di indignazione, dice: "Facciamo un gesto simbolico per le scuole che sono senza dotazioni. Sono disponibile a spendere i 5.500 euro che mi spettano da deputato per comprare tablet e computer per le scuole". Insomma, una bella pezza.

L’autoproclamato avvocato del popolo è andato in cortocircuito. Da un lato la difesa dei più deboli, dall’alto quella della casta. Chissà se scenderanno in piazza per protestare (magari a Montecitorio) anche i suoi parlamentari. Già immagino il coro: "non toglieteci il bonus, non toglieteci il bonus". Ora vedremo in quanti di loro regaleranno tablet e pc alle scuole. Chiaramente senza piangere.

Da premier a Masaniello. Da Premier a Masaniello. Magari Giuseppe Conte lo considererà un titolo di merito ma è solo la conferma che il suo ruolo istituzionale è sempre stato, mi scuso dell'espressione magari irrispettosa, uno scherzo. Augusto Minzolini il 3 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Da Premier a Masaniello. Magari Giuseppe Conte lo considererà un titolo di merito ma è solo la conferma che il suo ruolo istituzionale è sempre stato, mi scuso dell'espressione magari irrispettosa, uno scherzo. Il gioco è vecchio come il cucco. Dice il leader dei 5stelle per motivare la sua opposizione alla manovra del governo: «Temo disordini e tensione nelle piazze per cui noi saremo in piazza per canalizzare in una misura politica la disperazione della gente». Da che mondo è mondo è il vademecum dei leader populisti, di ogni colore e di ogni religione che a volte sfiora il ridicolo e trasuda di ipocrisia. Che significa andare in piazza per fermare la piazza? Meglio sarebbe dire: vado in piazza per speculare politicamente sulla piazza e soffiare sul fuoco della disperazione.

Quello che più stride, però, e differenzia Conte da altri leader populisti, è l'impossibile compito di coniugare il suo trascorso di Premier con il suo nuovo ruolo di agitapopolo, che usa la protesta come minaccia. Beppe Grillo lo ha fatto ma non è mai stato un inquilino di Palazzo Chigi. Conte, invece, è stato il presidente del consiglio di questo Paese e vederlo nella piazza di Scampia, il quartiere dove c'è il più alto tasso di fruitori del reddito di cittadinanza e dove i 5stelle hanno avuto il 64% alle ultime elezioni in ossequio ad una sorta di voto di «scambio» tra questa rendita statale e il consenso, fa una certa impressione. Ma in fondo l'ex-premier va ammirato perché dimostra una grande capacità di recitazione: Conte si è trasformato nello Zelig della politica italiana, può interpretare dieci personaggi insieme o come un grande attore può calarsi nel ruolo del protagonista e del suo contrario, può essere Achille o Ettore, oppure Achab o Moby Dick, ancora Arlecchino o Pantalone.

La sua fantasia non ha limiti. Del resto la distanza che divide nello spirito, nel modo di agire e di pensare un avvocato d'affari e il leader dei 5stelle dovrebbe essere sulla carta incolmabile. Invece, il nostro è riuscito a reinventarsi: anzi alla fine ha intortato prima quello che è stato l'ideatore del reddito di cittadinanza e si era guadagnato nei 5stelle il ruolo di leader, Giggino Di Maio, che è sparito dal Parlamento; e poi lo stesso fondatore, l'Elevato, l'uomo che ha addirittura dato il suo nome al movimento. Come un furbo avvocato d'affari si è assicurato i grillini quando erano ridotti alla stregua di una società in fallimento e che stava portando i libri al tribunale della politica e li ha rilevati assegnandogli un nuovo ruolo. E addirittura ora esercita una sorta di egemonia senza aver mai letto Gramsci, su quella parte del Pd che proviene dal glorioso partito comunista. Che dire, un genio. Un genio del male. Che nella sua scaltrezza può anche far male al Paese. Come, appunto, quel Masaniello che fu leader della rivolta di piazza a Napoli. E vittima.

Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 29 novembre 2022.

Caro Merlo, è vero che Conte è sempre stato una finzione, maestro di quel linguaggio che lei definì "quasico", ma questa volta nega che fosse un condono la legge che si chiamava condono. Non è troppo anche per l'inventore dell'interlocuzione pretermessa? Avrebbe potuto dire che ha cambiato idea o, come nel caso dei decreti Salvini sulla sicurezza, scaricare la responsabilità sugli altri che votarono il condono insieme ai 5 Stelle.

Lega e Fratelli d'Italia. No, ha detto che il condono non era condono. Com' è possibile che a sinistra continui a crescere nei consensi? Loretta Dini - Lucca 

Risposta di Francesco Merlo

In soli 5 anni Conte ha servito tutti i padroni, dall'estrema destra sino al finto pacifismo putiniano. E ora è "il compagno". Più ancora che il Mélenchon italiano, si sente il nuovo Berlinguer, il leader naturale della sinistra.

Insomma, il professore con il curriculum quasi vero ha già dimostrato mille volte che la sua identità consiste nel non avere identità. E tuttavia cresce nei consensi forse perché, avendo in testa tutte le opinioni, di volta in volta esibisce quella "giusta", quella cioè che il suo interlocutore vuol sentire. Il fenomeno non è più Conte, ma quella parte di sinistra che è talmente sbandata da credergli. 

Solo quando il bugiardo si mette in sintonia con il credulone viene fuori il prodigio dell'imbonimento. Così Totò riusciva a vendere la Fontana di Trevi perché la offriva alle persone giuste. Certo, come Totò anche Conte è costretto a ricorrere a formule comiche (la famosa "quasità" appunto), che gli permettono di stare dove non sta e di non stare dove sta.

 L'interlocuzione pretermessa sembrava insuperabile ma, aumentando le dosi di "è vero anche il contrario", Conte è arrivato a negare se stesso. E, sull'abusivismo, "condono" è diventato "non perdono". È troppo? Speriamo che il Pd non compri la fontana.

Sinistra ipocrisia. Il vero scandalo è il condono di Conte (non quello fatto da lui, quello fatto su di lui). Francesco Cundari su L’Inkiesta il 29 Novembre 2022.

Nessuna ricostruzione del Pd sarà possibile finché dirigenti e intellettuali non si decideranno a lottare seriamente contro l’abusivismo politico di chi ha indebitamente occupato il campo progressista

Come dimostrano le sue ampollose argomentazioni per convincerci che il condono da lui varato non era un condono, che la politica dei porti chiusi e dei decreti sicurezza del suo governo non aveva niente a che fare con la politica dei porti chiusi e dei decreti rave del governo attuale, che si poteva benissimo esultare per la liberazione di Kherson da parte della resistenza ucraina un minuto dopo aver chiesto di interrompere la fornitura di armi alla resistenza ucraina, su Giuseppe Conte non c’è più niente da dimostrare.

Niente, perlomeno, che non fosse chiaro fin dal primissimo apparire sulla scena politica di un uomo capace di dirsi pubblicamente populista e sovranista nel 2018, ma cattolico-democratico e progressista nel 2019, in perfetta coincidenza con il variare delle maggioranze parlamentari dei suoi due governi, e tutto questo senza tradire il minimo imbarazzo, anzi, con la stessa nonchalance con cui oggi accusa Giorgia Meloni di avere fatto «un’opposizione di comodo» a un governo da lui sostenuto e di cui il Movimento 5 stelle faceva parte. C’è veramente poco da aggiungere alle sue parole, tanto più nel momento in cui il leader dei Cinquestelle, a proposito delle polemiche sul terremoto di Ischia, ha persino il coraggio di parlare di «sciacallaggio» contro di lui.

Questo sommario e assai carente riepilogo non serve ad altro che a ribadire un’ovvietà, e cioè che il condono di Conte è imperdonabile, ma non quello fatto da lui. Quello fatto su di lui.

Non c’è manifesto dei valori, carta dei principi, fase costituente che tenga, fino a quando nel Partito democratico non si avrà il coraggio di denunciare apertamente l’abusivismo politico del Movimento 5 stelle, fino a quando dirigenti e intellettuali non si decideranno a liberare la strada di una possibile sinistra di governo dalle pericolanti costruzioni grilline, che nessuna sanatoria e nessun super bonus potrà mai rendere abitabili per una politica autenticamente progressista.

Dai condoni al reddito di cittadinanza, dal superbonus alla battaglia contro i termovalorizzatori, l’esito effettivo di quelle politiche è stato il più grande incentivo alla corruzione, alla deresponsabilizzazione, al degrado urbano e ambientale, alla truffa, al lavoro nero e all’economia illegale che si sia mai visto da almeno trent’anni a questa parte (a tenersi bassi). Un esito tanto più intollerabile perché prodotto da chi nel frattempo avvelenava il dibattito pubblico con campagne giustizialiste e anti-istituzionali, con vere e proprie campagne di odio online e offline, da quella sul caso Bibbiano a quella sul crollo del ponte Morandi (a proposito di «sciacallaggio»).

Tutto questo non è riformabile, non è migliorabile, non è un problema tecnico di questa o quella norma. Una misura che si chiama «reddito di inclusione» è riformabile, una misura che si chiama «reddito di cittadinanza», che come tale è stata propagandata e imposta, no. E continuare a far finta di non vedere il gigantesco problema di lavoro sommerso, distorsione della concorrenza e degrado alimentati da quelle norme e da quella retorica, nascondendosi dietro le tante famiglie povere che ovviamente vanno sostenute, dietro le tante famiglie cui il bonus fa comodo e i tanti cantieri che così sono ripartiti, non significa solo compromettere il futuro dell’Italia e in particolare del sud, ma anche quello della sinistra.

Ed è ancora niente in confronto al significato politico e morale della campagna grillina per il ritiro del sostegno militare all’Ucraina. Un cedimento dei riformisti del Pd anche su questo terreno sarebbe davvero l’ultima e definitiva abiura di una storia certo piena di errori e contraddizioni, ma che era ancora e nonostante tutto una storia dotata di senso, che descriveva un’evoluzione, un percorso in cui le tradizioni della sinistra post-comunista e post-democristiana si incontravano con il socialismo democratico e trovavano infine nel Partito del socialismo europeo la loro naturale collocazione.

Nessuna regressione è più grave e irrimediabile del ritorno alla peggiore demagogia di un tempo, ma senza nemmeno le radici autenticamente popolari di allora, sostituendo la radicalità della lotta di classe con il peronismo casalinista di chi pretendeva di governare in diretta Facebook, ovviamente dalla sua pagina personale, persino nel pieno di una pandemia (sempre a proposito di «sciacallaggio»).

Se davvero i dirigenti del Partito democratico vogliono costruire qualcosa di nuovo, a sinistra, per prima cosa dovranno liberare il campo dai suoi occupanti abusivi.

Conte, altro che Robin Hood: col Superbonus 60 miliardi regalati ai più ricchi. Angela Azzaro su Il Riformista il 13 Novembre 2022

Quel gratuitamente, ripetuto in campagna elettorale da Giuseppe Conte come un mantra, è stato quantificato. Il Superbonus al 110%, modificato dal decreto Aiuti quater, è costato 60 miliardi di euro. E lo abbiamo pagato noi. Una cifra spropositata anche perché, come ha spiegato ieri il ministro del Mef, Giancarlo Giorgetti, questi soldi, che hanno creato un buco di 38 miliardi, sono andati ai più ricchi, cioè l’1,5% della popolazione. Nel decreto Aiuti 4 la misura viene portata al 90% e viene ancorata al reddito.

L’Associazione dei costruttori edili ha protestato perché – dicono – cambiando le regole in 15 giorni (data entro cui si possono espletare le pratiche con il bonus al 110) andrebbero penalizzati proprio i condomini meno ricchi che ci hanno messo più tempo a raggiungere l’obiettivo. Una cosa è certa: quel meccanismo non ha funzionato, è stato un boomerang dal punto di vista economico favorendo chi ha di più. Con effetti politici anche importanti: una campagna elettorale di Conte fondata su due misure: da una parte il Superbonus, dall’altra il reddito di cittadinanza. Misure che in realtà parlano un linguaggio opposto: da una parte un regalo ai ricchi, dall’altra una misura di welfare che andrebbe non tagliata ma migliorata. Il contrasto tra queste due norme la dice lunga sulla confusione politica di Conte e dei 5 stelle che tutto sono fuorché il futuro della sinistra.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografico

Dagospia il 7 novembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo:

Per Selvaggia Lucarelli “qualcosa  non torna sul caso di Carlotta Rossignoli” e fa molto bene a indagare. Le suggerirei di metterci poi altrettanta meritoria acribia nell’indagare, però, come il suo già apprezzato (quando era a “il Fatto”) Giuseppe Conte passò tra il 1998 e il 2002 da Cultore della materia a Docente ordinario, una scalata in quattro anni mai riuscita ad alcuno.

Certo, stiamo parlando dell’Einstein del diritto, ma non si è mai visto che si passi da cultore a ricercatore (1998), da ricercatore a associato (2000), da associato a ordinario (2002) nei tempi minimi di legge (due anni ogni volta e da verificare nelle scadenze) e, più o meno, con le stesse pubblicazioni “scientifiche”! 

Qualcuno rileva che nel 2002 – nel mentre all’università Luigi Vanvitelli di Salerno si teneva il concorso che dà la carica di ordinario a Conte – Guido Alpa, presidente di commissione, condivideva con il suo pupillo Conte la stessa sede di lavoro in via Sardegna, a Roma. Qui c’è solo quel piccolo problema, che le università non concedono l’accesso agli atti dei concorsi…Un lettore

Quello che i grillini e Selvaggia Lucarelli non commentano. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Novembre 2022.

Spiegate a Selvaggia Lucarelli ed ai suoi vecchi "amichetti" del Fatto Quotidiano, come si fanno le inchieste. Rocco Casalino, almeno ha una scusante: viene pagato per mentire !

Riceviamo da un lettore una segnalazione che volentieri pubblichiamo:

“Per Selvaggia Lucarelli “qualcosa  non torna sul caso di Carlotta Rossignoli” e fa molto bene a indagare. Le suggerirei di metterci poi altrettanta meritoria acribia nell’indagare, però, come il suo già apprezzato (quando era a “il Fatto Quotidiano”) Giuseppe Conte passò tra il 1998 e il 2002 da “Cultore della materia” a Docente ordinario, una scalata in quattro anni mai riuscita ad alcuno.

Certo, stiamo parlando dell’Einstein del diritto, ma non si è mai visto che si passi da cultore a ricercatore (1998), da ricercatore a associato (2000), da associato a ordinario (2002) nei tempi minimi di legge (due anni ogni volta e da verificare nelle scadenze) e, più o meno, con le stesse pubblicazioni “scientifiche”!

Qualcuno rileva che nel 2002 nel mentre all’università Luigi Vanvitelli di Salerno si teneva il concorso che dà la carica di ordinario a Conte , il professor Guido Alpa, presidente di commissione, condivideva con il suo pupillo “Giuseppi” Conte la stessa sede di lavoro in via Sardegna, a Roma. E qui c’è solo quel piccolo problema, che le università non concedono l’accesso agli atti dei concorsi…

Sul caso Conte-Alpa per fortuna avevano indagato giornalisti veri e seri come Maurizio Belpietro direttore del quotidiano La Verità, ed i servizi televisivi su Le Iene realizzati dagli inviati Antonino Monteleone e Marco Occhipinti. Belpietro lo ha inserito in un suo libro dato alle stampe, “Giuseppe Conte il trasformista”, nel quale racconta i presunti “scivoloni”, privati e politici, dell’ex premier che si auto-definiva “avvocato del popolo italiano”.    

A Maurizio Belpietro che lo intervistava per il suo libro, Conte, dopo avere ripetuto che in realtà il professor Guido Alpa non è stato il suo maestro, ribadiva un leitmotiv già più volte espresso a Le Iene: “Tra noi non c’è mai stata un’associazione né formale né neppure di fatto. Non ci dividevamo i proventi. Eravamo solo coinquilini”. Un concetto che ha ribadito più volte: “Non si è trattato di una collaborazione professionale”. Il presidente del M5S dopo avere ammesso di avere un po’ “infiocchettato” il suo curriculum vitae, è costretto a tornare sul concorso universitario di Caserta, con il quale nel 2002 fu nominato professore ordinario di diritto privato.

Maurizio Belpietro nel suo libro-intervista lo incalzava e gli faceva notare che proprio Guido Alpa, sentito sul suo ruolo di esaminatore al concorso, avrebbe affermato di “essere stato sorteggiato per quel ruolo“. Una dichiarazione però che il giornalista smentisce seccamente: “Le carte che abbiamo consultato smentiscono Alpa, in realtà venne eletto con un plebiscito: 54 voti”.

Conte contrattaccava: “Quanti voti servivano per diventare professore ordinario? Tre su cinque. E io quanti ne ho presi? Cinque. Dunque voi avete un concorso che nel 2002 ha designato ordinario questo fessacchiotto, oggi presidente del Consiglio. E Guido Alpa non era nemmeno a capo della Commissione…”. Una posizione sposata anche da Rocco Casalino, portavoce e capo ufficio stampa di Giuseppe Conte, che ha provato ad intervenire in sua difesa: “Anche senza il voto di Alpa, Conte avrebbe vinto comunque il concorso”.

Una vicenda che non sembra ancora volersi esaurire, quella del concorso universitario del 2002 a Caserta. Parliamo del concorso che aveva nominato Giuseppe Conte professore ordinario di diritto privato, subito dopo una causa civile nella quale lui e il suo esaminatore, Guido Alpa, hanno lavorato insieme. Ci siamo chiesti se il professore che l’ha giudicato e promosso al concorso era incompatibile, sulla base della loro collaborazione professionale con l’esaminato.

Le Iene avevano mostrato un documento esclusivo, che sembrava mettere in crisi la ricostruzione che Giuseppe Conte aveva dato suoi rapporti professionali con Guido Alpa, del fatto che avessero fatturato ognuno per proprio conto riguardo a quell’incarico ricevuto dal Garante per la Privacy, conferito insieme agli avvocati Conte e Alpa e che quindi quest’ultimo fosse per legge incompatibile nel suo ruolo di esaminatore al concorso.

E’ stato pubblicato anche il progetto di parcella per la causa civile del 2002 nella quale il premier Conte e il professor Alpa difesero il Garante per la Privacy. Un progetto su carta intestata a entrambi gli avvocati, con la richiesta di pagamento dell’intera cifra di 26.830,15 euro su un unico conto corrente intestato ad Alpa di una filiale di Genova di Banca Intesa. Ed il tutto con la firma di entrambi.

I due giornalisti del programma “Le Iene” Antonino Monteleone e Marco Occhipinti si erano chiesti il motivo di mandare un’unica lettera ai due professionisti se, come ha sempre sostenuto Giuseppe Conte, “si trattava di due incarichi distinti e non c’era un’associazione né di diritto né di fatto e soprattutto se quell’incarico fu pagato con due fatture separate”.

Giuseppe Conte, nel corso di una tesissima conferenza stampa, aveva ribadito la sua posizione, rivolgendosi alla Iena: “Se lei si è procurato la lettera di conferimento dell’incarico e ha visto che l’incarico è stato conferito ad Alpa e a Conte… abbiamo sviscerato che un collegio difensivo può essere composto anche da venti avvocati nel civile… Se l’incarico mi è stato conferito dal Garante e io non mi faccio pagare come in questo caso perché ritengo di aver svolto attività difensiva non di rilievo, evidentemente non me la sono sentita di fatturare essendo il Garante un ente pubblico. Lei stesso si è fatto dire dal Garante che anche qualche altra volta, dove sono io solo nel collegio difensivo, non mi sono fatto pagare”.

Le Iene avevano proseguito nella loto inchiesta, mostrando in televisione i verbali di 5 udienze di quel processo al tribunale civile di Roma, da cui si evinceva che Conte partecipò quasi sempre, mentre Guido Alpa quelle 5 udienze le saltò tutte. È legittimo quindi pensare al “dominus” di studio (Alpa) che manda a udienza il suo “giovane allievo” (Conte) ? E’ stato pubblicato anche un altro documento, che con maggiore forza sembrerebbe smentire la versione di Conte sul pagamento delle sue spettanze nel primo grado di quel processo.

Si tratta della seconda parte del progetto di parcella firmato da Alpa e da Conte, in cui compare la lista delle prestazioni che i due professionisti indicano come svolte e che chiedono all’autorità di pagare su un unico conto corrente. Nella lista delle prestazioni da fatturare sono indicate le voci che riguardano sicuramente anche il lavoro svolto da chi ha partecipato alle udienze, quindi come detto, presumibilmente da Giuseppe Conte.

Nell’elenco compariva la partecipazione alle udienze dal valore di 416 euro, la precisazione conclusioni, stimata 103 euro, l’assistenza all’udienza conteggiata per 2.160 euro e la discussione in pubblica udienza valutata 1.392,50. Che in generale si tratti di prestazioni attribuibili anche da Giuseppe Conte sembra certificato dal fatto che c’è la sua firma sul progetto di parcella. Perché mai dunque, ci chiediamo, l’avvocato Conte avrebbe dovuto firmare un documento con l’elenco delle prestazioni fornite da un altro avvocato, se lui con quelle prestazioni non aveva niente a che fare ?

Per verificare il vero significato di queste carte, gli inviati delle Iene le hanno portate al vaglio di Corrado Ferriani, commercialista e docente di diritto penale dell’economia, che le aveva così commentate: “Si tratta di un classico progetto di parcella, un documento tipico dei professionisti che viene emesso nei confronti del cliente per chiarire alla fine di una prestazione l’attività svolta, i soggetti che l’hanno svolta ed evidentemente gli estremi per il pagamento della successiva fattura che sarà emessa nel momento del pagamento. È ovvio che chi emette un avviso di parcella, deve necessariamente aver svolto una prestazione, in questo caso evidentemente due soggetti. Questo documento sta dicendo all’autorità che i due professionisti che hanno emesso la nota proforma hanno svolto le prestazioni indicate nell’oggetto e nella fattispecie sono quelle chiaramente indicate per onorari e diritti complessivi per 21.920 euro”.

Le stesse carte vennero mostrate anche a un professore di diritto civile, Roberto Calvo, che spiegò le informazioni che aveva ricavato dalla loro lettura: “Ricavo l’informazione che è stato conferito un mandato da parte dell’autorità garante ai due professori, per una causa civile. Poi c’è un progetto di parcella firmato da entrambi. È un incarico congiuntivo, quindi un incarico conferito da due professionisti per un identico oggetto. Da lì arriva un rapporto contrattuale da cui può nascere un rapporto di debito e credito con il conferente quindi il garante con la pubblica amministrazione, parlo di debito nel senso che può anche nascere in astratto una responsabilità del professionista”.

Ed aggiunse: “I professionisti stanno dicendo al cliente che hanno operato congiuntamente e hanno agito come se fosse stato conferito un mandato congiuntivo alla difesa oggetto di questa vicenda. I professionisti in questione chiedono al cliente il pagamento di un incarico conferito collettivamente, come ho detto prima”. L’inviato Antonino Monteleone gli fece una domanda secca: “Se lei fosse il garante capirebbe da questo documento che Conte rinuncia ai compensi?”. La risposta fu altrettanto secca: “Evidentemente no”. Secondo il professor Calvo dunque dai documenti a firma Alpa-Conte non si evinceva alcuna rinuncia da parte di Conte affinché i suoi compensi non siano pagati, ma anzi sembrerebbe che l’indicazione sia di girarli direttamente sul conto indicato nel progetto di parcella.

“Quindi lei mi sta dicendo con questa lettera di incarico del garante che è di gennaio 2002, automaticamente il commissario Alpa diventa incompatibile al concorso di luglio?”, chiedeva ancora la Iena. “Io non voglio insegnare ad Alpa nulla, dico solo che a mio modo di vedere è sufficiente, come per altro dice la giurisprudenza amministrativa, che vi sia un rapporto professionale da cui nasca un rapporto da cui poi possono derivare rapporti, vicende di debito e credito verso il cliente, ma anche verso i singoli professionisti… In astratto eh, sia chiaro”.

Monteleone insistette: “Quindi quando Conte dice ‘io ho deciso di rinunciare ai miei compensi’, rinuncia a beneficio del garante o a beneficio dell’avvocato Alpa?”. “La seconda ipotesi”. La Iena chiese ancora: “Dire che l’avvocato giudicato abbia lavorato gratis per l’avvocato giudicante è un’affermazione fuori dalla realtà?” La risposta fu molto chiara: “È un’affermazione che quanto meno è smentita dai documenti che io vedo. Io naturalmente non posso giudicare i propositi, giudico i documenti e dai documenti risulta che entrambi hanno preteso, come legittimo e doveroso, perché parliamo di attimi legittimi e doverosi sia chiaro…”.

Un’ultima domanda: “Conte dice, più volte, mi ha detto Conte: ‘Lei è fuori di testa, lei è fuori di testa perché continua a insistere su una cosa che non esiste’. E la cosa che secondo Conte non esiste è che non è mai esistito conflitto tra lui esaminato a Caserta e Alpa membro della commissione che lo giudicava. Sono io fuori di testa professore?”. “Assolutamente no, il conflitto nasce nel momento in cui è stato conferito ad entrambi questo incarico, da cui nasce un rapporto professionale”.

L’inviato Monteleone tornò dal premier Giuseppe Conte, che ribadisce più volte che il concorso non è stato assolutamente viziato. “Lei, Monteleone, si può incaponire… ma non cambia il fatto come voi dovete dimostrare una cointeressenza economica nel 2002… Le confesso che ho chiesto al commercialista: ‘Trovami la fattura del 2002 del primo grado’. Questa sua teoria significherebbe che si creerebbero incompatibilità in tutto il mondo legale perché nei collegi difensivi spesso ci si ritrova più avvocati. Il fatto di essere in collegio difensivo con un altro avvocato se abbiamo un mandato dallo stesso cliente non crea un’incompatibilità, uno. Lei ritiene di accreditare ai telespettatori, secondo lei, che io nel 2002 ho avuto un vantaggio indebito da Alpa che era ininfluente, perché bastavano tre commissari e invece è stata l’unanimità su cinque. Quindi vincerebbe qualsiasi prova di resistenza davanti ai giudici, vorrebbe accreditare il fatto che avrei aspettato il 2009 per sdebitarmi nei confronti di Alpa, ma questa è follia”.

E aggiungeva: “Diciamo che io ho avuto rispetto nei confronti del Garante perché potevo fatturare per mio conto. Nel secondo grado, nel terzo grado, le sue indagini hanno dimostrato che io ho fatturato… e quindi ho fatto la fattura separata e Alpa ha fatto… In primo grado essendo stato il mio apporto difensivo marginale ho inteso, per rispetto di un ente pubblico, all’epoca c’era Rodotà vorrei ricordare… lei non vuole chiarire ai telespettatori… non vuole che io risponda: posso? Le ho spiegato questo, credo, che migliaia di avvocati che ha sentito le avranno spiegato che nel processo civile la magna pars, gran parte dell’attività difensiva è scritta, le memorie scritte, studiare la controversia, studiare, questa è una causa molto delicata”. Monteleone gli chiede ancora: “Ma se era molto delicata perché ha dato un apporto marginale..”, e Conte: “Mi fa finire? È terribile, ascolti Monteleone, mi faccia finire, poi giudicherà il popolo…”. (Cliccate qui per vedere l”intervista integrale di Antonino Monteleone a Giuseppe Conte)

Antonino Monteleone e Marco Occhipinti a quel punto decisero di sentire proprio Raffaele Cantone, all’epoca presidente dell’ Anac, per cercare di fare chiarezza una volta per tutte. Monteleone chiese: “La chiamavo perché sto cercando di capire se l’autorità quando ai tempi in cui lei era presidente fu formalmente incaricata di esprimere un parere sulla questione del concorso dell’avvocato Conte prima di diventare Presidente del Consiglio”. Raffaele Cantone rispose così: “Sì, ci fu un esposto, mi pare di un’associazione di consumatori. Noi facemmo un intervento di carattere procedurale, dicemmo che in realtà si trattava di una vicenda non recente per i quali il nostro intervento di qualunque tipo sarebbe stato irrilevante visto che nei confronti di quel concorso nessun atto amministrativo poteva essere fatto”.

Sembra quindi più che evidente, almeno sulla base delle parole di Cantone e al documento esclusivo che le Iene mandarono in onda, che Giuseppe Conte non avrebbe detto il vero quando ha affermato che l’Anac si era pronunciata “escludendo la comunanza di interessi economici”. Monteleone proseguì: “Lei fece anche un’intervista a Radio Capital nell’ottobre del 2018, nella quale disse ‘effettivamente è plausibile la spiegazione del presidente Conte, se è vero come lui sostiene che hanno, emesso fatture separate per l’incarico del 2002’”.

“Io avevo detto semplicemente che mi sembrava plausibile la spiegazione che aveva dato”, aggiunge Cantone. Montaleone lo incalzava: “L’unica cosa che volevo capire è se due professionisti che usano una carta intestata comune che firmano entrambi un progetto di parcella possono definirsi due professionisti che svolgono incarichi distinti e separati”. La risposta di Raffaele Cantone fu assolutamente inequivocabile: “Certamente i fatti emersi sono diversi da quelli che erano stati rappresentati all’epoca, però io non me la sento di esprimere un giudizio. L’unica cosa che mi sento di dirle è che ovviamente rispetto alla situazioni che io vissi all’epoca le cose sono cambiate, quindi all’epoca lui aveva dato una giustificazione. Oggi le cose sono cambiate”.

Spiegate a Selvaggia Lucarelli ed ai suoi vecchi “amichetti” del Fatto Quotidiano, come si fanno le inchieste. Rocco Casalino, almeno ha una scusante: viene pagato per mentire ! Redazione CdG 1947

Niccolò Carratelli per “La Stampa” l’8 novembre 2022.

Ci ha messo diversi giorni, Giuseppe Conte. Giorni di silenzio assoluto, mentre a centinaia di migranti, soccorsi nel Mediterraneo, veniva impedito di approdare in Sicilia. Non una parola nemmeno di fronte allo sbarco selettivo andato in scena nel porto di Catania, né davanti alla definizione di «carico residuale» per le persone costrette a restare a bordo. 

L'assenza di reazioni da parte di esponenti del Movimento 5 stelle non è passata inosservata, sui social in molti hanno preso di mira il presidente, che alla fine è intervenuto con un lungo post su Facebook. Per dire che «il tema dei flussi migratori è complesso e va affrontato con politiche di ampio respiro, senza facili slogan o esibizioni muscolari a danno di persone e famiglie disperate». 

Giusto, ma stava ancora finendo di scrivere, che già in dieci si erano affrettati a rinfacciargli la stagione dei decreti sicurezza, firmati da presidente del Consiglio, e dei porti chiusi all'epoca del governo gialloverde, senza che lui riuscisse a opporsi a Matteo Salvini. Una macchia che l'ex premier non può cancellare, il suo principale tallone d'Achille nel tentare di accreditarsi come nuovo leader della sinistra. Qualunque cosa dica, rischia di suonare stonata.

«Il diritto di ogni Stato sovrano a controllare i propri confini non giustifica la violazione delle molteplici norme di diritto internazionale che tutelano la dignità di ogni essere umano - avverte ancora su Facebook -. Trattenere in mare per alcuni giorni in più donne, uomini e minori, comunque destinati a sbarcare, non risolve il problema: evitiamo iniziative di pura propaganda».

Scatta il riflesso pavloviano: e la Open Arms? E la Diciotti? E la Gregoretti? Il vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano, che al porto di Catania è andato di persona, ha l'occasione per affondare il colpo: «Mi hanno colpito il silenzio e l'attesa di Conte nell'esprimere un'opinione su una vicenda che riguarda i valori e i principi fondamentali di una forza progressista - dice -. Il Pd è stato lì dal primo momento, bisogna essere coerenti quando ci si dichiara progressisti».

Quando Conte (da premier) vendeva al Cairo armi e navi da guerra: sui casi Regeni e Zaki il silenzio del leader M5S. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Il record dell’ex capo del governo, che incrementò al massimo i fondi per la Difesa e ora scende in piazza con i pacifisti. Mentre dal Pd criticano Meloni per l’incontro con Al Sisi, ma al governo appoggiarono le scelte di Conte

Il colloquio tra la premier italiana e il presidente egiziano è stato criticato da quasi tutte le forze di opposizione, che hanno contestato a Meloni una forma di appeasement con Al Sisi nonostante pesino nei rapporti tra i due Paesi l’omicidio Regeni e il caso Zaki. L’altro ieri il leader di Sinistra italiana Fratoianni e il portavoce di Europa Verde Bonelli hanno additato «l’indecente incontro» di Sharm el Sheik. E ieri il Pd ha attaccato con alcuni suoi dirigenti l’inquilina di Palazzo Chigi: la capogruppo del Senato Malpezzi, l’ex presidente della Camera Boldrini, il coordinatore dei sindaci Ricci e l’europarlamentare Moretti le hanno chiesto polemicamente «che fine ha fatto la dignità della nazione» e l’hanno accusata di aver «barattato i diritti umani con la ragion di Stato». La tesi comune è che, in nome degli approvvigionamenti energetici e delle commesse militari, sia stata archiviata la drammatica fine del giovane ricercatore italiano.

Il punto è che quella vicenda era stata di fatto messa tra parentesi già dai governi Conte. Il primo — alleato della Lega — aveva deciso di vendere armamenti per quattro miliardi di euro ad Al Sisi. Il secondo — alleato del Pd — aveva completato il passaggio all’Egitto di due delle sei fregate Fremm, che facevano parte di una commessa in cui erano compresi 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter, 20 velivoli di addestramento e un satellite. Non è un caso quindi se nella girandola di dichiarazioni contro Meloni sia mancata la voce del leader grillino, che oggi veste i panni del pacifista e avvisa la premier di non «azzardarsi» a inviare altre armi a Kiev «senza passare dal Parlamento». Ma che due anni fa venne contestato dalle organizzazioni pacifiste per aver ceduto le navi da guerra all’Egitto «con una decisione che non è mai stata sottoposta all’esame del Parlamento».

Il Pd avrebbe dovuto rammentare la compartecipazione alla scelta, se è vero che in Consiglio dei ministri nessuno dei suoi rappresentanti mosse obiezione. Dunque è un po’ contraddittorio il ricordo di Malpezzi, secondo la quale «i nostri governi si erano battuti per ottenere trasparenza e chiarezza» sui casi Regeni e Zaki. E cadde nel vuoto l’appello attuale di Boldrini di «fermare il commercio di armi» con il Cairo. Forse perché a quei tempi — per usare le parole odierne di Moretti — «gli interessi commerciali» pesarono «più del rispetto dei diritti umani». E chissà se anche allora a Ricci fece «male vedere un esecutivo freddo» come quello retto da Meloni.

Prudentemente Conte e i dirigenti del Movimento non hanno preso parte alla polemica sul vertice di Sharm el Sheik. Hanno preferito sfilare alla marcia per la pace, magari anche per sbianchettare il passato dell’ex premier, che ai tempi del gabinetto giallorosso decise — dopo le sollecitazioni di Trump — il maggior incremento di investimenti della storia repubblicana nel settore della Difesa. Se così stanno le cose, non si capisce come mai il dem Bettini — che di Conte è un sostenitore — nell’intervista di ieri al Corriere abbia detto: «Bisogna ridefinire la nostra identità. Dobbiamo stare con l’elmetto della Nato?». Una stilettata, non si sa quanto involontaria, contro la linea di Letta (e Guerini) coerentemente filo-atlantica e a sostegno di Kiev.

Insomma della tragica sorte di Regeni e delle vicissitudini giudiziarie di Zaki non c’è finora traccia tra le dichiarazioni dei grillini. Eppure da presidente della Camera Fico aveva addirittura sospeso le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano, in segno di protesta verso il regime del Cairo. Era il novembre 2018. «Su Regeni saremo inflessibili fino alla verità», commentò Conte. Che un anno e mezzo dopo annunciò in Consiglio dei ministri la vendita delle fregate Fremm ad Al Sisi. «La vendita non è stata ancora autorizzata», ribattè per tamponare le polemiche. Poi firmò però la fattura. In fondo, piazzare navi da guerra in giro per il mondo è una propensione che lo accomuna ad alcuni suoi amici di sinistra, diciamo.

Il genio del cv taroccato. Conte e quello slogan della dittatura militare attribuito a Jorge Amado. Michele Prospero su Il Riformista il 6 Novembre 2022

Anche quando fa cose giuste, da ultimo il sostegno a Lula presidente, Conte ci mette quel tocco in più di creatività e finisce per combinare sempre una delle sue classiche frittate. È in atto una guerra piena di effetti speciali per conquistare l’egemonia. A chi la guida dell’opposizione, al Pd o al M5S? Non ha esitazioni Salvatore Cannavò, già deputato di Rifondazione Comunista e ora firma del giornale di Travaglio, un foglio politicamente vicino al movimento di Grillo e però sul piano culturale avente un’affinità sin troppo chiara con i temi caldi della destra radicale di Meloni, ribadita da ultimo dalla condivisa sensibilità sul mantenimento dell’ergastolo ostativo e dal giubilo per l’abbandono ideologico del paradigma scientista a supporto dell’obbligo vaccinale.

Prendendo spunto dal voto brasiliano di domenica scorsa, il giornalista elogia “Giuseppe Conte che è stato lesto ancora una volta a posizionare il Movimento 5 Stelle”. Suggestiva è tutta la narrazione dell’evento. Rispetto a Conte, scattante come una lepre, il Fatto rimarca che il Pd come una tartaruga non ha, per l’ennesima volta, esibito “altrettanta agilità e guarda distratto a quanto avviene al di là dell’atlantico”. Impressionato della velocità supersonica ormai raggiunta in ogni prestazione politica dall’avvocato-presidente, Cannavò riproduce per intero un suo tweet, che l’ex parlamentare deve trovare avvincente: “ ‘Il Brasile, amalo o lascialo’. Le parole del grande Jorge Amado alla vigilia del voto brasiliano, ci ricordano che la sfida di Lula per rilanciare equità, giustizia sociale e ambientalismo parla ai progressisti di tutto il mondo. Boa sorte! #Lulapresidente”.

Che Conte si schieri con la sinistra brasiliana non può che rallegrare. Appena qualche mese fa non disse mezza parola per il ballottaggio francese con l’Eliseo in palio tra Macron e Le Pen. E in precedenza aveva pure osannato la grande amicizia con Bolsonaro, culminata nell’esibizione esilarante dei suoi ministri Bonafede e Salvini in divisa a Ciampino per accogliere Battisti, con tanto di pubblicazione di un video-show musicale. Ora però che è iniziata la sua quarta vita, quella di capo progressista dell’opposizione, il leader del M5S deve mettere il cappello ovunque si accenni a qualcosa di sinistra o, come preferisce dire lui per evitare l’impegnativa parola, “progressista”.

Che Conte scomodi la figura di Amado per attribuirgli la paternità di uno slogan politico in realtà maledetto (creato proprio dalle milizie fasciste contro i rossi sovversivi e antipatriottici) ci può anche stare. Non appartiene ad una certa storia politica. Stupisce invece il fatto che Cannavò non trovi strana la genesi di una frase ambigua, e sul piano storico ispiratrice di una feroce repressione per le personalità con gli stessi ideali di Amado, un suo illustre “collega”, visto che anche il grande scrittore brasiliano è stato parlamentare comunista e per decenni militante del partito.

L’infausto slogan “Brasil, ame-o ou deixe-o”, che il duo infelicemente attribuisce al grande esule Jorge Amado, ha in realtà visto la luce proprio durante gli anni spietati della destra reazionaria brasiliana insediatasi con la violenza al governo. La frase divenne infatti una ideologia ufficiale del regime durante la cupa dittatura militare del generale Emílio Garrastazu Medici, che la copiò letteralmente da un manifesto anch’esso conservatore, dell’establishment americano, lanciato nel clima di piena ostilità contro i movimenti pacifisti sorti ai tempi del Vietnam: “USA, love or leave it”.

Un recente romanzo di Henrique Schneider (1970: La tragedia dei desaparecidos brasiliani durante la finale della Coppa del mondo, Hellnation book, 2022) aiuta a ricostruire la genesi e il significato politico terribile dello slogan che con Amado (una vittima dell’accanimento dei patrioti che amano il Brasile e allontanano i rossi che non lo adorano) c’entra ben poco. Un brano del libro rende bene il senso storico-politico della questione: “Allora perché non tifi? Lo sguardo del carceriere trasmetteva un obbligo. Raul si ricordò degli adesivi che aveva visto su alcune macchine, che aveva sempre trovato abbastanza privi di senso. Ma cosa rispondere all’uomo accanto a lui, che attendeva la risposta con uno sguardo simile a quelli che gli aveva lanciato durante le sessioni di tortura?”.

Raul era un mite impiegato di banca, al quale nella vita quotidiana piaceva solo il calcio, non si occupava di politica. Ma questo stile apatico non gli bastò per sfuggire alle grinfie del regime insediatosi con il golpe del 1964 e ossessionato dal rosso tanto da vedere i comunisti ovunque. Poco prima della attesa finale di Messico ’70, anche il placido Raul venne sbattuto in cella e a lungo seviziato perché appunto scambiato per un pericoloso comunista. Ecco, la dittatura del truce generale Medici aveva orchestrato una ossessiva campagna mediatica e propagandistica, con adesivi appiccicati su tutte le macchine, sopra i quali ben campeggiava la scritta incriminata: “Brasile, amalo o lascialo”. Il significato ideologico del motto è del tutto trasparente: chi sta con il regime militare rimanga in Brasile; chi invece si oppone lo abbandoni. Sottinteso: vivo o morto.

Ha un che di immorale, e per questo crea un immenso disagio, attribuire ad Amado, l’internazionalista fuggiasco, lo slogan nazionalista e repressivo dell’ “amalo o lascialo” (in prosa: “Chi non vive per servire il Brasile, non è idoneo a vivere in Brasile”). Il duo Cannavò-Conte, con le parole apocrife dello scrittore rosso, augura a Lula di vincere, ma si serve di uno slogan sanguinolento e nero che proprio il presidente ex militare suo avversario ha recuperato a fini repressivi 50 anni dopo. Incredibile, sarebbe stato come dare la solidarietà di Maduro alla sinistra contro Meloni con la formula augurale: “Vincere e vinceremo”. Il motto propagandistico-pubblicitario lanciato nel 1970, con la spesa di milioni di cruzeiros, fu poi raccolto nel 2018 e ampiamente riciclato nella Tv spazzatura del regime di Bolsonaro.

In uno dei programmi, la voce ufficiale dell’emittente, l’annunciatore Carlos Roberto, scandisce: “Brasil, ame-o ou deixe-o”. Tutto bene quel che finisce bene. I due, con l’augurio di vittoria rivolto a Lula accompagnato però dalle immagini di morte care al suo nemico neo-fascista, che l’avrebbe volentieri accompagnato all’abbandono, non hanno influito in negativo sul voto. Però a Conte si può raccomandare meno irruenza nella premeditata sostituzione del santino di Padre Pio con altre icone rosse che non conosce bene. E poi ha già troppi selfie imbarazzanti in giro e difficili da far dimenticare.

A Cannavò, che è agli inizi di un percorso di ricerca e quindi presta cieca fiducia ad un “lesto” docente ordinario, come consiglio benevolo si può prescrivere la lettura di alcune pagine (stupende) di Locke e di Kant. In particolare, quelle sulla necessità di non fidarsi di nessuna fonte, di controllare ogni informazione, di criticare ogni cosa e di vagliare qualsiasi argomento facendo funzionare sempre la propria testa. Insomma, un po’ di sano illuminismo: Sapere aude! Michele Prospero

Uno, nessuno e Giuseppi. Le mille maschere di Conte, che oggi vuole fare il Mélenchon italiano. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta l'1 Novembre 2022.

Il leader dei Cinquestelle non è un politico, ma un attore nei panni di un personaggio politico. E con inaspettata professionalità è in grado di interpretare ruoli anche molto diversi tra loro

C’è aria di sorpasso a sinistra. I sondaggi attribuiscono al Movimento 5 Stelle qualche decimale in più rispetto al Partito democratico.

Qualcuno potrebbe dire che nel 2018 il divario era ben più ampio di quanto si teme oggi. Ma occorrerebbe tener conto di una novità importante: nel 2018 i pentastellati erano un movimento qualunquista e manettaro, impastato di antipolitica aperto pertanto da tutti i lati; oggi sono un partito che si colloca (bene o male) alla sinistra del Partito democratico e che può vantare una dimensione politica ed elettorale senza precedenti in quel ruolo.

Nella storia del dopoguerra alla sinistra del partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer (come si scandiva una volta) e dei suoi malconci eredi, c’è sempre stato posto soltanto per modesti cascami della nostalgia, del folklore o delle mode. Peraltro l’indisponibilità di Giuseppe Conte a rappattumare i cocci di un’alleanza invero mai nata con i dem favorisce il loro logoramento, che, per quanto possano divenire spregiudicati alla ricerca del consenso, non potrebbero mai perdere del tutto la faccia nel fare concorrenza a Conte sul mercato della demagogia, anche in un contesto di opposizione.

Val la pena di porsi una domanda: esiste un caso Conte? Come è possibile che un avvocato venuto dal nulla in pochi anni sia stato in grado di fare tanta strada senza aver stipulato (a quanto si sa) nessun patto con il Maligno alla stregua del dottor Faust?

Riavvolgiamo la moviola. Conte diventa presidente del Consiglio nel ruolo di passacarte dei suoi vice. Frequentando Bruxelles deve telefonare ai suoi boss prima di ogni decisione; poi pian piano riesce a convincere i partner che lui è il meno peggiore di quella combriccola e loro fanno di necessità virtù consentendogli una possibilità di dialogo, approfittando della quale Conte riesce a mediare e a imporre la mediazione (nella legge di bilancio 2019) ai suoi giannizzeri. Oltre a farsi conoscere in giro per il mondo, da Angela Merkel a Donald Trump.

Quando poi Salvini va alla conquista dei pieni poteri, con un magistrale intervento al Senato gli toglie la sedia da sotto, e lo lascia fuori del governo al freddo e a battere i denti. Poi, come se dovesse cambiare dama in un altro giro di valzer, si propone per una nuova maggioranza e un nuovo governo, di segno opposto.

E si fa apprezzare a tal punto che quando un discolo come Matteo Renzi ne provoca la caduta, il Pd fa di tutto per rimetterlo in sella con un terzo mandato, fino a mettersi a spigolare tra i parlamentari senza collare un possibile plotone di ascari responsabili. All’ombra del governo Draghi Conte inizia la prise du pouvoir dentro il partito, mentre temporeggia di fronte alla proposta del campo largo di Enrico Letta.

Si libera di Luigi Di Maio, di Roberto Fico e di tanti altri soci fondatori; evita il possibile ritorno di Dibba e assume con regolare stipendio il garante Beppe Grillo. Poi diventa l’autore del regicidio (di Mario Draghi) tirandosi dietro mezzo Parlamento. Ci fermiamo qui.

Assistendo da lontano a queste performance, mi sono convinto (nessuno lo ha capito) che Conte non è un politico, ma un attore che interpreta un personaggio politico. E con inaspettata professionalità è in grado di attenersi al soggetto, al copione, anche se viene chiamato ad interpretare personaggi in contesti diversi. In un film può svolger il ruolo dell’antagonista di un personaggio che ha interpretato in un film precedente.

Si spiega così come Giuseppi si senta libero di criticare le politiche attuate dai governi da lui presieduti e di quelli (cioè tutti) di cui il Movimento 5 Stelle ha fatto parte. Ora sta interpretando – dismessa la pochette e rimboccatosi le maniche della camicia – la parte del Jean-Luc Mélenchon italiano. Peccato che quello vero non vi si riconosca. Ma è il leader non sottomesso d’Oltralpe a prendere un abbaglio. Soprattutto quando ha perso il suo tempo, e il costo del biglietto, per incoronare, durante la campagna elettorale, Luigi de Magistris come suo rappresentante in Italia.

Il taglio delle tasse. Conte gioisce degli errori di Liz Truss, ma lui i soldi ai ricchi li ha regalati. Angela Azzaro su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Da vincitore a perdente. È passata poco più di una settimana e qualcuno inizia a dirlo: Conte non ha vinto le elezioni. Ha invece perso oltre 6 milioni di voti, dimezzando il tesoretto che aveva ereditato dal 2018. Ma nonostante la debacle è riuscito a far passare il messaggio contrario: forza della persuasione e di quel “gratuitamente” ripetuto in tutte le salse durante la campagna elettorale. Domenica lo ha scritto benissimo anche Aldo Grasso sul Corriere della sera.

Il polemista semiologo gliene ha cantate quattro sottolineando l’altro fattore assurdo che da una settimana imperversa su giornali e tv: colui che ha perso, cioè Conte, dice a Letta, che ha perso molto ma molto meno di lui, che cosa dovrebbe fare. Che poi a ben guardare la colpa non è solo di Conte e di chi gli cura la comunicazione – loro giustamente fanno i loro interessi! – ma anche di chi gli dà retta, soprattutto tra quei dirigenti Pd che auspicano la nascita di una Cosa rossa con alla guida l’ex premier che esibiva orgoglioso i cartelli pro decreti sicurezza. Conte ha anche gioito per la retromarcia di Liz Truss. Si tratta di un passo indietro parziale rispetto alla ricetta folle di voler tagliare le tasse ai più ricchi. Anche in questo caso le contraddizioni sono evidenti.

Il leader dei Cinque stelle ha capito che il vero spazio si è aperto a sinistra, ma lui i soldi ai ricchi non li ha mai toccati, anzi si è sempre ben guardato dal nominare qualcosa che anche vagamente assomigliasse alla parola “patrimoniale”. Quando si è trattato di aver a che fare con i ricchi i soldi li ha dati. Che altro è infatti la misura dell’ecobonus che ha tolto a chi ha meno (tramite le tasse) e ha dato in maniera indiscriminata? Si dice che così avrebbe rilanciato il settore dell’edilizia, ma basta parlare con chi lavora nel settore per capire che l’effetto è l’opposto. Solo un politico in questi mesi ha provato a dire che bisogna tassare di più i ricchi. È stato Enrico Letta.

In realtà il segretario del Pd aveva proposto di alzare le imposte sulle eredità plurimilionarie per creare una dote per i diciottenni. Una misura che avrebbe aiutato chi ha di meno e si deve costruire un futuro. È stato accusato di aver fatto una proposta folle e di essere troppo di sinistra. Poi è stato accusato di non essere abbastanza di sinistra, dimenticando quello che era stato detto poco prima. O è vera l’una o è vera l’altra accusa. Ma in questa campagna elettorale prolungata, che non è finita neanche per qualche minuto quando le urne erano appena state chiuse, si può dire tutto e il contrario di tutto senza tema di essere smentiti.

Quella parte di sinistra che vuole abdicare al proprio ruolo e affidare le proprie sorti nelle mani dell’avvocato del popolo ci dica perché la proposta di Letta non andava bene e quella di Conte sull’ecobonus invece sarebbe una proposta di sinistra. Sì, è vero, il reddito di cittadinanza è una misura importante ed è stato un errore far sì che i 5 stelle fossero gli unici a rivendicarla. Ma la redistribuzione della ricchezza è una cosa seria e come dimostra il caso di Liz Truss quando si promettono soldi a destra e a manca c’è sempre qualcuno che paga: e sono coloro che hanno di meno. Ma a forza di promettere cose impossibili, folli direbbe il presidente di Confindustria Bonomi, i politici perdono la faccia e anche il posto.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Francesco Merlo per la Repubblica il 23 settembre 2022.

Titolare di un metodo che ormai sfida Andreotti, Giuseppe Conte ha consegnato ai libri di storia il nuovo trasformismo italiano, quello del "quasi", che gli permise, per esempio, di essere un capo di governo quasi filoamericano e quasi filocinese e ora gli permette di schierarsi quasi con l'Ucraina e quasi contro l'Ucraina. 

È la stessa quasità del progetto mini Tav, una quasi Tav che i no Tav non avrebbero potuto più contestare, la stessa del "lockdown parziale", è il quasi inglese Submerged Floating Tube Bridge, un quasi ponte di Messina sottomarino, invisibile e poco ingombrante. Lo so, fa ridere come la donna un poco incinta di Maupassant e il Ringo di Celentano che "respirava come un morto".

E, invece, immaginate seriamente la quasità, sia come una scienza politica, che a sinistra socchiude la porta alla destra e a destra la socchiude alla sinistra, e sia come l'antropologia del descamisado con la camicia, che a Genova intona Bella ciao ma sui soffiati, e a Napoli dice "non tengono scuorno" con l'aria impertinente del quasi straniero in piazza. La quasità di Conte è una parabola di successo proprio perché sin dall'esordio nessuno prendeva sul serio, tra il vaffa di Grillo, la rottamazione di Renzi e i pieni poteri di Salvini, un quasi leader, vice dei suoi vice, un premier "nel frattempo". E i giornali americani scoprirono che anche come professore era un quasi perché il curriculum era quasi vero.

Cinque anni dopo, persino il linguaggio - "l'interlocuzione", "pretermessi", "salvo intese" - è quasico. E Conte è diventato (per ora) il quasi Lula italiano, ma con la giacca di sartoria sulla spalla, la cera nera sui capelli e la clamorosa assenza della pochette, un vuoto che stropiccia verso sinistra l'aria conversativa e indulgente del trasformista che non ha più bisogno di voltare la gabbana per esclamare "nessuno ci dica che Putin non vuole la pace": gli basta convocare il gemello di stesso e aggiungere: "chi mi definisce filoputiniano mi diffama". 

Vuoi vedere che Conte è il quasi genio che ha trovato la soluzione al dubbio di Amleto? Il terzo corno tra essere e non essere è il quasi.

Giulia Cerasoli per “Chi” il 7 settembre 2022.

«Ripensando a quei lunghi mesi in cui da premier ho affrontato i momenti più gravi della pandemia, ammetto di avere passato tante notti senza dormire. Il peso della responsabilità era enorme. C’erano vite da salvare, bisognava fare scelte coraggiose che necessitavano di una lucidità senza precedenti. La mia calma durante i quotidiani appuntamenti in cui parlavo ai cittadini dalla televisione? Frutto del mio temperamento e della consapevolezza che non avrei potuto permettermi nessuna distrazione, né alcun tentennamento». 

Giuseppe Conte è a San Giovanni Rotondo, il paese della Puglia dove ha trascorso gli anni dell’adolescenza e da dove è partito per studiare nella Capitale. Da leader dei Cinquestelle ci torna per una campagna elettorale che lo vede molto combattivo, in crescita nei sondaggi dopo il crollo dei mesi scorsi. Ed è qui che, con il cuore in mano, racconta la sua strana storia di avvocato e docente che all’improvviso un giorno si è ritrovato premier, proprio nei due anni più difficili del nostro Paese.

Domanda. Lei è l’unico dei leader in corsa che non è mai stato ministro, che non ha mai fatto politica, ma che una mattina di inizio estate del 2018 è sparito dalla spiaggia dove si trovava durante un week end con la sua compagna perché chiamato dal presidente Mattarella a fare il presidente del Consiglio.

Risposta. «Non mi aspettavo affatto di diventare premier e nemmeno presidente del Movimento. Entrambi i ruoli li ho assunti per spirito di servizio e nella prospettiva di fare il bene del Paese e di contribuire ad un processo riformatore di cui l’Italia ha urgente bisogno». 

D. Alcuni la considerano un miracolato in politica, essendo stato catapultato a Palazzo Chigi senza alcuna gavetta. Ma comunque faceva parte della lobby degli avvocati e dei docenti universitari: non è certo uno “fuori dal sistema”...

R. «Fin da ragazzo ho lavorato duramente per costruirmi un futuro. Ero uno studente fuorisede, un po’ sradicato, come tutti. Ho studiato notte e giorno per fare l’avvocato, per scalare la carriera universitaria fino a diventare professore e per migliorarmi sul piano professionale. 

Ho fatto tante rinunce per costruire la mia strada, nessuno mi ha regalato nulla. Per questo capisco le difficoltà dei ragazzi: il precariato e i lavori sottopagati purtroppo in Italia sono ancora una realtà. Uno dei punti più importanti del nostro programma riguarda i giovani e ci batteremo affinché ricevano finalmente offerte di lavoro adeguate». 

D. È padre di un ragazzo e ha una compagna affascinante e riservata, Olivia Paladino, figlia di un’attrice celebre negli Anni 70, Ewa Aulin, e del proprietario del magnifico Hotel Plaza di Roma. È con loro che trascorre il tempo libero?

R. «Mio figlio Niccolò e la mia compagna sono le mie priorità al di fuori dagli impegni pressanti di questo periodo». 

D. Che padre è per Niccolò?

R. «Vorrei avere sicuramente più tempo per stare assieme a lui, per fare le cose che ci piacciono, come una partita a calcio o a tennis. È Niccolò che dovrebbe dire se sono un buon padre o meno. Io posso dire che lui è uno splendido figlio che, nonostante la sua giovane età, mostra grande maturità e rispetto verso la mia dimensione pubblica. Abbiamo grande complicità, parliamo molto, anche se spero di essergli d’esempio non per le parole, ma per i comportamenti». 

D. Con Olivia quest’estate avete passato qualche week end a Punta Rossa al Circeo. La sua compagna ha una figlia della stessa età di Niccolò. Che rapporto è il vostro?

R. « I nostri rispettivi figli hanno un’amicizia fortissima, nata tra i banchi di scuola. Quanto a Olivia, è una persona speciale, ha il suo lavoro che la impegna e l’appassiona, ma riesce sempre a farmi sentire la sua premurosa vicinanza. Vorremmo trascorrere più tempo insieme, ma purtroppo i nostri impegni non sempre ce lo consentono. Siamo però consapevoli di aver costruito su questa nostra storia d’amore un legame solido e duraturo». 

D. È cresciuto a San Giovanni Rotondo: è devoto a padre Pio?

R. «Tutta la mia famiglia è legata alla figura di padre Pio, che ha accompagnato la mia spiritualità negli anni dell’adolescenza». 

D. L’abbiamo vista con alcune bottiglie di plastica in mano su Instagram: così cattura i giovani?

R. «Una delle nostre priorità assolute è la tutela ambientale, la preservazione della biodiversità. Insieme con la lotta contro tutte le diseguaglianze che si sono accentuate negli anni della pandemia e che sono destinate a crescere con il caro energia».

D. Non si sente in colpa per avere licenziato Mario Draghi in un momento simile, con una crisi energetica senza precedenti?

R. «Al contrario. Erano sei mesi che chiedevamo al governo di assumere misure straordinarie per prevenire le difficoltà di imprese e cittadini a causa della crisi energetica che incombeva. 

Avevamo ragione a pungolare l’esecutivo, ma le soluzioni che noi avevamo fornito con anticipo non sono state recepite. In 18 mesi di governo abbiamo sacrificato tante nostre priorità. C’è un limite, però: la tutela degli interessi della popolazione. Contro l’esplosione dei prezzi non bastano i pannicelli caldi». 

D. Da premier ha avuto un’esperienza davvero irripetibile durante il lockdown: con poche parole all’ora di cena era in grado di chiudere in casa gli italiani, eliminando ogni libertà personale. Tutto ciò quanto l’ha segnata?

R. «È stata un’esperienza che mi ha fortemente coinvolto anche emotivamente e ha influito profondamente sulla mia vita. Da lì è nata la convinzione a proseguire, accettando di guidare il Movimento».

D. Il momento più duro della pandemia?

R. «Prima dell’estate, con il varo dei provvedimenti urgenti per evitare la recessione. Forse ci siamo dimenticati che durante il lockdown abbiamo deciso il blocco dei licenziamenti e 5 variazioni di bilancio. Però abbiamo lasciato lo spread sotto quota 100». 

D. Chi sono i suoi nemici?

R. «I mestieranti della politica, quei professionisti che galleggiano nella vita politica avendo perso progettualità, concentrati solamente sul perpetuare la loro carriera personale». 

D. La scissione di Di Maio ha danneggiato il Movimento?

R. «No, ci ha fatto conquistare maggiore chiarezza politica. Luigi Di Maio aveva iniziato da tempo una parabola politica che l’ha portato lontano dal Movimento». 

D. Il centrodestra è in vantaggio, probabilmente vincerà le elezioni...

R. «Aspetterei il risultato del voto degli italiani, anche se questa prospettiva mi allarma parecchio. Ritengo vergognosa una proposta che consideri il reddito di cittadinanza un qualcosa da cancellare, soprattutto se viene da chi vive con una ricca rendita dello Stato». 

D. C’è un futuro con il Pd?

R. «Non ci sono le condizioni con un Pd il cui vertice si è dichiarato appiattito sull’agenda Draghi. Un’agenda che non esiste».

Il Bestiario, il Conticchio. Giovanni Zola l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il Conticchio è un animale leggendario con il corpo da picchio e la testa da avvocato di Volturara Appula in provincia di Foggia.

Il Conticchio è un animale leggendario con il corpo da picchio e la testa da avvocato di Volturara Appula in provincia di Foggia.

La caratteristica del Conticchio è quella di parlare di sé in terza persona dicendo ad esempio: “Il Conticchio è l’avvocato di tutti”, benché nessuno glielo abbia chiesto, guardandosi bene da avere grane giudiziarie con quelli del quinto piano che spostano i mobili rigorosamente dopo mezzanotte.

I greci antichi paragonano il Conticchio all’Araba Fenice, con la differenza che la seconda resuscita dalle sue ceneri, mentre il Conticchio appare dal nulla, e se lo fa alle spalle di soppiatto fa prendere anche grossi spaventi.

Il verso del Conticchio è alquanto sgradevole essendo un suono che risulta essere monotono e nasale, probabilmente dovuto a delle adenoidi mal curate. Il verso del Conticchio è citato da Ippocrate, il padre della medicina, come utile per coloro che soffrono d’insonnia. Ascoltare infatti il verso del Conticchio porterebbe ad un sonno immediato, e in taluni casi, anche perpetuo.

Al Conticchio viene rimproverato di essere un megalomane, soprattutto quando si tratta di compilare il curriculum. Tende infatti ad amplificare le proprie esperienze dicendo di essere stato qua e là, su e giù, benché nessuno lo abbia visto neanche al bar a far due chiacchiere su Lukaku. Per questo si dice ancora oggi la celebre frase “non fare il Conticchio” a chi si spaccia per aver frequentato la New York University nel periodo estivo.

In antiche pitture rupestri il Conticchio è ritratto mentre arringa, con retorica paternalista, altre specie animali chiedendo loro di fare sacrifici oggi per un domani migliore, senza specificare mai quale sia la data precisa del fantomatico “domani migliore”. Da cui DPCM, ossia Dovresti Parlare Come Mangi.

Il Conticchio ha l’abilità di dire tutto e il contrario di tutto in una stessa frase senza che l’interlocutore se ne accorga e lasciandolo stordito per qualche minuto chiedendosi: “Si dimette oggi, si dimette domani o forse si è già dimesso e non me ne sono accorto?!”

In natura il Conticchio ha una grande capacità di mimetizzazione: infatti si nasconde tra i pentastellati, fingendo di condividerne le idee, parla come un democristiano della “prima repubblica” e pensa come un piddino. Ciò che impressiona gli etologi è che riesce a fare le tre cose contemporaneamente, talvolta riuscendo pure a farsi fotografare con la propria fidanzata mentre ordina un sushi Take-away.

Fenomenologia di Conte, quando il “fattore C” spiazza la scienza politica. Il leader 5S è baciato dalla fortuna: premier per caso, in risalita nei sondaggi grazie agli errori dem. Paolo Delgado su Il Dubbio il 04 settembre 2022

Non c’è analista politico che non sia pronto a sostenere, con dovizia d’argomenti e abbondanza di esempi, che la politica ha le sue rigorose leggi, ignorare o trasgredire le quali è sempre esiziale. Gli stessi dotti, tuttavia, non esiteranno a riconoscere, alla faccia della contraddizione implicita, che in politica la fortuna ha tutto il suo peso e che i rari politici baciati dalla sorte hanno una marcia in più che sfugge a ogni legge: vengono innalzati anche al di là dei loro meriti, godono di una rendita di posizione dovuta alle circostanze oltre che alle loro eventuali doti, quando capitombolano cadono in piedi.

L’esempio più universalmente citato è quello di Romano Prodi, a proposito del quale i compagni di scuola ricordano l’abitudine di toccargli i capelli prima delle interrogazioni per ingraziarsi il fato. Stando ai sondaggi il M5S di Giuseppe Conte è la forza politica che più cresce in campagna elettorale e che promette di affermarsi come terzo partito italiano dopo FdI e Pd. Nonostante una campagna mediatica schiacciante che da mesi lo dipinge come il reprobo traditore e infido che ha provocato la caduta del Migliore, l’instabilità che minaccia il Paese e i suoi abitanti, la prevedibile vittoria della destra. Se le cose andranno davvero così per Conte si tratterà non di una semplice vittoria ma di un trionfo e alla fortuna, per l’ennesima volta nella folgorante carriera politica dell’avvocato, bisognerà attribuirne almeno buona parte del merito.

Le quotazioni del M5S appena due mesi fa scendevano a precipizio. L’appoggio a un governo Draghi che non teneva in alcun conto le richieste di quello che era all’epoca il primo partito della maggioranza e un’alleanza sempre più ancillare e subordinata con il Pd ne stavano erodendo i consensi con la velocità di un roditore gigante. Conte però sembrava avere le mani legate dalla legge elettorale e dalla potenza dell’armata mediatica. Provare a tirarsi fuori da un percorso che lo condannava all’irrilevanza avrebbe infatti significato dover affrontare da solo la prova dei collegi e subìre il classico massacro mediatico che in questi casi puntualmente scatta. Il Pd era convinto che Conte non avrebbe osato e in effetti Conte tutto voleva tranne che arrivare a una rottura irrecuperabile, nonostante i duri spingessero in quella direzione.

Nei calcoli dell’ex premier, la decisione di astenersi dal voto era una mossa di mediazione, anche perché scelte del genere erano sinora sempre state interpretate così. Dopo l’esplosione sarebbe stato più che disposto a ricucire un’alleanza, anche solo elettorale e in funzione anti destra con Letta. Il suo tentativo era quello di divincolarsi, recuperare una parte dei consensi la cui emorragia era appena stata certificata dalle amministrative, ma senza arrivare alla rottura totale.

Oggi, con i sondaggi squadernati davanti, è facile affermare che per Conte e per il Movimento affrontare le urne senza le ipoteche del sostegno totale e sottomesso al governo e dell’alleanza con il Pd era l’unica chance di sopravvivenza. Sul momento le cose erano molto meno chiare. Il Pd riteneva che rompere fosse al contrario un suicidio, e proprio per questo forzava tanto, e il leader dei 5S temeva fortemente che il Pd avesse ragione. Se si trova oggi in postazione che gli permetterà forse non solo di salvarsi ma anche di uscire vincente dalle urne è perché le circostanze e gli errori del Pd lo hanno collocato, controvoglia, in quella postazione. Questione di fortuna più che di calcolo strategico.

Che l’ “avvocato del popolo” sia fortunato, del resto, era già evidente. Si è trovato premier contro ogni attesa e previsione per un gioco di circostanze. È rimasto a palazzo Chigi, alla guida di un’alleanza opposta alla prima e contro ogni logica, grazie a un gioco di equilibri politici che prescindeva dalla sua persona e dal suo operato. Ha conquistato una popolarità immensa e non ancora dissipata grazie a una pandemia imprevedibile.

Non significa che Conte non ci metta del suo. Vanta una capacità di bucare lo schermo invidiabile e superiore a quella di quasi tutti i competitor. È certamente astuto anche se spesso non assistito dall’audacia. Ma di certo anche al fattore misterioso e incontrollabile che tanto aiutava Romano Prodi Giuseppe Conte deve parecchio.

Giuseppe Conte, l’avvocato nostalgico di Palazzo Chigi tra i peones in guerra e la fede in Padre Pio. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 10 agosto 2022.  

Quando un’ostetrica marchigiana lo ha fatto nascere, mamma Lillina, maestra, e papà Nicola, segretario comunale, mai potevano immaginare che e . Né che sarebbe stato a sua volta disarcionato, e che avrebbe guidato all’assalto la truppa dopo aver fatto fuori, con la complicità di un comico, tutti i colonnelli del suo partito, e né che ci fossero oggi Bonnie e Clyde (Alessandro Di Battista e Virginia Raggi) ad aspettarlo dietro l’angolo del voto anticipato per portargli via tutto. Ma nei suoi occhi avevano già visto il balenio della Forza, per quanto un po’ sedotta dal lato oscuro.

Giuseppe Conte, un metro e settantotto per settantotto chili, da Volturara Appula, nato l’8 agosto 1964, sotto il segno del Leone. Superbo e un po’ egocentrico l’uomo Leone non si accontenta mai e non passa inosservato. Sono piccoli, lui e la sorella Maria Pia, quando il padre li trasferisce a San Giovanni Rotondo, terra di Padre Pio, al quale tutta la famiglia, religiosissima, è profondamente devota. Giuseppe gira ancora e sempre con il suo santino in tasca, e la preghiera lo accompagna. Della sua adolescenza sappiamo che ha tutti bei voti, ma non apre il libro di matematica.

Le ultime notizie sul M5S

Bellino, piacicchia alle ragazze, cura il ciuffo e l’abbigliamento, intanto sorveglia dalla finestra della classe la moto fiammante che lo attende di sotto. La classe è quella del Liceo Classico di San Marco in Lamis, intitolato a Pietro Giannone. Filosofo del ‘700, perseguitato dalla Chiesa per le sue idee, che però secondo Alessandro Manzoni non erano sue, ma le aveva copiate. Conte si trasferisce nella Capitale e come prima cosa si innamora della Roma. Nel palleggio fa la sua figura. Laurea con lode in Giurisprudenza alla Sapienza, che per uno come lui è il minimo sindacale. Anche perché studia nel collegio universitario di Villa Nazareth, che ha visto passare, vuoi come insegnanti vuoi come studenti, Aldo Moro e Oscar Luigi Scalfaro, Sergio Mattarella e Romano Prodi, Leopoldo Elia e Pietro Scoppola. Nel consiglio era attivo Giovanni Bazoli, direttore con Conte era Pietro Parolin, ora segretario di Stato vaticano, nonché papabile, almeno nelle chiacchiere di Curia.

Segnate la data: 18 settembre 2013. Allievo prediletto di un avvocatone come Guido Alpa, Conte viene eletto dalla Camera dei deputati come membro del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, con il sostegno dei Cinque Stelle. Si occupa tra l’altro anche del , il magistrato che imponeva alle allieve le minigonne. Ecco fatto, un piede è dentro. È lì che vanno a cercarlo populisti e sovranisti nel 2018. Luigi Di Maio e Matteo Salvini si sono piaciuti ma non possono cedere l’uno all’altro la campanella del premier. E quindi , che poi a governare ci penseranno loro. Per la verità c’è prima un ballottaggio con Giulio Sapelli, ma per Conte farlo fuori è un gioco da ragazzi. Con l’umiltà e l’attitudine alla sofferenza imparate da Padre Pio, incanta i due futuri vicepremier: è lui il vaso di coccio che cercavano.

Il resto è quasi cronaca. Le polemiche per gli incarichi universitari avuti con l’amico Guido Alpa in commissione, l’imbarazzo per , e poi, segnale d’obbedienza verso Lega e Cinque Stelle, l’iniziale passo indietro quando Sergio Mattarella dice che no, un ministro antieuro alla guida dell’Economia non se lo piglia neanche dipinto. La sua sembra una carriera da cavalier servente, mentre in realtà sta solo aspettando di prenderci la mano.

Eccolo allora usare gli artigli, allorché Salvini si infila nella . Conte tira schiaffi, Salvini rincara, minaccia, strappa e poi tratta, promette e alla fine quasi implora: ma ormai è fatta, muore il governo gialloverde e nasce quello con il Pd, con Matteo Renzi che convince il Pd a tenersi Conte. Quella che segue è l’età dell’oro dell’uomo con la pochette. La pandemia, l’emergenza, i proclami, le rassicurazioni, fino alle trattative in Europa per il Pnrr. Ma poi il governo si impantana, vivacchia, Renzi ora gli tira i pomodori. Giuseppi, così ribattezzato da Trump, prova a servirgli la stessa medicina che aveva riservato a Salvini. La verve non manca ma i voti sì, anche se li elemosina perfino da tal , al quale quasi promette di diventare vegano se lo voterà.

Dura è la vita dei nobili decaduti: palazzi pignorati, gioielli impegnati, Grillo che gli offre la guida dei Cinque Stelle e poi si scoccia perché vuole comandare davvero, un tribunale gli toglie i poteri sul partito e poi glieli ridà, i peones lo trattano a pesci in faccia mentre .

Ora Giuseppe va alle elezioni. Non ha più alleato il Pd, Enrico Letta quella pochette gliela farebbe ingoiare, i sondaggi lo danno sul filo del 10%. C’è chi dice che i suoi consiglieri gli avevano giurato che poteva strappare, tanto il governo non sarebbe caduto. E quindi si sarebbe fatto fare fesso e ora rischierebbe di essere crocifisso. Per altri invece era proprio quello che voleva, il voto anticipato, pur attraverso la scusa di un termovalorizzatore e un inquietante terzismo tra Russia e Ucraina. Obiettivo: liberarsi di una banda di scappati di casa e avere in Parlamento una pattuglia che risponda a lui e a lui solo. Per tornare ad avere un ruolo, perché aver assaggiato Palazzo Chigi è una malattia che espone a continue ricadute. E perché va bene essere umili, ma pure Padre Pio, quando Agostino Gemelli voleva controllargli le stimmate, lo lasciò fuori dalla porta.

(ANSA il 15 luglio 2022) - "Se Conte ritira i ministri dal governo Draghi di fatto si va allo scioglimento delle Camere, non ci sarà nessuna possibilità di mandare avanti il governo. Io lo voglio dire ai cittadini molto chiaramente: questa crisi avrà effetti pesanti". Questa una anticipazione dell'intervista del ministro Di Maio che andrà in onda questa sera al Tg3.

"Il partito di Conte colpisce il governo. Meraviglia che questo venga da un ex premier, forse per vendetta contro qualcuno". Questa una anticipazione dell'intervista del ministro Di Maio che andrà in onda questa sera al Tg3.

Lo zig zag di Conte, l’eterno indecisionista ridotto all’irrilevanza. Sebastiano Messina su La Repubblica il 21 Luglio 2022.  

L'Avvocato è passato dal sostegno leale a Draghi al rifiuto di votare la fiducia. Ora si ritrova verso le elezioni alla guida di un'Armata Brancaleone.

Ha deciso di non decidere cosa andava deciso per decidere chi doveva decidere, ma l'ha deciso quando tutto era già stato deciso. E non da lui, Giuseppe Conte l'Indecisionista. L'uomo che in tre settimane è passato dal "sostegno leale, costruttivo e corretto" a Mario Draghi ai penultimatum con le "urgenze non urgenti" e infine al rifiuto di votare la fiducia ma che, per carità, non era una sfiducia. Con la comica conclusione di ieri, quando ha dato ordine ai suoi di non votare né a favore né contro il governo, dichiarandosi "presenti ma non votanti". Raramente, a memoria di cronista, una crisi di governo ha visto uscire dal campo così malconcio - ridotto all'irrilevanza numerica e all'insignificanza politica - il partito che l'aveva così maldestramente aperta, finendo per essere "messo alla porta" come diceva ieri sera il suo quasi leader.

Conte sceneggiatore del disastro

Di questa disastrosa impresa, Conte è stato lo sceneggiatore, il protagonista e il colpevole. È stato lui ad aprire le ostilità contro Draghi - che ha sempre considerato come l'usurpatore della sua poltrona, l'uomo di quel "Conticidio" che andava vendicato - prendendo a pretesto un pettegolezzo di seconda mano, secondo il quale Draghi aveva chiesto a Grillo di farlo fuori. Pettegolezzo smentito da Grillo e da Draghi, di cui Conte - misteriosamente, improvvisamente, inspiegabilmente - dopo averlo definito "un fatto grave" non ha più voluto parlare dopo aver incontrato Draghi ("È una questione in cui non voglio entrare"). È stato lui a trasformare un problema politico in uno psicodramma, denunciando "mancanze di rispetto, attacchi pregiudiziali, invettive per distruggerci", arrivando a sostenere che "il nostro non è un no alla fiducia ma una reazione alle umiliazioni subite", roba da psicanalista.

La maratona di riunioni del M5S

Ma il suo disastroso capolavoro è stato l'interminabile zigzag tra l'ala irriducibile e quella governista dei cinquestelle, la sua oscillazione permanente tra il mezzo sì e il mezzo no, nel goffo tentativo di non essere abbandonato né da chi voleva la testa di Draghi né da chi voleva restare con Super Mario. Così un giorno prometteva sostegno al governo, "ma serve discontinuità", e il giorno dopo avvertiva: "Stiamo con un piede fuori". Un giorno consegnava a Draghi un papello in nove punti con le "urgenze non urgenti", e due giorni dopo annunciava: "Pretendiamo un cambio di passo immediato". Senza mai prendersi la responsabilità della decisione definitiva: infilando tutto il Movimento in una catena di Consigli Nazionali, assemblee dei parlamentari e riunioni notturne via Zoom che non hanno mai deciso né sì né no. Così, dopo aver votato a Montecitorio la fiducia al governo sul decreto Aiuti, a Palazzo Madama i grillini glie l'hanno negata. Per via del termovalorizzatore di Roma, certo, ma anche per le mancanze di rispetto e le umiliazioni subite, si capisce. Mentre Conte ripeteva ai telegiornali che i due voti erano frutto delle "medesime lineari, coerenti motivazioni".

Adesso che la crisi di governo ha avuto una conclusione assai diversa da quella che prevedeva il suo piano, l'Avvocato del Popolo si ritrova alla guida di un Movimento che conta meno della metà dei parlamentari eletti quattro anni fa ed è crollato nei sondaggi dal 32,7 per cento del 2018 all'11 cento della settimana scorsa, una percentuale che se anche lui riuscisse nell'improbabile miracolo di trasformarla in seggi riporterebbe nel prossimo Parlamento solo 77 pentastellati, contro i 335 dell'ultima volta. Lui che doveva rilanciare i cinquestelle trasferendo su di loro la popolarità conquistata a Palazzo Chigi, in un solo anno ha perso un terzo dei consensi, una settantina di parlamentari se ne sono andati e altre due dozzine facendo le valigie.

Il mai-nato partito di Conte

Chissà come sarebbero andate le cose se Conte avesse dato retta a chi gli suggeriva di fare un suo partito. Ma lui - come ha raccontato il suo superconsulente Domenico De Masi - "ha scartato quell'idea perché era un'operazione costosa e una fatica enorme, scegliendo di prendersi un partito già bello e pronto". Purtroppo, l'impresa si è rivelata più difficile del previsto. "È una faticaccia enorme, non credo che la potrò reggere fisicamente a lungo", confessò dopo soli 35 giorni, 25 comizi e un pranzo con Grillo. Forse, chissà, credeva che guidare un partito fosse una passeggiata, per chi era stato capace di formare due governi, uno con la destra e un altro con la sinistra. E magari si era convinto, leggendo i sondaggi che gli portava Casalino, di avere dentro di sé - senza saperlo - le qualità del leader, ma con l'abilità dell'astuto avvocato che riesce a difendere qualunque causa senza mai sposarla, e dunque può farsi corteggiare dagli eredi della Ditta che vedono in lui il domatore democratico dei grillini selvatici, però si rifiuta di essere chiamato "alleato" e non vuol sentir parlare di "centrosinistra", ma semmai di "fronte progressista" che è come un blazer blu: puoi andarci dovunque.

Sogni di gloria che oggi svaniscono nel nulla. Dopo la figuraccia rimediata nella battaglia per il Quirinale, dove candidò a sua insaputa il capo dei servizi segreti, Conte ha sfidato a duello Draghi ma ha perso senza neanche combattere. E ora si ritrova sulla strada che porta alle elezioni anticipate alla testa di un Movimento ridotto a un'Armata Brancaleone che ormai è solo l'ombra slabbrata di quell'esercito di giustizieri senza macchia e senza paura che voleva fare la rivoluzione a cinque stelle. 

Giù dalla giostra. La strada senza uscita di Conte, prigioniero della sua mediocrità politica. Mario Lavia su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

L’avvocato di Volturara Appula non riesce a tenere le redini del suo partito che in massa rischia di abbandonarlo al suo destino, sostenendo il governo Draghi. O si arrende e vota la fiducia o va all’opposizione ma senza alcun credito.

Un uomo di quasi 58 anni – li compirà tra qualche giorno – avvocato e politico per caso sta tenendo in ostaggio il governo italiano, le Camere, persino il Quirinale contro il mondo libero, la maggior parte del Parlamento, vastissime aree della società italiana, sindaci, giornali, imprenditori. Barricato come Jean Gabin in Alba tragica in due palazzi vicinissimi tra loro nel pieno centro della Roma del potere, l’uomo è circondato, e proprio per questo rischia di diventare un pericolo pubblico. 

La situazione è in evoluzione, di certo non potrà andare avanti: mercoledì o la va o la spacca, probabilmente ci si conterà e il politico per caso perderà. Tutto il mondo politico lo schifa, ormai, tranne i soliti ammaccati aficionados che si autodefiniscono di sinistra, scambiando la missione della sinistra con il solito casino antistituzionale in nome – ça va sans dire – delle ragioni dei lavoratori (e pazienza se salterà il Pnrr, si farà una bella manifestazione con Landini e Bombardieri). 

Anche se Mario Draghi andrà avanti, si avvicina il momento in cui il Partito democratico, principale responsabile del lungo corteggiamento dell’uomo in queste ore barricato, dovrà dire da che parte sta. 

E intanto l’avvocato e politico per caso si vede sbalzato dalle comode poltrone del potere sulle quali lo avevano issato i populisti e i loro amici dopo aver carpito il voto di tanti italiani convinti da un Mangiafuoco genovese che loro avrebbero cambiato l’Italia, antica promessa di demagoghi e dei qualunquisti. 

Ma ecco che a un certo punto, inevitabilmente, la storia ha girato e non è bastato un Ciampolillo a salvare quest’uomo sempre più privo di idee – quelle poche che aveva le aveva tutte gettate nella palude fangosa del potere, sapete quelle fosse d’acqua stagnante dove nei film americani i gangster gettano i cadaveri. 

Al presidente del Consiglio Mario Draghi mezzo mondo chiede di continuare:  parliamo di Joe Biden, non Clemente Mastella. Mentre il nostro uomo, sudaticcio e afono, vede tanti dei suoi mandarlo a quel Paese, vedremo oggi quanti deputati lasceranno l’ex Movimento insieme al capogruppo Crippa. 

L’uomo di Volturara Appula non sta tenendo il partito, com’era per tante ragioni (anche di emolumenti mensili) prevedibile, e gli hanno consigliato (Enrico Letta) di ripensarci e votare mercoledì anch’egli la fiducia dato che una marea di (ex) grillini farà così.

L’avvocato del populismo è così giunto a un bivio drammatico: o si arrende e vota la fiducia – e dovrebbe chiedere scusa al Paese – o va all’opposizione ma senza alcun credito, non ha il fisico per fare il Fuggitivo come Harrison Ford, non è un capopopolo, un Masaniello, un Jean-Luc Mélenchon, un Jeremy Corbyn, nemmeno un Pier Luigi Bersani. 

L’uomo, a 58 anni, è un politico per caso che sta per scendere dalla giostra, e non per caso.

Conte, parabola di un leader. La metamorfosi dell’ex premier M5S. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 16 luglio 2022.

La parabola dell’ex premier: da statista che liquida il Salvini del Papeete al ritorno di una copia sbiadita dei tempi del «vaffa» 

Che vita difficile, e che parabola incredibile. Mancano 120 ore al giudizio universale, che vale per tutti, ma per Giuseppe Conte in modo particolare. Padella o brace. Da una parte l’andata a Canossa, qualora il pressing italiano e internazionale convincesse Mario Draghi a restare. Dall’altra la rottura e una nuova sfida, stavolta con le pulsioni iper populiste di Alessandro Di Battista, che già affila le armi perché la guida del Movimento in mano all’ex premier non sia che una parentesi.

Mercoledì il premier dimissionario sarà davanti alle Camere e il filo sottile, quasi inesistente, che porta a una riedizione del governo di unità nazionale guidato da Mario Draghi, passa per una porta strettissima per l’avvocato del popolo. Sì al termovalorizzatore, no allo scostamento di bilancio, si alle riforme fiscali e della concorrenza, si al sostegno all’Ucraina senza cedimenti, no a una quotidianità fatta di strappi piccoli e grandi per cercare di razzolare i voti perduti. Dura da digerire. Ma dura anche da rifiutare, perché dall’altra parte c’è la fiera pasionaria dei barricadieri a Cinque stelle, ugualmente rissosi ma assolutamente privi della fantasia onirica, per quanto velleitaria, del fondatore: il Beppe Grillo della prima ora.

I contorcimenti delle ultime ore con l’ipotesi di ritirare i ministri, con i ministri che fanno sapere che non ci pensano proprio e con Giuseppe Conte costretto a veicolare che non è lui che l’ha detto ma che piuttosto il dimissionario è Draghi, non sono che un assaggio disperato di quello che può succedere nei prossimi giorni. O in questi minuti, con l’ex premier che magari la spunta e riesce a portar via dal governo la sua delegazione.

Ma è qui che si aprirebbe la partita più ardua per Conte, quella per mettersi a capo di un’Armata Brancaleone assai difficile da guidare. Non abbiamo leggi contro il cattivo gusto, perché da noi, e non solo da noi, è stato convertito in un genere di consumo. E quindi è lecito raccontare cosa pensa Alessandro Di Battista, con le parole che lui stesso ha affidato alle agenzie.

Il Che Guevara di casa nostra, con la vespa al posto della motocicletta e il parco alberato di Monte Mario al posto della giungla cubana o boliviana, ancora non si fida. Sarebbe un’ottima notizia, dice, se il governo cadesse, ma non ne è così sicuro: «Perché quelli che si appellano al senso di responsabilità, negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. E in caso di elezioni non potrebbero fare comizi se non mettendosi di spalle, anche se in molti, guardandogli i deretani, riconoscerebbero all’istante i loro volti».

Davvero ha qualcosa a che fare con questo linguaggio l’uomo della pochette? Il premier che parlava con rassicurazioni flautare agli italiani chiusi in casa per il virus, il leader che faceva sapere di trattare alla pari con la cancelliera tedesca Angela Merkel per il Piano di ripresa e resilienza? Lo statista che faceva fuori il Matteo Salvini del Papeete e che una volta sconfitto con il suo secondo governo passava la campanella a Mario Draghi assicurando il suo sostegno leale perché l’Italia viene prima? O quello che pretendeva che si prendesse per buono il suo no a che diventasse presidente della Repubblica perché non si poteva assolutamente fare a meno di Draghi alla guida dell’esecutivo? E che fine ha fatto l’uomo che, ai tempi d’oro, il suo staff accreditava come uno statista che non avrebbe sfigurato al Quirinale?

Sembra suicida il suo tentativo di mettersi alla testa di una copia sbiadita e sgangherata dei tempi del vaffa, senza idee nuove, senza il lavoro certosino di quello sgobbone di Luigi Di Maio, con una ridotta di parlamentari fedeli solo finché qualcuno non gli buttasse un’ancora del si salvi chi può e con il ministro degli Esteri che è già pronto ad accogliere una pattuglia nutrita di nuovi fuggiaschi.

Si apre per altro, per l’ex premier, una partita disperata sul fronte delle alleanze. Nel Pd c’è chi comincia a mettere in discussione anche le primarie comuni per le regionali siciliane e la possibilità di individuare nei collegi uninominali candidati unitari è destinata a naufragare con il giudizio diverso sul governo Draghi, sulla guerra e su tante altre cose. Con l’aggiunta del taglio dei parlamentari quello che fu l’esercito dei cinque stelle si avvia sulla strada dell’irrilevanza.

Conte non può nemmeno contare su un sostegno sicuro di Beppe Grillo, che ha smesso di amarlo già agli esordi della sua contrastata leadership, quando tentò, senza riuscirci, di ottenere per statuto i pieni poteri, esautorando il fondatore. È in fondo la sua vocazione avvocatizia a confonderlo, l’idea che in politica ci si possa impossessare del timone di un partito mettendolo per iscritto, e non conquistandolo giorno dopo giorno.

Loro sono finiti, il populismo no. Boris Johnson e Giuseppe Conte, come hanno potuto due tipi così diventare premier? David Romoli su Il Riformista l' 8 Luglio 2022 

Nella stessa giornata precipita Boris Johnson, appena tre anni dopo la folgorante vittoria elettorale, e affonda nelle sabbie mobili nelle quali lui stesso si è infilato Giuseppe Conte, meno di due anni dopo i giorni del trionfo, della popolarità più da star dello spettacolo che da leader politico, dell’infatuazione cieca che portò innumerevoli esponenti della sinistra a definirlo “insostituibile”. Difficile immaginare figure più diverse: l’oscuro avvocato di Volturara Appula (Foggia) catatapultato a palazzo Chigi come un signor Nessuno e il rampollo dell’aristocrazia Alexander Boris de Pfeffel Johnson con alle spalle una brillante carriera di giornalista e due mandati come sindaco di Londra. Invece qualcosa in comune i due ce l’hanno. Sono entrambi figure improbabili, l’avvocato premier per caso, capace di cambiare ruolo politico e immagine come ci si cambia d’abito, buono per tutte le stagioni, e l’istrione rumoroso, sempre sopra le righe, di proverbiale inaffidabilità, pittoresco ma nulla di più. Ritrovarli in ruoli chiave della politica europea desta lo stesso stupore, suscita identiche domande su cosa sia la politica nel XXI secolo ormai avanzato.

BoJo è il giornalista licenziato dal Times per l’uso di citazioni false, l’opinionista che sulla Brexit aveva preparato per il Telegraph due articoli, un a favore e l’altro contro la Brexit, tanto per essere certo di non sbagliare. Tre mogli, una quantità di figli tra legittimi e non, una fama leggendaria nelle redazioni londinesi per l’abitudine di mandare pezzi in clamoroso ritardo e una nomea altrettanto discutibile nei salotti della politica per la capacità di inanellare gaffes una via l’altra e per il disordine caotico. Tutto un altro stile dall’avvocato Conte, sempre in perfetto ordine, abilissimo nell’usare sempre il tono giusto a seconda degli interlocutori, attento al dettaglio come solo un leguleio può essere. Ma anche qui qualcosa di simile, anzi identico c’è: una cura per l’apparenza tanto meticolosa quanto eloquente. BoJo è noto per scompigliarsi apposta il ciuffo, curando nel dettaglio l’immagine noncurante. L’eleganza un po’ provinciale di Conte è celebre, con quella pochette sempre ben piegata che per un po’ ha fatto epoca in Italia. Sono arrivati alla carriera politica per sentieri opposti, ma scommettendo sulle stesse carte: l’immagine che ormai in politica è tutto, l’apprezzamento dell’elettorato femminile, che entrambi possono vantare a ottimo diritto.

BoJo deve l’inatteso sbarco a Downing Street alla Brexit e al fallimento di Theresa May. Si presentò agli elettori con promessa solo, quella di portare la Brexit a compimento e fu plebiscitato. Conte fu spinto dalla stessa onda che aveva riempito il Parlamento di deputati e senatori per caso. Anche se lui non faceva parte del plotone. L’Italia si accorse della sua esistenza solo il 21 maggio 2018, uscito fuori a sorpresa dal cilindro di Luigi Di Maio, “capo politico” del M5S, che lo aveva proposto a Sergio Mattarella come futuro capo di un governo M5S-Lega. Non era il primo presidente del consiglio non parlamentare. Il predecessore si chiamava Carlo Azeglio Ciampi, governatore di Bankitalia, insomma non certo uno sconosciuto.

Conte invece sconosciuto lo era davvero. Ed eccolo di colpo capo del governo, con aria modesta e eloquio sin troppo umile, consapevole all’apparenza di essere quasi un prestanome sotto tutela stretta dei veri potenti, i vicepremier e ministri di gran peso Gigi Di Maio e Matteo Salvini, futuri arcinemici. Faceva persino un po’ di tenerezza. Quando le telecamere lo sorpresero a colloquio con Frau Merkel, a notte inoltrata, in occasione di un vertice internazionale, l’inesistente considerazione della potentissima faceva quasi stringere il cuore.

BoJo danzava al suono della musica opposta. Arrogante, rumoroso, clownesco, eccentrico, convinto di essere destinato alle vette più alte e di non dover dunque concedere nulla alle forme e alla diplomazia. Ma del resto anche per Conte umiltà e modestia erano solo di facciata. La competizione tra i due soci della maggioranza gialloverde gli offrì l’occasione di emergere e smarcarsi. Salvini correva come un treno ad altissima velocità, lievitava nei sondaggi. I 5S masticavano amaro, subivano l’iniziativa del tribuno che rubava scena e consensi. Conte si autonominò l’anti-Salvini. Agli occhi dei già tramortiti 5S chiunque sembrasse in grado di frenare il leghista sembrava il redentore. Si innamorarono dell’ex anonimo prestanome.

Ma non furono solo i grillini smarriti a guardare con interesse all’uomo che si contrapponeva all’impeto leghista. Anche i poteri italiani ed europei che lo avevano sino a quel momento considerato meno di zero si chiesero se non fosse proprio lui lo sconosciuto inviato dalla Provvidenza per domare e normalizzare i pargoli del “Vaffa”, quella variabile impazzita che stava facendo saltare ogni equilibrio. Proprio l’opposto dello sguardo sempre più preoccupato con cui guardavano al rumoroso Boris e alla sua fermezza nel difendere le linee guida della Brexit. Per Bruxelles il populista pericoloso era lui, non il premier insediato in Italia dal partito del “Vaffa”.

Conte capì l’antifona, rispose alle aspettative. Con una manovra astuta spostò i voti determinanti dei 5S ex anti Ue a favore della nomina di Ursula von der Leyen alla presidenza della commissione europea. Tenne all’oscuro del progetto gli alleati leghisti che si ritrovarono così soli a difendere i bastioni del sovranismo antieuropeo mentre i 5S slittavano verso l’immagine di forza europeista, responsabile e ragionevole, Accettabile.

Lo scontro con Salvini era a quel punto inevitabile. Il corpo a corpo parlamentare con il truce leghista gli valse un vero e proprio miracolo: la riconferma alla guida del governo successivo, con maggioranza opposta, fondato sull’asse Pd-M5S. Spuntò un Conte “di sinistra“, l’uomo giusto per realizzare l’impensabile: un’alleanza non più coatta ed effimera ma stabile e progettuale tra il Movimento e il nemico di sempre, il Pd.

Miracolato in realtà Conte lo fu due volte. Pochi mesi dopo averlo confermato sul trono di palazzo Chigi, Matteo Renzi si preparava già a disarcionarlo. Poi arrivò il Covid e con il coronavirus arrivò anche l’apoteosi di “Giuseppi“, come da definizione trumpiana. Con la regia di un Rocco Casalino scatenato, Conte fu superlativo sul piano dell’immagine ma decoroso, date le immense difficoltà del momento, anche nella sostanza. Non che siano mancati errori anche gravi nella gestione della pandemia e la missione Recovery Fund non sarebbe andata lontana senza la pressione delle aziende tedesche, che avevano bisogno della componentistica italiana, e di conseguenza di Angela Merkel. Ma nel complesso Conte in quell’anno difficilissimo ha tenuto botta davvero e ha offerto al Paese l’immagine di cui aveva bisogno: quella di un governo rassicurante, decisionista e davvero partecipe del dramma che viveva il Paese.

Non si può dire altrettanto di BoJo. Il Covid ha segnato per lui l’inizio della fine politica. L’inquilino di Downing Street lo ha preso sotto gamba, è apparso oscillante, poco adeguato, soprattutto distante dal suo popolo. Del tutto incapace di costruire quel legame tra potere e popolo come invece è riuscito per un po’ a fare da noi l’omologo italiano.

Le quotazioni di Giuseppe Conte, già perfetto sconosciuto, s’impennarono. Difficile ricordare un’ascesa altrettanto folgorante nei consensi popolari. Non bastò. Gli giocavano contro l’abilità manovriera di Renzi, la diffidenza degli Usa, che lo consideravano troppo corrivo con la Russia e con la Cina, l’ostilità di Di Maio, che lo costrinse a dimissioni tutt’latro che dovute quando una mozione di sfiducia stava per abbattere il ministro della Giustizia Fofò Bonafede. Ma gli giocavano contro anche, forse soprattutto i suoi limiti. Tra le tante immagini di Giuseppe Conte nessuna è più lontana dal vero di quella del decisionista. L’uomo, al contrario, è tra i più indecisi e privi di audacia. Accerchiato dalla manovra di Renzi non ebbe né il coraggio di rompere per primo né la determinazione nell’imporre elezioni, come avrebbe potuto fare, dopo la defenestrazione. Non se la sentì neppure di fondare un proprio partito per capitalizzare l’enorme consenso di cui godeva in quel momento.

Tutte le differenze tra lui e l’aristocratico inglese si ricompongono qui. Perché anche BoJo paga i soli limiti di carattere: la superficialità, l’assenza di metodo, l’incapacità di guidare un Paese e un partito, la leggerezza che lo rende un grande personaggio ma anche un pessimo leader.

Del resto proprio i difetti di carattere, non più controbilanciati dalla rendita di posizione garantita da palazzo Chigi, hanno reso per Conte un calvario l’esperienza di leader del M5S: un titolo al quale non ha mai corrisposto la sostanza. Il quadro del Conte capo di partito. Costretto dagli eventi prova ora a cambiare ruolo e immagine: dopo essere stato il normalizzatore dei 5S tenta di trasformarsi nel leader che li riporta alle origini, alla grinta populista, all’integrità fortemente venata di integralismo. Non è la sua parte in commedia. E’ la più distante dalla sua personalità, quella più ostica persino per un leader “buono per tutte le stagioni“. Per questo non è escluso che sia l’ultima incarnazione di Giuseppe Conte sia anche quella finale.

Ma la domanda iniziale resta: come è possibile che simili figure siano arrivate in tempi rapidissimi al vertice delle istituzioni di Paesi importanti come il Regno Unito e l’Italia? Difficile evitare il dubbio che sia proprio la politica in sé ad aver perso buona parte del proprio ruolo, in una dinamica in cui i poteri reali la vivono sempre più come un impaccio e una formalità necessaria ma fastidiosa, alla quale rendere tutt’al più qualche omaggio formale. In un quadro complessivo dove la politica conta pochissimo nessuna figura è troppo improbabile, purché sappia dispiegare un’immagine almeno per qualche tempo seducente. David Romoli

Conte, storia di un bluff a 5 Stelle. Lo diceva pure Grillo: Giuseppe è il nulla. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 03 luglio 2022

Era giusto un anno fa, giorno più giorno meno, e per la prima volta il comico Beppe Grillo fu serio, coerente e veritiero come mai prima: «Giuseppe Conte non ha visione politica né capacità manageriali». Erano allora in gioco i fondamentali del velleitario rilancio pentastellato, una cura ricostituente per un Movimento giunto alla terzaesperienza di governo in una sola legislatura, con mezza faccia caduta, parlamentari ed elettori in fuga, un atrabiliare bispremier alla ricerca d'un trampolino dal quale rilanciarsi dopo l'estromissione da Palazzo Chigi a beneficio di Mario Draghi. Fu così che il causidico di Volturara Appula cercò di scriversi uno statuto su misura in modo da limitare i poteri di Grillo, il fondatore, l'Elevato suo creatore insieme a Luigi Di Maio, al punto tale da musealizzarlo nel notorio blog senza poteri decisionali. Come una statua di marmo parlante ma non più decidente.

SENZA APPELLO

Giustamente il demiurgo, incattivito assai, rispose così: «Conte non ha esperienza di organizzazioni, né capacità di innovazione... questo l'ho capito, e spero che possiate capirlo anche voi... Non possiamo lasciare che un movimento nato per diffondere la democrazia diretta e partecipata si trasformi in un partito unipersonale governato da uno statuto seicentesco... Vanno affrontate le cause per risolvere l'effetto ossia i problemi politici (idee, progetti, visione) e i problemi organizzativi (merito, competenza, valori e rimanere movimento decentralizzato, ma efficiente). E Conte, mi dispiace, non potrà risolverli». Grillo in quell'occasione non poteva saperlo, ma le sue parole rientravano con estrema precisione nella caratteristica facoltà profetica dei buffoni di corte e dei moribondi (politicamente parlando, in tal caso).

I due avrebbero fatto pace di lì a qualche settimana, ma era una pace d'argilla e di fango, nella quale Conte ha finito per impaludare l'ultimo lacerto di popolarità che gli derivava dall'essere stato premier con poteri straordinari nello stato d'emergenza pandemico più angosciante dell'ultimo secolo. E in questa palude il cinico Grillo lo ha progressivamente abbandonato invaghendosi perfino di Draghi («uno dei nostri!»), con il quale avrebbe preso la consuetudine di scambiarsi telefonate o messaggini confidenziali e derisori, in un misto d'indolente cazzeggio proprio alle spalle dell'inadeguato, ex «fortissimo punto di riferimento progressista» secondo l'incauta definizione coniata dal suo compagno di sventura Nicola Zingaretti quando ancora credeva di essere il segretario del Partito democratico.

Ah se Grillo avesse davvero ponderato sin da subito la portata di quelle sue dichiarazioni affilate come la lama di un chirurgo impegnato nell'autopsia d'una carriera ormai oltretombale... chissà, magari adesso non si ritroverebbe costretto a dare del traditore al governista Di Maio mentre raccoglie i cocci infranti dall'inconsolabile avvocato foggiano. Perché aveva proprio ragione: Conte mancava di qualsiasi esperienza che non fosse circoscritta nell'oratoria tribunalizia d'una paglietta novecentesca disponibile a ogni committenza, con quella sua voce appiccicosa e sfibrante come carta moschicida, quella sua istintiva devozione per il potente di turno (ricordate la birra con Angela Merkel accompagnata da salatissimi commenti contro l'alleato sovranista Matteo Salvini?), quel suo narcisistico bisogno di fastosità egoriferita - dalle conferenze stampa nel cortile di Palazzo Chigi agli Stati generali per rimpannucciare l'Italia convocati in mondovisione nell'estate 2020 a Villa Doria Pamphilij - e così stridente rispetto alla gravitas richiesta dalle tragiche circostanze. 

I TEMPI DELLA GRANDEUR

E adesso, di là dalla profezia grillina dell'estate scorsa, che cosa resta dell'ex premier che voleva farsi un principato tutto suo, o in alternativa un partito, sorretto soltanto dalla capacità metamorfica di fingersi a giorni alterni populista in grisaglia o statista in maniche di camicia? Ben poco: dai vertici dei Servizi segreti al potentato d'Invitalia in cui regnava l'ex super commissario Domenico Arcuri, lo spoil system draghiano è andato avanti con il passo cadenzato e geometrico del gesuita euclideo. Parallelamente, la piccola nomenclatura pentastellata si è divisa e disciolta da programmi inesistenti e vincoli d'obbedienza rimasti allo stadio tribale: i grandi notabili hanno seguito l'enfant prodige di Pomigliano d'Arco o si sono accodati alle filiere più promettenti d'altri partiti. I trinariciuti più identitari sono stati via via espulsi come calcoli renali. Certo è rimasto Alessandro Di Battista in piazza, e che piazza: quella rossa di Mosca, ad attendere che "Giuseppi" -vezzeggiato così, come un peluche, anche da Donald Trump quando era interessato ad avere accesso ai nostri segretucci di Stato riguardanti presunte congiure contro di lui - ritorni laddove dove tutto è iniziato: tra la Russia e la Cina, lungo la Via della Seta santificata dallo stregone Grillo nel suo laboratorio di leadership abortite. 

Le pene del M5S. Conte, la solitudine di un finto leader. Il capo del M5S tira la corda sul governo, ma non affonda mai il colpo. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 2 Luglio 2022

Si fermò una macchina davanti a Palazzo Chigi, si aprì lo sportello e non scese nessuno. E no, non era Clemence Attlee, era Giuseppi Conte, sotto la pochette poco e niente, quello che dell’attuale usurpatore dice: “Non è un politico, lo hanno imposto altri”. Eh, già, Conte invece chi l’ha imposto, dopo averlo assemblato? La CasaleggioAssociati, società di profilazione dati con la benedizione di Mattarella, al punto forse più infimo di una nazione miserabile, degnamente rappresentata da una Capitale di merda (alla lettera: basta girarla dieci minuti e vi passa ogni ambizione di eufemismo).

Questione di pulpiti: chi rappresenta questo avvocato della Deep Foggia, che credeva di esistere? Il Movimento no, gli ha dato il vento, del resto non esiste più, ha fatto il vento la creatura di Grillo che con il successore, l’usurpatore, si scambia chiacchiere da buvette: “Pissi pissi, un incapace, un buono a nulla; pissi pissi, ma allora fallo fuori, no?”. Poi l’ha raccontato De Masi, sociologo grillino, teorico della decrescita felice, sul Fatto Quotidiano di Travaglio, uno che quando sposa qualcuno, puoi star certo che quello finirà malissimo, bruttissimo, prestissimo; accadde con: Di Pietro, Ingroia, De Magistris; Vendola, Fini, Sabina Guzzanti; Santoro, Amurri, D’Arcais, Di Battista, Conte. La Nazionale della Sfigandia. Conte è quello che ci ha creduto di più: e adesso, pover uomo?

Lui segue Travaglio, nessuno segue lui, l’esperimento politico si è trasformato in cavia e il poveretto minaccia con la pistolina ad acqua, sempre più bisbetico, sempre più mediamente isterico, confuso e infelice. E esco e non esco, e mollo e non mollo, e tengo e non tengo, e faccio il pacifista ma però non è detto, e adesso facciamo i conti, e domani mi sentono: ma chi te sente? Non lo caga nessuno, neanche la “fidanzata”; Grillo lo tratta da pagliaccio, manco cabarettista; Di Maio è salpato per democristiani lidi; si parla di una clamorosa associanza Conte-Santoro, e dietro ci intuisci sempre la solita sagoma di Travaglio, quello che non mangia per somigliare a Montanelli.

Altra catastrofe in arrivo, garantito.

Daimò, bimbo bello: ché son finiti i tempi in cui potevi chiudere 60 milioni di disgraziati e vantartene agli occhi del mondo: avevi scoperto che comandare è meglio che fottere, passavi da un orgasmo all’altro, indulgevi in conferenze stampa metrosexual officiate da Casalino, facevi l’arrogante coi cronisti peraltro servili, facevi i selfie con Scanzi perculando Salvini, mentivi a bomba, “questo è l’ultimo miglio”, non sapevi dove sbattere la testa e la facevi sbattere a noi, inanellavi rovine opache, vedi i banchi a rotelle della Azzolina, vedi la pioggia di mascherette farlocche e tossiche, di respiratori come tubi del gas, di tamponi bugiardoni.

Uno scenario da Repubblica tribale, che solo una magistratura come questa ha lasciato fondamentalmente passare in cavalleria, perché c’era il profumo soffice della Via della Seta, il big business della sinistra, che sarebbe emerso a tempo debito, e i consigli di Pechino che, come Acta Diurna, ogni giorno si depositavano con lieve fruscio sulla scrivania del rude, mascolino Giuseppi.

L’italiano è un esemplare incline alla dimenticanza, ma chi scrive no: la gestione di pandemia 1 fu roba da sciagurati grillini, la miserabile strategia di regime, tutta decreti personalizzati, strage di diritti costituzionali, sfascio ulteriore della sanità, sbirri che correvano dietro a bagnanti isolati sugli scogli, psicosi e distruzione dei commerci, delle attività, della società, fu tutta roba grillina, grillo-piddina, supportata dal Fatto al completo, eseguita da Conte.

L’altro, il Supertecnico, super di cosa si è capito presto, ma sarebbe stato meglio subito, l’ha ereditata, continuata e perfezionata. Il risultato è di una continuità nel fallimento, istituzionalmente scemo e più scemo. Quindi no, Conte non ci fa tenerezza e nemmeno pena (così come non ce la farà, domani, Draghi): la sua tragedia è solo una piccola parte di quello che merita; con lui i protetti come Arcuri, ve lo ricordate Arcuri, l’uomo forte del governo Giuseppi? Lo hanno appena defenestrato da Invitalia.

Quindi no, la ContExit non fa ridere, anche se il suo affondare è catartico. Conte è il principio di questa fine che non finisce mai, è l’incapacità totale messa al vertice nella complicità imperdonabile del Capo dello Stato. È l’improvvisazione al potere in uno sconcertante trionfo dello sfascio. Tutto il resto ne è disceso, ma il Paese non finirà di scontare la rovina originata da un oscuro avvocato di paese che credeva di esistere. E che, a sentirsi definire per quello che è, fa l’offeso, e nel suo oscillare, nel suo sbraitare patetico conferma, oltrepassa il giudizio più umiliante e più spietato. A volte, l’unica decenza che si può salvare è la dignità con cui si evapora. Ma se uno la dignità non ce l’ha, non se la può dare. È finito, ma non si rassegna a tornare all’irrilevanza: gli daranno un blog sul Fatto Quotidiano e poi un ingaggio all’Isola dei Famosi, dove finiscono tutti quelli che di qualità ne hanno pochette. Max Del Papa, 2 luglio 2022

Acqua Marcia, Conte non ha dato ai pm i documenti sulle sue consulenze d’oro. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 21 giugno 2022

Lo scorso gennaio la Gdf aveva chiesto all’ex premier di consegnare documenti sulle sue consulenze d’oro ad Acqua Marcia. Nel 2012 Conte aveva avuto da Fabrizio Centofanti e il figlio di Bellavista Caltagirone incarichi per circa 400mila euro

L’avvocato Amara ha detto di aver “raccomandato” a Centofanti i nomi di alcuni avvocati, tra cui Conte, Guido Alpa, Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone. I pm di Roma hanno aparto così un fascicolo per bancarotta, per ora senza indagati

Dopo la richiesta di acquisizione documentale, tutti gli avvocati hanno consegnato fatture e perizie alla procura, tranne Conte. Sono passati ben cinque mesi: ora la procura potrebbe ordinare un sequestro

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Conte insediato dai giudici ma "sfiduciato" dai suoi. Domenico Di Sanzo il 16 Giugno 2022 su Il Giornale.

Respinti i ricorsi degli ex pentastellati. Gli eletti del M5s però si oppongono al "partito personale".

«Abbiamo vinto». Dopo giornate segnate dalle sconfitte alle elezioni amministrative di domenica e lunedì, finalmente il M5s può cantare vittoria. Ma il rigetto del ricorso degli attivisti napoletani difesi dall'avvocato Lorenzo Borrè potrebbe anche essere letto come una vittoria di Pirro, nient'altro che un diversivo per distogliere l'attenzione dalle percentuali insoddisfacenti raccolte nelle città e dai problemi interni di un partito in crisi di identità, con più di 170 parlamentari sicuri di non essere rieletti. Deputati e senatori che hanno tirato i remi in barca, non versano più nelle casse del Movimento e sono indecisi se cercare la chance di una poltrona in un altro partito oppure intascare lo stipendio fino al 2023, nella speranza di un incarico locale una volta perso il seggio in Parlamento. La cifra dei 170 rassegnati viene scodellata dagli eletti che hanno già cominciato a scommettere sulle proporzioni dei prossimi gruppi grillini di Camera e Senato. «Dai 227 che siamo ora, la prossima volta saremo in sessanta secondo le previsioni più rosee», calcolano tra Montecitorio e Palazzo Madama.

Perciò la non-sconfitta di Napoli assume i contorni di un premio di consolazione. Il Tribunale partenopeo, che a febbraio scorso aveva annullato il voto di agosto 2021 sulla leadership di Conte, stavolta ha rigettato tutte le contestazioni mosse dai ricorrenti. Dalla violazione dei principi di parità degli associati, con la candidatura di Giuseppe Conte all'eleggibilità esclusiva di pochi negli organi di garanzia. Nessuna sospensiva per la seconda votazione di marzo scorso. Ma comunque non si tratta di un verdetto definitivo, perché poi i giudici entreranno nel merito in seguito, con la sentenza di primo grado. «Il Tribunale di Napoli ha respinto il ricorso in sede cautelare contro lo Statuto e le democratiche scelte dei nostri iscritti sul futuro del M5S - twitta Conte - andiamo avanti per il rilancio del nuovo corso». «Il Tribunale di Napoli ha messo fine a un lungo e penoso teatrino», commenta la vice di Conte Paola Taverna. «Un'ottima notizia per la nostra comunità. Ora andiamo avanti. Continuiamo a lavorare con determinazione e responsabilità», esulta il presidente della Camera Roberto Fico. «Il tribunale di Napoli ci ha dato ragione, è una vittoria di Conte», spiega all'Adnkronos Francesco Cardarelli, uno dei legali del M5s.

I problemi restano sotto il tappeto. E fino alle Politiche del 2023 Conte avrà a che fare con parlamentari mal disposti a seguirlo. «Qualcuno tenterà di andare con la Meloni o con il Pd, tutti gli altri vogliono solo lo stipendio e voterebbero la fiducia anche a Hitler pur di finire la legislatura», dice al Giornale un senatore al secondo mandato.

Sempre sul fronte parlamentare, per tutta la giornata ha tenuto banco l'intervista del vice di Conte Mario Turco a La Gazzetta del Mezzogiorno. «Sia chiaro, senza il presidente Conte, il M5s di fatto non esiste», la frase dell'ex sottosegretario a Chigi. «Ma stiamo scherzando? Siamo passati al partito personale? È un'eresia rispetto ai nostri valori», la reazione di un parlamentare. «Parole vergognose dai vertici M5s. Siamo passati dal Movimento 5 stelle al Movimento 1 Conte. Io non ho più parole», commenta il deputato Sergio Battelli. E non mancano le polemiche sui nuovi referenti regionali. «Conte ha premiato alcuni degli artefici del flop alle Amministrative, sono degli yesman», attacca un parlamentare.

"Ha un problema di coerenza...". Tutti gli errori del CamaleConte. Martina Piumatti l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

“Il Movimento è al capolinea e Conte non ha il carisma politico per arrestare il declino”: Massimiliano Panarari traccia la diagnosi di una celebrità che si crede leader.

La quasi scomparsa dalle liste elettorali, la caduta libera nei sondaggi. Le spallate al governo, prima annunciate e poi smentite, l’amore odio con i dem, i rumors su un possibile divorzio dal M5s per un partito tutto suo, fino al verdetto che ne decreterebbe l’uscita di scena definitiva. Massimiliano Panarari, docente di sociologia della comunicazione all’Università Mercatorum esperto dei 5 stelle, spiega perché quella di Giuseppe Conte è una leadership mancata, tra “l'incompatibilità di fondo” con il MoVimento che dovrebbe guidare e un “populismo apprettato” che ormai non convince più.

In un anno di presidenza Conte il M5s ha perso costantemente punti nei sondaggi. Ha ragione Curzio Maltese che incolpa l’ex premier di aver messo in ginocchio il MoVimento perché ne ha ignorato i valori fondanti?

“Nel M5s in realtà i valori sono molto general generici. Come tutti i partiti neo populisti, è caratterizzato da un modello catch-all, cioè che piglia da tutte le parti grazie proprio alla genericità dei propri valori di fondo. Le istanze generiche della politica antisistema garantiscono un facile successo alle urne, ma poi il problema è la discrasia fra le promesse mirabolanti e le realizzazioni mancate. E questo è un ulteriore elemento di delusione e di destituzione presso l’elettorato 5 stelle”.

Rispetto a 5 anni fa il M5s ha presentato il 70% in meno delle liste elettorali. Questa ritirata tradisce proprio la paura della punizione degli elettori delusi?

“Prima cosa, c’è una difficoltà organizzativa sul territorio dovuta a forti contrasti interni che hanno via via distrutto il radicamento territoriale dei meet-up delle origini. Poi, essendo il M5s un movimento d’opinione nazionale considera la questione territoriale meno rilevante e la usa per scaricare gli scontri fra le varie correnti, che così faticano a trovare la quadra. Last but not least, il campo largo con il Pd è un’alleanza incerta con una distanza che Giuseppe Conte non perde occasione di rimarcare in campagna elettorale. Quindi essendo già deboli autonomamente i 5 stelle finiscono per essere minori anche nei casi in cui si presentano con il Pd”.

Allora domenica finirà male per il MoVimento?

“Dai sondaggi dovremmo assistere a un ulteriore ridimensionamento. Se così sarà le tensioni intestine continueranno a moltiplicarsi, anche se difficilmente esploderanno, continuando a logorare dall’interno. Mentre lo scontro principale, quello Di Maio versus Conte, potrebbe assumere i caratteri di guerriglia vera e propria con un problema: in questo caso investirebbe la tenuta del governo”.

Secondo Enrica Sabatini, il MoVimento paga l’errore di Conte “di voler qualcosa che tutti sapevano che non era in grado di ottenere, ossia essere il leader di una forza politica." È così?

“Conte utilizza un linguaggio anti sistemico ma è stato presidente del Consiglio per due volte. Possiede un patrimonio personale di consenso che però non ha utilizzato nella scalata al MoVimento e che non coincide con quelle che erano le motivazioni anti sistemiche originarie per cui tanti hanno votato i 5 stelle. Quindi siamo di fronte a un paradosso, uno degli infiniti paradossi che riguardano la figura di Giuseppe Conte”.

L'ex premier ha preannunciato, per il 21 giugno, una resa dei conti in Aula sulla questione dell’invio delle armi in Ucraina. Molto rumore per nulla o la spallata ci sarà davvero?

“Credo che tutto dipenderà dal risultato delle amministrative. Molti sostengono che strappando e uscendo dal governo riguadagnerebbe punti e agibilità politica, ma questo non è detto e relegandosi a una posizione di opposizione potrebbe essere punito alle elezioni politiche dell’anno prossimo. Poi l’ala governista del MoVimento, guidata da Di Maio, e molti eletti che, con il taglio dei parlamentari difficilmente verrebbero riconfermati, non hanno alcuna intenzione di chiudere questa esperienza di governo. La mia idea è che Conte voglia alzare il più possibile la posta senza strappare”.

Il problema di Conte quindi è anche una comunicazione politica fatta di sparate propagandistiche che vanno a finire in niente.

“Sicuramente c’è un problema di coerenza. Il Movimento 5 Stelle ha avuto successo proprio per le sue proposte antisistema, ma poi con Conte questo ingranaggio si è scassato, perché non puoi essere antisistema e andare al governo due volte. Il populismo è stato congelato dalla pandemia, sterilizzato dal governo Draghi per confluire nelle istanze no vax e filopuntiniste. Ma c’è ancora, si gonfia a intermittenza e va alla ricerca di un’offerta politica che nel M5s di Conte non esiste, perché la verità è che Conte è un uomo di sistema. In politica è riuscito solo per un breve periodo ad essere il frontman dell’ala movimentista dei 5s, seppure un po’ apprettata, abituata a un’escalation simbolica dello scontro ad ogni mancato raggiungimento di obiettivi concreti. Un’alzata dei toni che, però, non è nelle corde di Conte.”

Gli manca la stoffa del leader politico?

“Una caratteristica del ‘CamaleConte’ è di essere molto adattabile alle circostanze, ha la capacità, come diceva Berlusconi, di farsi concavo e convesso. Ed è chiaro che quando il contesto è negativo è molto più difficile, perché bisogna prendere delle decisioni radicali che Conte non è in grado di prendere perché è un doroteo postmoderno. Non è un leader carismatico e decisionista, ma è un politico celebrtity”.

Però, sondaggi alla mano, il gradimento personale dell’ex premier supera il 30%, secondo solo a Giorgia Meloni.

“Conte è in grado di riscuotere consenso personale con caratteristiche che non sono politiche, ma legate alla sua figura, alla sua presentabilità di politico celebrity: del tutto incompatibile con il MoVimento. E un’ulteriore conferma ce la potranno dare le elezioni amministrative di domenica”.

Se il verdetto del tribunale di Napoli sulla validità dello statuto del M5s, e dunque della sua leadership, fosse negativo, Conte potrebbe prendere la palla al balzo e fondare un partito tutto suo?

“Fino ad ora non lo ha fatto per paura di rischiare, perché servono investimenti, strutture organizzative che in questo momento è complicato mettere in campo e perché la scommessa dei maggiorenti 5 stelle era che la sua popolarità potesse rivitalizzare il MoVimento. Cosa che evidentemente non sta riuscendo. Quindi, se la sentenza del tribunale fosse negativa potrebbe farlo ora. E sarebbe una nemesi per il M5s che ha molto giocato di sponda con alcuni pezzi della magistratura e ora vedrebbe il suo leader estromesso dalla stessa magistratura”.

Via Conte nel M5s sarebbero finiti i problemi?

“Non è un problema di leadership ma di ragione sociale di quello che il grande paradosso, la forma per eccellenza della politica post-moderna in Italia che è il M5s. Il MoVimento ha esaurito la sua spinta propulsiva e la mission per la quale è stato votato. Servirebbe un leader trasformatore capace di ridargli un’anima e nuovi obiettivi per esistere. Conte è solo un temporeggiatore adatto a contenere il declino. E comunque non è detto che avere una nuova mission basti, perché credo che il breve ciclo vitale del M5s sia arrivato al capolinea”.

“Io Giuseppe Conte mi iscrivo al M5S”: la discussa lettera last minute con cui l’ex premier era diventato grillino un attimo prima del voto del nuovo statuto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Giugno 2022.

Secondo i ricorrenti l'adesione di Conte sarebbe avvenuta in un periodo in cui sul nuovo sito 5 Stelle era sospesa la procedura di iscrizione: «Questo – accusano i ricorrenti – dimostra l'eccezionalismo di cui ha goduto Conte».

Con una mail Giuseppe Conte è entrato nella “famiglia” del Movimento 5 Stelle: «Il sottoscritto Giuseppe Conte nato a Volturara Appula (Fg) il 08/08/1964…». Il messaggio venne inviato il 17 luglio 2021, alle ore 16:48 al Comitato di garanzia pentastellato. La lettera, di cui l’agenzia Adnkronos è in possesso, è agli atti del processo che è in corso davanti al Tribunale di Napoli, dove domani si svolgerà l’udienza sul nuovo ricorso presentato da un gruppo di attivisti contro lo statuto e il voto che ha incoronato Conte leader del Movimento.

«Dichiaro che i dati sono autentici e completi. Dichiaro inoltre di non aver compiuto altre iscrizioni al Movimento 5 Stelle. Dichiaro di aver preso visione dell’informativa sul trattamento dei dati personali fornitami dal Titolare Associazione Movimento 5 Stelle con sede legale in Roma, Via Nomentana 257, ai sensi dell’art. 13 e 14 del a Regolamento Europeo sulla privacy», scrive Conte nella mail che ha come oggetto “Iscrizione al Movimento 5 Stelle”, aggiungendo: «Dichiaro di aver letto e di accettare le previsioni dello Statuto e del Codice Etico dell’Associazione Movimento 5 Stelle assumendo l’obbligo di rispettarne le previsioni. Dichiaro di aver preso visione dell’organigramma dell’Associazione Movimento 5 Stelle accettando e riconoscendo la legittimità del medesimo». 

Secondo i legali del M5S questa mail certifica l’iscrizione di Conte al M5S nei giorni che hanno preceduto il primo voto sullo statuto, votazione avvenuta la prima settimana di agosto 2021. I ricorrenti invece a loro volta contestano la sua modalità di iscrizione, perché nella mail non sarebbe chiaramente espressa la volontà dell’ex premier di aderire al M5S: inoltre, evidenziano gli attivisti, il messaggio non è accompagnato dal documento di identità (richiesto a tutti coloro che intendono iscriversi al M5S).

Infine sempre secondo i ricorrenti l’adesione di Conte sarebbe avvenuta in un periodo in cui sul nuovo sito 5 Stelle era sospesa la procedura di iscrizione: «Questo – accusano i ricorrenti – dimostra l’eccezionalismo di cui ha goduto Conte». Redazione CdG 1947

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 24 aprile 2022.  

Caro Merlo, sono deluso di Conte e dei 5S: ascolto che, secondo il leader Conte, Le Pen "pone questioni da affrontare". Non riesco a credere alle mie orecchie: possibile una scemenza del genere? Anche Meloni pone questioni da affrontare, ma si dichiara "coraggiosamente" di destra. Gualtiero Todini – Roma 

Risposta di Francesco Merlo: Ora chiuda gli occhi e ripercorra la storia di Conte. È sempre stato una finzione dell'Italia a 5 stelle, l'Agilulfo di Calvino, che non era un cavaliere ma una lucida armatura vuota. Se preferisce il cinema, è il "quo vado" di Zalone: cerca ancora il posto fisso.

Dagonews il 27 aprile 2022.

Quella oscura e intricata vicenda nota come “Russiagate” (il tentativo, da parte dell'amministrazione Trump, di abbattere con una contro-indagine l'inchiesta originaria del Fbi e del procuratore Robert Mueller sull'interferenza della Russia nelle elezioni americane 2016) ha lasciato in Italia gli stessi veleni depositati negli Stati uniti.

Al centro dei tanti interrogativi sul caso ci sono Giuseppe Conte e l’ex capo del Dis, Gennaro Vecchione. 

Quest’ultimo, il 15 agosto del 2019, incontrò riservatamente in un ristorante a piazza delle Coppelle a Roma l’allora segretario alla Giustizia

William Barr, arrivato in Italia in missione per cercare informazioni sulla presunta cospirazione dei democratici a danno di Trump.

Conte sostiene di non aver saputo nulla della “semplice cena conviviale”, come l’ha liquidata Vecchione: “Non sono stato informato perché non era necessario”. 

Un presidente del Consiglio può essere tenuto all’oscuro dell’incontro del capo dei Servizi segreti con un pezzo da novanta come Barr, arrivato appositamente in Italia per parlare con i vertici dell’Intelligence?

Di certo quella cena fu tenuta nascosta sia all’ambasciata americana a Roma che all’Fbi, considerata allora “nemica” da Trump. 

I nostri 007 non condivisero l’informazione con gli omologhi statunitensi in Italia. Come mai? Chi ordinò il silenzio su quell’incontro?

E soprattutto: di cosa si parlò durante la cena, a cui partecipò addirittura il procuratore John Durham, che stava indagando sul caso? Uno dei temi affrontati fu la sorte del professore maltese Joseph Mifsud.

Docente della Link University, era stato il primo a rivelare a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, dell'esistenza di mail hackerate a Hillary Clinton, materiale che Mifsud definì “compromettente”. 

Come spiega Iacoboni: “Papadopoulos aveva riferito la cosa a un diplomatico australiano, che avvisò l'Fbi e diede quindi l'innesco all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate.

Per Mueller, Mifsud era uomo in mano ai russi (per l'ex capo Fbi James Comey era proprio “un agente russo”) e alle operazioni di interferenza di Putin nelle elezioni Usa del 2016. 

Trump e Barr volevano invece (e, risulterà, senza fondamento) sostenere che Mifsud fosse una spia britannica, tassello di un complotto mondiale ai danni di Trump organizzato dai democratici di Obama, complice l'Italia del governo Renzi. Da allora Mifsud è sparito. Forse in Russia, forse non più vivo”. 

Barr voleva dall’intelligence italiana informazioni su Mifsud. Trovarlo e farlo “cantare” era l’obiettivo numero uno per Trump. Ma del fantomatico professore si sono perse le tracce da tempo. 

E’ molto probabile che, quando gli americani hanno iniziato a dargli la caccia, uno dei suoi amici oligarchi (a cui vendeva passaporti maltesi a 1 milione di dollari ciascuno) l’abbia invitato a nascondersi in Russia.

A quel punto, nelle mani dell’Fsb, il servizio segreto russo, Mifsud potrebbe essere stato “silenziato” per evitare che cadesse in mani americane. Un silenzio ovviamente tombale.

Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 22 aprile 2022.

Una mail dal contenuto molto chiaro: «Cerchiamo informazioni per il Russiagate». L'incontro improvviso di Ferragosto a Roma, nello stupore generale, con la giustificazione un po' surreale: «Barr è in vacanza da quelle parti». 

Lo strappo degli allora direttori delle due agenzie di intelligence, Luciano Carta (Aise) e Mario Parente (Aisi) che prima dicono di non voler incontrare l'Attorney general americano, William Barr, per la sgrammaticatura istituzionale di tutta l'operazione. E 24 ore dopo, quando invece lo devono fare perché arriva una comunicazione scritta dell'ex capo del Dis, Gennaro Vecchione, quell'incontro lo fanno durare pochi minuti: mettono a verbale che non hanno alcun elemento da condividere, e via.

Se il Copasir mercoledì ha deciso di non riaprire il fascicolo Russiagate, nonostante le rivelazioni di Repubblica sulla cena di Ferragosto 2019 tra il capo italiano dei servizi e i vertici americani, è perché agli atti del comitato esisteva già una ricostruzione precisa di quanto accaduto in quelle ore. Una ricostruzione che mette in fila protagonisti, ruoli e responsabilità.

(…) Innanzitutto la partenza: tutto comincia con una lettera dell'ambasciata americana con la quale viene chiesta collaborazione all'Italia sul caso Russiagate. L'allora premier Giuseppe Conte affida il fascicolo al capo del Dis, Vecchione. 

A lui, e non al ministro della Giustizia, cioè l'omologo di Barr, perché - spiega Conte - Barr svolgeva in quel momento il ruolo di capo dell'Fbi. «Ma se anche fosse letta così - fa notare una fonte - l'Fbi si occupa di affari interni. Perché doveva indagare sul Russiagate?».

In ogni caso Conte sceglie Vecchione. Ed è il capo del Dis che viene chiamato quando, a sorpresa, a Ferragosto Barr è in Italia. «È in vacanza» diranno, anche se si presenta con John Durham, il procuratore che stava conducendo l'inchiesta sul Russiagate. Quindi, o i due sono in vacanza insieme. O c'è qualche problema. 

Fatto sta che Vecchione quel 15 agosto è a Castelvolturno, in Campania, al fianco dell'allora ministro degli Interni, Matteo Salvini. Ci sono anche Carta e Parente. A cui però non dice niente degli americani a Roma: finito il comitato, Vecchione corre nella Capitale per incontrare Barr. Cosa si siano detti è ignoto. 

Vecchione ieri ha spiegato via agenzie (mentre il Copasir era riunito per decidere se riascoltarlo): «La conversazione si è orientata su convenevoli di carattere generale ». Bizzarro, non fosse altro che l'oggetto dell'incontro, il Russiagate appunto, era noto a tutti. In ogni caso, esisterebbe una memo di quell'incontro.

Fatto sta che quando un mese dopo, siamo al 26 settembre, Vecchione convoca i direttori di Aise e Aisi per spiegare loro che 24 ore dopo avrebbero dovuto vedere Barr, che stava tornando in Italia per discutere del Russiagate, i due dirigenti italiani non nascondono il loro disappunto.

Nulla sapevano e soprattutto nulla avevano da condividere. Vista la forma dell'incontro e la sostanza della vicenda. Vecchione forza e li convoca per iscritto. Ventiquattro ore dopo, seduti allo stesso tavolo, fanno mettere a verbale: «Nulla da dire sull'argomento».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 aprile 2022.

Il 23 ottobre 2019 l'allora premier Giuseppe Conte, dopo esser stato audito al Copasir sullo scandalo del cosiddetto "Russiagate", si presentò in conferenza stampa e, riassumendo ciò che aveva detto al Comitato, disse tre cose. 

Uno: che il 15 agosto 2019 il ministro della giustizia di Trump, Wiliam Barr si era visto con il capo del Dis, Gennaro Vecchione, solo nella sede istituzionale di piazza Dante.

Due: «Mi risulta che William Barr fosse qui in Italia per motivi personali». Tre: «Il presidente Trump non mi ha mai parlato di questa inchiesta». A quale inchiesta si riferiva Conte?

L'inchiesta, che spesso viene giornalisticamente chiamata "Russiagate", era il tentativo, da parte dell'amministrazione Trump, di abbattere (con una contro-indagine) l'inchiesta originaria del Fbi e del procuratore Robert Mueller sull'interferenza della Russia nelle elezioni americane 2016. Per questo motivo vennero mandati in Italia, a più riprese nell'estate 2019, Barr, il procuratore speciale John Duhram e (attenzione) ispettori del Dipartimento di giustizia (non del Fbi).

Il loro compito era trovare sostegno a questa teoria: che l'Fbi di James Comey aveva iniziato a indagare su Trump sulla base di un complotto internazionale dei democratici (di Obama), partito dall'Italia (di Renzi). Al centro c'era un professore maltese della Link University, Joseph Misfud, che proprio a Roma diede per primo a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, l'informazione che esistevano mail hackerate di Hilllary Clinton, materiale «compromettente», quindi utile alla campagna Trump. Papadopoulos lo riferì a un diplomatico australiano. Il quale lo riferì al Fbi.

E nacque l'inchiesta (che, per inciso, non approdò assolutamente a nulla). Per l'Fbi, Mifsud era «un agente russo» (per Mueller, un asset dei russi): tesi provata da tante evidenze, anche forensi (tra cui i contatti di Mifsud con computer di russi della Difesa e del GRU). Si trattava di scoprire quanto fosse anche in contatto con la campagna Trump. Trump e Barr, invece, volevano sostenere che Mifsud era un agente al servizio dei democratici occidentali, in particolare una spia britannica. Per questo Barr fu inviato in Gran Bretagna, in Italia, e in Australia. Estate impegnata.

La prima delle tre affermazioni di Conte in quella conferenza stampa è stata smentita dalla rivelazione di una cena (quindi non solo l'incontro in piazza Dante) avvenuta in un ristorante romano tra Barr e Vecchione. La seconda e la terza vengono adesso messe in crisi dall'uscita del libro di memorie di William Barr, "One Damn Thing After Another: Memoirs of an Attorney General", un piccolo tesoro di informazioni. Su tante altre si dovrà tornare in seguito, ma qui fermiamoci su due: intanto, Barr dice esplicitamente che non era affatto in Italia per motivi personali, ma in missione.

E, soprattutto, l'Attorney general racconta di aver esplicitamente chiesto a Trump, e di averlo stressato su questo, di parlare dell'inchiesta con i premier di Italia, Regno Unito, Australia. Barr conferma (come detto da Conte) che la pratica fu aperta parlando con l'ambasciatore italiano e con "senior officials" italiani, ma aggiunge che anche Trump fu coinvolto eccome: «Ho viaggiato sia in Italia che nel Regno Unito per spiegare l'indagine di Durham e chiedere assistenza o informazioni che potessero fornire. Ho avvisato il Presidente che avremmo preso questi contatti e gli ho chiesto di menzionare l'indagine di Durham ai primi ministri dei tre paesi, sottolineando l'importanza del loro aiuto».

Barr chiede esplicitamente a Trump di sponsorizzare l'indagine di Durham con Conte. Barr racconta tutto questo per difendersi dalle accuse in America più scottanti, quella di aver partecipato alla parte ucraina del complotto di Trump: «Al contrario - dice Barr - non ho mai parlato con gli ucraini o chiesto al presidente Trump di parlare con gli ucraini. Il presidente non mi ha mai chiesto di parlare con gli ucraini.

Né avevo parlato con Rudy Giuliani sull'Ucraina. Inoltre non ero a conoscenza di nessuno che al Dipartimento chiedesse agli ucraini di aprire un'indagine. Per quanto mi riguardava, se mai Durham avesse trovato un motivo per esaminare le attività ucraine, avrebbe svolto le indagini, non le avrebbe lasciate agli ucraini». Insomma: Barr sta dicendo che non c'erano prove contro i Biden. La storia della telefonata tra Zelensky e Trump, che uscì e portò alla richiesta di impeachment del Congresso per Trump, è nota: Zelensky resistette alle pressioni e richieste improprie trumpiane (di danneggiare la famiglia Biden). Possiamo dire che Conte abbia fatto lo stesso?

Marco Mancini, lo 007 fatto fuori da Report: "Immagino con grande soddisfazione dei russi". Libero Quotidiano il 23 aprile 2022.

Sigfrido Ranucci e la redazione di Report hanno sulla coscienza la fine della carriera di Marco Mancini. L’ex capo reparto del Dis è stato pre-pensionato lo scorso luglio, dopo essere stato esposto dal programma di Rai3 per l’incontro avvenuto in autogrill con Matteo Renzi a dicembre 2020. Dopo 30 anni passati nel controspionaggio italiano, Mancini è quindi stato costretto a rinunciare al suo lavoro a causa di un servizio di Report.

“Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media - ha dichiarato l’ex capo reparto del Dis all’Ansa - essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante. Peraltro, in quell’occasione, stavo facendo un semplice saluto pre-natalizio a un senatore della Repubblica italiana. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi”.

Quest’ultimo punto è poi stato approfondito da Mancini: “Se fosse accertato con sentenza definitiva che Walter Biot ha trafugato segreti dal patrimonio informativo italiano a favore dell’intelligence russa, ciò sarebbe la conferma della continua attività clandestina che gli agenti di Mosca svolgono attivamente tutt’ora, e sottolineo tutt’ora, sul nostro territorio nazionale”. Lo scorso luglio Mancini è stato messo in pre-pensionamento a causa delle polemiche scatenate dal servizio di Report sull’incontro con Renzi.

La rivelazione sul ruolo di Report. “Indagava sulle spie russe”, ecco perché Mancini fu fatto fuori dai servizi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Aprile 2022. 

I misteri del caso Barr-Vecchione e delle omissioni di Giuseppe Conte non cessano di far parlare. Nell’inner circle dell’intelligence italiana c’è chi sente scricchiolare un’asse. I più sensibili percepiscono che si starebbe aprendo uno squarcio. La rivelazione delle dinamiche tra Vecchione e Conte, tra il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti trumpiani e i vertici dei servizi italiani, finora rimaste al buio, potrebbero fornire una chiave insperata. Si stanno creando le condizioni per chiarire, uno a uno, diversi aspetti ancora oscuri. Con Il Riformista parla una fonte che deve rimanere coperta.

Nel maggio scorso Marco Mancini è ancora un brillante agente del Dis, l’agenzia che coordina Aisi e Aise, cioè i servizi segreti che si occupano rispettivamente dell’interno e degli esteri. Ha una lunga storia. Ha alle spalle una carriera nel Sismi (il servizio segreto militare predecessore dell’Aise) di cui diventa capo della Divisione controspionaggio, braccio destro del direttore Nicolò Pollari. E se entra nelle cronache per la vicenda Abu Omar, è per altro ad essere rispettato e temuto. È ostile ai russi. È convinto che quelli stiano tessendo la loro trama dentro l’ordito delle istituzioni. Che qua e là stiano persuadendo gli interlocutori politici e i decisori pubblici, con argomenti sonanti, delle loro ragioni. Va dunque fermato. E va fermato per tempo, quasi indovinando che di lì a nove mesi i russi provocheranno, con l’ingresso in Ucraina il 24 febbraio, una crisi di sistema senza precedenti.

Dalle verifiche che facciamo con ambienti del Copasir emerge che Marco Mancini mostrò dei messaggi ai membri del Comitato parlamentare sui servizi segreti, mettendo il suo cellulare a disposizione del sindacato ispettivo dei presenti. Dalla schermata si poteva evincere che Gennaro Vecchione conoscesse già il video che sarebbe poi apparso su Report in data successiva, ovvero nella puntata del 3 maggio scorso. Testimoniando così come lo stesso Vecchione fosse perfettamente a conoscenza del fatto che quel video “rubato” all’Autogrill stava per irrompere nelle case degli italiani. Provocando la caduta in disgrazia di Mancini, la fine della sua ascesa e della sua carriera. Torniamo a quella vicenda, alla trappola tesa a Mancini nel momento in cui il n.2 del Dis stava per esserne nominato a capo. Perché in quei giorni avviene qualcosa di particolare. Nella famigerata puntata di Report – ormai noto il meccanismo del “video recapitato da un anonimo, arrivato nella nostra redazione da chissà dove” – si fa intervenire una figura in controluce. E chi ci parla solleva una serie di interrogativi.

Si inquadra infatti uno che si qualifica come ex agente del Sismi che identifica Marco Mancini. «Questa estromissione di Mancini non è che sia stato un favore fatto ai russi, in cui Franco Gabrielli si è trovato ad essere un mero passaggio?», la domanda retorica. I dubbi sorgono: come mai i vertici del Dis invece di intervenire sui misteri delle due visite di Barr a Roma, nel giugno e nell’agosto 2019, che agli addetti ai lavori erano parse subito molto sui generis, si dedicano con tanta decisione all’incontro Renzi-Mancini? Facciamo un passo indietro: Marco Mancini doveva diventare capo dei servizi segreti con la esplicita benedizione di Luigi Di Maio. Dopo aver incontrato Renzi, finisce in una raffica di fango. Si compie una operazione di siluramento tramite Report, che punta i fari soprattutto contro Renzi, ma che in realtà colpisce e affonda solo l’interlocutore di Renzi. Quel Marco Mancini che risultava sgradito a qualcuno. E forse di più: intollerabile. Ma chi è il testimone di cui Report si serve per apporre il sigillo dell’autenticità all’identificazione di Mancini? Abbiamo interrogato qualche fonte. In studio il personaggio è travisato, non riconoscibile. Ma se c’è qualcuno che lo riconosce, quello non può che essere lo stesso Mancini. «C’è da chiedersi come sono arrivati a lui», ci dice una fonte che i servizi li frequenta, e non da oggi. «C’è da chiedersi se quell’agente – o ex agente – non fosse legato ai russi», aggiunge.

Il testimone misterioso che va in video, non riconoscibile, suscita un sospetto nella fonte che abbiamo consultato: lo fa per accertarsi che Mancini venga indubitabilmente messo all’indice. Nel libro Oligarchi, Jacopo Iacoboni scrive che «Aisi e Aise non hanno collaborato, nella vicenda dei russi». Lo scrive uno che le fonti le ha consultate. Adombrando una frattura risalente nel tempo che solo nel maggio 2021 ha portato all’auspicato allontanamento di Mancini. «Non c’è alcun disegno da parte di Gabrielli. Ed è una pratica che si è trovata davanti Elisabetta Belloni, come dossier da affrontare appena nominata. Non rimandabile», rivela la nostra fonte. E Report è stato solo uno strumento di cui altri si sono serviti, lo schermo sul quale proiettare un film scritto altrove. Giovanni Minoli intervista Gabrielli e glielo chiede: “Perché Mancini è stato invitato ad andarsene in pensione?” – “Non è stato invitato con riferimento a quella vicenda ma per tutta una serie di altre questioni che non è il caso di approfondire”, la risposta. Non c’è alcuna ragione di dubitare della sincerità di quelle parole. La rimozione di Mancini però da qualcuno è stata ispirata. E per qualche ragione ben diversa dall’aver incontrato il senatore Renzi all’Autogrill. «Mancini ha portato all’emersione di una rete di spioni russi in tutt’Europa. Non solo in Italia».

Il 30 marzo 2021 viene arrestato a Roma l’ufficiale della Marina militare Walter Biot, responsabile di aver trafugato una serie di documenti segreti Nato per rivenderli alla Russia. Un gran goal del nostro controspionaggio, consolidato dalle prove che hanno portato a una condanna . Peccato che per festeggiarlo, sessanta giorni dopo, si sia deciso di far saltare la testa di chi quelle operazioni le aveva volute e instradate da tempo. Al Dis chiamano Mancini. Lo convocano per comunicazioni urgenti. «La Belloni non se l’è sentita di affrontarlo per comunicargli che era giunto al capolinea. E ha dato l’incarico al suo povero vice, Bruno Valensise», raccontano le cronache. L’incontro tra i due era iniziato alle 11 del mattino ed è finito alle 17, altro che comunicazioni. Sei ore di faccia a faccia che – racconta chi ha avuto modo di origliare – si è svolto senza esclusione di colpi. Bruno Valensise era stato nominato vicedirettore vicario del Dis nel settembre 2019 dal governo guidato da Giuseppe Conte. Conte aveva optato per lui, risorsa interna di lunga esperienza, per coadiuvare il lavoro di Gennaro Vecchione.

Valensise era così diventato il tutor del neonominato capo dei servizi, l’uomo di fiducia del fiduciario di Conte. Lo accompagnava ovunque, negli appuntamenti. Era stato con Vecchione alla Link Campus University, e con lui aveva incontrato il ministro della Giustizia William Barr, partecipando all’agenda segreta di quel Ferragosto di cui si viene oggi a sapere. L’Attorney general tornerà in Italia anche il 27 agosto, data in cui, accompagnato da Durham, tornerà ad incontrare i vertici dei servizi: alla riunione oltre a Vecchione, partecipano anche i direttori di allora di Aise, Luciano Carta, e Aisi, Mario Parente. Gli americani tornarono a casa soddisfatti della trasferta romana, con la ciliegina sulla torta della cena nel sontuoso ristorante romano di piazza delle Coppelle. «Si è parlato in termini generici, con i soliti convenevoli», si è schernito il prefetto Vecchione.

Eppure il procuratore John Durham dichiarò di aver potuto estendere la sua inchiesta, grazie alle informazioni ottenute in quegli incontri. Un funzionario dell’ambasciata americana a Roma confermò al Daily Beast che quella di Barr era stata una visita inaspettata e che gli americani erano particolarmente interessati da ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto di Joseph Mifsud, il misterioso docente maltese al centro del Russiagate americano. Un agente russo, per alcuni, dell’Fbi secondo altri. Doppiogiochista, sospettano i nostri servizi. L’uomo è scomparso nel nulla: si è volatilizzato senza lasciare traccia il 31 ottobre 2017. Sarebbe stato lui a gestire il traffico di informazioni riservate tra Putin e Trump. E forse a conoscere la rete degli informatori russi sui quali indagava Marco Mancini. Tanti i risvolti ancora oscuri, i misteri irrisolti che si dipanano intorno al Dis nel finale di stagione del governo Conte. Per iniziare a capirne qualcosa di più, le istituzioni avrebbero il boccino in mano, se volessero. Basterebbe ascoltare Marco Mancini al Copasir. Se solo volessero.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Marco Mancini, la spia anti-Putin rimossa da Conte: “Chi aveva arrestato prima di essere cacciato”. Andrea Morigi su Libero Quotidiano il 24 aprile 2022.

Sembra che si scoprano le carte, invece si nascondono. Perciò, nel gioco, non resta che sparigliare, come ha fatto ieri Marco Mancini, con trent'anni di esperienza nell'intelligence italiana durante i quali ha «potuto constatare il continuo aumento della presenza nel mondo di agenti prima sovietici (Kgb Gru) e poi russi (Fsb - Svr Gru)». In una dichiarazione all'Ansa rivela che «diverse operazioni di controspionaggio hanno fatto emergere la determinata spregiudicatezza degli agenti operativi di Mosca presenti sul nostro territorio nazionale. Ritengo che i servizi segreti russi in Italia e all'estero abbiamo costantemente mantenuto una capillare e continua attività di ricerca informativa attraverso "covert operation" dedicate, per raggiungere target stabiliti da Mosca. L'intelligence russa conduce queste operazioni anche per mezzo del reclutamento di fonti umane, scelte con particolare abilità».

LA TRAPPOLA

Peccato che la struttura che presiedeva al controspionaggio sia stata smantellata come ricordava Aldo Torchiaro sul Riformista di venerdì proprio dopo il successo dell'operazione che il 30 marzo 2021 aveva portato all'arresto dell'ufficiale della Marina Militare Walter Biot, accusato di aver passato documenti militari riservati a diplomatici di Vladimir Putin a Roma. Tanto da far emergere il sospetto di un'influenza politica del Cremlino sugli equilibri di governo e le dinamiche interne agli stessi servizi segreti italiani. Mancini, parlando all'Ansa, si riferisce anche alle vicende che nel luglio scorso hanno portato al suo pre-pensionamento da capo-reparto del Dis, cioè il Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, l'autorità che coordina l'intelligence italiana. Report, il programma televisivo di Raitre condotto da Sigfrido Ranucci (uno che sostiene, vantandosi, di disporre di decine di migliaia di dossier), aveva messo in onda le immagini dell'incontro avvenuto in autogrill fra Mancini e il leader di Italia Viva Matteo Renzi nel dicembre 2020. «In quell'occasione, stavo facendo un semplice saluto prenatalizio a un senatore della Repubblica italiana», ricostruisce Mancini. Tuttavia, «a causa di tale operazione mediatica ho perso il posto di lavoro. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi».

In realtà, ricorda ancora Torchiaro, quell'episodio s' intreccia con le visite in Italia dell'allora ministro della Giustizia degli Stati Uniti, William Barr, alla ricerca di notizie sul Russiagate che coinvolgeva il presidente americano, Donald Trump. L'Attorney General cercava informazioni sul maltese Joseph Mifsud, sospettato di aver fatto da tramite fra Trump e Putin. E le aveva chieste, secondo i media Usa, a uno stretto collaboratore dell'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, cioè Gennaro Vecchione, direttore generale del Dis. Quest'ultimo, aveva riferito Mancini il 14 luglio al Copasir - il Comitato parlamentare di sorveglianza sui servizi segreti - conosceva anche in anticipo i video di Report ed era informato sulla loro programmazione prevista il 3 maggio 2021. «Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media. Essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante», commenta Mancini.

LA MINACCIA

Nel linguaggio delle spie, suona come un allarme, visto che a Mancini era stata tolta la scorta che gli era stata assegnata in seguito alle minacce di morte ricevute mentre era il capo dell'Aise (che si occupa della sicurezza esterna) in quel crocevia di spie che è Vienna. Se anche l'attuale presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi, domenica scorsa al Corriere della Sera confidava che, rispetto alla guerra in Ucraina, «dobbiamo riconoscere che nei mesi scorsi, prima e durante l'invasione, l'intelligence americana aveva le informazioni che si sono rivelate più accurate», qualche problema c'è. L'intelligence italiana conta su un organico di 5mila persone, e costa un miliardo di euro. Ma non si era accorta di niente.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 24 aprile 2022.

La decisione di forzare le regole sul caso Barr era stata presa da Giuseppe Conte, nonostante le resistenze del ministero degli Esteri e dei capi delle due agenzie Aise e Aisi. È la conclusione a cui porta la ricostruzione dei fatti di Repubblica, che dovrebbe spingere il Copasir a riaprire l'indagine, nonostante il presidente Urso abbia in programma una visita a Washington in giugno. O forse proprio per questo.

L'Attorney General aveva contattato l'ambasciatore Armando Varricchio, per spiegare il "Russiagate" e chiedere un incontro con i servizi, insieme al procuratore John Durham. Varricchio aveva informato il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, ma la Farnesina aveva frenato, perché riteneva che la richiesta dovesse passare dal ministero della Giustizia. L'ambasciatore allora aveva informato Palazzo Chigi e Conte aveva deciso di occuparsi del caso, affidandolo al direttore del Dis Gennaro Vecchione, che lui aveva nominato. Così si era arrivati alla visita di Barr a Roma il 15 agosto, seguita dalla cena al ristorante Casa Coppelle.

Quando il 27 settembre era tornato in Italia, per raccogliere le informazioni richieste a Ferragosto, Vecchione aveva chiesto ai direttori di Aise e Aisi, Luciano Carta e Mario Parente, di partecipare. Entrambi si erano opposti, perché ritenevano che il canale seguito non fosse corretto, e allora il capo del Dis aveva emesso un ordine scritto per obbligarli a venire. Carta e Parente avevano obbedito, ma si erano limitati a dire che non avevano nulla da aggiungere.

Quindi era stato spiegato a Durham che se voleva interrogare Joseph Mifsud, professore maltese della Link Campus University sospettato di essere all'origine del "Russiagate", doveva seguire il canale giudiziario, presentando la richiesta che avrebbe dovuto inoltrare dal principio.

Siccome Mifsud non era nelle mani degli italiani, per cercarlo e arrestarlo serviva l'ordine di un magistrato. Durham in effetti fece la richiesta, che però rimase lettera morta, perché non conteneva prove o ipotesi di reato credibili. Gli italiani peraltro sostengono che non sanno dove sia Mifsud, e l'ultimo recapito noto sarebbe una villetta fra Abruzzo e Marche dove si era nascosto. 

Se questa ricostruzione fosse confermata, solleverebbe diversi interrogativi da porre a Conte. 

L'ex premier dice di non aver mai incontrato Barr, ma per confermarlo bisognerebbe quanto meno appurare l'agenda dell'Attorney General nella visita di settembre, quando in base ai documenti ufficiali del suo Dipartimento era partito per Roma alle 7 del mattino del 26 ed era andato via alle 10 del 28. Davvero aveva passato circa 36 ore nella capitale solo per vedere Vecchione?

Conte dice che non sapeva della cena a Casa Coppelle e Vecchione ha spiegato che era solo cortesia istituzionale. Anche ammesso che sia così, resta una prassi assai singolare per i professionisti dell'intelligence. 

L'ex premier spiega che aveva aperto le porte a Barr in quanto responsabile dell'Fbi, impegnato in uno scambio tra agenzie sulla sicurezza nazionale, ma i fatti contraddicono palesemente questa versione, a cominciare dalla reazione di Carta e Parente. L'Attorney General non era venuto per catturare un terrorista, sgominare un attentato, o arrestare un boss mafioso. 

Era stato inviato da Trump per una missione politica finalizzata ad aiutarlo sul piano elettorale. Conte è troppo intelligente per non averlo capito, e quindi resta da chiarire perché si sia prestato a questo uso personale delle agenzie. 

L'ex premier dice che la visita di Barr non aveva come oggetto un'ipotesi di cooperazione giudiziaria, e perciò sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Ciò però è smentito dalla pratica inoltrata successivamente da Durham, che ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma non è stato accontentato perché la domanda non reggeva.

Conte infine sottolinea che Barr indagava sugli agenti americani, non italiani. Presumibilmente lo fa per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all'inchiesta Usa per tornaconto politico personale, ma così apre un altro caso. Il premier infatti avrebbe autorizzato il segretario ad incontrare i servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo il capo a Roma Michael Gaeta, con cui poi i nostri agenti dovevano lavorare ogni giorno per garantire davvero la sicurezza del Paese, mettendola così a rischio.

Il motivo per cui il Copasir ha deciso di non porre queste domande non è chiaro. Il presidente Urso ha già preso appuntamento per visitare i colleghi della Camera Usa a giugno, e sta finalizzando col Senato. Forse non vuole arrivare a Washington sulla scia della riapertura del caso, ma considerando quanto sta accadendo in America rischia che sia vero il contrario. Perché il Congresso a guida democratica sta cercando proprio la verità sull'assalto del 6 gennaio, con i potenziali annessi di Russiagate e Italygate. 

Fu Giuseppe Conte a forzare le regole sul “caso Barr” ? Sembrerebbe proprio di si. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Aprile 2022.  

L’Attorney General americano William Barr non era venuto a Roma per catturare un terrorista, o per evitare un attentato, o al limite arrestare un boss mafioso responsabile di crimini negli Stati Uniti, essendo stato inviato da Trump a Roma per una "missione politica" che lo potesse aiutare e sostenere elettoralmente. Conte è persona troppo attenta per non averlo intuito, e quindi resta da capire come si sia prestato a questo assurdo uso "personale" dei servizi italiani.

La decisione di forzare le regole di sicurezza nazionale venne presa da Giuseppe Conte, nonostante le forti resistenze del Ministero degli Esteri e dei vertici dei due “servizi” italiani, l’ Aise e l’ Aisi. Questa è la conclusione conseguenziale alla ricostruzione dei fatti del quotidiano La Repubblica, che dovrebbe spingere il Copasir a riaprire l’indagine, proprio mentre il presidente Adolfo Urso avrebbe in programma una visita a Washington a giugno.

L’ Attorney General americano William Barr si era rivolto all’ambasciatore Armando Varricchio, per informarlo sul “Russiagate” chiedendo un incontro insieme al procuratore John Durham con i servizi italiani. L’ambasciatore Varricchio aveva immediatamente informato il ministro degli Esteri (all’epoca dei fatti) Enzo Moavero Milanesi, ed i vertici diplomatici della Farnesina avevano frenato, ritenendo che la richiesta dovesse passare attraverso il Ministero della Giustizia. L’ambasciatore a quel punto informò la Presidenza del Consiglio ed il premier in carica, Giuseppe Conte aveva deciso di occuparsi personalmente del caso, affidandolo al direttore del Dis Gennaro Vecchione, che lui stesso aveva nominato alla guida del coordinamento dei servizi di intelligence italiana. Fu così che si arrivò al viaggio- visita di Barr a Roma il 15 agosto, a cui fece seguito la cena nel lussuoso ovattato ristorante “Casa Coppelle“.

Giuseppe Conte e Gennaro Vecchione

Quando il 27 settembre Barr tornò in Italia, per raccogliere le informazioni richieste a Ferragosto, Vecchione aveva chiesto di partecipare all’incontro ai rispettivi direttori di Aise e Aisi, il generale (Guardia di Finanza) Luciano Carta ed il generale ( Arma dei Carabinieri) Mario Parente. Entrambi si erano opposti, ritenendo che il canale seguito non fosse corretto, ed il capo del Dis Vecchione aveva addirittura emesso un ordine scritto per costringerli a venire obbedendo ad un ordine gerarchico.

Carta e Parente a quel punto furono costretti ad obbedire a Vecchione, ma si erano limitati a dire che non avevano nulla da aggiungere. Quindi era stato spiegato al procuratore Durham che se voleva interrogare Joseph Mifsud, professore maltese della Link Campus University sospettato di essere all’origine del “Russiagate”, doveva seguire il canale giudiziario, presentando la richiesta che avrebbe dovuto inoltrare dal principio. Siccome il professore Mifsud non era sotto il “controllo” dei servizi italiani, per cercarlo ed arrestarlo serviva l’ordine della magistratura. Infatti Durham a quel punto inoltrò la richiesta, che però rimase inevasa, in quanto non conteneva delle prove o ipotesi di reato attendibili. I servizi italiani spiegarono che non sapevano dove si trovasse Mifsud, e che l’ultimo suo recapito conosciuto era quello di una villetta fra Abruzzo e Marche dove si sarebbe nascosto. 

Nel caso questa ricostruzione venisse confermata, si solleverebbero diversi chiarimenti da rivolgere all’ex premier Conte, che sostiene di non aver mai incontrato Barr, ma per avere certezza delle sue dichiarazioni bisognerebbe quanto meno appurare l’agenda dell’ Attorney General americano Barr nella visita di settembre, quando in base ai documenti ufficiali del suo Dipartimento era partito per Roma alle 7 del mattino del 26 ed era andato via alle 10 del 28. Sarebbe molto poco credibile che abbia trascorso circa 36 ore a Roma solo per incontrare Vecchione.

una delle salette riservate del ristorante Casa Coppelle

Conte per difendersi sostiene che non era a conoscenza della cena al ristorante Casa Coppelle e Vecchione aveva spiegato che si era trattato soltanto di mera cortesia istituzionale. Volendo credere che sia così, a dire il vero resta una circostanza molto singolare per dei professionisti dell’intelligence.

L’ex premier grillino afferma di aver aperto le porte a Barr in quanto responsabile dell’Fbi, impegnato in uno scambio tra agenzie sulla sicurezza nazionale, ma in realtà i fatti contraddicono apertamente questa imbarazzante versione, come si evincere dalle reazioni di Carta e Parente. L’Attorney General Barr non era venuto a Roma per catturare un terrorista, o per evitare un attentato, o al limite arrestare un boss mafioso responsabile di crimini negli Stati Uniti, essendo stato inviato da Trump a Roma per una “missione politica” che lo potesse aiutare e sostenere elettoralmente. Conte è persona troppo attenta per non averlo intuito, e quindi resta da capire come si sia prestato a questo assurdo uso “personale” dei servizi italiani.

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump

L’ex premier Conte incalzato sostiene che la visita di Barr non aveva come oggetto un’ipotesi di cooperazione giudiziaria, e quindi sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Una versione che però viene smentita dalla richiesta inoltrata successivamente da Durham, il quale ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma la sua domanda non è stato accolta perché non reggeva la giustificazione di quella richiesta. Conte aggiunge che Barr indagava sugli agenti americani, non su quelli italiani, ma in realtà lo dice per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all’inchiesta Usa per tornaconto politico personale, e così facendo apre un’ altra questione.

Il premier in carica all’epoca dei fatti, e cioè “Giuseppi” (come lo chiamava Donald Trump) L’ex premier dice che la visita di Barr non aveva come oggetto un’ipotesi di cooperazione giudiziaria, e perciò sarebbe stato improprio indirizzarlo al suo omologo. Ciò però è smentito dalla pratica inoltrata successivamente da Durham, che ha chiesto alle nostre autorità giudiziarie e di polizia di interrogare Mifsud, ma non è stato accontentato perché la domanda non reggeva. Conte inoltre sostiene che Barr indagava sugli agenti americani, non italiani. 

Presumibilmente lo fa per smentire Renzi, che lo accusa di averlo esposto all’inchiesta Usa per un mero tornaconto politico personale, ma così facendo si apre un’ altra questione. Il premier infatti avrebbe autorizzato l’ incontro con i servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell’Fbi, come il capocentro dell’ FBI a Roma Michael Gaeta, con il quale i gli agenti dei nostri “servizi” dovevano lavorare ogni giorno per garantire realmente la sicurezza del nostro Paese.

La motivazione per cui il Copasir ha deciso di non porre queste domande non è molto chiaro. Il presidente Adolfo Urso ha già preso appuntamento per visitare i colleghi della Camera Usa a giugno, ma forse non vuole arrivare a Washington sulla scia della riapertura del caso, considerando quanto sta accadendo in America, rischiando che emerga il contrario, anche perché il Congresso americano a guida democratica sta ricercando la verità sull’assalto del 6 gennaio, con i potenziali collegamenti di “Russiagate” e “Italygate“.

E’ opinione diffusa negli ambienti dell’ intelligence e della sicurezza italiana che l’intera vicenda “Russiagate” sia stata determinante nella decisione di Mario Draghi, appena nominato a Palazzo Chigi, di sostituire Vecchione che aveva ricevuto una proroga del suo incarico dal suo “sponsor” Giuseppe Conte prima che lasciasse la poltrona di premier. Ma non solo. Vecchione paga principalmente il suo incontro con Barr, e la gestione dell’incontro dell’ex capo reparto del Dis Marco Mancini (che è stato “pensionato” proprio per quell’incontro) a dicembre 2020 in un autogrill autostradale con Matteo Renzi.

“Penso che nelle sedi istituzionali deputate al controllo dei servizi si possa giungere a definire i reali contorni, le dinamiche e i contenuti della vicenda trattata dai media – ha dichiarato all’Ansa l’ex capo reparto del Dis – essere individuato, riconosciuto e mostrato in televisione senza che vi fosse una mia immagine pubblica dal 2005 è inquietante e sconcertante. Peraltro, in quell’occasione, stavo facendo un semplice saluto pre-natalizio a un senatore della Repubblica italiana. Immagino con grande soddisfazione dei servizi segreti russi”. 

Quest’ultimo particolare è stato approfondito da Mancini: “Se fosse accertato con sentenza definitiva che Walter Biot ha trafugato segreti dal patrimonio informativo italiano a favore dell’intelligence russa, ciò sarebbe la conferma della continua attività clandestina che gli agenti di Mosca svolgono attivamente tutt’ora, e sottolineo tutt’ora, sul nostro territorio nazionale”.

Ma Vecchione ha pagato anche per ritardi nella creazione dell’agenzia per la Cybersicurezza che, non a caso, è il primo punto affrontato dal sottosegretario ai servizi Franco Gabrielli, scelto personalmente da Draghi, insieme al nuovo capo del Dis, Elisabetta Belloni ex segretario generale della Farnesina. Lacuna colmata, e questa struttura è diventata “fondamentale”, come sta confermando il proprio importante ed efficace lavoro per la crisi ucraina. Redazione CdG 1947

I retroscena. Mifsud fu l’architetto del governo Conte I: tutti gli intrighi e i misteri degli 007 tra Usa, Russia e grillini. Nicola Biondo su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Quando William Barr arrivò in Italia nell’estate del 2019 l’obiettivo principale era il professor Joseph Mifsud. Il motivo era assai semplice: Mifsud era un uomo dal doppio volto. Da una parte godeva di un vecchio rapporto con il partito democratico americano e in particolare con Hillary Clinton, dall’altro intratteneva relazioni strettissime con uomini del Cremlino. Nulla di scandaloso in quel mondo che naviga tra affari, diplomazie e politica: tutti sono amici di tutti. Mifsud però era a conoscenza delle attività russe sulla campagna elettorale della Clinton datata 2016, quella cioè contro Donald Trump, finita fin da subito sotto indagine da parte dell’Fbi.

Da chi aveva ricevuto Mifsud simili informazioni? Da uno dei suoi uomini di punta: George Papadopoulos. La vulgata trumpiana era così pronta per essere ammansita: Mifsud lavorava per la Clinton e il Russia-gate era un’operazione per minare la presidenza di Trump se fosse uscita vincente, come è avvenuto, dalla sfida del novembre 2016. Ai servizi italiani Barr aveva in mente di chiedere proprio questo: la prova che Mifsud fosse legato al mondo democratico americano e che lavorasse in Italia anche sotto la protezione dei governi targati Pd, quelli Renzi-Gentiloni. Ma come detto Mifsud era in stretti rapporti con la Clinton e anche con il Cremlino. E pertanto fu l’inchiesta del controspionaggio italiano che causò lo stop alla missione di Barr: non solo l’Aisi aveva informazioni non coincidenti con quanto invece l’amministrazione Trump cercava ad ogni costo ma esse andavano in direzione opposta e di certo non potevano essere rivelate, meno che mai a uno stato estero e in quel modo, perché coinvolgevano esponenti politici di punta. Insomma, Trump cercava a Roma prove per incastrare l’Fbi che indagava su di lui (e i russi) ma i Servizi italiani ne avevano sulla penetrazione di Mosca in Italia.

Ci sono due pesanti indizi che spiegano come la missione di Barr in Italia fosse in offside rispetto al protocollo ufficiale che regola i rapporti, anche di intelligence, tra due paesi alleati. Il primo è che l’ambasciata Usa in Italia nulla sapeva di questa missione. Il secondo è che la richiesta di ottenere info su Mifsud, paradossalmente, andava ad incidere proprio sul mondo che aveva agito per portare al successo il Movimento cinque stelle e che coccolava la leaderhip sovranista e filorussa dell’allora presidente del Consiglio: la Link university dove Joseph Mifsud insegnava ed era considerato un’autorità. Era alla Link che Mifsud era stato visto l’ultima volta prima di scomparire e alla Link aveva fatto sbarcare alcuni pezzi da novanta dell’intellighenzia putiniana, battezzando una partnership tra l’università romana e la prestigiosa accademia Lomonosov. Sulla Link fin dal 2016 è stata aperta un’inchiesta del controspionaggio dell’Aisi.

Mifsud era il motore primo intorno al quale giravano tutte le analisi e le acquisizioni degli apparati italiani. Che in breve tempo si accorsero come nell’università diretta da Enzo Scotti erano di casa non solo Mifsud e i suoi amici russi ma l’ex-capo dei Servizi Gennaro Vecchione, voluto fortissimamente da Conte a capo degli 007 senza alcuna pregressa esperienza nel mondo dell’intelligence, ma anche Bruno Valensise, oggi numero due del Dis ed ex-direttore dell’Ufficio centrale per la segretezza, tra i più delicati dell’Aisi perché rilascia i Nulla osta di sicurezza. E ancora svariati parlamentari del Pd e del Movimento cinque stelle, una futura ministra della Difesa –Elisabetta Trenta– e la futura sotto-segretaria agli Esteri Manuela Del Re. Insomma se ci fu un luogo centrale dove nacque il governo giallo-rosso in salsa russa quello fu proprio la Link University.

Chi erano gli uomini di Mosca che Mifsud fece entrare in contatto con il futuro inner circle di Giuseppe Conte? Il primo è Ivan Timofeev, figura chiave del Russiagate, a cui secondo l’inchiesta FBI Mifsud si rivolge per creare il contatto con l’entourage di Trump come promesso a Papadopoulos, responsabile per la campagna presidenziale dei contatti con l’estero. Papadopoulos aveva una sua idea sull’ateneo romano, la definiva “l’università delle spie”. Il partito putiniano mette radici in Italia proprio nelle stanze che la Link affida a Mifsud. In quel locale dedicato all’università moscovita si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America – Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile – che il primo dicembre 2016 tenne alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti. L’intervento di Aleksey Aleksandrovich Klishin, questo il nome dell’ospite della Link, fu un classico dell’ideologia putiniana, contro l’UE e gli Stati Uniti dominatori dell’ordine unipolare. Tra i professori russi che avrebbero dovuto tenere lezioni agli studenti della Link c’erano anche Yury Sayamov, diplomatico e consigliere del Cremlino, il filosofo Alexander Chumakov, che ha elaborato la visione della globalizzazione adottata dal nuovo Zar. E Olga Zinovieva, vedova di Alexander Zinoviev uno degli ideologi dell’era putiniana. Nicola Biondo

Russiagate, adesso il Copasir è pronto a riconvocare l’ex premier e Vecchione. Giuliano Foschini su La Repubblica il 20 Aprile 2022.   

Di fronte al Comitato parlamentare sui servizi potrebbe tornare anche Renzi. Tutte da chiarire ancora le richieste degli Usa e la nostra risposta.

L'Italian gate non è finito. Anzi, forse è appena cominciato. Perché nei prossimi giorni l'ex premier Giuseppe Conte è possibile, anzi quasi certo, che dovrà tornare davanti al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e rispondere alle domande dei parlamentari su quella strano Ferragosto del 2019 quando a Roma sbarcò il segretario della Giustizia, William Barr.

Conte risponde a Repubblica: «Non ho mai personalmente incontrato Bill Barr». Il Domani il 19 aprile 2022.

L’ex premier in un lungo post su Facebook ha commentato le conclusioni di Repubblica, secondo cui Conte non avrebbe ricostruito correttamente la vicenda che vedeva coinvolto l’allora segretario alla Giustizia e l’allora direttore del Dis, Vecchione

L’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha sottolineato di non aver mai incontrato personalmente «l’allora Attorney General degli Stati Uniti, Bill Barr, nel corso delle sue visite in Italia, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Così Conte ha risposto, sul suo profilo Facebook, a un articolo, pubblicato oggi su Repubblica, relativo alle due missioni a Roma dell’allora segretario alla Giustizia statunitense nell’agosto e nel settembre 2019, nell’ambito dell’inchiesta “Russiagate”, nata dalle sospette ingerenze nelle elezioni statunitensi del 2016 della Russia. 

Secondo Repubblica, documenti ottenuti dal quotidiano «evidenziano alcune significative omissioni della ricostruzione di quella vicenda proposta dall’allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte», scrive il giornalista Carlo Bonini, sottolineando che la versione di Conte avrebbe descritto il coinvolgimento dell’Intelligence italiana nell’affare “Russiagate” come mero incontro di cortesia tra i due paesi. 

Conte, che ricorda di aver riferito tutte le informazioni in suo possesso al Copasir, precisa che la cena, a cui hanno partecipato la delegazione statunitense e l’allora direttore del Dis, Gennaro Vecchione, si è tenuta in un noto ristorante e sarebbe stata «motivata da cortesia istituzionale, piuttosto che dalla necessità di avere uno scambio riservato di informazioni». L’ex presidente sottolinea poi che Barr, in qualità di «Responsabile delle attività dell’Fbi che riguardano la sicurezza nazionale», ha indirizzato la richiesta di informazioni tramite i «canali diplomatici ufficiali, in particolare attraverso il nostro ambasciatore negli Stati Uniti», «non a me direttamente», scrive Conte su Facebook. 

A Barr, secondo quanto riporta Conte, non sarebbero stati messi a disposizione archivi e informazioni, né sarebbero stati consegnati documenti. L’ex premier scrive poi che non c’è alcun collegamento con il tweet dell’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che il 27 agosto 2019 ha espresso apprezzamento per il suo operato, né con la formazione del governo Conte II. EMILIANO FITTIPALDI

Russiagate, Barr a cena con Vecchione a Roma. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 19 aprile 2022.

Emergono nuove rivelazioni sulla visita dell’ex ministro della Giustizia Usa William Barr e di John Durham a Roma risalente al 15 agosto 2019 e di cui si parlò, per la prima volta in assoluto, sulle colonne di questa testata il 28 settembre 2019 grazie all’ex consulente di Donald Trump, George Papadopoulos. L’inquilino della Casa Bianca al tempo era appunto Trump e il magnate chiese all’Attorney General di indagare sulle origini del Russiagate e sul presunto tentativo dei democratici di fabbricare false prove nel tentativo di “incastrare” lo stesso Trump e provare così il suo legame con il Cremlino; pista investigativa che ora sta conducendo in autonomia il Procuratore speciale Durham e che sta cominciando a dare i primi, importanti, risultati. Ma che cosa c’entra il nostro Paese in tutta questa vicenda?

Secondo la ricostruzione ufficiale, è in un incontro svoltosi nella capitale che l’allora docente maltese della Link Campus Joseph Mifsud, ad oggi scomparso, disse a Papadopoulos di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” (dirt) su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni all’alto Commissario australiano a Londra, Alexander Downer, che a sua volta riferì tutto alle autorità americane. Da qui, il 31 luglio 2016, partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti tra Trump e la Russia, accuse che in seguito si sono dimostrate inconsistenti. È lo stesso Papadopoulos a ricostruire il suo arrivo a Roma alla Link Campus e il suo incontro con Mifsud nel suo libro Deep State Target. Sempre a Roma, come ricordava poi La Stampa tempo fa, il 3 ottobre 2016, si svolse inoltre un incontro segreto e cruciale tra gli investigatori dell’Fbi e il loro informatore britannico Christopher Steele, autore del famoso rapporto sulle presunte relazioni pericolose fra Trump e il Cremlino. Steele, ricorda La Stampa, dopo la carriera nell’intelligence, aveva successivamente fondato una sua agenzia investigativa, la Orbis, e in tale veste aveva conosciuto Michael Gaeta, assistente legale presso l’ambasciata degli Stati Uniti a Roma.

Barr a cena con Vecchione a Roma

Ma torniamo alla quella giornata di ferragosto del 2019. Quella mattina, secondo i documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, citati dal quotidiano La Repubblica, l’Attorney General atterra a Ciampino e va a messa nella chiesa cattolica di St. Patrick, a due passi dall’ambasciata americana di Via Veneto. Poi si prende quattro ore di “Down Time”, in teoria riposo, ma potrebbe trattarsi di qualunque cosa. Alle 17 va in Piazza Dante 25, sede del Dis, per incontrare Vecchione. Tutto questo è noto, e probabilmente documentato da appunti riservati. Secondo lo “schedule” di Barr, però, alle 18,45 l’intero gruppo si dirige verso Piazza delle Coppelle per una cena. Come ricorda La Repubblica, si tratta di un incontro inusuale: il protocollo vorrebbe che il segretario alla Giustizia contattasse il suo omologo per spiegare cosa cerca, e poi lasciargli gestire il caso. Barr invece scavalca tutti e ottiene l’incontro col capo dell’intelligence, autorizzato dall’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Di questa cena, peraltro, nessuno – nemmeno lo stesso Conte – sembra averne mai parlato prima.

L’Attorney general tornerà in Italia anche il 27 agosto, data in cui, accompagnato da Durham, incontrerà i vertici dei nostri servizi segreti: alla riunione del 27 settembre, infatti, oltre a Vecchione, partecipano anche i i direttori di Aise (Luciano Carta) e Aisi (Mario Parente). Secondo i media americani, Barr e Durham non sarebbero tornati a casa a mani vuote dopo le due trasferte romane: come riportato al tempo da Fox News, l’indagine del procuratore John Durham si estese sulla base delle prove raccolte proprio in quei due viaggi. Come abbiamo spiegato al tempo su questa testata, un funzionario dell’ambasciata americana a Roma confermò al Daily Beast che quella di Barr è stata una visita inaspettata e che gli americani erano particolarmente interessati da ciò che i servizi segreti italiani sapevano sul conto di Mifsud, il misterioso docente maltese al centro del Russiagate americano, colui che per primo – secondo l’inchiesta del procuratore Mueller – avrebbe rivelato a George Papadopoulos l’esistenza delle mail compromettenti su Hillary Clinton.

Sempre secondo il Daily Beast, Mifsud avrebbe fatto domanda di protezione alla polizia in Italia dopo essere “scomparso” dai radar. Il professore avrebbe fornito una deposizione audio nella quale spiegherebbe perché “alcune persone” potrebbero fargli del male. Una fonte del ministero di Giustizia italiano, parlando a condizione di anonimato, avrebbe confermato che Barr e Durham hanno ascoltato la deposizione del professore e ci sarebbe stato uno scambio di informazioni tra i procuratori americani e l’intelligence italiana. Quanto al destino di Mifsud, di cui non si hanno tracce dall’ottobre 2017, secondo un’inchiesta condotta da InsideOver nel dicembre 2019, “all’80%”, secondo fonti della procura di Agrigento, il docente maltese potrebbe essere addirittura morto. “Le probabilità che Mifsud sia morto sono molto alte”, confermava una fonte del palazzo di giustizia agrigentino. “Parliamo dell’80% di possibilità”.

Ora Renzi inchioda Conte: "Ho chiesto chiarezza all'intelligence". Francesco Boezi il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

Dopo l'emersione della ricostruzione di Repubblica sui rapporti tra Conte e l'amministrazione di Trump, Renzi chiede chiarezza all'intelligence.

Il leader d'Italia Viva Matteo Renzi ha voluto commentare parte della ricostruzione emersa oggi su Repubblica: quella relativa ai tempi in cui alcuni membri dell'intelligence americana si sarebbero recati a Roma per raccogliere elementi sulla genesi del "Russiagate" (e forse non solo su quello).

Come ha scritto Roberto Vivaldelli su InsideOver, l'ex presidente degli Stati Uniti d'America aveva domandato all'epoca di "indagare sulle origini del Russiagate e sul presunto tentativo dei democratici di fabbricare false prove nel tentativo di "incastrare"".

L'ex presidente del Consiglio italiano è stato lapidario: "Oggi - ha scritto sulla sua Enews il fondatore d'Iv - la Repubblica spiega perchè ci sono dei buchi neri nella ricostruzione di Conte sulla strana vicenda dell'agosto-settembre 2019, quando gli esponenti dell'amministrazione americana vennero in Italia alla ricerca di un presunto complotto da me ordito contro il presidente Trump". Per qualche trumpiano, c'entrerebbero persino i rapporti tra l'ex capo del governo italiano e l'ex inquilino della Casa Bianca Barack Obama.

E ancora: "Considero una follia questa ipotesi e ancora più folle mi pare chi gli ha dato credito. Ho chiesto chiarezza all'intelligence italiana. E non lo faccio per me, ma per il decoro delle istituzioni italiane". L'ex premier vorrebbe insomma che la cosa venisse chiarita dagli organi deputati a farlo. Renzi ha commentato la cosa anche via social: "Obama ed io che organizziamo una truffa elettorale ai danni di Trump? Follia pura. Che nel 2019 qualcuno a Roma possa aver dato credito a tale idea mi sembra gravissimo. Auspico che l'intelligence italiana faccia chiarezza nelle sedi opportune", ha scritto su Twitter.

Anche altri esponenti d'Italia Viva stanno dicendo la loro in queste ore. Una tra tutti, l'ex ministro Teresa Bellanova: "Poco dopo essere stata nominata ministra dell'Agricoltura posi il tema a Conte della delega ai servizi. Che ci fossero elementi di opacità a noi era già chiaro. Da capo delegazione avanzai richieste di chiarimenti, ma Conte sfruttó il tema pandemia per non chiarire mai", ha fatto presente.

Un'altra delle ipotesi in campo, che è correlata a quelle che sarebbero state delle indagini sull'origine del cosiddetto Russiagate, riguarda il presunto sostegno politico che Donald Trump avrebbe offerto al capo del MoVimento 5 Stelle in cambio dell'ausilio fornito per chiarire se e cosa avessero messo in piedi i Dem italiani.

Su questo aspetto ha preso posizione la senatrice d'Iv Laura Garavini, così come ripercorso dall'Adnkronos: "Chiediamo a Conte ed al Movimento 5 Stelle - ha dichiarato la renziana - di fare tutta la chiarezza possibile su questa inquietante vicenda. E chiediamo al Pd di non restare anche questa volta in silenzio: Italia Viva aveva chiesto all'inizio della legislatura una commissione di inchiesta per approfondire il Russiagate e le sue conseguenze dirette sulla nostra democrazia, fino ai risultati elettorali con una potente vittoria delle forze antisistema".

Pure l'onorevole Luciano Nobili, altro renziano, ha chiesto al Partito Democratico ed al MoVimento 5 Stelle di esprimersi sulla vicenda: "Avrebbe usato i servizi segreti a scopi personali e politici - ha scritto il deputato riferendosi a Giuseppe Conte - : mantenere a ogni costo la poltrona. Avrebbe barattato il sostegno di Trump al suo Governo con la rivelazione di segreti dalla nostra intelligence. E come se non bastasse messo i nostri servizi, strutture istitituzionali delicatissime a disposizione di un altro Paese per attività ostili contro Matteo Renzi".

Nobili, che lo definisce "Conte-Gate", sostiene che questo "scandalo" non possa essere riposto in un dimenticatoio: "Una commissistione tra attività di intelligence e attività politica del M5s, tra le strutture preposte alla sicurezza nazionale e il destino personale di un uomo e del ruolo che voleva mantenere, a ogni costo. Siamo stati lungimiranti allora a pretendere che lasciasse la guida diretta dei servizi di intelligence, prima e a mandarlo a casa, poi", ha chiosato.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.  

È una piacevole serata estiva, il 15 agosto del 2019, quando verso le sette a Casa Coppelle si presenta un gruppo assai inusuale. Gli altri clienti di questo sofisticato ristorante nel cuore della capitale, che si vanta di unire «lo stile parigino e la classicità romana», probabilmente faticano a riconoscere gli ospiti di riguardo.

E in fondo si capisce. Perché al tavolo sono attesi il segretario alla Giustizia americano Bill Barr e il direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Gennaro Vecchione, capo dei servizi di intelligence italiani, impegnati in una segreta discussione per capire se Roma è stata al centro di un complotto per influenzare le presidenziali Usa del 2016 e impedire a Donald Trump di conquistare la Casa Bianca. Torna così all'attenzione un giallo che ha coinvolto l'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte, aprendo nuovi interrogativi.

Nel 2019 Trump si convince che il "Russiagate" è stato confezionato in Italia, dai Servizi, sotto la guida del premier Matteo Renzi alleato di Hillary Clinton, e dagli agenti ostili dell'Fbi come il capo a Roma Michael Gaeta. Tutto nasce dalle approssimative accuse dell'ex consigliere George Papadopoulos, secondo cui a passargli la polpetta avvelenata sulle mail di Clinton rubate dai russi era stato il professore della Link Campus University Joseph Mifsud, durante un incontro nella nostra capitale. Perciò il capo della Casa Bianca chiede all'Attorney General di andare a indagare.

Il protocollo vorrebbe che il segretario alla Giustizia contattasse il suo omologo per spiegare cosa cerca, e poi lasciargli gestire il caso. Barr invece scavalca tutti e ottiene l'incontro col capo dell'intelligence, autorizzato dal presidente del Consiglio. 

La mattina del 15 agosto 2019, secondo i documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, che Repubblica ha ottenuto nel rispetto delle leggi americane, l'Attorney General atterra a Ciampino e va a messa nella chiesa cattolica di St. Patrick, a due passi dall'ambasciata americana di Via Veneto. Poi si prende quattro ore di "Down Time", in teoria riposo, ma potrebbe trattarsi di qualunque cosa. Alle 17 va in Piazza Dante 25, sede del Dis, per incontrare Vecchione. 

Tutto questo è noto, e probabilmente documentato da appunti riservati. Secondo lo "schedule" di Barr, però, alle 18,45 l'intero gruppo si dirige verso Piazza delle Coppelle per una cena prevista di due ore. Sono andati? Cosa si sono detti, davanti ad un buon piatto e magari un bicchiere di vino? Esiste una traccia almeno ufficiosa di questa conversazione informale? Conte sapeva che il vertice inusuale da lui autorizzato a Piazza Dante si era allungato in una cena conviviale? È passato a salutare o era in vacanza?

Un paio di settimane dopo Conte va al G7 di Biarritz, mentre a Roma si decide il futuro del suo governo. Il 27 agosto Trump lo appoggia, con un messaggio su Twitter passato alla storia: «Comincia a mettersi bene per l'altamente rispettato Primo Ministro della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte... Un uomo di grande talento, che speriamo resti Primo Ministro». Forse è anche un ringraziamento per la visita di Barr?

Il presunto coinvolgimento dell'Italia nel "Russiagate" resta comunque nell'agenda dell'Attorney General. Il 9 settembre alle ore 17 ne discute col suo capo di gabinetto Will Levi, che il 15 agosto lo aveva accompagnato a Roma insieme al consigliere per le questioni criminali e di sicurezza nazionale Seth DuCharme. Poi torna a parlarne l'11 all'una del pomeriggio, subito dopo un pranzo col segretario di Stato ed ex capo della Cia Mike Pompeo. Quella sera stessa, alle 19, Barr va a cena con Jared Kushner e Ivanka Trump. Coincidenza, oppure risponde alle domande e riceve le richieste sul dossier italiano del genero e della figlia del presidente? 

La mattina del 19 settembre l'Attorney General dedica altri 45 minuti, dalle 10 alle 10,45, alla preparazione di un nuovo viaggio in Italia con Levi e DuCharme. Poi prende un caffè con un gruppo di importanti senatori repubblicani, fra cui Grassley e Johnson.

Roma sembra il tema principale nell'agenda di Barr, quasi un'ossessione, perché il 25 settembre ne riparla con Levi e DuCharme. Il giorno dopo torna in Italia, ma anche qui c'è qualcosa da chiarire. Secondo la versione ufficiale dei fatti Barr, nome in codice durante il viaggio Bill Ahern, viene il 27 settembre per un rapido incontro con Vecchione, presumibilmente allo scopo di ricevere le informazioni raccolte dai nostri servizi dopo il primo appuntamento del 15 agosto.

Il suo schedule, però, rivela che in realtà parte da Washington alle 7 del mattino del 26, e quindi arriva in tempo per vedere qualcuno e cenare. Dove e con chi? Passa nella capitale l'intera giornata del 27, cena, dorme, e riparte la mattina del 28 con comodo. Davvero sta a Roma quasi due giorni, solo per passare un'oretta con Vecchione? Conte ne sa qualcosa? Magari lo saluta? Quando la missione segreta di Barr viene scoperta, il Copasir chiede spiegazioni al presidente del Consiglio.

Il premier difende la legalità delle visite e sottolinea due punti: «Non ho mai parlato con Barr», e «i nostri servizi sono estranei alla vicenda». Poi ai giornalisti dice: «Qualcuno ha collegato il tweet di Trump a questa inchiesta. Non me ne ha mai parlato». Ma forse lo avevano fatto Jared e Ivanka a cena con l'Attorney General? 

«La richiesta - continua Conte - risale a giugno ed è pervenuta da Barr. Ha domandato di verificare l'operato degli agenti americani, col presupposto di non voler mettere in discussione l'attività delle autorità italiane dell'intelligence». Altro elemento imbarazzante. Perché se così fosse, il premier avrebbe autorizzato il segretario alla Giustizia ad incontrare i vertici dei servizi italiani per ricevere informazioni compromettenti sui colleghi dell'Fbi, tipo Gaeta, con cui poi i nostri agenti lavoravano ogni giorno per garantire la sicurezza del Paese.

Quindi sul 15 agosto Conte aggiunge: «Si è trattato di una riunione tecnica con il direttore del Dis Vecchione, che non si è svolta all'ambasciata americana, né in un bar, né in un albergo, come riportato da alcuni organi di informazione, ma nella sede di piazza Dante del Dis». Certo, non in un bar. Allora però la cena a Casa Coppelle come è finita nello schedule ufficiale di Barr? I servizi giurano di non aver dato nulla all'Attorney General, e di non sapere tutt' ora dove sia finito Mifsud. Ma Conte ha davvero detto al Copasir tutto quello che avrebbe dovuto?

Estratto dell’articolo di Carlo Bonini per “la Repubblica” il 19 aprile 2022.

I documenti ottenuti da "Repubblica" sulle due missioni dell'agosto e settembre 2019 a Roma dell'allora segretario alla giustizia americano Bill Barr, evidenziano alcune significative omissioni della ricostruzione di quella vicenda proposta dall'allora presidente del Consiglio Giuseppe Conte […] e fotografano la disinvoltura con cui Conte e Gennaro Vecchione, il Carneade che l'allora premier, contro tutto e tutti, aveva voluto al vertice del Dipartimento per le informazioni e la sicurezza (Dis), maneggiarono una faccenda dai contorni opacissimi fuori da qualsiasi protocollo e cornice istituzionale.

Il che la dice lunga sulla cultura della sicurezza nazionale, della diplomazia, di chi, oggi leader del Movimento 5S, ha guidato da Palazzo Chigi il Paese con due diverse maggioranze. Lo stesso uomo […] che […] barattava un vantaggio personale (l'endorsement politico a suo favore da parte di Trump) in cambio di un incongruo scambio di informazioni dall'alto dividendo politico (il presunto coinvolgimento del Fbi in un altrettanto presunto complotto ai danni della Casa Bianca) e oggi, di fronte all'invasione Russa dell'Ucraina, arriccia il naso di fronte a un certo "atlantismo oltranzista".

[…] conferma l'uso politico borderline che dei nostri Servizi Giuseppe Conte ha fatto nel tempo (il caso di Marco Mancini ne è stato un esempio luminoso). Ossessionato dal suo destino, Conte ha a lungo confuso l'interesse e la sicurezza nazionale con quello della sua persona e della sua permanenza a Palazzo Chigi. […]

 Le ombre di Conte che non volle mai lasciare la delega ai Servizi segreti. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.  

Tra gli aiuti di Putin e i favori a Trump da premier rimase impigliato due volte: due indizi sono pochi per fare una prova, ma sono troppi i dettagli senza risposta.

Questa è la storia di un premier che è vissuto due volte e che nelle sue due vite a palazzo Chigi è finito coinvolto in altrettante storie a dir poco oscure, le cui trame sembrano pagine strappate dai romanzi di John le Carré: tra intrighi internazionali, tentativi di spionaggio, presunti complotti e ingerenze di Paesi stranieri. Alla guida del governo giallo-verde, nel 2019, Giuseppe Conte si impigliò nel Russia-gate perché fece uno strano favore a Donald Trump. Alla guida del governo giallo-rosso, nel 2020, si impigliò nel Covid-gate perché accettò uno strano favore da Vladimir Putin. Due indizi sono pochi per fare una prova, ma sono troppi i dettagli senza risposta.

L’estate romana di William Barr, per esempio è ancora oggi avvolta dal mistero. Tre anni fa, l’allora ministro delle Giustizia americano incontrò due volte nella capitale il capo del Dis Gennaro Vecchione, ad agosto e a settembre. Per i suoi viaggi — scrive il New York Times — saltò ogni protocollo in patria, e la stessa cosa fece il responsabile dei servizi italiani che avvisò solo a missione compiuta i direttori dell’Aise e dell’Aisi, i bracci operativi degli 007 nazionali. L’incontro tra Barr e Vecchione fu autorizzato da Conte, sebbene le procedure non lo contemplassero.

Ma a Washington Trump fremeva perché cercava la prova di un complotto ai suoi danni in campagna elettorale, che sarebbe stato orchestrato dai Democratici americani insieme all’ex premier italiano Matteo Renzi. Cosa abbia chiesto l’ospite non è chiaro. Ma non è un caso se all’appuntamento di agosto a Roma si presentò con il procuratore John Durham, a cui era stato affidato il Russia-gate. E non è nemmeno un caso se dagli Stati Uniti emergono ora dettagli sugli incontri tra Barr e Vecchione, riferiti da Repubblica. A Washington ora c’è Joe Biden, «e questi spifferi — spiega un esponente del Copasir — sono un messaggio della nuova Amministrazione».

Fonti grilline raccontano che Conte sia «molto teso». Forse perché si è reso conto di essersi infilato allora in uno scontro tra servizi americani. E siccome dall’altra parte dell’Atlantico il vento è cambiato, i segnali che arrivano sono inequivocabili. In ogni caso il Copasir ha deciso ieri di non riaprire questo dossier, «perché — sussurra uno dei membri del Comitato — la situazione internazionale è delicata e qualcuno ha chiesto di non complicarla a livello nazionale».

Ma resta aperto l’altro dossier, che appartiene all’epoca del Conte giallo-rosso e riguarda l’offerta di aiuto giunta da Mosca, quando l’Italia era piegata dalla pandemia. È l’altra vicenda con molte zone d’ombra. È certo intanto che l’operazione «Dalla Russia con amore» nascondesse un tentativo di spionaggio ad alcune basi militari italiane, come riferito da fonti della Difesa e dell’intelligence. Ed è altrettanto certo che la Nato avesse lanciato l’allarme. La missione voluta da Putin è del marzo 2020. Ad aprile il comandante supremo del Patto in Europa — intervistato dal Corriere — chiese all’Italia di «prestare strettissima attenzione alla maligna influenza russa». A maggio il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, rispedì a casa gli ospiti.

Anche in questo caso la ricostruzione auto-assolutoria di Conte è carente. Al Copasir l’ex premier ha raccontato che il 21 marzo del 2020 ricevette la telefonata di Putin, pronto a dare un aiuto. Ma come mai, appena il giorno dopo, atterrarono a Pratica di Mare tredici Ilyushin? Come fu possibile organizzare in poche ore una simile missione? Nell’inchiesta di Fiorenza Sarzanini per il Corriere si riporta la tabella presentata dai russi, con i nomi, i profili e le date di nascita dei 230 uomini mandati in Italia: segno che Mosca aveva selezionato anche i militari per la spedizione. Nemmeno la migliore agenzia matrimoniale saprebbe preparare un rinfresco nuziale così rapidamente. Nemmeno Conte ha saputo fornire spiegazioni.

O forse la spiegazione di tutte queste storie va cercata nell’ostinazione con cui il premier giallo-verde e giallo-rosso tenne sempre per sé la delega ai servizi nei suoi anni a Palazzo Chigi. Anche se gli costò Palazzo Chigi.

Timori Usa nelle carte segrete: Conte ondivago e filorusso. Stefano Zurlo il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lo sconcerto nel dossier del 2020 anche per i militari da Mosca: "L'Italia deve difendere i propri interessi".

Le liti fra Renzi e Conte, le critiche dei partiti italiani ai decreti sulla pandemia, poi all'improvviso una frase sibillina che non passa inosservata al Dipartimento di Stato: «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali».

Un testo che fotografa lo sbandamento di quel periodo e non a caso viene sottolineato da una manina, non si capisce bene se alla partenza, a Roma, o all'arrivo, a Washington.

Certo, quelle poche righe firmate il 29 aprile 2020 dall'allora ambasciatore in Italia Lewis Eisenberg colgono, sia pure con sottigliezza diplomatica, la confusione e l'imminente fine di un'epoca caratterizzata dalle giravolte e dalle capriole di Giuseppe Conte.

Conte, come raccontato anche ieri dal Giornale, si accredita presso Trump che nel 2019 incorona Giuseppi sul campo. L'Italia sviluppa una politica estera a dir poco avventurosa: il capo del Dis Gennaro Vecchione incontra a cena il ministro della giustizia americano Bill Barr che cerca nella penisola le fantomatiche prove del Russiagate.

Contemporaneamente l'Italia sposa, in perfetta solitudine fra i partner occidentali, la Via della seta, strumento di penetrazione commerciale e strategica di Pechino, e riceve un aiuto, persino eccessivo e sempre più sospetto, da Putin che invia un poderoso contingente militare per combattere il Covid a Bergamo.

L'ambasciatore registra tutto, monitora gli scontri all'arma bianca fra Conte e Renzi che alla fine sarà l'artefice del cambio a Palazzo Chigi e dell'arrivo di Draghi. Ancora, Eisenberg riporta i pareri degli editorialisti e cerca di trasferire negli Usa il clima e gli umori che respira nella capitale.

Ma qua e là affiorano i giudizi e le previsioni, tutte sottolineate nei documenti trasmessi a Washington. «L'Italia deve ora più che mai definire e difendere i suoi interessi nazionali». In un momento in cui certo il Paese è sotto l'attacco durissimo del Covid, esploso fra Codogno e Bergamo, ma è anche protagonista con Conte di una politica estera a dir poco ondivaga.

Eisenberg, nei documenti declassificati, tradotti e studiati dal professor Andrea Spiri, docente di storia dei partiti politici alla Luiss, si sbilancia con una sorta di profezia che si avvererà: «È probabile che questo governo non duri a lungo». All'orizzonte, per Eisenberg «c'è un governo tecnico». Insomma, nella primavera del 2020, in piena e drammatica emergenza sanitaria, l'ambasciatore americano capta l'arrivo di Mario Draghi, anche se il suo sarà in realtà un esecutivo di unità nazionale.

Spiri evidenzia poi un altro frammento del report, relativo alla missione dei russi a Bergamo per aiutare la popolazione alle prese con la pandemia. Sulla carta il team è formato da medici e infermieri, ma Eisenberg ha ben chiaro che si tratta di «soldati russi», come è emerso sempre più nettamente nelle ultime settimane. Quando si è capito che Conte aveva allargato con una certa disinvoltura il perimetro d'azione dei russi. Per Eisenberg però il capitolo è ormai chiuso: «Nessuna regione italiana ha chiesto il loro intervento». E la loro partenza per Mosca è imminente.

Non c'è alcun commento formale, ma a Washington devono essere soddisfatti per la mancata proroga. E la sottolineatura è un modo per enfatizzare il dettaglio sconcertante di quel viaggio che, due anni dopo, è al centro di polemiche e retroscena per il dilettantismo mostrato da Conte nei delicati rapporti internazionali. Ma per Conte non c'è nulla di strano né di misterioso: «Non sono emersi elementi di spionaggio, i sanitari russi non hanno mai travalicato i confini, ho sempre perseguito l'interesse nazionale - afferma l'ex premier, ospite di Liili Gruber a Otto e mezzo - L'incontro con Barr, poi, è stato studiato e preparato, i nostri servizi non gli hanno aperto l'archivio. Non sono stato né disinvolto né disattento».

Giuseppe Conte, le menzogne sugli incontri tra 007 italiani e Usa: le prove del Russiagate. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 20 aprile 2022.

Due schiaffi, nello stesso giorno, dai principali quotidiani italiani. No, non è un bel risveglio quello di Giuseppe Conte, che ieri si è visto, involontariamente, protagonista della rassegna stampa mattutina. Tornano in prima pagina due fatti del passato recente. Il primo riguarda il viaggio dei russi in Italia, in quella che doveva essere una missione umanitaria per aiutare un paese in difficoltà, il nostro, nella gestione della prima ondata del Covid. Viene fuori che, con l'avallo dell'allora presidente del Consiglio, quelle sospettate di essere spie ebbero il permesso del governo di entrare nelle strutture per "bonificare", ottenendo anche il rimborso della nafta per l'aereo. Questa è una. E la scrive il Corriere.

L'altra, riportata da Repubblica, riguarda l'incontro tra gli 007 americani e quelli italiani. Giugno 2019. Un favore, è la tesi del quotidiano, fatto a Donald Trump per ottenere il sostegno di Washington al suo governo pericolante. In effetti poco dopo The Donald pubblicò un tweet zuccheroso per tessere le lodi di "Giuseppi" (lo chiamò così). Di lì a poco l'esecutivo guidato dall'avvocato "del popolo" cadde lo stesso, ma tornò in sella con una nuova maggioranza giallorossa, senza la Lega e con il Pd .

LA REGIA POLITICA - Il leader del M5s nega tutto. Eppure gli viene attribuita una regia politica dietro l'incontro riservato tra i servizi americani e italiani.

Con l'obiettivo di inguaiare Matteo Renzi, che era stato indicato come l'autore del "Russiagate", ovvero del tentativo di influenzare le elezioni americane del 2016 a vantaggio di Hillary Clinton, allora avversaria di Donald Trump. Nell'articolo viene riportata una cena (fatto inedito) a cui avrebbero preso parte nell'estate 2019 anche il direttore del Dipartimento per le informazioni sulla sicurezza Gennaro Vecchione e il segretario per la Giustizia americano dell'amministrazione Trump Bill Barr.

Renzi grida allo scandalo: «Ci sono dei buchi neri nella ricostruzione di Conte sulla strana vicenda dell'agosto-settembre 2019», scrive nella sua Enews. «Ho chiesto chiarezza all'intelligence italiana. E non lo faccio per me, ma per il decoro delle istituzioni italiane» aggiunge. Insomma: da un lato emerge l'intendenza con la controversa amministrazione Trump; dall'altro un rapporto di subalternità con Vladimir Putin. Ieri sono sbucate fuori da un cassetto le mail inviate dall'ambasciata russa alla Farnesina. Da cui si capisce che il governo contiano - contrariamente a quanto sostenuto dal diretto interessato in passato - aveva autorizzato le "brigate mediche" putiniane a operare nelle strutture italiane, accettando anche di sostenere tutte le spese per l'arrivo di centotrenta persone.

LA DIFESA - Tutte balle, «sono state scritte infamità», si difende Conte: «Non ho mai personalmente incontrato l'allora Attorney General degli Stati Uniti, Bill Barr, nel corso delle sue visite in Italia, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Collegare la richiesta di informazioni di Barr alla vicenda della formazione del Governo Conte II è «una illazione in malafede», visto che la richiesta di Barr risale al giugno 2019, mentre «la crisi del governo Conte I risale all'8 agosto 2019», ricostruisce il leader dei grillini. Anche il famoso tweet del presidente Donald Trump, del 27 agosto 2019, che espresse «apprezzamento per il mio operato come premier», non ha alcun collegamento con questa vicenda, «considerato che la richiesta di Barr risale al giugno precedente e che questa richiesta e i suoi contenuti non sono mai stato oggetto di scambi o confronti tra me e l'allora presidente Trump». 

L'inchiesta e la nuova convocazione. Il Copasir indaga su Conte: dagli aiuti di Putin agli 007 americani, tutte le opacità dell’ex premier. Claudia Fusani su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Tra il 2016 e il 2020 si può dire che ci sia stata una sorta di “magnifica ossessione” da parte di alcuni apparati, non solo d’intelligence, e non solo italiani nei confronti di Matteo Renzi. Così come si può dire che il premier Giuseppe Conte – che ha blindato nelle sue mani e dell’amico generale Vecchione la gestione dell’intelligence per tre anni da giugno 2018 fino alla sua uscita da palazzo Chigi – ha maneggiato con troppa disinvoltura il suo incarico di responsabile della sicurezza nazionale. Che lo abbia fatto per interesse personale – il che presuppone una strategia, un progetto, un disegno – per gusto del potere e ambizione di potere o per una più banale, ma non per questo meno pericolosa, leggerezza, non cambia la morale finale: il leader del Movimento 5 Stelle ha ancora molto da chiarire su due circostanze diverse ma che intrecciano insieme lo stesso filo russo.

Questo chiarimento deve arrivare una volta per tutte e lo stesso Copasir – l’organismo parlamentare deputato a illuminare le dinamiche legate all’intelligence – non può più tirare per le lunghe vicende che hanno urgenza di chiarimento. Serve una parola finale di verità e chiarezza. E poiché i fatti hanno sempre una loro realtà metafisica che esula dal contingente, non c’è dubbio che le informazioni spiegate e argomentate ieri su La Repubblica – circa i rapporti tra Conte, il suo capo degli 007 Vecchione e il “ministro” della Giustizia Usa Bill Barr – e le ulteriori novità raccontate dal Corriere della Sera sui rischi e le ambiguità della missione russa all’epoca della prima emergenza Covid, aprono una seria ipoteca sulla leadership di Conte. Il quale ieri ha minimizzato tutto. E non ha trovato di meglio da fare che attaccare Matteo Renzi invitandolo “a presentarsi davanti al Copasir”.

Un’ossessione di nome Matteo

Circa l’ossessione dell’intelligence su Matteo Renzi, all’epoca premier, due indizi non sono ancora una prova ma quasi. Nelle carte dell’inchiesta Consip – processo che procede lontano dai riflettori presso il tribunale di Roma – era emerso con evidenza tra il 2016 e il 2017 come le indagini dei carabinieri del Noe, tutti ex dei servizi segreti, avessero anche un obiettivo politico: puntare a Tiziano Renzi “per colpire” il figlio Matteo. Poi questo aspetto inquietante della faccenda è stato derubricato nel tempo ad errori lessicali “come talvolta accade”. All’epoca destò scalpore e inquietudine.

Circa un anno e mezzo dopo, Conte già saldo alla guida del suo primo governo, salta fuori la storia di George Papadopoulos, ex consigliere di Donald Trump, secondo il quale nel 2016 fu l’allora premier Matteo Renzi “alleato” con Obama, Hillary Clinton e “agenti ostili” come il capo dell’Fbi a Roma Michael Gaeta a confezionare il Russiagate per impedire a Trump la conquista della Casa Bianca. Un racconto fumoso con al centro le mail di Hillary Clinton rubate dai russi e poi rilanciate a venti giorni dal voto danneggiando la corsa della prima donna alla Casa Bianca. Una vera polpetta avvelenata che, secondo Papadopoulos, fu veicolata a Roma dal professor Joseph Mifsud, docente alla Link Campus university. Di Mifsud si sono perse le tracce. La Link campus conobbe in quegli anni il suo momento di gloria poiché in quelle aule si formò la classe dirigente del Movimento 5 Stelle. Come che siano andate le cose, Trump nel 2019 si convinse che Roma era al centro di trame insostenibili. E che era giunto il tempo di smontarle. Mentre gli schizzi di fango erano tutti per Matteo Renzi. Così inviò nella Capitale il fidatissimo General Attorney Bill Barr.

Una cena e tanti buchi nell’orario

La storia è nota: Barr, oltre che ministro della Giustizia detentore della delega sull’Fbi, ha avuto ben due colloqui con l’allora capo del nostro Dis, il generale Vecchione, uomo ombra di Giuseppe Conte. Il primo fu il 15 agosto 2019. Il secondo il 27 settembre. Entrambe le volte Barr incontra Vecchione in piazza Dante, sede del Dis. Conte, più volte sentito sull’opportunità di queste riunioni, ha sempre chiarito – e lo ha fatto anche ieri con una lunga nota – che si trattò di incontri “tra omologhi” e autorizzati. Mai c’è stato un faccia a faccia Conte-Barr.

Il corrispondente di Repubblica da New York ha avuto accesso alle carte di questa coda del Russiagate e ha scoperto che negli schedule (programma ufficiale) di Barr ci sono alcuni “buchi” negli orari e una cena di troppo in piazza delle Coppelle. E ha posto, documenti alla mano, una serie di domande sui reali rapporti in quei giorni tra palazzo Chigi e la Casa Bianca. Siamo nell’agosto 2019, il Conte 1 è a un passo dalla crisi; il Conte 2 sta prendendo forma e due giorni prima, il 27 agosto, arriva l’incoraggiante tweet di Donald Trump: “Speriamo che l’altamente rispettato presidente del Consiglio italiano resti primo ministro”. La coincidenza tra il tweet di Trump e l’arrivo della seconda missione di Barr è una di quelle cose che stupiscono ogni volta che ce la troviamo di fronte.

Il lungo post di Conte

Anche ieri Conte ha replicato ai sospetti con un lungo post su Facebook il cui succo è: “Tutto normale, nessuna novità e nessuno scandalo. Se il giornalista mi avesse chiamato, gli avrei spiegato tutto”. Forse è necessario che Conte metta in conto una nuova audizione davanti al Copasir. E che i membri del Copasir smettano di avere timore reverenziale per un ex premier e inizino a fare le domande giuste. A chiederla, però, per ora sono solo due gruppi “minori” della maggioranza, Italia viva e Noi con l’Italia. Per il Pd ha parlato l’ex capogruppo al Senato Andrea Marcucci. Non pervenuto Enrico Letta che ancora deve capire fino a che punto gli conviene tenere aperta l’alleanza con un leader, Conte, non sempre corretto con il Nazareno in questi mesi. Non pervenuto anche il presidente del Copasir Adolfo Urso (Fratelli d’Italia).

Una nuova audizione. Anzi due

La nuova audizione di Conte dovrebbe essere divisa in due parti. Per chiarezza anche nella verbalizzazione. La prima sul caso Barr e magari in concomitanza con l’amico Vecchione. La seconda sulla missione russa ai tempi del Covid. È stato il Corriere della Sera ieri a ri- mettere nei guai l’ex premier tirando fuori le mail da cui emerge con chiarezza che la missione dalla “Russia con amore” era stata sì autorizzata ai massimi vertici – tra Putin e Conte – ma era anche un classico Cavallo di Troia per carpire segreti all’amica Italia. Le parole non lasciano dubbi. Nelle mail protocollate si parla di “inviare mezzi speciali per la disinfestazione di strutture e centri abitati nelle località infette”. Altro che medici, infermieri e mascherine. Anche i numeri non lasciano dubbi: di 104 persone, solo 32 avevano a che fare con le scienze mediche. Tutti gli altri erano militari e personale diplomatico, come noto il primo travestimento degli 007.

Dagli aerei atterrati a Pratica di Mare nel marzo 2020, in pieno lockdown, scesero 22 veicoli militari, 521mila mascherine, 30 ventilatori, mille tute protettive, 10 mila tamponi veloci e 100mila tamponi normali. Se non abbiamo avuto – si spera – militari russi in giro nei nostri uffici pubblici a captare informazioni che hanno a che fare con la sicurezza nazionale (qualcosa che oggi fa venire i brividi), è solo perché in quel marasma che fu il primo lockdown, il generale Luciano Portolano, comandante del Coi, e il numero 2 della Protezione civile Agostino Miozzo dissero, “no, grazie, non se ne parla proprio che voi andiate giro per i nostri uffici pubblici a disinfettare”. Le mail confermano anche il tono assertivo con cui i russi pretesero di aver pagato vitto, alloggio e “50 tonnellate di combustibile a titolo di cortesia”.

Conte ha chiesto e ottenuto di essere sentito appena questa storia uscì sui giornali. Era il 24 marzo scorso. Le mail pubblicate ieri dal Corriere della sera sono un’ulteriore conferma che l’ex premier non ha chiarito e non se la può cavare con un generico “eravamo nel caos, qualunque aiuto era ben accetto, quella di accettare la missione russa è stata una decisione condivisa da tutto il governo”. Lo stesso Copasir deve fare più pressione – una volta di più – per ottenere tutte le informazioni e, a questo punto, soprattutto le spiegazioni. Invece tende a rinviare il momento del chiarimento. L’audizione del generale Portolano, ad esempio, che alla guida del Coi oppose un energico no alle richieste russe, non è ancora nell’agenda di San Macuto.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

I rapporti con gli Usa di Trump. Così Conte usava gli 007 a suo piacimento: tutti gli intrighi del premier pasticcione. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

Il giallo delle misteriose 48 ore passate dal procuratore generale americano Barr a Roma, nel ferragosto 2019, si infittisce. I suoi incontri con il capo del Dis Gennaro Vecchione, uomo di fiducia dell’allora premier Giuseppe Conte, sono stati rappresentati molto genericamente nel corso delle audizioni che Conte ha reso al Copasir. E in buona parte, come sappiamo oggi, taciuti. L’agenda minuta di quella due-giorni, liberata dalle autorità americane dal sigillo della riservatezza, restituisce una serie di informazioni che Conte ha tenuto ben nascoste. Una serie di finestre temporali “scoperte”, in cui il massimo rappresentante della giustizia americana – che era formalmente emissario di Donald Trump – una volta a Roma sarebbe uscito dai radar della missione concordata.

E veniamo a sapere di una sontuosa cena nel ristorante romano Casa Coppelle in cui barbe finte, staff del general attorney e la fonte più vicina al presidente Conte, Gennaro Vecchione, si sono potuti trovare per condividere tra un bicchiere e l’altro, più di qualche confidenza. Ha poi dell’incredibile venire a sapere come tutte le attenzioni e i servigi resi all’amministrazione americana fossero stati concessi in virtù dell’affannosa ricerca delle prove di un complotto internazionale voluto da Matteo Renzi ai danni dell’eleggibilità di Trump alla Casa Bianca. In questo contesto dai troppi segreti affondano almeno tre dei casi di cui Il Riformista ha scritto in questi anni. Tutti misteri romani o comunque avvenuti nella Capitale. La misteriosa scomparsa del professor Mifsud, per iniziare. “Una spia maltese utilizzato da servizi di diversi paesi”, secondo il ritratto che per noi ne aveva fatto un uomo di fiducia di Trump come George Papadopoulos.

Tutti i contorni del Russiagate, il canale di connessione sotterraneo tra Putin e Trump che sarebbe passato proprio per Roma. L’incontro all’Autogrill Renzi-Marco Mancini, con l’insoluto risvolto televisivo: su come e perché quel lungo filmato (“ricevuto con un video anonimo in redazione”, aveva detto Ranucci) sia stato raccolto e raccontato da Report, il mistero rimane. È invece certo che Gennaro Vecchione frequenta Giuseppe Conte da anni: da ben prima che l’avvocato sentisse pulsare la sua vena politica. I legami del generale Vecchione con un certo mondo della destra sovranista a stelle e strisce li abbiamo messi nero su bianco: quando Dignitas Humanae Institute, presieduto dal cardinale dell’ultradestra religiosa Raymond Leo Burke, promuove l’arrivo in Italia per un ciclo di incontri dello spin doctor del trumpismo e del sovranismo americano, Steve Bannon, può contare sulle relazioni che il cardinal Burke ha intessuto. E se il Dignitas Humanae Institute guarda alle grandi questioni internazionali, il porporato può operare con la politica italiana grazie ad una serie di realtà. È presidente d’onore della Fondazione Sciacca, nel cui comitato tecnico-scientifico siedono ben due generali della Guardia di Finanza: Gennaro Vecchione e Angelo Giustini. Una Fondazione umanitaria e caritatevole, viene detto sul suo sito.

Ma che vede una serie di correlazioni curiose con le istituzioni. A capo dell’ufficio stampa, per esempio, c’è un militare che opera anche nel gabinetto del Ministro della Difesa. Quando c’era Trump da una sponda dell’Atlantico e Conte dall’altra, se gli amici americani chiamavano, qualcuno nel governo italiano rispondeva subito. E infatti, con Conte al governo e Vecchione a capo del Dis, a Bannon viene “gratuitamente prestata” la Certosa di Trisulti, in provincia di Frosinone. Sono i mesi in cui Conte traballa. La crisi del Papeete. Il 27 agosto arriva un segnale chiaro, da Washington: “Spero che Giuseppi Conte rimanga Presidente del Consiglio”, twitta Trump. Roma torna incandescente. Oligarchi russi, agenti Cia, predicatori sovranisti la cingono d’assedio. Chi guarda a Trisulti, come l’ultradestra, sogna di inaugurarvi l’“università del sovranismo”. Un progetto tanto ambizioso da non reggere alla fine del governo Conte I. Arriva l’alleato Dem e la Certosa verrà restituita alla Curia, auspice il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, e l’incidente chiuso in fretta e furia. Anche perché rimane un’altra accademia sulla quale i sovranisti sembravano poter contare.

Nell’ottobre 2017 scompare a Roma, uscendo da una sua lezione, l’enigmatico professor Joseph Mifsud. La lezione si era tenuta alla Link Campus University, fondata anni da dall’ex ministro Enzo Scotti. Una istituzione accademica molto particolare, sulla quale sono stati versati fiumi di inchiostro, diverse interrogazioni parlamentari e perfino un dossier dell’Aisi.

Una università dalle molte vite. Dopo due cambi di sede e una serie di difficoltà economiche, nel 2016 la Link poté compiere un “grande salto”, passando nell’attuale sede a poche centinaia di metri dalla sede diplomatica russa di Villa Abamelik, su via Aurelia. Mifsud avrebbe avuto un ruolo centrale nel reperimento di sponsor che hanno permesso alla Link di fare un salto di qualità. Il momento decisivo si è avuto con la partnership con l’università moscovita Lomonosov, autentico vivaio dell’intellighenzia putiniana. L’accordo viene firmato alla fine del 2016, presente Mifsud, e poche settimane dopo nella nuova sede della Link un ampio locale viene messo a disposizione della Lomonosov. Una sala in cui «era sempre presente una ragazza russa che faceva funzioni di segretaria di Mifsud» e del suo socio svizzero, Roh. In quel locale dedicato all’università moscovita si trovava spesso anche un avvocato, ex-ufficiale dell’esercito russo in Sud America – Bolivia, Argentina, Colombia e Brasile – che il primo dicembre 2016 ha tenuto alla Link una conferenza presentata da Mifsud e alla presenza di Scotti e Roh: si tratta di Aleksey Aleksandrovich Klishin. L’uomo d’affari figura tra i soggetti colpiti dalle sanzioni già nel 2017 proprio per la prossimità con Putin.

E’ anche lui un tassello nel mosaico dei misteri in cui – lo Zar al Cremlino, Trump alla Casa Bianca – agenti russi e agenti americani si sono scambiati informazioni e favori. O forse solo promesse e parvenze. Stando alla ricostruzione ufficiale, Mifsud confidò in un incontro che si tenne nell’aprile 2016 a George Papadopoulos, consigliere della campagna di Trump, di aver appreso che il governo russo possedeva “materiale compromettente” su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto l’ex consulente del presidente avrebbe ripetuto tali informazioni ad altri. In breve, le autorità americane lo vennero a sapere. Il 31 luglio 2016 partirono le indagini dell’Fbi sui presunti collegamenti fra Donald Trump e la Russia. L’ex direttore dell’FBI James Comey si era affrettato a dichiarare che Mifsud è “un agente russo”. Ma il Procuratore speciale Mueller non lo ha mai definito tale nel suo rapporto. Inoltre, Mueller non è riuscito a incriminarlo per nessuna accusa, nonostante abbia affermato che Mifsud avesse mentito agli agenti dell’FBI in un interrogatorio del febbraio 2017.

Ad accentuare il mistero, ecco che il protagonista delle rivelazioni di cui oggi sappiamo, l’ex Attorney General Barr e il Procuratore John Durham avrebbero ottenuto i telefoni cellulari di Mifsud proprio dalla nostra intelligence, durante i due colloqui in Italia con i vertici dei nostri servizi segreti in quelle misteriose 48 ore dell’agosto 2019. C’è un documento che è finito addirittura su Twitter: il file Handling – Agent 1 Redacted, verbale dell’interrogatorio del comitato giustizia del Senato Usa 3 marzo 2020 agli agenti dell’Fbi. Come nota l’esperto di intelligence Chris Blackburn, sfogliando il verbale, “l’Fbi sapeva che Joseph Mifsud stesse lavorando con figure-formatori dell’intelligence italiana presso la Link Campus di Roma. Perché anche l’Fbi lavorava lì. Ovviamente Mueller non voleva includerlo nel suo rapporto”. Dopo che Mifsud fu identificato come l’uomo che avrebbe parlato con Papadopoulos, infatti, la squadra di Mueller lo descrisse come persona con importanti contatti russi. Questa descrizione del docente maltese ignorava però i legami più atlantici dello stesso docente, inclusi Cia, Fbi e servizi di intelligence britannici. Attività che l’intensa correlazione stabilita tra il generale Vecchione deve aver contribuito a mettere in luce.

Il ministro della giustizia Usa cercava di capire, al di là del ruolo di Mifsud nella vicenda del Russiagate, quale fosse stato davvero il compito dei servizi italiani. Probabilmente sapeva che lo stesso generale Vecchione ha potuto, a dispetto della scarsa esperienza in materia di intelligence, frequentare le aule della Link Campus. In quel crocevia unico al mondo che è Roma, si dice cercasse anche altri particolari. Che portavano a Kiev: uno dei più probabili sfidanti di Trump, Joe Biden, aveva il figlio Hunter dal maggio 2014 nel cda della potente Burisma Holding, leader nello sfruttamento di gas e petrolio ucraino. Una girandola di correlazioni su cui probabilmente più di una indagine era parallelamente in corso. Del caso sappiamo ancora poco. Sappiamo che Conte ha omesso molti, troppi particolari. Sappiamo che a monte c’è stata una resa dei conti tra due fazioni rivali della Cia, e che nel gennaio 2017 la cellula romana della fazione sconfitta – a Washington, dalla politica – ha perso uno dei suoi elementi operativi, “bruciato” e dato in pasto a una inchiesta giudiziaria che lo ha messo fuori dall’operatività. Sappiamo che questa faida ha avuto un riverbero anche sui “nostri”, e che frizioni importanti vi sono state ai vertici di Aisi e Aise.

L’intervento di Mario Draghi che si affrettò a presidiare la casella del Dis con Elisabetta Belloni non fu affatto casuale. Si ricordi la stizzita reazione di Conte e di tutti i Cinque Stelle. Non sembra essere stato neanche per caso – a rileggerlo con le notizie di oggi – se proprio Giuseppe Conte provò a convincere tanto animatamente Pd e Lega (le sue due ali, sinistra e destra) di votare Belloni quale Presidente della Repubblica, per riaccreditarsi come kingmaker degli equilibri di vertice dei servizi e tornare in quella stanza dei bottoni dalla quale proprio Matteo Renzi lo ha messo alla porta.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

(ANSA il 20 aprile 2022) - La vicenda Barr "non mi preoccupa e perchè dovrebbe? Quando si agisce in piena coscienza, con chiarezza, assolvendo ai propri compiti la massima dedizione perchè dovrei essere preoccupato'". Così il leader M5s, Giuseppe Conte, al Tg3.

(ANSA il 20 aprile 2022) - "Renzi vada al Copasir, faccia quello che vuole, vada nelle tv a parlare. Non mi interessa. Spero che i suoi atteggiamenti non rovinino le nuove generazioni, il senso delle istituzioni è importante". Così il leader M5s, Giuseppe Conte, al Tg3. 

Da repubblica.it il 20 aprile 2022.

Una semplice "cena conviviale". Durante la quale il capo dei nostri servizi segreti e il ministro della Giustizia statunitense, sbarcato a Roma per acquisire informazioni sul Russiagate, avrebbero amabilmente chiacchierato, senza affrontare alcun argomento rilevante o sensibile.

Così l'ex capo del Dis, Gennaro Vecchione, liquida il tete-a-tete a Casa Coppelle, svelato da Repubblica e di cui mai aveva parlato prima, avvenuto nel Ferragosto del 2019 con William Barr, incaricato dall'allora presidente Donald Trump di indagare sul sospetto complotto ordito dai Democratici Usa (con l'aiuto dell'ex premier italiano Matteo Renzi) per influenzare le elezioni americane del 2016. E il presidente del Copasir, Adolfo Urso, ora fa sapere che in relazione alla vicenda 'Russiagate' "il Comitato, nell'odierna seduta ha constatato che non vi sono elementi di novità tali da richiedere ulteriori approfondimenti".

La cena "conviviale"

"Nel corso dell'incontro conviviale non sono stati in alcun modo affrontati argomenti riservati, confidenziali, commessi alla visita o comunque riferiti a vicende e a personaggi politici italiani e stranieri (argomento quest'ultimo mai trattato in alcuna circostanza, anche successiva), per cui la conversazione si è orientata su convenevoli di carattere generale", spiega l'ex comandante della Finanza, sentito dall'AdnKronos.

"Con riferimento all'indagine interna richiesta al Presidente del Consiglio nel maggio 2021 dal Copasir - prosegue Vecchione - giova specificare che lo stesso organo parlamentare, al paragrafo 11.1 della sua recente relazione al Parlamento, ha precisato i termini dell'ispezione, che non riguarda la gestione dello scrivente, ma altri fatti ben circostanziati".

Conte non informato

Una difesa a tutto campo, nel tentativo di allontanare da sé sospetti e illazioni, già bollate da Giuseppe Conte come "infondate" e "in malafede". Secondo Vecchione nella mattinata del 15 agosto di tre anni fa lui partecipò alla riunione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica a Castel Volturno (Ce) e nel pomeriggio, a Roma, avvenne l'incontro con la delegazione statunitense. 

A seguire, "in prosecuzione, la cena con gli stessi partecipanti, nel quadro degli standard di accoglienza, particolarmente apprezzati da sempre dai numerosi visitatori istituzionali italiani e stranieri.

Come si può notare dalla circostanza che fosse il tardo pomeriggio di Ferragosto - osserva Vecchione - sarebbe stato difficile organizzare un rinfresco in sede, per cui si è optato per un evento esterno, in un luogo pubblico e in una zona centralissima. In entrambe le situazioni, non ha preso parte il presidente del Consiglio". Che dunque non era stato informato perché non era necessario. Difatti a Conte "non sono mai stati forniti aspetti del cerimoniale e dell'accoglienza relativi a visite di singole Autorità o delegazioni italiane e straniere, stante la loro assoluta irrilevanza, fatti salvi quegli eventi che ne prevedevano la sua partecipazione", conclude l'ex direttore del Dis. 

Duello al Copasir

Intanto il duello fra il leader dei 5Stelle e il fondatore di Italia Viva, innescato ieri dalle rivelazioni di Repubblica, potrebbe presto trasfrirsi al Copasir. "Se Renzi ha certezze sul fatto che l'ex premier Conte ha violato i dettami costituzionali, ovviamente da lui dobbiamo partire. Devo chiamare" in audizione "chi mi dice, o dice al Paese, di avere delle certezze. Altrimenti su chi facciamo approfondimenti?", preannuncia Adolfo Urso in Tv. Con i parlamentari grillini del Comitato pronti a chiedere che venga sentito per primo il senatore di Firenze: "Già oggi chiederemo che venga calendarizzata l'audizione di Renzi: dal momento che ha sollevato un problema di sicurezza nazionale e dice di nutrire sospetti in merito a comportamenti non corretti da parte di Conte, ci sembra giusto che venga a spiegare nelle sedi opportune a cosa si riferisce, per poi concentrare le nostre domande e fare i dovuti approfondimenti".

Russiagate all’italiana. Secondo Renzi, Conte era filo Trump e filo Putin e voleva solo salvarsi la poltrona. su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro tra Barr e Vecchione di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. «Sulla visita di Barr risponda lui», dice il leader di Italia Viva

«Non ne ero a conoscenza». L’ex premier Giuseppe Conte nega ogni suo coinvolgimento nell’incontro informale, rivelato da Repubblica, tra l’ex segretario alla Giustizia americano William Barr e l’allora capo dei servizi segreti italiani Gennaro Vecchione, avvenuto la sera del 15 agosto del 2019 a Roma. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si era convinto che l’Italia fosse l’epicentro del Russiagate, un complotto ordito contro di lui tre anni prima, quando a palazzo Chigi c’era Matteo Renzi, mirato a danneggiarlo divulgando la notizia delle ingerenze russe nelle elezioni presidenziali vinte dal tycoon contro Hillary Clinton. Trump avrebbe mandato per questo Barr a raccogliere informazioni a Roma, trovando la collaborazione di Conte e dei servizi segreti italiani.

Il segretario del Copasir Ernesto Magorno, di Italia Viva, chiederà un’audizione dell’ex premier in merito all’incontro di cui non era stata data comunicazione alle agenzie di intelligence. E intorno a questa vicenda, si riaccende lo scontro tra Conte e Matteo Renzi.

Il leader di Italia Viva in un’intervista alla Stampa definisce Conte «incompetente e incapace di conoscere le regole del gioco». Secondo Renzi, «ci sono due Russiagate. Il primo riguarda la barzelletta per la quale io e Obama avremmo fatto una truffa elettorale ai danni di Trump. Il fatto che qualcuno a Roma abbia dato credito a questa follia è ridicolo. Colpisce che la versione di Conte non collimi con lo scoop che ieri ha fatto Repubblica: o Conte ha mentito al Copasir o Vecchione ha mentito a Conte. Oppure tutti e due mentono agli italiani. E poi c’è da chiarire la vicenda del presunto spionaggio russo, su cui siamo gli unici a chiedere la commissione di inchiesta sul Covid. Ma i grillini non vogliono che sia fatta luce, né su questo né sulle mascherine, chissà perché».

Nel giallo intorno alla famosa missione russa in Italia nel marzo 2020, il Corriere aggiunge un tassello: nell’elenco consegnato a Roma risultano 100 militari di Mosca in visita in più rispetto alla lista contenuta nelle relazioni parlamentari. Ufficialmente si trattava di una missione umanitaria, ma la composizione del contingente dimostra che in realtà erano tutti soldati e soltanto alcuni erano ufficiali medici. I militari guidati dal generale Sergey Kikot indicati nella lista di chi doveva «prestare assistenza nella lotta contro l’infezione da coronavirus» nel marzo del 2020 sono 230. L’elenco fu allegato dall’ambasciata di Mosca al testo dell’accordo tra il presidente Vladimir Putin e Giuseppe Conte poi trasmesso alla Farnesina. Ma nelle relazioni parlamentari risulta che in Italia sono stati registrati 130 nominativi. Qualcosa non torna.

«Sulla Russia tutti attaccano, giustamente, Salvini per le magliette di Putin o gli striscioni in piazza Rossa con scritto “Renzi a casa”. Ma i 5 stelle avevano la stessa linea, basta ricordare Di Stefano che oggi fa l’istituzionale viceministro e che allora attaccava l’Ucraina definendola “Stato fantoccio della Nato”», dice Renzi. «Poi c’è il tema Trump: l’atteggiamento di Conte tra agosto e settembre 2019 non è tipico del capo di un governo. Barr doveva incontrare Bonafede, nessun altro. Capisco che magari, se avesse incontrato solo Bonafede non sarebbe nemmeno venuto, ma questa è un’altra storia». Giuseppe Conte, secondo Renzi, «in quelle ore era impegnato a salvare la poltrona».

E sugli aiuti russi per il Covid «io la penso come Giorgio Gori, sindaco di Bergamo. In quella missione c’era qualcosa di strano e Conte dovrebbe chiarire perché ha accettato quell’accordo con Putin», dice Renzi.

«Il mio giudizio su Conte è notoriamente negativo, non solo per la politica estera», conclude Renzi. «Perché sulla politica estera non puoi proprio giudicarlo: ha fatto tutto e il contrario di tutto. È stato sovranista e progressista, populista e democratico, filo Trump e filo Putin. Puoi giudicare uno dalle sue idee, ma se quello cambia le idee ogni mese che gli dici?»

Conte ieri ha replicato un lungo post sui social, in cui tenta di gettare acqua sul fuoco. Assicura «massima trasparenza» e di aver già detto tutto quello che sapeva quando a ottobre è stato convocato in audizione al Copasir. L’ex premier sostiene però di non aver «mai personalmente incontrato Barr, né nel corso di incontri formali né nel corso di incontri conviviali». Il fatto che alla riunione ufficiale con l’intelligence italiana, nella sede dei servizi segreti a piazza Dante, fosse seguita una cena informale, proprio a due passi dalla casa di Conte, «è circostanza di cui non ero specificamente a conoscenza», assicura il leader del Movimento Cinque Stelle. Poi, contrattacca: «È possibile che il senatore Renzi non abbia mai sentito il dovere di andare a riferire al Copasir su questi suoi sospetti? Cosa teme, di dover poi rispondere alle domande e di essere obbligato, per legge, a riferire tutta la verità?».

Renzi risponde e dice: «Sono sempre pronto a rispondere alle domande del Copasir, ma sulla visita di Barr deve rispondere Conte e non io. Perché le risposte deve darle chi aveva la delega ai servizi, non chi come me è la parte lesa da uno stile istituzionale quanto meno discutibile. A meno che non ci sia qualcuno che pensa che davvero Obama e io abbiamo truffato le elezioni in Connecticut o in Ohio. Nel qual caso consiglio di farsi vedere da qualche specialista, possibilmente bravo».

Intervista a Carlo Calenda, leader di Azione. Stefano Zurlo per “il Giornale” il 20 aprile 2022.

Nessun complotto: «Quello indicherebbe quantomeno una direzione di marcia che invece non c'era e non c'è».

E allora?

Purtroppo la realtà è molto più modesta - sintetizza brutalmente il leader di Azione Carlo Calenda -: Giuseppe Conte voleva accreditarsi a livello internazionale e così utilizzava l'intelligence in modo spregiudicato e dilettantesco». 

Repubblica racconta la storia di una cena, a dir poco fuori dai canoni, fra il ministro della giustizia americano Bill Barr e il capo dell'intelligence italiana Gennaro Vecchione. Barr cercava le prove di un complotto ordito in Italia contro Trump e nel 2019 arriva nel nostro Paese e incontra proprio il capo dei Servizi. 

Uno schema non proprio ortodosso.

«Conte avrebbe dovuto preservare gli apparati di sicurezza, tenerli al riparo da una tempesta innescata da Trump». 

Il Russiagate?

«Appunto, siamo ai vaneggiamenti di Trump, al suo tentativo di fermare i democratici. Sono questioni di politica americana, naturalmente con riflessi in Europa, ma il punto è che il governo Conte nel 2019 fa da sponda a queste manovre». 

Conte afferma di non sapere nulla della cena tra Barr e Vecchione. Le procedure non sono state rispettate?

«Direi di no. Le richieste americane avrebbero dovuto passare attraverso il nostro ministro della Giustizia. Invece...».

Invece?

«Gli americani fanno il bello e il cattivo tempo. Spiace dirlo, ma siamo stati trattati peggio di una colonia, per inseguire fantomatiche prove che servivano a Trump per tentare di stare a galla». 

Lei parla di un atteggiamento «spregiudicato» di Conte?

«Conte, un parvenu, aveva solo il problema di ottenere un riconoscimento a livello internazionale. Quindi, anche se non conosciamo i dettagli di tutte le singole operazioni, possiamo trarre qualche conclusione». 

Secondo lei, cosa è successo?

«Un pasticcio incredibile che si stenta a credere. Siamo stati filo americani con Trump, ma questo è solo un pezzo».

Poi?

«Contemporaneamente, con un equilibrismo davvero incredibile, siamo stati filorussi e filocinesi». 

Con tutti e contro nessuno?

«Purtroppo questo si ricava dai fatti. Conte e Di Maio stravedevano per XI Jinping che l'attuale ministro degli Esteri chiamava Ping». 

Abbiamo aderito alla Via della seta.

«Sì, siamo stati l'unico Paese occidentale che si è lanciato in un progetto di matrice imperialista studiato dal regime comunista di Pechino. Nello stesso momento eravamo filorussi con Putin e filo americani con Trump. Ma come si fa ad avere una politica estera così ondivaga e contraddittoria, una bussola impazzita in cui non esistono più i punti cardinali?».

Tutto questo perché sarebbe avvenuto?

«Non immagini chissà quale complotto o cospirazione». 

E cosa dobbiamo pensare?

«Conte cercava considerazione a livello delle principali cancellerie. Pensi al tweet di Trump su Giuseppi. Conte compiaceva i suoi interlocutori, anche se in questo modo la nostra politica estera è andata a farsi benedire». 

C'è qualcosa di anomalo anche nel viaggio dei russi a Bergamo per combattere il Covid?

«Un altro episodio inquietante, con risvolti oscuri in cui affiora questa assenza di una linea guida, di una posizione chiara e limpida». 

Insomma, l'Italia ha perso credibilità nelle principali capitali?

«C'è stata una caduta di immagine, all'estero ancora oggi ci reputano filocinesi ma temo che i danni ci siano stati anche nella finanza e nell'economia. Gli svarioni del leader politici sono difficili da quantificare ma pesano negli scenari più importanti. Pensiamo agli incredibili balletti di Conte e con il regime venezuelano, ancora più gravi perché laggiù c'è una folta di comunità di origine tricolore». 

Oggi l'ex premier tratteggia un nuovo atlantismo.

«Nessuno però ha capito di cosa si tratti. Sono parole astruse e incomprensibili. Del resto, il centrosinistra si sta rivelando, sul fronte della politica energetica, il partito del no: no al gas russo, ma anche quello egiziano non va bene e pure l'Algeria non è che sia una democrazia. Il carbone inquina, le pale eoliche deturpano il territorio e alla fine uno annega dentro un mare di problemi. Ma di soluzioni, nemmeno l'ombra».

Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 20 aprile 2022.

Nei suoi incontri a Roma con i servizi segreti italiani - avvenuti in due tornate, il 15 agosto e il 27 settembre 2019, e autorizzati in maniera irrituale dall'allora premier Giuseppe Conte - l'allora ministro della giustizia americano William Barr, secondo fonti americane, aggirò i protocolli usuali nell'organizzazione della missione, e tenne all'oscuro anche funzionari dell'ambasciata americana e del Fbi a Roma. La cosa suscitò grande malumore in settori importanti dell'amministrazione americana, alle prese con i tumultuosi anni trumpiani.

Barr a Roma incontrò (anche) l'allora capo del Dis Gennaro Vecchione, ma sulla natura e il numero di questi incontri non vi è ancora piena chiarezza: ieri La Repubblica ha rivelato che oltre a quello nella sede istituzionale di piazza Dante, ce ne fu almeno un altro, una cena, al ristorante Casa Coppelle, tra il General Attorney americano e Vecchione. Di cui Conte mai aveva parlato. E poi che Barr era arrivato il giorno prima a Roma, in tempo per eventuali altri incontri serali, che però non sono rendicontati nel suo programma di viaggio, dove compare una dicitura "Down Time", riposo, che copre almeno quattro ore.

Barr peraltro ripartì solo la mattina del giorno 16.

Il dossier Barr-Conte-Vecchione verrà riaperto proprio oggi, sia pure informalmente, al Copasir: la riunione era prevista per parlare di crisi energetica come conseguenza della guerra in Ucraina, ma alla fine verranno poste nuove domande sul caso Conte-Barr, e almeno Italia Viva intende richiamare nuovamente l'ex premier in audizione. Secondo quanto risulta a La Stampa, il Copasir non ha alcuna obiezione a riaprire il caso. Ma sarà una riapertura «complessiva». Non si tratterebbe della sola audizione di Conte, ma anche di Vecchione stesso. 

Per misurare la congruenza di quanto detto allora e quanto sta emergendo di nuovo.

La storia Barr-Trump-Conte è uno dei casi più opachi nella gestione dell'intelligence italiana a cavallo tra il primo e l'inizio del secondo governo Conte. Secondo il New York Times, nel suo viaggio in Italia nel settembre 2019 William Barr «aveva aggirato i protocolli nell'organizzazione del viaggio». Funzionari dell'ambasciata avevano trovato la sua visita «insolita», così come il fatto che il procuratore John Durham - che indagava sul presunto complotto anti-Trump organizzato dai democratici mondiali partendo dall'Italia - si fosse unito a lui. 

Un funzionario italiano confermò che uno degli scopi della visita era ottenere maggiori informazioni su un professore maltese, Joseph Mifsud. Ma alle richieste (improprie) di Barr, furono proprio i due capi dell'Aise e dell'Aisi (non certo allineatissimi a Vecchione) porre uno stop, senza consegnare nulla. 

Chi era Mifsud? Professore della Link University, era stato il primo a rivelare a un giovane consigliere di Trump, George Papadopoulos, dell'esistenza di mail hackerate a Hillary Clinton, materiale che Mifsud definì «compromettente» («dirt»), e sul quale i russi e Wikileaks poi si scatenarono.

Papadopoulos aveva riferito la cosa a un diplomatico australiano, che avvisò l'Fbi e diede quindi l'innesco all'indagine del procuratore speciale Robert Mueller sul Russiagate.

Per Mueller, Mifsud era uomo in mano ai russi (per l'ex capo Fbi James Comey era proprio «un agente russo») e alle operazioni di interferenza di Putin nelle elezioni Usa del 2016.

Trump e Barr volevano invece (e, risulterà, senza fondamento) sostenere che Mifsud fosse una spia britannica, tassello di un complotto mondiale ai danni di Trump organizzato dai democratici di Obama, complice l'Italia del governo Renzi. Da allora Mifsud è sparito. Forse in Russia, forse non più vivo.

In quei mesi Barr fece analoghi viaggi anche in Regno Unito e Australia, cercando appoggi per sostenere la tesi del complotto ai danni di Trump. L'allora presidente Usa telefonò al primo ministro australiano Scott Morrison chiedendogli di fornire assistenza. Trump fece lo stesso con Conte? Barr cercò anche, in Ucraina, sostegno a una campagna contro Joe Biden e le consulenze - poi risultate legittime - del figlio Hunter con l'azienda ucraina di gas Burisma.

Ci fu infine anche un incontro, questa volta solo tra intelligence italiane e omologhi americani, avvenuto il 27 agosto. Secondo quanto risulta a La Stampa, gli americani volevano informazioni sulla condotta degli ufficiali dell'intelligence Usa con sede in Italia nel 2016. E voleva un fantomatico audio di Mifsud (che gli italiani non consegnarono). L'allora premier italiano stava autorizzando una normale collaborazione tra servizi americani e italiani o stava accettando anche solo di ascoltare una richiesta impropria di Barr (e Trump), cioè che l'Italia collaborasse non con, ma contro una parte dei servizi americani, l'Fbi?

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 20 aprile 2022.

L'Italian gate non è finito. Anzi, forse è appena cominciato. Perché nei prossimi giorni l'ex premier Giuseppe Conte è possibile, anzi quasi certo, che dovrà tornare davanti al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, e rispondere alle domande dei parlamentari su quello strano Ferragosto del 2019 quando a Roma sbarcò il segretario della Giustizia, William Barr. 

Dovrà spiegare, prima di tutto, come mai il suo capo dell'Intelligence, Gennaro Vecchione, non lo avvisò - questo ha detto Conte ieri in un lungo post su Facebook - di una cena che si tenne dopo l'incontro nella sede del Dis. Una circostanza sicuramente non neutra non fosse altro che la cena, come l'incontro, erano state concordate seguendo dei binari non esattamente istituzionali.

Non erano stati avvisati, infatti, i vertici delle due agenzie di intelligence (Aise e Aisi), non fu avvisato il Copasir. E soprattutto l'incontro fu deciso scavalcando tutti i protocolli in un passaggio in cui evidentemente la forma diventa sostanza. 

Ma Conte non sarà il solo, probabilmente, a dover tornare al Copasir per chiarire una serie di elementi che, prima delle rivelazioni di Repubblica, erano stati taciuti. Come ha chiesto ieri il segretario del Comitato (oggi la richiesta verrà ufficializzata nel comitato di presidenza), Ernesto Magorno, senatore di Italia Viva, a tornare davanti ai parlamentari potrebbe essere anche l'ex capo del Dis Gennaro Vecchione - che ieri contattato non ha voluto rispondere - che dovrà spiegare perché non aveva mai parlato di questa cena. E come mai aveva ritenuto di non informare il presidente del Consiglio, come Conte ha raccontato ieri. 

Ma l'Italian Gate non è finito anche perché quello che è accaduto in queste ultime ore ha inevitabilmente riproposto, anche all'interno dell'intelligence italiana, una domanda rimasta fino a questo momento senza risposta. E cioè: cosa hanno chiesto gli americani in quell'incontro e poi dopo in quella cena? E soprattutto: cosa hanno detto di sapere gli italiani? Perché le date raccontano una storia fin qui non ancora chiara. Quello di Ferragosto non è stato il solo incontro tra Vecchione e Barr.

Mentre l'Italia era nel pieno della tempesta del Papeete, con il governo Conte che traballava come un cocktail poggiato sulle casse del lido-discoteca caro a Matteo Salvini, l'allora capo dei servizi italiani si impegna con i colleghi americani a rivedersi. Al termine della cena a Casa Coppelle i due si ridiedero un appuntamento dopo sei settimane.

Il 27 settembre. Fu soltanto allora che gli allora direttore delle agenzie - Luciano Carta che all'epoca guidava Aise e Mario Parente dell'Aisi - vengono a sapere dell'incontro, con una comunicazione scritta. E trasecolano.

In un incontro a Palazzo Chigi avvenuto il 26 spiegano a Conte e Vecchione di non essere a conoscenza di nessun ruolo di italiani, né tantomeno delle nostre istituzioni, nella vicenda del Russiagate. Ed è quello che diranno il giorno dopo agli americani che speravano invece in ben altre informazioni. Sul punto esistono informative precise firmate dai direttori delle nostre agenzie di intelligence che, a questo punto, è certo verranno acquisite dal Comitato parlamentare.

Infine: l'Italian Gate non è finito perché è possibile che davanti al Copasir torni anche un altro ex premier, Matteo Renzi, colui che nella ricostruzione-bufala trumpiana avrebbe in qualche maniera collaborato con il governo Obama per fabbricare false prove. «Perché non va a riferire quel che sa?» ha detto ieri Conte. È possibile che oggi nel comitato di presidenza del Copasir, i 5 Stelle facciano la stessa richiesta al presidente Alfredo Urso. Che, come cultura istituzionale, mai in questi mesi ha respinto le istanze dei membri del Comitato.

Per non dimenticare. Le responsabilità del Pd di Zingaretti nel Russiagate di Conte. Carlo Panella su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Nonostante le pressioni interne, il Partito Democratico ha ignorato l’importanza della delega ai Servizi e l’ha lasciata nelle mani dell’allora presidente del Consiglio. Una decisione a metà tra l’ingenuità e la follia, a coronare una delle stagioni più fallimentari della politica. Letta dovrebbe intervenire.

Il secondo tempo del pasticciaccio Barr-Conte-Vecchione obbliga ancora una volta a registrare l’incredibile assenza di forza politica, se non l’innovativa dabbenaggine pura Pd, di Nicola Zingaretti. Ma un Pd non solo suo. Questo, innanzitutto, per aver considerato nella calda estate del 2020 non rinviabili al mittente le esplicite pressioni di Donald Trump per la giravolta dell’avvocato del popolo, da premier del governo gialloverde a premier del governo giallorosso. Allora, stupito, ne chiesi conto a un alto dirigente del Partito Democratico che, visibilmente imbarazzato, farfugliò: «Non hai idea delle pressioni da Villa Taverna…».

Preso atto che il Pd, il partito che più di ogni altro può mettere in campo alte figure tecniche per Palazzo Chigi, si è accostumato a subire i diktat di un ceffo come Donald Trump, lo incalzai: «Ma almeno potevate imporre a Conte di assegnare a uno dei vostri la delega ai Servizi». Ulteriore imbarazzo: «Zingaretti e il Pd romano non hanno neanche idea di cosa siano i Servizi. Abbiamo insistito col segretario, ma ci ha risposto che non voleva fare uno sgarbo ai 5Stelle».

Così, Conte, col beneplacito del Pd si è tenuto la delega, ha fatto di Gennaro Vecchione una longa manus sul Dis, sull’Aise e sull’Aisi – e per fortuna che questi ultimi erano diretti da Luciano Carta e Mario Parente che ne hanno salvaguardato autonomia e funzione. Non solo, i due direttori dell’Aise e dell’Aisi hanno tenuto gelidamente distanti i loro uffici dalle richieste di occuparsi, su suggerimento americano, di George Papadopoulos e Joseph Mifsud e dal ben poco limpido ambiente della Link Campus University, vivaio dei mediocri 5Stelle assunti a incarichi di governo.

Naturalmente, Mario Draghi, diventato premier, ha licenziato Vecchione, ha nominato Elisabetta Belloni al Dis e ha interrotto l’uso personale e improprio che dei Servizi ha fatto per più di due anni Giuseppe Conte.

Ma resta la macchia di un Pd incapace di rispettare la tradizione della sinistra che, da Ugo Pecchioli a Marco Minniti, ha sempre considerato i Servizi un punto focale e prezioso delle istituzioni repubblicane e che, nonostante le ripetute richieste del suo responsabile della sicurezza Enrico Borghi perché quella delega venisse affidata ad altri, ha permesso che Conte trattasse il tema come un affare di famiglia.

Questo, per di più, a fronte del fatto inaudito che il presunto scandalo delle trame per favorire Hillary Clinton contro Donald Trump, di cui parlarono William Barr e Gennaro Vecchione, del quale uno snodo sarebbe stato Mifsud, avrebbe fatto capo, secondo il fantasioso Segretario alla Giustizia americano, al governo diretto da Matteo Renzi. Quindi, il Pd, ha ceduto a suo tempo a Conte il pieno controllo politico sui Servizi ben sapendo che il premier favoriva ventre a terra un’inchiesta americana che puntava a incriminare un ex presidente del Consiglio italiano che dal 2020, era anche parte della sua stessa maggioranza parlamentare, quella che addirittura lo stesso Renzi aveva inventato.

Un quadro scabroso dal quale oggi Enrico Letta si tiene inopportunamente lontano.

Giuseppe Conte, "cosa c'è dietro al Giuseppi?". Servizi, Casa Bianca, Trump e Russia: la cena taciuta dall'ex premier. Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

Una cena tra William Barr, ex procuratore generale degli Stati Uniti, e Gennaro Vecchione, ex capo dei servizi di intelligence italiani, potrebbe mettere in seria difficoltà Giuseppe Conte. Il fatto risale al 15 agosto del 2019. I due, come rivela Repubblica, avrebbero avuto una discussione segreta per capire se Roma fosse al centro di un complotto per influenzare le presidenziali americane del 2016 e impedire a Donald Trump di arrivare alla Casa Bianca. Tutto nasce perché nel 2019 Trump si convince che il “Russiagate” sia stato confezionato in Italia, dai Servizi, sotto la guida del premier Matteo Renzi, alleato di Hillary Clinton. 

A pesare sulla convinzione di Trump sarebbe stato anche il suo ex consigliere George Papadopoulos. Quest'ultimo aveva rivelato che un professore della Link Campus University, Joseph Mifsud, oggi scomparso, durante un incontro a Roma gli aveva detto che il governo russo possedeva “materiale compromettente” su Hillary Clinton “in forma di e-mail”. A quel punto il tycoon chiese a Barr di indagare. E Barr, invece di contattare il suo omologo, avrebbe scavalcato tutti e ottenuto un incontro col capo dell’intelligence, che sarebbe stato autorizzato dal presidente del Consiglio. 

Stando ai documenti del dipartimento americano alla Giustizia sulla missione, visionati da Repubblica, Barr avrebbe visto Vecchione alle 17 in Piazza Dante 25, sede del Dis. Cosa già nota. Poi alle 18 e 45 sarebbe andato verso Piazza delle Coppelle per una cena prevista di due ore. Su questo però non si sa nulla di più. In ogni caso, alla luce di questa vicenda, suona sospetto il tweet con cui Trump appoggiò Conte il 27 agosto: "Comincia a mettersi bene per l’altamente rispettato Primo Ministro della Repubblica Italiana, Giuseppi Conte... Un uomo di grande talento, che speriamo resti Primo Ministro". Sarà stato forse un ringraziamento per la visita di Barr? Sentito dal Copasir, l'allora premier sottolineò: "Non ho mai parlato con Barr, i nostri servizi sono estranei alla vicenda". Oggi a commentare è Matteo Renzi: "Obama ed io che organizziamo una truffa elettorale ai danni di Trump? Follia pura". E anche il senatore di Italia Viva Ernesto Magorno: "I nuovi elementi emersi sulla vicenda "Russiagate" scattano una fotografia inquietante. È assolutamente necessario un chiarimento".

Bye bye Giuseppi. Il doppio Russiagate di Conte segna (in ritardo) la sua fine politica. Mario Lavia su L'Inkiesta il 20 Aprile 2022.

Le nuove rivelazioni di Repubblica e Corriere (ma sarebbe bastato leggere quotidianamente Linkiesta degli ultimi due anni) dimostrano che l’ex premier ha fatto un uso spregiudicato degli apparati, impiegati per accreditarsi presso i due principali leader reazionari del mondo.

Due storiacce, una con Donald Trump e l’altra con Vladimir Putin, i campioni della destra reazionaria mondiale: l’uno-due di Repubblica e Corriere della Sera è di quelli che in un Paese normale dovrebbero definitivamente mandare a stendere il protagonista del doppio inghippo, cioè Giuseppe Conte, all’epoca dei fatti presidente del Consiglio: è il duplice segnale che ambienti importantissimi, anche internazionali, hanno mollato l’avvocato del popolo e che nessuno crede a un suo ritorno ad alti livelli di governo.

Perché quello che balza agli occhi nei colpi dei due più importanti giornali italiani non è nemmeno il merito, anche se esiste ed è pesante, ma la tempistica e l’univocità del bersaglio, il che dimostra che il caso Conte non è chiuso, tutt’altro, e sarebbe davvero strano se per non turbare il quadro politico i partiti della maggioranza si sottraessero al dovere di incalzare l’ex premier e leader del M5s a dire quel che sa, soprattutto un Pd che ormai non ha più motivo di difendere l’indifendibile ma che ieri non ha detto una parola (tranne il solito Andrea Marcucci) su un uomo politico azzoppato che oramai andrebbe abbandonato al suo destino.

Enrico Letta, così coraggioso sulla guerra di Putin, sull’alleanza con i grillini ancora vuole puntare per puro spirito di conservazione: un’intesa che non sta più in piedi, se mai lo è stata. Il “punto di riferimento fortissimo dei progressisti” è un pallido incubo lontano.

Contro “Giuseppi” non escono vicende nuove, su Linkiesta le abbiano raccontare per mesi, ma ulteriori tasselli di giochi opachi mai chiariti completamente dall’avvocato nemmeno di fronte al comitato parlamentare per i servizi di sicurezza, dove dovrà tornare di nuovo per chiarire i fatti. Si tratta nel primo caso (scoop di Repubblica) di nuovi elementi sui misteriosi colloqui che nell’estate del 2019 l’ex ministro della giustizia americano William Barr ebbe a Roma con l’allora capo dei servizi segreti Gennaro Vecchione (e non con il omologo Alfonso Bonafede come prassi avrebbe voluto) i cui contenuti non sono mai stati chiariti fino in fondo. Ma già basandosi su quello che si sa ci sono pochi dubbi sul fatto che Barr, in veste di “avvocato” di Trump, cercasse in Italia il modo per fabbricare prove ai danni del governo Renzi nell’ambito della presunta trama obamiana contro The Donald.

Un pezzo di una tela mondiale, come già un anno fa spiegò la rivista online Ytali, «che ha coinvolto l’Australia, il Regno Unito, l’Ucraina e, appunto, l’Italia. Ad Australia e Regno Unito è stata richiesta collaborazione per capire se diplomatici dei due Paesi avessero lavorato con Obama per danneggiare Trump. Con l’Ucraina è lo stesso Donald Trump a intervenire. Il presidente repubblicano chiese infatti in una famosa telefonata al presidente ucraino Zelensky non solo di aprire un’inchiesta nei confronti del principale candidato dem alle primarie Joe Biden, ma di condurre delle indagini su CrowdStrike, una società americana specializzata nelle indagini su attacchi informatici». In Italia si puntava a colpire Matteo Renzi visto come anello della catena obamiana, ma ieri lui ha detto di considerare «una follia questa ipotesi e ancora più folle mi pare chi gli ha dato credito».

È evidente che siamo ben oltre i normali rapporti fra Stati alleati di cui aveva parlato Conte al Copasir. E non è affatto chiaro – questo è il rilancio giornalistico di Repubblica – cosa abbia fatto Barr nella sua seconda visita, quella del 27 settembre, che seguiva il primo colloquio “ufficiale” con Vecchione del 15 agosto e una misteriosa cena tra i due quella sera. Conte pertanto dovrà chiarire la sua posizione anche sui nuovi dettagli emersi: che cosa successe nella visita settembrina dell’uomo di Trump?

Ma se vogliamo la seconda dirty story, sulla quale il Corriere della Sera con Fiorenza Sarzanini non molla la presa, è anche più pesante. Riguarda la nota vicenda della visita dei medici e militari russi a Bergamo nei giorni iniziali della pandemia (marzo 2020). Ebbene, il Corriere ha tirato fuori una mail dell’ambasciata russa alla Farnesina da cui emerge che i russi volevano “bonificare” le strutture pubbliche e pretendevano (ottenendolo) che l’intera missione fosse a spese dell’Italia. Dai dettagli viene il forte dubbio che altro che aiuto umanitario si trattava, ma di un’azione di vero e proprio spionaggio: questo sarebbe stato il cuore dell’intesa tra Giuseppe Conte e Vladimir Putin.

Dal doppio pasticcio prima con Trump e poi con Putin esce dunque in modo inquietante la figura di un premier per caso che a quanto pare non esitava ad adottare i metodi più spregiudicati per accreditarsi presso i due grandi leader mondiali della reazione facendosi beffe di regole e trasparenza non solo durante i fatti ma anche successivamente, omettendo la verità, tutta la verità agli organi competenti nonché al Paese.

Come ha scritto Carlo Bonini su Repubblica, «ossessionato dal suo destino, Conte ha a lungo confuso l’interesse e la sicurezza nazionale con quello della sia persona e della sua permanenza a palazzo Chigi», qualcosa di peggio dell’«annegare la politica in un pantano senza idee» di cui scrisse il filosofo Biagio de Giovanni già due anni fa. Sarà senz’altro un caso ma tutte queste vicende torbide tornano in campo con forza proprio mentre alla Farnesina siede con un peso molto superiore al passato un certo Luigi Di Maio, avversario agguerrito dell’avvocato. Mai politicamente così debole, adesso Conte sconta l’arroganza dei tempi belli del Conte uno e – meno – del Conte due. Un’epoca lontana, che non tornerà.

La svolta di Volturara Appula. Ora sembra incredibile, ma non dimentichiamoci della temperie che ha creato l’epica di Conte. Christian Rocca su L'Inkiesta il 3 Aprile 2022.

Il Pd, i principali giornali e le tv che avevano consegnato il paese al referente italiano di Putin e Trump cominciano tardivamente a prendere le distanze dall’avvocato del populismo. Ben arrivati, ma adesso servirebbe una specie di Bad Godesberg nostrana, un’operazione di autocoscienza nazionale. O, almeno, che non si continui a demolire il discorso pubblico con talk show da operetta bipopulista.

Oggi sembra incredibile, ma quindici mesi fa il Partito democratico e la stampa illuminata e progressista hanno cercato in tutti i modi di scongiurare la defenestrazione di Giuseppe Conte da Palazzo Chigi e poi di sostenere il tentativo grottesco di formare un nuovo governo Conte, il cosiddetto Trisconte, con statisti del calibro di Ciampolillo e base elettorale nei talk show dell’autoproclamata Repubblica popolare di La7. 

Un’inspiegabile infatuazione per un avvocato senza arte né parte, scelto per fare da vice ai due vicepresidenti Di Maio e Salvini, e affiancato da Rocco Casalino per evitare che “pretermettesse” una qualche enormità non associata a quelle della srl di riferimento (ancora adesso, fateci caso, sia nei video in versione televendita alla Robertino sia dalla Annunziata spesso Conte distoglie lo sguardo dalla telecamera o dall’interlocutore per cercare con l’occhietto l’approvazione benevola di Rocco, magari quando sente perfino lui di averla detta grossa). 

Eppure fino a ieri il Partito democratico lo incoronava leader fortissimo di tutti i progressisti e immaginava di affidargli la guida dell’alleanza strategica alle elezioni, proprio a lui, al referente italiano di Vladimir Putin e di Donald Trump e per un certo momento anche volenteroso sostenitore della Via della Seta di Xi Jinping, perché va dato atto a Conte di non essersi lasciato sfuggire nemmeno uno dei nemici dell’Europa, della società aperta e del mondo libero. 

Tanto da aver aperto le porte dei nostri servizi di sicurezza agli scagnozzi di Trump che cercavano prove di complotti ucraino-italiani per abbattere Biden su indicazione di Putin che da un lato brigava per tenere Trump alla Casa Bianca e dall’altro revisionava i cingolati dei carri armati da inviare in Ucraina.

Il governo Conte due, o Bisconte, ha ottenuto l’endorsement di Trump, col famoso tweet di incoraggiamento a «Giuseppi», e in quel periodo ha fatto oscenamente sfilare i mezzi dell’esercito russo per la prima volta in un paese Nato, non si capisce bene per quale motivo e peraltro rimborsandogli le spese militari come se Putin fosse un deputato grillino dotato di scontrino. 

E mente i giornali e le televisioni di allora lodavano la statura di Conte, bevendosi i confessionali di Casalino e avallando gli attacchi diretti alla democrazia liberale, dalla mutilazione del Parlamento alle leggi liberticide di Fofò Dj, oggi improvvisamente lo trattano come uno straccio usato, fanno inchieste tardive sulla parata militare russa in Italia e addirittura sospettano che dietro il no all’aumento delle spese militari della Nato, che poi alla fine è stato un sì al primo «bu» che gli hanno rivolto gli adulti nella stanza di governo, ci sia il timore che Putin abbia registrato la famosa telefonata con cui Conte ha aperto all’esercito russo le strade del nostro paese allora in pieno lockdown. Insomma, una versione sciuè sciuè del famoso kompromat (materiale compromettente) detenuto da Putin a proposito di certi affari moscoviti di Trump. 

Come ha ricordato Francesco Cundari, Conte ha cominciato la legislatura da capo del governo più di destra dai tempi di Gengis Khan e si appresta a chiuderla da leader della sinistra radicale antiamericana e antioccidentale. 

Coloro che hanno abboccato alla fase “leader del centrosinistra moderato” credono che la parabola di Conte sia trasformista, ma in realtà è assolutamente coerente ed era prevedibile fin dal primo giorno: a voler dare nobiltà al pensiero politico di Conte, l’avvocato non si è mai mosso da dove è partito perché nasce come leader del populismo di destra e finisce come leader del populismo di sinistra, sempre antioccidentale, sempre anti americano, sempre anti sistema, sempre bipopulista. 

Oggi sembra tutto incredibile, ma a questo punto sarebbe il caso che il Pd, i giornali, le tv e gli intellettuali d’area che tardivamente cominciano a prendere le distanze da Conte, e che quindici mesi fa, a Giuseppi piacendo, hanno fatto di tutto per non far arrivare Mario Draghi a Palazzo Chigi e poi, tre mesi fa, per rimuoverlo dal governo, rinuncino espressamente al contismo e ai suoi derivati, riconoscano di aver spacciato al paese una gigantesca e pericolosa sòla.

La scelta contiana va cestinata nella pattumiera della cronaca e con essa anche quella che porta gli Orsini e simili, ovvero l’ultima versione bellica di questo gioco bipopulista, a rimuovere i dati di fatto dal dibattito pubblico. 

Non serve un’autocritica né scusarsi, per carità, ma nemmeno far finta di non aver costruito l’epica del leader fortissimo che il mondo ci invidiava. 

DAGONEWS il 29 marzo 2022.

Altro che plebiscito per Conte, il nuovo corso perde acqua, anzi voti, da tutte le parti. 

L’ennesima votazione farsa per Giuseppi, che riesce a perdere quasi 7mila voti dalla sua ultima votazione.  Giuseppi aveva detto: “Chiedo nuovamente la vostra fiducia, e non mi interessa il 50,1 per centro dei voti. Anzi, vi dico che se il risultato fosse così risicato sarei il primo a fare un passo indietro”. 

Bene, allora Conte adesso può anche dimettersi visto che ha votato per la sua rielezione farsa (pronto già il ricorso di Borrè) meno del 50%: su 130.570 aventi diritto, in totale hanno votato in 59.047. Altro che 50,1%!!!  

Non sono bastate le minacce in salsa putiniana per la “condivisione” del video sui social, dispensate da tarocco casalino (sempre più in difficoltà per la gestione di Giuseppi che continua a perdere consenso personale e Like sui social) e dai pulcini di Conte ai parlamentari grillini, alla fine se nella votazione di agosto 2021 i Si per Conte erano stati 62.242, ieri sera i Si sono scesi a 55.618. 

Sembra che lo stesso Conte abbia già sculacciato i suoi fedelissimi per avergli fatto fare una figura di merda. 

Emanuele Buzzi per corriere.it il 29 marzo 2022.  

Tutto come da copione. Giuseppe Conte torna ad essere presidente del Movimento. Il voto sulla leadership, passaggio obbligatorio dopo l’ordinanza del tribunale di Napoli che ha sospeso i vertici M5S, è andato secondo le previsioni. Hanno votato 59.047 attivisti, e i sì sono stati 55.618 ossia il 94,19%. Gli aventi diritto al voto erano 130.570.

Il calo dei voti

Il confronto istintivo è con la «prima volta» di Conte, lo scorso agosto, quando oltre 62 mila militanti su 67 mila lo incoronarono presidente. Rispetto ad allora l’affluenza è calata quasi del 12%.

Assieme al presidente (per gli attivisti era impossibile votare solo sulla leadership, bisognava comunque partecipare anche alle altre consultazioni) sono stati definiti i componenti dei nuovi organi M5S. 

Quindi il Movimento ora è dotato di un comitato di garanzia al completo (con Laura Bottici) e di un rinnovato collegio dei probiviri (eletti Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia). Tra i nominativi al voto, rispetto ad agosto, oltre al dimissionario Luigi Di Maio non c’era neppure Riccardo Fraccaro, protagonista al tempo delle votazioni per il Quirinale di un «incidente» con Salvini che fece infuriare i vertici M5S.

La rosa dei nomi in votazione è stata scelta di comune accordo tra Beppe Grillo (che da statuto ha la facoltà di proporre persone di sua fiducia) e Conte. Anzi, secondo le indiscrezioni i pentastellati proposti dal garante sarebbero stati più di una dozzina e quelli scelti per la votazione sarebbero il frutto di una selezione effettuata d’intesa con Conte.

Le polemiche

La consultazione è stata seguita con attenzione dall’ala vicina all’ex premier. «Il voto sta andando molto bene», fanno sapere nel pomeriggio dal Movimento, spiegando che è già stata superata quota 50 mila votanti.

Ma le polemiche ugualmente non mancano. L’europarlamentare Dino Giarrusso punzecchia: «Mi auguro anche che questa sia l’ultima volta che il popolo del Movimento viene chiamato ad esprimersi per avallare o meno scelte prese altrove». L’avvocato Lorenzo Borré e il gruppo di attivisti napoletani che hanno presentato ricorso ad agosto sono pronti per una nuova contestazione.

Stavolta saranno un centinaio, i ricorrenti. Quattro i capisaldi su cui si verterà il ricorso: la carenza di poteri in capo a chi ha indetto l’assemblea del 10 e 11 marzo; l’illegittima esclusione degli associati iscritti da meno di sei mesi; la violazione del principio di parità dei diritti degli associati, con riferimento alle condizioni di candidabilità per le cariche apicali e di garanzia (comitato di garanzia e presidente M5S in votazione) e infine la violazione del metodo assembleare. 

Il conclave

Intanto ieri si è svolta la prima giornata del «conclave» dei comitati tematici, oggi sarà il giorno del confronto. «Cerchiamo di far emergere e affrontare eventuali questioni che potrebbero risultare divisive — ha detto Conte al termine del primo incontro — . Anche io vi porterò alcune idee e progetti, alcune delle quali ricavate direttamente dal confronto con Beppe ad esempio in materia di contrasto dell’evasione fiscale sull’Iva e di promozione dei pagamenti digitali nonché in materia di infrastrutture digitali». Il presidente M5S ha anche chiarito che il Movimento «è un pilastro di questo governo». «Tanta la voglia di ripartire con Conte per rilanciare il Paese», twitta Paola Taverna. Ma nel partito resta forte l’idea di una lista Conte da presentare a Palermo e Genova. 

Il tweet

«Gli iscritti del M5s mi hanno riconfermato con un’indicazione forte e chiara». Così il leader M5s Giuseppe Conte commenta il risultato del voto degli iscritti. «Un sostegno così importante è anche una grande responsabilità. Ora testa alta, ancor più coraggio e determinazione nelle nostre battaglie. Abbiamo un Paese da cambiare»scrive Conte in un tweet.

Lisa Di Giuseppe per editorialedomani.it il 29 marzo 2022.

Il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte ha parlato oggi di «un riscontro molto positivo» sul voto che lo ha confermato presidente del Movimento 5 stelle e di una «richiesta di interlocuzione» al presidente del Consiglio Mario Draghi, che incontrerà nel pomeriggio, per discutere dell’intenzione del capo del governo di aumentare le spese militari. Sul tema conte dice che non voterà l’ordine del giorno che chiede al governo un aumento, precisando però che non intende mettere in discussione gli impegni presi con la Nato.

Conte conclude la seconda giornata di confronto con i parlamentari che sono parte dei comitati del Movimento con una conferenza stampa in cui può celebrare la sua riconferma alla guida del partito: hanno votato meno di 60mila persone, la soglia psicologica indicata nelle ore precedenti dai piani alti del Movimento come cruciale, e lui ha ottenuto il 94 per cento dei voti.

Conte se ne compiace e sottolinea la «grande responsabilità» che gli deriva dalla nuova incoronazione. Si gloria anche della nuova spilla con le Cinque stelle che gli decora il bavero della giacca: «Me l’hanno regalata stamattina i vicepresidenti», dice, assicurando che alle amministrative lavorerà soltanto per il Movimento.

L’argomento centrale nella Sala Aquile randagie del Roma Scout Center diventa però presto lo scontro con il resto della maggioranza sull’aumento delle spese militari. Conte assicura totale fedeltà al governo sul decreto legge Ucraina da convertire in Senato questa settimana, «lo votiamo con o senza la fiducia, non c’entra nulla con la corsa alle armi», non nascondendo però che il via libera agli aiuti militari a Kiev «non arriva a cuor leggero».

Ma sull’aumento delle spese militari niente da fare. «Non possiamo distrarre risorse utili da un tessuto economico già in sofferenza» dice, ma «non intendo mettere in discussione l'accordo siglato con la Nato: non lo chiedo neppure al premier. Però gli accordi presi illo tempore devono tenere conto delle sopravvenienze e quelle dell'Italia sono superiori a quelle di altri paesi».

Quindi voto contrario all’ordine del giorno di Fratelli d’Italia che il partito di Giorgia Meloni proporrà oggi pomeriggio in Commissione esteri al Senato, anche se il testo è la fotocopia di quello che gli uomini di Conte hanno già votato alla Camera. 

Anche se il governo dovesse mettere la fiducia in aula, infatti, l’ordine del giorno dovrà comunque essere votato nella commissione presieduta da Vito Petrocelli. Conte si mostra sicuro anche rispetto a eventuali malpancisti. «Senatori che voteranno a favore dell’ordine del giorno? Lo escluderei, ce ne occuperemo se ce ne saranno».

L’ex premier non detta chiaramente le condizioni necessarie per raggiungere un punto di caduta con Draghi nell’incontro di oggi pomeriggio, ma la voglia di farsi sentire è evidente: «Non può essere assolutamente che il governo non ci ascolti e che nel Def ci siano quelle fughe in avanti che abbiamo sentito nei giorni scorsi». Il presidente rieletto insiste invece sull’opportunità di «mettere a fattor comune gli investimenti a debito comune europeo nel settore». Un Recovery fund formato militare? «Prima bisogna parlare di politica estera». 

Conte dedica un passaggio anche agli alleati del Pd, con cui il dialogo «è sempre corretto, sincero e autentico». Che i due partiti alleati nel Campo largo non siano alleati sulla questione delle spese militari «dispiace, ma è una questione nuova». Una reazione che detta il passo per il futuro dell’alleanza: «Se il Pd sarà al nostro fianco ci farà piacere, altrimenti ne prenderemo atto», ha proseguito. «Se sarà con noi sul salario minimo, ci farà piacere, se si orienterà diversamente, ne prenderemo atto».

Federico Capurso per “La Stampa” il 29 marzo 2022.

L'esito di una sfida con un solo partecipante di rado riserva sorprese. Specie all'interno del Movimento, dove nessun leader è stato mai tradito dalla base. Eppure, per Giuseppe Conte, la rielezione alla guida dei Cinque stelle avvenuta ieri, con il 94,19 per cento di voti favorevoli, non si può derubricare a semplice bollinatura del voto che lo incoronò lo scorso agosto, né a una formalità utile solo ad aggirare la sentenza giudiziaria che ha recentemente decapitato lo stato maggiore grillino.

È piuttosto il passaggio intorno a cui si raccolgono le speranze dell'ex premier di arrivare a una svolta nella fin qui travagliata esperienza da capo di partito: azzoppato in partenza da Beppe Grillo, logorato poi da Luigi Di Maio e infine colpito dalla sentenza del tribunale di Napoli. È il lusso di una seconda chance. 

L'ultima, prima di prendere davvero in considerazione l'idea di abbandonare il Movimento e fondare un suo partito, come da settimane gli suggeriscono i parlamentari e ministri più vicini.

«Mi aspetto una forte investitura», dichiara in mattinata, a urne ancora aperte, negando la possibilità di considerarlo un «flop» in caso di bassa affluenza. Aveva promesso un passo indietro se il risultato fosse stato risicato, d'altronde, ma erano i pochi partecipanti al voto a rappresentare davvero l'unico inciampo possibile. L'asticella da superare, tarata sui risultati di agosto, era fissata a 62 mila voti a favore, ma ci si è fermati a meno di 56 mila, nonostante fossero aumentati gli iscritti aventi diritto al voto. 

Mancato l'obiettivo, ma confortato dalle percentuali, all'ex premier resta il compito di ricompattare il partito e dargli un nuovo slancio. Non è un caso che Conte abbia voluto riunire ieri l'apparato dirigenziale M5S, composto dai Comitati tematici e politici: «Per rinforzare lo spirito di gruppo e gettare le basi del programma», spiega il leader ai circa 80 parlamentari che partecipano alla riunione al Roma Scout Center. 

Chiede partecipazione, coinvolgimento, dialogo: «Nessuno deve sentirsi escluso. Ed è importante raccogliere la spinta propositiva dal basso. Non permetteremo più a nessuno che si parli male di noi, ma noi per primi dobbiamo volerci bene». 

La politica è anche «conflitto», aggiunge poi con un chiaro riferimento alla fronda interna guidata da Di Maio, «l'importante è che si tenda tutti al bene comune, senza personalismi».

Ma non basta. A Conte viene chiesto di cambiare atteggiamento, di essere meno accomodante, più combattivo. A partire dalla battaglia contro l'aumento delle spese militari. Sempre dallo Scout Center, infatti, nel giorno in cui ci si attendeva un ammorbidimento della posizione anti-riarmo dei Cinque stelle, il leader lancia un messaggio opposto al governo Draghi e al Pd: «Non consentiremo un aumento delle spese militari nel Def». Nessun passo indietro, dunque, come temevano alcuni abituati alle mediazioni «per senso di responsabilità».

Nemmeno sull'ordine del giorno per chiedere al governo maggiori investimenti nella Difesa, fino a raggiungere il 2% del Pil: «Voteremo contro». È il primo passo di un ritorno alla radicalità grillina, senza alcuna volontà di far cadere il governo, «ne siamo un pilastro», ma utile in vista della campagna elettorale che si aprirà a breve per le Amministrative. Saranno il primo vero banco di prova della sua leadership.

E una serie di difficoltà sono già visibili all'orizzonte. L'ex premier vuole infatti cambiare il metodo di selezione delle candidature, abbandonando la tradizionale e miracolosa pratica dei clic online e aprendo alla società civile. Ma è proprio lì che si stanno incontrando le maggiori difficoltà di reclutamento: in pochi, finora, tra professionisti, rappresentanti di categoria, professori, hanno raccolto l'invito e dato fiducia al progetto del nuovo corso grillino.

«Mancano i candidati - viene detto senza troppi giri di parole dal partito -, il simbolo M5S è stato ammaccato dalle faide interne, dai problemi giudiziari, e in pochi adesso vogliono avere a che fare con noi». Difficile offrire rassicurazioni, d'altronde, se è ancora palpabile la paura di nuovi ricorsi in tribunale che possano invalidare anche questa rielezione di Conte. 

L'avvocato Lorenzo Borrè, che ha seguito i precedenti ricorsi degli attivisti ribelli, «probabilmente farà un altro ricorso», ammette a Radio1 Riccardo Ricciardi, uno dei cinque vicepresidenti M5S, «ma è stato seguito - assicura - un iter giuridico assolutamente rigoroso». La verità, però, è che per quanto rigoroso, il pericolo di una sentenza avversa non viene escluso da nessun parlamentare del Movimento. Figurarsi da Conte, per la seconda volta al suo primo giorno da leader.

Emanuele Buzzi per corriere.it il 29 marzo 2022.

Un exploit. Tra le pieghe delle votazioni sulla leadership del Movimento spunta un protagonista inatteso: è Danilo Toninelli. L’ex ministro è stato eletto nel collegio dei probiviri Cinque Stelle. Ma a stupire è il consenso che ha ricevuto. Toninelli ha ottenuto 44.427 preferenze, 11mila in meno di Giuseppe Conte. In sostanza 4 elettori su 5 che hanno confermato Conte hanno votato anche per Toninelli. L’ex ministro, però, a differenza del voto sul presidente, aveva altri cinque sfidanti. La ministra Fabiana Dadone, arrivata seconda, è stata quasi «doppiata»: ha preso 24.187 voti. La terza, Barbara Floridia, «solo» 14.227, praticamente meno di un terzo rispetto al senatore lombardo, di recente tornato alla ribalta per il suo Tg di controinformazione.

«Grazie di cuore a tutti coloro che hanno partecipato — ha scritto Toninelli sui social —. Il voto degli iscritti è il tratto che più di ogni altro ci caratterizza e anche stavolta ha dimostrato di che pasta è fatto il Movimento 5 Stelle. Grazie in particolare ai 44.427 che mi hanno dato fiducia come membro del collegio dei probiviri. È un incarico che porterò avanti con grande responsabilità, come ho sempre fatto». Il senatore lombardo è molto amato tra la base degli stellati. Non a caso, pochi minuti dopo aver pubblicato il post erano già centinaia i commenti di apprezzamento.

Cinquestelle, l’avvocato del popolo e l'affitto da 12 mila euro al mese. Bloccati i 4 milioni di euro versati sul fondo "tirendoconto". Sotto accusa il modo in cui sono stati gestiti i soldi versati dai parlamentari. CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud il 29 Marzo 2022.

L’elezione di Giuseppe Conte alla presidenza del M5S non basterà a calmare le acque. Anzi. Altri ricorsi si profilano all’orizzonte e non riguardano solo l’offensiva legale dell’avvocato Lorenzo Borrè. I 3 attivisti che avevano ispirato la sentenza del Tribunale di Napoli, e dunque provocato la sospensione dei vertici e delle modifiche dello statuto, hanno infatti trovato proseliti. E non si tratta più dell’illegittima esclusione degli iscritti che non avrebbero avuto i requisiti.

L’atto d’accusa ora riguarda il modo in cui sono stati gestiti i soldi versati dai parlamentari. Il taglio dei loro stipendi. In particolare sotto la lente dei più critici è finito l’affitto della mega sede di via Campo Marzio. Era stato il primo atto politico di Conte, il ritorno sulla scena, la transizione post governativa dell’ex premier che in pieno agosto indossava i panni di capo del M5S. Un segnale forte di quanto e di come sarebbe cambiata la creatura di Beppe Grillo e di Gianroberto Casaleggio sotto la sua guida. L’avvocato del popolo che si fa leader grillino.

Ed ecco la scelta: il Movimento che da virtuale che era per indole e vocazione esce dai pc e dalle chat e stabilisce un legame fisico con il territorio. Si sceglie una sede. Esattamente come un tempo erano Botteghe Oscure per il PCI o Piazza della Gesù per la Dc o in tempi più attuali Il Nazareno per il Pd.

Una sede prestigiosa per il partito di Conte, poco meno di 500 mq a due passi da Montecitorio. Il palazzo al civico 46 di via Campo Marzio che ospitò senza portargli troppa fortuna l’Api di Francesco Rutelli. Gli iscritti del web e i militanti, quelli che hanno provato in tutti i modi a sbarragli la strada, chiedono conto di tutti quei soldi che Conte ha speso per l’affitto della sede, circa 12 mila euro al mese.

Chi lo ha deciso? Attingendo ai fondi del M5S lo avrebbe fatto in modo illegittimo, senza alcun alcun titolo. E non nessun voto – come ha chiarito l’avvocato Borré – che possa in modo retroattivo legittimare quelle spese. Chi dovrà rispondere di queste spese? Uffici di cui ha potuto disporre solo lo staff dell’ex presidente del Consiglio, i suoi fedelissimi e i comitati. Una sala in grado di ospitare 50 persone. Il quartier generale grillino nel cuore pulsante della politica romana. E non solo.

La questione è stata posta anche ai due capigruppo Mariolina Castellone e Davide Crippa che avrebbero firmato il contratto di locazione. In ballo ci sono anche i 4 milioni di euro accantonati nell’ultima legislatura, il conto dedicato dove confluivano i versamenti dei parlamentari. Alcuni di questi, usciti successivamente dal Movimento, hanno richiesto la restituzione di quanto versato. E tutto si è bloccato.

In un primo tempo, lo ricordiamo, deputati e senatori si detraevano dallo stipendio 300 euro per finanziare la piattaforma Rousseau e altri 2000 per la campagna “Tirendoconto”. Poi si è passati al “regolamento Crimi” ; 1000 euro per le attività parlamentari e 1500 per le finalità liberali. A quale punto però a tagliarsi lo stipendio erano sempre meno. Non più di 40 su 229, e il M5S di lotta e di governo che ha cambiato pelle. 

Emanuele Buzzi per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.

Un passo avanti tra tentazioni, timori e incertezze. Il Movimento vara il sì allo statuto contiano. La seconda convocazione dell'assemblea degli iscritti era lo scoglio per l'ok alle nuove regole riviste e corrette dopo che l'ordinanza di Napoli ha sospeso i vertici M5S e in seguito ai rilievi della Commissione di garanzia per gli statuti. 

I votanti sono 38.735 (sì dal 91%) su 125.200 aventi diritto, il 31% circa. L'attenzione è ovviamente focalizzata sui numeri, dal momento che alla prima convocazione avevano partecipato poco più di 34 mila militanti.

Nell'agosto 2021 si erano espressi 60.940 votanti in totale (l'87, 36% a favore della svolta contiana). «Conte si aspettava un bagno di democrazia e ha ricevuto la doccia fredda da parte della realtà, avendo votato meno di un quinto degli iscritti», ha commentato sarcastico l'avvocato Lorenzo Borrè in merito alla prima convocazione.

Tra gli stellati c'è preoccupazione, c'è chi teme una disaffezione nei confronti del leader, chi invece nutre dubbi sul brand del partito. La situazione da limbo si riflette a tutti i livelli, al punto che lo stesso Conte - il cui ruolo come presidente sarà oggetto di una votazione la prossima settimana - è intenzionato a voler spazzare via ogni ambiguità sul suo percorso nel Movimento. 

L'ex premier ha fatto capire a chi gli è vicino che «non ha intenzione di accontentarsi di una maggioranza risicata» per il voto sulla presidenza. Conte cerca una conferma convinta, altrimenti «si dimetterà anche se eletto». Forse non a caso a supporto del leader ieri sono arrivate le parole di Roberto Fico. Il presidente della Camera nelle ultime settimane fa asse in modo sempre più netto con l'ex premier.

A Napoli ha detto: «Il Tribunale ha sancito che le delibere andavano sospese ma Conte otterrà un plebiscito dalla votazione degli iscritti». E poi ha aggiunto: «Reputo Conte un grande leader, ed invito tutti i nostri iscritti a partecipare al voto». La situazione è tutt' altro che stabilizzata, però. 

 Tra i parlamentari sono sempre continui, anche se sottotraccia, i rumors sulle candidature alle prossime Politiche. C'è chi vorrebbe sfoderare di nuovo il partito di Conte (che oggi sarà a Napoli alla manifestazione promossa da Eurocities con il sindaco Gaetano Manfredi, con il presidente della Camera e con Michele Gubitosa), con un logo nuovo e volti nuovi. Azzerare tutto e ripartire con un soggetto diverso dal Movimento. Diversi esponenti dell'ala contiana premono per questa soluzione.

L'idea sarebbe stata prospettata - secondo alcuni - nei primi giorni di questa settimana ai vertici. La possibilità sarebbe quella di un test, complice anche l'incertezza derivante dalle cause legali, alle Comunali a Palermo (c'è chi insiste anche in altre città). «Sarebbe il momento ideale per valutare il valore di una lista del presidente», sostiene uno stellato che spinge per questa opzione. 

I vertici negano questa ricostruzione. «Si tratta di un progetto sostenuto da alcuni territori», spiegano nel Movimento. E aggiungono: «Non c'è stata alcuna richiesta formale». Anzi, da ambienti vicini al leader viene fatto notare come il voto sullo statuto renda di fatto non più necessario l'uso di uno stratagemma simile alle prossime Comunali e Regionali. 

L'assunto è che «Conte prenda in considerazione il Movimento e solo Il Movimento». L'ipotesi di una lista Conte, d'altronde, ha fatto sobbalzare più di uno stellato. «Ma come? Non esiste al mondo un partito il cui leader si faccia una sua lista autonoma».

La parabola dell'avvocato del popolo. M5S nel caos, Conte perde la causa ma non il vizio: il nuovo voto già a rischio ricorso…Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

“Cavilli e carte bollate” non piacciono proprio a Giuseppe Conte, uno strano avvocato. In una faida senza fine tra statuti sovrapposti, organismi dirigenti decaduti e una sfilza di cause e di ricorsi degli uni contro gli altri, ieri Conte ha fatto rivotare per statuto e leadership. La sua, naturalmente. E proprio come avviene nei sistemi politici di riferimento per qualcuno dei Cinque Stelle, come la Russia di Putin o la Bielorussia di Lukashenko, il candidato leader è uno e uno solo. Giuseppe Conte. Che ricade nella coazione a ripetere e rinnova i suoi errori, uno sull’altro. Formali e sostanziali. Sfidando non solo la giustizia civile ma anche il buon senso e la pazienza. Tanto che solo in pochi tornano a votare.

Il 10 marzo il quorum non è stato raggiunto e si è ricorsi alla votazione di ieri, chiusa alle 22. Votano in pochi.

Davide Crippa, capogruppo M5s alla Camera, nega la disaffezione: «Siamo l’unica forza politica che coinvolge la propria base». Il coinvolgimento è generoso, in effetti: ieri la richiesta di votare è stata estesa urbi et orbi anche a chi non ne aveva diritto, tra cui i non più iscritti e perfino i dissidenti espulsi.

Ricapitoliamo la cronistoria: ai primi di febbraio era arrivata la sospensione dell’elezione del leader e di tutte le modifiche statutarie adottate con il voto dell’agosto 2021; poi, martedì 8 marzo è andato male anche il ricorso, respinto. Il giudice respinge anche l’istanza di revoca presentata dai legali di Conte. L’udienza di merito è fissata al 5 aprile. Intanto, malgrado la giustizia abbia decretato che il gruppo dirigente non è giuridicamente legittimato ad assumere decisioni, è stata decisa l’assemblea con la votazione che dovrebbe confermare l’elezione di Conte. Ma sulla nuova convocazione pende la spada di Damocle del rebus irrisolto: l’esclusione degli iscritti con meno di sei mesi di anzianità, esattamente come avvenuto nella assemblea messa sotto “processo” dal giudice. Conte, però, va dritto per la sua strada. «Non è possibile che l’azione politica del Movimento 5 Stelle, che ha la maggioranza relativa del Parlamento, sia rallentata e compromessa da cavilli e carte bollate». Evoca i pieni poteri nel partito e un salvacondotto rispetto alle regole, in forza dei voti presi nel 2018 quando a capo del Movimento era Di Maio.

Ribadisce colpo su colpo l’avvocato Lorenzo Borré: «Lo scenario è lo stesso dell’agosto 2021: al netto della questione relativa al mancato raggiungimento del quorum, il numero dei vizi è compensato dalle modalità di indizione delle nuove votazioni. Le questioni assorbenti sono di carattere sostanziale e riguardano l’assenza di democraticità di alcune modifiche proposte», risponde l’avvocato dei ricorrenti M5s. Insomma, si preannuncia un identico ricorso e una conseguente, nuova bocciatura della votazione. Solo questione di tempo, comunque utile alla dirigenza per provare a traguardare le elezioni amministrative di primavera, quando si andrà al voto in tutta Italia. Se Conte dovesse ancora risultare “sospeso” per difetto formale, sarebbe difficile fargli condurre le trattative per le liste, individuare i candidati – inclusi i sindaci. E c’è di più.

Il Riformista ha chiesto conto all’amministrazione dell’Università di Firenze dell’aspettativa del professor Conte. «In attesa di una pronuncia di merito, per l’Università di Firenze non ci sono gli elementi per ritenere che si siano prodotti gli effetti di sospensione dell’aspettativa non retribuita del docente», ci dicono gli uffici. La pronuncia di merito arriverà il 5 aprile, tra meno di venti giorni l’autoproclamato leader del Movimento potrebbe dunque trovarsi costretto a riprendere le sue lezioni nel capoluogo toscano. Intanto i tamburi di guerra richiamano la politica a un senso di responsabilità istituzionale – e di adesione alle istanze europee – che tra i grillini brillano per assenza. Il presidente della commissione esteri Vito Petrocelli (M5S) ha votato contro la risoluzione che impegna l’Italia insieme ai partner della Ue a fornire armi all’Ucraina che resiste all’aggressione di Putin.

Da più parti gli sono arrivate le richieste di dimissioni, avendo votato contro non solo alla maggioranza di governo ma anche al suo stesso gruppo. Giuseppe Conte lo ha rassicurato, chiedendogli di non dimettersi. Ieri nelle chat interne del M5S a Camera e Senato ricorreva lo stesso richiamo alla fedeltà con Putin: il Movimento aveva intrapreso la strada del partenariato con Russia Unita, il partito dello Zar. Se ne è dissociato per tempo, ma se il lupo perde il pelo, non perde il vizio: “Zelensky vuole la guerra mondiale e noi applaudiamo, insensata esposizione Italia”, il tam tam che dalle segrete stanze virtuali di Telegram arriva sul nostro telefono.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il terremoto nei 5 Stelle. Conte leader ‘congelato’ del Movimento 5 Stelle, il tribunale di Napoli rigetta il ricorso: “Sua elezione è illegittima”. Redazione su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

I vertici del Movimento 5 Stelle, e in particolare il suo leader Giuseppe Conte, restano congelati. Il tribunale di Napoli ha rigettato l’istanza avanzata dal Movimento per la revoca dell’ordinanza di sospensione dello Statuto e della nomina del presidente dei grillini.

La decisione è stata presa dal giudice Francesco Paolo Feo, che ha poi fissato al prossimo 5 aprile il prosieguo dell’udienza per per quello che concerne il merito.

“Per i giudici quindi è illegittima l’elezione di Giuseppe Conte alla presidenza del Movimento 5 Stelle”, è stato il commento di Lorenzo Borrè, legale dei tre iscritti al Movimento che presentarono il ricorso contro l’elezione di Conte e contro lo Statuto che lo portò all’elezione nell’agosto del 2021.

Le motivazioni

Rigettando l’istanza presentata dai pentastellati, il tribunale di Napoli ha rilevato che il regolamento del Movimento del novembre 2018, che avrebbe legittimato l’esclusione dal voto degli iscritti da meno di sei mesi, “è atto promanante dalla stessa Associazione che lo ha prodotto in giudizio, trattandosi di atto ad essa interno, regolante un aspetto fondamentale della sua organizzazione e del suo funzionamento ed emanato dagli stessi organi apicali dell’Associazione e quindi da intendersi per ciò stesso conosciuto, o comunque sicuramente conoscibile, fin dalla sua adozione”.

I legali di Conte e del Movimento avevano invece chiesto la revoca della sospensione sottolineando che qual documento “non sarebbe stato prodotto prima in giudizio perché, di esso, l’Associazione sarebbe venuta a conoscenza solo dopo la pronuncia dell’ordinanza di sospensione”, spiega il giudice nel provvedimento odierno, sottolineando tuttavia che “l’istanza di revoca non può trovare luogo” se “fondata su ragioni di fatto e di diritto preesistenti alla pronuncia cautelare, a meno che di esse non venga allegata e dimostrata l’avvenuta conoscenza e conoscibilità solo in un momento successivo”.

Nella pronuncia del tribunale c’è spazio anche per il ‘caso Crimi’, l’ex capo politico M5S ad interim nell’interregno tra Luigi Di Maio e Conte, che aveva ammesso di non avere avuto memoria del regolamento del 2018, non avendone informato Conte per dimenticanza.

L’AdnKronos scrive infatti che il giudice Francesco Paolo Feo, nel rigettare il ricorso, rimarca come il regolamento 2018 non potesse essere ignorato dai vertici, richiamando, in un passaggio, come “peraltro la funzione di presidente del Comitato di Garanzia al momento della convocazione dell’assemblea per l’adozione delle delibere impugnate era rivestita dalla stessa persona che la rivestiva al momento della assunzione del regolamento”, ovvero Crimi.

L’ ufficiale giudiziario notifica il nuovo ricorso a Conte, che non lo ritirava all’ ufficio postale, contro il voto di marzo sullo Statuto M5S. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Aprile 2022.  

L'avvocato Borrè che assiste gli attivisti-contestatori di Conte, chiaramente non si è arreso ed è riuscito a far consegnare il ricorso lo stesso, con una notifica questa volta a mezzo ufficiale giudiziario. Ed al secondo tentativo la notifica è andata a buon fine. Adesso può ripartire la guerra legale nel Movimento: con tanto di richiesta di sospensione cautelare di tutte le nomine.

Attorno all’ultimo ricorso dei dissidenti napoletani del M5S contro la leadership di Giuseppe Conte ed il nuovo statuto è venuta alla luce un piccolo giallo: l’atto di citazione presentato da 8 militanti grillini non è stato ritirato e quindi è ritornato al mittente. Sul sito di Poste Italiane inserendo il numero della pratica si leggeva “La spedizione non è stata ritirata dal destinatario“, cioè Giuseppe Conte, e quindi “sarà restituita al mittente”. Evidentemente nessuno a “casa Conte” (che a dire il vero è casa della compagna Olivia Paladino) all’indirizzo in pieno centro storico di Roma in cui risiede, ha aperto la porta al postino o di proposito o perché assente per altri impegni, oppure qualcosa è andato storto quando ha suonato il postino.

“Abbiamo depositato ufficialmente un nuovo ricorso presso il Tribunale di Napoli assistiti dal nostro legale Lorenzo Borrè, costretti dal perdurare della conduzione illegittima del M5S da parte di un manipolo di persone autoproclamatosi ‘dirigenza‘”. Steven Hutchinson e gli altri attivisti grillini lo avevano preannunciato e puntualmente lo hanno fatto. “A chi derubrica le regole a cavilli abbiamo contestato 18 violazioni di carattere sostanziale, perché la democrazia è questione di sostanza” affermano i ricorrenti rappresentati sempre dall’avvocato Borrè, che hanno presentato infatti un nuovo ricorso per chiedere l’annullamento delle nuove votazioni sullo Statuto M5S.

E spiegano le loro ragioni : “Il Movimento al quale siamo iscritti non doveva essere questo e i risultati del nuovo corso condotto in modo oligarchico e vestito da partito sono sotto gli occhi di tutti, e restituiscono la cifra del danno che ha cagionato la nuova ‘dirigenza’ in violazione delle regole interne. Dunque siamo costretti a ricorrere ancora una volta alla giustizia, per difendere quei valori e quei principi nei quali, insieme a Gianroberto Casaleggio, abbiamo creduto e continuiamo a credere in questi anni e nei quali hanno creduto milioni di altri cittadini come noi“.

L’avvocato Borrè che assiste gli attivisti-contestatori di Conte, chiaramente non si è arreso ed è riuscito a far consegnare il ricorso lo stesso, con una notifica questa volta a mezzo ufficiale giudiziario. Ed al secondo tentativo la notifica è andata a buon fine. Adesso può ripartire la guerra legale nel Movimento: con tanto di richiesta di sospensione cautelare di tutte le nomine.

I dissidenti si sono rivolti anche questa volta al Tribunale di Napoli, che già lo scorso febbraio aveva “congelato” tutti i vertici dei 5 Stelle, questa volta hanno contestato oltre al nuovo statuto, rivotato il 10 marzo, e la nomina di Conte a presidente, il 28 marzo, anche tutte le altre nomine della nomenclatura stellata appena riempite: i 5 vicepresidenti, con Paola Taverna vicaria, il “fido” Mario Turco il comitato di Garanzia (di cui fanno parte Roberto Fico, Virginia Raggi e Laura Bottici) e il neo-collegio dei probiviri, composto da Danilo Toninelli, Fabiana Dadone e Barbara Floridia.

Nel mirino degli attivisti contestatori c’è la circostanza che i militanti abbiano potuto esprimersi durante la tornata di “clic” soltanto su delle liste chiuse. Nel caso di Conte, persino, su un candidato unico, da approvare o cassare. Senza la possibilità per qualunque iscritto di ambire a un posto di vertice.

Non sono cavilli, afferma l’avvocato Borrè: “È un principio fondamentale, visto che si tratta di una questione attinente al principio di uguaglianza dei soci“. È stata contesta anche la convocazione dell’assise, firmata da “Paola Taverna nella sua qualità“. Per Borrè, la Taverna in realtà è un soggetto che non avrebbero avuto alcun titolo per farlo, “in quanto non rivestiva alcuna delle cariche previste dalla versione dello statuto vigente al momento della convocazione”. I tempi: su questa nuova istanza il foro di Napoli dovrebbe pronunciarsi entro l’estate, anche se potrebbe decidere prima sull’istanza cautelare. Mentre l’udienza sul precedente ricorso è stata fissata per il prossimo 17 maggio.

E’ finito il M5S dove “uno vale uno” così come è finita ai posteri l’ardua promessa di Giuseppe Conte che arrivato miracolosamente a Palazzo Chigi ambiva e prometteva di voler essere “l’avvocato degli Italiani”. In realtà lo è stato e continua ad esserlo solo di se stesso e della sua sfilza di “cortigiani” ma anche della famiglia della sua nuova compagna miracolata da decreti ad personam che hanno fatto risparmiare non pochi soldi ed una condanna al suo suocero acquisito Cesare Paladino.

Ma l’ avvocato Conte non aveva fatto i conti con la Corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio l’ordinanza con cui il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Roma aveva revocato la sentenza di patteggiamento della condanna a 1 anno e 2 mesi di reclusione per peculato, emessa nei confronti di Cesare Paladino – amministratore della società che gestisce il Grand Hotel Plaza di Roma e padre della compagna dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte – in relazione all’omesso versamento delle tasse di soggiorno riscosse. Conte con il suo decreto aveva salvato il suocero, e la condanna penale venne annullata grazie a una “leggina” dell’ex premier.

La notizia del proscioglimento del suocero di Giuseppe Conte a seguito di una norma varata dal governo dello stesso Conte aveva provocato, negli scorsi mesi, diverse polemiche. Il giudice aveva accolto l’istanza, in sede di incidente di esecuzione, presentata dalla difesa di Paladino dopo l’approvazione del “decreto Rilancio“, in cui è contenuta una norma – da alcuni definita «pro-albergatori» che prevede una sanzione solo in via amministrativa per tali condotte. Secondo la Procura di Roma, invece, la norma in questione non poteva essere applicata in modo retroattivo. 

«A mio avviso è una decisione che va rispettata e che segna continuità con l’orientamento già espresso in precedenza dalla Suprema Corte», commenta l’avvocato Stefano Bortone, difensore di Paladino. Secondo il legale, però, «restano molte perplessità sul piano giuridico e appare pertanto più una decisione dettata da motivi organizzativi che dall’intento di rispettare appieno i principi di diritto». Ma la recente decisione della Suprema corte, «inguaia» il suocero dell’ex premier e, probabilmente, mette una pietra anche su quelle polemiche.

Lo ha deciso la 1a sezione penale della Cassazione in una camera di consiglio svoltasi lo scorso 16 aprile, che accogliendo il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del giudice, risalente al 30 novembre scorso, che aveva revocato la sentenza di patteggiamento emessa nel luglio 2019 ritenendo che il fatto non fosse «previsto dalla legge come reato». Redazione CdG 1947

M5s, un nuovo ricorso di Borrè contro tutte le nomine di Conte. Il Domani il 29 aprile 2022

L’avvocato considerato la bestia nera del Movimento torna a mettere in difficoltà Giuseppe Conte con un nuovo ricorso contro le votazioni del 10 e 11 marzo e del 27 e 28 marzo scorsi, che hanno rispettivamente confermato il precedente statuto e la leadership di Giuseppe Conte

Otto attivisti hanno presentato un nuovo ricorso nei confronti del Movimento 5 stelle. Rappresentati dall’avvocato Lorenzo Borrè, ormai noto difensore delle ragioni di espulsi e critici del nuovo corso dei Cinque stelle, hanno impugnato di fronte al tribunale di Napoli la votazione dell’assemblea degli iscritti del 10 e 11 marzo e del 27 e 28 marzo scorsi, che hanno rispettivamente confermato il precedente statuto e la leadership di Giuseppe Conte.

Borrè è già coinvolto in un caso simile, dopo che ha presentato, per conto di tre attivisti, un ricorso nei confronti della votazione sullo statuto del Movimento presentato nell’estate 2021, illegittimo per una serie di vizi di forma, tra cui l’esclusione di una parte degli iscritti dal diritto di voto: in attesa di decidere sul merito, il tribunale di Napoli aveva congelato la legittimità dei vertici del M5s.

Una decisione che aveva messo in grave difficoltà soprattutto il presidente Giuseppe Conte, la cui elezione non era più riconosciuta. I Cinque stelle avevano provato ad appellarsi, ma il tribunale aveva confermato la propria decisione.

LA SECONDA VOTAZIONE

A quel punto, per rimettere in regola le cose, il Movimento aveva convocato una nuova assemblea degli iscritti per replicare la votazione sul nuovo statuto e sulla leadership di Conte. 

Entrambi i voti di conferma hanno avuto esito positivo, ma il nuovo voto secondo Borrè è invalidato da una serie di altri vizi di forma, non del tutto sovrapponibili a quelli citati nel primo ricorso.

Nello specifico, il problema riguarda la convocazione dell’assemblea: a essere legittimati all’atto sarebbero stati soltanto il garante Beppe Grillo e il capo del comitato di garanzia, all’epoca il dimissionario Luigi Di Maio.  

A marzo, però, le votazioni su SkyVote erano state organizzate da Conte, Vito Crimi e Paola Taverna «ciascuno nella propria qualità». Ma, secondo i ricorrenti e Borrè, nessuno dei tre avrebbe avuto i poteri per convocare l’assemblea. 

Inoltre, dal voto erano stati nuovamente esclusi gli iscritti da meno di sei mesi: questa regola era stata all’origine del primo ricorso e il collegio del tribunale di Napoli nella sua ordinanza aveva spiegato che per escludere i nuovi membri sarebbe stato necessario un regolamento ulteriore.

Conte, interpellato a proposito, ha commentato la vicenda. «Loro si divertono così. Ci sono alcuni attivisti che danno il loro contributo al Movimento facendo ricorsi in tribunale. Noi invece ci impegniamo a far politica: ognuno ha il suo hobby». Lo ha detto rispondendo a Casal di Principe a Casa Don Diana, ai cronisti che gli chiedevano del ricorso presentato da attivisti napoletani in cui è stato richiesto l'annullamento delle votazioni di marzo. «C'è una controversia giudiziaria che va avanti per conto suo, io sono concentrato a far politica e impegnarci con uomini e donne che sono devoti al bene collettivo».

I PROSSIMI PASSI

Il nuovo ricorso mette a rischio anche tutte le altre nomine delle altre cariche statutarie in quanto la candidabilità è stata ristretta ai soli iscritti eletti o ex eletti nelle istituzioni.

Intanto, il 17 maggio arriverà una nuova decisione del tribunale di Napoli a proposito della competenza sulla prima impugnazione: non si tratta di un giudizio nel merito, che potrà essere elaborato soltanto una volta che l’organo riconoscerà di essere competente sul caso.  

Il nuovo ricorso si inserisce in una situazione già complicata per il Movimento, in cui il leader cerca di crearsi un profilo autonomo dal resto dal partner di coalizione Pd spingendo per una linea pacifista nell’ambito della consegna di nuove armi all’esercito ucraino. Contemporaneamente, deve risolvere il caso del presidente della commissione Esteri di palazzo Madama Vito Petrocelli, che continua a non volersi dimettere dal proprio incarico. Anche la scelta di contrattualizzare Grillo per 300mila euro l’anno a carico dei gruppi parlamentari non sembra ancora aver dato i propri frutti. 

Giuseppi l'arcitaliano. Trasformismo e potere, Conte impeccabile rappresentante del “carattere nazionale”.

Michele Magno su Il Rifromista il 24 Febbraio 2022. 

In un’intervista di qualche tempo fa al talk show Di martedì (La7), Giuseppe Conte ha detto che «la mia politica è curare le parole, la profondità del pensiero e non affidarsi agli ismi». Inoltre, ha annunciato la prossima pubblicazione dei suoi discorsi pubblici, per dimostrare che nei due governi che ha guidato è rimasto sempre lo stesso, non ha mai cambiato registro. Le parole dell’ex avvocato del popolo, già punto di riferimento fortissimo delle forze progressiste, dimostrano che egli è un impeccabile rappresentante del nostro “carattere nazionale”.

Coniata dai moralisti francesi del Seicento, la locuzione fa ingresso nella nostra letteratura con il Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani di Giacomo Leopardi (1824). Ma prima che il grande poeta prendesse la penna per dirci in prosa, brutalmente, come siamo fatti, la descrizione del carattere dell’italiano aveva occupato l’ingegno di molti artisti europei e tenuto desto lo spirito di osservazione di una fitta schiera di viaggiatori che, in particolare nel secolo dei Lumi, giungevano nella nostra penisola col proposito di completare la propria formazione classica grazie alla formidabile esperienza del Grand Tour. Tuttavia, partiti con programmi culturali ambiziosi, spesso tornavano in patria con taccuini pieni di massime antropologiche non proprio benevole con il Bel Paese, come quella di Pierre-Jean Grosley: “L’Italie est le pays où le mot ‘furbo’ est éloge” (1764).

Giulio Bollati, nel saggio L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione (Einaudi, 2011), scrive che nelle intenzioni degli esponenti della sinistra storica, a partire dal suo inventore Agostino Depretis, «Il trasformismo era nato come equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno, dal vecchio al nuovo. Ma si era rapidamente trasformato nell’opposto: immobilismo, consociazione di diversi solo apparenti, in realtà tenuti uniti dalla chiusura verso la società. Da qui indifferenza agli schieramenti, interessi particolari di singoli capibastone scambiati con l’interesse generale, governi fragili e in mano a drappelli di deputati pronti a vendersi al miglior offerente, affarismo.

Per questa via il trasformismo assume definitivamente il significato peggiorativo che ha: distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale». Era ieri, ma sembra oggi. Michele Magno

Misteri post Colle: cosa non torna sul caso Conte-Belloni. Sulla candidatura del capo per la sicurezza e sul racconto della stessa fornita dai protagonisti qualcosa non quadra. Troppe incongruenze…Antonio De Filippi su Nicola Porro.it il 14 Febbraio 2022

È una vicenda umana piuttosto interessante quella del prof. Giuseppe Conte, fu presidente del Consiglio che, non contento dei successi raccolti a sua insaputa, adesso si è incaponito a raccogliere insuccessi consapevoli. Ho aspettato a scrivere, ho sperato di ascoltare qualche parola di buon senso, ho atteso qualche commento libero dalla retorica. Vana e inutile speranza.

Manie di protagonismo

Alle dichiarazioni arzigogolate seguono accadimenti misteriosi, le lunghe interviste articolano ragionamento complessi del tipo: l’acqua è bagnata. Promuove una donna Presidente e eleggono un uomo, con grande fatica fa approvare un nuovo statuto e il tribunale lo annulla, vuole essere il campione degli onesti e la finanza gli sequestra le carte in ufficio. Certo con decine di microfoni pronti a carpire qualche distillato di intelligenza politica, militari che salutano, commessi che aprono porte, autisti con i lampeggianti, si può perdere la testa ed il senso della realtà, ma oggi Conte è l’emblema del politico che credendosi protagonista in realtà è un triste comprimario.

Qualunque altro essere umano comincerebbe a dubitare di se stesso, non lui, che evidentemente inconsapevole dei propri limiti, tende a considerare il caso e la fortuna sempre al suo fianco, fino a diventare presidente di un movimento al quale neanche è iscritto.  Ma questo è l’uomo, con i suoi evidenti limiti, altra cosa è il politico con le sue colpe.

I danni dell’Avvocato del popolo

Grazie a lui abbiamo: il reddito di cittadinanza, con la complicità della Lega, quota 100 sempre con la Lega, la riduzione del numero dei parlamentari grazie al geniale contributo del Pd e di Italia Viva, lo stop all’estrazione del gas grazie al Pd e Leu, la riforma Bonafede, la truffa del 110%, e così via. Il tutto mentre, tentato dal sovranismo, in Europa riusciva solo ad isolarsi; convintamente Trumpiano firmava la via della seta con la Cina inimicandosi gli Usa e su oltre 31 milioni di donne in Italia l’unica che è riuscito a proporre per la Presidenza della Repubblica è il capo dei servizi segreti.

Qualcosa non torna

Per inciso su questa vicenda un amico, politico di lunghissimo corso, nel raccontare i retroscena dell’elezione presidenziale, mi ha aperto gli occhi su alcune incongruenze. A quanto pare Elisabetta Belloni, dopo la miracolosa ripulitura di Di Maio per dargli una parvenza da ministro degli Esteri, si è guadagnata la riconoscenza dei grillini che la hanno proposta, a sua insaputa, alla Presidenza. Ma quanto è credibile, e se fosse vero preoccupante, che i grillini la abbiano fatta in barba al capo degli 007? Insomma la donna, chiamata da Draghi a sostituire l’uomo di Conte, si è fatta infilare, a sua insaputa, da Conte in un feroce tritacarne mediatico culminato con una foto insieme a… Di Maio. È già difficile credere che una ambasciatrice di lungo corso, a capo dei servizi, si esponga ad una brutale trombatura, ma è ancora più difficile credere che l’abbia fatto affidando al solo Conte la trattativa per la sua elezione. Insomma qualcosa non torna.

Mediocre ma amato

Ma Conte è l’unico uomo politico che senza farne una giusta, riesca ancora a godere di sondaggi che lo vedono come affidabile, con Carlo Calenda che gli riconosce merito e credibilità, e il Pd che ancora discute se sia un punto di riferimento. Per questo credo che sia il momento di una riflessione sulla mediocrità in politica. Selezionato dal “condom elevato” come perfetto Medioman (indimenticabile personaggio di Fabio De Luigi a Mai dire Gol) Conte cercando la mediocritas latina è finito nella mediocrità italiana. Eppure malgrado tutto questo, il nostro ex presidente del Consiglio ancora conta oltre un milione di follower su Twitter e tre milioni su Facebook. Milioni di italiani che si riconoscono nella mediocrità Contiana, felici di leggere post e tweet inutili accompagnati da foto enfatiche; milioni di elettori da fotoromanzo ai quali propinare storie usa e vota.

Ma quanto è simile a quella Contiana la comunicazione di alcuni altri partiti? Perché mentre il Parlamento applaude la reprimenda di Mattarella e i giornali esaltano la sobrietà di Draghi, i sondaggi ancora assegnano ai campioni di mediocrità, la maggioranza degli elettori?

Le ultime settimane hanno mostrato che il nostro sistema istituzionale è bloccato dalla mediocrità dei tanti e dalla pavidità dei pochi competenti che, sdegnosamente, “escludono” di lavorare in politica per creare un soggetto liberale e moderato. Lo capisco è più semplice essere l’uomo del destino che dover rendere conto ad un partito e a un Parlamento, ma fino a quando questo atteggiamento sarà considerato giusto e lodato dai media, fino a quando i capaci non avranno il coraggio di mettersi in gioco o sostenere i pochi già presenti, di sicuro saranno i mediocri a dare le carte e continueranno, malgrado tutto, a risultare maggioritari. Antonio De Filippi, 14 febbraio 2022

Quelle "porte girevoli" di Conte tra politica e università. Francesco Boezi l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La sospensione formale della leadership di Giuseppe Conte può riaprire le porte dell'Università. La questione sarà dibattuta in Consiglio di Dipartimento il prossimo 22 febbraio. Se per gli studenti l'ex premier deve tornare ad insegnare, c'è chi parla di "porte girevoli".

Giuseppe Conte, dopo essere andato per ben due volte in aspettativa per via degli incarichi (prima la presidenza del Consiglio dei ministri e poi la leadership del MoVimento 5 Stelle), rischia ora di dover tornare in cattedra.

I vertici pentastellati, dopo la sospensione delle delibere disposta dal Tribunale di Napoli, risultano azzerati. L'ex "avvocato del popolo", sotto il profilo formale, non è più un capo-politico. Per quanto Conte possa sostenere la necessità di attendere la sentenza (i tempi sembrano tutto fuorché brevi), a Firenze ci si inizia a domandare se l'ex premier gialloverde e giallorosso abbia intenzione o no di tornare in Università.

La questione verrà posta in occasione del prossimo Consiglio di Dipartimento che è previsto per il febbraio. Gli studenti di Azione Universitaria - organizzazione di Fratelli d'Italia - domanderanno all'Ateneo di prendere atto della novità sopraggiunta e chiederanno lumi in merito alle decisioni che dovranno essere adottare.

Sul tavolo, in relazione alla possibile ricomparsa in cattedra, ci sono almeno due questioni: la continuità didattica e le cosiddette "porte girevoli", che possono interessare la magistratura ma che possono essere estese, almeno a livello concettuale, pure ad altre professioni. Del resto, in seguito alla caduta del governo giallorosso ed al ritorno in pompa magna di Conte con tanto di Lectio magistralis, era stato l'ex rettore Luigi Dei a chiarire come Conte dovesse giocoforza scegliere: "O leader del MoVimento 5 Stelle o docente universitario. Delle due, l'una". Il tutto sulla basse della legge n.382 del 1980.

L'onorevole Erica Mazzetti, esponente di Forza Italia, dichiara a Il Giornale.it che la "sinistra" è "adusa alle porte girevoli": "Nella magistratura, nella scuola.... . Tocca sempre al contribuente sostentare politici di centrosinistra senza lavoro. Conte riapra il suo studio - aggiunge la deputata - come facciamo tutti noi professionisti".

Non si risparmia l'europarlamentare leghista Susanna Ceccardi che, sul caso, sottolinea come "insegnamento e politica" richiedano "molta passione e impegno". "Conte - incalza la Ceccardi - non può continuamente rimbalzare dall'una all'altra. Se poi dovesse lasciare la politica per la docenza, beh, questa non sarebbe una cattiva notizia".

I ragazzi di Au, interpellati in merito alla loro imminente battaglia in Consiglio, rimarcano come Conte, dal loro punto di vista, debba fare ritorno: "Gli studenti meritano rispetto, meritano docenti che abbiano a cuore la loro formazione. Siamo stanche dei saltelli sulla cattedra di Conte. L'Università italiana non ha "porte girevoli" e non è un parcheggio". "Ha fatto il "professorino" per mesi dicendo agli italiani cosa potevano fare e cosa no, mettendo gli studenti in DAD, con danni enormi per il nostro sistema dell'Istruzione. Ora vada subito ad insegnare, altrimenti se ne vada dall'Università, nessuno sentirà la sua mancanza", chiosano Nicola D'Ambrosio, presidente di Au, Dalila Ansalone, che è la vice nazionale, e Matteo Zoppini che è il vertice di Au Firenze.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

L'attrazione dei grillini per le carte bollate. Conte, l’azzeccagarbugli colpito dai garbugli…Roberto Cota su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.

I Cinque Stelle hanno sempre avuto una passione smodata per le carte bollate ed in generale per i tribunali. Secondo la linea più ortodossa, in ambito penale, basta l’esistenza di un’indagine per fermare tutto, l’indagato si deve dimettere. Non sempre tutto però va secondo i piani: le inchieste hanno cominciato a riguardare anche loro esponenti (la ex Sindaca di Torino Appendino, ad esempio, ha riportato in primo grado due condanne). Inoltre, una icona del giustizialismo come Piercamillo Davigo si trova sotto processo e nubi minacciose si avvicinano al fondatore del movimento Beppe Grillo.

L’ attrazione per le carte bollate ha influito anche nella scelta del leader . Giuseppe Conte era sconosciuto ai più, ma era “professore e avvocato”. Tanto che subito si è autodefinito “l’ avvocato del popolo”. Anche su questo, qualche contraddizione è emersa. Ciò in quanto Conte come avvocato non aveva certo clienti del popolo, ma staccava parcelle per consulenze da centinaia di migliaia di euro al colpo. Il professor Conte potrebbe dire che, in fondo, lui non è l’ultimo arrivato e per questo gruppi importanti lo cercano e (lautamente) lo pagano. Può essere, però, non potrà evitare di attirarsi l’invidia di molti suoi colleghi forse più “ avvocati del popolo” che non hanno la capacità di essere così ben retribuiti per un’attività consulenziale. Invidia, appunto, perché Conte avrà certamente speso molto impegno e molte ore di lavoro.

Tutto questo, per dire che le carte bollate non sempre si sono rivelate utili alla politica dei Cinque Stelle. Dell’altro giorno, la notizia che il Tribunale di Napoli ha sospeso la delibera con cui lo scorso agosto il movimento aveva indetto l’elezione di Giuseppe Conte. Il contrappasso è compiuto, Il capo è stato disarcionato proprio dalle carte bollate. I detrattori potrebbero dire che l’azzeccagarbugli si è incartato in un garbuglio. Agli amanti del genere, al di là delle posizioni politiche, va detto che è assurdo che la politica venga decisa nei tribunali. Questo vale sia in sede penale che civile o amministrativa. La leadership di Conte ( esistente o meno) è un fatto politico, non è questione da risolvere in un’aula di giustizia. Roberto Cota

Il garantismo a dondolo. Perquisizione a casa di Conte, la Rai censura la notizia. Marco Zonetti su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

La notizia della visita della Guardia di Finanza a casa del leader M5s Giuseppe Conte, disvelata con peculiare tempismo dal quotidiano Domani alla fine della settimana di calvario per la rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, sta già lentamente svanendo dalla stampa, soffocata dai commenti sulle canzoni e dalle polemiche formato famiglia del Festival di Sanremo.

Del resto non possiamo certo asserire che la perquisizione nella dimora romana dell’ex Presidente del Consiglio Conte – che, ribadiamo, non è indagato – abbia tenuto banco sui notiziari del servizio pubblico. I quali già nel caso del Tg1 e del Tg3 qualche mese fa non si occuparono minimamente dell’inchiesta che coinvolge l’ex socio del leader M5s, ovvero l’avvocato Luca Di Donna. Una Rai garantista con Conte, dunque – come la definisce il Segretario della Vigilanza Michele Anzaldi – che tuttavia sottolinea a Radio Radicale come, invece, tale trattamento non sia stato riservato tempo fa al caso dell’ex fondazione renziana Open, quando vari cittadini incensurati e nemmeno indagati furono sbattuti in apertura di tutti i notiziari Rai, nonché nei talk show del servizio pubblico; messi alla gogna da titoli, servizi, approfondimenti politici e giudiziari con le perquisizioni spettacolo rigorosamente effettuate all’alba, complete di sequestri di telefonini e tablet. Modalità d’indagine poi stigmatizzate e giudicate illegittime dalla Corte di Cassazione, ma la cui sentenza non ebbe altrettanto risalto nei notiziari Rai.

Emblematico del garantismo a fasi alterne è anche il recente caso di Luca Morisi, ex social media manager di Matteo Salvini, utile mostro da sbattere in prima pagina e da sottoporre a preventivi processi mediatici, anche nei talk e nei notiziari Rai, ancor prima di chiarire esattamente le dinamiche della vicenda che lo coinvolgeva. Vicenda per la quale la Procura ha poi chiesto l’archiviazione. Che dire poi della recente puntata di Report dedicata a Silvio Berlusconi – appena uscito dall’ospedale – stigmatizzata anche dal critico del Corriere della Sera Aldo Grasso, non certo un seguace sfegatato del Cavaliere? Tornando invece al trattamento speciale per Conte da parte della Rai, non possiamo non ricordare come ai tempi del Governo giallo-rosso e per molto tempo dopo l’arrivo di Mario Draghi Palazzo Chigi, il Tg1 diretto da Giuseppe Carboni in quota M5s sia stato una sorta di megafono del leader pentastellato.

Esaltato giornalmente da reiterate sequenze del notiziario in stile Minculpop, per dirla con il Segretario della Vigilanza Anzaldi, girate ad hoc a Palazzo Chigi e che secondo la professoressa Sara Bentivegna, docente di Teoria delle Comunicazioni di Massa, Media Research e Comunicazione Politica alla Sapienza di Roma, «nell’accettarle e nel trasmetterle pedissequamente, la Tv pubblica mina(va) sostanzialmente la ragion d’essere del giornalismo. Che è quella di “cane da guardia” del Governo, di sorveglianza costante sull’operato delle istituzioni, e non di ricettacolo delle veline governative». Nel garantismo un tanto al chilo da parte della Tv di Stato scompare parallelamente la notizia della mobilitazione e del successo della raccolta di firme a favore dell’ex parlamentare di Forza Italia e avvocato Giancarlo Pittelli, costretto allo sciopero della fame dopo due anni di carcere preventivo in seguito all’arresto richiesto dalla Procura di Catanzaro per accuse sgretolatesi via via.

Ci risulta che nessun notiziario Rai abbia dato la notizia dell’iniziativa popolare promossa dal Riformista, e che nessun talk show del Servizio Pubblico abbia dedicato un po’ di spazio alla vicenda personale dell’ex membro della Commissione Giustizia nel Governo Berlusconi II. Tra l’ennesima riflessione sull’esito della corsa per il Colle dopo estenuanti maratone quotidiane dagli ascolti perlopiù esangui, e un siparietto con opinionisti improvvisati – pagati dal canone – che discettavano delle gag di Fiorello a Sanremo, non si è trovato neanche un minuto da destinare alla riflessione sul caso Pittelli.

Dov’è la Tv pubblica? Il fatto che la sede dei servizi politici delle sue tre testate principali si trovi nientemeno che a Via di Fontanella Borghese a pochi passi dalla casa di Conte, e che tuttavia nessuno si sia accorto dell’arrivo della Guardia di Finanza e della perquisizione tanto da darne anche solo notizia en passant, è una inquietante conferma dell’immortale massima del Piccolo Principe, secondo cui l’essenziale è invisibile agli occhi. A quelli della Rai, senz’altro. Marco Zonetti

ESCLUSIVO. Conte e i suoi affari da avvocato, la Finanza a casa del capo dei 5 Stelle. EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 02 febbraio 2022. 

Qualche settimana fa, in gran segreto, la Guardia di Finanza su ordine della procura di Roma ha bussato a casa di Giuseppe Conte.

I militari hanno chiesto all’ex presidente del Consiglio l’acquisizione di fatture e documenti delle consulenze (circa 3-400mila euro, non tutti pagati) che l’ex premier ha svolto per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia.

Il nuovo fascicolo d’indagine è a modello 44 (ad oggi, dunque, senza indagati) ed è planato da poco sulla scrivania della magistrata romana Maria Sabina Calabretta. La pm ha ereditato la pratica dai colleghi di Perugia che indagano da mesi sulle dichiarazioni dell’imprenditore Piero Amara. 

EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN. Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Emiliano Fittipaldi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 2 febbraio 2022.

Qualche settimana fa, in gran segreto, la Guardia di Finanza su ordine della procura di Roma ha bussato a casa di Giuseppe Conte. E ha chiesto all’ex presidente del Consiglio l’acquisizione di fatture e documenti delle consulenze d’oro (circa 3-400mila euro, non tutti pagati) che lui ha svolto per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia. 

I militari hanno rintracciato il capo del movimento Cinque Stelle nell’appartamento-studio di via della Fontanella Borghese dove vive con la compagna Olivia Paladino, e poi sono andati dal mentore di Conte, l’avvocato Guido Alpa, che da Caltagirone ha ottenuto incarichi da quasi mezzo milione per lavorare alla ristrutturazione del debito del gruppo. La Guardia di Finanza – risulta a Domani da fonti interne degli studi legali – ha infine svolto acquisizioni simili anche dagli avvocati Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, che hanno lavorato insieme ad Alpa e Conte al concordato preventivo di Acqua Marcia.

L’INDAGINE

Il nuovo fascicolo d’indagine è a modello 44 (ad oggi, dunque, senza indagati) ed è planato da poco sulla scrivania della magistrata romana Maria Sabina Calabretta. La pm ha ereditato la pratica dai colleghi di Perugia che indagano da mesi sulle dichiarazioni dell’imprenditore Piero Amara.

Come scoprì Domani ad aprile dello scorso anno, infatti, l’uomo al centro della scandalo della presunta Loggia Ungheria e oggi in carcere per aver corrotto giudici in giro per l’Italia nel dicembre del 2019 aveva detto ai magistrati milanesi di aver “raccomandato” alcuni avvocati a Fabrizio Centofanti, al tempo potente capo delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia. Secondo Amara le nomine erano condizione fondamentale «per riuscire a ottenere l’omologazione del concordato stesso» dai giudici del Tribunale di Roma. Conte (come gli altri interessati) negò subito raccomandazioni di sorta ipotizzando denunce per calunnia.

L’inchiesta da Milano era stata trasferita per competenza alla procura umbra proprio perché le dichiarazioni lasciavano intendere che qualche giudice della Capitale avesse commesso illeciti. Adesso è arrivata a Piazzale Clodio perché nessun magistrato romano è stato identificato dagli uomini di Raffaele Cantone, che però non hanno voluto archiviare la pratica. Calabretta – che investiga su Acqua Marcia anche in merito a un altro filone in cui si ipotizza una bancarotta fraudolenta da centinaia di milioni di euro – dovrà ora verificare se c'è qualcosa di penalmente rilevante oppure se le consulenze dei quattro avvocati si sono svolte correttamente, come sostengono i legali.

SOLDI E FATTURE

A Domani risulta che Alpa abbia fatturato alle società di Bellavista Caltagirone una cifra vicina ai 400 mila euro, ma di queste ne sarebbero state incassate effettivamente poco più di centomila. Meglio è andato a Caratozzolo: gli incarichi ottenuti superano il milione, di cui circa 500mila già pagati. Ivone, avvocato cassazionista che ha avviato uno studio con Fabrizio Di Marzio (condirettore insieme a Conte della rivista giuridica Giustiziacivile.com) ha ricevuto contratti per oltre due milioni di euro, di cui 1,2 milioni di euro già saldati.

Secondo altre fonti vicine all’inchiesta Conte avrebbe ottenuto tra il 2012 e il 2013 conferimenti d’incarico per un valore totale di circa 400mila euro. L’ex premier senza specificare la cifra precisa disse a Domani che comunque i suoi guadagni «erano stati incassati solo in parte». Una lettera firmata da Centofanti e dal figlio di Bellavista Caltagirone, Camillo, evidenziava certamente che Conte, per fare una «ricognizione dei rapporti giuridici» di una società controllata (la Acquamare, nel cui cda siedeva lo stesso Amara) avrebbe ottenuto «un compenso pari a 150 mila euro, oltre accessori di legge come iva e cpa».

MOLINO STUCKY VENEZIA

Non sappiamo se i finanzieri abbiano chiesto al numero uno dei grillini anche le fatture relative a un altro business dell’avvocato del popolo. Parliamo delle consulenze ricevute dal gruppo pugliese di Leonardo Marseglia. Un imprenditore che nel 2015 riesce a comprarsi a un prezzo stracciato uno degli alberghi di maggior pregio del gruppo Caltagirone: il Gran Hotel Molino Stucky di Venezia. 

L’acquisto è stato fatto attraverso una complicata operazione finanziaria, che Marseglia ha realizzato grazie all'aiuto decisivo di due consulenti. Il solito Conte, che aveva lavorato poco tempo prima per la controparte e conosceva bene i documenti del concordato, e l’architetto pugliese Arcangelo Taddeo, che era stato voluto da Marseglia nonostante fosse stato da poco condannato in primo grado a 17 anni di carcere per bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere, pena poi confermata (ma ridotta a sette anni) in Cassazione.

Come mai Conte, capo politico di un movimento che ha fatto della guerra ai conflitti di interesse un mantra, ha accettato di lavorare all’acquisizione del Molino Stucky nonostante avesse lavorato già per Caltagirone? E perché ha chiuso un occhio sul fatto che avrebbe lavorato braccio a braccio con un tecnico comunale condannato da poco a 17 anni di galera? «Non vedo nessun conflitto di interessi per quel che mi riguarda: trattasi infatti di epoche diverse, l’incarico per Marseglia risale a due anni dopo», aveva detto Conte a Domani, per poi aggiungere: «Taddeo? Secondo voi dovevo per principio evitare l’operazione Molino Stucky perché c’era un condannato per bancarotta?».

L’ex amico di Conte e i soldi dai bulgari (indagati per una truffa sulle criptovalute). EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 03 febbraio 2022.

L’avvocato Luca Di Donna ha ottenuto parcelle che sfiorano i 700mila euro da misteriose aziende bulgare, collegate a una mega truffa di monete virtuali da quattro miliardi di dollari.

Secondo i documenti dell’antiriciclaggio la società fa capo a Ruzha Ignatov, la “regina delle criptovalute” a processo negli Stati Uniti. La donna è scomparsa da anni. L’avvocato un tempo vicinissimo dell’ex premier: «Solo delle parcelle per il collegio difensivo mio e di Alpa»

Di Donna è indagato a Roma per un’altra vicenda: è accusato di traffico di influenze dal pool di magistrati anticorruzione di Roma per gli affari che ha chiuso durante l’emergenza sanitaria, intermediando partite di mascherine e chiedendo – secondo l’accusa - una percentuale ad alcuni imprenditori

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 3 febbraio 2022.

Società italiane segnalate dagli investigatori finanziari dell’antiriciclaggio. Parcelle che sfiorano i 700mila euro da misteriose aziende bulgare, collegate a una mega truffa di monete virtuali da 4 miliardi di dollari. Quasi un milione da società commissariate dallo Stato come Condotte e Inso di Firenze. Aziende a Dublino che si occupano di compravendite immobiliari e srl con il lobbista Giampiero Zurlo, fondatore di Utopia. 

A leggere le nuove carte degli investigatori antiriciclaggio della Uif della Banca d’Italia è evidente che Luca Di Donna, amico di Giuseppe Conte ed ex socio dello studio di Guido Alpa, è un avvocato intraprendente. Non solo perché in pochi anni è riuscito a moltiplicare i suoi guadagni, quasi in contemporanea all’ascesa politica del suo amico. Ma perché, scopre oggi Domani, dai suoi conti correnti passano centinaia di migliaia di euro che arrivano anche dall’estero, e che sono finiti nel mirino di una serie di segnalazioni sospette.

I documenti rivelano business inediti del legale, finito qualche tempo fa sulle prime pagine perché accusato di traffico di influenze dal pool di magistrati anticorruzione di Roma. I pm hanno messo sotto la lente d’ingrandimento gli affari che di Di Donna ha chiuso durante l’emergenza sanitaria, intermediando partite di mascherine e chiedendo – secondo l’accusa - una percentuale ad alcuni imprenditori interessati al business. 

Imprenditori che hanno accusato Di Donna di vantare entrature con Conte in persona e nella struttura commissariale di Domenico Arcuri, deputata alla gestione operativa del contrasto alla pandemia scatenata dal Covid-19. L’avvocato ha sempre negato di aver “trafficato” il nome dell’ex premier, e dal suo entourage spiegano ancora a Domani che gli accusatori si sono inventati circostanze false e bugie «che verranno presto dimostrate davanti agli inquirenti».

Al di là della vicenda giudiziaria di cui bisogna ancora valutare contorni e responsabilità, i documenti dell’autorità antiriciclaggio arrivate in procura a Roma evidenziano molte nuove movimentazioni. Flussi di denaro dai quali emergerebbero diverse anomalie, sostengono i detective. A partire dalle relazioni con aziende estere, in particolare quelle in Bulgaria. 

Andiamo con ordine, partendo dall’anno 2018. Il 16 luglio il governo Conte Uno, con Lega e Cinquestelle alleati, si è insediato da appena un mese. Lo stesso giorno Di Donna beneficiava di un bonifico proveniente da Sofia: 321 mila euro versati dalla B&N Consult Eood. Non è stato l’unico pagamento: quattro mesi più tardi, a fine novembre, ecco arrivare sul conto del legale una nuova dazione di quasi 365mila euro. «Causale “final payment on success fee», si legge nel report. Tradotto: «Pagamento finale per obiettivo raggiunto». Di quale obiettivo si tratti non è specificato. In pratica nell’arco di cento giorni l’amico del presidente del consiglio «ha quindi complessivamente ricevuto dalla B&N Consult 685.786 euro, presumibilmente a titolo di pagamento di prestazioni», scrivono gli investigatori finanziari.

Ma a chi fa capo questa società bulgara specializzata in consulenze e e intermediazioni commerciali che paga parcelle sostanziose all’ex amico («non ho più frequentazioni con lui», ha detto Conte) del capo dei 5 Stelle? Nei documenti risultano diverse modifiche nell’assetto azionario della B&N: fino a giugno 2017 era controllata da una seconda società, di proprietà di una tale Irina Dilkinska; successivamente è subentrato un uomo nato nel 1982 che di cognome fa Boychev. Impossibile risalire a un suo identikit. L’antiriciclaggio segnala soltanto che ha alcuni precedenti di polizia per frode.

Ma in realtà, secondo scambi informativi tra investigatori italiani e esteri, la B&N «sarebbe riconducibile a Ruzha Ignatov». Un nome sconosciuto in Italia, ma celebre in Bulgaria, Gran Bretagna e Usa. Perché porta dritto dritto dentro la più grande frode mai realizzata con le monete virtuali. Una truffa dalla bellezza di 4 miliardi di dollari attuata seguendo il celebre schema “Ponzi”, che premia i primi investitori di un progetto con grandi guadagni in brevissimo tempo, a tutto discapito dei nuovi che accorrono una volta saputo del promettente business. A quel punto i profitti svaniranno, e resteranno solo le perdite milionarie che trasformano gli investitori minori in truffati.

Il mega raggiro era stato organizzato proprio dalla Ignatova, attraverso un’altra sua società, la OneCoin. La donna è stata ribattezzata in un podcast della BBC “The missing Cryptoqueen”, l’introvabile regina delle criptovalute: dal 2017, anno della prima inchiesta negli Stati Uniti contro di lei, è infatti scomparsa dalla circolazione. Dove sia finita nessuno lo sa. L’enigma ha alimentato leggende e sospetti: qualcuno crede che sia nascosta in qualche atollo con il malloppo miliardario, altri temono che i clan della mafia russa abbiano regolato i conti con una socia ingombrante. Solo supposizioni.

Sotto processo oggi a New York c’è comunque finito suo fratello Konstantin Ignatov, che ha preso in mano OneCoin dopo la scomparsa di Ruja. Ignatov è stato arrestato il 6 marzo 2019 all’aeroporto di Los Angeles, accusato di cospirazione per frode telematica tramite «uno schema piramidale internazionale che prevedeva la commercializzazione di una criptovaluta fraudolenta chiamata “OneCoin”», si legge negli atti della causa “Ignatov contro Stati Uniti d’America”. Alla sorella, fondatrice e mente di OneCoin, si contestano anche il riciclaggio di denaro. La sentenza è attesa per maggio 2022. 

Gli atti del processo di New York consultati da Domani rivelano che la misteriosa B&N Consult che ha pagato consulenze a Di Donna è proprio tra le società sospettate di essere crocevia dei soldi della truffa architettata dalla “Cryptoqueen”. Agli atti del processo è allegato anche un contratto tra la B&N e una delle holding che fanno capo a uno degli imputati, Mark Scott, sodale degli Ignatov.

In un passaggio del documento dell’accusa si legge che Scott tramite una decina di conti intestati ad aziende ha riversato quasi 400 milioni (tra dollari e euro) in un fondo alle Cayman, le isole note per essere il paradiso degli evasori e dei riciclatori di denaro. Tra queste imprese, si legge nello stesso documento, c’è anche la bulgara B&N Consult. 

Non solo: secondo l’antiriciclaggio la B&N Consult, «che come visto è riconducibile alla sig.ra Ignatova, ha girato fondi a soggetti compiacenti che a loro volta li hanno impiegati a favore di un importante studio legale che avrebbe dovuto percepire la somma di 1,06 milioni di dollari per lo svolgimento di attività di difesa legale di Konstantin Ignatov, a seguito del suo arresto e della causa contro gli Stati Uniti». Konstantin è stato arrestato nel 2019. Dunque B&N, quando ha pagato di Donna alla fine del 2018, era ancora in rapporto con la famiglia della “Cryptoqueen”.

In Italia OneCoin era stata sanzionata dall’Autorità garante del mercato con sanzioni per oltre 2 milioni di euro. Era il 2017, due anni più tardi interverrà anche la Guardia di finanza con sequestri a raffica. Secondo persone vicine a Di Donna contattate da Domani, si tratta di normali parcelle professionali che la “OneCoin” avrebbe pagato a Di Donna. 

«L’avvocato non sapeva nulla della vicenda della presunta truffa miliardaria degli Ignatov. Ha ricevuto, insieme a Guido Alpa e allo studio legale di Federico Tedeschini, dalla società bulgara l’incarico di difenderla nella causa di fronte all’Antitrust e in altri procedimenti giudiziari in Italia».

Dallo studio Di Donna evidenziano pure che il compenso è così alto «perché poi sarebbe stato diviso tra tutto il collegio difensivo». In pratica i soldi ricevuti dalla B&V, che sembra dunque davvero un braccio operativo della OneCoin, sono finiti anche ad Alpa, Tedeschini, collaboratori vari e traduttori. Perché i bulgari si sono rivolti proprio a Di Donna? 

«Non solo a lui, ma ad altri due grandi studi legali. Una proposta arrivata prima che Conte diventasse premier. È importante sottolineare che se l’antiriciclaggio deve fare il suo lavoro» concludono dallo studio Di Donna «la caccia alle streghe contro chi, sbagliando, viene definito dai giornali un “fedelissimo” di Conte rischia di fare a pezzi due principi sacrosanti. Quello del diritto di tutti alla difesa. E quello degli avvocati di non essere confusi con le vicende giudiziarie dei loro clienti. Sennò siamo alla barbarie». 

Una "tempistica" sospetta. Francesco Maria Del Vigo il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La Guardia di finanza a casa di un ex presidente del Consiglio è sempre una notizia destinata a fare scalpore

La Guardia di finanza a casa di un ex presidente del Consiglio è sempre una notizia destinata a fare scalpore. Nelle scorse settimane - racconta il quotidiano Domani - le Fiamme gialle si sono recate nell'abitazione di Giuseppe Conte per acquisire le fatture relative a consulenze per un valore di circa 400mila euro per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia. Fin qui i fatti. Fatti che nel Movimento - come capita sempre quando qualcuno di loro viene sfiorato dall'autorità giudiziaria -, vengono analizzati con grande lucidità e ritrovato garantismo. Cioè l'atteggiamento opposto rispetto a quello che riservano ai loro avversari politici quando versano nelle medesime condizioni. Ma questo è un altro discorso... È ormai ampiamente dimostrato che la trasparenza, nella logica grillina, è una richiesta unidirezionale: riguarda gli altri e mai sé stessi. Garantisti con gli amici, giustizialisti con i nemici.

Infatti alcune fonti pentastellate, tramite le agenzie stampa, si sono affrettate a precisare che il loro leader «è persona informata dei fatti e non è indagato». Nulla di stupefacente, Giuseppe Conte, al di là della narrazione grillina dell'uomo venuto dalla provincia per salvare le sorti della Nazione, non è mai stato l'avvocato degli italiani ma un avvocato di affari. Quello che stupisce, semmai, è la tempistica. Le Fiamme gialle hanno fatto visita a Conte alcune settimane fa, ma la notizia esce solo oggi. A pochi giorni dalla convulsa elezione del presidente della Repubblica, dopo che il Movimento cinque stelle, sui nomi di Draghi prima e della Belloni poi, ha consumato la rottura della liaison con il Partito democratico. Che dalle parti del Nazareno ci sia grande insofferenza (eufemismo) nei confronti di Giuseppe Conte è un segreto di Pulcinella. I Cinque stelle sono un movimento allo sbando e il loro leader, fuori dal Parlamento e logorato dalla fronda interna, non riesce più a tenere a bada i parlamentari recalcitranti e terrorizzati dalla fine del loro mandato.

Così si fa largo un sospetto. Toccare il Partito democratico, lo raccontano le vicende giudiziarie degli ultimi anni, è spesso un ottimo modo per trovare il proprio nome in qualche inchiesta. Magari, come in questo caso, anche solo come persona informata sui fatti. La sinistra e una certa parte della magistratura solo legate da una filatura nervosa molto sensibile e reattiva, che spesso scatta come un riflesso condizionato.

D'altronde l'idillio tra pentastellati e toghe è ormai solo un ricordo del passato, si è incrinato da tempo e l'esplosione del caso Grillo-Onorato, pochi giorni prima che partisse la corsa per il Quirinale, ne è solo l'ultimo esempio in ordine temporale. Ora tocca a Conte.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 3 febbraio 2022. 

Il 28 novembre 2021 alcuni militari della Guardia di finanza hanno contattato l'ex premier Giuseppe Conte e almeno altri tre professionisti su delega della Procura di Roma per chiedere la consegna di fatture e documenti legati alle consulenze svolte per alcune società di Francesco Bellavista Caltagirone, ex patron del gruppo Acqua Marcia. L'attività di acquisizione di atti (per cui la Procura non ha firmato alcun decreto) è stata realizzata dalla polizia giudiziaria in un clima di grande collaborazione e i professionisti coinvolti hanno fornito quanto richiesto.

Il fatto che la notizia esca solo ora, a due mesi e mezzo dai fatti, non deve stupire. Infatti dentro il Movimento 5 stelle si sono scatenate lotte intestine, combattute a colpi di dossier. A spaccare definitivamente il giocattolo inventato da Beppe Grillo è stata l'inchiesta sulle consulenze d'oro, pagate alla Casaleggio associati e a Beppe Grillo dalla Moby dell'armatore Vincenzo Onorato (indagato insieme con l'ex comico). Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso sono state le mosse scomposte e la spaccatura tra Conte e Luigi Di Maio nelle votazioni per il Quirinale.

A questo va aggiunto che l'ex collega di studio di Giuseppi, Luca Di Donna, è ancora sotto indagine perché avrebbe usato il rapporto di amicizia con l'ex premier per fare affari. In questo modo avrebbe incassato lauti guadagni, ma anche un'iscrizione sul registro degli indagati per traffico di influenze illecite come rivelato a settembre da Panorama. «Guardia di finanza a casa Conte? Sono state scritte un sacco di fesserie».

Nei corridoi della Procura la notizia pubblicata da due quotidiani di visite nella dimora dell'ex premier da parte delle Fiamme gialle sono state accolte con un certo fastidio. La realtà, come già rivelato da Panorama, è che sono in corso indagini che riguardano alcuni avvocati romani dell'inner circle del professor Guido Alpa per consulenze datate e meno datate. 

A settembre il settimanale del gruppo diretto da Maurizio Belpietro aveva scritto: «Il procedimento è ancora nella fase iniziale, ma potrebbe segnare la fine dell'età dell'innocenza del Movimento 5 stelle, molto di più delle vicende tipicamente romane di Luca Lanzalone e Raffaele Marra».

A dare il via alle investigazioni sarebbero state le dichiarazioni del faccendiere Piero Amara sugli incarichi affidati attraverso un altro lobbista molto chiacchierato, Fabrizio Centofanti, all'allora avvocato Giuseppe Conte. []. Come detto, sono in corso gli accertamenti preliminari o per lo meno questo è il poco che trapela dalla Procura. Dove ammettono che il fascicolo esista, ma che il problema è capire il modello». 

Che è rimasto il 44, ovvero senza indagati, ma con un'ipotesi di reato: la bancarotta per dissipazione. La pm è Maria Sabina Calabretta, la quale, da tempo, indaga su un presunto crac da centinaia di milioni di euro del gruppo Acqua Marcia. Adesso dovrà verificare se le consulenze pagate agli avvocati coinvolti non abbiano aggravato il dissesto della società.

I fatti risalgono al 2012 e Amara ne ha parlato in questi termini: «Vietti (Michele, ex vicepresidente del Csm, ndr), in funzione di sue esigenze a me non note, mi chiese di far guadagnare denaro ad avvocati o professionisti a lui vicini e avvenne in quel periodo anche con l'avvocato Conte, oggi presidente del Consiglio, a cui facemmo conferire un incarico dalla società Acqua marcia Spa di Roma, incarico che fu conferito a lui e al professor Alpa, grazie al mio intervento su Fabrizio Centofanti (lobbista sotto inchiesta insieme con Luca Palamara, ndr), che all'epoca era responsabile delle relazioni istituzionali di Acqua marcia.

L'importo che fu corrisposto da Acqua marcia ad Alpa e a Conte era di 400.000 euro a Conte e di 1 milione di euro ad Alpa. Questo l'ho saputo da Centofanti che si arrabbiò molto perché il lavoro era sostanzialmente inutile, trattandosi della rivisitazione del contenzioso della società, attività che fu svolta da due ragazze in poche ore, e l'importo corrisposto fu particolarmente elevato». 

Se vero che ormai Amara è considerato urbi et orbi «totalmente inattendibile», è altrettanto vero che i pagamenti sono stati effettuati e che quindi è giusto fare tutti i controlli necessari. La Guardia di finanza ha acquisito documenti anche presso gli avvocati Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, che hanno lavorato insieme ad Alpa (anche lui contattato dai militari) e Conte al concordato preventivo di Acqua marcia. Nei mesi scorsi la Procura di Milano, che aveva raccolto le dichiarazioni di Amara ha trasmesso a Roma il fascicolo.

I pm della Capitale, però, hanno subito girato gli atti a Perugia ipotizzando che nella vicenda potesse essere stato coinvolto qualche magistrato in vista del concordato preventivo dell'azienda. La Procura umbra, dopo aver fatto i dovuti accertamenti ed essersi probabilmente sentita tirata per la giacchetta, ha escluso la complicità di qualche toga e, dopo aver iscritto il reato di bancarotta per dissipazione, ha rigirato il delicato dossier a piazzale Clodio, in considerazione del fatto che, in astratto, le ricche consulenze pagate dall'Acqua marcia potrebbero aver aggravato lo stato di dissesto della società.

Come dichiarato da Amara, Conte avrebbe ottenuto, tra il 2012 e il 2013, conferimenti d'incarico per un valore totale di circa 400.000 euro. «Però non tutti incassati» aveva specificato nell'aprile scorso l'ex premier. In una lettera firmata da Centofanti e dal figlio di Bellavista Caltagirone, Camillo, come rivelato dal Domani, è evidenziato che il capo politico dei 5 stelle, per fare una «ricognizione dei rapporti giuridici» di una società controllata (la Acquamare, nel cui cda sedeva lo stesso Amara) avrebbe ottenuto «un compenso pari a 150.000 euro, oltre accessori di legge come Iva e Cassa previdenziale avvocati». 

In queste ore, tali vecchie vicende, destinate con ogni probabilità all'archiviazione («formalmente nelle consulenze sembra tutto a posto» ci ha confidato un inquirente), vengono utilizzate per il regolamento di conti finale tra i grillini. Un brutto epilogo per un movimento che aveva fatto del tema della giustizia il proprio cavallo di battaglia.

Ma il leader 5Stelle non è indagato. Finanza a casa di Giuseppe Conte, nel mirino le consulenze da 400mila euro dell’ex premier: l’indagine dopo le rivelazioni di Amara. Carmine Di Niro su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Una notizia coperta dal “gran segreto” per due settimane, fino alla prima pagina odierna del quotidiano Il Domani. La Guardia di Finanza ha bussato alla porta dell’abitazione romana di Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 Stelle, su ordine della Procura capitolina.

I militari delle Fiamme gialle, scrivono Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian, avrebbero chiesto all’ex presidente del Consiglio fatture e documenti relativi alle consulenze da un valore di 3-400mila euro che Conte ha svolto in passato per l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone, all’epoca in cui era proprietario del gruppo Acqua Marcia.

La Procura di Roma, in particolare il pm Maria Sabina Calabretta, ha infatti ‘ereditato’ dai colleghi di Perugia una parte delle indagini che da mesi tentano di capire cosa ci sia di vero nelle dichiarazioni dell’avvocato Piero Amara, la ‘gola profonda’ della presunta Loggia Ungheria.

Il fascicolo di indagine, a modello 44 e dunque senza indagati, vuole fare chiarezza sugli incarichi del biennio 2012-13 affidati da Francesco Bellavista Caltagirone a Conte.

L’ex premier, assieme al suo ‘mentore’ Guido Alpa, si è sempre detto estraneo a ogni addebito formulato da Piero Amara, che già nel dicembre 2019 aveva parlato delle consulenze. In particolare l’ex legale esterno dell’Eni, già condannato per corruzione in atti giudiziari e da mesi protagonista del caso dei verbali in cui parla di una presunta loggia chiamata Ungheria, aveva raccontato ai magistrati di aver “raccomandato” alcuni avvocati a Fabrizio Centofanti, al tempo potente capo delle relazioni istituzionali del gruppo Acqua Marcia.

In particolare queste nomine erano la ‘conditio sine qua non’ per “ottenere l’omologazione del concordato stesso” davanti al tribunale di Roma, scrive Domani riportando le parole di Amara. Una tesi, quella delle raccomandazioni, che Conte e gli altri interessati hanno sempre smentito.

Il quotidiano diretto da Stefano Feltri riporta inoltre che la Finanza dopo aver fatto visita all’appartamento di Conte di via della Fontanella Borghese, dove vive con la compagna Olivia Paladino, si sono recati anche dal ‘mentore’ dell’ex premier Guido Alpa, da Caltagirone ha ottenuto incarichi da quasi mezzo milione per lavorare alla ristrutturazione del debito del gruppo Acqua Marcia. Altre acquisizioni di documenti, scrive ancora Il Domani, sono avvenute a casa Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone, altri togati che hanno lavorato con Alpa e Conte.

Secondo quanto riportato dal quotidiano, Alpa avrebbe fatturato al gruppo di Caltagirone 400mila euro, ma l’avvocato ne avrebbe poi effettivamente incassato soli 100mila. Lo steso Conte aveva confermato nei mesi scorsi al giornale che i soldi guadagnati dalle sue consulenze “erano stati incassati solo in parte”.

Una lettera firmata da Centofanti e dal figlio di Bellavista Caltagirone, Camillo, evidenziava che Conte, per effettuare una “ricognizione dei rapporti giuridici” di una società controllata (la Acquamare, nel cui cda siedeva lo stesso Amara) avrebbe ottenuto “un compenso pari a 150mila euro, oltre accessori di legge come iva e cpa2”.

Va chiarito ovviamente che né Conte né Alpa sono indagati, così come Enrico Caratozzolo e Giuseppina Ivone. L’ex premier in una intervista al Fatto Quotidiano del maggio scorso aveva ribadito di “non avere nulla a che fare con i loschi traffici del signor Amara, non l’ho mai conosciuto”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il Movimento a pezzi. Ombre e misteri di Giuseppe Conte: i rapporti dell’avvocato del popolo coi servizi segreti. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

Se ripercorriamo a ritroso il film del Quirinale, alcuni punti dell’intricata trama appaiono più scorrevoli, più lisci. Perfino scivolosi. Quando lo scorso dieci gennaio Conte diceva “ci vuole una donna sul Colle”, aveva già in mente il nome di Elisabetta Belloni? Stava già lavorando alla candidatura più avventurosa della storia repubblicana?

Tutto concorre a lasciarlo immaginare: in primis, la decisione del neodirettore del Dis nel giubilare Marco Mancini, dopo il caso dell’Autogrill – complice Report – in chiave anti-Renzi.

Con la sua nomina alla testa del Dis – in uscita dalla Farnesina, diventata terra di conquista grillina – aveva avvicendato quel generale Gennaro Vecchione che proprio Conte aveva prorogato per un secondo mandato di ulteriori due anni. Sembra quasi che la casella dei servizi segreti, autentica passione di Giuseppe Conte, gli sia rimasta in testa tanto da provare a farne il trampolino di lancio per una nuova spericolata operazione: mettere al vertice dello Stato la donna a cui Vecchione (del quale è notoria l’amicizia e la frequentazione personale con l’ex premier) aveva appena passato i dossier più scottanti. Tutti ricordano con quanta passione Conte abbia seguito da vicino le vicende Dis, arrivando a pretendere di arrogarsi i poteri di intelligence, in quanto primo ministro.

L’ipotesi che abbia iniziato a lavorare alla candidatura Belloni per il Colle è suffragata da una serie di coincidenze che, incrociate tra loro, restituiscono una combinazione singolarmente rispondente. Si rivedano anche i tweet con cui Di Maio parla della Belloni. “Elisabetta è mia sorella, alla Farnesina abbiamo lavorato insieme benissimo, occhio a non bruciarla”, aveva twittato Di Maio, per mettere nero su bianco i rapporti anche suoi, e magari anche stretti, con la dirigente del Dis che Conte stava utilizzando pro domo sua, rischiando appunto di bruciarla. Se riavvolgiamo ulteriormente il nastro, il 2 dicembre scorso un disegno di legge a firma dei senatori dem Zanda, Parrini e Bressa, propone di modificare gli articoli 85 e 88 della Costituzione per impedire il bis del presidente della Repubblica e abrogare anche il semestre bianco.

Un segnale preventivo, voluto da qualcuno per scoraggiare proprio il bis di Mattarella? L’iniziativa parlamentare è suonata singolare allo stesso leader del Pd Letta – per quell’intempestività che si traduce in inopportunità – che l’ha voluta far naufragare, con la cortese richiesta alla stampa di non parlarne più, “incidente chiuso” ancora prima di essere aperto. Passano quaranta giorni. Giuseppe Conte dice ai giornali di avere in mente una donna per il Quirinale. Domanda dei giornalisti: il nome? Risponde: i nomi si fanno a tempo debito. E così sarà. Per due volte, il martedì 25 e di nuovo il giovedì 27, ecco il nome di Elisabetta Belloni scodellato sul piatto. Lei non fa trapelare alcuna reazione, né la prima né la seconda volta. Quella in cui il Belloni- gate è ormai scoppiato. Matteo Renzi è una furia: “In nessun Paese occidentale il capo dei servizi segreti diventa Capo dello Stato”.

Anche tra i Dem il dibattito sul caso Belloni è serrato. Il deputato Enrico Borghi, membro del Copasir, ha annunciato una proposta di legge per chiudere le porte girevoli tra i servizi segreti e i palazzi istituzionali. Sulla stessa linea Italia Viva. La legge 124 del 2007 non pone alcuna incompatibilità con altre cariche per chi lascia i servizi, limitandosi a specificare che il personale di Dis, Aisi ed Aise «è tenuto, anche dopo la cessazione di tale attività, al rispetto del segreto su tutto ciò di cui sia venuto a conoscenza nell’esercizio o a causa delle proprie funzioni». È successo così in passato che direttori delle agenzie siano andati a ricoprire il ruolo politico di sottosegretario con delega all’Intelligence (Gianni De Gennaro per il premier Mario Monti e, ora, Franco Gabrielli per Mario Draghi); in entrambi i casi si tratta di Governi con un presidente “tecnico”. Altri ex direttori dei servizi si sono ricollocati in Fincantieri (Giampiero Massolo), Telecom Sparkle (Alessandro Pansa), Leonardo (Luciano Carta).

Mai si era adombrata la possibilità che uno 007 potesse diventare capo dello Stato. Così, tornando alla lunga nottata del niet, a quello dei centristi si è aggiunto quello di mezzo Pd, capitanato da Base Riformista – Marcucci, Romano, Borghi tra i contrarissimi – e arriva anche Leu, con il ministro Speranza, a dire che no, quella cosa lì loro proprio non la possono sostenere. In Egitto sì, si può fare. In Italia no. Il Riformista ha però messo le mani su una chat interna al gruppo Pd in cui un parlamentare lombardo incita a gran voce i suoi a votare Elisabetta Belloni, nel segreto dell’urna. «Sarà la prima volta di una donna al Quirinale», incoraggia i compagni. «I leader si sono parlati. La soluzione è che dobbiamo votare Elisabetta Belloni», illustra didascalico il deputato lombardo.

Di chat in chat, di telefonata in telefonata, il tam tam è diventato sempre più forte. Quando è arrivata alle orecchie di Grillo, si giustifica oggi il garante del Movimento, la candidatura di Elisabetta Belloni sembrava cosa fatta. Tanto che Grillo si espone con un tweet che rimarrà negli annali delle epic fail: “Benvenuta, Signora Italia. #ElisabettaBelloni”. Mentre Grillo twittava, informato evidentemente da Conte delle trattative in fase avanzata con Enrico Letta e Matteo Salvini, la Belloni finiva già in archivio. Proprio come accadde venti giorni prima, mentre Conte diceva “Belloni”, i parlamentari M5S dicevano “Mattarella Bis”. Chi ha costruito l’operazione Belloni è lo stesso che ha ingannato Beppe Grillo? Ne è convinto il senatore Presutto, pentastellato vicino a Di Maio: «Il tweet di Grillo su Belloni di venerdì sera? Una persona molto autorevole ha chiamato Grillo dicendogli che avevamo chiuso l’accordo e di fatto Grillo, che non era a Montecitorio, è stato ingannato. Mi dispiace perché ho un legame di affetto personale nei confronti del fondatore del Movimento 5 Stelle, ma è stato tratto in inganno».

Il disegno di Conte provoca uno scossone nel Movimento. Luigi Di Maio ha varcato il Rubicone: dopo il suo “ci sono stati errori di leadership” di domenica, ieri ha ulteriormente rintuzzato Conte: “Non provi a trovare diversivi”. “Scissione? Non si esclude niente”. Tra i fedelissimi del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, è circolata l’ipotesi, eccome. La rottura tra l’ex leader del M5s e il nuovo presidente è fortissima, clamorosa. E mentre ci si chiede da che parte sta Grillo, e dove starà Casaleggio (Il Fatto si è già schierato con Conte) è partita una conta degli uni e degli altri, anche pubblica: si veda Twitter di ieri e l’appello dei dimaiani sarà fatto. In ordine alfabetico, sono passati sotto le insegne del ministro: Bacca, Battelli, Buompane, Castelli, Cosimo, Del Grosso, Di Sarno, Di Stefano, Faro, Fraccaro, Generoso, Iovino, Licatini, Manzo, Nesci, Presutto, Puglia, Sibilia.

Una ventina di nomi, tra cui anche figure di governo rilevanti, ma ancora una pattuglia di “happy few” troppo piccola rispetto al corpaccione pentastellato, per poter parlare di scissione. Sorprende però come – a proposito di cyberattacchi da spystory 2.0 – l’hashtag #DiMaioOut sia rapidamente asceso in rete, imponendosi nel dibattito pubblico in forza di uno strano movimento carsico. Solo 289 i profili di utenti che hanno scritto contro Di Maio, chiedendone la fuoriuscita dal M5s, ma con una forza centrifuga attribuibile solo all’utilizzo di particolari software di tweet bombing. Ne è convinto lo studioso Pietro Raffa: «I primi dieci account per numero di tweet sono fake, e generalmente sostengono le posizioni di Di Battista e di Conte», avverte. I due, in effetti, sono tornati sotto braccio l’uno con l’altro. Si vede che il clima sudamericano piace a entrambi.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Fosca Bincher per iltempo.it il 21 gennaio 2022.

Se sul posto di lavoro i guai non mancano, non è che il ritorno a casa faccia gioire il povero Giuseppe Conte, che certo ha una vita complicata dove il sereno non si riesce proprio a scorgere né dall'una né dall'altra parte. I compagni di lavoro danno l'idea di giornate in mezzo a un nido di vipere, e certamente rincasare dalla bella compagna di vita Olivia Paladino un sospiro di sollievo lo fa pure tirare. Ma anche lì i problemi non devono mancare, a leggere l'ultimo documento contabile sfornato dal piccolo impero di famiglia. Si tratta del bilancio 2020 dell'Unione esercizi alberghi di lusso, la società di gestione dell'Hotel Plaza guidata dal “suocero” di Conte, Cesare Paladino.

Un documento depositato con grande ritardo, ma anche perché l'approvazione è avvenuta solo nell'assemblea in seconda convocazione che si è tenuta alla vigilia del Natale scorso, il 14 dicembre. Che segnala una perdita operativa di 8,5 milioni di euro che non può essere coperta con risorse di anni precedenti (perché non ce ne sono a sufficienza) ma resta lì sospesa fino a cinque anni senza portare libri in tribunale come sarebbe stato normale in altri tempi ma come proprio grazie a un decreto Covid a firma Conte oggi può essere evitato.

Ed è proprio grazie solo ai vari decreti Conte (ristori, liquidità e altri ancora) che oggi il Plaza della famiglia Paladino ha potuto non gettare la spugna e non è saltato gambe all'aria. Chiariamolo subito: non si tratta di norme ad personam, perché la ciambella di salvataggio del Plaza era disponibile per tutti gli altri alberghi e per le varie attività economiche più colpite dal crollo del business dovuto alla pandemia.

Ma la febbre è ancora altissima e come spiega lo stesso Paladino nelle note e relazioni di bilancio, il 2021 non è stato diverso dal primo anno di pandemia, e quella che era una gallina dalle uova d'oro della famiglia è diventato un problema grosso davvero. L'unico modo per limitare i danni è stato fare pagare lo stipendio di tutti i dipendenti (fra cui la stessa figlia Olivia) alla cassa integrazione guadagni e tenere rigorosamente chiuso l'albergo, nonostante qualche turista almeno nella stagione estiva sia pure arrivato a Roma. Ma tenendo chiuso si sono limitati i danni, “evitando ulteriori costi di gestione non compensati da ricavi caratteristici” e poi si è tamponata la situazione finanziaria attingendo a ristori e maquillage contabili distribuiti o consentiti dai decreti Covid del governo precedente, quello giallorosso guidato appunto da Conte. Se ne trova traccia alla voce “altri ricavi”, dove vengono indicati anche “contributi e agevolazioni aiuti Covid per euro 487.907”. Un ristoro non così clamoroso, se si pensa che in tutto il 2020 i ricavi dalla vendita di notti in camera al Plaza sono stati 583.654 euro tenendo aperto nemmeno un trimestre in tutto l'anno. Incassato il 15 dicembre 2020 un ristoro di 115.008 euro e il 23 dicembre dello stesso anno anche un contributo a fondo perduto di 62.907 euro in base al decreto dell'agosto dello stesso anno sui centri storici.

La società poi “si è avvalsa della possibilità di beneficiare del credito di imposta per il pagamento dei canoni di locazione mensile ai sensi del decreto rilancio, generando un credito pari ad euro 275 mila al fine di cederlo nei confronti della società locatrice dell'immobile alberghiero”. Qui il caso non è stato di quelli comuni, perché il padrone di casa - delle mura - dell'albergo Plaza affittato dalla società dei Paladino è altra società interamente controllata dalla famiglia Paladino. Più significativa l'operazione di rivalutazione straordinaria di beni della società consentita dal decreto liquidità di Conte, visto che è ammontata a poco meno di 4 milioni di euro. Rivalutati mobili e arredi per maggiori 3,6 milioni di euro, poi cristalli e porcellane per maggiori 188.842 euro e infine l'argenteria per maggiori 121.183 euro. E' la cifra minore, ma anche la più simbolica, perché è proprio nei momenti più duri e difficili che si ricorre anche all'argenteria di casa per sopravvivere.

La musica però non è cambiata con il governo Draghi, anche se il suocero di fatto di Conte loda la svolta nella campagna vaccinale impressa dal nuovo premier che avrebbe potuto iniziare a risolvere i problemi anche del settore turistico se poi non fossero esplose le varianti che hanno lasciato la situazione di mercato sostanzialmente immutata. Così il consiglio di amministrazione della società che gestisce il Plaza guidato da Paladino “ha ritenuto opportuno mantenere la stessa politica cautelativa di non apertura della struttura alberghiera utilizzandola solo ed esclusivamente per eventi particolari che hanno generato importanti ricavi con costi molto contenuti”.

·        Luigi Di Maio.

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 20 Novembre 2022. 

Nella premiata ditta "poltronari" non c'è solo Luigi Di Maio, a cui spetta quantomeno il primo posto sul podio. Il governo che fu, quello di Mario Draghi, la lasciato in eredità a Giorgia Meloni e ai suoi ministri una discreta truppa di famelici beneficiati che ora pongono qualche problema al nuovo esecutivo. 

Su Di Maio va detto che il governo di centrodestra ha quantomeno un obbligo morale: deve dire all'Europa che una sua eventuale nomina sarebbe uno schiaffone all'Italia.

Tanto più con un dettaglio. Non è che siccome uno è stato ministro debba sparire. Ma non può accadere che resti a galla facendola ingoiare al nuovo governo. Che, tra l'altro, ha preso alle proprie dipendenze Roberto Cingolani, ex ministro per la transizione ecologica.

Gratis, a differenza di Di Maio, che avrà uno stipendio simil-parlamentare (12mila euro netti al mese per fare l'inviato Ue nel Golfo Persico). Ma il primo lo ha scelto la Meloni, il secondo Draghi. Non va affatto bene. 

Ma poi c'è il gruppone. E, altra curiosità, non si vedono trasmissioni Rai inquiete. Tutto tranquillo da quelle parti. Non c'è scandalo, nonostante ad esempio il partito di maggioranza - Fdi - sia fuori dal Consiglio di amministrazione e praticamente dall'azienda così come lo era dall'opposizione. 

Curioso, no? Il governo in carica assiste ai programmi, quello caduto li fa... Ad esempio, ci si attenderebbe una rivoluzione tra viale Mazzini e saxa Rubra, ma tutto è tristemente fermo. Invece, in articulo mortis sono stati nominati dal vecchio esecutivo un fracco di amici degli amici, di dirigenti in scadenza, e questo nonostante quello di Draghi fosse in carica per il cosiddetto disbrigo degli affari correnti.

Sono in diversi ad essersi fregati le mani dopo aver acciuffato l'ultimo autobus per l'ultima nomina. E non solo al governo, va detto. Tra i poltronari di gran lusso ovviamente spiccano i grillini ripescati da Giuseppe Conte, Taverna e soci, non ricandidati e non rieletti: stanno a carico dei gruppi parlamentari, paga Pantalone. 

A proposito di zona Cesarini, le cronache giornalistiche ricordano proprio quelle del governo Draghi: nell'ultimo Consiglio dei ministri furono assegnate sei postazioni di rilievo, su proposta dei ministri Guerini e - guarda un po', che altruista - Di Maio. Una mossa arrivata da un esecutivo dimissionario, all'ultimo minuto e dopo il chiaro risultato delle elezioni del 25 settembre. Tant' è, la faccia tosta è inarrivabile quando ci si mette di mezzo la politica politicante.

E così, tra uno sguardo e l'altro sulla Nadef da approvare in forma tecnica in vista del governo Meloni, il capo della Farnesina chiese e ottenne «il collocamento fuori ruolo del ministro plenipotenziario Gabriella Gemma Antonietta Biondi presso il Segretariato generale della presidenza della Repubblica, Ufficio per gli affari diplomatici» così come «il conferimento delle funzioni di capo del cerimoniale diplomatico al ministro plenipotenziario Bruno Antonio Pasquino». 

Quattro, invece, furono le nomine richieste da Guerini. Un «ammiraglio di squadra»; un generale di squadra aerea; un paio di ammiragli ispettore capo: un bottino di promozioni last minute, insomma. Altri ministri si erano già esercitati nella sistemazione dei loro fedelissimi in postazioni chiave. Clamoroso il caso che vide protagonista il compagno di scuola di Roberto Speranza, Stefano Lo Russo, trascinato al vertice di comando del ministero della Salute.

Libero ne ha raccontate tante di queste nomine prodigiose e c'è da ricordare che i maggiori protagonisti della denuncia di un'occupazione di potere senza freni, ora sono al governo, come ministri o sottosegretario. È da auspicare che proprio loro facciano chiarezza sul destino di chi è stato collocato in posizioni importantissime in campagna elettorale o addirittura ad elezioni svolte: guai a mantenerli dove sono. Perché sarebbe il segnale che il cambiamento tarda ad arrivare. Speriamo che a Palazzo Chigi qualcuno, a cominciare dalla premier, voglia metterci sopra occhi e testa. Anche perché sono in arrivo tantissime nomine e guai a sbagliare scegliendo i soliti noti.

Il futuro di Di Maio, proiettato verso una consulenza all’estero. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

Dopo il tonfo elettorale, i programmi dell’ex ministro degli Esteri, che si è dimesso da Impegno civico: società in proprio, lavoro con una società straniera o un fondo arabo 

Appena messo piede in Parlamento, i cronisti gli pronosticarono un futuro da democristiano (aggiungendo «senza offesa per gli ex dc»), sarà stato per il completo impeccabile, le scarpe lucide, la parlantina sciolta, il viso pulito, ma soprattutto perché non si coglieva in lui la verve visionaria e istrionica di un Beppe Grillo, lo spirito barricadero guevarista di un Di Battista, l’approccio orobico-eversivo di un Toninelli. Non era granché credibile come paladino di una crociata anticasta e anche gli scivoloni più estremisti, come la richiesta di impeachment per il presidente Sergio Mattarella, apparivano per quello che erano, non spontanee indignazioni etiche, non collere profonde ma incidenti di percorso, inciampi di formazione di un politico ancora acerbo, ma già pronto a tutto. Il finale di partita, provvisorio, è arrivato l’altro giorno - dopo il drammatico 0,6 raccolto alle elezioni - con un messaggio laconico nella chat interna di «Impegno civico», il cartello elettorale propiziato da Bruno Tabacci, per dar manforte al centrosinistra: «Mi dimetto da segretario».

A Caprera

Un po’ poco per chi aveva lasciato casa e poltrone (con il Movimento 5 Stelle) per seguirlo in una battaglia sgangherata e perdente. Emilio Carelli, Laura Castelli, Primo Di Nicola, Carla Ruocco si son trovati appiedati, sconfitti quasi prima di cominciare a combattere. Di Maio non è Garibaldi, ma ha scelto comunque una sua Caprera virtuale, mollando tutto, i social e i sodali, prendendosi una pausa di riflessione che è fisiologica ma colpisce in un ex enfant prodige della politica e fa infuriare quanti speravano in un avvenire politico con lui.

Gli errori e la gogna

Di errori ne ha fatti tanti Di Maio ma forse non merita la gogna al quale l’hanno sottoposto gli avversari e anche alcuni ex amici che godono nel vilipendere i cadaveri dei nemici. In prima fila Alessandro Di Battista, che dice di non provare «gioia» ma gli consiglia di «stare alla larga dalla politica e di prendersi una laurea». Consigli non richiesti che sanno di vendetta postuma per un duello che ha segnato tutta la storia dei 5 Stelle. La ferocia con la quale è stato additato da molti «Giggino» in questi anni e mesi — dalle ironie sfiatate sul bibitaro del San Paolo alle voci di rottura con la fidanzata Virginia Saba, dal sarcasmo sui congiuntivi a quello sui nomi sbagliati (Ping invece di Xi Jinping) — è in parte meritata (nemesi per chi ha fatto dell’insulto e della violenza verbale un programma politico) ma non è ammissibile in bocca a chi ha condiviso la favola dell’«uno vale uno» del «signor nessuno», senza competenza, senza esperienza, senza ideologie, ruolo che Di Maio ha incarnato alla perfezione.

Obbedienza ed eclettismo

I 5 Stelle erano il giocattolo di due sognatori geniali - Grillo e Casaleggio - una macchina potentissima per catalizzare il voto degli scontenti e il malessere degli esclusi e dei frustrati, ma lavoravano per obiettivi e non per principi. Per questo l’eclettismo morale e politico di Di Maio non ha fatto eccezione e lui, come quasi tutti, si è trovato a suo agio con Salvini e con Fratoianni, con Toninelli e con Tabacci, con i «gilet gialli», i «taxi del mare» e la curiale inclinazione al progressismo dei dem. L’obbedienza di fronte alla linea del partito, comprese certe uscite umilianti di Grillo, è stata totale e incondizionata. Fino alla rottura.

Lobbysmo, secondo tempo della politica

E ora? Ora è il momento di tagliare i ponti con tutti, di chiudere un capitolo e pensare ad altro. Si dice che la politica sia solo il primo tempo di una carriera, il secondo ormai anche da noi, come negli Stati Uniti, è diventato il lobbysmo, l’entrata in quel mondo grigio di consulenze e rapporti che prevede l’esilio volontario in una zona d’ombra dal quale tessere nuove trame a bassa visibilità e alto reddito. Lui non conferma nulla ma le voci corrono. Si parla dell’idea di mettere in piedi una società di consulenza o di lavorare con Bain & Co (che però smentisce ufficialmente). Ma c’è chi dice che, sulle orme di Matteo Renzi, Di Maio abbia avuto un’offerta anche da un fondo di investimento arabo.

I finanziamenti

Del resto, in questi mesi Di Maio è stato abile a costruirsi una rete di rapporti, grazie anche al ruolo di ministro degli Esteri. Durante la campagna elettorale ha ricevuto finanziamenti e donazioni per 300 mila euro, dalla Consap, Alfredo Romeo, Marco Rotelli, l’università telematica Niccolò Cusano, Stigc pressure tanks e Energas Spa.

Stop alla politica, per ora

E la politica? Per ora, non è il caso di insistere, lo sa da solo. Come per Garibaldi, ci sarà tempo per tornare da Caprera. Emilio Carelli lo difende: «Non si meritava questa fine, i tempi sono stati troppo accelerati, non c’è stato abbastanza tempo per convincere gli italiani». Tabacci - gran democristiano e signore della politica - ne parla solo bene: «È un ragazzo intelligente e di buone qualità. Ma ormai le leadership nascono e muoiono in un breve lasso di tempo. E poi forse non ha capito quanto odio si era catalizzato contro di lui».

L’odio e i monumenti

Già, odio o forse fastidio, repulsione. Quei sentimenti che gli italiani provano di se stessi, quando si accorgono di avere creduto a qualcosa che si rivela fallimentare, e allora con la stessa passione e ottusità con la quale avevano edificato il monumento a qualcuno, rapidamente lo demoliscono, prendendo a martellate quel che rimane, dimenticando allegramente di aver contribuito a mettere in piedi un altro mito farlocco. Di Maio non ha avuto il tempo e la capacità per costruire il suo movimento e non ha calcolato l’effetto novità, che premia solo i leader nuovi o che si riverniciano di fresco, come Giuseppe Conte, che fino al giorno prima combatteva su un fronte molto diverso da quello neo laburista alla Mélenchon.

L’ecomostro Impegno civico

Impegno civico ora è rimasto lì, acefalo, sospeso nel nulla, un memento a futura memoria, un ecomostro che non si ha la forza di abbattere. Alcuni dei suoi seguaci si sono imbufaliti, nel leggere quella chat di dimissioni caduta dal nulla, senza scuse, senza spiegazioni, senza nessun tipo di elaborazione del lutto. Alcuni (come Dalila Nesci, Gianluca Vacca e Vincenzo Presutto) si starebbero avvicinando al Centro democratico di Tabacci. Alcuni si apprestano ad aprire un chiringuito. Altri aspettano che si calmino le acque per decidere se provare a ributtarsi in questo circo assurdo che è la politica. Oppure tornare alla vita normale di tutti i giorni, dove uno non è mai valso uno.

Federico Capurso per “la Stampa” il 24 Ottobre 2022.  

I ghigni che hanno accompagnato la sua uscita di scena sono destinati a spegnersi e a scivolare via. Perché non riusciranno, congiuntivi fantozziani e soprannomi dileggianti, a descrivere davvero fino in fondo chi è stato Luigi Di Maio per questo Paese. Capace di cavalcare in giacca e cravatta l'antipolitica alla conquista dei Palazzi di Roma, da mosca bianca del Movimento del vaffa, e di finire sconfitto nel momento in cui aveva ogni cosa nelle sue mani.

«Il più giovane della storia repubblicana», si è sentito dire spesso, da vicepresidente della Camera, da vicepremier, da ministro degli Esteri. Eppure, è un ragazzo che non è stato ragazzo mai. Entrato nel Movimento 5 stelle a 21 anni e a Montecitorio cinque anni più tardi, nel 2013. Altri cinque anni ed è ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico. L'unico vero miracolo grillino, in cui si è realizzato il sogno e consumato il contrappasso: l'uomo del popolo che diventa élite finché il suo popolo non lo riconosce più. 

Con lo 0,6 per cento incassato alle ultime elezioni, il passaggio di consegne alla Farnesina e le dimissioni dalla guida di Impegno civico, a 36 anni Di Maio chiude il primo capitolo della sua storia politica. E ora che tutto finalmente si posa, guardando indietro a questi dieci anni bruciati in fretta, tra mille acrobazie, come un fuoco d'artificio impazzito, si fa ancora una tremenda fatica a capire chi sia davvero Luigi Di Maio.

Il sacrificio per il potere, si dirà. Eppure, non può essere solo questo. Il senso di rivalsa, forse, che arriva da una provincia dimenticata del Sud, come è Pomigliano d'Arco, e che lo porta a esultare dal balcone di palazzo Chigi per aver sconfitto la povertà. E insieme l'abilità, persino il talento, di essere tutto e il contrario di tutto.

L'uomo che voleva uscire dall'Euro e che chiese l'impeachment di Sergio Mattarella, che si lasciò cullare dalle fascinazioni prima russe e poi cinesi, che vedeva nel Pd un nemico e che incontrò in Francia i gilet gialli, oggi è alfiere della stabilità, uomo di fiducia di Mario Draghi e amico del Pd, atlantista ed europeista convinto. Il giustizialista che per primo, senza imbarazzi, ha chiesto scusa per il suo giustizialismo: «Scurdammoce 'o passat'». 

Gira voce che ora voglia dedicarsi al lobbismo. Entrare alla Bains, società di consulenza americana tra le più importanti al mondo, o magari fondarne una sua, mettendo a frutto la rete di conoscenze costruita nel tempo, fin dal primo giorno in cui ha imparato ad annodare la cravatta.

Mentre i grillini sbraitavano contro i poteri forti, lui ci andava a cena insieme. E se poteva, piazzava i suoi amici, compagni di scuola e di avventura politica, su poltrone e poltroncine, come ha fatto chiunque abbia amministrato il potere in Italia prima di lui. «Giggino core d'oro», lo chiamavano i suoi detrattori. 

Ma è la capacità di ascolto e di dialogo, di costruire un rapporto plasmando la propria identità su quella del suo interlocutore, senza mai scontentare nessuno, ad avergli permesso di superare scivoloni ed errori politici. Da ultimo, la scissione dal Movimento, progettata e orchestrata per dare maggiore stabilità politica al governo Draghi e per assestare un colpo mortale a Giuseppe Conte, finita invece per terremotare palazzo Chigi e ridare forza all'identità dei Cinque stelle in campagna elettorale.

Nessuno si ricorderà di Impegno civico. «Un cartello elettorale», così l'ha infilzato a morte Bruno Tabacci, unico eletto sotto quell'insegna. Ma Di Maio, a 36 anni, ha ancora cinque o sei vite di fronte a sé. L'unica vera domanda da porgli, oggi, è se abbia voglia di rallentare, prendere fiato, e decidere una volta per tutte, magari, chi è davvero Luigi Di Maio. 

Michel Dessì per “il Giornale” il 18 ottobre 2022.

Si spengono le luci, cala il sipario su Luigi Di Maio. E tra i palazzi romani c'è qualcuno che tira un sospiro di sollievo allarga le braccia ed esclama: «Era ora!». Il de profundis del ministro è servito. L'ultimo atto al Consiglio degli Affari Esteri europeo in Lussemburgo. Mentre in Italia è scomparso dai radar (tanto da allarmare perfino Federica Sciarelli e la redazione di Chi l'ha visto?) in Europa è accolto da applausi. A spellarsi le mani l'Alto rappresentante dell'Unione Josep Borrell, che ha definito Di Maio «un grande ministro degli Esteri». 

Peccato scoprirlo solo ora, alla fine del suo mandato. A ruota, tutti i ministri omonimi, hanno congedato Giggino da Pomigliano con un lungo applauso. Lo stesso che si riserva ai grandi funerali. D'altronde per lui lo è. Il funerale politico se l'è fatto da solo. Lo 0,6% ottenuto alle elezioni dal suo Impegno Civico è l'iscrizione sulla lapide della sua vita politica. Inciso sul marmo, a perenne memoria: zerovirgolasei.

Beffato dalle urne, trombato come tutti i suoi compagni di «partito» scippati al Movimento 5 stelle. Tutti tranne uno. Solo Bruno Tabacci, politico navigato, è riuscito ad ottenere il seggio ed entrare in Parlamento fregandolo. Ora anche lui abbandonerà la creatura di Luigi per approdare nel Pd. L'ape raffigurata nel simbolo invece di prendere il volo è morta. 

Si è schiantata contro la realtà. Le comode stanze dal Palazzo sono solo un lontano ricordo. Per lui non ci sarà più nessuna occasione per sfoggiare i vestiti sartoriali. «Non lo sentiamo più dal giorno delle elezioni» - confessano gli ex parlamentari dimaiani - «È sparito». Scomparso non solo dalle chat ma anche dai social. Troppo grande la vergogna, anche per uno come lui che non si è mai fatto troppi problemi a cambiare idea e casacca.

Da «uno vale uno» a «io valgo doppio»; da «mai con il partito di Bibbiano» ad un accordo con quel partito, il Pd simbolo del male (per Di Maio) tranne che utilizzarlo come traghetto per il transatlantico. Gli è andata male. Il saluto dei colleghi europei è il giusto tributo, un ricordo che lo accompagnerà nel tempo. 

Una meteora caduta nell'ultimo appuntamento internazionale del suo mandato. Al prossimo consiglio Esteri, previsto a Bruxelles il 14 novembre, infatti, parteciperà il suo successore alla Farnesina nel governo che dovrebbe prendere vita nei prossimi giorni. Forse Antonio Tajani, politico di spessore. Già presidente del Parlamento europeo. Nessuna grande perdita, né per l'Europa né per l'Italia.

Lo statista in salsa campana pare essersi presentato nelle colorate stanze del Consiglio Europeo con dei nuovi biglietti da visita freschi di stampa: «Luigi Di Maio - lobbista». Questa potrebbe essere la sua nuova professione. Dopo qualche anno al ministero, anche lui si è fatto i suoi contatti. Abile trasformista saprà fare tesoro della sua agenda ricca di numeri, soprattutto quelli con il prefisso cinese. I soldi non mancano, 100mila euro per 9 anni in Parlamento. A tanto ammonta la buonuscita.

Anche il numero di cellulare è nuovo. C'è chi dice che non risponda più al telefono nemmeno ad alcuni dei suoi più stretti collaboratori, al suo fianco da quando, appena trentenne, il politico campano aveva fatto il suo ingresso nell'agone politico. In quel Parlamento che avrebbe voluto aprire come una scatoletta. La stessa scatoletta ora lo ha inghiottito. Per sempre.

 Mattia Feltri per “La Stampa” il 12 ottobre 2022.  

Che l'onestà in politica sia una questione largamente sopravvalutata o quantomeno mal posta, noi qui lo sappiamo da tempo. 

La mistica delle mani pulite è una cretinata da podio olimpico: fare politica significa sporcarsele, e lo si scopre studicchiando qua e là, oppure dandosi da fare, come dev' essere successo al nostro Luigi Di Maio, indicato dal premier albanese Edi Rama come un contrabbandiere fatto e finito.

Non un banale abuso d'ufficio, per mandare avanti una pratica utile a tutti, tranne alla legge, ma proprio un contrabbandiere, e di vaccini. 

Rama ha raccontato che l'Albania ne era priva, la popolazione terrorizzata, e così chiese a Di Maio di fargliene avere un po' sottobanco. Il contratto con Pfizer ci impediva infatti di ridistribuirne e Di Maio - uomo di marmorea rettitudine - disse no, sarebbe un reato gravissimo, ma infine fu mosso da pietà e solidarietà e infranse la legge.

Ora io spero soltanto che qualche magistrato con molto tempo libero non si industri a fare luce, e non infili il potenziale inquisito in qualche pluriennale indagine, mentre sono certo che Di Maio avrà compreso il concetto della separazione fra politica e morale, e soprattutto fra morale e giustizia: non dare i vaccini agli albanesi sarebbe stato morale perché un politico è tenuto a rispettare la legge più di un cittadino comune, darglieli è stato morale perché esiste una legge di fratellanza umana superiore a qualsiasi legge scritta nei codici. 

Un uomo che rispetta la legge non è necessariamente un uomo migliore: se Di Maio l'avesse rispettata, ora avrebbe le mani pulite; non l'ha rispettata, e le ha pulitissime.

Francesco Merlo per “il Venerdì - la Repubblica” il 15 ottobre 2022.

Eppure lo meritava, l'applauso da sipario, al posto dei tanti sberleffi feroci, perché non c'è un altro Di Maio nella nostra storia politica e non c'è mai stata una parabola così arcitaliana e così napoleonica, per gli altari dove venne innalzato e per la polvere che ora gli stanno facendo mangiare senza la pietà di un miserere di Vivaldi e neppure il saluto malinconico di una marcetta impettita di Sanremo. 

E forse è per questo che da sempre porta appiccicato sulla faccia un perenne sorriso, fisso come un ghigno, perché era nato per la letteratura, predestinato a diventare un personaggio stilizzato come L'Uomo che ride di Victor Hugo: il "tipo Di Maio" sarà infatti proverbiale e "farai la fine di Di Maio" si dirà un giorno senza bisogno di aggiungere altro.

 Ma sarà un nome sussurrato, biografia-documento e speciale ricordo della generazione drogata e irripetibile del vaffa, un nome cantato con la malinconia della poesia-canzone di Salvatore Di Giacomo e con la voce di Franco Battiato: non più Era de maggio ma Era Di Maio "e te cadéano 'nzino / a schiocche a schiocche li ccerase rosse", - era Di Maio e ti cadevano in grembo, a ciocche a ciocche, le ciliege rosse. 

Davvero, mai c'era stato nella Dc, nel Pci e neppure nel Psi di Craxi un turbinìo così caotico e incandescente di onori e di insulti che ormai si infettano ogni giorno di più e diventano spietati; ci sono video dove gli gridano "munnezza, iatevinni", e lo hanno costretto a scappare dai social e gli hanno persino "tolto" la fidanzata, "troppo bella per un tacchino": "Virginia l'ha lasciato".

E non importa che non sia vero, basta che sia verosimile nella stessa Italia che oggi deride feroce il bravo ministro e ieri celebrava entusiasta lo squinternato d'assalto che si perdeva sia nei congiuntivi, "mi facci il piacere" e "mi facci finire", e sia nella famosa geografia dei 5 Stelle con le Marche al posto del Molise, il Venezuela in Cile, Matera in Puglia. 

Il migliore dei peggiori

Nessuno allora si accorgeva che "l'uomo che ride", annunciando dal balcone di palazzo Chigi l'abolizione della povertà, stava sporcando la politica ma al tempo stesso dalla politica si stava facendo ripulire, e proprio mentre cercava di corrompere il Palazzo e di aprirlo come una scatoletta, il Palazzo lo sgrossava, lo sbozzava e lo dirozzava. E difatti non ce n'è un altro, tra i tanti disperati a 5 stelle, che come lui incarni l'epopea del popolano che davvero era diventato élite.

La fine di Di Maio è il tonfo dell'utopia realizzata di Casaleggio e di Dario Fo. Nello 0,6 per cento al bibitaro ministro c'è l'intero universo grillino, che appunto un giorno ricorderemo solo con il suo nome - "era il tempo di Di Maio" - accanto a quello di Grillo e non certo di Conte che  fu invenzione di Di Maio e ancora oggi prende le forme che gli altri via via gli danno.  

Conservato su YouTube, che più di un archivio è il frigorifero della storia, c'è il video del primo discorso da presidente del Consiglio che Conte pronunciò alla Camera il 7 giugno del 2018: "Posso dire che...?" il premier chiede impaurito al suo vice che, chiaro e autoritario, gli risponde: no. Proprio come nei versi di Era Di Maio: "Fa' de me chello che vuo'". È lo sconfitto, è vero, il deriso, il perdente, ma solo Era di Maio racconta la matta stagione della Cretinocrazia, perché è stato l'unico che è riuscito a incarnarla sino ad uscirne superandola, fino a diventare, ecco lo scandalo imperdonabile, un apprezzato ministro degli Esteri del governo Draghi, il migliore dei peggiori che aveva ormai rinnegato la politica pericolosamente filocinese del memorandum siglato da Conte e Xi Jinping: "Pechino" dice il Di Maio di poi "è un'autocrazia che non aderisce alle regole multilaterali".

Si è infatti affidato ai sapienti diplomatici e a tutta la struttura della Farnesina: "La sua mente assorbe, accumula e poi corre come un fiume". Si era scelto come tutore Ettore Francesco Sequi, che gli preparava i dossier e glieli faceva capire e studiare, si era pure impadronito dell'inglese alzandosi ogni mattina alle 4.30 per le lezioni one to one, e intanto conosceva e ri-conosceva capi di Stato e ministri,  Zelensky e Von der Leyen, e sempre Draghi lo proteggeva e lo accreditava, "my young friend".

 Dal vaffa a Waterloo

E dunque alla fine neppure somigliava alla maschera che in visita ufficiale a Shanghai aveva chiamato per ben due volte "Ping" il presidente Xi Jinping. Si sa che le gaffe, come quelle sulla Francia "democrazia millenaria", sono la leggerezza dell'umorismo involontario. Ma stava al governo l'odiatore di tutti i governi e dunque le sue gaffe divennero tanti piccoli momenti fatali che, con l'innocenza della verità, esprimevano la tensione tra il vaffa day e l'istituzione, facendogli vedere quanto sia facile bruciarsi quando si gira attorno al Sole.

Non resterà nulla dei vari Fico e Toninelli, Crimi, Lombardi e Taverna, perché nei 5 Stelle c'è solo un Icaro che è volato troppo vicino al Sole: "Era Di Maio, fresca era ll'aria e tutto lu ciardino / addurava de rose a ciente passe". "Era di Maio" vuole anche dire che in tanti alle elezioni sono stati sconfitti, non ce l'hanno fatta, sono stati bocciati, esclusi o semplicemente non sono stati eletti. Ma solo per Di Maio il 25 settembre è arrivato come una Waterloo, un bum bum bum alla napoletana. 

Nel bibitaro battuto a Napoli da quel Sergio Costa che lui aveva inventato e fatto per due volte ministro, c'è la disfatta della troppo scandalosa ambizione di un modesto, della forza oscura dell'umile che era quasi a un passo dal dimostrare che davvero "uno vale uno" e che "io speriamo che me la cavo" è la strada migliore per diventare Napoleone. Di Maio è la morte per sete accanto alla fontana.

L'ometto di Grillo, che lo chiamava "il fantastico napoletano", si era ormai strappato le orecchie d'asino, aveva scritto mille lettere di scuse e persino un libro all'Italia e a tutte le vittime del vaffa, e si era fatto perdonare pure da Sergio Mattarella che ora lo tratta con affetto paterno benché il guaglione, anzi il picciotto, avesse un giorno chiesto l'impeachment del presidente nientemeno che per alto tradimento. Ed è bene ricordare a futura memoria, sempre che la memoria abbia un futuro, che a gridare all'impeachment era stata per prima Giorgia Meloni.

È vero che Di Maio li aveva lasciati e pure male i suoi amati 5 Stelle, ma abbandonandoli era l'unico che ne stava incarnando l'epica. L'ex commesso dello stadio San Paolo, "il bibitaro", Giggino, era il più affidabile europeista e atlantista dopo avere declamato con indignazione tutti i luoghi comuni di tutti gli estremismi di destra e di sinistra degli ultimi quarant'anni e dopo avere persino provocato una crisi diplomatica andando a Parigi, con Di Battista, a sostenere la violenza redentrice dei Gilet gialli che aggredivano con le ruspe i poliziotti. 

Di Maio era il governo italiano contro la Francia di Macron, "quel matto che beve Champagne", quel "chiacchierone", "ipocrita e cinico",  e persino (Beppe Grillo) "quel vibratore con le pile scariche di Madame Brigitte". E intanto Giorgia Meloni, in gran spolvero di reginetta di Coattonia, gridava in tv che Macron sfrutta i bambini africani per arricchirsi. "Ci vuole un incidente diplomatico" aveva detto Di Battista, e Di Maio lo aveva provocato.

 "Era Di Maio" evoca il miracolo del bibitaro che, battute tutte le strade della scombiccherata eversione a 5 Stelle, spostando la poesia del Manzoni dal 5 maggio al 25 settembre, "giunge, e tiene un premio ch'era follia sperar". Ecco perché non è una storia personale quel finale "cadde, risorse e giacque" ma in metafora ci sono anche i professori-paperini dell'era Casaleggio senior, quando veniva elogiato lo Zeitgeist di un tal Peter Joseph ed evocate le scie chimiche, i microchip sotto la pelle, e i vaccini erano "o inutili o dannosi", e "il tumore si cura con il limone e la cacca di capra" e "l'Aids è la più grande bufala del secolo". 

Di Maio, che è l'unico ad essersi mutato nel suo contrario, rimarrà per sempre il loro Napoléon le petit, sia pure nella versione  di  Renato Rascel , "Napoleon, Napoleon, Napoleon", che "offriva la fronte alla gloria" e diceva: "E allora che abbiamo combattuto a fare se poi non sappiamo zufolare?".

Di Maio ha un super curriculum di super zufolatore. Era vicepresidente della Camera a soli 26 anni e poi, a 31, vicepresidente del Consiglio; ed era anche il leader del partito di maggioranza relativa quando si dissipava  in bêtises borgesiane come l'uomo d'acqua ("Per più del 90 per cento siamo fatti di acqua"), e ministro del Lavoro e poi degli Esteri, descamisado  che "si camisava" anche ai tempi dell'odio, giacca e cravatta in controtendenza rispetto a se stesso, un guastatore che mentre guastava l'Italia, l'Italia rendeva migliore: "Calenda per offendermi ha detto che non assumerebbe mai un venditore di bibite in un'azienda. Io non ne posso più di queste discriminazioni nei confronti di giovani che fanno lavori come il cameriere, lo steward o il venditore di bibite".

Leader dello sbeffeggiamento da canaglia, ora ne è la vittima e torna a Pomigliano d'Arco, il suo punto di partenza, a cercare il senso di questo lungo romanzo di formazione. È provincia, ma non è il Meridione delle mozzarelle. È la Napoli dell'Alfasud e della modernità tradita, l'ex roccaforte rossa, il sobborgo industriale dove Landini sfidò Marchionne, con intorno la campagna fertile del vulcano e dell'acqua e dove anche il parroco, che fu comunista, divenne grillino devoto a Di Maio.

L'odio come politica

Il padre, che era il piccolo imprenditore benestante e riverito, il "quasi borghese" meridionale, si sentì morire quando le Jene scoprirono che pagava in nero gli operai e chiese scusa in diretta Facebook. Pomigliano è la famiglia, le abitudini, la piazza Giovanni Leone, e poi la messa la domenica, capelli sempre corti, la voglia di sembrare compassati e dignitosi come milanesi del Sud, e ovviamente di destra, con Almirante come idea d'uomo: "Nel Movimento 5 Stelle" disse il Di Maio di prima "c'è chi guarda a Berlinguer, chi alla Dc, chi ad Almirante".

 In quella provincia e in quella piazza sono anni che si parla solo di Di Maio e per molti anni ancora se ne parlerà: la polvere e l'altare, l'odio come politica e l'addio al vaffa, il passo più lungo della gamba, lo 0,6 per cento. Entrato nella categoria dei vincenti che si sono smarriti, è ormai il come eravamo, "cchiù tiempo passa e cchiù mme n'allicordo, fresca era ll'aria e la canzona doce": era Di Maio, tanto tempo fa.

Da veritaeaffari.it il 5 ottobre 2022.

È stato il suo esordio nella caccia ai finanziatori della politica. Una partita finita malissimo per Luigi Di Maio, salvo che per l’elezione alla Camera del suo alleato Bruno Tabacci (ma non è stata una grande impresa: è alla sua settima legislatura). 

Se dal punto di vista politico Impegno civico è naufragato, almeno le casse non piangono. Perché sono stati non pochi i sostenitori del comitato elettorale dell’ex capo politico del Movimento 5 stelle. 

Il contributo più sostanzioso – 50 mila euro – è arrivato dall’Energas di Menale Diamante. Poi ci sono i 30 mila euro versati da Marco Rotelli (gruppo San Donato) che altrettanti ne ha donati al Pd di Enrico Letta. Altri 30 mila euro sono arrivati dall’Università privata Niccolò Cusano.

Venticinquemila in cassa dalla Sud Trasporti srl. E poi diecimila euro da Vincenzo Federico Sanasi D’Arpe, manager pubblico amministratore delegato della Consap. 

I soldi di Romeo

E 10 mila euro da Alfredo Romeo, il signore del facility management pubblico nonché editore de Il Riformista diretto non proprio da un fan di Di Maio come Piero Sansonetti. Altri 10 mila euro da Almas partecipazioni industriali di Paolo Scudieri, capo del gruppo Adler Pelzer finito questa estate alla ribalta delle cronache per l’incendio che ha distrutto il suo yacht appena acquistato per 25 milioni di euro al largo dell’isola di Formentera nelle Baleari. 

Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano e Lorenzo Giarelli per il “Fatto quotidiano” il 5 ottobre 2022.

[…] La disastrosa campagna elettorale di Luigi Di Maio e Impegno civico - 0,6% a livello nazionale e sconfitta nel collegio di Napoli - è stata foraggiata da circa 300 mila euro di donazioni private. La lista dei generosi, o scriteriati finanziatori contiene 44 voci, con gettoni compresi tra i 500 e i 50 mila euro. 

Nell'elenco non mancano le sorprese. La più grande è il nome di Alfredo Romeo, l'imprenditore napoletano protagonista dell'inchiesta Consip (per lui la procura ha chiesto 4 anni e 10 mesi) che iniziò a far scricchiolare il potere renziano, nonché editore del quotidiano Riformista. Romeo ha finanziato la campagna di Di Maio con un assegno da 10 mila euro (donati a titolo personale e non tramite la sua azienda, la Romeo Gestioni Spa).

[…] Nell'elenco figura un'altra donazione da 10 mila euro che porta il nome di Vincenzo Federico Sanasi D'Arpe, manager di antica fedeltà renziana che però nel 2020 fu nominato amministratore delegato di Consap (partecipata del Mef) sotto la regia del Movimento 5 Stelle. 

Ancora 10 mila euro arrivano dall'Almas Partecipazioni Industriali, l'impresa di Paolo Scudieri, che tra l'altro figura tra i soci del Comitato Leonardo, del quale Di Maio è a sua volta socio onorario. Trentamila euro invece sono donati da Marco Rotelli, figura con vent' anni nel mondo delle Ong […]

Trentamila euro sono arrivati anche dall'Università telematica Niccolò Cusano, che Di Maio ha visitato da ministro lo scorso 21 luglio, intrattenendosi per un colloquio privato di mezz' ora con il presidente dell'ateneo Stefano Bandecchi (coordinatore nazionale del partito alfaniano Alternativa Popolare). 

Tra le varie imprese (per lo più piccole e medie, nei settori trasporti ed energia) spicca la donazione più generosa di tutte: i 50 mila euro di Energas, fra le più importanti aziende italiane di Gpl. È la stessa Energas contro la quale Di Maio, ancora grillino, protestava nel 2015. […]

Di Maio fuori dal Parlamento, la triste parabola dell’ex leader grillino: sconfitto all’uninominale nella ‘sua’ Napoli. Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Settembre 2022.

 Per Luigi Di Maio è stata la giornata del ‘Disimpegno Civico’. Il movimento politico nato dalla scissione del ministro degli Esteri e dei suoi sodali dai 5 Stelle, ‘Impegno Civico’, si è rivelato un flop elettorale: i numeri parlano di un partito che non è riuscito a superare l’uno per cento, non contribuendo quindi al risultato complessivo della coalizione di centrosinistra, già deficitaria di per sé.

Dopo 10 anni in Parlamento, come vicepresidente della Camera prima e come ministro del Lavoro, dello Sviluppo Economico e degli Esteri poi, Di Maio infatti dovrà infatti continuare il suo impegno in politica fuori dai palazzi romani.

Secondo i dati YouTrend, il collegio uninominale Napoli Fuorigrotta della Camera dove era stato candidato col centrosinistra è andato all’ex ministro dell’Ambiente Sergio Costa (Movimento 5 Stelle), eletto deputato con il 41%. Sconfitti proprio Di Maio con il 23 per cento, Mara Carfagna (6% con Azione/Italia Viva) e Mariarosaria Rossi (22% col centrodestra).

Impossibile anche qualsiasi ipotesi di elezione per Di Maio nei collegi plurinominali, proprio perché Impegno Civico è sotto la soglia dell’1% dei voti.

Una sconfitta clamorosa quella di Di Maio e del centrosinistra, che arriva in un collegio considerato ‘blindato’ dal Nazareno nella ‘rossa’ Fuorigrotta, storicamente feudo della sinistra. Inutile il tour de force arrivato negli ultimi giorni di campagna elettorale dello stesso ministro degli Esteri, volato a Napoli promettendo in particolare la difesa del reddito di cittadinanza.

Una parabola impressionante quella di ‘Giggino’, passato in quattro anni da leader politico di un Movimento 5 Stelle arrivato al 33% nel 2018 alla scissione, la creazione di un suo movimento politico e il ‘suicidio elettorale’ di questa notte in compagnia di un Partito Democratico miope nella folle scelta di candidare un corpo estraneo alla sua storia in un collegio che ha deciso infine di ‘rigettarlo’. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

I ritratti di Max del Papa. Pancerina Di Maio: l’ex spiantato divenuto Sistema. Max Del Papa su nicolaporro.it il 28 Agosto 2022.

Com’è che faceva Paolo Panelli in “Grandi Magazzini”? “Si fa presto a dire una pancerina!”. Infatti, le opzioni sono tante, uno si confonde: lana-lana, cotone-cotone, cotone-lana, lana-cotone… Ecco, Luigi di Maio da Pomigliano d’Arco è la pancerina della politica: caldo, confortevole, rassicurante, però double face, difficile da indossare perché opinabile, cangiante nella continuità.

“Si fa presto a dire di Maio!”. Anni a ripetere che era una nullità, un vuoto a perdere, una bottiglietta allo stadio san Paolo, oggi Maradona, e intanto lui saliva a bordo, cazzo, galleggiava, trasbordava, e durerà, oh se durerà. Volete farmi la Wikipedia delle gaffe, degli sfondoni? Volete ricordare, per l’ennesima volta, Pinochet del Venezuela, mister Ping della Cina? Volete rispolverare gli attacchi – nessuno li ricorda più ma il nostro mestiere è anche la memoria – alla “lobby del malati di cancro”? Le mille incoerenze, dalla lotta alla casta all’imbarco dei paesani, come Alessia Montanino (“Chi mi critica è sessista, prenderò 72mila euro ma meriterei il doppio perché lavoro in due ministeri”) o dei compagni di scuola come Dario de Falco, già promosso alla segreteria di palazzo Chigi? Volete mettere in fila i salti mortali, dalla spedizione a Gaza (rifiutata, per forza, si era portato il fior dell’antisemitismo grillino…) a “noi stiamo con Israele”, dai gilet gialli a “con Macron senza tentennare”, dall’impeachment a Mattarella alla santificazione di Mattarella, dall’abolizione della povertà a “il reddito di cittadinanza è stato un errore”, e questa è freschissima? Accomodatevi, tanto per me è solo mitologia: non avendo una morale, sono catafratto ad ogni immoralità e me ne nutro per alimentare la leggenda.

Altro che bibitaro, fessacchiotto, analfabeta: Giggino ha capito, prima e meglio degli altri della sua generazione, l’antica arte della resilienza, come restare spostandosi di lato, come persistere in mutazione perenne restando se stesso. Anticasta castissimo ma rotto a tutti i compromessi: beh, che altro è la politica? Non si pratica a questo modo dai tempi delle puttane delle Piramidi? Azzimato, ma lo chiamano “’o Cazzimmato”, per quel cinismo garbato e feroce di stampo andreottiano. Basta guardargli gli occhi: due laghi fondi, inespressivi, da squaletto. Non ti attaccherà mai frontalmente, ti girerà intorno in cerchi sempre più stretti e, al momento giusto, scatterà felpato.

Ce l’aveva con le lobby, ma si è fatta la sua, Draghi è andato al Meeting dei ciellini leccatutto e, con umorismo bancario carogna, ha detto che di Maio ha contribuito al processo di pace essendo un ministro straordinario. Lui, neanche una piega, anzi ringrazia con deferenza cazzimmata: i banchieri passano, io resterò, oh se resterò. Hic manebimus optime, che sarà anche latinorum ma quel che c’è da imparare io lo imparo, glielo riconoscono pure i detrattori: Luigi sa stare al mondo. Il competitore diretto, lo sparafucile guevarista, Di Battista, è rimasto senza casa, con un pugno di fave in mano, lui non solo ha mollato la casa, ma ne ha fondata un’altra. Con chi? Col “partito di Bibbiano”, naturalmente, quello che egli considerava il Male totale. Volete dire che fa schifo? Accomodatevi, per me è tutta leggenda. È la politica, bellezza, e, come sbraitava Lino Banfi al “Bar dello Sport”, io non ci torno allo stadio a fare plin plin con le bottigliette. Tiene le sue ragioni, pur isso adda campà.

Bene, possibilmente. La vita è una giungla, lui ce l’ha fatta: Pomigliano prendeva 59 voti, alle primarie grilline 189 che gli bastano a entrare nel Paese dei Balocchi: partito da una società di profilazione dati, da una setta di un comico, è arrivato alla Farnesina e a forza di girare il mondo impara la geografia, impara a non confondere più Austria con Australia: perché, certe influencer che vaneggiano di aborti proibiti che fanno di meglio? Certi reggipalle del potere in fama di giornalisti, in cosa sarebbero meglio? Di Maio è solo uno che ha capito, si è adeguato, e vuol durare, a qualunque costo: dargli torto, con questi chiari di luna. La pancerina del Viminale: gliene dicono di ogni, insinuano perfino sulle attitudini erotiche, sulla presunta fidanzata dello schermo; lui, imperturbabile, sempre più c-azzimmato. E non replica, secondo lezione del vero potere. È passato da Conte a Draghi (e al prossimo, vedrete)? Dal Movimento alla staticità più risoluta? Embé? Travaglio può anche divertirsi a chiamarlo Giggino ‘a Poltrona, ma Giggino, con sorriso da squalo, manda a dire: che dobbiamo fare qui? Rendere note le tariffe a piè di lista dei grillini foraggiati da Putin? E non è una insinuazione giornalistica di ringhiera, badate bene. Difatti nessuno attacca “il rinnegato”, “il traditore”: qualche colpetto di cipria, i primi giorni, ma oh quanto tengono mascherinata la bocca gli ex compagni di setta! E anche il loro organo ufficiale gira alla larga.

‘O Cazzimmato sorride gelido e impeccabile: dite che non so far niente? Meglio, così non faccio danni. E se Draghi intende sfottermi alludendo al complesso di Murri, il medico che promuoveva i peggiori per risaltare meglio, ebbene si accomodi: alla fine sarà lui a scontare le responsabilità ed io lo azzannerò al momento giusto. Senza neppure dovermi sistemare la cravattina, che non mi tolgo neanche quando faccio la doccia. Perché la cravatta, sient’ammè, può essere il cappio al quale ti appendo e io di cravatte ne ho una collezione da fare invidia a Douglas Mortimer. Max Del Papa, 28 agosto 2022

Di Maio, l’ex pupillo Cinque Stelle (dai molti padri) che ora prova a diventare grande. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.

Dalla carriera lampo con il Movimento allo strappo con Conte. Il ritorno (forse) in Campania per cercare di strappare un seggio.

Quanti padri in questo nostro Paese dove si resta figli per sempre, fine pena mai. Uno, Beppe Grillo, onirico e onnipotente, che aveva bisogno di un facchino sveglio per diffondere il Verbo. Un altro, Gianroberto Casaleggio, che la vocazione del Pigmalione l’ha sempre avuta. Un terzo, quello biologico, missino per passione e mai eletto consigliere comunale a Napoli, che un po’ ha sofferto questo suo ragazzo scapocchione, che diventava prima deputato, poi vicepresidente della Camera e infine ministro e vicepremier, togliendogli il primato del maschio alfa della famiglia. Certo, quando pure Giuseppe Conte ha provato a fargli da padre, o per lo meno da fratellone maggiore, la voglia freudiana di mordere il freno e farlo fuori ha prevalso. Anche se è dovuto passare per la benedizione di Beppe Sala, per poi finire nelle mani amorevoli di Bruno Tabacci , possessore del simbolo che libera dalla schiavitù della raccolta delle firme per presentare la lista e che, affettuosamente, ha pronunciato l’impronunciabile: «Luigi Di Maio? È il più giovane dei miei figli».

Certo, il piano era spericolato, l’approccio impavido, il risultato oltre le previsioni. Portare via decine di deputati e senatori all’avvocato del popolo, rendere la sua levata di scudi ininfluente, sostituirlo nell’appoggio a Mario Draghi, svuotando a mano a mano i Cinque stelle. Ma non ha funzionato. Perché la politica ha tante variabili e Silvio Berlusconi e Matteo Salvini hanno deciso di ingoiare il rospo da girino, consegnandosi, in cambio di aver salva la vita, a Giorgia Meloni, e facendo naufragare il governo di larghe intese. Ma, se non si viene trafitti sul campo, all’ardire si dà una seconda chance, ed eccolo qui, Di Maio, a provarci di nuovo, o a cercarsi un impiego, come dicono quelli che lo hanno già sprofondato nel girone dei traditori.

Un metro e settanta per settantatré chili, nasce il 6 luglio del 1986 in quel di Avellino, sotto il segno del Cancro. Fortemente orientato alla difesa dei propri spazi, l’Uomo Cancro è governato dalla Luna, alcuni direbbero lunatico, il suo giorno fortunato è il lunedì, che, guarda caso, è anche quello che segue la domenica delle elezioni. Si trasferisce presto a Pomigliano D’Arco, sua patria d’adozione, e l’esordio in politica è da rappresentante degli studenti. Con successo li convince che non è il caso di occupare la scuola e che ci vuole il confronto con i professori, che vanno coinvolti nella soluzione dei problemi. Spirito rivoluzionario e animo consociativo saranno la misura della sua politica dai tratti bipolari. Frequenta il liceo dedicato a Paolo Emilio Imbriani, che riuscì a sfuggire alla condanna a morte dei Borbone ma non alla furia dei napoletani, quando, diventato sindaco, cambiò il nome di via Toledo con via Roma. Luigi si diploma con il massimo dei voti, e se qualcuno arriccia il naso su una presunta, eccessiva generosità dei docenti al Sud, nessuno può togliergli il fatto che la sua valutazione si esprime in centesimi, e non come per gli altri leader in sessantesimi, a testimonianza di quanto sia ancora giovane, quasi ragazzino.

Con la politica dei grandi ci prova una prima volta proprio al comune di Pomigliano D’Arco, con i Cinque stelle. Prende 59 voti, che neanche tutti i parenti lo sostengono, di sicuro non il padre, che aveva promesso la preferenza a un suo amico. Ma poi, inarrestabile slavina, l’elezione in Parlamento, ad appena 27 anni. In meno di un amen è vicepresidente della Camera, vicepremier insieme all’altro ragazzotto Matteo Salvini, ministro di due ministeri, Lavoro e Sviluppo economico, capo delegazione dei Cinque stelle al governo e ancora capo politico del Movimento, con tanto di benedizione di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. E siamo ormai, allora, appena ad anni 32.

Il bibitaro non l’ha fatto mai, non ha mai gridato «aranciata, birra, coca, caffè Borghetti» facendosi largo sugli spalti dello stadio, è una panzana, faceva invece lo steward, accompagnava i cosiddetti vip ai loro posti d’onore. Trascorsi che gli valgono una vignetta in cui, quando si parla per lui di un seggio sicuro nelle liste del Pd, Osho gli fa dire: «Sto diritto di Tribuna non c’entra col San Paolo, vero?». È il coronamento di una carriera sia come gaffeur che come amante dell’iperbole: il leader cinese che lui chiama Ping, la povertà abolita dal balcone di Palazzo Chigi, lo scivolone sui Gilet gialli e quello sull’impeachment di Sergio Mattarella, il giustizialismo su Bibbiano, la sbandata su Salvini che poi bollerà come l’uomo più falso che abbia mai conosciuto, per finire con qualche inciampo sui congiuntivi, costringendo la madre professoressa a giurare che a casa loro si mangia pane e consecutio temporum.

Ora, all’età di 36 anni, Luigi Di Maio dovrebbe tornare dove tutto è cominciato, in Campania, a combattere per un seggio uninominale. Anche se la destinazione non è ancora certa. Lì comunque non troverebbe l’amico di un tempo, Roberto Fico, azzoppato dalla regola dei due mandati. Virginia Raggi e Alessandro Di Battista gli gridano da sotto il balcone, poco rassicuranti: «Scendi, che dobbiamo parlare», ma sono già impegnati ad aspettare di fuori tanti altri, a cominciare da Giuseppe Conte. Grillo dice che non è ambizioso, ma punta al massimo a un impiego da mezze maniche al ministero, e Grillo è uomo d’onore. E quindi un brivido percorre la Penisola: ce li ha un po’ di voti o è tornato quello che prendeva appena 59 preferenze a Pomigliano D’Arco?

Dov’è Di Maio? Il pagliaccio, i senatori e il terrore della classe dirigente di passare per intellettuale. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Agosto 2022

Quando è un comico come Luca Bizzarri a dover ricordare a politici come Salvini, Calenda e soprattutto Di Maio che il loro ruolo pubblico e istituzionale impone standard di comportamento adulti, la sensazione è di ritrovarsi nel remake di “Dov’è Mario?” di Corrado Guzzanti

«Non ci sono più confini, siamo tutti uguali, Totti e Zagrebelsky, Moni Ovadia e Lory Del Santo, è la fine degli steccati culturali, Nanni Moretti ha firmato per uno spot della Lavazza». Dov’è Mario? è del 2016, e sembra scritto domani. Sembra un editoriale – però più divertente degli editoriali medi – a proposito dei politici su Twitter. Di quei politici che vogliono essere Totti e Lory Del Santo.

Ieri ho aperto Twitter, avevo appena finito di rivedere su Sky Dov’è Mario?, Veltroni nel ruolo di Veltroni aveva appena finito di lodare Corrado Guzzanti nel ruolo di Mario Bambea – l’intellettuale il cui disturbo post-traumatico consisteva in uno sdoppiamento di personalità, la notte diventava un comico greve che si vantava di non aver mai letto un libro – Veltroni aveva appena finito di complimentarsi con Bambea per aver finalmente conciliato «l’alto e il basso della cultura, Wittgenstein e Napo Orso Capo», quando su Twitter mi è apparso Luca Bizzarri che rispondeva a Di Maio.

A Di Maio che a sua volta rilanciava Calenda (che al mercato mio padre comprò), giacché Twitter è una ricreazione della seconda media in cui tutti vogliono l’ultima parola prima di rientrare in classe (classe in cui non paiono rientrare mai, o comunque nessuno pare interrogarli o bocciarli: molto Napo Orso Capo e pochissimo Wittgenstein).

Nello sdoppiamento delle pubbliche personalità, Bizzarri dovrebbe essere Bizio Capoccetti (l’identità dissociata di Guzzanti, quello che fa molto ridere ma poi ti vergogni d’avere riso), e coloro che ci governano o ambiscono a governarci dovrebbero essere Mario Bambea, l’identità ufficiale, seriosa, così trombona da avere il bagagliaio pieno di libri invenduti, così ligia da rischiare l’impopolarità, così diversa da noi, «io faccio teatro civile, tu fai teatro incivile».

E invece, è proprio Bizzarri che si prende il disturbo di farlo notare quando Salvini o altri gli rispondono sui social, quando nella ricreazione di seconda media vogliono avere l’ultima parola con uno che di professione fa il comico e tu sei così allocco che è proprio quella la Caporetto che ti scegli, proprio un professionista quello con cui vuoi avere l’ultima battuta – e invece, dicevo prima di perdermi in cinquantasette subordinate, quella questione dei ruoli non la capiscono.

Pensano, come l’agente di Bambea, che ormai Wittgenstein possa – debba – dialogare con Lory Del Santo, e non importa quanto Bizzarri si sgoli a dirgli che, se il senatore risponde al pagliaccio, è il senatore che diventa pagliaccio, mica il pagliaccio che diventa senatore: loro sanno di vivere nella società dello spettacolo.

E quindi ieri mattina mi appare questo tamponamento a catena, in cui (spero di non perdere dei pezzi): Di Maio in un programma di La7 dice «Saremo la sorpresa di queste elezioni»; Calenda rilancia il tweet di La7 parlando di «sollievo fisico di non dover pensare a Di Maio come alleato»; il «cicca cicca» prosegue con Di Maio che rilancia il tweet di Calenda rispondendo che «il sollievo è reciproco» e «saluta Renzi» (dev’essere un restyling di «salutame ’a soret’»).

A quel punto interviene Bizzarri (quando sono i pagliacci a dover spiegare il senso delle opportunità alle istituzioni, la situazione è grave) facendo notare che, sotto il nome di Di Maio, c’è scritto «Italia – Funzionario di Stato».

Non se l’è scritto Di Maio, eh: è una scelta di Twitter, un posto dove sono così ingenui da pensare che lavorare per un governo faccia di te una persona seria (una convinzione ben bislacca, per un’azienda nata nella nazione che ha avuto per capo Trump; ma in effetti gli unici ad aver detto a Trump «adesso basta» sono stati loro: stai a vedere che i social, con la clientela poco seria che si ritrovano, sono gli unici posti gestiti seriamente).

Cliccando su «Funzionario di Stato», Twitter mostra le regole con cui attribuisce queste etichette: «La nostra attenzione è rivolta agli alti funzionari e alle entità che rappresentano la voce ufficiale di uno Stato-nazione all’estero, con particolare riferimento agli account dei più importanti funzionari governativi, inclusi ministri degli esteri, entità istituzionali, ambasciatori, portavoce ufficiali, funzionari della difesa e importanti leader diplomatici. Laddove gli account non svolgano alcun ruolo come canale di comunicazione geopolitico o ufficiale del governo, non li contrassegniamo».

A parte l’uso analfabeta di «Laddove» (non lo sanno usare i giornalisti, possiamo pretenderlo da gente che si occupa di cuoricini?), la domanda è: «il sollievo è reciproco, saluta Renzi» è un messaggio da canale di comunicazione geopolitico? O, come suggerisce il pagliaccio Bizzarri, «Se quando giocate a chi ce l’ha più lungo evitaste di utilizzare profili con su scritto “Funzionario di Stato” fareste fare più bella figura al paese. Vi fate il profilo “adolescente” e da lì fate tutte le gare che volete»?

C’è un punto, in Dov’è Mario?, in cui Bambea, ospite in una specie di Radio3, riceve la telefonata d’un ascoltatore, Antonio, che protesta: «È da un’ora che v’ascolto, e ’nciò capito ’n cazzo, ma voi siete pagati per famme senti’ ’n coglione? E voi sareste la guida morale de ’sto cazzo de paese?». Nessuno vuol essere Wittgenstein, e tutti vogliamo essere Totti, perché abbiamo il terrore dell’ascoltatore Antonio, abbiamo il terrore dell’Ennio Fantastichini che in Ferie d’agosto diceva «voi intellettuali fate tanto i sofistici». Non temiamo di passare per pagliacci: temiamo di passare per utilizzatori elitari di quadrisillabi bisdruccioli.

Chiedeva sottovoce e con terrore il conduttore radiofonico a Bambea: «Te ce l’hai Twitter, Mario? Non installarlo mai, mai». Bisognerà dare retta a Bizzarri? Sarà il caso che ogni Wittgenstein con ambizioni da Lory Del Santo si faccia un secondo profilo? Sarà, come diceva Guzzanti facendosi la critica culturale del proprio prodotto all’interno del prodotto stesso, che quest’espediente del döppelganger è da bollitissima commedia all’italiana? E, se è un Capoccetti a dover dare saggi consigli ai Bambea della classe dirigente, non significherà che la catastrofe è inevitabile?

Da corriere.it il 3 agosto 2022.

Alessandro Di Battista torna ad attaccare l’ex amico e compagno di Movimento: «Luigi Di Maio non ha un voto. Chi conosce il fanciullo di oggi, lo evita. Trasformista, disposto a tutto, arrivista, incline al più turpe compromesso pur di stare nei palazzi», scrive l’ex deputato 5 Stelle che lasciò il M5S in disaccordo sul sostegno al governo Draghi. 

Secondo quanto riporta l’Adnkronos, Di Battista si sarebbe sentito al telefono ieri pomeriggio con il leader M5S Giuseppe Conte, una chiamata «franca e cordiale». Sul tavolo, l’eventuale candidatura di uno dei volti più amati del Movimento della prima ora, che avrebbe chiesto all’ex premier delle garanzie politiche per tornare in campo.

Oggi che quindi non è più tanto remota la possibilità di un suo «ritorno a casa» e dopo la totale disponibilità già annunciata da Conte — «Alessandro Di Battista è una persona seria, assolutamente leale. Ci confronteremo con lui e vedremo se condividerà questo nuovo percorso con queste regole statutarie e questa carta dei principi e dei valori» — «Dibba» scrive un lungo post su Facebook per commentare la decisione del Pd di Enrico Letta di candidare Di Maio nel listone «Democratici e progressisti» in cui troveranno posto tutti gli alleati della coalizione a guida Pd-Azione che altrimenti non riuscirebbero a strappare un seggio con il proporzionale:

«Perché il Pd dovrebbe concedergli il “diritto di tribuna” — sostiene Di Battista —, un modo politicamente corretto per descrivere il solito paracadute sicuro, tipo la Boschi candidata a Bolzano nel 2018? Perché? Che rassicurazioni ha avuto mesi fa, quando portava, insieme a Grillo, il Movimento 5 Stelle tra le braccia di Draghi? Queste sono domande che dovrebbero avanzare i giornalisti. Ma, salvo rare e preziose eccezioni, oggi i giornalisti a Di Maio non chiedon nulla. Lo trattano come Mazzarino nonostante abbia dilapidato un consenso colossale costruito con il sudore della fronte anche (e soprattutto) di persone che non hanno chiesto mai nulla in cambio».

L’antico sodalizio

L’ex deputato— al momento impegnato a scrivere reportage dalla Russia — si chiede perché il leader di Azione Carlo Calenda abbia fatto cadere il veto sul ministro degli Esteri: «Calenda che fino a poche ore fa fingeva attacchi di orticaria al solo sentir pronunciare il nome di Di Maio sta zitto e buono. Ha ottenuto poltrone su poltrone e gli basta così. 

La politica ridotta ad un ufficio di collocamento». Le parole più dure però sono per l’ex capo politico dei 5 Stelle: «Il Di Maio che ricordo io — ai tempi dell’onestà intellettuale o della fraudolenta recitazione — detestava il Pd come null’altro. Oggi, a quanto pare, il suo nome comparirà sotto il simbolo del Pd. Beh, se così fosse vi sarebbe una ragione in più per non votarli e per non avere nulla a che fare con loro. Questa è la politica politicante, ciò che più impedisce il cambiamento, ciò che è più distante dalle esigenze dei cittadini, dai loro drammi. Ciò che più allontana gli italiani dalle urne. Ciò che più indebolisce quel che resta della democrazia». 

Insieme per il futuro e Impegno civico

Il post arriva dopo gli insulti ai fuoriusciti del fondatore e garante M5S Beppe Grillo, che lunedì li aveva «schedati» tutti nell’album delle figurine zombie. Anche Di Battista, come Grillo, prevede «l’estinzione» per la nuova avventura politica di Di Maio: «In tutto ciò qua si “rischia” un rapido decesso anche per “Impegno Civico (per le natiche di Di Maio)”. 

Dopo “Insieme per la Colla Vinilica” (Insieme per il futuro, ndr) un nuovo, fondamentale, strumento per la democrazia, potrebbe scomparire a breve. Complimenti vivissimi a quei 65 fenomeni che gli sono andati dietro nella speranza di un posizionamento. Un po’ come Aldo in “Tre uomini e un gamba” adesso non possono né scendere né salire, né scendere né salire. Ma forse anche per loro c’è un “sentiero”. Tornino dignitosamente alle loro vite evitando di postare foto di Di Maio come fosse uno statista. Uno Statista pensa allo Stato, Di Maio pensa a se stesso».

Il ritorno di Di Battista: "Di Maio, chi lo conosce lo evita". La Repubblica il 3 Agosto 2022.

L'ex esponente 5 stelle attacca su fb: "Trasformista e arrivista. Ha portato, con Grillo, M5s tra le braccia di Draghi"

"Luigi Di Maio non ha un voto. Chi conosce il fanciullo di oggi, lo evita. Trasformista, disposto a tutto, arrivista, incline al più turpe compromesso pur di stare nei palazzi. Perché il Pd dovrebbe concedergli il 'diritto di tribuna', un modo politicamente corretto per descrivere il solito paracadute sicuro, tipo la Boschi candidata a Bolzano nel 2018? Perché?". Lo scrive su Facebook Alessandro Di Battista, tornato in Italia dopo il viaggio in Russia nel quale ha realizzato un reportage del Paese.

"Che rassicurazioni ha avuto mesi fa - continua Di Battista -, quando portava, insieme a Grillo, il Movimento 5 Stelle tra le braccia di Draghi? Queste sono domande che dovrebbero avanzare i giornalisti. Ma, salvo rare e preziose eccezioni, oggi i giornalisti a Di Maio non chiedono nulla. Lo trattano come Mazzarino nonostante abbia dilapidato un consenso colossale costruito con il sudore della fronte anche (e soprattutto) di persone che non hanno chiesto mai nulla in cambio", conclude l'ex parlamentare 5 stelle, a cui ha in qualche modo aperto anche Giuseppe Conte. "Tutti mi chiedono di Alessandro Di Battista, è una persona seria e generosa che ha dato un grande contributo alla vittoria del M5s. Sul suo rientro ne discuteremo, ora c'è un nuovo percorso. Ci confronteremo in modo leale", ha dichiarato il presidente del Movimento.

"Calenda che fino a poche ore fa fingeva attacchi di orticaria al solo sentir pronunciare il nome di Di Maio sta zitto e buono. Ha ottenuto poltrone su poltrone e gli basta così. La politica ridotta ad un ufficio di collocamento. Il Di Maio che ricordo io, ai tempi dell'onestà intellettuale o della fraudolenta recitazione, detestava il Pd come null'altro - ha aggiunto Di Battista -. Oggi, a quanto pare, il suo nome comparirà sotto il simbolo del Pd. Beh, se così fosse vi sarebbe una ragione in più per non votarli e per non avere nulla a che fare con loro. Questa è la politica politicante, ciò che più impedisce il cambiamento, ciò che è più distante dalle esigenze dei cittadini, dai loro drammi. Ciò che più allontana gli italiani dalle urne. Ciò che più indebolisce quel che resta della democrazia".

"In tutto ciò - scrive ancora Di Battista - qua 'si rischia' un rapido decesso anche per "Impegno Civico (per le natiche di Di Maio)". Dopo "Insieme per la Colla Vinilica" un nuovo, fondamentale, strumento per la democrazia, potrebbe scomparire a breve. Complimenti vivissimi a quei 65 fenomeni che gli sono andati dietro nella speranza di un posizionamento. Un pò come Aldo in "Tre uomini e un gamba" adesso non possono né scendere né salire, né scendere né salire. Ma forse anche per loro c'è un "sentiero". Tornino dignitosamente alle loro vite evitando di postare foto di Di Maio come fosse uno statista. Uno Statista pensa allo Stato, Di Maio pensa a se stesso", conclude Di Battista.

 Burrasca 5Stelle, Grillo: «Si passi dagli ardori giovanili alla maturità».  Il Garante interviene dopo la lettera con cui Luigi Di Maio si è dimesso dal comitato di garanzia. Il partito: «Giusto passo indietro, ci ha messo in difficoltà». Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.

Acque sempre più agitate dentro il Movimento cinque stelle. Oggi a sorpresa il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha annunciato le sue dimissioni da presidente e membro del comitato di garanzia del Movimento. Lo ha fatto con una lettera inviata al presidente Giuseppe Conte e al garante Beppe Grillo dopo che, nei giorni convulsi per l’elezione del presidente dello Stato, dentro il M5s si era consumato uno scontro sul nome della direttrice del Dis Elisabetta Belloni per il Colle, che aveva portato Conte a parlare di «condotte molto gravi».

Di Maio ha sottolineato come all’interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci. «Tutte le anime, anche chi la pensa in maniera diversa, devono avere spazio e la possibilità di esprimere le proprie idee. Il Movimento è casa nostra ed è fondamentale ascoltare le tante voci esistenti, e mai reprimerle», ha scritto il ministro, denunciando la degenerazione del dibattito in «scissioni, processi, gogne», con le quali si è voluto «screditare la persona».

Poco dopo l’annuncio è intervenuto il Garante del Movimento, Beppe Grillo, pubblicando un post sul suo blog, dal titolo «5 stelle polari». Grillo ha sottolineato come oggi il Movimento sia chiamato «a passare dai suoi ardori giovanili alla sua maturità, senza rinnegare le sue radici ma individuando percorsi più strutturati per realizzarne il disegno». Il fondatore del M5s ha fatto poi riferimento a quali devono essere le cinque stelle polari da ricordare per portare avanti il progetto e le aspirazioni dei pentastellati, «che ricordano le cinque parole chiave delle proposte di Italo Calvino per il nuovo millennio, e che vorremmo oggi realizzare con indicazioni concrete e strutturate»: ovvero leggerezza (riferendosi ad modello sostenibile, di economia circolare), rapidità ( sistema di attuazione delle regole rapido e decentrato), esattezza (un sistema di regole certe e prevedibili), visibilità (assicurare trasparenza e accesso ai dati personali) e molteplicità (estendere la partecipazione dei cittadini alle decisioni della politica e rafforzare la democrazia partecipativa diretta). Le proposte di Grillo riguardano l’estensione dei referendum consultivi, per esempio come avviene in Svizzera da decenni; la rotazione o limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione; il coinvolgimento dei percettori di ammortizzatori sociali in attività di utilità sociale.

Alla riflessione di Grillo è seguita quindi una nota del Movimento, che ha invitato a concentrarsi «progetti e programmi». «Il giusto e dovuto passo indietro di Luigi Di Maio rispetto al suo ruolo nel Comitato di garanzia costituisce un elemento di chiarimento necessario nella vita del Movimento rispetto alle gravi difficoltà a cui ha esposto la nostra comunità, che merita un momento di spiegazione in totale trasparenza», si legge nella nota M5S. «Il confronto delle idee e la pluralità delle opinioni – si legge nella nota del Movimento – non è mai stata in discussione. Questo però non significherà mai permettere che i nostri impegni con gli iscritti e con i cittadini siano compromessi da percorsi divisivi e personali, da tattiche di logoramento che minano l’unità e la medesima forza politica del Movimento» 

«Basta scissioni, processi e gogne. Mi dimetto». Di Maio scrive a Grillo e Conte. Luigi Di Maio lascia il comitato di garanzia del M5s. La lettera: «Penso che all’interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci». Il partito: «Giusto passo indietro». Il Dubbio il 5 Febbraio 2022.

Luigi Di Maio si dimette dal comitato di garanzia del M5s e scrive al presidente Giuseppe Conte e al garante Beppe Grillo. Una lettera, visionata dall’Adnkronos, in cui si invita ad ascoltare le diverse anime del movimento e ad aprirsi a un confronto «che ci permetta davvero di rilanciare il nuovo corso del Movimento 5 Stelle».

«Sono state giornate intense – è l’incipit della lettera – L’elezione del Presidente della Repubblica è un momento importante per la democrazia parlamentare, un momento in cui viene fatta una scelta che segna la storia della Repubblica per i successivi sette anni. Dopo la rielezione del presidente Sergio Mattarella, ho proposto di avviare una riflessione interna al Movimento. Penso che all’interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci. Tutte le anime, anche chi la pensa in maniera diversa, devono avere spazio e la possibilità di esprimere le proprie idee. E lo dico perché anche io in passato ho commesso degli errori su questo aspetto, errori che devono farci crescere e maturare. Sarebbe sbagliato, invece, fare passi indietro».

«Tutti avranno notato – prosegue Di Maio – che in questi giorni il dibattito interno è degenerato, si è iniziato a parlare di scissioni, processi, gogne. Si è provato a colpire e screditare la persona. Mi ha sorpreso, anche perché è proprio il nuovo statuto del Movimento che mette l’accento sul rispetto della persona.  Ho apprezzato molto il tentativo di chi in questi giorni, a partire dai capigruppo e da Beppe Grillo, ha provato a favorire un dialogo sereno e super partes, tra diverse linee di pensiero. Continuo a pensare che sia fondamentale confrontarsi dentro il Movimento, perché il Movimento è casa nostra, ed è fondamentale ascoltare le tante voci esistenti, e mai reprimerle».

«Io sarò tra le voci che sono pronte a sostenere il nuovo corso, mantenendo la libertà di alzare la mano e dire cosa non va bene e cosa andrebbe migliorato – rivendica Di Maio – Qui si vince o si perde tutti insieme, perché siamo una comunità che si basa sulla pluralità di idee, soprattutto in questo momento difficile per il Movimento 5 Stelle, che deve però riuscire a trovare le soluzioni per difendere la dignità dei cittadini e sostenere il mondo produttivo ancora alle prese con la pandemia. Spetta poi al presidente fare la sintesi e tracciare la strada da seguire. Ma l’ascolto è importantissimo».

«Mi rendo conto – prosegue il ministro degli Esteri – che per esprimere queste idee, seppur in maniera propositiva e costruttiva, non posso ricoprire ruoli di garanzia all’interno del Movimento. Non lo ritengo corretto. Per questo motivo, ho deciso di dimettermi da presidente e membro del Comitato di Garanzia del MoVimento 5 Stelle. Ringrazio gli iscritti che mi avevano votato ed eletto, ringrazio Virginia e Roberto che mi avevano votato presidente, ringrazio Beppe per la fiducia nell’avermi indicato nella rosa dei potenziali membri del Comitato. Ho preso questa decisione perché voglio continuare a dare il mio contributo, portando avanti idee e proposte. Voglio dare il mio contributo sui contenuti, voglio continuare a fare in modo che si generi un dibattito positivo e franco all’interno della nostra comunità. Un confronto che ci permetta davvero di rilanciare il nuovo corso del Movimento 5 Stelle. Se rimaniamo uniti, con le idee di tutti, torneremo a essere determinanti. Grazie a tutti per l’affetto e viva il Movimento», conclude Di Maio.

«Il giusto e dovuto passo indietro di Luigi Di Maio rispetto al suo ruolo nel Comitato di garanzia costituisce un elemento di chiarimento necessario nella vita del Movimento rispetto alle gravi difficoltà a cui ha esposto la nostra comunità, che merita un momento di spiegazione in totale trasparenza», replica dopo qualche ora il partito. «Il confronto delle idee e la pluralità delle opinioni – si legge nella nota del Movimento – non è mai stata in discussione. Questo però non significherà mai permettere che i nostri impegni con gli iscritti e con i cittadini siano compromessi da percorsi divisivi e personali, da tattiche di logoramento che minano l’unità e la medesima forza politica del Movimento. Adesso è il momento di concentrarsi su progetti e programmi, come ci viene suggerito proprio oggi da Beppe Grillo con una riflessione ispirata alle Lezioni americane di Italo Calvino».

Lo strappo di Di Maio: "Sono stato screditato, mi dimetto da garante". E Grillo rifonda M5s: "Limiti alle cariche". Domenico Di Sanzo il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L’ex capo politico accusa Conte per gli attacchi personali e spiazza tutti: se voglio dire che cosa non mi va, devo lasciare quell’incarico. La replica dei vertici: ci ha messi in difficoltà. Il comico richiama il Movimento alla "maturità". 

Non è uno strappo, né una ricucitura. È un rilancio. Luigi Di Maio gioca d'anticipo, prevede le mosse di Giuseppe Conte e annuncia le sue dimissioni da componente del Comitato di garanzia del M5s. Il leader del nuovo corso avrebbe preferito dare le carte, costringere il ministro al passo indietro dopo una bella ramanzina in pubblico, davanti agli iscritti. Non in punta di Statuto, ma facendolo battere in ritirata sull'onda dell'indignazione della base. E invece Di Maio sorprende tutti. Scrive una lettera indirizzata a Conte e a Beppe Grillo. Spiega i motivi alla base della sua scelta. Non una scissione, dunque. Ma l'inizio di quel «confronto interno» che, c'è da scommettere, durerà più dello spazio di un'assemblea in streaming. Almeno fino alle elezioni politiche del 2023, passando per le amministrative di primavera. L'ex capo politico attacca Conte: «Il dibattito è degenerato, si è iniziato a parlare di scissioni, processi, gogne. Si è provato a screditare la persona». Il bersaglio è il presidente del M5s, che si prepara a convocare l'assemblea pubblica la settimana prossima. Un confronto aperto a militanti e parlamentari, che però a questo punto potrebbe diventare l'ennesimo sfogatoio. Complesso procedere a un'espulsione per correntismo, bruciata la carta della cacciata dal terzetto dei garanti. Anzi, Di Maio rivendica la possibilità di «dare un contributo, portando avanti idee e proposte». È un passo indietro, ma anche un passo avanti: «Mi rendo conto che per esprimere queste idee, seppur in maniera propositiva e costruttiva, non posso ricoprire ruoli di garanzia all'interno del Movimento». Insomma, Di Maio vuole tenersi le mani libere. Il ministro vuole mantenere «la libertà di alzare la mano e dire cosa non va bene». L'ex capo politico respinge le sirene centriste e dice: «Il M5s è la mia casa».

Dal punto di vista del ministro si tratta di un'operazione win win. Sarà libero dai lacci di un ruolo super partes e nel Comitato di garanzia lascia Virginia Raggi e Roberto Fico che non gli sono ostili. Conte insiste per avere una legittimazione con un voto della base sul suo operato. Ma l'ex premier è spiazzato. I vertici del partito in una nota parlano di «passo indietro giusto e dovuto». Nella gelida replica il gruppo dirigente va all'attacco di chi «ha esposto la nostra comunità a gravi difficoltà». Interviene anche Beppe Grillo. In un post sul blog dal titolo 5 Stelle polari guarda al passato, anche se dice che il M5s «deve passare dagli ardori giovanili alla maturità». Grillo ricicla cavalli di battaglia storici. Dall'estensione dei referendum al whistleblowing fino all'economia circolare. Poi rispolvera il limite al doppio mandato parlando di «rotazione o limiti alla durata delle cariche». I contiani ci vedono una stoccata a Di Maio, che se venisse confermato il tetto non potrebbe ricandidarsi. I parlamentari di tutte le correnti sono preoccupati per le loro chances di ricandidatura. Nei gruppi si tifa per la pace. «Con questi litigi perderemo ancora più consensi, a partire dalle comunali a primavera», dice al Giornale un parlamentare. E Grillo? «Si è rotto le scatole, spera che si chiuda questa lite», dice chi gli ha parlato. Deputati e senatori autonomi sono sbandati e i tanti che sperano in una tregua auspicano anche un rimpasto delle cariche interne. Ritocchi ai vicepresidenti e ai componenti dei comitati, ma Di Maio cerca di frenare le ambizioni dei delusi e si riprende la scena. Domenico Di Sanzo

IL CAOS NEL M5S. Il Movimento risponde a Di Maio: le sue dimissioni sono un «atto dovuto». Il Domani il 05 febbraio 2022. 

Il ministro degli Esteri annuncia il ritiro dal comitato di garanzia del Movimento. Beppe Grillo risponde sul suo blog e il movimento, in una nota, chiede di non permettere che gli impegni presi con gli iscritti vengano compromessi da «percorsi personali e divisivi»

Caro nemico, ti scrivo così mi distraggo un po’. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha deciso di scrivere una lettera pubblica a Beppe Grillo e Giuseppe Conte dopo la contrapposizione aperta sulla vicenda Quirinale. Nella lettera Di Maio ha annunciato le dimissioni dal comitato di garanzia del Movimento cinque stelle per avere la possibilità di esprimere le sue idee anche in dissenso quindi dal capo politico.

Beppe Grillo, che ricopre il ruolo di garante all’interno del movimento, è intervenuto sul suo blog chiedendo che la «rivoluzione democratica» passi «dai suoi ardori giovanili alla sua maturità». Tra le cinque priorità da realizzare, scrive Grillo, la «rotazione o limiti alla durata delle cariche, anche per favorire una visione della politica come vocazione e non come professione». Eventualità che porterebbe Di Maio e la maggior parte dei suoi fuori dai giochi.  

PLURALITÀ DI IDEE

Nel suo messaggio Di Maio dice che spetta al presidente fare la sintesi delle diverse posizioni, ma rivendica la necessità di confronto: «Io sarò tra le voci che sono pronte a sostenere il nuovo corso, mantenendo la libertà di alzare la mano e dire cosa non va bene e cosa andrebbe migliorato. Qui si vince o si perde tutti insieme, perché siamo una comunità che si basa sulla pluralità di idee, soprattutto in questo momento difficile per il Movimento cinque Stelle, che deve però riuscire a trovare le soluzioni per difendere la dignità dei cittadini e sostenere il mondo produttivo ancora alle prese con la pandemia». 

Ma secondo il movimento «il confronto delle idee e la pluralità delle opinioni» non sono mai stati in discussione. Anche se ciò non significa dare spazio a «percorsi divisivi e personali», «tattiche di logoramento che minano l’unità e la medesima forza politica» del M5s. 

LE DIMISSIONI

«Mi rendo conto», scrive il ministro degli Esteri motivando la scelta delle dimissioni, «che per esprimere queste idee, seppur in maniera propositiva e costruttiva, non posso ricoprire ruoli di garanzia all'interno del Movimento». Seguono i ringraziamenti agli iscritti ma anche a «Beppe per la fiducia nell'avermi indicato nella rosa dei potenziali membri del Comitato». 

Di Maio ricopriva l’incarico di presidente all’interno del comitato di garanzia, organo che «sovrintende alla corretta applicazione delle disposizioni dello statuto», come si legge nel documento alla base dell’organizzazione del movimento. Gli altri due membri sono Virginia Raggi e Roberto Fico. 

Veleni, veline e processi. Il mese dei lunghi coltelli. Domenico Di Sanzo il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Dalla guerra delle notizie alle accuse a Fraccaro al caso Belloni, per i 5s un gennaio sull'ottovolante. Fuochi che covavano sotto la cenere, rivalità nascoste da cortesie di facciata, ambizioni contrapposte, ego in convivenza forzata. La sensazione è che prima o poi doveva succedere. E la lunga partita che ha portato alla rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale è stata solo la scintilla che fatto detonare la bomba nel M5s. Oppure la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Con Beppe Grillo alle prese con i guai giudiziari del figlio Ciro e, da ultimo, con l'inchiesta della Procura di Milano sul caso Moby-Onorato, i duellanti del Movimento hanno vissuto un mese sull'ottovolante. In un susseguirsi di giornate in cui gli osservatori hanno fatto fatica a distinguere la dialettica politica dall'acredine personale. Quello che era il monolite di Grillo e Gianroberto Casaleggio sta assumendo sempre più le sembianze di un mostro dalle mille teste, ingovernabile e scosso da nevrosi difficili da diagnosticare. E allora tutti sulle montagne russe. Il grande equivoco che scompagina il grillismo è il Quirinale. Giuseppe Conte passa da un sì a Mario Draghi al Colle coltivando la speranza del voto anticipato a una posizione da scheggia impazzita. Luigi Di Maio tiene la stabilità come bussola e comincia ad accarezzare l'idea di un premier che diventa capo dello Stato. In mezzo le pedine che poi si sono rivelate determinanti. Quei 233 parlamentari orfani di una linea che hanno forzato sul bis di Mattarella.

Il mese del big bang inizia il 3 gennaio. Quando i senatori pentastellati si riuniscono su Zoom e chiedono di rieleggere l'attuale presidente della Repubblica. Tutti sanno che sarebbe la soluzione più facile per congelare governo e legislatura, eppure un mese fa a dirlo è solo un bel gruppo di eletti del M5s a Palazzo Madama. Il ministro degli Esteri rimane in silenzio, Conte sbanda, non fa nomi e tranquillizza la truppa: «Il governo deve andare avanti». La confusione diventa psicotica dopo il vertice del 19 gennaio con Enrico Letta e Roberto Speranza a casa del capo grillino. I giallorossi si esibiscono con tre tweet fotocopia a ostentare compattezza. Poi parte una velina in cui fonti del M5s escludono perentoriamente l'approdo di Draghi al Colle. Dimaiani e contiani si accusano a vicenda di voler intorbidare la acque. Lo spettacolo ha un epilogo poco edificante. Arriva un'altra velina anonima che smentisce quella precedente: «Non abbiamo fatto nomi».

Il resto è storia recentissima. Nel vivo del risiko quirinalizio Riccardo Fraccaro finisce al centro dei sospetti per presunte promesse di pacchetti di voti a Matteo Salvini su Giulio Tremonti. Conte viene tacciato di flirtare con il segretario della Lega, in una riedizione dell'esperienza gialloverde. Prima Franco Frattini e poi Elisabetta Casellati sono la pietra dello scandalo nella guerra tra bande. Ancora note anonime che sbugiardano quelle diffuse pochi minuti prima. Il conflitto diventa a viso aperto sull'altra Elisabetta, Belloni. «Il casus Belloni dello scontro tra Giuseppe e Luigi», ci scherzano su i parlamentari. Conte tira fuori dal cilindro il capo dei servizi segreti e adesso giura che l'idea era condivisa sia con Letta sia con Di Maio. Ciò che accade nella notte tra venerdì 28 e sabato 29 gennaio è un giallo. Si dice che il ministro degli Esteri abbia bloccato la candidatura di Belloni in tandem con il titolare della Difesa Lorenzo Guerini. La trattativa per eleggere il capo dello Stato si incarta tra le perfidie degli stellati. Con Conte che cerca di portare Grillo dalla sua parte e lo convince a fare un tweet. «Beppe, è fatta avremo la prima presidente donna!». Il comico twitta controvoglia e scatena il pandemonio. Di Maio si adira per il metodo con cui si bruciano i nomi. I buoi sono scappati dalla stalla. Sabato 29 il titolare della Farnesina parla circondato dai suoi e chiede chiarimenti interni. Stessa richiesta avanzata da Conte qualche ora prima. E ora - anche se dovesse scoppiare la pace - nulla sarà più come prima. Domenico Di Sanzo 

Tutti i segreti sulla guerra Conte-Di Maio. Francesco Curridori il 5 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Luigi Di Maio e Giuseppe Conte sono pronti alla resa dei conti per il contollo del M5S. I grillini si schierano. Ecco chi sta con chi.

Luigi Di Maio e Giuseppe Conte sono ai ferri corti. Ognuno pretende chiarimenti all'altro ed entrambi hanno già schierato le truppe in vista della battaglia finale per la guida del M5S.

Da una parte il ministro degli Esteri che, secondo i contiani, avrebbe lavorato per affossare la candidatura del capo del Dis, Elisabetta Belloni, alla presidenza della Repubblica. Un'accusa smentita dal pranzo di lavoro avuto di recente sui profili social del titolare della Farnesina. I dimaiani, invece, accusano i sostenitore di Giuseppe Conte di aver innescato una campagna social contro il loro leader che, al momento, controlla il maggior numero di parlamentari. Tra Camera e Senato, i fedelissimi di Di Maio sono una 50ina, molti al secondo mandato ma sono molti anche tra coloro che sono alla esperienza in Parlamento. In questa corrente vi sono tutti coloro che pensano si debba stare al governo per far valere le proprie idee. I contiani, invece, sono una 40ina. Si tratta, prevalentemente, di parlamentari al primo mandato che stanno pressando il loro leader per convincerlo a non dare troppe deroghe per la rielezione dei big che non approvano il nuovo corso. Infine ci sono tanti peones che rappresentano la corrente più vasta, composta da parlamentari che non parlano e che si schierano a seconda della convenienza del momento. I 'fichiani', ossia i parlamentari vicini al presidente della Camera, Roberto Fico, hanno abbracciato tutti la causa giallorossa e, perciò, almeno per il momento, si possono annoverare tra coloro che sono vicini a Conte.

Quirinale, Di Maio ora vede la Belloni e la Raggi

Sembrano, invece, essere spariti gli ammiratori di Alessandro Di Battista, transumati per buona parte nel gruppo misto o in Alternativa C'è. 'Dibba', secondo quanto risulta a ilGiornale.it, sarebbe odiato praticamente da tutti, tranne forse da Conte a cui si sta riavvicinando per far cadere il governo Draghi. Le ex prime cittadine di Roma e Milano, Virginia Raggi e Chiara Appendino, infine, sostengono apertamente Di Maio. Gli ammiratori di Conte che, attualmente, si trovano fuori del 'Palazzo' sono l'anti-draghiano Massimo D'Alema, Nicola Zingaretti e Goffredo Bettini, sebbene quest'ultimo si recente abbia sostenuto che sia più bravo come leader di governo che capo di un partito. Tra i leader di partito è indubbio che Matteo Renzi abbia sicuramente una considerazione maggiore di Di Maio rispetto che al leader Conte. Ma, il titolare della Farnesina gode di ottimi rapporti anche tra i centristi.

I posizionamenti dentro il governo

Nel governo, tra i dimaiani troviamo Fabiana Dadone, ministro delle Politiche giovanili, Laura Castelli, viceministro all'Economia, il fedelissimo Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Affari Esteri, Dalila Nesci, sottosegretaria per il Sud. Dalla parte di Conte, invece, si schiera Federico D'Incà, titolare del dicastero dei Rapporti col Parlamento, Stefano Patuanelli, ministro per le Politiche agricole, e Alessandra Todde, viceministro allo Sviluppo Economico e vicepresidente del M5S. Un altro vice di Conte è Mario Turco, sottosegretario alla Programmazione economica e agli Investimenti. Anche il sottosegretario della Salute, Pierpaolo Sileri è annoverabile tra le file contiane. Luigi Di Maio, dentro la compagine di governo, gode di un ottimo rapporto con i ministri Lorenzo Guerini, Giancarlo Giorgetti (con cui va a mangiare la pizza almeno una volta al mese) e Renato Brunetta che lo ha definito “un vero leader, intelligente e preparato. Conte, d'altra parte, è stimato (sempre meno) solo da una parte del Pd e da Roberto Speranza.

Le truppe in Parlamento

In Parlamento Conte può godere ovviamente del vicepresidente del Senato, Paola Taverna, che ha recentemente nominato sua vicaria. Gli altri due esponenti che appartengono al team dei 'magnifici 5' sono Riccardo Ricciardi, ex vicecapogruppo alla Camera e il deputato Michele Gubitosa. Il presidente della commissione Affari costituzionali, Giuseppe Brescia, è un contiano doc così come Ettore Licheri, il grande sconfitto nella battaglia per il ruolo di capogruppo al Senato, assemblea che fino a pochi mesi fa sembrava saldamente in mano del nuovo leader del M5S. Alla Camera troviamo l'ex ministro Lucia Azzolina che, per quanto delusa dall'essere stata escluse dalle ultime nomine, possiamo continuare ad annoverare tra le fila dei contiani così come Vittoria Baldino, la deputata che l'ex premier avrebbe voluto promuovere a capogruppo. Un altro in corsa per assumere quel ruolo era l'ex ministro Alfonso Bonafede, colui che propose Conte come premier del governo gialloverde. A Palazzo Madama, invece, restano fedeli al leader M5S l'ex reggente Vito Crimi e l'ex ministro del Lavoro Nunzia Catalfo.

Più nutrite le truppe dimaiane a cui appartengono i due capigruppo di Camera e Senato, Davide Crippa e Mariolina Castellone. A Palazzo Montecitorio, ci sono il fedelissimo presidente della Commissione Affari Europei Sergio Battelli, il questore Francesco D'uva, l'ex ministro dello Sport Vincenzo Spadafora. l'ex viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni e l'ex sottosegretario di Stato Riccardo Fraccaro. A Palazzo Madama, i 'dimaiani' più noti sono Primo Di Nicola, Vincenzo Presutto e Daniele Pesco.

Le sponde fuori 'dal Palazzo'

Conte, una lasciato Palazzo Chigi, si è ritrovato sempre più solo. Accanto a lui, certo, resta il portavoce Rocco Casalino, ma il 'cerchio magico contiano' non esiste più. Draghi, una volta insediatosi, ha sostituito 'super-commissario' Domenico Arcuri (che resta però alla guida di Invitalia), il capo della protezione civile Angelo Borrelli e Gennaro Vecchione, ex capo del Dis. A dirigere Raiuno non c'è più Giuseppe Carboni e l'esclusione del M5S da tutti posti di comando nella tivù di Stato ha provocato la dura reazione di Conte che ha proibito ai parlamentari pentastellati di partecipare alle trasmissioni e ai tiggì Rai. L'ex premier, a piazza Mazzini, può contare solo sul professore Alessandro Di Majo, membro del Cda Rai.

In compenso, come ha ricordato recentemente Francesco Boezi sul Giornale, a Conte è rimasto più di qualche amico in Vaticano. In primis, monsignor Claudio Celli, presidente della Fondazione Comunità Domenico Tardini Onlus, cioè Villa Nazareth, il collegio in cui Conte ha trascorso gli anni universitari. Il segretario di Stato Pietro Parolin è un interlocutore del leader del M5S così come padre Antonio Spadaro, direttore di Civiltà Cattolica e, come rivela Il Messaggero, monsignor Giancarlo Bregantin. Luigi Di Maio, invece, ha un buon feeling con Andrea Riccardi, il fondatore della Comunità di Sant'Egidio che i giallorossi avrebbero voluto eleggere presidente della Repubblica. Di Maio, dal canto suo, ha ovviamente sfruttato questi anni trascorsi al ministero degli Esteri per crearsi una rete di appoggi internazionali, grazie soprattutto allo staff di uomini e donne che lavorano per lui alla Farnesina. 

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Estratto dell’articolo di Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 6 febbraio 2022.  

Riccardo Ricciardi, vicepresidente del M5S […] 

Di Maio chiede più democrazia interna.

«Ma il nuovo corso è fatto di pluralismo. Non ci sono più cerchi magici. Con il vecchio corso, quando Di Maio era capo politico, non era così. E di problemi di democrazia interna ce n'erano. Chieda a un nostro parlamentare se Di Maio ha mai discusso con i gruppi i temi chiave. Anche per un aspetto così delicato come la presidenza della Repubblica, invece, sono stati coinvolti 14 esponenti del M5S, tutti titolati a esserci, dai ministri ai capigruppo. Più condivisione di così è difficile».

Oltre a Fico, nel comitato dei garanti resta Raggi. Una no vax che chiede le dimissioni del vostro sottosegretario Sileri.

«Io difendo il lavoro di Pierpaolo, è in prima linea da 2 anni. Raggi come qualsiasi iscritto può aprire un dibattito, è sempre aperto». […] 

[…] Quando deciderete sul doppio mandato? Grillo ieri ha usato termini vaghi: non più 2, ipotesi di "rotazioni".

«La decisione va presa con gli iscritti. Ma nel nuovo corso, non ci saranno quesiti in cui per dire no, devi cliccare sì. Sarà tutto chiaro».

Estratto dell’articolo di Antonio Bravetti per “la Stampa” il 6 febbraio 2022.

Il senatore Mario Turco è uno dei cinque vicepresidenti del Movimento Cinque stelle. Dopo le dimissioni di Luigi Di Maio dal comitato di garanzia del M5S, chiede «rispetto» per Giuseppe Conte: «È lui il vero leader». 

Beppe Grillo parla di ardori giovanili, percorsi divisivi...

«Se ci sono state delle dimissioni una motivazione ci deve essere. […] Il chiarimento deve servire per rafforzare la linea politica del presidente Conte[…]». 

«[…]Durante il Quirinale la nostra strategia è stata forte e lineare. Abbiamo chiesto la permanenza di Draghi a Palazzo Chigi, abbiamo evitato candidati non accettabili, abbiamo spinto forte su una svolta storica: una candidatura femminile di valore, ma qui dopo una iniziale apertura vi è stato un blocco trasversale. Saggiamente abbiamo fatto crescere l'opzione di riserva Mattarella, che è stata poi quella vincente».

«[…] Credo che a Di Maio sia mancato senso di unità e rispetto dei ruoli». 

Conte è in difficoltà?

«[…] Conte, […] ha oltre il 90% della base che sostiene la sua leadership. È lui il vero leader». […] 

Cosa vorrebbe dire al ministro Di Maio?

«Non mi permetto di raccomandare nulla al ministro di Maio, tranne un maggior rispetto verso la linea politica e gli organi che governano il Movimento Cinque stelle che vengono prima di ogni personalismo».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 6 febbraio 2022.

[…] con le uscite allo scoperto di Conte, Di Maio e Grillo si parla della vera posta in gioco: non una lite di comari o di galli nel pollaio, né una guerra per la leadership; ma un dissidio politico sul draghismo. Di Maio non vuole cacciare Conte otto mesi dopo aver contribuito a incoronarlo, né prendere il suo posto (fuggì dopo tre anni, spossato dagli impegni ministeriali e dalle liti interne): da quel che si intuisce, vuole dirottare la nave verso la stella polare Draghi perché la ritiene irrinunciabile per i prossimi anni e, se non ci riesce, farsi una corrente nel M5S o traslocare altrove, ma sempre all'ombra del premier (infatti ha fatto di tutto per portarlo al Quirinale).

Conte non vuole (purtroppo) uscire dal governo, ma lo considera una parentesi emergenziale da sopportare per limitarne i danni dall'interno e chiudere a fine legislatura per tornare alla politica (infatti ha sbarrato a Draghi la via del Colle). Perciò Conte piace alla base: perché appare molto più "grillino" di Di Maio. 

Basta leggere l'ultimo post di Grillo, che ritrova lucidità e indica obiettivi incompatibili col draghismo. […] Siccome il governo Draghi è nato anzitutto per spazzare via i 5Stelle, questi non possono sostenerlo per altri 12 mesi solo per difendere le cose fatte, ma a patto di ottenerne di nuove: salario minimo, nuovi ristori, aiuti contro il caro bollette, no al nucleare, nessuna scappatoia per i boss al 41-bis. Qui si parrà la nobilitate dei 5Stelle, di Conte e di Di Maio. Sempreché non sia già diventato Di Mario.

Le idi Di Maio e i grillini a pezzi. Francesco Maria Del Vigo il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Con un mese abbondante di anticipo sul calendario sono arrivate le Idi di Maio. 

Con un mese abbondante di anticipo sul calendario sono arrivate le Idi di Maio. Per carità, il ministro degli Esteri non è Giulio Cesare e, per fortuna, non lo ha accoltellato nessuno, ma quello che è successo ieri è sicuramente uno spartiacque nella storia dei 5 Stelle. E la congiura nei confronti dell'ambizioso grillino è più che un'ombra. Luigi Di Maio si è dimesso dal comitato di Garanzia del Movimento. Sia chiaro: fino a ieri la maggior parte degli italiani non aveva neppure idea dell'esistenza di questo organo interno ai pentastellati e viveva ugualmente bene. Ma questa decisione impatta inevitabilmente sulla geografia politica italiana, non si può derubricare a bega di partito. Quella dell'inquilino della Farnesina è una scelta obbligata, se non lo avesse fatto lui glielo avrebbe chiesto Giuseppe Conte. Che, non a caso, ha accolto con grande favore questa scelta. Ma la mossa di Di Maio è, di fatto, il primo passo verso l'addio al Movimento del quale è stato leader. Abbandono forzato, stretto nella tenaglia tra le ambizioni smodate dell'ex premier e l'immobilismo conservatore del padre padrone Beppe Grillo. Di Maio andava bene ai Cinque Stelle quando era il ragazzo di bottega, l'ex steward dello stadio San Paolo paracadutato nei palazzi del potere. Con le sue ingenuità e le sue inesperienze. Ora che si è strutturato, ora che ha tessuto una trama trasversale di rapporti, ora che ha imparato a conoscere anche le retrovie del Palazzo non va più bene. Troppo sveglio e quindi troppo pericoloso. È un po' come dire a un pilota di aerei di linea: hai fatto troppo ore di volo, lascia la cloche a qualche incapace, così ci schiantiamo meglio. Una follia, il rovesciamento della meritocrazia, ma tutto sommato coerente con la filosofia grillina dell'uno vale e uno e di conseguenza tutti non valgono nulla.

Il divorzio tra il ministro degli Esteri e i papaveri del partito, come in una coppia vip, si consuma a colpi di lettere pubbliche, note di agenzia e post sul blog. Sono mesi che sotto il coperchio della pentola grillina cuociono pezzi di una storia che ormai si è divaricata, che non può più stare insieme. «Penso che all'interno di una forza politica sia fondamentale dialogare, confrontarsi e ascoltare tutte le voci. Tutte le anime, anche chi la pensa in maniera diversa, devono avere spazio e la possibilità di esprimere le proprie idee», sibila Di Maio svelando quello che sapevano tutti. Cioè che dalle parti dei Cinque Stelle non è ammesso il dissenso e c'è una marcata allergia nei confronti di chi osa intraprendere un cammino che abbia un minimo di autonomia.

La risposta di Grillo arriva poco dopo con un lungo e fumoso articolo pubblicato sul suo blog. Un pizzino interminabile, in cui Di Maio non viene mai citato ma è presente in ogni parola. Grillo ribalta il tavolo e la frittata, vagheggia un rilancio di un Movimento agonizzante - ai minimi nei sondaggi - e delinea un nuovo significato per le cinque stelle, senza accorgersi che ormai sono precipitate al suolo. È come se Grillo, sprofondato nel divano della sua villa genovese, si fosse improvvisamente accorto che gli si sono scaricate le pile del telecomando. Schiaccia i pulsanti, ma dall'altra parte, a Roma, non risponde più nessuno. Perso il segnale. Il generale è rimasto senza soldatini. Luigi Di Maio, dopo mesi di logoramento, ha spento il ricevitore. Fine delle trasmissioni. Risponde solo Conte, che non avendo nulla da perdere, ha la speranza di aver qualcosa da guadagnare. Siamo alla resa dei conti finale e, come nella saga di Highlander, ne rimarrà uno solo: il peggiore. Quelli che sanno fare qualcosa, ormai è chiaro, li fanno scappare.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

·        Alessandro Di Battista.

Da liberoquotidiano.it il 10 novembre 2022.

Un amore ballerino, che ormai fa parte del passato. Alessandro Di Battista, ex parlamentare del Movimento 5 stelle, racconta a Belve la sua partecipazione ad Amici.  "Ho partecipato ad Amici e ballato con la Brescia, ma non mi presero", dice nel corso dell'intervista. Un passato che fa parte della sua vita e che non rinnega.

Nel corso di Belve parla di tutto: aneddoti politici, vita privata e tanto altro ancora. “Agli Stati Generali prendo il triplo dei voti di Di Maio, ma non vengono pubblicati, volutamente. Furono i miei ex colleghi a cercare in ogni modo di evitare che Di Battista diventasse il capo politico, con l’idea: ‘noi eleggiamo Conte così Conte sistema Di Battista e poi noi controlliamo Conte’. Invece è stato Conte a far fuori loro”, racconta l'ex deputato.

Ora Di Battista ha lasciato la politica. Stop. La conduttrice gli dice: “Cercato da tutti, anche da Fratelli d’Italia (…) tranne il PD e Forza Italia”. “Come mai non ha fondato un suo movimento politico? Gli è mancato il coraggio?”, chiede. E lui risponde: “Non si tratta di paura, se non costruisci adeguatamente dal basso, poi fai la fine di tante liste che hanno preso l’1%”.

Nel 2018 l'ex grillino decide di non candidarsi, facendo un passo indietro. “Quando tu esci, poi difficilmente ti fanno rientrare. Portavo mio figlio in piscina e passavo sotto alla Farnesina, sapevo che c’era Luigi Di Maio e c’era una parte di me che rosicava, lì ci sarei potuto essere io, poi passa il tempo e quando tu capisci che hai seminato riconosci che alcune scelte che ti penalizzano da un lato, ti premiano dall’altro”, spiega.

"Esperto di nulla", "Spara boiate". Scoppia la rivolta contro Di Battista. Massimo Balsamo il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale.

L'ex pasionario grillino è ormai ospite fisso a "Di Martedì". Su Twitter è bufera su Floris: "Perché dà tutta questa visibilità a chi non ha competenze?"

Sparare a zero sul suo ex Movimento 5 Stelle, raccontare la sua visione della crisi in Ucraina e litigare anche con le sedie. Reduce dal viaggio-reportage-inchiesta in Russia, Alessandro Di Battista è diventato ormai ospite fisso di Di Martedì, il talk show politico condotto da Giovanni Floris e in onda su La7. La sua presenza però non entusiasma il popolo della rete, a partire dai fedelissimi del programma.

Di Battista nel mirino della rete

Anche nell’ultima puntata di Di Martedì l’ex pasionario grillino ha dato il suo meglio.“Da mesi alcuni politici raccontano cazzate sulla crisi in Ucraina”, il suo j’accuse. Poi l’affondo contro la Meloni: "Tanti l'hanno votata pensando che sarebbe stata una politica di rottura, invece oggi per me è l'esempio del conformismo. Si mette in scia, sull'attenti, portando avanti una strategia fallimentare sull'Ucraina". E così via, tra teorie singolari e risse con gli altri ospiti.

"Mi sta dando del pupazzo prezzolato?". Dibba si scalda, Tabacci lo gela: "Stia calmo"

Ma l’esuberanza di Dibba non piace a tutti. Anzi, non piace a quasi tutti. Su Twitter sono comparsi decine di post contro l’ex parlamentare pentastellato. C’è chi ha acceso i riflettori sul suo curriculum piuttosto scarno e chi ha biasimato senza mezzi termini le sue presunte posizioni filo-russe. Ecco una carrellata di invettive: “Un Paese in cui Di Battista sentenzia in tv è in piena bancarotta intellettuale”, “Esperto del nulla, sputa facili sentenze che interessano solamente a quelli come lui”, “Perché dare ancora voce a un individuo così vanesio vuoto e rancoroso”.

Floris travolto dalle polemiche

Di Battista ma non solo. Molti utenti hanno messo nel mirino anche chi lo invita regolarmente, ovvero Giovanni Floris. In molti si chiedono a che titolo ogni martedì La7 dia un pulpito all’ex grillino da cui sproloquiare, soprattutto perché si parla di “una persona che non ha mai fatto nulla di serio nella vita”. Tranchant tal Matteo Winkler: “Un giorno i libri di storia contemporanea si interrogheranno sulle ragioni che hanno portato Alessandro Di Battista ad avere tutta questa visibilità mediatica”.

Alessandro Di Battista, vuol fare il Che ma... è Sora Camilla. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 21 agosto 2022

C'è un grillo sparlante che si aggira fuori dalla politica. Dell'originale, il Grillo fondatore, ha l'arroganza impunita e la parlantina, ma non il genio e neppure il carisma. Infatti, anche se nei salotti televisivi ci prova in ogni modo a sembrare un duro, basta interromperne la cantilena per capire che è lui il primo a non credere del tutto in se stesso. Cinque anni fa mostrò le palle, bisogna riconoscerlo, e non si ricandidò in Parlamento perché le regole della casa pentastellata prevedevano, e ancora prevedono, malgrado i goffi tentativi di Conte, il tetto ai due mandati. Decise di rimanere fermo un giro. Si è preso un lustro sabbatico, speso a bighellonare per il mondo e scribacchiare qua e là senza particolare costrutto e senza lasciare traccia. Ora che è arrivato il momento di raccogliere i frutti della rinuncia e provare a mettere in pratica i tanti teoremi esposti e gli insegnamenti della vita raccolti su un autobus del Guatemala, alla riunione dei genitori dell'asilo, nel backstage di uno studio di registrazione, cazzeggiando con chi gli aggiusta lo scooter o studiando la vita di Bolivar su Wikipedia, ha deciso di aspettare ancora.

SOLO CHIACCHIERE

Alessandro Di Battista è così, un presenzialista delle parole e un assenteista dei fatti. In allenamento fa il fenomeno, quando arriva l'ora giocare la partita sceglie di accomodarsi sotto la panchina, da dove continua a ronzare fastidiosi giudizi su chi invece si batte in campo. Si atteggia a impavido guerrigliero, è in realtà una suocera cacasenno che ormai non va d'accordo più con nessuno, in particolare con la sua famiglia d'origine, il padre padrone Grillo, il gemello diverso Di Maio, ai quali non perdona il difetto di una scaltrezza superiore alla sua, e il Conte zio, l'unico sveglio quanto lui e per questo quello che stima di più, anche se non gli riesce a perdonare di provare a gestire M5S come un partito anziché come un collettivo studentesco in gita di classe a Roma. Bisogna riconoscere che il Dibba era un discreto tribuno, ma con la dissoluzione del Movimento si è scoperto che la piazza gliela riempivano gli altri, perché da solo per lui perfino il Capranichetta diventa più grande del Madison Garden. Al momento, la maggiore abilità di cui ha dato prova è nel mettere d'accordo Berlusconi e Travaglio. Dal primo si è fatto pagare, via Mondadori, libri di riflessioni e memorie di cui si sono scordati tutti il giorno dopo. Gli ultimi tre titoli sono un non programma: «Politicamente Scorretto», «Contro», «Ostinati e Contrari»; una trilogia, per chi non l'avesse capito. Non si sono registrate code in libreria. Il Fatto Quotidiano gli ha invece commissionato reportage da turista dell'anti-democrazia, dalle dittature del Sud America a Cuba, che l'ex giovinastro di belle promesse ha trasformato in resoconti dalle vacanze in famiglia degni di un ginnasiale ripetente e soprattutto, che avrebbe potuto benissimo fare standosene nella sua casa romana, per quanto è stato capace di rendere l'atmosfera di quei luoghi lontani e per il colpo d'occhio da sgabuzzino delle scope.

COMPAGNI SBAGLIATI

A chi segue poco la politica, Di Battista potrebbe anche sembrare finanche un puro, un idealista un po' sconclusionato, una sorta di Idiota di Dostoewskij, visto che ama Mosca. In realtà è più simile alla romana sora Camilla, che tutti vogliono ma nessuno piglia. Neppure il Paragone di Italexit, che pure ha più volte ospitato sul sellino posteriore del suo scooterone ai tempi dei primi dissensi dentro M5S, se lo carica. D'altronde il nostro sbaglia sempre compagni di viaggio, come quando andò in auto a Strasburgo con l'allora amico Luigino per spiegare all'Unione Europea che, o si metteva in testa di cambiare i trattati o sarebbe morta. Li soprannominarono Thelma e Louise, ma al momento nel burrone ci è finito solo uno dei due, quello alto e bello. Grande, grosso, ciula e balosso, direbbero a una latitudine poco superiore di quella sua natìa. Comunque, tutti intorno a lui hanno fatto un partito, o lo hanno ereditato, ma il nostro tormentato tenebroso non è riuscito a convolare a nozze con nessuno, e in questi casi è sempre colpa del singolo più che dei tanti, visto che non si può pretendere di fare politica se si riesce ad andare d'accordo solo con se stessi. E questo lo ha capito perfino Calenda, come dimostrano le sue ultime sorridenti foto-opportunity con i nemici di poche settimane fa. Di Battista è una sorta di Fratoianni che non si è dato pace. Il segretario della Sinistra Italiana ha chiesto asilo al Pd per continuare a dire le sue stramberie populiste con uno stipendio a cinque stelle. L'ex stella del Movimento la pensa come il comunistone di cui sopra in politica estera, sull'ambiente e sulla decrescita finanziata da bonus e reddito di cittadinanza ma gli manca l'umiltà di capire che da solo non va da nessuna parte. Oppure, anche se non lo dice in giro per non perdere scritture, ha gettato da tempo la bandiera. Finge di fare il politico, e infatti ha annunciato la creazione di un'associazione culturale civica non ancora meglio precisata, ma in realtà è una comparsa di lusso del teatrino. Nessuno condivide davvero quel che dice, ma siccome lo dice con sicurezza e, se non ha interlocutori di fronte, anche benino, si è creato la professione di opinionista; e qui gli va riconosciuta l'abilità di spacciare le idee personali che nessuno, lui per pri- mo, realizzerà mai, come un pensiero politico che abbia una qualche rilevanza. È partito come novello Che Guevara, ha ripiegato sul progetto di diventare l'erede di Di Maio, si è ritrovato il figlio ripudiato di Grillo e l'amico venuto a noia di Conte e Casaleggio junior. Gli andrà di lusso se finirà come la versione maschile di Selvaggia Lucarelli. 

Perché Alessandro Di Battista non si è candidato: il vaffa Grillo e gli insulti a Di Maio (“ducetto”). Aldo Torchiaro su Il Riformista il 10 Agosto 2022

Il Vaffa di Alessandro Di Battista a Beppe Grillo segna, nel suo piccolo, la fine di un’epoca. La ribellione dell’ultimo dei figli di Cronòs, che il padre voleva inghiottire e far sparire come gli altri, scuote il torpore di una campagna elettorale sotto naftalina, per i Cinque Stelle. Perché nessuno fino a oggi si era rivoltato contro Grillo chiamandolo con quei due epiteti, Padre-padrone, con cui Gavino Ledda aveva descritto le bastonate ricevute da un genitore oppressivo. Alessandro Di Battista ha chiuso le porte ai 5 stelle. Anzi, l’ha sbattuta. La distanza con i vertici del Movimento sembra incolmabile e ieri ha ripreso la parola per dire perché anche stavolta, come nel 2018, ha deciso di non candidarsi in Parlamento. Prendendo così le distanze anche da De Magistris che, a capo di Unione Popolare, lo aveva chiamato impropriamente in causa. Dibba è un bello che non balla. Certamente, non più con i vecchi amici. Dopo l’appoggio all’esecutivo guidato da Mario Draghi, (“il governo dell’assembramento”, lo chiamava) il “Ragazzo meraviglioso” dice di non fidarsi più “politicamente” di Beppe Grillo che “ancora, in parte, fa da padre padrone”.

Scandisce la voce: “Io sotto Grillo non ci sto”. Come Bruto con Cesare, ecco la coltellata digitale filmata in un lungo video pubblicato sui social, rivolto alla sua platea di ex grillini oggi apolidi. Il “Che” di Vigna Clara racconta perché ha scelto di non correre alle parlamentarie. Una “decisione sofferta”, sospira, prima della quale ha sentito anche Giuseppe Conte: “È stato molto sincero”, “è un galantuomo” e “anche parlando con lui ho compreso che ci sono tante componenti dell’attuale M5s che non mi vogliono”. È in particolare con il garante del Movimento, con il presidente della Camera Roberto Fico e con Luigi Di Maio (che ha a sua volta lasciato i 5stelle) che l’ex 5 stelle se la prende. “Da Grillo passando per Fico non mi vogliono per una serie di ragioni – lo sfogo -, forse perché temono il fatto che io sia poco imbrigliabile, che io possa (giustamente) ricordare gli errori politici commessi soprattutto negli ultimi due anni”. Punta il dito contro le interviste rilasciate da esponenti del Movimento sul suo conto: lo dipingevano come “un distruttore tipo Attila”, “quando forse i disboscatori di consensi sono stati altri…”. Di Battista sostiene di essere stato esortato a candidarsi da “decine di migliaia” di persone ma di aver scelto diversamente per mancanza di sintonia con il resto dell’attuale M5s. Ed ora è pronto a fondare un’associazione per fare politica dall’esterno: “Vedremo dove porterà questo percorso”. La rabbia nei confronti degli ex compagni di viaggio, è ancora palpabile. C’è chi è pronto ad “infilarsi nella sede del Pd per elemosinare un seggio, dopo aver detto peste e corna”, l’affondo, “io non sono come queste persone, grazie a dio”.

Anche prima dell’addio al Movimento, riferisce di aver “avuto momenti difficili”, ad esempio, “quando mi hanno impedito di fare il capo politico del M5s evitando di votare. Non hanno neppure voluto pubblicare i voti degli Stati Generali perché io avevo preso il triplo dei voti di Di Maio”, che allora “faceva ancora il ducetto”. Dopo il post, che incassa a cinque ore dalla pubblicazione, oltre 4mila commenti e quasi mille condivisioni, la base è in fermento. Chi semina vento, raccoglie tempesta: il malcontento finisce sulla pagina Facebook di Beppe Grillo: “Hai fatto un errore gravissimo a tenere fuori Di Battista. Vedi di rimediare”, gli intima un attivista. “Grillo la nostra storia inizia con loro, Alessandro e Virginia”, rimarca un secondo, riferendosi ad un’altra grande esclusa dalle candidature, a causa del limite dei due mandati: Virginia Raggi. L’ex sindaca di Roma, che di recente era intervenuta in maniera critica sulle “pseudo alleanze di comodo” del M5s e sulle decisioni prese “nelle stanze del ‘palazzo’”, per ora tace. C’è chi è pronto a scommettere che tra lei e Di Battista vi sarebbe tutta l’intenzione di menare le mani, di dare l’assalto a quel fortino di Campo Marzio in cui Conte vive asserragliato. All’ex premier basterà tirare fuori dal cilindro l’ex procuratore antimafia Cafiero De Raho, da candidare a Napoli? Arriveranno altri magistrati a dare manforte? È ancora presto per dirlo. Fioccano invece copiosi gli abbandoni. Se il primo cittadino pentastellato d’Italia, Federico Pizzarotti, ha scelto di correre con Italia Viva, scommettendo sul Terzo Polo, ieri è stata l’onorevole Federica Dieni ad uscire dal M5S per unirsi al gruppo Italia Viva – Italia c’è alla Camera. Un finale di stagione di vera nemesi per i grillini della prima ora, tra chi maledice Grillo e chi abbraccia Matteo Renzi. 

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Il dubbio di Alessandro malato di fannullismo. LUCA BOTTURA su Oggi.it il 4 agosto 2022

Gentile buonista, mi chiamo Alessandro e sono un travel blogger che fa largo uso delle tecnologie. Per orientarmi, uso il Gps. Per fare acquisti, uso lo smartphone. Per scrivere gli articoli, uso il correttore automatico. Non sai quanto. Grazie alla scienza, potrei tranquillamente starmene a casetta, perché quelle che mando al mio giornale sono quattro cosette che ho trovato su Wikipedia. Ma in quel caso non potrei ingozzarmi di piñacolada o di caipiroska, dei quali vado ghiotto. Ora però è malauguratamente caduto il Governo e alcuni amici italiani vorrebbero che rientrassi in patria, interrompendo le ferie, per rilevare un ramo d’azienda della Casaleggio A., di cui attualmente si occupa un avvocato pugliese lacca-dipendente. Lo stipendio sarebbe anche buono, in realtà. E ci sarebbero anche alcuni benefit, tra cui qualche bella intervista al Tg2 in prima serata. Ma per colpa delle paturnie di Beppe, il ragazzo-immagine del gruppo, dovrei restituire una parte dei soldi per la manutenzione dei server, e soprattutto c’è il rischio concreto di dover lavorare, sebbene pochissimo. Quella di non fare assolutamente una mazza è una petizione di principio che perseguo da sempre e alla quale farei molta fatica a rinunciare. Cosa posso fare?

Alessandro Di B., Club Mediterranée di Novosibirsk, Siberia

Caro Alessandro, io coglierei la palla al balzo per rimanere dove sei. A quanto ne so, sta per partire la nuova stagione di “Russia No Talent” e da quel che scrivi penso tu possa vincerla per distacco. Se proprio devi tornare, però, un consiglio: cerca di capire chi sosterrà l’avvocato pugliese. E buttati deciso dall’altra parte.

Dazvidanja!

Caro buonista, mi chiamo Renato, sono figlio di venditori ambulanti, ma nella vita ho saputo farmi strada nonostante all’inizio della carriera nessuno mi prendesse sul serio e tutti mi chiedessero di cantare Sarà perché ti amo. A causa della mia statura modesta, sono stato oggetto negli anni delle battute di chiunque: comici scadenti, avversari di partito, comici di partito e avversari scadenti, ma da quando ho lasciato Forza I. se la prendono con me anche ex amici come Silvio B. e la sua moglie simbolica, Marta F. Pensa che ha persino pubblicato sui social un verso della canzone di Fabrizio De A., Un giudice, in cui si dice che chi è poco alto ha il cuore troppo vicino al buco del…quello, e per questo è una carogna. Ne soffro tantissimo. Sai consigliarmi?

Renato B.

Caro Renato, non te la prendere: per gli Statali rimarresti una carogna anche se giocassi nel campionato Nba di basket al posto di LeBron James. A presto!

Estratto dell’articolo di Stefano Cappellini per “la Repubblica” il 10 agosto 2022.

[…] Ieri Dibba ha picchiato sul fondatore e guru e garante, alias l'Elevato, come quando studiava da falegname. «Un padre padrone», l'ha definito. Ha capito insomma come funziona l'M5S, che sarà mai il leggero ritardo, l'odiata sinistra in fondo ci mette molto di più a elaborare le sue svolte, vent' anni a botta di solito, lui ne ha impiegati poco più della metà per arrivare alla conclusione che il Movimento non è un partito democratico […]

Comunque tempo al tempo, può essere che tra un lustro, ripensando alla sua fresca trasferta siberiana, a Dibba venga pure qualche dubbio su Putin.

Del resto, Ale ha da sempre una spigliata dialettica che sopravvive inconsapevole alla sua claudicante logica, e funziona per questo, perché come nei migliori programmi di Maria De Filippi, dove da giovanissimo andò a farsi provinare, non conta che i pensieri passino l'esame del principio di non contraddizione. Conta l'effetto. Conta il momento. Conta la smorfia. […] 

[…] Ai tempi della sua vertiginosa ascesa mediatica, quando già contendeva a Luigi Di Maio la palma del più sveglio del Movimento […] svelò che Berlusconi lo aveva fatto cercare da emissari («Gli piaci, vuole conoscerti»), ma anche lì nisba. Dibba è disposto al simposio con i salafiti mica a un caffè col Cavaliere: «Certa gente ha l'inciucio nel Dna», fece sapere ai giornali, e stracciò l'invito ad Arcore.

[…] Dibba è il campione del rossobrunismo. Gli piace la Russia, gli piace l'Iran, gli piace la Cina. «Vincerà la terza guerra mondiale», ha dichiarato e gli occhi gli brillavano a sapersi dalla parte vincente del mappamondo. Gli sta sul gozzo ogni forma vivente di sinistra. Ha un record di dieci giorni di sospensione a Montecitorio perché impedì fisicamente a Roberto Speranza, uno dei politici più miti della storia repubblicana, di fare una dichiarazione. Condivide con Meloni la teoria sull'inattualità dell'antifascismo. «È l'unico che ha l'X Factor», ha detto Fedez, uno dei suoi molti estimatori, che può ignorare Strehler ma riconosce da lontano un leader. Il guaio di Dibba è che al tavolo dei giudici del Movimento non ci sono quattro cantanti ma solo un ex comico. Per te il Movimento finisce qui.

Massimiliano Panarari per “la Stampa” il 10 agosto 2022.

Più Catilinarie che parlamentarie. Almeno a giudicare dalla requisitoria del «Dibba furioso» nel video con cui ha illustrato le motivazioni della sua mancata candidatura.

E, nella fattispecie, si tratta, ancora più appropriatamente, di «Grillarie», dato che Alessandro Di Battista ha indirizzato il suo J' accuse innanzitutto contro il Co-fondatore, di cui «politicamente oggi non si fida», imputandogli di essere stato il principale sponsor dell'ingresso nel «governo dell'assembramento». 

Cronache di un matrimonio che si era guastato già da parecchio, e aveva visto due personalità con una certa considerazione di sé - un'attitudine assai diffusa, e trasversale, nel paesaggio politico dell'«Età egolatrica» - impegnate a consumare l'antico idillio in un crescendo di diffidenze reciproche e falliti ricongiungimenti.

Il fuggi fuggi dalle parlamentarie costituisce un fenomeno generalizzato, che ha investito, tra gli altri, Rocco Casalino, finito pure lui, a quanto pare, nella black list di Beppe Grillo. Ma nell'elettorato pentastellato, alla vigilia di una prova elettorale che si preannuncia come l'ennesima (assai problematica) ordalia, era precocemente cresciuta l'attesa del ritorno salvifico del figliol prodigo. E, contestualmente, a montare era stata pure la preoccupazione dei vertici pentastellati per una figura giudicata troppo ingombrante, da mettere rigidamente sotto tutela e a cui imporre alcune "abiure", afferma sempre Di Battista, che nel video attacca frontalmente anche Roberto Fico e salva soltanto Giuseppe Conte.

Testimonianza di come nell'odierna atmosfera da Basso impero della fu formazione dell'«uno vale uno» tutto ruoti attorno alla sopravvivenza politica dei singoli e al nodo di una leadership monocratica, prevedibile - ancorché mai risolta - eredità di un partito prima bipersonale (quando Gianroberto Casaleggio era in vita), e poi personale del solo Grillo (giustappunto, il «padre padrone» a cui «Ale» non intende "sottomettersi").

Di qui, la scelta di rimanere in partita sul suo terreno di gioco preferito, quello della disintermediazione e dell'appello neoplebiscitario al popolo antisistema. E di continuare ad adottare lo schema di gioco prediletto: quello del "cavaliere dell'ideale antagonista", solo contro tutti e sdegnato da ogni inclinazione compromissoria degli ex compagni di lotta diventati "politici di professione". Con una novità, però, da sottolineare: ovvero, i numericamente non così trascurabili commenti negativi sui social dei fan, che lo incolpano, in buona sostanza, di sottrarsi alla lotta e di essere un "parolaio" (come da buona tradizione degli pseudorivoluzionari...).

Di Battista - a tratti in trance solipsistica da volontà di potenza - solleva, comunque, questioni centrali riguardanti il grillismo e la sua informe «forma-partito»; e lo fa avvolto in un format comunicativo, a lui molto consono, di vittimismo passivo-aggressivo, tipico di quello che si potrebbe chiamare il «populismo chiagne e fotte» (chiedendo venia per l'etichetta un po' eccepibile sotto il profilo del rigore politologico). Resta così - come da sua autodefinizione - un «attivista politico e reporter».

Almeno per il momento, perché l'impressione è che abbia voluto saltare il turno - pur in presenza delle resistenze interne ricordate nel videomessaggio - per una ragione di fondo: quella di attendere lungo la riva il passaggio dello zombie (copyright: Grillo) a 5 Stelle. E, dopo la sua implosione, di raccoglierne infine i cocci per rifondarlo, facendone in tutto e per tutto il "suo" Movimento.

Il monologo del cruscotto. Dibba non si candida alle elezioni, ma a Uomini e donne. Guia Soncini su Linkiesta l'11 Agosto 2022

Chiuso in un’auto ad agosto (ma avrà acceso l'aria condizionata?) sembra un incrocio tra l’eroina affranta ma non doma di Jane Austen e quello che parla da solo preparandosi al ritorno da una fidanzata che non lo vuole più

Sono trentasei ore che penso al video di Alessandro Di Battista, chiuso in macchina, che annuncia che non si candiderà alle prossime elezioni. Certo, sono trentasei ore che penso all’aria condizionata: si sarà squagliato tenendola spenta, o l’avrà tenuta accesa da fermo, inquinando?

E perché dalla macchina? A casa i bambini dormono? Ha rivisto da poco L’ingorgo, giacché si sta facendo una cultura sui film del nonno di Calenda, e gli piaceva più l’ambientazione di Sordi (in macchina) che quella di Mastroianni (a casa di Stefania Sandrelli e Gianni Cavina)?

Ma, più di tutto, penso al discorso alla nazione davanti a un cruscotto, che gli storici studieranno, senza riuscire a mettere a fuoco: chi mi ricorda? Qual è il modello che Di Battista ha seguito? L’orazione di Marcantonio scritta da Shakespeare? Un discorso di Reagan scritto da Peggy Noonan? Julia Roberts che dice a Hugh Grant d’essere solo una ragazza semplice?

«Mi sarebbe piaciuto parlare anche con altre persone, ma non è stato possibile», dice Alessandro, in quel momento praticamente un partecipante a Uomini e donne che è stato ghostato – come dicono i suoi coetanei – da una tronista. «Dopo non aver ricevuto da nessuno, tranne Danilo Toninelli, un messaggio o una telefonata», aggiunge, ed è chiaro che Toninelli è il più bonaccione dei tronisti, quello che fa una telefonata anche alla corteggiatrice che non porterebbe mai fuori ma non vuole che ci resti male.

(Lo so, è il secondo giorno che manco di rispetto a Maria De Filippi paragonando i suoi programmi alla campagna elettorale. Prometto di trovare analogie diverse dagli accoppiamenti televisivi, in cambio però la politica italiana potrebbe promettere di sembrare un po’ meno Costantino e Alessandra – che, se non sapete chi siano, dovete mollare i talk-show e ripassare la storia di questa allegramente tragica nazione).

«Tutti vogliono candidarsi, e pur di avere una poltrona in parlamento sono disposti a vendere la madre», dice Ale (Di Battista, non la Ale di Costa in quell’Uomini e donne di formazione), e s’intravede un grande classico della cinematografia: il personaggio che non scende a compromessi. Tutti vogliono candidarsi, e lui che tutti lo vorrebbero («decine di migliaia» di messaggi, avrebbe ricevuto, «non sto esagerando»), lui no, lui non si candida.

E giù con le recriminazioni, quando lo chiamavano «il vacanziero» (il Gregory Peck che ci possiamo permettere), nonostante prendesse più voti di Di Maio, «ministro degli esteri e ministro di tante altre cose» (oddio, tante altre quali? Ministro della paura? Delle vacanze esotiche? Antonio Albanese ha un nuovo personaggio di cui non so nulla?).

A un certo punto diventa Sue Ellen O’Hara (Susèle nel doppiaggio italiano), la sorella rancorosa della protagonista di Via col vento, che strepita «Lei ha avuto due mariti e io morirò zitella». È un momento straziante, e in cui ci si augura che almeno l’aria condizionata sia accesa: «Per me il Partito democratico è il peggior partito italiano, è così, lo penso, e vedere questi esponenti del Movimento Cinque Stelle che ci si buttavano tra le braccia, io veramente la sentivo come una grande sofferenza». Ma picci. Me lo vedo che va dai Cinque Stelle traditori e dice loro «lui non ti merita», mentre Tina Cipollari e Gianni Sperti in studio scuotono la testa.

Alessandro è un uomo che soffre, e soffre come soffrono le eroine sentimentali che il romanziere ci fa capire meriterebbero amore ma purtroppo la vita è ingiusta e la trama abbisogna di ostacoli: «Nessuno, credetemi, nessuno mi ha detto: abbiamo bisogno di te». Perché fate così, amici, romani, parlamentari. Perché non lo fate sentire amato. Perché non gli dite che lui vale. Non avete forse visto abbastanza pubblicità dello shampoo? Non siete in sintonia con le decine di migliaia di messaggi di noi gente semplice che lo imploriamo di candidarsi, che gli diciamo continuamente che abbiamo bisogno di lui, anche se questo evidentemente non basta: vuole il vostro amore e non il nostro, è come i bambini che si affezionano di più al genitore assente, non si candida perché le nostre decine di migliaia di richieste non l’hanno convinto.

O è perché a restar fuori da elezioni già perse si fattura di più, tra editoria e tv e chissà? Per carità, non insinuerei mai che Di Battista fosse avido, ma è lui stesso, sempre dalla macchina accaldata, a dire che vuole continuare le sue battaglie e che ritiene esse battaglie vengano nobilitate dal «farle senza essere pagati con denaro pubblico».

Non riesco a capire chi mi ricordi, Ale, se un’eroina affranta ma non doma di Jane Austen o quello che in macchina parla da solo preparandosi al ritorno da una fidanzata che non lo vuole più nel film di Comencini, L’ingorgo. Però il mio momento preferito è quello del lapsus.

Sul finire del monologo del cruscotto, Ale riferisce che in molti (forse le stesse decine di migliaia di prima) gli chiedono perché non abbia fatto un movimento nuovo (c’è giusto scarsità di liste elettorali, in questo per niente ridicolo paese), e lui spiega che era impossibile, non c’era tempo, non si poteva accroccare una lista in fretta, «con il rischio che ci s’infilino delle persone poco raccomandate». Da qualche parte, Freud gongola.

(Adnkronos il 9 agosto 2022) - "Di questi tempi tutti vogliono candidarsi,  pur di avere una poltrona in Parlamento sono disposti a vendere la madre, a calpestare le proprie coscienze e la propria dignità - se ancora ne hanno un grammo -, a infilarsi nella sede del Partito  democratico per elemosinare un seggio quando avevano detto peste e corna del Pd... Io davvero non sono come queste persone grazie a Dio". Lo dice Alessandro Di Battista, spiegando in un video le ragioni della sua mancata candidatura alle politiche con il M5S.

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Non ritengo ci siano le condizioni per una mia candidatura alle prossime elezioni politiche". Così su twitter Alessandro Di Battista postando un video in cui spiega di aver sentito Giuseppe Conte e "anche parlando con lui", aver "compreso che ci sono tante componenti dell'attuale M5s che non mi vogliono, da Grillo passando per Fico". L'ex 5s parla anche di alcune interviste: "Le più gentili erano 'se torna si deve allineare' e le meno erano 'non abbiamo bisogno di lui perché è un distruttore tipo Attila", "quando forse i disboscatori di consensi sono stati altri". Su Conte afferma: "E' stato molto sincero", "è un galantuomo".

"Con Conte abbiamo avuto una interlocuzione molto leale e lo ringrazio perché è stato molto sincero" e "per me è un galantuomo". "Credo abbia veramente a cuore gli interessi del paese", anche se "su alcune posizione abbiamo idee molto diverse". "Io - spiega Di Battista - non sono un atlantista, non credo minimamente all'efficacia delle sanzioni, io mai avrei votato per l'invio di armi all'Ucraina". 

"Io anche parlando con lui (il leader del M5s Giuseppe Conte, ndr) ho compreso che ci sono tante componenti dell'attuale M5s che non mi vogliono. Da Grillo passando per Fico non mi vogliono, per una serie di ragioni, forse perché temono il fatto che io sia poco imbrigliabile, che io possa - giustamente - ricordare gli errori politici commessi soprattutto negli ultimi due anni, da vari esponenti: senz'altro Grillo, Di Maio che poi se ne è andato, Fico".

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Io di fatto sono stato costretto a lasciare il M5s, proprio perché soprattutto Grillo ha indirizzato il Movimento" nel "governo dell'assembramento". "Ma anche precedentemente io ho avuto momenti difficili, quando fondamentalmente mi hanno impedito di fare il capo politico del M5s evitando di votare, quando non hanno neppure voluto pubblicare i voti degli Stati Generali perché io avevo preso il triplo dei voti di Di Maio". "E quindi non si doveva far sapere". Lo dice Alessandro Di Battista in un video pubblicato sui social.

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Politicamente oggi non mi fido di Beppe Grillo" che "ancora, in parte, fa da padre padrone" e "io sotto Grillo non ci sto". Lo dice in un video pubblicato sui social Alessandro Di Battista. Poi precisa: "Io non dimentico quello che Grillo ha fatto per il paese e anche per me", "perché se sono la persona che sono", con "determinati valori", "è anche perché me li ha insegnati Grillo e Gianroberto Casaleggio". Di Battista sottolinea che "Grillo ci ha rimesso una valanga di soldi con M5s nonchè tranquillità personale".

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Nei prossimi mesi insieme ad altre persone creerò un'associazione culturale per fare politica da fuori, per darci una struttura e un'organizzazione civica, per fare cittadinanza attiva perché ci credo tanto, per fare proposte, scrivere delle leggi al di fuori del Parlamento". "Poi, vedremo in futuro a cosa potrà portare questo percorso". Lo ha detto Alessandro Di Battista in un video postato sui social.

"Scrittore, attivista politico e reporter, compagno di Sahra, papà di Andrea e Filippo”. Chi è Alessandro Di Battista, turista militante che ha il cervello di Homer Simpson. Fulvio Abbate su Il Riformista il 20 Luglio 2022. 

Se fosse una serie televisiva potrebbe intitolarsi “Il mistero Di Battista”. Fitto, ma non troppo. “Chissà che fine ha fatto Eugenio, barba da mascalzone, chissà che fine ha fatto Eugenio, barba portafortuna, chissà che sogni che si inventa e sogni che si fuma…”, qualche anno fa, così Francesco De Gregori cantava pensando a un ragazzo non più pervenuto all’attenzione degli amici.

Molti, pensando invece a Di Battista, hanno pensieri e domande meno assoluti: che avrà in mente l’uomo, il ragazzo, l’escursionista o, per dirla sempre con il cantautore, il giovane esploratore Alessandro? Assodata la nebulosa sulle sue intenzioni nell’immediato, e ancora di più sul suo impianto politico-attitudinale, nei giorni scorsi mi sono così interrogato sul senso della persona, facendo ricorso, sia detto senza ironia, cercando dunque di rispettare gli imparaticci di una narrazione doverosamente neo-ideologica, come si conviene ragionando di pentastellati, ritrovando l’immagine in sezione del cervello di Homer Simpson: fallato da un pennarello, chissà come lì presente, tra la materia grigia conficcato, risposta chiara ai suoi limiti. Per la mente mobile di Alessandro Di Battista, escludendo da subito presenza di corpi estranei, si fa fatica a comprenderne le esatte bussole politiche, più semplice semmai inquadrarla antropologicamente, invidiabile turismo militante.

Di sé, su Facebook, la persona dice d’essere “scrittore” e ancora “attivista politico e reporter, compagno di Sahra, papà di Andrea e Filippo”. Dunque, profilo basso e insieme ciclopico. Quanto al suo podcast, c’è da rilevare un titolo degno di De André e degli stessi anarchici: “Ostinati e contrari”. Un senso di marcia che talvolta viene fatto proprio anche da certa destra diffusa post-montanelliana con altrettante venature di turismo ideologico. Su tutto, una “weltanschauung” accompagnata giustamente da ragioni narcisistiche; e, cosa nota, al narcisismo non si comanda. O forse, mantenendo il discorso sul piano di realtà, per ragionare di lui occorrerebbe fare ritorno all’Assente. Forse solo in apparenza lontano dalla nostra serie, Beppe Grillo, autoclave primaria dell’intera avventura pentastellata, titoli di coda compresi. Il titolo di Assente, lo diciamo per precisione storiografica, ebbe già modo di ottenerlo, nei giorni del 1936, altri tempi, José Antonio Primo de Rivera, fondatore della Falange Spagnola. Sebbene fosse stato fucilato dai “rossi”, i suoi, rifiutando di ammetterne la caduta, preferirono immaginarlo solo temporaneamente lontano dal fronte, da qui il titolo di “Ausente”; circonfuso di mito e aureola.

L’Assente Grillo, nel nostro caso, mostra una narrazione meno tragica: da simposio pomeridiano d’autofficina di moto enduro, e tuttavia va forse immaginato più interessato al futuro del Movimento di quanto non appaia, intanto che l’altro assente a se stesso, in questo caso per ragioni di non pervenuto talento, Giuseppe Conte, rischi di ritrovarsi completamente a secco di carburante, costretto a fare ritorno ai faldoni d’avvocato da cui, miracolato, giunge. Il “Garante” potrebbe allora essere lì a fare opera di riscaldamento proprio per Di Battista, se non proprio da commissario tecnico, certamente da un massaggiatore, pronto a curare e coltivare i muscoli del giovane, che intanto si diletta a Mosca, così implicitamente da assecondare l’opinione diffusa nell’ampio contesto perfino rosso-bruno che Putin sia lui parte lesa, “Agnus Dei” di una sporca guerra che in verità andrebbe addebitata all’Occidente, la Nato, gli Usa, tutti desiderosi di rapinare loro le risorse dell’incolpevole Russia. “Dibba” come Molotov e von Ribbentrop, due in uno, per restare nella metafora motociclistica delle marmitte.

D’altronde, cosa fatta capo ha, e ciò che rimane dell’accrocco del Movimento non va buttato allo sfascio come fosse un vecchio “Corsarino 50”, perfino a dispetto dei sondaggi che lo indicano in picchiata dopo l’età dell’oro dei consensi plebiscitari. Allora, sia pure da una posizione minoritaria, si fosse anche ristretto come il Psdi di Tanassi a Nicolazzi, vale tenere alta la carburazione, e sono pur sempre possibili nuovi voti, il bacino populista, antisistema, novax, terrapiattista, “Insieme per la Colla Vinilica” (la definizione è dello stesso Alessandro per indicare il gruppo parlamentare che vede protagonista l’ex amico Luigi Di Maio), pro-Assange, filopalestinese, filocurdo, ecc. è ampio, e i voti, così come il denaro, non puzzano, sono sempre ben accetti. Un po’ come quando l’esercente decide di tenere aperta la propria concessionaria sotto casa, “tanto le mura sono mie e quindi non devo neanche pagare la pigione”. Quale allora migliore assistente per salvare l’officina a cinque stelle, se non di Battista?

Lo “scrittore” Di Battista è d’altronde “giovane”, porta con sé un appeal “casual” così come il centauro Andrea Scanzi e la madrina di gara Selvaggia Lucarelli presenti nei dintorni del circuito, certamente ci sarà anche Travaglio a dare manforte con il suo Fatto Quotidiano, alla fine non occorrerà neppure piazzare il cartello “Nuova gestione!!!!”. A un certo punto, l’Assente si mostrerà accanto proprio a Di Battista, come investitura post mortem del primo M5s. Adesso qualcuno potrà obiettare che questa modestissima metafora motociclistico – imprenditoriale fa torto alla complessità delle cose e dei nodi, ma a costoro basterà forse rispondere con le parole pronunciate dallo stesso Di Battista per rassicurare il popolo di riferimento: “Si appellano al senso di responsabilità quelli, che negli ultimi anni, sono stati responsabili solo del loro culo, tra l’altro flaccido come la loro etica. Parlano di rispetto delle Istituzioni coloro i quali, soprattutto nell’ultimo anno e mezzo, hanno violentato la massima Istituzione del Paese, il Parlamento, togliendogli ogni dignità”. Voglia di dignità nuova saltami addosso. Broooommm! Broooommm! 

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Alessandro Di Battista, "la vera ragione per cui va in Russia": indiscrezioni sconcertanti. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 19 giugno 2022.

Sulla scrivania del direttore di Libero si stanno accumulando innumerevoli richieste di cronisti che vogliono partire per scrivere importanti reportage ovviamente corredati di video, foto e post dalla «periferia del mondo», obiettivo scandagliare e sviscerare «coloro che vivono al di fuori delle grandi metropoli» per meglio comprendere «quelli che vivono dall'altra parte», viaggi possibilmente transcontinentali con destinazioni prevalenti Dubai, Bali, Polinesia francese, Maldive, Seychelles, Mauritius, Santo Domingo e un clamoroso Lignano Sabbiadoro. Dall'ufficio del personale sono riecheggiati strani e forti rumori, forse degli spari, vi aggiorneremo. Di certo è che sta prendendo piede il modello «Dibba Travel»: vacanze per mesi interi (e contestualmente non fare un cazzo) tirandosela però da Jack Kerouac on the road, da Papa Francesco in soccorso degli ultimi, ovviamente scorrazzando con una compagna che un nome normale non poteva averlo (Sahra Lahouasnia) e con un figlioletto che si chiama banalmente Andrea e un altro che in compenso ha un nome bellissimo, di gran gusto: Filippo. Dai diari della motocicletta ai diari del passeggino.

ITINERARIO - La novità è che l'autorevole subcomandante grillino, in queste ore, è già ripartito questa volta per la Russia, anzi, «la Russia più profonda», questo appunto per «comprendere quel che i russi che vivono al di fuori delle grandi metropoli pensano del conflitto»: niente di difficile, calcolando che in un mese e mezzo deve solo visitare lo stato più vasto del mondo (144 milioni di abitanti) che si estende per un quarto in Europa e per tutto il resto in Asia, confinando solo con quattordici stati e col mare vicino al Giappone, con mar Baltico, col mar Glaciale artico, con l'Oceano Pacifico e senza contare il mar Caspio e il mar Nero. Ci sarebbe anche l'Oblast di Kaliningrad piazzata in mezzo all'Europa, ma forse non farà in tempo a passarvi, ha sempre detto che si sposta in autobus.

POLTRONE MAI OFFERTE - Insomma, dopo aver detto e ridetto che per i suoi viaggi formativi e testimoniali lui ha rinunciato a incarichi e poi a questo e a quello (soprattutto a poltrone che nessuno gli ha offerto) ha fatto sapere che «prima di richiedere il visto ho avvertito l'Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica e, dopo averlo ottenuto, l'Ambasciatore italiano a Mosca». E ha fatto bene, perché altrimenti, probabilmente, l'avrebbero arrestato come spia. Ma queste cose lui le sa, perché è un professionista, Di Battista, dal 2010, è stato in Argentina, Cile, Paraguay, Bolivia, Perù, Ecuador, Belize, Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua, Guatemala, Cuba, Panama e chissà quanti ne stiamo dimenticando. La compagna Sahra però l'ha conosciuta a Roma Nord, quand'era ancora parlamentare: dopo tre mesi le ha proposto un viaggio con biglietto di sola andata per San Francisco.

OBIETTIVO INFLUENCER - Vabbeh, tanto è lì che volete arrivare: chi paga? Lui non è più parlamentare, e a dirla tutta non è neppure povero, ma non basta: ergo, da quanto inteso, il reportage sarà pubblicato su Il Fatto Quotidiano e comprenderà un documentario che andrà in onda per l'annesso «TvLoft», certo non gratis. È andata così anche in passato. «Credo sia utile conoscere quel che pensano dall'altra parte», ha scritto. Da questa parte non ha più niente da imparare. Nelle brevi pause italiane si segnala un suo corso di comunicazione politica (costo: 39 euro) tenuto per i candidati grillini alle amministrative (e questo spiega i risultati) e anche qualche aiutino per la campagna elettorale di Virginia Raggi (e anche questo spiega eccetera). In generale ad Alessandro Di Battista piace molto atteggiarsi a normalone, ciao amico, ehi fratello, raccontami la tua storia, uno di noi, il vicino della villa accanto. In effetti la quasi totalità degli italiani è indecisa se lavorare o scegliere tra andare in vacanza per mesi e girare il mondo coi figli. Li sponsorizzasse, almeno, e indossasse qualche griffe riconoscibile: i Ferragnez sarebbero a un passo.

La vita da reporter di Di Battista, i diari dalla Russia, reportage per il Fatto e “magari un libro”: “I 5 Stelle? Me ne infischio”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

Volerà in Russia per un reportage nella parte più profonda del Paese, “più verso l’Estremo Oriente”, e poi, come spesso ha fatto in questi anni, scriverà reportage per l’immancabile Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, girerà un documentario per Tv Loft (piattaforma dello stesso giornale) e “poi prenderò un po’ di appunti magari per scrivere” anche un libro per Paperfirst. Perché Di Battista vorrebbe capire “quello che pensano i russi, soprattutto nella Russia profonda, dell’Europa, delle sanzioni, della guerra, di Putin. Andrò a fare ricerche, viaggerà da solo, sui mezzi pubblici ma – precisa – non dirò le tappe perché altrimenti mi ci ritrovo Salvini, scherzo” annuncia in un video girato a Istanbul.

Poi aggiunge “siccome ha fatto tanta polemica questo viaggio mancato di Salvini io invece ci vado in Russia” dimenticando però che l’ex ministro dell’Interno è leader di un partito mentre Di Battista ad oggi va “a fare solo un lavoro da reporter” perché “non sono iscritto a partiti politici”. L’ex parlamentare del Movimento 5 Stelle ci aggiorna “che terrà un diario di viaggio sui suoi canali social” perché “per me il lavoro più bello del mondo è quello appunto di comprendere il mondo e di provare a scriverlo e a raccontarlo”.

Perché lui vorrebbe capirne di più sul sentimento dei russi verso Putin dopo oltre cento giorni di guerra. “Sono cose che devono essere analizzate, pur condannando l’invasione di Putin in Ucraina, credo sia deprimente e molto sbagliato tagliare questo legame politico-storico-culturale con il mondo Russo. Sarebbe un errore gravissimo spingere Mosca nelle braccia di Pechino che l’Europa potrebbe pagare nei prossimi 30-40 anni”.

Di Battista ci fa anche sapere di “essere appassionato di cultura russa, di essere appassionato di quel mondo” perché “ha fatto anche una tesi su formalisti russi, ho anche studiato un pochino la lingua” ma oggi “credo di essere soltanto in grado di ordinare al ristorante e di prendere i treni“.

Sulle polemiche interne al Movimento “francamente me ne infischio perché sono contento delle scelte che ho fatto. Non ho niente da dire attualmente, ho lasciato il Movimento per ragioni politiche proprio per il suicidio dell’entrata all’interno del governo dell’assembramento“.

L’incipit su Facebook al video pubblicato poi su Youtube è da libro cuore: “I primi di aprile, dopo poco più di un mese dallo scoppio della guerra, ascoltando l’ottimo corrispondete RAI Marc Innaro parlare a Carta Bianca, ho pensato che fosse davvero interessante comprendere quel che i russi (in particolare coloro che vivono al di fuori delle grandi metropoli) pensano del conflitto, dell’Europa, delle sanzioni, di Putin, dell’avvicinamento alla Cina. Dunque ho iniziato a pianificare un viaggio nella Russia più profonda. Prima di richiedere il visto ho avvertito l’Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica e dopo averlo ottenuto l’Ambasciatore italiano a Mosca. Nelle prossime ore andrò in Russia. Scriverò reportage per Il Fatto Quotidiano e girerò un documentario per TvLoft. È ciò che amo fare e, oltretutto, credo sia utile conoscere quel che pensano “dall’altra parte”. Vi aggiornerò.

Paragonandosi sempre a Salvini, che ad oggi ricopre un ruolo politico in Italia, Dibba ci fa sapere inoltre che “per quanto riguarda il biglietto ovviamente me lo sono fatto per conto mia, in una agenzia di viaggi” di cui cita anche l’indirizzo.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

·        Dino Giarrusso.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 27 maggio 2022. 

Dino Giarrusso si è dimesso dal M5S: come i 117 eletti che l'hanno preceduto. Non si schioderà dal seggio: come tutti quelli che proponevano l'esilio per i voltagabbana. 

Fonderà un movimento di ex grillini: sarà il dodicesimo. Però, attenzione: lui lo farà «con i cittadini». Non con le capre, gli elefanti marini o i mufloni. No, no: con i cittadini. Conta sul fattore sorpresa.

Michele Serra per “la Repubblica” il 27 maggio 2022. 

Da giovane pensavo che la lotta di classe fosse l'unico vero motore del mondo, oggi mi sembra che il peso della vanità incida, nelle vicende umane, almeno altrettanto. In molti dei sommovimenti politici, degli odii e delle scissioni, in molti addii e abiure, leggo sempre la stessa cosa: "Non mi amano abbastanza, non mi valutano abbastanza, dunque me ne vado da un'altra parte". 

(Tra parentesi: molti dei passaggi da sinistra a destra, anche recenti, hanno esattamente questo innesco. Non mi avete fatto ministro, segretario del partito, direttore di rete, direttore di giornale? Peggio per voi, vado da quegli altri, che sicuramente mi sapranno capire meglio. Chiusa la parentesi).

Pure i grillini, che pure di sinistra non sono anche quando ce la mettono tutta, confermano la regola. Prendete l'eurodeputato Giarrusso. Come altri protagonisti e comprimari dell'implosione di quel partito è quasi impossibile, per i non addetti, ammesso che qualcuno di soffermi su notizie così minime, trovare una motivazione "politica" del suo addio al Movimento, o a ciò che ne resta. 

Le liti sulle regole interne hanno la stessa rilevanza di una bega condominiale, e zero interesse per chi non partecipa all'assemblea di quel condominio. Si capisce, piuttosto, che Giarrusso è travolto da passioni personali: proclama "la delusione di tantissime persone che mi chiedono di non mollare", e "la gioia di tanti che nel Movimento mi hanno sempre combattuto".

Si immaginano l'amarezza, l'animosità, le notti insonni. Tutto molto rispettabile. Ma la politica? A partire dallo stesso Giarrusso, qualcuno saprebbe dare una lettura politica della mezza dozzina di scissioni in corso tra i grillini?

È stata la mano di Dino. La tragedia di un uomo Giarrusso (detto Iena). Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Maggio 2022.

Invidioso per i cachet di Di Battista, deluso dalle mancate prebende (così dice Conte), l’europarlamentare lascia i Cinquestelle e si offre gratis ai talk show. Forse è il momento di farne una commedia all’italiana, assieme al biopic che Rocco Casalino pretende giri Paolo Sorrentino o niente. 

La vita facile di Dino Giarrusso è facile solo per osservatori superficiali. Come tutte le grandi commedie all’italiana è intrisa di tragedia, di inadeguatezza, di vittimismo e megalomania, di piccole frustrazioni e grandi illusioni. È facile sottovalutarne le fatiche. È facile non capire quanto quella di Dino Giarrusso sia una vita difficile.

La mattina il tenero Giarry appare in tv e annuncia che uscirà dal Movimento Cinque Stelle. Sono venti minuti di strepitosa televisione (menzione speciale per il conduttore, Andrea Pancani, che nel rimarcare la giarrussiana «personale sofferenza» è sornione come sapeva esserlo il Maurizio Costanzo degli anni d’oro).

Dice Giarry che auspica d’ora in poi lo invitino in televisione quanto Di Battista, «io vengo gratis» (paghereste uno stipendio a un eurodeputato perché quello possa togliersi lo sfizio di fare tv senza farsi pagare?). Dice Giarry che a mettere il veto sulle sue ospitate è l’ufficio comunicazione del Movimento, «gente che paghiamo noi», procedendo poi a precisare che lui dà al Movimento tremila euro al mese (uscireste dal Movimento per risparmiare trentaseimila euro l’anno? Sai quanti campi di padel ci si affittano?).

Ribadisce Giarry quanto stimi Conte (il segnaposto, no il cantante), e che in Europa parlandone gli dicevano ma dove l’avete trovato, è bravissimo, «è ’n fenomeno» (chissà in che lingua glielo dicevano: ricorderete la performance parlamentare di Giarry costretto a improvvisare un discorso sul prosecco senza dire che the cat is on the table).

Poi, il pomeriggio, Conte dice che se Giarry esce dai Cinque stelle per coerenza deve dimettersi, e aggiunge che ogni volta che l’ha incontrato Giarry gli ha «sempre chiesto poltrone, vicepresidenze, posizioni, delegati territoriali. Non ho mai avvertito dissenso politico». E Giarry, di rimando: «Falso, sono bugie tristi, non me l’aspettavo da lui, il mio avvocato mi ha anche chiesto perché non lo querelassi».

È evidente che Conte è la padrona di casa dell’inizio di “Una vita difficile”, quella «Non voglio avere niente a che fare con gente come voi, che mi avete rubato anche i salami», e Giarry è il partigiano di Alberto Sordi, eroico quando non vede nemici in giro, e poi al primo tedesco che spunta «io no partisàn, io scrittore, artiste, romancier».

Dovunque ti volti, nella politica italiana di questi anni, ci sono grandi commedie, grandi romanzi, grandi sketch di Corrado Guzzanti (il più ritornante è «ma tu lo sai a che ora mi sono svegliato io stamattina»; anche Giarry ieri ha detto che sulla decisione di fare un nuovo partito o gruppo o quel che è non ci ha dormito la notte: non dorme mai nessuno, si sacrificano per noi, e noi ingrati).

Commedie che magari non vengono girate per eccesso di commedia. Raccontano che l’autobiografia di Rocco Casalino non sia ancora film perché, alle riunioni per opzionarla, Casalino dice senza mettersi a ridere che lui i diritti li cede solo a un regista all’altezza della sua rutilante vita, e l’unico regista che reputi tale è Paolo Sorrentino (non pervenute reazioni di Sorrentino, ma nell’epoca delle gif forse basta un’immagine di “È stata la mano di Dio” per chiosare tanta mitomania: opterei per la zia che mangia la bufala sbavando).

Ma, a parte la comprensibile invidia per i cachet televisivi di Alessandro Di Battista, e la comprensibile delusione per le mancate vicepresidenze concessegli da Conte, a Dino Giarrusso chi glielo fa fare? Le elezioni europee non saranno per altri due anni, chi lo rielegge Giarrusso con la lista Dinoiena? (Non ha ancora comunicato il nome della lista o gruppo parlamentare o quel che è che fonderà, ma la mail sulla sua pagina Facebook è Dinoiena, e sulle schede elettorali si era fatto indicare come «detto iena»: Giarry appartiene al minuscolo novero di coloro che non solo hanno avuto a che fare col più impresentabile dei programmi televisivi, ma neppure se ne vergognano).

Certo, in questi due anni può risparmiare settantamila euro di soldi che finora dava al Movimento per pagare addetti alla comunicazione che neppure lo facevano andare in tv gratis, ma poi? Come finisce l’Alberto Sordi d’un’Italia senza cinema, che neanche ha un’autobiografia da vendere? Come finirà questa vicenda così italiana da non perdere mai l’equilibrio tra tragedia e ridicolo?

A denunciare soprusi nei cavilli del regolamento della sua lista scritto da lui stesso? Inseguito dagli inviati della sua precedente trasmissione che gl’ingiungono di vergognarsi? Qual è il corrispondente di Silvio Magnozzi (sempre il Sordi di “Una vita difficile”, mica ve lo sarete già dimenticato), che scrive il suo romanzo autobiografico in galera dopo l’attentato a Togliatti?

Certi parallelismi rendono fin troppo facile adattare la Vita difficile di questo secolo: le cinquemila lire ad articolo di vibrante denuncia cui Sordi rinuncia per i cinque milioni del commendatore le cui gesta denunciava, quelle si traslano facilmente in un Giarry tentato dall’andare a lavorare per il regista che amava sputtanare come maniaco sessuale quando lavorava in quell’impresentabile varietà. Ma il resto? Lo specifico giarrussiano?

Quando finiscono i soldi del seggio europeo, che fa uno come Giarrusso, in anni in cui non puoi tentare di pagare il conto della trattoria con la cambiale d’un industriale («ma che petrolio, quello c’ha più fame de voi»)?

È chiaro che la scena finale, con Magnozzi che si ribella alle vessazioni in piscina, va ambientata nel secolo giarrussiano su un campo di padel, o magari in un reality, ma qualcuno si sbrighi a scriverla. Sono anni senza Rodolfo Sonego e senza Dino Risi, sì, ma non per questo il povero Giarry, per il tragico finale che la sua commedia merita, può accontentarsi dei talk-show.

·        Gianluigi Paragone.

Filippo Facci per “Libero Quotidiano” il 21 giugno 2022.

Tornato da Marte, chiese: «Ma davvero Gianluigi Paragone è ancora in giro?»; «Sì»; «Davvero ha detto quelle cose?»; «Sì. Perché, tu dov’eri rimasto?»; «Che era grillino, diceva che i fondi per l’editoria dovevano sparire e che i giornalisti sono una casta»; «Ah. Era il 2018»; 

«E lui era il giornalista più lottizzato d’Italia, ingrassato proprio coi fondi per l’editoria»; «Esatto: direttore della Padania, lottizzato dalla Lega, vicedirettore di Raiuno con sbracati programmi tipo Malpensa, Italia, poi alla direzione di Raidue, poi cambiò l’aria, disse «mi dimetto da giornalista di centrodestra», poi… »; 

«Poi mi ricordo io: diventò amicone di Urbano Cairo e fece «La gabbia» su La7, idolo dei No Vax»; «Impossibile, il Covid non c’era ancora»; «Dico i No Vax che c’erano già prima»; «Ah, giusto»;

«Poi condusse la kermesse che incoronò Di Maio candidato premier, divenne grillino, fu candidato nel listino, aveva un blog sul Fatto Quotidiano, poi sono partito»; «Bene: i fondi li tagliarono. Poi a inizio 2020 Di Maio ha espulso Paragone»; «Di Maio? Quello che l’aveva candidato?»; 

«Sì. Allora Paragone ha fondato Italexit»; «Una compagnia telefonica?»; «No, un partitello No Vax e anti-euro»; «E, ora, dice che i grillini devono sparire? E che Di Maio è una macchietta?»; «Sì, dice che deve tornare all’oscurità da cui era partito»; «Chi? Lui o Di Maio»; «Entrambi, fosse per me».

Alessandro Rico per “La Verità” il 6 giugno 2022.

I sondaggi gli attribuiscono fino al 4%: più di Renzi e col fiato sul collo del tandem Carlo Calenda/+Europa. Italexit, la creatura di Gianluigi Paragone, è il vero fenomeno politico di inizio estate. 

Senatore, qual è la formula vincente?

«La coerenza. Il che mi riconnette al mio trascorso giornalistico e alla decisione di lasciare il Movimento 5 stelle, quando ha dimostrato di essere interscambiabile con destra e sinistra, i banchieri, Mario Draghi, Alessandro Profumo, i Benetton, Vittorio Colao».

Mai pentito di aver lasciato quella carriera giornalistica?

«Pentito, no. C'è, a volte, il rammarico di non poter raccontare certe cose con una telecamera, con delle inchieste, in modo sistematico. Quando fai politica, devi farti ospitare nei talk, o girare l'Italia come sto facendo adesso, o affidarti a Facebook: un terreno minato». 

Appunto. Sa che sui social gira una sua foto in Aula con guanti di lattice e mascherina? E i «negazionisti» del Covid commentano: forse Paragone non sta davvero dalla nostra parte

«Il cretino lo trovi ovunque». 

Quella foto a quando risaliva?

«Alle primissime sedute del lockdown, con regole e protocolli rigidi: ero tra coloro che rivendicavano la centralità del Parlamento rispetto ai comitati di esperti. Tra l'altro, gli obiettivi dei fotografi si erano rivolti su di me perché quel giorno feci un intervento molto duro contro il governo Conte. Su di me si può dire qualsiasi cosa, tranne una: che abbia paura di affrontare il potere. Altrimenti, avrei ancora le tre mie trasmissioni tv che mi hanno chiuso"».

Lottatore solitario?

«Nel campo dell'opposizione sono il più credibile, perché ho pagato tutti i prezzi che c'erano da pagare. Io so cosa significa mandare in onda un servizio contro Draghi quando tutti, ai piani alti, telefonano per bloccarlo». 

Per lei, M5s e Lega hanno tradito. Resta coerente solo Giorgia Meloni?

«Non mi metto a dare pagelle agli altri. Ho visto che Fdi ha votato per l'invio delle armi in Ucraina, che per me è una scelta sbagliata, come lo è l'oltranzismo atlantista. Di Lega e M5s sono sotto gli occhi di tutti non solo il tradimento, ma anche la vigliaccheria». 

È vero che, contro di loro, cerca una «vendetta politica»?

«Sì». 

Che significa?

«Devono pagare per il male che hanno fatto agli italiani che avevano riposto fiducia in loro. Ci hanno privato di diritti e libertà, sposando la linea di Draghi. Mi rivolgo ai leghisti: i ministri cardine di questo governo sono gli stessi del Conte 2». 

I ministri confermati, intende.

«Il ministro dell'Interno è ancora Luciana Lamorgese. E con Massimo Garavaglia sta dicendo che bisogna aprire a nuovi flussi di immigrati. Dicono che non si trovano lavoratori; la verità è che non sanno controllare quelli che prendono il reddito di cittadinanza e poi fanno i furbi. Con il nuovo decreto flussi possono sanare gli sbarchi già avvenuti e quelli futuri, che non sono capaci di controllare». 

Se al governo non ci fosse la Lega, però, Pd e 5 stelle ne avrebbero combinate di peggio.

«Ma se la Lega fa da cameriere a Draghi! Le abbiamo dato la possibilità di votare la mozione di sfiducia individuale contro Speranza, e la Lega se l'è fatta addosso». 

Italexit strizza l'occhio ai no vax.

«Io non mi sono vaccinato. Vorrei che non ci fosse alcun obbligo su questa sperimentazione». 

È un «putiniano»?

«È stato papa Francesco a parlare di una Nato che "abbaiava" alle porte della Russia. Il giudizio sulle responsabilità nella guerra è complesso, invece noi abbiamo sempre fretta di incasellare le persone: buoni e cattivi. È uno strano esercizio di giornalismo, incapace di leggere i fatti».

Repubblica sostiene che lei avrebbe imbarcato «personale politico in cerca d'autore». Ha una classe dirigente raccogliticcia?

«Intanto, la classe politica di Italexit si andrà a prendere i voti, a differenza degli illuminati del governo che i voti non li prendono mai. Per me i "personaggi in cerca d'autore" sono quelli che hanno continuato a dare soldi alla famiglia Benetton». 

Diego Fusaro saluta la crescita di Italexit così: «Sta maturando il dissenso rispetto all'ordine egemonico». Oltre che retorico, non è esagerato? Ambite veramente a costruire un altro ordine?

«Il mio modello sociale di riferimento è quello dei miei nonni. Sono un maledetto conservatore». 

Cosa intende?

«La rovina del Paese sono stati progressisti e riformisti, gli ipocriti di centrosinistra. Roberto Speranza ne è l'emblema: tiene a casa persone sane perché non si sono vaccinate».

E i nonni?

«Io vorrei riportare la società italiana nel suo solco identitario, fatto dalla cultura del lavoro, del sacrificio, del risparmio, che si sposa alla creatività e alla managerialità che persino i nostri nonni, magari con la sola licenza elementare, dimostravano di possedere. Non credo alle élite. Non credo ai professori. Non credo alla modernità». 

I vari Luigi Marattin e Pietro Ichino sostengono che se i salari reali sono al palo, è perché non è aumentata la produttività del lavoro.

«Assurdo. In tutti questi decenni abbiamo fatto mille riforme del lavoro e l'unico risultato è stato che il lavoro e la piccola impresa sono state smontate. L'obbligo vaccinale per gli over 50 nasconde questo».

In che senso?

«In Italia, se perdi il lavoro a 50 anni, non lo ritrovi più. Per questo hanno ceduto al ricatto. Abbiamo disintegrato il lavoro, la piccola impresa, le partite Iva, le professioni, il commercio, la ristorazione E adesso sono andati a rompere le scatole pure ai balneari. Però i voti contro la Bolkestein li avevano presi, eh». 

È curioso che la diminuzione della produttività si sia determinata proprio in corrispondenza delle riforme che hanno precarizzato il lavoro.

«Il lavoro costa sempre di più per i piccoli imprenditori. Invece le multinazionali con i lavoratori possono fare carne di porco. C'è un dumping sulle politiche del lavoro che l'Europa consente agli stessi soggetti cui permette di evadere a norma di legge. Stiamo premiando i nuovi padroni». 

Ecco, l'Europa: l'obiettivo del partito, cioè l'uscita dall'Ue, è realistico? O la sparate grossa per prendere i voti, tanto sapete che i nodi non verranno mai al pettine?

«Questa è una cretinata. Dei due partiti che hanno vinto le scorse elezioni, 5 stelle e Lega, uno raccoglieva le firme per il referendum contro l'euro, l'altro aveva un leader che indossava le felpe "No euro", arruolando Claudio Borghi, Alberto Bagnai e Antonio Rinaldi».

Quindi?

 «L'elettorato ha creduto e crede ancora che un'altra via sia possibile. Il problema di fondo è che chi prende i voti per fare una cosa, poi, non ha il coraggio e la struttura morale per portare avanti le sue battaglie». 

Cosa bisognava fare di più?

«Tutte le cose di buon senso. Ma le sembra normale che, se cade un ponte in autostrada e uccide 43 persone, invece di revocare senza condizioni le concessioni autostradali ai Benetton, gli danno ancora una montagna di soldi? Oppure che un condannato in primo grado per aver falsificato i bilanci del Monte dei Paschi di Siena, Profumo, sia ancora a capo di Leonardo? O infine che Giuseppe Conte, l'uomo dei dpcm, del lockdown, delle autocertificazioni, se ne vada in giro come una verginella?».

Non crede alla sua svolta sul tema delle armi all'Ucraina?

«Conte serve tutti i padroni che si trova davanti. Lo potremmo chiamare il camaleonte». 

Il camale-Conte.

(Risata) «Visto che i nostri genitori ci hanno fatto studiare, tentiamo una citazione più elevata».

Tipo?

«Conte è il rinoceronte di Eugène Ionesco: è quello che, nel primo atto, critica i rinoceronti e poi diventa un rinoceronte e dà la caccia a chi non lo è. Quello di Conte è il peggior trasformismo vigliacco. Io non posso dimenticarmi che lui è l'uomo che ha inventato Domenico Arcuri supercommissario». 

Anche il decreto sulle armi, che copriva il governo fino a fine 2022, i grillini l'hanno votato.

«Lui dice di apprezzare Alessandro Orsini e poi fa fuori Vito Petrocelli. Che forse è anche più moderato di Orsini».

Che pensa dell'ormai naufragato viaggio di Salvini a Mosca?

 «Il problema di Salvini è che non è più credibile. Non ha commesso un errore, anzi: un leader di partito ha il diritto di tessere una tela in politica estera. Il fatto è che i suoi fili sono privi di consistenza, perché lui un giorno sta sul melo e il giorno dopo sta sul pero». 

Ce l'ha tanto con lui?

«Mi dispiace che il suo ministro della Salute si chiami Speranza, che il suo ministro dell'Interno si chiami Lamorgese e che quello della Giustizia si chiami Marta Cartabia. E poi, come puoi fare una riforma della giustizia con i referendum?».

Quindi lei non andrà a votare domenica?

«Posso anche andare a votare sì, ma a che serve? Se sei al governo, intervieni sulla riforma Cartabia». Salvini è un po' ostaggio della linea governista nel Carroccio? «Il segretario è lui; se è ostaggio, si dimetta e salvi la faccia». 

Nel 2023 sosterrà un governo di centrodestra?

«Scordatevelo, il governo di centrodestra. Dopo Draghi, tutti sono già d'accordo per rimettere Draghi o uno come lui».

Letta e Salvini smentiscono categoricamente l'inciucio.

«Falso. Infatti le elezioni saranno un referendum su Draghi, inteso come il sistema che sta avvelenando l'Italia». 

Resterete fuori voi e la Meloni?

«Io mi auguro che la Meloni cessi il prima possibile ogni contatto con Salvini e Forza Italia, con chi fa lingua in bocca con il Pd, Renzi e Speranza». 

Pensa a una collaborazione con Fdi, allora?

«Mah. Le collaborazioni non s' improvvisano».

·        Rocco Casalino.

Dagonews il 9 agosto 2022.

Leggendo l’accorata intervista di Casalino al “Corriere della sera” si immagina che la mancata candidatura di Ta-Rocco alle prossime elezioni sia frutto di un gesto di responsabilità: “Ho capito che la mia presenza in lista avrebbe scatenato polemiche e l'ultima cosa che voglio è arrecare un danno al Movimento o a Conte”. 

In realtà lo stop all’ex concorrente del Grande Fratello, che da anni sogna di poggiare le sue rotonde e abbronzate natiche sullo scranno di senatore, è arrivato direttamente da Beppe Grillo.

“L’Elevato di torno” ha detto “no” rendendo la pariglia a Conte. Si è voluto vendicare per l’ostilità mostrata da Peppiniello Appulo alla sua cocca Virginia Raggi (esclusa per aver già consumato il doppio mandato, uno da consigliere comunale e l’altro da sindaco). 

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2022.

Rocco Casalino perché alla fine ha rinunciato a candidarsi?

«Perché è giusto così: ho capito che la mia presenza in lista avrebbe scatenato polemiche e l'ultima cosa che voglio è arrecare un danno al Movimento o a Conte, a cui mi lega un rapporto di stima e affetto». 

Dica la verità: temeva di passare per il fedelissimo raccomandato?

«Chiariamolo subito: io non avrei mai chiesto di essere messo in liste bloccate o di avere un collegio sicuro. Volevo poter partecipare alle parlamentarie come tutti, volevo giocarmela. E comunque, conoscendo Conte, lui non mi avrebbe mai blindato con una candidatura sicura, mai».

Si dice che lei abbia anche richiesto i certificati legali necessari per correre. Come mai questo ripensamento?

«Sì, è vero. Confesso che sono stato combattuto fino alla fine, non ci ho dormito per 4 notti. Perché da un lato c'è la mia militanza decennale nel Movimento e la mia voglia di impegnarmi in questo nuovo percorso di Conte e dall'altra la consapevolezza di quanto il mio nome continui ad essere ancora, dopo tanti anni, così divisivo». 

Appunto. Lei ha molti nemici nel Movimento. A luglio non le è stato rinnovato il contratto alla Camera.

«Guardi, gli ultimi due anni sono stati durissimi dal punto di vista professionale. E questo a causa di una visione del tutto miope da parte dell'ex capogruppo del M5S alla Camera (Davide Crippa, ndr ). Ha tarpato le ali all'intera comunicazione, ci ha impedito di volare alto ridimensionando le nostre potenzialità e relegandoci in un angolo. Zero spazio alla creatività e all'estro, che invece sono sempre stati il mio punto di forza e che hanno sempre prodotto grandi risultati». 

Ma lei in precedenza aveva un ruolo e un potere che i parlamentari le hanno sempre contestato.

«Non era così. Non prendevamo decisioni politiche, ma vivevamo in perfetta simbiosi coi parlamentari e remavamo tutti nella stessa direzione. Eravamo vera comunità politica. E la comunicazione del M5S era ritenuta da tutti una straordinarietà». 

Lei veniva descritto come un Rasputin.

«È il modo migliore in politica per distruggere la professionalità di un tecnico. Io sono un esperto della comunicazione. Espongo le conseguenze comunicative di scelte politiche. Ci sono dei consulenti economici, legislativi e della comunicazione. Se vuoi indebolire uno molto bravo inizia a far girare la voce che è una eminenza grigia». 

Gira voce che sulla sua scelta abbia pesato anche una distanza da Conte.

«Nessuna distanza, anzi. Le dico solo che si è comportato come un fratello con me. Ci siamo sentiti fino all'ultimo e mi ha sempre detto di decidere liberamente, ma io purtroppo ho sempre un senso di colpa che le mie azioni possano danneggiare l'immagine di Conte». 

Colpa anche di alcuni errori, come l'esultanza sul balcone di Palazzo Chigi.

«Io sconto solo una cosa del mio passato: venire da un certo mondo della tv». 

Si riferisce al «Grande Fratello»?

«Sì, anche nel 2013 fui costretto a fare un passo indietro e a rinunciare alla mia candidatura al consiglio regionale in Lombardia. Lo feci anche quella volta per amore del Movimento ma le polemiche che ci furono, perché un ex concorrente del "Grande Fratello" osava scendere in politica, mi ferirono molto. E mi feriscono ancora oggi, dopo 10 anni di militanza integerrima continuo ad essere vittima di uno stupido pregiudizio». 

Crede che se avesse corso nelle parlamentarie, avrebbe vinto?

«Credo che avrei avuto buone possibilità di arrivare in alto nel mio collegio, in Puglia. Ma ripeto, nonostante siano passati 22 anni dalla mia partecipazione al "Grande Fratello" il mio nome continua a essere ancora ghiotto per chi vuole infangare non tanto me, ma il Movimento con quello che è il "metodo Boffo". Già immagino i titoloni che avrebbero fatto: "Ecco Casalino, dalla casa del GF al Parlamento"...». 

E ora cosa farà?

«Ora c'è una campagna elettorale a cui dedicarsi giorno e notte e delle elezioni da vincere». 

Mai più candidato?

«Semmai il contrario! Lo dico con 5 anni di anticipo: al prossimo giro ci sarò! Mi auguro che dopo 15 anni di militanza e lealtà al mio partito e a distanza di 30 anni dal Gf, nessuno possa più recriminarmi nulla».

 Polvere di stelle. Casalino dice che non si candida perché è vittima del pregiudizio come ex concorrente del “Grande Fratello” L'Inkiesta il 9 Agosto 2022

Il portavoce di Giuseppe Conte racconta: «Gli ultimi due anni sono stati durissimi dal punto di vista professionale. E questo a causa di una visione del tutto miope da parte dell’ex capogruppo del M5S alla Camera Davide Crippa. Ha tarpato le ali all’intera comunicazione, ci ha impedito di volare alto ridimensionando le nostre potenzialità. Zero spazio alla creatività e all’estro, che invece sono sempre stati il mio punto di forza e che hanno sempre prodotto grandi risultati» 

Se l’ex sindaca di Roma Virginia Raggi non sarà candidata del Movimento Cinque Stelle per la regola dei due mandati, il portavoce di Giuseppe Conte Rocco Casalino ha scelto invece di non correre. E al Corriere spiega il perché della sua rinuncia.

«È giusto così: ho capito che la mia presenza in lista avrebbe scatenato polemiche e l’ultima cosa che voglio è arrecare un danno al Movimento o a Conte, a cui mi lega un rapporto di stima e affetto», dice. «Chiariamolo subito: io non avrei mai chiesto di essere messo in liste bloccate o di avere un collegio sicuro. Volevo poter partecipare alle parlamentarie come tutti, volevo giocarmela. E comunque, conoscendo Conte, lui non mi avrebbe mai blindato con una candidatura sicura, mai».

In realtà, a Roma si dice che lei abbia anche richiesto i certificati legali necessari per correre. «Sì, è vero. Confesso che sono stato combattuto fino alla fine, non ci ho dormito per quattro notti», racconta. «Perché da un lato c’è la mia militanza decennale nel Movimento e la mia voglia di impegnarmi in questo nuovo percorso di Conte e dall’altra la consapevolezza di quanto il mio nome continui a essere ancora, dopo tanti anni, così divisivo».

La verità è che Casalino ha molti nemici nel Movimento. A luglio non gli è stato rinnovato neanche il contratto alla Camera. Lui lo ammette: «Gli ultimi due anni sono stati durissimi dal punto di vista professionale. E questo a causa di una visione del tutto miope da parte dell’ex capogruppo del M5S alla Camera (Davide Crippa, ndr). Ha tarpato le ali all’intera comunicazione, ci ha impedito di volare alto ridimensionando le nostre potenzialità e relegandoci in un angolo. Zero spazio alla creatività e all’estro, che invece sono sempre stati il mio punto di forza e che hanno sempre prodotto grandi risultati».

Casalino nega di aver avuto un potere che i parlamentari le hanno sempre contestato: «Non era così. Non prendevamo decisioni politiche, ma vivevamo in perfetta simbiosi coi parlamentari e remavamo tutti nella stessa direzione. Eravamo vera comunità politica. E la comunicazione del M5S era ritenuta da tutti una straordinarietà».

Il portavoce di Conte si definisce «un tecnico». «Io sono un esperto della comunicazione», dice. «Espongo le conseguenze comunicative di scelte politiche. Ci sono dei consulenti economici, legislativi e della comunicazione. Se vuoi indebolire uno molto bravo inizi a far girare la voce che è una eminenza grigia».

Gira voce, in realtà, che sulla sua scelta abbia pesato anche una distanza da Conte. Lui nega: «Nessuna distanza, anzi. Le dico solo che si è comportato come un fratello con me. Ci siamo sentiti fino all’ultimo e mi ha sempre detto di decidere liberamente, ma io purtroppo ho sempre un senso di colpa che le mie azioni possano danneggiare l’immagine di Conte».

Perché, prosegue, «io sconto solo una cosa del mio passato: venire da un certo mondo della tv». Il riferimento è al “Grande Fratello”. «Anche nel 2013 fui costretto a fare un passo indietro e a rinunciare alla mia candidatura al consiglio regionale in Lombardia. Lo feci anche quella volta per amore del Movimento ma le polemiche che ci furono, perché un ex concorrente del “Grande Fratello” osava scendere in politica, mi ferirono molto. E mi feriscono ancora oggi, dopo dieci anni di militanza integerrima continuo ad essere vittima di uno stupido pregiudizio».

Ma se avesse corso nelle parlamentarie, avrebbe avuto un buon risultato, dice: «Avrei avuto buone possibilità di arrivare in alto nel mio collegio, in Puglia. Ma ripeto, nonostante siano passati 22 anni dalla mia partecipazione al “Grande Fratello” il mio nome continua a essere ancora ghiotto per chi vuole infangare non tanto me, ma il Movimento con quello che è il “metodo Boffo”. Già immagino i titoloni che avrebbero fatto: “Ecco Casalino, dalla casa del GF al Parlamento”…».

E ora cosa farà? «Ora c’è una campagna elettorale a cui dedicarsi giorno e notte e delle elezioni da vincere». E alla prossima tornata «lo dico con cinque anni di anticipo: al prossimo giro ci sarò! Mi auguro che dopo 15 anni di militanza e lealtà al mio partito e a distanza di 30 anni dal Gf, nessuno possa più recriminarmi nulla».

·        Virginia Raggi.

Emanuele Buzzi per il “Corriere della Sera” il 4 novembre 2022.

 Virginia Raggi, ormai è un anno che non è più sindaca di Roma. Le manca?

«Se intende la poltrona, le rispondo che non mi manca affatto. Mi hanno detto di tutto ma è evidente che non ho mai flirtato con il potere. D'altronde, lo ha scritto proprio lei che, quando mi fu offerto, rifiutai un incarico ministeriale proprio perché volevo onorare fino in fondo il mandato da sindaco. 

Sicuramente guardo con amore e attenzione alla mia città e provo a prendermene cura: mentre altri dopo una roboante campagna elettorale hanno abbandonato Roma, io continuo a svolgere il mio compito di consigliera in Campidoglio». 

Cosa pensa del governo?

«Da cittadina spero faccia bene per il bene del Paese. La partigianeria politica non mi appassiona e credo che penalizzi gli interessi collettivi. Io stessa, da sindaca, sono stata penalizzata perché c'era una opposizione ideologica verso le scelte della mia amministrazione. Certamente si è trattato anche di una reazione agli attacchi - ora devo riconoscere - spesso eccessivi del primo M5S. Mi sono ritrovata ad essere la prima, insieme a Chiara Appendino, a ricoprire un incarico amministrativo di rilievo e - la politica è questo - sono stata oggetto degli attacchi politici. Fa parte dei rischi del mestiere. Ma, ritornando alla domanda, credo che la partigianeria non serva all'Italia». 

Anche lei, però, dall'opposizione ha attaccato con violenza Ignazio Marino.

«Ho chiesto scusa per alcuni attacchi. Le rivelo un segreto. In questi ultimi anni con Ignazio Marino si è creato un buon rapporto, umano e professionale. Ci siamo sentiti spesso, anche quando ero sindaca, e abbiamo discusso dei problemi di Roma. Abbiamo evitato di dare pubblicità alla cosa proprio perché c'era un clima di partigianeria, da una parte e dall'altra, che non sarebbe stato capito. Se parli con qualcuno, subito arrivano quelli che ti accusano di cercare l'inciucio. Spero, sinceramente, che questo periodo sia superato».

E che dice di Meloni?

«Ho fatto pubblicamente i migliori auguri a Giorgia Meloni. Ci siamo sentite telefonicamente. Ha davanti a sé un incarico impegnativo da far tremare le vene. In più è una donna e per questo non le perdoneranno nulla. La aspettano al varco. Al netto dei provvedimenti dell'esecutivo, che vedremo al lavoro, sono felice che una donna sia alla guida dell'Italia. Era ora».

 C'è una stretta su Superbonus e reddito di cittadinanza.

«Il reddito di cittadinanza è un provvedimento che difendo e rivendico perché ci allinea al resto d'Europa. Sicuramente vanno semplificate le procedure che consentono ai comuni di poter impiegare i percettori del reddito. 

Ma non dimentichiamoci quanto è stato provvidenziale durante il lockdown per tante persone che sono state davvero in seria difficoltà. C'è chi se ne approfitta? Si intervenga con fermezza. La guardia di finanza sta facendo un buon lavoro. Se ci sono i furbetti, vanno perseguiti. E questo vale anche per il Superbonus. Non dimentichiamoci che la crescita del Pil e anche i dati sorprendenti dell'ultimo trimestre sono legati anche al Superbonus».

Il M5S è all'opposizione.

«Saper fare opposizione non è semplice. Bisogna mettere al centro l'interesse del Paese. Si deve tentare di far approvare gli elementi più significativi del proprio programma con il dibattito politico, anche duro se serve. Se però ci sono provvedimenti utili, questi vanno sostenuti». 

Viene dipinta in contrapposizione con Conte.

«Le contrapposizioni servono a chi vuole creare scontri o perseguire qualche interesse poco trasparente. È un tema che non mi riguarda e non mi interessa. Io parlo poco pubblicamente proprio perché non voglio alimentare questo clima».

Si è parlato di una sua corsa alle Regionali nel Lazio. Cosa le riserva il suo futuro?

«Sto onorando il mio impegno da consigliera in Campidoglio. Di certo, non mi lascio strumentalizzare da beghe interne che sono lontane dai miei interessi e che credo non interessino a nessuno se non a coloro che alimentano queste voci. 

In questi ultimi mesi, oltre ad aver ripreso la mia attività di avvocato, sto studiando molto: ho approfondito temi legati alla transizione energetica che è un tema prioritario per il futuro dell'Italia, delle nostre aziende e dei nostri figli».

"Ha mentito al processo sullo stadio della Roma", l'ex sindaca Virginia Raggi indagata per falsa testimonianza. L'esponente 5S era stata denunciata per la deposizione resa il 7 maggio 2021 in tribunale. I pm dovranno stabilire se aveva commesso un errore oppure un atto volontario. La Repubblica il 27 Maggio 2022. 

Il Nuovo Stadio della Roma è rimasto solo un progetto mai realizzato. In compenso le dinamiche che ruotano intorno alla realizzazione della struttura di Tor di Valle hanno dato vita a una serie di procedimenti penali. L’ultimo, in ordine di tempo, ad approdare tra i corridoi della procura di Roma vede come protagonista l’ex sindaca della Capitale: Virginia Raggi è infatti indagata per falsa testimonianza.

È stata denunciata dopo la sua deposizione al processo sullo stadio della As Roma, nel maggio 2021. Chiamata a testimoniare, la Raggi, a proposito del passaggio tra il progetto partorito dalla giunta Marino a quello modificato durante la sua permanenza in Campidoglio, aveva detto:  “Circolò nel Movimento il parere (...) del giudice Imposimato (...)” per cui “noi potevamo revocare la delibera di Marino” ma “non abbiamo seguito perché (...) non è immaginabile tornare in- dietro rispetto a una decisione (...) che ha determinato degli effetti”, si legge negli atti riportati da Il Fatto Quotidiano. 

Ma in realtà il parere di Ferdinando Imposimato diceva di “annullare” la delibera, non di “revocare”. L’annullamento, a differenza della revoca, non comporta esborsi per il Comune. Per questo i pm stanno indagando per capire se la Raggi abbia mentito. 

"A parte l'elezione di domicilio e che l'atto di iscrizione sia stato firmato dal pm Giulia Guccione, non sappiamo altro. A quanto leggo sulla stampa, si parlerebbe di un esposto-querela dell'ex consigliera comunale M5S Grancio, che in passato ha fatto altre denunce contro l'ex sindaca Raggi, sempre tutte archiviate". Lo afferma all'Adnkronos l'avvocato Alessandro Mancori, difensore dell'ex sindaca di Roma Virginia Raggi. "Si parla di una falsa testimonianza, ora capiremo quale sarebbe il passaggio in questione, comunque siamo a disposizione" aggiunge Mancori.

Da “ni vax” a “putiniana”, è di nuovo bufera su Virginia Raggi. Italia Viva chiede le dimissioni dell'ex sindaca da presidente della Commissione speciale Expo 2030 per le chat filo russe. Lei si difende: «Non sono Pro-Putin». Il Dubbio il 30 marzo 2022.

Da “ni vax” a “putiniana” d’Italia. È di nuovo bufera sull’ex sindaca Virginia Raggi che dopo aver strizzato l’occhio a chi rifiuta il vaccino, ora guadagna il titolo di “filorussa”. Non che l’esponente M5S abbia pubblicamente preso posizione sul conflitto in Ucraina, come del resto non ha mai espresso chiaramente la sua contrarietà al vaccino: si è tenuta sul filo del dubbio, per così dire, senza di fatto mai vaccinarsi.

E senza mai prendere posizione. Almeno non apertamente, scrive Repubblica, che ora tira fuori alcuni messaggi che Raggi avrebbe inviato nella chat grillina “Quelli che l’M5S”: video, articoli e post attinti del web in cui si dipinge l’Ucraina come un paese «eterodiretto» dall’Occidente, con tanto di «battaglioni nazisti» sotto il controllo del governo. Tutte argomentazioni tipiche della propaganda russa, e per questo inaccettabili secondo gli esponenti capitolini di Italia Viva che ora ne chiedono le dimissioni da presidente della Commissione speciale su Expo 2030: la stessa che le ha “concesso” l’attuale sindaco Roberto Gualtieri per suggellare il patto giallo-rosso.

«Dopo le posizioni no vax, ci mancava solo la propaganda filo Putin. Il ruolo di presidente commissione Expo 2030 Roma non è compatibile con questa visione», scrive il coordinatore romano dei renziani Marco Cappa. Mentre la capogruppo Pd in Campidoglio Valeria Baglio chiede che Raggi smentisca pubblicamente. Ed è subito accontentata: «Non sono una filo-putiniana o filo-russa: è evidente che in Ucraina ci sia un aggressore, la Russia, come è pubblica la mia contrarietà alla guerra come soluzione dei conflitti – scrive Raggi su Facebook -. Mi rincresce dover fare questa premessa ma mi si vuole affibbiare questa “etichetta” per delegittimarmi».

Si potrebbe infatti obiettare che esprimere perplessità sul governo di Kiev non significa sostenere Putin. E del resto, lo stesso video rilanciato da Raggi (che ripesca tra alcuni vecchi discorsi dell’ex europarlamentare grillino Dario Tamburrano) ricalca la formula del “né… né”: «non si tratta di essere pro o contro la Russia, ma di essere neutrali». Ma sembra ormai innegabile un certo apparentamento tra i no vax e i putiniani nostrani, come dimostra l’esperienza della Commissione Dupre (“Dubbio e Precauzione”) guidata da Cacciari, Agamben &Co. Che ora rinuncia alla lotta contro la “dittatura sanitaria” e vira sul conflitto in Ucraina con un evento online, in programma sabato pomeriggio, dal titolo “La verità è la prima vittima della guerra. Dal coprifuoco pandemico al coprifuoco della ragione”. Ospite: il professore Alessandro Orsini.

Ventisei milioni di debiti non giustificati. Gualtieri denuncia la Raggi. Alessandro Imperiali il 30 Marzo 2022 su Il Giornale.

La cosa ancora più grave è che l'amministrazione comunale non avrebbe dato spiegazioni di fronte ai ritardi, rinunciando persino a difendersi davanti ai creditori.

Ritardi nei pagamenti ai creditori che si tramutano in milioni di euro in più che i contribuenti sono costretti a versare nelle casse capitoline per lavori e servizi. Questo è ciò che accade al Comune di Roma.

A svelare la gestione che difficilmente è possibile definire limpida è stata Silvia Scozzese, vicesindaco nonché titolare dei conti del Campidoglio. Come riporta il quotidiano il Tempo, Scozzese ha avviato un'indagine interna e dato mandato a Paolo Aielli e Pietro Mileti, rispettivamente direttore e segretario generale del Campidoglio, di esaminare i documenti e qualora trovassero delle discrepanze o dei problemi di procedere con denunce alla procura della Corte dei Conti. Sembrerebbe che la responsabile della situazione sia la giunta Raggi. Il vicesindaco, infatti, una volta insediata ha ricevuto da Mileti ben 36 proposte di sanatoria. Queste provenivano da tutti i dipartimenti capitolini ed erano stati approvati dai 5 Stelle senza spiegarne le motivazioni. E per questo ancora non hanno ricevuto l'approvazione dell'Assemblea capitolina.

Tra le proposta alcune risalgono al 2014 e sono relative agli interventi urgenti disposti dal dipartimento Simu per l'alluvione che il 31 gennaio di quell'anno colpì la Capitale.

Il problema

Sono debiti, precisa sempre il Tempo, derivanti da importi che inizialmente erano dovuti dall'amministrazione a vario titolo che però non sono mai stati pagati ai creditori. La conseguenza? Gli interessi sono saliti nelle cause di contenzioso. Perché se il Comune non paga i debiti in tempo i creditori fanno causa. E se questi ultimi vincono l'amministrazione deve pagare oltre che gli interessi anche le spese.

Le cifre

Riferendoci alle ultime stime parliamo di 26 milioni di euro, di cui 1,5 di interessi. Ma la cosa ancora più grave è che l'amministrazione non avrebbe dato spiegazioni di fronte ai ritardi, rinunciando a difendersi davanti ai creditori. "L'inerzia dell'amministrazione- scrive Scozzese in un'apposita memoria di giunta approvata il 22 marzo - è stata continuata e diffusa e ha determinato la crescita esponenziale degli oneri a carico del Comune".

Chi dovrà riordinare i conti e trovare dei validi motivi alla situazione venutasi a creare saranno il direttore e il segretario generale del Campidoglio. In primis, dovranno produrre una relazione sulle 36 proposte di sanatoria sottoposte alla Giunta. Sempre loro sono autorizzati a procedere con denunce alla Corte dei Conti. Per evitare che in futuro ci siano altri ritardi nei pagamenti è stata attivata un'azione di monitoraggio della spesa. Inoltre, c'è l'intenzione di rafforzare il coordinamento tra i dipartimenti e gli organi politici ossia Giunta e Assemblea

Valeria Di Corrado per iltempo.it il 25 marzo 2022.

Una fondazione che ha come mission l'assistenza di persone con disabilità fisica, psichica o sensoriale, chiamata a fronteggiare l'emergenza degli incendi nelle aree verdi di Roma. Per la Procura della Corte dei conti del Lazio è un no sense. Eppure il Campidoglio - durante l'amministrazione Raggi - ha assegnato alla Fondazione Roma Solidale onlus tre affidamenti, per un presunto danno erariale da 1.076.181 euro.

 I pm contabili hanno citato in citato in giudizio gli ex assessori all'Ambiente e alle Politiche sociali, Pinuccia Montanari e Laura Baldassarre, e sette dirigenti capitolini. Secondo la ricostruzione dell'accusa, gli affidamenti accordati dal Comune alla onlus non sarebbero avvenuti in modo regolare, proprio perché la cura del verde non è ritenuta coerente con lo statuto della Fondazione che «ha lo scopo di perseguire in forma esclusiva finalità di solidarietà sociale».

«Ha l'obiettivo di sostegno alle persone fragili in situazione di disagio per il miglioramento della loro qualità di vita, a partire dai servizi residenziali o comunque sostitutivi della famiglia, rivolti a persone con disabilità, fisica, psichica e sensoriale, al fine di integrarle nel tessuto sociale della città e dove possibile avviandole al lavoro».

Nel mirino del vice procuratore della Corte dei conti del Lazio, Guido Patti, sono finiti i progetti «Frutti di Roma», «Verde di Roma» e «Manutentori civici». Il primo, in particolare, affidato alla onlus nel 2018 per 397mila euro, prevedeva «pronto intervento verde e supporto attività antincendio», con lo scopo di «sperimentare azioni specifiche, anche con l'ausilio di personale assunto a tempo determinato proveniente dall'area del disagio sociale».

Il progetto prevedeva di «fronteggiare l'emergenza degli incendi a danno del patrimonio boschivo romano nella stagione estiva, attraverso attività di manutenzione e cura del verde pubblico; di sperimentare nuove logiche e nuovi modelli progettuali per la gestione delle aree verdi e boschive di Roma, anche attraverso l'impiego di persone che versano in condizioni di vulnerabilità socio-economica; promuovere la cultura del verde a Roma, sensibilizzando la popolazione alla valorizzazione e alla difesa delle aree verdi cittadine». 

Le aree verdi di Roma sui cui intervenire dovevano essere individuate dal Dipartimento Tutela Ambientale «sulla base di priorità di servizio e necessità». La Procura contabile ha dubbi anche sulla reale esecuzione dei lavori. L'ex assessore Montanari assicura che gli affidamenti sono stati firmati nel rigoroso rispetto della legge: «Abbiamo agito con correttezza, portando grandi vantaggi a tutta la città».

Alisher Usmanov, l'oligarca russo e gli intrecci con Virginia Raggi: l'indagine, tam-tam in procura. Libero Quotidiano il 06 marzo 2022.

Alisher Usmanov è un magnate russo-uzbeko con un legame speciale con Roma. Adorato da due sindaci completamente diversi come Ignazio Marino e Virginia Raggi, l’oligarca adesso deve fare i conti con la Guardia di Finanza, che sta indagando su tutti i suoi beni che si trovano in Italia e quindi anche nella sua amata Capitale che ha contribuito a migliorare con alcune ricche donazioni. 

Una delle più famose risale al 2017, quando Usmanov staccò un assegno da 300mila euro per il restauro della sala degli Orazi e Curazi dei Musei Capitolini. “È grazie anche ai mecenati come lui che possiamo ricominciare a fruire di questi spazi - dichiarò all’epoca la sindaca Raggi - il mecenatismo è qualcosa che fa bene a chi lo fa e ai cittadini che ne beneficiano”. Stando a quanto ricostruito da Il Tempo, il magnate russo-uzbeko aveva donato altri 200mila euro per finanziare il restauro della Fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale e prima ancora aveva contribuito con quasi due milioni a diversi lavori, tra cui quelli al Foro di Traiano.

All’epoca il sindaco era Marino, che tra l’altro ha dovuto difendersi in tribunale per presunte spese illecite, accuse dalle quali è stato assolto con formula piena. L’ex primo cittadino era stato a cena con Usmanov, che pagò il conto da 3.540 euro, e pare che proprio in quell’occasione l’oligarca russo espresse per la prima volta l’intenzione di farsi carico delle spese della sala degli Orazi e Curazi.

Caccia all'oro russo. Yacht e mega-ville: gli oligarchi pagano pegno. E parte la ricerca di conti e depositi. Una crisi senza fine: la guerra mette in ginocchio l'economia italiana. Draghi ha paura. Luigi Garbato su Il Tempo il 05 marzo 2022.

«È grazie anche ai mecenati come Usmanov che possiamo ricominciare a fruire di questi spazi. Il mecenatismo è qualcosa che fa bene a chi lo fa e ai cittadini che ne beneficiano». Era il 2017 quando l’ex sindaco di Roma Virginia Raggi pronunciava queste parole in riferimento alla donazione di 300mila euro del filantropo russo-uzbeko per il restauro della sala degli Orazi e Curiazi dei Musei Capitolini. Ma il forte legame che ha l’oligarca Alisher Usmanov con la Capitale è stato dimostrato nel tempo anche con un’altra donazione da 200mila euro, questa volta per finanziare l’intervento di restauro della Fontana dei Dioscuri in piazza del Quirinale.

Il rapporto con la città eterna risale a qualche anno prima, al periodo cioè in cui era primo cittadino Ignazio Marino. Il sindaco aveva infatti annunciato il contributo di quasi due milioni di euro da parte dell’industriale russo, soldi che sarebbero stati utilizzati anche per lavori al Foro di Traiano. La pioggia di denaro che è scesa sulla Capitale potrebbe però interrompersi, poiché la Guardia di Finanza sta indagando su tutti i suoi beni che si trovano in Italia. Le Fiamme Gialle, infatti, dopo aver congelato una villa in Costa Smeralda dal valore di 17 milioni all’azionista di maggioranza di Metalloinvest ed ex direttore generale di Gazprom Invest, amico di Vladimir Putin, non hanno ancora chiuso gli accertamenti nei suoi confronti sul territorio nazionale, compresa la città eterna, con la quale Usmanov ha un solido legame. Il suo nome, tra l’altro, finì anche nell’inchiesta che aveva coinvolto l’ex sindaco Marino per presunte spese illecite, accuse dalle quali fu poi assolto con formula piena.

L’oligarca, infatti, andò a cena in un noto roof garden nella Capitale con l’ex primo cittadino. Nell’elenco delle spese, che durante l’indagine erano state definite dagli inquirenti «non istituzionalmente giustificate», c’era pure la cena da 3.540 euro con Usmanov.

L’ex sindaco Marino aveva affermato che «all’inaugurazione della sala degli Orazi e Curiazi la sindaca (Raggi ndr.) ha fatto l’elogio del mecenatismo e dell’importanza della ricerca di donazioni private. Chissà se ha scritto una lettera con un biglietto d’invito per l’evento ad Alisher Usmanov. Il Movimento 5 Stelle nel 2015 mi denunciò per le mie cene di rappresentanza e negli atti delle indagini della procura tra tutte le spese per le cene di rappresentanza del mio mandato di 28 mesi venne elencata, ovviamente, anche la cena offerta l’11 aprile 2014 ad Alisher Usmanov...fu Alisher Usmanov a offrirsi di farsi carico delle spese (della sala degli Orazi e Curiazi ndr.) dopo che gliene parlai nell’autunno 2014. Usmanov è un personaggio straordinario, con una vita così singolare da meritare un romanzo».

La Finanza, intanto, avrebbe chiuso gli accertamenti in Italia nei confronti di Oleg Savchenzo, Vladimir Roudolfovitch Soloviev, Gennady Nikolayevich Timchenko e Alexey Alexandrovits Mordaschov, colpiti con il blocco dei beni poiché inseriti nella lista nera dell’Unione europea dopo l’invasione dell’Ucraina. L’unica posizione invece ancora in piedi, e sulla quale i finanzieri voglio fare piena luce, è proprio quella del magnate che ha dimostrato negli anni «beneficienza» nei confronti della Capitale. È quindi ancora caccia aperta ad altri beni che uno degli uomini più ricchi della Russia e del mondo potrebbe avere sul territorio italiano e nella città eterna.

Franco Bechis per “Verità & Affari” il 19 luglio 2022.

La vendita formalmente non è ancora avvenuta, anche se sono confermate dallo stesso Cesare Paladino le trattative in corso per la cessione del suo Hotel Plaza di Roma, nella centralissima via del Corso. 

Intanto il suocero di Giuseppe Conte ha ripulito il bilancio della società che possiede le mura dell'hotel, la Immobiliare di Roma Splendido, utilizzando a distanza una magia legislativa che porta ancora la firma del fidanzato della sua bella figlia, Olivia. 

Grazie a quella il Plaza è aumentato di valore di 245.500.000 euro, 49.100.000 dei quali «relativi al terreno sottostante al fabbricato». Un bel salto patrimoniale, visto che l'anno prima risultava a bilancio per 93,8 milioni di euro.

Tutto possibile senza pagare un euro di tasse grazie alla rivalutazione dei beni di impresa consentita da una delle leggine Covid che portava la firma di Conte.

È lo stesso suocero del leader M5s a scrivere da amministratore unico della società a spiegare la legittimità della operazione: «L’immobile strumentale ad uso alberghiero, è stato sottoposto a rivalutazione beneficiando delle disposizioni previste dall'applicazione dell’articolo 6- bis del Dl n. 23/2020 (d e c reto «Liquidità»), che ha consentito la rivalutazione gratuita dei beni d’impresa, misura messa in campo già lo scorso anno a sostegno del settore alberghiero e termale particolarmente danneggiato dalle limitazioni imposte per arginare la diffusione del Covid-19».

Ancora una volta dunque per Paladino ci sarebbe da fare santo subito il fidanzato della figlia. Grazie a decreti e dpcm firmati da Conte ha infatti potuto tenere in piedi il Plaza, mantenere con la cassa integrazione persino i figli, evitare con le rateizzazioni la guerra con la Agenzia delle Entrate e perfino uscire dai guai giudiziari in cui si era infilato per il mancato pagamento della tassa di soggiorno al comune di Roma in periodo molto precedente alla pandemia grazie alla depenalizzazione del reato di peculato inserita in uno di quei provvedimenti .

L'operazione rivalutazione del Plaza ha comportato – continua l'amministratore unico della Immobiliare Splendido – «un miglioramento degli indici di patrimonializzazione dell'impresa e pertanto del rating creditizio». 

Notizia che ovviamente conta con le banche creditrici che hanno sottoscritto un patto sulla ristrutturazione del gruppo e che si accompagna alla prima cessione di attività non strategica: «Durante l'esercizio – scrive ancora il suocero di Conte – la società ha ceduto inoltre un immobile ad uso abitativo per euro 5.750.000, al fine di ottemperare all'accordo sottoscritto nell'esercizio precedente così da saldare il debito residuo per euro 4.500.000 verso l'istituto di credito interessato. La vendita ha generato una minusvalenza di euro 963 .940». 

A bilancio la società proprietaria dell'hotel Plaza (dove lavora per altro la figlia di Paladino, nonché fidanzata del leader M5s) ha altri preziosi beni materiali: «In particolare opere d’arte iscritte in bilancio al loro valore di acquisto pari a euro 3.794.118. Si tratta di quadri, mobili, oggetti d’arte, d’antiquariato o da collezione, di cui dispone la società per motivi legati alla rappresentanza, al lustro e all’importanza che certe opere possono dare nei luoghi in cui sono collocate; pertanto non essendoci la volontà di cedere le opere d’arte, le stesse vengono collocate in bilancio tra le immobilizzazioni.

Per tali immobilizzazioni non è applicabile un piano di ammortamento legato alla perdita di utilità economica del bene nel corso del tempo, in quanto, non solo l’o p e ra non perde valore nel tempo, ma può incrementarlo in ragione della notorietà dell’a rtista e del trascorrere del tempo».

La Immobiliare controlla anche un'altra società, la Uneal (unione esercizi alberghi di lusso), che ha per oggetto la gestione alberghiera vera e propria del Plaza, che ha riaperto dopo più di due anni di fermo per la pandemia solo qualche settimana fa. Per questo motivo è stato contabilmente scontato buona parte del fitto riscosso, che ammonterebbe a prezzo pieno a 8 milioni di euro l'anno ed è diventato invece di 3,5 milioni.

Assai più contenuto (12 mila euro l'anno) il fitto invece pagato – per un appartamento all'ultimo piano dell'Hotel Plaza, una sorta di attico – da un inquilino speciale: lo stesso Paladino, suocero appunto di Conte. Il prezzo in quella zona di Roma sarebbe basso per un monolocale, è certamente assai generoso per un appartamento con vari saloni e camere come quello abitato dall'amministratore unico della società.

Nella nota integrativa al bilancio lo stesso Paladino spiega che il piano di ristrutturazione del gruppo – che comprende numerose altre società partecipate anche dalle figlie – è stato rinviato rispetto alle scadenze concordate del primo semestre 2022 «anche alla luce di possibili sviluppi in merito a trattative con investitori nazionali ed internazionali». 

Trattative invece ancora in corso con il fisco per le non banali pendenze esistenti: «La società prosegue nel suo obiettivo di risolvere le pendenze con l’Agenzia delle Entrate ricorrendo, ove possibile, alla rateizzazione delle somme dovute generatisi nel corso dei passati esercizi».

Non entusiastica la relazione del revisore dei conti, Massimo Agostini, che scrive nero su bianco: «Le informazioni reperite, anche per effetto di carenze nell’impianto contabile e nei sistemi di gestione dei dati all’interno dell’azienda, non permettono una verifica puntuale delle poste di bilancio; tuttavia, sono state richieste tutte le delucidazioni necessarie ad avere la maggior comprensione possibile dei fenomeni manifestatisi nel corso dell’esercizio».

E aggiunge: «Nella consapevolezza che la nomina e avvenuta oltre la chiusura dell’eserci - zio relativo all’anno 2021(...) e in presenza di un’incertezza significativa, sono tenuto a richiamare l’attenzione nella relazione di revisione sulla relativa informativa di bilancio, ovvero, qualora tale informativa sia inadeguata, a riflettere tale circostanza nella formulazione del nostro giudizio».

Franco Bechis per “Verità & Affari” il 4 agosto 2022.

La guerra dei Roses in casa di Giuseppe Conte rischia di incarognirsi ulteriormente. Il 2 agosto scorso infatti il padre della fidanzata del leader M5s, Cesare Paladino, ha fatto deliberare dalla holding del suo gruppo immobiliare (la Agricola Monastero Santo Stefano Vecchio srl) lo scioglimento anticipato della società ponendola in liquidazione volontaria e la nomina di se stesso come liquidatore.

La scelta improvvisa è stata la risposta del resto della famiglia al lodo parziale vinto in collegio arbitrale dal figliastro di Cesare, nonché fratellastro di Olivia (fidanzata di Conte) e Cristiana, con cui si stabiliva il suo diritto di recesso dalla capogruppo per poi passare in seconda fase alla nomina di una commissione di periti per stabilire il quantum del divorzio.

A vincere quel lodo è stato il figlio di primo letto della moglie di Paladino (l'attrice Ewa Aulin), John Rolf Shawn Shadow, cresciuto in casa di Cesare dall'età di 5 anni, ma desideroso di sciogliere ora ogni rapporto con la famiglia chiedendo di liquidargli il dovuto secondo equità. 

Pur cresciuto in casa tanti anni, John è sempre stato trattato da figliastro rispetto alle figlie naturali di Cesare, nate quando lui faceva già parte della famiglia. Così anche la holding del gruppo è stata divisa in tre seguendo questo principio di figlie e figliastro: ad Olivia e Cristiana il 47,5% della società, a John il 5%. 

Il gruppo non ha navigato in buone acque negli ultimi anni, un po' per vecchi debiti che si facevano stringenti e per i mancati pagamenti al fisco che hanno causato anche un pesante provvedimento giudiziario un po' perché non dotato di linea manageriale all'altezza.

Ma ha chiuso un piano concordato con i brandi creditori bancari e si è rimesso in navigazione più tranquilla utilizzando tutto quello che si poteva dei decreti e dpcm a firma del genero Conte. 

Grazie a quelli ha man tenuto figlie e figliastro a spese della cassa integrazione in deroga pagata dallo Stato. Grazie a quelli ha tamponato guai con ristori e rivalutazioni dei beni aziendali. Grazie a quelli con un colpo di spugna Cesare ha visto cancellata la sua condanna penale dovuta al mancato (per anni) versamento al comune di Roma della tassa di soggiorno che lui riscuoteva in albergo. 

Negli ultimi mesi Paladino senior ha scelto con la società che ne possiede le mura di rivalutare per 240 milioni di euro a costo zero (sempre grazie a un provvedimento di Conte che Mario Draghi non ha cancellato) il valore dell'Hotel Plaza di Roma, un cinque stelle nella centralissima via del Corso, dove lui stesso abita all'ultimo piano pagando un affitto irrisorio (12 mila euro l'anno). Ma soprattutto si sono fatte insistenti anche le indiscrezioni (la prima è venuta da Dagospia) su un'offerta consistente da parte di un gruppo internazionale per rilevare il Plaza consentendo un bel guadagno a chi ne è proprietario.

Ed è proprio quel miele in arrivo che Paladino senior non ha alcuna intenzione di dividere con il figliastro, di cui non si aspettava il recesso. Lo scioglimento della capogruppo ha quel solo scopo, anche se non è particolarmente elegante (la mossa è simile a quella dei ragazzini che si portano via il pallone quando vedono che la squadra sta perdendo la partita) e soprattutto si presta a un lungo contenzioso legale. 

John Shadow infatti non è stato avvisato nemmeno come socio di minoranza della convocazione dell'assemblea che scioglieva la società e il motivo- verbalizzato- è proprio quello del suo esercitato diritto di recesso contro cui a questo punto è praticamente impossibile ricorrere. Ma è in un'altra lettera di durezza inusitata che traspare il vero motivo di quello scioglimento.

E' indirizzata alle 17,15 del 2 agosto ai membri del collegio arbitrale che deve dirimere la contesta fra Paladino senior e il figliastro dall'avvocato maestro di Conte, il professore Guido Alpa. Che comunica ai giudici che essendo sciolta la società il recesso di John Shadow diventa inefficace. E aggiunge: “Vi invitiamo pertanto – e per ragioni di difesa delle parti da noi rappresentate ci corre l'obbligo di diffidarvi in tale senso- a desistere dal compimento di ulteriori atti inutilmente gravatori delle ragioni dei nostri assistiti e, così, innanzitutto dall'esperimento della contestata C.T.U., con avvertimento che in difetto i nostri assistiti si riservano di tutelare le proprie ragioni in tutte le sedi, nessuna esclusa”.

Quindi il figliastro per forza di cose anche con la liquidazione della capogruppo, avrà rimborsata la sua parte di capitale. Ma il valore della partecipazione (che appunto sconta anche la proprietà e la gestione del Plaza) invece che essere stabilito da terzi nel lodo previsto, sarà deciso dallo stesso Paladino. 

Un atto di guerra familiare vera e propria, a cui non mancheranno le risposte immediate da parte dei legali di John Shadow, Angelo di Silvio e Luigi Todaro, secondo cui a norma del 2437 del codice civile la risposta del suocero di Conte sarebbe stata gravemente tardiva rispetto alla comunicazione ufficiale del recesso e quindi nulla.

Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica” il 7 marzo 2022.

L'ex sindaca Virginia Raggi e il finanziamento di Cesare Paladino, padre di Olivia e di fatto suocero dell'ex premier Giuseppe Conte. Enrico Michetti e la liquidità garantita dai bonifici di Fratelli d'Italia. I documenti depositati in Corte d'Appello dai candidati alle ultime Comunali, conti alla mano, ricostruiscono la marcia di avvicinamento alle urne dei tre avversari del sindaco Roberto Gualtieri. Raggi e il bonifico di Paladino Decine di piccole donazioni dai sostenitori, anche da 5 euro.

I mini- versamenti raccolti attraverso Stripe, piattaforma per pagamenti online. Poi gli endorsement più pesanti. Prima l'autofinanziamento firmato Virginia Raggi, che ha bonificato 5.000 euro sul conto del suo comitato elettorale. Poi i 1.000 della senatrice Paola Taverna e del deputato Maurizio Cattoi. Quindi i finanziamenti della Tundo Spa, società rimossa dal servizio di trasporto dei ragazzi disabili dalla giunta Gualtieri, e quelli dei costruttori. 

I «palazzinari», come li chiamano i romani, hanno sostenuto tanto l'attuale sindaco che l'uscente: Ns Costruzioni srl, Cuma 6 srl e Millenium Immobiliare hanno versato un totale di 3.600 euro.

Il supporter più generoso dell'ex prima cittadina? Cesare Paladino. Il proprietario dell'Hotel Plaza, che nelle sue sale ha ospitato diverse delle riunioni elettorali della pentastellata, ha puntato 9.000 euro su Raggi. Probabilmente su suggerimento del suocero, Giuseppe Conte. 

Un gesto che, chissà, sarà pure servito a mettersi una volta per tutte alle spalle la storia dei mancati riversamenti al Comune della tassa di soggiorno. Il Plaza era moroso per 2 milioni euro. Poi si è messo in pari. Infine il finanziamento a Raggi. 

Giorgia Meloni per Michetti Se mai fosse necessaria un'altra conferma, sono i conti del comitato di Enrico Michetti a confermare che a scegliere per candidato il tribuno di Radio Radio sono stati i meloniani. A coprire 220.000 dei 309.703 spesi in campagna elettorale è stato Fratelli d'Italia. Un calderone in cui non è possibile individuare i singoli finanziatori. Tornando ai rapporti (tesi) tra le forze del centrodestra, la Lega ha investito soltanto 20.000 sulla corsa di Michetti. Forza Italia? Almeno sul rendiconto depositato in Corte d'Appello, i berlusconiani non sono pervenuti.

Oltre ai partiti, ci sono gli imprenditori. C'è chi ha sostenuto tanto Gualtieri che Michetti, come Valter Mainetti con Sorgente group: 4.000 per il candidato del Pd, 5.000 per quello del centrodestra. Anche la Scci di Davide Zanchi, società che gestisce il mall Euroma2 costruito dalla Parsitalia di Luca Parnasi, ha finanziato entrambi i contendenti: 12.000 euro a testa. Seguono i sostenitori del solo Michetti. L'immobiliarista Umberto Volpes ha messo 2.000 euro. La Ojkos di Mauro Belometti, impresa edile bergamasca, sul direttore della Gazzetta Amministrativa ne ha puntati 25.000.

Mentre la Interconsulting di Paolo Montesano, già consigliere di centrodestra a Imperia, 2.500. Nota a margine sulle uscite: i 3.510 euro spesi per far volare Michetti su una mongolfiera a fine campagna si sono rivelati inutili. Troppo vento. Il tribuno ha pagato l'acconto, ma non si è mai librato in aria. Da Sorgente e Scci donazioni bipartisan Per le mongolfiere (mai usate) del tribuno spesi 3.510 euro.

Lorenzo d'Albergo per “la Repubblica – Edizione Roma” il 6 marzo 2022.

I costruttori, nell'Urbe meglio noti come «palazzinari» . Poi una galassia di piccole e grandi cliniche private, pubblicitari, rappresentanti dei commercianti. Pure un gommista e un'agenzia automobilistica. 

Con piccoli e grandi contributi, tutti ovviamente leciti, decine di società e imprenditori hanno scommesso sull'elezione di Roberto Gualtieri a primo cittadino. Il rendiconto elettorale depositato in Corte d'Appello mette in fila i donatori e i loro finanziamenti. Sommati l'uno all'altro, valgono 770 mila euro. Fondi spesi dall'attuale inquilino del Campidoglio di fede piddina per rilanciare post sui social, compiere il tour delle periferie, farsi pubblicità su giornali e radio.

A sostenere il sindaco che gestirà i fondi del Pnrr, quelli del Giubileo 2025 e a Dubai ha appena siglato il patto per l'Expo 2030 con i rappresentanti degli industriali, degli albergatori e dei commercianti ci sono Cna, Confcommercio e Confesercenti. Quindi i costruttori. 

La Società Appalti e Costruzioni della famiglia Cerasi ha bonificato 10 mila euro. Angiola Armellini, proprietaria delle case popolari di Nuova Ostia che l'ex amministrazione grillina aveva provato ad acquistare, ne ha messi 1.000. Uno scherzo davanti ai 50 milioni saldati al Fisco nel 2014. La Fresia di Elia Federici, società del centro commerciale Gran Roma, ne ha versati 8.000. Con la società Mezzaroma sisters ecco Barbara, Alessandra e Valentina. Le figlie di Pietro hanno spinto la corsa di Gualtieri con 10.000 euro. Davide Zanchi ne ha spesi 12.000.

È il numero uno della Scci Servizi, indagato e poi archiviato per l'indagine sullo stadio a Tor di Valle. Altri 10.000 arrivano da Massimo Caputi e dalla sua Feidos. Lunedes spa ne ha bonificati la metà. Si tratta della società di Giuseppe Cornetto Bourlot, editore di Internazionale, proprietaria di alberghi e con una partecipazione nel parco Cinecittà World. La Cam, società che ha realizzato il parcheggio interrato in via Giulia, ha bonificato 3.000 euro. Sono 10.000 quelli versati dai pubblicitari di Urbanvision, restauratori della Barcaccia di piazza di Spagna... 

Prima di passare alla sanità privata, vanno registrati i due maxi versamenti da 25.000 euro di Colombi gomme, già fornitore Atac, e i 45.000 di Polimar, gruppo di Roberto Masciotti specializzato in pratiche automobilistiche. La Ceci Mauro Scavi, bonifico da 3.500 euro, ha invece realizzato l'impianto di Guidonia del gruppo Cerroni. Ora le cliniche. Aiop, l'associazione che le raduna, ha staccato un assegno da 10.000 euro. La presidente è Jessica Faroni del gruppo Ini. Villa Tiberia Hospital, Villa Maria e San Carlo di Nancy del gruppo Gvm di Ettore Sansavini ne ha messi 7.500. Suo il Covid hospital di Casal Palocco. Healthadvisor, partecipata dalla Genera Group di Filippo Ghirelli, arriva a 20.000. Il Sorgente group di Valter Mainetti ha donato 4.000 euro.

Mentre Pier Giorgio Romiti, figlio di Cesare dichiaratamente schierato con Gualtieri, ne ha versati 2.000 con la sua Bona Dea srl.

Da “Posta e Risposta - “la Repubblica” il 25 febbraio 2022.

Caro Merlo, sono rimasto rammaricato dalla decisione dei consiglieri di Azione al Comune di Roma che hanno votato (per altro spaccandosi) per Virginia Raggi come presidente per la Commissione Expo 2030. Il sorprendente consenso per Calenda e la sua lista a Roma era largamente motivato dalla campagna contro Raggi e la sua costante incapacità. E ora ce la ritroviamo alla guida dell'Expo 2030. Marino Freschi - Università Roma tre 

Risposta di Francesco Merlo

L'elezione di Virginia Raggi è un "friccicore" nel campo largo del centrosinistra, l'esposizione ("expo") di Gualtieri che fa il generoso con le dita incrociate. Non mi pare che si possa moraleggiare senza ironia sulla sfida che la nuova Raggi dei cantieri, dei treni e degli investimenti futuristi lancia alla vecchia Raggi dei gabbiani e delle buche, delle autocombustioni degli autobus, dei crolli della metropolitana e di Spelacchio.

Tanto più che la Raggi che piangeva, rideva, si rifugiava sui tetti del Campidoglio e, per ignavia, faceva il gran rifiuto delle Olimpiadi è diventata ora una No Vax che se ne vergogna, mentre il fedelissimo marito ha cominciato uno sciopero della fame contro il Green Pass. Caro Freschi, invece di inseguire le banalissime incoerenze di Calenda, si concentri sulla commedia e sul melodramma come destino di Roma.

Lorenzo D’Albergo per roma.repubblica.it il 25 febbraio 2022.

Sono ore agitate in casa Raggi. L'ex sindaca, oggi consigliera di minoranza con ambizioni di scalata al Movimento nazionale e di candidatura alle prossime Politiche, è appena stata eletta presidente della commissione speciale Expo 2030 facendo esplodere la già precaria intesa tra renziani e calendiani in Campidoglio. 

Nel frattempo, il marito Andrea Severini rilancia nelle chat grilline il proposito di iniziare lo sciopero della fame contro il Green Pass. L'unica cosa che non si muove è RomEPolis2030, la "rete culturale per il civismo cittadino" lanciata dalla pentastellata all'indomani della batosta elettorale tra i mugugni dei big del Movimento. La creatura raggiana è dormiente. Soporifera. L'ultimo messaggio dei soli 22 pubblicati sul forum del progetto civico di Raggi negli ultimi tre mesi (abbondanti) è datato 15 novembre. Il resto del sito? Modello Tripadvisor.  

Sarà capitato a tutti di visitare il famosissimo portale a caccia delle ultime recensioni sul ristorante appena prenotato. E pure di incappare nelle proteste degli utenti che puntano il dito contro i giudizi finti, compilati ad arte per far fare bella figura al locale di turno. L'effetto sul sito di Raggi è lo stesso. 

In apertura si leggono tre testimonianze al limite dell'anonimato. Luisa e Nicoletta di Roma e il torinese Francesco si entusiasmano davanti alla rete dell'ex prima cittadina. "Grazie a questo progetto ho potuto incontrare molte persone competenti e capaci con il quale condividere le mie idee per migliorare la città", scrive Luisa. 

La recensione di Nicoletta cozza con il vuoto pneumatico di interventi sulla piattaforma web: "Nel forum di RomEpolis2030 si trattano argomenti interessanti dove scambiare sia opinioni che progetti utili a tutti i livelli di analisi. Fare sintesi sulle proposte adesso è più facile". All'appello, come detto, risultano solo 22 post. La sezione dedicata al raggianissimo Expo è vuota: nemmeno una parola.

Ma Francesco, ultimo recensore semi-anonimo, pare già un fanatico del sito: "Sono capitato per caso in questo forum, poi ho cominciato a partecipare visto le competenze che ho notato. Molte idee le sto portando anche nella mia città". Ma nessuno dei 22 post sul forum (stile Meetup protogrillino) è firmato da alcun Francesco. 

Gli interventi sono firmati dall'ex vicesindaco Pietro Calabrese, l'ex assessore Andrea Coia, l'ex assessora Veronica Tasciotti, l'ex europarlamentare Dario Tamburrano, l'ex consigliere Angelo Diario. Insomma, da una serie di pentastellati fuoriusciti dalle istituzioni senza ottenere la riconferma alle urne. Un gruppo da cui gli esponenti civici tirati dentro da Raggi in campagna elettorale si sono man mano allontanati. L'ultimo è stato Marco Doria, pluriminacciato ex coordinatore delle ville storiche romane e oggi collaboratore di Nicola Franco, presidente in quota Fratelli d'Italia del VI Municipio, quello di Tor Bella Monaca. 

Andrea Venuto, coordinatore delle liste civiche che hanno accompagnato Virginia Raggi e il M5S alle ultime Comunali, si limita a commentare così l'immobilismo sul forum: "È meglio Facebook". 

Dove, però, RomEPolis2030 non esiste. Non ne fa mai menzione nemmeno l'ex sindaca nei suoi post. Interventi in cui la capitale sta lentamente sfilando in secondo piano. Tra "Quirinarie" proposte ma mai effettuate e critiche alle misure di contenimento della pandemia del governo Draghi, la grillina accarezza sempre più una dimensione nazionale.