Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
GLI STATISTI
QUARTA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
INDICE PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le aste dei cimeli giudiziari.
Le Brigate Rosse.
Il retroscena di un delitto. La pista dei servizi segreti domestici.
Il retroscena di un delitto. La pista della ‘Ndrangheta.
Il retroscena di un delitto. La pista palestinese.
Il retroscena di un delitto. La pista russa.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ricordando Andreotti.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Gli Amici di Craxi.
I Nemici di Craxi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Berlusconi e lo Sport.
Berlusconi e gli amici.
Berlusconi e la politica.
Berlusconi e la Giustizia.
INDICE TERZA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.
Stato, Fascismo e lotte di classe: eran e son comunisti.
Al tempo del Nazismo.
L’Olocausto.
Dio, Patria, Famiglia.
Le Leggi Razziali.
Al tempo del Fascismo.
Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.
Dopo il Fascismo.
I Figli di Mussolini.
Le Marocchinate.
INDICE QUARTA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Eredi di Mussolini.
Nazista…a chi?
GLI STATISTI
QUARTA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nell’archivio di Pinuccio Tatarella a Bari la vera “storia” della destra italiana. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Novembre 2022
L'archivio del politico di Alleanza Nazionale custodito dalla fondazione che porta il suo nome. Il nipote Fabrizio Tatarella: "Per anni la sinistra ha negato l'esistenza di una cultura di destra"
Politico carismatico e uomo di cultura, Giuseppe Tatarella, detto Pinuccio, fu tra i fondatori di Alleanza Nazionale. Parlamentare per un ventennio, militando prima tra le file del Movimento Sociale Italiano e poi nel partito Alleanza Nazionale fondato da Gianfranco Fini, ricoprì la carica di vicepresidente del consiglio e ministro per le Telecomunicazioni nel primo governo Berlusconi (1994). E’ stato senza alcun dubbio il simbolo della destra moderata, abile mediatore ma allo stesso tempo oppositore fermo di quei “poteri forti capaci di orientare le scelte dei decisori politici in tempi di stabilità istituzionale e di rovesciare quelli scomodi”. Persino quelli che sono sempre stati dall’altro lato della barricata, come il sindaco di Milano, Beppe Sala, gli hanno riconosciuto il ruolo di “padre della destra di governo italiana”.
Il giorno dopo la scomparsa di Pinuccio Tatarella, deceduto l’8 febbraio del 1999 all’ospedale Molinette di Torino, Gino Agnese giornalista del quotidiano Il Tempo scriveva : “Dal suo archivio si ricostruirà la storia della destra” riferendosi alle carte conservate negli anni dal “numero uno-bis di Alleanza Nazionale“, come amava definirsi. Un raccolta incredibile di giornali, libri, manifesti, riviste, volantini, ma anche tante lettere e addirittura bigliettini ricevuti da colleghi autorevoli durante gli anni al servizio delle istituzioni. Un vero e proprio tesoro “storico” che racconta uno spaccato di storia della Repubblica, e che viene conservato dal 2002 negli archivi della Fondazione Tatarella, istituita per volere di suo fratello Salvatore quando era parlamentare europeo.
Fabrizio Tatarella, nipote di Pinuccio ed anima della fondazione di cui è vice presidente, con sede a Bari che ha per obiettivo quello di custodire il patrimonio immateriale della destra italiana, dice“Fu il precursore del centrodestra, un conservatore entrato di diritto nel Pantheon della nostra parte politica. È stata un’emozione quando, nel suo discorso di insediamento, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, lo ha ricordato e tutti si sono alzati in piedi per un lungo e forte applauso”
Un’eredità per troppo tempo relegata ai margini della storia. Una cultura spesso negata e considerata di seconda categoria dalla sinistra-radical chic. “Per troppi anni alla destra italiana è stato negato il diritto ad esistere, per troppo tempo la sinistra, sbagliando, ha sostenuto che in Italia non esisteva una cultura di destra, ma questa storia e questa cultura sono parte integrante della storia della nostra nazione”, rivendica Fabrizio Tatarella. Il lavoro che porta avanti oggi è quello di raccogliere e catalogare “riviste, documenti, libri sulla destra italiana, rendendoli accessibili a tutti affinché studiosi e giovani ricercatori possano approfondire, studiare e far conoscere come in Italia è esistita una destra che è stata esclusa per anni dal gioco democratico e che grazie alla sua evoluzione e alla sua cultura politica, dopo oltre settanta anni è arrivata al governo dell’Italia”.
In Italia non esistono archivi ufficiali dei partiti e dei movimenti di destra, dal Movimento Sociale ad An. Uniche eccezioni la Fondazione Spirito – De Felice e quella dedicata a Pinuccio Tatarella. Nella biblioteca della sede della Fondazione Tararella in via Piccinni nel centro di Bari sono custoditi ed archiviati oltre 12mila volumi: dagli archivi di Pinuccio e Salvatore, ai documenti dell’Msi e di Alleanza Nazionale, le serie rilegate di quotidiani, riviste e periodici della destra, come Il Borghese, Il Candido, Il Secolo d’Italia e molti altri. Negli anni si sono aggiunti alla collezione centinaia di libri .
Il ministero dei Beni Culturali ha definito il materiale conservato nella sede della fondazione “di eccezionale interesse culturale” e di “interesse storico particolarmente rilevante”. Per far conoscere questo patrimonio ogni anno vengono organizzati eventi, convegni, dibattiti, corsi e anche una scuola di formazione politica rivolta ai più giovani.
“Non esistono più le scuole di partito, le sezioni dove si costruiva il pensiero politico e dove si selezionava una classe dirigente adeguata, oggi fondazioni, think thank, riviste, sono gli ultimi luoghi dove vive la sacralità del ragionamento politico e dove studiare la storia e la cultura politica”, spiega il vice presidente dell’istituto culturale, che fa parte dell’Aici. Ora che Giorgia Meloni “ha realizzato il sogno di Pinuccio”, quello di creare “un grande partito conservatore di massa autenticamente alternativo alla sinistra”, prosegue e conclude Fabrizio Tatarella , “la sfida sarà quella di continuare a costruire e custodire il patrimonio storico e culturale della destra”. “Costruire una società in cui il senso della tradizione, l’amore verso la patria, intesa come terra dei padri, e verso la famiglia, cellula fondamentale di ogni società, erano, sono e resteranno i valori eterni in grado di portarci fuori da qualunque crisi economica, sociale e geopolitica”. Redazione CdG 1947
Nelle carte di Pinuccio Tatarella la storia della destra italiana. L'archivio del politico di Alleanza Nazionale custodito dalla fondazione che porta il suo nome. Il nipote Fabrizio Tatarella: "Per anni la sinistra ha negato l'esistenza di una cultura di destra". Alessandra Benignetti su Il Giornale il 3 Novembre 2022.
"Dal suo archivio si ricostruirà la storia della destra". Il giorno dopo la scomparsa di Pinuccio Tatarella, l’8 febbraio del 1999 all’ospedale Molinette di Torino, il giornalista del Tempo Gino Agnese scriveva così a proposito delle carte accumulate negli anni dal "numero uno-bis di Alleanza Nazionale", come amava definirsi. Un volume impressionante di libri, giornali, manifesti, riviste, volantini, ma anche lettere e addirittura bigliettini indirizzatigli da colleghi autorevoli durante gli anni al servizio delle istituzioni. Un vero e proprio tesoro che racconta uno spaccato di storia della Repubblica, e che dal 2002 è conservato negli archivi della Fondazione Tatarella, istituita per volere del fratello Salvatore.
Politico carismatico e uomo di cultura, Giuseppe Tatarella, detto Pinuccio, fu tra i fondatori di Alleanza Nazionale. Deputato per un ventennio, prima tra le file del Movimento Sociale Italiano e poi del partito di Gianfranco Fini, nel 1994 ricoprì la carica di vicepremier e ministro per le Telecomunicazioni nel primo governo Berlusconi. Fu il simbolo della destra moderata, abile mediatore ma allo stesso tempo oppositore fermo di quei "poteri forti capaci di orientare le scelte dei decisori politici in tempi di stabilità istituzionale e di rovesciare quelli scomodi". Persino quelli che sono sempre stati dall’altro lato della barricata, come il sindaco di Milano, Beppe Sala, gli hanno riconosciuto il ruolo di "padre della destra di governo italiana".
"Fu il precursore del centrodestra, un conservatore entrato di diritto nel Pantheon della nostra parte politica. È stata un’emozione quando, nel suo discorso di insediamento, il presidente del Senato, Ignazio La Russa, lo ha ricordato e tutti si sono alzati in piedi per un lungo e forte applauso", ci dice il nipote Fabrizio, anima della fondazione con sede a Bari, di cui è vice presidente, che ha per obiettivo quello di custodire il patrimonio immateriale della destra italiana. Un’eredità per troppo tempo relegata ai margini della storia. Una cultura spesso negata e considerata di seconda categoria. Basti pensare che in Italia non esistono archivi ufficiali dei partiti e dei movimenti di destra, dal Movimento Sociale ad An. Tra le mosche bianche spiccano la Fondazione Spirito – De Felice e quella dedicata a Tatarella, appunto.
"Per troppi anni alla destra italiana è stato negato il diritto ad esistere, per troppo tempo la sinistra, sbagliando, ha sostenuto che in Italia non esisteva una cultura di destra, ma questa storia e questa cultura sono parte integrante della storia della nostra nazione", rivendica Fabrizio. Il lavoro che porta avanti oggi è quello di raccogliere e catalogare "riviste, documenti, libri sulla destra italiana, rendendoli accessibili a tutti affinché studiosi e giovani ricercatori possano approfondire, studiare e far conoscere come in Italia è esistita una destra che è stata esclusa per anni dal gioco democratico e che grazie alla sua evoluzione e alla sua cultura politica, dopo oltre settanta anni è arrivata al governo dell’Italia".
Nella biblioteca della sede di via Piccinni a Bari ci sono già 12mila volumi: gli archivi di Pinuccio e Salvatore, i documenti dell’Msi e di Alleanza Nazionale, le serie rilegate di quotidiani, riviste e periodici, come Il Borghese, Il Candido, Il Secolo d’Italia e molti altri. E poi centinaia di libri che negli anni si sono aggiunti alla collezione. Il ministero dei Beni Culturali ha definito il materiale conservato nella sede della fondazione "di eccezionale interesse culturale" e di "interesse storico particolarmente rilevante". Per far conoscere questo patrimonio ogni anno vengono organizzati eventi, convegni, dibattiti, corsi e anche una scuola di formazione politica rivolta ai più giovani.
"Non esistono più le scuole di partito, le sezioni dove si costruiva il pensiero politico e dove si selezionava una classe dirigente adeguata, oggi fondazioni, think thank, riviste, sono gli ultimi luoghi dove vive la sacralità del ragionamento politico e dove studiare la storia e la cultura politica", spiega il vice presidente dell’istituto culturale, che fa parte dell’Aici. Ora che Giorgia Meloni "ha realizzato il sogno di Pinuccio", quello di creare "un grande partito conservatore di massa autenticamente alternativo alla sinistra", prosegue Fabrizio, "la sfida sarà quella di continuare a costruire e custodire il patrimonio storico e culturale della destra". "Costruire una società in cui il senso della tradizione, l’amore verso la patria, intesa come terra dei padri, e verso la famiglia, cellula fondamentale di ogni società, erano, sono e resteranno – conclude - i valori eterni in grado di portarci fuori da qualunque crisi economica, sociale e geopolitica".
Cent’anni di fascistudine. Marcello Veneziani, Panorama (n.3)
Sul piano storico il 2022 sarà l’anno del fascismo, col centenario della marcia su Roma e dell’avvento di Mussolini al potere. Qualcuno osserverà che in realtà ogni anno, da svariati decenni, è l’anno del fascismo perché se ne parla come se fosse ancora in corso. Dunque, nessuna novità. Per un ventennio di regime, cent’anni di fascistudine. Ma sul piano storiografico, questo sarebbe l’anno giusto per ripensare il fascismo e tracciare quel “necrologio onesto” che Prezzolini invocava già poco dopo la sua caduta. Temo, invece, che di necrologi onesti non ce ne saranno, una volta adottata, anche dal Capo dello Stato, la definizione di Male Assoluto, in cui non si può salvare niente. Con queste premesse che senso avrebbe affrontare il fascismo sul piano della ricerca storica? Basta la condanna, il vituperio, la damnatio memoriae. Lo storico è congedato, reso superfluo, a meno che si trasformi in sacerdote ed esorcista, mutando la storia in anatema.
Eppure ci sarebbe da affrontare il fascismo sul piano della ricerca storica. Non per rivendicare nulla né solo per documentare gli altri aspetti del fascismo che trovarono il consenso dei popoli, l’ammirazione di statisti, di grandi artisti, pensatori e scienziati del suo tempo e dell’opinione pubblica internazionale; o per attestare che ci furono opere, eredità e realizzazioni di cui ancora usufruiamo o che al paragone con le opere venute dopo sembrano giganteggiare. Ma non è questo il tema storico del fascismo. Il vero tema ancora irrisolto, mai affrontato fino in fondo, è capire da dove spuntò il fascismo, se fu una deviazione imprevista e retrograda della storia o se fu un evento che maturò in seno all’Europa, nel cuore della sua cultura, della sua storia e del Novecento.
Certo, l’occasione determinante fu la guerra, lo scatenamento delle forze elementari; ma anche il clima che condusse alla guerra e poi al fascismo fu una febbre, un’anomalia, un impazzimento o fu piuttosto la maturazione di una linea storica e politica: il patriottismo e l’irredentismo, il tardivo colonialismo e il nazionalismo, l’interventismo della cultura.
Non solo: ma nel fascismo vengono al pettine i nodi irrisolti delle due principali tradizioni politiche del tempo che precedette il suo avvento: il socialismo, il comunismo, la lotta di classe e la rivoluzione promessa da una parte e l’imperialismo, il colonialismo, il liberalismo in assetto di guerra dall’altra.
E sullo sfondo, l’irruzione delle masse nella vita pubblica, sancita poi nel battesimo di sangue della leva obbligatoria con la prima guerra mondiale. Tutti gli elementi imputati al fascismo erano già presenti in quel triangolo: il conflitto mondiale, le attese rivoluzionarie del socialismo e le difese autoritarie del liberalismo. Anche a prescindere dalla rielaborazione “originale” della cultura, vale a dire la traduzione politica di Nietzsche e di Sorel, del dannunzianesimo e dell’idealismo militante, del futurismo e del sindacalismo rivoluzionario, il fascismo è già nell’aria in un conflitto mondiale voluto dalle democrazie occidentali contro il trono e l’altare e in una rivoluzione che non riesce ad essere internazionale ma che diventa inevitabilmente nazionale e interventista, in cui cioè le classi vengono alla fine superate dalle nazioni “giovani” e “proletarie” contro quelle ricche e senili.
Al più le letture ideologiche del fascismo lo hanno scaricato sulle spalle dei rispettivi antagonisti: per i marxisti il fascismo era figlio armato del liberalismo, della borghesia e del capitale; per i liberali, invece, il fascismo era il gemello del comunismo, la sua versione speculare in chiave nazionalista ma ugualmente totalitario, violento e statalista. In realtà il fascismo fu inevitabilmente il frutto incrociato di entrambi e della loro traduzione in stato di guerra.
C’è già il fascismo prima del fascismo nella partecipazione bellica dei regimi liberali e dei movimenti rivoluzionari alla guerra.
Poi verrà la sintesi di Mussolini, il suo pragmatismo, la sua capacità di tradurre in chiave originale quell’amalgama storico. Ma tutto si può dire del fascismo meno che fosse un’irruzione di Hycsos, una discesa di marziani, e dunque solo una parentesi storica, come cercò di esorcizzare Croce.
E tutto si può dire del fascismo meno che fosse la discesa dei barbari in piena civiltà, ovvero l’esplosione dell’irrazionalismo, come argomentò Bobbio (naturalmente a fascismo finito). L’irrazionalismo fascista aveva in realtà legami fortissimi non solo col socialismo rivoluzionario e col liberalismo autoritario ma anche con il Risorgimento incompiuto, di cui si presentò come la realizzazione (esattamente come poi fece l’antifascismo nella lotta partigiana). La sua legittimazione ideale e storica fu nel presentarsi come la salvaguardia della civiltà, la sua rinascita e non certo la sua negazione e la fuoruscita. Ripensare la nazione dopo la modernità, ripensare la tradizione con gli occhi del novecento, nell’epoca delle masse, e ripensare lo Stato oltre il capitalismo: questa fu la scommessa del fascismo.
Insomma, per capire il fascismo, il punto di partenza va capovolto: non è il Mostro venuto dal Nulla ma il figlio della storia e il frutto delle ideologie moderne. Il fascismo fu la rivolta vitale contro la decadenza della civiltà e la minaccia del bolscevismo, nel nome di un passato mitico e di un avvenire glorioso. La volontà di potenza fu la fonte della sua energia vincente ma anche dei suoi disastri, inclusa la rovina finale. Questo, in breve, ci pare il suo necrologio onesto. Ma sul fascismo interessano solo le apologie e le dannazioni. MV, Panorama (n.3)
Il fascismo e il sogno di una nuova Italia. Frédéric Le Moal su La Repubblica il 27 Maggio 2022.
Lo storico francese è uno dei protagonisti del Festival èStoria di Gorizia. Pubblichiamo il suo intervento all’incontro “La rottura istituzionale rispetto alla monarchia e al liberalismo” con Andrea Ungari.
Pensiamo di sapere cosa fosse il fascismo. Eppure niente divide gli storici più del tentativo di dare una definizione esatta, tanto questo movimento si rivelò complesso, proteiforme e talvolta contraddittorio. Come possiamo definirlo con certezza? Un movimento rivoluzionario, sociale e nazionale, anticomunista e antiliberale, che aborriva l’uguaglianza e il parlamentarismo, e che aspirava a trasformare la società italiana in un corpo omogeneo e militarizzato, inquadrato dal Partito Nazionale Fascista e sotto l’autorità dello Stato onnipotente, esaltando la violenza come virtù essenziale dell’uomo nuovo. Questa massa uniforme di individui rigenerati non lasciava spazio agli elementi potenzialmente in grado di corrompere l’Homo fascistus, come gli omosessuali o gli ebrei, benché in misura neppure lontanamente simile a quanto accadeva nel Terzo Reich.
Il suo carattere totalitario si riscontrava nell’ambizione di rimodellare gli italiani. Al di là dell’accozzaglia di idee che altrimenti lo caratterizzava, tale desiderio costituiva una linea direttiva, una matrice ideologica, un orizzonte glorioso da raggiungere. Già nel 1909 il giovane Mussolini scriveva: “Creare l’anima italiana è una missione superba”. Non si allontanò mai da questa idea. In ciò risiede la coerenza di quest’uomo passato dal socialismo al fascismo: nel progetto antropologico, nella volontà di intervenire sulla natura umana che aveva riscontrato per la prima volta nel marxismo prima della brutale rottura del 1914.
Le Camicie nere attingevano il loro ideale dalla Grande Guerra: un mondo di soldati pronti ad andare all’assalto per la nazione divinizzata. Una volta arrivati al potere, si accinsero a realizzare la loro promessa quasi messianica: l’unificazione nazionale, politica e morale degli italiani da un lato, e la loro rigenerazione dall’altro. In ciò il fascismo era l’erede della rivoluzione antropologica dell’Illuminismo e del suo rifiuto di considerare l’uomo una creatura di Dio (e in quanto tale intoccabile), così come del Risorgimento.
La visione corrente del fascismo come un movimento conservatore o reazionario, in breve di estrema destra, continua a collocarlo nella categoria dell’antimoderno e dell’antilluminismo. Secondo me, essa non coglie il problema, perché significherebbe lasciare da parte l’essenza stessa del movimento per non ammetterne la natura rivoluzionaria, che deriva precisamente dalle sue ambizioni antropologiche. Ora, non può che essere contraddittorio ammettere questa realtà e rifiutare di collegarla alla grande divisione del 1789. I fascisti, naturalmente, rifiutavano l’eredità liberale della Rivoluzione, il parlamentarismo e i diritti umani, ma incorporarono nell’ideologia quella parte di giacobinismo presente nel Risorgimento per elaborare la loro “democrazia totalitaria”.
Ma il nazionalismo acceso non è forse una prova del suo carattere di destra? Pensarlo significa trascurare l’intera eredità nazionale della sinistra dal 1789. Il grande storico francese François Furet amava ricordare che “attraverso la sintesi precoce – e che tanto promette per il futuro – operata tra un messianismo di idee e la passione nazionale, la Rivoluzione ha integrato le masse nello Stato e formato a suo vantaggio il moderno sentimento di appartenenza collettiva”.
Impregnato della dottrina di Rousseau, come sottolineò ben presto Renzo de Felice, il fascismo apparteneva a pieno titolo a quella modernità del XX secolo che aspirava alla rigenerazione dell’uomo. Fin dall’origine, in realtà, si collocò a sinistra. Era un’altra sinistra, nazionalista sì, ma ancora rivoluzionaria e persino socialista sotto molti aspetti, che proponeva una terza via tra il liberalismo e il marxismo, e aborriva tutto ciò che la borghesia rappresentava. Al centro di tutto, lo Stato, ma uno Stato ideologico che, come spiegava Mussolini nel 1929, “rappresenta un popolo in marcia, uno Stato che trasforma incessantemente questo popolo, anche nel suo aspetto fisico”. Quindi, non c’era nulla di intrinsecamente conservatore nel fascismo, nonostante i compromessi posti in essere con le forze tradizionali allo scopo di governare.
Il fascismo, in realtà, voleva distruggere per ricostruire, conservare ma con un occhio al futuro, guidato dalla convinzione che gli uomini possano essere cambiati. Non è un caso che a Mussolini piacesse paragonarsi a un artista e che fosse addirittura interessato al modo in cui gli italiani camminavano o parlavano. Voleva assumere il controllo delle coscienze per correggerle con gli strumenti più moderni: un partito unico con tutte le sue organizzazioni di controllo della gioventù, dall’infanzia fino all’università; una polizia politica e l’emarginazione dei malpensanti; la propaganda attuata con i mezzi più moderni (radio, cinema); investimenti in tutti i campi artistici (architettura, pittura ecc.); l’esaltazione dello sport.
Tutto ciò premesso, il fascismo rimase un totalitarismo a bassa intensità, circondato da contropoteri, limitato nel suo campo d’azione, ma sostenuto da una dinamica totalizzante che divenne più pronunciata nel corso degli anni Trenta. Fu a Salò che, liberato dalle sue pastoie, divenne pienamente se stesso: socialista e nazionalista.
Da un punto di vista istituzionale, bisogna sempre ricordare che il fascismo era caratterizzato dall’esistenza di due istituzioni in un unico regime: il governo autocratico guidato da Mussolini e la monarchia retta dal re Vittorio Emanuele III. Uomo intelligente quanto riservato, il sovrano pose il leader delle Camicie Nere a capo di un gabinetto di coalizione il 30 ottobre 1922, affinché la marcia su Roma non finisse in guerra civile. In seguito, lasciò che governasse, sopprimendo le libertà e svuotando le istituzioni tradizionali dello stato liberale e parlamentare in favore di una dittatura personale. Espresse la sua unica resistenza quando fu necessario difendere i simboli della monarchia, il che potrebbe sembrare irrisorio, ma rivela la consapevolezza del sovrano della permanenza della Corona e della transitorietà del fascismo.
Non parleremo quindi di una monarchia fascista ma di una diarchia, termine coniato da Mussolini per descrivere lo strano vincolo che obbligava il dittatore a recarsi ogni settimana al Palazzo del Quirinale per la firma reale dei decreti e, durante le cerimonie ufficiali, a stare dietro a quel piccolo uomo malaticcio che non si decideva a morire. Come capo dello Stato, il re nominava i senatori e rimaneva a capo dell’esercito, e a lui gli ufficiali prestavano il giuramento di fedeltà. Incarnazione di una legittimità tradizionale contraria al potere carismatico di Mussolini, Vittorio Emanuele III manteneva un riserbo assoluto, ma non aveva bisogno di parlare per rappresentare un contropotere al quale si rivolsero, ma invano, tutti gli avversari, chiunque essi fossero, fino ai disastri della seconda guerra mondiale. Alla fine, quando il monarca depose il Duce il 25 luglio 1943, fu il trono a prevalere. Traduzione di Milvia Faccia
Giuliana De’ Medici racconta Almirante: «Mio padre ascoltava e rispettava le idee di tutti». Giorgia Castelli il 7 Dicembre 2022 su Il Secolo d’Italia.
«La sua presenza in casa era molto limitata perché pieno d’impegni, e il sabato e la domenica girava l’Italia per visitare le federazioni del partito.
Quindi, delegava a mamma la gestione di casa e famiglia. La severa in casa era sicuramente lei, nota per il suo carattere un po’ intransigente». Giuliana De’ Medici in una lunga intervista a La Verità ricostruisce la figura del padre Giorgio Almirante, tra vita pubblica e privata. «Era un padre affettuoso, carino – racconta – Non so perché avesse questa nomea di uomo freddo, di ghiaccio, come spesso i suoi colleghi giornalisti lo dipingevano. Non gli ho mai sentito dire una parolaccia o visto trattar male qualcuno». E fa un esempio: «Una mattina arrivò in macchina alla sede storica del partito in via delle Quattro Fontane e l’usciere non era ancora arrivato ad aprire l’androne per parcheggiare. Quando arrivò, gli disse: “Cerca di essere più puntuale, ma ora prendiamo insieme un caffè”».
Giuliana De’ Medici parla della figura di Giorgio Almirante
Racconta che in famiglia si parlava di politica «soprattutto quando crescemmo». Poi sottolinea: «Era la persona più democratica che potesse esistere, checché ne dicano. Ascoltava tutti senza alcuna remora». E svela che «gli incontri avuti con Berlinguer, nei quali cercavano soluzioni per tamponare gli opposti estremismi, furono molto riservati e non venivano fatti a casa».
Almirante era un cattolico praticante? «In realtà no, perché pieno d’impegni. Non andava a messa tutte le domeniche. Però era un vero credente, questo sì. Aveva come padre spirituale Raimondo Spiazzi, un vaticanista consigliere di Papa Wojtyla. Anch’ io non sono molto praticante». E poi ancora: «È stato sempre dipinto come persona cinica, aiutato da questi occhi azzurri, che erano dolcissimi. Ma rispettava le idee di tutti. Tenga conto che nel Msi c’erano i congressi provinciali nei quali erano eletti i rappresentanti di varie province per il congresso e tutti avevano diritto di parola. È vero che il Msi s’identifica con Almirante, ma c’era un grande dibattito interno. Sul divorzio lui era d’accordo, ma la maggioranza del partito decise che si doveva essere contro, e si piegò a queste decisioni pur non condividendole».
Quando si recò ai funerali di Berlinguer
Giuliana De’ Medici poi racconta a La Verità: «Quando ha saputo della morte di Berlinguer, sapendo che era stata allestita la camera ardente a Botteghe Oscure, andò, da solo, con la sua 500, che parcheggiò vicino a piazza Venezia, s’ incamminò, si mise in fila tra gli attivisti del Pci che lo guardavano inorriditi, ma ebbero molto rispetto, nessuno gli disse una cattiva parola. Poi arrivò la voce, nella camera ardente, che c’era Almirante in fila e quindi Pajetta uscì a prenderlo».
Al suo funerale «c’erano tutti i leader politici del momento»
E sottolinea che quando suo padre morì la sinistra partecipò ai funerali. C’erano «tutti i leader politici del momento, la Jotti, Pajetta, Pannella e anche molti democristiani e socialisti». Giuliana De’ Medici poi puntualizza: «Ricordava sempre che il fascismo finì con Mussolini, perché era legato all’uomo. Almirante diceva: “Ma vi immaginate me sul balcone di Palazzo Venezia, con le mani su fianchi? Sarei ridicolo”. Non rinnegava di essere stato un fascista. Ricordava con affetto il ministro Mezzasoma, con lui nella Repubblica Sociale, era convinto di ciò che aveva fatto, ma si rendeva conto che quello era un periodo storico. Quando entrò in Parlamento, fu regolarmente eletto dal popolo italiano, non come alcuni di oggi che con questa legge elettorale sono nominati dai partiti».
«Quando Di Pietro disse…»
Esasperato dalla Prima Repubblica, sperava nella Seconda. «Lo stesso Di Pietro disse più volte che l’unico partito non coinvolto in Tangentopoli era il Msi. Inoltre mio padre disse sempre di essere contro il terrorismo e che se uno di destra o del partito si fosse macchiato di questa colpa, avrebbe dovuto subire una condanna maggiore. Quando mio padre morì, Montanelli, scrisse che Almirante fu “l’unico politico italiano cui potevi stringere la mano senza sporcartela”».
«Una premier donna la vedrebbe benissimo»
Che ne penserebbe oggi del fatto che, per la prima volta nella storia del Paese, c’è una donna premier, Giorgia Meloni? «Credeva molto nelle donne – risponde – tant’ è che negli anni 1965-1970, nel Msi c’era la carica di segretaria femminile nel partito. Non aveva nessuna preclusione o pregiudizio nei loro confronti, basti pensare che ci sono state molte deputate missine. Quindi, una premier donna la vedrebbe benissimo».
"Il neofascismo non è ideologia ma nostalgia movimentista". Matteo Sacchi il 29 Maggio 2022 su Il Giornale.
Lo storico da "èStoria" ci racconta che cosa resta del Ventennio: "Mussolini voleva creare uno Stato. I suoi epigoni invece no".
Quest'anno al Festival èStoria di Gorizia il tema del dibattito è «Fascismi», a partire dalle origini sino ad arrivare ai neofascismi attuali. Perché il mito del Ventennio, ma soprattutto del movimentismo fascista e della Rsi, hanno fatto molta strada. A èStoria questi temi li ha trattati ieri il professor Giuseppe Parlato. Mentre di «Mito e antimito della Rsi» parlerà oggi il professor Roberto Chiarini, del quale qui a fianco ospitiamo un intervento. Ma seguiamo con Parlato la storia del «fascismo dopo il fascismo».
Professor Parlato, quali idee rimangono dopo il Ventennio e quale percorso fanno?
«Credo che si possa dire che nel neofascismo, qualcuno direbbe post fascismo ma non vuol dire nulla, convergano tutte le culture che hanno animato il fascismo, quello movimentista e rivoluzionario, quello più istituzionale alla Bottai, meno nostalgico e più legato all'anticomunismo. E poi le componenti cattoliche, ma anche quelle che Almirante chiamava le componenti ghibelline del fascismo, più laiche. Sino ad arrivare a culture molto vicine alla sinistra. Il neofascismo tende a ripetere quel complesso culturale che aveva caratterizzato il fascismo. Tutte cose che erano state tenute insieme da Mussolini. È stato uno dei problemi del Movimento sociale aver assunto una complessità di temi che prima era sintetizzata da Mussolini, il quale aveva un partito di governo che doveva coinvolgere tutta la società. Il Movimento sociale era altrettanto pluralista avendo il 5 per cento».
Ecco, il fascismo era stato ideologicamente molto fluido. Mussolini non aveva voluto puntare sull'ideologia. Però è strano che un movimento così legato al leader e a-ideologico sia sopravvissuto alla scomparsa del leader medesimo. Come ha fatto?
«Si spiega con la categoria della nostalgia. Il neofascismo e il Movimento sociale nello specifico non è tenuto assieme dal dibattito e dall'elemento culturale. Quello che tiene uniti è proprio idea della memoria e del ricordo. Almirante non ha fondato il Movimento sociale, ma è lui che gli ha dato la torsione nostalgica, utile elettoralmente. Pensi all'inno siamo nati nel cupo tramonto. Rende l'idea... Lo scopo non è il potere, ma creare una società nuova. È importante tenere un bagaglio di memoria, e lo rimane per cinquant'anni, quando il fascismo al potere ci è rimasto per venti. E viene fatto a prescindere dalla situazione. C'è un tentativo di fare politica solo tra il '50 e il '69 ma non ci riuscirono».
Anche altri partiti però favorirono questa idea di un fascismo «eterno» per sfruttarla...
«Per contrapporvisi? Certamente, come il Partito comunista. Quando nell'ottobre del '50 Scelba portò in Parlamento la sua legge contro il Movimento sociale voleva un provvedimento che fermasse gli apparentamenti tra Msi e Monarchici. Il pericolo comunista per Scelba era nettamente superiore, ma voleva sganciare i missini dai monarchici per evitare che alle elezioni locali, cosa che poi accadde, una decina di capoluoghi del Sud finissero in mano a quel ticket politico inedito. I comunisti si opposero al passaggio urgente della legge al Senato. Si è detto perché si evitasse di passare a una legge polivalente contro i partiti totalitari. Ma secondo me l'Msi era fondamentale per i comunisti, perché giudicavano che fosse la garanzia per continuare a sostenere la necessità di un blocco antifascista. La sua presenza dirompente e muscolare favoriva la necessità di una sinistra unita che il Pci potesse guidare».
Ha detto che il tentativo di far politica dell'Msi durò solo dal 50 al '69. Perché?
«Facciamo un passo indietro. Fondatore dell'Msi è Pino Romualdi, il quale voleva fare un partito atlantico, monarchico, cattolico e anticomunista. Gli americani avevano tenuto contatti con la Decima Mas. Ma Romualdi viene arrestato alla vigilia delle elezioni del '48. Almirante allora assume la guida del partito, capisce che gli Usa hanno scelto la Dc, e intuisce che i voti si possono prendere solo con un richiamo identitario forte alla Rsi. Ne ottiene 5 deputati e sino al '50 continuano così. Non vogliono sedersi a destra in Parlamento... Nel 1950 Augusto De Marsanich sostituisce Almirante. De Marsanich, e lo farà anche Michelini dopo di lui, pensa subito che la Dc non avrà più il successo di prima, apre il partito e lo porta ad appoggiare quattro governi. L'ultimo è quello di Tambroni nel 1960. I missini contano, per le elezioni presidenziali. Sono determinanti nelle elezioni di Segni e Leone. Siamo molto lontani dal nostalgismo di Giorgio Almirante. Cercano di frenare l'apertura a sinistra magari spaccando la Dc e condizionandola. Nel 1969 la segreteria torna ad Almirante e questo tipo di progettualità di governo non ricomparirà sino a Fiuggi».
Dal punto di vista dell'area culturale neofascista, contano queste scelte tattiche o prevale la dimensione emotiva, nostalgica?
«Sia De Marsanich che Michelini dicono che non vogliono rinnegare il passato, ma consegnarlo alla storia. Una parte della base del partito, fortemente anticomunista, accetta il ragionamento. L'elemento giovanile invece va per un'altra strada, già con l'uscita di Ordine nuovo nel '56 dà vita a una serie di uscite che elettoralmente contano poco, ma contano molto nelle piazze e nelle università. Nasce un altro modello politico, nostalgico emotivamente, ma con una forte commistione culturale con il nazionalsocialismo o con i nazimaosti. Coniugare Evola a Mao. Collegare il tradizionalismo con posizioni antimoderne e antimperialiste. Piacciono i Vietcong, i Paesi arabi e anche i temi ecologici diventano prioritari».
E questo percorso arriva sino a noi...
«Questo elemento nostalgico, anche nella destra radicale, diversa dall'Msi, si è affievolito nel tempo. In questi movimenti hanno trovato spazio anche aspirazioni rivoluzionarie che avevano una genesi diversa, secondo qualcuno una genesi a libro paga del ministero dell'Interno... È una questione tutta da approfondire. Certo, ad esempio l'antiamericanismo è rimasto come un fiume carsico che ha continuato a riaffiorare di tanto in tanto. E quindi i nemici degli Stati Uniti sono sempre visti come amici. La nostalgia a un certo punto diventa folclore».
Ma perché il fascismo con vent'anni di governo ha lasciato come imprinting soprattutto l'avanguardismo e l'Rsi?
«Fascismo di regime è vissuto come un necessario compromesso con i poteri forti. É il fascismo eversivo che piace a destra radicale non quella che crea lo Stato. Questa destra radicale non ama cose come la conciliazione... Si tratta di una destra radicale che è destra sino ad un certo punto».
Fuori d'Italia che impronta ha dato il fascismo. Il neofascismo è solo italiano?
«Mussolini stesso considerava il fascismo come un fenomeno non esportabile. Mussolini voleva costruire lo Stato, lo Stato italiano. È più internazionalista il nazismo, anche con la teoria della razza. A livello internazionale fanno presa altre idee di destra, spesso legate alla tradizione. Mussolini non dava peso all'ideologia. Gli interessava lo Stato. Evola durante il fascismo non contava quasi nulla. Dopo la guerra è diventato importante. Colmava un vuoto».
La destra, la guerra e la Nato: un dibattito che dura dagli anni ’50 e che ha riportato in pista persino Fini. Adele Sirocchi mercoledì 25 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.
La guerra in Ucraina, con il rinnovato protagonismo degli Stati Uniti e il conseguente rafforzamento della Nato (con l’ingresso di Finlandia e Svezia) ha fatto precipitare la destra in un dibattito che sembrava rimasto in sospeso da decenni ma che già lacerava il Msi negli anni Cinquanta: essere atlantisti o no. Essere pro-Nato o anti-Nato. E ancora: criticare l’America oppure riconoscerle il ruolo di baluardo dell’Occidente minacciato.
La questione, come detto, teneva banco nei primi congressi del Msi – in particolare quello dell’Aquila del 1954 e quello di Milano del 1956 – e vide sempre la corrente di sinistra, capeggiata da Ernesto Massi e Concetto Pettinato, opporsi alla linea atlantista che poi il partito avrebbe intrapreso.
Oggi, come detto, certi sentimenti – mai del tutto sopiti e trasformatisi decenni dopo nelle mozioni critiche verso l’americanismo di Beppe Niccolai e di Pino Rauti – riaffiorano e si intrecciano al dibattito su Putin, Biden, il destino dell’Europa, l’Occidente.
Cinque giorni fa al Senato Ignazio La Russa sottolineava che non ci sono dubbi sulla posizione di FdI: “Noi siamo sempre stati ancorati ai valori occidentali. Ed è dal 1949 che la destra politica italiana, il Msi, poi An e poi il Pdl fino oggi a FdI, si è sempre coerentemente schierata da questa parte del mondo anche a sostegno dello strumento difensivo occidentale che è la Nato. Perché abbiamo sempre ritenuto che il pericolo alla nostra libertà venisse da Est”. E ha poi detto. “Se vogliamo essere alla pari degli Usa e non delegare agli Stati Uniti la nostra difesa non possiamo poi dire no alla politica per rafforzare il nostro esercito”. Una posizione netta, che peraltro Giorgia Meloni aveva chiarito già alla conferenza di Milano di FdI.
Eppure si discute. E’ accaduto alla presentazione del libro di Enzo Raisi a Roma, “La casta siete voi“, dove erano presenti Gianni Alemanno e Claudio Barbaro, entrambi di FdI. E dove ha preso la parola Gianfranco Fini per il suo primo intervento pubblico dopo molti anni. Lo scambio di vedute ha riguardato la guerra, la destra e l’Occidente.
“Non riesco a capire come in alcuni casi da destra si continua a dire che l’Italia e l’Europa sono una colonia americana in ragione di quello che è accaduto nel ’45 – ha detto Gianfranco Fini – oggi la questione riguarda il confronto in atto tra un Occidente in fase regressiva e altre realtà economico-finanziarie culturali che sono in fase espansiva. Le realtà in espansione, le cosiddette autocrazie o le cosiddette dittature, quali Cina e Russia, sono i due modelli alternativi ai modelli occidentali che vanno rivisti certo, riformati, non è tutto oro quello che luccica, a cominciare dalla cancel culture che vuole abbattere le statue di Colombo…”.
A sua volta Gianni Alemanno, reduce da una missione umanitaria della Fondazione An che ha portato aiuti alle popolazioni ucraine colpite dalla guerra, non fa mistero della sua posizione critica verso la narrazione unica sul conflitto. “Anche gli Usa – ha detto di recente in un’intervista a Repubblica– hanno fatto le loro guerre illegali e sul Donbass non è stata mai avanzata una proposta per risolvere il problema dal 2014…”. E tra due giorni lo stesso Alemanno sarà presente al dibattito “Fermare la guerra” a Roma, a Palazzo Wedekind. Ci saranno Franco Cardini, Toni Capuozzo e Francesco Borgonovo, tutti noti per le loro posizioni anti-Nato e comprensive verso le ragioni della Russia. E a moderare ci sarà Massimo Magliaro, già capo ufficio stampa dell’atlantista Almirante. E il dibattito continua…
Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 12 ottobre 2022.
Cimeli fascisti, bassorilievo e statua del duce Benito Mussolini: «C’è anche un simbolo comunista, ma gliel’ho messo sotto i piedi», dice ridendo Ignazio La Russa in un video girato a casa sua. Le immagini risalgono al 2018 ma sono state rilanciate in queste ore sui social: «La casa di La Russa custodisce una collezione di memorabilia» recita il sottopancia. A quattro anni di distanza La Russa potrebbe essere il nome che la senatrice a vita Liliana Segre, testimone dell’olocausto e chiamata a presiedere le prime sedute di Palazzo Madama, potrebbe scandire per dichiararlo nuovo presidente del Senato.
Il 13 ci sarà la prima seduta del Senato per eleggere il nuovo presidente. La Russa è il favorito, l’uomo che la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, vorrebbe come seconda carica dello stato. Fino a oggi La Russa ha dimostrato di avere un rapporto con la storia molto particolare. Oltre al disegno di legge per festeggiare il 17 marzo l’unità d’Italia, da vero patriota, il senatore di Fratelli d’Italia nella scorsa legislatura ne ha presentato un altro per l’istituzione di una commissione per le violenze negli anni Sessanta e Settanta.
Nel testo si legge che nel suo cuore c’è nello specifico la strage romana di Acca Larenzia, quando il 7 gennaio 1978 furono uccisi due giovani attivisti del Fronte della Gioventù, Franco Bigonzetti e Francesco Ciavatta, davanti alla sede del Movimento Sociale Italiano nella via del quartiere Tuscolano che diede il nome al pluriomicidio. Un evento che richiama ancora le celebrazioni dei nostalgici del duce, a partire dai fascisti del Terzo millennio di Casapound.
La Russa, che ora dice che non c’è niente di nostalgico nel suo partito, oltre ai cimeli fascisti, nell’intervista pubblicata sul Corriere della Sera ricorda il 12 aprile del 1973, il “giovedì nero”, quando il partito neofascista Msi scese in piazza nonostante il divieto della prefettura. La Russa all’epoca era dirigente giovanile e fu testimone dello scontro: «Uccidere un poliziotto per un partito come il nostro fu un trauma da cui faticammo a riprenderci». La sua non era una militanza dell’ultimo minuto, nel 1969 fu riconosciuto e cacciato dalla Bocconi: «Ero andato a prendere la mia fidanzata». Nei giorni successivi incontrò i responsabili: «Si sono presi tanti schiaffi che se li ricordano ancora».
Cinquant’anni dopo La Russa non festeggia il 25 aprile, il giorno della liberazione dal nazifascismo. Cosa farà se diventerà presidente del Senato? Le polemiche con l’Associazione nazionale partigiani italiani non sono mai finite. «L’Anpi – ha detto qualche anno fa – altro non è che una foglia di fico della sinistra, una associazione che sfila con i centri sociali e che fa comodo solo per tenere alto il pericolo del fascismo, che però non c’è più da ben 72 anni».
Un’idea che, qualora diventasse seconda carica dello stato, non condividerebbe con la prima, visto che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non ha mai mancato di ringraziare l’associazione.
L’ultimo diverbio con l’Anpi riguarda il fratello, Romano La Russa. L’assessore regionale di FdI due settimane fa ha alzato il braccio destro – come per il saluto fascista – al funerale di suo cognato Alberto Stabilini. L’associazione partigiana ha riprovato il gesto e chiesto alla magistratura di «individuare i responsabili e di applicare le leggi Scelba e Mancino per apologia di fascismo». Per La Russa (Ignazio) quello del fratello è stato solo «un grave errore».
Se La Russa non sente il 25 aprile, il ricordo delle Foibe, il massacro di italiani ad opera di partigiani jugoslavi, è invece sempre nei suoi pensieri. La Russa in occasione della commemorazione cara alla destra partecipa alla deposizione della corona d'alloro all'Altare della patria, a cui in passato si è presentato con tutti i big del partito: Giorgia Meloni, Guido Crosetto, Daniela Santanché e Fabio Rampelli. Con sottofondo dell’inno nazionale e sventolamento del tricolore.
L’attenzione al duce non si è mai spenta. Nel 2019, La Russa se l’è presa con il vescovo di Ventimiglia, Antonio Suetta, che non voleva acconsentire a celebrare la commemorazione della morte di Mussolini il 28 aprile. La Russa non era d’accordo: «Non so come possa essere strumento di polemica, è solo un ricordo religioso di una persona che non c’è più e credo che la religione cristiana non preveda divieti di questo tipo».
Con il fascismo, ha detto di recente, «abbiamo chiuso a Fiuggi», al congresso dove l’ex leader Gianfranco Fini nelle sue tesi disse che la destra non è figlia del fascismo. «Noi con i neofascisti e il folclorismo nostalgico non abbiamo niente a che spartire, la sinistra si metta l'anima in pace», ha risposto al Foglio La Russa l’anno scorso senza specificare se intanto a casa sua sono spariti i cimeli che si vedevano nel video.
A settembre, durante un diverbio con il governatore Michele Emiliano in vista delle elezioni, è stato provocato sulle sue origini politiche: «Siamo tutti eredi del Duce – ha risposto –, se intendi eredi di quell’Italia dei nostri padri, dei nostri nonni e dei nostri bisnonni».
Da El Alamein alla bare di Nassiriya la storia dei La Russa. Hoara Borselli il 12 Novembre 2022 su Culturaidentita.it.
Ignazio La Russa, classe 1947 è nato a Paternò, nel catanese, da Maria Concetta Oliveri ed Antonino La Russa, di professione avvocato penalista di cui diverrà nel dopoguerra uno dei più autorevoli del Foro di Catania. Ha ereditato dal padre la passione per la politica. Antonino La Russa si avvicinò alla politica da studente come membro dei Gruppi Universitari Fascisti(GUF). Nel 1938 fu nominato segretario politico del Partito Nazionale Fascista a Paternò. Dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale partì come volontario e, con il grado di tenente, fu assegnato alla 17a Divisione fanteria Pavia, impegnata sul fronte nordafricano. Nel corso della battaglia del 1942 tra le forze dell’Asse e quelle britanniche per la riconquista della fortezza di Tobruch, in Libia, da parte degli italo-tedeschi, La Russa rischiò di perdere la vita a causa di una bomba lanciata dall’esercito nemico. Al termine della seconda battaglia di El Alamein, persa dalle forze dell’Asse, fu catturato dai britannici e rimase in Egitto come prigioniero di guerra non cooperante fino al 1946. Rientrato in Italia aderì al Movimento Sociale Italiano e nel 1972 venne eletto senatore della Repubblica.
Vita forense, politica, e passione militare, sono tre elementi dominanti nella vita di Ignazio La Russa. Avvocato penalista come il padre, a Milano la sua figura è legata soprattutto alla storia di Sergio Ramelli, della sua morte tragica, del processo che ne è seguito e lui in quel processo ha rappresentato la famiglia del giovane. L’omicidio di Sergio Ramelli fu un crimine commesso a Milano nel 1975 durante gli anni di piombo. Studente milanese di 19 anni, militante del Fronte della Gioventù, fu aggredito il 13 marzo da un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare legati ad Avanguardia operaia. Pestato con una chiave inglese, morì dopo un mese e mezzo di agonia. Durante quel processo l’avvocato La Russa fu fondamentale. Se qualcuno pensa oggi che le parole di conciliazione dette in Senato, quando ha ricordato gli anni settanta a Milano, sintetizzandoli nel delitto Calabresi, oltre alla tragedia del diciottenne Ramelli e alla scomparsa di due simboli della sinistra, Fausto e Iaio (forse vittime di spacciatori più che di fascisti) siano state di comodo, non conosce la persona. Poi c’è la politica. Parlamentare dal 1992, prima alla Camera dei deputati e dal 2018 al Senato della Repubblica. Ha militato dapprima nel Movimento Sociale Italiano – Destra Nazionale (per il quale era stato a lungo dirigente della sezione giovanile il Fronte della Gioventù) e poi in Alleanza Nazionale, avendone anche ricoperto il ruolo di presidente reggente dal 2008. Nel 2009, con lo scioglimento di Alleanza Nazionale, è confluito nel Popolo della Libertà con il ruolo di coordinatore nazionale, per poi fondare Fratelli d’Italia insieme a Giorgia Meloni e Guido Crosetto a dicembre 2012.
Dall’8 maggio 2008 al 16 novembre 2011 è stato Ministro della Difesa nel governo Berlusconi IV. È stato inoltre vicepresidente della Camera nella XII legislatura (dal 25 maggio 1994 al 9 maggio 1996) e vicepresidente del Senato nella XVIII (dal 28 marzo 2018 al 12 ottobre 2022).
L’essere stato Ministro della Difesa ha rappresentato un periodo della sua vita politica che rivendica con orgoglio e commozione. Lo ha segnato in modo indelebile. Infatti durante il primo discorso di insediamento come presidente del Senato ha pronunciato queste parole: “Un pensiero alle donne e agli uomini in divisa, che porto nel cuore per la mia storia politica e istituzionale e che sono la bandiera dell’Italia nel nostro Paese e nel mondo, ideali di pace e di sicurezza. Lasciatemi dire che nella mia lunga vita politica i momenti più toccanti, che ricordo con più tristezza, ma anche con più dedizione, sono quelli in cui sulle mie spalle ho portato le bare dei soldati caduti in Afghanistan, che mi toccava ricevere. A loro, a tutti i militari e a tutti i caduti di ogni guerra, va il mio deferente omaggio. Purtroppo la guerra non è solo un ricordo, ma un’attualità drammatica e dolorosa, che vorremmo finisse ora, in questo minuto. Vorremmo che il clamore delle armi fosse sostituito dalla voce di trattative che possono arrivare però solo con giustizia, perché non può esservi mai pace senza giustizia. Visto quindi che parliamo drammaticamente e tristemente di guerra per quello che i patrioti ucraini stanno subendo in questo periodo, a loro va il mio pensiero, così come va ai profughi e ai rifugiati ucraini e di ogni parte del mondo che scappano dalla guerra e che devono essere accolti con onore.” Alle Forze dell’Ordine il Presidente del Senato rivolge sempre parole come onore, rispetto e gratitudine. La destra è riconoscente verso chi, con spirito di abnegazione si sacrifica per la Patria, chi combatte sul campo e chi ogni giorno mette a rischio la propria sicurezza per garantirci la nostra. C’è poi chi, a sinistra, tipo Michela Murgia, dice che teme le divise. Mi chiedo come possa essere possibile anche solo pensarlo. Ma poi penso che oggi governa la destra, che il Presidente del Consiglio è Giorgia Meloni, che il Presidente del Senato è La Russa e mi rassereno. Perché a me, a differenza della Murgia, le divise infondono serenità, e chi le difende e le rispetta merita incondizionatamente la mia stima
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti. Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.
Dagospia il 30 ottobre 2022. IL VERO PROBLEMA DELL’OPINIONE PUBBLICA ITALIANA È CHE NESSUNO LEGGE GLI ARTICOLI, MA SOLTANTO I TITOLI – UN ESEMPIO CALZANTE? LA POLEMICA SU LA RUSSA CHE DICE “NON FESTEGGIO IL 25 APRILE”. “LA STAMPA” CI HA FATTO UN TITOLONE SPARATO IN PRIMA PAGINA, MA LUI NELL’INTERVISTA RILASCIATA A PAOLO COLONNELLO NON HA MAI PRONUNCIATO QUELLE PAROLE. IL VIRGOLETTATO ESATTO È “NON SFILERÒ NEI CORTEI PER COME SI SVOLGONO OGGI” - IL PRESIDENTE DEL SENATO: "TITOLO FUORVIANTE" - IL DIRETTORE, MASSIMO GIANNINI: "PRENDO ATTO DELLA RETROMARCIA, MA IL NOSTRO TITOLO NON HA FUORVIATO UN BEL NIENTE..."
(ANSA il 30 ottobre 2022) - ''Prendo atto della retromarcia del Presidente La Russa, che da seconda carica dello Stato deve essersi reso conto dell'enormità delle sue parole'', dice il direttore de La Stampa Massimo Giannini in replica alla smentita del presidente del Senato al titolo dell'intervista del suo giornale.
''Il nostro titolo, infatti - continua Giannini -, non ha "fuorviato" un bel niente. Valuti chiunque se un titolo che dice "Non celebrerò questo 25 aprile" travisa il senso di una risposta che, a domanda del nostro Paolo Colonnello "celebrerà il 25 aprile?", recita testualmente "Dipende. Certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi". Dunque, se ne deduce che, ad "oggi", non lo celebrerà. Quanto al "domani", chissà, magari il Presidente La Russa ha in animo di festeggiarlo privatamente, nella sua casa in cui troneggia il busto del Duce, oppure di organizzare qualche suo corteo alternativo, cosa che a questo punto dell'avventurosa transizione italiana, purtroppo, non si può escludere''.
(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Alla presidente Malpezzi che rispetto e di cui apprezzo l'onestà intellettuale e a chi in queste ore mi sta attaccando, chiedo cortesemente di leggere non il titolo volutamente fuorviante de La Stampa ma il testo della mia intervista correttamente riportata dal giornalista Colonnello in cui emerge chiaro il mio rispetto per la ricorrenza del 25 aprile tanto da averlo celebrato da ministro della Difesa.
La mia contrarietà è semmai solo al modo in cui finora si svolgono molti cortei che lungi dal celebrarlo, ne fanno manifestazione appannaggio della sinistra". Lo afferma il presidente del Senato, Ignazio La Russa.
"A chi strumentalmente si ferma a leggere il titolo errato e ignora le mie parole - prosegue La Russa - dopo questa mia nota, sarò invece costretto a riservare - a differenza delle mie abitudini - una risposta nelle sedi più opportune a tutela del ruolo che ricopro. Da oggi ho dato mandato che questa sia la regola per chi traviserà parole e fatti che mi riguardano".
(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Ricordo al Presidente @Ignazio_LaRussa il significato del #25aprile: la libertà dal nazifascismo. Un giorno che è festa e che dovrebbe vederci uniti. Il Presidente del Senato è la seconda carica dello Stato. Non lo dimentichi". Lo scrive su Twitter la capogruppo del Pd al Senato, Simona Malpezzi commentando l'intervista del presidente di Palazzo Madama a La Stampa.
(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Il Presidente del Senato farebbe bene a ricordare che il 25 aprile è la festa di tutti gli italiani perché è la festa della democrazia e della libertà dal nazifascismo conquistata con il sacrificio di tantissime donne e uomini. E come tale va celebrata. La Russa eviti parole divisive. Il Paese ha bisogno di unità, soprattutto attorno ai suoi momenti fondativi". Così Debora Serracchiani, capogruppo Pd alla Camera.
"Presidente La Russa, non "dipende". Il #25Aprile lei lo deve celebrare perché senza quella data non siederebbe lì. Perché se avessero vinto i fascisti non avremmo le istituzioni che abbiamo, non avremmo la democrazia. E quel sacrificio va celebrato e onorato, senza se e senza ma". Lo scrive su Twitter la deputata e vicepresidente Pd, Anna Ascani in replica all'intervista rilasciata dal presidente del Senato a La Stampa. (ANSA).
Paolo Colonnello per “La Stampa” il 30 ottobre 2022.
Presidente La Russa, cos' ha fatto per il centenario della marcia su Roma?
«Ho preso il treno da Roma a Milano, ho fatto tre incontri politici e la sera sono andato a vedere l'Inter».
Niente commemorazioni?
«Ma cosa c'è da commemorare, scusi? Gli altri anni non se ne era mai accorto nessuno mi pare».
È vero che questa era la casa di Benito Mussolini che lei si è ricomprato?
«Mussolini qua non ci ha mai messo piede in vita sua. Un'altra leggenda. La verità è che ero venuto per comprare un attico e mi hanno proposto questo appartamento al primo piano che era stata la sede della Le Petit e che lo aveva conservato come negli anni '30».
Uno vede Ignazio La Russa nella sua casa di Milano, tra boiserie, soffitti altissimi e divani sterminati, e subito diventa inevitabile parlare di fascismo: forse perché La Russa, con quel pizzetto mefistofelico, una certa dose di antica aggressività, i cimeli sparsi per casa, per anni è stato un po' l'icona del neofascismo italiano. Lui alza gli occhi al cielo: «Venga - dice con quell'accento reso celebre da Fiorello - le faccio vedere il famoso "busto" di Mussolini, eccolo: non è nemmeno un busto!».
In effetti è una statuetta poco ingombrante del Duce, con stivaloni e mani sui fianchi, appoggiata su una mensola di un corridoio in penombra.
«È un oggetto che apparteneva a mio padre, persona che adoravo, e che ho ereditato: avrei dovuto buttarlo? È sempre stato in questo corridoio insieme a un elmetto dell'esercito popolare cinese e un fregio comunista dell'Urss. Invece sembra che io abbia in casa il mausoleo di Mussolini. Ecco, mi dica lei...».
Oggi La Russa è diventato presidente del Senato, la seconda carica dello Stato («Devo dire che, per la parte politica da cui provengo, non me lo sarei mai aspettato e non ci pensavo proprio...») ed è inevitabile chiedere conto di come intenderà esercitare il suo ruolo di super partes.
Allora Presidente, ci spiega come si concilia consegnare le rose bianche a Liliana Segre, riconoscere il valore del 25 aprile e poi tenere in casa la statuetta del Duce?
«La statuetta del Duce l'ha vista, non ha niente che vedere col discorso di Liliana Segre, che non mi ha sorpreso. La cosa che mi stupisce è che qualcuno si stupisca della mia assoluta vicinanza alla Segre e al dramma della Shoah».
Forse per il suo passato?
«Guardi che da quando sono nato, in famiglia e nella mia parte politica, ho sempre sentito una condanna feroce delle leggi razziali e da sempre ho un rapporto strettissimo con la comunità ebraica milanese di amicizia personale, per esempio con Walker Meghnagi e già con suo padre Isacco, esponenti di spicco della comunità ebraica. E non solo con loro.
Potrebbe limitarsi ad essere un fatto personale, ma dal punto di vista politico la destra italiana è sempre stata per l'esistenza e l'indipendenza d'Israele, quando altri ne minacciavano l'integrità, ed è sempre stata senza titubanze pronta a condannare le leggi razziali, per non parlare del dramma della Shoah».
Anche lei come il presidente Meloni non ha mai avuto simpatie per le dittature, fascismo compreso?
«Non mi sono posto il problema: la mia scelta per la libertà e la democrazie è sempre stata totale».
Lei ha avuto il coraggio nel suo discorso di riconoscere come data fondante il 25 aprile. Parliamone.
«Non c'è stato bisogno di coraggio ma semplicemente di memoria. Con Pinuccio Tatarella e Gianfranco Fini, ho contribuito a scrivere le tesi di Fiuggi, ed era il 1995! Già allora riconoscemmo il valore della lotta per la Libertà. Con una importante annotazione che riguardava una parte di quella Resistenza, la parte comunista che non lottava per restituire all'Italia libertà e democrazia ma per un sistema certo non migliore di quanto era avvenuto col fascismo».
Celebrerà il 25 aprile?
«Dipende. Certo non sfilerò nei cortei per come si svolgono oggi. Perché lì non si celebra una festa della libertà e della democrazia ma qualcosa di completamente diverso, appannaggio di una certa sinistra. Non ho avuto difficoltà come Ministro della Difesa a portare una corona di fiori al monumento dei partigiani al cimitero Maggiore di Milano. e non era un atto dovuto».
Quanto è cambiato dal comizio del 1972 che compare nel film di Bellocchio?
«Sono cambiati i tempi, siamo cambiati tutti, le parole che dicevo allora però potrei ripeterle oggi: "Viva l'Italia e bisogna superare fascismo e antifascismo". Già allora il desiderio era di pacificazione».
Veniamo alla sua maggioranza: che ne pensa del contante a diecimila euro? Davvero aiuterà l'economia e i più poveri?
«Intanto il tetto sarà a cinquemila euro e poi più che i poveri aiuterà l'economia tutta.
Non ha senso un provvedimento limitativo del contante come quello attuale che non ha uguale in tutta Europa, dove per altro l'indicazione è di un tetto a diecimila. Non aiuta i turisti, ad esempio. E poi in Austria e Germania non hanno limiti».
Ma nemmeno gli evasori che abbiamo noi e neanche le mafie.
«Non credo che le mafie facciano affari a 5.000 euro».
Ma gli evasori fiscali sì.
«Io dico che l'evasione si combatte con la cultura della legalità e la fiscalità. Fosse così facile, dopo questi provvedimenti avremmo dovuto sconfiggere l'evasione ma non mi pare accada. Vuol dire che ci vuole un approccio diverso».
Come quello per i medici No Vax? Non le sembra che togliere le penalizzazioni sia uno schiaffo a chi ha rispettato le regole?
«Non credo che qualcuno si senta schiaffeggiato. Chi come me si è vaccinato e ha vaccinato anche i propri figli, lo ha fatto a prescindere dal fatto che si trattasse di un obbligo. Oggi non è più necessario e allora continuare a tenere una sanzione per i medici No Vax credo sarebbe un danno più per le strutture sanitarie che per i medici stessi. Abbiamo sempre pensato che il convincimento valga più della coercizione»
Il Presidente Mattarella, però, su questo tema ha messo in guardia.
«Il Presidente ha fatto benissimo a sottolineare che si debba continuare a vigilare. Ma il problema non è che si debba o meno, ma come».
Per molti lei è apparso più un capo del partito che la seconda Carica dello Stato, non crede dovrebbe fare un passo indietro?
«Contesto questa cosa e rivendico di poter mantenere la promessa solenne davanti al Senato di essere presidente di tutti, sforzandomi di garantire sia maggioranza che opposizione. Solo a me hanno cominciato a guardare dove metto i piedi! Ricordo che Bertinotti, Fini e Casini erano capi di partito e facevano i Presidenti della Camera.
Oppure ricordo il Presidente del Senato Forlani: altro che La Russa! Per quanto mi riguarda, si devono abituare: se nella forma sarò meno paludato, nella sostanza potete stare sicuri che saprò essere imparziale e possibilmente non del tutto escluso dalla vita politica».
Chi era Sergio Ramelli, vittima dei rossi citata da La Russa. Redazione su Il Riformista il 14 Ottobre 2022
L’omicidio di Sergio Ramelli avvenne a Milano nel 1975 durante gli anni di piombo. Ramelli, studente milanese di 19 anni e militante del Fronte della Gioventù, il 13 marzo 1975 stava ritornando a casa, in via Amadeo a Milano; parcheggiato il suo motorino poco distante, in via Paladini, si incamminò verso casa.
All’altezza del civico 15 di via Paladini, fu assalito da un gruppo di extraparlamentari comunisti di Avanguardia operaia armati di chiavi inglesi, e con queste colpito più volte al capo; a seguito dei colpi perse i sensi e fu lasciato esangue al suolo. Gli aggressori, tra cui Marco Costa, Giuseppe Ferrari Bravo, Claudio Colosio, Antonio Belpiede, Brunella Colombelli, Franco Castelli, Claudio Scazza e Luigi Montinari. provocarono numerosi traumi alla vittima, che morì il 29 aprile, oltre un mese e mezzo dopo l’aggressione.
I responsabili furono identificati dieci anni dopo l’accaduto e, dopo un’iniziale condanna per omicidio preterintenzionale in primo grado, furono riconosciuti colpevoli di omicidio volontario al termine dei tre gradi di giudizio del processo, durato da 1987 al 1990.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Milano, La Russa e il caso Ramelli. Così il processo per la morte di Ramelli cambiò La Russa per sempre. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 15 Ottobre 2022
Se c’è uno che è sempre stato capace di farsi uno e trino, e poi anche concavo e convesso, non secondo gli insegnamenti di Silvio Berlusconi, ma quelli del suo maestro Pinuccio Tatarella, “ministro dell’armonia” ma anche un vero doroteo secondo alcuni, questo è Ignazio La Russa, da due giorni Presidente del Senato. Un fascistone è dunque diventato il numero due dello Stato, quello che dovrebbe assumere le vesti del Presidente della repubblica, in caso di impedimento di quest’ultimo? Uno che non solo non è di sinistra, e questo pare già grave per chi deve rivestire quel ruolo, ma che addirittura vanta quella fiamma che gli arde nei sentimenti, oltre che nel simbolo dei suoi vari partiti, dal Movimento sociale, passando per Alleanza Nazionale e infine Fratelli d’Italia.
Negli anni Settanta, ricchi di ideali e di tragedie, a Milano, nel mondo della sinistra, soprattutto quella cosiddetta “extraparlamentare”, quando sentivi parlare dei “fratelli La Russa”, la mente ti correva subito a violenza e pestaggi dei fascisti. Un po’ il contraltare dei “fratelli Bellini” del quartiere Casoretto, frange estreme di Lotta Continua, che evocavano non certo momenti di pace sociale. Un po’ erano esagerazioni, ma anche un po’ no. Poi in realtà i fratelli La Russa erano tre e uno di loro, Vincenzo, era un democristiano placido, cui di recente una commissione conciliare milanese di sprovveduti ha negato la sepoltura al Famedio, il luogo in cui si rende onore a chi ha contribuito a far grande Milano, con l’argomento idiota del momento politico particolare. Cioè quello in cui un fratello del defunto stava per diventare Presidente del Senato. Ma gli altri due fratelli La Russa, Ignazio (e chi se ne frega del suo secondo nome) e Romano erano decisamente ragazzi di piazza. Ma anche, come si direbbe a sinistra, “di lotta di governo”. Dentro e fuori le istituzioni.
A Milano la figura di Ignazio La Russa è legata soprattutto alla storia di Sergio Ramelli, della sua morte tragica, del processo che ne è seguito, delle lacerazioni che quegli eventi hanno portato nella sinistra molto più che nella destra. Le due parti contrapposte per lunghi decenni, e in parte ancora, sono rimaste ibernate nei propri giacigli, le une vincolate dalla coazione a ripetere, a ogni anniversario, quel “presente” con o senza braccio alzato, gli altri a leccarsi le ferite per una presunta ingiustizia subita per quella morte non voluta nelle intenzioni. Anche se, pure il più scapestrato superficiale dovrebbe essere in grado di sospettare che una chiave inglese di 36 centimetri scagliata ripetutamente sul cranio di un essere umano può portare alla tragedia.
Ignazio La Russa a Milano è la vicenda Ramelli. Non solo perché ogni anno onora l’anniversario, ormai anche con il sindaco e le istituzioni. Ma perché è cresciuto “con” e “in” quel processo. Lì c’è anche un pezzo di mia storia, di cronista giudiziaria del manifesto, che si ritrovava a scrivere, giorno dopo giorno, udienza dopo udienza, di ragazzi della sua età, di un gruppo politico contiguo, Avanguardia Operaia, che avevano compiuto il gesto più spregevole. Non l’uso delle armi, come sarà successivamente con il terrorismo, ma il corpo a corpo in condizione dispari. Uno, l’aggredito, da solo e a mani nude, gli altri vigliaccamente in gruppo, forniti di spranga. Nella nostra mentalità di allora, di militanti di sinistra, questi erano gesti da fascisti, non da compagni. Pure purtroppo capitava anche quello, soprattutto negli ambienti dell’Università Statale di Milano, dove imperava il Movimento studentesco di Capanna e Cafiero. Ho assistito una volta al dopo-massacro, che aveva lasciato sul pavimento di una toilette una profonda scia di sangue, di un tizio perché “entrava mentre gli altri uscivano”. Sicuramente una spia. Quelli come me, estranei a quei comportamenti, tacevano ammutoliti. Incapaci di altro.
Il processo Ramelli ci ha fatti crescere. Intanto perché i responsabili dell’aggressione erano stati arrestati dieci anni dopo i fatti, quando ormai il servizio d’ordine della facoltà di medicina non esisteva più e neanche la stessa Avanguardia Operaia. Gli arrestati erano ormai diventati medici, avevano messo su famiglia, molti erano lontani dalla politica. Il processo pareva ormai un assurdo, tanti anni dopo. L’avvocato La Russa fu fondamentale. Se qualcuno pensa oggi che le parole di conciliazione da lui dette due giorni fa in Senato, quando ha ricordato gli anni settanta a Milano, sintetizzandoli nel delitto Calabresi, oltre alla tragedia del diciottenne Ramelli e alla scomparsa di due simboli della sinistra, Fausto e Iaio (forse vittime di spacciatori più che di fascisti) siano state di comodo, non conosce la persona.
Al processo Ramelli l’avvocato La Russa, legale di parte civile della famiglia offesa, non ha mai chiesto vendetta, non ha rivendicato ergastoli né punizioni esemplari. Era sempre al fianco della signora cui avevano strappato un figlio che ancora andava a scuola, e non fu soddisfatto della prima sentenza che aveva qualificato il delitto (come forse era giusto) come omicidio preterintenzionale. Quando poi però l’appello, cui erano ricorsi tutti, accusa e difese, riportò la vicenda nel canale della premeditazione ma riducendo drasticamente le pene, il legale di parte civile non cercò il terzo grado di giudizio per avere più carcere. Quegli ex ragazzi ancora alla sbarra dopo tanti anni erano stati suoi avversari politici e avevano ammazzato in modo brutale un suo giovane camerata.
Ma lui disse: “Non ricorreremo in Cassazione, siamo soddisfatti perché abbiamo avuto giustizia. Proprio partendo da questa sentenza si potrà avviare una definitiva pacificazione degli animi, ripensando criticamente le violenze che hanno avvelenato il passato. Non era solo l’omicidio di Ramelli a essere giudicato ieri”. Era il 2 marzo 1989. Sette anni prima di un analogo evento da lui citato in Senato, quello del 10 maggio 1996, quando Luciano Violante fu eletto presidente della Camera. Il caso ha voluto che anche quel giorno io fossi presente, e ho applaudito convinta il discorso di un esponente di una maggioranza cui il mio partito, Forza Italia, si opponeva. L’ho applaudito proprio per quel discorso sui “vinti”, che mi era parso da subito non strumentale, come del resto la storia successiva dell’ex magistrato piemontese dimostrerà.
Violante non era stato un giovane “di piazza” come La Russa, ma aveva avuto un percorso di pubblico ministero “di lotta” da farsi perdonare, per lo meno agli occhi di noi garantisti. Nel mio passato, e in quello della mia famiglia (padre liberale, nonno socialista) non c’è traccia di appartenenza alla destra. Ma mi sono commossa quel giorno nel ricordo di quelle “migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze che, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà”. Sono quelli i momenti in cui riesci a sentirti vicini, proprio come due giorni fa al Senato, anche il “comunista” Violante e il “fascista” La Russa. Concavi e convessi, ma positivi.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
I 50 anni dei La Russa in Parlamento. Ignazio: «Come mio padre, sono riuscito a fare l’avvocato e il politico». Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.
Antonino La Russa entrò alla Camera nel ’52 e ne uscì nel ‘92: il giorno prima che ci entrasse il figlio, che oggi rievoca. «Il momento più esaltante della mia carriera? Quando il 13 giugno del 1970 il Msi diventò il primo partito a Catania e Bolzano: mai lo avremmo pensato».
«La mia soddisfazione maggiore? L’essere riuscito a fare il politico e l’avvocato. Esattamente quel che ha fatto mio padre». La famiglia di Ignazio La Russa il 25 maggio ha compiuto 50 anni ininterrotti di Parlamento: il padre Antonino entrò alla Camera nel 1952 e ne uscì nel 1992, il giorno prima che ci entrasse il figlio. Ma il demone della politica ha sempre posseduto tutta la famiglia: il fratello maggiore, il democristiano Vincenzo («la nostra pecora bianca») è stato a lungo sia alla Camera che al Senato, il minore Romano è stato eurodeputato ma anche la sorella Emilia è un’accesa militante.
Tutto nasce con suo padre Antonino?
«A dire il vero, il deputato Dc Domenico La Russa, nobile e calabrese, negli anni ‘70, nel lasciare il Parlamento scrisse a mio padre che secondo lui eravamo parenti, e dunque la famiglia La Russa sarebbe stata in Parlamento dal 1861. Ma io, non nobile e siciliano, non ci credo e mio padre ci rideva su. Dunque sì, tutto nasce da mio padre».
Era soddisfatto che lei proseguisse la tradizione?
«Credo di sì. Ma lui era sì un politico, con la P maiuscola, ma in lui non era l’unica passione. Amava allo stesso modo anche fare l’avvocato così come il dirigente d’azienda. Amava fare l’avvocato anche se negli anni ‘50 molti lo pagavano con un saluto romano e al massimo qualche regalo a Natale. E dato che lui è stato il cuore del mio sviluppo ideale, io volevo essere come lui, politico e avvocato. E dunque, il mio maggior successo è stato il riuscirci. Spero di aver preso anche un po’ della sua ironia».
Un esempio?
«Beh, quando nel 1994 siamo arrivati al governo il suo commento fu: “Tutti questi anni, tutta questa fatica per mandare al governo ‘sti carusi”...».
Suo padre fu giovanissimo segretario del partito fascista a Paternò. Come prese la svolta di Fiuggi?
«Disse: “Fate benissimo, è giusto... Ma io non mi iscrivo. Non c’entro”. Più avanzavano gli anni, più tornava a quelli suoi più lontani, a quando era presidente degli universitari fascisti».
Una discussione politica dura?
«Mai. Soltanto, quando io tardavo a laurearmi perché inghiottito dalla politica, lui mi disse: “Non ti ho mai detto di non farla. Ma adesso che devi laurearti, per un po’, rallenta”. Fu lui ad accompagnarmi alla laurea, armato, cosa per lui mai avvenuta prima».
Armato?
«Sì, io ho fatto l’università a Pavia, dato il clima a Milano non avrei potuto frequentare. Ma anche lì, era complicato: per fare l’ultimo esame sono stato fatto entrare passando per cunicoli e sotterranei. In realtà, alla laurea invece non successe nulla: era la fine di luglio, saranno stati tutti in vacanza. Ma mi è stato vicino anche alla mia prima arringa. Poco tempo dopo avvenne un fatto che ha fatto nascere la mia considerazione positiva per Francesco Borrelli».
Perché?
«Seguivo un processo per rapina e omicidio, Borrelli era presidente della Corte d’assise. Alla sera io non ero soddisfatto: l’imputato era stato assolto dall’accusa di omicidio, ma era stato bastonato per la rapina: 9 anni. Ma Borrelli chiamò mio padre per complimentarsi con lui della mia arringa. Ammetto che anche per questo mai io ho polemizzato con Borrelli, nemmeno nei momenti più tesi delle vicende di Berlusconi. E, se è per quello, nemmeno con Piercamillo Davigo, il migliore di tutti come preparazione giuridica».
I suoi fratelli? Che rapporto aveva con Vincenzo?
«Lui era la mia guida. Sapeva tutto, studiava sempre. Non c’erano internet o social, ma la mia fonte di consapevolezza era lui. Una sicurezza».
E con Romano?
«Lui era il più determinato. Quando fui eletto segretario della Giovane Italia a Milano, ci fu una protesta: perché non Romano, altrettanto preparato? La politica in quegli anni era anche una questione di coraggio fisico e lui ne aveva più di me».
Lei si è trasferito a Milano come suo padre. Era anche lui interista?
«Ma no, lui non si è mai appassionato in modo viscerale. Chiamava i terzini i “back”, con la terminologia inglese che si usava nei suoi anni. Anche se fu presidente della squadra di Paternò. La chiamò “Fiamma”. La squadra vera, che si chiamava Ibla, era stata radiata per invasione di campo e l’arbitro dovette farsi due mesi di ospedale. Pensi che tra quelli entrati in campo c’era anche mio fratello Vincenzo».
Ma come? Suo fratello era persona moderatissima e garbata…
«Sì, ma lì andò così , entrarono praticamente tutti. È uno dei miei primi ricordi di calcio: io ero piccolo e piangevo, c’erano due carabinieri a cavallo che erano entrati in campo per salvare l’arbitro dando gran sciabolate di piatto…».
Lei ha attraversato fasi diversissime della politica. La fiamma è ancora nel simbolo del partito…
«Nelle idee c’è una continuità e un’evoluzione. Per certi temi, non c’è una necessità di evoluzione: il nostro atlantismo è quello che arriva da Almirante, e da allora non abbiamo mai avuto dubbi sulla Nato come strumento difensivo. Per il resto, il Msi era il partito degli sconfitti della guerra. Ma il loro grande merito è quello di non avere mai pensato al terrorismo o a ribellioni contro la scelta democratica. Certo: rivendicavano un diverso giudizio sulla storia, ma hanno costruito un partito che più democratico non si può».
Il momento più entusiasmante della sua carriera?
«Quando il 13 giugno del 1970, il Msi diventò il primo partito a Catania e Bolzano, mai lo avremmo pensato. E poi, quando diventai segretario della Giovane Italia. Invece che mio fratello».
Da ministro della Difesa, lei andò a El Alamein. Suo padre, in guerra, fu catturato lì. È quello il motivo?
«Sì, fino a un certo punto... Mio padre diceva: “Ma perché tutti parlano di El Alamein, dove abbiamo perso, invece che parlare di Tobruck dove abbiamo vinto?”. Io avevo regalato al ministero una sua foto mentre stava aspettando lo scambio dei prigionieri. Ma anni dopo qualcuno l’ha fatta rimuovere…».
Altre foto da ricordare?
“Io, Pinuccio Tatarella, Luciano Laffranco e Maurizio Gasparri che stiamo per partire da Vulcano, nel 1987, dopo aver passato otto ore a organizzare la corrente finiana una volta avuto il via libera da Almirante che era a Taormina era ospite di mio padre. Credo che quella stessa foto l’abbia sulla sua scrivania anche Maurizio».
Polemiche sul fratello di La Russa, la cerimonia dei camerati e la nostalgia canaglia. Fulvio Abbate su Il Riformista il 23 Settembre 2022
Il “saluto romano” di Romano La Russa, si perdoni il paradosso, non sottilizziamo, tutto vero, giunge da un uomo, un dolente, che al funerale dell’amico Alberto Stabilini, militante dell’estrema destra milanese, solleva il braccio in un presunto gesto caro alla tradizione sepolcrale dei fascisti. In verità, a guardare bene il video, Romano sta lì a compiere il gesto in modo assai approssimativo, cosa che, quasi certamente, in tempi littori, non gli avrebbe fatto ottenere neppure i galloni di capomanipolo. Nel senso che, diversamente dagli altri partecipanti alle esequie, tutti in piedi davanti al feretro mentre, gagliardi e massicci, mostrano il braccio sollevato verso l’alto in tutta la sua pienezza, il La Russa, assessore alla sicurezza della Regione Lombardia, Fratelli d’Italia così come il più risaputo congiunto Ignazio, nonostante quel nome familiare mussoliniano, mostra una qualche remora proprio nella sollevazione dell’arto. Un implicito “non esageriamo, dai!”.
In quel momento, lo sappiano anche i profani, in attesa della tumulazione, si sta compiendo il rito del “Presente!”, cerimonia di derivazione militare, è vero, nel senso che il “caduto” va immaginato ancora lì vivo tra i suoi “camerati”, anche lui idealmente a rispondere con medesima procedura da piazza d’armi o palazzina-comando. Nessuno come i fascisti, si sappia anche questo, è davvero provetto nel rito del “Presente!”. A Roma, per fare un esempio concreto, tra di loro c’è addirittura un signore attitudinalmente preposto allo scopo, ogni qualvolta occorre in modo marziale rinserrare le fila affinché il saluto giunga nel migliore dei modi, ossia militare, eccolo lì a prestare la propria opera, lo si è visto, non molti anni fa, in occasione del funerale del compianto Teodoro Bontempo. E tuttavia Romano La Russa afferma che non si trattava di saluto fascista bensì di saluto militare, che è ben diverso, nulla di apologetico, semmai brivido di perduto casermaggio, porta carraia, alzabandiera, stecca, “cubo”, far frullare la catenella della chiave del proprio armadietto intorno al dito in senso ora orario ora antiorario, cose che lo scrittore Michele Mari ha narrato nel suo Filologia dell’anfibio; nostalgia canaglia grigioverde.
Se la memoria non mi inganna, va detto ancora che, per anni, finché costoro erano vivi, primi giorni di aprile, davanti alla chiesa della Madonna di Loreto, piazza Venezia, Roma, si raccoglievano gli anziani malfermi sulle gambe ormai reduci italiani di parte fascista della guerra civile spagnola, gli stessi che infine deponevano una corona all’Altare della Patria: anche in quel caso c’era modo di vedere un braccio teso sollevato nel “saluto del legionario”; se le cose stanno così, dunque, una qualche ragione assolutoria Romano potrà comunque vantarla. Assodato che il confine tra apologia e sua variante da contrappello serale è labile, si può comunque argomentare. Restando però in tema, mettendo da parte gli anni del regime con il suo “premilitare” e le adunate del “sabato fascista”, ora che ci penso, alcuni orgogliosi, se non minacciosi, saluti romani ricordiamo di averli visti fare agli uomini del “Boia chi molla” al passaggio della manifestazione antifascista che seguì la rivolta di Reggio Calabria, primi anni Settanta.
Tornando al nodo dell’accusa, al di là della piena attendibilità democratica e antifascista della Meloni che già si prefigura a Palazzo Chigi, occorre dire che l’apparizione del saluto (di Romano), come gli stesso ha detto, potrebbe riassumersi nelle parole autoassolutorie del diretto attenzionato: «Non credevo che il saluto di quindici settantenni rincoglioniti a un amico avrebbe scatenato questo putiferio». Ossia cerimonia residuale, po’ come, perla di YouTube, purtroppo ormai cancellata, gli uomini di Stefano Delle Chiaie che intonano l’inno di Avanguardia Nazionale accompagnato dal doveroso battitacco. Ciò sia detto dopo aver chiarito che il fascismo è bene rifugio persistente nel nostro Paese, o forse, in quest’ultimo caso, non c’era bisogno di chiamare il semiologo per avere conferma di certa prossemica rituale nera. Tornando con puntiglio alla sostanza storica del nostro discorso, va aggiunto nel 1932, in occasione della cosiddetta Mostra della Rivoluzione Fascista nelle sale del Palazzo delle Esposizioni di Roma, ventennale del regime, per l’occorrenza trasformato in fortezza littoria, un’intera sala venne costellata dalla scritta “Presente!” ripetuta all’infinito, personalmente non c’eravamo, fanno comunque fede gli scatti originali, e sembra comunque che si riferisse proprio ai “camerati”, dunque alla ritualità fascista; Romano La Russa, quando il nome è un destino.
Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
Silvio Berlusconi e Ignazio La Russa, altro che vaffa: quanti affari tra le due famiglie. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 13 ottobre 2022.
Geronimo, figlio maggiore del presidente del Senato, è stato per anni consigliere di società controllate dal Milan e ora amministra una delle holding azioniste di Fininvest. Poco importano gli screzi a Palazzo Madama
Sarà pure un gran tifoso dell’Inter il neo presidente del Senato Ignazio La Russa. In famiglia però quando si tratta di affari non c’è tifo che tenga. E infatti Geronimo La Russa, 42 anni, avvocato, il meno giovane dei tre figli dello storico leader milanese della destra, è stato per anni consigliere di alcune società che facevano capo al Milan, all’epoca controllato dalla Fininvest di Silvio Berlusconi. Nomi come Milan entertainment, ACM servizi assicurativi e Milan Real estate.
Chiusa la parantesi calcistica, è rimasto il legame d’affari con la famiglia del capo di Forza Italia. E infatti dal 2020 La Russa junior è consigliere della Holding Italiana Quattordicesima, il veicolo societario controllata da Barbara, Eleonora e Luigi Berlusconi, i tre figli del Cavaliere nati dall’unione con Veronica Lario. La Holding Quattordicesima, oltre a varie partecipazioni minori, possiede il 21 per cento di Fininvest. Difficile che lo screzio di questa mattina al Senato, con il presunto vaffa di Berlusconi a La Russa padre, riesca quindi a incrinare un rapporto d’affari tra le famiglie che sembra consolidato negli anni.
Del resto il giovane Geronimo, che anni fa con Barbara Berlusconi fondò anche una onlus benefica (Milano Young) era già stato ambasciatore di famiglia anche nel gruppo di un’altra dinastia storicamente molto legata ai La Russa. E infatti a soli 25 anni, il figlio maggiore del neo presidente del Senato entrò nel consiglio di amministrazione di Premafin, holding quotata in Borsa dell’allora potentissimo Salvatore Ligresti. La Russa junior prese il posto in consiglio di suo nonno Antonino, morto nel dicembre 2004, anche lui avvocato e per 20 anni, fino al 1992, senatore nelle fila del Movimento sociale italiano.
Ignazio, dal Msi al vertice. Il primo comizio a dieci anni, la "tribù indiana" dei tre figli. Nel ’70 era già iscritto al partito, sulle orme del padre, volontario in Africa. Poi la carriera da legale e i processi ai brigatisti. Stefano Zurlo il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Cinquant'anni fa era già come è oggi. La telecamera di Marco Bellocchio lo riprende nel 1972 nella sequenza iniziale di Sbatti il mostro in prima pagina: Ignazio La Russa arringa la folla, c'è solo un barbone barricadiero a segnare la stagione tumultuosa, al posto del pizzetto mefistofelico dei decenni successivi, per il resto poco cambia.
Dicono che abbia tenuto il primo comizio a dieci anni e può essere che questa sia una leggenda ma certo la politica ce l' ha nel sangue: suo padre Nino, volontario in Africa, catturato a El Alamein, prigioniero fino al 1946, segue Almirante nel Movimento sociale italiano, insomma si colloca da parte degli sconfitti e dei reduci di Saló. Il figlio segue la stessa traiettoria e nel 1970, ancora prima delle riprese di Bellocchio, è già iscritto al partito.
Studia nella svizzera tedesca, si laurea in giurisprudenza a Pavia, comincia a fare l'avvocato. Penalista.
Tifa Inter, di un tifo sfegatato, si sposa due volte, con Marisa e poi con Laura, ha tre figli i cui nomi coniugano la tradizione con la sua passione smodata per gli indiani: Geronimo, Lorenzo Cochis, Leonardo Apache. Insomma, ha una formazione poliedrica con una vena libertaria, anche se è ancorato al filone della destra postfascista che mai rinnegherà. Siciliano di Paternò, dove è nato nel 1947, diventa amico di Salvatore Ligresti che è nato nello stesso paese. Anzi, a dirla tutta eredità rapporti che risalgono ai padri e ai nonni. Tutti gli anni a Natale è a casa Ligresti per gli auguri e i tre rampolli di Salvatore - Jonella, Giulia, di cui celebrerà il matrimonio in seconde nozze a Taormina, Paolo - lo considerano un fratello maggiore.
Un'altra voce sostiene che è proprio lui a presentare a Ligresti Enrico Cuccia, ma l'ingegnere in famiglia ripeterà sempre un'altra versione: «L'ho conosciuto in aereo».
Nel 1992, ormai all'inizio della tempesta di Mani pulite, entra in Parlamento in una sorta di staffetta ideale: il padre, senatore per vent'anni di fila, lascia idealmente lo scranno a Ignazio.
In realtà c'è anche il fratello Vincenzo, pure lui preso dallo stesso demone ma democristiano, la pecora bianca del clan, e poi con il Ccd, Vincenzo, al centro di penose polemiche oggi che non c'è più, perché gli è appena stata negata l'iscrizione al Famedio; e poi c'è un terzo fratello, Romano, assessore regionale, pure lui nel mirino per un presunto saluto in tono col nome.
Chincaglierie ma non solo, nella biografia di Ignazio c'è anche la forza dell'impegno professionale. Assiste la mamma di Sergio Ramelli, lo studente ucciso a sprangate da un gruppo di Avanguardia operaia e morto dopo una straziante agonia.
Persino il suo funerale è una cerimonia clandestina, in una Milano livida e impaurita. La Russa è con la sua famiglia, ed è parte civile nel processo ai brigatisti che hanno ammazzato due militanti missini a Padova, nel 1974, un episodio che segna il battesimo di sangue delle Br.
É la grande cronaca che torna con la difesa di Cesare Previti in un drammatico incidente probatorio in cui Stefania Ariosto, il teste Omega della procura, scappa in lacrime e poi sviene.
Il resto è la storia della destra nelle sue evoluzioni: l'Msi, An con Gianfranco Fini, poi l'esperimento fallito del Pdl, la stagione in cui è ministro della difesa, infine FdI, fondato con Guido Crosetto e Giorgia Meloni e dove ben presto arriva Daniela Santanché, sua storica amica. L'avventura di una minoranza che oggi, come testimonia la commozione incredula nel discorso di insediamento, va alla guida del Paese.
La via imparziale segnata da Crispi. Se c'è un uomo che ha fatto della militanza politica la ragione della propria esistenza, ebbene questi è Ignazio La Russa. Paolo Armaroli il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Se c'è un uomo che ha fatto della militanza politica la ragione della propria esistenza, ebbene questi è Ignazio La Russa. Non gli si addicono i ni. Per lui valgono gli evangelici sì sì, no no. Perciò sembrerebbe il meno indicato per la presidenza di una delle due assemblee legislative. Anche se la sua vita politica si è il più delle volte incrociata con la vita delle istituzioni. Ma le istituzioni riescono a fare miracoli: a trasfigurare un personaggio, grande o piccolo che sia. E per l'appunto questo è il caso del neoeletto presidente di Palazzo Madama.
Siciliano lui, nato a Paternò, siciliano Francesco Crispi, nato a Ribera, nei pressi di Agrigento. Come La Russa, anche Crispi, fiero dei suoi principi, non si può dire che fosse un uomo accomodante, incline ai compromessi cari ad Agostino Depretis, suo presidente del Consiglio. No e poi no. Eppure, la presidenza della Camera dei deputati lo cambia da così a così. Basterà citare le parole pronunciate nella seduta del 26 novembre 1876 in occasione del suo discorso d'insediamento ai Montecitorio: «Accanto all'ardore dell'animo, all'eccitabilità della fibra ho posto il dominio sicuro di una ferma volontà, e questa adoprerò tutta per mantenere la più stretta imparzialità nel presiedere e regolare le vostre discussioni. Con tale proponimento dimenticherò il posto da cui venni, ricorderò quello in cui sono. Essendo alla Presidenza di questa Camera, rammenterò sempre che ebbi da voi un sacro deposito, la libertà della tribuna ed integro lo trasmetterò al mio successore. A destra, a sinistra, al centro e sui seggi ministeriali io non distinguo partiti, io non riconosco che uomini devoti al bene della patria comune».
Crispi non parlava mai a vanvera e presto farà seguire i fatti alle auliche parole di cui sopra. Così nella seduta della Camera del 2 marzo 1877 si fece togliere dalla chiama. E da allora prima i presidenti di Montecitorio e poi i presidenti di Palazzo Madama non presero più parte alle votazioni proprio allo scopo di rimarcare la loro più assoluta imparzialità. Ecco, ieri La Russa non è stato da meno del suo illustre conterraneo. Ha pronunciato parole apprezzate sia da coloro che lo hanno votato sia da coloro che hanno votato scheda bianca. All'insegna della pacificazione nazionale.
Estratto dell’articolo di Claudio Sabelli Fioretti per il Fatto Quotidiano il 16 ottobre 2022.
Ignazio La Russa Ammise di avere in sé una alta percentuale femminile. Ciò mi dette il coraggio di fiondarmi in quella crepa aperta. E gli chiesi se aveva mai avuto rapporti omosessuali. Posso fare questa domanda a un ex fascista? "Puoi. Ma la mia risposta è no", disse. Io, giornalista a schiena dritta, non mi arresi. Se ti scoprissi improvvisamente gay che cosa faresti? "La prenderei male. Non vorrei perdere i piaceri dell'eterosessualità". (..)
Tradire è uguale per uomo e per donna? "Se ragiono dico di sì. Ma non ragiono e dico di no. Il tradimento della donna è più grave". Vergogna Ignazio! Ti avevo dato la possibilità di fare bella figura e l'hai gettata alle ortiche. Ma già che siamo ormai intimi, come sei come amante? "Tenero". Ecco fatto, avevo intervistato l'unico fascista tenero che si aggirava per l'Italia. Allora, quasi per vendicarmi, feci partire l'ultima domanda. Cattiva, antipatica, dispettosa. Anche un po' scema.
Sei un eiaculatore precoce?
"Non sono un incredibile stallone". L'avevo capito. "Ma nemmeno uno di cui le donne dicono: 'Dio mio che disastro'. Nella media. A chi non è andata male una volta nella vita?".
È vero.
Chi era Antonino La Russa, il papà missino che accettò un figlio nella Democrazia Cristiana. Chiara Capuani su Il Riformista il 13 Ottobre 2022
Un po’ Viceré, un po’ Gattopardo. La Saga familiare dei La Russa (o dei Paternesi) affonda le sue radici nella Sicilia della prima Guerra Mondiale, dove il capostipite nacque nel 1913, in quel di Paternò, comune di 44mila abitanti in provincia di Catania. E fu sempre lì che ‘Gnazio o La Rissa – come lo chiamavano durante gli anni d’oro da responsabile del Fronte della Gioventù – ha mosso (letteralmente) i primi passi.
Il neo eletto presidente del Senato deve senza dubbio gran parte della sua fortuna al padre Antonino, detto Nino, avvocato e dirigente d’azienda nonché ex segretario politico del Partito Nazionale Fascista. Strenuo sostenitore dell’Italia del Duce, partito volontario per il fronte nordafricano durante la seconda guerra mondiale, La Russa senior aderì al Movimento Sociale Italiano a Paternò, divenendone commissario provinciale nel 1958. Anni dopo, fu senatore della Repubblica per il Movimento Sociale Italiano, nonché membro al Senato della Commissione industria; dal 1979 al 1980 fu vicepresidente del Gruppo parlamentare.
Una vita a metà tra politica e affari, che si intrecciò inesorabilmente con quella del compaesano Salvatore Ligresti e con il finanziere Michelangelo Virgillito, entrambe figure chiave nella corsa al potere dei “Paternesi”. Anni di militanza nel partito e devozione alla causa, che portarono i La Russa dalla Sicilia a Milano, dove approdarono negli anni ’60 e dove il neo presidente del Senato frequentò le scuole e poi il collegio svizzero, così come il fratello Romano e la sorella Emilia. E proprio nel giorno del suo insediamento come capo di Palazzo Madama, il figlio non poteva non ricordare il padre.
L’ha fatto nel suo primo discorso ufficiale, durato poco più di una mezz’ora, dove tra un ringraziamento al Papa e uno a Liliana Segre, ha dichiarato: “Sono stato sempre un uomo di parte, di partito più che di parte, ma in questo ruolo non lo sarò. E’ una lezione che ho appreso in tanti anni, tra gioia e dolori; anni di militanza, di affermazioni, di difficoltà, cercando sempre di cogliere dagli eventi ogni utile occasione di crescita, anche di messa in discussione delle proprie posizioni. Non rimanere abbarbicato a idee immutabili, ma svilupparle senza tradirle è stato l’impegno non solo mio, ma della mia parte politica in maniera larga. Un insegnamento -consentitemelo- che a livello personale ho appreso da mio padre, che è stato senatore di questa Repubblica, e a livello politico ho ricevuto da più persone, ma in particolare da un uomo che ha insegnato a me e non solo a me il valore del dialogo e dell’armonia. Non a caso veniva chiamato ‘ministro dell’armonia’, il non dimenticato onorevole Pinuccio Tatarella“.
Poi ha promesso di essere il presidente di tutti, perché – a detta sua – la libertà Ignazio Benito Maria La Russa, l’ha respirata in casa fin da piccolo (no, non quella dove sono custoditi i busti di Mussolini o foto del colonialismo fascista, camice nere e Balilla) ma quella dove ha vissuto con i genitori, dove nonostante la militanza paterna, il fratello Vincenzo – il maggiore dei quattro figli – aderì alla Democrazia Cristiana, di cui fu consigliere provinciale di Milano dal 1975 al 1980. La stessa libertà professata dall’altro fratello, Romano Maria, salito alla ribalta delle cronache per aver fatto il saluto fascista durante i funerali del cognato Alberto Stabilini, il 19 settembre, ripreso in un video circolato sul web e sui giornali, e per il quale la procura di Milano ha poi aperto un fascicolo. Chiara Capuani
Da tpi.it il 14 ottobre 2022.
Un giovanissimo Ignazio La Russa – nominato ieri presidente del Senato – compare nella scena iniziale del film di Marco Bellocchio “Sbatti il mostro in prima pagina”. Il regista riprese il comizio durante una manifestazione a Milano.
I partecipanti erano missini, monarchici ma anche liberali e democristiani, appartenenti alla cosiddetta ‘Maggioranza silenziosa’, un movimento politico anti-comunista. L’anno era il 1972, La Russa aveva 25 anni e dal 1971 era il responsabile del Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano. Di questo, dell’elezione a presidente del Senato e del futuro che si aspetta, ne abbiamo parlato con Marco Bellocchio, il regista.
Cosa pensa di queste elezioni?
Sono rimasto un po’ indifferente a queste elezioni.
Se l’aspettava che 50 anni dopo (il film “Sbatti il mostro in prima pagina”, ndr.) quel giovane missino sarebbe arrivato alla seconda carica dello Stato?
Certo che no, non è che ci pensassi, né io ci ho pensato per 50 anni. È arrivato. Mi sembra innocuo, non mi sembra che possa instaurare il regime fascista. Semmai quell’altro, Fontana, è più giovane, più reazionario, lo vedo peggio. Però di solito le persone quando vanno al potere si ammorbidiscono, devono mediare.
Perché il “potere logora chi non ce l’ha”?
Penso che logori anche chi non ce l’ha.
Come mai all’epoca scelse quelle immagini?
Stavo girando “Sbatti il mostro in prima pagina”, era un clima di grande agitazione, la politica era una cosa che coinvolgeva molto i giovani, c’erano ideali, il comunismo, il marxismo, la rivoluzione.
Mentre giravamo il film – per la cui sceneggiatura avevo chiesto la collaborazione di Goffredo Fofi – riprendemmo alcune immagini perché potessero diventare di repertorio, c’erano le elezioni imminenti, e per puro caso filmammo il palco dell’MSI in cui c’era La Russa, ma io non sapevo neanche chi fosse. Poi, molti anni dopo, qualcuno lo ha riconosciuto. Ricordo in quei mesi filmammo anche i funerali di Feltrinelli, era un clima incandescente.
Per il ministero della Cultura avrebbe un nome da suggerire?
No, non ce l ‘ho. Non sono così catastrofico. E’ chiaro che il governo di destra cercherà di non inimicarsi tutto un popolo geneticamente e tiepidamente di sinistra che è pieno di idealisti ma che poi pensa anche agli affari suoi. E a cui interessa soltanto che tutta una serie di benefici restino elargiti al cinema.
Benefici che sono tanti, c’è un grande boom, per cui c’è questa cosa paradossale della piena occupazione; arrivano anche dall’estero, tutti si improvvisano attori per godere di una serie di vantaggi, e quindi sperano che il nostro ministro della Cultura non dirotti verso altre attività tutti i vantaggi che ha il cinema, la televisione, lo spettacolo in generale.
IL PRESIDENTE DEL COPASIR. Urso è il volto presentabile che serve a Giorgia Meloni. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 19 giugno 2022.
Con la guida del Comitato l’ex finiano si è guadagnato una visibilità, forse eccessiva, che coltiva a colpi di interviste. Nato missino, è europeista, liberale, filoisraeliano, e già agli inizi della sua carriera guardava al Ppe. Oggi è quello di cui ha bisogno la leader di FdI per dimostrarsi credibile leader di governo.
Lui è un filogovernativo naturale, il che aiuta la «pasionaria andalusa» addestrata alla politica al “college” di Colle Oppio, storica sezione romana del fascismo manesco.
Ma ha la debolezza di essere ciarliero. E i colleghi cercano di contenerlo: «Sbaglia a sovraesporsi», «è un incontinente verbale», un altro, «nel pasticcio delle inesistenti liste di proscrizione, lui contribuisce ad aumentare la confusione».
Parla, il fratello d’Italia Adolfo Urso. Parla tanto, per essere il presidente di un consesso top secret, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), interpreta questa riservatezza in una maniera incontenibilmente faconda, lui che pure è descritto come uomo timido, talvolta persino tendente al cupo. Dall’inizio del suo mandato, un anno fa, ha concesso trenta interviste. Conto approssimato per difetto, pallottoliere aggiornato a ieri. Escludendo dal mazzo i comunicati e le dichiarazioni estemporanee.
Per avere un metro di paragone basta pensare al suo predecessore Lorenzo Guerini: in un anno e mezzo di mandato non ne ha data nessuna. Giusto una, ma rigorosamente da esponente del Pd. Forse l’attuale ministro della Difesa esagera con il riserbo, è un giovane vecchio democristiano affezionato alle istituzioni, ma prima di lui anche gli altri presidenti si erano tenuti bassi con la stampa.
Per questo alcuni colleghi del comitato qualche volta, con tatto – Urso è suscettibile, come molti falsi introversi – lo consigliano: «Presidente, il Copasir deve parlare solo con gli atti, le sedute sono secretate». E invece Urso parla. Intendiamoci, non svela segreti di stato, ma manda comunicati, spiega, argomenta, replica. Per la gioia dei cronisti, per una scelta modernista di glasnost. O forse, meglio, perché da quello scranno di palazzo San Macuto Adolfo Urso sta costruendo il salto da ministro dell’Interno del prossimo, immaginario, governo Meloni. Matteo Salvini è avvisato: semmai la destra dovesse vincere, non speri di tornare al palazzo del Viminale, il nostro si è già piazzato ai piedi della scalinata.
L’INCONTINENTE VERBALE
Il guaio è che Urso parla davvero tanto. Si concede con disinvoltura ai talk dove può succedere che il brutto della diretta lo faccia scivolare in qualche gaffe. Martedì scorso su La7, collegato da Washington – il Copasir era lì in visita ufficiale e la tentazione di mostrarsi con lo sfondo della Casa Bianca doveva essere irresistibile – si è scapigliato alzando la voce contro il conduttore Giovanni Floris colpevole, in una puntata precedente sul famoso dossierino dei servizi segreti sui filoputiniani di casa nostra, «di aver istituito un tribunale del popolo contro il Copasir che avete accusato persino di aver chiesto, con una telefonata a un colonnello, la lista dei dissidenti, in assenza di chiunque potesse difendere le istituzioni».
Solo che in entrambe le puntate, quella in corso e quella incriminata, un rappresentante delle istituzioni c’era. Il sottosegretario Bruno Tabacci che, per amor di patria e superiore senso dello stato, ha finto di non sentire. «Sbaglia a sovraesporsi», spiega un componente del Copasir, «è un incontinente verbale», un altro, «nel pasticcio delle inesistenti liste di proscrizione, lui contribuisce ad aumentare la confusione», e a tenersi in bilico fra il pericolo della propaganda straniera e il pericolo della libertà di opinione.
E così sabato scorso, anche lì tre interviste in linea con la sua sobrietà comunicativa, si interrogava pensoso sul perché ogni sua autorevole risposta non risulti risolutiva. «Speravo che bastasse a chiudere il caso – si lamenta – Dispiace che a distanza di dieci giorni dal chiarimento si continui con accuse del tutto infondate».
Va anche detto che Urso nel Copasir è in una posizione in qualche maniera sottosopra. Si sente un difensore delle istituzioni e per questo si trova fatalmente a fiancheggiare il governo; epperò è un membro dell’opposizione, anzi è l’unico dell’opposizione nel comitato, anche se è il capo. Lo è diventato con la nascita dell’esecutivo Draghi, ma dopo lungo e penoso travaglio. L’alleato Salvini, traslocato in maggioranza, non voleva cedere la cadrega da presidente allora occupata dal leghista Raffaele Volpi, ma attribuita per legge alla minoranza.
«In questo momento gli amici dell’Iran non sono amici miei», tuonava il leader leghista per sbarrargli la strada. L’allusione era a un trascorso professionale di Urso, un’attività di import-export con l’Iran, la società di consulenza Italy World Services, che si occupava di internazionalizzazione delle imprese. Un business durato poco, in cui si era rifugiato quando aveva lasciato la politica, dopo la dissolvenza della creatura finiana Futuro e libertà.
A restare in parlamento ci aveva provato: aveva riallacciato un minimo di rapporti con Silvio Berlusconi, dal cui governo si era dimesso a fine 2010 dopo la rottura di Gianfranco Fini. Ma il Cavaliere si era legato al dito il tradimento e alle politiche del 2013 Urso non era stato ricandidato, come racconta lui stesso in Vent’anni e una notte, (Castelvecchi 2013), il libro-conversazione con il giornalista Rai Mauro Mazza che ricostruisce le vicende vicende della destra che ha svoltato a Fiuggi ma è finita in un burrone.
Vera l’attività commerciale in Iran ma velenosa la battuta di Salvini: Urso è filoisraeliano dai tempi dell’Msi e non può essere sospettato di tenerezza verso il regime di Teheran. Ha avuto piuttosto una sbandata filocinese. Ma nell’èra pre Xi Jinping, e anche per questo oggi è anti Pechino e si scatena: attenti alla Russia, ripete spesso, ma la Cina è più pericolosa. L’incaglio dell’elezione in commissione è stato sbloccato dal forzista ma anche radicale Elio Vito, fiancheggiato dall’amico Giulio Terzi di Sant’Agata e da un appello di 51 costituzionalisti e politologi guidati da Antonio Baldassarre e Valerio Onida. La briscola però l’ha buttata sul tavolo il Pd di Enrico Letta che lo ha votato: in ossequio alla legge, ai diritti delle minoranze e alla possibilità di mettere un dito nell’occhio a Salvini.
Urso quasi non ci credeva. Sentiva di non essere in cima alle preoccupazioni di Giorgia Meloni che in quel momento era in lotta per ottenere un consigliere di amministrazione Rai. E invece era diventato presidente.
MISSINO LIBERALE
Ed è una vera riscossa, il premio per una catarsi dolorosa. Padovano di nascita ma catanese di famiglia, di Acireale, il suo curriculum è da buon missino e missino buono. Il suo apprendistato politico è stato a Roma, dove è arrivato per studiare sociologia. Negli anni Ottanta militava nel Fronte della Gioventù, la giovanile del Movimento sociale guidata da Fini. «Ma non era un facinoroso», racconta Enzo Raisi, ex parlamentare ed ex assessore della Bologna di Giorgio Guazzaloca. Raisi è amico di Urso da quei tempi. Era anche un sodale politico, ma fino all’ultima curva: quella in cui Adolfo ha ingranato la marcia indietro verso FdI e Raisi invece ha fondato la Buona destra con Filippo Rossi, già giovane finiano e direttore del quotidiano online Il futurista.
Raisi ha scritto un libro sulla storia di questa destra, La casta siete voi. Dalla militanza giovanile, a destra nella rossa Bologna, a Guazzaloca, Berlusconi, Fini. «Quelli come noi non si rimangiano il passato – racconta – Se andavamo a Predappio? Si, ma perché eravamo una comunità assediata. Io sono bolognese, figuriamoci, noi eravamo dieci e gli altri diecimila. Da scuola spesso dovevo uscire dalla finestra».
Anni maledetti e combattenti. Ma non per Adolfo, «lui è un secchione. Ha sempre creduto in un grande contenitore della destra plurale. Perché il Msi, checché ne dica la gente, era multiforme, un crogiuolo di culture diverse, e c’eravamo anche noi, liberali, filoamericani, filoisraeliani». Tutto bene. Solo che non è il «crogiuolo» della destra di Giorgia Meloni.
Adolfo era uno studioso ed è stato subito una promessa della corrente Proposta Italia guidata da Domenico Mennitti. Quando nel 1990 Pino Rauti ha sconfitto Fini al congresso di Rimini, lui, che era stato al Secolo d’Italia, si è ritirato a Napoli a dirigere il quotidiano Roma. Quando Pinuccio Tatarella ha avuto «l’intuizione» di Alleanza nazionale, che è nata come corrente del Msi, lui c’era. Poi è stato fra i promotori dello scioglimento del Msi e della nascita di An come partito, e alla fondazione, a Fiuggi, nel gennaio 1995, ha introdotto i lavori come segretario generale. Lo “sdoganamento” dei neri grazie al tocco magico di Berlusconi è ormai fatto. Urso entra in parlamento, leader della corrente Nuova alleanza con Altero Matteoli e Domenico Nania. Alle elezioni del 2001 è deputato della Casa delle Libertà e viceministro alle Attività produttive. Nel 2007 nasce la fondazione FareFuturo, che cerca di dare una cultura politica alla nuova destra (Urso ne è tuttora il presidente). Nel 2009 nasce il Popolo della libertà, An è tra i fondatori, la destra è di nuovo al governo, Urso è viceministro degli Affari esteri e da lì stende la rete di rapporti internazionali che poi gli torna utile nel famoso business di import-export.
Poi, nel 2010, la rottura fra Fini e Berlusconi. Nasce Futuro e libertà, Urso resta fedele al capo, ma dialogante con il vero capo, il Cavaliere. Fra i finiani è preso di mira dal falco Italo Bocchino. Ma il ribaltone promesso da Fini viene mancato, Berlusconi resiste a palazzo Chigi, la nuova destra esce dal governo ed esce dalla storia: si trasforma da sogno di una destra normale a zimbello della destra nazionale. Scrive lui:·«Avverto un clima da 25 luglio. Da salvatori a traditori della patria. Glielo avevo detto a Fini: non esageriamo». È andato tutto male: Fini si affida al forsennato Bocchino, Fli esce anche dalla maggioranza, Urso esce da Fli e va nel gruppo Misto. Sparirà dalle liste del 2013 «in una notte», come scrive nel libro. Nasce invece Fratelli d’Italia di Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto: un partito «nazionalista, tradizionalista, nativista, post fascista e sovranista». Che è l’esatto opposto della destra liberale, futurista ed europeista di Fiuggi e del manifesto di Bastia Umbra.
Due anni di purgatorio e Urso viene “recuperato”. Gli ex camerati di FdI lo considerano ancora un finiano – ferocia della sorte per lui che da Fini è stato maltrattato – ma Meloni ha l’occhio lungo: Urso porta in dote un tesoretto di rapporti con l’estero, soprattutto con gli Usa. Come dimostra anche il viaggio della scorsa settimana, ha un volto presentabile ed è ammesso nei think tank repubblicani.
Anche lei dall’altra parte dell’oceano ha alcuni amici, ma sono tutti trumpiani. «Giorgia è di gran lunga la più intelligente», racconta Raisi, «ma quando Adolfo ha fatto la scelta di andare con lei sono rimasto perplesso. Lei vuole un’Europa confederale, che è un passo indietro, noi abbiamo sempre voluto un’Europa forte e federale. E non ci credo che Adolfo sia d’accordo con un partito come Vox. Intendiamoci, non perché sia una destra franchista. Ma perché è una destra tradizionalista e ultracattolica, contraria all’aborto e ai diritti civili. Che c’entra con noi liberali?».
L’AVENTINO DEL PD
Torniamo a Urso presidente del Copasir. L’inizio, nel giugno 2021, è stato burrascoso. La Lega ha disertato le sedute. Il presidente ha tirato dritto e ha cercato subito il colpaccio mediatico. Ha esordito con una richiesta di audire lo 007 Marco Mancini, pizzicato dalla trasmissione Report in un autogrill a parlare con Matteo Renzi (che per spiegare l’incontro ha raccontato una storia fantastica di dazione di “babbi”, biscotti toscani). Il Pd è insorto, disertando a sua volta, ha parlato di «profili di illegittimità» per un’audizione che considerava «formalmente nulla». Urso ha tirato ancora dritto ed è andato in visita «ufficiale» da Nello Musumeci, presidente della regione Sicilia, un altro ex missino ex finiano poi finito nel rivolo della Destra di Francesco Storace prima di presentarsi come «civico».
Ma il presidente era partito senza chiedere una delibera dell’ufficio dei presidenza del Comitato. «Non sapevo che avesse lo stesso rango del presidente della Repubblica o del premier», lo aveva preso in giro Enrico Borghi, Copasir lato Pd. Poi sono arrivati gli attacchi degli hacker, e lì Urso ha convocato una lista di nomi da far impazzire i cronisti, dalla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese alla capa dell’intelligence Elisabetta Belloni, e ha avvertito con l’immancabile intervista: «Con un attacco cibernetico si può paralizzare la guida delle auto con guida da remoto di una città intera, si può fermare un oleodotto e poi chiedere un riscatto. Altro che missili! Nessun allarmismo ma occhi aperti».
Occhi aperti: per Urso inizia la stagione delle scoperte dell’acqua calda, con tanto di relazioni del Copasir. Novità clamorose: tipo che nell’immigrazione irregolare proveniente dall’Africa ci può essere lo zampino della criminalità organizzata. E arriviamo alla guerra di invasione della Russia contro l’Ucraina. Il nostro parte con una mezza figuraccia: a quindici giorni dalla guerra il Copasir presenta una relazione sulla propria attività al Senato, in cui «un attacco su vasta scala» di Mosca è «ritenuto poco probabile». Ma qui la “colpa” non è del comitato ma di chi lo informa.
Inizia comunque la guerra, e siccome la congiuntura è grave, il presidente rientra in una postura quantomeno più dialogante con il Comitato. Naturalmente rilasciando altre interviste rivelatrici, del tipo «Putin vuole l’egemonia energetica». Sempre per la serie della riservatezza, racconta in tv di avere un di più emotivo nel conflitto: ha una moglie ucraina, la cui famiglia – racconta – è metà filo Kiev e metà filo Mosca.
Esplode il caso della guerra ibrida e delle fake news che vengono dal freddo e che in Italia penetrano come nel burro, anzi come nella smetana. Urso convoca un’altra serie di audizioni impossibili, dall’Agcom all’ad Rai Carlo Fuortes, che viene messo in guardia dagli agenti della disinformazione di Mosca annidati negli angoli di viale Mazzini. I quali agenti, però, si lasciano stanare facile visto che vengono comodamente intervistati. Nell’attività mette molto zelo, e ancora molte interviste e dichiarazioni. Ma qui non saremo noi a sottovalutare il pericolo mortale causato dalle fesserie che passano sui media.
FRATELLO ATLANTICO
Il punto è che Urso è un Fratello d’Italia presentabile, «un Crosetto più moscio» dice chi non gli vuole bene, quindi utile a Giorgia Meloni. Nasce missino ma nei tempi in cui lei ancora giocava con le rune lui fondava la sua associazione Fareitalia e già guardava al Partito popolare. È un filogovernativo naturale, il che aiuta la «pasionaria andalusa» – definizione di un non amico – addestrata alla politica al “college” di Colle Oppio, storica sezione romana del fascismo manesco. Giorgia, ancora oggi che pure è premier in pectore, non resiste al comiziaccio e strilla fascisterie alle adunate del partito tradizionalista spagnolo Vox («Urla troppo, sbaglia i toni», lo ha ammesso anche l’amicone Guido Crosetto). E la moderazione di Urso è preziosa per ribilanciare. Ed è un biglietto per il futuribile – ma rigorosamente non futurista – governo Meloni.
Sarebbe il bingo della sua seconda vita politica, dopo l’umiliazione di tornare a Canossa e riporre nel cassetto i sogni «di una destra moderna e vincente», come aveva promesso Fini a Fiuggi. Urso sa di non avere molti amici fra i suoi “fratelli”. Non fa parte del cerchietto magico meloniano, comandato da un cognato e un capo di gabinetto. Non è certo fra quelli che avrebbero organizzato la festa del partito a Roma sotto la lapide di Miki Mantakas, militante del Fuan ucciso davanti a una sezione del Msi di via Ottaviano. A differenza di lei, che sul tema pattina, crede senza esitazioni in una destra «senza reduci», che «vuole guardare avanti e non indietro, e chiudere con il passato». Ma «non è un coraggioso», sospirano i suoi ex amici. Comunque sia, ormai si è consegnato a Giorgia.
DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.
Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini e Fabio Tonacci per repubblica.it – 30 maggio 2021
[…] Urso […] è anche un imprenditore che, per anni, è stato in affari con l'Iran. Non esattamente un Paese neutro e neutrale. La storia ruota attorno alla Italy World Service srl, una società di consulenza in cui Urso ha avuto ruoli operativi e la rappresentanza legale, prima di cedere le quote al figlio nel luglio 2017.
La Iws "opera - si legge nei documenti depositati alla Camera di commercio - nel settore della consulenza e assistenza a professionisti e imprese", in particolare "nella internazionalizzazione delle loro attività". Urso ha sempre sostenuto che il core business della società fosse diffuso, avendo nel portafoglio clienti aziende italiane che operano nei paesi del Golfo, ma anche in Turchia, Sudafrica e Albania.
Analizzando i bilanci, però, si scopre qualcosa di diverso. La Iws nel 2016 fattura 425mila euro, nel 2017 350mila, nel 2018 147mila e nel 2019 crolla a 57mila, quando le perdite sono addirittura superiori al fatturato. Cosa accade? Due cose, a leggere i verbali di assemblea. La prima. Nel luglio 2017 Urso, che ha appena compiuto sessant'anni, decide di candidarsi al Senato quindi lascia il timone della Iws al figlio, pur mantenendo una quota di minoranza nel pacchetto azionario. La seconda: a marzo del 2018 viene chiusa la sede di Teheran dove erano impiegate una dipendente e una collaboratrice. Dunque: senza Urso e senza Iran, gli incassi si riducono quasi a zero. Com'è possibile? […]
Da repubblica.it il 3 ottobre 2022.
"Basta con questo sesso e sessualità. Ognuno è fluido come vuole", dice Alessandra Mussolini durante la puntata di Da noi... a ruota libera, il talk show pomeridiano di Rai Uno. L'ex parlamentare si confessa tra vita privata e pubblica, racconta episodi della sua infanzia, dalla separazione dei genitori quando era molto piccola, alla sua posizione sulle tematiche di genere.
Fresca di esibizione sabato sera da Carlo Conti nello show Tale e Quale, dove aveva interpretato i panni della cantante Rosanna Fratello, Mussolini prima si è lasciata andare a una confessione personale: "Ho sofferto per la mancanza di mio padre nella mia infanzia. Ho vissuto in una famiglia di donne, i miei si sono separati quando avevo quattro anni e avrei avuto bisogno di una figura paterna. Si impara solo dalla sofferenza". Poi una riflessione sulle tematiche di genere: "Basta con questo sesso e sessualità. Ognuno è fluido come vuole - ha detto a Francesca Fialdini - Vedendo quanto soffrono gli adolescenti, quando hanno paura di dire la verità in famiglia, mi viene da dire che ognuno deve poter essere fluido come vuole. Vuoi vedere che divento fluida anche io?".
Non è la prima volta che Alessandra Mussolini affronta tematiche sociali e diritti. Più di un anno fa aveva espresso la sua opinione sul ddl Zan, la legge contro l'omotransfobia. "Oggi più che mai bisogna combattere tutti assieme le tante discriminazioni che, purtroppo, esistono ancora", aveva detto in un'intervista a Chi corredata da foto in tenuta arcobaleno. Un cambio di rotta radicale, rimarcata anche dalla foto sui social in cui mostra la scritta ddl Zan sul palmo della mano in difesa del disegno di legge affossato in Parlamento dal centrodestra nella legislatura che sta per concludersi.
Meloni, Giannini e Molinari costruiscono "la fascista di comodo o da ripulire". Alessandro Giuli Libero Quotidiano l’08 novembre 2022
Giorgia Ducetta o Giorgia Draghetta... Giorgia Tambroni o Giorgia Berlusconi... in ogni caso "capotrena" immersa in una inquietante "doppiezza", addirittura togliattiana, tutta da snebbiare è ovvio; ma l'impresa è fattibile a patto di seguire le nostre linee di pedagogia resistenziale. E così, dopo i "Comunisti per Tabacci" ora è il momento degli "Antifascisti per Meloni". Ma stavolta non è gioco di società per addetti ai lavori parlamentari. Tutt' altro. È l'ennesimo sfoggio di suprematismo antropologico che l'intellighenzia di sinistra apparecchia intorno al presidente del Consiglio per metterlo in condizioni di minorità culturale e politica.
L'attrice principale di questa retorica, una pratica a metà tra la risoluzione strategica del Cln e un protocollo di servizi sociali, è al momento la Stampa di Torino diretta da Massimo Giannini. Da lui proviene l'ultimo referto democratico nel quotidiano prelievo di sangue destinato alla ricerca di globuli autoritari, l'ultima analisi posta all'attenzione di Palazzo Chigi sotto la forma amletica ricordata qui in apertura.
ESSERE O SEMBRARE?
Meloni, in parole povere, ha di fronte a sé il solito bivio: essere sé stessa - che nell'accezione goscista significa appunto restare un po' troppo fascista o al meglio illiberale e magari travestirsi da tecno-sovranista assalita dalla prosa della realtà - ovvero lasciarsi manodurre dall'avversario nell'assunzione d'una nuova presa di coscienza (comunque infelice). Questa: l'abbandono dei deliri psichedelici e delle ipocrisie massimalistiche distillate a gran voce dai banchi dell'opposizione in materia di energia (le trivellazioni osteggiate), moneta comune (il passato remoto no euro), lotta anti establishment («la pacchia è finita»); per poi ammettere che l'unica festa già conclusa è la Halloween dei morti viventi trionfalmente fuoriusciti dall'oltretomba postfascista. Urge dunque un lavacro di verità che renda infine presentabile la destra nuova e di governo grazie alla certificazione regolativa calata dall'alto dell'azionismo di ritorno coltivato a Torino, un intransigentismo costitutivo che sconfina nel puritanesimo politico. I nuovi Catari della vigilanza antimeloniana vantano qualche ragione di merito, laddove rilevano incongruenze e pasticci normativi di cui dopotutto anche a Palazzo Chigi hanno preso subito atto. Ma nella foga inquisitoria dimenticano i passi già compiuti dalla premier alla vigilia del voto in fatto di rigore programmatico e palinodie antitotalitarie.
PROCESSO DI RIMOZIONE
Il loro è un processo di rimozione caratteristico delle menti virtuiste, quelle stesse menti che sui giornali di famiglia rimuovono anche soltanto la tentazione di ammettere in un titolo l'espulsione della sinistra democratica dal discorso pubblico progressista e pacifista, ora che Enrico Letta si rivela il Caronte di un miraggio abortito. Ammettere, si diceva, che in definitiva il monopolio sinistro della religione civile antifascista imbracciato come un fucile partigiano non fa che ingrassare le destre e ritorcersi contro una Concordia nazionale mai così a portata di mano. Purché la si pianti di moraleggiare con la critica delle armi spuntate anziché con le armi della critica contemporanea. Come ha opportunamente rilevato ieri il sociologo Luca Ricolfi in una definitiva intervista su Libero.
Ma Giannini e la sua Brigata sono in buona compagnia. E non è tanto il circo mediatico dei talk costretti a semplificare il messaggio antifà mediante l'ostensione di brevi raffiche di modernariato post fascista, più penoso che compromettente (i video di Predappio e certe invereconde nazi-carnevalate, per capirci); è sopra tutto lo schieramento della seconda corazzata Gedi, il lato luminoso della forza schierato contro le forze oscure della reazione. È qui che brilla, non per caso dal Piemonte, l'ex direttore Ezio Mauro, l'ottimate cuneese artefice di uno strepitoso libro a puntate dedicato alla Marcia su Roma - anche nobilitato in un documentario per Raitre da «Stand by me» - nel quale riluce il ricorso sistematico, in chiusura di ogni cronaca, all'irruzione del monito irrazionale affidato a segni celesti e terrestri sul genere di quelli scrutati dagli aruspici antichi.
PARALLELISMI
Una scrittura ossessivamente eccelsa, la sua, che si ripropone settimanalmente nella caccia notturna dell'analogia con il presente. Un presente di cui Meloni personifica la febbricitante magia avatarica del Novecento, la riemersione limacciosa del peggior tratto autobiografico della Nazione. Trattasi per lo più d'un dialogo per iniziati ai misteri antifascisti, una celebrazione che tuttavia trova risonanza in alcune sollevazioni studentesche e nelle parole d'ordine professorali di cattivi maestri che non ce l'hanno fatta. L'obiettivo resta il medesimo: intimidire il potere del consenso qualificandolo come dominio, fintantoché tale consenso non scenderà a patti con il potere vero spossessato del proprio appannaggio. Drôle de voyage, per una sinistra impegnata nella più drammatica autoanalisi del Dopoguerra e alla quale gioverebbe tornare alla lezione di Ferruccio Parri: «Un esercito patriottico e non partigiano, nazionale, democratico, ma non politicizzato». Sarebbe un bel programma, e nient' affatto suprematista, da offrire a Giorgia Meloni per il prossimo 25 aprile.
Otto e mezzo, Braidotti sbraita contro Meloni: "Insulta e parla a vanvera". Il Tempo il 09 novembre 2022.
La filosofa Rosi Braidotti, ospite di Otto e mezzo nella puntata di mercoledì 9 novembre su La7, attacca duramente Giorgia Meloni. "In fondo non c'è niente di male a pretendere il rispetto della legalità della legge e dell'ordine pubblico" chiede Gruber passandole parola. Ma secondo la prof non è così.
"A mio avviso c'è un discorso di criminalizzazione costante dell'opposizione nel senso che d'improvviso tuti i valori civici sono di destra e la sinistra è diventata nemica dell'Italia e della legalità. Queste sono delle caricature. La Meloni dà l'impressione di non aver veramente voglia di governare tutto il Paese. La sinistra in Italia sui valori fondamentali, civili, come sui diritti umani e l'accoglienza c'è. Come la maggioranza del Paese. Ma il fatto che la Meloni non tenta neanche di accaparrare quel tipo di elettore, lei parla per il Paese all'interno dei suoi gruppi e poi è una draghiana di destra come abbiamo già detto" afferma Braidotti. "Quindi non so se ha intenzione di diventare una vera statista capace di traghettare il Paese verso una nuova fase o se vuole diventare una leader settaria che vuole portarci indietro a Dio, Patria e Famiglia. Perchè questi due aspetti, quello più conservatore e quello reazionario, si alternano in questo doppio binario e creano una grande confusione. Io spero che diventi una grande statista ma deve smetterla di parlare a vanvera insultando sempre tutti quando parla" conclude la filosofa.
(ANSA l’11 novembre 2022) - "La nostra città ieri sera è stata vittima di un gesto di violenza inaccettabile. Come sindaco e cittadino di Bologna, non solo condanno con fermezza, ma chiedo che i responsabili vengano identificati e che provvedimenti seri siano assunti dalle autorità competenti. Non ci può essere tolleranza, né comprensione".
Così, in un messaggio postato su Facebook, il sindaco di Bologna Matteo Lepore commenta il gesto dei collettivi di ieri sera che, durante un corteo, hanno appeso a testa in giù un fantoccio con le sembianze della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. "Manifestazioni di questo tipo - aggiunge il sindaco - nulla hanno a che fare con la dialettica democratica. Al contrario, la violenza politica è la morte della democrazia. Cosa che non consentiremo.
Non a Bologna. Per questo chiedo a tutti e a tutte di isolare i violenti, di non offrire alcuna sponda di comprensione o legittimazione, perché alle questioni sociali si risponde con la politica che si rimbocca le maniche, non invece con la stupidità egoista e inconcludente di che soffia sul fuoco per cercare di esistere.
Alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni esprimo piena solidarietà e la invito a venire quando vorrà a Bologna. Sarà accolta personalmente da me a nome della città. La mia vicinanza - conclude Lepore - va anche ai cittadini, alle imprese e alle forze dell'ordine, costrette a subire questi soprusi e a operare per il bene comune".
Federica Orlandi per ilrestodelcarlino.it l’11 novembre 2022.
Un pupazzo appeso a testa in giù, con lunghi capelli biondi che penzolano nel vuoto, sotto alle Due Torri. E sopra alle fotografie che lo ritraggono, un post di protesta contro la neo presidente del consiglio Giorgia Meloni.
Le fotografie sono state condivise dalla pagina Facebook di Laboratorio Cybilla, il collettivo al femminile costola di Cua, che assieme a quest’ultimo e Split (Spazio per liberare il tempo) ieri ha attraversato più volte le vie del centro in un lungo corteo partito attorno alle 18 da piazza Verdi e proseguito fino a sera.
"Tra poche settimane (giovedì 24 novembre, ndr) per l’inaugurazione del Tecnopolo e di uno tra i 5 computer più potenti al mondo arriverà in città Giorgia Meloni. Ma non sarà mai la benvenuta a Bologna e da nessun’altra parte", scrivono le attiviste sui social, puntando il dito anche contro il decreto "anti-rave" e gli "attacchi all’aborto in maniera celata".
Insomma, il collegamento tra il fantoccio e la premier è quasi automatico. Al corteo, inneggiando alla "vita bella", hanno partecipato circa 200 persone, vegliate dalla polizia. Ciò nonostante, un gruppo è riuscito a imbrattare con vernice rosa l’ingresso del market Sapori e dintorni all’ex Monte di pietà di via Indipendenza, ’colpevole’ di essere "un supermercato di lusso, che i potenti definiscono ’di eccellenza’". Il negozio è stato costretto a chiudere prima.
Le reazioni
"La violenza della protesta dei collettivi di sinistra che da troppo tempo si caratterizzano per la loro aggressività e pericolosità ha conosciuto oggi un ulteriore, ennesimo, vergognoso picco - tona il viceministro e deputato di Fd'I, Galeazzo Bignami -. Ancora una volta costoro si mostrano per quelli che sono: incivili e pericolosi per la democrazia. E' chiaro che questa situazione appesantisce un clima che a Bologna deve essere necessariamente risolto. Confidiamo nel lavoro delle Autorità competenti, certi che sapranno garantire la legalità e l'ordine pubblico".
"Un'iniziativa vergognosa che, come spiegano gli stessi autori di questo vile gesto, suona come una macabra intimidazione", rincara il senatore bolognese di Fratelli d'Italia, Marco Lisei.
Ma l'onda emotiva causata dal manichino choc esce anche da Bologna: "Chi crede nella democrazia e nella libertà non può non condannare certe forme di assurda violenza. Solidarietà a Giorgia Meloni", scrive il ministro per le politiche europee Raffaele Fitto. "Sacrosanto è il diritto di manifestare il proprio dissenso. Inaccettabile è invece l'incitamento alla violenza. Il Pd prenda immediatamente le distanze dall'ennesimo vergognoso episodio di demonizzazione dell'avversario politico", aggiunge il capogruppo alla Camera, Tommaso Foti.
"Ci auguriamo che gli autori di questo vergognoso atto intimidatorio siano individuati e soprattutto ci aspettiamo una netta e inequivocabile condanna da parte di tutte le forze politiche, sinistra in primis", rincara il ministro Francesco Lollobrigida.
Il prefetto di Bologna
“Un fatto di estrema gravità”. È questa la condanna severa e decisa del prefetto Attilio Visconti all’esposizione di un manichino della premier Giorgia Meloni appesa a testa in giù. “Ci tengo a esprimere tutta la mia solidarietà per la presidente del Consiglio, nonché un enorme dispiacere per quanto accaduto. Nella civilissima Bologna, capitale dell’accoglienza, del confronto e del dialogo una cosa di questo genere non è ammissibile. Nella mia carriera non ho mai assistito a un fatto di tale brutalità e inciviltà. Un fatto poco civile e soprattutto ancor meno democratico”, scandisce con severità.
Giorgia Meloni, cosa rischia chi ha "impiccato" il manichino: Digos in azione. Libero Quotidiano l’11 novembre 2022
La Digos di Bologna indaga su quanto avvenuto durante la manifestazione dei collettivi che, ieri sera, hanno appeso a testa in giù alla torre Garisenda - nel centro del capoluogo emiliano - un manichino vestito in abiti militari con le sembianze del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Gli investigatori stanno vagliando foto e materiale video per ricostruire con esattezza i contorni della vicenda e attribuire eventuali responsabilità. Il corteo era stato organizzato dai collettivi Cua e dal Laboratorio Cybilla che protestano contro la norma anti rave party varata dal governo. "La Meloni non è la benvenuta", hanno scritto i promotori sui social. Intanto, il premier ha ricevuto la solidarietà da politici nazionali e locali che allo stesso tempo invitano a non sottovalutare il gesto e ad individuare i responsabili. "È davvero molto grave quanto avvenuto ieri sera a Bologna. Ci troviamo di fronte all’ennesimo inquietante episodio di violenza che - ha dichiarato il presidente del Senato, Ignazio La Russa - coinvolge il presidente del Consiglio. Bene la condanna unanime di tutte le forze politiche. A Giorgia Meloni giunga la mia sincera solidarietà". La solidarietà alla Meloni è arrivata da gran parte della politica: non solo FdI, Lega e Forza Italia ma anche il Pd e Italia Viva.
Una condanna bipartisan contro chi ha appeso il fantoccio. L’azione è stata stigmatizzata anche da amministratori locali e dai governatori Giovanni Toti e Stefano Bonaccini. "Nessuna critica o posizione politica può passare per la violenza, l’intimidazione e l’attacco alla persona. Quanto avvenuto - ha dichiarato il presidente dell’Emilia Romagna - non ha nulla a che vedere con i valori della città di Bologna e della comunità emiliano-romagnola e auspico che i responsabili possano essere individuati rapidamente e chiamati a rispondere delle proprie azioni. Soprattutto in un momento così difficile - ha concluso - serve coesione e non ci può essere nessuno spazio o legittimazione per chi sceglie la violenza".
Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 22 novembre 2022.
Dopo Roberto Saviano, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni manda a processo anche Domani. I magistrati della procura di Roma hanno chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari il rinvio a giudizio di chi vi scrive e del direttore di questa testata, accusati di aver diffamato la premier in un articolo di un anno fa.
Quello della leader di Fratelli d’Italia è un cambio di passo rispetto ai presidenti del Consiglio che l’hanno preceduta: nonostante inchieste giornalistiche e accuse durissime della stampa d’opposizione, né Giuseppe Conte, né Paolo Gentiloni né Matteo Renzi hanno mai querelato né portato avanti processi contro i media quando sedevano a Palazzo Chigi.
Per un rispetto della libertà di stampa, e per lo squilibrio tra l’enorme influenza di un premier e della sua maggioranza (anche sulle dinamiche della magistratura) e i compiti di controllo democratico che dovrebbero guidare il “ quarto potere”. Meloni sembra invece voler colpirne pochi per educare gli altri. Rispetto alla querelle con Saviano (che in tv ha detto che la Meloni e Salvini erano dei «bastardi», protestando con un insulto contro la linea sui migranti), la vicenda di Domani è più complessa.
L’articolo che Meloni non ha gradito è dell’ottobre del 2021, e dava conto di alcuni verbali di Domenico Arcuri, ex commissario straordinario all’emergenza Covid. Il quale, sentito dai pm romani che lo indagano per abuso d’ufficio in merito alla compravendita di una enorme partita di mascherine dalla Cina, aveva deciso di difendersi.
Facendo nomi di alcuni parlamentari che lo avrebbero contattato per promuovere soggetti o imprese che, a parere dell’ex numero uno di Invitalia, vendevano mascherine a condizioni «largamente meno vantaggiose» di quelle proposte dall’imprenditore Mario Benotti (anche lui indagato). Ai magistrati Arcuri cita l’allora senatore di Forza Italia Massimo Mallegni, il neoeletto senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan, l’ex deputato renziano Mattia Mor. Poi l’ex commissario aggiunge: «L’onorevole Giorgia Meloni il 22 e il 27 marzo è in copia all’offerta di tale Pietrella, per mascherine chirurgiche con richiesta di anticipo del 50 per cento e costo del trasporto a carico del governo italiano». Offerta mai presa in considerazione.
Domani, letto il verbale, cerca di capirci qualcosa di più, e scopre che Meloni aveva telefonato ad Arcuri prima che l’amico mandasse la mail alla struttura commissariale. «Insomma», sintetizziamo nel pezzo, «Arcuri dice a verbale che la leader di Fratelli d’Italia avrebbe raccomandato un’offerta di terzi».
Meloni, il giorno dopo la pubblicazione, annuncia querela contro Domani. Colpevole di aver volutamente «travisato» le dichiarazioni di Arcuri ai pm. Meloni conferma però di averlo davvero chiamato, dopo essere stata contattata da Pietrella. E non nega di essere stata in copia nella mail all’allora commissario. Dov’è la diffamazione? Nella parola “raccomandazione”. «Il famoso amico della Meloni chi è? È il presidente di Confartigianato Moda, cioè delle aziende del tessile, che voleva aiutare», spiega lei.
La querela viene depositata il giorno dopo, a firma di Meloni e del suo avvocato. Cioè l’attuale sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove (anche Meloni, come Berlusconi, ha piazzato a via Arenula i suoi difensori). Meloni spiega come non ci sia esatta corrispondenza tra le parole del verbale e quanto scritto da Domani: «Arcuri non ha mai detto che la sottoscritta abbia “proposto” mascherine o che sia intervenuta per “raccomandare” qualsivoglia imprenditore... dunque non v’è dubbio della massima preordinazione e macchinazione per giungere a un titolo fuorviante e diffamatorio».
Forse Meloni avrebbe preferito la più neutra parola “segnalazione” al sinonimo (leggere il dizionario Devoto-Oli) “raccomandazione”. Parola scelta da chi scrive per un’altra evidenza, mai accennata dalla presidente del Consiglio né nella querela né nella conferenza stampa: Pietrella, colui che vuole parlare con Arcuri proponendo un affare che non si farà mai perché troppo oneroso, non è solo un semplice imprenditore. Ma un uomo vicinissimo a Fratelli d’Italia: Meloni lo aveva candidato nel 2019 alle europee e da un mese è deputato di FdI.
Criticare i politici o usare parole sgradite al potere in Italia è talvolta considerato reato. Non solo da ministri e senatori, ma anche dai magistrati a cui si rivolgono. Finché una legge sulle liti temerarie non verrà approvata, le querele e le cause civili restano spada di Damocle sulla libertà d’informazione del paese. Le scelte della premier e dei giudici romani ce lo ricordano per l’ennesima volta.
Meloni querela Domani «da cittadino, giornalista e politico, non da premier». STEFANO FELTRI direttore su Il Domani il 24 novembre 2022
Giorgia Meloni porta a processo il quotidiano Domani reo di aver pubblicato fatti veri, che lei non contesta, ma di aver usato il termine “raccomandazione”.
Per giorni abbiamo cercato di avere risposte da palazzo Chigi: Meloni sa che la causa prosegue? Le va bene così? Un premier in carica contro la stampa indipendente?
Con un po’ di fatica siamo riusciti a ottenere le risposte, a firma di un nuovo avvocato.
In nessun paese occidentale, a quanto ci è noto, un capo del governo in carica persegue i giornalisti che raccontano la sua attività in tribunale. In nessuno tranne l’Italia.
Nell’ottobre 2021 Emiliano Fittipaldi racconta di una mail inviata da un imprenditore all’allora commissario all’emergenza Covid Domenico Arcuri, con in compia Giorgia Meloni, a sottolineare le entrature dell’imprenditore che voleva partecipare all’affare delle mascherine. Fittipaldi scopre anche che Meloni aveva chiamato Arcuri. L’allora presidente di Fratelli d’Italia non contesta i fatti – che sono accertati e in parte a verbale – ma l’uso del termine “raccomandazione” e decide di fare causa penale e civile a Domani.
Un anno dopo l’imprenditore segnalato da Meloni è diventato deputato di Fratelli d’Italia, l’avvocato della causa sottosegretario alla Giustizia, Meloni presidente del Consiglio e un giudice dispone il processo.
Per giorni abbiamo cercato di avere risposte da palazzo Chigi: Meloni sa che la causa prosegue? Le va bene così? Un premier in carica contro la stampa indipendente? L’avvocato resta Andrea Demastro Dellevedove, oggi sottosegretario?
LA NOTA
Con un po’ di fatica siamo riusciti a ottenere le risposte, a firma di un nuovo avvocato. La pubblichiamo qui integrale, in modo che chiunque possa farsi un’idea:
Il presidente Meloni è ovviamente a conoscenza delle cause in corso visto che le querele non vengono presentate senza il suo consenso.
Appare evidente che il sottosegretario alla Giustizia non sia più il legale fiduciario dell’Onorevole Giorgia Meloni, anche in virtù del fatto che, all’assunzione della carica, ha provveduto alla debita segnalazione all’ordine di appartenenza per la sospensione di diritto. Le querele non sono state presentate dall’onorevole Giorgia Meloni in qualità di presidente del Consiglio dei ministri e non sono riferibili alle sue responsabilità di governo.
Le querele sono state presentate dall’onorevole Giorgia Meloni in qualità di cittadino, giornalista, politico e leader dell’opposizione che, dopo essere stato ampiamente diffamato e denigrato a mezzo stampa, ha scelto legittimamente di interrogare la magistratura per chiedere il rispetto degli stessi diritti garantiti a tutti i cittadini. Si coglie l’occasione per precisare che l’On.le Giorgia Meloni ha soprasseduto per anni dal proporre querele a tutela della sua onorabilità sociale, ma tale contegno ha alimentato, forse, la convinzione in taluno di poter proseguire in una campagna di diffamazione quasi sistematica e per di più con addebiti del tutto falsi e pretestuosi.
Da cittadino, giornalista e politico e prima di ricoprire incarichi governativi, l’onorevole Giorgia Meloni ha dunque deciso di affidare alla magistratura la questione: stabilire la fondatezza o meno delle sue valutazioni e di capire se fossimo davanti a diritto di cronaca o a diffamazione a mezza stampa. Non è un caso, infatti, che ci sia una netta separazione tra diritto di cronaca e diritto di critica da una parte e dall’altra insulto libero e diffamazione a mezzo stampa.
Nel nostro codice penale sono previste specifiche norme a tutela dell’onorabilità delle persone e non sono tollerati, pur nel riconoscimento del diritto di cronaca e di critica politica, attacchi personali e smodati, sorretti, spesso, da informazioni false e pretestuose.
Spetterà solo e soltanto alla magistratura stabilire la fondatezza delle querele presentate dall’onorevole Meloni e se delle norme siano state o meno violate dai giornalisti chiamati in causa. Giova ricordare che Ogni ruolo ricoperto comporta una responsabilità direttamente proporzionale al rilievo che ha nella società. È una regola che vale per tutti i cittadini, politici e giornalisti compresi.
PER EDUCARLI TUTTI
Non si capisce a che titolo Giorgia Meloni si senta diffamata “in quanto cittadino” e men che meno “in quanto giornalista” (i suoi trascorsi sono all’organo di partito finanziato dallo stato, il Secolo d’Italia).
Ma il messaggio è chiaro dalla lettera dell’avvocato: arriva il conto per tutto il tempo in cui Meloni “ha soprasseduto dal proporre querele a tutela della sua onorabilità sociale”. Soprassedeva allora che non era potente, ora che è a palazzo Chigi è il momento di farla pagare alla ristretta minoranza di cronisti che non cercano di essere cortigiani. Colpire Domani per educare tutti gli altri.
Un giudice deciderà se raccontare fatti veri riguardanti una leader di partito è diffamazione. Noi abbiamo già capito che idea ha Meloni della democrazia e della Costituzione. Non ci piace, ma non ci spaventa.
Milena Gabanelli dopo la querela di Meloni a Domani: «Non è una bella notizia». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 22 novembre 2022
La presidente del Consiglio ha deciso di mandare a processo Domani. Per la giornalista del Corriere della Sera «non è un bella cosa, anche se avesse ragione»
Prima Roberto Saviano, adesso Domani. Milena Gabanelli, storica autrice di Report e giornalista del Corriere, ritiene che per Giorgia Meloni, per la presidente del Consiglio, non sia opportuno fare causa ai giornalisti: «Non è mai un buon segnale, non è una bella cosa, anche se avesse ragione».
I magistrati della procura di Roma hanno chiesto e ottenuto dal giudice delle indagini preliminari il rinvio a giudizio del direttore e del vicedirettore di Domani, Stefano Feltri ed Emiliano Fittipaldi, accusati di aver diffamato la premier in un articolo di un anno fa. Cosa ne pensa?
Nel pieno di rinvio al giudizio aspetterei per non avere reazioni di pancia.
Lei è molto cauta.
Io riconosco a chicchessia il diritto di difendersi se si ritiene diffamato. La libertà va difesa su tutti i fronti.
Però dice anche che non è un buon segnale.
Sarebbe lodevole da parte di una presidente del consiglio non fare causa ai giornalisti perché la sua è una posizione molto elevata, la querela l’ha fatta prima di avere questo ruolo. Oggi sarebbe nobile ritirarla.
Opposizioni, sindacati e giornalisti contro la querela di Meloni. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 22 novembre 2022
Giorgia Meloni non rinuncia a portare un giornale in tribunale. Una notizia che colpisce tutte le opposizioni politiche del governo di destra e le associazioni di categoria per la decisione inedita di portare avanti l’azione legale intentata a fine 2021 contro Domani per un articolo di Emiliano Fittipaldi nonostante l’incarico di guida dell’esecutivo.
La politica si muove già per esprimere solidarietà. Carlo Calenda, leader di Azione, ricorda che non ha mai querelato un giornalista in tutta la sua attività politica e dice: «Credo sia profondamente sbagliato farlo».
La questione centrale rimane la mancanza di una norma che regoli le querele temerarie. L’ultimo testo sull’argomento è naufragato in Senato quando a presiederlo c’era Piero Grasso, nella XVII legislatura, terminata nel 2018.
Giorgia Meloni non rinuncia a portare un giornale in tribunale. Una notizia che colpisce tutte le opposizioni politiche del governo di destra e le associazioni di categoria per la decisione inedita di portare avanti l’azione legale intentata a fine 2021 contro Domani per un articolo di Emiliano Fittipaldi nonostante l’incarico di guida dell’esecutivo.
La politica si muove già per esprimere solidarietà. Carlo Calenda, leader di Azione, ricorda che non ha mai querelato un giornalista in tutta la sua attività politica e dice: «Credo sia profondamente sbagliato farlo. Tanto più quando sei un presidente del consiglio o un ministro». Sulla stessa linea d’onda anche il suo compagno di federazione Ettore Rosato, di Iv, che commenta: «Quando si è dalla parte del potere in politica, mai utilizzarlo» per questo tipo di vicende.
LE CRITICHE A MELONI
È d’accordo anche Riccardo Magi di Più Europa: «In una situazione di democrazia matura ci si aspetterebbe che il presidente del Consiglio ritirasse una querela che oltre a essere molto temeraria provoca il fatto che, oltre a chi la prende, anche gli altri ragionino due tre volte se scrivere oppure no, creando di fatto una situazione di autocensura». Anzi, sostiene Magi, «ci si aspetterebbero spiegazioni sulla vicenda» che ha raccontato Fittipaldi nel 2021.
Resta lo stupore per la decisione di Meloni di non ritirare la querela, nonostante il cambiamento nella sua situazione dal momento in cui è stata presentata a oggi. «Sarebbe lodevole da parte di una presidente del consiglio non fare causa ai giornalisti perché la sua è una posizione molto elevata, la querela l’ha fatta prima di avere questo ruolo. Oggi sarebbe nobile ritirarla», dice Milena Gabanelli, storica autrice di Report e giornalista del Corriere, che aggiunge: «Non è mai un buon segnale, non è una bella cosa, anche se avesse ragione».
QUESTIONE D’OPPORTUNITÀ
Sulla stessa linea d’onda anche il senatore dem Walter Verini: «Il giornalismo d’inchiesta è molto spesso ruvido e quasi sempre scomodo. Ma è proprio per questo che va difeso. Ciò non vuol dire che le inchieste non possano contenere elementi diffamanti. In questo caso è giusto tutelare la propria onorabilità. Tuttavia è buona norma correggere, replicare, affermare le proprie ragioni, non querelare i giornalisti». Secondo Verini però «la posizione odierna di Meloni rende in ogni caso “impari” la posizione del giornalista e della stessa Meloni. Ci sono analogie con il caso Saviano e inviterei a riflettere la presidente Meloni su questo».
D’accordo anche Nicola Fratoianni, leader di Sinistra Italiana. «Trovo che chi assume cariche pubbliche come la presidente del Consiglio farebbe meglio a ritirare la querela contro gli organi di stampa di questo paese, considerato il suo ruolo. Dovrebbe evitare di creare o portare avanti situazioni di questo genere».
IL PROBLEMA LEGISLATIVO
La questione centrale rimane la mancanza di una norma che regoli le querele temerarie. L’ultimo testo sull’argomento è naufragato in Senato quando a presiederlo c’era Piero Grasso, nella XVII legislatura, terminata nel 2018, in quarta lettura. Di conseguenza, come spiega anche Beppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 «il problema è che il querelatore non paga un euro, se è potente sa che non paga pegno». Per la legge, comunque, non sembra esserci speranza: «C’è assenza di volontà diffusa di portare a casa il provvedimento».
Come dice Magi, poi, la querela temeraria «è uno strumento d’intimidazione per chi non ha un editore alle spalle» continua Giulietti. «Chi scrive su blog e siti magari ci pensa due tre volte prima di pubblicare se rischia di passare anni a difendersi».
Su Twitter il sindacalista assicura anche che «se la redazione di Domani lo riterrà saremo con loro, anche in tribunale, per respingere le querele bavaglio di ogni natura e colore». Gli fa eco il collega europeo Ricardo Gutiérrez, segretario della federazione europea giornalisti, che twitta: «In Italia la destra estrema mostra la sua vera faccia. Solidarietà piena a Domani, Giorgia Meloni, vergogna!»
Il problema delle querele temerarie è da anni una priorità dei sindacati europei di categoria: la situazione dell’Italia, che è al settantottesimo posto nella classifica mondiale della libertà di stampa, è stata segnalata più volte dalle associazioni di categoria anche a Unione europea e consiglio d’Europa. Per ora, senza successo.
Meloni querela Domani e Stefano Feltri: "C'è anche il suo nome..." Libero Quotidiano il 22 novembre 2022
Giorgia Meloni contro il Domani. Il presidente del Consiglio querela il quotidiano diretto da Stefano Feltri ed edito da Carlo De Benedetti. Il motivo? Un articolo datato 2021. All'epoca il Domani dava conto di alcuni verbali dell'ex commissario Domenico Arcuri. Quest'ultimo, sentito dai pm romani che lo indagano per abuso d’ufficio in merito alla compravendita di mascherine dalla Cina, aveva deciso di difendersi citando alcuni nomi di parlamentari che lo avrebbero contattato per promuovere soggetti o imprese che a suo dire vendevano mascherine a condizioni "largamente meno vantaggiose". Ecco che tra i nomi spunta anche quello della leader di Fratelli d'Italia.
"L’onorevole Giorgia Meloni il 22 e il 27 marzo è in copia all’offerta di tale Pietrella, per mascherine chirurgiche con richiesta di anticipo del 50 per cento e costo del trasporto a carico del governo italiano", disse Arcuri sull'offerta comunque mai presa in considerazione. Eppure, il quotidiano aveva sintetizzato così il tutto: "Arcuri dice a verbale che la leader di Fratelli d’Italia avrebbe raccomandato un’offerta di terzi".
Un'uscita che valse loro, a un solo giorno di distanza, una querela. La Meloni infatti contestò il Domani per aver volutamente "travisato" le dichiarazioni dell'ex numero uno di Invitalia. Insomma, l'attuale premier confermò di averlo chiamato, dopo essere stata contattata da Pietrella, ma la parola "raccomandazione" sarebbe una falsità. A un anno di distanza i magistrati della procura di Roma hanno così ottenuto dal giudice delle indagini preliminari il rinvio a giudizio di chi vi scrive e del direttore di questa testata, accusati di aver diffamato la premier. Quanto basta a scatenare l'ira di Emiliano Fittipaldi, vicedirettore del Domani: "Meloni - conclude - sembra invece voler colpirne pochi per educare gli altri".
Filippo Ceccarelli per “il Venerdì di Repubblica” il 22 novembre 2022.
Impressionante è la voce che nel crescendo acquista una inconfondibile cadenza romanesca. Stessa statura da piccoletta, stessa verve femminile, ironica e popolaresca, stessa risposta pronta e schietta, stessa risata allegra o, se necessario, sprezzante. Pare di rivederla il sabato sera sul piccolo schermo, in bianco nero, enfatica, simpatica: «Le balle! Le balle che racconteno, n'ho capito...»; oppure: «Ma lo sai che hai propio stufato?».
Si presentava con un sorriso aperto: «Piascere, Cecconi Bruna, da regazza Stanghellini...».
Questa è una rubrichetta da boomer, o se si preferisce da vecchio bacucco, però appassionato di YouTube, inesauribile fonte di risonanze, consonanze, somiglianze, modelli umani che incessantemente si ripropongono sulla ribalta dello Stato spettacolo.
Ebbene, durante un'indagine neurovisiva sull'attuale presidente del Consiglio, ci si è imbattuti in un blob di Rai3, quindici minuti di spezzoni video che due anni orsono la stessa Meloni aveva ripubblicato sul canale di Fratelli d'Italia con l'avvertenza: «Tra il serio e il faceto non posso negare di riconoscermi molto».
La si vedeva in frammenti di comizi, confessioni, duetti, telescazzi, mentre cantava, cucinava, s' imbavagliava, faceva il presepio, impugnava due zucchine e così via, sempre con grande padronanza di scena.
Meloni ha un temperamento molto istrionico, lo sa e se ne compiace. Prima delle elezioni del 2016, all'Auditorium, fece proiettare sul maxischermo l'imitazione di Sabina Guzzanti. Nel prendere la parola sottolineò che si trattava della quinta imitazione di fila che le facevano.
Cinque anni dopo, era il 2021, quando Massimo Giletti le mostrò in studio l'ennesima parodia, le attrici che le rifacevano il verso, ci tenne a precisare, erano salite a nove. Molto probabile che ora il numero sia ancora aumentato, vedi Alessandra Rametta, in playback sui social.
Tale dunque il magnetismo da suscitare l'interrogativo se esista un modello espressivo primigenio al quale il tono, la gesticolazione, insomma la presenza scenica meloniana possa in qualche modo farsi risalire. E la risposta, andando parecchio indietro nel tempo, è che la sua maschera espressiva fa pensare a Bice Valori (1927-1980), grandissima attrice specialmente versatile, dal teatro più alto alla rivista, dalla radio al doppiaggio, dai musicarelli all'intrattenimento televisivo che le diede enorme popolarità.
Attrice istintiva, moglie e compagna di palcoscenico di Paolo Panelli, appassionata e colta: indomita e sguaiata come la sora Cecconi, ciarliera nei panni della centralinista della Rai, ma anche tirannica come la direttrice del collegio di Giamburrasca. Nulla si crea, d'altra parte, e nulla si distrugge - comprese le fissazioni dei quasi settantenni.
Meloni non ha intenzione di ritirare le querele contro intellettuali e giornalisti. Il Domani il 29 novembre 2022
In un’intervista con il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, la presidente del Consiglio si confronta a tutto tondo, parlando del piano per la gestione del cambiamento climatico ma anche della manovra, che, assicura, non sarà stravolta dagli alleati. Insomma, dice Meloni, «il governo durerà a lungo»
Nella sua prima intervista dopo la sua elezione a presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, tocca, in un colloquio con il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, una grande parte degli argomenti più importanti delle ultime settimane.
A circa metà dell’intervista, Fontana pone una domanda sulle querele che Meloni sta portando avanti contro intellettuali e giornalisti. Il direttore del Corriere cita il caso di Roberto Saviano, ma anche Domani è nella stessa situazione.
«No, non lo penso (che sia il momento di ritirare le querele, ndr) – risponde Meloni – Io ho presentato la querela quando ero capo dell’opposizione. L’ho fatto non perché Saviano mi aveva criticato sull’immigrazione ma perché, nel tentativo vergognoso di attribuirmi la responsabilità della morte in mare di un bambino, mi definiva in tv in prima serata una “bastarda”. E quando gli è stato chiesto se quella parola non fosse distante dal diritto di critica ha ribadito il concetto. Non capisco la richiesta di ritirare la querela perché ora sarei presidente del Consiglio: significa ritenere che la magistratura avrà un comportamento diverso in base al mio ruolo, ovvero che i cittadini non sono tutti uguali davanti alla legge? Io credo che tutto verrà trattato con imparzialità, vista la separazione dei poteri. Ma penso anche che una certa sinistra non debba considerarsi al di sopra della legge».
Meloni risponde anche a una domanda sulla sua ultima conferenza stampa, dove era stata criticata per non aver risposto a un gran numero di domande prima di dover lasciare la conferenza per un impegno. «Io sono una persona che alle domande risponde e non credo di essere nervosa. Vedo invece da parte di alcuni giornalisti un nervosismo nei miei confronti che non avevo ravvisato in passato» dice la premier. «Nell’ultima conferenza, prima che segnalassi di avere un altro impegno, avevo già risposto a nove domande. Vi invito a controllare a quante domande abbiano risposto i miei predecessori in occasione della presentazione della manovra» continua. «Comunque, non voglio alimentare ulteriori polemiche. Dalla prossima conferenza stampa potrei ripristinare le regole del mio predecessore con il quale non ci furono mai problemi».
Dal “Venerdì di Repubblica” il 28 novembre 2022.
Ha mai sentito discutere sugli abiti degli uomini di governo e di potere che del resto non mutano mai, perché per la fantasia bastano i cantanti? Allora perché ci sono state dotte analisi sulle scelte del premier Meloni che ha smesso i vestiti "da donna" della campagna elettorale per scegliere un insieme "da uomo"?
Certo che l'aspetto che uno si sceglie è una testimonianza, e lo è anche quello della Giorgia, però quante sono le donne che lavorano che si vestono così? Milioni, credo non per omologarsi ma per non essere importunate.
Inviato da cellulare
Risposta di Natalia Aspesi
Fisicamente, tra i maschi della politica, la Meloni ha un vantaggio: è una donna, è giovane, è bionda, è piccola, è graziosa, eppure non è sexy, quindi se suscita pensieri cattivi, è solo per ragioni politiche, non erotiche.
Le signore in vetta ai poteri, mettiamo come Christine Lagarde, presidente della Banca Europea, o Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, non sono più giovani, ed è forse per questo che indossano tailleur pantaloni di colori pastello, come i cappottini della defunta regina Elisabetta II (una mia dottoressa raccomandava, "dopo i 50, mai in nero").
Nel tempo della campagna elettorale Meloni era molto civettuola, abiti semplici ma colorati, gonne ondeggianti, quei capelli biondi al vento, da ragazza, una donna attraente rispetto a una quantità di altre dame in lizza per tutti i partiti, di minor impatto visivo.
I maschi di governo, soprattutto di questo nuovo, non sono certo attraenti; ma è solo alle donne che in qualsiasi circostanza si chiede di esserlo, se poi non lo sono pazienza, ma insomma Conquistato Palazzo Chigi, Meloni non ha più bisogno di essere vista, quindi usa il privilegio di vestirsi come le fa più comodo, in nero, affinché social e informazione non perdano troppo tempo col suo guardaroba.
Bisogna dire che in ogni caso sa muoversi benissimo: portando con sé al G20, incontro dei padroni del mondo, la sua figlioletta Ginevra, è riuscita a dividere le donne più o meno di sinistra; chi contro ma anche chi pro, la mamma è sempre mamma, anche se premier.
Il Bestiario, l'Insultino. L’Insultino è un leggendario scrittore che fa ridere definire scrittore e dall’insulto facile. Giovanni Zola su Il Giornale il 24 Novembre 2022
L’Insultino è un leggendario scrittore che fa ridere definire scrittore e dall’insulto facile.
L’insultino è un mitico essere che si sente in diritto di insultare gli avversari politici definendoli “bastardi” e pretendendo al tempo stesso di passarla liscia, come se una volta sposati potessimo insultare la suocera credendo di non finire per direttissima a dormire in automobile.
Ma andiamo per ordine. La leggenda narra che Aristofane, il famoso commediografo greco del 400 a.C., si rifiutò di insegnare la tecnica della scrittura satirica all’Insultino essendo quest’ultimo assolutamente privo di qualsiasi senso dell’ironia. L’Insultino ad esempio faceva con le dita il virgolettato di alcune parole assolutamente a caso e senza motivo. Ad esempio spesso diceva “grazie” virgolettando, cosa che mandava in bestia il buon Aristofane che per questo motivo gli tagliò i capelli a zero, da cui la pelata attuale, e lo caccio da tutte le scuole del regno antico.
Poste tali premesse, si comprende meglio l’incapacità del senso della misura dell’Insultino che sostiene che dare del “bastardo” sia solo un modo di fare “dura critica”. L’Insultino mal sopporta che a decidere se sia una “dura critica” o si tratti diffamazione sia un magistrato, comportandosi in questo modo proprio come i protagonisti di “Gomorra” che si sentono al di sopra della legge. Parliamo della serie televisiva “Gomorra”, tratta per ironia della sorte, proprio dal libro dell’Insultino.
L’Insultino dunque si sente sotto processo, secondo lui solo per aver detto una parolina, un rafforzativo, fingendo di dimenticare che “bastardo” significa nato al di fuori del matrimonio o da padre illegittimo o sconosciuto, insomma fuor di metafora, figlio di buona donna. Appellativo che un recente sondaggio ci rivela che raramente viene accolto come un complimento anche se rivolto ai diretti interessati.
D’altra parte l’Insultino ritiene che più sia importante l’avversario maggiore possa essere la critica, ovvero l’insulto. Ora che il suo nemico politico numero uno è primo ministro non vogliamo sapere quale bestemmia l’Insultino possa pronunciare perché vogliamo evitare di evocare potentissime forze del male provenienti dal profondo della terra.
E dire che l’Insultino ci aveva illuso facendoci credere che se coloro che ama insultare fossero saliti al potere se ne sarebbe andato per sempre dal nostro paese. Non mantenere le promesse è degno di chi è nato fuori dal matrimonio.
Articolo di “The Guardian”*, pubblicato da “La Stampa” il 25 novembre 2022.
Le draconiane leggi italiane sulla diffamazione sono state sfruttate a lungo dai potenti per intimidire e mettere a tacere le voci spiacevoli. Ogni anno si avviano migliaia di procedimenti giudiziari contro i giornalisti investigativi, e la Corte costituzionale del Paese ha esortato a definire e varare la tanto attesa riforma a tutela della libertà di espressione e dell'indipendenza della stampa.
L'ignobile aggressività ai danni di Roberto Saviano, uno degli scrittori italiani più famosi, illustra chiaramente perché tale riforma sia indispensabile prima possibile. Saviano è stato appena processato e rischia una condanna al carcere per l'accusa di diffamazione penale su querela del primo ministro italiano, Giorgia Meloni.
Il caso parte dai commenti fatti due anni fa durante uno spettacolo televisivo, quando Saviano condannò la campagna di Meloni come leader dell'opposizione per impedire che le navi delle Ong soccorressero i rifugiati nel Mediterraneo.
Reagendo emotivamente alla visione di un filmato nel quale una madre piangeva il figlioletto morto quando il gommone dei migranti si è ribaltato, Saviano ha definito «bastardi» Meloni e il suo alleato della destra radicale Matteo Salvini. Parallelamente, Saviano deve affrontare altri due distinti processi per diffamazione intentati da Salvini, oggi vice primo ministro, e da Gennaro Sangiuliano, ministro della Cultura, che lo vedranno comparire in tribunale nei primi mesi dell'anno prossimo.
La settimana scorsa, Salvini ha chiesto di comparire come querelante nella causa intentata da Meloni, il cui processo dovrebbe riprendere il mese prossimo.
Lo spettacolo dei politici italiani più potenti che si coalizzano in questo modo per intimidire uno scrittore è indegno di uno stato membro fondatore dell'Unione europea.
Come ha sottolineato la Corte europea dei diritti umani, i politici dovrebbero essere tenuti a sopportare livelli più alti di critiche e di inchiesta, considerata la loro posizione pubblica. Il diritto di esprimere a voce alta il dissenso su questioni di pubblico interesse è una parte essenziale di qualsiasi democrazia ben funzionante.
Il legale di Meloni ha lasciato intendere che la causa da lei intentata è giustificata dal «disprezzo manifestato» da Saviano durante il programma televisivo. Chiunque conosca la retorica incendiaria di Meloni quando parla di migranti e di altri temi resterà sicuramente sorpreso da tale manifestazione di sensibilità da parte sua.
Se si permetterà che continuino tali dichiarazioni vessatorie, il loro impatto alimenterà sempre più un clima di paura e di autocensura tra i redattori e i giornalisti italiani. In una dichiarazione di supporto a Saviano, il presidente del Pen International, Burhan Sonmez, ha osservato che «le cause penali per diffamazione logorano le loro vittime, li defraudano del loro tempo, dei loro soldi e della loro energia vitale».
Le minacce di morte seguite alla pubblicazione nel 2006 del suo libro Gomorra, la denuncia di Saviano della mafia napoletana, lo hanno costretto a una vita in clandestinità e a essere sempre scortato da agenti della polizia. In tale contesto, è inammissibile che per motivi così pretestuosi i politici italiani ai vertici lo prendano serenamente di mira con azioni legali di alto profilo.
Sembra che il team di legali di Meloni possa ancora decidere di ritirare le accuse prima che il processo a Saviano riprenda a dicembre. Una decisione in questo senso era stata anticipata e divulgata dopo la sua nomina a primo ministro in autunno. È deprecabile che, nonostante questo, le udienze della settimana scorsa siano andate avanti.
Meloni e i suoi alleati tendono ad alzare gli occhi al cielo quando sentono i critici liberali ammonire che l'Italia ha preso una brutta svolta autoritaria. La caccia vendicativa nei confronti di un giornalista illustre che ha avuto la temerarietà di dare loro dei «bastardi» sembra invece supportare proprio questa tesi. Meloni, Salvini e Sangiuliano dovrebbero richiamare indietro i loro cani da caccia e lasciare che Saviano lavori in pace.
*Traduzione di Anna Bissanti
La stampa estera sta con Saviano? Una bufala. Sul “Guardian” lo ha difeso il suo amico di penna. Luca Maurelli su Il Secolo d’Italia il 25 novembre 2022.
La grande stampa internazionale che denuncia l’aggressione ai danni di Roberto Saviano? Ha un nome e un cognome: il suo amico del cuore, un italiano che scrive libri con la prefazione dello scrittore di “Gomorra”, Lorenzo Tondo, che stende articoli a doppia firma con lui, che lancia campagne social con hashtag eloquenti, tipo #Savianononsitocca.”Il Guardian ha dedicato tre articoli agli attacchi contro di me…” aveva detto due giorni fa Saviano al Domani. Sì, il “Guardian“, ma nella persona del suo amico e fedelissimo collega e compagno di penna, Lorenzo Tondo. Una strana coincidenza.
Saviano a processo, il “Guardian” lo difende: come mai?
Più volte, negli ultimi giorni, nel suo piagnisteo contro il processo a suo carico per aver definito bastardi Giorgia Meloni e Matteo Salvini, Saviano aveva parlato della stampa straniera che si sta occupando della sua “persecuzione politica”, facendo riferimento, in particolare, a un durissimo articolo del tabloid inglese “The Guardian”, oggi riproposto, in italiano, da un altro house organ dello scrittore, La Stampa di Torino. Ebbene, quell’articolo obiettivo e imparziale in cui si parla di Saviano come di una vittima del liberticidio della stampa e della libera informazione da parte del regime di centrodestra, firmato dall’amico fidato di Robertino, Lorenzo Tondo, corrispondente del “Guardian” e autore di libri e articoli a quattro mani con il “gomorroide” sia in libreria – con tema i migranti, of course – sia sull’inserto dello stesso giornale, porta una tesi a senso unico e senza diritto di replica. Curioso, eh?
Le ridicole accuse sull’aggressione al giornalismo “investigativo”
Eccola, la grande stampa libera, bellezza, quella che si occupa autorevolmente del caso Saviano, e archivia quelle offese a Meloni e Salvini come opinioni quasi inevitabili a causa delle posizioni del governo sui migranti, utilizzando una persona vicinissima al protagonista della querelle giudiziaria, con argomenti risibili. La linea dell’offendere un politico di destra, non è reato, in sintesi. Bene, tutto possibile, ma spacciare quella arringa difensiva dell’amico di Saviano come l’indignazione dei giornali stranieri, è a dir poco ridicolo. Come del resto sono ridicole le accuse di Tondo contenute nell’articolo.
L’analisi “obiettiva” della situazione italiana e la reazione “emotiva” dello scrittore
Vediamo alcuni stralci, obiettivi come un coro “Fozza fozza Milan” di Abatantuono tifoso a San Siro: “Ogni anno si avviano migliaia di procedimenti giudiziari contro i giornalisti investigativi, e la Corte costituzionale del Paese ha esortato a definire e varare la tanto attesa riforma a tutela della libertà di espressione e dell’indipendenza della stampa. L’ignobile aggressività ai danni di Roberto Saviano, uno degli scrittori italiani più famosi, illustra chiaramente perché tale riforma sia indispensabile prima possibile…”.
Un incipit che farebbe intendere che Saviano sia stato querelato per le sue “inchieste”, per il suo giornalismo investigativo condotto contro i potenti, i nuovi governanti dell’Italia. Invece, l’unica indagine che ha fatto lo scrittore di Gomorra è stata per la ricerca della parola peggiore, poi risoltasi nella scelta di un simpatico epiteto: bastardi. Quindi, non si capisce consa centri la premessa sul Saviano detective, con il racconto del Saviano sboccato: ” Il caso parte dai commenti fatti due anni fa durante uno spettacolo televisivo, quando Saviano condannò la campagna di Meloni come leader dell’opposizione per impedire che le navi delle Ong soccorressero i rifugiati nel Mediterraneo. Reagendo emotivamente alla visione di un filmato nel quale una madre piangeva il figlioletto morto quando il gommone dei migranti si è ribaltato, Saviano ha definito bastardi Meloni e il suo alleato della destra radicale Matteo Salvini…”.
La libertà di stampa in pericolo… da meno due mesi però
Altro giro, altra investigazione tirata in ballo da Tondo: quella che ha portato a processo Saviano contro il ministro Sangiuliano non per uno scoop sul malaffare di qualche tipo, ma sempre per offese personali su cui, ovviamente, deciderà un giudice.
Ma per il corrispondente del “Guardian” amico di Saviano, in Italia c’è in gioco la libertà di stampa, non di insulto. “Lo spettacolo dei politici italiani più potenti che si coalizzano in questo modo per intimidire uno scrittore è indegno di uno stato membro fondatore dell’Unione europea. Come ha sottolineato la Corte europea dei diritti umani, i politici dovrebbero essere tenuti a sopportare livelli più alti di critiche e di inchiesta, considerata la loro posizione pubblica….”. Appunto. Critica e inchiesta.
Tondo poi ricorda le minacce di morte seguite alla pubblicazione nel 2006 del suo libro Gomorra, la denuncia di Saviano della mafia napoletana, “che lo ha costretto a una vita in clandestinità e a essere sempre scortato da agenti della polizia”.
Appunto: la mafia. Che c’entra il governo? C’entra, secondo “The Guardian“, che parla di ” caccia vendicativa nei confronti di un giornalista illustre che ha avuto la temerarietà di dare loro dei bastardi…”. Temerarietà, coraggio. What else?
Otto e mezzo, Sallusti su Meloni e la stampa: quando le querele erano di altri premier... Il Tempo il 25 novembre 2022
A Otto e mezzo si parla del rapporto tra potere e informazione con Lilli Gruber che spiega come quello del giornalismo politico è uno "sport di contatto". Il direttore di Domani, Stefano Feltri, critica la scelta della presidente del Consiglio di querelare il suo quotidiano per un articolo di Emiliano Fittipaldi riguardante una segnalazione da parte di Giorgia Meloni al commissario Covid Domenico Arcuri sulla disponibilità di un imprenditore a fornire mascherine durante la pandemia. "Ci ha querelato perché abbiamo scritto che è stata una raccomandazione", spiega il giornalista secondo cui il caso è preoccupante perché ora la leader di FdI è a Palazzo Chigi. "Quando diventa più potente decide di andare fino in fondo", dice Feltri. A commentare la vicenda c'è anche Alessandro Sallusti, direttore di Libero. "Se Meloni mi chiedesse un consiglio le chiedei di ritirare la querela, che è stata fatta quando lei non era presidente del Consiglio".
"Io sono stato querelato da diversi primi ministri di sinistra, non mi sono mai lamentato e non ho mai frignato, ma non è una bella prassi ", spiega Sallusti. Tuttavia, se la "querelante è Meloni si apre un caso, quando i querelanti erano altri..." afferma il giornalista che ricorda quando è stato arrestato per l'omesso controllo di un articolo "e non mi è sembrato che lo sdegno della categoria fosse arrivato a questi livelli".
All'epoca Sallusti ricevette la grazia dall'allora capo dello Stato Giorgio Napolitano. "Dopo quaranta giorni di carcere..." commenta il direttore di Libero con Gruber che lo corregge: "Non proprio di carcere". "Agli arresti domiciliari, una passeggiata... - replica col sorriso Sallusti - Se mettono Feltri ai domiciliari l'Italia scenderebbe in piazza, e lo farei anch'io" conclude il direttore.
Giorgia Meloni "pescivendola schiavista"? Sallusti: chiamate l'ambulanza...Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 25 novembre 2022
Una esperta di insalate, si definisce proprio «insalatologa», che dà della «pescivendola» al primo ministro Giorgia Meloni è l'ultima entrata nella grande famiglia dei democratici impegnati nella difesa civile di questo Paese. Ha scritto proprio così, «Meloni pescivendola», una raffinata giornalista scrittrice cattolica di sinistra, Jeanne Perego, che ha trovato il modo dopo una vita così così di avere il suo momento di gloria pubblica, non dico raggiungendo ma almeno avvicinando il guru Roberto Saviano e il suo «Meloni e Salvini bastardi». Una premier bastarda, pescivendola, ma pure «schiavista» secondo un altro pezzo da novanta del club degli intellettuali illuminati, e mi riferisco a Marco Travaglio che ieri ha titolato la prima pagina del suo giornale «Con la Meloni torna lo schiavismo» e altrettanto sobriamente all'interno «Meloni vuole l'Italia degli schiavi».
Bastarda, pescivendola, schiavista, se aggiungiamo pure le allusioni a «stragista» e a «mafiosa» pronunciate in parlamento da Roberto Scarpinato, ex pm ora senatore Cinque Stelle, che resta più da dire se non che è vero che questo Paese ha un grave problema con il suo sistema sanitario visto che lascia cittadini bisognosi di cure psichiatriche in balia di se stessi. Qui non serve un magistrato perché è vero - come piagnucola Saviano - che la questione non può essere risolta per via giudiziaria, no qui serve una ambulanza, i matti sono un pericolo non solo per gli altri ma anche per se stessi.
Io non sono preoccupato per Giorgia Meloni, io temo che da un momento all'altro la Perego, Saviano, Travaglio, Scarpinato ma anche la Murgia e tanti altri di quella compagnia di mattacchioni mettano in atto gesti di autolesionismo pur di non prendere coscienza che le destre hanno vinto le elezioni e che quindi governeranno fino a cinque anni secondo programma come avviene del resto in tutte le democrazie del mondo. Guardate che il problema è più serio di quanto appare, c'è un'intera classe di giornalisti, scrittori, magistrati per altro già falliti e perditempo che rimasta orfana è uscita di testa e non sa più dove sbatterla. Il governo non può fare finta di niente e girarsi dall'altra parte, occuparsi dei deboli e dei reietti è un suo compito istituzionale.
Francesco Storace per "Libero quotidiano" il 24 novembre 2022.
Pd, Cinque stelle, Terzo Polo: spazio signori, c'è un quarto partito a sinistra e si chiama Fnsi. È la federazione della stampa italiana, una specie di soviet che ora si è messa in testa di sabotare la premier Giorgia Meloni.
Tutti quei giornalisti che si inchinavano al passaggio di Giuseppe Conte e Mario Draghi; quelli che applaudivano in piedi l'ingresso di SuperMario in conferenza stampa consentendogli di scegliersi le domande a cui rispondere; quelli che obbedivano al premier pentastellato a cui se osavi chiedere conto di ciò che non faceva, rispondeva al cronista: «Venga a farlo lei»; tutti costoro ora si sfogano contro la nuova presidente del Consiglio. Hanno sparso saliva a ondate quando c'erano gli altri premier, adesso fanno gli inferociti. E minacciano: l'altra sera il comunicato delirante della Fnsi.
«Chi ricopre cariche pubbliche ha il dovere di rispondere alle domande. Né può pensare di liquidare con insinuazioni e dietrologie i giornalisti che cercano di ottenere risposte, perché questo in democrazia è un preciso dovere per chi fa informazione. INACCETTABILE Va per questo respinta con forza, perché inaccettabile nella forma e nella sostanza, la reazione della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, alle richieste dei giornalisti di rivolgerle altre domande al termine della conferenza stampa di presentazione della manovra economica».
Con tanto di avvertimento minatorio: «Non sarebbe male se i cronisti prendessero l'abitudine, come pure talvolta è avvenuto in passa to, di non partecipare o abbandonare i comizi camuffati da conferenze stampa». Insolenza allo stato puro. Il web è pieno di immagini di rettori che si prostrano all'arrivo del ministro della Salute Speranza; di Formigli che dà lezioni alla Melo ni «troppo aggressiva» (lo dice proprio lui...); o di chi leccava il premier Draghi dicendogli «se non ci fosse lei saremmo terrorizzati».
Figuracce su figuracce e ora vengono a fare i duri e puri con il primo premier donna nella storia della Repubblica. Non è che un po' sessisti sono quelli che lo dicono sempre agli altri?
La conferenza stampa dello scandalo è stata caratterizzata da perle inaccettabili. Vogliono fare domande, dicono, e poi quello che esce dalla boccuccia ai signori dei media cani da guardia (prima erano da salotto) è «lei non può fare una presentazione così lunga della manovra di bilancio».
Oppure la polemica con la Francia «non le ha insegnato nulla»? No, queste non sono domande, ma esibizioni di arroganza che non c'entrano nulla con il mestiere dell'informazione. In realtà ci troviamo di fronte ad una stampa che in campagna elettorale tifava apertamente contro la paventata vittoria del centrodestra e adesso pretende, ad un mese dal voto, i miracoli che hanno atteso invano e silenti in undici anni di sinistra al potere senza voti.
Che dire, se il destino è contro di noi, peggio per lui... E adesso i giornaloni non si capacitano di dover raccontare una politica che semplicemente attua il programma elettorale con cui ha conquistato la maggioranza dei consensi nelle urne. Forse la Meloni dovrebbe agire come faceva Conte: apparire all'improvviso su Facebook, pretendere di interrompere la programmazione televisiva alla vista della sua po chette, dare vita - quelli sì - a monologhi interminabili, e concedersi a poche, gradite domande subi to dopo (quando era possibile).
Draghi appariva - ma guai a chiedergli un'opinione - più disponibile, ma se gli facevi una domanda sensata - ad esempio sulle sue ambizioni per il Colle - rispondeva nettamente: «Non rispondo». E nessun sindacalista della Fnsi pro poneva il sabotaggio del premier. A proposito: alla Meloni rimproverano persino le querele presentate contro gli la insultava quando stava all'opposizione. Adesso si limita a mandarli al diavolo. Dovrebbero essere contenti anziché piagnucolare.
A.V. per "Libero quotidiano" il 24 novembre 2022.
Anche Rula Jebreal si schiera dalla parte di Roberto Saviano. La conduttrice tv, che in campagna elettorale e subito dopo le elezioni del 25 settembre aveva attaccato pesantemente Giorgia Meloni paventando l'arrivo di un regime in caso di vittoria del centrodestra, ieri è tornata su Twitter ad accusare la leader di Fratelli d'Italia con un post in lingua inglese: «Agendo come un autocrate, il primo ministro italiano coglie ogni opportunità per intimidire e denigrare i giornalisti. I giornalisti che fanno eco alla sua propaganda vengono nominati ministri della cultura e portavoce del governo... mentre i giornalisti che la denunciano vengono minacciati, vittime di bullismo e censurati».
Il tutto corredato dal video nel quale il premier, due giorni fa, critica i giornalisti che l'avevano accusata di non rispondere ad abbastanza domande al termine dell'illustrazione della manovra di bilancio. Subito dopo il voto, Rula Jebreal aveva tirato in ballo una vecchia storia che riguardava il padre di Giorgia Meloni, con cui peraltro il premier non ha più contatti da quando era bambina.
Su Twitter Rula Jebreal aveva raccontato la storia dell'uomo, arrestato per narco traffico quasi 30 anni fa dopo aver abbandonato le figlie: «Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe collettive». Parole che avevano provocato l'indignazione anche di molti esponenti della sinistra.
Giorgia Meloni contro i giornalisti, Ilario Lombardo: "E' il suo metodo". Libero Quotidiano il 22 novembre 2022
Protagonista della conferenza stampa di Giorgia Meloni, oltre che la manovra, il botta e risposta con un giornalista. Non è infatti passato inosservato il rimprovero di Ilario Lombardo al presidente del Consiglio che prontamente ha replicato. "Guardi, fermo restando che non mi pare che non siamo disponibili. Mi ricordo che in altre situazioni siete stati molto meno assertivi - ha tuonato la premier -. Lei dice ‘tagliamo l’introduzione', ma è una legge di bilancio, non penso che lei si aspetti che la presentiamo in quattro minuti. Non vi ricordo così coraggiosi in altre situazioni...".
Parole che non sono piaciute alla firma de La Stampa, che ha ben pensato di rispondere. Sì, ma ai microfoni di Un Giorno da Pecora. In collegamento con Rai Radio1, Lombardo spiega: "La sollecitavo a prendere molte più domande, visto che la legge di Bilancio è la principale legge dello Stato. C’è un metodo ormai, l’ho seguita in tutti i viaggi fatti finora e lei tutte le volte ha fatto le stesse cose, dicendo che aveva un impegno e non poteva prendere troppo domande".
Ma non finisce qui, perché al giornalista non è bastata la giustificazione della leader di Fratelli d'Italia impegnata in un altro incontro. "Diversi indizi - prosegue - fanno una prova. Ci intravedo un metodo, una strategia, visto che lei fa delle introduzioni più lunghe dei suoi predecessori poi c'è la tagliola dei tempi e finisce che le domande diventano due, tre o cinque, come avvenuto oggi". Insomma, Lombardo contesta il fatto che "la presentazione della manovra è durata 75 minuti, un record degli ultimi anni. Il senso della conferenza stampa è fare domande, non è un convegno". Ecco allora la colata di insulti: "Non lo so ma è gravissimo che un’istituzione come la presidenza del Consiglio si permetta di accusare una categoria che è lì solo per fare domande. Questo trucchetto è assolutamente inaccettabile per un presidente del Consiglio". A maggior ragione - conclude - dato che "si è messa a braccia conserte, col volto un po’ nervoso, e ha preso altre quattro o cinque domande".
Meloni, "rissa" coi giornalisti? Retroscena: la frase che ha scatenato il caos. Antonio Rapisarda su Libero Quotidiano il 24 novembre 2022
Giorgia Meloni presenta la prima manovra del suo governo. Gli occhi del mondo sono fissi sul merito di una legge che è già uno snodo cruciale per un esecutivo sorto solo da un mese: l'attenzione degli osservatori internazionali è morbosa sui conti, la tenuta finanziaria, le misure anti-crisi previste. Al netto, ovviamente, della curiosità sul tasso di discontinuità con la precedente gestione Draghi.
Dopo un'ora di presentazione - con il premier affiancato dai ministri coinvolti direttamente nella stesura - giungono le domande della stampa. Tutto fila liscio, con il botta e risposta vivace su questioni inerenti al cuneo fiscale, al reddito di cittadinanza e così via. Spunti e appigli per mettere sotto pressione il governo però non sembrano essercene: del resto né i falchi di Bruxelles né le solite agenzie di rating hanno avuto argomenti per tuonare sulla legge di Stabilità del destra-centro.
A un certo punto arriva la domanda di un cronista del Foglio che mette in mezzo la "pedagogia" sul dossier Ong. Proprio così: ossia, citiamo, se lo scontro con la Francia «le ha insegnato ad avere un approccio meno propagandistico nei confronti dei Paesi partner». Da questo momento la conferenza stampa assume un'altra piega. La risposta del presidente del Consiglio non si limita all'appunto sul modo, discutibile, con cui la questione è stata posta («Guardi è una vita che voi volete "insegnarmi" qualcosa. C'è modo e modo di fare le domande...») ma è stata l'occasione per ribadire la postura - sua, del governo e dunque dell'Italia - rispetto alle questioni internazionali.
«Non mi ha insegnato niente (la reazione francese, ndr) - questa la precisazione -. Perché credo di avere fatto il mio lavoro, come sempre, difendendo gli interessi di questa Nazione. E non mi pare, differentemente da come è stato raccontato per troppo tempo, che stia crollando qualcosa qui intorno da quando è arrivato il nostro governo». Anzi, se «si parla di fare delle riunioni Ue per affrontare il tema dell'immigrazione» è perché l'Italia ha posto il problema «dei suoi diritti». Siparietto concluso da parte della stampa? Al contrario. Dopo aver risposto a un'ulteriore domanda, Meloni ha chiesto di poter andare via perché attesa a un incontro con Confartigianato.
LA PROTESTA - A questo punto è scattata la protesta di alcuni cronisti: la richiesta è di poter fare altre domande. I toni nei suoi confronti del premier tornano a scaldarsi: c'è chi è arrivato addirittura a lamentare i tempi dell'introduzione del suo intervento. Insomma, un altro "insegnamento". La replica di Meloni non si è fatta attendere: «Ma questa è una legge di Bilancio! Penso che nessuno si aspetti che presentiamo la manovra in quattro minuti. Siamo persone seri». «Anche a Bali», ha aggiunto la voce in sala, «c'è stato spazio solo per tre domande». «Avevo un incontro con Xi Jinping», ha risposto a sua volta. E prima ancora Meloni non le ha certo mandate a dire a chi ha avuto da ridire proprio sulla modalità della conferenza stampa: «Fermo restando che non mi sembra che non siamo disponibili... mi ricordo che in altre situazioni siete stati molto meno "coraggiosi" e assertivi. Mettiamola così...».
I RIFERIMENTI STORICI - I riferimenti storici della punzecchiatura di Giorgia - che è rimasta a rispondere ancora alle domande - sono noti. È rimasto celebre, e non proprio da manuale del giornalismo "watch-dog", l'applauso scrosciante degli stessi cronisti parlamentari alla conferenza stampa di fine di Mario Draghi (e lo stesso accadde con Carlo Cottarelli e il suo trolley, quando rimise l'incarico esplorativo dopo qualche giorno). Non si ricordano poi, sempre in riferimento all'ex premier, strali o contestazioni nel giorno in cui SuperMario stabilì a quali domande non rispondere (come quelle sul Quirinale). Andando più indietro con i governi non vi è traccia di gesti plateali - come quello invocato ieri dalla nota della Fnsi contro Meloni, chiedendo la prossima volta di abbandonare la conferenza stampa - quando imperversava il metodo Conte-Casalino. Celebre la battuta dell'ex portavoce dell'allora premier 5 Stelle contro un tweet di un giornalista del Foglio che aveva preso di mira ironicamente la sua gestione di una manifestazione contro i vitalizi: «Adesso che il Foglio chiude, che fai? Mi dici a che serve il Foglio? Perché esiste?». Tutt' altro che morbido, infine, fu lo stesso Conte con un giornalista che in piena crisi pandemica osò chiedergli semplicemente lumi sull'operato del commissario Arcuri: «Se lei ritiene di far meglio», questa la risposta, «la terrò presente».
Maurizio Belpietro per “La Verità” il 23 novembre 2022.
Fino a ieri la principale preoccupazione dei giornaloni e dell'opposizione riguardava la tenuta dei conti pubblici. «Con le loro promesse Meloni e soci ci manderanno in malora», era l'ottimistica conclusione di certi accorati editoriali con cui si invitava la maggioranza a non fare danni.
«Se si tocca la Fornero, anticipando l'uscita dal lavoro di chi ha meno di 42 anni di contributi, si scassa il bilancio dell'Inps», era l'obiezione della sinistra e di alcuni centri studi politicamente orientati. E ora che il consiglio dei ministri ha varato una manovra prudente, senza fare troppo deficit, ma investendo due terzi dei soldi a disposizione in misure che attenuino il rincaro delle bollette?
Adesso che a Palazzo Chigi si è deciso di rinviare la riforma previdenziale a tempi migliori, ritoccando solo il necessario? Nel momento in cui si mette mano al Reddito di cittadinanza, riducendo la platea dei beneficiari? Beh, ovvio: neanche quello va bene.
Così, gli stessi che prima predicavano cautela per evitare che lo spread salisse, adesso accusano l'esecutivo di mancanza di coraggio e scarsezza di visione. In particolare, un assaggio del doppiopesismo di stampa e opposizione lo si è visto ieri, con i commenti a caldo dopo il varo della legge di bilancio.
Con una certa dose di ironia lo ha notato anche Giorgia Meloni, che rispondendo alle domande dei cronisti ha replicato alle contestazioni in conferenza stampa dicendo di non ricordarsi tanta assertività ai tempi del governo Draghi.
Da parte nostra, possiamo aggiungere che altrettanta condiscendenza fu usata quando il premier era Giuseppe Conte, ma anche Matteo Renzi e Paolo Gentiloni dai giornalisti sono sempre stati trattati con i guanti bianchi. Le domande erano felpate, e invece di incalzare il capo del governo, la maggior parte dei rappresentanti della stampa annuiva.
Tutto ciò per dire il clima che ha accolto la Finanziaria: se con Mario Monti la stampa e le forze politiche erano adoranti, scambiando per tagli di spesa perfino le tasse, con Giorgia Meloni improvvisamente giornali e partiti d'opposizione hanno cambiato stile. La trasformazione più clamorosa riguarda il giudizio sul reddito di cittadinanza. Quando fu introdotto, il Pd votò contro e i principali centri studi lo giudicarono una follia che avrebbe creato un buco nel bilancio dello Stato.
Prima che cadesse il secondo governo Conte, anche i grillini si resero conto che la legge aveva bisogno di manutenzione. Ma ora che il governo Meloni ha deciso di cambiare le regole, limitando la misura alle sole persone che non sono in grado di lavorare, apriti o cielo. Il leader grillino, che dopo essere stato avvocato del popolo da qualche mese, per guadagnare consensi, si è trasformato in tribuno della plebe, minaccia di mobilitare la piazza e si dichiara pronto a tutto.
A sollecitare manifestazioni di protesta è anche l'uomo che ha perso qualsiasi cosa poteva perdere, ossia Enrico Letta, il quale dimentico delle posizioni contrarie del suo partito, adesso difende il reddito di cittadinanza.
E Renzi e Calenda? Anni fa spararono a zero contro il reddito di cittadinanza, ma ora che bisogna recuperare consensi, e soprattutto attaccare il governo, la musica è cambiata: adesso urge demolire la manovra per demolire il governo. In conclusione, se si sgombra il campo dalle chiacchiere e dalle polemiche di partito, che cosa resta?
Una Finanziaria fatta in un mese (ricordate quando Draghi fece capire che non aveva alcuna voglia di prepararla e qualcuno ipotizzò il rischio di un esercizio provvisorio?), con pochi soldi perché la gran parte erano già impegnati, ma con obiettivi precisi: le bollette, le pensioni, il cuneo fiscale, la card e l'assegno unico per i nuclei familiari con maggiori necessità, la revisione del reddito di cittadinanza.
A qualche economista colorato tutto ciò ovviamente non piace. Abbiamo sentito con le nostre orecchie Carlo Cottarelli dire in tv che l'intervento sulle pensioni premia interessi particolari. Secondo il professore, che è andato in pensione a 59 anni, chi di anni ne ha 62 e sulle spalle ne ha 41 anni di contributi regolarmente versati, evidentemente ha interessi particolari.
Per lui e quelli come lui forse si devono regalare soldi, con il reddito di cittadinanza, a chi di anni magari ne ha trenta e i contributi non li ha mai pagati. Con il che si capisce quanto strumentali siano le critiche. Per dirla con la Meloni: quanto sono assertivi certi esperti quando non hanno di fronte né Monti né Draghi.
Carlo Canepa per pagellapolitica.it il 30 novembre 2022.
Il 29 novembre il Corriere della Sera ha pubblicato la prima intervista di Giorgia Meloni da quando è diventata presidente del Consiglio. Tra le varie domande, il direttore del quotidiano Luciano Fontana ha chiesto alla leader di Fratelli d’Italia di commentare le critiche secondo cui, durante la conferenza stampa di presentazione del disegno di legge di Bilancio, avrebbe lasciato «poco spazio alle domande».
«Ho fatto cinque conferenze stampa in quattro settimane. Nell’ultima, prima che segnalassi di avere un altro impegno, avevo già risposto a nove domande», ha risposto Meloni. «Vi invito a controllare a quante domande abbiano risposto i miei predecessori in occasione della presentazione della manovra».
Abbiamo accolto l’invito della presidente del Consiglio: numeri alla mano, per le ultime due leggi di Bilancio, Mario Draghi e Giuseppe Conte avevano risposto a meno domande. E nel primo mese dei due precedenti governi erano state organizzate meno conferenze stampa.
La conferenza stampa di Meloni
Alla conferenza stampa del 22 novembre, in cui il governo ha presentato il disegno di legge di Bilancio per il 2023, hanno partecipato Meloni, il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini, il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il viceministro dell’Economia Maurizio Leo e la ministra del Lavoro Marina Elvira Calderone.
La presentazione delle misure contenute nel testo è durata circa un’ora e mezz’ora è stata poi dedicata al confronto con i giornalisti, che in alcuni casi hanno fatto più di una domanda a testa. Dopo dieci domande, Meloni ha avvisato che la conferenza si doveva concludere, perché doveva partecipare all’Assemblea nazionale di Confartigianato, creando malumori tra i giornalisti, soprattutto per la durata della presentazione del testo.
«Mi ricordo che in altre situazioni siete stati molto meno assertivi», ha replicato in maniera piccata la presidente del Consiglio, facendo implicito riferimento ai governi passati. «È una legge di Bilancio: io sono una persona seria e le cose le voglio spiegare», ha aggiunto Meloni, sussurrando: «Se foste stati così coraggiosi in altre situazioni…». Dopo questo botta e risposta, la presidente del Consiglio e i ministri hanno risposto ad altre cinque domande, portando il totale a 15.
Al di là di questa polemica, a quante domande avevano risposto i due predecessori, Draghi e Conte, nelle conferenze stampa di presentazione delle ultime due leggi di Bilancio?
Le conferenze stampa di Draghi e Conte
Il 28 ottobre 2021 l’allora presidente del Consiglio Draghi ha presentato in conferenza stampa il disegno di legge di Bilancio per il 2022, insieme al ministro dell’Economia Daniele Franco e il ministro del Lavoro Andrea Orlando. La conferenza stampa era durata circa un’ora e dieci minuti, con una mezz’ora dedicata al confronto con i giornalisti. In totale, le domande a cui ha risposto Draghi e gli altri membri del governo sono state 12, tre in meno rispetto a quelle fatte durante la conferenza stampa del governo Meloni.
Il 19 ottobre 2020, l’allora presidente del Consiglio Conte, insieme con il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, ha presentato il disegno di legge di Bilancio per il 2021, in una conferenza stampa durata complessivamente poco più di 50 minuti. Come per Draghi, anche qui per le domande dei giornalisti sono stati concessi circa 30 minuti. In totale, i giornalisti intervenuti erano stati quattro, con otto domande complessive.
Ricapitolando: se si prendono in considerazione le ultime tre conferenze stampa per le presentazioni delle leggi di Bilancio, si scopre che il governo Meloni ha risposto a 15 domande, quello di Draghi a 12 e quello di Conte a otto.
Altri numeri
Nella sua intervista con il Corriere della Sera, Meloni ha citato un dato corretto: dal 22 ottobre, giorno del suo insediamento, al 22 novembre, ha tenuto cinque conferenze stampa da presidente del Consiglio: il 22 novembre per presentare la legge di Bilancio; il 16 novembre durante il vertice del G20 a Bali (in quell’occasione Meloni aveva avuto poco a tempo a disposizione per le domande, dicendo che doveva incontrare il presidente cinese Xi Jinping); l’11 novembre per presentare un nuovo decreto-legge sull’energia; il 4 novembre per descrivere il contenuto aggiornato della Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza (Nadef); e il 31 ottobre per presentare il contenuto del primo decreto-legge approvato dal governo.
Draghi è diventato presidente del Consiglio il 13 febbraio 2021 e ha tenuto la prima conferenza stampa il 19 marzo 2021, quindi oltre un mese dopo, per presentare il decreto "Sostegni" approvato dal Consiglio dei ministri. Draghi ha poi rilasciato la sua prima intervista a un quotidiano, anche lui come Meloni al Corriere della Sera, il 17 aprile 2022, oltre 14 mesi dopo essere diventato presidente del Consiglio. Il 17 agosto 2021 Draghi aveva rilasciato una breve intervista televisiva al Tg1 su Rai 1, sei mesi dopo la nomina a capo del governo: all’epoca avevamo verificato come nei dieci anni precedenti i suoi predecessori, da Mario Monti a Conte, avessero rilasciato le loro prime interviste molto prima di lui.
Conte è diventato per la seconda volta presidente del Consiglio il 5 settembre 2019. Nelle quattro settimane successive ha tenuto solo una conferenza stampa, il 30 settembre, per la presentazione della Nadef.
Meloni, porcheria del Fatto in prima pagina: "Mica potete rompere il ca***". Libero Quotidiano il 23 novembre 2022
La stretta del governo sul reddito di cittadinanza proprio non va giù al Fatto Quotidiano. La manovra, illustrata da Giorgia Meloni in conferenza stampa, prevede che i percettori del sussidio considerati “occupabili”, cioè tra i 18 e i 59 anni, potranno continuare a riceverlo solo per i primi otto mesi del 2023, agosto compreso. Poi alla prima offerta di lavoro congrua rifiutata, il reddito sarà tolto. Infine dal 2024 il reddito non ci sarà più.
La misura tanto cara al Movimento 5 Stelle, quindi, sta per essere eliminata del tutto. Al Fatto non l'hanno presa bene, tanto che la prima pagina di oggi ospita una vignetta velenosa contro Giorgia Meloni. Il premier, ritratto come se stesse parlando in conferenza stampa, dice: "Siamo poveri, siamo poveri gne' gne' gne' e mica potete rompe 'r caz*o, tutto il tempo che c'ho da fa' 'o statista io...". A corredo le parole "Under-dog over the top", con chiaro intento ironico rispetto a quanto la Meloni disse nel suo discorso di fiducia in Parlamento. La vignetta in questione ricalca in modo sarcastico anche i botta e risposta che il premier ha avuto in conferenza con alcuni giornalisti.
Il Fatto, insomma, illustra la Meloni come una persona indifferente rispetto ai problemi dei più fragili. Peccato, però, che la manovra sia stata fatta proprio per quelle persone lì. Lo ha scritto lei stessa su Twitter: "Orgogliosa del lavoro di questo Governo e di una manovra scritta in tempi record. Una legge di bilancio coraggiosa e concreta, che bada al sodo e offre una visione sulle priorità economiche. Favorire la crescita, aiutare i più fragili, investire nelle famiglie, accrescere la giustizia sociale, sostenere il nostro tessuto produttivo, scommettere sul futuro: questa la nostra ricetta per ridare forza e visione all'Italia".
Flavia Amabile per "la Stampa" il 24 novembre 2022.
Roberto Saviano rinuncia alla parola. Ha annullato tre incontri , due a Reggio Emilia e uno a Roma, spiegando in una lunga lettera i motivi della sua decisione. Una forma di protesta, quasi un autoimbavagliamento dello scrittore dopo l'apertura del processo per diffamazione per aver esclamato «Bastardi, come avete potuto» riferendosi a Giorgia Meloni e Matteo Salvini durante una puntata di Piazzapulita del 2020. Una scelta quasi necessaria dopo aver sottolineato due giorni fa le parole usate da The Guardian, che in un editoriale definiva «bullismo» l'abuso della legge italiana sulla diffamazione «per intimidire, silenziare il dissenso».
«Resisti», gli chiede il sindaco di Reggio Emilia, Luca Vecchi. Non bisogna sottovalutare il suo monito, è il messaggio che arriva dal presidente dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini.
Roberto Saviano per ora preferisce che sia il silenzio a parlare per lui. «Scrivo questa lettera con molta fatica e gran dispiacere», inizia così il testo della lettera inviata alla Fondazione "I Teatri" di Reggio Emilia, per spiegare il motivo del rinvio della sua partecipazione agli incontri del 27 novembre nell'ambito di "Finalmente Domenica", e il 28 con gli studenti delle scuole, per presentare il suo libro su Falcone. «Per me questa è una fase difficile, portato a processo da tre ministri di questo governo: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano».
In particolare, il ministro della Cultura «mi ha poi minacciato nuovamente, di altro processo, per le critiche rivolte recentemente a lui; Salvini invece si è costituito, a sostegno di Giorgia Meloni, parte civile nel processo a mio carico.
Ben cinque le azioni giudiziarie pendenti da parte di ministri di questo governo. Chiunque, al mio posto, ne sarebbe paralizzato». L'attacco - aggiunge Saviano - è organizzato, congiunto. «I giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza parlamentare, stanno facendo uno squadrismo quotidiano» e - denuncia lo scrittore - «chi dovrebbe difendere spazi di libertà e democrazia è impegnato a nascondere le macerie di un percorso politico, culturale e intellettuale che non ha saputo creare ponti, ma solo disgregazione».
Da un lato «c'è un comportamento feroce, di diffamazione, di isolamento, dall'altro prudenza, distinguo, precisazioni, paura, silenzio per convenienza. Questo genera solitudine. Per fortuna so che non sono solo: sento la solidarietà di chi mi legge, di chi sostiene le idee che esprimo e di alcuni dei miei colleghi, i più coraggiosi (pochi, tra gli scrittori, lo sono). La sento e ne sono preoccupato, perché temo seriamente che chi mi è vicino sia oggetto di vendette trasversali. Non voglio certo votarmi alla solitudine, ma sento di dover proteggere chi non ha scelto il mio percorso, ma desidera starmi accanto».
Sono in tanti a rassicurare Saviano, non è solo. Oltre a esprimere la solidarietà di tutta la comunità emiliano -romagnola, Stefano Bonaccini avverte che il gesto di Saviano «è un monito che non può essere sottovalutato». E invita lo scrittore ad andare avanti comunque. «Abbiamo bisogno della sua voce e della sua testimonianza, per un impegno che deve essere anche di tutti noi».
Solidarietà e vicinanza anche dal sindaco di Reggio Emilia Luca Vecchi. Al Teatro Valli della città, Saviano era atteso per presentare il suo libro su Giovanni Falcone agli studenti. «Caro Roberto, non sei solo», assicura il sindaco. «La città che ti ha conferito la cittadinanza onoraria è al fianco di chi si impegna in prima persona contro la criminalità organizzata, per la legalità e la sicurezza. Qui stiamo e qui ci troverai, sempre».
La speranza del sindaco e di tutta la comunità è che lo scrittore presto cambi idea. La stessa speranza è stata espressa da Paolo Cantù, direttore della Fondazione "I Teatri" di Reggio Emilia «Lo avevamo invitato a parlare e discutere di quella memoria che, nel caso di Giovanni Falcone, vorremmo senza indugio condivisa e pubblica. Ci dispiace che l'attualità politica abbia preso il sopravvento e stiamo già cercando una data alternativa, il prima possibile, per riuscire ad avere Roberto Saviano con noi, per continuare ad esercitare fino in fondo la nostra funzione di spazio e presidio pubblico di pensiero e dialogo». Annullato anche l'incontro a dicembre a Roma al Festival Più libri, più liberi con Michela Murgia e Chiara Valerio dal titolo «Cremini e altre cose nere. Un viaggio nei registri simbolici nei quali siamo cresciuti».
E se l'Isis, Boko Haram e i nazisti dell'Illinois aspettassero Saviano a teatro? L’autore di Gomorra rinuncia a due incontri a Reggio Emilia e dichiara di non andare in pubblico perché teme per la sua incolumità. Un timore un tantinello eccessivo (specie da uno che querela ogni cosa in movimento...)
Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 26 novembre 2022
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Immaginatevi, una sera di novembre a Reggio Emilia. Una sera umida, tetra e patibolare come lo sguardo dell'eroe. Ecco, davanti ai cancelli del Teatro Valle, affollarsi nell'ordine: frange sparse del Pkk e dell'Isis, superstiti del battaglione Azov con bazooka sfuggiti a Putin, miliziani nigeriani di Boko Haram, un nostalgico anni 70 delle Br e un pugno di feroci nazisti dell'Illinois. Tutti lì spazientiti a sbirciare l'orologio. Scusate, ma cosa fate qui in fila? «Aspettiamo Roberto Saviano», rispondono sbuffando.
Ma guardate che Saviano non viene. «Come non viene? Ma se abbiamo comprato il biglietto? Questo non è corretto...», urla un signore mascherato in corsetto antiproiettile. «Ma è sicuro che non viene?», insiste educatamente sparando una raffica di kalashnikov. Ma sì che non viene. «E perché non viene?». Saviano non viene perché dice che «non ha scudi». «E che minchia significa, non ha scudi?», incalzano gli astanti caricando un mortaio. Boh. Non so. In realtà, nessuno ha capito bene. I terroristi chiedono spiegazioni al bigliettaio. S' incazzano tutti. Uno cerca di ordinare un missile dalla Cecenia.
Un altro, a sfregio, vuole piazzare del tritolo sotto il teatro. Un altro ancora, dell'Isis, fa un gesto di stizza inconsulto e, per sbaglio, stacca la linguetta di una delle granate sulla cintura. Ed è un'esplosione di raro scontento. Che - diciamoci la verità - è sempre meglio dell'«esplosione d'odio» che sta accompagnando da una settimanella a questa parte ogni atto, pensiero, opera e, soprattutto, omissione di Roberto Saviano. Ecco.
Immaginatevi questa scena surreale e pensate allo scrittore che ha appena annunciato, appunto, di disdettare gli incontri col pubblico di domenica 27 e lunedì 28 novembre a Reggio Emilia. Pensate, in particolar modo, ai motivi che l'hanno spinto a un gesto così ineducato. «Sono a processo con tre ministri di questo governo e percepisco odio, non voglio esporre chi mi ospita a questo clima», annuncia lui. E verga di suo pugno uno sfogo che è un grido di dolore verso i suoi fan, che di solito si avvicinano per toccarlo, stringergli la mano, strappargli un autografo. Ricordiamo l'antefatto.
Saviano, a Piazzapulita su La7 aveva dato dei «bastardi!» a Meloni e Salvini. Giorgia - che allora non era a Palazzo Chigi ma all'opposizione- l'aveva querelato. E Saviano, invece di scusarsi perla cazzata, con un formidabile senso del martirio ha girato la situazione a suo vantaggio; ha convocato conferenze stampa per informare che essendo scrittore ha licenza poetica di insultare chicchessia, basandosi sui reati d'opinione (un arzigogolo in punta di diritto che temo avrà vita breve); ha assemblato il suo commando situazionista capitanato da Michela Murgia, e ho detto tutto.
Come se non bastasse, ecco l'ennesimo colpo di teatro, una fascinosa mistura di vittimismo eroico: «Chiunque, al mio posto, ne sarebbe paralizzato». Chiunque. «I giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza parlamentare, stanno facendo uno squadrismo quotidiano: io sono sulle loro prime pagine ogni giorno, attaccato nella maniera più bassa e vile, senza che io sia davvero schermato da quella che dovrebbe invece essere una opinione pubblica "amica"». Considerando che, a cominciare dall'ascoltatissima tribuna di Che tempo che fa, Saviano attira sudi sé l'attenzione del mondo; be', la sua capacità di alterare la realtà qui travalica spiazzamento, indignazione e rabbia, e arriva quasi all'ammirazione.
Davvero. Quest' uomo è un genio.
Lo dico da «squadrista quotidiano di giornale di estrema destra». Saviano in uno spettacolare cortocircuito è in grado di lanciare strali verso la libera stampa che resoconta l'accaduto; ma, nel contempo, lamenta che la stessa stampa libera non gli faccia da sponda. Si tratterebbe di «silenzio per convenienza».
E, nella lettera pubblicata sul Corriere della sera, arriva perfino a definire coraggiosi quelli che lo sostengono, perché potrebbero essere vittime di «vendette trasversali». E quindi ecco che si immola per «proteggere chi non ha scelto il mio percorso ma desidera starmi accanto». Per questa nobile e drammatica ragione, per non mettere in pericolo degl'innocenti, Saviano ha annunciato l'annullamento degli incontri. «Settimane di attacchi continui, per timore di esporvi, di esporre chi mi ospita: responsabilità, questa, che sento gravosissima», ha detto, evocando un'«esposizione fisica» da evitare, perché «l'odio è tangibile e non esiste alcuno scudo». L'odio.
Nonostante abbia querelato chiunque solo provasse a fargli un buffetto (da Gasparri alla nipote di Benedetto Croce, da Genny Sangiuliano al giornalista casertano Di Meo), alla faccia della libertà d'espressione da lui invocata, Roberto rivela la sua essenza. Deve sacrificarsi, scivolare nel cono d'ombra per evitare di mettere in pericolo chi ama. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Un incrocio fra Spiderman e Salman Rushdie. Certo, poi devi spiegarlo - kalashnikov o no - a chi è lì in coda ad attenderne l'ombra nella notte...
Strumentalizza il processo per aver dato della «bastarda» a Meloni, mentre invece è un'occasione per lui. L'editoriale di Davide Vecchi. Davide Vecchi su Il Tempo il 27 novembre 2022
Roberto Saviano è stato rinviato a giudizio a seguito di una querela presentata da Giorgia Meloni che si è ritenuta diffamata dall'epiteto «bastardi» (riferito a lei e a Matteo Salvini) scandito dallo scrittore a fine 2020 nel corso di una puntata di Piazza Pulita. La prima udienza del processo si è tenuta il 15 novembre e da allora (quindi da dodici giorni) Saviano ha messo in atto una campagna aggressiva nei confronti dell'attuale presidente del Consiglio affinché ritiri la querela spacciando lui per vittima e lei per carnefice quando in realtà è l'esatto opposto. Almeno così dice la legge. Ma si sa, i paladini della giustizia tendono a rispettarla (e invocarla) quando si applica agli avversari, mentre se ne dimenticano volentieri quando sfiora loro (e gli amici).
Ora, ciascuno è libero di scegliere come essere uomo e come essere giornalista. Ma io da uomo e da giornalista provo molta tristezza e profonda pena per Saviano. Da uomo provo molta tristezza nel vedere un quarantenne spaventato e incapace di affrontare le conseguenze delle proprie azioni, da giornalista provo profonda pena nell'assistere a questa deprimente sceneggiata piagnucolante per una querela: dovrebbe essere felice e orgoglioso di poter dimostrare in un'aula di tribunale la veridicità delle sue opinioni.
Questo comportamento è oggettivamente e (umanamente) imbarazzante per l'intera categoria. E lo è ancor di più perché palese è la strumentalizzazione di Saviano: l'autore di Gomorra da settimane ripete e scrive che è stata Giorgia Meloni a mandarlo a processo. Niente di più falso. Sicuramente lo scrittore sa bene che chi querela presenta una denuncia ed è poi un giudice a decidere se quella denuncia è fondata (e quindi dispone il rinvio a giudizio, il processo) o non ha motivo di essere (e quindi archivia il procedimento). Dunque o Saviano ignora la procedura - cosa al quanto improbabile-osta volontariamente alzando fumo per aizzare il suo circo mediatico affinché lo difenda e attacchi Meloni. Questo è infatti il risultato ottenuto. Ma il processo mica lo ha disposto l'inquilino di Palazzo Chigi. Saviano se la prenda con il giudice che - ripeto - ha ritenuto fondata la diffamazione contestata da Meloni. È molto semplice.
Nel mio piccolo, se considero solo i quasi dieci anni trascorsi al Fatto Quotidiano, ho ricevuto almeno una quarantina di querele e persino un processo d'ufficio avviato da un magistrato di Siena (l'unico caso in Italia). Non ne ho persa nessuna e al tribunale toscano sono stato pienamente assolto (ora quel pm è indagato a Genova, si chiama Aldo Natalini ed è accusato di falso ideologico per il caso di David Rossi). Mai ho avuto paura di scoprire che quanto avevo scritto fosse sbagliato: può capitare. Ma appunto si affronta.
È palese la strumentalizzazione attuata da Saviano. E dè un peccato. Perché con questo vittimismo immotivato ha semplicemente finito di demolire l'immagine del paladino della giustizia che si era costruito, quell'alone da eroe che lo accompagna (insieme alla scorta) da quasi venti anni (Gomorra è del 2006) che con indomito coraggio sfida a volto scoperto e testa alta persino la mafia, figurarsi i politici. Peccato. Ci abbiamo creduto. Ma gli eroi sono alla testa dei cortei e non si nascondono in fondo mandando avanti gli altri.
Spero abbia uno scatto d'orgoglio e ringrazi Meloni di averlo querelato così potrà dimostrare in un'aula di giustizia quanto fondata fosse la sua opinione. Anzi, ora che lei è premier, la sfidi: se io Saviano perdo, pago quanto e come stabilirà il tribunale (del resto nella giustizia bisogna crederci sempre, o no?), se invece perde lei, presidente del Consiglio, si impegna a introdurre (finalmente) una bella legge sulla lite temeraria. Ecco. Speriamo in un ritrovato orgoglio. Altrimenti Saviano sarà l'ennesima bandiera che la società civile dovrà ammainare prendendo atto di aver nuovamente visto male.
Saviano querelato da Giorgia Meloni e la difesa della Sinistra. Arnaldo Magro su Il Tempo 30 novembre 2022
«La querela a Saviano resta e non ho intenzione alcuna, di ritirarla». Si aggiungeranno capitoli nuovi, startene certi, nella querelle legata alla premier ed allo scrittore napoletano. La vicenda oramai nota un po' a tutti, è stata ricostruita ed analizzata in maniera puntuale, dal direttore su queste pagine, non più tardi di qualche giorno fa.
«Sono sotto attacco» scrive ancora Saviano. «Mi sento in pericolo così come temo, per l'incolumità , di coloro che mi vivono al fianco». Frase forte. Ad effetto. Che stia provando a giocarsi la carta del vittimismo Saviano? O ipotizza forse, una legio di meloniani ferventi, pronti a sopravanzare la scorta di cui dispone, per cantargliene quattro, in endecasillabi sciolti? Difficile anche solo da immaginare, come scenario. Vivendo in Italia e non a Kabul, dove il rischio più grande riscontrabile per strada, è quello dell'insulto sboccato e gratuito per una mancata precedenza. Nei suoi profili social, prova ugualmente ad aizzare il suo popolo. Ci prova ma non vi riesce granché. Sobilla quella intellighenzia settaria. In soccorso arriva pure l'anglosassone «Guardian».
Una sorta di stringiamoci a coorte, a favore del compagno Roberto. Roba forte. Brividi alle unghie. «Il presidente del consiglio mi porta in tribunale» dice Saviano. Ma anche qui, la ricostruzione dei fatti, come parte dei suoi scritti, non sono sinceri. La querela esposta è datata 2021, quando Meloni era ancora solitaria all'opposizione. Quando contava poco. Quando non ricopriva, il ruolo di premier. Quel «bastardi» urlato con veemenza in diretta televisiva, non rappresenta diritto di critica. E lui ben lo sa. Sarebbe bastato forse chiedere «scusa».
Ora spetterà invece ad un giudice valutare. Ma come dice Davide Vecchi, dovrebbe essere ugualmente contento Saviano, di poter argomentare il suo pensiero in tribunale. Non godrà certo di un processo sommario bensì di uno serio ed imparziale. Con tutti gli occhi addosso. La sua mediaticità schizzerà alle stelle. Mediaticità a caro prezzo però. Ma corra comunque il rischio. Ha accostato un personaggio politico alla foto di un bambino, attribuendogli de facto, la responsabilità del decesso. Ora corra il rischio che un giudice, possa ritenere quel fatto sanzionabile. E magari pensi anche solo per un attimo, a come può essersi sentito il destinatario di quell'insulto. Se può aver temuto per la propria incolumità e pure di chi le sta accanto. Ad esempio. E perché se in scrittura tutto vale, si finisce che nulla abbia più valore.
Porro gela Saviano: "Perché Meloni non ritira la querela". Cosa ha detto davvero. Il Tempo il 29 novembre 2022
Nella Zuppa di Porro, la video rassegna stampa quotidiana del giornalista Nicola Porro, si torna a parlare della querela ricevuta da Roberto Saviano. Il conduttore di Quarta Repubblica, commentando l'intervista di Giorgia Meloni al Corriere della Sera, rivela come sia rimasto stupito dal fatto che "con tutti i problemi che abbiamo, l'economia che non va, Ischia, le accuse di deriva troppo a destra del governo, ci sia comunque il tempo di chiedere conto alla Meloni della querela contro Roberto Saviano". Durante un'intervista nella trasmissione PiazzaPulita su La7, l'autore di Gomorra aveva dato dei "bastardi" sia alla leader di Fratelli d'Italia sia a Matteo Salvini. Ora andrà a processo per diffamazione.
"Il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana, nelle 15-20 domande che fa, deve piazzare quella su Saviano. E la Meloni risponde: 'Io non ritiro la querela a Saviano perché mi ha rappresentato come se fossi la colpevole della morte di un bambino annegato nel Mediterraneo'. Capito? Non solo Saviano dà della bastarda alla Meloni, ma al culmine del ragionamento la indica come mandante occulta dell'assassinio nei confronti di un piccolo migrante. Francamente, non me lo ricordavo, è abbastanza pesante" spiega Porro rivelando come lui sia, in generale, contrario alle querele contro i giornalisti. Giorgia Meloni, nell'intervista al Corriere, ricorda come questa querela era stata presentata quando non era presidente del Consiglio. "Perché un magistrato dovrebbe trattare diversamente me, in quanto premier? Sarebbe piuttosto pericoloso per la magistratura. Il problema è che una certa sinistra non si può considerare sempre sopra le righe" sottolinea Porro ribadendo il ragionamento della premier.
IL TITOLO DI STUDIO DI GIORGIA MELONI DAL SUO CURRICULUM
LETTERA A DAGOSPIA l’1 Dicembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
Gentile redazione di Dagospia,
Vi scrivo perché spero che almeno Voi abbiate il coraggio di pubblicare una notizia che nessuno finora ha mai pubblicato. Su ogni bibliografia di Giorgia Meloni c’è scritto che come titolo di studio ha la maturità di liceo linguistico, ma in realtà si è diplomata all’istituto professionale alberghiero Amerigo Vespucci di Roma.
A dimostrazione di quello che scrivo riporto il link di una dichiarazione di suo professore delle scuole superiori, peccato che, poco casualmente il docente non specifichi in quale indirizzo di studi era iscritta la neo Presidente del Consiglio e il professore insegnasse Economia, materia che notoriamente non è mai stata tra quelle insegnate al liceo linguistico.
Giorgia Meloni ha un titolo di studio di una scuola professionale o di un liceo linguistico? In passato ci sono stati politici che hanno millantato titoli di studio mai conseguiti, come Umberto Bossi e alcuni di Fratelli d'Italia come Crosetto (che, iscritto fuoricorso alla facoltà di Economia di Torino, dichiarava di avere la laurea, che ovviamente non ha mai conseguito) e Daniela Santaché (1 corso di pochi giorni all’Università Bocconi era diventato sul suo CV un master universitario di un anno).
Non sarà che la Meloni, per quanto voglia far credere di essere orgogliosa delle sue origini di borgata, si vergogni che a differenza degli ultimi Presidenti del Consiglio non ha studiato al liceo e ha in diploma di istituto professionale alberghiero con indirizzo da barista o cameriera (altro che il bibitaro Luigi di Maio, che almeno ha il diploma di liceo scientifico) o turistico?
Infatti tutti i Presidenti del Consiglio da Bettino Craxi a Mario Draghi (passando da Prodi, D’Alema, Monti, Letta, Renzi, Draghi, Conte, insomma nessuno escluso!) hanno una cosa in comune: il diploma di liceo classico! Confido che almeno Voi mettiate in risalto la notizia come merita e ringrazio anticipatamente.
Cordiali saluti B.
Da orizzontescuola.it del 30 novembre 2022
Giorgia Meloni? "Da studentessa capiva tutto al volo e poi approfondiva, era eccellente, le ho dato anche un 9 in economia politica, voto che non ho dato quasi mai nella mia carriera. Fu mia studentessa al quinto anno e prese 60/60 alla maturità".
A raccontarlo, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Carlo Turchetti, professore di Economia politica all’Istituto Amerigo Vespucci di Roma, dove tra i suoi alunni ebbe anche la premier italiana.
Si capiva già quando era diciottenne che Meloni avrebbe avuto una grande carriera politica? "Lei aveva un modo di intendere la politica molto coerente, anche se controcorrente rispetto a molti altri studenti. Che per capacità fosse fuori dalla norma era evidente, pensate che alla maturità consegnò per prima e senza utilizzare la ‘brutta copia’, cosa che stupì tutta la commissione", ha spiegato il docente.
Antonio Rapisarda per "Libero quotidiano" l’1 Dicembre 2022.
Che nell'elaborazione del "metodo Meloni" l'esperienza alle superiori - fra le intimidazioni dei collettivi antifascisti, la trincea delle assemblee dove si conquistava da sola il palco e il diritto di parola e la prima prova di leadership nel movimento studentesco di destra de "Gli Antenati" - sia stata una tappa fondamentale per il futuro premier lo ha documentato lei stessa nell'autobiografia Io sono Giorgia. A questo affresco, da ieri, si è aggiunta una voce: quella di Giorgia Meloni fra i banchi di scuola. A fornire la testimonianza, con ampi dettagli e con più di una nota di merito, è stato Carlo Turchetti. Il suo ex professore di Economia Politica all'Istituto Amerigo Vespucci di Roma nell'anno più delicato per tutti gli studenti: quello della maturità. Che cosa è emerso? Che il presidente del Consiglio e leader di Fratelli d'Italia è stata una studentessa «eccellente».
Diplomata con il massimo dei voti (60/60) in un istituto pubblico sperimentale (ai tempi i licei linguistici erano tutti privati), nel quale evidentemente brillava non solo nelle lingue straniere (e i risultati si vedono oggi quando interviene senza interpreti nei grandi summit internazionali) ma anche in una materia, come Economia politica, che incrocerà - eccome - la sua carriera politica.
Com' era, dunque, Giorgia a scuola? «Aveva un grande intuito, aveva delle opinioni importanti, le sapeva sostenere. Era molto curiosa», così il suo professore a Un giorno da pecora ha fissato le caratteristiche principali che Meloni da allora si porta dietro. Nel suo libro, non a caso, la "capa" della destra ha ricordato quel di procedere nato proprio al Vespucci: «Io scrivo su carta, a mano.
È il mio metodo per fissare in testa le cose, da quando andavo a scuola e, per non dover studiare troppo il pomeriggio, mi costringevo a stare attenta in classe appuntando in tempo reale la spiegazione del professore».
Analisi sottoscritta dal suo "prof": «Lei capiva al volo e poi approfondiva. Era eccellente».
Lo era anche nella sua materia, dove Giorgia può vantare uno dei voti più alti che Turchetti ha assegnato in carriera: «Poche volte ho dato 9... Glielo diedi sulle scuole economiche: nel rapporto fra la società e il senso di giustizia». Anche ai tempi l'impronta della destra sociale era evidente nei ragionamenti della leader in pectore:«Era molto attenta, a proposito dei fattori di produzione, su quali fossero gli elementi che andavano utilizzati a vantaggio della gente».
Caratteristiche che Meloni spendeva in prima linea. In politica. «Sì. Era molto coraggiosa», ha continuato il docente a cui non passava inosservata la vita avventurosa della sua ex studentessa. «Partecipava alle attività politiche esterne o si recava spesso come ospite (capo degli studenti di destra, ndr) al Maurizio Costanzo show.
Ma poi recuperava immediatamente se qualche insegnante nel frattempo aveva svolto una parte importante del programma».
La domanda a questo punto è d'obbligo: in quella diciottenne c'erano già le caratteristiche dell'attuale premier? «Non facciamo voli pindarici», ha ribattuto Turchetti, «ma che era fuori dalla norma non c'erano dubbi». Lo dimostrava in classe, quando seppur in minoranza «per le sue idee controcorrente» riusciva sempre «con coerenza, a ristabilire le sue ragioni» e a rappresentare persino un elemento «di coesione» con gli altri che la pensavano diversamente.
La prova del nove, poi, fu proprio l'esame di maturità quando stupì i professori esterni «consegnando il compito per prima e senza utilizzare la "brutta copia"».
Poteva essere, poi, un esame come gli altri quello di Giorgia Meloni? Ovvio che no. A raccontarlo, qui, ci pensa la sua autobiografia. Argomento del suo tema di italiano? Quando si dice il destino: l'immigrazione. Per questo motivo gran parte della commissione l'aspettava al varco. All'orale però trovarono pane per i loro denti. «Scusate», disse loro, «vi devo segnalare che voi qui state facendo un processo alle mie idee e questo non è consentito, siete qui per valutare la mia preparazione». L'esito di quell'esame è noto. Il resto della carriera pure.
La lezione di Giorgia Meloni a Roberto Saviano: "Non è al di sopra della legge".. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Novembre 2022
Il presidente del Consiglio ha deciso: non ritirerà la denuncia contro Saviano che l'aveva definita "bastarda" in un programma tv
Roberto Saviano dopo i suoi volgari e brutali attacchi "urlati" a raffica contro Giorgia Meloni, una volta resosi conto delle conseguenze penali in arrivo, sta giocando negli ultimi giorni la carta del vittimismo . Lo scrittore campano dovrà affrontare quelli che sono gli effetti delle sue parole, anche perché il presidente del Consiglio non ha alcuna intenzione di tornare sui propri passi e ritirare la querela
Intervistata da Luciano Fontana, direttore del Corriere della Sera, Giorgia Meloni ha spiegato di non avere alcuna intenzione di ritirare le denuncia contro Saviano, che aveva detto "«Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle ong: "taxi del mare", "crociere"… viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così? È legittimo avere un’opinione politica ma non sull’emergenza".
"Ho presentato la querela quando ero capo dell’opposizione", spiega la leader di Fratelli d’Italia ora alla guida del Governo. "L’ho fatto non perché Saviano mi aveva criticato sull’immigrazione ma perché, nel tentativo vergognoso di attribuirmi la responsabilità della morte in mare di un bambino, mi definiva in tv in prima serata una "bastarda". E quando gli è stato chiesto se quella parola non fosse distante dal diritto di critica ha ribadito il concetto", precisa. "Non capisco la richiesta di ritirare la querela perché ora sarei presidente del Consiglio: significa ritenere che la magistratura avrà un comportamento diverso in base al mio ruolo, ovvero che i cittadini non sono tutti uguali davanti alla legge? Io credo che tutto verrà trattato con imparzialità, vista la separazione dei poteri. Ma penso anche che una certa sinistra non debba considerarsi al di sopra della legge. Sto semplicemente chiedendo alla magistratura quale sia il confine tra il legittimo diritto di critica, l’insulto gratuito e la diffamazione" ha aggiunto la Meloni.
Il messaggio della Meloni è forte e chiaro. Essere, come si dice, "di sinistra" non mette al riparo dalle conseguenze. Una lezione che Roberto Saviano sta imparando proprio adesso. Lo scrittore campano si è di fatto defilato, annunciando via lettera di aver rinunciato agli eventi pubblici che lo avrebbero visto impegnato. Non ha neppure mancato di attaccare quella che lui definisce "opinione pubblica amica", responsabile secondo lui di non averlo schermato dallo "squadrismo quotidiano" dei "giornali di estrema destra, in alcuni casi pagati direttamente da esponenti della maggioranza parlamentare". Va ricordato che il reato di diffamazione aggravata (art. 595 comma 3) in questo caso dal fatto che la diffamazione sarebbe avvenuta in un talk show televisivo, è punita con la reclusione da 6 mesi a 3 anni o la multa non inferiore a 516 euro. Redazione CdG 1947
Da liberoquotidiano.it il 2 dicembre 2022.
Lucia Annunziata attacca Giorgia Meloni sul suo comportamento nei confronti dei giornalisti da Corrado Formigli a PiazzaPulita, su La7, nella puntata del 1 dicembre: "Meloni polemizza coi giornalisti? Draghi aveva uno standing istituzionale che Meloni ancora non si è guadagnata. Hai un titolo, sei a Palazzo Chigi, hai i voti, basta fare la gruppettara di destra". E ancora, dice la conduttrice giornalista riferendosi alla premier: "Entra nei panni della presidenza del Consiglio. La vedo proprio stretta ancora in questo incarico".
Detto questo, sottolinea Lucia Annunziata: "Giorgia Meloni è leader legittimo, negli ultimi dieci anni per fermare la destra si sono fatte esperienze di governo spurie. Lei è la prima persona che prende voti, vince e si impone".
Quanto a Giuseppe Conte, prosegue la giornalista. "Lo stimo per molti versi ma lui non ha il dna del Cinque Stelle. È come un innesto, può funzionare ma al momento non ha il dna del Movimento, è un altra cosa". Insomma, per la Annunzia l'ex premier "è un avvocato, il classico legale che conosce molto bene le tattiche del lavoro, quelle di discussione e come si crea un caso e lo si porta avanti". In sostanza la giornalista definisce il leader pentastellato "un tattico".
Da liberoquotidiano.it il 2 dicembre 2022.
I giornalisti contro Giorgia Meloni. È accaduto durante la conferenza stampa sulla Manovra. Qui alcuni di loro hanno contestato al presidente del Consiglio "il poco spazio per le domande", arrivando a dire che la lunga presentazione altro non è che "una strategia".
Eppure a dire la sua e spezzare una lancia a favore della leader di Fratelli d'Italia ci pensa Bruno Vespa. Il conduttore di Rai3 interviene ai microfoni di PiazzaPulita nella puntata di giovedì 1 dicembre su La7. "Io - esordisce davanti a Corrado Formigli - non so come altri premier avrebbero risposto".
Per Vespa "non si chiede a una premier se ha imparato una lezione, la domanda si fa per sapere le cose". Ancora una volta ecco che Formigli interviene: "Sì ma le domande si accettano per quelle che sono e si risponde".
"Sì, ma non si chiede questo", conclude Vespa sottolineando comunque che è lecito fare domande. Anche sul caso Saviano Vespa prende le difese del presidente del Consiglio: "Quello di cui un Presidente del Consiglio non può fare a meno è denunciare una persona che afferma che è corresponsabile della morte di un bambino in mare. Si chiama attribuzione del fatto determinato. Ho procurato la morte di un bambino in mare? Dimostramelo".
Per il giornalista la querela della Meloni nei confronti dell'autore di Gomorra non ha nulla, o quasi, a che vedere con il termine 'bastarda' a lei attribuito. Opinione che vede ancora il conduttore di La7 contrario: "Non è così", controbatte dando vita all'ennesimo battibecco.
La colonna ambescìlle. Il caso Saviano e la sentenza che sancisce il diritto di scrivere falsità. Guia Soncini
su L’Inkiesta il 19 Novembre 2022.
Indignazione per la cattiva Meloni che porta in tribunale il «bastardi» pronunciato dallo scrittore di Gomorra, solidarietà al deputato buono che cita in giudizio un giornale e assoluzione dell’articolista che sette anni e mezzo fa mi ha attribuito una corrispondenza altrui.
Nel dicembre del 2020 Roberto Saviano è, esattamente come ora, lo scrittore italiano più noto all’estero, molto letto e stimato da ormai quindici anni. Nel dicembre del 2020 Giorgia Meloni è, diversamente da ora, all’opposizione del governo all’epoca in carica. Nel dicembre del 2020 Piazza pulita è, esattamente come ora, il programma più trash della tv italiana.
La prima domanda che viene quindi da farsi, di fronte allo scandalo collettivo di questi giorni, è: perché commentiamo il tutto come se la presidente del Consiglio avesse fatto causa a uno scrittore, invece d’indignarci perché la giustizia italiana ci mette talmente tanto tempo a imbastire la prima udienza d’un banale processo per diffamazione che in quel tempo una senza alcun incarico di governo fa in tempo a divenire presidente del Consiglio?
La seconda domanda attiene alla libertà d’espressione. Che è mio personale convincimento serva innanzitutto a tutelare gli inadeguati. Se Roberto Saviano scrive un articolato editoriale in cui ne dice di tutti i colori sul mio conto, è assai probabile che sia capace di costruirlo in modo che la sua prosa si difenda da sola. È l’inattrezzato culturale che mi dice «ambescìlle» che va tutelato nella sua libertà d’espressione.
Su questo non siamo tutti d’accordo, anzi: c’è tutt’un movimento culturale che disapprova che i social siano un grande sfogatoio su cui chiunque può dirti «ambescìlle», e che mai sottoscriverebbe la mia convinzione che quello sfogatoio sia utilissimo; ogni Vongola75 che scrive i suoi penzierini ostili è una Vongola75 che dopo si sente meglio e non mi aspetta armata sotto casa.
Epperò la più parte degli intellettuali italiani (e non solo italiani) dissente, ritenendo che le parole facciano male quanto una coltellata (si vede che non v’ha mai accoltellato nessuno).
Epperò Saviano, per aver a Piazza pulita detto «bastardi» all’indirizzo di Meloni e Salvini, viene difeso moltissimo da intellettuali che invece si spendono abitualmente molto contro quelle che chiamano «parole d’odio», e solitamente fanno (o minacciano) causa per ogni «ambescìlle». È un mondo vagamente schizofrenico, quello in cui il «Bastardi» di Saviano ha una dignità diversa dallo «Stia zitta» di Raffaele Morelli.
(No, il fatto che Saviano il «Bastardi» lo usi per arringare in difesa dei buoni – si parlava dei profughi che secondo la destra sono in gita di piacere – non può valere come distinzione: le regole non possono esistere per tutelare solo quelli che ci pare stiano dalla parte giusta, non sono certo io a dover spiegare a Saviano o a Michela Murgia che questo è il funzionamento delle dittature, e che in democrazia le regole salvaguardano chi non ci piace).
La terza domanda, alla quale ha già risposto Saviano, riguarda quelli che trasecolano: dove andremo a finire, si sa che non si denunciano gli scrittori, non si denunciano i giornali, non si denunciano neanche i programmi trash, se salta questa regola è barbarie; quelli secondo i quali dev’esserci una speciale immunità dalle accuse di diffamazione per i mezzi di comunicazione di massa, altrimenti addio libertà di stampa. Scusate, ma chi pensate pratichi eventuali diffamazioni? I baristi? I cardiochirurghi? Gli elettrauti? Se mi sento diffamata da un giornale cosa devo fare, se non chiedere a un tribunale di decidere se ho ragione?
Ha già risposto Saviano, dicendo che lui non discute lo strumento della querela, anche lui querelò Gasparri. Bene, e allora tutto lo scandalo di questi giorni a cosa serve? Gli scrittori che vanno a solidarizzare in tribunale contro uno strumento che lo stesso Saviano approva perché sono lì? Per richiedere una riforma che gestisca i processi in modo da aprirli e chiuderli prima che cambi il governo del paese e con esso i rapporti di forza, spererei – ma temo non sia così.
Mentre tutta l’Italia rispettabile, l’Italia dei giusti, l’Italia che sa che posizione prendere si sdegnava per la politica che fa causa a uno scrittore, per gli ingiusti che fanno causa ai giusti, Aboubakar Soumahoro pubblicava sui social la foto d’un articolo di Repubblica sulla sua famiglia con queste parole a commento: «Non c’entro niente con tutto questo. Non consentirò a nessuno di infangarmi. Chi ha deciso di farmi la guerra, con diffamazione, dico ci vediamo in tribunale. Ho dato mandato ai legali di perseguire penalmente chiunque, usando qualsiasi mezzo, offenda la mia reputazione».
Aboubakar Soumahoro è la politica, ma è anche uno dei giusti. Come la mettiamo? Era da «stai con Togliatti o con Vittorini» che non era così scivoloso posizionarsi: stai coi querelati o coi querelanti? Se, come Saviano, elevi un «bastardi» a «la libertà di critica» e a «gli intellettuali che decidono di smontare la sua narrazione» («sua» di Salvini), forse puoi anche elevare un «difendo gli amici miei e non una linea univoca» a posizionamento culturale.
Mentre l’Italia rispettabile decide come conciliare il posizionamento rispetto a Soumahoro e quello rispetto a Saviano, a me arriva una sentenza. Riguarda un articolo del giugno 2015 (sette anni e mezzo fa, se li conti in vite dei governi chissà che cifra viene). Uscì su un settimanale. Non so se per dolo o per distrazione, parlando d’un processo in cui ero coinvolta, l’articolista attribuì a me i traffici illeciti d’un altro imputato. Intentai una causa civile per diffamazione.
Sette anni e mezzo dopo, una giudice mi comunica che non ho diritto ad alcun risarcimento, «né può dolersi della impostazione palesemente colpevolista dell’articolo […] essendo ben noto che fatti di cronaca giudiziaria dividono la pubblica opinione ed i media tra veementi innocentisti e colpevolisti da tempo immemore (quantomeno dal 1700, ma particolarmente dall’inizio del secolo scorso)» (ah, pure storica).
Mentre leggevo questa splendida sentenza che citava precedenti secondo cui «il diritto di cronaca può comportare qualche sacrificio dell’accuratezza della verifica della verità del fatto narrato per esigenze di velocità» (ma è un settimanale, è un articolo scritto da una che fa la riposante vita di chi scrive un articolo a settimana, e ha una settimana per controllare chi ha detto cosa: con questo criterio, uno che pubblica su un sito domani può darmi della serial killer e va bene così); questa splendida sentenza che definisce l’attribuirmi l’intera corrispondenza altrui, con altrui toni e altrui intenzioni, come «un errore sostanzialmente irrilevante»; mentre mi cascava la mandibola su questo «liberi tutti di scrivere il cazzo che vi pare senza porvi il problema della verità» sancito da un tribunale, mi chiedevo in che paese vivo, dei due che vedo attorno a me.
Nel paese in cui il solo fatto di istruire un processo (in cui Saviano potrebbe benissimo essere assolto) è un attentato alla libertà intellettuale e tutti dovremo d’ora in poi censurarci e saranno tempi molto bui. O nel paese in cui non è richiesto neanche quel grado minimo d’aderenza alla realtà per cui, se Pippo ha detto «t’ammazzo», è bene non scrivere su un giornale Topolino, due punti aperte virgolette, t’ammazzo.
Confesso di preferire il primo, di paese. Confesso che non mi sembra tanto malvagia l’idea che chi ha la responsabilità di parole pubbliche venga invitato, dalla giurisprudenza e dalla società civile, a soppesarle. Confesso che mi sembra assai peggio il paese in cui un giudice dice sì, vabbè, Topoli’, quante storie: è dal 1700 che si sa che non bisogna formalizzarsi.
Definì Meloni "bastarda". Ora Saviano va a processo ma chiede la "grazia". Carlantonio Solimene su Il Tempo il 09 novembre 2022
Da qualche anno ormai esistono due Roberto Saviano. Il primo è lo scrittore di successo che ha pagato a carissimo prezzo la sua decisione di sfidare a viso aperto la Camorra. Mi permetto di dire - contravvenendo a una delle regole sacre del giornalismo che imporrebbe di non personalizzare mai un articolo - che sono un fervente ammiratore di «questo» Saviano. Ho letto e amato diversi suoi libri, mi sono appassionato alla serie «Gomorra» che l'ha visto come autore e ho trovato incomprensibili le polemiche di chi gli ha rimproverato il successo. Come se in Italia fare soldi a palate con il proprio lavoro fosse una colpa da espiare e non un merito.
C'è però un secondo Saviano, l'animale politico. Colui che ha deciso di sfruttare la notorietà per far conoscere le proprie opinioni su tutto quanto avviene nel Paese. E fin qui non ci sarebbe niente di male. Però l'ha fatto in una maniera - diciamo così... - poco ortodossa. Dividendo il mondo in buoni e cattivi e usando l'insulto come arma dialettica. Definendo, ad esempio, «ministro della malavita» il Matteo Salvini dell'era gialloverde.
E qui entra in gioco l'attualità. Il prossimo 15 novembre, infatti, a Roma si celebrerà la prima udienza del processo per diffamazione intentato da Giorgia Meloni nei confronti dello scrittore. La querela si basa sulla dura requisitoria che Saviano pronunciò nel dicembre 2020 nel talk "Piazza Pulita" nei confronti delle posizioni politiche dei leader della Destra sul tema immigrazione. Testualmente: «Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle ong: "taxi del mare", "crociere"... viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto? Come è stato possibile, tutto questo dolore descriverlo così?». Nel novembre 2021 il giudice per le indagini preliminari definì «esorbitante, rispetto al diritto di critica politica, l'epiteto "bastarda"» e decise il rinvio a giudizio dello scrittore.
Ieri, su "La Stampa", è stata pubblicata una lettera-appello di Burhan Sonmez, presidente della Pen International, associazione mondiale di scrittori «dedita alla difesa della libertà di espressione». Sonmez si rivolge a Giorgia Meloni e le chiede di ritirare la denuncia, descrivendo «una tendenza preoccupante in Italia, dove giornalisti e scrittori lavorano consapevoli di poter essere denunciati e incarcerati per quello che dicono o per quello che scrivono». Saviano ha rilanciato l'appello e ringraziato Sonmez.
Una premessa: Meloni farebbe bene, in effetti, a ritirare la querela. Non perché la presidente del Consiglio abbia torto nel merito, ma perché a Saviano e ad altri esponenti del mondo politico e culturale che l'hanno attaccata in questi anni oltrepassando i leciti confini del diritto di critica per sconfinare nel dileggio e nell'odio dovrebbe piuttosto erigere un monumento, dato che è anche grazie a loro che la sua scalata politica è stata tanto rapida e inarrestabile.
Il punto, però, è un altro. Davvero dare del «bastardo» a un avversario politico - che all'epoca, peraltro, era all'opposizione - costituisce un «sano e legittimo diritto di critica»? Davvero c'è qualcuno che, a sinistra, dopo aver denunciato per anni vere o presunte «campagne d'odio» promosse dalla destra, oggi è pronto a stracciarsi le vesti per rivendicare il diritto di insulto e di delegittimazione?
Negli scorsi mesi, per difendersi, lo scrittore ha citato il caso di una comica tedesca, Enissa Amani, condannata a 40 giorni di carcere per aver dato del «bastardo e idiota» a un leader, a detta di Saviano, «razzista e di destra». Il ché, in realtà, dimostra due cose: la prima è che non è vero che «certe persecuzioni esistono solo in Italia». No, se si insulta si viene condannati anche nella civilissima Germania. La seconda è che, se si crede davvero in quel che si dice e se si rivendica orgogliosamente la possibilità di insultare qualcuno, altrettanto orgogliosamente occorrerebbe essere pronti ad affrontarne le conseguenze, senza chiedere la «grazia» alla vigilia del processo.
Ma forse la chiosa migliore della vicenda sta nelle parole che lo stesso Saviano scrisse nel 2017, dovendo difendersi dagli attacchi di chi rilanciava la bufala del suo «attico a New York». «L'aggressione verbale in politica è uno strumento inutile, oltre che dannoso- sosteneva lo scrittore - perché distorce la voce e rende incomprensibili legittime richieste. (...) Credete davvero che le vostre urla, che i vostri insulti, vi garantiranno ciò che decenni di cattiva politica vi hanno tolto? E se la vostra risposta è: "Intanto urliamo, intanto insultiamo, poi si vede" significa che senza nemmeno rendervene conto (siete inconsapevoli, ma non incolpevoli) state lastricando voi stessi una strada peggiore di quella che avete trovato».
Ecco, al di là di come finirà la querelle giudiziaria con Meloni, l'augurio è che, per il futuro, Roberto si comporti come chiedeva il Saviano del 2017. Per non lastricare egli stesso «una strada peggiore di quella che ha trovato».
Da video.corriere.it il 15 novembre 2022.
Si apre oggi, martedì 15 novembre, il processo a Roma nei confronti di Roberto Saviano accusato di diffamazione nei confronti di Giorgia Meloni.
Saviano, durante una puntata di «Piazzapulita» su La7 nel dicembre 2020 sul tema dei migranti, si era riferito alla leader di Fratelli d'Italia chiamandola «bastarda».
L'indagine era stata avviata dopo una querela presentata da Meloni e nel novembre dello scorso anno il gup di Roma ha disposto il rinvio a giudizio per lo scrittore.
Fulvio Fiano per corriere.it il 15 novembre 2022.
La vicenda per la quale oggi viene processato Roberto Saviano risale al dicembre 2020, quando ospite in studio della trasmissione Piazzapulita su La7, al termine di un video che mostrava la disperazione di una donna che aveva perso in mare il proprio figlio di sei mesi dopo il rovesciamento della imbarcazione sulla quale viaggiavano, lo scrittore si scagliò contro chi porta avanti le campagne anti-immigrazione, paragonando il mancato soccorso in mare come a una ambulanza che non interviene per i feriti in strada e usò l’appellativo «bastardi», riferito a Giorgia Meloni, allora parlamentare di Fratelli d’Italia e a Matteo Salvini (che per questo episodio si è costituito parte civile pur non avendo querelato all’epoca) per il loro contrasto alle Ong.
Il ministro degli Interni Matteo Piantedosi e i suoi predecessori al Viminale Salvini e Marco Minniti, oltre al senatore Maurizio Gasparri, sono alcuni dei testi citati dalla difesa di Saviano nel processo che lo vede imputato di diffamazione ai danni del presidente del Consiglio Meloni e che celebra oggi la sua prima udienza.
«Mi ritrovo oggi in giudizio - afferma Saviano davanti al tribunale - e ritengo singolare che uno scrittore sia processato per le parole che spende per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze». «Credo di aver il record di giornalista, personalità, individuo più processato da questo governo» aggiunge Saviano lasciando piazzale Clodio, annunciando che «Matteo Salvini ha presentato istanza per essere parte civile in questo processo». E poi spiega che Salvini lo avrà «contro sia in questo processo sia nel processo l’anno prossimo.
Il rischio «democratura»
«Non mi è stato permesso di fare dichiarazioni spontanee» afferma Saviano che legge alla stampa quello che avrebbe voluto dire al giudice monocratico: «Ho fiducia che si possa finalmente esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un’opinione contraria alla maggioranza significhi avere un’opinione non legittima, e che quindi avere un problema con la maggioranza di questo Governo significhi avere un problema con la giustizia. Ciò sarebbe gravissimo e confermerebbe un’ipotesi che questa maggioranza politica voglia condurci verso una democratura»
«Difendo la libertà di parola»
«L’accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l’invettiva possibile da quella che qui viene chiamata diffamazione» spiega ancora l’autore di «Gomorra». «Io sono uno scrittore: il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola, di persuadere, di convincere, di attivare. Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla - prosegue - Ho sempre scelto di difendere le mie parole con il mio corpo in maniera differente rispetto a quanto fanno molti parlamentari, che hanno usato lo scudo dell’immunità quando hanno avuto bisogno di proteggersi dalla giustizia: lo ho fatto la scelta opposta, ho scelto di esporre il mio corpo e le mie parole negandomi la possibilità di un riparo sicuro, di rifugiarmi in una zona franca tra la legge e l’individuo: perché mi illudo ancora, forse ingenuamente, che dalla giustizia non ci si debba proteggere, ma che sia essa stessa garanzia di protezione».,
«Parole perfino troppo prudenti»
«Dinanzi ai morti, agli annegamenti, all’indifferenza, alla speculazione, dinanzi a quella madre che ha perso il bambino, io non potevo stare zitto - - spiega Saviano - E sento di aver speso parole perfino troppo prudenti, di aver gridato indignazione perfino con parsimonia».
Piantedosi, Minniti e Salvini chiamati come testi
Minniti viene chiamato a deporre per illustrare i termini degli accordi con la guardia costiera libica da lui firmati, Salvini dovrà riferire della vicenda giudiziaria che lo vede imputato a Palermo per sequestro di persona in relazione proprio al divieto di sbarco imposto a una nave che aveva soccorso dei naufraghi in mare, Piantedosi è citato per riferire dell’operato dello stesso Salvini e del regime di protezione che tutela Saviano, Gasparri infine risponderà della diffamazione aggravata dall’uso di internet per la quale è stato querelato dallo scrittore.
Le Ong
La linea implicita è quella di dimostrare che ci sia in atto un tentativo di intimidire chi si oppone a questa linea politica. Della lista testi fanno parte anche Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, per riferire sul report stilato sul linguaggio usato in campagna elettorale, il conduttore di Piazzapulita Riccardo Formigli e gli esponenti di Ong impegnate nel salvataggio di migranti, Oscar Camps di Mediterranea Saving Humans, e Luca Casarini di Open Arms. A portare solidarietà a Saviano sono presenti tra gli altri in aula Teresa Ciabatti, Sandro Veronesi, Nicola Lagioia, Michela Murgia, Walter Siti, Chiara Valerio, Kasia Smutniak.
Il legale di Meloni: «Valutiamo la remissione»
«Questa querela nasce dal livore dei toni utilizzati, ‘bastardo’ è un insulto non una critica», dice l’avvocato di parte civile Luca Libra, il quale non esclude la remissione della querela: «Stiamo valutando». L’udienza, alla quale assiste in gran numero la stampa estera, slitta al 12 dicembre per questioni procedurali legate al cambio del giudice.
Roberto Saviano, il processo diventa un comizio anti-governo. Il Tempo il 16 novembre 2022
Il processo non c'è stato. Lo show invece sì. La prima udienza nel procedimento ai danni di Roberto Saviano per diffamazione nei confronti di Giorgia Meloni è durata appena una manciata di minuti. Poi, per questioni procedurali - il giudice onorario non può occuparsi di una simile questione, ne va nominato un altro - è stato tutto rinviato al prossimo 12 dicembre. Per l'occasione, però, nonostante l'esito fosse già noto in anticipo agli addetti ai lavori, il tribunale di Roma è stato preso d'assalto da cronisti e da diversi intellettuali arrivati per solidarizzare con l'autore di Gomorra, dagli scrittori Nicola Lagioia, Michela Murgia e Sandro Veronesi all'attrice Kasia Smutniak fino al direttore de La Stampa Massimo Giannini.
Attestato il rinvio del processo, lo «spettacolo» si è spostato all'esterno del tribunale, in piazzale Clodio. Dove Roberto Saviano ha letto una lunga dichiarazione sulla vicenda: «Io sono uno scrittore- ha detto- il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola, di persuadere, di convincere, di attivare». «La parola è ciò per cui io sono qui - ha proseguito L'accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l'invettiva possibile da quella che qui viene chiamata diffamazione».
«Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla - ha aggiunto - Ho fiducia che si possa finalmente esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un'opinione contraria alla maggioranza significhi avere un'opinione non legittima, e che quindi avere un problema con la maggioranza di questo governo significhi avere un problema con la giustizia. Ciò sarebbe gravissimo e confermerebbe un'ipotesi che questa maggioranza politica voglia condurci verso una democratura».
Al centro del procedimento la definizione di «bastardi» che lo scrittore dedicò a Meloni e Salvini a proposito delle loro posizioni sull'immigrazione. Proprio Matteo Salvini, ha riferito Saviano, ha deciso di costituirsi parte civile nel processo. Inoltre è stato reso noto che la difesa dello scrittore ha chiamato a deporre l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti per illustrare i termini degli accordi con la guardia costiera libica da lui firmati, l'attuale inquilino del Viminale Matteo Piantedosi per riferire dell'operato di Salvini al ministero (del quale era capo del gabinetto) e Maurizio Gasparri per gli attacchi riservati via internet allo scrittore.
Tra gli altri testimoni diversi rappresentanti del mondo delle Ong, il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury, la cui associazione ha stilato un report sul linguaggio adottato dai leader in campagna elettorale, e il giornalista Corrado Formigli, protagonista del talk Piazzapulita in cui andò in scena, nel dicembre 2020, il «j' accuse» di Saviano. In quanto a Meloni, ovviamente assente per l'impegno al G20 di Bali, è stata rappresentata dall'avvocato Luca Libra che non ha escluso una remissione della denuncia: «La querela nasce dal livore utilizzato - ha detto il legale della premier- Ho insegnato a mio figlio chela parola "bastardo" è un'offesa. Valuteremo comunque se ritirare la querela». Parole che sembrano aprire a una soluzione extragiudiziale, ma che potrebbero essere vanificate dall'intenzione di Saviano di non ritirare gli insulti dell'epoca. Lo si scoprirà nelle prossime settimane.
Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 16 novembre 2022.
Giorgia Meloni contro Roberto Saviano. La presidente del Consiglio contro lo scrittore, accusato di diffamazione, per averle dato della «bastarda» in tv. Il primo round in tribunale, a Roma, è durato pochi minuti. L'udienza è stata aggiornata al 12 dicembre, perché ci sarà un cambio di giudice.
Ma il processo potrebbe anche interrompersi, visto che l'avvocato della premier ha annunciato che stanno valutando il ritiro della querela. La vicenda risale al dicembre del 2020 quando l'autore di "Gomorra”, ospite di "Piazza pulita" su La7, parlando della morte di un bambino in un naufragio di migranti nel Mediterraneo, pronunciò questa farse: «Vi sarà tornato alla mente tutto il ciarpame detto sulle Ong: "taxi del mare" "crociere...mi viene solo da dire bastardi. A Meloni, a Salvini, bastardi, come avete potuto?».
Proprio il leader della Lega ha presentato istanza per costituirsi parte civile in questo processo. Avendone già un altro da affrontare contro Saviano (prima udienza a febbraio), reo di averlo diffamato definendolo in un'altra occasione il «ministro della malavita».
Lo stesso Salvini e l'attuale ministro dell'Interno Matteo Piantedosi (all'epoca capo di gabinetto al Viminale) sono nella lista dei testimoni depositata dalla difesa di Saviano. Come pure il senatore Maurizio Gasparri, Oscar Camps, presidente dell'ong Open Arms, e il giornalista Corrado Formigli. In tribunale a piazzale Clodio, invece, ad accompagnare simbolicamente Saviano, c'erano, tra gli altri, l'attrice Kasia Smutniak, gli scrittori Sandro Veronesi, Michela Murgia, Nicola Lagioia e Walter Siti, oltre al direttore de La Stampa, Massimo Giannini.
Durante la breve udienza, Saviano avrebbe voluto leggere una dichiarazione spontanea, ma non gli è stato concesso, a causa della decisione di rinviare. Il pubblico ministero, peraltro, si era opposto, invitando lo scrittore a «non mettersi a fare il comizio». Pronta la replica: «Sono qui come imputato, per difendermi, non per mia volontà». Poi, una volta uscito dal tribunale, ha letto ai giornalisti il testo che aveva preparato per l'occasione e che è pubblicato qui sotto.
Trascrizione del discorso di Roberto Saviano in Tribunale a Roma, pubblicato da “La Stampa” il 16 novembre 2022.
Mi ritrovo in quest' aula, oggi, rinviato a giudizio per aver criticato in modo radicale due dei politici, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che ho ritenuto maggiormente responsabili di una costante e imperitura propaganda politica fatta ai danni degli esseri umani più disperati, più deboli e più incapaci di difendersi: i profughi.
Una propaganda che non si limita ad attaccare persone in cerca di salvezza lontano da paesi martoriati da guerre, povertà e desertificazione, ma fa di più: si scaglia con violenza anche contro le Ong operanti nel Mediterraneo, che con le loro imbarcazioni raccolgono donne, bambini e uomini dal mare, un attimo prima - o un attimo dopo, purtroppo - che questo si trasformi nella loro tomba. Mi ritrovo oggi in quest' aula, e ritengo singolare che uno scrittore sia processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze e continue menzogne.
Ma in questo vedo anche un'opportunità: non per me, ma perché ho fiducia che si possa finalmente esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un'opinione contraria alla maggioranza significhi avere un'opinione non legittima, e che quindi avere un problema con la maggioranza di questo Governo significhi avere un problema con la giustizia.
Ciò sarebbe gravissimo e confermerebbe un'ipotesi: che questa maggioranza politica intende condurci verso quella che Eduardo Galeano battezzò "democratura": una democrazia che millanta un'appartenenza ai valori democratici ma che agisce di fatto in maniera illiberale, scagliandosi contro le sue figure più esposte a suon di querele e attacchi personali. Solo alla persona senza voce si lascia una comoda libertà di critica, ma a chi dispone di un megafono, di un palco, in una democratura viene resa la vita difficile.
Io sono uno scrittore: il mio strumento è la parola. Cerco, con la parola, di persuadere, di convincere, di attivare. In fondo l'ha insegnato Omero stesso: il santuario della persuasione è nella parola, e il suo altare è nella natura degli uomini. La parola è ciò per cui io sono qui. L'accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l'invettiva possibile da quella che qui viene chiamata diffamazione.
Sono uno scrittore e quindi, avendo ottenuto la libertà di parola prima di qualsiasi altra, sono deciso a presidiarla. E lo farò non sottraendomi, non proteggendomi dietro una dialettica comoda, sicura, approvata e già per questo innocua. Ho scelto nella mia vita di scrittore una parola che affronta direttamente il potere, criminale o politico, di qualunque segno.
Ho sempre scelto di difendere le mie parole con il mio corpo, a differenza di molti parlamentari che hanno usato all'occorrenza lo scudo dell'immunità. Io ho fatto la scelta opposta, negandomi la possibilità di un rifugio sicuro in quella zona franca tra la legge e l'individuo: perché mi illudo ancora, forse ingenuamente, che dalla giustizia non ci si debba proteggere, ma che sia essa stessa garanzia di protezione. Che non si riduca, la giustizia, a un'arma a disposizione del politico di turno. È una cosa seria, la giustizia. Anzi, direi sacra. Quello che ha portato il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a chiamarmi in giudizio provo ad accennarlo qui.
Mi trovavo in uno studio televisivo, quando ho visto la scena di una donna, Haijay, appena salvata dai volontari della nave Ong Open Arms: era stata raccolta da un natante che stava affondando mentre era da giorni alla deriva. Haijay urlava ossessivamente: «I' ve lost my baby. I' ve lost my baby». «Ho perso il mio bambino». Non esistono giubbetti di salvataggio per i neonati.
Gli operatori si tufferanno subito in mare, il bambino verrà ritrovato. Ma con i polmoni pieni d'acqua. Morto annegato. Dinanzi a questa scena, l'unica possibile salvezza dalla disumanizzazione mi è parsa essere elencare tutte le menzogne della propaganda che era stata fatta, e continua a essere imbastita, su e contro queste persone disperate, usando termini come "pacchia" e "crociere", insultando, additando, ridicolizzando chi intraprende questi viaggi della speranza e chi si preoccupa di soccorrerli in mare.
Cinque anni fa, in una manifestazione di piazza contro lo ius soli, ritenendo questo uno strumento di sostituzione etnica, Giorgia Meloni si mostrò con accanto un canotto e un manifesto con su scritto: «Cittadinanza omaggio, biglietto di sola andata, per informazioni chiedere agli scafisti». Un canotto e un biglietto.
La cittadinanza come omaggio. Inaccettabile farsa politica sul dolore di migliaia di persone, questa ignobile e menzognera propaganda elettorale dinanzi ai morti, alla disperazione di chi fugge dall'inferno coltivando una speranza destinata ad annegare con lui. Non è giusto. Io non posso accettarlo.
Dinanzi ai morti, agli annegamenti, all'indifferenza, alla speculazione - soltanto poco più del 10% dei migranti vengono salvati dalle Ong e tanto basta per aver generato un odio smisurato verso di loro e verso i naufraghi stessi - dinanzi a quella madre che ha perso il bambino, io non potevo stare zitto. Non potevo accettarlo. E sento di aver speso parole perfino troppo prudenti, di aver gridato indignazione perfino con parsimonia.
Soltanto qualche giorno fa due bambini sono morti, bruciati vivi, su un barchino. Provano in tutti i modi a fermare le Ong, che hanno subito 20 inchieste in 5 anni, come nessuna azienda italiana, neanche quelle denunciate dal giornalismo come vicine alle organizzazioni criminali.
Nessuna fabbrica teatro di morti sul lavoro ha avuto così tante indagini. Eppure, nonostante queste 20 inchieste, nessuna fra le tesi degli accusatori è mai stata validata, mentre sono aumentate le bugie su chi soccorre in mare. Scene come quelle costruite da Meloni, con il canotto e gli slogan politici, o invocate da Meloni, che propone di affondare le navi delle Ong trattandole come galeoni pirata, avvengono mentre in mare si continua a morire. Con gli occhi sgranati e i polmoni pieni d'acqua. Si muore in mare mentre le Ong, lo ricordo, agiscono sempre su autorizzazione della Guardia costiera italiana, quando i salvataggi avvengono in mare europeo.
Dinanzi a tutto questo, non c'è la volontà di ragionare con franchezza sulla gestione dell'accoglienza. Tutto questo implicherebbe un dibattito, una diversità di vedute, l'esercizio della democrazia; ma la delegittimazione, il fango che è stato riversato su chi non ha voce, non ha nulla di politico: è solo propaganda, pregiudizi, razzismo, aberrazione. La mia affermazione è stata assai tenue, a pensarci bene. Il disgusto dovrebbe essere maggiore, e lo è, molto spesso lo è. C'è una gran parte dell'Italia che di fronte a questo inorridisce, e di questo sentimento diffuso mi sono fatto interprete.
Mi faccio interprete del disgusto di chi, da operatore, ha dovuto subire più volte infami attacchi. Me ne sono fatto interprete dinanzi a quel video, dicendo «Bastardi, come avete potuto?». Cioè, dove avete trovato l'incoscienza di isolare, diffamare, trasformando ambulanze in navi pirata, diffondendo menzogne, avvelenando un dibattito che dovrebbe essere invece affrontato con profondità e capacità? La mia non è una risposta emotiva: vuole essere un'invettiva. Un urlo. Un gesto di ingaggio che dinanzi a quella madre che aveva perso il suo bambino voleva smuovere.
Non è un'opinione politica lasciare annegare le persone, non è un'opinione politica screditare ambulanze di soccorso: è infamia. E soprattutto è disumano. Ecco: di fronte a quel video e quelle urla ho avvertito il bisogno di sentirmi umano.
Quello che mi sento di promettere in quest' aula è che non smetterò mai di stigmatizzare, di analizzare, di usare tutti i mezzi che la parola e la democrazia mi concedono per smentire questo scempio quotidiano. Papa Francesco - citato sistematicamente, ma a sproposito, nelle aule istituzionali, e che io cito invece con rigore filologico - ha detto: «L'esclusione dei migranti è scandalosa, è criminale li fa morire davanti a noi».
Una delle più belle immagini evangeliche viene raccontata da Matteo. Cristo dice: «Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato». Il Mediterraneo è diventata una forra di morte, la più grande. Dal fondo del mare le parole che sentiamo sono: «Avevamo sete e ci avete lasciato annegare, avevamo fame e ci avete diffamati, eravamo forestieri e ci avete respinto». È in nome di questo dolore che ho scelto le mie parole ed è in nome di questa scelta che sono qui a risponderne dinanzi a un tribunale.
Saviano sopra ogni legge: "Dico quello che voglio". A processo per aver dato della "bastarda" alla Meloni: "Sono uno scrittore, non mi possono condannare". Francesco Curridori il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.
«Merde assolute. Merde assolute. Roberto Saviano, al termine della prima udienza del processo che lo vede imputato per diffamazione per aver dato della «bastarda» a Giorgia Meloni, è visibilmente nervoso.
Non sappiamo a chi si riferisca, ma lo scrittore napoletano sembra non deve aver digerito bene il fatto che gli sia stato impedito di poter leggere una sua dichiarazione spontanea per motivi burocratici. «In Aula si è detto che non dovevo fare il comizio ma io voglio solo difendermi», racconta Saviano parlando con i cronisti, alla presenza di amici come Michela Murgia e Massimo Giannini. La scrittrice sarda e il direttore della Stampa sono stati al suo fianco per buona parte della mattinata, uno a destra e una alla sua sinistra, proprio come delle guardie del corpo aggiunte. La Murgia lo abbraccia prima che Saviano entri in Aula e insiste per assistere come pubblico all'udienza. Alla fine ci riesce: missione compiuta. Tra gli altri sono presenti anche lo scrittore Walter Siti e l'attrice Kasia Smutniak. Tutti presenti per sostenere il collega partenopeo che, parlando con i giornalisti italiani, annuncia: «Matteo Salvini è con noi, cioè si è dichiarato parte civile in questo processo». E ha aggiunto: «Credo di aver il record di giornalista, personalità, individuo più processato da questo governo». La rabbia è palese e Saviano non vuol abbandonare la scena senza aver detto ciò che si era preparato. Saluta i giornalisti italiani e dà appuntamento a tutti i cronisti all'ingresso del tribunale dove lo attende la stampa estera. È qui che Saviano, ancora spazientito per non aver potuto esporre la sua dichiarazione spontanea, prende le tre pagine che aveva scritto e, prima di iniziare a declamarle, premette: «Non c'è nessun comizio da fare. Sono io che sono stato costretto a venire qui perché chiamato in giudizio. Chi viene qui non comizia, si difende».
Ma, poi, inizia. «Mi trovo rinviato a giudizio per aver criticato in modo radicale due politici, Giorgia Meloni e Matteo Salvini, che ho ritenuto maggiormente responsabili della propaganda politica fatta ai danni dei profughi», dice Saviano. Che, poi, precisa: «Una propaganda che non si limita ad attaccare persone in cerca di salvezza lontano da Paesi martoriati da guerre, povertà e desertificazione, ma fa di più: si scaglia contro le ong operanti nel Mediterraneo che, con le loro imbarcazioni raccolgono donne, bambini, uomini dal mare un attimo prima o un attimo dopo che questo si trasformi nella loro tomba». Saviano si difende e passa subito al contrattacco: «Ritengo singolare che uno scrittore venga processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze e continue menzogne». L'autore di Gomorra vede questo processo come un'opportunità per «esorcizzare la più subdola delle paure e cioè che avere un'opinione contraria alla maggioranza significhi avere un'opinione non legittima. E, quindi, che avere problema con la maggioranza di questo governo significhi avere un problema con la giustizia». Saviano prosegue: «Questa maggioranza politica vuole condurci verso quella che Galeano battezzò democratura». Peccato che queste parole vengano pronunciate dopo quelle del legale di Giorgia Meloni, l'avvocato Luca Libra che, parlando con i giornalisti, annuncia: «La querela nasce dal livore utilizzato. Io ho insegnato a mio figlio che la parola bastardo è una offesa. Valuteremo comunque se ritirare la querela». L'avvocato di Saviano, Antonio Nobile, invece, ha annunciato di voler ascoltare in Aula come testimoni il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, il senatore Maurizio Gasparri, il fondatore dell'Ong Open Arms Oscar Camps e l'ex ministro dell'Interno Marco Minniti. Quello che non doveva essere un comizio politico è divenuto, di fatto, un monologo. Quel che doveva essere un processo contro Saviano, diventerà un processo alle politiche del governo.
Michela Murgia per "La Stampa" il 30 novembre 2022.
Giorgia Meloni non ritira la querela contro Roberto Saviano perché - dice - quando l'ha fatta non era ancora la presidente del Consiglio. Sostiene che non sia un problema esserlo ora, perché i cittadini sono tutti uguali davanti alla legge. Non è vero.
Chi ricopre un ruolo elettivo in Parlamento non è un comune cittadino davanti alla magistratura, altrimenti non sarebbe necessario richiedere tutt' ora l'autorizzazione a procedere nel caso di perquisizioni o arresti di deputati e senatori. L'idea che qualcuno possa usare lo strumento penale per perseguitare un parlamentare è ancora presente nel nostro ordinamento, mentre non esiste alcuno strumento che possa impedire a un politico di usare le querele per intimidire chi lo critica.
Meloni sa benissimo che se io oggi denunciassi la presidente del Consiglio perché ritengo mi abbia attaccata con troppa veemenza, la magistratura non potrebbe procedere nei suoi confronti con la stessa libertà che avrebbe se fosse la presidente del Consiglio a denunciare me. Le nostre rispettive libertà - quella di azione e quella di critica - non sono a rischio in modo equo, perché nessuno potrebbe difendersi con gli stessi strumenti economici, mediatici e di influenza politica di un capo di governo.
Qualunque cosa le piaccia raccontare ai giornali compiacenti, è come presidente del Consiglio che Meloni sta portando Saviano in tribunale. Perché non la si può considerare una questione privata e la stampa internazionale - a differenza di quella locale - la racconta con incredulità? Perché è a rischio la tutela della libertà di opinione e di critica politica, che serve proprio a proteggere quelli che sarebbero considerati eccessi se rivolti a qualcuno che politico non è. Dire ladra a me per odio personale è diffamazione, ma dare del ladro al capo di un partito che ha disperso 49 milioni di soldi pubblici è critica politica, anche se lui personalmente non ha rubato niente.
La tragedia del Vajont, in cui morirono 1910 persone, i giornali ancora cinquant' anni dopo la chiamavano "genocidio firmato DC" e a nessuno dei parlamentari di quel partito saltò mai in mente di denunciare i giornalisti per avergli dato degli assassini, perché avevano tutti ancora chiara la distinzione tra colpa e responsabilità. Si può non avere la colpa personale di un fatto e averne al contempo la piena responsabilità politica, perché si è generato il clima in cui quel fatto si è verificato.
Chi ha fomentato l'intolleranza verso i migranti, chi li ha dipinti come un problema da risolvere respingendoli in mare o nei lager libici, chi ha stretto patti con i loro torturatori, chi li ha definiti invasori e terroristi, chi ha chiamato le navi umanitarie taxi del mare e gridato alla sostituzione etnica, può non avere la colpa diretta di quelle morti, ma di sicuro ne ha la responsabilità politica.
È a quella responsabilità che Roberto Saviano ha chiamato lei e Salvini gridando quel «Bastardi, come avete potuto?» davanti al corpo morto di un bambino di quattro anni. A quella responsabilità decine di cittadini e cittadine, continuano a richiamarvi anche oggi e per questo non si può chiedere scusa.
Vorrei che Giorgia Meloni avesse lo stesso coraggio intellettuale e politico di Roberto Saviano e che, come presidente del Consiglio, rivendicasse le stesse posizioni sull'immigrazione che ha espresso da capa dell'opposizione nello studio di Ballarò nel febbraio del 2015. Quella sera l'allora sottosegretario alla presidenza dei ministri Gozi le chiedeva: «Ma come li rimandi indietro? Li fai affogare tutti? Li ammazzi tutti?». E lei rispondeva con furia: «Sì, esattamente! Difendi il popolo che rappresenti». La rivendichi anche lei in tribunale quella frase. Vedremo se suonerà meglio sentirgliela dire come donna, come madre, come cristiana, come capa dell'opposizione o come presidente del Consiglio.
Cara Murgia, e se un uomo avesse chiamato lei "bastarda"? Michela Murgia vuole spiegare al presidente Meloni perché ha sbagliato a querelare Saviano. Annarita Digiorgio su Il Giornale il 30 Novembre 2022
Ieri il presidente Meloni ha annunciato che non ritirerà la querela a Roberto Saviano imputato perché l’ha chiamata "bastarda". E quindi oggi Michela Murgia, la paladina del femminismo radical chic, bacchetta dalla prima pagina della Stampa "Cara Meloni, le spiego perché su Saviano continua a sbagliare". Che gia questa cosa del voler continuare a spiegare al presidente del Consiglio perché continua a sbagliare, ha stancato.
Loro che sono sempre dalla parte giusta del mondo, a sinistra, e hanno la presunzione di spiegare agli altri perché sbagliano. Mentre loro, ovviamente, non sbagliano mai.
"Io ho presentato la querela quando ero capo dell’opposizione - ha detto Giorgia Meloni - L’ho fatto non perché Saviano mi aveva criticato sull’immigrazione ma perché, nel tentativo vergognoso di attribuirmi la responsabilità della morte in mare di un bambino, mi definiva in tv in prima serata una "bastarda". E quando gli è stato chiesto se quella parola non fosse distante dal diritto di critica ha ribadito il concetto".
Ma per Michela Murgia chiamare "bastarda" Meloni è cultura. Cara Murgia ci risponda a questa domanda: e se invece un maschio avesse chiamato lei, o la Boldrini, "bastarda", che avrebbero detto? Su questo Murgia ci ha scritto addirittura un libro: "stai zitta". nel quale espone la teoria che persino mettere l’articolo determinativo "la" davanti al cognome "Murgia" diventi sessismo.
Così Murgia spiega al presidente Meloni perché sbaglia, e tira in ballo anche Salvini: "Dire ladra a me per odio personale è diffamazione, ma dare del ladro al capo di un partito che ha disperso 49 milioni di soldi pubblici è critica politica, anche se lui personalmente non ha rubato niente". E ancora: "Si può non avere la colpa personale di un fatto e averne al contempo la piena responsabilità politica, perché si è generato il clima in cui quel fatto si è verificato".
Quindi Murgia e Saviano sarebbero responsabili dei manichini del presidente Meloni appeso a testa in giù? E quando sono i parlamentari di sinistra, a sporgere querela ai giornalisti di destra, perché Murgia e Saviano non dicono niente? È come gli insulti: diventa sessismo solo quando colpisce loro.
Ci permettiamo di spiegare noi una cosa che sbaglia la Murgia: a fine del suo spiegone chiama il presidente Meloni "la capa dell’opposizione". Cara Murgia, anche se è femmina, si dice capo.
Domenico Di Sanzo per “il Giornale” il 17 novembre 2022.
Le querele hanno le gambe corte. E allora ecco Roberto Saviano, indignato dopo il rinvio a giudizio per diffamazione ai danni del premier Giorgia Meloni, che difende il suo presunto diritto di chiamare «bastarda» un allora leader di partito: «Ritengo singolare che uno scrittore venga processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano». Dal vietato vietare della sinistra sessantottina al vietato querelare di Saviano. Un divieto che vale solo se a essere citato è lui e non viceversa. Eh sì perché l'autore di Gomorra, quando si sente offeso, non esita a querelare.
Prendiamo Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia. Siamo a ottobre del 2017 e Saviano decide di trascinare in giudizio il politico. «Cambiare canale, evitare Fabio Fazio che fa parlare il pregiudicato Saviano», il tweet digitato da Gasparri mentre il bestsellerista è ospite di Che Tempo che Fa per presentare il suo libro «Bacio feroce». Il cinguettio manda su tutte le furie lo scrittore. «È stato da tempo condannato per plagio in via definitiva», la spiegazione del parlamentare.
Ma non serve. «Agirò in sede penale e civile. È probabile che Gasparri si nasconderà dietro l'immunità parlamentare, ma io attenderò, perché Gasparri è un pericolo per la democrazia», il contro tweet dello scrittore. «Il risarcimento andrà alle Ong», annuncia Saviano. Solo che non se ne fa nulla, perché la Giunta delle immunità del Senato nega l'autorizzazione a procedere per Gasparri.
Andiamo avanti, anzi indietro. A marzo del 2011 scoppia il caso Marta Herling, che è la nipote di Benedetto Croce. Tutto nasce da uno dei monologhi televisivi di Saviano, raccolti nel volume Vieni via con me. Lo scrittore ricostruisce il terremoto di Casamicciola, Ischia, del 1883. Una tragedia che uccise tutta la famiglia del filosofo liberale, allora diciassettenne. «Per molte ore il padre gli parlò, prima di spegnersi. Gli disse: "Offri centomila lire a chi ti salva"», scrive Saviano.
Herling risponde per le rime in una lettera inviata al Corriere del Mezzogiorno: «Saviano inventa storie». Si apre una disputa sulle fonti storiche dell'attuale penna del Corriere della Sera, fatto sta che l'esperto di criminalità organizzata si sente vittima di «una campagna diffamatoria».
Altra querela, con richiesta di risarcimento totale di 4,7 milioni di euro indirizzata alla Herling, alla casa editrice che pubblica il dorso napoletano di Via Solferino, alla Rai e al vicedirettore del Tg1 Gennaro Sangiuliano, ora ministro della Cultura.
Portiamo indietro ancora un po' le lancette dell'orologio della storia. Ed ecco la querela, presentata nel 2008, contro Ferdinando Terlizzi, storico cronista di giudiziaria casertano, all'epoca dei fatti ultrasettantenne. Saviano si inalbera per una recensione pubblicata sul sito casertasette.it. Un pezzo su un altro libro in cui l'autore accusava lo scrittore di aver inserito in Gomorra alcuni episodi inventati.
Piccola nota di colore: la citazione in giudizio in prima battuta arriva a un omonimo del giornalista di Caserta, un postino di Lodi di 35 anni. «Saviano ha querelato tutti, stavolta lo cito io», conferma ieri il cronista Simone Di Meo che ha querelato l'intellettuale per un articolo di Repubblica in cui si scagliava contro la professionalità di Di Meo.
Parentesi chiusa, proseguiamo con le querele sporte da Saviano. Lo scrittore, che ha esordito scrivendo sul Manifesto, nel 2011 querela un altro giornale comunista, Liberazione e l'autore dei pezzi Paolo Persichetti, ex brigatista. Il duello stavolta è su Peppino Impastato, ma il procedimento viene archiviato due anni dopo. Le querele hanno le gambe corte.
Dalla Murgia a Chef Rubio: odiatori di sinistra senza freni. La senatrice Segre denuncia il cuoco che la insulta su Israele. La scrittrice accosta Meloni alla camorra. Stefano Zurlo il 9 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Dai pulpiti e dalle cattedre. Sui social e con i post. Fomentano l'odio e vanno al bersaglio grosso: la senatrice a vita Liliana Segre che ha la colpa di appartenere ad una famiglia ebraica, e la premier Giorgia Meloni. Gli haters rossi, meglio se chic, colpiscono con affermazioni che sono pugni in faccia. Michela Murgia, scrittrice, va nel salotto di Floris su La 7 e la spara davvero grossa: «Due entità perseguitano Saviano: la camorra e la presidente del consiglio». Frase incommentabile che mette sullo stesso piano la criminalità e il capo dell'esecutivo; fra l'altro, qualche giorno fa Meloni aveva fatto sapere attraverso il suo avvocato di voler, forse, revocare la querela per gli insulti ricevuti proprio da Saviano. Murgia va dritta per la sua strada e lancia provocazioni costruite col fango.
Ma non è l'unica: a sinistra della sinistra c'è una rete di personaggi, meglio se altolocati, che mettono veleno nelle vie della comunicazione. Sorpresa, Segre denuncia 24 odiatori e si scopre che fra loro c'è chef Rubio, al secolo Michele Rubini, uno che all'estrema dell'emiciclo riceve approvazione.
E invece si è infilato in questo vortice di antisemitismo, impregnato di fede cieca nella causa palestinese e di rancore verso Israele. C'è un segmento della gauche più ideologica che ha messo nel mirino l'esecutivo più a destra nella storia repubblicana ed è andata avanti per mesi a strillare contro il ritorno del Fascismo.
Il Ventennio non è tornato e allora gli assalti si sono concentrati contro le figure chiare di questa nuova stagione. In testa Giorgia Meloni, già al centro di minacce per via del reddito di cittadinanza che dovrebbe essere ridimensionato se non eliminato nei prossimi mesi. Nei giorni scorsi è stato individuato un giovane di Siracusa che aveva scagliato minacce di morte alla Meloni.
È solo un episodio fra i tanti. L'uomo forse aveva agito per la paura di perdere il sussidio; altri, invece, parlano dall'alto della loro spocchia e arroganza. Ecco, è il caso di Michela Murgia, idolo dei salotti radical chic, che ospite di Floris si avventura in un paragone raggelante sulla Meloni. Colpevole di aver a suo tempo querelato lo scrittore che aveva elegantemente utilizzato per lei e Salvini l'epiteto «bastardi».
Ma potrebbe, oggi che è a Palazzo Chigi, abbandonare la carta bollata. Non importa, scatta la denigrazione sugli schermi di uno dei talk più autorevoli della tv. E Floris non accetta quel parallelo sgangherato e sconsiderato: «Eh no, sono cose diverse. Una è una lecitissima querela che può essere ritirata o no, gli altri sono dei criminali. Questo le verrà rinfacciato».
«Siamo al delirio totale, senza più alcun freno - nota Tommaso Foti, capogruppo di FdI alla Camera - Quale sarebbe la colpa di Meloni? Aver vinto le elezioni ed essere diventata la prima donna premier in Italia».
Ma i professionisti dell'invettiva, spezzoni fuori controllo del mondo cosiddetto progressista, azzannano anche personalità lontane, culturalmente e anagraficamente, dalla premier. Come Liliana Segre, vittima delle persecuzioni razziali. Non risparmiano neppure lei e lei reagisce. Nel gruppo segnalato dalla Segre c' è anche chef Rubio. Che invece di cospargersi il capo di cenere, rilancia e punta ancora il dito contro «il silenzio sistematico» della donna «nei confronti della pulizia etnica che il popolo palestinese sta subendo». «Basta minacce, Segre ha fatto bene a denunciare», twitta Matteo Renzi.
Dalla Meloni alla Segre, l'odio seriale di Rubio sui social. L'elenco delle persone insultate dal cuoco del piccolo schermo è piuttosto folto: dai politici agli attori, passando per Volodymyr Zelensky. Massimo Balsamo l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Chef Rubio, nome d’arte di Gabriele Rubini, è finito nell’elenco delle persone denunciate da Liliana Segre per minacce sul web. Il volto televisivo è noto da tempo per le sue posizioni critiche verso Israele – basti pensare alla denuncia risalente al 2019 per aver definito lo Stato ebraico “abominevole” – ma la senatrice a vita non è l’unica ad essere finita nel suo mirino. Il 39enne di Frascati è noto per l’insulto facile e nel corso degli ultimi anni non sono mancate offese, ingiurie e invettive di ogni tipo.
L'odio seriale sui social
L'ex volto Discovery, Chef Rubio è stato spesso al centro di dibattiti mediatici per le sue prese di posizioni “muscolari”. Quasi sempre per le sue teorie su Israele, il volto del piccolo schermo ha riservato parole dure a politici e artisti senza fare distinzioni. Una delle sue vittime preferite è sicuramente Matteo Salvini. Nel 2021 l’ex unto e bisunto ha scelto toni forti contro il leader leghista, reo di aver espresso solidarietà a Israele: "Il mio pensiero e la mia solidarietà al tuo culo, ancora una volta bersaglio delle verghe sioniste. Attieniti alle foto coi caffè e ai sorridi ebeti, che ogni volta che scoreggi fuori dal seminato insulti il genere umano". Più di recente, a fine agosto, sempre per lo stesso motivo: “Leghista padano, razzista italiano, quindi colone israeliano”.
Sempre restando alla politica, non sono mancati gli attacchi all’attuale primo ministro Meloni – “sciacalla” il termine più utilizzato – mentre recentemente è stato il ministro Valditara a finire nel mirino. Chef Rubio non ha accolto di buon grado alcune dichiarazioni del titolare dell’Istruzione (“io sono amico di Israele”, ndr): "Caro Giuseppe Valditara di chi sei figlio non ce ne frega un ca**o. Conta ciò che fai e quello che lasci agli altri. Se stai coi terroristi antisemiti (i palestinesi sono semiti) della colonia d’insediamento israeliana, sei un sionista e i partigiani i sionisti li facevano fuori".
Da Zelensky a Totti, Rubio contro tutti
Chef Rubio ha fatto parlare di sé anche a proposito della guerra tra Russia e Ucraina, con epiteti discutibili nei confronti del presidente ucraino Zelensky, reo di aver chiesto armi per difendersi. "Si cazzo, lanciafiamme, bombe, missili, droni, fucili, tutto cazzo. Dai produciamo ancora più armi e vendiamone ovunque nel nome della libertà (quale?) in Europa, nel nome dei suoi valori (il colonialismo? Il suprematismo bianco?). Bravo nazista #Zelenksy, continua così! #Ukraine", il Rubini-pensiero. Sempre su Twitter, nel settembre 2021, ha definito la vicepresidente americana Kamala Harris“sionista schifosa infame”. “Infame nazista” è invece l’accusa rivolta a Bernard-Henri Levy.
La politica è spesso presente sulle pagine social, ma non sono mancati gli attacchi a volti del mondo dello spettacolo. Nel 2021 è stato il turno di Francesco Totti, colpevole di essere andato a Tel Aviv per un’iniziativa legata alla Champions League e al suo sponsor Heineken. Il Pupone un“camerata” e “servo dei sionisti”, a loro volta dei “sadici fascisti, razzisti colonialisti”, rei di aver instaurato un regime “teocratico, illegale” e fondato sull’”apartheid”. E ancora, Vittorio Brumotti all’epoca di un’aggressione subita al Quarticciolo durante un servizio sullo spaccio di droga: “Brumotti sei un infame, troppe poche te ne hanno date”. Di certo non si può dire che Chef Rubio non ci metta la faccia, ma questo è appena un assaggio dell'elenco di persone che hanno fatto i conti con le sue "filippiche".
"È come la Camorra": il deliro della Murgia contro Giorgia Meloni. L'intellettuale della sinistra paragona Giorgia Meloni alla camorra, e poi pretende che il presidnete del consiglio non debba querelarla. Annarita Digiorgio l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Parole sconcertanti, le ennesime, contro il Presidente Meloni, che per Michela Murgia è come la camorra. Lo ha detto durante una intervista a Giovanni Floris andata in onda martedì sera alla 7: “Due entità perseguitano in questo momento Saviano: una è la camorra, l’altra e Giorgia Meloni".
Persino il conduttore si rende immediatamente conto della gravità delle parole pronunciate dalla Murgia, e prova a intervenire: “Questo parallelo le verrà rinfacciato, da una parte c’è una lecitissima querela, mentre dall’altro ci sono criminali”.
Ma Murgia non ritratta, anzi, rincara. Secondo lei anche Salvini e Meloni sono criminali, come la mafia: “Salvini sta rispondendo in tribunale di quelle decisioni, e lo farà anche all’Aia. Se Saviano anziché “bastardi” li avete chiamati criminali sarebbe cambiato qualcosa?”.
Le rispondiamo noi: no, non sarebbe cambiato nulla. Perché essere chiamato in tribunale non significa essere criminale. E il fatto che Murgia Saviano diano del criminale a una persona non rappresenta un avviso di garanzia.
In più la Corte de L'Aia non si è espressa in alcun modo: c'è solo una denuncia (da parte di una ONG contro Salvini e due ex ministri del Pd, non Meloni). Ma per Murgia le denunce equivalgono a condanne se sono contro suoi nemici; sono mere intimidazioni se sono contro suoi amici. Altrimenti allo stesso modo si potrebbe dire che Saviano è come Salvini: entrambi imputati. E il tribunale, non la Murgia, deciderà se sono criminali o meno.
Ma Murgia e Saviano vogliono essere liberi di insultare, diffamare, e aizzare odio contro i politici di destra, senza doverne rispondere in tribunale. Perchè loro sono intellettuali. Ma vogliono togliere ai politici la libertà di esprimersi, e persino di difendersi.
Il vicepresidente della commissione Affari costituzionali della Camera, Riccardo De Corato, chiede ai conduttori televisivi di non invitare più Michela Murgia e persone che alimentano clima di odio: “Con oggi abbiamo raggiunto un livello di delirio totale. Non bastavano le foto bruciate, le continue minacce anche di morte al presidente del Consiglio, ora si è passati ai paragoni della stessa con i clan mafiosi! Tutto questo è inconcepibile e assurdo. Rivolgo un appello- dice il parlamentare FdI - a tutti i conduttori televisivi, di non invitare più persone come la scrittrice Murgia, perchè si rendono protagoniste di un clima di odio che istiga, come avvenuto nei giorni scorsi a Siracusa, alla violenza ed a gesti estremi che non fanno bene al nostro Paese”.
“Dopo l'ennesimo insulto contro il presidente del Consiglio non si leggono levate di scudi- nota il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Tommaso Foti “tra poco la sinistra e il suo mainstream mediatico invocheranno anche la galera? Quale sarebbe la colpa di Giorgia Meloni? Aver vinto le elezioni ed essere diventata la prima donna premier in Italia”.
Dalla Sardegna le risponde il deputato di Forza Italia Pietro Pittalis: “Un paragone inaccettabile, rozzo e gratuito che non sta né in cielo né in terra e che condanniamo con fermezza. La Sardegna ha grande tradizione di scrittori di cui l'intero Paese può farsi vanto. Nel caso della Murgia certamente no. Certe espressioni possono essere utili per un titolo ad effetto o per i 5 minuti di notorietà, non certo per essere annoverati tra i grandi scrittori di cui la Sardegna può vantarsi”.
Il capogruppo di Fdl al Senato Lucio Milan ricorda anche le parole di Conte, e le minacce ricevute dal Presidente Meloni: “La militante di sinistra e scrittrice Michela Murgia, probabilmente non si accontenta delle minacce di morte arrivate a Giorgia Meloni e alla figlia, e paragona il presidente del consiglio alla camorra. Perché? Perché Giorgia Meloni ha osato querelare Roberto Saviano per averle dato della 'bastarda. Murgia addirittura ha rincarato la dose dicendo che sarebbe stato legittimo anche darle del criminale. Quando una donna, che dovrebbe essere una importante intellettuale, dà della bastarda e del criminale al presidente del Consiglio e lo paragona alla camorra è normale che un pregiudicato, mantenuto a spese di chi lavora con il reddito di cittadinanza di cui teme di essere privato, si lasci andare a parole che costituiscono reato. Se, come ha detto Giuseppe Conte, si potrebbe arrivare alla guerra civile, contro un governo, che secondo Murgia è guidato da un criminale, qualcuno si sente in diritto di fare la sua parte minacciando di morte una bambina e sua madre. Tanto, per certi presunti intellettuali che pensano di avere in tasca la verità assoluta, il fatto di essere stati democraticamente eletti non conta nulla".
Le minacce di morte alla Meloni e le responsabilità di Conte. Il leader M5s l'indomani dei post choc contro la Meloni: "Ferma condanna senza se e senza ma". Ma per mesi ha inforcato la bandiera del reddito e gettato benzina sul fuoco del disagio sociale. Andrea Indini il 7 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La presa di distanza c'è stata. Telegrafica, ma c'è stata. Qualche ora dopo che il Giornale.it aveva rivelato gli orribili messaggi postati contro Giorgia Meloni e la figlia Ginevra, Giuseppe Conte è uscito dal silenzio e ha rilasciato una breve dichiarazione di sostegno e vicinanza alla premier. "Una ferma condanna, senza se e senza ma", ha detto. "Questi gesti sono esecrabili, bisogna stare vicino alle istituzioni". Giustissimo, inappuntabile. Eppure, proprio mentre le pronuncia, scorrono davanti agli occhi dei più le piazze piene del Sud Italia incendiate dalle sue parole. Da mesi inforca la bandiera del reddito di cittadinanza per fare la guerra al centrodestra. Aveva iniziato ad agitarla in campagna elettorale minacciando "rivolte sociali". E ancora oggi, nel criticare la legge di Bilancio, continua a gettar benzina sul fuoco del disagio sociale. Una strategia che attecchisce soprattutto tra chi quel disagio lo prova sulla propria pelle e che rischia di tramutarsi da odio social a violenza vera e propria.
I Cinque Stelle non sono disposti a fare autocritica. La capogruppo al Senato, Barbara Floridia, lo ha detto subito, ancor prima che parlasse Conte. "Nessuno strumentalizzi la nostra azione politica". Lo stesso hanno fatto i vertici del movimento. Col messaggio implicito: noi, sul reddito di cittadinanza, andiamo avanti a dare battaglia. Città dopo città, piazza dopo piazza. Non si fermeranno. Dopo tutto è lì che puntano a raccogliere voti, andando in giro a raccontare che il governo affama gli ultimi, li lascia senza soldi, toglie loro persino la dignità.
Già lo scorso settembre, agli inizi della remuntada elettorale, Conte aveva accusato la Meloni di voler "la guerra civile". "Lei guadagna da oltre vent'anni 500 euro al giorno con i soldi dei cittadini - aveva detto a Rainews24 - e vuole togliere 500 euro al mese alle persone in difficoltà facendo la guerra ai poveri". Populismo puro. Che, però, ha pagato nelle urne e che, per quanto possano valere i sondaggi di questi tempi, sembra pagare ancora. E così: avanti tutta a spingere sull'acceleratore, soprattutto ora che che il reddito di cittadinanza ha una data di scadenza. Persino uno mite come Roberto Fico, nei giorni scorsi, se ne è uscito dicendo che la riforma dell'assegno grillino è "una scelta pericolosa per la tenuta sociale del Paese".
Nemmeno le minacce a Guido Crosetto hanno instillato nelle menti dei grillini il dubbio. Nemmeno leggere messaggi di questo tenore: "Attenta che ti arriva un coltello in pancia a te e tua figlia, tu togli il reddito e io uccido tua figlia sicuro", li ha convinti a fermarsi, a dirsi "abbiamo passato il segno", a fare un passo indietro. Ancora oggi a Torino, tappa del tour per raccontare le storie dei percettori del sussidio statale, Conte ha accusato il governo di "distruggere il lavoro" e di pensare ai privilegiati anziché guardare "al vero disagio sociale delle persone". Avanti di questo passo non dobbiamo temere solo un autunno caldo, ma un'intera legislatura infuocata. Sperando che dalle minacce sui social non si passi alle violenze fisiche.
Disoccupato, precedenti per spaccio: chi c'è dietro le minacce choc alla Meloni. Ha usato parole vili contro Giorgia Meloni e la figlia, ora Sasha Lupo, il disoccupato e percettore di rdc, si dispera per le conseguenze. Francesca Galici l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Oggi, Sasha Lupo piange. È il 27enne che ha minacciato di morte Giorgia Meloni e la sua bambina di 6 anni solo perché il governo è impegnato in una manovra per riformare il reddito di cittadinanza. Lupo vive in Sicilia, in un piccolo paese della provincia, ha precedenti per droga e qualche giorno fa si è esibito in una serie di tweet feroci e preoccupanti contro il presidente del Consiglio. La polizia postale ci ha messo poco a rintracciarlo nell'abitazione in cui vive insieme alla madre, effettuando una perquisizione e procedendo all'indagine. L'accusa per lui è di violenza privata aggravata.
"Se togli il reddito ammazzo te e tua figlia...". Minacce choc contro la Meloni
Sasha Lupo ha un procedimento pendente a Catania per essere stato trovato con 86 grammi di marijuana nel 2014, ben oltre i 5 grammi lordi consentiti dalla legge e considerati come uso personale. Un elemento non trascurabile in una vicenda come questa, che potrebbero configurare il reato di spaccio per l'uomo. Un passato di droga quando non era nemmeno 20enne, un presente come percettore di reddito di cittadinanza a nemmeno trent'anni e minacce al presidente del Consiglio in carica: in questa vicenda si mescolano elementi diversi, solo apparentemente distanti, che scattano una fotografia degradante dell'Italia.
Lupo non risulta abbia mai avuto contratti di lavoro ma qualche anno fa è stato impegnato come porta-pizze. "Il ragazzo ha un leggero handicap fisico e vive con la mamma", spiega l'avvocato. Ha percepito il reddito di cittadinanza, circa 500 euro, per 18 mesi e lo scorso ottobre gli era stato rinnovato, dopo una sospensione vissuta male. Una frustrazione, avrebbe spiegato, che non si sarebbe mai tramutata in gesti concreti: "Non volevo fare del male a nessuno". Una reazione scomposta esagerata, probabilmente figlia di un clima politico esasperato in cui individui come Lupo si sentono in diritto di riversare la loro rabbia contro estranei.
"Sono pentito di quello che ho fatto, i giornalisti m'inseguono, non mi aspettavo tutto questo clamore. Ma ero proprio terrorizzato dall'idea che la Meloni mi togliesse il reddito di cittadinanza, questo pensiero mi ha fatto perdere il lume della ragione", ha detto ieri sera Lupo al suo avvocato Giovanni Giuca, come riferisce . Lupo che diventa agnellino, che perde tutta la veemenza trovata per scrivere volgari atrocità contro il presidente del Consiglio e contro una bambina di appena 6 anni.
Le minacce di morte alla Meloni e le responsabilità di Conte
I suoi genitori sono separati, la madre lavora come cassiera e il padre ha chiuso un negozio di abbigliamento. "La sua è una famiglia perbene, speriamo gli serva da lezione", dicono ora gli investigatori. Ma il fatto resta, così come le accuse e la violenza usata contro Giorgia Meloni e la sua famiglia, ingiustificabili. "Mi dispiace moltissimo che certe parole vili ed ingiuriose siano state scritte da un cittadino di Rosolini. Il gesto va condannato senza se e senza ma. Sicuramente uno che minaccia di morte Giorgia Meloni e la figlia, è senz'altro un personaggio che non ci sta con la testa, e che diventa il classico leone da tastiera, nascondendosi dietro l'anonimato", ha dichiarato nella serata di ieri il sindaco di Rosolini, Giovanni Spadola, che ha espresso "piena e incondizionata solidarietà nei confronti del presidente del Consiglio".
Giorgia Meloni, l'hater che la minaccia di morte piange in caserma. Libero Quotidiano l’08 dicembre 2022
"Sono pentito di quello che ho fatto, i giornalisti m’inseguono, non mi aspettavo tutto questo clamore": il leone da tastiera che ha minacciato di morte Giorgia Meloni e sua figlia sui social lo avrebbe detto in lacrime al suo legale, come riportato dal Corriere della Sera. L'uomo, siciliano di 27 anni, gli avrebbe anche chiesto: "Adesso, avvocato, andrò a dormire in galera?". All'origine di tutta questa rabbia nei confronti del premier c'è la stretta sul reddito di cittadinanza decisa dal governo.
"Ero proprio terrorizzato dall’idea che la Meloni mi togliesse il reddito di cittadinanza, questo pensiero mi ha fatto perdere il lume della ragione", avrebbe proseguito il leone da tastiera. Nel ritratto proposto dal Corsera si legge: "Un diploma preso all’istituto professionale, tatuaggi tribali sulle braccia, un procedimento pendente a Catania per spaccio di droga (86 grammi di marijuana nel 2014), ha lavorato poco in vita sua". "Un tempo consegnava le pizze — avrebbe raccontato l’avvocato Giuca —. Il ragazzo ha un leggero handicap fisico e vive con la mamma".
Pare che il 27enne abbia percepito il sussidio di 500 euro al mese per 18 mesi. Poi lo scorso ottobre avrebbe ottenuto il rinnovo. La Digos di Siracusa, insieme alla Polizia postale, è stata aiutata nella ricerca dal fatto che il giovane aveva messo sul profilo una sua foto originale. Al 27enne sono stati sequestrati sia il computer che lo smartphone. Gli investigatori avrebbero detto: "La sua è una famiglia perbene, speriamo gli serva da lezione".
"Punire chi diffama è questione di civiltà". Renzi contro le minacce social. Gli ultimi attacchi contro Giorgia Meloni e Liliana Segre hanno evidenziato la necessità di definire punizioni esemplari, anche sui social. Francesca Galici l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
I politici di ogni schieramento sembrano essere concordi sulla necessità di porre finalmente un freno alla escalation di violenza social. La critica è d'obbligo, essendo l'Italia una democrazia, ma troppo spesso sconfina nelle minacce e nella violenza verbale. La maggior parte dei personaggi pubblici tende a ignorare il fenomeno, evitando di dare adito a commenti e di "pubblicizzare" certi individui, ma ci sono dei limiti che non dovrebbero mai essere superati e che, sempre più frequentemente, vengono oltrepassati. Ne sanno qualcosa, per esempio, Giorgia Meloni e Liliana Segre, troppo spesso al centro delle invettive oltraggiose, oltre che per la carica che ricoprono, per le persone e donne che sono. Un concetto ribadito anche da Matteo Renzi, che ha espresso solidarietà e chiesto maggiore attenzione verso i social.
Disoccupato, precedenti per spaccio: chi c'è dietro le minacce choc alla Meloni
Il presidente del Consiglio è stato oggetto negli ultimi giorni di attacchi vili e di una violenza inaudita, che non solo hanno colpito lei ma anche la sua famiglia, in particolare sua figlia di appena 6 anni. Sono state minacciate di morte da un 27enne siciliano disoccupato, che si è scagliato contro Giorgia Meloni a fronte della manovra di Bilancio che punta a eliminare il reddito di cittadinanza (percepito dal violento) per gli occupabili. In poche ore, la polizia ha individuato l'uomo nella sua abitazione in provincia di Siracusa e ha proceduto alla perquisizione e al sequestro dei device elettronici, con conseguente accusa di violenza privata aggravata.
Non meno gravi gli attacchi che subisce ogni giorno la senatrice a vita Liliana Segre, che nelle ultime ore ha depositato oltre 10 denunce per attacchi e insulti provenienti dal web, nel suo caso soprattutto di natura antisemita. Attacchi che si fanno sempre più violenti, con la paura che qualcuno possa passare dalle parole ai fatti, dai social alla realtà, con azioni irreversibili. "Liliana Segre ha denunciato chi l'ha insultata sui social. E ha fatto benissimo. Come ha fatto benissimo Giorgia Meloni a denunciare chi minacciava sua figlia. Sui social è giusto criticare, ma basta con insulti, minacce, offese. Punire chi diffama è una questione di civiltà", ha scritto il senatore Renzi su Instagram.
Roberto Saviano? Ora reclama il diritto di insultare la Meloni. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 novembre 2022.
Il cinema in tribunale. La sceneggiata a Palazzo di Giustizia. Un attore, più che uno scrittore, quel Roberto Saviano là. Solo che ha sbagliato palcoscenico, location, sito. Perché ci vuole rispetto anche per il luogo dove la legge si applica. Non chiedono autografi i giudici. Dopo aver fatto sapere al mondo che ieri mattina avrebbe offerto il collo alla ghigliottina della Meloni che lo aveva querelato, da piazzale Clodio Saviano se ne è andato dopo pochi minuti - tanti quanto la durata della prima udienza così come era arrivato. Ha provocato solo un po' di fastidio a chi lavora.
In tribunale ci stava perché giustamente alla Meloni non piace essere definita "bastarda" a mezzo tv - e neanche a Salvini, offeso assieme a lei in una trasmissione di Corrado Formigli del dicembre 2020 e che ha depositato la propria costituzione di parte civile - e decise di procedere. Non era presidente del Consiglio, ma esponente dell'opposizione e contestava le politiche della sinistra di Conte e Lamorgese in materia di immigrazione clandestina.
L'eroico Saviano spera in una specie di grazia, visto che l'avvocato del premier ha detto che rifletterà con la sua assistita se ritirare la querela. Anche se quella lingua impunita di uno scrittore che pensa di poter offendere chiunque meriterebbe una bella punizione. Ma la Meloni non vuole farlo passare per martire, probabilmente. Il che per Saviano può anche essere peggio. Se ne riparlerà il 12 dicembre, alla seconda udienza e chissà se l'imputato sarà scortato in misura notevole come ieri. Già, perché oltre a chi si deve occupare di lui, c'erano anche altre note lingue urlanti, del calibro di Michela Murgia e di Massimo Giannini, direttore di quella Stampa che un tempo era la testata elegante dell'avvocato Agnelli.
Non pare vero a Saviano, evidentemente, di poter esibire la solidarietà di quelli come lui.
L'odio contro la destra è cemento per costoro, al punto che le panzane si sprecano: sono «il giornalista più processato da questo governo», afferma Saviano e a uno verrebbe da chiedersi tutto questo in un mese appena trascorso dall'insediamento dell'esecutivo Meloni... Ma il noto imputato dimentica che si può essere processati per 9 anni pure per vilipendio del Capo dello Stato, risultare innocente e nessuno che ti chieda scusa. A proposito di rapporto col potere. Tutta pubblicità, quella che gli deriva da un processo appena iniziato e quasi potrebbe dispiacerci se davvero dalla Meloni arrivasse un gesto di magnanimità verso chi non lo merita. Una sfilza di testimoni della "difesa": lo stesso Salvini, il neoministro dell'Interno Piantedosi - che del leghista aveva la colpa di essere capo di gabinetto- poi Gasparri e persino il Pd Minniti. Curiosità: tra i testi di Saviano non potrà mancare proprio Formigli, magari dovrà raccontare come era scosso il suo ospite quando sibilava la parola "bastardi".
Sì, un martire, quando sputacchia le sue sentenze: «Ritengo singolare che uno scrittore sia processato per le parole che spende, per quanto dure esse siano, mentre individui inermi continuano a subire atroci violenze e continue menzogne». Se uno scrittore offende, è invece sacrosanto che possa essere processato. Non può esistere l'impunità. Invece lui si lamenta, persino quando ha appreso della presenza di Salvini al processo come richiesta di poter essere parte civile. Non può difendersi, l'ex ministro? Di più, Salvini ce l'ha proprio con me, pare lamentarsi Saviano: «Salvini lo avrò contro sia in questo processo sia nel processo l'anno prossimo per la frase «il ministro della malavita». Perché, è normale definire ministro della malavita chi i clan li deve combattere ogni giorno, anche correndo qualche rischio? È davvero sconcertante, l'imputato Saviano. Perché teme di trovarsi di fronte quelli che appellò come "bastardi" in televisione, senza alcun contraddittorio, una possibilità di rispondergli come meritava. Del resto, non a caso si era scelto la trasmissione a senso unico, quella chiamata Piazza Pulita. Sì, quella che pretende di fare piazza pulita degli avversari politici. Il tribunale delle chiacchiere.
Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 16 novembre 2022.
Il sommo maestro Roberto Saviano ieri ha rivendicato con forza una libertà e stabilito un principio: uno scrittore può insultare perché il suo linguaggio, anche se offensivo e ingiurioso, rientra in quella che una volta si chiamava “licenza poetica”, la possibilità cioè di sbagliare volutamente per dare più forza al pensiero. Saviano ci ha comunicato tutto ciò all’uscita dell’udienza dove è imputato di ingiuria e diffamazione per aver dato della “bastarda” a Giorgia Meloni in diretta tv ospite di Formigli a Piazza Pulita.
Per nulla pentito e ben lungi dallo scusarsi per l’offesa recata a una donna, il Sommo ha spiegato che lui non sottostà alle regole, fossero solo quelle della buona educazione, dei comuni mortali perché «io sono uno scrittore, difendo a ogni costo la libertà di parola, questa (della Meloni, ndr) è una democratura».
Detto - sempre per i comuni mortali - che per democratura si intende un regime politico improntato alle regole formali della democrazia, ma ispirato nei comportamenti a un autoritarismo sostanziale, per una volta faccio mio il Verbo del Sommo, e lo faccio avendo le carte in regola perché anche io sono uno scrittore.
Sì, ho scritto libri che negli ultimi due anni hanno venduto più di quelli del Maestro Saviano, quindi sono un super scrittore, che se poi ci aggiungiamo che sono pure giornalista, e se non bastasse gioco il jolly di essere direttore bè, capite che io altro che libertà di parola, io come Saviano ma forse più di Saviano mi avvicino a Dio.
E quindi, seguendo il suo consiglio di non mettere limiti al mio pensiero perché noi scrittori (ma quali scrittori, intellettuali si addice meglio) godiamo dell’immunità penale e civile dico con chiarezza ciò che penso: Roberto Saviano, sei un bastardo. Di più: Roberto Saviano sei un pezzo di m. a insultare una donna, non ne hai remora perché tu sei un figlio di buona donna, che poi questi non sono altro che sinonimi della parola “bastardo”.
E adesso che fai, sommo bastardo Saviano? Smentisci la tua tesi in base alla quale io scrittore posso insultarti pubblicamente e tu devi tacere? Ti arruoli nella “democratura” e corri in tribuna- le a querelarmi? Ti ricordo che sono un super scrittore, quindi attento a quello che fai, razza di un bastardo che fai il bullo con una signora che proprio perché premier non può permettersi di rispondere e difendersi come dovrebbe e forse vorrebbe. Abbassa la cresta, chiedi scusa e finiscila lì che fai pena, sempre con licenza parlando.
Saviano, le sue giustificazioni? Teorie e auguri da bastardi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 novembre 2022
Forse non bisognerebbe querelare nessuno. Nemmeno Roberto Saviano e forse nemmeno se ti dà di bastardo. Esistono altri strumenti per difendersi, anche di tipo giudiziario, e le multe e la galera sarebbe meglio che fossero accantonate. Ma è doppiamente inammissibile la giustificazione che Saviano ha opposto a chi ha chiesto che fosse sanzionata la diffamazione di cui si è reso responsabile: ha detto, come tutti sanno e come Libero ha raccontato ieri, che il processo a suo carico sarebbe ingiusto perché lui è uno scrittore, il che suppone che di analoga guarentigia non potrebbe godere un ciabattino o un manovale che si lasciasse andare a quell'insulto.
Immunità da romanziere, diciamo. Inoltre, ed è questo il tratto più grave e detestabile della sua giustificazione, è che in realtà ne nasconde un'altra: e cioè che dare del bastardo si può se l'insulto è "meritato" da chi lo prende. Nella specie, uno che dice cose che a Saviano non piacciono. Ma è consapevole, Roberto Saviano, delle conseguenze che porterebbe quel principio?
Qualcuno, per esempio, potrebbe dargli del bastardo perché qualche tempo fa prefigurava un destino carcerario per Matteo Salvini. Aveva detto proprio così: che per vedere Salvini in carcere «basterà che si spengano le luci». Come a dire: fai che poco poco le glorie elettorali del capo leghista sentano l'assedio del riflusso democratico, ed ecco servito il tempo della giustizia finalmente libera di trionfare sul ministro della malavita. C'era parecchia violenza plebea in quella previsione, e a giudizio di qualcuno assomigliava parecchio all'augurio che poteva formulare un bastardo. Sarebbe dunque stato legittimo chiamare in quel modo Roberto Saviano?
Peter Gomez: “Furio Colombo su figlia Meloni? Non è più un giornalista”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Novembre 2022
"E' un attivista politico che interpreta la realtà attraverso le sue legittime posizioni ideologiche"
“Io penso da tempo che Furio Colombo non sia più un giornalista ma principalmente un attivista politico che interpreta la realtà attraverso le sue legittime posizioni ideologiche, ma non chiamiamolo più giornalista. Io e Colombo facciamo due mestieri diversi”. Così il direttore dell’edizione online de ‘il Fatto Quotidiano’, conversando con l’Adnkronos, ha commentato le parole di Furio Colombo sulla figlia del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, pronunciate nel corso della trasmissione di La7, ‘L’aria che tira‘, a cui aveva partecipato lo stesso Gomez.
Colombo era stato il direttore del quotidiano L’ Unità prima che fallisse, ed al suo fianco avevano lavorato Antonio Padellaro e Marco Travaglio , ma recentemente alcuni mesi fa aveva interrotto i suoi rapporti : “A due cari amici come Padellaro e Travaglio comunico che non continuerò la mia collaborazione al Fatto Quotidiano fino a quando ci sarà questa posizione sulla guerra in Ucraina, sul divieto, si presume costituzionale, di mandare armi all’Ucraina e sulla celebrazione di un personaggio di cui non ho stima, che è il professor Orsini“.
Colombo nel corso della trasmissione di La7, ‘L’aria che tira‘ in sostanza aveva fatto un parallelismo tra i “bambini in top class“, riferendosi alla figlia della Meloni, e quelli che annegano in mare nel Mediterraneo, facendo perdere le staffe alla conduttrice Myrta Merlino. Il presidente del Consiglio ha partecipato al G20 a Bali, in Indonesia, e ha portato con sé la figlia Ginevra.
Ad aprire le danze contro la Meloni in realtà era stato un articolo comparso il 15 novembre, sulle pagine del quotidiano La Stampa. “Le operaie non si portano i figli in fabbrica, chissà come mai. In Italia le donne che lavorano sono paradossalmente quelle che se lo possono permettere, o quelle che hanno i nonni disponibili: sarebbe ora che le cose cambiassero anche senza i figli che in ufficio si mettono a tritare documenti”, si leggeva polemicamente nel pezzo, nel quale – tra il serio e il faceto – venivano immaginati i motivi per i quali il premier avrebbe portato con sé la bimba. “Che Ginevra abbia detto basta alle assenze di mamma e con un colpo di mano abbia preso in mano la situazione per imparare il mestiere?“, scriveva l’autrice Assia Neumann Dayan.
E poteva mancare il quotidiano La Repubblica per fare la “lezioncina” di pseudo morale al presidente del Consiglio, lanciandosi in un’interpretazione del suo gesto materno. “Perché quindi, in quei quasi quattro giorni che richiedono ogni energia mentale, fisica ed emotiva di un capo di Stato, Giorgia Meloni ha scelto di prendere su di sé il carico – gratificante, inevitabile, pesantissimo – di una figlia al seguito? Non per passare con lei del tempo di qualità che difficilmente è contemplato dal protocollo. Non per mancanza di alternative familiari o professionali deputate al temporaneo accudimento. E allora perché? Probabilmente lei, che ricordiamo ‘donna, madre e cristiana’, ritiene che la vicinanza alla figlia sia prioritaria, perché la presenza materna è un valore non negoziabile, anche quando lo Stato richiede alla propria leader 48 ore di coinvolgimento e attenzione assoluti“, aveva scritto Claudia De Lillo.
Giorgia Meloni ha risposto con un tweet che ha zittito tutti, Questione di stile.
Il quotidiano Libero ha sbeffeggiato l’attitudine comunista di cotanto disprezzo: (“La madre dei comunisti è sempre incinta”) in riferimento soprattutto alle femministe che su Repubblica e Stampa hanno voluto fare la morale al presidente del Consiglio su come vada interpretata la maternità. Colombo la pensi come vuole: “Nessuna colpa ha la figlia di Meloni. Pensi che la politica del governo sia orribile ed è lecito farlo. Ma non metterei dentro la polemica i bambini”, ha affermato visibilmente contrariata la giornalista Myrta Merlino conduttrice del programma tv “L’ Aria che tira”. Redazione CdG 1947
Saviano e la carovana dei radical chic anti Meloni. Scrittori, giornalisti e attrici: la sinistra dei salotti in campo per dare man forte a Saviano. Rivendicano il diritto di insultare la Meloni e insultano la nostra democrazia paragonandola a un regime. Andrea Indini il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.
Roberto Saviano. Ancora e ancora. Con i suoi insulti, con i suoi comizi, con le sue balle. L'ultima (in ordine di tempo): "Un governo liberticida che porta a processo chi critica. Un primo ministro contro uno scrittore, come se avessero uguale peso. Intimidire me per intimidire chiunque critichi l'operato di questo governo". Falso. E non solo perché Giorgia Meloni l'ha trascinato in tribunale parecchio tempo prima di diventare premier. È falso soprattutto perché, proprio ora che è arrivata a Palazzo Chigi, la leader di Fdi sta valutando di ritirare la querela. E poi c'è pure quell'altra balla. Quella sulla "democratura", ovvero sull'Italia dipinta come una democrazia illiberale. Vivesse davvero in un regime, la bocca gli sarebbe stata cucita da tempo. E invece no. Saviano parla. E spesso straparla. Nessuno gli ha mai negato questo diritto: il "diritto di parola". E non perché lui è uno "scrittore", ma perché in Italia il "diritto di parola" è garantito a tutti i cittadini. Quello che, invece, viene (giustamente) contestato all'autore di Gomorra è ben altro. E cioè che non può insultare e passarla liscia. Gli insulti (e "bastarda" è un insulto, eccome!) non rientrano nel perimetro della libertà di espressione.
In un Paese normale un processo per diffamazione, in cui uno ha dato del bastardo a un altro in televisione, non solleverebbe tanto interesse. In Italia, invece, intorno a Saviano stanno montando un circo mediatico che sembra far godere soltanto la sinistra dei salotti. Ieri mattina, davanti al tribunale di Roma, si sono dati appuntamento i soliti volti che dopo cena troviamo nei talk show a pontificare contro il governo. C'erano diversi scrittori. Sandro Veronesi, Michela Murgia, Nicola Lagioia, tanto per citarne alcuni. E poi c'era il direttore della Stampa, Massimo Giannini. E pure l'attrice Kasia Smutniak. Tutti lì a dare supporto. O, più semplicemente, a mettere in piedi un inutile teatrino contro il centrodestra al governo. Chi non va manda saluti da casa. Come Erri De Luca che ci tiene a far sapere: "Condivido la sua indignazione di allora". Scrive: indignazione; leggete: insulti.
La Murgia è in primissima linea nel reiterare la narrazione (falsa) tanto cara a Saviano: "Un uomo scortato dallo Stato a causa delle sue parole oggi sarà portato davanti a un giudice dal capo di governo a causa delle sue parole: ditemi voi in quale altra democrazia lo avete visto succedere". È una battaglia che porta avanti da settimane. Aspettava l'inizio del processo con la stessa trepidazione con cui a dicembre i bimbi aspettano il Natale. Ai primi di ottobre, prima che gli altri ultrà scendessero in curva, lei già scriveva sull'Espresso che dare della "bastarda" alla Meloni è una forma di cultura. Oggi, invece, si sono sbizzarriti tutti quanti. Su Repubblica, pontificando sullo stato di salute della nostra democrazia, Chiara Valerio parla di "bullismo di Stato" contro Saviano. Sulla Stampa Elena Stancanelli lancia un appello per il prossimo 12 dicembre ("Venite tutti in tribunale"), mentre nel suo podcast Circo Massimo il direttore Giannini parla di "logica di potere" e ritira fuori il più classico "colpirne uno per educarne cento".
Nessuno di loro ha il coraggio di scrivere le cose come stanno. E cioè che "bastarda" non è, come scrive la Stancanelli, "un termine ritenuto ingiurioso" dalla Meloni. È un insulto. Punto e basta. Chiunque si sentirebbe diffamato nel sentirselo dire. E una diffamazione rimarrebbe anche se nelle prossime ore la leader di Fratelli d'Italia dovesse ritirare la querela. Lasciando così Saviano senza più un palcoscenico su cui fare il suo inutile show.
Berlusconi e l'incessante controcanto di Forza Italia a ogni scelta di Meloni. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.
Dal tetto al contante ai migranti, il partito guidato da Silvio Berlusconi si smarca sempre dal nuovo asse tra Fratelli d'Italia e Lega: è la coda delle tensioni sui nomi dell'esecutivo o l'inizio di una sorta di Vietnam?
Hanno cominciato da subito. E, finora, non hanno mai smesso.
L’innalzamento del tetto al contante? «Non è una priorità».
Il decreto anti-rave? «Va cambiato».
Le modifiche al Superbonus per l’edilizia? «Presentiamo un emendamento».
E persino sull’immigrazione, e cioè sullo spinoso dossier in cui le posizioni sembravano destinate a un allineamento quasi perfetto, è venuto fuori l’approccio morbido di Silvio Berlusconi, che in una cena privata — come ha rivelato Francesco Verderami sul Corriere — ha spiegato ai commensali che «quelle povere persone» imbarcate dalle navi delle Ong andavano «salvate tutte», con buona pace degli sbarchi selettivi decisi dal Viminale prima che esplodesse il caos diplomatico con la Francia.
Il governo guidato da Giorgia Meloni non ha neanche compiuto un mese. Ma nelle tre settimane di presenza sulla scena, con un ritmo scandito dall’asse Fratelli d’Italia-Lega, non c’è stato praticamente giorno in cui Forza Italia si sia astenuta dal controcanto.
A ogni mossa del tandem Meloni-Salvini, una contromossa di Berlusconi.
Sempre, sistematicamente, come una goccia cinese, su tutti i provvedimenti messi in campo; quelli approvati in Consiglio dei ministri, quelli allo studio, quelli visti, rivisti, soltanto annunciati o semplicemente ventilati. Una situazione che ha completamente ridisegnato gli equilibri «geopolitici» interni al centrodestra, arrivato al voto con un solito asse Berlusconi-Salvini in chiave anti-Meloni e uscito dalle urne con un assetto completamente stravolto: Fratelli d’Italia e Lega di qua, Forza Italia sempre e comunque dall’altra parte.
Che sia la coda velenosissima della tormentata composizione della squadra di governo oppure l’anticipo di una sorta di Vietnam parlamentare, questo lo si capirà presto. FI rimane un partito diviso al proprio interno, con il fronte «governista» che ha posizioni diverse rispetto a chi è rimasto a presidiare il Parlamento, certo. Ma, sfumature e voci di scissione a parte, al momento i numeri sono quelli che sono. Tra i banchi di Palazzo Madama, le «Colonne d’Ercole» che storicamente separano la necessità di approvare la Finanziaria entro l’anno dall’incubo dell’esercizio provvisorio, la maggioranza assoluta è fissata a 204; e i senatori del gruppo azzurro, al momento 18, bastano e avanzano per far saltare il banco. E non è un caso, come nota un big azzurro con una perfidia nascosta dietro la garanzia dell’anonimato, che «alla buvette i senatori di Meloni e Salvini si trovano sempre a ridere e scherzare più con i colleghi di Azione-Italia viva che non con noi di FI».
Agli atti, l’ultima dichiarazione di un forzista di primo piano e non ministro millimetricamente allineata con Giorgia Meloni è stata quella pronunciata da Berlusconi il giorno della fiducia in Senato. Prima e dopo, sempre e solo voci fuori dal coro. È stato così da subito, da quando l’eterogeneo pacchetto rave-contanti ha iniziato a riempire l’agenda di governo. «Trovo offensivo che l’attenzione sia su questo, quando la priorità è mettere mille euro nelle tasche dei pensionati e aiutare famiglie e imprese», aveva aperto le danze il vicepresidente della Camera Giorgio Mulè. Sembrava una nota stonata, è diventato uno spartito quotidiano. Proseguito sul Superbonus e culminato, nelle ultime ore, con le sfumature sull’immigrazione. E quando non sono dichiarazioni in dissenso, dei berlusconiani diventa rumorosissimo il silenzio, come sulle modifiche al reddito di cittadinanza.
Raccontano che negli ultimi giorni, confrontandosi in presenza della premier sui continui smarcamenti di FI, due esponenti del governo si siano divisi su quello che ha in mente Berlusconi.
L’ottimista dei due ha fatto notare che «Silvio, che di pugnalate amiche ne ha subite, non darebbe mai una spallata a un governo di centrodestra».
L’altro, il pessimista, s’è limitato a ricordare un dettaglio: «Vero. Ma da quando è in campo non c’è mai stato un governo di centrodestra non guidato da lui».
Meloni avrebbe ascoltato senza proferire parola.
I passi falsi della premier. Tutti i flop di Giorgia Meloni, rappresentante della destra populista e borgatara. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 16 Novembre 2022
Guardando le immagini del G20 con i vecchi e nuovi grandi della Terra, ma anche con i medi e i giganteschi come Biden e Xi Jinping, il confronto viene immediato. Che cosa avrebbe fatto, come si sarebbe comportato, quali arti da giocoliere dell’attenzione e della seduzione avrebbe giocato Silvio Berlusconi in un consesso del genere? Il confronto con Giorgia Meloni è inevitabile: l’unica donna premier di questo consesso indonesiano in cui i protagonisti scendono dalla scaletta dell’aereo accolti da un gruppo di danzatrici che si contorcono sensualmente in una danza, è la nostra presidente del Consiglio alla sua prima uscita nel gran galà del pianeta devastato dalla guerra attale e quella possibile, dalla carestia, dalle emergenze umanitarie, dall’inflazione, dalle minacce di altre guerre e la necessità di affrontare così grandi problemi comuni.
Berlusconi fu messo sulla graticola all’inizio della sua Presidenza perché sia era creato un asse fra le sinistre italiane e tutti i circoli della gauche al caviale internazionale. In quei consessi Berlusconi usava le sue armi di charmeur e di moderato, di uomo apparentemente nuovo, ma in realtà grande esperto di comunicazione e di competenza industriale. Un personaggio così arcitaliano, così lombardo ma anche così romano – fra le canzoni di Charles Trenet e quelle di Apicella – ma poi anche capace di affrontare bilanci e intese e alleanze e feeling che saltano a piè pari le artigliose spigolosità degli snobismi delle élites, fra i quali invece la sinistra italiana si sente perfettamente a suo agio. Fu un accreditamento lungo e profondo, al termine del quale Berlusconi sarebbe diventato un leader europeo. Sulla Meloni niente da dire invece. Se non che è indaffarata e si comporta con la dignità impacciata della studentessa modello ed è ovviamente molto compresa nel suo ruolo. Ma è anche molto principiante. E però con quell’aria acerba di chi sa di partire con un handicap, nel senso di uno svantaggio di partenza come nelle corse dei cavalli. Tutti sanno che le sue radici vengono da un genere di terriccio che non è quello più fecondo, ma poco importa perché in definitiva quel che conta sono i fatti e vedere se e che cosa dice.
Intanto tutti hanno visto però i primi guai: la rottura con Macron facendo una gaffe da borgatara, seguita dalla correzione di Mattarella che ha dovuto prendere il suo posto, spingersi oltre i suoi stessi confini. Dire a Macron qualcosa come “scusaci tanto, è ancora in rodaggio non ci fare caso, tanto non conta, chi conta sono io”. Sgarro costituzionale, ma necessario, per porre rimedio a imperizia e faciloneria. Con Berlusconi ci provarono, ma dopo una terribile guerra mediatica finì con una sua vittoria perché il presidente del centrodestra liberale seppe lavorarsi personalmente tutti i leader, dall’americano George Bush al russo Vladimir Putin che sembrava, all’inizio del XXI secolo, l’enfant prodige della nuova Russia, un europeo che in ottimo tedesco pronunciava in Germania un discorso sulla cultura russa in quanto europea. E poi le incomprensioni con Angela Merkel superate in souplesse malgrado l’arroganza di Sarkozy che mentre faceva lo sprezzante con Berlusconi si faceva finanziare da Gheddafi. Lo stesso Gheddafi contro il quale mosse guerra e con poca eleganza portò alla morte, arrecando danni immani alla politica estera italiana in fatto di emigrazione e di approvvigionamenti energetici.
Insomma, il Berlusconi che è stato messo sulla graticola, sbertucciato dai comici, bersagliato da una sessantina di missili giudiziari, attaccato da intellettuali poi pentiti e dal generone della borghesia superciliosa, è un leader storico la cui visione è quella super liberale e anche giocosamente libertina di un’Italia della ricostruzione e dell’identità spontanea ma mai, assolutamente mai ingenua. Non vogliamo impegnarci nei confronti e dire “E invece la Meloni”. La Meloni ha voluto la sua bicicletta, e adesso deve pedalare, cadendo e rialzandosi, facendo esperienza e trovando che i suoi elementi di appeal, quelli per cui raccoglie tanto elettorato e tantissima audience, sono quelli di una figura che gli italiani adorano: quella di chi “non gliele manda a dire”, di chi sbatte i pugni sul tavolo (in genere a Bruxelles) e caccia gli emigranti, e fa “booh” ai ragazzacci dei rave, e promette ordine e legge, legge ed ordine, ma poi è statalista e manettara come tutta la storia del fascismo e del post fascismo era ed è: statalista, con populismo sociale incorporato, sa fare la faccia feroce quando parla alle proprie folle o a quelle spagnole con toni più isterici che duceschi e faccia da “Chi? io?”, ma con un background di romanzi per ragazzi di Tolkien con Frodo, il Signore degli anelli e le Terre di Mezzo insidiate dagli orchi che sbarcano sulle nostre coste.
Non mi vergogno a citarmi, ma ho scritto un libretto sfortunato perché uscito mentre scoppiava la guerra in Ucraina (che dirottò l’attenzione sul Covid e da ogni altro argomento) intitolato La Maldestra: quella italiana che non può stare insieme come l’acqua con l’olio e una dose di mercurio perché in parte origina da quella liberale ereditata grazie a Berlusconi dai partiti che ricostruirono l’Italia dopo l’operazione Mani Pulite che strozzò la cosiddetta Prima Repubblica; e in parte è illiberale perché populista e sovranista, con un pizzico di post-fascismo, molta nostalgia degli anni Settanta quando si sparavano Brigate Rosse e Brigate Nere. Una destra che non ha niente a che fare nemmeno con il sogno federalista di Umberto Bossi per quello che riguardava la gloriosa Lega Nord, quella di “Roma ladrona” e delle barzellette sui terroni. Non si tratta soltanto del fattore umano, ma anche umano. In più, ci sono di mezzo i valori fondamentali della spensieratezza contro la grintosità, della vitalità contro la cupezza, dello statalismo contro la libertà d’impresa, della totale, colpevole, deprimente mancanza di senso dell’umorismo contro l’Italia della commedia laboriosa del miracolo economico, un piccolo borghese e un po’ mi saluti la sua signora, con i suoi Alberto Sordi e Gino Bramieri, i piccolo borghesi che però sono, erano, grandi borghesi, dei costruttori e capitani d’azienda, fra cui anche e lui, il Berlusconi di Milano Due, della trovata delle videocassette per rifornire i film nei paesini su per le montagne.
Quelle due Italie non sono neanche di destra. Quella liberale è liberale, ha bisogno di libertà di mercato, viaggi, contaminazioni, esportazioni, invenzioni. Quella illiberale non ride mai, è cupa, pronta a ringhiare, perché ringhiando si alleva l’italiano dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini che oggi potrebbe essere Giuseppe Conte, quello che apprezza chi urla, fa la faccia feroce, mette depressione con l’istinto alla repressione e non vede l’ora di cacciare chi cucina con troppa cipolla, senti che puzza. Finché si tratta di amministrare città e regioni, passi: queste destre che non hanno quasi nulla in comune possono far finta di essere unite dallo spirito pratico che però non ha niente di ideologico e neanche di ideale. Ma quando si tratta di fare sul serio, le due destre, quella liberale e quella illiberale, non si tollerano e lo si è visto subito, col primo Consiglio dei ministri che, pur potendo evitare la faccia feroce ha fatto subito la faccia feroce, salvo ammettere di gran carriera che bisognava rifare subito i decreti-legge in Parlamento. La politica estera, profondamente ferita dal conflitto in l’Europa si è poi, per quanto ci riguarda, fatta subito male in una zuffa insensata con la Francia, che ha colpe enormi quanto a immigrazione, ma che è un Paese con cui era stata costruita con pazienza una alleanza non solo di facciata. Tutto in malora perché la piccola Presidente della scuola Montessori ancora non sa giocare con gli adulti.
Ed è ormai uno spettacolo che vedono tutti i pezzi non stanno insieme perché l’Italia liberale, tenuta in vita da Berlusconi e purtroppo ridotta ai minimi termini per la costanza della pressione giudiziaria e dei vuoti che hanno messo in fuga il voto dei cosiddetti moderati, non si combina né per stile né per contenuto con l’altra, se non vagamente per bacino di elettori che però sono molto volubili. E i risultati sono sotto gli occhi: Berlusconi non vuole essere coinvolto nelle scelte anti-emigranti tenuti a mollo. Così gli passa la voglia. I liberali, o come più vi piace chiamarli, sono incavolati perché l’ordine delle priorità è quello delle bollette e del carovita e non delle scenate internazionali da cui usciamo con le ossa rotte. I due partiti che si rubano la scena sono Fratelli d’Italia e Lega che infatti hanno raggiunto un accordo, tanto sono quasi identici, mentre Forza Italia distingue, si separa, corregge, emenda, sta scomoda, ha la faccia tirata e siamo solo agli inizi.
In panchina si scaldano soddisfatti Renzi e. Calenda, ma sono riscaldamenti senza muscoli perché l’elettorato della protesta illiberale non li prenderebbe mai molto sul serio, ma ci sono come ruota di scorta perché quella sembra che sia la loro missione. La Maldestra sta male e non è destra nello stesso modo e questo manda in bestia Berlusconi che avrebbe voluto che gli fosse riconosciuta la leadership di chi ha il brevetto, ma Giorgia Meloni, giustamente dal suo punto di vista che coincide soltanto col suo punto di vista, vuole imparare tutto da capo anche se ci portasse a sbattere. Dunque, il governo c’è, ha i voti, ma manca sia il propellente che il collante per affrontare il videogame della realtà che è scosceso e richiede piloti esperti per non andare finire oltre il guard-rail, sul ciglio del burrone.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Giorgia Meloni. Dal “Corriere della Sera” il 5 novembre 2022.
Esce oggi 4 novembre da Mondadori Rai Libri il libro di Bruno Vespa «La grande tempesta. Mussolini, la guerra civile. Putin, il ricatto energetico. La Nazione di Giorgia Meloni», 390 pagine, 21 Euro. Pubblichiamo un brano dall'undicesimo capitolo ( E una donna arrivò a Palazzo Chigi ).
«Mario, che fai? Mica facciamo sul serio? Te ne vai e mi lasci sola?». È mezzogiorno di domenica 23 ottobre 2022. Giorgia Meloni scherza con Mario Draghi durante la cerimonia della campanella, dove avviene il passaggio di testimone dal premier uscente a quello entrante. Al termine, Draghi scende nel cortile di palazzo Chigi per ricevere gli onori militari di commiato e la Meloni resta sola nello studio presidenziale con le due amiche collaboratrici di sempre, l'assistente Patrizia Scurti e la portavoce Giovanna Ianniello.
«Conoscevo bene questa stanza» mi dice subito dopo il presidente del Consiglio, che ama essere chiamata con il nome della carica declinato al maschile, che poi sarebbe un vocabolo neutro. «C'ero stata tante volte durante il governo Berlusconi. Ma è questo il primo momento in cui mi chiedo: che mi è successo? Che sto provando? Soddisfazione, certo, ma soprattutto ansia, perché l'impatto è pesante».
Adesso il piccolo studio (scrivania del Settecento, salottino, tavolo delle riunioni per poche persone) deve sembrarle immenso, perché immense sono le responsabilità cadute addosso a questa donna minuta e decisa alla quale, nella vita, nessuno ha regalato niente. Uno studio che, peraltro, non la fa sentire a suo agio. Non le piacciono gli ori, i damaschi, il balconcino affacciato su piazza Colonna. Non le piace, gelosa com' è della sua libertà, il protocollo soffocante e l'idea di essere seguita a ogni passo, di rendere subito di dominio pubblico ogni incontro, essendo da sempre le mura di palazzo Chigi udenti e parlanti. Tant' è vero che la Meloni ha conservato gelosamente il suo magnifico e decentrato ufficio alla Camera, con una terrazza che le è capitata per sbaglio e che tutti le invidiano.
Giorgia Meloni si accomoda in una poltrona color oro per riprendere fiato con un caffè negli attimi che precedono il primo Consiglio dei ministri. Confessa di aver temuto di piangere di commozione mentre passava in rassegna il picchetto in cortile e ha udito l'ufficiale gridare: «Onori al presidente del Consiglio dei ministri!», come ha pianto calde lacrime alla sua prima uscita dopo il giuramento ai funerali di Francesco Valdiserri, il diciottenne investito da una donna ubriaca mentre camminava con un amico sul marciapiede di via Cristoforo Colombo. (La madre di Francesco, la giornalista del «Corriere della Sera» Paola Di Caro, segue da molti anni il centrodestra e la consuetudine con Giorgia Meloni si è trasformata con il tempo in amicizia).
Si è commossa sabato 22 ottobre quando, uscendo di casa per le consultazioni, ha visto che dal palazzo di fronte un signore che non conosceva sventolava la bandiera tricolore. E si è commossa il pomeriggio dello stesso giorno quando, andando con la madre Anna alla Festa dei Nonni alla scuola frequentata dalla figlia Ginevra, pur entrata di soppiatto per guadagnare l'ultima fila è stata accolta da un grande applauso che ha lasciato di stucco il sacerdote che, intento a parlare, non aveva visto entrare la famigliola presidenziale. E mamma Anna?, chiedo alla Meloni. «Non è mai stata una donna cerimoniosa» mi dice «ma mi ha mandato un messaggio strappalacrime: credevo di non aver fatto niente nella vita e invece»
La sua inseparabile sorella Arianna? «Piange sempre. Le devo molto. Mi è stata sempre vicina». E Ginevra? «Una sera è venuta e, per la prima volta, mi ha chiamato presidente. "Presidente, ho un regalo per te." E mi ha offerto dei cioccolatini. "Adesso che fai, com' è il tuo lavoro?" "Ginevra, ricordi il capofila della classe? Be', io adesso sono il capofila di una fila lunghissima"». Riesce ad accompagnarla a scuola? «Sempre e, dopo una dura battaglia, sulla mia storica Mini. A scuola preferisco non andare con l'auto di servizio. Vado in tuta perché, quando è possibile, torno ad allenarmi».
E comunque non ha mai preso in considerazione l'idea di trasferire la famiglia a palazzo Chigi nel brutto appartamento presidenziale, restando nella vecchia casa della Garbatella. Prova a distendersi, Giorgia Meloni, in attesa di presiedere il primo Consiglio dei ministri (sbircio nel salone: quante vecchie conoscenze e quante new entry). Le sembra tuttora impossibile essere arrivata fin qui. (…) Tanto sente di giocare fuori casa nel Palazzo, Giorgia Meloni, che nella prima riunione del Consiglio dei ministri dice: «Troppi uccelli del malaugurio aleggiano sul governo. Diamo una risposta corale: siamo una bella sorpresa per l'Italia».
Estratto Da “il Messaggero” il 5 novembre 2022.
Esce oggi da Mondadori Rai Libri il libro di Bruno Vespa La grande tempesta.
Mussolini, la guerra civile. Putin, il ricatto nucleare. La Nazione di Giorgia Meloni, pagine 390, 21 Euro. Pubblichiamo parte dell'Introduzione del volume.
(…) La chiave per capire la sfida di Giorgia Meloni è in una frase che mi ha detto nel suo studio di palazzo Chigi, nei giorni successivi alla fiducia delle Camere: «L'unico vero vantaggio che ho rispetto agli altri è che non lavorerò per restare in questo posto. Non sto qui per sopravvivere guardando i sondaggi.
Tra cinque anni io non voglio essere rieletta a ogni costo. Il mio obiettivo è, piuttosto, che gli italiani portino fiori sulla mia tomba quando non ci sarò più. Se accadrà, vorrà dire che avranno da ringraziarmi per quello che ho fatto. Se non hai niente da perdere, puoi tirare di più la corda. Per fare le cose devi rompere gli schemi; se vivi nel terrore di non essere rieletta, sei destinata a non combinare niente».
Estratti dalla autobiografia di Giorgia Meloni “Io sono Giorgia” il 16 ottobre 2022.
Il rapporto tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni non è mai stato idilliaco. A febbraio, dopo lo scontro sulla rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, Meloni era andata in tv, su Retequattro, e aveva spiegato: "Io a Berlusconi nella mia vita non debbo niente". Parole che avevano fatto infuriare Berlusconi che aveva bandito per qualche giorno gli esponenti di FdI dalle sue televisioni e aveva replicato: "È un'ingrata".
Diffidenze e scontri che emergono anche da aneddoti raccontati da Meloni nella sua autobiografia Io sono Giorgia, pubblicata da Rizzoli nel 2021 e di cui riportiamo qui di seguito alcuni stralci.
Irriconoscente. "Molte volte, in questi anni, quando da presidente di un partito alleato ma distinto da quello di Berlusconi ci sono stati momenti di frizione, mi sono sentita dire che ero 'irriconoscente' con il Cavaliere che mi aveva fatto ministro. A parte che sono convinta che un buon politico debba essere leale con gli uomini ma ciecamente fedele solo alle proprie idee, le cose non stanno comunque così (…). Ho sempre avuto con il Cavaliere un rapporto franco e leale e ho di lui una grande considerazione, ma la mia storia appartiene a un mondo che lui non ha mai capito davvero…
B. e le donne. "Poche ore prima erano uscite delle intercettazioni di telefonate tra aspiranti soubrette e Berlusconi, da cui si intuiva che queste ragazze erano in cerca di raccomandazioni. (...) In quella telefonata con Roncone dissi quello che pensavo e penso, e cioè che le raccomandazioni sono frutto di una società che non premia il merito, che le protagoniste della storia mi facevano tristezza e che il comportamento di Berlusconi, in quel frangente, da donna di destra, proprio non mi era piaciuto. (…)
La mattina dopo, all'alba, mi chiamò Ignazio La Russa, capo delegazione di Alleanza Nazionale al governo. Io stavo ancora dormendo, risposi assonnata e sentii lui dire, con la voce ferma: 'Ma come ti viene in mente? C'è Berlusconi fuori dalla grazia di Dio'. (…) Aprii la porta di casa per prendere il Corriere della Sera e a pagina 5 trovai la mia intervista, con richiamo in prima. Titolo: 'Questo Silvio non mi piace'. All'alba, Berlusconi aveva chiamato La Russa arrabbiatissimo: 'La ragazza mi ha già rotto le palle'.
"Cosa vuoi in cambio? "A un certo punto di questo percorso decisi di comunicare personalmente a Berlusconi la nostra decisione (di uscire dal Pdl per fondare Fratelli d'Italia, ndr). Quando glielo dissi, a Palazzo Grazioli, mi rispose con quel suo fare pragmatico da uomo d'affari che ha imparato come tutto, e quasi tutti, abbiano un prezzo. 'Va bene, ho capito... Allora, dimmi: che cosa vuoi, che cosa vuoi fare?'. 'Voglio essere fiera di quello che faccio. Lo dico con rispetto, ma davvero non mi sento più a casa”.
No ai ricatti. "Non sono ricattabile, perché non faccio cose delle quali dovrei vergognarmi e non accetto aiuto da chi potrebbe chiedermi qualcosa in cambio".
Mario Tafuri per blitzquotidiano.it il 16 ottobre 2022.
Giorgia Meloni e Licia Ronzulli? Perché la futura premier storce il naso? Forse pesa quella telefonata di 12 anni fa con Nicole Minetti?
Su tutti i giornali e siti abbiamo letto del fastidio di Giorgia Meloni davanti alla insistenza di Berlusconi su un ministero di peso da assegnare a Licia Ronzulli, oggi potentissima figura di Forza Italia e dell’inner circle del Cavaliere.
“Per me è una questione d’onore. Piuttosto questo governo non nasce” era arrivata a dire la Meloni. Sottolineando con questo la sua totale avversione alla Ronzulli ministro. La vicenda si è poi conclusa, pare, con una ritirata strategica di Berlusconi dopo una scenata furiosa con Ignazio La Russa. e lo sgarro di non farlo votare presidente del Senato dal suo partito. Quel che interessa oggi capire è il perché di tanta ostilità.
Una bega tra donne? Non si direbbe. Forse la spiegazione ha radici nella cronaca di oltre 10 anni fa, quando primo ministro era Berlusconi e dalla Procura della Repubblica di Milano uscivano le intercettazioni delle indagini sul caso Ruby nipote di Mubarak e sulle cene eleganti nella villa di Arcore.
Ne pubblicammo parecchie pagine su Blitz. La numero 52 aveva questo titolo: “Nicole Minetti e Licia Ronzulli: ragazze per il dopo-partita cercansi”.
Sotto si leggeva: Sono da poco passate le 18:30 del 22 agosto 2010. Nicole Minetti parla al telefono con Licia Ronzulli. L’argomento è: quali ragazze ci saranno in serata ad Arcore?
Nicole: io sono ancora in alto mare perchè ho superato da poco Bologna e c’è un traffico disumano.
Nicole: per cui io sicuramente non riesco ad essere lì per quell’ora, ho sentito le ragazze all’inizio… all’Annina mi aveva detto che voleva venire, poi però è a piedi, una cosa e un’altra né lei né la Maristelle vengono lì allo stadio, perchè sono a piedi entrambe, quindi aspettano che arrivo io, vado a prenderle io e poi dopo andiamo dove dobbiamo andare insomma
Licia: okey, ascolta, la cena non è da Giannino, è a casa del capo ad Arcore, quindi stai tranquilla.
Nicole: no, l’unica cosa ho provato a chiamarlo per dirgli che comunque anche loro non venivano perchè mi dispiaceva, solo che non risponde, quindi magari se riesci ad avvisarlo tu, gli dici
Licia: glielo dico io, sì.
Il testo poi prosegue con lo scambio di una serie di informazioni sulle ragazze la cui presenza era prevista quella sera.
La sua rilettura, oggi, 12 anni dopo, può essere illuminante.
Roberto Gressi per corriere.it il 16 ottobre 2022.
«Può la donna permettersi di stare alla pari con l’uomo? No! È aperto il dibattito». Nella casa del popolo del film d’esordio di Roberto Benigni si consumava l’eterno confronto, che ora, anche in politica, vede sul ring il campione non più in carica e la sfidante. Eccoli: Silvio Berlusconi, 86 anni, da Milano, Bilancia, 165 centimetri per 84 chili, pantaloncini azzurri. E Giorgia Meloni, 45 anni, da Roma, Capricorno, 163 centimetri per 54 chili, pantaloncini tricolore con Fiamma.
Non solo pugni, sul quadrato, ma anche guerra psicologica. Mohamed Alì fustigava con il dispregiativo di «zio Tom» i suoi avversari neri. E i duellanti di oggi non sono da meno. «Supponente, prepotente, arrogante, offensiva», ferisce Berlusconi, «con lei non si può fare nessun accordo». «Non mi piaci, non ti devo nulla, io non sono ricattabile», sferza Meloni.
Sembrano a prima vista coltellate dell’ultimo minuto, un c’eravamo tanto amati finito a carte bollate, con la «ragazzina che si è montala la testa» (copyright Gianfranco Fini) da una parte e il patriarca che, con un filo di machismo, difende il suo onore e la sua prediletta, Licia Ronzulli.
E invece no. A pelle non si sono mai sopportati. Lui che la fa ministra per i Giovani a nemmeno trent’anni. Lei che chiede agli atleti di non partecipare alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino nel nome del Tibet oppresso.
Lui che la smentisce, Franco Frattini, il ministro degli Esteri di allora, pure. Lei che abbozza ma non abiura. Racconta che già al giuramento qualcuno del cerimoniale aveva avuto l’idea di metterla in fila in ordine di altezza, come i ragazzini delle colonie negli anni Cinquanta. «Tra Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo e Mariastella Gelmini sembro il brutto anatroccolo, qualcuno fa anche uno strepitoso fotomontaggio dove al mio posto c’è Kermit, la rana dei Muppet».
Non è l’unico fake. Diventa virale un video durante il congresso del Pdl. Si sente la voce di Berlusconi, che la chiama in prima fila: «Dov’è la piccola?». Viene deformato in «Dov’è la zocc*?». E incredibilmente in tanti ci credono. Ma comunque, è convinta lei, mi chiamava piccola perché non si ricordava il mio nome.
Fastidiosamente irritante, nella sua insignificanza, pare che la giudichi fino da allora Silvio Berlusconi. Ma il primo incidente vero arriva a firma di un giornalista del Corriere, Fabrizio Roncone. La chiama e le racconta delle intercettazioni di telefonate tra aspiranti soubrette e Berlusconi, le ragazze erano in cerca di raccomandazioni. «Io ero al mare e dissi quello che pensavo e penso, e cioè che le raccomandazioni sono frutto di una società che non premia il merito, che le protagoniste della storia mi facevano tristezza e che il comportamento di Berlusconi, in quel frangente, da donna di destra, proprio non mi era piaciuto».
Poi si rimette al sole. Ma all’alba la sveglia la telefonata di Ignazio La Russa: «Giorgia, ma come ti è venuto in mente? C’è Berlusconi fuori dalla grazia di Dio. Hai visto il titolo? “Questo Silvio non mi piace”. Lo sai che mi ha detto? Questa ragazza mi ha già rotto le palle». Nel suo libro Giorgia riconosce l’imprudenza, ma in realtà si appunta la lite al petto come una medaglia.
Poi c’è il capitolo primarie, chi se le ricorda? Si preparavano le elezioni del 2013 e Berlusconi, magari per gioco, aveva fatto credere a tutti che il leader del centrodestra sarebbe stato scelto con una consultazione popolare. Ci cascarono in tanti: almeno undici, se non di più, erano pronti a candidarsi. L’ultima a non voler credere che fosse tutto uno scherzo fu Giorgia Meloni, testarda fino all’ultimo, tra qualche inquietudine e tanti sberleffi. Racconta allora che salì le scale di Palazzo Grazioli, per dire a Silvio che si metteva in proprio. Lui le rispose, pragmatico: «Va bene, ho capito. Dimmi: che cosa vuoi?». Sono fatti così, nati per non capirsi.
Lei andò a fondare Fratelli d’Italia, lui la guardò allontanarsi, con la pena di chi vede una che va a buttarsi dal ponte dell’Ariccia. Ma anche sulle cose piccole il rapporto è sempre urticante. Ha raccontato La Russa a Tommaso Labate: «Ce ne andiamo a pranzo a Villa Certosa, con Giorgia. Lui ci fa vedere le sue farfalle, vive e imbalsamate. E lei, rivolta a Silvio: tu sì che potevi invitare una ragazza a casa e mostrarle per davvero la collezione di farfalle...».
Quando Salvini scavalca Forza Italia alle elezioni del 2018 si prende il diritto di parlare lui dalla tribunetta del Quirinale. Berlusconi lo tratta da ragazzo di bottega e mentre parla mima con le dita: uno, due, tre... come a controllare che abbia ripetuto bene la lezione. Matteo ne esce irritato, ma è Giorgia che, a favore di labiale, si rivolge a Silvio furiosa. Lui, a sua volta, non è mai tenero con lei. Liquidatorio: «Meloni? È leader a casa sua». Glaciale: «Non sostiene Draghi? Ne prendo atto con rispetto e con rammarico». Augurante: «Si isola e farà la fine della Le Pen».
L’ultima puntata si chiude con Berlusconi che sbatte la penna e digrigna i denti, e con Meloni glaciale, tanto da far rimpiangere di non essere su Netflix, che le serie le dà tutte di fila, e non devi aspettare per sapere come va a finire. Nel frattempo vale, metaforicamente (e pacificamente) parafrasando, il comandamento di Lee Van Cleef, il cattivissimo dei film western: «Se spari a un alleato uccidilo, o prima o poi lui ucciderà te».
Berlusconi e Meloni: la storia del non si sono mai amati. STEFANO IANNACCONE su Il Domani il 16 ottobre 2022
La leader di Fratelli d’Italia non ha mai davvero cercato di costruire un feeling politico con l’ex presidente del Consiglio. Portando a compimento l’obiettivo di Gianfranco Fini: la rottamazione di Berlusconi.
Un dato accertato è che FdI è nato, nel 2012, con una scissione nel Pdl in dissenso con la decisione berlusconiana di annullare le primarie del centrodestra.
Il punto di non ritorno è stato sicuramente raggiunto all’inizio di quest’anno, nei giorni in cui Berlusconi ambiva all’elezione al Quirinale. Ma la leader di FdI non sostenne pienamente la sua candidatura.
Il foglio scritto a mano di Silvio Berlusconi a palazzo Madama e la replica all’insegna del «non sono ricattabile» di Giorgia Meloni sono solo l’ultimo atto di un feeling politico mai sbocciato. E che la leader di Fratelli d’Italia non ha mai davvero cercato di costruire, portando nei fatti a compimento quello che era l’obiettivo di Gianfranco Fini: la rottamazione del Cavaliere.
Le cronache di questi giorni consegnano un ribaltamento della scena: adesso è Berlusconi a pronunciare, metaforicamente, il «che fai mi cacci?», di finiana memoria, dal governo. L’operazione di Meloni prevede dei passaggi ben precisi: mettere ai margini Forza Italia nella squadra dei ministri, che saranno scelti in base al proprio gradimento.
RIPICCHE E INSULTI
Ma al netto di quel che sarà nelle prossime settimane, è la storia a raccontare di una relazione sempre sul filo del rasoio. Con un peccato originale: la mancata fascinazione da parte di Meloni verso il padre nobile del centrodestra, come ama definirsi l’ex presidente del Consiglio.
Le ragioni sono molteplici. Ci sono aspetti personali, per esempio il carattere molto diverso, e generazionali, con una evidente differenza anagrafica, 45 anni lei e 86 anni lui. E infine c’è un dato politico: la numero uno di FdI è consapevole di aver conquistato la guida della coalizione senza aver dovuto chiedere il permesso all’anziano leader forzista. Verso di lui non ha dunque alcuna sudditanza psicologica. Berlusconi non ha mai tollerato questo approccio, considerandolo un affronto.
Anche per questo ha mostrato, spesso in maniera plateale, la propria preferenza nei confronti di Matteo Salvini. Un caso significativo risale a marzo, nel corso della cerimonia che ha suggellato, seppure non ufficialmente, il legame con la deputata Marta Fascina.
In quell’occasione, tra gli invitati, c’è un’assenza pesante: Giorgia Meloni. E Berlusconi non perse l’occasione per definire Salvini «il leader più sincero». Un modo per tracciare il parallelo a distanza con Giorgia Meloni, che era già stata etichettata come «ingrata e irriconoscente». Aggettivi che rappresentavano il preludio, per certi versi soft, al «supponente e arrogante», affibbiato nell’ormai celebre foglietto compilato sui banchi del Senato.
Nella galleria delle ripicche c'è l'affermazione del presidente degli azzurri, che recitava: «Giorgia farà la fine della Le Pen», in riferimento alla capacità di aumentare i consensi senza poi poterli tradurre in possibilità di governare.
Addirittura nei primissimi giorni di campagna elettorale Berlusconi sosteneva una tesi polemica: «Meloni spaventa gli elettori», resistendo all’ipotesi di cederle la guida del centrodestra. Da parte sua, la premier in pectore ha assunto una linea chiara verso Berlusconi: «Non gli devo niente»; lasciando così intendere che il ruolo da ministra delle Gioventù, nel governo formato nel 2008, non fu una gentile concessione, bensì il frutto di un accordo politico.
SPACCATURA QUIRINALE
Il punto di non ritorno è stato sicuramente raggiunto all’inizio di quest’anno, nei giorni in cui Berlusconi ambiva all’elezione al Quirinale. Aveva chiesto una prova di compattezza all’intera coalizione per presentarsi come un profilo credibile, appoggiato titubanze dal centrodestra.
Puntava a realizzare il sogno di una vita: la scalata al Colle. Per questo convocò gli alleati a Villa Grande, proponendo le fotografie con sorrisi a favore di telecamere. Il tentativo era palese: ostentare una granitica compattezza. Il progetto è naufragato in malo modo. In quelle ore il leader di Forza Italia percepì lo scetticismo della presidente di FdI, che del resto non aveva perso tempo a dichiarare: «Se Berlusconi rinuncia, abbiamo altri nomi», scalfendo il muro creato sul nome del leader forzista.
Non che in passato ci sia stato un idillio. Anzi, sempre al Quirinale, proprio all’interno del palazzo, nel 2018 si è verificato un altro momento di tensione acuta.
Erano i giorni delle consultazioni dopo le elezioni politiche. Matteo Salvini, come previsto, parlò con i giornalisti a nome della coalizione, al termine dell’incontro con il presidente Sergio Mattarella. Al suo fianco c’era Berlusconi che fece lo show con l'enumerazione dei punti del discorso del leghista. E chiuse la conferenza stampa con un altro fuori programma: spostò Meloni, prendendosi il microfono e rivolgendosi ai cronisti con l’invito a «fare i bravi». Un gesto con cui si prese definitivamente la scena del momento.
Pochi minuti dopo, un video svelò come, parzialmente coperti da una tenda, Meloni e Berlusconi stessero animatamente discutendo mentre Salvini assumeva un’espressione perplessa e infastidita. Nulla di nuovo, peraltro.
Le cronache del 2016 riportano alla memoria il modo con cui Berlusconi chiuse all’ipotesi di puntare su Meloni per la corsa a sindaco di Roma, adducendo come motivazione la sua imminente maternità. «È una cosa chiara a tutti che una mamma non può dedicarsi a un lavoro che, in questo caso, sarebbe terribile perché Roma è in una situazione disastrosa», disse l’ex premier che sponsorizzava con forza la candidatura di Guido Bertolaso.
TUTTO NASCE CON UNA SCISSIONE
Ma non è certo un caso isolato. Un fatto politico ne è diretta testimonianza: Fratelli d’Italia è nato da una scissione nel Popolo delle libertà, causata dalla fuoriuscita di Meloni e di altri esponenti come Guido Crosetto, nome caldo del totoministri, e il neo presidente del Senato, Ignazio La Russa.
Fu un’iniziativa di dissenso verso Berlusconi, che nonostante le dimissioni da presidente del Consiglio volle ripresentarsi come leader del centrodestra alle elezioni del 2013, annullando le primarie che erano già state convocate. La spaccatura è in parte finita nel dimenticatoio, ma fin da allora il rapporto si è deteriorato.
Certo, c’è qualche traccia nella storia di Meloni che ha usato parole a favore di Berlusconi. Per esempio all’epoca dell’inchiesta sul caso Ruby. In quell’occasione, l’allora ministra per le Politiche della gioventù soccorse il premier: «Si sta delineando un'operazione giudiziaria che non sembra interessata a perseguire dei reati, ma solo a sfregiare l'immagine del premier eletto dai cittadini italiani».
E agli atti resta qualche dichiarazione di stima berlusconiana nei confronti di Meloni, come nell'intervista del 2017 al settimanale Tempi: «Di Giorgia ho sempre apprezzato determinazione, la competenza, il coraggio intellettuale, la capacità di analisi». Una delle eccezioni, di complimenti generosi, che confermano la regola di tensioni costanti. All’insegna del non c’eravamo mai amati. STEFANO IANNACCONE
Una storia di famiglia, la destra. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 27 Settembre 2022.
ALLE TRE di notte parla Giorgia Meloni e Lia – la signorina Lia, mia zia – batte le mani. La vincitrice del 25 settembre dedica il risultato a chi non c’è più e Lia batte le mani nella stanza importante della propria casa con la raggiante felicità delle sue ottantacinque primavere.
Ognuno ha un mondo intero nei propri ricordi, pezzi di vita che sono solo batticuore ormai, la piccola bionda ostinata arriva al governo d’Italia, parla da Roma, e quella sua dedica – “a chi non c’è più” – fa commuovere Lia, mia zia, che di ogni lacrima se ne fa un film.
Ed è una pellicola che va a svolgersi alle ore tre del mattino, questa di Lia – la signorina, mia zia – con tutti quelli che non ci sono più: genitori, fratelli, cugini, amici di stagioni andate e poi le piazze.
Sono – ebbene sì, bagnate dal pianto gioioso di Lia – le tante piazze tricolori e festanti con la fiamma degli esuli in patria, degli esclusi a prescindere e della gioventù nazionale. Quella che – nel ricordo di ciò che non c’è più – tra baci, fiori e rose canta “…oh Italia, oh Italia del mio cuore/tu ci vieni a liberar”.
Piazze affollate di paesani che hanno consumato l’addio a questa terra consegnandosi alla storia e alle pareti di casa di zia Lia, a Leonforte. Tutta un’allegria di cornici, portaritratti e fotografie affastellate nella vetrinetta che racconta di certificati elettorali e di ragazzi diventati poi deputati, onorevoli, sindaci e perfino protagonisti al parlamento di Strasburgo.
È una storia che sa di famiglia quella della destra che fu, in Italia. La fiamma che Giorgia Meloni non ha tolto dal suo simbolo è la fiamma di Paolo Borsellino, la fiamma di Dino Ferrari che se la porta nel bavero della giacca, nel letto di morte, è la fiamma di Walter Chiari che ci fa le mattane in scena, beffandosi di tutte le cautele ed è – e zia Lia lo sa – la fiamma di Padre Pio.
Partivano i torpedoni per il lungo viaggio da Leonforte verso San Giovanni Rotondo, le pie donne si mettono in fila per la Santa Confessione per domandare al santo cappuccino – “Padre, ma è peccato votare per la Fiamma?” – e dalla penombra del confessionale Padre Pio tuona loro: “Peccato è non votarla!”. La risposta del santo è troppo mobilitante per mantenerla nel segreto della penitenza, ed è liberatoria per le poche – tra i pellegrini – decise a disobbedire l’ordine del parroco di votare la Democrazia cristiana.
Alle tre di notte, seguendo lo spoglio del responso elettorale, il film trova sipario nelle lacrime di felicità di Lia – la signorina, mia zia – e lei è l’unica di tutto un mondo ad avere visto il 25 settembre.
Il successo di Giorgia Meloni non è certo il ritorno del Novecento, la sua storia è un libro nuovo ma l’applauso nella stanza di Lia diventa corale, emozionante, pazzo dell’incontenibile riscatto di giovinezze ubriache di politica e di sogni fatti di soli tre colori: il bianco, il rosso e il verde.
Giusto quelli di “Rinaldo in Campo”, il capolavoro teatrale di Garinei & Giovannini, con le tre pitture dai picciotti in scena, con Dragonera e la sua bella Angelica al seguito di un’avventura tutta italiana per cantare il perché di quei tre colori: il bianco delle nevi delle Alpi, il verde delle valli di Toscana e il rosso dei tramonti siciliani. E poi ancora – con tutte le foto alle pareti a fare il coro – “Col bianco dei capelli di mia madre/col verde di due occhi tanto belli/col rosso, rosso sangue dei fratelli”.
Una storia che sa di famiglia, la destra. Conclusa nel tempo di un applauso, con le lacrime a far da sipario.
Fulvio Abbate per Dagospia il 27 settembre 2022.
Il cuore? Semmai il fegato. Quello ingrossato dal leggere l’articolo di Concita de Gregorio. Scrivere su “Repubblica”, come ha fatto stamattina, che si debba “ricominciare dal cuore” è cosa risibile, penosa, schiuma da educandato della presunta “vocazione maggioritaria”, la stessa di cui Veltroni è mandante, e lei primo interprete garantito assoluto.
La sconfitta del Pd, e per estensione della “sinistra” tutta, da lei attribuita a Enrico Letta, persona che giganteggia sempre e comunque davanti alle sue parole, la sconfitta delle “cose belle”, che le imputa ad altri, a chi le ha comunque consentito spazio d’azione mediatica e narcisistica, la si deve in eguale misura, assai di più, all’amichettismo che Concita De Gregorio, insieme all’intera corte di amichetti della “sua” sinistra di cooptati d'autore, esprime.
Supponenza in nome del presunto “buon gusto” e di un “galateo” ipocrita che da decenni calpesta il cuore d’ogni vero sentimento di rivolta e opposizione all’esistente, compreso quello “di sinistra”, e che rende possibile, sempre per voce di un galateo portatile dei cosiddetti ceti medi riflessivi, che le pulsioni fasciste e plebee incancellabili nella nostra società incerta e ferita si mostrino nelle urne in tutta la loro mostruosa evidenza antropologica, ancor più che politica.
Ancor prima di Enrico Letta, da se stessa si dovrebbe dimettere Concita De Gregorio, e con lei l’intera corte edificante letteraria e cinematografica che la accompagna nella convinzione d’essere nel giusto dell’elegante perfezione “civile”. Mi auguro che Elly Schlein, cui lei affida ufficialmente, pensando di averne titolo sempre in nome dell'eleganza, l'investitura, la mela bio avvelenata dell’amichettismo politico, se ne tenga distante, facendo semmai ritorno a incontrare “l’umile Italia”, a cui la sinistra, come scrive qualcuno, dovrebbe consegnare se stessa, “nella lunga serie di notti in cui marcia, senza bandiere, la vita”.
Da “la Repubblica” il 27 settembre 2022.
Caro Merlo, ho letto l'intervista di Carmelo Lopapa a Pietrangelo Buttafuoco, un intellettuale di destra, ma che tutti conosciamo come libero e spiazzante. Buttafuoco sostiene che Giorgia Meloni è una secchiona che studia, riempie quaderni e che le sue radici più che nel Msi stanno nei ragazzi che si ispiravano a Tolkien.
Giulia Masera - Torino
Risposta di Francesco Merlo
Tolkien al governo? La chiamavano "destra fantasy". Nel 1977 organizzò "i campi Hobbit", raduni giovanili che non piacevano ad Almirante. Si ispiravano a una cultura molto confusa, come allora accadeva anche nell'estrema sinistra. E va detto che si piacevano, gli estremisti opposti ma "rivoluzionari".
Inventarono canzoni che si intitolavano La foiba di San Giuliano, Storia di una SS , La ballata del nero, e con mille balzi di immaginazione misero insieme Tolkien, un grande scrittore britannico che solo in Italia è stato annesso dalla destra (non azzardatevi a dirlo a un inglese), con il Lucio Battisti di "guidare a fari spenti nella notte per vedere se poi è così difficile morire", e con Evola, un astruso filosofo filonazista e antisemita che viene citato soprattutto da chi non l'ha letto.
Sicuramente non l'ha letto Giorgia, anche se Evola finisce nei suoi quaderni, sia in quello bianco dove segna le cose che deve "fare" e sia in quello giallo dove segna le cose che deve "dire".
Tra le frasi che eroicamente le suonano di destra, Giorgia attribuisce ad Almirante "Vivi come se tu dovessi morire subito, pensa come se tu non dovessi morire mai", che nei campi Hobbit attribuivano a Evola e altri attribuirono a Moana Pozzi, ma, secondo Stefano Lorenzetto che ha scritto il Dizionario delle citazioni sbagliate , è di Luigi IX (1214-1270), fatto santo, per altre ragioni, da Bonifacio VIII. In quanto a Tolkien bastano i film, peraltro molto belli, anche se meno dei libri. Pietrangelo Buttafuoco, che ha visto Giorgia nascere, le vuole così bene da regalarle qualche lettura.
Ma, per tagliarla corta, la sottocultura di Giorgia è così illiberale che, ora che avrà davvero il potere, accoglierà i trasformisti (che sono già in fila), mentre gli spiriti liberi come Buttafuoco, anche se di destra, saranno i primi a subirne le conseguenze.
Giampiero Mughini per Dagospia il 27 settembre 2022.
Caro Dago, ti confesso che per tutta la durata della campana elettorale mai un momento ho provato un’emozione pari a un centesimo di quella che ho provato vedendo Federer e Nadal che si tenevano la mano e piangevano. Naturalmente ho votato per Calenda/Renzi e che altro potevo fare?, ma - a differenza del mio amico Francesco Merlo - mai un attimo ho sentito che fosse in gioco chissà che del nostro futuro imminente venturo, pur dopo la vittoria di Giorgia Meloni.
E siccome, a differenza di quegli “artisti” semianalfabeti (mi piacerebbe entrare nelle loro case e vedere quali libri stanno nelle loro biblioteche) che stanno declamando qua e là le loro angosce antifasciste, tengo in gran conto i giudizi di Merlo, confesso di essere un po’ sorpreso dalla perentorietà con cui lui accusa la Giorgia Meloni di essere così profondamente “illiberale”. L’ho avuta di fronte non so quante volte e da quando aveva più o meno vent’anni, non mi pareva che quei tratti la marchiassero se non altro generazionalmente.
Perché questo è il punto decisivo confermato da tutto ciò che è accaduto in campagna elettorale. Che quella storia che per molti di noi è stata a lungo sacra, la storia cui appartiene in modo cruciale l’avversatività tra la destra e la sinistra, è una storia morta e sepolta. Era la storia di quando quelli di sinistra tuonavano dalle pagine dell’Unità, di Rinascita, dei Quaderni piacentini, e non come adesso che vanno a fare i loro predicozzi su Tik-tok.
Era la storia di quando in campagna elettorale si facevano sentire tipini come Giovanni Spadolini, Alfredo Reichlin, Claudio Martelli, Antonio Cirino Pomicino, Gianni De Michelis, Pietro Ingrao, Aldo Moro e potrei continuare a lungo, non adesso che (sia detto con rispetto della persona) la Santanché sommerge elettoralmente un avversario che si chiama Carlo Cottarelli, uno dei pochi che sa quello di cui sta parlando quando parla dell’Italia di oggi.
Tutto quello di cui dicevo è morto e sepolto, non è più il tempo in cui vale la pena citare Antonio Gramsci e bensì il tempo in cui fa storia se non leggenda una qualche sortita della (a mio giudizio geniale) Ferragni.
Detto in parole povere. Siamo entrati da tempo nel terzo millennio e ci siamo entrati zoppicando alla grande, incapaci di legge quel che è divenuta la società post industriale, quando la “sinistra” è rappresentata da un astuto avvocato che gira il meridione promettendo reddito di cittadinanza a palate.
Destra, sinistra? Fascismo, antifascismo? Baggianate quando vai al sodo e affronti i problemi reali. Di sicuro c’è solo che quanto a indizi che caratterizzano una società moderna, quelli che riguardano l’Italia sono fra i peggiori d’Europa sia quanto a libri letti sia quanto a milioni di euro evasi fiscalmente. Illiberale o meno, è con questo che dovrà fare i conti il prossimo governo. Compiti che non augurerei al mio peggiore nemico, e sempre che in questa melma che è divenuto il nostro sistema politico riesca a durare più di un paio di stagioni. Tutto qui.
Di NICOLE WINFIELD apnews.com il 27 settembre 2022.
Il partito Fratelli d'Italia ha ottenuto il maggior numero di voti alle elezioni nazionali italiane. Il partito affonda le sue radici nel Movimento Sociale Italiano neofascista del secondo dopoguerra. Giorgia Meloni ha portato Brothers of Italy da un gruppo marginale di estrema destra al più grande partito italiano.
Mantenendo il simbolo più potente del movimento, la fiamma tricolore, Giorgia Meloni ha portato Brothers of Italy da un gruppo marginale di estrema destra al più grande partito italiano.
Un secolo dopo la marcia su Roma di Benito Mussolini del 1922, che portò al potere il dittatore fascista, Meloni è pronta a guidare il primo governo italiano di estrema destra dalla seconda guerra mondiale e la prima donna premier italiana.
COME È INIZIATO IL POST-FASCISMO IN ITALIA?
Il Movimento Sociale Italiano, o MSI, è stato fondato nel 1946 da Giorgio Almirante, capo di stato maggiore dell'ultimo governo di Mussolini. Ha richiamato simpatizzanti e funzionari fascisti nelle sue fila seguendo il ruolo dell'Italia nella guerra, quando era alleata con i nazisti e poi liberata dagli Alleati.
Per tutti gli anni 1950-1980, l'MSI è rimasto un piccolo partito di destra, votando a una cifra. Ma lo storico Paul Ginsborg ha notato che la sua mera sopravvivenza nei decenni successivi alla guerra "servì da costante promemoria del potente richiamo che l'autoritarismo e il nazionalismo potevano ancora esercitare tra gli studenti del sud, i poveri urbani e le classi medio-basse".
Gli anni '90 segnano un cambiamento sotto Gianfranco Fini, il pupillo di Almirante che però proietta un nuovo volto moderato della destra italiana. Quando Fini si candidò a sindaco di Roma nel 1993, vinse un sorprendente 46,9% dei voti, non abbastanza per vincere ma abbastanza per affermarlo come giocatore. Nel giro di un anno Fini aveva ribattezzato il MSI Alleanza Nazionale.
Fu in quegli anni che un giovane Meloni, cresciuto da una madre single in un quartiere popolare di Roma, si unì prima al ramo giovanile del MSI e poi passò alla guida del ramo giovanile di Alleanza Nazionale di Fini.
SIGNIFICA CHE MELONI È NEOFASCISTA?
Fini era perseguitato dalle radici neofasciste del movimento e dalla sua stessa valutazione che Mussolini fosse il "più grande statista" del XX secolo. Ha rinnegato quella dichiarazione e nel 2003 ha visitato il memoriale dell'Olocausto di Yad Vashem in Israele. Lì descrisse le leggi razziali italiane, che limitavano i diritti degli ebrei, come parte del “male assoluto” della guerra.
Anche Meloni aveva elogiato Mussolini in gioventù, ma ha visitato Yad Vashem nel 2009 quando era ministro nell'ultimo governo di Silvio Berlusconi. Scrivendo nel suo libro di memorie del 2021 "Io sono Giorgia", ha descritto l'esperienza come una prova di come "un genocidio accade passo dopo passo, un po' alla volta".
Durante la campagna, Meloni è stata costretta ad affrontare la questione frontalmente, dopo che i Democratici avevano avvertito che rappresentava un pericolo per la democrazia.
"La destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando inequivocabilmente la soppressione della democrazia e le ignominiose leggi antiebraiche", ha detto in un video della campagna.
COME SONO EMERSI I FRATELLI D'ITALIA?
Meloni, che vanta con orgoglio le sue radici come militante dell'MSI, ha affermato che la prima scintilla per la creazione di Fratelli d'Italia è arrivata dopo che Berlusconi si è dimesso da premier nel 2011, costretto a uscire da una crisi finanziaria a causa dell'aumento del debito italiano e dei suoi problemi legali.
Meloni ha rifiutato di sostenere Mario Monti, che è stato scelto dal presidente italiano per cercare di formare un governo tecnocratico per rassicurare i mercati finanziari internazionali. Meloni non sopportava quella che credeva fosse la pressione esterna delle capitali europee per dettare la politica interna italiana.
Meloni ha co-fondato il partito nel 2012, dandogli il nome delle prime parole dell'inno nazionale italiano. "Una nuova festa per una vecchia tradizione", ha scritto Meloni.
Brothers of Italy otterrebbe solo risultati a una cifra nel suo primo decennio. Le elezioni del Parlamento europeo del 2019 hanno portato a Brothers of Italy il 6,4%, una cifra che secondo Meloni "ha cambiato tutto".
Come leader dell'unico partito all'opposizione durante il governo di unità nazionale di Mario Draghi 2021-2022, la sua popolarità è aumentata vertiginosamente, con le elezioni di domenica che hanno segnato il 26%.
MA E IL LOGO DELLA FESTA?
Il partito ha al centro del suo logo la fiamma rossa, bianca e verde dell'originario MSI che è rimasta quando il movimento è diventato Alleanza Nazionale. Sebbene meno evidente del fascio di bastoni, o fasci, che era il simbolo di spicco del Partito Nazionale Fascista di Mussolini, la fiamma tricolore è comunque un'immagine potente che lega l'attuale partito al suo passato.
"I loghi politici sono una forma di branding, non diversa da quelle rivolte ai consumatori", ha affermato il professore della Rutgers University T. Corey Brennan, che ha recentemente scritto "Fasces: A History of Rome's Most Dangerous Political Symbol".
Ha ricordato che quando Almirante fece la sua ultima campagna elettorale del MSI agli elettori nelle elezioni del 1948 a Piazza di Spagna a Roma, mise il simbolo della fiamma del partito sopra l'obelisco e lo illuminò con i riflettori.
"Puoi ricavare quello che vuoi da una fiamma, ma tutti hanno capito che Almirante stava facendo un appello profondamente emotivo per mantenere vivo lo spirito del fascismo", ha detto.
COME LA PENSANO GLI ITALIANI?
In generale, le radici neofasciste del partito sembrano preoccupare più all'estero che all'interno. Alcuni storici spiegano che notando qui una certa amnesia storica e il generale benessere degli italiani nel vivere con le reliquie del fascismo come prova che l'Italia non ha mai veramente ripudiato il Partito Fascista e Mussolini allo stesso modo in cui la Germania ha ripudiato il Nazionalsocialismo e Hitler.
Mentre la Germania ha attraversato un lungo e doloroso processo di fare i conti con il proprio passato, gli italiani per molti versi hanno semplicemente trasformato intenzionalmente la propria cecità.
Lo storico David Kertzer della Brown University osserva che ci sono 67 istituti per lo studio della Resistenza al fascismo in Italia e praticamente nessun centro per lo studio del fascismo italiano.
Inoltre, architetture e monumenti dell'epoca mussoliniana sono ovunque: dal quartiere dell'Eur, a Roma sud, al centro di allenamento olimpico sul fiume Tevere, con il suo obelisco che porta ancora il nome di Mussolini.
La Costituzione italiana vieta la ricostituzione del partito fascista, ma i gruppi di estrema destra mostrano ancora il saluto fascista e continua ad esserci un'accettazione dei simboli fascisti, ha detto il politologo Jason Brennan.
"Non devi cercare granché i segnali", ha detto Brennan in un'intervista telefonica. "un quarto di tutti i tombini di Roma ha ancora il fascio littorio."
SIGNIFICA CHE GLI ITALIANI SOSTENGONO IL FASCISMO?
Se la storia è una guida, una costante delle recenti elezioni politiche è che gli italiani votano per il cambiamento, con il desiderio di qualcosa di nuovo che apparentemente supera l'ideologia politica tradizionale, ha affermato Nathalie Tocci, direttrice dell'Istituto per gli affari internazionali con sede a Roma.
Tocci ha affermato che la popolarità dei Fratelli d'Italia nel 2022 è stata la prova di questa oscillazione "violenta" che riguarda più l'insoddisfazione italiana che qualsiasi ondata di sentimento neofascista o di estrema destra.
"Direi che il motivo principale per cui una grossa fetta di questo - diciamo il 25-30% - voterà per questo partito è semplicemente perché è il nuovo", ha detto.
Meloni parla ancora con riverenza dell'MSI e di Almirante, anche se la sua retorica può cambiare per adattarsi al suo pubblico.
Quest'estate, parlando in perfetto spagnolo, ha tuonato a una manifestazione del partito di estrema destra Vox in Spagna: “Sì alla famiglia naturale. No alla lobby LGBT. Sì all'identità sessuale. No all'ideologia di genere".
Tornata a casa durante la campagna elettorale, ha proiettato un tono molto più moderato e ha fatto appello all'unità nel suo discorso di vittoria lunedì.
"L'Italia ha scelto noi", ha detto. “Non lo tradiremo, come non abbiamo mai fatto”.
Sabrina Sergi ha contribuito a questo rapporto.
Giorgia Meloni, la pragmatica idealista cresciuta nel mito di Almirante e della prima Repubblica. Si può affermare che Fratelli d'Italia si muove in continuità con la storia politica del Movimento Sociale italiano. Paolo Delgado su il Dubbio il 28 settembre 2022.
Almeno rispetto alle giustificate aspettative, non c’è stata nei confronti di Giorgia Meloni una campagna di delegittimazione centrata sulle pur lontane ma innegabili origini neofasciste del suo partito. Non che siano mancati tentativi di metterne in discussione la legittimità democratica, soprattutto da parte del Pd, ma basati sul presente, in particolare sui rapporti con l’ungherese Orbàn, non sul passato. È una constatazione positiva, soprattutto a confronto con la campagna contro il governo gialloverde del 2018, che fu allestita tutta ripescando a man bassa temi novecenteschi, e del resto azzardare parallelismi tra il partito che ha appena vinto le elezioni e quello che un secolo esatto fa marciò su Roma sarebbe ridicolo e privo di qualsiasi ragionevole fondamento.
E tuttavia un rapporto particolare con il passato, diverso da quello di tutti gli altri partiti italiani, Fratelli d’Italia lo mantiene davvero e potrebbe rivelarsi un elemento incisivo nella vera sfida che aspetta Giorgia Meloni sulla scacchiera del consenso: mantenere quello che ha ottenuto ma che non può dirsi conquistato, conservare un favore popolare che nell’Italia dell’ultimo decennio è capriccioso ed effimero, facile a infiammarsi ma anche di più a raffreddarsi. Quel passato però non è il lontanissimo ventennio, è la meno distante prima Repubblica, il Msi di Giorgio Almirante non il Pnf di Benito Mussolini.
È un fatto: tra tutte le forze politiche italiane l’unico che conserva orgogliosamente un rapporto di esplicita discendenza con un partito della prima Repubblica è proprio Fratelli d’Italia e nella notte della vittoria, sia pure in modo obliquo e quasi esoterico, così che capisse solo chi doveva capire, la leader lo ha rivendicato con sincera commozione. Non è solo questione di folklore e neppure di legami emotivi. Il programma di Giorgia somiglia come una goccia d’acqua a quello di Almirante adeguato a tempi molto diversi. Ma forse neppure questo è davvero il nocciolo della continuità. FdI ha mantenuto un certo equilibrio tra ideologia e pragmatica azione quotidiana come era uso comune nella prima Repubblica ed è invece desueto oggi.
Quel che allora era norma appare oggi, a fronte delle disinvolte giravolte abituali per tutti, granitica e mirabile coerenza. Il senso d’appartenenza solido a un’area politica, la destra conclamata, conservatrice e a tratti reazionaria, diventa un modello di solidità radicale quanto gli altri, qualcuno anche a parole ma tutti nei fatti, si affidano a un’identità “né di destra né di sinistra”. È possibile che nel voto rifluito verso Fratelli d’Italia sino a quintuplicarne i consensi, quello stile Prima Repubblica un po’ abbia influito. Se nostalgia c’è stata non riguardava il ventennio ma i decenni successivi.
Il Movimento Sociale italiano è stato a tutti gli effetti un partito della prima Repubblica ma con funzione molto particolare e unica. Era la controparte. Il modello esecrando che, con la sua sola esistenza, permetteva a tutti gli altri di legittimarsi reciprocamente anche grazie a quell’esclusione di una forza molto minore ma non insignificante. C’era l’arco costituzionale e c’era il Msi, partito che fino a quando nel’ 84 Craxi ruppe la consuetudine non veniva neppure consultato dai presidenti incaricati che tentavano di formare i governi. Il Msi era la prima Repubblica, di cui Almirante fu a tutti gli effetti uno dei protagonisti, ma era anche la sua negazione, il che permette oggi di rimpiangere senza dover fare i conti con le tare che pure in quella prima Repubblica non mancavano.
L’eredità si traduce quindi in una sorta di continuità/ discontinuità che trova nel presidenzialismo e nella costruzione di una destra conservatrice ma d’ordine e non di populistica rivolta, i principali cavalli di battaglia di Almirante, la sua forma concreta. Non sono solo disquisizioni lontane dalla realtà terragna. Per conservare e blindare una massa di consensi fluida, che potrebbe tranquillamente abbandonarla già domani, Giorgia Meloni ha già iniziato a scommettere su un metodo “da rima Repubblica”. A differenza di M5S e Lega non vuole presentarsi come forza antisistema ma, al contrario esatto, come forza di trasformazione anche profonda ma interna al sistema.
L’obiettivo è rassicurare, non vellicare la protesta dagli spalti del governo come facevano i partiti del 2018. La prima scelta è stata chiarire che i ministeri nevralgici, Esteri, Interno e Difesa su tutti, saranno concordai col capo dello Stato: non ci dovranno essere collocazioni che farebbero saltare sulla sedia il capo dello Stato e i leader d’Europa, come Salvini all’Interno o Berlusconi alla presidenza del Senato.
La seconda evitare di rimpinguare la sospettosità europea scegliendo per l’Economia un nome che sia per la Bce una garanzia: di qui l’insistenza sul recalcitrante Fabio Panetta, che dovrebbe passare direttamente dal board della Bce a via XX settembre. La terza costruire, intorno alla legge di bilancio ‘ scritta a quattro mani’ un filo di continuità, quasi un armonioso passaggio delle consegne, con il governo Draghi. È un metodo opposto a quello adoperato sin qui dai populismi europei ed è un metodo ereditato dalla Prima Repubblica. Se Giorgia vincerà la commessa blinderà i consensi ricevuti. In caso contrario finiranno presto per svolazzare verso altri lidi.
Patria, matrice e zucchine di mare: autoritratto di Giorgia Meloni in cento frasi. Le devianze. Bibbiano. Lo sfottò ai partigiani. La passione per autocrati come Putin e Orban. Il reato di tortura, l'uscita dall'euro. A pochi giorni dal voto, ripercorriamo dieci anni di dichiarazioni della leader di Fratelli d’Italia. Wil Nonleggerlo su L'Espresso il 22 Settembre 2022.
Mancano pochi giorni al voto e la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni è pronta a prendersi Palazzo Chigi: il momento opportuno per classificare le 100 dichiarazioni meloniane più incredibili degli ultimi 10 anni. Non solo epic fail, tweet spariti ed intolleranze di vario genere, vedi i Pearl Jam ed Elton John, ma pure delle chicche come l'amore per Frodo, per gli angeli, per le chat di fine anni '90. Insomma, un ritratto della futura premier* attraverso un decennio di virgolettati. Siete pronti?
1. Indimenticabile
“SE SEI NOMADE... DEVI NOMADARE”
(Giorgia Meloni su Facebook – 28 aprile 2015)
2. Senza reato di tortura si lavora meglio
“Difendiamo chi ci difende: abbiamo presentato due proposte di legge per aumentare le pene a chi aggredisce un pubblico ufficiale e per abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”
(Tweet cancellato – 12 luglio 2018)
3. Yo soy
“Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy italiana, soy cristiana!”
(L’intervento-culto della leader Fdi dal palco del partito di estrema destra iberica Vox – 9 ottobre 2021)
4. Sfottere i partigiani
“O Parmigiano, portami via”, scrive su Facebook Giorgia Meloni. La leader Fdi, immortalata fra i celebri formaggi reggiani, ha voluto postare l'immagine accompagnandola a una personale rivisitazione di 'Bella Ciao' in cui, al posto del partigiano morto per la libertà, figura appunto il formaggio italiano per eccellenza
(Adnkronos – 20 novembre 2018)
5. Buono a sapersi
“Ho un rapporto sereno con il fascismo”, disse Meloni
(Paolo Berizzi su La Repubblica – 23 luglio 2022)
6. Per l'Italia, il modello Orban
“I patrioti europei festeggiano la conferma di Viktor Orbn alla guida dell'Ungheria. Difesa dell'identità, lotta all'islamizzazione forzata, contrasto alla speculazione finanziaria e al globalismo: è il modello che Fratelli d'Italia vuole seguire anche in Italia”
(Ansa – 9 aprile 2018)
7. Se tuo figlio fosse gay?
“Preferirei di no, ma lo amerei alla stessa maniera”
Meglio gay o di sinistra?
“Meglio nessuno dei due”
(Le Iene, Italia 1, intervista doppia – 21 febbraio 2016)
8. Richard Gere in cerca di visibilità
“Ma quanto può essere credibile una Nazione nella quale si consente a un attore in cerca di visibilità di testimoniare contro un ex Ministro della Repubblica (Salvini, ndr) deridendo le nostre Istituzioni? Siamo veramente oltre il limite della decenza”
(Twitter – 24 ottobre 2021)
9. Gender? Bo
Ddl Zan, Meloni: “Lasciare da parte materie come il gender. Che cos’è il gender? Ah, guardi, io non l’ho mai capito bene”
(Fatto Quotidiano – 7 maggio 2021)
10. Nessuno come Benito
Una giovanissima Giorgia Meloni alla tv francese: “Penso che Mussolini fosse un buon politico. Tutto quello che ha fatto, l’ha fatto per l’Italia. Non ci sono stati altri politici come lui negli ultimi 50 anni”
(Fanpage.it sul video del 1996 rilanciato da Loopsider – 16 agosto 2022)11. Selfie con Orban
“Con il primo ministro ungherese Viktor Orbán, vista Danubio. Tra #patrioti europei ci si intende subito alla grande”
(Twitter – 28 febbraio 2018)
12. Il video dello stupro
Meloni posta il video dello stupro di Piacenza, esplode la polemica. La notizia finisce sui siti internazionali. Letta: “Indecente”. Lei replica: “Bieca propaganda”. La vittima: “Sono disperata, mi hanno riconosciuta da quel video”. Meloni: “Non ho ragione di scusarmi”
(La Stampa, Fatto Quotidiano e Corriere.it – 22 e 23 agosto 2022)
13. Indottrinamento
“I simboli sacri si rispettano sempre! Dire che Babbo Natale è gay, la fatina di Cenerentola è gay, Superman è gay, Batman è gay, è indottrinamento!”
(Atreju – 12 dicembre 2021)
14. L'ubriacone
Gaffe di Giorgia Meloni: “Juncker ubriacone”. Ma lui ha la sciatica
(Adnkronos – 13 luglio 2018)
15. Abbasso i Pearl Jam
“Diamo ascolto ai Pearl Jam: andiamo a prendere i barconi degli immigrati e portiamoli al party esclusivo degli stessi Pearl Jam organizzato nei prossimi giorni in Costa Smeralda!”
(Su Twitter, commentando Rolling Stone: “Pearl Jam, a Roma una cover di Imagine per i migranti: 'Aprite i porti'” – 28 giugno 2018)
16. Abbasso John Lennon
“Beh, Imagine non è una canzone il cui testo mi appassiona, insomma. Dice che non ci siano le religioni, che non ci siano le nazioni. È l’inno dell’omologazione mondialista (...). Se uno, diciamo, non capisse l’inglese e non sentisse il testo, la canzone è fantastica”
(In Onda, La7 – 21 luglio 2020)
17. Ad personam
“Le leggi ad personam di Berlusconi sono perfettamente giuste!”. Parola di Giorgia Meloni. Avevate dimenticato?
(Movimento 5 Stelle, Facebook – 8 maggio 2020)
18. Come Frodo
“Azione giovani? Mi candidai non perché volessi emergere, ma un po’ alla Frodo. Sì, Frodo Baggins del Signore degli Anelli, quando dice: 'Lo porto io l’anello'. Non lo fa per sé, ma perché pensa di dover fare la sua parte”
(La Verità – 5 ottobre 2020)
19. Affondiamola!
Meloni torna alla carica: “Subito il blocco navale e affondiamo la Sea Watch”
(Il Giornale – 3 luglio 2019)
20. La svolta conservatrice
“Il frastuono della guerra ha fatto cascare il castello di sabbia della narrazione progressista. Ora più che mai serve una svolta conservatrice per tornare ad affrontare la realtà”
(Twitter – 29 marzo 2022)
21. Covid e temporali
“Le possibilità che un ragazzo muoia di Covid sono le stesse che uno muoia colpito da un fulmine”, ha detto la leader di Fdi. Immediate le reazioni dei virologi: “Onorevole, è libera di non vaccinare sua figlia ma non di fare disinformazione”
(Il Riformista – 8 febbraio 2022)
22. Precauzioni
Coronavirus, Meloni saluta col piede il conduttore di “Un giorno da pecora”
(Ansa – 5 marzo 2020)
23. Pagliacci! Servi! Ridic... ops
La Meloni scambia i contestatori della destra No Vax coi centri sociali e li insulta dal palco. A Torino, la leader di FdI ha inveito contro un gruppo di manifestanti che disturbava il suo comizio. “Pagliacci, ridicoli, servi bianchi del sistema, la Lamorgese dovrebbe sgomberarvi”. Peccato non fossero squatter, ma ex militanti meloniani che le rimproverano 'il tradimento' sul green pass”
(Il Foglio – 24 settembre 2021)
24. Il girato
Soldi in nero, saluti romani, “Heil Hitler”: l’inchiesta giornalistica di Fanpage fa tremare Fratelli d’Italia. La replica di Meloni: “Era tutto studiato scientificamente, a tavolino, non da Fanpage ma da un intero circuito, un circo. Guarda caso esce a due giorni dal voto, ma che strana coincidenza”; “Ho chiesto al direttore di Fanpage di fornirmi tutte le 100 ore di girato”
(Rolling Stone – 1 ottobre 2021)
25. La matrice: fascista, non fascista, boh
Giorgia Meloni dice di non conoscere la matrice dell’assalto alla sede romana della CGIL, nonostante durante gli scontri di Roma siano stati arrestati anche Roberto Fiore e Giuliano Castellini, di Forza Nuova: “È sicuramente violenza e squadrismo, poi la matrice non la conosco. Nel senso che non so quale fosse la matrice di questa manifestazione, sarà fascista, non sarà fascista, non è questo il punto”
(Giorgia Meloni dal palco di Vox; Il Post – 11 ottobre 2021)
26. Sì
“E che ti pare che voti quando c’è la pandemia?, e che ti pare che voti quando c’è la guera?, e che ti pare che voti quando sale lo spread?, e che ti pare che voti se se lasciano Totti e Ilary?”
(Comizio a Palombara Sabina – 15 luglio 2022)
27. Il 25 aprile non si festeggia
“Il 25 aprile è divisivo”. Meloni chiede che la festa nazionale sia il 4 novembre. A cento anni dalla vittoria nella Grande Guerra, “Non passa lo straniero” è un motto ancora attuale per Fratelli d'Italia
(Agi – 31 ottobre 2018)
28. La Baby sitter
“Ancora con questa storia che ho fatto la baby sitter alla figlia di Fiorello? È una cosa abbastanza personale e non mi va di parlarne. Quelle sere con Olivia mi sembrano una vita fa. La pappa, i cartoni, la nanna... Io già militavo, ci stavo dentro fino al collo. Ma con Olivia no, di politica non parlavo! Aveva 4 anni. Giocavamo col Lego, non con le Barbie perché io le detesto. E poi guardavamo i cartoni. Cenerentola? Orribile, mettitela te la scarpina di vetro! Io odio il rosa, le principesse e tutta quella roba lì. Poi c'era Pocahontas, altra storia diseducativa dove la protagonista si innamora del conquistatore, mentre io sono per l'autodeterminazione dei popoli”
(Corriere della Sera – 17 gennaio 2013)
29. Alcuni anni dopo, Berlusconi
“Bella riconoscenza, l’ho pure fatta ministro... Ma bisognava aspettarselo: l’unico lavoro che ha fatto nella vita è stata la babysitter a casa di Fiorello”
(Il Corriere della Sera e la faida elettorale romana Meloni/Bertolaso – 17 marzo 2016)
30. Zucchine di mare-gate
Meloni vuole attaccare Macron, ma il videomessaggio è da ridere: “Ci deve dire lui il diametro delle zucchine di mare”
(Fatto Quotidiano – 3 maggio 2019)
31. No Mask
“Una follia la mascherina per votare...”, la gaffe di Giorgia Meloni: scopre al seggio che non è obbligatoria
(Open – 12 giugno 2022)
32. No soy una cozza
“Ogni volta che esce un manifesto con una foto decente tutti a dire che è ritoccata... è ufficiale: il mondo mi considera una cozza... @-@...”; “Adesso basta con le idiozie. Una bella foto non è una foto ritoccata. Cosa avrei ritoccato? Cosa non è mio?”
(Twitter – 8 aprile 2014)
33. Geo fail
Gaffe di Giorgia Meloni a Otto e mezzo: “Certo che sono stata in Inghilterra, sono stata a Dublino...”
(Adnkronos – 26 giugno 2016)
34. Ghost
La Meloni impasta il vaso di ceramica come Demi Moore in Ghost. I fan (seri): “Sei uguale”
(HuffPost – 27 ottobre 2019)
34. La pulce
“I giornali dicono che Berlusconi mi avrebbe definita 'pulce'. Essere paragonata a Leo Messi da un grande uomo di calcio è una soddisfazione”
(Twitter – 14 aprile 2015)
35. Meloni lancia “Italia Sovrana”
“Vogliamo lo scioglimento concordato e controllato della zona Euro. Vogliamo tornare ad essere padroni a casa nostra”
(Qn – 29 gennaio 2017)
36. Prendiamoli dal Venezuela
“In Venezuela ci sono milioni di persone che stanno morendo di fame. Sono cristiani, sono spesso di origine italiana. lo dico: ci servono immigrati? Prendiamoli in Venezuela”. Così parlava Giorgia Meloni nel comizio di chiusura dell’edizione di Atreju del 2018, sostenendo l’esigenza di privilegiare un’immigrazione più vicina “alla nostra cultura”
(Fatto Quotidiano – 25 agosto 2022)
37. E i marò?
“Nel 'presepe partecipato' di Fratelli d'Italia-Alleanza Nazionale realizzato insieme ai cittadini anche i nostri due marò”
(Facebook – 22 dicembre 2015)
38. La sostituzione etnica
Ius soli, Meloni riunisce la destra contro la legge: “Atto di sostituzione etnica”
(RepTv – 20 giugno 2017)
39. Matrimonio gay
“No al matrimonio tra persone dello stesso sesso: sarebbe una spesa enorme per lo Stato e una inaccettabile apertura alle adozioni gay”
(Ansa – 26 maggio 2015)
40. Elton John
Il Ddl Cirinnà è una “legge ridicola”, un “cavallo di troia”, un provvedimento “ipocrita, perché è solo per i ricchi e consente alle coppie di gay di andare all’estero e comprarsi un figlio. È una legge per Elton John”
(Secolo d’Italia – 28 gennaio 2016)
41. W Trump
“Donald Trump conquista la clamorosa vittoria alle presidenziali americane. Il popolo che si ribella all'establishment politico, economico e mediatico da troppo tempo asservito agli interessi dei grandi gruppi di potere e sempre più lontano dalle reali esigenze della gente comune”
(Facebook – 9 novembre 2016)
42. W Putin
“Complimenti a Vladimir Putin per la sua quarta elezione a presidente della Federazione russa. La volontà del popolo in queste elezioni russe appare inequivocabile”
(Facebook – 18 marzo 2018)
43, 44. Giorgia Meloni a Bibbiano
“Mentre nelle favole ci sono gli orchi che rubano i bambini per mangiarli, qui sembrerebbe che ci fossero degli orchi che rubavano i bambini per mangiarci sopra”
(Affaritaliani.it – 5 luglio 2019)
Il cartello con cui Giorgia Meloni dice che è stata la prima ad arrivare e l’ultima ad andarsene da Bibbiano. Continua la strumentalizzazione politica
(Giornalettismo – 19 gennaio 2020)
45. Congiuntivi
“Non so cos’altro SERVI per dire che tutto questo è stato fallimentare...”
(Rispondendo alle domande di alcuni giornalisti prima di salire sul palco di “Piazza Italia”, a Roma – 20 luglio 2022)
46. Elsa di Frozen lesbica?
“BASTA! Ci avete stufato! Giù le mani dai bambini”
(Facebook – 2 marzo 2018)
47. Almirante
La promessa della Meloni: “Se sarò eletta sindaco intitolerò una strada di Roma ad Almirante”
(La Stampa – 22 maggio 2016)
47. Con CasaPound stiamo sereni
Giorgia Meloni: “I neofascisti? Lavorano bene, coi loro voti si vince”
Per vincere dovrete chiedere i voti a CasaPound che sul litorale romano ha preso il 9%. Chi sono per voi i “fascisti del terzo millennio”? Potenziali alleati?
“Sono uno dei nostri tanti competitor. Siamo cose diverse e con loro abbiamo un rapporto sereno. Hanno fatto una buona campagna elettorale in un territorio dove sono radicati. Guardiamo con interesse ai loro elettori per questo ballottaggio”
(La Repubblica Roma – 7 novembre 2017)
48. Nuovo risorgimento
“Se riusciremo in quello che abbiamo in mente di fare, beh, vi garantisco che trasformeremo questa epoca infame in un nuovo risorgimento italiano”
(Dalla conferenza programmatica Fdi – 29 aprile)
49. La draghetta: da Forza Lazio a Forza Ro...
Il voltafaccia della romanista Giorgia Meloni, quando da ragazza urlava: “Sono lazialissima”. La leader di Fratelli d'Italia si è sempre professata giallorossa. Ma nelle chat di fine anni '90, quando si faceva chiamare 'draghetta', era un'aquilotta sfegatata
(La Repubblica Roma – 29 luglio)
50. Epic fail
“Ecco il nuovo super aereo voluto da Renzi. Con 200 milioni si poteva almeno mettere il tricolore nel verso giusto”. L’Aeronautica chiarisce: “Si tratta di una convenzione aeronautica che parte dal fatto di considerare la prua del velivolo come il pennone a cui è appesa la bandiera”
(Tweet cancellato – 5 marzo 2016)
51. Nana e Orso
Crosetto: “Nana malefica, sei la mia stalker personale!”. Meloni: “Io e te come Masha e Orso”
(Agenzia Vista, dal secondo congresso Fdi – 3 Dicembre 2017)
52. La rivoluzione del presepe
“Io faccio degli stupendi alberi di Natale, sono cintura nera di albero di Natale. E invece quest'anno cambio tutto. Da quest'anno da alberista divento presepista. Ho deciso di fare il presepe quando non lo fa più nessuno, ho deciso di fare il presepe quando nelle scuole non si può fare perché dicono che offende chi crede in un'altra cultura (...). E allora fate il presepe, fate il presepe insieme a me! Quest’anno prendete il pastorello, e facciamo la rivoluzione del presepe!”
(Facebook – 14 dicembre 2017)
53. No alle Magliette rosse per i migranti, sì a Vuitton
“La maglia rossa ce l’ho! Ora mi mancano solo un Rolex e un attico a New York e posso pontificare anche io sull’immigrazione come i radical chic. #maglietterosse”.
(L'utente @il_Bintar, su Twitter, risponde a Meloni pubblicando una foto della deputata in Parlamento: “Rolex è radical chic, borsa Louis Vuitton è popolo” – 7 luglio 2018)
54. Ridacce la Gioconda
“Emmanuel Macron invita Saviano all'Eliseo. Macron, tieniti Saviano e dacci indietro la Gioconda”
(Twitter – 6 ottobre 2018)
55. Sbagliare piano
Parlamento, la gaffe di Giorgia Meloni: accusa i 5 Stelle di assenteismo, ma sbaglia piano. La leader Fdi pubblica una foto del Transatlantico vuoto, ma le risponde il deputato M5s Paolo Giuliodori: “Se vuoi lavorare ci trovi al quarto piano di Montecitorio nelle varie commissioni”
(TgCom24 – 21 novembre 2019)
56. Interrogativi
“Oggi compio 42 anni. Secondo voi come li porto? ”
(Facebook – 15 gennaio 2019)
56. La formazione
“Mi sono formata su Il Signore degli Anelli di Tolkien, una straordinaria metafora sul potere che corrompe l’uomo: cerco di prendere le contromisure necessarie per impedire che quell’anello si impossessi di me”
(La Verità – 24 maggio 2021)
57. Pesce d'aprile
“Fabio Fazio è un conduttore imparziale e con la schiena dritta. #1aprile? ”
(Twitter – 1 aprile 2019)
58. “L’ultima vergogna dell’amministrazione grillina”
“Il comune di Roma ha cancellato la storica scritta del 1948 'Vota Garibaldi'. Dopo gli ultimi deliri per vietare una via ad Almirante e cancellare quelle intitolate a 'esponenti' del ventennio, forse la Raggi avrà scambiato #Garibaldi per un fascista...”
(Twitter – 14 marzo 2019)
59. Lo scopettino per water di Donald Trump a 6 euro
“Cosa sarebbe accaduto se lo avessero fatto con Obama, Hilary Clinton, la Merkel o Macron? Scommetto che sarebbe successo un finimondo. La vergognosa doppia morale dei buonisti”
(Twitter – 14 luglio 2019)
60. Leonardo Da Vinci
“A #Vinci, luogo di nascita di uno dei più grandi geni al mondo, per ribadire un concetto banale ai francesi e ai vari anti-italiani: #Leonardo da Vinci era ITALIANO!
”
(Il tweet di Giorgia Meloni contro Rai 1, colpevole di aver definito Leonardo un “genio italo-francese” – 4 maggio 2019)
61, Giorgia e Viktor
Meloni: “La legge anti-Lgbt di Orban? Non la conosco, ma per lui le porte sono aperte”
(EuropaToday – 24 giugno 2021)
62. Il regime siamo noi
“Quella su Orban è una grande fake news, segnalo sommessamente che in Ungheria c’è un parlamento eletto, c’è un primo ministro eletto e riconfermato con un consenso molto importante, che la costituzione ungherese prevede di dichiarare lo stato d’emergenza. Qui invece #Conte sta gestendo l’emergenza a colpi di decreti, limitando le libertà fondamentali degli italiani, e a differenza di #Orban non è nemmeno stato scelto dai cittadini”
(Fuori dal Coro, Rete 4 – 1 aprile)
63. Barbapapà
Crisi di governo, nel corso del suo intervento alla Camera Giorgia Meloni attacca Conte paragonandolo a Barbapapà
(RepTv – 18 gennaio 2021)
64. Lì, insomma
Giorgia Meloni confonde Slovacchia con Slovenia in diretta su La7. Viene corretta e lei commenta: “Sì, vabbè”
(Fatto Quotidiano – 19 novembre 2020)
65. Giorgia e gli angeli
La conduttrice: “Giorgia, nel tuo libro ci sono anche tanti passaggi sulla vita privata. Uno in particolare mi ha colpito molto: Giorgia e gli angeli. Scrivi: 'Credo fermamente che gli angeli si manifestino con chiarezza nella vita di tutti noi. Con il mio angelo custode parlo sempre'. Mi sembra molto bella questa cosa di Giorgia Meloni che si rivolge all’angelo custode. Qual è l’ultimo consiglio che le ha dato?”. Meloni: “Non amo parlarne, si rischia sempre di scadere nella new age... però io cerco sempre di guardare verso l’alto. Ho un rapporto molto forte con la mia dimensione alta”
(Stasera Italia, Rete 4 – 27 maggio 2021)
66. Come il metadone
“Il reddito di cittadinanza è una misura cretina e fatta male, è come il metadone per i tossicodipendenti, va abolito”
(Giorgia Meloni durante la presentazione di un suo libro, a Napoli – 29 luglio 2021)
67. Punkabbestia e matrimoni misti
“#M5S diffonde fake news sul congresso @wcfverona, sostenendo che sia contro la libertà delle donne. Dichiarazioni ridicole senza alcun riscontro. Loro invece sono per la droga libera, la propaganda gender, i matrimoni misti: praticamente una comitiva di #punkabbestia al Governo”
(Twitter – 18 marzo 2019)
68. Berlusconi Capo dello Stato
Meloni al Salone della Giustizia: “Berlusconi al Colle e capo del Csm? Sarebbe un fatto epocale”
(Secolo d'Italia – 28 ottobre 2021)
69. In sua difesa, Lucio Malan...
Giorgia Meloni, la frase su migranti e vaccino pronunciata in tv fa discutere: “Io devo vaccinare mia figlia, di cinque anni, con un vaccino che non ha terminato la sperimentazione, per consentire agli immigrati di sbarcare illegalmente in Italia?”. La difesa di Malan
(Corriere.it – 9 novembre 2021)
70. Gattolicesimo
Ed è già campagna elettorale: Giorgia coccola i gatti e conquista i “gattolici”. La Meloni alla mostra felina: “Anch’io ho due mici, mi piacciono perché vogliono un rapporto paritario”. Una abile mossa visto l’amore degli italiani per gli animali: “Al momento ho due gatti e sei pesci rossi”
(Libero – 22 novembre 2021)
71. La sinistra, le palestre, le piscine
“I risultati dei provvedimenti presi dal Governo nei mesi scorsi sono sotto gli occhi di tutti (…), perseverano sulla strada della repressione delle libertà scegliendo di colpire le solite categorie odiate dalla sinistra: ristoratori, albergatori, palestre e piscine”
(Twitter – 30 dicembre 2021)
72. Letizia Moratti Presidente della Repubblica
“Anche Letizia Moratti è stata ministro, come Einaudi, Segni, Saragat, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano, e segnatamente ministro dell’Istruzione come Sergio Mattarella”
(Conferenza stampa – 25 gennaio 2022)
73. Il Parmesan
“Preoccupata da Marchini? Noi siamo il parmigiano, loro il Parmesan. Puoi spendere dieci milioni di euro ma la gente capisce la differenza tra l’originale e il clone. Con il Parmesan al massimo ci freghi i tedeschi”
(Libero – 7 marzo 2016)
74. MMMM
Fdi, Meloni lancia 4 priorità: “Mamma, mare, merito e marchio”
(Adnkronos – 29 aprile 2022)
75. Non poteva mancare
“Il successo di Marine Le Pen in Francia è solo il preludio a quello che succederà anche in Italia e in tutta Europa. La rivolta del popolo che si sente tradito da questa Europa, che dice basta all'euro e si riprende i propri diritti e la propria sovranità”
(Ansa – 24 marzo 2014)
76. Li-be-ra-zio-ne
“La libertà non è un ricordo, è una battaglia quotidiana. Difendere la libertà significa battersi, oggi, affinché nessuno venga tenuto ai margini della società per delle restrizioni illogiche. Viva la libertà, ora”
(Su Twitter, nel giorno della Festa della Liberazione, non della “libertà” – 25 aprile 2022)
77. Come mai gli elettori di Fdi sono i più complottisti?
Risposta: “Chi sceglie Fratelli d’Italia fa una scelta di cuore e di cervello, più che di pancia. Il nostro è un elettorato molto maturo, dotato di spirito critico e che diffida dall’informazione mainstream...”
(Libero – 25 aprile)
78. Adrenalina a mille
“È scritto nero su bianco sul test del Dna che ho appena fatto: ho i valori massimi di adrenalina e dopamina, fondamentali per l’eccellenza e la resistenza, ma minimi di serotonina, che permette l’adattamento. È come se non fossi mai serena, come se volessi stare sempre in un altro posto...”
(Sette, Corriere della Sera – 11 giugno 2022)
79. L'abisso della morte
“Letta dice: 'Penserò a costruire una proposta di futuro che è l’opposto dei sì e dei no detti da Meloni in Andalusia' (davanti alla platea di estrema destra di Vox, ndr). Grazie Enrico, è un bene che gli italiani siano informati sui vostri piani per il futuro della Nazione. Letta dice:
❌
NO al lavoro della nostra gente;
NO a confini sicuri;
NO alla cultura della vita.
✅
SÌ alla grande finanza internazionale;
SÌ all’immigrazione incontrollata;
SÌ all’abisso della morte”
(Twitter – 17 giugno 2022)
80. Le devianze
Vogliamo “investire sui giovani, coltivare il talento, combattere le droghe, le devianze, crescere generazioni di nuovi italiani sani e determinati”. “Istituiremo borse di studio per meriti sportivi: quanti nuovi Francesco Totti, quanti piccoli Juri Chechi, quanti fratelli Abbagnale ci siamo persi in questi anni, quanti di loro sono finiti inghiottiti dalle devianze?”
(Facebook – 22 agosto 2022)
81. Devianze giovanili per Fdi: droga, alcolismo, ludopatia, autolesionismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori
Sui social Fratelli d’Italia inserisce anoressia e obesità tra le “devianze giovanili”. Meloni deve intervenire per correggere la linea
(Fatto Quotidiano – 22 agosto 2022)
82. O cho ko
Un tiktoker corregge la Meloni che parla in giapponese: “La frase che ha detto non vuol dire nulla”. Aveva detto “Così, come i giapponesi. O cho ko” (?!)
(Fanpage.it – 6 settembre 2022)
83. Morra cinese
Meloni senza freni: “Nella morra cinese della sinistra, clandestino batte donna violentata”
(Repubblica.it – 2 settembre 2022)
84. Ah
Giorgia Meloni: “Se vinciamo le elezioni, Mattarella non può non darmi l'incarico”
(Agi – 28 agosto 2022)
85. “O si dice sì, o si dice no” (urlando quanto segue)
“Sì alla famiglia naturale, no alla lobby LGBT! Sì all’identità sessuale, no all’ideologia gender! Sì alla cultura della vita. No all’abisso della morte! Sì all’universalità della Croce. No alla violenza dell’Islamismo! Sì ai confini sicuri. No all’immigrazione di massa! Sì al lavoro della nostra gente. No alla grande finanza internazionale!… Viva la Spagna! Viva l’Italia! Viva l’Europa dei patrioti!”
(Dal Comizio di Vox a Marbella – 13 giugno 2022)
86. L'affetto per Saviano
Giorgia Meloni: “Non so se ammazzare Roberto Saviano sia una priorità della camorra”
(HuffPost – 22 giugno 2018)
87. “Due mamme? Meloni vuole censurare Peppa Pig”
CROCIATE. La leader di Fratelli d'Italia un tempo apprezzava la maialina, tanto da fare autoironia sul suo vestito rosa. Ma adesso il suo partito insorge contro un episodio della settima stagione del cartone animato in cui c'è una famiglia arcobaleno. E gridando alla propaganda gender chiede alla Rai di censurarlo
(Il Manifesto – 10 settembre 2022)
88. La realtà italiana
“Non possiamo dire che oggi, nella realtà italiana, gli omosessuali siano discriminati”
(La Stampa – 16 luglio 2020)
89. Fuori dall'euro
“Lo diciamo alla sorda Germania: L'Italia deve uscire dall'Euro!”
(Congresso del partito a Fiuggi; Rainews – 8 marzo 2014)
90. Ruby ter
“Piena solidarietà e vicinanza a Silvio Berlusconi, vittima di un accanimento giudiziario senza precedenti. Siamo convinti che anche questa volta saprà dimostrare la sua estraneità ai fatti contestati”
(Nota ufficiale di Giorgia Meloni – 25 maggio 2022)
91. Povero Dudù
“Dudù sì, l'ho visto, e qualcuno l'ha anche schiacciato, forse Salvini mentre facevamo la foto, ma forse sbaglio, non me lo ricordo. Mi ricordo solo il povero 'cai cai' di Dudù...”
(Un Giorno da Pecora, Rai Radio 1 – 10 gennaio 2018)
92. Caio Giulio Cesare Mussolini
“È un vero piacere ufficializzare la candidatura di Caio Giulio Cesare Mussolini con Fratelli d'Italia per le elezioni europee del 26 maggio. Il suo curriculum parla da sé: professionista, militare e patriota”
(Ansa – 7 aprile 2019)
93. La grazia a Mr. B
“Penso che Napolitano avrebbe fatto bene se avesse scelto di dare la grazia a Berlusconi, ma non so se sia stata chiesta”
(Ansa – 28 aprile 2014)
94. Rankare le dittature
“Buon 9 novembre all'Europa che 30 anni fa rinasceva sulle macerie della più spietata dittatura di tutti i tempi: il comunismo”
(Facebook – 9 novembre 2019)
95. Mamma li turchi
“Erdogan minaccia espulsione 100 mila armeni? #Ue rispedisca indietro milioni di turchi che vivono in Ue”
(Twitter – 15 aprile 2015)
96. Dopo il caso Desiree Mariottini
“Per Fratelli d'Italia ci vogliono i blindati, la polizia in strada, tolleranza zero per chi delinque e per l'immigrazione clandestina, la castrazione chimica per pedofili e stupratori”
(Ansa – 26 ottobre 2018)
97. Vittorio Feltri
“Ammetto di aver cambiato idea su Giorgia Meloni: è successo quando mi sono innamorato di lei. Quando la sento parlare in tv dice quello che io avrei detto domani”
(Ansa – 16 maggio 2022)
98. Mattarella bis? Matteo, fai sul serio?
“Salvini propone di andare tutti a pregare Mattarella di fare un altro mandato da Presidente della Repubblica. Non voglio crederci”
(Twitter – 29 gennaio 2022)
99. Pare Letta
“Mayday! L'auto è morta in autostrada! Ora il carro attrezzi mi scarica a Forano . Ore 2! Per caso qualcuno è da queste parti e va a Roma? ”
(Twitter – 4 settembre 2015)
100. Cin cin
“Rifondare il centrodestra partendo dai valori... Etilici. :) @matteosalvinimi”
(Giorgia Meloni si selfa con Matteo Salvini, cocktaillazzi alla mano – 20 settembre 2014)
Analisi di un successo. Chi è Giorgia Meloni, machista e materna che piace a uomini e donne. Lea Melandri su Il Riformista il 23 Settembre 2022
Se Giorgia Meloni dovesse diventare realmente presidente del Consiglio, dovremmo chiederci innanzi tutto la ragione per cui ha ottenuto un così ampio consenso presso uomini e anche donne, purtroppo. Il “familismo” italico è ancora fortemente radicato, tanto da poter essere visto come uno dei fondamenti del vivere sociale. All’interno, dominante è la figura della donna-madre, forte del suo potere di indispensabilità alla famiglia – cura di figli, malati, anziani e uomini in perfetta salute, ma abituati a delegare alla donna cura e lavoro domestico. Giorgia Meloni, non ha solo rivendicato spesso il suo ruolo materno, la sua contrarietà all’aborto, la sua più volte conclamata preoccupazione per la denatalità nel nostro Paese, ma si presenta come una specie di ibrido, mescolanza di tratti femminili e virili, fisico aggraziato e aggressività, un machismo temprato da astuzia femminile.
Per molti uomini, vissuti all’ombra di madri spesso più forti e combattive dei padri, è una figura familiare che non sentono come competitiva, che non minaccia il loro potere, perché dimostra di averlo assorbito senza alcuna critica o presa di distanza. Tutto sommato, un duplicato che, sia per ragioni diverse – di rivalsa, uscita dalla posizione di vittime -, piace e rassicura anche le donne. La sua presenza a capo della coalizione di destra non è stata vista come una svalutazione, ma quasi un valore aggiunto. La sua tenacia e grintosità hanno avuto il sopravvento sui leader di sesso maschile, in evidente crisi di credibilità, e in quanto donna, con una visione del mondo tutta interna alla cultura patriarcale, li ha in qualche modo legittimati. Possono vantare una rara presenza femminile ai vertici del potere, senza averne un danno di ritorno. Nella campagna elettorale, ma anche nell’ascesa sorprendente del suo partito, ha contato sicuramente per Giorgia Meloni il fatto di essere una donna, ma una donna capace di comando, convinzioni forti, aggressività nel contrastare i nemici politici. Ha curato sempre le sue apparenze femminili nel vestire, quanto la risolutezza nei suoi interventi pubblici, una modalità di comunicazione a volte persino violenta.
Rossana Rossanda ha detto una volta che le donne possono essere “reazionarie o rivoltose, raramente democratiche”. Mi viene da dire che il successo di Giorgia Meloni, ma anche il pericolo che rappresenta per il nostro Paese già in fase di democraticità vacillante, sta nell’accoppiata di entrambi questi elementi. Ci si può chiedere perché non c’è stata una forte reazione da parte delle donne a una destra che minaccia conquiste e diritti raggiunti con fatica. Purtroppo in Italia il femminismo, fin dai suoi inizi negli anni Settanta è stato non solo ostacolato ma osteggiato da quelle stesse forze politiche – penso in particolare ai gruppi extraparlamentari – che avrebbero dovuto esserne potenziati e arricchiti. È vero che, nella sua radicalità, nelle sue anomale pratiche politiche, quali l’autocoscienza e la pratica dell’inconscio, nel suo tentativo di riportare alla cultura tutto ciò che è stato così a lungo considerato “non politico” – la sessualità, la storia personale, la maternità , la cura ecc. -, si capì subito che non era un complemento della “cultura altra”, neppure di quella marxista che parlava di lotta di classe e rivoluzione, ma una cultura antagonista, che la metteva in discussione.
Rappresentò allora, e si può dire ancora oggi, il sintomo della crisi della politica e insieme l’embrione di una sua necessaria ridefinizione. C’è un tratto anti-istituzionale nel movimento delle donne in Italia che ho ritrovato in tutte le “maree” di nuove generazioni incontrate nel mio lungo percorso femminista, e che è presente marcatamente oggi anche nella rete Non Una Di Meno. Non so quanto questo abbia contribuito a far sì che le questioni di genere siano quasi del tutto assenti dal dibattito pubblico, e persino nella produzione di intellettuali e politici di sinistra. Negli stessi movimenti, antirazzisti, ambientalisti, ecologisti, anticapitalisti, benché abbiano al loro interno una forte presenza femminile e femminista, le problematiche più specificamente legate al sessismo raramente vengono nominate. Sicuramente ciò ha anche a che fare con il familismo di cui parlavo prima, con un’idea di “normalità” che ha perversamente integrato amore e violenza, protezione e controllo del corpo femminile, l’esaltazione della maternità e la sua insignificanza storica, per citare Virginia Woolf.
I rischi di un governo con una forte presenza di Fratelli d’Italia per i diritti delle donne, faticosamente conquistati, ci sono. In particolare per la questione dell’aborto. Non impugneranno direttamente la Legge 194, ma, come del resto i “movimenti per le vita”, i gruppi del fondamentalismo cattolico, hanno fatto finora, lo renderanno impraticabile, con l’obiezione di coscienza dei medici, la colpevolizzazione delle donne. Meloni ha già parlato di sepoltura e cimiteri dei feti senza dover chiedere il consenso della donna. Nella campagna elettorale ha tenuto un comportamento più diplomatico, visto il dibattito che si è acceso soprattutto sui social, nelle radio. Quello che è più temibile, a mio avviso, non è l’attacco diretto a diritti come il divorzio, l’aborto, la riforma del diritto di famiglia, etc., ma il consenso che purtroppo incontra la sua battaglia per i valori tradizionali “famiglia, patria, nazione” , e l’ “integrità della specie” minacciata dalla presenza crescente di donne “straniere”, più prolifiche delle italiane.
Il rapporto tra i sessi è arrivato alla coscienza storica, ma le donne stesse stentano a vederne la portata. Può sembrare una conquista importante, anche ad alcune femministe, veder comparire una donna in ruoli apicali di potere, ma per fortuna non sono mancate in questi giorni prese di posizioni della maggior parte del femminismo, in cui si dice con chiarezza che le donne, avendo fatta propria, sia pure forzatamente, la visione maschile del mondo, hanno fatto dell’emancipazione una scalata al potere nelle stesse forme in cui lo abbiamo ereditato, senza mettere in discussione il patriarcato, le sue gerarchie, i suoi “valori”. Che le donne che salgono al potere, fatte poche eccezioni, siano prevalentemente di destra non dovrebbe meravigliare.
Le destre, soprattutto come nel sud Europa dove è più diffusa la religione cattolica, hanno sempre saputo amalgamare abilmente la violenza del potere con la demagogia, il pungo di ferro con la retorica della difesa della famiglia e della nazione. La sinistra paga il prezzo di un “illuminismo”, che separando razionalità e sentimenti, ha regalato alle destre una materia enorme di esperienza, tra cui vicende considerate “intime” – come la sessualità e la maternità – , “non politiche”, e relegate come tali nel privato. A nulla sembra essere valsa, a questo proposito, la “rivoluzione” del femminismo, e cioè la riscoperta della politicità della vita personale e del patrimonio enorme di cultura che vi è rimasto sepolto per millenni. Lea Melandri
Concetto Vecchio per repubblica.it il 7 ottobre 2022.
Il segno del nuovo è dato dalla Fiat 500 di Giorgia Meloni che fatica a farsi largo in via della Scrofa. È mercoledì mattina e la donna più potente del Paese ha riunito lo stato maggiore di Fratelli d'Italia nella sede del partito, al civico 39. "Siamo in via della Scrofa", ripetono gli inviati nei loro collegamenti televisivi.
La sede del FdI accolse prima il Msi
È il quartier generale della destra da quarant'anni, Giorgio Almirante vi impiantò la sede del Msi nel 1983; ora è il bastione del potere che avanza. Come lo furono Piazza del Gesù ai tempi della Dc, via del Corso durante il craxismo, Botteghe Oscure quando c'era il Pci.
Ebbe naturalmente una sua importanza ai tempi di Gianfranco Fini, ma sempre oscurata da "via del Plebiscito", la magione di Silvio Berlusconi: lì stazionavano, giorno e notte, giornalisti, curiosi, turisti desiderosi di incontrare lui. Quelli di via della Scrofa erano i parenti poveri, mai del resto un esponente della destra poté pensare di aspirare a guidare palazzo Chigi. Adesso quel momento è arrivato.
Nel cuore della Capitale
È una strada tra via della Stelletta e via delle Coppelle, all'incirca tra la Camera e il Senato. Ora è sera, la riunione dei colonnelli meloniani è finita da un pezzo, il portone è sbarrato, è quasi buio, ma ci sono ancora delle troupe televisive che trasmettono in diretta. Una camionetta dell'esercito vigila. I commercianti non sembrano molto contenti del viavai. La sede è tra una boutique di abbigliamento femminile e un barber shop, all'angolo spicca l'insegna di un forno.
Il viavai: Bocchino ed Alemanno
Dal portone esce Italo Bocchino, l'ex braccio destro di Fini al momento della scissione dal Cavaliere, quando Berlusconi furibondo per il divorzio prometteva: "Dalla fogna li ho fatti uscire e nella fogna li faccio tornare". Bocchino era così potente da regalarsi un'autobiografia.
È il direttore editoriale del Secolo, lo storico giornale dei missini, anche se non è proprio l'organo ufficiale di Fratelli d'Italia, perché in realtà appartiene alla Fondazione di Alleanza nazionale, gestita dagli ex e che ha i suoi uffici al secondo piano. Dalla vetrina al civico 43 campeggia lo schermo con gli aggiornamenti dell'homepage del Secolo, che, si limita a dire Bocchino, "va benissimo, è tra i venti siti d'informazione più letti". Vi spiccano soprattutto articoli su Meloni.
Passa qualche minuto ed ecco spuntare Gianni Alemanno. "Anche lei qui?" "Ho il mio ufficio nella sede della Fondazione, ma come sa ho preso le distanze da FdI dopo la guerra in Ucraina". Alemanno era dato come candidato di Italexit, il movimento di Gianluigi Paragone. "Ha votato Meloni?". "Il voto è segreto", risponde sornione. Anche lui sguscia via di fretta. La destra dà l'impressione di essere come una grande famiglia allargata dove però bisogna muoversi con molta cautela, specie ora che il potere sfodera le sue lusinghe.
Meloni nella stanza di Almirante
A pianterreno c'è la redazione del Secolo, esce solo online, ma i locali sono stati requisiti temporaneamente dalla comunicazione del partito, e i redattori sono stati costretti a lavorare in smart working. La stanza di Giorgia Meloni è al secondo piano, in fondo al corridoio a sinistra. È la stessa che occupava Giorgio Almirante, il fondatore del Msi, che disegnò di suo pugno il simbolo, la fiamma tricolore, che ancora arde nel simbolo di FdI. Prima di lei la occuparono Fini e Pino Rauti, detto "il Gramsci nero". Il Msi di Almirante era fuori dall'arco costituzionale, veleggiò per una vita intorno al cinque per cento.
Un elettorato di colonnelli in pensione, nobildonne, nostalgici del fascismo, l'Italia benpensante e perbenista che aveva nel Tempo, diretto da Gianni Letta, e nel Borghese i suoi organi di riferimento. "A casa mia Il Secolo lo legge solo il cameriere, che è fascista", disse una volta Arturo Michelini, il predecessore di Almirante. L'episodio si ritrova in Mal di destra, scritto da Stefano Di Michele e Alessandro Galiani. Insomma, era un mondo ai margini.
La prima sede del Msi, ricorda Filippo Ceccarelli in Invano, era sistemata in un palazzone di corso Vittorio, a pochi passi dalla chiesa del Gesù, "non c'erano mobili né tavoli, l'unica macchina da scrivere era poggiata su una cesta". Poi il Msi si trasferì in via delle Quattro Fontane, in un palazzo chiamato del Drago, il cui portiere era il papà di Enrico Montesano. Almirante e l'altro fondatore, Pino Romualdi non si amavano, fu un duello per tutta la vita; di Romualdi i giovani ne imitavano la cadenza romagnola ("il fassismo tornerà!").
Molto tempo dopo arrivò la stagione del centrodestra, la scoperta del potere - dal 1994 al 1996, e dal 2001 al 2011 con qualche interruzione - di Fini, La Russa, Tatarella. Ora i nuovi potenti si chiamano Ciriani, Donzelli, Lollobrigida, Crosetto. La Russa è sopravvissuto a tutti i rovesci.
Almirante e Romualdi morirono a 24 ore di distanza l'uno dall'altro, nel maggio del 1988. La camera ardente fu allestita a pianterreno di via della Scrofa, vennero Nilde Iotti e Giancarlo Pajetta, i funerali, in piazza Navona, trasmessi dal Tg1. "La grande stampa scopre il popolo missino" scrive Adalberto Baldoni ne La storia della destra. Giorgia Meloni aveva 11 anni. E adesso "è la madre della nazione", come titola Die Zeit.
Scocca l'ora di Giorgia. Il lungo cammino dalle ceneri dell'Msi alla stanza dei bottoni. Così ha forgiato una destra moderna. Paolo Guzzanti il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.
Non da ieri, certamente. Ma, quasi di colpo, Giorgia Meloni è diventata una star internazionale
Non da ieri, certamente. Ma, quasi di colpo, Giorgia Meloni è diventata una star internazionale. Tutti parlano, scrivono, analizzano, inventano o documentano in tutte le lingue l'immagine, la politica, pregi e difetti, leggende e realtà di Giorgia Meloni, sia sulle pagine di carta che sugli schermi grandi, piccoli e minuscoli perché lei è oggi la protagonista del «grande caso italiano».
Provo a ricostruire il personaggio e come è arrivato ad ambire legittimamente al ruolo di primo ministro donna, e di destra. Sulla questione della destra, di quanto sia «estrema» o normale, si capisce quanto sembri complicato orientarsi su di lei, perché Giorgia Meloni più che multipla è caleidoscopica. Un giornalista del New York Times ha chiacchierato con lei in inglese al bar di un albergo dove, sorseggiando uno spritz, le ha chiesto: «È vero o no che lei ha preso definitivamente le distanze dal fascismo?» e Giorgia Meloni (secondo il giornalista) avrebbe risposto soltanto con un distratto monosillabo: «Yeah», facendo cadere il discorso. Ma il tema del fascismo, se lei sia o non sia l'erede di Mussolini o almeno dei suoi seguaci, la segue come un'ombra, anche se dal punto di vista ideologico, più di Mussolini, morto più di trent'anni prima che lei nascesse, hanno contato i romanzi (con film e serie televisive) di J.R.R. Tolkien come Il Signore degli Anelli, Lo Hobbit e tanti altri ispirati ad un universo immaginario in cui si esalta l'unità fra simili quando sono costretti a difendere la loro identità e il loro mondo dalle invasioni degli orchi e altri mostri.
Di qui, come è evidente, si sviluppa tutta la sua politica contro «la sostituzione» di un popolo dall'arrivo di masse provenienti da altri mondi gli immigrati che sbarcano senza controllo che sostituiranno il nostro. Il fatto che Giorgia Meloni affondi le sue radici in una serie di romanzi fantasy e non dai teorici del razzismo, non la rende immune dalle accuse di razzismo e di posizioni comuni alla Le Pen, a Orbán e ai polacchi, da cui però ha cercato di prendere le distanze a colpi di timone e cambi di velatura. Ma è sicuro che queste radici l'hanno messa rapidamente in contatto con una parte crescente di italiani che in Italia, come altrove, resistono con paura alla minaccia di un cambio di identità. E su questo punto la Meloni trova più consensi nell'area di destra di quanti non incontri più Matteo Salvini perché probabilmente ha sviluppato una forma di comunicazione più diretta e comprensibile in un panorama difficilissimo in modo da rassicurare tutti.
Giorgia Meloni si è fatta le giovani ossa nell'Msi, che nell'immediato dopoguerra nacque per rappresentare i fascisti sconfitti. Non era un partito di neofascisti, ma di ex fascisti e dalle organizzazioni giovanili, il Fronte della Gioventù e le attività sindacali nelle borgate romane abitate da quella classe sociale che Karl Marx chiamava il «Lumpenproletariat», un gradino sotto il proletariato organizzabile dal Partito comunista. La sua esperienza ha avuto come teatro ed ecosistema un mondo più vicino a quello dei romanzi di Pasolini, anche se vissuto in maniera opposta. Alla sua origine sentimentale e politica c'è sempre l'idea di una piccola patria che all'inizio era la Garbatella, un Bronx romano con una umanità priva di ideologia e proprio per questo etichettata con molta pigrizia come di destra, ma un genere di destra.
Quando cominciò a fare politica come piccola missina, giravano ancora i vecchi fascisti della Repubblica Sociale di Mussolini come tutto il loro bagaglio polveroso e proibito di simboli, abbigliamenti e comportamenti che ebbero su di lei l'effetto di saturarla. Quando capì che la maledetta e ingombrante questione del fascismo storico era diventata un ghiaccio troppo sottile per pattinarci senza affogare, decise la nuova linea: il fascismo e tutto l'armamentario di quella scena teatrale apparteneva al passato e al passato doveva essere restituito. Ma la retorica in cui Giorgia è cresciuta, come lei stessa ha constatato, resta in agguato dentro di lei, non senza conseguenze.
Quando in Andalusia, ospite dei post franchisti di Vox e del loro leader Abascal ha parlato in spagnolo con un tono di voce aggressivo e tonitruante ed ha ripetuto il suo noto slogan: «Sono Giorgia, sono italiana, sono cristiana, sono una madre...», quell'intervento le costò molto sulla scena politica perché le sono piovute le prevedibili accuse di retorica fascista (e invece si tratta semmai di retorica alla Fidel Castro) ed era inevitabile che il giornalista americano che la intervistava a Cagliari gliene chiedesse ragione. La risposta è stata candidamente umana: «Ho esagerato perché ero distrutta dalla stanchezza. E quando sono così sfinita posso anche diventare isterica».
Le sue posizioni politiche da euroscettiche ad europeiste, e tutte le altre a favore dell'Occidente, della Nato e contro l'invasione russa, sono conseguenti e fanno parte evidente di un lungo cammino che la candidata Meloni Giorgia ha fatto dalla Garbatella verso Palazzo Chigi, passando per tutte le cancellerie del mondo.
Antonio Polito per il “Corriere della Sera” il 26 settembre 2022.
Se Giorgia Meloni sarà la prima donna a Palazzo Chigi, lo dovrà in buona parte a due uomini: Silvio Berlusconi e Ignazio La Russa. Fu il secondo infatti a proporre, e il primo a concedere, una singolare norma del Porcellum per la quale sarebbe entrato in Parlamento anche il primo tra i partiti rimasti «sotto soglia», che cioè non avevano raggiunto il 3%. Così, quando dalla dissoluzione del Popolo della Libertà nacque dieci anni fa Fratelli D'Italia, il previdente Ignazio e la giovane Giorgia riuscirono a scappottare un misero 1,96% alla prima prova elettorale, nel 2013, e a conquistare un manipolo di nove deputati (nessun senatore).
Il tentativo del piccolo raggruppamento di reduci della destra, di provenienza missina, sarebbe altrimenti morto sul nascere e la storia d'Italia avrebbe preso un'altra piega (cinque anni prima Storace aveva anche preso più voti, ma fallì la soglia elettorale e finì nell'oblio).
La scialuppa della ex «draghetta» di Azione giovani ha rischiato del resto più volte di finire travolta dalle ondate elettorali. Un anno dopo il «salvataggio» firmato Ignazio, i Fratelli non centrano il quorum alle Europee del 2014 (con il 3,7%, la soglia era al 4%), e lei non viene eletta. Nel 2016 corre a Roma, per diventare sindaco; «tradita» da Berlusconi arriva solo terza, anche se con un buon successo personale. E nel 2018, appena quattro anni fa anche se oggi sembra un secolo, ottiene alle Politiche solo il 4,3%. Confermando il sospetto che il suo partito sia solo l'ostinato residuo di un'altra era politica.
Eppure un anno dopo, di nuovo alle Europee, Giorgia passa il primo esame di maturità: un robusto 6,4%. Ancor più soddisfacente perché ottenuto mentre la Lega del «cugino» Salvini balza a un clamoroso 34,3%. È il primo segno che il neo-sovranismo di Matteo non ha prosciugato lo spazio di una destra nazionalista e nativista; e che Giorgia sarà anche piccola, ma è tosta.
Posso raccontare una confessione che mi fece qualche anno dopo, quando aveva ormai finito di mangiare il pane nero di chi vive sempre sul filo del quorum, in una vita di stenti elettorali. «Quella volta, alle Europee 2019, i sondaggi non ci davano la certezza di farcela. Io avevo deciso di mollare: se non avessi superato la soglia mi sarei fatta da parte, spazio a qualcun altro. Nella vita devi prendere atto quando una cosa che hai fatto non funziona». Invece la Provvidenza, che evidentemente aveva altri progetti per lei, stese la sua mano protettrice e salvò la leadership di Giorgia.
Si possono avanzare molte ipotesi su come abbia fatto una giovane donna, sicuramente una professionista della politica, ne mastica fin da ragazza, ma tutto sommato senza una grande storia alle spalle (famiglia modesta, studi fermi al diploma, un immaginario fantasy-fiabesco da «generazione Atreju») a salire dal 4% al 25% in cinque anni.
La mia risposta preferita è quella che mi ha suggerito qualche giorno fa un inviato del giornale francese Le Figaro. Lui è andato tra la gente per strada, e a tutti coloro che avrebbero votato Giorgia ha chiesto: che cosa vi ha convinto? Quale proposta nel programma, quale promessa? Nessuno ne ricordava nessuna. Ci pensavano un po', e poi concludevano: la voto per la coerenza.
La coerenza è la chiave del successo della Meloni. Mi capita spesso in tv di interrogare leader politici, e a tutti ho qualche contraddizione o qualche trasformismo da rinfacciare. Con lei è molto difficile. Al massimo si può risalire a quando in Parlamento militava nel Popolo della Libertà, e votò disciplinatamente la riforma Fornero del governo Monti, solo per denunciarla con vigore poco dopo. Ma dal giorno che è passata all'opposizione, c'è sempre rimasta: dura e pura contro Conte, ferma ma più rispettosa con Draghi. Mentre gli altri, Salvini compreso, uscivano ed entravano dalle porte girevoli del governo.
Un collega, maratoneta delle notti elettorali, mi ha detto: «In fin dei conti la democrazia è questo, no? Le elezioni servono a portare l'opposizione al governo». Solo che in Italia ne abbiamo perso l'abitudine. Se Meloni diventerà presidentessa del Consiglio sarà la prima da undici anni a questa parte ad esserci arrivata dopo aver corso alle elezioni da leader di un partito. Non c'è riuscito nel 2013 Bersani, che pure prese il 25%; e non c'è riuscito nel 2018 Di Maio, che addirittura ottenne il 32,7%.
Sarà una prova dura. Sopratutto per una donna che riversa sull'amore e la cura della figlia ciò che a lei è mancato da parte del padre. Le metafore familiari, forse non a caso, sono il suo forte. Nell'ormai mitico congresso di Viterbo di Azione giovani, vinto nel 2004, capeggiava una lista chiamata Figli d'Italia. Poi ha fondato i Fratelli d'Italia. E quando le è stato chiesto se si sentiva pronta per il lavoro di premier ha risposto: «Non mi sentivo pronta nemmeno per fare la mamma. Poi, un po' alla volta, ho imparato». Mamma d'Italia.
Giorgia Meloni: le certezze e le paure (due). Breve storia pubblica & privata. Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. (Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza le firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale)
Che fare? Si chiedeva Lenin per imporre il suo movimento. Che farà? Si chiedono ora tutti pensando alla leader che ha vinto le elezioni. Noi qui proviamo a raccontarla per trovare qualche risposta. Tra serotonina e scarafaggi, fiamme e Piper
Giorgia Meloni, 45 anni, fondatrice e leader di Fratelli d’Italia, vincitrice delle elezioni politiche, ha un compagno, il giornalista Andrea Giambruno, e una figlia, Ginevra. Qui nel 2006, quando era vice presidente della Camera (Fabio Lovino)
Che fare? Può suonare stonato riproporre per Giorgia Meloni la domanda che Lenin rivolge a sé stesso nello scritto pubblicato per la prima volta a Stoccarda nel marzo del 1902, con il sottotitolo Problemi scottanti del nostro movimento. Ma a ormai due settimane dal voto e a pochi giorni dalla prima riunione delle nuove Camere, l’interrogativo se lo pongono tutti, magari lei per prima. Chi è Giorgia? E che cosa, davvero, vuole fare? Se dovesse imparare da Giancarlo Giorgetti, che mise sul tavolo di Matteo Salvini la foto di Matteo Renzi, all’indomani del voto del 2018 che lo vide primeggiare nel centrodestra, per ricordargli quanto può essere effimero il successo elettorale, avrebbe la scrivania piena di ritratti. L’autunno di Silvio Berlusconi, il tracollo della Lega, l’arrancare del Pd, i Cinque stelle che festeggiano l’aver perso solo il cinquanta per cento dei voti, un Parlamento ridimensionato dove i cambi di casacca sono non dietro l’angolo, ma proprio nel bel mezzo degli emicicli di Montecitorio e Palazzo Madama. Roba da far tremar le vene e i polsi.
L’addio al padre, partito per le Canarie
Tante delle cose che sappiamo di Giorgia Meloni riguardano l’altro ieri, più che l’oggi. È nata a Roma il 15 gennaio del 1977, sotto il segno del Capricorno. Il matrimonio di sua madre Anna era già in crisi quando era incinta, e amici e parenti le consigliavano di abortire. Sarebbe rimasta sola, e aveva già una bambina piccola. Anna si convinse, e di buon mattino andò a fare le analisi propedeutiche all’interruzione di gravidanza, ovviamente a digiuno. Ma accanto al laboratorio c’era un bar, e si infilò lì invece che dal dottore, e disse: par favore, cappuccino e cornetto. Per i primi dodici mesi Giorgia ha avuto in casa anche un padre, Francesco, che partì per le Canarie con un’altra donna, per non tornare più. Fino all’età di undici anni continuò a vederlo, per non più di una o due settimane all’anno. Ma anche alle Canarie lo vedeva poco, perché le lasciava spesso sole, con la sua nuova compagna. Che l’ultima di queste volte si lamentò con lui, per come si erano comportate. Papà Francesco le convocò e spiegò loro che per lui quella sua compagna era molto importante, più importante di loro.
Arianna, che a dire di Giorgia è la versione romana di madre Teresa di Calcutta, sempre pronta a capire e a perdonare, continuò a frequentarlo. Ma lei no. Quel giorno gli disse: non voglio vederti mai più. E mantenne la parola. «Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto», racconterà. Sempre insieme con Arianna, che le raccontava le favole anche se era di poco più grande, e la difendeva e consolava quando i bulletti a scuola la chiamavano cicciona. Erano insieme anche quel pomeriggio, nella casa dove vivevano alla Camilluccia, Roma nord. La candela e i fiammiferi li procurò Arianna, e fu Giorgia a dar fuoco allo stoppino. Poi uscirono dalla cameretta, lasciando lì la candela accesa. Bruciò l’intero appartamento, dovettero lasciare la casa e trasferirsi alla Garbatella.
Soldi per ogni nuova nascita
Ci sono psicologi che ci avvertono che le esperienze che il bambino compie durante l’infanzia non si cancellano man mano che cresce, ma sono il bagaglio evolutivo attraverso il quale si va a formare la personalità. Tradotto: chi nasce tondo, non muore quadrato. Informazione preziosa, ma un po’ pochino e troppo intimista, per capire davvero dove Giorgia Meloni possa andare a parare. Chissà se aiuta allora guardare il programma del suo partito, Fratelli d’Italia, con l’avvertenza però, vale per tutti, che se ingannevole è il cuore più di ogni cosa, le liste preelettorali della spesa e dei propositi le assomigliano. Eccolo allora, il programma: soldi per le famiglie e per ogni nuova nascita, politiche di prevenzione sull’interruzione volontaria di gravidanza prevista dalla legge 194. Un patto fiscale per aiutare le famiglie e le partite Iva, flat tax sull’incremento di reddito, eliminazione progressiva dell’Irap. Basta con i Bonus, lotta all’evasione fiscale. Rimodulare il Pnrr sulla crisi energetica, una piattaforma online per promuovere il made in Italy. Per i giovani, più assumi e meno tasse paghi.
Dalla Sanità al prezzo del gas
Promozione di stili di vita sani per contrastare il disagio e le devianze giovanili, come droga, alcolismo, gioco d’azzardo patologico, bullismo e baby gang. Ridurre le pensioni d’oro e alzare quelle minime, abbattere i tempi delle liste d’attesa nella sanità. Tetto al prezzo del gas, sì ai rigassificatori e alle trivelle, spingere la ricerca sul nucleare. Controllo delle frontiere e stop agli sbarchi clandestini. Riforma dello Stato con il presidenzialismo, politica estera incentrata sull’interesse nazionale e la difesa della patria, sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa.
Certo, come per tutti i commensali della politica, per i conti si aspetta l’oste. Vale la pena allora tornare a cercare di leggere Giorgia. La abbiamo vista con le camicette bianche, i toni bassi e rassicuranti, le pause sapienti. L’abbiamo sentita arringare il popolo di Vox con toni feroci dei quali si è pentita, confermando però la sostanza dei suoi propositi e augurandosi una vittoria di quel movimento alle elezioni spagnole. Ha frenato le velleità propagandistiche degli alleati Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, che proponevano uno la flat tax per tutti al 15 per cento e l’altro al 23, rassicurando l’Italia e l’Europa sulla tenuta delle finanze dello Stato. L’abbiamo ascoltata quando ha ricordato di non essersi differenziata da Fini quando giudicò il fascismo il male assoluto e quando ha affermato di essere contro tutti i totalitarismi, al contrario della sinistra che non fa lo stesso con il comunismo. Ha difeso la Fiamma come simbolo dell’evoluzione del suo partito e orgogliosamente rivendicato che non si fa cambiare il simbolo da nessuno, tantomeno dagli avversari politici. Con i suoi toni ha conquistato il popolo ciellino del meeting di Rimini e non è dispiaciuta agli industriali a Cernobbio.
Nessun tentennamento nell’affiancare l’Europa e gli Stati Uniti nel sostegno all’Ucraina contro l’invasione russa. Ma anche mano tesa verso il premier ungherese, l’amico Orbán, contro il Parlamento di Strasburgo che censura le sue politiche illiberali. Abbiamo imparato anche a conoscere Tommaso Longobardi, 31 anni, romano, laurea breve in Psicologia e gavetta alla Casaleggio Associati. È lui il guru dei social della leader di Fratelli d’Italia, ne compare sempre uno quando l’onda cresce. Gli altri, che ogni partito ne ha almeno uno, ruzzolano e finiscono in una soffitta polverosa. Ma Giorgia fa molto da sola, seguendo la massima che recita «comanda e fai da te e sarai servito come un re». E allora racconta di non aver dato mai neanche un tiro a una canna, di non essersi mai ubriacata, di non avere mai alzato il braccio nel gesto del saluto romano. Certo non è rimasta contenta quando Romano, fratello del suo compagno della prima ora, Ignazio La Russa, quel braccio l’ha alzato più volte a un funerale proprio sul finire della campagna elettorale, giustificandolo come un saluto militare.
La fobia degli scarafaggi
Mitologia vuole che Giorgia non abbia paura di niente e di nessuno, se non degli scarafaggi, intesi non in senso metaforico, ma proprio quegli insettoni. E ci volle coraggio nel 2012 per inventare quello che sembrava l’ennesimo partitino a vita breve, Fratelli d’Italia. A quelli della “compagnia picciola” di allora che tremavano per l’incertezza del futuro, rispose affidandosi alle parole di Clint Eastwood: «Se vuoi la garanzia comprati un tostapane». Altri sassolini con i quali ha disseminato il sentiero che l’ha portata all’oggi: barista al Piper, pare che abbia inventato anche un cocktail, baby-sitter della figlia di Fiorello, venditrice di dischi in un banco a Porta Portese, tifosa della Roma, un’antipatia naturale per Marine Le Pen, ancora di più per Alessandra Mussolini. Donna leader in un partito di maschi, alla ricerca di affermazione senza cooptazione né paternalismi.
L’altra debolezza: l’eterno esame di Maturità
Confessa anche le sue “debolezze”. Un problema con la serotonina, l’ormone della felicità, troppo poca, che tiene però ormai sotto controllo. La perenne sensazione di sentirsi sempre inadeguata, alla continua ricerca di scappottare l’esame di Maturità, che gli si ripropone in continuazione. E anche una dominata tendenza alla fuga: qualunque cosa io stia facendo, racconta, vorrei essere da un’altra parte. Per dirla con un verso di Giorgio Caproni: «Se non dovessi tornare/ sappiate che non sono mai partito/ Il mio viaggiare/ è stato tutto un restare qua/ dove non fui mai». Ma diciamoci la verità: stare dove sta le piace moltissimo. Quasi quanto stare con sua figlia Ginevra, che condivide con il suo compagno Andrea Giambruno, che non ha sposato, anche se crede nel matrimonio. Piccola curiosità. Lenin per il suo libro copiò il titolo, Che fare, da un romanzo del 1863, scritto da Nikolaj Gavrilovic Cernysevskij mentre era detenuto nella fortezza di Pietro e Paolo a Pietroburgo, per la sua attività sovversiva. La protagonista, Vera Pavlovna, è decisa a vivere la sua vita senza accettare compromessi e senza rinunciare alla sua indipendenza. Certo, quello è un romanzo.
La Russa: «A 15 anni Giorgia era già così, sintesi e visione del futuro». Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 27 Settembre 2022.
Il cofondatore di Fratelli d’Italia racconta il big bang del partito e l’ascesa di Meloni. Dalle resistenze di Fini alla sua candidatura a leader dei giovani al suo «no» solitario al governo gialloverde: «Ecco cosa le dobbiamo. E senza quote rosa che cambierei»
«Giorgia? La conosco da quando aveva 15 anni. Poi diventò segretario giovanile di An. E non fu costruita in vitro. Anzi».
Ignazio La Russa, anzi cosa?
«Lei si candidò ma Gianfranco Fini non era proprio favorevole».
Perché?
«Per motivi di equilibri interni preferiva che vincesse un candidato vicino a Gianni Alemanno. Ma lei sbaragliò tutti. Era già così. Una capacità di fare sintesi e di visione del futuro che mi sorprende sempre. Lo ha dimostrato anche questa volta, contro tutti».
Contro chi?
«Contro chi, me compreso, si lasciava tentare dal governo Lega-Cinque Stelle. Matteo Salvini venne con Giorgetti per convincerla ad entrare. Ma alla fine, quasi sola, lei decise di no».
E ora avete sottratto voti alla Lega?
«An aveva il 15%, casomai li abbiamo ripresi. Noi siamo stati guardiani di frontiera. Sarebbero stati voti persi».
Si deve alla sua clausola anti-sbarramento del 3% il big bang di Fratelli d’Italia?
«In realtà pensavamo non ci sarebbe servita. Io ebbi, parallelamente a Giorgia, l’idea del nuovo partito. Vivevamo male il governo Monti. Ritardai tre mesi per aspettare Maurizio Gasparri che poi non se la sentì di lasciare Forza Italia. Il mio vero merito fu un altro».
Cioè?
«Andare da Berlusconi ad annunziare la separazione consensuale. Lui apparentemente resistette, ma poi accettò. Un po’ per la mia amicizia con lui che perdura. Ma forse perché già pensava di rifare Fi. Mi promise di non accogliere altri ali destre. Invece ci fu la Fiamma e ci fermammo all’1,96%. Così utilizzammo quella clausola di salvaguardia anti-sbarramento».
Ma da lì l’ascesa. E ora la vittoria. Lei si è commosso. Perché? Al governo non ci siete già stati?
«Eravamo a traino di Berlusconi. Ora la destra è il primo partito. Non è una differenza marginale. E’ l’opposto. A guidare la coalizione adesso è Giorgia che interpreta bene i valori di ispirazione antica: quando nel ‘70 Almirante fonda la Destra Nazionale pensava a un centrodestra di governo, tanto è vero che aderirono anche i partigiani bianchi e il capo dell’Azione cattolica. Ma era prematuro. Poi arrivò la svolta di Fiuggi con Gianfranco Fini e Pinuccio Tatarella: a lui ho pensato quando Giorgia a dedicato la vittoria a chi non c’è più. Una vittoria che vale doppio».
Perché?
«Perché a vincere è una donna. Che, come dice Giorgia, non è stata messa lì da un uomo».
Anomalo a destra?
«Abbiamo avuto segretario giovanile, capo del sindacato e direttrice de Il Secolo donne. Vuol dire che da noi se una donna è brava non ha bisogno di quote rosa».
Non le piace quella legge?
«La cambierei. Ho già un’idea. Fissare una quota per l’accesso. Ma una volta che sei entrata te la vedi tu. Così si garantisce solo chi già c’è».
Berlusconi è stato ripreso a dire che sarà lui il regista del futuro governo. È così?
«Ci sono varie formule di gioco. L’allenatore è Giorgia. Deciderà lei la formazione».
Lei tornerà a fare il ministro della Difesa?
«Farò quello che serve al partito. Ma che mi piace».
Il Cremlino auspica «soluzioni creative». Su sanzioni e armi all’Ucraina ne avrete?
«La mia collocazione filo-atlantica è nota da Wikileaks. Che il governo avrà una linea filo-occidentale era già certo in campagna elettorale. Ora è certissimo».
Estratto dall'articolo di Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 26 settembre 2022.
Tutti gli uomini della Presidente. Amici di una vita, qualche parente, antichi sodali, nuovi folgorati che non erano di destra e saranno comunque i primi a cantare "l'Italia chiamò". Il gran consiglio di Giorgia Meloni si prepara alla presa del potere. […]
Ci sono due uomini che segnano il cammino della leader. Umanamente, politicamente. Uno si chiama Giovanbattista Fazzolari. Senatore. Cinquant'anni tondi, da ragazzo nel Fronte della Gioventù e poi nella costituente di An. L'incontro che gli cambia la vita è quello con Giorgia, che lo chiama a capo della segreteria tecnica al ministero della Gioventù, poi diventa suo consigliere giuridico, estensore del programma, ghostwriter dei discorsi del capo.
Per lui, Meloni sogna un posto a Palazzo Chigi in un ruolo che fa tremare i polsi, soprattutto per chi non ha mai messo piede in consiglio dei ministri: sottosegretario alla Presidenza, coefficiente di difficoltà stellare. Probabilmente con un ruolo tecnico e operativo, crocevia del potere e delle leggi. In due parole, primo cavaliere.
Ignazio La Russa e Guido Crosetto
L'altro mister X invece lo conoscono tutti e si chiama Ignazio La Russa. Antico missino (mai pentito, anzi), siciliano trapiantato a Milano, già ministro della Difesa, inventore di Fratelli d'Italia. Ha avuto la lucidità di cedere il passo alla giovane leader (sarebbe accaduto comunque). Qualche volta litigano. Ma resta il consigliere che Meloni porta ad ogni tavolo che conta, a cui affida le candidature, con cui ragiona di strategie. Quello che "capisce di politica". Anche lui potrebbe finire a Palazzo Chigi, anche lui come sottosegretario. Con quale delega? In un ruolo "alla Gianni Letta", oppure ad esempio gestendo la delega ai Servizi.
Il terzo a poter aspirare al Palazzo è Guido Crosetto, che tra un tweet e un altro consiglia la leader. I due, insieme, funzionano, anche perché lui ebbe l'ardire di seguirla quando in Fratelli d'Italia c'erano solo ex di An. Un sodalizio stranissimo, condensato nella foto che immortalò il gigante con in braccio la leader.
Crosetto potrebbe conquistare la Difesa, ammesso che non lo ostacoli l'attuale incarico di presidente di un'impresa creata come joit venture tra Fincantieri e Leonardo. L'alternativa è che occupi uno dei posti da sottosegretari alla Presidenza.
La sorella Arianna
La famiglia ha però un valore decisivo per Meloni. Ascolta moltissimo la sorella Arianna, fa i salti mortali per stare con la piccola figlia, "devo organizzarmi, se vado a Palazzo Chigi farò di tutto per vederla e tenerla vicina a me". E ancora, sente dieci volte al giorno il cognato Francesco Lollobrigida (il marito di Arianna). Potrebbe confermarlo alla guida del gruppo parlamentare, che da ridotta è diventato un piccolo esercito. Poi potrebbe proiettarlo alla Presidenza della Regione Lazio.
Raffaele Fitto
Pesa tantissimo anche Raffaele Fitto. In tempi non sospetti, con percentuali da "quattrovirgola", scelse Fratelli d'Italia, lui che vantava un dna da giovane democristiano. Ora gestisce i rapporti (delicati) di Meloni con l'Europa, dove la destra fa paura. Di certo sarà ministro. Gli Esteri? Difficile. Più probabile il ministero del Sud, oppure agli Affari Ue, probabilmente con deleghe rafforzate. [...]
Fabio Rampelli
Un discorso a parte per Fabio Rampelli. Ha creato il brand Meloni, crescendola nella sua associazione Gabbiani, forgiandola nel circolo di Colle Oppio. È stato il regista della sua ascesa alla guida dei giovani di An. Poi qualcosa si è inceppato. Negli ultimi mesi il filo si è riannodato. Di certo, Rampelli ha sempre difeso e sostenuto "Giorgia".
Giulio Tremonti e Marcello Pera
Le schegge di un'altra storia rispondono invece al nome di Giulio Tremonti e Marcello Pera. Il rapporto con il secondo è per di più enigmatico, costruito nonostante solchi caratteriali abissali. Quello con l'ex ministro dell'Economia, vissuto con un certo fastidio nell'enclave di Fratelli d'Italia, resta solido. Nasce sui banchi del consiglio dei ministri del governo Berlusconi, quattordici anni fa. Si nutre di battute e imitazioni spassose. Ma anche di consigli macroeconomici e politici. Tremonti è e resta ingombrante, soprattutto al governo. Ma Meloni, in qualche modo, magari con qualche spallata, proverà ad accontentarlo.
Antonio Bravetti per “la Stampa” il 6 ottobre 2022.
Fratelli e sorelle d'Italia. Ecco gli uomini e le donne che Giorgia Meloni si tiene stretti, che hanno reso possibile la sua ascesa fino al governo. Sono i fedelissimi e le fedelissime che lei ha ringraziato dal palco dell'hotel Parco dei Principi la notte della vittoria elettorale, «perché se non hai persone che ti vogliono bene veramente certe cose non le riesci a fare».
Innanzitutto c'è la squadra che la segue passo passo. Patrizia Scurti, segretaria, da una dozzina d'anni al fianco di Meloni. Dalle sue mani passa praticamente tutto ciò che è diretto alla presidente. Giovanna Ianniello, addetta stampa da circa 17 anni, salvo una piccola parentesi al Campidoglio con Gianni Alemanno.
Amica fidata, dalla capa la divide solo la passione calcistica: romanista Meloni, laziale lei. La seguirà a palazzo Chigi, continuando a occuparsi della comunicazione politica, assieme a Paolo Quadrozzi, da dieci anni presenza fissa nella squadra, a suo agio nelle relazioni internazionali. La comunicazione istituzionale, invece, finirà nelle mani di qualcun altro. Andrea Bonini, giornalista di Sky che segue palazzo Chigi, è stato sondato per ricoprire questo ruolo.
In lizza c'è anche Alessandro Giuli. Giornalista, ex co-direttore del Foglio, oggi a Libero e spesso in tv. Sua sorella Antonella è la portavoce del capogruppo alla Camera di FdI, Francesco Lollobrigida, che a sua volta è cognato di Meloni, avendo sposato la sorella Arianna.
Poi c'è Tommaso Longobardi, il social media manager scuola Casaleggio che ha contribuito a far volare Meloni in rete. «Avere più numeri non sempre è sinonimo di avere più voti e molte elezioni passate lo hanno ben dimostrato - spiegava in un'intervista pochi giorni fa - senza una buona struttura territoriale, concretezza, leadership e idee non ci fai molto».
In Parlamento, e in odore di governo, ci sono altri tre fedelissimi: il capogruppo Lollobrigida, Giovanbattista Fazzolari e Giovanni Donzelli. Il secondo è il responsabile del programma elettorale di FdI. In questi giorni una presenza fissa a Montecitorio, dove si svolgono le "pre consultazioni" del nascente governo.
Nel partito lo conoscono come uno molto studioso, capace di immagazzinare informazioni e tradurle subito in idee. Le strade di Meloni e Donzelli, fiorentino, si sono incrociate quando lei era leader di Azione giovani, il movimento giovanile di An, e lui di Azione universitaria. Quasi vent' anni fa: se c'è qualcuno che sa cosa pensa o cosa fa Meloni, quello è lui.
Nel cerchio appena più largo ci sono Chiara Colosimo e Augusta Montaruli. Colosimo, romana, 36 anni, è stata per anni l'anima di Atreju, la manifestazione dei giovani del partito. A lei e Montaruli, torinese classe '83, si devono i tanti flash mob organizzati dal partito in questi anni di opposizione. In quelle occasioni è stato grazie a loro se le "piazzate" sono andate bene e sono finite sui tg o sui giornali.
Hanno supervisionato, Montaruli in particolare, che tutto funzionasse: cartelli, striscioni, bandiere, volantini. Anche quando a seguire le manifestazioni i giornalisti si contavano sulle dita di una mano. Raccontano che fuori da questi fedelissimi, molto presenti e vicini a Giorgia Meloni, un posto di riguardo lo ricopra Giampaolo Rossi. Missino della corrente Sommacampagna (la sede da cui Teodoro Buontempo animava Radio Alternativa), è un uomo di cui lei si fida molto. Ha fatto parte del Cda Rai e potrebbe tornare in viale Mazzini da amministratore delegato. Lo manda Giorgia.
Claudio Bozza per il “Corriere della Sera” il 25 ottobre 2022.
E ora che «Giorgia» è a Palazzo Chigi chi custodirà le chiavi del primo partito italiano? La risposta che arriva dai vertici è scontata: sempre la presidente Meloni. A livello operativo, però, per la prima premier d'Italia sarà molto complicato continuare a gestire la sua creatura che 10 anni fa esordì con l'1,96%. Ora, arrivato al 26%, per Fratelli d'Italia il cambiamento è epocale. Un dato su tutti? Il (fu) piccolo partito sovranista, a cui per anni sono arrivati spiccioli, solo tra luglio e agosto scorsi ha ricevuto oltre 2 milioni di finanziamenti privati. Il numero degli eletti, nonostante la sforbiciata della riforma, è passato da 61 a 181.
Si triplicheranno quindi i rimborsi ai gruppi parlamentari, che saliranno di circa 6 milioni annui. Così come si è moltiplicato il 2 per mille: dall'ultima tranche sono arrivati 2,7 milioni rispetto alle briciole degli anni precedenti. La fisiologica conseguenza è che la storica sede di via della Scrofa, già casa di Msi e An, sta ora stretta agli eredi di FdI.
Chi guiderà, quindi, a livello operativo questa maxi struttura adesso che «Giorgia» è lassù, «Ignazio» (La Russa) guida Palazzo Madama e «Lollo» (Lollobrigida), cognato di Meloni, è ministro? La bussola indica il nome di Giovanni Donzelli, 46 anni, fiorentino, deputato al secondo mandato, fedelissimo della leader da quando erano i ragazzini di Azione giovani. «Il Donze», come lo chiamano gli amici, finora è stato il capo dell'organizzazione del partito: ha gestito tutte le ultime campagne e i grandi eventi, come il pienone in piazza Duomo a Milano.
Per Donzelli, nei prossimi giorni, potrebbe arrivare un'investitura formale, simile a quella di coordinatore unico che Meloni aveva affidato a Guido Crosetto. La neopremier, militare a livello organizzativo, sa bene che il segreto della sua scalata non sta solo nella sua figura di «coerente oppositrice» agli ultimi governi, ma soprattutto nel legame tra FdI e il territorio. «Il partito deve continuare a essere la base di tutto, la chiave dell'azione di governo - teorizza proprio Donzelli -. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad ascese politiche irresistibili e a cadute rovinose. Un esempio su tutti? Il 40% di Renzi con il Pd, e poi Il partito non può essere trascurato».
E pensare che il fedelissimo di Meloni, da consigliere regionale, era salito alle cronache nazionali conducendo una battaglia «contro il sistema della sinistra toscana a difesa dei soldi pubblici» e sotto accusa erano finite anche le stesse aziende della famiglia Renzi. Scherzo del destino ha voluto che, da ragazzino, Donzelli avesse lavorato da strillone di giornali proprio per una delle società del padre dell'ex premier.
Una moglie, due figli, una laurea mai presa, più di un tafferuglio in facoltà («Ma era per difendermi da quelli di sinistra»), Donzelli è arrivato a Montecitorio nel 2018: c'è chi lo ha ribattezzato «monaco di destra», perché «la sera torna sempre a casa per cena: sennò Roma, lontano dalla famiglia, ti risucchia, è meglio così». Murato nelle stanze del partito, fin da quando il trionfo era nell'aria aveva avvertito gli amici (increduli): «No, il ministro non lo voglio fare, rimango al partito».
E ora sta pensando, con «Giorgia», a come allargare la sede di via della Scrofa, perché quegli uffici non bastano più. FdI ha infatti solo una decina tra dipendenti e collaboratori, cioè il massimo che il partito poteva permettersi prima del boom. Il Pd, per fare un paragone, di dipendenti ne ha 150. E ora ci sarà da potenziare la struttura. Perché solo per le mansioni di ufficio a FdI sono subissati da migliaia di mail e telefonate ogni giorno.
Il fedelissimo della Presidente del Consiglio. Chi è Giovanni Donzelli, il “Monaco di Destra” che coordinerà Fratelli d’Italia con Meloni premier. Antonio Lamorte su Il Riformista il 26 Ottobre 2022
Toccherà al fedelissimo Giovanni Donzelli il volante di Fratelli d’Italia: a via della Scrofa, già casa del Movimento Sociale Italiano e Alleanza Nazionale, sarà sempre la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni a guidare la sua creatura passata in dieci anni dall’1,96% al 26%. Con la premier però impegnata a Palazzo Chigi, i fondatori Ignazio La Russa a presiedere il Senato e Guido Crosetto al ministero della Difesa, oltre ai big Lollobrigida e Ciriani ministri, l’operatività, il polso del partito dovrebbero passare a Donzelli.
Fiorentino, 46 anni, deputato al secondo mandato. Maturità al liceo scientifico, studi in lettere e in agraria all’Università degli Studi di Firenze senza però laurearsi. È entrato in politica a 19 anni, nel 1994, nel Fronte Universitario d’Azione Nazionale (FUAN) del Movimento Sociale Italiano. All’Università è risultato primo e unico eletto tra i rappresentati di destra nella storia dell’ateneo. È stato Presidente Nazionale di Azione Universitaria e portavoce nazionale della Giovane Italia. Ha lavorato anche come strillone alla Speedy Srl, società di proprietà di Tiziano Renzi.
È diventato consigliere comunale a Firenze con Alleanza Nazionale nel 2004 e nel 2009 con il Popolo della Libertà. Con quest’ultimo è diventato consigliere regionale. È stato tra i primi ad aderire al progetto Fratelli d’Italia, da Coordinatore dell’esecutivo Nazionale. Con Fdi è stato eletto in consiglio regionale alle elezioni del 2015. La sua attività si è distinta soprattutto per l’impegno sul caso “Quadra” e sul caso Forteto.
Donzelli ha presentato da consigliere regionale la proposta di legge parlamentare di iniziativa regionale denominata “Taglia-business immigrati” che Fdi ha presentato in tutte le Regioni e che la Commissione bilancio della Camera ha approvato e reso legge. A Montecitorio è arrivato nel 2018. È stato finora il capo dell’organizzazione del partito, ha gestito le ultime campagne e i grandi eventi come quello in piazza Duomo a Milano. È sposato, con la moglie Alessia e ha due figli.
Alle politiche dello scorso 25 settembre è stato eletto come capolista nei plurinominali Toscana 01 e Toscana 03. Il 19 ottobre è stato eletto Segretario della Camera. Il Corriere della Sera scrive come sia stato battezzato “Monaco di Destra” perché “la sera torna sempre a casa per cena: sennò Roma, lontano dalla famiglia, ti risucchia, è meglio così”. Starebbe pensando ad allargare la sede di via della Scrofa perché gli uffici non basterebbero più, così come i dipendenti. “Il partito deve continuare a essere la base di tutto, la chiave dell’azione di governo — la sua teoria —. Negli ultimi anni abbiamo assistito ad ascese politiche irresistibili e a cadute rovinose. Un esempio su tutti? Il 40% di Renzi con il Pd, e poi… Il partito non può essere trascurato”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Arrestato il fratello di Donzelli nell’ambito di un’inchiesta su presunte bancarotte fraudolente. Il Domani il 13 ottobre 2022
Imprenditore fiorentino, Niccolò Donzelli è stato arrestato nell’ambito di un’inchiesta della procura su alcune presunte bancarotte fraudolente. Il fratello: «È noto che non c’è mai stato alcun legame tra l’attività imprenditoriale di mio fratello e la mia attività politica»
Niccolò Donzelli, fratello di Giovanni, parlamentare di FdI e responsabile organizzazione del partito di Giorgia Meloni, è stato arrestato nell’inchiesta della procura di Firenze su alcune presunte bancarotte fraudolente.
Niccolò Donzelli è rimasto stato coinvolto come presidente del Cda di Antiche tipografie e di Aria advertising, due società finite al centro degli accertamenti condotti dalla guardia di finanza. Secondo quanto riferisce AdnKronos, a Donzelli sarebbe contestata una distrazione patrimoniale a proprio favore. Al contrario del fratello parlamentare, Niccolò non ha mai ricoperto incarichi nel partito di Meloni. Anzi, viene considerato vicino ad ambienti di centrosinistra.
LE DICHIARAZIONI DEL DEPUTATO
Giovanni, il deputato, interpellato sulla vicenda, spiega di non aver nessun legame con l’attività del fratello. «Voglio bene a mio fratello. L’amore fraterno è l’unica cosa che unisce me a questa vicenda. Confido nella sua innocenza e ho piena fiducia nella giustizia italiana. Se qualcuno vuole strumentalmente legare il procedimento giudiziario a me perde tempo».
Il parlamentare sottolinea anche la distanza politica tra la sua fede politica di destra e quella del fratello Niccolò. «È noto che non c’è mai stato alcun legame tra l’attività imprenditoriale di mio fratello e la mia attività politica. Niccolò non ha nemmeno mai partecipato ad alcun evento di Fratelli d’Italia, avendo anche come tutta la mia famiglia un orientamento politico diverso dal mio».
Pm a orologeria, in manette il fratello di Donzelli. Renzi: "Conosco i giudici, metodo esagerato". Arrestato per bancarotta fraudolenta. Giovanni è vicino alla presidente di Fdi. Fabrizio Boschi il 14 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Incredibile come la macchina della giustizia accenda sempre il motore nei momenti più cruciali della vita del Paese. Ieri, giorno dell'elezione del presidente del Senato, dove l'ha spuntata il fratello d'Italia, Ignazio La Russa, un altro fratello d'Italia, il deputato fiorentino Giovanni Donzelli, forse l'uomo più vicino alla futura presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nonché fedele consigliere (è responsabile organizzativo del partito) e papabile futuro sottosegretario, è stato colpito nei suoi affetti. E guarda caso c'è sempre di mezzo la famigerata procura di Firenze che tanto ha fatto parlare di sé in questi anni soprattutto per le grane giudiziarie a carico della famiglia Renzi.
E proprio Renzi commenta così: «I pm di Firenze hanno mandato in carcere il fratello di un importante parlamentare di Fdi. La misura sembra sproporzionata rispetto alla pericolosità sociale del presunto reato. Ma conosco bene quei pm e il loro metodo di lavoro», dice. Poi lo schiaffo a Donzelli: «Lui ha strumentalizzato la mia vicenda in modo becere. Io non lo farò su di lui perché sono un vero garantista».
Un'inchiesta per bancarotta fraudolenta, diretta dalla pm Christine Von Borries, su presunti prestanome e alcuni professionisti che avrebbero formato una vera e propria «squadra di intervento per l'ultimo miglio, prima della dichiarazione di fallimento di certe società o aziende, non già per individuare soluzioni legittimamente meno dannose per la società avviata alla procedura concorsuale (e per l'imprenditore), bensì per nascondere le distrazioni, occultare il dissesto, compiere ulteriori atti distrattivi».
E tra gli arrestati in carcere c'è anche Niccolò Donzelli, appunto fratello del deputato Fdi, proprio nel giorno più delicato dopo le elezioni. Gli inquirenti gli contestano ben 14 episodi di distrazione, commessi col tramite dei professionisti indagati. Disposto per lui anche un sequestro di oltre 170mila euro. «Ha pianificato in modo meticoloso e realizzato con incredibile determinazione la distrazione del ramo di azienda della società Aria advertising», scrive il gip. Riguardo l'altra società, Antiche tipografie srl, secondo le accuse avrebbe «cagionato il dissesto distraendo liquidità per importi rilevanti». Donzelli era presidente del cda di Antiche tipografie e di Aria advertising.
Cinque arresti, di cui due in carcere e tre ai domiciliari, e sette misure interdittive. Trentuno le imputazioni a carico di una ventina di indagati. Il giudice ha anche messo sotto sequestro beni per un valore di oltre 2,4 milioni di euro, «corrispondenti al valore dei beni distratti dalle società fallite e delle imposte sottratte».
Giovanni Donzelli ha poi dichiarato: «Voglio bene a mio fratello e confido nella sua innocenza, ho piena fiducia nella giustizia. Mio fratello non è stato mai a eventi di partito e ha un orientamento politico diverso dal mio. Chi vuole strumentalizzare la vicenda perde tempo». Un tempismo perfetto.
Marco Antonellis per italiaoggi.it il 26 ottobre 2022.
Spin doctor e grandi comunicatori, volti all'ombra dei potenti. Sta facendo discutere positivamente l'approccio dei primi giorni della premier Giorgia Meloni, un profilo sobrio e istituzionale, dai toni pacati, già acquisiti nelle ultime due settimane di campagna elettorale, proprio nel tentativo di rafforzare e consolidare la sua immagine internazionale. Un'operazione indubbiamente riuscita alla "Draghetta", come qualcuno l'ha maliziosamente ribattezzata, ma chi l'ha pensata e ideata? Chi è che sussurra all'orecchio della prima presidente del consiglio d'Italia?
Da circa un decennio portavoce, spin doctor e grandi esperti della comunicazione sono infatti diventati i veri protagonisti dell'ascesa e della disfatta di numerosi leader politici. Uomini e donne all'ombra dei potenti. E per Meloni, il nome è uno ed è quello di Giovanna Ianniello, figura chiave e portavoce della neo-presidente del Consiglio. Collabora da anni con Fratelli d'Italia e segue la Meloni fin dai tempi della sua campagna elettorale a Roma nel 2016, con un passato nello staff dell'ufficio stampa del Campidoglio con l'allora sindaco Gianni Alemanno. Una professionista con la P maiuscola e organicamente cresciuta nel centrodestra.
Percorso diverso invece quello di Paola Ansuini, ex portavoce di Mario Draghi a Palazzo Chigi, una tecnica prestata alla politica: già responsabile della comunicazione di Banca d'Italia, la sua carriera al fianco di Mario Draghi era iniziata nel 1988.
Nella categoria dei tecnici, si può considerare Augusto Rubei, anche se ha da tempo lasciato la politica e da quasi due anni è a Leonardo. Salito alle cronache non ancora 30enne con la vittoria della campagna elettorale di Virginia Raggi a Roma, è stato l'artefice della nuova immagine internazionale di Luigi Di Maio.
Il quarto comunicatore che, in qualche modo, ha segnato la recente storia italiana è indubbiamente Rocco Casalino, già portavoce di Giuseppe Conte. Infine uno dei comunicatori più incisivi dell'era Renzi/Gentiloni, vale a dire Filippo Sensi.
Chi è Giovanbattista Fazzolari, il braccio destro di Giorgia Meloni proiettato al governo da sottosegretario. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Ottobre 2022
Per la stampa è lui, Giovanbattista Fazzolari, il “braccio destro” di Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia che ha stravinto le elezioni politiche del 25 settembre e che, salvo clamorosi colpi di scena, si appresta a diventare la prossima Presidente del Consiglio, la prima donna nella storia della Repubblica. Il senatore appena rieletto, responsabile del programma di Fdi, è tirato in ballo un giorno sì e l’altro pure nel toto ministri che impazza in questi giorni sui quotidiani.
È dato quasi per certo a Palazzo Chigi, nel ruolo di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, l’onorevole di origini siciliane, nato in Sicilia dal padre Michele Lucia, diplomatico, e dalla madre Angelica Bellantone, professoressa. È cresciuto tra Francia, Argentina e Turchia. Diplomato al Liceo francese Chateaubriand di Roma e laureato in Economia e Commercio all’Università La Sapienza, ha svolto il corso post laurea in Operatore della Comunità Europea presso la Scuola Italiana per l’Organizzazione Internazionale.
Sul sito del Senato alla voce lavorativa si legge: libero professionista. Quando Giorgia Meloni è stata ministro della Gioventù nel governo Berlusconi, è stato a Capo della segreteria del dicastero. Da quando era diventato consulente di Alleanza Nazionale, nel 1995, la sua attività politica si è intrecciata a quella della leader Fdi. Da ragazzo aveva cominciato a fare politica nel Fronte della Gioventù romano. È stato il primo presidente provinciale romano di Azione Universitaria.
Durante la XI Legislatura è stato vice presidente della Camera dei deputati. Per cinque anni è stato Dirigente Aeroporti e Infrastrutture strategiche della Regione Lazio. È stato inoltre partner della società Ares consulenze Srl e vice commissario al Parco Naturale dei Monti Simbruini del Lazio. Alle elezioni politiche del 2018 è stato eletto al Senato della Repubblica nelle liste di Fdi, nella circoscrizione Piemonte. A quelle del 25 settembre scorso è risultato eletto, da capolista, nel collegio plurinominale della Puglia.
Fazzolari, secondo retroscenisti e ritratti, avrebbe nel partito un po’ il ruolo del saggio poco mediatico, che non compare spesso in pubblico. Soprannomi accumulati negli anni secondo fonti interne al partito a Il Foglio: “muro di gomma”, per la pazienza nell’incassare i momenti di nervosismo della leader Fdi; “spugna”, per la capacità di incamerare informazioni. Alle critiche sulla classe dirigente del partito in campagna elettorale aveva risposto a Formiche: “Assieme all’apparato storico della sinistra italiana, abbiamo una forte storia politica alle spalle che deriva non solo da Alleanza Nazionale ma anche dal Popolo della Libertà. Inoltre abbiamo fino a oggi molto più personale politico di alta qualità che non posizioni politiche nelle quali rappresentarlo. Il problema esattamente opposto del M5s che ha avuto un exploit momentaneo e si ritrova a essere rappresentato da personale politico di scarsa qualità”.
E un paio di giorni fa ha provato a calmare le acque intorno al toto ministri, alle ipotesi sui tecnici e a tutti in nomi sparati dai giornali. “Adesso nessuno può alzare il telefono e chiamare qualcuno chiedendogli se gli va di fare il ministro. Non può farlo e non lo sta facendo”, ha detto al Secolo d’Italia. “Il programma del centrodestra è ben preciso: noi prevediamo, così come faremo, la flat tax sul reddito incrementale e di portare da 65mila a 100mila euro la flat tax per gli autonomi. Niente di più. Sicuramente in una prima legge di bilancio non ci sarà di più, anche perché non ci sarebbero i tempi per farlo”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Susanna Turco per espresso.repubblica.it il 17 ottobre 2022.
Nel tempo libero spara. O twitta: contro il capo dello Stato Sergio Mattarella, in sostegno del battaglione Azov. Certo, a guardarlo più da vicino, si capisce ancora meglio la sadica ironia con la quale, un mesetto fa, Il Foglio l'ha battezzato novello Gianni Letta in omaggio al più raffinato tra i consiglieri del Cavaliere. È Giovanbattista Fazzolari, cinquant’anni, appena rieletto senatore, l’uomo che ha scritto il programma di Fratelli d'Italia, il parlamentare che al momento, per quanto possa sembrare sorprendente, è tra i più potenti dell’Italia politica.
Tuttora il grande pubblico a malapena sa chi sia, ma la leader Giorgia Meloni, premier in pectore, si fida di lui più di chiunque altro. L'ha scelto per farne una specie di alter ego per fase di formazione del governo. Al tavolo ristretto fino al giorno in cui si stilerà la lista dei ministri si siedono soltanto loro due, tutti gli altri un passo indietro.
E la cosa è destinata a ripetersi. Diciamo per iperbole: tiene così tanto alla sua opinione che, se potesse, la leader dei Fratelli d’Italia gradirebbe fare predisporre per Fazzolari una seconda scrivania accanto alla sua da presidente del Consiglio, nella medesima stanza, per garantirsi la collaborazione ventiquattr’ore su ventiquattro.
Lo vorrebbe ad esempio consigliere a Palazzo Chigi: già immaginarlo sottosegretario alla Presidenza, come pure si è ipotizzato, o ministro all’attuazione del Pnrr, significherebbe poterci contare poco, ritrovarselo troppo gravato di altre incombenze. E Meloni, su di lui, conta tutto. Così, dunque, anche se è ancora presto per dirlo, volendo così su due piedi trovare un volto chiave, un personaggio simbolo del governo prossimo venturo, la nuova destra che comanda, ecco ce l’abbiamo: la faccia di Fazzolari, bene o male.
Lui, per Giorgia, c’è da sempre. Passò con lei, ad esempio, la serata prima del giuramento al Quirinale come ministra della Gioventù, nel 2008, governo guidato da Silvio Berlusconi, come ha raccontato lei stessa nell’autobiografia “Io sono Giorgia” nel 2021, riempiendo di elogi il suo consigliere: «Giovanbattista, per gli amici antichi Spugna, per me Fazzo, è la persona più intelligente e giusta che abbia avuto la fortuna di conoscere. Oggi è senatore di Fratelli d’Italia, ma per me è molto di più. Non ricordo un solo giorno della mia vita in cui non ci fosse lui al mio fianco».
Si sono conosciuti nel periodo dell’impegno universitario, quando lui – infanzia itinerante appresso al padre diplomatico, poi liceo francese a Roma allo Chateaubriand - era responsabile romano di Fare fronte-Azione universitaria, spola tra La Sapienza e la sezione di via Sommacampagna.
Fazzolari è sempre stato un meloniano, come praticamente tutti gli altri suoi fedelissimi, sin dal congresso di Viterbo del 2004 in cui Meloni con soli 16 voti di scarto su Carlo Fidanza fu eletta capo dei giovani di An. Per quella occasione, infatti, la oggi quasi premier dovette scegliersi due referenti nazionali: uno era lui, l’altro era Francesco Lollobrigida, capogruppo alla Camera destinato a quanto pare alla riconferma.
Insomma vent’anni fa era praticamente tutto uguale ad adesso, come ha raccontato lo stesso Fazzolari a Francesco Boezi due anni fa in “Fenomeno Meloni”: «Anche in quella occasione, a Viterbo, Lollobrigida si era occupato soprattutto di organizzazione e dinamiche politiche. Io, invece, mi ero concentrato sugli aspetti programmatici e su quelli contenutistici». E da allora non ha più fatto altro, almeno per il partito e per la sua leader.
Meloni però Fazzolari non l’ha lasciato indietro: se lo è portato anche alla Camera dei deputati, nel 2006, quando, da vicepresidente di Montecitorio, lo ha voluto suo consulente giuridico. E, due anni dopo, l’ha trasferito al governo: capo della segreteria tecnica della ministra della Gioventù, fino al 2013.
In tutto questo tempo, l’idillio è diventato totale, come ha raccontato lei, sempre tenendola bassa: «Con quell’espressione sempre tranquilla, la battuta pronta per sdrammatizzare e una risposta a qualsiasi domanda, ha accompagnato tutto il mio percorso. Ormai ci capiamo al volo, e tra noi c’è una tale alchimia che a volte non ricordiamo più chi sia stato, dei due, a elaborare un determinato pensiero. Ci siamo completati a vicenda, e scherzando diciamo che ognuno ha salvato l’altro da se stesso». Nientemeno.
Ecco se le cose stavano così in partenza, il suo ruolo nelle ultime settimane è addirittura cresciuto. A tutto vantaggio di un altro personaggio assai vicino a Meloni e che pure è legato a Fazzolari, sin dai tempi dell’impegno politico all’università e della sezione di via Sommacampagna: Giampaolo Rossi, filo no vax e filo-putiniano, ora direttore scientifico della fondazione An e presente in tutti i toto-potere di Fratelli d’Italia a partire da quello della Rai. Per dire quanto sono stratificati e forti i legami: a inventare il nome di Azione universitaria, che era guidata da Fazzolari, fu Alessandro Vicinanza detto “Il Macedone”. Ed è a lui, scomparso giovane, che Giampaolo Rossi ha dedicato la vittoria di Fratelli d’Italia, con un post su Facebook, il 25 settembre.
Una sintonia che si ritrova anche sul piano politico: sono noti i tweet di Giampaolo Rossi contro Sergio Mattarella, insieme a una serie di altri, giudicati inopportuni, che rendono il suo desiderio di diventare ministro particolarmente complesso da realizzare. Meno noti, ma non meno efficaci, sono i tweet di Fazzolari, che nessuno ha sinora mai evidenziato.
Quando per esempio, in occasione dell'elezione di Sergio Mattarella, rispondendo a Giorgia Meloni, commentò: «Dal cilindro del rottamatore esce un rottame #Mattarella #quirinale». era il 29 gennaio 2015. Due giorni dopo, il 31, gli diede carinamente dell'aspirante demonio: «#Mattarella 665 voti a un passo dal numero della bestia 666. Aspirante demonio». Nel 2018, nel corso del lungo stallo per la formazione del governo, gli diede del ridicolo: «#NonelArena Questa è esilarante: Mattarella, che non ha avuto nulla da ridire sulla Fedeli ministro dell’istruzione e Alfano ministro degli Esteri, ha detto che vigilerà sull’adeguatezza dei ministri del prossimo governo. Oltre i confini del ridicolo» (13 mag 2018).
Poi, quando Mattarella disse no all'indicazione di Paolo Savona come ministro dell'Economia, per via delle sue posizioni no euro che avrebbero potuto provocare, come disse allora il capo dello Stato, «probabilmente, o, addirittura, inevitabilmente, la fuoruscita dell'Italia dall'euro», lo accusò di sottomissione all'Europa: «La sovranità appartiene al popolo, Mattarella si rilegga l'articolo 1 della costituzione, si accorgerà che è scritto in italiano, non in tedesco o in francese. #Savona #Meloni».
Più di recente Fazzolari si è mostrato gran sostenitore del battaglione Azov, saltandone a pie' pari i profili, diciamo, in chiaroscuro. In un tweet corredato con una cartina di Mariupol, con al centro lo stabilimento di Azovstal, scriveva: «Non importa come la pensi su questa guerra. L'eroismo desta ammirazione sempre, perfino quello del nemico. E la difesa della città #ucraina di #Mariupol, circondata e assediata da 59 giorni, entrerà nella storia per il coraggio dei suoi difensori. Onore a loro». Era il 23 aprile, adesso il tweet risulta cancellato.
Sempre ad aprile, pochi giorni prima, si esaltava: «#Mariupol doveva cadere dopo poche ore, già il 24 febbraio. Circondata, senza rifornimenti, con i difensori in netta inferiorità numerica. Contro ogni previsione, ogni logica, ogni legge della natura un pugno di eroi ucraini difende la città da 47 giorni. Ed entra nella storia», scriveva l'11 aprile. Per poi aggiungere, lo stesso giorno: «E ora arriveranno i commenti dei codardi, di quegli omuncoli incapaci di qualsivoglia atto di coraggio o anche solo di dignità. Eccoli scatenare tutto il loro rancore contro chi ha il coraggio che loro non hanno mai avuto e mai avranno».
Certo è che il presunto Gianni Letta di Giorgia Meloni si trova abbastanza fuori linea, rispetto al riservatissimo dottor Letta originale. Mentre Fazzolari ha cominciato ad essere inseguito da richieste, amici di vecchia data spuntati dal nulla e affamati di poltrone, è saltato fuori che Fazzolari è una specie di idolo anche per gli appassionati di armi. Un Che Guevara della doppietta libera. Gira sul web una sua intervista, rilasciata in Lacoste nera alla Fiera Eos 2022 di Verona in cui, è trattato come un personaggio davvero importante già nella primavera scorsa, quando i più non ne conoscevano neanche il nome.
«Sì, mi diverto e mi diletto nel mondo del tiro», gongola, Fazzolari in quell’occasione, mentre l’intervistatore lo magnifica e lo porta in trionfo come «motore trainante per la liberalizzazione del 9x19», volgarmente detto Parabellum, grazie al «meritorio» emendamento con cui senza particolari clamori ha «fatto uscire l'Italia dal Medioevo» facilitando l'uso dell’arma. Un’azione definita «quasi eroica», ma nata da un preciso afflato.
«Reputo che i possessori di armi abbiano diritto a maggiore tutela e maggiore attenzione di quella che di solito hanno», spiegava Fazzolari. Ecco, uno pensava le donne, i poveri, gli emarginati: invece no, l’orizzonte naturale è la lobby del tiro sportivo, che ha bisogno di più tutela. Fazzolari fino a quattro mesi fa era assai vigile.
Raccontava infatti: «Ci sono attualmente delle proposte di legge molto preoccupanti che di fatto annullerebbero la possibilità di fare tiro sportivo. Alcune prevedono l’impossibilità di detenere munizioni a casa, ma solo al poligono, il che è irrealizzabile. Oppure l’obbligo di tenere le armi ai poligoni, creando delle sorte dei fortini nei poligoni». Un vero scandalo.
«Fino alle assurdità che per poter richiedere un porto d’armi si debba avere l’assenso di tutte le precedenti relazioni anche affettive, il che rende la questione grottesca, irrealizzabile, oltre a dare la possibilità a ex mogli o ex mariti di rifarsi col vecchio partner non concedendo la possibilità di avere le armi», raccontava indignato Fazzolari.
È una vera fortuna che la legislatura sia caduta in anticipo, prima che queste terrificanti proposte di legge potessero minare la libertà di tutti. Ma adesso si pone un ulteriore problema: alla scarsa attenzione per la tutela degli appassionati di armi ha sin qui posto rimedio Fazzolari stesso, in persona, argine all’ingiustizia. Non sappiamo dire chi d’ora in poi si occuperà dei diritti di chi fa tiro sportivo. In Fratelli d’Italia e nella maggioranza in genere si usa dire in questi giorni, per qualsiasi cosa: «Chiedetelo a Fazzolari». Si potrebbe domandargli anche questo.
Giorgia Meloni, parla Silvano Moffa: vi svelo gli esordi della premier. Pietro De Leo su Il Tempo il 22 ottobre 2022.
«Eravamo alla vigilia del 2000». Racconta nella letizia dei ricordi Silvano Moffa. Nome storico della destra, tra i protagonisti della fase di An di cui fu parlamentare e soprattutto uomo che espugnò la Provincia di Roma, quando ancora era un ente a elezione diretta. In quell'occasione, con la sua presidenza della Giunta, in consiglio provinciale entrò Giorgia Meloni.
Facciamo un po' di amarcord, onorevole Moffa?
«13 dicembre 1998. La destra vince a Palazzo Valentini e c'era una giovanissima consigliera, la più giovane di tutti Giorgia Meloni. Peraltro, a quei tempi sperimentammo la formula delle primarie, quindi anche lei conquistò la sua candidatura vincendole».
Cosa ricorda della Giorgia Meloni «esordiente»?
«Profonda attitudine allo studio, all'approfondimento. Era costantemente presente sia in aula che in commissione, ed era molto concentrata su tutto ciò che riguardava le politiche giovanili. Non trascurava, poi, la militanza autentica, tra il suo quartiere e la storica sezione di Colle Oppio. Insomma, una ragazza che dimostrava grande dedizione e abnegazione, e un profondo senso di responsabilità. Poi allora le Province avevano ben altro peso rispetto a quello attuale».
Ha qualche aneddoto in particolare?
«Poteva capitare che in consiglio provinciale trattassimo anche di qualche specifico tema internazionale, che magari avesse a una particolare rilevanza culturale o sul piano dei diritti. Allora ci occupammo del popolo dello Sahrawi e dei contrasti con il Marocco. A Giorgia Meloni affidai la guida di una delegazione che si recò su quella terra. E quando tornò lavorammo a una conferenza, che poi effettivamente si tenne, per far incontrare i rappresentanti delle due parti. Era davvero una cosa inedita per una giovane della sua età».
Ora, alla guida del governo per la leader Fdi si apre un momento non facile. C'è un contesto socio economico molto complicato, e la coalizione non sempre va d'amore e d'accordo. Cosa prevede?
«Conosco il suo essere animata da una profonda sensibilità sociale, e l'attenzione verso i più deboli. Quanto agli alleati, è molto maturata. Sa quello che vuole ed è molto determinata, ma nel contempo ha anche una profonda perspicacia politica e sa trovare i P.D.L. punti di equilibrio»
Meloni, quando aveva 15 anni alla Garbatella... come è iniziato tutto. Renato Farina su Libero Quotidiano il 22 ottobre 2022.
Alle 11 del mattino ha fatto irruzione nel cortile del Quirinale. Era proprio lei, Io -sono -Giorgia, madre, cristiana, e tutto il resto. Sa molto bene chi è. E sa che è lì per nessun'altra ragione che sia diversa dall'essere Io-sono-Giorgia. Il voto popolare l'ha mandata a questo appuntamento con la storia proprio perché ha avuto quella vita e quei certi ideali che si fa fatica a nominare, per il pudore che deve circondare il tabernacolo della nostra essenza. Alle 11 guidava la delegazione di Fratelli d'Italia. Lei davanti, e i due uomini (capigruppo al Senato e alla Camera) appaiati come le gemelle Kessler, un paio di metri indietro. Per l'evidenza del merito si rendeva plastico il rovesciamento delle precedenze nella carovana consueta. Giorgia col passo deciso e l'anima tremante. Davanti, certo. Ma non sola. Non una donna sola al comando. A chi somiglia tra i personaggi della "compagnia dell'Anello" di Tolkien, che come tutti i militanti-fratelli-amici della sezione romana di Colle Oppio venera come una profezia? Ma sì: lei è Frodo, la piccola statura e l'altezza dell'intelligenza, la determinazione fino alla cocciutaggine, il coraggio fisico che sfida orchi e poteri truci. Ma ieri somigliava tanto anche a una principessa degli Elfi, di quelle con le frecce nella faretra, ed un lieve affanno nel respiro. Pensa. Sarò degna del compito? Intanto ci sono e ballo.
FEMMINA
È arrivata a diventare premier, la prima in Italia ad avere questa carica, e ci è arrivata portando sulle spalle due blocchi di granito: l'essere femmina e venire da destra. Incredibile a dirsi, ma come tutte le cose decisive nella vita delle persone e dei popoli, i "nonostante", si sono trasformati grazie alla fantasia che governa il destino in doni irresistibili, ali angeliche, o forse di drago. Dice di sé «la sottoscritta» nelle prime parole pronunciate da presidente del consiglio incaricato in pectore. La formula «il/la sottoscritto/a» sta nei moduli quando si fa la fila a uno sportello per qualsiasi domandina. Lei è così, una che si mette in fila, appartiene a quella fila di gente che da qualsiasi Garbatella del mondo cercano la felicità peri propri figli e nipoti. Porta con sé la certezza di non essere lì per caso, e dice subito un'altra parola: «Nazione». Servire la Nazione, gli interessi della Nazione. Evita la parola Paese riferita all'Italia, difficile sentirla evocare lo Stato. Usa la parola Patria con straordinaria parsimonia per analogia col comandamento sinaitico: non nominare il nome di Dio invano. Patriota si, altra parola tabù. Abbiamo imparato tante cose di lei. Urla ma non si sovrappone, studia le cose da dire, non quelle che sarebbe opportuno ripetere. Ingenua o pura, vedete voi. Quando promette qualcosa, Giorgia, come Muzio Scevola, appoggerebbe la mano (destra, ovvio) sul braciere. Gli altri metterebbero le mani avanti, verso il medesimo braciere, ma per prudenza tenendole un metro indietro. La sua storia è bellissima, come il suo presente. Dicevano di Giorgia Meloni, mamma di Ginevra, compagna di Andrea, fosse troppo romana, con quell'accento della Garbatella a chiuderla a chiave tra il Tevere e l'Aniene. Si è rivelata una panzana degli invidiosi. Tutti i leader naturali non riescono a stingere la propria origine, salvo perdere l'anima. Non se ne vergognano. Un video. Dura poco. Mattino Cinque, ore 9,23, 29 gennaio 2018. Le chiedono della piccola Ginevra. Subito si chiude, mette conserte le braccia, per pudore, e così si scopre di più. Le chiedono, cosa vorrebbe scrivesse di lei in un tema sua figlia tra qualche anno: «Che ha una mamma patriota, una persona che ha fatto tutto quello che poteva per lei e per il posto dove abita. Cerco di tenere in bilico le cose». Insistono: ma non c'è il rischio che sua figlia dica che la madre è una patriota ma che la vede poco? E lei risponde con un sospiro: «Certo». E gilabbra morde le ra la faccia, si col rossetto, e non sa più dir nulla, piange e sorride, risorride. Fantastico. Viene in mente tutta la sua vita. Il padre era comunista, la madre di una destra alla Predappio. L'uomo prende una barca a vela, e se ne va alle Canarie, apre un ristorante, e addio. Lascia due sorelline. Che giocando ai fiammiferi incendiano la casa. Sul serio.
CANDIDA
A quindici anni, dinanzi allo spettacolo della politica ladra bussa a una sezione del Movimento sociale. Non è nostalgica di niente. Sogna «una politica candida come la neve». E lì s' imbatte in qualcosa che corrisponde al suo desiderio. La comunità politica detta i Gabbiani, il cui leader è Fabio Rampelli, un giovane architetto, nazionale di nuoto e intellettuale. I Gabbiani, con quel nome alato, non fanno solo politica: è un circolo umanamente totalizzante. Sono quella che i nemici chiamano una setta, ma che è anzitutto un'amicizia con un'idea forte e cristallina del mondo, e il sogno di cambiarlo, mantenendosi uniti e il resto accada. Parsifal, gli Hobbit, Atreyu. Giorgia fonda un gruppo studentesco che si chiama spiritosamente "Gli Antenati". Una leader nata. Si ritrovavano tutti i lunedì alle sette della sera al "Richiamo del corno", a Colle Oppio. A condurre le meditazioni oltre a Rampelli, Marco Marsilio, Marco Scuria... Hanno idee di destra? Sì ma imprevedibili nelle applicazioni. Si ritrovano a leggere un articolo di giornale, dopo di che interuna pagiventi liberi. Oppure na di Tolkien o Jünger, ma anche di Buzzati, Pasolini. Nel 2000, Giorgia si innamora di una causa: il Fronte del Polisario! Va in tenda a difendere i neri Sharawi nella loro volontà d'indipendenza dai maghrebini del Marocco e dagli spagnoli. Si mantiene facendo la cameriera alla discoteca Piper (gli altri politici della sua generazione lo frequentavano per l'aperitivo), fa la babysitter e capita in casa di Fiorello, che avendola conosciuta sul lavoro, brava e capace, fa una dichiarazione di voto a suo favore. E' stata vicepresidente della Camera a 29 anni. Poi ministro per la Gioventù. Cerca aria fuori dal Pdl. Non si sposta dalle sue convinzioni. Tradizione e modernità. L'aborto? Avrebbe dovuto essere la sua sorte quello di essere schiacciata nel ventre della mamma: alla fine disse di no. Rispetto per tutti, ma no matrimoni omosessuali, e soprattutto niente adozioni gay. Asili nido gratuiti. Presepi nelle scuole (e a casa sua). Europa dei popoli e delle Nazioni, sovranità italica. Dalla coda di cavallo e dai blue-jeans e giacca a vento è passata al tailleur e al fondotinta, persino ai tacchi. Dice che lo fa un po' per piacere agli altri, ma soprattutto al suo uomo. Si sposerebbe subito, ma toccherebbe all'uomo farle la proposta. I consiglieri d'immagine propenderebbero per il matrimonio tradizionale. C'è qualcosa di più prezioso dell'immagine, dice lei: ed è il rispetto di chi ami. D'accordo. Ma Andrea, che aspetti? Hai paura di fare la figura del marito della Merkel?
Da video.repubblica.it il 25 ottobre 2022.
Nel 2006 Stefano Cappellini intervista la ventinovenne Giorgia Meloni, alla vigilia delle elezioni politiche nelle quali sarà poi eletta risultando la più giovane parlamentare della legislatura. Il programma è Gong, va in onda su Nessuno Tv, in ogni puntata interroga con domande incalzanti giovani candidati under 30 e un "vecchio" della politica, Giorgio Napolitano in quell'occasione.
Nelle risposte a Cappellini, rilanciate ieri dalla trasmissione de "La 7" di Enrico Mentana Diario Politico, Meloni fissa le sue idee, punti fermi del futuro agire politico: identità, amore per la patria, contrarietà alla legalizzazione delle droghe leggere, soglia di stipendio minima 1500 euro, al di sotto della quale si entra in povertà.
Giorgia Meloni, il video del 2006: "La differenza tra destra e sinistra". Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022
I sondaggisti sono unanimi: è la coerenza l'arma segreta di Giorgia Meloni, quella che le ha permesso di stravincere le elezioni del 25 settembre dopo aver tenuto ostinatamente Fratelli d'Italia all'opposizione per 10 anni, dalla fondazione del partito a oggi. E una vecchia intervista risalente al 2006, con una giovanissima Meloni allora esponente di Alleanza nazionale incalzata dal giornalista Stefano Cappellini, conferma come in 16 anni il Meloni-pensiero non sia cambiato di una virgola. Semmai, si sia articolato e aggiornato, trovando nuova forza.
E' Enrico Mentana, direttore del TgLa7, a ripescare dagli archivi quel minuto "illuminante" mandandolo in onda a Diario Politico, lo speciale di La7 sulla nascita del nuovo governo. Le domande di Cappellini si susseguono a raffica, la Meloni risponde chiara, precisa, telegrafica.
"Mi sono iscritta al partito nel 1992, perché ho pensato dopo l'omicidio di Borsellino che non si potesse restare a guardare". Tre aggettivi per definire il suo partito: "Identità, comunità, spiritualità". Valeva per l'Msi, per l'AN degli albori, a maggior ragione oggi per FdI. Favorevole alla legalizzazione delle droghe leggere? "Assolutamente no, mai fumato uno spinello né provate droghe". Se un politico è omosessuale deve dichiararlo? "A sua discrezione, non mi interessa".
Se dovesse spiegare a un ragazzo la differenza tra destra e sinistra? "La destra antepone a tutto l'amore per la propria terra, la sinistra l'amore per la propria ideologia". E l'aborto? "Non cambierei la legge 194, però l'applicherei". Benito Mussolini? "Un personaggio storico", taglia corto con un sorriso. E il suo testo politico di riferimento: "Il signore degli anelli di Tolkien".
Essere Giorgia. Un filmato della Meloni ventinovenne che avrebbe dovuto svegliare la sinistra, e invece no. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Ottobre 2022
Mentana ha ritrovato un’intervista del 2006, dove c’era già tutto. Prima o poi arriverà il giorno in cui i progressisti troveranno formule più efficaci di «se sei contro l’aborto, non abortire». Ma non è questo il giorno
Può accadere d’essere così convinti d’essere nel giusto da non prendersi il disturbo d’argomentare, e che quindi i cattivi risultino più efficaci nell’esposizione delle loro argomentazioni rispetto ai buoni, e guadagnino più consenso?
Lunedì, mentre come tutte quelle (poche) che non sono diventate antiabortiste appena smesso d’essere fertili ero in preda allo sconforto perché, sulla Stampa, c’era un articolo di Eugenia Roccella più centrato nel difendere l’avversità all’aborto di quanto lo siano in genere le difese di quella possibilità, ho acceso la tv.
Enrico Mentana era ancora in diretta nonostante il governo avesse ormai giurato e al discorso della Meloni alla Camera mancassero diciotto ore. Neanche il tempo di dire mandatelo a san Patrignano, disintossicatelo da questo bisogno di diretta quotidiana, ed è arrivato il capolavoro.
Il filmato, che io non avevo mai visto e di cui nessun redattore televisivo pagato per farlo si era evidentemente ricordato o accorto negli ultimi mesi, era di quando Giorgia Meloni aveva ventinove anni, e se l’avessero trasmesso un mese fa mica lo so chi avrebbe arginato il consenso della bionda (ora mi dicono che sono sessista perché voglio rimettere al suo posto una donna di potere enfatizzandone il colore di capelli: che fatica).
È il 2006, su Mtv va in onda un programma intitolato “Avere vent’anni”, lo conduce Massimo Coppola, forse l’uomo più detestato da chiunque in quel mondo in cui pure abbondano le antipatie che è la cultura italiana. Nella meravigliosa tranche di cui ci ha fatto dono Mentana, Coppola segue Meloni, allora presidente di Azione Giovani e che di lì a poco diverrà per la prima volta deputata (e vicepresidente della Camera), in uno studio televisivo dove si confronterà con Giorgio Napolitano (non ancora presidente della Repubblica), e poi insiste per riaccompagnarla a casa a filmare la sua collezione di angeli (lei obietta: «mia madre non sarebbe contenta, quella poi si deve vestire», e già lì sono un milione di punti-eleggibilità).
A volte le cose di quindici anni prima sembrano di centocinquanta, e questo meccanismo di relativismo mnemonico riluccica quando Coppola chiede a Meloni dei Pacs. I Pacs, mamma mia, neanche i 45 giri sembrano così antichi. E poi ci furono pure i Dico, che vatti a ricordare in cosa differissero. Non mi ricordavo quale fosse stato l’atteggiamento perdente della sinistra in quel caso, finché Coppola non lo incarna.
Dice Coppola a Meloni, indicando l’operatore che li sta filmando, eh ma sei io e lui restiamo vedovi e vogliamo andare a vivere insieme perché non abbiamo abbastanza soldi per stare da soli, e mi risale un camion di madeleine digerite meno della peperonata: le vecchiette! La sinistra fu così fessa e vile da non dire che voleva regolamentare le relazioni omosessuali, ma da nascondere i Pacs sotto il ricatto della vecchietta rimasta sola che vive con un’amica perché con due pensioni forse si campa. Che imbarazzo. Che consuetudine.
È così per tutto. Non vogliamo una legge sull’aborto perché mica sarete scemi a pensare di farci partorire a forza figli che non vogliamo, no: la vogliamo per usarla pochissimo, giurin giuretta, ci serve perché altrimenti le donne moriranno di aborto clandestino, non vi sentite in colpa, e comunque sappiate che ogni (rarissima) volta che useremo una legge che c’è soffriremo tantissimo.
Non vogliamo che quelli nati col pisello possano essere chiamati in modi femminili perché ognuno deve potersi sentire e far chiamare come gli pare, e se uno si realizza a fare la sorella Bandiera non solo sul palco ma anche nella vita chi siamo noi per vietarglielo: vogliamo diritti per i transessuali perché sennò si ammazzano, non la vedi l’epidemia di suicidi dei Gennaro che non possono farsi chiamare Maria Concetta?
La sinistra, le questioni di diritti civili, le ammanta sempre di ricatto morale che sottintende: non è un diritto cui abbiamo diritto perché è incivile non avercelo, è una concessione che ci fate perché sennò succedono cose bruttissime che succedono nello zero virgola qualcosa dei casi che questo diritto dovrebbe regolamentare.
Giorgia Meloni, che è più sveglia di Coppola (il quale, capendo l’immaginario come io capisco il calcio, la cazzia per aver detto che il suo testo politico di riferimento è “Il signore degli anelli”), ma soprattutto è molto più sveglia di noi, gli dice ma è un finto problema, «Lo Stato tende a normare quello che è utile, lo Stato non norma l’amicizia, te lo sei mai chiesto perché? L’amicizia è una cosa brutta? L’amicizia è la cosa più bella che esiste al mondo. Lo Stato tende a normare ciò che serve per la sua crescita, quindi norma la famiglia perché la famiglia procrea e manda avanti la società» (Coppola, che è fesso come il retore medio di sinistra, obietta «ma sai quanta parte del pil è prodotta dagli omosessuali»; lei, che è generosa con l’avversario in difficoltà, non gli chiede quanto pil producano le vecchiette con la pensione bassa).
La Meloni – che essendo di destra difende una linea di destra: è necessario ribadirlo giacché viviamo in un contesto che trasecola pure se il Papa fa affermazioni da cattolico – gli dice ma tu non vuoi che la vecchietta possa stare in ospedale al capezzale dell’altra vecchietta perché è sul suo stato di famiglia, tu vuoi equiparare le convivenze gay al matrimonio. «Che vuol dire che hanno le stesse prerogative del matrimonio?». Coppola non raccoglie il sottinteso, e cioè: quindi tu vuoi far adottare bambini ai busoni, scostumato.
Ma, se il sottotesto non osano esplicitarlo quelli che propongono le leggi, possiamo aspettarci che lo espliciti un conduttore di Mtv? Se mai una deputata è andata in tv a dire state dicendo che volete far partorire le donne a forza, rendiamoci conto, certo che esiste l’aborto ed esisterà sempre e sarà sempre un nodo etico che non si risolve, ma siccome non potete mettermi un tappo e farmi restar dentro per obbligo un feto che si sviluppa allora ce ne si fa una ragione: se è consentito tagliare la corda dello scalatore dietro di me per non far morire pure me in montagna, è consentita anche quella pratica per la quale io non faccio un plissé e che voi invece pensate sia strage d’innocenti – se mai una deputata è andata in tv a dire anche solo «certo che ho abortito, come tutte», possiamo mai pensare che le pensatrici di sinistra trovino formule più efficaci di «se sei contro l’aborto, non abortire»?
La destra non è una: esistono destre diverse e nemiche. Chi è Giorgia Meloni, la prima premier donna italiana più peronista che thatcheriana. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 23 Ottobre 2022
Abbiamo visto sfilare il governo di Giorgia Meloni al Quirinale e dunque la cosa è fatta e tira una grande bonaccia delle Antille, a vele flosce come quando sta per scatenarsi l’ira degli elementi ma tutto sembra sereno e armonico. Tutto bene, tutto placido, tutto sobrio e ben vestito, ma tutti sanno che questo è un governo che cammina sul filo. Che cosa farà Meloni, ora che è insediata al governo della Repubblica con le consultazioni più rapide della storia? È blindata e protetta da buoni consiglieri e sta attentissima a non fare passi falsi, ma per come stanno le cose, saranno i fatti a determinare la sua politica piuttosto che il contrario.
In Italia e nel mondo si fa sempre una dannata confusione, quando si parla di destra, tra una destra conservatrice liberale e una destra contenente un frammento di Dna fascista, cioè incline al socialismo di Stato. Mettere sullo stesso piano inclinato la dimissionaria Prime Minister Liz Truss con la nascente Presidentessa del Consiglio italiano Giorgia Meloni, crea una distorsione ottica. Ed è una distorsione sempre molto incoraggiata a sinistra perché nasconde la questione fondamentale: chi e come crea la ricchezza che poi, dopo, si cerca di distribuire? La ricetta della Truss, mal scopiazzata da quella che Donald Trump applicò con enorme successo fino all’arrivo della pandemia, non consiste nel “tagliare le tasse ai ricchi” ma nel tagliare le tasse a chi produce ricchezza affinché possa investire più soldi nelle aziende creando posti di lavoro.
Potrebbe Giorgia Meloni darsi a un tale stravagante sport, oggi in Italia? Onestamente: ma quando mai? Già, che Salvini possa varare la flat tax sembra una chimera alimentata da una follia. Da noi non si tratta di far arricchire i ricchi e impoverire i poveri – altro perdurante scenario fiabesco che incorpora sia la ricca e perversa regina Brunilde (di sicuro thatcheriana) che la sguattera Biancaneve con i sette minatori con cui convive, molto gettonato – ma di permettere alle aziende di non crepare, di assumere anziché licenziare mentre già stanno crepando per i costi energetici, l’inflazione galoppante e una pressione fiscale tanto tirannica, quanto sciocca.
I giornali inglesi non hanno resistito alla facile analogia e si sono sprecati in commenti al sugo e alla pizza coi funghi, secondo gli adorati clichet: ecco la Truss in copertina con l’elmo di Scipio e lo scudo alla marinara mentre brandisce una forchettata di spaghetti della stessa scatola di quelli pubblicati negli anni Settanta del tedesco Spiegel, con l’aggiunta -allora – di un revolver e il titolo “Spaghetti in salsa cilena” alludendo al golpe che installò Augusto Pinochet alla Moneda, dopo aver eliminato Salvador Allende. Quando si parla di “destra” bisognerebbe sempre stabilire prima che cosa si intende: se quella anticomunista conservatrice ma liberale di Winston Churchill; o quella dei socialismi nazionali come quella di Adolf Hitler.
Nessuno al mondo potrebbe mai dire che i due fossero separati soltanto da qualche grado di estremismo. Fra quei due – e tutti i loro successori ieri oggi e domani – lo stato dei rapporti può essere uno solo: guerra mortale all’ultimo sangue. La Meloni si è vista analizzare il suo di sangue, in Italia e da tutto il mondo, perché si è fatta le giovani ossa come militante di quella destra sociale derivata dalla componente socialista del regime mussoliniano. Quindi Meloni e la Thatcher, o Meloni e Theresa May (per non dire di Meloni e la Truss), c’entrano fra loro come i leggendari cavoli a merenda. Semmai si potrebbe azzardare qualche affinità con Evita Peron anche per la retorica scandita in spagnolo. “Soy Giorgia, soy Evita…” .
Eppure, è quasi impossibile resistere alla tentazione, già che parliamo di destra, di mettere le due donne, Giorgia e Liz, nello stesso cesto. La destra di radice illiberale è nemica della finanza, del neoliberismo, dell’ancòra più liberismo selvaggio, dei neocon. Probabilmente si è creata una leggenda storica molto curiosa e dagli effetti perversi secondo cui le donne che nella storia recente hanno raggiunto il potere del governo, sono sempre state delle dure, inflessibili e determinate come la Thatcher quando prese di petto lo strapotere sindacale dei minatori e non ebbe pace, né l’Inghilterra ebbe pace finché non vinse. E quando l’Argentina tentò di sottrarre alla Corona inglese le lontane isole Falkland, mandò la flotta oltre l’Atlantico per fare la guerra e vincere.
Si possono aggiungere Indira Gandhi, che fece guerra al Pakistan e Golda Meyr fondatrice dello Stato di Israele che combatté senza sosta. Ma per l’immaginario collettivo, o a posti singoli ,della sinistra si tratta quasi sempre di donne sadiche come la Thatcher, o pazze come questa Liz Truss che pretendeva di applicare la ricetta Trump in una salsa inglese. Quella formula negli Stati Uniti ha funzionato clamorosamente per due anni facendo registrare il più alto tasso di occupazione e la più drastica riduzione della povertà generale, facendo volare i mercati, le banche, i risparmiatori e l’economia tutta. Nel Regno Unito i conservatori sono agli sgoccioli e i laburisti chiedono elezioni anticipate, ma la Costituzione non scritta, e dunque precisa come un teorema, non lo permette: i Tories hanno vinto e la maggioranza e tocca a loro. Prova ne sia che già si scalda in panchina il redivivo Bojo, acronimo di Boris Johnson.
E da noi? Esiste davvero una destra liberista e liberale? Forse liberale sì, in Forza Italia , Ma il liberismo selvaggio e assassino non ha mai abitato qui e semmai la Meloni rappresenta un suo antidoto spontaneo. Il vero rischio del governo Meloni sta nella fragilità della necessaria concordia sulla politica estera. Mario Draghi, lasciando Bruxelles tra applausi e discorsi ufficiali ha detto che non darà consigli al nuovo governo italiano e tanto nobile distacco non si sa sia portatore di autonomia e fiducia o dall’istinto che consiglia di saltare dalla barca e raggiungere la riva a nuoto.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Giorgia, prima donna premier, è già nella storia. E se farà bene sarà leggenda. Daniela Missaglia su Panorama il 22 Ottobre 2022
Accettando l’incarico dalle mani del Presidente della Repubblica, l’Italia ha finalmente un Premier donna: Giorgia Meloni. Il primo della sua storia. Un Premier, una Premier, maschile, neutro, femminile, fate un po’ come volete. Non ci incistiamo sul lessico di ‘boldriniana’ memoria: andiamo alla sostanza. La sostanza dice che il Presidente del Consiglio dei Ministri della Repubblica italiana, dopo 74 dalla Costituente, è una donna, giovane ma fortissima.
Giorgia Meloni è la riprova che l’Italia è finalmente matura e ha abbattuto tutte quelle barriere culturali che ci hanno legato ad un atavico maschilismo patriarcale in cui appartenere all’altra ‘metà del cielo’ significava obbligatoriamente rinunciare a coltivare i sogni più grandi. Giorgia Meloni è anche la dimostrazione che le avversità della vita temprano. In pochi erano al corrente della sua triste e incredibile vicenda familiare fino a che, un’altra donna, la giornalista e volto televisivo Rula Jebreal, ha odiosamente evocato, in un tweet, la storia di suo padre, arrestato in Spagna per traffici illeciti. Curioso che proprio colei che, da palestinese ed esponente di sinistra, si è battuta quotidianamente contro la discriminazione, abbia ceduto alla tentazione di cadere in una così meschina sortita che riassume l’essenza stessa del razzismo più becero, attribuendo una sorta di impronta generazionale all’On Meloni. Come se le colpe dei padri ricadessero geneticamente sui figli. Voglio sperare che Rula Jebreal non sapesse che Giorgia Meloni fu abbandonata dal padre quando aveva solo un anno e che lo vide, per l’ultima volta, nel 1988, in un giardino pubblico romano, nemmeno riconoscendolo. Un uomo che si è limitato a fornire il seme per generare Giorgia Meloni e la sorella e poi se n’è fuggito, lasciando nel cuore delle figlie un vuoto doloroso che, come ha chiarito la madre della nostra Premier, “a Giorgia è costato solo lacrime”. Rula Jebreal non si è nemmeno scusata ma ha rilanciato denunziando un clima di misoginia, islamofobia e razzismo, come un bambino che prima brucia casa e poi censura la reprimenda dei genitori. Lasciamo stare e torniamo al dolore di Giorgia Meloni, strumentalmente solleticato solo per denigrarla.
Quelle lacrime hanno irrorato le radici di una guerriera che, cresciuta nel quartiere ‘rosso’ della Garbatella, si è saputa distinguere, lottare per i propri obiettivi senza avere santi in paradiso o conoscenze altolocate, scalando uno a uno i gradini che l’hanno issata sullo scranno più alto del Parlamento italiano. Qualcuno ha scritto che le donne hanno un solo difetto: dimenticano sempre quanto valgono. Credo che Giorgia Meloni non l’abbia mai dimenticato e abbia usato, con pazienza e umiltà, la caparbietà che la grande maggioranza degli elettori italiani hanno riconosciuto tributandole il loro voto. Ci sono voluti anni, certo, ma come ebbe a dire il primo sindaco donna di Ottawa, in Canada, qualsiasi cosa facciano le donne devono farla due volte meglio degli uomini per essere apprezzate la metà. L’Inghilterra ha esultato per la prima donna Premier dopo l’indimenticabile Margareth Tatcher, Liz Truss, ma è durata meno di un gatto in tangenziale; la Germania non ha più nemmeno nel mirino un’erede della Merkel e gli Stati Uniti d’America ancora devono eleggere un Presidente donna. Auguri quindi a Giorgia Meloni, pur con tutte le riserve politiche che ognuno di noi ha il diritto di serbare nella logica di un Paese libero e democratico. Auguri all’Italia in questo momento difficile in una congiuntura internazionale connotata da guerre e crisi energetiche.
Se Giorgia vincerà la sfida, ciò che è già storia potrebbe addirittura diventare leggenda.
Da adnkronos.com il 24 Ottobre 2022.
"Giorgia Meloni è una donna unica nella storia d'Italia: invece di piagnucolare per le quote rosa ha preso il timone di una nave che affonda e naviga con le idee chiare". Non usa giri di parole Tinto Brass, il maestro del cinema erotico italiano, per commentare con l'AdnKronos l'inizio del nuovo governo guidato dal presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
"La sinistra - rileva Brass - ha tradito le donne. Allora io preferisco parlare con Giorgia piuttosto che con Letta o Renzi, forse perché alla inettitudine prediligo il coraggio". Oggi, fa notare il regista, tornano parole come Dio, patria e famiglia, "valori in nome dei quali tutti i miei film, 29 su 30, sono stati censurati.
Fascismo? Non è la parola giusta. E' del tutto naturale che movimenti reazionari guadagnino spazio in questo momento di crisi. Sono loro la migliore espressione della disperazione di un popolo. Ma chi preferisce dare spazio a politiche identitarie invece che accogliere le differenze può provocare enormi violenze ed esserne travolto. Lo sappiamo come va a finire, sono le dinamiche del potere ma per questo bisogna aspettare un po'".
Quanto ai nuovi dicasteri, "scorrendo la lista leggo che c'è il ministero della Famiglia, Natalità e Pari opportunità...ma cara Giorgia - dice ironico Brass - per incentivare la natalità non sono necessari dei bonus o dei voucher: la sera basta proiettare i miei film erotici in tutte le sale italiane con ingresso gratuito".
Meloni premier fa l’Italia più “progressista” e mette in crisi visione e metodo di sinistra: ecco perché. Carmelo Briguglio su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.
Giorgia Meloni mette in crisi la cultura della sinistra. E certo, figuratevi se non capisco l’effetto della botta dalla quale il fronte progressista si deve riprendere. L’Usigrai e la “resistenza determinativa” a “il” in nome del “lei” sono un sintomo di reazione alla Reazione; d’accordo, leggero e ridévole, direte. Invece, é meno soft di quanto immaginiate. Riflettete e analizzatela: non é crisi solo politica. É transpolitica: culturale, estetica; é storica. Taglia alle radici la “ragione” dell’essere progress. Se la prima donna nella storia d’Italia a diventare capo del governo italiano é di destra, la questione é più profonda; mette in discussione non solo e non tanto l’attuale o le attuali leadership della sinistra, ma tutta la sua storia nel dopoguerra; ne interroga in modo traumatico percorso, visione e metodo.
Giorgia Meloni mette in crisi la cultura della sinistra
E ne fa vacillare – é questo su cui richiamo il vostro pensare – le “politiche dei diritti”, quelli di nuova generazione: l’uguaglianza sostanziale, le politiche di genere, ossia i quark del suo universo valoriale. Insomma mette in dubbio che la “rive gauche” sia tuttora tra «queste rive son dell’umana gente le magnifiche sorti e progressive» del nostro conte-poeta Giacomo. L’ingresso della Meloni a Palazzo Chigi incide crepe nella “loro” simbologia, col suo incrocio di significati e luoghi generatori di senso; fende architetture verbali e formali: spesso solo astrazioni intellettualistiche con scarsa adesione alla realtà. Che sono state costruite sulle politiche di genere, sulla condizione femminile, su parità e pari opportunità; con tutto il seguito di eccessi in legislazioni e assessorati ad hoc; di progettualità pseudo-filosofiche: il non poco di sovrastrutture di immagine e superficie.
La Meloni emancipa l’Italia anche sul “loro” terreno
Una psicosfera sopraffatta dal principio di realtà che si invera così: la conservative Meloni, diventando presidente del Consiglio, emancipa l’Italia, anche sul “loro” terreno: la rende più “progressista”. E, qualche minuto di attenzione, intendo in quel campo tanto contemporaneo ed “europeo”, qual é quello del Genere. Come, perché ? Ah, ragazze e ragazzi miei: quanto ancora devo scrivere per farvi comprendere la rupture-radicale – eh sì, radicale – di questa svolta? Quanti tasti e quante volte devo ancora pigiare ? Non lo sapete ? Ecco qua. Nell’indice Eige sull’uguaglianza di genere 2021 l’Italia ha un punteggio di 63,8 su 100; siamo sotto la media europea: solo al 14° posto tra i 27 Stati membri dell’Ue. Siamo più giù dei maggiori Paesi dell’Unione: Francia, Germania, Spagna. E molto lontani da quelli del Nord Europa, naturalmente. Un altro minuto per dare uno sguardo al mondo; guardate un po’ qui: l’analisi 2021 del World economic forum sul Global Global Gender Gap – “Gender” non vi piace eh, ma dài non siate sospettosi – l’Italia é 63esima su 156 Paesi.
La dea Uguaglianza e le disparità italiane
Hanno misurato la nostra disparità di genere nel campo della politica, dell’economia, dell’istruzione e della salute, chiaro ? Lascio perdere i primi della classe, i soliti “nordici”; ma, cavolo, siamo il fanalino di coda – ultimi dati, giuro, poi vi lascio in pace – tra i Paesi europei: la Germania é all’11° posto, la Spagna al 14° posto, la Francia al 16°, il Regno Unito al 23°. Mi fermo: le statistiche sono dure da ingoiare, sono fredde e in questo caso pure negative. Ma aiutano a ragionare. E passo a un filone parallelo, dove volevo portarvi. Alla Costituzione. Ah, quanto fu e viene evocata, “contro”. Occhei, ci sto.
L’articolo 51 della Costituzione: attuarlo ora é più facile
Ma, ricordate l’articolo 51 della Carta più bella del mondo che dice? Ripassiamone il primo comma: «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini». Ricordate quando fu cambiato? Ve lo dico io: nel 2003 con voto bipartisan, a larga maggioranza (era premier Berlusconi); la legge costituzionale n. 1 vi aggiunse il secondo periodo della norma. Vi risparmio tutto il “giuridico”, le sentenze della Consulta et cetera.
Da Giorgia Meloni la più puntuale attuazione della Costituzione
E andiamo al punto politico: in venti anni, abbiamo fatto qualche passetto in avanti, ma – vedi i numeri sopra – siamo tuttora “arretrati”, per dire: la Dea Uguaglianza sta male in Italia. Ma – vedi un po’ tu che scherzi combina l’eterogenesi dei fini – il prossimo anno solo il fatto che una donna sia diventata capo del governo, ci farà scalare molte posizioni in quelle graduatorie planetarie. Certo numeriche, ma anche “culturali”; di considerazione tra istituzioni internazionali che a questo tipo di “cultura” guardano; con cui ci pesano come Nazione.
Le classifiche mondiali diranno che l’Italia é diventata più moderna, più progressista, più al femminile, più paritaria
Diranno – a denti larghi o stretti, non vi so dire – che l’Italia é diventata più moderna, più progressista, più al femminile, più paritaria: più quello che vi pare, ci siamo capiti. E soprattutto – seconda conclusione – é la Meloni a “fare” la più puntuale attuazione della Costituzione e di quell’articolo 51. Con la sua persona: ne sarà la metafora viva; modello e stimolo per tutte le italiane. Nella società e nelle istituzioni. Oltre la destra e la sinistra. Chi lo doveva dire? E sì, la storia delle idee si prende le sue rivincite; lo sapevate, no?
L’incredibile accusa della Boldrini: “Il partito della Meloni doveva chiamarsi Sorelle d’Italia”. Marta Lima su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.
Nelle ore in cui infuria la polemica delle femministe di sinistra contro Giorgia Meloni, che non si piega al linguaggio di genere imponendo a tutti di chiamarla “il presidente” e non “la presidente”, scende in campo con una delle sue inimitabili sciocchezze l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, che si spinge oltre ogni immaginazione, sostenendo che il partito del nuovo premier è maschilista e dovrebbe chiamarsi “sorelle d’Italia” e non solo “Fratelli”.
La Boldrini oltre ogni limite: critica la Meloni per il nome del suo partito
Ieri anche l’Accademia della Crusca si era espressa in maniera categorica: la Meloni può farsi chiamare come vuole, come aveva spiegato il presidente Claudio Marazzini all’Adnkronos, secondo cui non si può interpretare il maschile non marcato come un errore di grammatica: “Chi preferisce le forme tradizionali maschili ha diritto di farlo”.
Nonostante tutto, Laura Boldrini, oggi, sulla sua pagina Twitter, ha scritto cose deliranti: “La prima donna premier si fa chiamare il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare anche nella lingua il suo primato. La Treccani dice che i ruolo vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FdI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?”.
L’ironia di Fratelli d’Italia e della rete
L’unico commento politico, al momento, è quello del deputato di FdI Andrea Del Mastro, glaciale: “La psicopolizia del linguaggio”.
In rete, invece, sulla stessa pagina della Boldrini, si va di sfottò e di rabbia: “Io voto a sinistra, mannaggia a me, ma quando leggo queste stronzate non mi stupisco che al governo ci si la destra”.
“Per la legge io sono il ‘medico veterinario responsabile di…’ e a me, da donna, va benissimo Per inciso ‘la veterinaria”‘ invece è il nome scelto da diverse farmacie che vendono esclusivamente farmaci veterinari”.
“Anche per l’inno nazionale è troppo. Che dice il treccani (o la treccana) sul primato di Mameli?”.
“Non è che ora riesce fuori la roba della Matria al posto della Patria, vero?”.
“Avanti così con queste cazzate facciamoli arrivare al 50% dai che la strada è giusta”.
Il Papa: «La famiglia è fatta da un uomo e una donna che creano. Le ideologie distruggono tutto». Valeria Gelsi su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.
Il Papa è tornato a puntare l’indice contro le ideologie che «rovinano» e «fanno una strada di distruzione». Stavolta l’ha fatto parlando della famiglia che, ha avvertito, «non è un’ideologia, è una realtà», «fatta di un uomo e di una donna che si amano e creano». È partendo da qui, dunque, è stato il monito del Pontefice, che «la cultura della fede è chiamata a misurarsi, senza ingenuità e senza soggezione, con le trasformazioni che segnano la coscienza attuale dei rapporti tra uomo e donna, tra amore e generazione, tra famiglia e comunità».
Il Pontefice racconta «la più bella teologia sulla famiglia»: una coppia sposata da 60 anni
L’occasione per tornare a riflettere non solo sulla famiglia, ma sulla portata distruttiva delle ideologie è stata per Bergoglio l’udienza con la Comunità accademica del Pontificio istituto teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del matrimonio e della famiglia. «Per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto: le ideologie rovinano, si mischiamo e fanno una strada di distruzione. Non dobbiamo aspettare che la famiglia sia perfetta, per prenderci cura della sua vocazione e incoraggiare la sua missione», ha detto il Papa, raccontando a braccio un aneddoto di «quando facevo il saluto in piazza prima della pandemia». «È venuta una coppia, sembravano giovani: 60 anni di matrimonio. Lei a 18, lui a 20… “Non vi annoiate dopo tanti anni? State bene?”. Si sono guardati, se ne sono andati e sono tornati un’altra volta. Piangevano: “Ci amiamo”. Dopo 60 anni. Questa – ha sottolineato il Papa – è la più bella teologia sulla famiglia che ho visto».
«Noi non siamo profeti di sventura, ma di speranza»
«La missione della Chiesa sollecita oggi con urgenza l’integrazione della teologia del legame coniugale con una più concreta teologia della condizione famigliare», ha spiegato Bergoglio, sottolineando che «le inedite turbolenze, che in questo tempo mettono alla prova tutti i legami famigliari chiedono un attento discernimento per cogliere i segni della sapienza e della misericordia di Dio». «Noi non siamo profeti di sventura, ma di speranza. Perciò, nel considerare i motivi di crisi, non perderemo mai di vista anche i segni consolanti, a volte commoventi delle capacità che i legami famigliari continuano a mostrare: in favore della comunità di fede, della società civile, della convivenza umana. Tutti abbiamo visto quanto siano preziose, nei momenti di vulnerabilità e di costrizione, la tenacia, la tenuta, la collaborazione dei legami famigliari». «Molto, in questa società piena di crepe, dipende dalla ritrovata letizia dell’avventura famigliare ispirata da Dio», ha osservato il Pontefice.
Il Papa: «La famiglia non è un’ideologia, è una realtà»
«La qualità del matrimonio e della famiglia – ha detto ancora Francesco – decide la qualità dell’amore della singola persona e dei legami della stessa comunità umana. È perciò responsabilità sia dello Stato sia della Chiesa ascoltare le famiglie, in vista di una prossimità affettuosa, solidale, efficace: che le sostenga nel lavoro che già fanno per tutti, incoraggiando la loro vocazione per un mondo più umano, ossia più solidale e più fraterno». «Dobbiamo custodire la famiglia ma non imprigionarla, farla crescere come deve crescere. Stare attenti alle ideologie che si immischiano per spiegare la famiglia dal punto di vista ideologico. La famiglia non è un’ideologia, è una realtà. E una famiglia cresce con la vitalità della realtà. Ma quando vengono le ideologie a spiegare o a verniciare la famiglia succede quello che succede e si distrugge tutto. C’è una famiglia che ha questa grazia di uomo e donna che si amano e creano, e per capire la famiglia dobbiamo sempre andare al concreto, non alle ideologie».
Comunismo e femminismo pari sono: ecco perché la premier donna agita la sinistra. Francesca De Ambra su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.
È prima volta di una donna a Palazzo Chigi, ma le vestali del femminismo si bardano a lutto: «Una di noi Giorgia Meloni? Jamais». Diversamente, ragiona Laura Boldrini, oltre ai Fratelli avrebbe evocato anche le Sorelle d’Italia. Non fa una piega. E non è tutto: sull’Huffington Post la comunista Ritanna Armeni ha fatto un po’ di conti, concludendone che con sei donne ministro su 24 hai voglia a parlare di politiche al femminile. Persino se chi dirige l’orchestra è pure lei donna. E poi ci sono quelle storcono il naso per il “retaggio culturale missino” o alzano il sopracciò per il mancato “passato femminista“. Insomma, da qualunque parte la si guardi e da qualsiasi lato la si giri, la Meloni ha non è né mai sarà (meno male) una di loro.
Il patriarcato ha sostituito il padronato
E si capisce: predilige autodefinirsi “il premier” anziché “la premier” (con evidente disappunto dell’Usigrai, il sindacato simil-sovietico dei giornalisti Rai), “il presidente” piuttosto che “la presidente“, buttando così alle ortiche decenni di “conquiste“, soprattutto boldriniane. Ma tant’è: la Meloni è per la complementarità uomo-donna, le femministe doc si battono invece per la demolizione del patriarcato come nuovo simbolo, anzi reincarnazione, del padronato. Il sovvertimento degli equilibri è infatti il punto in cui comunismo e neo-femminismo s’intrecciano fino a fondersi.
Il femminismo surrogato della lotta di classe
Anzi, si può ben dire che il secondo sia divenuto il surrogato del primo. Laddove il comunismo ha perso la sua battaglia contro il capitalismo, è spuntato il nuovo femminismo a fare da contrappunto ad un insistente patriarcato, inteso come nuovo strumento oppressivo. Dalla lotta di classe alla guerra dei sessi. Robe da Ztl. Infatti la sinistra radical-chic non parla d’altro. Non per caso scarica la propria úbris sovversiva sulla cosiddetta questione di genere. E anche con grande compiacimento dei padroni del vapore, cui non sembra vero poter approfittare di una sinistra in tutt’altre faccende affaccendata per fare il proprio comodo nel campo dei diritti sociali e del lavoro. Almeno fino a quando non arriva qualcuno a dare voce alle istanze reali della gente in carne e ossa. Esattamente quel che in Italia ha fatto Giorgia Meloni.
Da liberoquotidiano.it il 24 Ottobre 2022.
Anche Alessandro Di Battista si scaglia contro Laura Boldrini. Lo scivolone della deputata del Partito democratico sul presidente del Consiglio Giorgia Meloni scatena l'ex Cinque Stelle. È lui, con un tweet, a ridicolizzare la paladina delle donne. "Sono queste potenti prese di posizione - cinguetta - che ci spiegano perché il primo premier donna è di FdI e non del Pd (ed io la Meloni non la voterei mai nella vita). Se questa sarà l’opposizione senza sconti annunciata da 'occhi di tigre' Letta prepariamoci al ventennio meloniano".
D'altronde la Boldrini ha promesso battaglia, o come piace a loro "resistenza", all'articolo maschile scelto dalla neo premier. "La prima donna premier - ha scritto su Twitter - si fa chiamare al maschile, il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare nella lingua il suo primato? La Treccani dice che i ruoli vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FDI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?".
Ma in queste ore Dibba non è stato l'unico a far notare alla dem di aver commesso una tragicomica gaffe. Prima di lui sulla questione è intervenuto il presidente Claudio Marazzini.
"Io non credo che qualcuno possa cercare di 'imporre' complessivamente ai giornalisti italiani la propria preferenza linguistica - ha detto il presidente dell'Accademia della Crusca - In presenza di un'oscillazione tra il maschile e il femminile, determinata da posizioni ideologiche, penso che ognuno possa e debba mantenere la propria piena libertà di espressione, optando di volta in volta per il maschile o per il femminile, in base alle proprie ragioni". Da qui la lezione alla Boldrini: "Il presidente Meloni? Nulla di strano, è corretto". E se lo dice la Crusca, c'è da crederci.
Dal centrosinistra i complimenti delle donne a Meloni: «È tutto quello che non siamo». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.
Chiara Geloni, Elisabetta Gualmini e Alessia Morani applaudono il risultato della leader di FdI e di come lei sia riuscita a farcela «senza meccanismi di cooptazione»
Apprezzamenti anche da esponenti del mondo del centrosinistra per la neo premier Giorgia Meloni. A farli sono state tre donne, che hanno aderito o tuttora aderiscono al Pd, con parole dirette e cariche di autocritica. A esprimerle la giornalista Chiara Geloni, ex direttore del canale tv Youdem, un tempo vicina al segretario Pier Luigi Bersani di cui è stata portavoce e poi in rottura con il partito durante la leadership Matteo Renzi, che ha scritto su Twitter: «Ma basta con questa storia della prima donna. È molto di più della prima donna a Palazzo Chigi, Giorgia Meloni. È una donna con un curriculum di partito e di origini familiari modeste che a 45 anni arriva a Palazzo Chigi. È una che arriva a fare la presidente del Consiglio partendo dall’organizzazione giovanile del suo partito. È tutto quello che non siamo a sinistra». Quindi la frecciata: «È il contrario del politicamente corretto da fighetti tanto bravi a declinare le desinenze. È il contrario di entrare nel gruppo dirigente per aver azzeccato un discorso contro il gruppo dirigente che è piaciuto ai giornali. È il contrario dell’eterno papa straniero in arrivo. E per questo è una storia che parla alle bambine e ai bambini di questo Paese. Scusate lo sfogo».
Complimenti misti ad autocritica anche da Elisabetta Gualmini, eurodeputata pd e da pochi giorni vicepresidente dell’Eurogruppo socialisti e democratici, che via Facebook ha scritto: «In bocca al lupo e complimenti a Giorgia Meloni per l’incarico ricevuto e accettato. Prima donna presidente del Consiglio in Italia. È arrivata lì senza meccanismi di cooptazione. Andrebbe fatta una vera riflessione. Possiamo dire che è un vero e proprio smacco per il centro-sinistra e la cultura cd. progressista? Sì, possiamo dirlo».
A Twitter e Instagram si è affidata poi Alessia Morani, ex deputata ed ex sottosegretaria allo Sviluppo economico con Giuseppe Conte premier, prima scrivendo: «Complimenti a Meloni. Sulla catastrofe del Pd e del centrosinistra ne parleremo diffusamente». Poi sottolineando: «Sono lontana anni luce politicamente e culturalmente da Giorgia Meloni, ma vedere tutti quei maschi dietro di lei (Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Antonio Tajani, ndr) con quelle espressioni tra il fastidio e l’imbarazzo dà una certa soddisfazione. Questa immagine cambia la storia del nostro Paese. Finalmente una donna che “guida”. Ps: guardate le espressioni dei singoli».
L'ex Procuratore Aggiunto. Gli auguri di Ilda Boccassini a Giorgia Meloni: “Che non viva quello che ho vissuto io”. Redazione su Il Riformista il 24 Ottobre 2022
Ilda Boccassini espresso i suoi auguri alla nuova Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. “Che non viva ciò che ho vissuto io”, ha detto l’ex procuratore aggiunto della Repubblica intervenuta ieri sul palco de L’Eredità delle Donne, il festival sulle competenze femminili in corso a Firenze. L’ex magistrata italiana è stata intervistata dal giornalista e scrittore Gad Lerner.
Boccassini ha cessato il suo incarico nel 2019. Ha ripercorso la sua carriera in un libro pubblicato l’anno scorso dall’editore Feltrinelli, La stanza numero 30. Quando nel 1979 arrivò alla Procura di Milano Il Corriere della Sera scrisse che “il lavoro inquirente poco si adatta alle donne: maternità e preoccupazioni familiari male si conciliano con un lavoro duro, stressante e anche pericoloso”. Ha lavorato con Giovanni Falcone nell’indagine sulla mafia a Milano Duomo Connection e sugli attentati allo stesso Falcone e al giudice Paolo Borsellino.
Al ritorno a Milano dalla Sicilia è subentrata nel pool dell’inchiesta Mani Pulite ad Antonio Di Pietro e ha diretto indagini sulle Nuove Brigate Rosse. Soprannominata Ilda “la rossa” ha lavorato ai processi a Berlusconi. A Imi-Sir, Lodo Mondadori, Toghe sporche e fino al cosiddetto caso Ruby. “Quando sono usciti i ministri ho avuto un momento di vertigine – ha detto al Festival Boccassini – . Mi sono ritrovata con più di undici, dodici, tredici persone, tutti, dal sottosegretario alla presidenza, ai ministri, tutti si erano occupati di me. Quindi non so se dovrei essere orgogliosa oppure se anche in pensione temere”, ha aggiunto con ironia.
Lerner le ha quindi chiesto dell’“ascesa a Palazzo Chigi di una donna, Giorgia Meloni, che viene da un mondo all’interno del quale a essere gentili, la tradizione ‘virilista’ è piuttosto affermata”, la domanda del giornalista. “Premesso che come buona cittadina non posso che augurarmi che questo governo duri perché sennò andiamo in una crisi profonda. L’altro giorno guardavo la scena del compagno con la figlia mentre lei giurava,: quelle immagini mi hanno fatto tenerezza”.
“Io quindi non so che cosa ci aspetterà il futuro, che cosa sarà in grado di fare – ha aggiunto sempre su Meloni – . Ho altre idee sui diritti, io penso che su alcune cose non c’è né destra né sinistra, perché rispettare il prossimo, la solidarietà, concedere alle donne di abortire in maniera più pacata possibile di un trauma, perché è un trauma comunque l’aborto, sono valori che non appartengono a un partito politico. Però ritengo che siamo una democrazia con tutte le possibilità di difendere i nostri diritti”.
“Però vedere queste immagini mi ha fatto tenerezza, non so come spiegare ma guardavo più a questo. Spero che io non viva quello che ho vissuto io, considerati gli attacchi che ha subìto negli ultimi giorni. Mi auguro per lei che sia forte, perché bisogna essere forti, poi si può affrontare qualsiasi cosa. È dura però è bello, io alla fine oggi mi dico: è stato duro però è la mia vita. Si sbaglia, si riprende”.
Giorgia Meloni prima premier donna. La biografia racconta la figlia del duce. Da Edda Ciano a Giorgia Meloni: perché conta l’opinione altrui. Filippo La Porta su Il Riformista il 21 Ottobre 2022
Non è del tutto indifferente per noi sapere come gli altri ci vedono, come interpretano le nostre complicate, spesso indecifrabili alchimie politiche. L’altra sera un affabile Varoufakis, ospite di “Di martedì”, parlando di Giorgia Meloni ha detto, senza battere ciglio, che è fascista. Agitazione in studio, risatine imbarazzate, proteste generali. Qualcuno ha perfino invitato il povero Varoufakis, come in duello, a un confronto seminariale sulla storia del Msi (quasi una pena del contrappasso!) dove ne uscirebbe certamente “con le ossa rotte”.
Ora, anche io vorrei rassicurare l’ex ministro greco. Non siamo alla vigilia di una marcia su Roma, il fu Msi si è costituzionalizzato e il centro-destra governa 14 regioni su 19. Però se intellettuali stranieri, anche autorevoli, ci vedono così, bisognerà trarne delle conclusioni. Prendiamo un altro caso. Mi capita di leggere una bella recensione, sul prestigioso mensile inglese “Literary review”, di Richard James Boon Bosworth, storico australiano, massimo esperto di Mussolini e di fascismo (i suoi libri sono pubblicati da Mondadori), a Fascism in the family. Edda Mussolini: the most dangerous – ovvero “Fascismo nella famiglia. Edda Mussolini: la donna più pericolosa”, (Chatto and Windus), di Caroline Moorehead (specialista di biografie romanzate). In attesa di leggere Antonio Scurati, che in ogni caso si muove su un terreno diverso, diciamo più storia delle idee che gossip, più riflessione antropologica sugli italiani che melodramma popolare, guardiamo da vicino la biografia di Moorehead.
Il punto di partenza dell’articolo di Bosworth è intrigante, ma soprattutto, come vedremo, le sue conclusioni ci riguardano da vicino. Dunque, il tema è: cosa pensano della famiglia i grandi dittatori del ‘900? Hitler non se ne cura troppo (le sue perversioni sessuali sono leggenda), Stalin aveva (probabilmente) tre figli ma la sua vera famiglia era il partito. Mentre Mussolini, effettivamente, il primo dittatore del secolo – diffidare delle imitazioni! – aveva 5 figli legittimi e ben 9 figli “naturali” avuti con varie partner. La preferita era Edda – il nome viene da Hedda Gabler di Ibsen (al duce piaceva dare alla figlia una “spruzzata intellettuale”). Bosworth, che ha insegnato per molti anni a Oxford, si sofferma sul libro, sulla storia di Edda, interpretata come “una tragedia della vita reale”. Ne ripercorro velocemente tappe e passaggi decisivi, seguendo la traccia della recensione, anche se per un lettore italiano sono fatti arcinoti.
Il 24 aprile 1930 Edda sposò Galeazzo Ciano, un giovane brillante che il 9 giugno 1936 divenne il ministro degli Esteri più giovane d’Europa, ricoprendo tale carica fino al 6 febbraio 1943, anni importanti durante i quali l’Italia si unì all’Asse e, dal 10 giugno 1940 – sottolinea Bosworth – fu “l’assistente ignobile” della Germania nazista nella Seconda Guerra Mondiale. Dopo aver perso questa posizione, Ciano fu nominato ambasciatore presso la Città del Vaticano. Da lì si unì, sia pure in modo controverso, ai gerarchi del partito fascista che complottavano per rimuovere il Duce. Fu tra i membri del Gran Consiglio del Fascismo che, nella notte tra il 24 e il 25 luglio, votarono sfiducia a Mussolini. Il pomeriggio successivo il re Vittorio Emanuele III pose fine alla dittatura.
Ma il tentativo di ritirare l’Italia dalla guerra fallisce. L’8 settembre i tedeschi iniziarono ad occupare il paese a Nord di Salerno. Quattro giorni dopo, Mussolini fu prelevato da un pilota delle SS sul Gran Sasso, cedendo alle pressioni tedesche, ristabilì uno stato fascista, noto come Repubblica Sociale Italiana, nella metà settentrionale della penisola. Gli fu lasciato il ruolo umiliante di dittatore fantoccio (per inciso: non ho mai capito come i fascisti repubblichini potessero conciliare amore – anche sincero – per la patria, virile orgoglio nazionalista e la appartenenza a un evidente stato fantoccio, servo dello straniero). Nonostante i loro dubbi, Ciano ed Edda si rifugiarono presso i tedeschi. Ma i nazisti e i vertici della Rsi chiesero una punizione per il 25 luglio, pensando proprio a Ciano. Mussolini, pur consapevole dei propri fallimenti e delle proprie colpe, decise, “con grossolana codardia” (Bosworth) di far sottoporre il genero a un processo farsa a Verona che si concluse con una esecuzione.
Edda muore nel 9 aprile 1995, alla fine di un’esistenza oscillante tra politica, gioco d’azzardo e problemi di alcolismo (almeno secondo la biografa), mentre pare che con Galeazzo diede vita a una specie di coppia aperta, che contemplava scappatelle extraconiugali (lei lo soprannominò “il gallo”). Ma, come accennavo, interessante è la conclusione della recensione di Bosworth. La ripropongo integralmente. “Ci sarà una coda? Il partito neofascista Fratelli d’Italia sta ora cavalcando in alto sotto la sua leader donna, Giorgia Meloni. Ha il sostegno di due delle nipoti di Mussolini, Alessandra e Rachele, e di un pronipote, Caio Giulio Cesare. In occasione del centenario della marcia su Roma il 28 ottobre 2022, il fascismo, con tutte le sue crudeltà e fallimenti, non è del tutto morto. Meloni sta per diventare la donna più pericolosa d’Europa?”.
Ora, se osservatori stranieri, anche di un certo rilievo, ci ripetono una cosa del genere, allora – come direbbe la stessa Giorgia Meloni (che, voglio ribadirlo, non è certamente “la donna più pericolosa d’ Europa”) – una domanda fatevela! Da cosa si origina questa immagine? Cattiva informazione? Prevalere di stereotipi e semplificazioni? O magari il celebre comizio meloniano alla manifestazione di Vox? O forse i media dell’intero pianeta – dalla Grecia all’Australia – sono in mano ai biechi liberal, alle élite culturali cosmopolite e – naturalmente – antifasciste? Non ho una risposta ma credo che da parte della interessata occorra più che mai un segnale chiaro, inequivocabile, e stavolta radicale, che riesca a fugare queste malevole narrazioni. Oggi può permetterselo.
Filippo La Porta
Io sono Giorgia e questa è la mia Storia infinita. Francesco Carlesi suculturaidentita.it il 21 Ottobre 2022
L’irresistibile ascesa di Giorgia Meloni e della sua classe dirigente
Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia e del Partito dei Conservatori europei, ha appena vinto le elezioni. Sono passati dieci anni dalle elezioni del 24-25 febbraio 2013, quando Fratelli d’Italia prendeva l’1,9%. Oggi è oltre il 26%: com’è stato possibile?
I primi passi di Giorgia Meloni da Colle Oppio ad Atreju
Tra le tante cose che passavano per la testa alla Giorgia Meloni di allora, la sedicenne che trent’anni fa bussò al portone blindato della sezione del Fronte della Gioventù della Garbatella, difficilmente poteva esserci l’idea di ritrovarsi un giorno a capo del primo partito italiano. «Non è tempo per noi, e forse non lo sarà mai», questa strofa di Luciano Ligabue si sposa alla perfezione con l’esperienza del Fronte e con quella del partito di cui quest’ultimo era espressione giovanile: il Movimento Sociale Italiano, costantemente escluso dall’arco costituzionale e dalla possibilità di governare. Costantemente in trincea, all’Università, nelle strade, nei quartieri. Scontri continui, il rischio dello scioglimento del partito, la morte di tanti giovani. Anche per questo, per il rispetto dovuto a quei ragazzi e a quella storia, la richiesta di cancellare la fiamma dal simbolo di Fratelli d’Italia suona come l’ennesima provocazione di una sinistra che sogna da sempre la “mutazione genetica” degli avversari a colpi di inchieste e “politicamente corretto”.
Ma andiamo con ordine. I primi fattori “epidermici” che spingono la Meloni verso l’impegno politico sono il patriottismo e l’onestà, quelli del Msi, unico partito italiano estraneo dagli scandali di Tangentopoli. C’è poi il fattore emotivo dettato dalla morte di Falcone e Borsellino, eroici servitori dello Stato, simboli inarrivabili di ciò a cui dovrebbe tendere un uomo nel vero senso della parola. E Borsellino, non è un mistero, era un uomo di destra, limpido, duro, tenace. La sua morte non poteva non innescare in molti giovani dell’epoca il desiderio di passare all’azione. «Non accettavo più di sentirmi impotente, non sarei rimasta a guardare. Dovevo fare qualcosa», racconta la Meloni nel best seller autobiografico Io sono Giorgia.
Quando muove i primi passi nel Msi, che di lì a poco diventerà Alleanza Nazionale, la Meloni conosce tante persone, insostituibili compagni di viaggio e di “militanza politica”. Stiamo parlando, per citarne solo alcuni, di Marco Marsilio (oggi presidente della Regione Abruzzo), Andrea De Priamo (oggi neoeletto Senatore), Marco Scurria (in seguito europarlamentare) e Fabio Rampelli (ex vicepresidente della Camera). La storica sede Colle Oppio, «baluardo di cultura, di militanza politica e di legalità», segna l’ingresso della Meloni nell’agone politico. Allora, quasi inconsapevolmente, si stavano ponendo le basi per la creazione di quel gruppo e di quelle suggestioni che daranno vita al festival culturale Atreju, la famosa kermesse politica che va in scena a Roma dal 1998. Iniziata come la festa del movimento giovanile di An, Azione Giovani, è stata poi organizzata dalla Giovane Italia, componente giovanile del Pdl, e infine dal 2013 da Fdi. Prende il nome dal protagonista del romanzo La storia infinita dello scrittore Michael Ende, parte significativa dell’immaginario della destra giovanile insieme agli scritti di Tolkien. Negli anni, ad Atreju sono intervenuti praticamente tutti i protagonisti della politica italiana, da D’Alema a Conte, passando per Veltroni e Berlusconi, fino ad arrivare all’edizione 2021 e alla partecipazione di Enrico Letta. Oggi Atreju rappresenta il principale momento di elaborazione politica e culturale della destra e dei suoi mondi. È uno dei pochi esempi di confronto politico vecchio stile sopravvissuti all’epoca dei social, degli slogan e dei video sempre più veloci e alla moda.
L’ascesa politica di una giovane militante
1996 inizia la militanza in Azione Giovani
Già a fine anni Novanta, la sua determinazione e la volontà di An di candidare volti nuovi, portarono al primo incarico di rilievo: Giorgia Meloni diventa consigliere provinciale nella Giunta di Silvano Moffa. Un’esperienza che le consentì di lavorare su temi concreti (la scuola in primis) e scalare le posizioni interne al partito. Nel 2004, ecco un altro momento significativo per il suo curriculum: l’elezione a presidente di Azione Giovani, battendo Carlo Fidanza (oggi capo delegazione FdI al Parlamento europeo). Nell’infuocato Congresso che la vide vincere, si trovarono, talvolta su fronti opposti, tanti dei protagonisti della destra del futuro. La Meloni li ricorda con affetto nella sua autobiografia: Giovanni Donzelli, Andrea Delmastro, Marcello Gemmato, Salvatore Deidda, Augusta Montaruli, Carolina Varchi, e ancora Mauro Rotelli, Ciro Maschio, Emanuele Prisco (in seguito tutti parlamentari Fdi). Proprio in quel frangente, quindi, si stava letteralmente “costruendo” un’intera classe politica.
Appena due anni dopo, sarà Gianfranco Fini a premiare la leader di Ag, facendola diventare presidente della Camera ad appena 29 anni. Un’avventura complessa, portata a termine guadagnando gradualmente esperienza, fino a conquistare il rispetto di molti, anche avversari.
2008-2011 Ministro della Gioventù nel IV Governo Berlusconi
In quel periodo, accanto alla Meloni, appare una figura destinata a rimanere ad ogni giro di boa, ma sempre un passo indietro. È il senatore Giovanbattista Fazzalari, a cui anni dopo verrà l’iconica intuizione di rispolverare un vecchio vocabolo, “patriota”, segnando una vera e propria svolta comunicativa nel linguaggio politico italiano. L’incarico non dura molto, per via della caduta del governo, ma il Pdl (dentro cui An era confluita) nel 2008 raggiunge un ragguardevole 38% e la Meloni diventa Ministro della Gioventù. Altro colpo grosso in una strada in ascesa. Anni da lei ricordati con piacere, rivendicando le battaglie per l’ottenimento di un fondo di garanzia statale per l’acquisto della prima casa per i giovani precari e l’estensione della tassazione forfettaria del 15% agli under 35. Ma l’esperienza del governo Berlusconi si conclude prematuramente, nel 2011, tra le pressioni del presidente della Repubblica Napolitano, della finanza internazionale, della Deutsche Bank e dell’Unione europea, che da sempre considerano l’Italia spendacciona, superficiale, inaffidabile. La soluzione allora non può che essere “tecnica”: Mario Monti, un “grigiocrate” pronto a mettere a posto i conti a colpi di austerità.
Contro la tecnocrazia e la finanza. Nascita e crescita di Fratelli d’Italia
Con Guido Crosetto dicembre 2012 nasce Fratelli d’Italia
Proprio in polemica con questa deriva nasce l’avventura di FdI. Mentre la politica sembra soccombere di fronte ai freddi schemi del governo tecnico e dei parametri europei, Crosetto, La Russa e la Meloni danno vita al nuovo soggetto politico, iniziando una vera e propria “traversata nel deserto”. La nascita del gruppo parlamentare nel 2013, i tanti anni all’opposizione e le delusioni in termini percentuali non indeboliscono il partito, bensì lo temprano. Una delle battaglie più importanti è a favore dell’Europa dei popoli, troppo spesso tradita da un’Unione europea «forgiata su apparati burocratici che in luogo di un federalismo rispettoso delle diversità somiglia ormai a un politburo di sapore sovietico», come recitano le Tesi di Trieste, scritte in occasione del Congresso del partito del 2017. La critica è spietata, siamo di fronte a «un’Europa che, negando le sue radici giudaico-cristiane e classiche, subordina le esigenze di identità e autonomia dei popoli a quelle di un universalismo radicale che opera in sintonia con un astratto principio multiculturalista, da cui deriva anche l’assenso all’indiscriminato e incontrollato accesso di persone da altri continenti».
Su questi temi le proposte della Meloni sono sempre rimaste distanti dal “politicamente corretto” e quindi aspramente criticate da intellettuali, giornali e televisioni. Nella sua biografia, la Meloni non ha risparmiato considerazioni profondamente negative sul ruolo delle Ong e sull’immigrazione di massa quale «strumento dei mondialisti per scardinare le appartenenze culturali, per creare un miscuglio indistinto di culture». Proprio sul rischio islamizzazione, il contrasto al degrado delle periferie, la necessità del controllo dei confini e il “blocco navale” si sono giocate alcune delle battaglie più accese e discusse di FdI.
Tornando alle Tesi, la patria e l’identità vengono indicate come risposte alle derive della globalizzazione: «L’antidoto alle regressioni nazionalistiche e alla brutale conflittualità che queste produrrebbero, sta nel coltivare un sano sentimento patriottico, fondato sulla difesa e valorizzazione delle diversità, delle specificità, della ricchezza e pluralità di culture e stili di vita. Tutto l’opposto della standardizzazione, dell’omologazione, dell’appiattimento richiesti e imposti dalla globalizzazione selvaggia, nella quale si fondono l’utopia internazionalista vetero-comunista, il terzomondismo pauperista e la pratica commerciale mondialista delle grandi multinazionali».
In questo quadro, non bisogna negare l’Europa, ma ripensarla a misura dei popoli, sulla scia della lezione di De Gaulle. Partendo da queste premesse Fdi si avvicina alla destra europea, in particolare quella dell’Est, riuscendo a far eleggere la stessa Meloni alla presidenza del Gruppo dei Conservatori e Riformisti europei nel 2020. Altro passaggio chiave del percorso di affermazione su scala anche internazionale. L’eco della Meloni arriva fino agli Stati Uniti, sono gli anni della presidenza Trump, e la leader di FdI è l’unico rappresentante italiano al CPAC (Conservative Political Action Conference). In quell’occasione, la Meloni pronuncia un discorso di fuoco contro le oligarchie europee e le «elites mondialiste», concludendo con il disegno di un progetto europeo fatto di «una grande confederazione di Stati nazionali liberi e sovrani, capaci di cooperare su alcune grandi materie: immigrazione, sicurezza, mercato unico, difesa, politica estera, energia; ma liberi di autodeterminarsi su tutto ciò che può essere meglio deciso a livello nazionale e locale». La crisi che viviamo in questi giorni dimostra che l’unica leader donna del panorama italiano aveva ragione.
È tempo per noi? Conservatorismo e destra sociale per dare all’Italia un futuro
Strada facendo, alla parola d’ordine “patriottismo”, si aggiunge “conservatorismo” con le suggestioni di filosofi quali Roger Scruton o del pensatore cattolico Gilbert K. Chesterton: cantori della difesa della famiglia, della vita, della promozione della natalità unita alla tutela delle radici culturali dei popoli, in un’epoca che li considera inutili retaggi di un mondo patriarcale e superato. Grazie alla sua attitudine e alle solide basi culturali, FdI riesce a tenere botta sia durante i governi Conte sia nella stagione Draghi, in cui la Meloni sceglie la strada tutt’altro che scontata dell’opposizione. I frutti andranno al di là di ogni più rosea aspettativa: i sondaggi arrivano a parlare di 25%, percentuale che polverizza qualsiasi risultato della destra dal dopoguerra ad oggi.
25 settembre 2022 FDI è il primo partito italiano
Alle elezioni del 25 settembre FdI si è presentata con un programma chiaro, concreto e coerente, realizzato grazie all’Ufficio Studi del partito, guidato dal senatore Giovanbattista Fazzolari, e al contributo fondamentale dei vari dipartimenti tematici del gruppo. È un programma che non lascia indietro i temi della cultura e delle identità locali, troppo a lungo dimenticati dalla sinistra mainstream.
Ora si tratterà di dare valore a questa sfida in uno dei momenti più difficili della storia italiana, tra rincari, crisi energetiche, economiche e sociali senza precedenti. FdI è pronta. Pronta a coniugare alla fedeltà atlantica una rinnovata proiezione mediterranea sulla scia della lezione di Mattei; pronta ad accompagnare i temi conservatori e l’attenzione alle imprese con una spiccata vena sociale; pronta ad aiutare concretamente famiglie e lavoratori, in un momento in cui la cinghia di trasmissione tra operai e sinistra politica e sindacale si sta rompendo.
E qui il tema della partecipazione (art. 46 della Costituzione), cavallo di battaglia del Msi, potrebbe aiutare a ridare una dimensione umana al lavoro, contro delocalizzazioni e precarietà. Bisogna garantire all’Italia un futuro degno del suo passato, riportando al centro della scena anche i valori della destra sociale e disegnando l’idea di un’Italia protagonista in Europa e nel mondo. «Non è tempo per noi, o forse non lo sarà mai» cantava Ligabue. Si sbagliava. Ora tocca alla destra. Ora tocca a Fratelli d’Italia.
I Fratelli d’Italia che hanno fatto vincere Giorgia Meloni. LISA DI GIUSEPPE E NICOLA IMBERTI su Il Domani il 21 ottobre 2022
Sta per nascere il primo governo guidato da un partito di destra e l’impressione è che la presidente sia sola al comando e che tutto ruoti attorno alla sua leadership carismatica. In realtà, lontano dalla ribalta, c’è una classe dirigente di uomini e donne che ha avuto un ruolo centrale. Ecco chi sono
Giorgia Meloni sta per formare il suo primo governo. Negli ultimi anni Fratelli d’Italia ha avuto una crescita impressionante: dal 4,3 per cento del 2018 il partito ha raggiunto il 26 per cento dei consensi alle ultime elezioni. Un successo che però potrebbe trasformarsi in un boomerang. L’impressione, infatti, è che oltre la leadership di Meloni ci sia molto poco. Che FdI sia un partito ancora troppo gracile, privo di una classe dirigente credibile. Ma chi conosce il lavoro fatto in questi anni assicura che non è così, che dietro Meloni, lontano dai riflettori, questa classe dirigente stia crescendo. Ecco chi sono i principali protagonisti.
GIOVANBATTISTA FAZZOLARI
Senatore, classe 1972, Giovanbattista Fazzolari è considerato il principale consigliere di Giorgia Meloni e potrebbe rivestire il ruolo di sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel nuovo governo, se non dovesse essere scelto Alfredo Mantovano. Figlio di un diplomatico, dopo aver vissuto tra Francia, Argentina e Turchia, si è diplomato al liceo Chateaubriand, il liceo francese di Roma.
La sua carriera politica è iniziata ufficialmente negli anni dell’università quando è diventato il primo presidente provinciale romano di Azione Universitaria. Chi lo conosce lo descrive come «una voce da sempre molto autorevole all’interno della comunità della destra romana».
Nel 2004 Fazzolari è stato tra coloro che hanno sostenuto e aiutato Meloni a vincere il congresso di Viterbo (era uno dei sue due referenti nazionali, l’altro era Francesco Lollobrigida, oggi capogruppo «apprezzato» di FdI alla Camera) e a diventare presidente nazionale di Azione Giovani. Nel 2006 è stato il suo consigliere giuridico alla vicepresidenza della Camera, nel 2008 si è trasferito al ministero della Gioventù come capo della segreteria tecnica.
Dal 2018 è stato eletto senatore. Per nulla abituato ad apparire, Fazzolari si occupa soprattutto dell’attività parlamentare del partito. Attraverso l’ufficio studi costituito presso il gruppo del Senato esamina i progetti di legge, elabora i dossier e prepara gli emendamenti.
Ha attaccato la Lega nei primi giorni del governo Draghi quando intendeva non abbandonare la presidenza del Copasir ma ha anche ribattuto a chi contestava la scelta di FdI di non votare a favore della concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki («non lo aiuterà a essere liberato, ma rischia invece di irrigidire l’Egitto e peggiorare la sua situazione»).
Online è ancora disponibile un vecchio articolo della Gazzetta dello Sport: nel 2009 Fazzolari si è aggiudicato una Kia Carnival vincendo il torneo di Capodanno di Magic, il Fantacalcio del quotidiano sportivo. «Non tifo nessuna squadra – diceva l’allora capo della segreteria tecnica di Meloni – e questo mi aiuta, ma ho riflettuto molto, soprattutto dopo che mi sono ritrovato in testa alla terza giornata: lì ho capito che potevo farcela». Chissà quale pensiero gli passa per la testa oggi che Fratelli d’Italia sta per guidare il nuovo governo del centrodestra.
MARCO OSNATO
A portare avanti uno dei dossier centrali nella strategia di Fratelli d’Italia è il deputato Marco Osnato. Natali veneti ma politicamente lombardo, con una lunga militanza in regione. Prima a livello comunale a Trezzano sul Naviglio e a Milano con una migrazione da Alleanza nazionale a Forza Italia, passando per il misto, poi alla provincia di Milano, dov’è stato consigliere fino al 2016.
Il salto di qualità per l’imprenditore edile è arrivato nel 2018, quando è diventato deputato per Fratelli d’Italia e ha iniziato a occuparsi del settore del commercio, per cui oggi è responsabile del partito. Guida la squadra che cura i rapporti con le categorie, un lavoro su cui FdI sta investendo tantissimo. Accanto a lui ci sono Riccardo Zucconi, imprenditore versiliese con un passato Dc che si occupa di turismo, e Luca Di Carlo, responsabile del Dipartimento agricoltura, sindaco di Calalzo di Cadore da tre mandati e coordinatore regionale per il Veneto.
I tre coprono insieme tutte le categorie storiche che formano l’elettorato tradizionale del centrodestra: quel che li rende apprezzati dai loro interlocutori di settore è che venendo da quelle realtà, appaiono esperti. La stessa Giorgia Meloni dà molta importanza a questo aspetto e incoraggia i parlamentari a lavorare sui contatti con le categorie e a trasformare le questioni sollevate in proposte di legge ed emendamenti. Lavoro che viene poi coordinato dal centro studi di partito guidato dal senatore Fazzolari.
Non solo, mentre il resto del centrodestra faceva parte del governo Draghi, Fratelli d’Italia era rimasto da solo a raccogliere le istanze delle partite Iva, che in alcuni casi si sono sentite abbandonate. Soprattutto da chi, come la Lega, aveva prestato loro una sponda durante il precedente governo.
A curare questo particolare settore sono anche Andrea De Bertoldi, senatore commercialista trentino che vanta una solida frequentazione, anche professionale, con Maurizio Leo, responsabile economico del partito. Ma anche lo stesso Zucconi e Ylenia Lucaselli, deputata pugliese già candidata col Pd, che più volte ha incontrato gli autonomi nelle loro manifestazioni.
CARLO FIDANZA
Di un anno più grande di Meloni, è stato il capodelegazione di Fratelli d’Italia al parlamento europeo. Non è direttamente lui che ha aperto alla sua leader le porte del Partito dei conservatori e dei riformisti europei permettendole di diventarne il presidente. Per quello Meloni deve ringraziare Raffaele Fitto che non a caso è vicepresidente di New Direction, think tank fondato da Margaret Thatcher nel 2009 che si presenta come “l’hub intellettuale” del conservatorismo europeo.
Per FdI e per la sua leader, che con orgoglio rivendicano di non essere mai stati “euroscettici” ma piuttosto “eurocritici”, l’Europa ha assunto un’importanza tutt’altro che relativa a mano a mano che sono cresciute le ambizioni di governo. Anche e soprattutto nella competizione interna al centrodestra con Matteo Salvini. Ed è curioso che a occuparsi di questo tema, oltre a Meloni, sia Fidanza.
Nel 2004 era lui, esponente della destra sociale e della destra milanese non riconducibile a Ignazio La Russa, lo sfidante al congresso di Viterbo. I suoi sostenitori per l’occasione avevano anche creato una maglietta con la scritta «non ci provate, siamo Fidanzati», un chiaro messaggio a chi era alla ricerca dei loro voti. Dopo essere stato sconfitto è diventato vicepresidente di Azione Giovani. Oggi è un meloniano di ferro e, intervistato da Francesco Boezi per il libro Fenomeno Meloni – Viaggio nella “Generazione Atreju” dice: «In quel momento saremmo potuti sembrare i ragazzi che combattevano una “guerra per procura” tra le correnti di Alleanza nazionale che non avevano il coraggio di sfidarsi apertamente nel partito dei grandi. Invece, in realtà, eravamo la classe dirigente della Destra italiana del futuro. Ne avevamo le qualità e la determinazione, come abbiamo dimostrato aiutando Giorgia a costruire FdI».
VARCHI E SCHIFONE
Una menzione particolare in Fratelli d’Italia merita Carolina Varchi. Palermitana, classe 1983, è avvocata penalista, membro di Azione studentesca e poi Azione universitaria, ha raccolto nel 2010 l’eredità di Giorgia Meloni alla guida della Giovane Italia, l’associazione giovanile del Pdl in cui era confluita Azione Giovani, insieme ad Augusta Montaruli, collega piemontese, che lascerà nel 2012 per seguire la sua mentore nella fondazione di FdI.
Oggi è responsabile di partito per il sud e ha raccolto per la nuova generazione di Fratelli d’Italia il testimone del lavoro su “Famiglia e valori non negoziabili” da Isabella Rauti. Attivissima sui social, si è occupata di blocco navale, di polizia penitenziaria e ha collaborato alla presentazione di una proposta di istituzione della “Giornata nazionale della vita nascente”.
Tra le nuove leve al femminile del partito c’è anche la napoletana Marta Schifone. Farmacista titolare e «perdutamente italiana», come scrive sul suo profilo Instagram, è stata candidata alle ultime politiche in Campania, nel collegio uninominale di Bagnoli, Chiaiano, Fuorigrotta e Pianura, ma senza successo. Schifone è rimasta nella dirigenza del partito come responsabile per le professioni: un ruolo che la porta a interagire ancora una volta con le categorie, fetta chiave dell’elettorato, nella squadra di Osnato, De Carlo e Zucconi.
GIOVANNI DONZELLI
L’uomo chiave nelle manovre sul territorio di Fratelli d’Italia. Pratese, nato a Firenze nel 1975. Anche lui fa parte della nuova generazione della destra che, dopo Fiuggi, ha superato il problema della legittimazione istituzionale del partito. Responsabile dell’organizzazione è descritto dai colleghi come un grande lavoratore (il che gli permette di occupare tutti gli spazi che gli altri gli lasciano a disposizione). Gestisce le campagne elettorali ed è il fautore delle vittorie di Pistoia, Abetone e Piombino. Può anche parzialmente intestarsi la crescita degli iscritti passati in Toscana da duemila a 6.200 nel giro di un anno.
Cresciuto nelle associazioni giovanili del partito ma sotto l’ala di Maurizio Gasparri (che dopo la scissione dal Pdl non ha seguito gli ex compagni di An), il deputato toscano, dopo una lunga attività nel consiglio comunale di Firenze e in quello regionale, si è imposto nel suo ruolo di rilevanza nazionale proprio per la sua intraprendenza: una posizione che ha consolidato nel tempo con una presenza ricorrente nei talk televisivi.
FRANCESCO ACQUAROLI
L’altro elemento su cui hanno puntato parecchio alla sede di via della Scrofa sono gli amministratori locali. Le adesioni anche dai territori negli ultimi tempi non mancano, ma già da tempo FdI sta tentando di costruire una classe dirigente locale che arrivi a sfidare anche gli alleati del centrodestra. Gli esempi più citati sono i presidenti delle regioni conquistate dal partito, Marche e Abruzzo, rispettivamente Francesco Acquaroli e Marco Marsilio.
Marsilio, parlamentare per due legislature, proviene dalla destra romana storica, con un solido curriculum di militanza nelle associazioni studentesche e poi, a fine anni Novanta, la vicepresidenza di Azione Giovani, il movimento giovanile di An. Acquaroli, invece, fa parte del cerchio dei confidenti più stretti di Giorgia Meloni. Quasi coetaneo della presidente, ha lavorato a lungo sul territorio dove ha svolto tutto il cursus honorum che lo ha portato dalla carica di consigliere comunale a presidente di regione (collezionando negli anni anche diverse sconfitte), carica che ha conquistato nel 2020 strappando le Marche al centrosinistra.
Oggi FdI è di nuovo un partito in grado di attrarre voti e figure non cresciuti nell’alveo del Msi e delle sue successive derivazioni. Parte dell’operazione culturale che Meloni ha portato avanti dal 2004 in poi è stata quella di non far più sentire fuori luogo chi si avvicinava al partito da una diversa famiglia politica, limitando lo strapotere della destra romana nei gruppi parlamentari e anche sul territorio. Una scelta che ha pagato quando nel 2012 FdI si è staccata dal Popolo della libertà. Ora il nuovo traguardo è la società civile, come avvenuto con Andrea Abodi, manager e presidente dell’Istituto per il credito sportivo e possibile prossimo ministro allo sport.
Fiore all’occhiello delle amministrazioni cittadine di Fratelli d’Italia sono quelle dei sindaci di Pistoia, di Ascoli Piceno, di Catania, tutti nati e cresciuti politicamente nella scuola di partito. Nel capoluogo toscano, in particolare, nel 2017 si è imposto per la prima volta dalla nascita della Repubblica un sindaco di destra: Alessandro Tomasi, classe 1979, un passato in Azione Giovani (poi Giovane Italia), poi in Alleanza nazionale.
Storie simili quelle di Marco Fioravanti, sindaco ad Ascoli Piceno dal 2019 e Salvo Pogliese che a Catania, dopo un flirt con Forza Italia, è tornato nel partito che già l’aveva cresciuto nel Fronte della Gioventù e in An.
IGNAZIO LA RUSSA
Il presidente del Senato è tra i “padri nobili” di Fratelli d’Italia, quello che forse rappresenta meglio di tutti il senso del percorso compiuto fino a oggi dal partito di Meloni. Nel dicembre 2012 sarebbe potuto rimanere nel Popolo della libertà. Le elezioni politiche del 2013 erano alle porte. La sua rielezione non era in dubbio così come la possibilità, in caso di vittoria o di sconfitta, di ambire a un posto di primo piano o nel governo, o nel partito.
La Russa, forse puntando sul dissolvimento di Forza Italia, ha deciso di dar vita a Fratelli d’Italia. Le cose sono andate diversamente. Le elezioni hanno portato alla nascita del governo Letta. Poi è arrivato Matteo Renzi, il patto del Nazareno, e per FdI sono stati cinque anni di opposizione.
Meloni e gli altri dirigenti del partito sono ovviamente grati a La Russa e quelli che, come lui, hanno deciso di mettersi al servizio del progetto. Tra questi sicuramente Adolfo Urso, Fabio Rampelli e Guido Crosetto. Ognuno di loro, in modi diversi, è vicino e consiglia Meloni. Il primo ha strappato alla Lega la presidenza del Copasir durante il governo Draghi, ma è anche colui che ha provato il blitz parlamentare per far passare la mozione in difesa dell’italianità di Borsa italiana nel processo di cessione a Euronext.
FRANCESCO GIUBILEI
Se il concetto di “intellettuale organico” non fosse appannaggio della sinistra sarebbe forse la definizione perfetta per descrivere questo ragazzo, classe 1992, che nel 2008 ha fondato una casa editrice e nel 2017 un «movimento di idee», “Nazione futura”, che è anche una rivista trimestrale. Non solo, nello stesso anno è diventato anche presidente della Fondazione Tatarella, un cognome che nella storia della destra italiana ha un peso tutt’altro che irrilevante.
E proprio come il “ministro dell’armonia” Giubilei prova a vestire i panni dell’uomo del dialogo. Con la sinistra (del comitato scientifico della Fondazione Tatarella fanno parte Vittorio Sgarbi ma anche Giuseppe Vacca, Francesco Ferri, Giovanni Guzzetta) e con pezzi più o meno recenti del mondo che ha gravitato intorno alla storia del Msi e di An e che, poi, per vari motivi si sono allontanati. Se c’è una cosa che i critici del partito gli imputano è quella di aver oscillato un po’ troppo tra Lega e Fratelli d’Italia.
Ma al momento il suo rapporto con Meloni non è in discussione anche se qualcuno, un po’ maliziosamente, fa notare: «In passato sono stati tanti gli intellettuali che si sono avvicinati al nostro mondo. Lo hanno fatto soprattutto per ottenere qualcosa. Una poltrona in Rai, qualche nomina di peso, magari anche posto come editorialista in qualche giornale sfruttando l’appartenenza al nostro mondo». Di certo c’è che la leader non ha bisogno di qualcuno che le insegni a dialogare con chi è lontano dalle sue posizioni.
Una delle sue creature, Atreju, che lei stessa ha più volte definito «una festa di parte, non di partito», ha ospitato negli anni politici appartenenti a diversi schieramenti. E ancora oggi, nonostante l’organizzazione sia ufficialmente affidata a Chiara Colosimo, possibile ministra alla gioventù, quando è il momento di organizzare la manifestazione Meloni è in prima linea: «Non pensa ad altro, è impossibile parlarle». LISA DI GIUSEPPE E NICOLA IMBERTI
Andrea Muratore per tag3.it il 17 ottobre 2022.
Dici Fratelli d’Italia e pensi ad Atreju: ormai l’abbinamento politico tra il partito di maggioranza nel campo del centrodestra e la kermesse giovanile romana che si svolge dal 1998 e che è stata ideata da Giorgia Meloni è immediato.
Lo è perché alla “generazione Atreju” appartiene buona parte della leva politica emersa alle ultime elezioni, ma che politicamente è coesa da decenni. Un gruppo di politici nati tra la seconda metà degli Anni 70 e la fine degli Anni 80, maturato quando ormai la trasformazione del Movimento sociale italiano dentro Alleanza nazionale si stava compiendo.
Atreju e l’avanzata dei giovani come svolta graduale dal post-fascismo
Atreju è l’erede degli Hobbit sul cui esempio si formavano i giovani della destra degli Anni 70; per la precisione, è il protagonista del romanzo La storia infinita di Michael Ende, che al festival di lotta diventato sempre più di governo ha dato il nome.
Come il personaggio, anche l’evento che porta il suo nome vuole incarnare, scrivevano gli organizzatori nella presentazione dell’edizione 2017, «l’esempio di un giovane impegnato nel confronto quotidiano contro le forze del Nulla, contro un nemico che logora la fantasia della gioventù, ne consuma le energie, la spoglia di valori e ideali, sino ad appiattirne le esistenze».
Attivismo, protagonismo politico del “nuovo che avanza” e svolta graduale dal post-fascismo al conservatorismo nazionale che i fedelissimi della Meloni incarnano: un mix politico comunitario, prima ancora che ideologico, con cui la destra italiana ha voluto avanzare dal periodo di Gianfranco Fini alla leadership compiuta dell’aspirante premier.
Atreju è stato il “laboratorio” dei contatti umani, oltre che politici, dei colonnelli della destra sociale diventata conservatrice.
La svolta di Viterbo 2004: la kermesse dove tutto ebbe inizio
La svolta della Generazione Atreju ha un luogo e una data: Viterbo, 27-28 settembre 2004. Azione giovani, il primo erede dello storico Fronte della Gioventù, eleggeva il suo nuovo presidente.
A contendersela, da un lato, l’attuale eurodeputato Carlo Fidanza e dall’altro l’allora 27enne Meloni. Attorno a loro una schiera di figure oggi di primo piano in Fratelli d’Italia, allora militanti dell’ala giovanile di Alleanza nazionale.
A Nicola Procaccini sarebbe stato affidato il compito presentare ai delegati la candidatura della Meloni, che si era distinta a livello nazionale in Azione studentesca a fine Anni 90 in qualità di leader del movimento studentesco e del comitato “Gli antenati”, un gruppo costituito dal basso della militanza studentesca, affinché venisse contrastata l’azione riformistica dell’allora ministro della Pubblica istruzione, Rosa Russo Iervolino.
Presenti al congresso anche Giovanni Donzelli e gli immancabili Francesco Lollobrigida, cognato della Meloni, e Giovanbattista Fazzolari, già allora consiglieri fidatissimi di Giorgia. Che vinse contro Fidanza, ma non lo mise mai ai margini. Vinse l’esponente di una destra meno ancorata al vecchio retaggio movimentista, anti-americano, barricadero di molti esponenti dell’ala sociale che, rappresentata da Gianni Alemanno, aveva preso piede attorno a Fidanza. E vinse rappresentando una destra romana, legata da rapporti umani solidi.
I grandi dibattiti, da Bertinotti a Veltroni fino al controverso Orban
La “generazione Atreju” nacque come blocco coeso in quell’occasione, seguendo la Meloni nella sua scalata.
Anno dopo anno, la manifestazione di Atreju lanciata nel 1998 dalla Meloni e tenutasi quasi sempre a settembre, con poche eccezioni (come quella 2021, la più partecipata di sempre, chiamata “Il Natale dei Conservatori”), diventava l’occasione per rifinire i legami personali, aggiornare le linee ideologiche, creare continuità e confronto. Con un richiamo post-ideologico rispetto alla visione del mondo novecentesca che i militanti di Azione giovani prima e Fdi poi hanno invitato sempre a modernizzare.
Tutti i protagonisti della “generazione Atreju”, come la neo-deputata Chiara Colosimo, in larga parte militanti della prima ora di estrazione romana, ricordano in particolare i grandi dibattiti dei festival: quello tra Fausto Bertinotti e Gianfranco Fini del 2006, quello tra lo stesso Fini e Walter Veltroni l’anno successivo, il confronto tra Mario Capanna e Marcello De Angelis sugli Anni 70 andato in scena sempre nel 2007.
Tanti, poi, gli ospiti giunti nel corso degli anni: da Silvio Berlusconi a Giovanni Lindo Ferretti, da Matteo Renzi al controverso premier ungherese Viktor Orban, che nel 2019 cantando Avanti Ragazzi di Buda infiammò il palco dei giovani della destra vicina a Fdi.
Fazzolari, Lollobrigida, Procaccini, Donzelli: i plasmati dalla militanza giovanile
La coesione è il vero punto di caduta su cui leggere la tenuta della “generazione Atreju”, ben raccontata da Francesco Boezi nel saggio Fenomeno Meloni, edito nel 2020 e primo lavoro a raccontare dall’interno, con la voce di chi in quei mondi ha vissuto e militato, la genesi dell’attuale leadership di Fdi.
Boezi, oggi commentatore politico per il Giornale, scrive che la seconda prova di maturità degli ex militanti della destra giovanile cresciuti tra la Garbatella e Colle Oppio fu proprio la scelta di rompere col Popolo della libertà nel 2012 e far nascere Fdi pochi mesi prima del voto nazionale del febbraio 2013.
Una scelta tramite la quale Giorgia Meloni si unì a Guido Crosetto e Ignazio La Russa riuscendo a tenere compatto il suo gruppo originale e che, col senno di poi, ha premiato. Meloni, Fazzolari, Lollobrigida, Procaccini, Donzelli e in fin dei conti lo stesso Fidanza sono solo alcuni dei nomi dei deputati plasmati nella politica romana a partire dalla militanza giovanile e dalle kermesse, prese in giro all’inizio e combattute poi, di Atreju fino ad arrivare alle porte del potere.
La carica dei nuovi eletti: Mennuni, Filini, Roscani, Sigismondi, Pogliese, Perissa
Assieme a loro, molti nuovi entranti di spicco di Fdi: la citata Chiara Colosimo, tra le organizzatrici del festival, a cui si aggiunge chi si è unita strada facendo alla corsa del nucleo storico di Fdi, come Lavinia Mennuni, neo senatrice che nel collegio di Roma centro ha battuto a sorpresa Emma Bonino e Carlo Calenda in quella che è stata una sfida simbolica.
Contro la Radicale sostenitrice dell’aborto e l’ex ministro dello Sviluppo Economico, liberista in economia e liberal sui diritti civili, ha prevalso un avvocato, madre di tre figli, ex Consigliera ai rapporti col mondo cattolico nella giunta Alemanno e aperta sostenitrice delle posizioni pro-vita in materia di interruzione di gravidanza, oggi presidente del movimento Mamme d’Italia.
Tra i neo deputati anche Francesco Filini, romano classe 1978, dottore in Scienze politiche e appassionato di sistemi monetari, a lungo responsabile dell’Ufficio Studi del partito.
E tra gli esponenti “pescati” fuori Roma nell’area Atreju sbarcati in parlamento spiccano Fabio Roscani, eletto in Abruzzo, ultimo presidente di Gioventù nazionale, assieme al chietino Etewaldo Sigismondi, l’ex sindaco di Catania Salvo Pogliese, che sostenne Meloni già nella kermesse di Viterbo e il piemontese Marco Perissa, presidente dell’associazione sportiva d’area Opes. L’esercito di Giorgia ha in queste figure una continuità con lo spirito dei primi Anni 2000.
Ora devono dimostrare se quel motto («Il domani appartiene a noi») sarà vero
Boezi nota che «se la Meloni non avesse fatto il primo passo in direzione di un partito come Fratelli d’Italia, la destra italiana sarebbe probabilmente scomparsa nel nulla. Se Giorgia Meloni, ancora, non avesse avuto le qualità politiche e umane che ha – e che le sono state riconosciute trasversalmente – il destino dei reduci di An, della generazione Atreju e della generazione Meloni, non sarebbe stato così radioso».
Da un lato, la compattezza del gruppo; dall’altro, una sostanziale assenza di competizioni interne. «Il mio unico riferimento politico è Giorgia Meloni», è il mantra di tutti i neoeletti di Fdi. «Il mondo in cui l’ex ministro della Gioventù è cresciuto è denso di legami umani e politici», sottolinea Boezi.
«Sono storie intrecciate di e da uomini e comunità, che producono un risultato politico-elettorale», ha aggiunto l’analista politico con una buona dose di preveggenza sul presente. «L’effetto nelle urne, ossia i voti ottenuti, è soltanto una mera somma finale, mentre la costruzione di mondi comunitari è tutto fuorché un’operazione istantanea».
In sostanza per Boezi non si può capire il “melonismo” senza il “comunitarismo”. E proprio questo assunto sarà la grande sfida per traghettare la generazione Atreju alla terza, grande sfida dopo quella del 2004 e quella del 2012: la prova del fuoco del governo e del compromesso con forze, poteri, apparati.
A cui gli ex militanti di Azione giovani e Gioventù nazionale usciti vincitori dalle urne saranno chiamati in una delle ore più complesse della recente storia repubblicana. Dovendo dimostrare se il motto che animava le prime edizioni di Atreju, «il domani appartiene a noi», sia destinato a trovare effettiva conferma.
Chi è Andrea Giambruno, il compagno di Giorgia Meloni che potrebbe essere il primo «first gentleman» d’Italia. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.
Il conduttore Mediaset e il cuore a sinistra: le vedute opposte su coppie gay e droghe leggere. Ma ora la leader di Fratelli d’Italia è certa: «Stavolta voterà per me»
Volto Mediaset, cuore a sinistra, quasi sempre un passo indietro dai riflettori della politica. Andrea Giambruno, 41 anni, conduttore di Studio aperto, è il compagno di Giorgia Meloni (4 anni più grande) e potrebbe essere il primo «first gentleman» della Repubblica italiana.Il giornalista e la leader di Fratelli d’Italia si sono appunto conosciuti dietro le quinte di una trasmissione condotta da Paolo Del Debbio, di cui Giambruno era autore.
Meloni arriva trafelata e fa alla sua portavoce Giovanna: «Non ho mangiato, ho una fame che svengo».... In una pausa pubblicitaria mangia una banana al volo, ma quando si torna in onda, la leader di FdI è ancora lì con il frutto in mano: «Io mi precipito e gliela strappo di mano anche con una certa foga, ci manca la Meloni in diretta con una banana... — ricorda Giambruno dicendo che la leader lo scambiò per un assistente — . Non so dire, i nostri occhi si incrociano in modo strano, è stato un attimo». Da quel momento il giornalista inizia un serrato corteggiamento. E qualche tempo dopo, il 16 settembre 2016, è arrivata la piccola Ginevra, chiamata così per via di Lancillotto.
Il vecchio detto «dietro ad un grande uomo c’è una grande donna» vale al contrario anche per lei? «Certamente sì — ha raccontato Meloni a Sette —. Andrea è un padre fantastico, presentissimo. Passa a Milano una settimana al mese, ma quando è qui lavora quasi sempre di sera e durante il giorno sta molto con Ginevra. Ci alterniamo, ci aiutiamo, ci completiamo». E poi: al suo compagno chiede consigli, pareri? «Lo coinvolgo, sì, ma non troppo. Quando siamo assieme cerco di lasciare fuori la politica, di staccare. Non è facile: lui segue tutti i talk, io passo davanti: “Ancora co’ la politica? Ti prego, cambia, non ne posso più!”».
La leader di Fratelli d’Italia si dice sicura che «stavolta Andrea voterà per me», ma in passato il suo compagno aveva svelato di pensarla a sinistra, agli antipodi del piglio sovranista della sua compagna: «Discutiamo sulle coppie gay, sui temi etici, sulla legalizzazione delle droghe leggere — aveva rivelato ancora Meloni —. Non la pensiamo nella stessa maniera». Poi Giambruno sembra aver rivisto il suo pensiero, ma nel segreto dell’urna, chissà... Dalle ricerche su Google il video con maggiore risalto è quello in cui il giornalista, in diretta su Tgcom, si lancia in una accorata difesa della compagna quando venne insultata in radio dallo storico Mario Gozzini con parole «misogene e vergognose».
E adesso che lo sbarco a Palazzo Chigi non sembra essere più un miraggio per Meloni, ma una realtà potrebbe anche arrivare anche il matrimonio con «Andrea». «Si sentono già completi così — racconta chi conosce la coppia da vicino — ma domani chissà...».
Andrea Giambruno, compagno di Giorgia Meloni: «Non sono di sinistra come ha detto lei». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022.
Parla il giornalista che da sette anni è il compagno della leader di Fratelli d’Italia: «Farò i viaggi di Stato solo se me lo chiederà»
Andrea Giambruno, come dovremo chiamarla: First Husband, First Gentleman, First Partner?
«Non lo so. Mi sa che una vera dicitura per l’equivalente maschile di First Lady non c’è. Aspettiamo un neologismo dello Zingarelli?».
Per la prima volta in Italia, una donna sarà incaricata di fare il governo e quella donna, Giorgia Meloni, è la sua compagna e la madre di sua figlia. Che effetto le fa?
«Sperando che vada così, sono felice, è qualcosa di epocale: per Giorgia, è il completamento di un percorso lungo trent’anni; per nostra figlia, è una pagina di storia che, quando sarà grande, la renderà orgogliosa di sua madre».
Ha aiutato lei Ginevra a scrivere quel biglietto: «Cara mamma, sono tanto felice che hai vinto. Ti amo»?
«L’ha fatto da sola: ha sei anni, ma sa scrivere già da un anno. Ovviamente, non comprende bene quello che è successo, ha solo capito che la mamma ha vinto qualcosa».
Lei che First Gentleman sarà? Presente o defilato?
«Presente a me stesso me lo auguro. Di sicuro, non sono tipo da copertine o foto patinate, infatti, nei nove anni con Giorgia, abbiamo sempre separato gli ambiti lavorativi».
Dunque, non l’accompagnerà nei viaggi di Stato, all’Eliseo o alla Casa Bianca?
«Se bisogna andare, e quando Giorgia me lo chiederà, lo farò con piacere. Ma non smanio per esserci».
Vivrete a Palazzo Chigi?
«Non credo proprio».
Perché ride così tanto?
«Le sembra che facciamo crescere una bimba di sei anni in un palazzo tipo Versailles? Anche un po’ meno, grazie. Una casa ce l’abbiamo».
Com’è organizzata Casa Giambruno-Meloni?
«Per il momento, alla giornata. Di solito, porto io la bimba a scuola e vado a prenderla. Faccio il giornalista a Studio Aperto, lavoro sempre di sera e torno a casa all’una di notte: questo mi permette di essere il più libero dei due di giorno, quando faccio il papà. Giorgia fa ottimamente la mamma quando non ha altri impegni. Ci dividiamo non dico equamente, ma quasi».
Quando vi siete conosciuti, Fratelli d’Italia era al 4 per cento, oggi è al 26. Che ricadute ha avuto la scalata nella vostra vita quotidiana?
«Giorgia studia da quando si sveglia fino a quando va a dormire. Poi, essendo anche capo di un partito, ha mille cose di cui occuparsi. Nessun politico di livello ha tempo per se stesso, ma io conosco il suo lavoro, condivido il suo progetto, so che, se è via, non è in vacanza alle Hawaii».
Giorgia sostiene che lei è di sinistra. Ha detto: spero voti per me. L’ha votata?
«Era una battuta: non sono di sinistra, è solo che abbiamo opinioni divergenti su alcuni temi etici, come il suicidio assistito. Io penso che lo Stato debba riflettere se sia giusto che una persona possa morire a casa sua, coi familiari, o sia costretta ad andare a morire in Svizzera. Noi due discutiamo su temi sensibili che — lo comprendo — la politica deve affrontare con una responsabilità diversa rispetto a me che ho solo una mia opinione personale».
E come sono le vostre discussioni su diritti Lgbtq+, legalizzazione delle droghe, aborto?
«Sull’aborto non c’è alcuna discussione: non troverà una riga in cui Giorgia contesta la 194. Sul resto, non si litiga, si parla e ognuno motiva la sua posizione».
Lei farebbe vedere a Ginevra la puntata di Peppa Pig con due mamme?
«Posso anche fargliela vedere e, se dovesse chiedere perché ci sono due madri, glielo spiego. Però, una cosa è una scelta spiegata da un genitore, un’altra è far passare forzatamente un concetto».
Nella sua unica intervista, tempo fa, lei ammise d’infastidirsi per gli ammiratori invadenti. Che ora aumenteranno. Come la mettiamo con la gelosia?
«So che non puoi andare all’acquario se hai paura dei pesci. Nel senso che so che stiamo vivendo qualcosa di unico in tutto e certo non mi comporto da adolescente».
Il vostro primo incontro?
«Ormai è mitologia, eviterei di riraccontarlo… Lavoro a Mediaset da anni, ci siamo conosciuti in uno dei programmi di cui ero autore».
Era Quinta Colonna di Paolo Del Debbio: stava per scattare la diretta, ma Giorgia stava mangiando una banana, che lei recuperò, evitandole di andare in onda così.
«Una cosa normale: non è che gli altri autori mandano in onda ospiti che mangiano i popcorn».
Lei da cosa fu colpito?
«Oltre che dall’aspetto fisico, dall’intelligenza e avevo sentito che Giorgia era diversa da come poteva apparire».
E come sarebbe la vera Giorgia?
«Ha una femminilità con una sua parte fragile, è un essere umano con una propria sensibilità, una propria dolcezza. Non è un robot. La vera Giorgia è una persona che si è fatta da sola, con tante difficoltà in adolescenza, cresciuta senza il padre: ha dimostrato che, se lavori con impegno e senza scorciatoie, il tuo riscatto ce l’hai. Giorgia ha realizzato qualcosa di impensabile, date le condizioni di partenza. È il prototipo dell’italiano che amiamo: ci piace di più chi arriva dal nulla e ce la fa, rispetto a quello che nasce arrivato. Giorgia è una persona che ricorda e valorizza chi ha creduto in lei e l’ha supportata. Infatti, lunedì, ha lasciato il campo ai suoi, non andando in conferenza stampa e prendendosi del tempo per stare con sua figlia. Un uomo si sarebbe preso tutto lo spazio per dire: ho vinto io. Giorgia è la prova provata che una donna può fare tutto e meglio di un uomo».
Lei quanta fiducia aveva nel fatto che potesse diventare premier?
«Col mio lavoro, ho modo ogni giorno di confrontarmi con la classe politica e sapevo che, come preparazione, non c’era partita con nessuno».
Nella celebre arringa, «sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana», ci sarebbe stato bene anche «sono una moglie», ma non c’è: perché?
«Adesso, con tutta la scaramanzia, ci sta bene “sono un presidente”».
La frase nel suo stato di WhatsApp, «resta solo un diamante che brilla», non si riferisce all’anello di fidanzamento che ancora manca?
«Ma no. Questo non è il momento di pensare al matrimonio, le priorità sono altre. Il diamante è Giorgia: un diamante ormai sgrezzato, una fuoriclasse, pronta a fare il premier, pronta a guidare il Paese».
Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 27 settembre 2022.
È sempre stato il suo nido e il suo approdo, un punto fermo incrollabile. La famiglia – d’origine e quella che si è costruita – è un mondo indissolubilmente legato alla storia politica di Giorgia Meloni. Domenica notte ha voluto ringraziare «Andrea, mia figlia, mia sorella, mia madre. Tutti quelli per i quali io ci sono stata meno di quanto loro ci fossero per me». E lo «staff» di una vita.
Anche nell’attesa del voto, in casa, tra emozione e calcoli, la leader di FdI era con la sorella Arianna, l’amica del cuore Milka, Paolo Quadrozzi e Giovanna Ianniello che si occupano come ombre della sua comunicazione, Patrizia Scurti la segretaria e Giovanbattista Fazzolari, l’ideologo del programma. Quasi una famiglia aggiunta, tra politica e affetti.
Mamma Anna, che come raccontato nella sua autobiografia «Io sono Giorgia» e spesso ribadito è la donna a cui deve «tutto», ha cresciuto le due figlie da sola, ha un passato di scrittrice prolifica (ha scritto e pubblicato oltre centoquaranta romanzi rosa con lo pseudonimo di Josie Bell) ed è sempre stata accanto alla leader.
Ma ieri al telefono con il Corriere ha confessato: «Io gioisco per i suoi successi, ma non so se le avrei augurato tutto questo... Io la vedo da mamma, che è diverso da amica o sorella: la aspettano tante difficoltà, sgambetti, cattiverie, cose che non merita. Lei è sempre preoccupata, non si rilassa, è bravissima ma la sua paura è che un suo errore faccia soffrire qualcuno, è consapevole di tutte le responsabilità e non vuole apparire, ma realizzare. È un soldatino, come Arianna. Le ho un po’ educate così, poche regole ma ferree. E sono due stacanoviste».
Defilata ma presentissima è appunto la sorella maggiore Arianna, pure militante a destra fin da ragazzina, precaria da 20 anni alla Regione Lazio, schiva, timida, ieri con il Corriere si è aperta: «Domenica siamo state insieme: io mi sono commossa, lei è rimasta concentrata ogni momento... Siamo simbiotiche. L’amore tra sorelle è secondo solo a quello che si prova per un figlio, chi ha una sorella sa cosa voglio dire. Con lei sono molto protettiva».
Poi, l’orgoglio: «Questo successo se lo merita per tutti i sacrifici che ha fatto. Affronta questo impegno con responsabilità e pragmatismo. Non sarà facile ma ci metterà tutta se stessa. E io so che ha la stoffa e le carte in regola per essere il premier di tutti, anche di chi oggi ha votato per altri o non è andato a votare. E come sempre io sarò al suo fianco».
Arianna nega di avere un ruolo politico, ma certo i suoi consigli sono ascoltati. Non solo perché è sposata con Francesco Lollobrigida, a cui è legata dal 2000 in un rapporto di amore e militanza dal quale sono nate due figlie, Rachele e Vittoria. Famiglia — anche se non ufficializzata in un matrimonio — è anche quella formata con il compagno Andrea Giambruno, 41 anni, giornalista Mediaset e volto noto di TgCom.
Un amore a prima vista nonostante le differenze — «Lui è di sinistra», ha spesso scherzato Meloni —, anche perché a cementare l’unione c’è un’adorata figlia, Ginevra, 6 anni, per la quale «Andrea è un padre meraviglioso». Ginevra alla quale ieri è andato l’unico messaggio della premier in pectore, che ha pubblicato con tanto di cuore su Facebook la foto di un bigliettino scritto dalla piccola: «Cara mammina sono tanto felice che hai vinto. Ti amo tanto».
Luca Monaco per repubblica.it il 26 settembre 2022.
"I titoli dei giornali stranieri sul pericolo neofascista? Tutte baggianate. Adesso mi aspetto per prima cosa che mia figlia tolga il reddito di cittadinanza ai 18enni e che dia quei soldi agli invalidi, ai malati, a chi ne ha bisogno davvero". Parla sull'uscio del suo appartamento popolare nel cuore della Garbatella Anna Paratore, la madre di Giorgia Meloni.
Signora, sua figlia è entrata nella storia. È contenta?
"Si sono contenta come qualsiasi madre che gioisce sei figli sono contenti di quello che fanno".
Cosa vi siete dette ieri sera?
"Nulla in particolare, ci siamo sentite al telefono le ho fatto i complimenti. Niente di più".
D'accordo ma non ha preso trenta a un esame, diventerà primo ministro.
"Aspettiamo e vediamo come evolve lo scenario. Noi in famiglia siamo abituati a essere cauti, vediamo come va a finire. Certo sono contenta"
Una grande gioia, l'ha spronata in tutti questi anni.
"Io non ho spronato nessuno. Ha fatto tutto da sola".
Qual è, da cittadina, la prima misura che auspica sua figlia metta in campo per il futuro del Paese?
"Spero che elimini la vergogna del reddito di cittadinanza ai 18enni, che prendono i soldi per stare a casa a giocare ai videogiochi e dia quei soldi ai malati, agli anziani che non arrivano alla fine del mese, a chi ne ha davvero bisogno. Non a chi non ha voglia di lavorare".
I giornali stranieri hanno titolato tutti sulla vittoria della destra post-fascista. Cosa ne pensa?
"Facciano i titoli che vogliono, sono tutte baggianate che lasciano il tempo che trovano. Adesso bisogna lavorare per il bene dell'Italia".
Farete una festa alla Garbatella?
"Non credo proprio. Le ripeto adesso bisogna pensare a lavorare".
Da repubblica.it il 22 ottobre 2022.
"Felice sì, emozionata ovvio ma anche preoccupata". Anna Paratore parla da "cittadina italiana" ma anche da "mamma di Giorgia Meloni". Insomma la sua oggi è una doppia "grande giornata" vissuta però come sempre nell'appartamento della Garbatella, un palazzo come tanti, panni stesi e cortili, a Roma ancora sotto il sole. Forse anche per questo per la signora Paratore un giorno che per tanti versi è storico per lei, oltre ad avere un sapore familiare, ha anche una declinazione di domestica sobrietà.
"A mia figlia oggi ho dato un 'in bocca al lupo' e un 'ti voglio ben'", dice la signora Paratore, "è evidente che è una giornata emozionante ma la sto vivendo con tranquillità, sono felice per mia figlia ma cerco di non intralciarla troppo con le emozioni. Forse da un certo punto di vista nemmeno mi rendo ben conto bene di quello che sta accadendo. Certo, non è una cosa di tutti i giorni".
Come molti italiani la madre di Giorgia Meloni ha seguito tutto dalla Tv: la fiat 500 che entra al Quirinale, la figlia che riceve l'incarico dal presidente Mattarella. Emozionata ma composta, la signora Paratore vive il traguardo della figlia consapevole del risultato raggiunto ma con un inaspettato understatement.
"È un grande punto di arrivo. Neanche a dire che lei mirasse a diventare presidente del Consiglio", spiega ancora. "Lei ha sempre avuto la passione per la politica. Ci ha sempre creduto molto, e ha sempre creduto nel suo ruolo. Ha sempre pensato di poter tentare di cambiare tante ingiustizie di questo mondo, questo si. E poi è andata bene".
Preferisce evitare di parlare di politica, glissa sulle polemiche ma, un po' da madre e un po' da cittadina nonché elettrice, sottolinea il suo punto di vista: "Le polemiche sul futuro governo sono tutte chiacchiere che lasciano il tempo che trovano. La destra, la sinistra....è una questione di lana caprina: esistono partiti che hanno delle idee e ognuno cerca di portare acqua al proprio mulino", dice anche pragmaticamente.
Ora, spiega la signora Paratore, "bisogna pensare al Paese: bisognerebbe essere stupidi per non essere preoccupati della situazione economica, io sono preoccupata come tutti gli italiani e oggi anche un po' di più, visto il ruolo di mia figlia, insomma sono preoccupata come cittadina e come mamma".
Oggi però prende spazio la gioia e l'emozione. Ma non chiamate questa felicità "riscatto", una parola di cui la signora Paratore non ha più bisogno. "Se posso essere onesta ormai il riscatto è dietro di me, sono passati tanti anni... la vita certo è stata dura, ma con tante persone lo è stata ancora di più che con me. Mi godo, con tranquilla emozione, questo giorno", dice e sulla tv sfila la prima donna a capo di un governo in Italia.
Il lato privato di Giorgia Meloni svelato dalla sorella: "Se solo sapessero..." Il Tempo il 24 settembre 2022
Il percorso politico di Giorgia Meloni raccontato da sua sorella. Con lungo post su Facebook, Arianna Meloni, la sorella della leader di Fratelli d'Italia, manda il suo messaggio di sostegno e di incoraggiamento prima delle elezioni di domani, 25 settembre. E racconta tanti episodi della vita di Giorgia Meloni da dietro le quinte, svelando così i suoi lati più intimi e privati. Tanti ricordi che ripercorrono le tappe del percorso della presidente di Fratelli d'Italia: dalle notti passate a studiare, alla paura di parlare da un palco per la prima volta ad oggi che è diventata una madre e una leader affermata.
"Se solo sapessero l'ansia che hai provato, come quella prima volta a Porta a Porta. Le notti passate in bianco a studiare. I silenzi e le angosce, spesso insieme, per capire, riflettere e guardarsi intorno. Gli sfoghi, quando eri troppo stanca e sapevi che con me potevi mostrare il tuo lato vulnerabile. Non ti ho visto mai cedere alle lusinghe del potere, mai privilegiare il tuo interesse personale rispetto a quello che consideravi giusto fare per questa Nazione. Siamo arrivati dove siamo, senza aiuti, anzi con molti ostacoli. Ci siamo arrivati grazie soprattutto a te, perché sei una persona e un leader credibile, così credibile da essere riuscita ad affermarsi come donna e come madre in un mondo che soprattutto alle donne non regala nulla. No, non è stata fortuna, nè casualità. È stato lavoro, dedizione, esempio. Oggi ti riconoscono come un capo perché sei stata quella che ha sacrificato di più" scrive Arianna Meloni.
"A me l'orgoglio di essere tua sorella. Ti accompagnerò sul monte Fato a gettare quell'anello nel fuoco, come Sam con Frodo, sapendo che non è la mia storia che verrà raccontata, ma la tua, come è giusto che sia. Mi basterà sapere che sono stata utile in qualche modo in questa grande avventura che stai costruendo, perché quando avevi bisogno di riposare, di piangere, di rilassarti o di un consiglio, io c'ero. Se solo sapessero. Ricordo quando nel 2002, poco più che ventenne, dovevi parlare davanti una platea di oltre 5000 persone in un congresso di Alleanza Nazionale. Mi hai guardato come fai da quando sei piccola con i tuoi occhioni e mi hai detto: oggi faccio una figuraccia. Eri terrorizzata", ricorda. "Quasi nessuno ti conosceva, eri da poco il presidente dei giovani del partito. Quando sei salita sul palco ti guardavano incuriositi, perfino divertiti, come a dire 'chi è 'sta ragazzina'? Poi hai cominciato a parlare e la sala è rimasta muta, ad ascoltare. E mai come oggi sono una bussola le parole di Tolkien con le quali chiudesti quell'intervento: 'Non sta a noi dominare tutte le maree del mondo. Il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare'. Buon lavoro sorella mia. Io ci sono e non sono l'unica. Questa volta siamo in tanti!", conclude il post.
Giorgia Meloni, il lato privato: la sorella consigliera, la madre come riparo. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 27 Settembre 2022.
L’universo familiare della leader di Fratelli d’Italia è eminentemente femminile, unica eccezione il compagno Andrea Giambruno, giornalista. Il biglietto della figlia Ginevra, 6 anni: «Sono felice che hai vinto»
È sempre stato il suo nido e il suo approdo, un punto fermo incrollabile. La famiglia — d’origine e quella che si è costruita — è un mondo indissolubilmente legato alla storia politica di Giorgia Meloni. Domenica notte ha voluto ringraziare «Andrea, mia figlia, mia sorella, mia madre. Tutti quelli per i quali io ci sono stata meno di quanto loro ci fossero per me». E lo «staff» di una vita.
Anche nell’attesa del voto, in casa, tra emozione e calcoli, la leader di FdI era con la sorella Arianna, l’amica del cuore Milka, Paolo Quadrozzi e Giovanna Ianniello che si occupano come ombre della sua comunicazione, Patrizia Scurti la segretaria e Giovanbattista Fazzolari, l’ideologo del programma. Quasi una famiglia aggiunta, tra politica e affetti.
Mamma Anna, che come raccontato nella sua autobiografia «Io sono Giorgia» e spesso ribadito è la donna a cui deve «tutto», ha cresciuto le due figlie da sola, ha un passato di scrittrice prolifica (ha scritto e pubblicato oltre centoquaranta romanzi rosa con lo pseudonimo di Josie Bell) ed è sempre stata accanto alla leader, ma ieri al telefono con il Corriere ha confessato: «Io gioisco per i suoi successi, ma non so se le avrei augurato tutto questo... Io la vedo da mamma, che è diverso da amica o sorella: la aspettano tante difficoltà, sgambetti, cattiverie, cose che non merita. Lei è sempre preoccupata, non si rilassa, è bravissima ma la sua paura è che un suo errore faccia soffrire qualcuno, è consapevole di tutte le responsabilità e non vuole apparire, ma realizzare. È un soldatino, come Arianna. Le ho un po’ educate così, poche regole ma ferree. E sono due stacanoviste».
Defilata ma presentissima è appunto la sorella maggiore Arianna, pure militante a destra fin da ragazzina, precaria da 20 anni alla Regione Lazio, schiva, timida, ieri con il Corriere si è aperta: «Domenica siamo state insieme: io mi sono commossa, lei è rimasta concentrata ogni momento... Siamo simbiotiche. L’amore tra sorelle è secondo solo a quello che si prova per un figlio, chi ha una sorella sa cosa voglio dire. Con lei sono molto protettiva».
Poi, l’orgoglio: «Questo successo se lo merita per tutti i sacrifici che ha fatto. Affronta questo impegno con responsabilità e pragmatismo. Non sarà facile ma ci metterà tutta se stessa. E io so che ha la stoffa e le carte in regola per essere il premier di tutti, anche di chi oggi ha votato per altri o non è andato a votare. E come sempre io sarò al suo fianco».
Arianna nega di avere un ruolo politico, ma certo i suoi consigli sono ascoltati. Non solo perché è sposata con Francesco Lollobrigida, a cui è legata dal 2000 in un rapporto di amore e militanza dal quale sono nate due figlie, Rachele e Vittoria. Famiglia — anche se non ufficializzata in un matrimonio — è anche quella formata con il compagno Andrea Giambruno, 41 anni, giornalista Mediaset e volto noto di TgCom. Un amore a prima vista nonostante le differenze — «Lui è di sinistra», ha spesso scherzato Meloni —, anche perché a cementare l’unione c’è un’adorata figlia, Ginevra, 6 anni, per la quale «Andrea è un padre meraviglioso». Ginevra alla quale ieri è andato l’unico messaggio della premier in pectore, che ha pubblicato con tanto di cuore su Facebook la foto di un bigliettino scritto dalla piccola: «Cara mammina sono tanto felice che hai vinto. Ti amo tanto».
Il lungo post sui social network. Arianna Meloni, la lettera alla sorella Giorgia: “Io e te come Sam e Frodo, ti sei imposta in un mondo che alle donne non regala nulla”. Vito Califano su Il Riformista il 26 Settembre 2022
Arianna Meloni, sorella della leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, ha pubblicato un lungo post sui social, una sorta di lettera per celebrare la donna che alla guida del partito e della coalizione di centrodestra ha vinto le elezioni politiche. Ci sono gli anni della gioventù, l’infanzia, le passioni in comune, soprattutto quella per Il Signore degli Anelli, lo studio, i sacrifici. “Se solo sapessero – esordisce il post – l’ansia che hai provato, come quella prima volta a Porta a Porta. Le notti passate in bianco a studiare. I silenzi e le angosce, spesso insieme, per capire, riflettere e guardarsi intorno. Gli sfoghi, quando eri troppo stanca e sapevi che con me potevi mostrare il tuo lato vulnerabile. Non ti ho visto mai cedere alle lusinghe del potere, mai privilegiare il tuo interesse personale rispetto a quello che consideravi giusto fare per questa Nazione”.
Arianna Meloni è nata nel 1975 a Roma, ha due anni in più della sorella Giorgia. Erano entrambe bambine quando il padre abbandonò la famiglia, la madre Anna ha cresciuto le bambine da sola, senza rinunciare a scrivere circa 140 romanzi, quasi tutti rosa, con lo pseudonimo Josie Bell. Arianna è a capo della segreteria politica di Chiara Colosimo, consigliere regionale del Lazio e presidente della Commissione Trasparenza, che stravinto nel collegio uninominale di Latina. Arianna invece non si è mai candidata. Ha sposato Francesco Lollobrigida, nipote dell’attrice Gina Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, ha due figlie.
“Siamo arrivati dove siamo, senza aiuti, anzi con molti ostacoli. Ci siamo arrivati grazie soprattutto a te, perché sei una persona e un leader credibile, così credibile da essere riuscita ad affermarsi come donna e come madre in un mondo che soprattutto alle donne non regala nulla. No, non è stata fortuna, né casualità. È stato lavoro, dedizione, esempio. Oggi ti riconoscono come un capo perché sei stata quella che ha sacrificato di più. A me l’orgoglio di essere tua sorella. Ti accompagnerò sul monte Fato a gettare quell’anello nel fuoco, come Sam con Frodo, sapendo che non è la mia storia che verrà raccontata, ma la tua, come è giusto che sia. Mi basterà sapere che sono stata utile in qualche modo in questa grande avventura che stai costruendo, perché quando avevi bisogno di riposare, di piangere, di rilassarti o di un consiglio, io c’ero“.
“Se solo sapessero – continua ancora il post – . Ricordo quando nel 2002, poco più che ventenne, dovevi parlare davanti una platea di oltre 5000 persone in un congresso di Alleanza Nazionale. Mi hai guardato come fai da quando sei piccola con i tuoi occhioni e mi hai detto: oggi faccio una figuraccia. Eri terrorizzata. Quasi nessuno ti conosceva, eri da poco il presidente dei giovani del partito. Quando sei salita sul palco ti guardavano incuriositi, perfino divertiti, come a dire ‘chi è ‘sta ragazzina’? Poi hai cominciato a parlare e la sala è rimasta muta, ad ascoltare. E mai come oggi sono una bussola le parole di Tolkien con le quali chiudesti quell’intervento: ‘Non sta a noi dominare tutte le maree del mondo. Il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare’. Buon lavoro sorella mia. Io ci sono e non sono l’unica. Questa volta siamo in tanti!”
Arianna Meloni, molti, la descrivono come molto potente, influente anche all’interno del partito. “Sono una militante da sempre, do una mano organizzativa, credo in ideali non negoziabili. Però l’intervista politica fatela a Giorgia, io che c’entro?”, aveva raccontato poco tempo fa in un’intervista al quotidiano Il Foglio.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Estratto dell'articolo di Emiliano Bernardini per “Il Messaggero” il 28 settembre 2022.
«Sfatiamo subito un falso mito: io e Giorgia non siamo mai state della Lazio. Abbiamo sempre tifato Roma. A casa solo mamma è biancoceleste. E ora lo sono le mie figlie perché mio marito, Francesco Lollobrigida, è lazialissimo. Ma noi siamo giallorosse convinte». Gli inizi assieme nella sezione di Garbatella, le notti insonni, le lacrime sul divano a vedere film romantici e le risate. E poi ancora i film, i libri e le politiche battaglie. Arianna Meloni (47 anni) racconta il lato privato della nuova leader di governo.
Arianna, è vero che lei è l'unica consigliera di Giorgia?
«Non sono l'unica ma spero di essere una delle più importanti (ride, ndr): sono quella che chiama per prima, qualsiasi cosa accada».
Viste da fuori, lei e Giorgia sembrate una persona sola.
«Lo confesso: abbiamo fatto l'esame del Dna e siamo risultate identiche. Cioè due gemelle omozigote».
Cosa ha provato domenica notte dopo gli exit poll?
«Mi tremano ancora i polsi. Perché sappiamo che questo non è un punto d'arrivo: Giorgia non è arrivata, è solo un altro inizio».
E che cosa le ha detto?
«L'ho abbracciata e le ho dato un bacio in fronte. Non servivano parole: entrambe sappiamo i sacrifici che ha fatto per far ricredere l'Italia».
Com' è sua sorella nel privato?
«È la Giorgia che fa le imitazioni, delle battute, delle serate a ridere con gli amici. Che esce in pigiama per accompagnarti al Pronto soccorso. Una donna e una mamma eccezionale: semplice e umile, che stanca morta mentre torna dai comizi trova il tempo di chiacchierare al telefono per confortarmi. Lei a me. Lo ripeto sempre: se davvero la gente sapesse come è davvero, la voterebbero tutti».
Ma qualche difetto lo avrà?
«È troppo perfezionista. Se sbagli un verbo o un termine in inglese si arrabbia e ti corregge».
E per questo litigate?
«Sì. Ma devo anche dire che è l'unica che mi fa stare zitta. E io sono una iena, se mi ci metto...».
E per cos' altro litigate?
«Da piccoline era un continuo. Per un vestito o per gli spazi».
E per un ragazzo?
«In seconda media (sospira, ndr) mi misi con un ragazzo che piaceva a lei. Ma il giorno dopo già non le piaceva più».
Alla Garbatella vi ricordano ancora tutti come le militanti sempre sul territorio.
«È così. Sono 30 anni che facciamo politica. Abbiamo cominciato quando io avevo 17 anni e lei 15 e mezzo. Erano i tempi di Tangentopoli, delle stragi di Falcone e Borsellino. Volevamo cambiare le cose. Un giorno mentre tornavamo dalla spesa Giorgia disse a mamma: Lasciami qui. Era la sede del Fronte di via Guendalina Borghese, a pochi passi da casa nostra. Lei aveva cercato il numero sull'elenco telefonico».
E lei?
«Sono arrivata poco dopo. Vede, avevo lasciato la scuola per lavorare. Non ce la passavamo bene e nessuno ci ha mai regalato nulla. Pensi che Giorgia parla benissimo inglese, spagnolo e francese ma nessuno in casa glielo ha mai fatto studiare.
Insomma non erano i tempi in cui ci si poteva permettere di andare all'estero a studiarle».
Ma parlate solo di politica?
«No, come ogni donna parliamo di vestiti, trucchi, diete».
Libri?
«Tantissimi. Casa di mia mamma è piena di libri».
Guardate più film o serie tv?
«È indifferente. Ma siamo molto radicali: o film d'amore che ci fanno piangere e sognare o gli horror thriller, mentre mangiamo le patatine sul divano».
Giochi?
«Risiko o burraco. E lei non vuole mai perdere».
Capogruppo alla Camera, due figli con Arianna Meloni. Chi è Francesco Lollobrigida, cognato di Giorgia Meloni e big di Fratelli d’Italia: il nipote di Gina pronto per il governo. Vito Califano su Il Riformista il 27 Settembre 2022
A disegnare una specie di cerchio magico, quello entro cui media e retroscenisti stanno provando a scovare i nomi di un ormai presumibile governo Meloni, non può mancare Francesco Lollobrigida. Big di Fratelli d’Italia, da anni a ricoprire cariche di primo piano, oltre a essere un fidato collaboratore è anche un fedelissimo unito da un legame personale con la leader del partito: è il marito di Arianna Meloni, sorella di Giorgia.
Lollobrigida ha rivestito nell’ultima legislatura il ruolo di Capogruppo di Fdi alla Camera dei deputati. Classe 1972, è nato a Tivoli, in provincia di Roma. È laureato in Giurisprudenza, in politica da giovanissimo nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, di cui ha guidato la provincia fino al 1995. Stesso cammino di Meloni: è proprio da quei tempi che Lollobrigida è legato alla leader, da quella militanza comune.
“Un’amicizia che mi onora e che ha aiutato entrambi a superare momenti di difficoltà”, ha detto. È stato in Azione Giovani, il movimento giovanile di Alleanza Nazionale, e responsabile nazionale di Azione Studentesca. Lollobrigida è stato consigliere comunale a Subiaco e consigliere provinciale a Roma, assessore allo sport, cultura e turismo del comune di Ardea, consigliere regionale alla Regione Lazio. E quindi Presidente di Alleanza Nazionale nella sezione provinciale di Roma e del Popolo della Libertà.
Fino al 2013 è stato assessore alla mobilità e ai trasporti nella giunta regionale del Lazio. L’anno prima aveva abbandonato il Popolo della Libertà e fondato Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni. È stato da subito responsabile nazionale “organizzazione” di Fratelli d’Italia. Alle elezioni del 2018 è entrato in parlamento, alla Camera dei deputati. Alle politiche del 25 settembre 2020 è stato eletto nell’aula di Montecitorio.
Lollobrigida è quindi uno dei big del partito. Quando mesi fa si cominciava a ipotizzare e chiacchierare del governo Meloni, data in netto vantaggio da tutte le proiezioni di voto, si parlava del ministero dell’Interno (il deputato è piuttosto fermo verso un’immigrazione incontrollata). Si è parlato però anche del ministero delle Infrastrutture, vista la sua esperienza pregressa. È un grande sportivo, tifoso della Lazio. Con la moglie Arianna ha avuto due figlie, Vittoria e Rachele. Raggiunta al telefono dal Foglio dopo la vittoria elettorale la moglie si è smarcata da qualsiasi anticipazione. “Ovviamente non lo so. Ma vorrei che continuasse a fare il capogruppo alla Camera, visto che avremo una pattuglia di deputati molto molto numerosa. Ovviamente questo è il mio pensiero, tengo a specificarlo”.
Curiosità: il suo cognome svela il rapporto di parentela con l’attrice, anche lei candidata ma con Italia Sovrana e Popolare, Gina. Il nonno del padre del deputato, Nazzareno, e suo nonno Luigi erano fratelli.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
L'aneddoto sulla leader Fdi. Quella volta che Giorgia Meloni al liceo mi salvò dai nazi. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Settembre 2022
Conosco Giorgia Meloni da più di 30 anni: eravamo insieme alle superiori, in quell’oggetto misterioso che è il Vespucci di via dell’Olmata 6: un liceo maxisperimentale aperto e chiuso nei primi Novanta. L’edificio era davanti a una importante caserma della Guardia di Finanza diventata epicentro delle “catture” dei colletti bianchi. Il movimento di sirene e volanti davanti all’ingresso era continuo. A cinquecento metri c’era Colle Oppio, la sede storica del Msi che in quegli anni conosceva un cambio della guardia generazionale.
Il Vespucci aveva nove sperimentazioni, tre lingue, informatica con un’aula dedicata già dal 1989. L’anno della caduta del muro. Io ero nella sezione Liceo linguistico, Giorgia Meloni nella parte Professionale, con alcuni insegnanti in comune. Erano gli anni della Smemoranda, di Lupo Alberto, degli scooter SH. Quando non si entrava a scuola, nei giorni delle manifestazioni, era scontato immaginare che Giorgia si fosse rintanata a Colle Oppio. Era il suo rifugio non troppo segreto. Io non mi avvicinai mai, ma sapevo dov’era. Per chi era di sinistra quello era un triangolo delle Bermude. Guai a capitarci vicino. Ero rappresentante di istituto con una mia lista che avevo chiamato Sinistra Democratica, lei già a 14 anni era leader del Fronte della Gioventù.
Prendevo un bel po’ di voti più di lei, e da prima, avendo due anni di più. Venni eletto in Giunta, poi anche rappresentante di Distretto, cioè di tutti gli studenti di centrosinistra di Roma centro, mentre lei fece il salto nella politica dei grandi. Io volevo fare il giornalista, la politica per me era bella e dannata. Da conoscere bene e da tenere distante. Per lei no. Era da sempre entusiasta, energica. Molto determinata, anche nei contrasti che avevamo. Ma rispettosa. Non c’è un solo episodio brutto, in quella coabitazione nella Giunta della scuola. Feci una battaglia per la laicità della scuola chiedendo al Preside la rimozione dei crocefissi dalle aule. Lei si oppose e vinse. Era attivissima e sicuramente il suo programma era più vivace del mio. Appassionato di storia, imperniavo le gite scolastiche sulla visita a via Tasso e su quella, immancabile, alle Fosse Ardeatine.
Nell’ex carcere nazista di via Tasso mi assicuravo che gli studenti potessero immedesimarsi, chiusi per qualche secondo in quelle orribili celle, per capire come erano stati costretti a vivere i prigionieri del tempo. Giorgia non protestò mai troppo ma seppe guadagnare una certa popolarità liberando via via gli studenti da quella via crucis e facendo approvare dall’istituto gite d’altro tipo. Dal 1994 iniziammo a visitare Expocartoon. I fumetti che avevano iniziato a gravitare intorno alla destra con Jacovitti ora diventavano manga ed epico-medioevali, distopici, saghe nordiche. Quando uscii dalla Giunta del liceo lei fece entrare Tolkien e la Storia infinita laddove io avevo messo Gramsci e Matteotti. Il suo arrivo doveva essere stato per i miei compagni, a ripensarci oggi, una ventata di aria fresca.
L’unico momento violento che ricordi, quando venne a minacciarmi un gruppo di skinhead (quelli del “Movimento Politico”) come talvolta ancora accadeva, vide Giorgia dalla mia parte. C’era un tacito accordo. Lei avrebbe tenuto quei nazistelli rasati fuori dall’istituto, io mi impegnavo a tenere buoni i gruppettari del Collettivo nell’auletta occupata, dove le loro paghette potevano andare in fumo. Contro la droga facemmo una campagna insieme, come sulla piaga di quegli anni, l’Aids. Sull’Ivg non ricordo nessuna sua impuntatura: a scuola promuovemmo l’ora di Educazione sessuale fatta da quelli del consultorio Aied. Avendola vista all’opera nel governo della scuola, per quel che valgono queste reminescenze adolescenziali, so che c’è davvero poco da temere per l’ordine democratico. Sarei più preoccupato per l’ordine dei conti, la matematica non mi sembra fosse il suo forte.
La nostra era tra le poche scuole superiori di Roma in cui alla materia venivano dedicate due sole ore, integrate con informatica. Ne dedicavamo il doppio a Diritto, insegnato da un docente bravo ma un po’ troppo schierato con i magistrati. Su Tangentopoli – era il 1992 e io dicevo che i magistrati stavano attuando un golpe – il professore un giorno perse la pazienza. Oggi ha lasciato l’insegnamento e lavora per il Csm. Speriamo che almeno su Giustizia e garanzie Giorgia Meloni sappia ripristinare i principi dello Stato di diritto. Che riformi il Csm prima ancora degli altri poteri. Che limiti la strafottenza della casta più potente di tutte. Stiamo a guardare, senza sconti. E senza pregiudizi.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
La formula della fama. Giorgia Meloni è l’influencer-in-chief di tutti noi (anche di sua figlia, però). Guia Soncini su l'Inkiesta il 29 Settembre 2022
La prossima premier chiede ai giornali di non braccare la bimba seienne, nel giorno in cui il papà ne parla sul Corriere e due giorni dopo che lei stessa ha postato su Instagram un messaggio acchiappa cuoricini scritto da Ginevra. Oltre che da Mario Draghi, dovrebbe imparare da Diana Spencer
Al video ci ho pensato dopo, quando ieri è arrivata nelle redazioni una letterina con cui l’avvocato di Giorgia Meloni intimava di non braccarne la figlia per fotografarla o riprenderla. Al video in quel momento presente sulla homepage d’un grande quotidiano, in cui un giornalista filmava una seienne che entrava a scuola, perché quella seienne è la figlia della prossima presidente del consiglio, e in un paese senza star system ci si arrangia come si può.
Anche a «Sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana» ho pensato dopo: sì, va bene, era elettoralmente madre e quindi se l’era cercata, come quelle con la minigonna. Ma io tenderei a non prendere troppo sul serio gli slogan. In generale, eh: non lo dico per sminuire la fede religiosa d’una tizia che vive nel peccato.
La prima cosa cui ho pensato è stata la settimana bianca del 1993. Quando Harry aveva otto anni e William dieci, e Diana Spencer proprio non capiva perché i paparazzi non stessero ai patti di fare le foto in posa al mattino e per il resto della giornata lasciarli sciare senza braccarli. Proprio non capiva perché, se gli dai un amuse-bouche, le belve vogliano comunque sbranarti.
La prima cosa che ho pensato è stata: ma Giorgia Meloni, da Diana Spencer, non ha imparato niente? Giorgia Meloni che lunedì ha pubblicato su Instagram il biglietto della sua bambina che, ci ha spiegato il padre in un’intervista di ieri a Candida Morvillo, ha capito solo che la mamma ha vinto qualcosa (ha sei anni, spero non sappia cos’è un governo). Giorgia Meloni la cui agiografia, sul numero in edicola di Chi, riporta che sabato scorso ella l’ha trascorso «in mezzo agli amichetti scatenati della sua bimba che festeggiava (in ritardo) il compleanno».
Forse Giorgia Meloni, come tutte le popstar all’inizio d’una carriera rutilante, pensa che, tra lei e la fama, il controllo ce l’abbia lei. Forse pensa che, ai rotocalchi, il diritto d’accesso alla sua vita privata lei glielo dà e lei glielo toglie. Non funziona così. Lo spiegava benino William, il primogenito di Diana Spencer, in un documentario di cinque anni fa, dopo averci detto che tutte le volte che aveva visto la madre piangere era colpa dei paparazzi.
Puoi essere il figlio della più gran manipolatrice dei media che la storia d’occidente abbia conosciuto, che è stata però anche la più clamorosa vittima dei media, ed essere abbastanza lucido da vederne la complicità, e tuttavia compatirne i limiti e le conseguenze? Forse sì.
«Harry e io quella situazione l’abbiamo vissuta, e una lezione che ho imparato è che non devi mai lasciarli avvicinare troppo, non devi mai lasciarli entrare, perché poi è complicato convincerli ad allontanarsi. E sei tu che devi mantenere le distanze e alzare muri di cinta, perché se passi la soglia, se una qualunque delle due parti sconfina, poi ne derivano molti problemi e molto dolore».
È un problema centuplicato, rispetto a quando William era in settimana bianca e sua madre, la donna più famosa del mondo, trasecolava perché i paparazzi non li lasciavano in pace se andavano in giro per negozi. È un problema centuplicato perché ora non ti serve una troupe – abbiamo tutti un cellulare con fotocamera: anche io, anche voi, anche il giornalista che ieri seguiva la figlia della Meloni fuori da scuola – e perché la fama è più che mai valuta corrente, in un’epoca in cui siamo tutti famosi.
Tutti, anche i più insospettabili, cercano di arginare l’esposizione. Se vedete Leone Ferragni con una felpa pixelata nei video della madre e del padre, non è perché lì sotto c’è uno stilista che non ha sotto contratto i genitori: è perché lì sotto c’è il logo della scuola privata nella quale fa l’asilo, e che i genitori s’illudono di mantenere ignota, per evitare l’assedio dei paparazzi fuori dal cancello.
Di Leone Ferragni non c’è esattamente carenza d’immagini: il fatto che stia su Instagram tutti i giorni è un deterrente o un moltiplicatore d’attenzione dei fotografi professionisti? Come funziona la fama? Le foto del bambino che tutti hanno già visto in foto sono inflazionate, o quel bambino strafotografato è più famoso e quindi valgono di più? Non lo sa nessuno, chi trova la formula matematica della fama forse vince il Nobel per la pace.
«“Guarda, c’è la bandiera di mamma!” hai detto un giorno, indicando un tricolore, mentre ti accompagnavo a scuola. Avevi poco meno di tre anni, e da allora non hai mai smesso di ripeterlo». Sono le prime righe delle tre paginette finali di Io sono Giorgia, autobiografia con cui Giorgia Meloni si è candidata un anno fa a essere l’influencer-in-chief di questo disastrato paese in questo disastratissimo tempo, centoquarantamila copie finora (prevedo imminenti ristampe). Tre paginette intitolate «a Ginevra», la bambina che ha diritto a una vita privata.
È difficile immaginare Golda Meir scrivere, in un’autobiografia pubblica ma pure in un diario col lucchetto, «Certe notti mi stendo accanto a te, mentre dormi, e ti sussurro all’orecchio: “La tua mamma è qui”, come se volessi farmi perdonare per le ore in cui non ci sono stata durante il giorno. Il senso di colpa nei tuoi confronti non mi abbandona mai, Gì, come il terrore di non essere la madre che avrei dovuto».
È difficile trovare, nei secoli di storia che hanno preceduto questo, un tempo in cui coloro che di mestiere fanno la politica fossero chiamati ad aprirci il loro cuore, le loro fragilità, le camerette dei loro figli. Persino Ronald Reagan, che era stato un attore, al massimo si faceva fotografare con Michael Jackson, o mentre potava i fiori. Sì, John Kennedy lo fotografavano col figlio sotto alla scrivania, ma era perché erano belli, mica per dirci che gli raccontava le fiabe prima di dormire. Era per rimarcare distanza con l’elettorato brutto e povero, mica per stimolare immedesimazione.
È anche difficile immaginare un presidente del consiglio della prima repubblica che, invece di chiamare i direttori, fa scrivere dall’avvocato; ma la non commistione coi poteri forti è un tratto caratterizzante la nuova classe dirigente, almeno quanto lo è il raccontarsi come genitori assai prima che come ideologi. E poi Diana coi direttori ci parlava tantissimo, e non è comunque finita bene.
Da professionereporter.eu il 29 Settembre 2022
Giorgia Meloni ha mandato una diffida, o meglio “un invito” a tutti gli organi di stampa. Affinchè giornalisti e fotografi non importunino la figlia Ginevra, sei anni. Un invito che tiene conto di ciò che è già accaduto in questi giorni e che tende a prevenire ciò che potrebbe accadere in futuro.
La lettera, inviata ad agenzie, quotidiani, settimanali e periodici è firmata dall’avvocato Annamaria Bernardini De Pace (nota per difendere Francesco Totti nella causa di separazione matrimoniale) per conto della vincitrice delle elezioni del 25 settembre e del marito, Andrea Gianbruno. L’invito è ad “evitare in qualunque modo e con qualunque mezzo di pubblicare o divulgare immagini che ritraggano la figlia minore; e ad astenersi altresì dal pedinarla, accerchiarla e intimorirla con presenze inopportune; nonché infine dal rendere pubblici e riconoscibili anche visivamente nomi indirizzi e recapiti dei luoghi abitualmente frequentati dalla minore (casa, scuola, centro sportivi e ricreativi e altro), come già incautamente e illegittimamente accaduto in queste ore”.
Vengono quindi citate a supporto della richiesta, la normativa comunitaria in materia di privacy (GDPR- Regolamento Ue de 2016) e l’articolo 2 della Carta di Treviso dei giornalisti, che impone anonimato, riservatezza, protezione dei dati personali e dell’immagine del minorenne in qualsiasi veste coinvolto in fatto dei cronaca e che vieta la pubblicazione di ogni e qualsiasi informazione o dato che possa permettere l’identificazione del bambino. Conclusione: chi disattenderà questi moniti andrà incontro alle inevitabili conseguenze di legge nelle sedi giudiziarie e disciplinari.
Da ilfattoquotidiano.it il 29 settembre 2022.
Il quotidiano Diario de Mallorca racconta la vicenda del 1995, quando Francesco Meloni venne fermato nel porto di Maó, a Minorca, con 1.500 chili di hashish su una barca a vela: venne poi condannato a 9 anni. L'uomo abbandonò la famiglia italiana quando l'attuale leader di Fdi aveva appena un anno. L'aspirante premier, tra l'altro, ha di recente spiegato di aver voluto rompere i rapporti col genitore quando aveva appena 11 anni
Il padre di Giorgia Meloni è stato condannato a 9 anni per traffico di droga in Spagna. Lo sostiene la stampa iberica che, a pochi giorni dalla vittoria delle elezioni politiche da parte di Fratelli d’Italia, pubblica un articolo dettagliato in cui ripercorre la vicenda, ormai lontana del tempo: l’arresto del padre della Meloni, infatti, risale al 1995. Va detto che Francesco Meloni ha abbandonato la moglie Anna Paratore e le figlie Arianna e Giorgia quando l’attuale leader di Fdi aveva ancora un anno. Negli anni ’80 si era trasferito alle Isole Canarie, dove aveva aperto alcune attività: secondo il quotidiano Diario de Mallorca gestiva il ristorante Marqués de Oristano nell’isola di La Gomera e aveva altre due aziende nella provincia di Santa Cruz de Tenerife.
Questo almeno fino al 25 settembre del 1995. Quel giorno – come racconta oggi giornale del gruppo Prensa Ibérica – Francesco Meloni fu arrestato dagli agenti del Servizio di sorveglianza doganale nel porto di Maó, a Minorca, con 1.500 chili di hashish su una barca a vela, la Cool star, che batteva bandiera francese. Con lui c’erano due figli nati da un’altra relazione e suo genero. Quel sequestro, sostiene la giornalista Elena Valles, fu uno dei più grossi operati all’epoca nelle isole Baleari.
Al processo, Meloni si era riconosciuto colpevole del trasferimento di droga dal Marocco a Minorca e nel 1996 era stato condannato a nove anni. I suoi figli e suo genero furono condannati a quattro anni, nonostante Meloni si assunse tutta la responsabilità, spiegando di averli condotti in Marocco con la scusa di un viaggio di piacere. All’epoca il padre della futura leader di Fdi sostenne di essere in bancarotta, di aver perso la sua attività alberghiera e per questo di aver voluto accettare quell’incarico da un marocchino, che lo avrebbe pagato con cinquanta milioni di pesetas in cambio del trasferimento della droga dal Marocco alla Spagna. Oltre alla droga, sulla barca a vela furono sequestrate 7.533.000 lire italiane e 74.000 peseta.
Nel suo libro Io sono Giorgia, l’aspirante presidente del consiglio ha raccontato di come suo padre abbandonò la famiglia quando lei aveva ancora un anno. E di aver completamente smesso di vederlo quando aveva circa 11 anni, e quindi nel 1988, sette anni prima che venisse arrestato. Meloni, tra l’altro, ha di recente smentito di essersi avvicinata alla destra come reazione al fatto che il padre fosse comunista. Intervistata da Peter Gomez a La Confessione sul Nove, la capa di Fdi ha precisato di aver scoperto le inclinazioni politiche di suo padre “più tardi. In realtà io non ricordo di aver mai vissuto con mio padre, è andato via di casa che avevo più o meno un anno. Quindi non è una persona con la quale ho avuto un quotidiano tale da parlare di politica anche in adolescenza”.
A Francesca Fagnani, che la intervistava nella trasmissione Belve, ha detto invece di non aver provato nulla quando suo padre morì, “né odio né dispiacere. Non provai nulla. Era come se fosse morto un personaggio della tivù, solo questo. Vuol dire che qualcosa di profondissimo si è scavato nell’inconscio di una bambina. E questa sì che è una cosa che mi fa arrabbiare”. E proposito del motivo che, a soli 11 anni, la portò a decidere di non volerlo vedere più, ha spiegato: “Se una bambina di 11 anni decide che il padre non lo vuole vedere più e poi lo fa davvero, evidentemente quest’uomo qualcosa ha fatto. Mio padre ha fatto di tutto per non farsi voler bene, stimare. Faccio fatica a dire che era una brava persona“.
L’attacco a Meloni. “Il padre della Meloni trafficava droga”. L’ultima meschinità contro la leader di Fdi. Decorso il tema fascismo, partono gli insulti personali contro la leader Fdi. Matteo Milanesi suNicolaporro.it il 30 Settembre 2022.
Le offese e gli attacchi a Giorgia Meloni non sono una novità. Non lo è la macchina del fango. E la presidente di Fratelli d’Italia, che certo non è una novellina della politica, sa che i tiri mancini fanno parte del gioco. Il grado di bassezza raggiunto adesso dalla stampa spagnola e da certi suoi seguaci nel nostro Paese, però, probabilmente non ha precedenti paragonabili.
Ci riferiamo al pezzo uscito su Diario de Mallorca, che racconta la storia del padre della Meloni, Francesco, che nel 1995 fu fermato al porto di Maó, a Minorca, con 1.500 chili di hashish, su una barca a vela, la Cool star, battente bandiera francese. L’uomo fu poi condannato a nove anni.
Va ricordato che Meloni aveva abbandonato la famiglia quando Giorgia aveva solo un anno e, come lei stessa ha raccontato nella sua autobiografia, dall’età di 11 anni, la papabile premier aveva deciso di non incontrarlo mai più. “Se una bambina di 11 anni decide che il padre non lo vuole vedere più e poi lo fa davvero”, aveva raccontato a Francesca Fagnani l’esponente della destra, “evidentemente quest’uomo qualcosa ha fatto. Mio padre ha fatto di tutto per non farsi voler bene, stimare. Faccio fatica a dire che era una brava persona”.
Francesco Meloni, ormai deceduto, è stato praticamente un estraneo per Giorgia. In più, bisogna registrare la completa dissociazione della leader di Fdi dallo stile di vita del genitore, che peraltro era di simpatie comuniste – anche se, da quanto lei ha riferito in un’intervista a Peter Gomez, non è stato per reazione alle idee politiche del papà che la leader conservatrice si orientò a destra.
Quale sarebbe, insomma, la colpa della Meloni? Una sorta di ereditarietà genetica delle malefatte del padre biologico?
Un tentativo gretto di collegare questa vicenda dolorosa alla carriera politica della futura premier lo ha fatto la giornalista israeliana Rula Jebreal. Sui social, ha accusato la Meloni di aver diffuso il video di uno stupro commesso da un migrante – si riferiva al ghanese di Piacenza – “insinuando che i richiedenti asilo sono criminali che vogliono rimpiazzare i cristiani bianchi”. Un’interpretazione piuttosto tirata, che però è quasi tollerabile, a paragone con il prosieguo del ragionamento: “Ironicamente, il padre della Meloni è un noto trafficante di droga/criminale condannato in via definitiva, che ha scontato la pena in un carcere spagnolo”.
In un successivo tweet, la Jebreal ha provato a chiarire questa posizione indifendibile: “La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati”. Un tentativo squallido di strumentalizzare una vicenda dolorosa, che non dovrebbe tangere in alcun modo la reputazione della Meloni.
Ieri sera, sulla vicenda è intervenuta proprio la leader di destra, biasimando “il tatto della stampa italiana che racconta i guai di mio padre”, omettendo che egli “andò via quando avevo poco più di un anno” e che “ho scelto di non vederlo più all’età di 11 anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte. Ma poco importa, se i ‘buonisti’ possono passare come un rullo compressore sulla vita del ‘mostro’”.
Tra le righe, s’intende anche che la Meloni ha intenzione di querelare Rula Jebreal, poiché le ha attribuito la dichiarazione sui richiedenti asilo criminali che vogliono sostituire i bianchi cristiani.
Stendiamo un velo pietoso sulla volgarità e la malafede di chi, in assenza di argomenti politici, sfrutta gli stratagemmi più meschini. Esaurita la tiritera sul fascismo, siamo arrivati ai crimini di un padre pressoché inesistente nella vita della Meloni. Ma cosa sarebbe successo a parti invertite? Quanti sepolcri imbiancati si sarebbero stracciati le vesti, se al posto di Giorgia, ci fosse stata una qualsiasi donna di sinistra?
Matteo Milanesi, 30 settembre 2022
Primo fango su Giorgia Meloni: ripescano una storia sul padre narcotrafficante. La vincitrice delle elezioni finisce nel mirino per una vicenda del lontano 97, anno in cui il padre fu arrestato per narcotraffico. Il Dubbio il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.
I primi schizzi di fango su Giorgia Meloni arrivano da Repubblica. A pochi giorni dalla vittoria elettorale, il giornale fondato da Eugenio Scalfari va infatti a ripescare una vicenda privata che risale a decenni fa. Protagonista è il padre di Meloni che, secondo la ricostruzione di Repubblica, è stato condannato per narcotraffico in Spagna. Parliamo niente meno che del 1997. Repubblica ricorda anche che la leader di fratelli d’Italia aveva solo 18 anni e che da tempo era stata abbandonata dal padre.
LA STORIA DEL PADRE DI GIORGIA MELONI
Francesco Meloni, racconta sempre Repubblica, si era traferito alle Canaria negli anni ’80. Gestiva aziende e ristoranti fino a che nel 1995 venne arrestato con l’accua di narcotrafico: gli trovarono 1500 chilo di hashish mentre era insieme a due figli nati da un’altra relazione.
IL PROCESSO
Meloni, nel corso del processo si prese tutte le colpe del trasferimento della droga dal Marocco alla Spagna, sostenendo di aver fatto quel viaggio trovandosi in grandi difficoltà economiche e di essere stato pagato con 50 milioni di pesetas, e venne condannato. Vennero inoltre condannati anche i figli e il genero di Francesco Meloni, che incassarono una condanna a quattro anni di reclusione, nonostante il padre della leader di FdI avesse giurato che i tre non sapevano nulla di quel carico e dell’affare che aveva fatto con un cittadino di nazionalità marocchina, avendo detto loro che si sarebbero recati in Marocco per un viaggio di piacere
LE PAROLE DI GIORGIA MELONI SUL PADRE
Intervistata dalla trasmissione Belve, la futura premier disse: “Se una bambina di undici anni decide che il padre non lo vuole vedere più e poi lo fa davvero, evidentemente quest’uomo qualcosa ha fatto. Mio padre ha fatto di tutto per non farsi voler bene. Faccio fatica a dire che era una brava persona”. La leader di FdI, parlando della morte del genitore, specificò inoltre di non aver provato “né odio né dispiacere”. “Non provai nulla. Era come se fosse morto un personaggio della tivù, solo questo. Vuol dire – concluse – che qualcosa di profondissimo si è scavato nell’inconscio di una bambina. E questa sì che è una cosa che mi fa arrabbiare”.
Rula Jebreal, orrore contro Meloni: "I crimini di suo padre...", "La querelo". Libero Quotidiano il 30 settembre 2022
Tra i "rosiconi", cioè quelli a cui la vittoria di Giorgia Meloni proprio non va giù, c'è sicuramente Rula Jebreal che ha scritto tweet infamanti contro la leader di Fdi, tirando in ballo il padre. «La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, non colpe-punizioni collettive».
Così, la giornalista palestinese ha provocato una durissima reazione di Fdi che con diversi parlamentari è intervenuta a difesa della leader esprimendo sconcerto per dichiarazioni giudicate offensive e «indegne». Anche perché la Jebreal ha aggiunto un secondo tweet velenoso. Per il capogruppo alla Camera, Francesco Lollobrigida, sono «vergognose e farneticanti» le esternazioni della giornalista. Senza etica. «Per attaccare Giorgia Meloni questa donna utilizza la storia personale del padre che la abbandonò quando aveva un anno».
E in serata è la stessa Meloni a intervenire: «Signora Jebreal, ci vedremo in tribunale».
"Spiegherà al giudice". Giorgia Meloni querela Rula Jabreal: “La stampa racconta i guai di mio padre ma omette elementi fondamentali”. Redazione su Il Riformista il 30 Settembre 2022
La leader di Fratelli d’Italia e probabile prossima Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha querelato la giornalista Rula Jabreal. “Durante la campagna elettorale Giorgia Meloni, la nuova premier italiana, ha promosso il video di uno stupro insinuando che i richiedenti asilo sono criminali che vogliono rimpiazzare i cristiani bianchi. Ironicamente, il padre di Meloni è un noto criminale colpevole di traffico di droga che è stato detenuto in carcere”, aveva postato in inglese sul suo canale Twitter la giornalista.
Il riferimento era alla notizia emersa ieri da media spagnoli: Francesco Meloni, deceduto da tempo, secondo quanto ricostruito dal giornale Diario de Mallorca, si trasferì alle Canarie e inizio a gestire un ristorante e due aziende prima di essere arrestato nel settembre del 1995 agli agenti del Servizio di sorveglianza doganale nel porto di Maó, a Minorca. L’uomo venne sorpreso con 1.500 chili di hashish sulla barca a vela “Cool star” mentre era insieme a due figli nati da un’altra relazione e al genero. La notizia era stata citata da tutti i media italiani.
“La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza, In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe/punizioni collettive”, ha aggiunto in italiano Rula Jabreal. I post della giornalista hanno attirato subito una valanga di polemiche. Meloni, all’epoca dei fatti, era appena 18enne, da sette non aveva più ogni rapporto con il padre che aveva lasciato la famiglia quando la leader di Fdi era ancora in fasce. La madre della politica, Anna Paratore, ha cresciuto lei e la sorella Arianna da sola.
Giorgia Meloni ha fatto sapere di aver denunciato la giornalista con un post sui social: “Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte. Ma poco importa, se i ‘buonisti’ possono passare come un rullo compressore sulla vita del ‘mostro’. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto ‘le colpe dei padri non ricadano sui figli’. Ps. Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce”.
Rula Jabreal ha nuovamente ribadito in un altro post: “Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump. Ripeto, le responsabilità penali non ricadono mai su terzi. Ciò che evidenzio è che la propaganda politica della Meloni e Trump molto spesso, criminalizza una intera categoria & fomenta odio”. Non è servito a placare la polemica. I suoi post sono stati criticati anche da esponenti politici non di destra come Carlo Calenda di Azione e Stefano Buffagni del Movimento 5 Stelle.
I padri delle altre. Meloni, Rula Jebreal e l’arte letteraria di sputtanare i genitori. Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 Ottobre 2022
La giornalista su Twitter ha finto di non sapere che la leader di Fratelli d’Italia non aveva contatti col papà da quand’era piccola. Come tutti noi, non poteva capacitarsi che un politico non avesse sfruttato il più banale trucco retorico per stravincere le elezioni
Verrà un giorno in cui una polemica tangenziale alla politica italiana risulterà sorprendente, e ognuno dei partecipanti non si muoverà con la prevedibilità dei personaggi d’uno sceneggiato di Rai1; ma quel giorno non è oggi.
Nel più imbarazzante dei monologhi di quel format ontologicamente imbarazzante che sono i monologhi dolenti delle femmine in tv, Rula Jebreal raccontava lo stupro e il suicidio di sua madre. Il monologo non era imbarazzante per impudicizia – anzi, quella era la parte buona – ma per costruzione, con pezzi a caso di canzoni melense a contrappuntare la dolenza autobiografica.
Ci sto mettendo più del previsto a leggere Avere tutto (Einaudi), il nuovo libro di Marco Missiroli, perché ogni dieci righe mi fermo a pensare a me (un evento invero eccezionale). Qualche settimana fa, durante una presentazione d’un libro in cui si parla un po’ della mia famiglia, I mariti delle altre, la presentatrice ha citato Fedeltà, la serie Netflix tratta dal precedente romanzo di Missiroli.
Ha detto che, quando il personaggio del docente di scrittura aveva detto agli allievi che non dovevano vergognarsi di niente, lei aveva pensato al modo in cui sputtanavo i miei genitori, e si era convinta fossi una grande scrittrice. (Meno male che dai romanzi degli altri fanno gli sceneggiati, almeno posso passare per grande scrittrice).
Ho raccontato ai convenuti di quando uno scrittore cane lesse le bozze, e mi disse qualcosa tipo «eh ma non puoi parlare così male dei tuoi genitori», e il cane era figlio d’un delinquente leggendario e io quasi piansi pensando a quanto materiale prezioso stava sprecando con quella sciocca determinazione a non sputtanare la sua famiglia.
Ci ripenso ogni dieci righe in cui Missiroli sputtana il padre (sì, lo so che appena ne fai romanzo – ma pure saggio ma pure articolo ma pure didascalia di Instagram – «io» diventa un altro, e figuriamoci se non lo diventa «papà»): ripenso all’importanza d’essere disposti a sputtanarsi, e a quella frase che non ricordo mai se sia di Roth o di chi, che quando in una famiglia nasce uno scrittore quella famiglia è rovinata. (Chissà Kingsley Amis che disperazione, quando capì che la rovina era Martin, mica lui).
Quindi, quando i giornali riprendono una storia spagnola sul (defunto) padre di Giorgia Meloni già condannato per narcotraffico, io penso a come si riconosca una scrittrice; penso alle parti di Io sono Giorgia su quel padre assente e anaffettivo con cui troncò i rapporti a undici anni; penso a quel «Quando è morto, qualche anno fa, la cosa mi ha lasciato indifferente» che il cane lettore delle mie bozze non avrebbe mai ammesso; penso: ma tu guarda, era una scrittrice e non ce n’eravamo accorti, abbiamo preferito credere che il bestseller le fosse capitato per caso.
Poi, quando Rula Jebreal ritiene di fare un tweet (a cos’è ridotta la polemica politica: tweet) riprendendo la notizia e fingendo di non sapere che il padre della Meloni era tale solo biologicamente (e anche che in generale le fedine penali dei padri non ricadono sui figli, o almeno così spero altrimenti mi danno come minimo il 41 bis), quando Rula Jebreal fa questo gesto che agli altri appare superficiale e intellettualmente disonesto, io la capisco.
I giornali, magari, li posso trovare patetici (e in questi casi vorrei sempre vedere genitori e nonni dei giornalisti, che di certo sono ex partigiani che hanno insegnato loro i valori veri e l’onestà e la fatica del lavoro, ed è un vero mistero come i lombi di tutta ‘sta brava gente abbiano generato una nazione di evasori fiscali e parcheggiatori in doppia fila).
Non credo neanche sia propaganda politica: anni fa tirarono fuori non so quale secondo loro imbarazzante episodio della vita del padre di Lorella Cuccarini, costringendo pure lei a rimarcare che non si vedevano da decenni (circostanza all’epoca già ben nota non solo ai giornalisti ma anche al pubblico); non è tentativo di arginare la destra, è disperazione da titoli e incapacità di trovare storie interessanti che sia sensato pubblicare.
La scelta dei giornali possiamo dibatterla, ma Rula Jebreal fa esattamente ciò che faremmo io o Missiroli o Roth o uno qualunque degli Amis: non capacitarsi che la Meloni non abbia usato «ho pure il padre delinquente» come trucco retorico per prendere qualche voto in più o vendere ancora più copie della sua autobiografia. Aveva tutto quel materiale, e s’è limitata a raccontare un padre poco portato per fare il padre.
Il fatto che il signor Meloni sia morto c’impedisce anche di sperare in un incontro a C’è posta per te. Il padre l’avrebbe convocata e Giorgia si sarebbe rifiutata di aprire la busta, dando un segnale così netto che l’avrebbe colto chiunque; persino chi, pur sfruttando qualunque dramma familiare, non è mai riuscita a fare lo scatto da monologhista di Sanremo a grande scrittrice.
Il “caso Meloni-Jebreal” e la stampa monnezza. Redazione CdG 1947 e Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno l'1 Ottobre 2022.
La solita sinistra radical-chic che ha trovato nelle ultime ore megafono nelle volgarità di tale Julia Rubreal. Il solito squadrismo giornalistico galoppante di giornalisti che definire "giornalai" sarebbe un offesa per i poveri incolpevoli edicolanti.
Se qualcuno crede che il volgare attacco della stampa spagnola a Giorgia Meloni sia frutto della loro opera, allora lasciatemelo dire non avete capito niente sul basso livello a cui è arrivata la stampa sinistrorsa che non riesce ancora ad accettare ed ingoiare il rospo di vedere una ragazza che dal quartiere popolare più sinistrorso di Roma, la Garbatella è riuscita a fondare un partito diventandone il leader incontrastato. La vicenda del padre della Meloni risale a 27 fa, era il 1995, quando in Spagna il padre Francesco Meloni, fu condannato a nove anni di reclusione per narcotraffico alle Canarie. All’epoca la leader di Fratelli d’Italia aveva appena raggiunto la maggiore età e da sette anni aveva rotto i ponti con quel genitore che, quando aveva circa un anno, l’aveva abbandonata, lasciandola sola con la madre.
La solita sinistra radical-chic che ha trovato nelle ultime ore megafono nelle volgarità di tale Julia Rubreal, figlia dell’Imam della moschea di Al-Aqsa, la più grande di Gerusalemme, israeliana di origine palestinese, nata a Haifa, cresciuta in Israele e poi trasferitasi in Italia grazie ad una borsa di studio del nostro Governo, ha attaccato com delle volgari affermazioni Giorgia Meloni sfruttando le squallide ed inconsistenti accuse rivoltele dalla stampa spagnola, venendo ripresa guarda caso dal quotidiano La Repubblica. Il solito squadrismo giornalistico galoppante di giornalisti che definire “giornalai” sarebbe un offesa per i poveri incolpevoli edicolanti.
La Rubreal deve la sua visibilità televisiva in Italia ad una stretta amicizia con la tunisina Afef Jnifen, all’epoca dei fatti moglie di Marco Tronchetti Provera quando costui era presidente di Telecom Italia e controllava l’emittente televisiva La7, che la impose nei programmi televisivi. Non a caso le venne affidato il dibattito giornaliero di Omnibus Estate e successivamente il “tema del giorno” del programma quotidiano Omnibus, alternandosi in video con Antonello Piroso (un altro “protetto” dell’ex signora Tronchetti Provera), che una volta rilevata La7 dal Gruppo Cairo, che l’ha rilanciata, è letteralmente scomparso dal giornalismo televisivo
Nel 2013 Rula Jebreal ha sposato il banchiere americano Arthur Altschul Jr., figlio di un partner della potente banca d’affari statunitense Goldman Sachs, da cui ha divorziato nel giugno 2016, dopo averlo cornificato relazione con Roger Waters, il fondatore dei Pink Floyd. Poi amante del regista e gallerista Julian Schnabel che ha diretto il film “Miral” prodotto da Harvey Weinstein – proprio lui il produttore predatore sessuale – tratto dal libro della Jebreal (e accolto da un vespaio di polemiche in Israele che le ha chiesto invano di rinunciare alla cittadinanza).
Nell’agosto 2014, durante un dibattito sul network televisivo americano MSNBC, la Jebreal accusò i media statunitensi di essere troppo sbilanciati a favore di Israele, portando ad esempio il numero e la durata delle interviste con esponenti israeliani rispetto a quelle con esponenti palestinesi. Questo atteggiamento, a suo dire, “fornirebbe al pubblico un quadro distorto e parziale del conflitto a Gaza“. In seguito a queste affermazioni, venne giustamente “oscurata” dalla rete.
“La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali, NON colpe/punizioni collettive” ha scritto la Jebreal sul suo account Twitter
La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza.
Persino Carlo Calenda su Twitter ha criticato la Jebreal: “Rula questa è una bassezza. Non si fa politica così e tanto meno giornalismo. Quello che ha fatto il padre della Meloni non c’entra nulla con lei. Cancella questo tweet che tra l’altro ha l’unico effetto di portare ancora più gente a sostenere Fdi“ su Twitter in molti accostano le parole della giornalista italo-israeliana di origine palestinese alla replica di Giorgia Meloni che annuncia querela. Molti i commenti, uno per tutti a sintetizzare il “sentiment” negativo: “Quindi la Turci, la Pascale, la Jebreal e quelli che ‘se vince la destra me ne vado dall’Italia’, si tolgono dalle p…? Davvero davvero?“. Magari rispettassero i loro intenti annunciati !
“Le affermazioni diffuse via social dalla signora, anche se è difficile definirla tale, Rula Jebreal, sono vergognose e farneticanti. Per attaccare Giorgia Meloni utilizza la storia personale del padre che la abbandonò quando aveva un anno di età e che Giorgia Meloni stessa ha raccontato di aver escluso dalla sua esistenza durante l’infanzia”. Le parole di Francesco Lollobrigida, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, riassumono lo sdegno del centrodestra e di buona parte del mondo politico per l’attacco della giornalista alla leader di Fdi il cui padre, 27 anni fa, fu condannato a nove anni di reclusione per narcotraffico. “Di quell’uomo fu vittima e oggi lo è anche di una giornalista senza scrupoli né alcun limite etico, che pur di aggredirla è pronta a sfruttare una vicenda dolorosa rispetto alla quale Giorgia Meloni non solo è estranea, ma ne è rimasta danneggiata sotto ogni aspetto. La seconda questione appare ancora più grave sul piano deontologico per una persona che si definisce giornalista e opinionista televisiva, e cioè l’attribuzione di gravissime affermazioni e posizioni politiche che in realtà Giorgia Meloni mai ha pronunciato né pensato. È evidente che il risultato elettorale ha obnubilato le menti di molti, spingendoli a prendere posizioni ingiustificabili” continua Lollobrigida.
Anche il presidente del M5s Giuseppe Conte ha scritto un post in difesa della Meloni: “Questo è fango su Giorgia Meloni. Io ,Meloni e Fratelli d’Italia, con il M5S li combatto in tutte le sedi, ma sul piano politico. Non si possono però addebitare in maniera subdola a una figlia – che dal genitore è stata abbandonata, senza avere più rapporti – i reati e gli errori del padre. È inoltre intollerabile mettere etichette su chi viene da situazioni difficili e cerca la propria strada e il riscatto lontano da quel contesto.” . Anche il pentastellato Stefano Buffagni è intervenuto: “Oggi Giorgia Meloni sta per diventare premier ed ecco che dal cilindro di certa stampa tirano fuori questa notiziona, quest’articolone, questo schifo. Vi giuro sono nauseato. Già, perché, rivedo un film già visto: certa stampa, mossa da certi apparati, è il braccio armato di chi inneggia alla democrazia ma poi non l’accetta e usa qualsiasi mezzo per screditare l’avversario politico di turno. Tra l’altro entrando nella sfera privata di una donna che dal padre è stata abbandonata quando era piccola. È capitato con il M5S, con me personalmente, e ora tocca alla Meloni essere aggredita sul piano personale. In moltissime occasioni ho attaccato Giorgia Meloni per le sue idee e per le sue dichiarazioni. Ma oggi devo dirle con il cuore: ti sono vicino, non ti curar di loro“.
Sulla questione è intervenuto anche Matteo Salvini: “Chi fa battaglia politica attaccando non l’avversario, ma mamma, papà, figli, mogli o mariti, è un piccolo uomo. O una piccola donna. Abbiamo vinto democraticamente le elezioni, fatevene una ragione“.
Oggi Giorgia Meloni ha replicato: “Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno.Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte. Ma poco importa, se i ‘buonisti’ possono passare come un rullo compressore sulla vita del ‘mostro’. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto ‘le colpe dei padri non ricadano sui figli’.
Ps. Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce”, ha scritto su Facebook la leader di FdI. Redazione CdG 1947
Purtroppo nella politica moderna si fa così. Cara Rula Jebreal cosa diavolo c’entra il padre della Meloni? Populismo e moralismo hanno ucciso la politica. Redazione su Il Riformista l'1 Ottobre 2022
Prima un grande giornale spagnolo, poi Repubblica e diversi altri giornali e siti web italiani, infine la celebre giornalista Rula Jebreal, hanno scagliato un attacco contro Giorgia Meloni raccontando la storia di suo padre, che tanti anni fa fu condannato in Spagna a nove anni di carcere per narcotraffico. All’epoca Giorgia era poco più che una ragazza e da molti anni non aveva più rapporti con il padre.
In una sua dichiarazione Rula Jebreal l’ha accusata di prendersela sempre, genericamente, contro i migranti, senza capire che se un migrante commette un reato lui e solo lui ne è responsabile. Secondo la Jebreal questo atteggiamento è in contrasto con il fatto di avere un padre che è stato condannato per droga. In realtà non è chiarissimo il ragionamento della Jebreal, che comunque ha prodotto una valanga di polemiche e di proteste. Soprattutto quella di Francesco Lollobrigida a nome di Fratelli d’Italia e quello di Carlo Calenda. Il quale ha fatto osservare a Rula Jebreal che non è questo il modo di fare correttamente lotta politica.
La stessa Giorgia Meloni ha ricordato di avere più volte raccontato la storia dolorosa dei rapporti con suo padre, che la abbandonò quando lei aveva poco più di un anno e con il quale dall’età di 11 anni lei non ha più avuto rapporti. In effetti la storia è notissima ed è anche abbastanza noto il fatto che il padre di Giorgia Meloni è morto alcuni anni fa. Queste circostanze hanno prodotto l’indignazione. In realtà sono persino circostanze che non vale neppure la pena di citare.
Se anche Giorgia avesse avuto un rapporto intenso con suo padre e lo avesse amato profondamente, sarebbe stato suo pieno diritto farlo senza che nessuno dovesse usare suo padre per colpirla politicamente. Purtroppo nella politica moderna si fa così. Le regole non esistono. Da molti anni. Soprattutto da quando il populismo, il moralismo, il giustizialismo hanno spazzato via la buona cultura politica.
La mamma di Giorgia Meloni contro Rula Jebreal: «Si vergogni ad attaccarla usando la storia del padre». Redazione Online su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.
Anna Paratore, madre di Giorgia Meloni, interviene sulla polemica tra Rula Jebreal e la figlia
«Si vergogni»: così Anna Paratore , la mamma di Giorgia Meloni , si è rivolta a Rula Jebreal, dopo che la giornalista aveva nei giorni scorsi attaccato la leader di Fratelli d’Italia ricordando la condanna del padre per spaccio di stupefacenti.
«Dopo che per anni ho sopportato i peggiori insulti nei confronti di Giorgia, bugie e mistificazioni di tutti i tipi, calunnie vergognose che, detto per inciso, se in Italia sei di destra non riesci nemmeno a far condannare in un’aula di tribunale, sono davvero stufa», ha spiegato la mamma di Meloni in una lettera postata da diversi parlamentari di Fratelli d'Italia sui social.
Una lettera nella quale ha poi attaccato frontalmente Jebreal, definendola una «pseudo giornalista» che «si permette di cianciare su mia figlia utilizzando un padre che a Giorgia è costato solo lacrime, e da cui non ha mai avuto il sollievo di una carezza o di un bacio, per non dire un piatto di minestra. Si vergogni», continua, «visto che attribuisce a Giorgia parole mai pronunciate, concetti violenti e stupidi mai partoriti soprattutto perché, a differenza di tanti bei faccini che fanno carriera sgomitando o grazie ad amicizie importanti, mia figlia scema non è e quando parla sa ciò che dice».
Il tweet di Jebreal che aveva scatenato la bufera era questo: «La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive».
La stessa leader di FdI era intervenuta: «Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte», ha scritto. «Ma poco importa, se i “buonisti” possono passare come un rullo compressore sulla vita del “mostro”. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto “le colpe dei padri non ricadano sui figli”». C’è pure un «ps» nel post di Meloni: «Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce».
Solidarietà a Meloni è stata espressa da politici di partiti i più diversi, da Carlo Calenda a Giuseppe Conte, da Stefano Buffagni a Licia Ronzulli a Deborah Bergamini.
Jebreal non aveva però ritrattato, anzi: «Non volevo evidenziare la vicenda familiare della Meloni, ma la sua propaganda», ha scritto. «Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump, come si legge sul Washington Post, su The Independent e The Guardian».
Ora l'intervento della madre di Meloni. Che ricorda anche la sua storia personale: «La mia storia con il padre delle mie figlie non è materia pubblica, così come non credo lo sia la vita di un uomo che è mancato già da svariati anni. Infatti, l’ultima volta che le mie bambine ed io lo abbiamo incontrato, è stato in un lontano pomeriggio intorno al 1988, a Villa Borghese, un giardino pubblico romano, dove Francesco Meloni aveva chiesto di rivedere le sue figlie dopo che da circa 5 anni non avevano sue notizie. Fu un incontro inutile e superficiale, con due bimbette che a malapena si ricordavano di lui, e lui che si faceva chiamare Franco perché sosteneva che “papà” lo invecchiasse. Dopo di allora, il vuoto assoluto.
Per quello che ne sapevamo noi, poteva essere morto, o felicemente vivo in qualche parte del mondo. Lui non cercava le figlie, le figlie non hanno mai cercato lui. Quando poi Giorgia fu nominata alla vicepresidenza della Camera – molto più di venti anni dopo - ecco arrivare la telefonata di un amico comune. “Franco” avrebbe avuto piacere di rivedere le ragazze: Giorgia disse di no. Come fa sempre, argomentò il suo diniego: “Perché dovrei vedermi con una persona che se incontro per strada nemmeno riconosco? Non ho niente da dirgli”».
La stessa Meloni aveva parlato del padre, tempo fa, a Verissimo: «Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto».
Jebreal: “Meloni mi querela? Non mi faccio intimidire”. Continua lo scontro tra Meloni e Jebreal. La prima minaccia querela, la seconda dice: non mi faccio intimidire. Il Dubbio il 2 ottobre 2022.
“Meloni mi querela? Sappia che non mi faccio intimidire”. Continua la saga tra Rula Jebreal e Giorgia Meloni, dopo che la prima aveva attaccato la leader Fdi, dopo la pubblicazione di una vecchia condanna del padre per narcotraffico.
Il tweet di Jebreal
Questo il tweet di Jebreal che ha scatenato la bufera: “Durante la sua campagna elettorale, Giorgia Meloni, ha pubblicato il video di uno stupro in cui afferma che i richiedenti asilo sono criminalim che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironia della sorte, il padre della Meloni è un famigerato trafficante di droga/criminale condannato, che ha scontato una pena in una prigione”
Tutti contro Jebreal
Il tweet di Jenreal ha provocato una valanga di polemiche, anche il presidente M5s Conte ha scritto un post in difesa della Meloni: “Questo è fango su Giorgia Meloni. Io ,Meloni e Fratelli d’Italia, con il M5S li combatto in tutte le sedi, ma sul piano politico”.
“Rula questa è una bassezza. Non si fa politica così e tanto meno giornalismo. Quello che ha fatto il padre della Meloni non c’entra nulla con lei. Cancella questo tweet che tra l’altro ha l’unico effetto di portare ancora più gente a sostenere FDI”, scrive Carlo Calenda, leader di Azione, rispondendo a Rula Jebreal.
«La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive».
La minaccia di Meloni
“Signora Jebreal – ha scritto Meloni sul suo profilo Facebook – spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce”.
«Il nuovo premier italiano Meloni sta minacciando di citarmi in giudizio per il mio tweet sulle sue cospirazioni sostitutive, che sono in video e ampiamente coperte dai media internazionali». Lo scrive su Twitter Rula Jebreal, spiegando che «tutti gli autocrati usano tali minacce per intimidire e mettere a tacere coloro che li richiamano e li espongono». «Sig.ra Meloni: Non mi faccio intimidire!», conclude nel suo tweet in lingua inglese.
Giorgia Meloni la querela (giustamente), Rula Jebreal grida alla dittatura: è islamofobia. Pietro De Leo su Il Tempo il 03 ottobre 2022
Nel mondo fatato radicalchic funziona così: quando attaccano loro è sempre «impegno civile». Se, però, chi viene attaccato si difende allora diventa intimidazione, sopraffazione, tentativo di tacitare voci libere e via concionando.
Il tema è Rula Jebreal. La giornalista, evidentemente assetata di un nuovo sorso di visibilità nel confronto italiano si è subito scagliata contro Giorgia Meloni dopo la sua vittoria elettorale. Nella maniera più sgradevole possibile: prendendo a pretesto una brutta vicenda di cronaca che ha coinvolto il padre della leader di Fratelli d'Italia per compiere un ragionamento spericolato sulla politica migratoria. Piccolo particolare: Giorgia Meloni e la sua famiglia sono state abbandonate dal padre quand'ella aveva appena un anno e dunque non c'è nulla che colleghi le due biografie da quel momento in poi.
Ovvio che un colpo così basso abbia suscitato reazioni, persino da qualche avversario politico della leader di destra che ha criticato le affermazioni della giornalista. E la stessa Meloni, legittimamente, ha annunciato una querela.
Laddove c'è uno Stato diritto, funziona così: se tu ti senti diffamato, denunci e poi saranno i magistrati a decidere. Stop. E già lì Jebrealha reagito buttandola sull'apocalittico: «Tutti gli autocrati usano queste minacce per intimidire e mettere a tacere coloro che li chiamano in causa e li smascherano», in una evidente divaricazione tra aspirazione e realtà. Proseguita anche con un secondo capitolo. In un tweet, la giornalista si è occupata delle testate di area moderata e conservatrice (tra cui la nostra) colpevoli di aver scritto sulla vicenda. «I media italiani hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino». E ancora: «I facilitatori della coalizione di estrema destra sono forze moderate, che hanno normalizzato una coalizione essenzialmente xenofoba, razzista e autoritaria». E poi la chiusura: «Incitamento sfacciato». O magari un grande atto di generoso, avendo ridonato un quarto d'ora di celebrità a chi, forse, non lo meriterebbe.
Massimo Giletti contro Rula Jebreal: "Perché sparano queste cose?" Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022
"Perché si sparano queste cose?". Massimo Giletti, a Non è l'arena su La7, non nasconde il suo disgusto per il tweet con cui Rula Jebreal ha usato i guai con la giustizia del padre di Giorgia Meloni per attaccare la leader di Fratelli d'Italia. Per inciso: l'uomo, poi arrestato per narcotraffico, aveva lasciato la famiglia quando la Meloni aveva un anno, si era trasferito in Spagna e ha visto per l'ultima volta la figlia quando questa aveva 11 anni. Poi, i rapporti si sono dolorosamente chiusi.
Tanto che la stessa Meloni, una volta diventata giovane vicepresidente della Camera, alla richiesta del padre di poterla rivedere aveva risposto con queste parole, ricordate proprio da Giletti: "Perché dovrei rivedere una persona che se incontro per strada non riconosco nemmeno? Non ho niente da dirgli".
"Queste storie non dovrebbero entrarci per nulla - riconosce Gad Lerner, in studio -. E' evidente che Rula Jebreal abbia pisciato fuori dal vaso". "Ma io vado oltre - lo interrompe Giletti -, perché si cerca ogni cosa per colpire l'avversario? E' questo che è intollerabile". "In questa campagna - ribatte Lerner - non c'è stato nessuno attacco personale e nessuno che ha gridato al ritorno del fascismo in caso di vittoria del centrodestra". Punti di vista molto, molto personali.
"Ha pisciato fuori dal vaso". Lerner asfalta Rula Jebreal. Luca Sablone il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Critiche diffuse per il post scomposto della giornalista contro Giorgia Meloni. Anche Giletti attacca la Jebreal: "Si cerca ogni cosa pur di colpire l'avversario"
Rula Jebreal è riuscita nell'impresa di farsi attaccare anche da Gad Lerner. La sfera privata dei personaggi politici ormai non ha barriere. Tutto viene diffuso, tutto viene spiattellato sulla piazza pubblica senza alcuna riserva. E c'è chi utilizza dei particolari familiari per attaccare frontalmente un avversario. Un pretesto discutibile. Ne è una dimostrazione l'uscita scomposta della Jebreal ai danni di Giorgia Meloni: la giornalista ha rilanciato la notizia sul padre della leader di Fratelli d'Italia per colpirla sul piano personale. E ha ricevuto critiche trasversali, anche dai suoi colleghi di sinistra.
Giletti e Lerner contro Jebreal
Ormai in politica non si fa più rispetto del privato. L'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda la domenica sera su La7, ha affrontato proprio questo tema. Un monito in tal senso è arrivato da Gad Lerner, che di certo non può essere sospettato di essere un esponente della destra o un ammiratore politico della leader di Fratelli d'Italia: "È evidente che Rula ha pisciato fuori dal vaso. Ha fatto un tweet che è un tweet di una giornalista. Non possiamo trasformarlo in un caso politico nazionale di fronte a una persona che ha vinto nettamente le elezioni e si prepara a fare il presidente del Consiglio".
Massimo Giletti ha mostrato la presa di posizione della madre della Meloni, che ha raccontato il passato molto travagliato tra il padre e la figlia. Il conduttore della trasmissione ha sostenuto una tesi tanto semplice quanto realistica, bacchettando così la Jebreal: "Si cerca qualsiasi cosa pur di colpire l'avversario...".
Il solito vittimismo
Contro la Jebreal si sono scagliati anche giornalisti ed esponenti politici appartenenti alla galassia rossa. E questo dimostra quanto la mossa della giornalista sia stata bocciata in maniera larghissima. Eppure lei non demorde, insiste, prosegue per la propria strada. A volte il silenzio è sinonimo di intelligenza, ma la Jebreal è tornata ancora una volta sul tema senza alcuna intenzione di mettere da parte la figuraccia.
Ma c'è di più. Non contenta, la Jebreal ha indossato i panni della vittima. Magari con l'intenzione di ribaltare la narrazione di quanto avvenuto. Ora lei si sente finita nel mirino di chissà quale congiura mediatica: "Il giorno dopo che Meloni ha minacciato di farmi causa per un tweet, i media hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino". Innanzitutto attaccare pubblicamente un personaggio di rilievo ha ovviamente una copertura mediatica e ti espone a dei commenti (positivi o negativi). Ma, soprattutto, la critica non è un assalto: è un esercizio previsto dalla democrazia. Con buona pace della Jebreal.
"Il potere bianco...". Il delirio di Muccino per difendere Rula Jebreal. Forse a caccia di qualche spettatore di sinistra, il regista mette nel mirino la Meloni: "Parlava di sostituzione etnica". Scoppia la bagarre su Twitter: "Taci, difendi l’indifendibile". Massimo Balsamo il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.
La querelle Rula Jebreal-Giorgia Meloni continua a tenere banco. E non poteva mancare l’intervento di Gabriele Muccino. Il vergognoso attacco alla leader di Fratelli d’Italia ha scatenato la bufera sui social network, ma il regista si è schierato dalla parte della giornalista. Tra un pianto per la mancata assegnazione di un premio e un’autocelebrazione del suo “grande” cinema, il 55enne ha preso posizione su Twitter. E, naturalmente, ha tirato in ballo il fascismo, diventato il mantra dei compagni delusi dall’esito delle elezioni.
Il delirio di Muccino
“Forse non era necessario tirare in ballo un padre mai presente nella vita di Meloni, d’accordo”, ha esordito Muccino su Twitter. Nonostante il “forse” di troppo, fin qui tutto ragionevole. Poi, via al delirio: “Rula Jebreal sta ora subendo un attacco furioso e pretestuoso”, il j’accuse del cineasta capitolino.
Rula, infangatrice vittimista: rimasta sola, ora fa l'offesa
Secondo Muccino, inoltre, l’assalto alla Jebreal sarebbe lo specchio di un Paese che ha già dimenticato le parole della Meloni. La leader di FdI, ricorda forse un po’ a stento, parlava di “sostituzione etnica in campagna elettorale riferendosi agli immigrati che ci avrebbero invaso”. Ma non solo. Tornando sul dramma dello stupro di Piacenza, Muccino ha accusato la politica di aver fatto mera propaganda. Anche qui nessuna condanna della violenza perpetrata, ma solo affondi contro la Meloni.
“Attacchi a Rula Jebreal odorano di fascismo”
Il pezzo forte della strampalata teoria mucciniana è contenuto nel finale.“Gli attacchi a Rula Jebreal odorano di fascismo, di abuso, di prevaricazione su una donna che ha osato toccare il potere bianco laddove per il colore della sua pelle, appena più scuro di un italiano ma anche più chiaro di molti altri italiani, non avrebbe mai dovuto commentare”, la sua rabbia.
"Contro di me assalto razzista, islamofobo e misogino". Ora la Jebreal fa la vittima
Difficile provare a interpretare il pensiero di Muccino, così come è complicato trovare qualcosa di vero in ciò che dice. Chissà se tra un film (brutto) e l’altro, ci fornirà qualche spiegazione in più sulla correlazione tra fascismo e condanna di un attacco ignobile. O ancora, se proverà a illustrare cosa intende per “potere bianco”.
Le reazioni sui social
Se qualche seguace ha condiviso l’intemerata, la maggior parte degli utenti ha biasimato senza mezzi termini l’uscita di Muccino. In molti hanno sottolineato che sarebbero bastate delle scuse nei confronti della Meloni anziché prediligere il vittimismo, ma c’è anche chi ha stigmatizzato il regista per difendere l’indifendibile pur di attaccare la leader di Fratelli d’Italia. Ecco una carrellata di reazioni: “È evidente che scrivi senza alcuna coscienza”, “Lungi da me difendere la Meloni ma c'è un vecchio detto che recita ‘chi è causa del suo mal, pianga se stesso’”, “Il solito comunista rosicone”. Non un successone, insomma. Un po' come i suoi ultimi film.
Rula, l'infangatrice vittimista: rimasta sola, ora fa l'offesa. "Contro di me insulti razzisti". Ma il suo odio fa scuola fra le femministe: nuovi attacchi privati alla Meloni. Francesca Galici il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Il centrodestra ha vinto le elezioni e Fratelli d'Italia è stato il partito più votato. Gli italiani si sono (finalmente) espressi democraticamente con l'esercizio del voto e questi sono fatti incontrovertibili, che però alla sinistra non vanno proprio giù.
Dallo scorso lunedì, i rossi sono pervasi da uno stato di perenne isteria e rabbia, come dimostra la costante attività della macchina del fango, in realtà mai spenta dalla campagna elettorale. E continuano, incessanti e scomposti, gli attacchi personali, più che politici, sia ai leader che agli esponenti dei partiti della coalizione vincente.
Rula Jebreal, non paga della figuraccia fatta speculando sulla figura del padre di Giorgia Meloni, continua imperterrita a strepitare contro i media che «hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino». Poi, finiti gli aggettivi trovati sul vocabolario parla di «incitamento sfacciato» solo perché la leader di Fdi ha informato di voler adire le vie legali per un tweet in cui la giornalista le attribuisce frasi mai dette.
Mentre la Jebreal prova a cucirsi maldestramente addosso i panni della vittima, dall'altra parte Guido Crosetto ha rivelato di essere stato contattato da un giornalista del Fatto quotidiano, che gli ha chiesto conto di «lavori e servizi, fatturati e dichiarati» negli ultimi anni. Una domanda che apre diversi interrogativi su quello che potrebbe nascondersi dietro una simile richiesta, tanto che in diversi sospettano ci sia in cantiere qualche inchiesta contro Giorgia Meloni e chi le gravita attorno.
In attesa di capire cosa bolle nel grande calderone di Marco Travaglio (e non solo), la filosofa Rosi Braidotti ha avuto un travaso di bile durante Otto e mezzo, tra fake news e la solita cattiveria. In barba al femminismo millantato a sinistra, a suo dire la leader di Fdi avrebbe «scatenato la sua faccia rabbiosa e cattiva» mentre la «povera» Chiara Ferragni subiva «minacce da Ignazio La Russa». Persino la silenziosa cautela della Meloni è vista con sospetto: «È sparita, non parla, ma si è data in pasto alla stampa in modo spettacolare. So tutto di lei». Fino all'illazione finale: «Giorgia non dà la mancia alla parrucchiera».
Tutto fa brodo a sinistra per fomentare l'odio contro il centrodestra, anche le bufale sgangherate come quelle della filosofa o quelle di Bernard-Henry Lévy che, sempre su La7, ne ha sparata una davvero grossa affermando che «avrete una probabile primo ministro che in tutta la campagna elettorale ha detto che Mussolini ha fatto cose buone ed è una persona di valore». Uno sproloquio senza capo né coda da parte del filosofo francese, che si unisce a tutti quelli che l'incommensurabile fantasia dei sinistri è riuscita a partorire nelle ultime settimane.
Tentativi spesso infantili, che però risultano utili a delegittimare la vittoria, netta e schiacciante, del centrodestra alle urne. Quella che la sinistra fatica a ottenere da ormai molti anni. E non può che essere diversamente, se viene rappresentata da esponenti come Nicola Fratoianni, che va in televisione a dire di non avere problemi a definirsi comunista e a inorgoglirsi scandendo slogan come «meglio comunista che fascista». O se continua a farsi fare da megafono a personaggi come Rula Jebreal e Rosi Braidotti.
In tanti avevano detto che avrebbero lasciato l'Italia in caso di vittoria del centrodestra. Hanno forse cambiato idea? Su aerei e treni c'è ancora posto.
Dopo le polemiche bipartisan contro il suo tweet in cui aveva attaccato il padre di Giorgia Meloni invece delle scuse ha chiamato in causa una sorta di caccia alle streghe nel nostro paese. Federico Novella su Panorama il 4/10/22.
La triste vicenda di Rula Jebreal è la perfetta dimostrazione del fatto che i mali più devastanti di questo Paese sono due. Primo, l’incapacità di scusarsi per i propri errori. Secondo, il ricorso automatico al vittimismo, esasperato da dosi poderose di politicamente corretto. Per chi non lo sapesse, la giornalista italo-palestinese Rula Jebreal ha ripreso sui social la notizia rilanciata dalla stampa spagnola della condanna per droga del padre della leader di Fratelli d’Italia. Un uomo che ha abbandonato la figlia quando lei aveva un anno, e con cui non ha mai avuto rapporti. «Durante la sua campagna elettorale - scrive Jebreal - la nuova premier italiana ha diffuso un video di stupro insinuando che i richiedenti asilo siano criminali che vogliono sostituire i cristiani bianchi. Ironicamente, il padre della Meloni è un noto trafficante di droga». Una dichiarazione di una tale bassezza, di una tale illogica sconclusionatezza, che Giorgia Meloni ha ricevuto la solidarietà da tutto il mondo politico. Fare propaganda tirando in ballo i parenti è come scavare nel pozzo della meschinità. Ciò nonostante, Jebreal avrebbe potuto rimediare chiedendo scusa, ammettendo che nessuno è perfetto: ma no, sarebbe stato troppo facile, il suo ego ne sarebbe uscito ammaccato. Dunque, tornando sull’argomento, ha peggiorato la sua posizione: “La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza”. L’incapacità, per orgoglio, di ammettere i propri errori, fa sì che gli errori si ingigantiscano, come avvenuto in questo caso. Dopo simili indegnità, un minimo senso del pudore avrebbe richiesto perlomeno la compostezza del silenzio. E invece no. E qui entra in gioco il secondo stratagemma, la scorciatoia più battuta, la garanzia di immunità per tutte le castronerie: il vittimismo. Tradotto: mi contestano perché ce l’hanno con me. “Il giorno dopo che Meloni ha minacciato di farmi causa per un tweet, i media hanno lanciato un assalto razzista, islamofobo e misogino” , scrive la permalosissima giornalista. Che evidentemente non solo si considera infallibile, ma anche intoccabile. Ovviamente nessuno si è permesso di inserire nella polemica la sua razza o i suoi convincimenti religiosi: semplicemente qualcuno ha osato criticare le sue parole sghangherate. Ed è sempre in questi momenti, quando Rula non sa dove voltarsi per giustificare le sue scempiaggini, che si fa ricorso all’apporto salvifico dell’attacco razzistico-femminista. “Mi attaccano perché sono palestinese. Mi attaccano perché sono donna. Mi attaccano perché sono islamica”. No, signora Jebreal: la attaccano perché ancora una volta ha esagerato. Non è razzismo: è libera critica in libero stato. Ognuno si prenda le sue responsabilità: chi parla a sproposito, e non ha il coraggio di fare retromarcia, si carica il rischio di essere criticata. E’ un principio cardine di ogni società democratica. Vale per tutti, a quanto pare, tranne che per lei.
Giorgia Meloni, Rula Jebreal imbarazza perfino la sinistra. Renato Farina su Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022
Noi padri lo sappiamo bene. Ci useranno contro i nostri figli, e magari nipoti. È questa di solito la sofferenza insopportabile che accompagna la rovina della reputazione causa condanna, meritata o no che sia, oppure come conseguenza di una campagna di stampa. È una specialità della sinistra. (Ne ho esperienza. Io ero il famoso Betulla, mio figlio divenne Betullino, emarginazione, vendette trasversali). Ma qui nel caso Jebrael-Meloni siamo oltre, molto oltre. Si usa un non-padre per sporcare pubblicamente l’intima coscienza di una non-figlia. La quale semmai avrebbe potuto usare il dato biografico di una condanna per traffico di droga del genitore (sparito dalla sua vita da quando lei aveva un anno) per erigersi a modello di persona che ha saputo capovolgere il corso del destino. Giorgia invece ha praticato, non in ossequio al codice ma alla pietas, il diritto all’oblio verso chi l’ha costretta a crescere in una famiglia monca.
Ed ora pure questa. Sembra una cattiveria del non-padre, una specie di morso dello zombie. E adesso? Adesso, a quanto pare, niente. Rula Jebreal, il giorno dopo la character assassination alla Goebbles di Giorgia Meloni, ha già ottenuto l’immunità da quel mondo dei piani alti che conta e decide della nostra vita assai più di quanto pesi il voto del popolo. Insabbiamento. Omertà. Nessuno del suo giro radical-chic, per non cancellare il volto internazionale del politicamente corretto, non dico l’abbia scomunicata, ma anche solo picchiata con un fiore. Tra loro si reggono il sacco. Quando uno la spara troppo grossa, urtando chiunque abbia un milligrammo di sensibilità e di decoro, la tecnica per preservare l’amico e il club è quella di fingere di non aver sentito, letto, ci sono ben altri problemi, non è vero? Cercate una dichiarazione di uno/una giornalista dello star system televisivo, o una storia Instagram di un influencer alla moda o di un Maneskin qualsiasi. Un o due Ferragnez che si propongano come scudo almeno virtuale, su schermo e su social, a questo colpo di lingua serpentesca. Ancora fino a ieri sera nulla era pervenuto. QUEL PRECEDENTE DEL 2016 Intendiamoci. La giornalista italiana, araboisraeliana e americana non ha sparato una sciocchezza pazzesca in un dibattito fiammeggiante. In realtà Rula se l’era legata al dito dopo che aveva avuto la peggio con Giorgia, pur essendo sostenuta da conduttore e platea,in un duello televisivo su La7, da Corrado Formigli, nel 2016. Il veleno le è fermentato nella pancia più che nella testa. Il suo trionfo politico-mediatico è stato a Sanremo nel 2020. Dopo di che è diventata un monumento nazional-popolare progressista. Sarebbero, quelli dell’altro ieri, vocalizzi sguaiati se fossero capitati nella disfida agonistica da battaglia pre-voto, oppure al ritorno negli spogliatoi dopo una partita tesa. Poi, doccia, lealtà, scuse per gli eccessi: ci si stringe la mano. Vale per il calcio, e (dovrebbe) per la politica. Lo ha fatto Enrico Letta con Giorgia Meloni con una telefonata mesta ma onesta. La Jebreal invece ha agito a freddo, con calcolo, entrando con il kalashnikov verbale nella campagna mondiale di denigrazione della “rivale”. È stata una mossa di odio politico e di invidia primordiale pianificata per delegittimare chi ha vinto le elezioni (si chiamerebbe sovranità popolare). Non lo ha fatto falsificando le idee dell'avversario/a, ma esigendone la discriminazione su base genetica.
Gravità inaudita, flagranza reiterata, razzismo della più bell’acqua. E lo ha fatto dando non una, ma due, tre martellate sullo stesso chiodo infame. Abbiamo cercato un precedente paragonabile allo schifo di gettare, per odio politico, il cadavere di un padre tra i piedi della di lui figlia, per contaminarla coi delitti da lui commessi. Niente, non se ne trovano. Eppure nel gran teatro della politica, del giornalismo e delle istituzioni non sta accadendo nulla. Niente. Chiusa lì. TROPPI SILENZI Parliamo – ovvio - della casamatta progressista da cui si dipartono i fili del potere mediatico e culturale. L’Ordine dei giornalisti? Il Consiglio di disciplina della categoria? Zero. Il femminismo ufficiale si sta occupando di diritto all’aborto, e organizza manifestazioni contro la Meloni sul tema, e non si capisce perché. Ora Rula, in fin dei conti, rimprovera alla madre di Giorgia di non averla abortita, nonostante sapesse quale razza di padre le stava per dare. Rula non si tocca. Del resto c’era un vecchio slogan che prevedeva casi simili: «O aborto o un mostro in pancia». Come ha scritto la Meloni, Jebreal l’ha ridotta a mostro per discendenza biologica, come se la sua persona contenesse nel Dna una fedina penale. Ma la militante Rula non si tocca. Emma Bonino è troppo impegnata a far ricontare le sue schede onde riavere il seggio, ea stramaledire Calenda reo di averle preferito Renzi. Ecco, questi due, oltre a Giuseppe Conte, sono i personaggi notevoli e non di centrodestra intervenuti ad esprimere ripugnanza per la discesa agli inferi della Signora Jebreal. Ma costoro sono dei fuori quota rispetto a sinistra, estrema sinistra, femminismo, antifascismo, forcaiolismo che colpisce per colpa degli antenati i discendenti fino alla settima generazione. Progressismo? Al diavolo. Niente di nuovo sul fronte della sinistra occidentale. Il popolo può ben votare e persino amare una donna di destra, per abbatterla va bene anche la lupa solitaria a cui dare l’immunità. P.S. Ho frequentato, oserei dire di essere stato amico di Rula, tanti anni fa. Non è affatto una donna sciocca. Chi l’ha avvelenata?
Rula Jebreal e il tweet contro Giorgia Meloni: anche Calenda e Conte con la leader di FdI. Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.
La giornalista italo-israeliana aveva attaccato sugli immigrati usando il padre della premier in pectore condannato per traffico di droga in Spagna. Lei risponde: querelo
Rula Jebreal ha attaccato frontalmente Giorgia Meloni: ne è nata una polemica che ha coinvolto la politica ed è finita con minacce di querela. La giornalista italo-israeliana ha tirato in ballo la notizia, apparsa sulla stampa spagnola, sulla condanna del padre della leader di Fratelli d’Italia per spaccio di droga. Questo il tweet di Jebreal che ha scatenato la bufera: «La Meloni non è colpevole dei crimini commessi da suo padre, ma spesso sfrutta i reati commessi da alcuni stranieri, per criminalizzare tutti gli immigrati, descrivendoli minaccia alla sicurezza. In una democrazia ci sono responsabilità individuali non colpe/punizioni collettive».
La solidarietà a Giorgia Meloni è arrivata a pioggia dai politici di diversi partiti. E la stessa leader di FdI è intervenuta: «Il tatto della stampa italiana che racconta dei guai di mio padre, ma omette nei suoi titoli roboanti un elemento fondamentale. Tutti sanno che mio padre andò via quando avevo poco più di un anno. Tutti sanno che ho scelto di non vederlo più all’età di undici anni. Tutti sanno che non ho mai più avuto contatti con lui fino alla sua morte». Usa Facebook Meloni per rispondere a questo attacco, con veemenza: «Ma poco importa, se i “buonisti” possono passare come un rullo compressore sulla vita del “mostro”. Evidentemente tra le tante cose che non valgono per me c’è anche il detto “le colpe dei padri non ricadano sui figli”». C’è pure un «ps» nel post di Meloni: «Signora Jebreal, spero che potrà spiegare al giudice quando e dove avrei fatto la dichiarazione che lei mi attribuisce».
La solidarietà è arrivata, tra gli altri, dal leader di Azione Carlo Calenda e dal presidente del M5S Giuseppe Conte, ma anche da un altro M5S, Stefano Buffagni. E ancora: dalla vicepresidente di Forza Italia Licia Ronzulli e dalla deputata dello stesso partito Deborah Bergamini, sottosegretaria ai Rapporti con il Parlamento. Si assomigliano i toni della solidarietà. Conte se la prende con il quotidiano spagnolo che ha raccontato la storia del padre di Giorgia Meloni e lo definisce «ignobile», che «butta fango» sulla presidente di Fratelli d’Italia. Ronzulli pensa che le parole di Jebreal siano «meschine, frutto di cinismo», mentre Bergamini sceglie uno stile poetico per dire: «Rula Jebreal, un bel tacer non fu mai scritto». Per Buffagni l’attacco a Meloni «è nauseante», mentre Calenda lo definisce «una bassezza» e si rivolge alla giornalista invitandola a «cancellare il tweet».
Ma Rula Jebreal non solo non ha cancellato il tweet. Ha rilanciato: «Non volevo evidenziare la vicenda familiare della Meloni, ma la sua propaganda. Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump, come si legge sul Washington Post, su The Independent e The Guardian». Ma non sarà Jebreal ad avere l’ultima parola: come ha annunciato Meloni, sarà un giudice a mettere la parola fine.
Elezioni politiche 2022. La Jebreal non si scusa e anzi rincara la dose sulla Meloni: ecco cosa ha detto. Rula Jebreal prova a mettere una pezza alla figuraccia fatta con Giorgia Meloni ma le sue giustificazioni non reggono. Francesca Galici il 30 settembre 2022 su Il Giornale.
Giorgia Meloni ha annunciato di voler procedere per vie legali contro Rula Jebreal per averle attribuito dichiarazioni mai dette. Nel frattempo, la giornalista ha cercato di utilizzare le vicende personali del padre della leader di Fratelli d'Italia, andato via quando la Meloni aveva poco più di un anno, per tentare una ulteriore delegittimazione nei suoi confronti, riprendendo una notizia pubblicata sul quotidiano la Repubblica, a sua volta è stata presa da una news pubblicata sui quotidiani spagnoli. E ora, davanti al caos mediatico sollevato dalle sue parole, Rula Jebreal cerca una difesa improbabile, non chiede scusa ma rincara la dose, arrampicandosi su degli specchi troppo scivolosi per trovare un appiglio adeguato.
"Lo spieghi al giudice". Meloni porta Jebreal in tribunale
"Anche la stampa anglosassone ha dato notizia dei reati del padre e del nonno di Trump, come si legge sul Washington Post, The Independent & The Guardian. Questo accade a molti personaggi pubblici che assumono incarichi di rilievo. Detto questo è chiaro che le responsabilità penali non ricadono mai su terzi", ha detto Rula Jeabreal intervistata dall'Adnkronos proprio a seguito del polverone sollevato dalle sue esternazioni. Davanti a chi le ha fatto notare come sia stato ignobile e di basso livello utilizzare le vicende personali del padre di Giorgia Meloni, coinvolto in un'indagine per traffico di droga, Rula Jebreal ha tentato di trovare, senza riuscire, un escamotage per la sua difesa: "Quello che volevo evidenziare non è la vicenda familiare di Giorgia Meloni, che riguarda solo lei, ma la sua propaganda politica che, molto spesso, come quella di Trump, tende a criminalizzare l'intera categoria dei migranti a partire dagli errori o i crimini di alcuni di loro".
Facile capire come quello della Jebreal sia un tentativo mal riuscito di mettere una pezza alla figuraccia fatta sui social, come le ha fatto notare anche Carlo Calenda, consigliandole di cancellare il tweet. Ma lei sembra voler andare imperterrita sulla sua strada: "Meloni e Trump condividono storie familiari complesse ma non è questo il punto. Il mio è un invito alla riflessione, nella speranza che Meloni, considerando anche il suo vissuto personale, possa proporre una politica più inclusiva e abbandonare la retorica incendiaria che spesso porta all'equazione immigrato uguale criminale. Ognuno ha la sua storia, generalizzare per propaganda politica alimenta odio e rabbia sociale". Quel che dice la giornalista è giusto, è sbagliato fare di tutta l'erba un fascio, ma va sottolineato che chi entra in Italia via mare, senza documenti, senza aver diritto alla protezione internazionale, sta compiendo comunque un reato.
E davanti alla prospettiva di andare in tribunale, si gioca la carta della vittima sacrificale: "Il nuovo premier italiano Meloni sta minacciando di citarmi in giudizio per il mio tweet sulle sue cospirazioni “sostitutive”, che sono in video e ampiamente coperte dai media internazionali". Così ha scritto su Twitter, aggiungendo: "Tutti gli autocrati usano tali minacce per intimidire e mettere a tacere coloro che li richiamano e li espongono. Sig.ra Meloni: Non mi faccio intimidire". Alza ancora il tiro e continua ad alimentare le frange più violente con argomenti deboli e non attinenti alla realtà che, però, fanno leva su un certo tipo di audience.
Adalberto Signore per “il Giornale” il 6 settembre 2022.
Quando ieri è stato ufficializzato che sarà Liz Truss il nuovo leader del Partito conservatore britannico e, quindi, il successore di Boris Johnson a Downing Street, in molti dentro FdI hanno pensato a un segno del destino.
Facile, infatti, trovare più di una similitudine tra la Truss e Giorgia Meloni - dalla collocazione politica al fatto di essere coetanee - e altrettanto banale immaginare che la sua nomina a primo ministro del Regno Unito possa essere di buon auspicio in vista delle elezioni del 25 settembre.
Al di là delle suggestioni, però, di certo c'è che la rete internazionale su cui sta lavorando ormai da tempo la Meloni si va ulteriormente rafforzando. La leader di FdI, infatti, ha ben chiaro che se davvero toccherà a lei andare a Palazzo Chigi è proprio su quel fronte che si rischia di più.
Soprattutto se resterà la divergenza di vedute con la Lega dell'alleato Matteo Salvini, in particolare sulla cosiddetta guerra del gas. Proprio ieri, infatti, Vladimir Putin ha fatto sapere che «le forniture riprenderanno solo con la revoca delle sanzioni», un affondo che ha fatto schizzare il prezzo del gas e che irrigidisce di molto le posizioni. Rischiando, inevitabilmente, di allargare la distanza tra Meloni e Salvini su un punto che è determinante per quella che sarà la percezione dell'Italia all'estero dopo il 25 settembre.
La leader di FdI ne è ben consapevole. Ecco perché non perde occasione per ribadire la sua ferma posizione filoatlantica, nettamente schierata a favore di Kiev e mai esitante nel condannare l'invasione dell'Ucraina decisa dal Cremlino.
Ecco perché ha accolto con favore la nomina della Truss, non solo ultraconservatrice e tatcheriana, ma anche decisamente a sostegno dell'Ucraina, tanto da aver ipotizzato un processo a Vladimir Putin in stile Norimberga. E poi, altro punto di grande intesa, sempre molto dura con la Cina che considera una vera e propria minaccia. Esattamente come la Meloni, che nel 2008 - allora ministro della Gioventù - criticò la scelta di tenere le Olimpiadi a Pechino. Infine, in qualità di presidente dei Conservatori europei, è nelle cose che la leader di FdI abbia un canale privilegiato con la Truss. I Tories, infatti, hanno dato un contributo determinante alla nascita dei Conservatori europei di cui oggi la Meloni è presidente.
E solo dopo la Brexit Raffaele Fitto - primo italiano ad entrare nei Conservatori e oggi uno degli «ambasciatori» della Meloni in Europa - ha preso il posto del britannico Syed Kamall come co-presidente del gruppo Ecr al Parlamento Ue.
Con la Truss, insomma, la leader di FdI avrà un canale privilegiato. Tanto che dopo il 25 settembre sarà proprio Londra la meta di uno dei suoi primissimi impegni internazionali. Non a caso, ieri la Meloni si è congratulata con il nuovo primo ministro del Regno Unito, dicendosi certa che «sarà possibile rafforzare» una «già consolidata collaborazione politica e culturale».
Per il resto - dovesse andare a Palazzo Chigi - l'idea è quella di fare i primi bilaterali di peso senza troppa fretta, magari a margine dei prossimi Consigli Ue in programma a Bruxelles. Oltre il fronte europeo c'è - ovviamente - quello atlantico. I buoni uffici con il Partito Repubblicano non sono un mistero, tanto che la Meloni è stata l'unico politico italiano ad essere invitata due volte - nel 2019 e lo scorso febbraio - alla Conservative Political Action Conference, la più grande conferenza politica del mondo conservatore.
Ma anche con i Democratici è aperta un'interlocuzione.
E chissà che una mano non la stia dando pure Mario Draghi. Di certo - dopo le parole di approvazione verso la leader di FdI, arrivate dall'ex segretario di Stato americano Hillary Clinton - nei prossimi giorni sarà il presidente del Copasir Adolfo Urso ad andare a Washington. Dove, certamente, incontrerà esponenti dell'amministrazione americana. Una visita significativa, visto che l'esponente di Fratelli d'Italia - che anche grazie alla sua fondazione FareFuturo ha da decenni rapporti stretti con gli Stati Uniti - solo qualche giorno prima ha in agenda un viaggio a Kiev. Non un dettaglio, sopratutto considerando che proprio dal Copasir sono passati i quattro decreti sulle armi da inviare in Ucraina.
Quelle mucche ugandesi per la Meloni. Tony Damascelli il 4 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Chiariamo subito l'equivoco, il figlio del presidente dell'Uganda non voleva offendere Giorgia Meloni ma, seguendo le tradizioni del Paese, le ha offerto cento mucche per la festa delle elezioni
Chiariamo subito l'equivoco, il figlio del presidente dell'Uganda non voleva offendere Giorgia Meloni ma, seguendo le tradizioni del Paese, le ha offerto cento mucche per la festa delle elezioni. In Uganda si usa fare così, non fiori ma opere di bestiame, le Nkore o Ankole sono quadrupedi illustri che fanno parte della dote portata nei matrimoni e costituiscono un omaggio cortese nei confronti dei padroni di casa e delle donne, giovani o mature. Il tweet di Muhoozi Kainerugaba, di anni quarantotto, tenente generale a comando delle forze terrestri dell'Uganda e soprattutto erede alla presidenza del padre Yoweri Museveni: «Le darei cento Nkore e per davvero». Ora l'oggetto del dono ha un valore di mercato di mille dollari al capo, delle pregiate mucche non si butta via nulla, corna, pelle, carne, sangue, urina, dunque tratterebbesi di un gran bel regalo da centomila dollari totali che Giorgia Meloni potrebbe benissimo accettare, preoccupata soltanto di reperire un sito dove riporre il quantitativo enorme di bestiame. Ma il tenente generale ha voluto infierire, conoscendo forse il giro del fumo (l'ugandagiro) e ha aggiunto: «Se i romani non accetteranno le nostre mucche ci prenderemo Roma. Il generale Annibale ha mancato di poco la cattura di Roma 2000 anni fa. La prenderò io con le mucche e l'amore», una nuova presa di Porta Pia? Chissà. Ovviamente, con la solita procedura, è partita la resistenza all'invasore e alle sue truppe cornute, si sono scatenate le reazioni con accuse di sessismo, omofobia, razzismo, tutto il repertorio che piace a quella gente lì di cui si conoscono mosse, pensieri e parole con tre giorni di anticipo. Non si ha ancora notizia di un richiamo immediato a Roma dell'ambasciatore Mazzanti, presente a Kampala, e nemmeno si sono avuti commenti istituzionali dalla Farnesina, essendo, il titolare del ministero, in congedo dopo la débâcle elettorale. In compenso Giorgia Meloni non ha voluto replicare, almeno per il momento, altre forze di governo e no tacciono, le priorità del Paese sono ben altre e più urgenti, però è davvero bello immaginare l'atterraggio a Fiumicino di un cargo contenente le cento Nkore che resteranno stupite quando si imbatteranno nei ben più popolari quadrupedi della capitale, i famosi cinghiali di Roma. Come vedete, finirà tutto in vacca.
Stefano Baldolini per repubblica.it il 5 ottobre 2022.
Giorgia Meloni non ha mostrato grande interesse per la sua generosa offerta di matrimonio di cento vacche Nkore, ma i tweet un po' troppo vivaci del generale ugandese Muhozozi Kainerugaba non devono essere passati inosservati a suo padre, Yoweri Museveni, che è anche il presidente del Paese.
Così Kainerugaba è stato rimosso dal comando delle truppe di terra, ma promosso generale a pieno titolo, il più alto in grado dell'esercito. A 48 anni diventa così il più giovane generale 'a quattro stelle' della storia ugandese e rimane consigliere presidenziale per le operazioni speciali.
Kainerugaba ha continuato a postare sul suo profilo social con orgoglio, sostenuto dai suoi 600mila follower, anche dopo essere stato rimosso dal comando delle forze di terra, preso dal generale Kayanja Muhanga, che ha guidato le missioni dell'esercito ugandese in Somalia ed attualmente è alla testa del contingente che combatte i ribelli delle Forze democratiche alleate nella Repubblica democratica del Congo. Muhanga non è molto attivo sui social.
Esatto opposto di Kainerugaba che ha definito Giorgia Meloni "senza paura" e "sincera" provando poi a spiegare agli "amici italiani" il valore dei locali bovini di pregio Nkore, che tra il serio e il faceto ha parlato di invadere il centro di Roma, che in passato ha twittato a sostegno dei ribelli del Tigray contro le truppe federali etiopi, che ha espresso sostegno per i ribelli violenti del Congo orientale, che ha detto che tutti gli africani sostengono la Russia nella sua guerra in Ucraina. Esternazioni a tutto tondo che gli garantiscono una discreta fama social e che osservatori locali mettono in relazione con mire al potere del padre.
Inchiesta su M. Le origini, gli anni di Colle Oppio, la "calimera" diventata ministra. Gli uomini della fiamma, gli stessi da 30 anni, le anime nere, gli impresentabili. Chi è e cosa porta con sé in dote Giorgia Meloni, la leader che sogna da premier. di Carlo Bonini e Carmelo Lopapa (coordinamento editoriale) e Paolo Berizzi, Giuliano Foschini, Emanuele Lauria, Salvo Palazzolo, Fabio Tonacci, Concetto Vecchio su La Repubblica il 14 agosto 2022.
Il suo nome è M. È donna. È madre, ma soprattutto è madrina della vecchia destra, truccata di nuovo. È veterocattolica, più che cristiana. Se vincerà lei, se Giorgia Meloni sarà davvero la prima donna a varcare la soglia di Palazzo Chigi, forse non avremo i fascisti al governo. Forse. Ma qualcosa che somiglierà molto alla
Inchiesta su M. Orbán, il custode dell’ortodossia. Abascal, il sodale di Vox. Le Pen, la madrina. Così Giorgia Meloni vuole trasformare l’Italia in un paese sovranista, avvicinarla a Visegrad e costruire un’Europa dei popoli. Lontano da Bruxelles. Carlo Bonini e Carmelo Lopapa (coordinamento editoriale) e Paolo Berizzi (Roma), Daniele Mastrogiacomo (Madrid), Claudio Tito (Bruxelles), Fabio Tonacci (Budapest) su La Repubblica il 21 agosto 2022.
Una grande M. si aggira per l'Europa. Fiammeggia da Roma. Spaventa le cancellerie. Inquieta Bruxelles. Disorienta i mercati. Entusiasma le anime destre dell'intero continente. Il comizio di Marbella che ha infiammato la folla di Vox è stata la miccia, ha scolpito le parole d'ordine del manifesto politico che surriscalda già la pancia di un elettorato stanco dei "Draghi salvifici".
Giorgia Meloni e il cantiere della destra di governo: così il Paese sarà "nazione", i cittadini "patrioti". Trasformare la democrazia da parlamentare in "decidente", introdurre il blocco navale, cancellare il reddito di cittadinanza. Il cantiere della destra di governo, il suo linguaggio, la propaganda: il Paese sarà "nazione", i cittadini "patrioti". Carlo Bonini e Carmelo Lopapa (coordinamento editoriale) e Paolo Berizzi, Concita Sannino, Giovanna Vitale su La Repubblica il 28 agosto 2022.
Nell'Italia di M. il Paese diventa "Nazione". Lo abitano non cittadini ma "patrioti". La cultura di un popolo ora è "identità".
C'è una macchina della comunicazione che lavora al linguaggio, ancor prima che alla propaganda. E lo fa da anni. Così la campagna elettorale diventa solo l'atto conclusivo di un processo di fidelizzazione che martella sui social, che cattura like prima che consensi.
LE RADICI DEL PARTITO. Radici fasciste e cameratismo, i giovani nostalgici di Meloni. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 25 agosto 2022
Giorgia Meloni lo ha ripetuto di recente nell’intervista rilasciata al giornale britannico “The Spectator”: «Nel dna di Fratelli d'Italia non c'è nostalgia per fascismo, razzismo o antisemitismo». è però improbabile che la leader della destra italiana ignori cosa accade nelle formazioni giovanili collegate al partito che dirige, probabile vincitore delle prossime elezioni.
Difficile che lei, molto accorta a non commettere passi falsi, ignori il lessico, i simboli e le pratiche di Azione studentesca, la palestra politica dove si fanno i muscoli i futuri quadri dirigenti di Fratelli d’Italia. Difficile anche perché Meloni conosce benissimo l’organizzazione di cui è stata presidente nel 1996, quando il partito di riferimento era Alleanza nazionale.
In Azione studentesca il richiamo al fascismo, al franchismo e persino al nazismo è presente nell’attività di propaganda nei campi di formazione e sui profili social del gruppo di giovanissimi arruolati nelle scuole dalla sigla di estrema destra. Non è ostentato come un tempo, l’uso è più raffinato, più nascosto tra le righe di una frase, di una citazione o di un ricordo di qualche ricorrenza.
Soldi, relazioni e fondazioni Meloni è lady Trump d’Europa. GIOVANNI TIZIAN su Il Domani l'08 novembre 2020
La leader di Fratelli d’Italia è arrivata alla guida dei conservatori europei. E da lì ha creato un legame con i repubblicani americani. Il tutto mentre il suo alleato Salvini guardava Mosca
Giorgia Meloni ha stretto alleanze internazionali più vantaggiose rispetto ai suoi colleghi nazionalisti Matteo Salvini e Marine Le Pen, che invece hanno preferito guardare alla Russia di Vladimir Putin. E spesso sono stati colti a elemosinare presso l’entourage del Cremlino sostegni economici per affrontare campagne elettorali o per foraggiare la propaganda anti europea.
Per Meloni la svolta nello scacchiere delle relazioni politiche è arrivata il 6 novembre 2018. Il giorno cioè dell’annuncio ufficiale dell’adesione di Fratelli d’Italia al gruppo dei conservatori europei, l’Ecr, il terzo dell’europarlamento per rappresentanza.
A metà dicembre si terrà a Sofia il Western Balkans Summit 2020. L’evento nella capitale bulgara è organizzato dalla fondazione di cui Fitto è vicepresidente ed è sponsorizzata da Iri, l’International repubblican institute
Il “conservatorismo” di Meloni normalizza l’agenda della destra radicale. GIORGIA SERUGHETTI, filosofa, su Il Domani il 14 agosto 2022
Per Giorgia Meloni normalizzare il suo partito significa innanzitutto “de-demonizzarlo”. E la bandiera sotto cui avviene questa operazione assume il nome, ambizioso ma anche ambiguo, di “conservatorismo”.
È la prima volta che un partito con ampi consensi nei sondaggi si presenta alle elezioni rivendicando un’etichetta antica e un po’ polverosa come quella di “conservatore”. Da qui l’entusiasmo con cui l’operazione è stata accolta in ambienti di centro-destra che quell’etichetta hanno cara.
Ma si inganna chi crede che questa strategia possa offrire rappresentanza alle componenti dell’elettorato e dell’opinione pubblica più tradizionaliste senza compromettere l’edificio democratico e liberale fondato sulla difesa dei diritti costituzionali.
DAL MSI A FRATELLI D’ITALIA. La fiamma neofascista che arde ancora nel simbolo di Giorgia Meloni. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 10 agosto 2022
Inventato dai reduci della Repubblica di Salò che fondarono l’Msi, la fiamma tricolore è il più antico simbolo politico italiano sopravvissuto e rappresenta la continuità storica e culturale dell’estrema destra dalla fine della Seconda guerra mondiale ai giorni nostri
Fondata oltre trent’anni fa, la Lega oggi può vantarsi di essere il più antico partito politico italiano sopravvissuto. Ma anche con i suoi decenni di storia non può competere con la tradizione dei suoi alleati. Proprio in questi giorni Fratelli d’Italia ha confermato che alle prossime elezioni correrà con lo stesso simbolo del 2018. La fiamma tricolore, che arderà sotto il nome “Giorgia Meloni”, si contende con la falce e martello e lo scudo crociato il titolo di più antico simbolo politico italiano ancora in uso.
Il simbolo di Fratelli d'Italia alle elezioni 2018 che sarà riproposto anche il prossimo 25 settembre
Inventato nel 1946 dal gruppo di reduci fascisti che avrebbe fondato il Movimento sociale italiano, la fiamma tricolore è sempre stata presente sulle schede elettorali per tutti gli ultimi settant’anni e rappresenta la continuità della tradizione politica postfascista, mai veramente interrotta e sopravvissuta a tutti i tentativi di riforma e rigenerazione.
UNA NASCITA LEGGENDARIA
La leggenda vuole che la prima versione della fiamma tricolore sia stata disegnata da un mutilato di guerra, che fermò sulle scale della sede romana del Msi Giorgio Almirante, ex dirigente fascista e storico fondatore del Ms. Secondo un’altra versione, sarebbe stato Almirante stesso a disegnarne una prima versione.
Anche sul significato della fiamma ci sono storie discordanti. Negli ambienti della destra è diventata dominante negli ultimi anni la teoria secondo cui la fiamma trarrebbe ispirazione dal simbolo degli Arditi, il reparto di volontari che nella Prima guerra mondiale si vedeva affidare le missioni più pericolose.
La storia però sembra apocrifa: il simbolo degli Arditi era un teschio e l’unica fiamma nella loro iconografia era quella delle mostrine nere che avevano sul colletto, chiamate “fiamme”, ma che non ricordano affatto il simbolo del Msi (per il colore di queste mostrine, gli Arditi erano chiamati “fiamme nere”, così come per lo stesso motivo la guardia di finanza è chiamata “fiamme gialle”).
Il simbolo del Msi nella versione diventata standard a partire dal 1958
La versione più probabile sembra quella che circolava in passato e che è tuttora diffusa tra i militanti più anziani: la fiamma simboleggia lo spirito fascista che risorge dalla tomba del regime. Il trapezio, riassume il ricercatore Gabriele Maestri sul sito I simboli della discordia, «rappresenta la bara di Mussolini» in nome della «”comunione ideale tra i Morti e i vivi" (con quella maiuscola che forse non è dettata dal semplice rispetto per i defunti)» che viene citata proprio nel manifesto fondativo del Movimento sociale.
BERLUSCONI E FINI SPENGONO LA FIAMMA
La potenza simbolica della fiamma, la sua capacità di aggregare elettori e personale politico accomunati dalla stessa tradizione riescono a sopravvivere anche alla rivoluzione messa in atto da Gianfranco Fini, che alla fine degli anni Ottanta succede ad Almirante alla guida del partito. Fini vuole trasformare l’Msi in una moderna forza di destra conservatrice. Ma non vuole, o non può, rinunciare del tutto alla tradizione.
Al congresso di Fiuggi del 1995, l’Msi si trasforma in Alleanza Nazionale, ma nel suo simbolo rimarrà la fiamma dello spirito fascista risorgente e il trapezio-tomba di Mussolini. Ci vorrà l’intervento di Silvio Berlusconi per fare finalmente piazza pulita del vecchio simbolo. Tra 2008 e 2009, Berlusconi di fatto costringe Fini a sciogliere il suo partito nel nuovo partitone di centrodestra: il Popolo della libertà.
Le due elezioni successive, quelle del 2008 e quelle del 2013, rappresentano un’eccezione nella storia della Repubblica. Per la prima volta gli italiani non troveranno il tradizionale simbolo della fiamma tricolore: i Pdl ha spazzato via la vecchia iconografia.
Ma i nostalgici troveranno comunque un surrogato: la fiamma tricolore dell’omonimo partito creato da Pino Rauti in opposizione alla svolta di Fini del 1995. Nel 2008, il partito corre alleato a Francesco Storace e Daniela Santanché ne La Destra – Fiamma tricolore; e nel 2013, i due partiti si presentano separati, entrambi sfoggiando imitazioni più o meno fedeli della fiamma missina.
Il simbolo del La destra - Fiamma tricolore alle elezioni 2008
LA FIAMMA SI RIACCENDE
Ma il vecchio simbolo fa gola. Con la crisi finanziaria, il declino di Berlusconi e l’arrivo del ciclone Movimento 5 stelle, la politica appare in fibrillazione. Gli eredi della destra si agitano per tornare a contare come forza indipendente e non più al traino di Berlusconi. I tempi, inoltre, sembrano molto cambiati rispetto agli anni di Fini.
Nel 2013, quando Berlusconi annuncia il ritorno di Forza Italia, una pattuglia di ex An, tra cui l’ex ministra Giorgia Meloni, decide creare un nuovo partito di destra “rispettabile”. Nasce così Fratelli d’Italia. Meloni, che ha fatto in tempo a militare negli ultimi anni dell’Msi e che si porta dietro una parte dei colonnelli ribelli di Fini, non rinnega le sue radici, ma guarda verso il centro.
Tra i maggiorenti del partito c’è Guido Crosetto, la cui storia arriva dalla destra liberale Dc. Per lui, il giornalista ultraliberista Oscar Giannino sarebbe il candidato ideale di Fratelli d’Italia. Il partito si presenta così come una formazione liberale e conservatrice. Nel suo simbolo, una corda tricolore annodata, non presenta richiami con il passato postfascista. Sembra una scelta in linea con il percorso di Fini, una sorta di maestro politico per Meloni. Ma in realtà, dopo il ventennio berlusconiano, l’antifascismo sembra essere ormai un’arma spuntata. Distanziarsi dalla propria tradizione sembra politicamente più costoso che riabbracciarla.
La parentesi infatti durerà pochissimo e il richiamo aggregante della tradizione avrà la meglio. Già alla fine del 2013, Meloni e i suoi luogotenenti guidano un assalto alla Fondazione Alleanza nazionale, che custodisce il vecchio simbolo. Contro di lei si schiera il rivale Storace e parte degli ex An confluiti in Forza Italia, come Maurizio Gasparri, che preferirebbero lasciare il vecchio simbolo sepolto nei forzieri della fondazione.
RITORNO DI FIAMMA
Meloni la spunta e da quel momento Fratelli d’Italia tornerà a mostrare orgogliosamente il simbolo del Msi e della lunga tradizione postfascista e nostalgica del suo partito. Ci saranno ancora poche modifiche. Nel 2017 sparisce il nome Alleanza Nazionale e il trapezio con la scritta Msi, ma resta la fiamma tricolore.
Anche se l’Msi, partito “pesante” apertamente neofascista e fuori dall’arco costituzionale, è lontanissimo da Fratelli d’Italia, partito leggero e personale per nulla ostracizzato, la continuità e la tradizione rappresentata dalla fiamma tricolore ci ricordano che, se non altro, nell’Italia del 2022 il richiamo a quella storia e quella tradizione porta più voti di quanti ne tolga.
Giorgia Meloni, De Benedetti la attacca, lei lo smonta: "Riversa astio su di me". Libero Quotidiano il 06 settembre 2022
Giorgia Meloni non le manda a dire. Dopo avre ascoltato le parole durissime di Carlo De Benedetti a Otto e Mezzo, il talk show di Lilli Gruber su La7, la leader di Fratelli d'Italia ha risposto per le rime. Per capire di cosa stiamo parlando bisogna fare un passo indietro e sottolineare le parole usate da De Benedetti per descrivere la Meloni: "Meloni è una persona camaleontica, oggi sembra una scolaretta che ha rinnegato tutte le cose in cui credeva. Vogliamo credere alla Meloni del comizio dei camerati di Vox o a quella di questo nuovo incipriamento? La sua storia è molto chiara e delineata". Insomma l'Ingegnere non usa giri di parole e va dritto all'attacco della leder di Fratelli d'Italia. La paura per una sconfitta epocale del centrosinistra alle urne con la conseguente vittoria del centrodestra non fa dormire sonno tranquilli a De Bendetti che ora cerca anche lo spazio in tv per ataccare senza se e senza ma il nemico di turno della sinistra, Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia non si lascia certo intimidire e così su Facebook replica in modo duro: "Anche oggi su tele L7, a Otto e Mezzo dalla Gruber, Carlo De Bendetti riversa tutto il suo astio contro di me e Fratelli d'Italia. Benissimo! Vuol dire che stiamo facendo un ottimo lavoro. Avanti così!". Lo scontro di certo sarà destinato a durare a lungo e da qui al 25 settembre non sono esclusi nuovi duelli che accenderanno questa campagna elettorale.
Giorgia Meloni: la figlia, gli amici e la «rivoluzione» per superare 7 maschi. «Io sono un soldato». Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.
Trent’anni fa gli esordi nel Fronte della Gioventù. Toni bassi e pause scelte mentre sale nei sondaggi.
Rivoluzione accorta ma non morbida, che qui non si annacqua niente. Presidenzialismo, abiura del fascismo quanto elettoralmente basta, la Fiamma non si tocca. Patria, famiglia e lobby Lgbt da sorvegliare, senza gli eccessi dei comizi in casa Vox. Qualche zampata, dal video sullo stupro alle devianze, che qualche volta la frizione scappa.
Ma, adesso che ha trovato la ricetta della minestra di Riccioli d’Oro, Giorgia sta soprattutto lì a guardarla bollire, attenta che non si attacchi, con camicette bianche, toni bassi e pause sapienti, mentre i sondaggi salgono ogni settimana.
Adesso basta non strafare, e soprattutto impedire che sbrodolino i due simpatici improvvisatori che si porta dietro, Silvio e Matteo, e con un occhio alla lezione di Mario Draghi, che pure non ha mai votato. È più che probabile che sarà lei la prima donna in Italia a guidare un governo. Se avverrà non sarà come si era immaginato, con i maschi che dicevano, per decenni, «ci vorrebbe una donna» tutte le volte che faticavano a trovare il Capobranco. Se succederà sarà con una spallata, che il tempo di Bel Ami è al tramonto.
Meloni Giorgia, 45 anni, Capricorno, nata a Roma Nord ma cresciuta alla Garbatella, intorno ai 160 centimetri per poco più di 50 chili, un diploma con Sessanta quando era il voto più alto. Una madre, una sorella, un compagno, una figlia. Un padre, anche, al quale ha fatto ciao ciao quando aveva un anno, mentre lui se ne andava alle Canarie per non tornare più. Nel decennio successivo lei e sua sorella Arianna hanno visto papà Francesco per una, massimo due settimane all’anno. Fino a quando, per Giorgia, anche questi pochi giorni divennero insopportabilmente troppi. Lei gli disse: «Non voglio vederti più». E mantenne la parola. «Quando è morto non sono riuscita davvero a provare un’emozione, è come se fosse stato uno sconosciuto», ha raccontato a Silvia Toffanin, a Verissimo.
Alla mamma Anna dice tutto, unica persona di cui teme il giudizio. Quando aspettava Giorgia il suo matrimonio era già in crisi, aveva una bambina piccola e tanti le consigliavano di interrompere la gravidanza. Ci pensò, andò anche, ovviamente a digiuno, a fare le analisi propedeutiche. Anni dopo lo ha raccontato così a sua figlia: «E poi entrai invece in un bar e dissi: cappuccino e cornetto». Complici da sempre con la sorella Arianna, che le raccontava le favole e la consolava quando a scuola la chiamavano cicciona. Insieme accesero una candela in cameretta, per giocare, e poi uscirono lasciandola lì. Bruciò tutto, addio all’appartamento alla Camilluccia, si va alla Garbatella.
Ginevra, sua figlia, sta per compiere sei anni e Giorgia ancora si rimprovera di aver detto al Family day che aspettava un bambino. Gli odiatori si scatenarono, tanti le augurarono di abortire: «Mi sono sentita in colpa, come se, alla prima prova di maternità, non l’avessi protetta». Tanta paura per lei anche quando si è trovata assediata da uno stalker.
Padre di Ginevra è il giornalista Andrea Giambruno . Con lui non parla di matrimonio, «anche se credo nei suoi principi». A volte litigano, perché magari si è dimenticata di dirgli che sta partendo per l’America.
E poi gli amici di una vita: Guido Crosetto, che la prese in braccio su un palco come aveva fatto Benigni con Berlinguer. Ignazio La Russa, che fu anche lui con lei nel 2012, quando fondarono quello che allora sembrò l’ennesimo partitino a vita breve, Fratelli d’Italia. Tanti tremavano per l’incertezza del futuro e lei si affidò a Clint Eastwood: «Se vuoi la garanzia comprati un tostapane».
Non teme gli almeno sette maschi che la attendono al varco delle elezioni, solo di una cosa ha paura: gli scarafaggi. E le manca un po’ di serotonina, l’ormone del buonumore, anche se adesso che Silvio e Matteo si sono quasi rassegnati a vederla sulla tolda, anche la chimica è in risalita.
Esordio in politica a 15 anni, quando fonda alla Garbatella, dalle file del Fronte della Gioventù, «Gli antenati», un coordinamento sulla scuola. Il resto è cronaca, fino alla presidenza dei Conservatori e riformisti europei. In precedenza: barista al Piper, baby-sitter del primo figlio di Fiorello, venditrice di dischi a Porta Portese. Tifa Roma e rivendica: mai una canna, mai una sbronza, mai un saluto romano. Ultimo campo Hobbit, nel 1993, quasi trent’anni fa.
Snobba Marine Le Pen, Alessandra Mussolini le sta decisamente sulle scatole.
Si trova bene con Victor Orban, il leader ungherese nazionalista e dai pronunciati tratti illiberali, sempre sull’orlo di essere cacciato dal Ppe. Schierata con Europa e Usa sull’Ucraina, senza i distinguo dei suoi alleati, anche se tifa per Donald Trump alle elezioni di midterm.
Ora eccola qui, all’ultimo miglio. «La verità è che mi sono sempre sentita inadeguata — ha raccontato a Paola Di Caro che l’ha intervistata per «7» —. È come se avessi sfangato ogni giorno l’esame di Maturità, come se non bastasse mai quello che faccio e dovessi fare meglio. E meglio. E meglio».
E poi ancora: «Io sono un soldato, non ho mai detto: voglio fare questo. Mi ci sono trovata. E qualunque cosa stia facendo, vorrei essere da un’altra parte».
Un desiderio di dissolvenza morbida, di fuggire di fronte alle responsabilità proprio poco prima del traguardo? Altamente improbabile, vale una strofa di Domenico Modugno: «Vorrei vedere un altro / al posto mio / Ma no, non ne parliamo / il posto è mio».
Chi è Giorgia Meloni: madre, cristiana e ora anche fine pedagogista…Michele Prospero su Il Riformista l'11 Agosto 2022
Madre, cristiana, e ora anche navigator. Sotto l’ombrellone di Marina di Pietrasanta, la testa non più calda della signora in nero trova un attimo di refrigerio e, con il necessario sforzo creativo tipico degli statisti in fiore, lancia il “manifesto di Giorgia”, come dice la Stampa. Nel suo programma massimo si segnalano soprattutto le direttive dello Stato materno per incidere subito sulla occupazione dei giovani. Secondo la volontà inflessibile del Palazzo in odor di presidenzialismo, occorre tracciare dall’alto l’orientamento giusto delle nuove leve nella scelta dei corsi di studio. La creatura di Mimmo Parisi, su cui tutti ironizzavano, adesso non è più una invenzione costosa e malata, Giorgia la navigator è la sua formidabile medicina.
Senza neppure mettere mai piede negli atenei, la politica-navigator priva del pezzo di carta in tasca suggerisce di non perdere tempo “nelle lauree di scienze della comunicazione che non danno lavoro”. Lei, che, come un po’ tutta l’élite politica della Seconda Repubblica, ricchezza e potere li ha trovati senza leggere troppi libri inutili, dà una dritta a quanti altrimenti vede destinati irreparabilmente alla perdizione della povertà. Se proprio all’università un giovane decide di trascorrere il proprio tempo ozioso, almeno non si chiuda come uno smidollato in posti neri, anzi grigi, che non garantiscono la certezza della paga. Giorgia esalta le “people free to vote”, ma, per abbattere “la democrazia interloquente”, restringe anche la libertà di scegliere una facoltà perché l’imperativo supremo, per chi ama la patria nei momenti solenni che spalancano il destino, è quello di “aiutare l’economia reale”.
Nel progetto dello Stato sovrano la madre e cristiana con gli anfibi non è però una cattiva maestra, non chiede cioè agli altri di seguire il suo (e di tanti rinomati prodotti delle classi dirigenti) esempio di persona dai pochi studi e dall’incredibile successo nella sfera pubblica. Invita a frequentare una scuola i cui specifici contenuti didattici lei stessa, che si propone quale teorica della “economic freedom”, si preoccupa di progettare con una meticolosa attenzione a ciò che è pratico e, se riduce la libertà, almeno assicura il lavoro. Altro che Giovanni Gentile e le sue ossessioni sui classici del pensiero e sulla filosofia tedesca. Giorgia madre, cristiana, navigator ma anche pedagogista, ha ben altro che le frulla per la testa per dare un pasto sicuro alla bella gioventù.
Da pedagogista con una venatura sperimentale, che ha scoperto anche il credo incrollabile dell’ideologia sovranista, evoca una radicale riforma dell’istruzione che prevede la diffusione in ogni angolo della penisola di “licei del made in Italy”. Con questi fulgidi centri di cultura, con modelli educativi squisitamente peninsulari e ben chiusi rispetto alle contaminazioni esterofile, la scuola assicura il ritrovamento di radici, che sono sempre ben piantate nel culto antico di terra e sangue. La statista che si appresta a trasferirsi a Palazzo Chigi celebra quale progetto educativo, e al contempo risorsa occupazionale, “il modello Masterchef”. Insomma, più che Evola serve Cannavacciuolo, e invece che “il cuoco di Salò” è indispensabile il cuoco gran comunicatore della tv commerciale. Ma non era la scienza della comunicazione la radice di tanta disoccupazione tra i fannulloni?
Meloni madre, navigator, pedagogista, creatura della comunicazione è anche una ideologa dello Stato ristoratore che apprende le arti della postmodernità e mescola il virtuale con il reale. Al vecchiume dello slogan novecentesco che ruotava su “libro e moschetto” Meloni oppone uno slogan nuovissimo, che vale un intero programma di governo conservatore due punto zero: “fornello e spaghetto, patriota perfetto”. Così, la fiamma tricolore ben ostentata nel simbolo di FdI si capisce finalmente a cosa serva: non indica più il richiamo nostalgico al cadavere del duce, bensì la fiammata del gas che scalda la pentola del cuoco, ben educato spiritualmente nel liceo del made in Italy e soprattutto ben temprato al duro sacrificio dell’eroica competizione secondo il modello Masterchef. E tutto ciò veramente rassicura in queste prove di guerra infinita e di annunci di blocchi navali. La novella leader atlantista non si propone di mobilitare carne da macello, ma solo di reperire pezzi di carne per il talent show culinario. Oltre che di eroi, santi, navigatori e trasmigratori, vuole un popolo di cuochi. Quando si dice alta cucina politica. Michele Prospero
Estratto dell'articolo di Concita De Gregorio per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.
Qui si parlerà di donne e politica, donne in politica, della differenza che c'è fra Elly Schlein Mara Carfagna e Giorgia Meloni, si dirà che tutte e tre potrebbero essere Presidente del Consiglio di questo Paese ma una è in leggero vantaggio, diciamo così. (…)
Una Donna Presidente o La Prima Donna Presidente non significa assolutamente niente, come da anni si ripete qui allo sfinimento, poiché le donne come ogni essere vivente, come i sacrosanti bambini persino, rispondono alle categorie degli umani: ce ne sono di intelligenti e di idiote, di generose e di avide, di corrotte e di integre, di coraggiose e di pavide, per tacere dell'aspetto che non mi pare democratico né sororale. Ci sono, al mondo della politica, Sanna Marin e Sarah Palin: ditemi voi cosa hanno in comune oltre a quel che non si può dire a meno che non sia anche percepito, J. K. Rowling è alla gogna per averlo fatto - oggi vorrei stare tranquilla e lo darò per sottinteso.
Certo, le donne se ballano sono tendenzialmente zoccole e non simpaticamente disinvolte quanto un uomo che balla, se urlano sono isteriche e non volitive, se minacciano di morte sono trattate con psicofarmaci e non diventano capi di gabinetto. Ma questo è un fatto politico, che è appunto ciò di cui si discute qui. Non è una questione di genere, è una questione di cultura diffusa.
Cominciamo dagli indizi, dagli inizi. Meloni (destra) Carfagna (centro) e Schlein (sinistra) sono persone che, per come le conosco, hanno un tratto in comune, anzi due: sono studiosissime, di quelle che quando gli altri vanno a dormire restano sul compito dell'indomani, lavorano ossessivamente, difficile che alla prova tu le trovi impreparate. Sono ambiziose, anche, e ostinate. Nessuna delle tre ha avuto stesi i tappeti rossi, al principio: a nessuna hanno detto prego si accomodi alla leadership. Il tipo di insidie che hanno dovuto affrontare è stato, tuttavia, di segno diverso.
Giorgia Meloni si è affermata in un mondo - dentro un'idea di mondo - dove le donne sono mogli e madri, servono principalmente a riprodursi: a produrre uomini che vadano in battaglia.
Ancelle, vanto domestico. Ha ribaltato il segno perché era motivata dalla biografia e caparbia per talento, naturalmente, ma anche perché gli altri possibili leader - impresentabili avanzi del Novecento - hanno capito che con lei potevano pensare l'impensabile: vincere. Giovane, donna, nuova, perfetta: una testimonial formidabile, una front-woman, quello che serve. Bravi, perché gli altri non ne sono stati capaci.
Si immagina che a Ignazio Benito La Russa sia costato parecchio dire vai avanti tu, Giorgia, ma persino lui l'ha fatto: conveniva a tutti e la "ragazza" (a lungo e tuttora in privato irrisa, specie tra gli alleati) è, obiettivamente, tostissima.
Anche Mara Carfagna ha passato le forche caudine del sessismo, ma di tipo diverso. Le donne, nell'idea di mondo di Berlusconi, non hanno la funzione di riprodursi (tranne alcune, selezionatissime angelicate e recluse nel castello) ma di intrattenere: sono il ristoro del soldato, il premio di tante fatiche, la gioia per gli occhi e, eventualmente, per il resto del corpo
Carfagna, giovane di strabiliante bellezza, superò facilmente il casting estetico del personale politico ma si trovò presto, grazie alle sue doti di discrezione e serietà, al confine tra le due categorie: avrebbe potuto persino essergli moglie - le disse Lui un giorno, come il maggiore dei complimenti. Solo che la bellezza, incredibilmente, non era la principale delle sue virtù.
(…) Sarebbe stata un'ottima idea - un'ottima avversaria di Meloni - ma sia Renzi che Calenda vengono dal centro del Pd, dalla pancia della misoginia strutturale che, a sinistra, si nasconde a parole e si pratica nei fatti.
E difatti, Elly Schlein. (…) non è passata dal casting paternalistico, che a sinistra percaritadiddio non esiste, ma ha dovuto forzare la saracinesca del partito col piede di porco e poi, da fuori, mostrare la potenza di fuoco. (…) Generazioni di giovani donne bravissime, tuttavia non al punto di ribaltare il tavolo e denunciare l'andazzo. Non conveniva, del resto.
Restare buone, al proprio posto, mettersi in fila in corrente prima o dopo avrebbe dato i suoi frutti: ti avrebbero scelta, chiamata. Ma nessuno ha mai fatto la rivoluzione prendendo il numero d'ordine alle poste, prego è il suo turno. Nessuno ha mai cambiato le regole adattandosi alle regole.
Chi ti porta, di chi sei? - è sempre la domanda declinata al femminile.
Se ti porta qualcuno, trattiamo. Vediamo di trovarti un posto in cambio del virile consenso. Se non ti porta nessuno, ti eliminiamo.
E' costellata di salme muliebri la superiorità etica della sinistra. E certo che disturba, adesso, vedere la Prima Donna a destra. Ma lì qualcosa di semplice ha funzionato, e non è meritocrazia né eguaglianza di genere: è convenienza. Di qua, maschi alla decima legislatura non mollano l'osso e giovani donne entrano, ma solo se sono state portavoci, se sono certamente valide ma almeno mogli, se hanno proceduto come da consegne. Non Elly Schlein, direi. E nel suo modo neppure Mara Carfagna. Sarebbe stato bello oggi vederle contendere a Giorgia Meloni il primato -persino in un dibattito tv. Io lo guarderei, le ascolterei. Ma in questo la destra, semplicemente, è stata come sovente accade più svelta e più spiccia.
Non sarà un bene per le donne in generale, avere una donna di destra Presidente. Ma sarà certo una lezione per la sinistra in particolare. Speriamo che serva, speriamo che ci sia più d'una, tra le ragazze del futuro della canzone popolare, che impari a dire ora basta, ora no. (Aggiungo, in margine all'ultimo dibattito parafemminista, che anziché mettere l'asterisco dichiaro di usare "presidente" come fosse di genere neutro, genere che nel passaggio dal latino l'italiano ha perduto. Ripristinare il neutro, ecco una battaglia lessicale interessante per le Femen dottorate in filologia romanza).
Poi, volendo, si può passare alla battaglia al patriarcato e fotterlo, come direbbero loro, coi fatti. Prendersi la scena da sole, perché lasciare non te la lasciano. Sarebbe ottimo già questa volta, ma se non si fa in tempo va bene anche cominciare a lavorarci per la prossima.
Estratto dell’articolo di Antonello Caporale per il “Fatto quotidiano” il 22 agosto 2022.
[…] Professoressa Eva Cantarella, lei è contro le quote rosa, contro l'idea.
Io sono contro la formalizzazione di genere. Una donna può essere dichiaratamente antifemminista. Prenda Giorgia Meloni, le sue idee non sono mie e la sua retorica oratoria suggestiona la realtà e la descrive in senso regressivo: sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana eccetera. […] Legare la persona, legare l'identità di donna alla condizione di madre è già un giudizio fondativo dell'esistenza […]
[…] Ma secondo lei non tutte le donne concorrono alla conquista di una effettiva parità tra sessi.
Contano le idee non il sesso. Le battaglie femministe della metà del secolo scorso, a cui anch' io ho concorso, adesso sembrano affievolite. […]
La conquista dei grandi temi dei diritti civili.
Dell'aborto per esempio. La vita si tutela alla nascita o al concepimento? Una scelta che manda avanti o indietro le lancette del tempo. Temo che la Meloni sul punto non la pensi come me.
Oggi le cose come stanno?
Un po' peggio di ieri. I diritti civili, tra cui l'aborto, sono rimessi - timidamente o meno - in discussione. E così anche gli altri diritti subiscono il clima del tempo.
[…] Una donna al Quirinale?
Espressione orribile, non voterei mai una donna solo perché donna.
Siamo vicini a una donna a Palazzo Chigi.
Se è di destra il suo discorso pubblico ha i caratteri marcatamente antifemministi, mi sembra chiaro. Le sue idee sono legittime ma lontane dalle mie. Non la voterei mai, ecco.
Estratto dell’articolo di Claudio Reale per “la Repubblica” il 30 Agosto 2022.
[…] Meloni se la prende con le artiste, da Levante a Elodie, che si sono schierate contro di lei («Oggi - dice - il mood degli artisti è "mi alzo e insulto Giorgia Meloni". Secondo me quelli che la pensano in maniera diversa non hanno il coraggio di dirlo. Non è che lo fanno perché pensano che questa sinistra democratica poi non li fa più lavorare? »). […]Da repubblica.it il 30 Agosto 2022.
In quanto donna che non le rappresenta, Giorgia Meloni subisce la rabbia e lo scherno delle transfemministe di Olbia. Così un manifesto elettorale di FdI è stato strappato da attiviste Infogau durante il Pride celebrato nella località sarda, lo scorso venerdì 26 agosto.
L'azione, immortalata in un video diventato virale, oltre a trovare la disapprovazione sui social - c'è chi l'ha definito un gesto "fascista" - ha provocato le proteste dei vertici locali di Fratelli d'Italia.
Nelle immagini si vede un gruppo di attiviste attorno al manifesto - Meloni in primo piano, lo slogan "Pronti a risollevare l'Italia" - che viene poi strappato in più punti, gettato a terra e calpestato, mentre i giovani applaudono e saltano gridando "chi non salta fascista è".
"Quel manifesto è stato affisso in uno spazio, quello spazio assegnato da un privato, previo pagamento, ad un altro privato. È questo l'esempio della civiltà che siamo/siete? È questo il modo di agire? Il non rispetto degli altri?", la denuncia della coordinatrice regionale di FdI, Antonella Zedda, e del presidente del partito a Olbia, Marco Piro, che hanno condannato l'episodio.
Il gruppo Infogau è nato nell'estate del 2001, mentre nella regione imperversavano gli incendi, di qui l'etimo del nome: "Abbiamo pensato che anche noi ci stavamo infuocando e che dovevamo ribellarci", hanno dichiarate le attiviste ai giornali locali. Le polemiche potrebbero essere destinate a continuare nei prossimi giorni.
Venerdì 2 settembre è attesa a Cagliari la leader Giorgia Meloni, che terrà un comizio alle 18 in piazza del Carmine.
Perché Giorgia Meloni ha vinto. Dagli anni ’70 al fallimento della sinistra: perché la leader FdI ha trionfato alle ultime politiche. Antonio De Filippi su Nicolaporro.it il 4 Ottobre 2022
Da quando Giorgia Meloni ha vinto le elezioni, è ricominciata la solita solfa del Pantheon della destra, che palle! Che noiosa perdita di tempo: possibile che non si capisca che Giorgia Meloni è nata nel 1977 e che quando nel 1994 Berlusconi si candidò, immaginando per la prima volta un centrodestra di governo, lei aveva 17 anni e ancora non votava.
La leader di FdI è figlia degli anni ‘90, della destra di governo, dell’Unione Europea, dei primi voli low cost introdotti nel ‘91 dalla Ryanair, della musica Mp3, del fascismo “male assoluto” pronunciato da Fini nel 2003. Certo, tireranno fuori Battisti con l’esegesi dei suoi “boschi di braccia tese”, i campi Hobbit, Frodo e Sam e qualche scemo che avrà la voglia di arrivare a Wikipedia proporrà dotte citazioni di Mishima, Stirner o Codreanu.
Generazione Meloni
In realtà, le uniche citazioni sono state quelle tolkieniane della Meloni e di sua sorella, perché rappresentano al meglio il rifiuto di quella cappa di conformismo di sinistra che ancora oggi avvelena i pozzi della politica; perché quella di Tolkien era l’epica di chi era escluso dall’epica ufficiale, era qualcosa da contrapporre alla cultura egemonizzata dalla sinistra, era una religione laica alla quale aggrapparsi e per la quale il senso dell’onore, il coraggio, l’appartenenza ad una comunità definita, la fratellanza, avevano un senso.
La sfida della generazione Meloni è stata far sì che questi valori potessero essere trasposti in una pacifica offerta politica, superando gli errori delle generazioni precedenti ancora ancorate al frontismo ed alla violenza.
Violenza rossa
Il problema sono quelli come me che nel ‘77 erano al liceo, ed entrando a scuola sui muri leggevano senza sorprendersi: “Dieci, cento, mille Acca Larentia. Fascisti carogne tornate nelle fogne; uccidere un fascista non è reato; la resistenza ce l’ha insegnato; pagherete caro, pagherete tutto”. Che quando sentivano parlare nelle assemblee di “antifascismo militante” giustificando l’odio, che poteva sfociare nella violenza fisica verso chi era tacciato di “fascismo”, si giravano dall’altra parte.
Certo, a destra rispondevano ma era più un rancoroso controcanto, la protagonista era la sinistra in tutte le sue articolazioni politiche, sociali, giornalistiche, culturali. Erano loro che dettavano lo spartito in una società conformista ed assuefatta, che era arrivata tranquillamente a dibattere sui quotidiani e le tv dei “compagni che sbagliano”, senza condanne e giustificando qualunque cosa facessero.
In quella vecchia Italia degli anni ‘70 stava succedendo qualcosa di strano, senza che noi ce ne rendessimo conto. Di sicuro, la fantasia non era andata al potere, come proponeva un riuscito slogan sessantottino, ma di certo il potere per mantenersi era diventato molto fantasioso, arrivando al più alto grado di incomprensibilità e di progressiva distanza dai cittadini elettori.
L’errore della sinistra
Italo Calvino aveva definito questa metamorfosi culturale del potere come antilingua, ovvero un artificio capace di produrre chicche come gli “anni di piombo” o il “progresso nella continuità ” o il mitologico “convergenze parallele”. L’antilingua nella degenerazione contemporanea sarebbe stato il politichese, che ancora oggi sviluppa assurdità come il reddito di cittadinanza, l’abolizione della povertà, il governo dei migliori, insomma strumenti linguistici utili solo a fare dell’astensione il primo partito.
Questo linguaggio barocco, per finti addetti ai lavori, riflette esattamente quello che la generazione dei Renzi (1975) e Meloni (1977) rifuggono, mentre il Pd è diventato il paradigma di questa arte, grazie alla quale tutto può essere fatto mentre si afferma il suo contrario: affermiamo il diritto alla rappresentanza femminile nelle istituzioni mentre facciamo liste che le escludano in larga misura, riempiamo pagine con il campo largo per finire a vicolo stretto.
Questa doppiezza intrisa di moralismo è stata la condanna del PD in queste elezioni, ma viene da lontano, dal voler essere il partito Nazione depositario del bene, dal Berlinguerismo della “questione morale”, dai numerosi finti leader incapaci di rispettare la parola data anche solo un giorno, o rivolti ad un retorico attivismo di maniera utile solo a garantirsi la quota di potere gestita nelle amministrazioni.
L’errore della sinistra è stato credere che bastasse capovolgere il fascismo per avere il progresso, che bastasse essere il contrario del fascista immaginario per essere il democratico politicamente corretto. E mentre un elettorato sempre più fiaccato dalla noia ha votato PD, forse per l’ultima volta turandosi il naso; in milioni hanno votato non FdI, ma una giovane donna capace di parlare una lingua comprensibile dove parole come Nazione, rispetto, responsabilità hanno il significato che tutti gli attribuiamo e dove il rispetto della parola è un valore da coltivare.
La trasversalità, attraverso ogni ceto sociale, del voto a Giorgia Meloni e la nascita di un terzo polo liberale, saranno gli antidoti per provare a vivere in un’Italia, dove il Governo Meloni non sia uno scandalo, ma quello da battere fra 5 anni. Antonio De Filippi, 4 ottobre 2022
Giorgia Meloni, il fascismo e l’ombra di Gianfranco Fini. Mezza politica, mezza influencer. Una Giano bifronte. Arriva il 1 novembre in libreria “Re Giorgia”, la prima biografia (non autorizzata) che racconta il percorso della neopremier, da Colle oppio a Palazzo Chigi. E quella difficoltà di fare i conti con la Storia. Susanna Turco su L'Espresso il 28 Ottobre 2022.
Uno strano testacoda avviene dentro Fratelli d’Italia, forse proprio dentro la testa della sua leader. È una specie di triangolazione senza uscita tra Giorgia Meloni, Gianfranco Fini e la complessa questione che va sotto il titolo: i conti col fascismo. Moltissime volte, in questi anni, alla leader di FdI è stato rimproverato di non recidere abbastanza di netto quel legame, di non prendere sufficienti distanze da quella catena che si stende tra regime mussoliniano e personaggi come il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini, tra il Ventennio e il saluto romano di Augusta Montaruli a Predappio, passando per la Repubblica di Salò, Giorgio Almirante, l’Msi, An, il nostalgismo, eccetera. Equilibrismi, dribbling, bilancini, un continuo e impercettibile scartare di lato. (...)
Perché Meloni, che pure è passata in pochi anni dall’1,90 al 26 per cento, non riesce a fare il passo decisivo per archiviare la storia da quale viene? Perché se Giuliano Castellino assalta la sede del principale sindacato italiano lei fatica a prendere le distanze, pronuncia equilibrismi come «non so quale sia la matrice», e in privato aggiunge che le scoccia fare così con una persona che conosce sin da ragazzina? La risposta, andando al sodo, può apparire bizzarra: perché ha paura di fare la fine di Gianfranco Fini. Perché ha paura di somigliargli.
Non è una deduzione, o una provocazione: anzi è la spiegazione che, in maniera abbastanza sorprendente, viene offerta più spesso quando si affronta la questione parlando con gli stessi mondi ex aennini, tra la gente di Fratelli d’Italia. Il rischio di essere anche solo vagamente accostabile all’ultimo segretario di An a Meloni stronca i passi. Eppure c’è qualcosa di incongruo.
Gianfranco Fini si è ritirato dalla vita politica da anni. Dopo il 2013 non si è più candidato, non ha un partito né un movimento. Sparito dai radar dal 2017, a processo dal 2018 per riciclaggio nella vicenda della casa di Montecarlo comprata a prezzo di saldo dal cognato Giancarlo Tulliani, non fa l’opinionista, né per iscritto né in tv. E come mai questo Fini, politicamente ridotto a nulla e quasi del tutto silente da anni, fa così tanta paura a Meloni che per il resto pare non temere quasi niente – a parte forse gli scarafaggi? Risposta: se Gianfranco Fini ha archiviato il fascismo come «male assoluto», lei, che pure nel 2003 non si dissociò da quella presa di posizione, ha finito per archiviare come male assoluto proprio lui: il capo che l’ha apprezzata come giovane promessa, che l’ha scelta come vicepresidente della Camera, come ministra della Gioventù. Il segretario che prima ha chiuso l’Msi poi An, che l’ha trascinata nel Pdl, che poi si è ribellato a Berlusconi ed è voluto venire via, per fare qualcosa che non era tornare ad An. Colui che sostanzialmente ha messo le basi perché lei, la destra, potesse muoversi libera dall’ombra del suo passato così ingombrante.
Eppure Meloni non può in alcun modo permettersi di essergli paragonata, pena la morte politica. La fine di tutto. Ed è paradossale che sia proprio questo elemento a indebolirla, laddove in effetti Meloni è riuscita, negli anni, in autentici miracoli, come quello di pacificare anime dell’ex An-Msi che non trovavano pace si può dire da sempre, o come la ricucitura di un orizzonte che pareva destinato a non risorgere più.
Perché mai? C’è uno snodo nei rapporti tra Fini e Meloni che risulta in qualche modo illuminante. Arriva dopo gli anni dello strappo e della fine del Pdl, quando lei prima è critica, poi non segue il suo ex segretario, nel 2010, fuori dal Pdl. Arriva dopo una stagione di armistizio bilaterale, nel quale lei si rifiuta di dargli del traditore e lui tace le sue critiche sulla costruzione del nuovo partito. Quando però Meloni, con Crosetto e La Russa, decide di celebrare il primo congresso di FdI proprio a Fiuggi, nel luogo simbolo della storia della destra italiana, dove nel 1995 Gianfranco Fini aveva officiato la svolta dell’Msi in An, l’uscita dalla “casa del padre”, accade qualcosa di irreversibile.
In quell’occasione Fini rivolge, con una nota, a Meloni e Fratelli d’Italia parole terribili. «Fa riflettere il modo con cui i dirigenti di Fratelli d’Italia tentano di far risorgere Alleanza Nazionale. Dopo aver furbescamente inserito il simbolo, seppur in formato bonsai, nel loro logo elettorale, celebrano questo fine settimana il congresso nazionale a Fiuggi […]. Mi sembrano bambini cresciuti, e viziati che vogliono imitare i fratelli maggiori senza capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse. Rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra», scrive Fini. Ripercorrendo i passaggi principali della svolta di Fiuggi, quando «la destra italiana trasformò radicalmente se stessa perché uscì dalla casa del padre con la certezza di non farvi mai più ritorno», «non cambiò nome, mutò identità e prospettive». E ammonisce: «Non tutto è andato come avevamo sognato», «mi sono preso la mia parte di responsabilità» «anche per questo dico ai Fratelli d’Italia di smetterla di scimmiottare la storia. Per sopravvivere e superare il 4 per cento alle Europee serve loro qualcosa di assai più convincente che una scampagnata semiclandestina a Fiuggi. La storia di An, di cui anch’essi fanno parte, non merita di ripetersi in farsa. I simboli da soli non bastano. Alla destra servono idee nuove e prospettive credibili […]. Senza una risposta era meglio convocare l’assise altrove. Perché il confronto con il passato sarà inevitabilmente impietoso». Toni da maledizione biblica, in un momento nel quale in effetti Fratelli d’Italia si era presa il simbolo di Alleanza Nazionale ma non aveva ancora rinsaldato un partito che fluttuava tra i tanti partiti possibili spuntati e poi rapidamente scomparsi a destra. Una maledizione finiana alla quale comunque Meloni risponde con altrettanta veemenza. Anzi la raddoppia.
La leader di Fratelli d’Italia aspetta infatti di arrivare proprio sul palco di Fiuggi. E alla fine del discorso di apertura del primo congresso affronta la questione Fini. La prende da lontano. Da Giorgio Almirante, il mentore di Fini che Meloni solleva in alto, per scaraventarlo addosso proprio a Fini, che è il suo di mentore. Dice infatti: «Abbiamo raccolto l’insegnamento di Giorgio Almirante quando diceva: “In altri tempi ci risollevammo per noi stessi, da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla”. Raccoglieremo quel testimone, con uno sguardo al futuro». Qui Meloni fa una lunga pausa. E precisa: «Voglio anche dire che di recente, a qualcuno, quel testimone è caduto». Altra pausa. «Non ho mai risposto ai diversi attacchi, alle ironie, che ci e mi sono state rivolte da Gianfranco Fini. Perché non è nel mio stile rispondere e perché penso che i panni sporchi debbano essere lavati in casa. Quello che ho letto ieri, però, merita almeno una risposta. Io non comprendo le ragioni di tanto astio per chi prova a ricostruire qualcosa che evidentemente a Gianfranco Fini non interessava più. Non accetto l’accusa di essere dei bambini viziati. Noi non siamo bambini viziati. Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre, che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro per il mondo a sperperare un patrimonio. Questo noi siamo». Sono parole terribili già lì per lì. E segnano, per anni, la fine di qualsiasi armistizio con Fini, il quale dirà in più occasioni che Meloni è una «fotocopia della Lega», o una «mascotte», una «ragazzina che si è montata la testa», «ridicola».
Ma nel 2014, al congresso di Fiuggi, Meloni non aveva messo a fuoco e dettagliato, nel racconto pubblico che ha poi fatto di sé, il ruolo di suo padre, Franco Meloni. Un padre che, come avrebbe scritto nel 2021 in “Io sono Giorgia”, se ne era «andato di casa», aveva «girato il mondo in barca a vela», così sperperando – stando al racconto di Meloni – il patrimonio affettivo-familiare delle sue figlie, ma anche – stando alle ricostruzioni dei vari media spagnoli spuntate dopo la vittoria di FdI alle elezioni 2022 – anche un patrimonio in senso letterale e non metaforico. Denari insomma. Non può sfuggire, pur con tutte le cautele del caso, il parallelo che proprio Meloni stabilì durante il primo congresso di Fratelli d’Italia, tra la sua vicenda di figlia e quella di politica: «Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre». Il parallelo tra Gianfranco Fini e Franco Meloni. Sperperatori di patrimoni, in senso letterale e metaforico. Mentre «noi stiamo tentando di ricostruire quello che lui ha deliberatamente distrutto», come ebbe a dire Meloni, di nuovo, nel 2015.
Con queste premesse, è forse un pochino più evidente quanto possa essere complesso per Meloni fare i conti con l’eredità rappresentata da Gianfranco Fini, come sia difficile maneggiare la libertà di manovra di cui ha potuto usufruire grazie a lui, portare ancora un pezzo più avanti le svolte che sempre da quel percorso originano. Senza sentirsi dare della traditrice. E senza sentircisi, lei stessa. Gianfranco Fini, del resto, nella vulgata è diventato il traditore per eccellenza. Un capro espiatorio, persino oltre le sue oggettive responsabilità. (...)
Resistenze spiegate come un’eco da tanti suoi interlocutori abituali: «Non può mica fare questi passaggi perché glieli chiedono», «li farà quando non sembrerà che stia sulla difensiva», eccetera. Non lo fa perché sta più comoda. Perché per quanti pochi siano i voti dei nostalgici e dei neofascisti, comunque ci sono. Perché una volta che dovesse affrontare di petto la questione, dovrebbe affrontare anche Fini. È un passaggio incomprimibile. Se Meloni non dovesse farlo, come ha scritto Marco Follini a fine agosto sulla «Stampa», in uno dei pochi articoli che hanno chiamato in causa l’ex leader di An, «vorrà dire che esiste un problema politico più complicato delle soluzioni che gli erano state date».
Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A
Gianfranco Fini, "massimo riserbo in pubblico": cos'ha fatto negli ultimi mesi. Libero Quotidiano il 06 ottobre 2022"massimo riserbo in pubblico": cos'ha fatto negli ultimi mesi
Giorgia Meloni e Gianfranco Fini sono legati da un passato comune e un feeling innegabile. Ed è la loro storia politica a dimostrarlo. A colpire gli osservatori nell'ultimo periodo è stato soprattutto il massimo riserbo mostrato in pubblico dall'ex leader di Futuro e Libertà. Ci sono forse stati dei contatti con la presidente di Fratelli d'Italia? Marco Zacchera in un suo editoriale su Formiche.net ha scritto: "Fini ha ostentato in pubblico un assoluto riserbo. La Meloni è tutt’altro che una sciocca e sa quanti contatti Gianfranco Fini ha mantenuto con molte personalità in tutto il mondo, oltre ad avere sicuramente accumulato una esperienza politica di primo piano". La sua figura, insomma, potrebbe essere utile alla nuova squadra di governo.
Secondo il giornalista Zacchera, Fini avrebbe dato consigli importanti alla Meloni. Ricordiamo, tra l'altro, che dopo il trionfo di FdI alle elezioni, lui ha subito preso le difese della leader con i media internazionali, spiegando che non c'è niente di cui preoccuparsi e che lei e il suo partito non hanno niente a che fare con il post-fascismo: "Meloni e i Fratelli d'Italia sono perfettamente in scia e coerenti con la svolta di Fiuggi che trasformò l'Msi in An".
Nell'articolo di Formiche.net, poi, si legge: "Fini vuole e deve restare sullo sfondo per non oscurare o mettere in imbarazzo la giovane leader che è indubbiamente cresciuta del suo, ma che in qualche modo è stata e resta una sua 'creatura'". Non si sa se l'ex leader di Alleanza nazionale avrà un ruolo nel prossimo esecutivo. L'orgoglio e la soddisfazione per la Meloni invece sono certi: "Tra i due c’è un lungo e consolidato rapporto, anche perché non va dimenticato come al momento del suo decollo politico l’aiuto di Fini fu essenziale per la Meloni", scrive Zacchera.
Fabio Martini per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.
Nel prosaico mondo della politica romana Gianfranco Fini è un po' come Mina: a un certo punto non si è fatto più vedere. Ogni tanto, in questi ultimi anni, è riapparso in foto. Ma si è trattato sempre di scatti anonimi, certamente non studiati a tavolino da qualche agenzia di comunicazione. In genere foto al ristorante, con lui affiancato da qualcuno dei suoi vecchi sodali. È da quasi dieci anni che Fini si è eclissato. Dopo la sconfitta elettorale del 2013 della neonata Futuro e libertà e complice il processo per la vicenda della casa di Montecarlo, Fini ha preferito evitare le ribalte di convegni e talk show, rinunciando ad una quantità senza fine di interviste.
Ma in questi mesi di irresistibile ascesa di Giorgia Meloni, una ragazza sulla quale lui aveva puntato, Fini avrebbe potuto riaffiorare e invece non soltanto non si è fatto vedere, ma non ha detto una parola. Non una rivendicazione della sua decisiva svolta di Fiuggi, quella che trasformò l'Msi in An, e neppure una mano simbolica sulla spalla di Giorgia. Zero. Silenzio totale. In una epoca di egolatria spinta, il segnale di un certo stile.
Anche perché Fini non vuole essere ingombrante: la sua figura, per la vicenda di Montecarlo, resta controversa in quella che fu la "comunità" missina e dunque l'ex capo di Giorgia ha deciso di non voler rovinare in qualche modo la festa alla premier in pectore.
Eppure ieri mattina Fini è riapparso e ha parlato: nella sede della stampa estera.
Lo avevano cercato nei giorni scorsi, lui aveva risposto «no, non parlo da anni e non intendo cambiare», ma poi si è trovato un accordo: gli inviati delle testate estere a Roma lo avrebbero intervistato con l'intesa che le sue parole non sarebbero trapelate. Tutto off e tutto background. E infatti nulla se ne è saputo tra i giornalisti italiani.
Fini si è presentato con occhiali da sole sul viso abbronzatissimo, un gessato bluette con pantaloni a sigaretta, una silhouette invidiabile per un fresco settantenne come lui. Le domande di sempre sul neofascismo.
Fini è stato netto: «Meloni e i Fratelli d'Italia sono perfettamente in scia e coerenti con la svolta di Fiuggi che trasformò l'Msi in An». Il messaggio di Fini alla stampa estera è stato senza equivoci: la cesura netta di 28 anni fa ha fatto scuola, è stata sincera ed è duratura. E a chi gli chiedeva come Meloni, a suo tempo, sia ascesa alla guida dei giovani di destra, Fini ha risposto che Giorgia fu eletta e non fu certo cooptata dal partito, dai capi.
E d'altra parte Fini in questi anni è restato in silenzio, ma non assente con i suoi. E anche questa è una notizia: in queste ultime settimane Meloni e Fini si sono sentiti più di una volta soprattutto per la comprensibile ansia che cresce nella leader di Fratelli d'Italia. Alla sua porta si è formata non solo metaforicamente una fila di aspiranti: gente che si propone per posti di governo e soprattutto di sottogoverno. Meloni ha chiesto a Fini consigli e suggerimenti. Ma nulla se ne è saputo.
Certo, nella notte della vittoria elettorale, Giorgia Meloni ha citato i tanti che non c'erano più nella vecchia comunità missina e non potevano gustare il sapore di quella serata. Non ha citato Fini. Impossibile sapere davvero se lui si aspettasse qualcosa ma ha confessato di essere stato grato ad Ignazio La Russa (col quale parla spesso come pure con Adolfo Urso), che in quella circostanza ha ricordato la svolta di Fiuggi, come pietra miliare per la destra di governo.
Giorgia Meloni, il fascismo e l’ombra di Gianfranco Fini. Mezza politica, mezza influencer. Una Giano bifronte. Arriva il 1 novembre in libreria “Re Giorgia”, la prima biografia (non autorizzata) che racconta il percorso della neopremier, da Colle oppio a Palazzo Chigi. E quella difficoltà di fare i conti con la Storia. Susanna Turco su L'Espresso il 28 Ottobre 2022.
Uno strano testacoda avviene dentro Fratelli d’Italia, forse proprio dentro la testa della sua leader. È una specie di triangolazione senza uscita tra Giorgia Meloni, Gianfranco Fini e la complessa questione che va sotto il titolo: i conti col fascismo. Moltissime volte, in questi anni, alla leader di FdI è stato rimproverato di non recidere abbastanza di netto quel legame, di non prendere sufficienti distanze da quella catena che si stende tra regime mussoliniano e personaggi come il “barone nero” Roberto Jonghi Lavarini, tra il Ventennio e il saluto romano di Augusta Montaruli a Predappio, passando per la Repubblica di Salò, Giorgio Almirante, l’Msi, An, il nostalgismo, eccetera. Equilibrismi, dribbling, bilancini, un continuo e impercettibile scartare di lato. (...)
Perché Meloni, che pure è passata in pochi anni dall’1,90 al 26 per cento, non riesce a fare il passo decisivo per archiviare la storia da quale viene? Perché se Giuliano Castellino assalta la sede del principale sindacato italiano lei fatica a prendere le distanze, pronuncia equilibrismi come «non so quale sia la matrice», e in privato aggiunge che le scoccia fare così con una persona che conosce sin da ragazzina? La risposta, andando al sodo, può apparire bizzarra: perché ha paura di fare la fine di Gianfranco Fini. Perché ha paura di somigliargli.
Non è una deduzione, o una provocazione: anzi è la spiegazione che, in maniera abbastanza sorprendente, viene offerta più spesso quando si affronta la questione parlando con gli stessi mondi ex aennini, tra la gente di Fratelli d’Italia. Il rischio di essere anche solo vagamente accostabile all’ultimo segretario di An a Meloni stronca i passi. Eppure c’è qualcosa di incongruo.
Gianfranco Fini si è ritirato dalla vita politica da anni. Dopo il 2013 non si è più candidato, non ha un partito né un movimento. Sparito dai radar dal 2017, a processo dal 2018 per riciclaggio nella vicenda della casa di Montecarlo comprata a prezzo di saldo dal cognato Giancarlo Tulliani, non fa l’opinionista, né per iscritto né in tv. E come mai questo Fini, politicamente ridotto a nulla e quasi del tutto silente da anni, fa così tanta paura a Meloni che per il resto pare non temere quasi niente – a parte forse gli scarafaggi? Risposta: se Gianfranco Fini ha archiviato il fascismo come «male assoluto», lei, che pure nel 2003 non si dissociò da quella presa di posizione, ha finito per archiviare come male assoluto proprio lui: il capo che l’ha apprezzata come giovane promessa, che l’ha scelta come vicepresidente della Camera, come ministra della Gioventù. Il segretario che prima ha chiuso l’Msi poi An, che l’ha trascinata nel Pdl, che poi si è ribellato a Berlusconi ed è voluto venire via, per fare qualcosa che non era tornare ad An. Colui che sostanzialmente ha messo le basi perché lei, la destra, potesse muoversi libera dall’ombra del suo passato così ingombrante.
Eppure Meloni non può in alcun modo permettersi di essergli paragonata, pena la morte politica. La fine di tutto. Ed è paradossale che sia proprio questo elemento a indebolirla, laddove in effetti Meloni è riuscita, negli anni, in autentici miracoli, come quello di pacificare anime dell’ex An-Msi che non trovavano pace si può dire da sempre, o come la ricucitura di un orizzonte che pareva destinato a non risorgere più.
Perché mai? C’è uno snodo nei rapporti tra Fini e Meloni che risulta in qualche modo illuminante. Arriva dopo gli anni dello strappo e della fine del Pdl, quando lei prima è critica, poi non segue il suo ex segretario, nel 2010, fuori dal Pdl. Arriva dopo una stagione di armistizio bilaterale, nel quale lei si rifiuta di dargli del traditore e lui tace le sue critiche sulla costruzione del nuovo partito. Quando però Meloni, con Crosetto e La Russa, decide di celebrare il primo congresso di FdI proprio a Fiuggi, nel luogo simbolo della storia della destra italiana, dove nel 1995 Gianfranco Fini aveva officiato la svolta dell’Msi in An, l’uscita dalla “casa del padre”, accade qualcosa di irreversibile.
In quell’occasione Fini rivolge, con una nota, a Meloni e Fratelli d’Italia parole terribili. «Fa riflettere il modo con cui i dirigenti di Fratelli d’Italia tentano di far risorgere Alleanza Nazionale. Dopo aver furbescamente inserito il simbolo, seppur in formato bonsai, nel loro logo elettorale, celebrano questo fine settimana il congresso nazionale a Fiuggi […]. Mi sembrano bambini cresciuti, e viziati che vogliono imitare i fratelli maggiori senza capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse. Rischiano di far piangere, di rabbia e non certo di commozione, chi venti anni fa era consapevole di quel che stava accadendo a destra», scrive Fini. Ripercorrendo i passaggi principali della svolta di Fiuggi, quando «la destra italiana trasformò radicalmente se stessa perché uscì dalla casa del padre con la certezza di non farvi mai più ritorno», «non cambiò nome, mutò identità e prospettive». E ammonisce: «Non tutto è andato come avevamo sognato», «mi sono preso la mia parte di responsabilità» «anche per questo dico ai Fratelli d’Italia di smetterla di scimmiottare la storia. Per sopravvivere e superare il 4 per cento alle Europee serve loro qualcosa di assai più convincente che una scampagnata semiclandestina a Fiuggi. La storia di An, di cui anch’essi fanno parte, non merita di ripetersi in farsa. I simboli da soli non bastano. Alla destra servono idee nuove e prospettive credibili […]. Senza una risposta era meglio convocare l’assise altrove. Perché il confronto con il passato sarà inevitabilmente impietoso». Toni da maledizione biblica, in un momento nel quale in effetti Fratelli d’Italia si era presa il simbolo di Alleanza Nazionale ma non aveva ancora rinsaldato un partito che fluttuava tra i tanti partiti possibili spuntati e poi rapidamente scomparsi a destra. Una maledizione finiana alla quale comunque Meloni risponde con altrettanta veemenza. Anzi la raddoppia.
La leader di Fratelli d’Italia aspetta infatti di arrivare proprio sul palco di Fiuggi. E alla fine del discorso di apertura del primo congresso affronta la questione Fini. La prende da lontano. Da Giorgio Almirante, il mentore di Fini che Meloni solleva in alto, per scaraventarlo addosso proprio a Fini, che è il suo di mentore. Dice infatti: «Abbiamo raccolto l’insegnamento di Giorgio Almirante quando diceva: “In altri tempi ci risollevammo per noi stessi, da qualche tempo ci siamo risollevati per voi, giovani, per trasmettervi la staffetta prima che ci cada di mano, come ad altri cadde nel momento in cui si accingeva a trasmetterla”. Raccoglieremo quel testimone, con uno sguardo al futuro». Qui Meloni fa una lunga pausa. E precisa: «Voglio anche dire che di recente, a qualcuno, quel testimone è caduto». Altra pausa. «Non ho mai risposto ai diversi attacchi, alle ironie, che ci e mi sono state rivolte da Gianfranco Fini. Perché non è nel mio stile rispondere e perché penso che i panni sporchi debbano essere lavati in casa. Quello che ho letto ieri, però, merita almeno una risposta. Io non comprendo le ragioni di tanto astio per chi prova a ricostruire qualcosa che evidentemente a Gianfranco Fini non interessava più. Non accetto l’accusa di essere dei bambini viziati. Noi non siamo bambini viziati. Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre, che a un certo punto scappa di casa e se ne va in giro per il mondo a sperperare un patrimonio. Questo noi siamo». Sono parole terribili già lì per lì. E segnano, per anni, la fine di qualsiasi armistizio con Fini, il quale dirà in più occasioni che Meloni è una «fotocopia della Lega», o una «mascotte», una «ragazzina che si è montata la testa», «ridicola».
Ma nel 2014, al congresso di Fiuggi, Meloni non aveva messo a fuoco e dettagliato, nel racconto pubblico che ha poi fatto di sé, il ruolo di suo padre, Franco Meloni. Un padre che, come avrebbe scritto nel 2021 in “Io sono Giorgia”, se ne era «andato di casa», aveva «girato il mondo in barca a vela», così sperperando – stando al racconto di Meloni – il patrimonio affettivo-familiare delle sue figlie, ma anche – stando alle ricostruzioni dei vari media spagnoli spuntate dopo la vittoria di FdI alle elezioni 2022 – anche un patrimonio in senso letterale e non metaforico. Denari insomma. Non può sfuggire, pur con tutte le cautele del caso, il parallelo che proprio Meloni stabilì durante il primo congresso di Fratelli d’Italia, tra la sua vicenda di figlia e quella di politica: «Siamo uomini e donne che sono dovuti crescere troppo in fretta e cavarsela da soli, come sempre accade a quei ragazzi che vengono abbandonati dal loro padre». Il parallelo tra Gianfranco Fini e Franco Meloni. Sperperatori di patrimoni, in senso letterale e metaforico. Mentre «noi stiamo tentando di ricostruire quello che lui ha deliberatamente distrutto», come ebbe a dire Meloni, di nuovo, nel 2015.
Con queste premesse, è forse un pochino più evidente quanto possa essere complesso per Meloni fare i conti con l’eredità rappresentata da Gianfranco Fini, come sia difficile maneggiare la libertà di manovra di cui ha potuto usufruire grazie a lui, portare ancora un pezzo più avanti le svolte che sempre da quel percorso originano. Senza sentirsi dare della traditrice. E senza sentircisi, lei stessa. Gianfranco Fini, del resto, nella vulgata è diventato il traditore per eccellenza. Un capro espiatorio, persino oltre le sue oggettive responsabilità. (...)
Resistenze spiegate come un’eco da tanti suoi interlocutori abituali: «Non può mica fare questi passaggi perché glieli chiedono», «li farà quando non sembrerà che stia sulla difensiva», eccetera. Non lo fa perché sta più comoda. Perché per quanti pochi siano i voti dei nostalgici e dei neofascisti, comunque ci sono. Perché una volta che dovesse affrontare di petto la questione, dovrebbe affrontare anche Fini. È un passaggio incomprimibile. Se Meloni non dovesse farlo, come ha scritto Marco Follini a fine agosto sulla «Stampa», in uno dei pochi articoli che hanno chiamato in causa l’ex leader di An, «vorrà dire che esiste un problema politico più complicato delle soluzioni che gli erano state date».
Gianfranco Fini: "Cosa faccio oggi". Così lascia di stucco Lucia Annunziata. Il Tempo il 30 ottobre 2022
Gianfranco Fini dopo un lungo silenzio è tornato a parlare e lo ha fatto ospite di Lucia Annunziata a Mezz'ora in più, su Rai3. Il leader di Alleanza nazionale prima e Fli poi, delfino di Almirante nel Msi e infine caduto con la clamorosa vicenda della casa di Montecarlo, esordisce spiegando di cosa si occupa oggi, sorprendendo non poco la conduttrice.
"Insieme ad altri amici europei ho continuato a ragionare su un tema che mi sta a cuore, quello dei cittadini europei di religione musulmana. Una materia dalla complessità enorme". Annunziata chiede se c'entra il tentativo di raggiungere una sorta di "cittadinanza comune". "No, parliamo di persone musulmane che sono già cittadini europei, francesi, italiani, tedeschi... È un tema che coinvolge il concetto di laicità delle istituzioni che nel mondo islamico è molto controverso e in certi casi non è riconosciuto come un punto di riferimento.
Il discorso verse subito su Giorgia Meloni, dato che recentemente si è parlato di un riavvicinamento con l'attuale premier. Fini è l'ispiratore della leader di FdI? "Io ispiratore della Meloni? No, è una bizzarria giornalistica. Meloni non ha bisogno di essere ispirata. Ho detto alla stampa estera", in un recente appuntamento, che "la realtà italiana della destra è un po' diversa da come veniva loro raccontata. Dissi che avevo votato per Meloni e lo confermo", taglia corto Fini. Parlando della svolta di Fiuggi, però, l'ex capo di Alleanza Nazionale rivendica: "C'è stato chi ha aperto una rotta, e sta ai più giovani percorrerla".
(ANSA il 30 Ottobre 2022) - Ispiratore no, Meloni non ha bisogno di essere ispirata" ma "posso dire che c'è stato chi ha indicato una strada, che poi tocca ai più giovani percorrere". Così Gianfranco Fini ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3. Alla stampa estera, ha aggiunto "ho detto che la realtà italiana della destra era un po' diversa da come veniva loro raccontata, dissi di avere votato Meloni e lo confermo".
Negli anni '90 "la vigilanza antifascista era finita". Lo ricorda Gianfranco Fini ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3 ripercorrendo alcuni fatti tra il '95 e il '99. Nel "1995 Massimo D'Alema diventò presidente della commissione bicamerale e si parlò dell'asse Fini-D'Alema, l'ultimo segretario post-comunista e l'ultimo post-fascista".
Nel 1996 "Violante viene eletto presidente della Camera, Alleanza Nazionale lo applaude in modo sincero quando dice che per fare della liberazione un momento unitario, condiviso, bisognava 'guardare ai vinti di ieri', e bisogna fare attenzione ai verbi, non dice capire".
Infine racconta che nel '99, prima dell'elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica "non svelo un segreto, incontrai riservatamente il segretario dei Ds Walter Veltroni, ragionammo e trovammo che il nome di Ciampi era quello che poteva garantire" tutti.
"La sinistra italiana non può accendere l'interruttore dell'antifascismo solo quando, in modo strumentale, ravvisa un pericolo per la democrazia. Le accuse mosse a Meloni sono risibili. Chiedono da sinistra di riconoscere l'antifascismo come valore? Sì, lo abbiamo detto a Fiuggi e Meloni non si è dissociata". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre.
"Fiuggi è l'espressione di un passaggio: usciamo dalla casa del padre con la certezza di non fare ritorno. Non so se c'era Meloni, ma c'era il segretario della sua sezione, Rampelli, che mi ha detto che si riconobbero in quella svolta: scrivemmo che l'antifascismo era stato essenziale per il ritorno dei valori democratici che il Fascimso aveva oppresso". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre. "Nel 1995, con questa nostra dichiarazione, la sinistra prese atto che non si poteva continuare a dire che il fascismo era tornato. Fiuggi pose fine a una stagione". (ANSA).
(ANSA il 30 Ottobre 2022.) - "All'antifascismo condiviso dovrebbe corrispondere un patriottismo condiviso". Così Gianfranco Fini ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3 sottolineando che "non ci sono ambiguità" sul tema nel nuovo governo Meloni. "Se la sinistra chiede alla destra di essere lineare e di accettare l'antifascismo dovrebbe accettare in modo altrettanto lineare che tra gli antifascisti c'è chi ha anche posizioni antidemocratiche".
Fini cita l'esempio di Ignazio La Russa e dell'intervista che ha sollevato polemiche ma "La Russa non ha detto 'non festeggio questo 25 aprile' ma risponde 'dipende, certo non andrò ai cortei' perché, l'ho sentito anche stamattina, rischierebbe di trovarsi in compagnia di quei giovanotti che in nome dell'antifascismo lo hanno minacciato di morte". Possibile, aggiunge, "che a sinistra ancora non abbiamo meditato sulla lezione di Bobbio, sul fatto che patria e nazione non sono parole di estrema destra ma sono citate più volte nella Costituzione".
"La fiamma? Il simbolo di Fdi non è quello de Msi ma è quello di An. Perché, quando è nata An, non mi avete detto che c'era ancora la fiamma? Il simbolo del Msi aveva un suo richiamo storico, il simbolo del Msi era la continuità e non c'è più, è una smeplce fiamma tricolore. Il simbolo di Msi è stato archiviato con Fiuggi". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre. (ANSA).
(ANSA su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022) - "Se c'è qualcuno che pensa che Meloni e La Russa siano in vacanza e non a celebrare la resistenza con manifestazioni ufficiali" lo fa in modo "strumentale: questa polemica" sul 25 aprile è "strumentale e la capisco anche", perché "il Pd sta ancora elaborando il lutto, forse perché la sconfitta è stata superiore alle dimensioni" attese, "forse perché hanno sottovalutato l'avversaria". Così Gianfranco Fini ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3.
"Quando nasce Fdi c'era scetticismo totale a destra, io per primo dicevo: dove vanno?". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre.
"Meloni, mi viene più spontaneo dire la presidente, è evidente che avendo FdI più voti che la Lega e Fi è in una posizione di centralità, questo non è un governo di centrodestra ma di destra-centro. E questo mette in agitazione gli alleati. Meloni dovrà essere paziente e abile nel tentativo di tenere insieme". Lo ha detto Gianfranco Fini ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3.
"Non ho alcuna intenzione di tornare in politica, di chiedere tessere. Si può lavorare senza chiedere incarichi". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre.
"Questo è un governo di destra-centro, questo mette in agitazione gli alleati. Meloni dovrà essere paziente e abile nel tentativo di tenere tutti insieme, nell'ambito di un programma unico e delle risorse disponibili, agendo sulla base di valori condivisi. Do per scontato che ci saranno fibrillazioni". Così Gianfranco Fini ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3, ricordando che peraltro Meloni ha già fatto capire che è pronta a tutto, "anche a tornare alle urne". (ANSA).
(ANSA il 30 Ottobre 2022.) - Berlusconi ha una fortissima personalità e credo di essere buon testimone al riguardo, lo dico senza acrimonia" e si trova nel momento in cui "prende atto, anche in modo amaro, che non è più dominus, che il sovrano ha perso lo scettro e per giunta" per mano di "una donna che da quando era ragazzina ha sempre masticato politica, non un titolo di merito per lui essere professionista della politica".
Così Gianfranco Fini ospite di 'Mezz'ora in più' su Rai 3, sottolineando che però "Berlusconi non è un irresponsabile, basta vedere i ministri di Fi, penso a Tajani, che danno ampia garanzia di continuità nell'azione di governo" "Anche perché - aggiunge - Berlusconi i sondaggi li guarda, ha capito che alcune fibrillazioni danneggiano soprattutto Fi".
A Meloni dico: "Attenzione a varare alcuni provvedimenti. Il ministro Roccella, vediamo cosa farà - l'importante è non cambiare la 194 - è una delle parlamentari che promise di promuovere un referendum per abrogare le unioni civili, francamente qualche necessità di dire piano c'è. Su queste questioni il governo farebbe molto meglio a dire che è il Parlamento che si occupi di questo". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre
"E' meglio che rimangano le mascherine obbligatorie negli ospedali". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre. (ANSA).
(ANSA) - "Meloni e La Russa non mi seguono quando vengo estromesso" dal Popolo delle libertà. Poi escono e "danno vita alla casa della destra" cioè FdI. "Non ci credevo, ora devo dire he avevano ragione loro e torto io". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre.
"Salvini era il capo dei giovani comunisti padani, poi parlamentare europeo. E' un uomo molto pragmatico, come si fa a non essere inquieto quando si perdono tanti voti? La lega gli ha confermato la fiducia, Salvini avverte questa responsabilità. Il voto è stato uno choc e l'inquietudine lo porta ad alzare delle bandiere identitarie". Lo ha detto Gianfranco Fini a Mezz'ora in più, su Rai Tre. "E' quello che non ha capito la sinistra, che è sempre politicamente corretta, grigia, scontata, prevedibile. Il Pd cerchi di tornare a infiammare il cuore delle masse popolari". (ANSA).
Gianfranco Fini: “Perché a me non chiesero mai di togliere la fiamma dal simbolo? Non ispiro Meloni, a Fiuggi ho indicato la rotta”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 Ottobre 2022.
Il fondatore di An, ex presidente della Camera ritorna in tv del "Fiuggi fu un passaggio che pose fine a una stagione, lì riconoscemmo l'antifascismo come valore e Giorgia non si è mai dissociata". Quanto al Pd di Letta: "Troppo grigio, torni a infiammare i cuori"
Gianfranco Fini torna in tv a Mezz’ora in più intervistato da Lucia Annunziata e fa chiarezza: “Giorgia Meloni non ha bisogno di essere ispirata. Ho detto alla stampa estera che la realtà della destra italiana era diversa da quella che veniva rappresentata, di aver votato per lei e lo confermo“. Così poi è toccato ad altri “Posso dire che c’è stato chi ha aperto una rotta, ai più giovani, percorrerla”, riconoscendo che Meloni e Ignazio La Russa “avevano ragione loro e avevo torto io”. Cosa vuol dire gli ha chiesto l’ Annunziata ? “Che l’attuale capo del governo e il presidente del Senato non mi seguono quando vengo estromesso dal Pdl e danno vita alla casa della destra: io non ci credevo”. E ricorda: “Quando nacque FdI c’era scetticismo totale a destra, io per primo dicevo: ma dove vanno?“.
Gianfranco Fini ha detto di riconoscere una certa ipocrisia nella richiesta della sinistra a Giorgia Meloni di “riconoscere l’antifascismo come un valore“. “La risposta” ha detto Fini, “non può che essere sì, l’abbiamo detto a Fiuggi e la Meloni non si è mai dissociata. Non so se c’era Meloni, ma c’era il segretario della sua sezione, Rampelli, che mi ha detto che si riconobbero in quella svolta: scrivemmo che l’antifascismo era stato essenziale per il ritorno dei valori democratici che il Fascismo aveva oppresso”, chiarisce Fini. “Nel 1995, con questa nostra dichiarazione, la sinistra prese atto che non si poteva continuare a dire che il fascismo era tornato. Fiuggi pose fine a una stagione.”
Chiedono da sinistra di riconoscere l’antifascismo come valore? “Sì, lo abbiamo detto a Fiuggi e Giorgia Meloni non si è mai dissociata” ed aggiunge “Ma attenzione: non è una furbata della destra dire che tutti i democratici sono antifascisti, ma non tutti gli antifascisti sono democratici. Se la sinistra chiede alla destra di essere lineare e di accettare l’antifascismo dovrebbe accettare in modo altrettanto lineare che tra gli antifascisti c’è chi ha anche posizioni antidemocratiche“.
Ai presunti legami tra Meloni e l’eredità fascista, Fini ha spiegato che già negli anni ‘90 “la vigilanza antifascista era finita” aggiungendo “Nel 1995“, ha ricordato Fini, “Massimo D’Alema diventò presidente della commissione bicamerale e si parlò dell’asse Fini-D’Alema, l’ultimo segretario post-comunista e l’ultimo post-fascista. Nel 1996 Violante viene eletto presidente della Camera, Alleanza Nazionale lo applaude in modo sincero quando dice che per fare della liberazione un momento unitario, condiviso, bisognava “guardare ai vinti di ieri”, e bisogna fare attenzione ai verbi, non dice capire. E nel ‘99, prima dell’elezione di Carlo Azeglio Ciampi alla presidenza della Repubblica non svelo un segreto, incontrai riservatamente il segretario dei Ds Walter Veltroni, ragionammo e trovammo che il nome di Ciampi era quello che poteva garantire tutti“.
In relazione alle polemiche sulle dichiarazioni del presidente del Senato Ignazio La Russa, e alle sue dichiarazioni sul 25 aprile, Gianfranco Fini ha spiegato che “il titolo dato dalla Stampa all’articolo su La Russa è forzato. La Russa che ho sentito anche stamattina, mi ha detto non che non festeggerà il 25 aprile, ma che lo festeggerà, senza andare ai cortei. E perché? Perché rischia di trovarsi a fianco dei giovanotti di cui parlavamo poc’anzi, che mettono a testa in giù i manichini”.
Fini ha affrontato poi le polemiche sulla fiamma che ancora è presente nel simbolo di : “Non è il simbolo del MSI, ma è il simbolo di Alleanza Nazionale. E a me non fu chiesto di toglierla, quella fiamma: perché avevamo preso le distanze dal fascismo. La fiamma del simbolo del partito di Meloni non è quella del MSI. Lo ribadisco: l’antifascismo è un valore condiviso anche da destra, se lo si intende come difesa della libertà e della democrazia; aggiungo che anche il patriottismo deve essere un valore condiviso“.
Alla domanda se il governo Meloni durerà Gianfranco Fini, ha risposto che “a costituire un potenziale problema è il fatto che Berlusconi è ora un sovrano senza scettro”, per il quale è stato un trauma essere stato battuto da una “donna che, da quando è ragazzina, mastica pane e politica, non viene dalla trincea del lavoro, dell’imprenditoria“. Berlusconi secondo Fini “non è un irresponsabile perché i ministri indicati da Forza Italia, a partire da Antonio Tajani, danno un’ampia garanzia di continuità nell’azione di governo e perche’ alcune fibrillazioni danneggiano soprattutto Forza Italia“. In merito a Salvini, è “certamente inquieto: chi non lo sarebbe, avendo perso tanti voti e vedendosi riconfermare la fiducia dal suo movimento politico? “
Giorgia Meloni e Gianfranco Fini
“E’ evidente che la Meloni — mi viene più spontaneo dire “la presidente”, continua Fini — avendo Fratelli d’ Italia più voti che la Lega e Forza Italia è in una posizione di centralità, questo non è un governo di centrodestra ma di destra-centro. E questo mette in agitazione gli alleati. Meloni dovrà essere paziente e abile nel tentativo di tenere insieme“.
Ultima battuta per chiudere: “Non ho intenzione di tornare in politica, né di avere tessere. Si può continuare a lavorare serenamente senza avere incarichi politici”. Redazione CdG 1947
Il ritorno di Fini che sconfessa Meloni su diritti e mascherine. Il Domani il 30 ottobre 2022
L’ex leader di An è tornato in televisione dopo anni di assenza e, oltre a una serie di considerazioni sul passato, ha fatto due raccomandazioni alla nuova premier
Dopo oltre dieci anni lontano da politica e notizie, Gianfranco Fini ha concesso un’intervista a Lucia Annunziata per Mezz’ora in più e ha raccomandato due cose alla sua ex pupilla Giorgia Meloni.
Secondo Fini, in materia di diritti civili, in particolare sulla famiglia e l'orientamento sessuale, «il governo farebbe molto meglio a dire che è il parlamento che se ne deve occupare». E poi, «è meglio che rimangano le mascherine obbligatorie per i medici in ospedale». Due sconfessioni nette di alcune delle prime scelte di Meloni come capo del nuovo governo: la decisione di dare il ministero alla Famiglia in mano a Eugenia Roccella, nota attivista della famiglia tradizionale e avversaria di unioni civili e maternità surrogata, e il cambio di linea sul Covid, per cui le forze che sostengono l’esecutivo vorrebbero vedere una completa inversione di marcia.
Fini sottolinea di non avere intenzione di tornare né di prendere tessere di partito e ha consigli anche per gli avversari di sempre: «La sinistra è sempre tendenzialmente grigia, spero Letta non si offenda. Al Pd consiglio un po' di verve, un po' di anima, una bandiera da alzare che non sia la democrazia che è bandiera di tutti. Torni ad infiammare i cuori».
Poi fa un passaggio sull’intervista a Ignazio La Russa comparsa oggi su La Stampa, in cui spiegava che non avrebbe frequentato i cortei che hanno luogo per celebrare il 25 aprile: «Il titolo su La Russa è forzato. Non andrebbe ai cortei perchè si troverebbe quei giovanotti a minacciarlo di morte. L'antifascismo ha anche delle posizioni antidemocratiche». Un fatto che, secondo Fini, dovrebbe essere riconosciuto anche a sinistra.
IL PASSATO
Una lunga parte dell’intervista è dedicata al passato. Fini ha ammesso che aderire con An al Popolo della libertà che l’avrebbe fusa con Forza Italia è stato un «errore imperdonabile».
L’ex ministro ha detto la sua anche sulla nascita di Fratelli d’Italia «Meloni e La Russa non mi seguono quando vengo estromesso» dal Popolo delle libertà. Poi escono e «danno vita alla casa della destra», cioè FdI. «Non ci credevo, ora devo dire he avevano ragione loro e torto io».
Poi, il capitolo ex Cavaliere, con cui pure aveva avuto aspri screzi durante l’ultimo periodo nel Popolo della libertà. «Berlusconi ha una fortissima personalità e credo di essere buon testimone al riguardo, lo dico senza acrimonia» e si trova nel momento in cui «prende atto, anche in modo amaro, che non è più dominus, che il sovrano ha perso lo scettro e per giunta» per mano di «una donna che da quando era ragazzina ha sempre masticato politica, non un titolo di merito per lui essere professionista della politica».
Tuttavia, secondo Fini, «Berlusconi non è un irresponsabile, basta vedere i ministri di FI, penso a Tajani, che danno ampia garanzia di continuità nell'azione di governo. Anche perché Berlusconi i sondaggi li guarda, ha capito che alcune fibrillazioni danneggiano soprattutto FI».
DAGONOTA il 17 settembre 2022.
Per essere una femminista di ultima generazione, meglio se scrittrice femminista con finestra su un qualche giornale, è opportuno dichiarare due mitologie: “tutte quelle che conosco, me compresa, hanno subito almeno una aggressione” e “ho sofferto di problemi alimentari”, cioè anoressia (ndr di anoressia, quella vera, si muore: questa è l’altra, quella solo dichiarata perché fa gattamorta). Il resto lo fa l’autoreferenzialità di gruppo sorellanza-chic (“ho da consigliarvi un libro splendido di una mia amica…”) e il sostegno, o l’appartenenza, a una declinazione Lgbtq+ e assimilabili.
Chiara Tagliaferri è moglie dell’organizzatore del Salone del libro di Torino Nicola Lagioia e quindi, per vincolo matrimoniale, scrittrice anche lei. Con Michela Murgia ha scritto i libri “Morgana” ispirati agli omonimi podcast di culto della piattaforma Storielibere.fm.
Se fosse scritto solo con la schwa il suo libro sulle “streghe viventi” sarebbe più leggibile; ciononostante è piaciuto a Teresa Ciabatti che, guarda te, lo recensisce entusiasta su “7” che, guarda te, è diretto dalla femminista in borsetta Barbara Stefanelli che, guarda te, organizza la kermesse femminista “La 27ma ora” dove, guarda te, invita Ciabatti, Gamberale, Avallone che, essendo mamme per loro “la gioia più grande adesso è essere mamme”. Speriamo che i pargoli le tengano impegnate a scrivere di meno.
A parte la Tagliaferri, griffata collaboratrice del Festival “L’Eredità delle donne” (Serena Dandini direttrice) e autrice del podcast “Love stories” con quella spazzolona di Melissa P., Simonetta Sciandivasci, nuova penna di tacco e punta della “Stampa” di Giannini ha dalla sua un racconto pubblicato in “Brave con la lingua”, antologia al femminile sul linguaggio che determina la vita delle donne: ma perché l’allusione? Per vendere di più?
Ha scritto un brano pure nell’antologia “Di cosa stiamo parlando?” e, sfogliandolo, anche noi ci siamo chiesti: di cosa stanno parlando? Il suo romanzo “La domenica lasciami sola” fa il controcanto a Rita Pavone, che chiedeva di portarla a “vedere la partita di pallone”: Sciandivasci vuol stare a casa a vedere Grace Kelly ma non osate tirare in ballo l’attore Timothèe Chalamet.
Sulla “Stampa” di domenica scorsa l’ha conciato per le feste, manco fosse Johnny Depp in preda all’Aderall e senza un motivo: “un gran paraculo e figlio di puttana”; “il più immorale amorale ambiguo attore e forse il primo sfacciato stronzo platealmente arrivista della sua generazione”.
Sulla “Stampa” discetta su Carla Lonzi “icona del femminismo” (in lei bisogno di autonomia, bisogno di amore, bisogno di collaborazione all’emancipazione… anche noi avremmo bisogno di tante cose), della Sanna tutta panna e di come cercare l’amore su Tinder (“Tinder però declina sul serio, e non perché arrechi burnout, ma perché chi l’ha creato non poteva immaginare che avremmo mandato all’aria non la carnalità dell’amore ma la carnalità del corpo”: che vorrà di?).
Lei recensisce Rumiz e, nell’attesa che Rumiz recensisca lei, Chiara Valerio viene intervistata da Tersa Ciabatti (fanno tutto in casa) per “7” e, oltre a rivelare l’ossessione “per la crema Oil of Olaz” ricorda che fino dalla “prima adolescenza nella mia testa convivevano Vanna Marchi e Fleur Jaeggy, Woolf e l’elenco del telefono”: cosa c’entra la povera Virginia Woolf con gli altri? Lei appartiene a Lgbt: ha fatto coming out? “Mai dovuto. Un giorno ho detto: mi sono fidanzata con Elisabetta”.
Membro di “Nuovi Argomenti” e di “Nazione Indiana”, fu chiamata a guidare l’antisalone del libro di Torino, ovvero il Salone del Libro di Milano, naufragatissimo. È diventata editor della Marsilio e la sua collana Passaparola è la palestra per le Michela Murgia, Simona Vinci, Teresa Ciabatti e dintorni (tipo Claudia Durastanti, Beatrice Masini…).
Coinvolte dalla “afro”-femminista Cecilia Alemani a scrivere per il catalogo sulla Biennale d’arte, sono tutte scrittrici tra di loro, insomma: non possono scriversi senza impegnare le case editrici? Dalla “27ma ora” Rcs, infine, viene la portabandiera di ogni rivendicazione Lgbtq+ Elena Tebano, che scrive sul “Corriere della sera”.
Qui è perennemente impegnata a rompere (ancora?) il soffitto di cristallo, con un occhio ad attaccare la Meloni ma senza “un’occhio” (sic!) per la grammatica italiana, almeno a giudicare dal suo ultimo intervento. Ma la lingua delle donne sarà pur più importante della lingua italiana!
Slogan anti Meloni al corteo contro la violenza sulle donne: «Ti mangiamo il cuore». Salvini: non ci intimidiscono. Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.
Striscioni e cori contro la premier alla manifestazione di Roma organizzata da «Non una di meno». Solidarietà di FdI e FI
Striscioni e cori contro Giorgia Meloni al corteo contro la violenza sulle donne organizzato a Roma da «Non una di meno». Alla manifestazione campeggiava un grande striscione con scritto «Fascista Meloni noi ti farem la guerra» e «Ti mangiamo il cuore». I manifestanti hanno poi intonato diversi cori contro la presidente del Consiglio, tra cui «Meloni fascista sei la prima della lista». «Siamo state identificate dalla polizia che ha tentato di toglierci lo striscione. Ma noi lo rivendichiamo», dicono le manifestanti che tenevano uno degli striscioni con slogan contro la presidente del Consiglio.
L’attacco a Meloni ha scatenato la polemica politica. Alla premier è arrivata la solidarietà di Fratelli d’Italia e Forza Italia. «Non sorprendono più le continue manifestazioni di odio e violenza nei confronti di Giorgia Meloni, rea evidentemente di aver vinto libere e democratiche elezioni. Semmai, quello che stupisce e ci fa sorridere amaramente è che questo odio oggi arrivi proprio da quei ragazzi e ragazze che partecipando alla manifestazione Non una di meno, sfilano contro la violenza sulle donne», commenta la ministra Daniela Santanché. «Piena solidarietà a Giorgio Meloni per gli striscioni e i cori intimidatori nel corso del corteo per dire NO alla violenza sulle donne. Tolleranza zero per chi tradisce i valori democratici di un Paese, della libertà di espressione e dei diritti di ogni donna». Lo scrive su Twitter Alessandro Cattaneo, presidente dei deputati di Forza Italia.
Anche il leader della Lega Matteo Salvini è intervenuto su Twitter: «Insulti contro di me a Milano da parte dei centri sociali, cori contro Giorgia al corteo di `Non una di meno´ a Roma. Se a sinistra vogliono continuare ad aggredire e schiumare rabbia, facciano pure: non ci intimidiscono e siamo più determinati che mai».
Secondo gli organizzatori erano 100 mila le persone in piazza a manifestare, secondo la questura 4 mila. Ad aprire il corteo uno striscione «Basta guerre sui nostri corpi», e a seguire le donne iraniane che hanno scandito lo slogan della loro protesta «Donne, vita, libertà» e ancora «Vogliamo essere libere, non coraggiose».
Le femministe in corteo vogliono morta la Meloni. La sfilata di "Non una di meno" sfocia in minacce e insulti contro la premier donna: "Fascista, sei la prima della lista". Domenico Di Sanzo il 27 novembre 2022 su Il Giornale.
Rieccolo, il cortocircuito. Slogan violenti contro la prima donna presidente del Consiglio della storia d'Italia durante una manifestazione contro la violenza sulle donne. Verrebbe da dire che se non ci fossero bisognerebbe inventarli, se solo non fosse stata costretta a intervenire la Digos. Il motivo? Uno striscione con una foto del premier e la scritta: «Ti mangiamo il cuore».
Alla marcia femminista di ieri pomeriggio a Roma si mischiano foulard rosa e bandiere rosse. Ma soprattutto spiccano i cartelli cruenti all'indirizzo di Meloni. Difficile definire altrimenti lo slogan: «Fascista Meloni, noi donne ti farem la guerra». E ancora: «Meloni vattene». Oppure gli slogan, presi in prestito dalla più trita paccottiglia degli anni '70. Due su tutti, scanditi in coro dalle manifestanti e dai manifestanti: «Governo Meloni preparati a tremare, siamo libere di lottare» e «Meloni fascista sei la prima della lista». Per le strade della Capitale è tornato indietro l'orologio della storia, nonostante le organizzatrici di «Non una di meno» siano convinte di lottare contro le politiche «reazionarie» del centrodestra. «Contro il governo Meloni che attacca l'aborto e l'autodeterminazione riaffermando il diktat Dio, Patria, Famiglia», si legge nel comunicato delle femministe. Una macedonia in cui il ricordo delle donne vittime di violenza si confonde con la guerra, il reddito di cittadinanza e la crisi climatica. E pazienza se Meloni abbia sempre precisato che la legge 194 sull'aborto non si tocca.
Inevitabili le reazioni del centrodestra. Matteo Salvini, leader della Lega, ministro e vicepremier, twitta: «Insulti contro di me a Milano da parte dei centri sociali, cori contro Giorgia al corteo di Non una di meno a Roma. Se a sinistra vogliono continuare ad aggredire e schiumare rabbia, facciano pure». «Non ci intimidiscono e siamo più determinati che mai», conclude Salvini. «Un corteo di violenza contro una donna non è accettabile», dice Augusta Montaruli, sottosegretario all'Università e Ricerca, esponente di Fdi, che parla di «brutalità inaudita». Francesco Lollobrigida di Fdi, ministro dell'Agricoltura, commenta: «Manifestanti che partecipano a un corteo contro la violenza sulle donne espongono striscioni e intonano cori violenti contro la prima presidente del Consiglio donna italiana. Questo non è dissenso. Solidarietà al presidente Meloni. Ci aspettiamo ferma condanna da parte di tutte le forze politiche».
«Alla manifestazione contro la violenza sulle donne qualcuno ha voluto intonare minacce, addirittura di morte, contro Giorgia Meloni. Donne che odiano le donne. Gente che predica bene e razzola male. Alla premier va la mia più sentita solidarietà», twitta Licia Ronzulli, capogruppo di Fi al Senato. «Boldrini e femministe condanneranno l'episodio?», incalza la deputata di Fdi Grazia Di Maggio. Già, la sinistra. Nessuno fiata. Tranne Pierferdinando Casini (che proprio di sinistra non è ndr.) che scuote la testa: «Campagne isteriche contro la Meloni. Sono incivili. Puro autolesionismo politico dell'opposizione».
Solidarietà dal capogruppo di Fi alla Camera Alessandro Cattaneo, che invoca «tolleranza zero». Nel frattempo, dietro a bandiere inneggianti alla rivoluzione, una donna giustifica così il cartello con la scritta «Ti mangiamo il cuore»: «È una citazione del film ti mangio il cuore con protagonista Elodie». Dopo il pomeriggio d'odio viene in mente un'altra citazione, di Leo Longanesi: «Tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola». Finito il corteo violento, tutti a cena. È pur sempre sabato sera, anche sotto il «regime» di Meloni.
“Meloni ti mangiamo il cuore”. L’incredibile slogan delle femministe. Al corteo contro la violenza sulle donne, cori di odio contro il premier. E lamentano: “Ci ha tolto il reddito minimo”. Giuseppe De Lorenzo su Nicolaporro.it il 27 Novembre 2022.
Citofonare Roberto Saviano. Mentre lo scrittore piagnucola sui giornali di mezzo mondo, fingendosi perseguitato da un presidente del consiglio che l’ha querelato quando era all’opposizione, c’è chi quel premier non nasconde di volerlo eliminare. “Meloni fascista sei il primo della lista”, cantavano le femministe di “Non una di meno”. Anzi: una di meno anche sì, basta si chiami Giorgia, abbia la colpa di essere di Destra e pure leader del Paese. Perché torcere un capello ad una signora fa giustamente scendere in piazza le femen di tutta Italia, ma se poi sono loro stesse a minacciare di “mangiare il cuore” e di “fare la guerra” alla Meloni, allora tutti zitti. Nessuno che abbia il coraggio far notare loro l’ipocrisia di chi minaccia violenza ad una manifestazione contro la violenza sulle donne.
Un giorno ci spiegheranno per quale motivo un corteo femminista dovrebbe prendersela contro il primo premier del gentil sesso. Ma forse deve essere il brodo culturale in cui crescono certi movimenti. Forse leggono grandi intellettuali convinte che Meloni sia donna ma non abbia “un modo di fare femminista”, vedasi Michela Murgia. O forse si accodano a Saviano, libero di insultare una leader dell’opposizione definendola “bastarda” ritenendola licenza poetica e non maleducazione maschilista. Allora perché stupirsi?
Basta sentire tal Donatella, intervistata dall’agenzia Dire, per capire la bassezza del ragionamento. Accusano il governo di “fare violenza” contro le donne. Un esecutivo “che ci attacca”. E dove? Su cosa? Ha forse vietato le riunioni delle femen e reintrodotto lo ius prime noctis? Siamo forse finiti sotto un regime talebano, con la scuola vietata alle bambine e il velo imposto ad ogni adolescente? No. Le femministe lamentano un governo, appena insediato, che “non dà nulla per il lavoro” e “vuole togliere il reddito di cittadinanza”. Cosa c’azzecca tutto questo col femminismo? Un fico secco. Rivendicazioni grilline, più che contro la violenza sul gentil sesso. Come non c’entra una mazza l’accusa di far passare “un messaggio che siamo donne utili solo a fare figli per le fabbriche e per la guerra”. Ma dove lo hanno letto? Nel programma di Fratelli d’Italia no di certo, possiamo testimoniarlo.
Appare ormai chiaro si tratti solo di contestazioni pretestuose, la maggior parte delle volte intrise di quell’odio che si giura di voler combattere. Donne che odiano le donne, anzi una donna sola. Donne che vorrebbero “mangiare il cuore” a Giorgia Meloni, anche se giurano sia “una citazione” del film con protagonista Elodie. Donne che però l’hanno già indicata come “la prima della lista”, frase minacciosa di facile interpretazione. Donne che usano termini intimidatori, e poi frignano se la Digos le identifica. In perfetto stile Saviano. Giuseppe De Lorenzo, 27 novembre 2022
Perché il femminismo non voterà Meloni. Rosi Braidotti su La Repubblica il 20 Agosto 2022.
Quello europeo è un movimento di massa senza capi e senza tessere di partito: attiviste/i lottano per trasformare i rapporti di potere, non solo per parificarli. E ha una matrice anti fascista
Nelle ultime 48 ore abbiamo letto di tutto sul femminismo. Bisogna ringraziare due grandi donne, che, a suon di botta e risposta, stanno riportando in auge una parola dimenticata, sia a destra che a sinistra, ma soprattutto nelle case degli italiani, nei quotidiani, nei libri, nella nostra cultura estremamente patriarcale, impossibile da abbattere.
Sono sforzi, quelli della Terragni e della Aspesi, degni di nota e stima perché dietro le loro parole, c'è un obiettivo, uno sforzo immane, un grido disperato: il femminismo sta cercando una collocazione politica. Che venga poi attribuito alla Meloni, questa è senz'altro una provocazione alla quale vorrei rispondere.
Evitando di confondere tutto, che di confusione sotto il cielo non tanto stellato di questo Ferragosto preelettorale ce n'è già abbastanza, procedo con ordine e lasciatemi dire chiaramente che Giorgia Meloni sta al femminismo come un pesce su una bicicletta: affannata, in bilico e fuori luogo.
L'affaire Terragni-Aspesi nasce dal nesso che collega Terragni, "milanese, anima vagante, femminista, madre, giornalista, scrittrice", a Meloni - un'affinità forse più elettorale che elettiva, ma comunque significativa: come la leader di FdI, anche la Terragni pone la maternità al centro della stessa identità femminile come rapporto fondante dell'umanità. Questa visione quasi metafisica della madre simbolica come colonna della civiltà fa parte della storia e della cultura del femminismo italiano, ma non è né la sola voce di questo movimento né, a mio avviso, la più utile nel momento che stiamo attraversando. E non è utile proprio perché collude con la visione tradizionale, discriminatoria ed eterosessista della destra, che, come dimostrato da Sallusti, passa rapidamente agli insulti e le minacce contro le femministe e le donne dell'opposizione.
La visione esistenzialista ed universalizzante del potere materno come forza costituente del femminismo non è di certo condivisa da tutte le femministe. Io la critico da decenni, ricordando che non esiste solo UNA differenza unica e di stampo metafisico tra uomini e donne, che colloca le donne in pole position per la liberazione dell'umanità: una visione settecentesca che non si applica al mondo d'oggi. Siamo tutti soggetti nomadi e complessi, in divenire.
Esistono molteplici differenze fra donne e Lgbtq+, che convergono su alcuni punti fondamentali di critica femminista. Primo fra tutti, che il fascismo ha fatto della madre un monumento simbolico e reale (sussidi in base al numero di figli, i premi per le famiglie numerose, ecc.). E, secondo, che dopo Simone de Beauvoir e le sorelle Lonzi, la maternità è stata criticata duramente dal femminismo proprio come uno strumento di potere patriarcale.
Molte di noi femministe, che lavorano sull'intersezionalità, la diversità all'interno della galassia complessa che sono le donne nelle loro molteplici differenze, sono consapevoli di non esserlo tutte allo stesso modo, o nelle stesse collocazioni sociali e simboliche. Per noi il 'simbolico' non è certo fuori dalla storia, ma radicato pienamente nel sociale. Ciò che ci accomuna sono i valori condivisi, non l'anatomia o la somiglianza biologica. Sappiamo di non essere né Una, né la stessa - ma di differire tra di noi in mille modi. Allo stesso tempo condividiamo le esperienze del nostro vissuto, fatto di discriminazioni sociali ed esclusioni, ma anche di grande ricchezza e diversità femminile e Lgbtq+.
Forse l'aspetto più problematico di come il dibattito è stato posto finora in questa strumentalizzazione del femminismo dei fratelli (senza sorelle?) d'Italia a scopo elettorale è come si colloca nel contesto attuale, nel terreno di scontro internazionale fra idee sulla famiglia, la sessualità, l'uguaglianza e il genere.
Nel tentativo di forgiare un'immagine pubblica più "moderna" e rivolgersi a un'audience più ampio al di là del loro tradizionale collegio elettorale maschile, i partiti di destra hanno infatti mobilitato sempre più le questioni di genere: in tutte le elezioni in corso nel mondo la destra quest' anno metterà in gioco la cosiddetta "ideologia di genere" contro le rivendicazioni femministe e Lgbtq+, in difesa dei valori patriarcali, considerati come l'essenza della civiltà occidentale.
Il femminismo è un movimento di massa senza capi e senza tessere di partito, ma soprattutto che appartiene ai/alle attiviste/i che lottano per trasformare i rapporti di potere, non solo per parificarli. Il femminismo è un movimento trasformativo, non solo egalitario. Si basa su principi fondamentali, che sono etici ancor prima di diventare politici: la solidarietà, per esempio, tra donne, ma anche con il popolo Lgbtq+. E anche solidarietà intersezionale cioè tra classi, razza, etnicità, religione, generazioni ecc. Molteplici strati di differenze che si arricchiscono e si rinforzano a vicenda.
Quindi, come tante femministe tutt'altro che illuse rivendico la matrice anti-fascista del femminismo europeo e pertanto non voterò di certo la Meloni.
Ha collaborato al testo Allegra Salvadori
L'odio contro la Meloni e l'assordante silenzio delle donne di sinistra. Dopo l'attacco di Repubblica e della Jebreal, solo due voci femminili a sinistra si sono alzate in difesa della Meloni. Per il resto tutto tace...Domenico Ferrara il 30 settembre 2022 su Il Giornale.
La risposta migliore all'attacco pretestuoso sferrato da Repubblica alla Meloni l'ha data la stessa leader di Fdi. "La propaganda di demonizzazione contro di noi - perdurata nel corso di tutta la campagna elettorale - ha inasprito gli animi e diviso gli italiani. Noi lavoreremo per unirli, perché questo non è il tempo di polemiche strumentali o di divisioni, ma quello della responsabilità. Il nostro obiettivo al governo sarà quello di rappresentare e difendere gli interessi e i diritti di tutti i cittadini".
Unità e responsabilità. Due parole chiave che danno subito l'idea di come la Meloni voglia affrontare la nuova sfida che la attende. Allargare il campo d'azione, il consenso e l'autorevolezza. Il paradosso attuale è che quelli che prima accusavano il leader di FdI di dividere, di esacerbare gli animi e di mettere in pratica una deriva fascista sono quelli che stanno dividendo, esacerbando gli animi e rasentando la violenza fascista.
Come giudicare altrimenti la vergognosa storia riesumata dal Diario de Mallorca, prontamente ripresa da Repubblica e subitaneamente rilanciata con tanto di commento al vetriolo delirante da Rula Jebreal? La storia è stata già spiegata, ma quello che fa specie è che - nel momento in cui viene pubblicato questo articolo - a esprimere solidarietà nei confronti della Meloni siano state tre persone, di cui due uomini. Parliamo di Calenda ("Una bassezza, il padre non c'entra niente") e Conte ("No al fango sul passato, la combatto sul piano politico").
Alla fine, nel silenzio assordante delle femmine di sinistra e delle femministe, come un fulmine a ciel sereno si sono alzate solo due voci femminili in difesa della Meloni. Si tratta della Cirinnà (Una barbarie. Le persone si valutano per ciò che fanno, scelte politiche, per quello che dicono") e la Boschi ("Incivile attaccare una persona impegnata in politica per ciò che ha fatto o non ha fatto sua padre"). Nessun'altra dem ha osato commentare. Boldrini non pervenuta. Serracchiani non pervenuta. Letta non pervenuto. E fa un po' sorridere, perché è il solito doppiopesismo e la solita ipocrisia della sinistra che parla di quote rosa, che vuole la parità e la difesa delle donne, ma solo se sono di sinistra. Ma ormai questo è un refrain che si ripete e quasi non stupisce più.
Se le donne di sinistra scoprono di odiare il potere quando perdono il potere. Tra le formule più amate dai bambini ce n'è una che serve a cambiare le regole d'ingaggio nei giochi di ruolo. "Facciamo che..." Valeria Braghieri il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Tra le formule più amate dai bambini ce n'è una che serve a cambiare le regole d'ingaggio nei giochi di ruolo. «Facciamo che...». «Facciamo che... adesso io sono una sirena e ho una lunga coda ricoperta di squame e allora abito negli abissi ma mi sono innamorata di un marinaio»; «facciamo che... adesso io sono un poliziotto e allora ho le manette, la pistola, il distintivo e vengo ad arrestarti perché tu sei un ladro e hai rubato le caramelle».
«Facciamo che... adesso Giorgia Meloni diventa presidente del Consiglio e allora le donne decidono che il potere non interessa più. Che è meglio essere libere piuttosto che potenti». Le donne a cui non interessa più giocare, a gioco ormai perso, sono ovviamente quelle del Pd. E attorno al nuovo ruolo del partito, il quotidiano la Repubblica ha aperto un dibattito a puntate. Un susseguirsi di importanti interventi raccolti giorno dopo giorno sotto l'autoincensante occhiello «Idee». E dai quali, ci pare di capire, a questo punto della storia si cerca disperatamente di cambiare le regole d'ingaggio. Anche le donne di sinistra, superate a destra «da quella di destra», tentano di mettere ordine nello sgomento, di riorganizzare la sconfitta: dalle stesse colonne dello stesso quotidiano.
Ieri, dopo anni di battaglie per le quote rosa, la parità di genere, le pari opportunità, le piazze infuocate, i consigli d'amministrazione occupati, contrordine compagne. Sapete cosa c'è di nuovo? «Facciamo che...» il potere (che non abbiamo più) non ci interessa più.
«Il potere non porta da nessuna parte», «Toglie libertà, sacrifica valori autentici», «C'è sempre chi ha maggior potere di chi è al potere»... Tutte citazioni da Repubblica che a sua volta cita il Blabla di Eugenio Montale, e inorridisce andando ad analizzare il vero, profondo significato della posizione «ancillare» nella società, concludendo che certo non si può relegare al grembo femminile, arginare nella sola metà del mondo. Perché ancillari non sono solo le ancelle. Si è ancillari in un sacco di modi, in un sacco di ruoli. Si è ancillari in politica tanto per cominciare. Ma anche quello, al Pd, non è servito a nulla. Alle donne del Pd, tanto meno.
«Facciamo che...» non si ancilla più. Tanto è inutile, faticoso, umiliante e non porta da nessuna parte. Ora si sta perennemente a schiena dritta, si schifa il potere, ci si sfila dalle logiche millenarie e soprattutto si dismettono le cause femminili.
«Facciamo che...» avete perso, ma imparate lo stesso a rimanere composti.
Io sono Cordelia. Meloni è una donna forte, ma le femmine vittimiste non se ne sono ancora accorte. Guia Soncini su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022
La prossima premier conosce le regole del gioco della politica e ce ne farà dono. Non ha tempo per le lagne, e pazienza se re Silvio si sarebbe scelto un altro erede: ha vinto lei, decide lei
Verrà il giorno in cui Giorgia Meloni ne sbaglierà una (più di una, in più di un giorno, immagino); neanche venerdì, però, è stato quel giorno.
Non so come siano, in queste settimane, le vostre schermate di messaggi. Le mie sono quasi tutte composte da un qualche vecchio video di Giorgia Meloni, commentato da chi invia e chi riceve con analoghi «Ma come abbiamo fatto a non accorgercene prima».
Ho una scusa: erano quasi tre anni che non guardavo la televisione. Avevo smesso al principio della pandemia, quando il contagio era diventato l’unico tema di conversazione, il tema meno interessante nella storia del mondo. Guardereste un palinsesto la cui trama consiste nel dirvi di lavarvi bene le mani?
Tuttavia non è una scusa sufficiente. Alcuni dei più illuminanti video di Giorgia Meloni, alcuni di quelli in cui dimostra d’essere una che sa fare benissimo l’unica parte di sicuro consenso oggi, quella sono-proprio-come-voi, vengono da Belve, programma del quale fu ospite nel 2018: era prima che decidessi che, se i virologi erano le nuove soubrette, io preferivo leggere un buon libro; eppure non l’avevo vista. Come ho potuto essere così distratta?
Venerdì, quando Giorgia Meloni è diventata Cordelia in un universo in cui Re Lear è Silvio Berlusconi (l’universo che ci possiamo permettere), abbiamo assistito a uno spettacolo di cui Shakespeare ci aveva privati: la ribellione di Cordelia.
Ha scritto Concita De Gregorio che il ribaltamento di ruoli è imprevisto a destra come a sinistra: entrambe collocazioni dove, se hai i gameti sbagliati, solo damsel in distress puoi essere. Solo in tailleur puoi stare, e solo gli ottusi credono che quello degli abiti sia argomento secondario.
Mai come in questi giorni, in cui sembra non avessimo mai avuto una beghina per presidente della Camera, penso ai tailleur di Irene Pivetti, a quel disastro estetico causato dagli anni Ottanta, dagli spot dello shampoo ma pure da capolavori come Una donna in carriera, che è il cliché delle donne di potere; donne di potere nessuna delle quali, fino a Kamala Harris, ha più osato vestirsi come una donna normale.
Due mesi fa, al Meeting di Comunione e Liberazione, Giorgia Meloni aveva una gonna a pieghe verde, e tutte quelle con uno straccio di spirito d’osservazione hanno pensato: ma quindi si può. Si può vestirsi normalmente e vincere le elezioni, invece di perderle coi tailleur pantalone di Hillary Clinton.
Quando Silvio Berlusconi ha tenuto a farsi fotografare con gli appunti che spiegavano quanto l’avesse deluso Cordelia, nessuno gli ha chiesto come potesse essere accaduto, «l’amore della vostra vecchiaia, la figlia più cara e più stimata, ha dunque potuto, in sì breve tempo, commettere opra tanto rea da meritare che la spogliate fino alla nudità, che la priviate di tutti i doni di cui la vostra tenerezza l’avea rivestita? Certo l’offesa sua deve essere contro natura, dev’essere un prodigio d’atrocità; ovvero l’affezione che le avevate qui solennemente giurata, si è inesplicabilmente pervertita».
Certo, qualunque studioso di Shakespeare (o di Berlusconi) direbbe che, più che Cordelia, Giorgia è Regan, la figlia che tradisce: se sei maschio e tradisci, diventi il santo più importante della mia religione e la pietra su cui fondo la mia Chiesa; se sei femmina e tradisci, sei una schifosa consumata dall’ambizione.
(A proposito di schifose consumate dall’ambizione, ma se invece il parallelismo giusto fosse quello in cui la Ronzulli è Lady Macbeth? O lo è la Meloni? E se invece restiamo a Lear: se la Meloni è Regan, la Ronzulli è Goneril che la avvelena? Ci sono altri ruoli, per le femmine, che uccidersi l’un l’altra devastate dal sopravvenuto disamore del sovrano? Comunque Goneril alla fine si ammazza, e muore pure Cordelia: lo dico per non studiosi di Shakespeare che pensino a un lieto fine possibile per le femmine in scena).
Quindi venerdì Giorgia Meloni ha aspettato tutto il giorno, mentre giornalisti sempre più in calore bramavano un commento su quegli appunti al teleobiettivo (non) sfuggiti, mentre Ignazio La Russa diceva che erano certamente un fotomontaggio, Berlusconi taceva, e una di sinistra al posto suo avrebbe immediatamente dichiarato indignata che quell’orrido sessista non tollera d’avere davanti una donna di carattere, una donna di successo, una donna non a sua disposizione (cit. Rosy Bindi), una donna non ridotta a lista, come ti permetti, e anche voi che nei titoli scrivete «Giorgia» invece di «Meloni», schifosi patriarchi.
Giorgia Meloni non dice mai «è perché sono una donna». Non quando racconta a Francesca Fagnani che Berlusconi le ha suggerito di farsi il botulino alla fronte o che Ignazio La Russa la sgrida se non mette i tacchi; non quando Salvini e Berlusconi proprio non si capacitano che tocchi far governare lei, una pischella bionda; non quando i giornali intervistano la sua manicure. Giorgia Meloni conosce le regole del gioco e ce ne farà dono: è donna, è madre, è una che non ha tempo per le lagne, è quella che quando vince ha vinto lei e si fa come dice lei.
Quindi venerdì ha aspettato d’essere sotto tg, come sa fare la gente di potere, è uscita da un cancello, si è fatta alzare la palla da un inviato televisivo, e l’ha schiacciata come la Mimì Ayuhara che un’epoca di femmine vittimiste non sperava più di vedere. La mattina dopo, in tv, ho visto donne chiedersi sospirose se alla Meloni quella risposta fosse scappata. Ma certo: era in premestruo, era confusa, era fuori controllo. Siamo così: sempre più emozionate, delicate, non sappiamo dettare alla stampa risposte gelide come teste di cavallo.
Verrà il giorno in cui le femmine di quest’epoca saranno disposte a riconoscere una donna forte, quando la vedono. Purtroppo, neanche la settimana scorsa è venuto quel giorno.
Carlo Antonelli per Dagospia il 17 ottobre 2022.
Per capire il fenomeno Meloni è fondamentale osservare a lungo l'immagine della giovane Giorgia "Maghetta" che girava quest’estate e quella di ‘Giorgia-Chan’ ad un raduno fumettaro riapparsa in questi giorni.
E capire il ruolo centrale che aveva e continua ad avere la sua conoscenza dei sottosuoli della Rete, specie quelli frequentati da adoratori e adoratrici del genere fantasy che Giorgia ha sempre dichiarato di amare perdutamente, "Il Signore degli Anelli" e tutto il resto.
Universi interi legati a mondi medievali, potenze scure e spade di luce del resto dominanti nell'immaginario contemporaneo da decenni, come spero vi sarete accorti. E che sono stati ben presenti fin dagli esordi nella Lega (con i battesimi in fiume e tutto il resto, cavaliere nella bandiera compreso) ed erano sottostanti all'apparato concettuale che Gianroberto Casaleggio- adoratore della grande collana di fantascienza di Mondadori "Urania"- aveva usato come base portante per la strategia di fondo dell'operazione a tavolino poi rinominata Movimento Cinque Stelle.
A questa occorre per forza aggiungere gli ambienti digitali di competizioni varie che quotidianamente frequentiamo da tempo con più o meno intensità e che costituiscono almeno un terzo della REALTA’ che abitiamo con gioia nella nostra vita ordinaria (si sceglie il personaggio del gioco, i suoi poteri, ecc).
Questo non troppo complesso armamentario - letteralmente- e' pienamente rappresentato dallo strabordante e consolidatissimo fenomeno di origine giapponese del cosplaying, (che, per i pochi che non lo sanno, consiste semplicemente nella libertà in alcuni giorni o tutto l'anno nel vestire il proprio personaggio preferito, dai più noti ai più sotterranei).
In Italia il raduno-capolavoro di cosplayer avviene nel weekend del "ponte dei Morti", ora “Halloween”, a Lucca per ‘Luccacomics’ (quest’anno va dal 28 Ottobre al 1 Novembre), complice l'ambientazione storica straordinaria che avvolge il tutto. Dentro le grandi mura, ognuno finalmente diventa chi veramente desidera essere nella vita (drago, nippololita, uomolupo, ecc). Rinasce in chi e' per davvero.
E i vestiti da lavoro quotidiano diventano cosi i veri costumi da mascherata, finalmente. Solo gli improvvidi non hanno capito che l’assalto a Capitol Hill del 2019 con quello con le corna e con Captain America che scalava l’edificio non erano stati altro che ingressi nel reale di questa verità, per nulla sorprendente. La stessa, esattamente la stessa di Meloni. Con un guizzo in più.
GM è combattente fantasy ma, scaltra qual'è, nella vita pubblica ha subito scelto in modo scientifico di indossare il costume -ripeto, il COSTUME- della donna piccolo borghese che deve andare in ufficio o ad una occasione più o meno rilevante e cerca tra le offerte del mercato o in Viale Marconi a Roma il capetto dignitoso, presentabile, mai mai mai firmato o lussuoso in qualsivoglia maniera.
La stessa armatura che tutte e tutti vestono per campare dentro questa nostra vita, i cui disastri sono stati ogni volta elencati in tv con precisione encomiabile (ovviamente rigirati e ri-orientati ad arte) da Meloni mentre asfaltava in modo brutale- come una wrestler messicana- i poveri e incauti rappresentanti progressisti che si trovava di fronte.
Giorgia si è fatta un mazzo tanto, si è aggiornata imparando i programmi nuovi per il pc e l'uso dei dati prodotti dagli analisti con lo zelo di una integerrima funzionaria aziendale che non vuole perdere il posto, parla un inglese straordinario sconosciuto agli avversari (e questa è una delle armi segrete internazionali che tiene dentro il cinturone di mistoseta).
Ogni dettaglio dell'uniforme radical-chic dei concorrenti è stato passato al setaccio e estirpato dall’abito di scena. Il risultato è stato geniale. L'immagine pubblica di Meloni non si è mai realmente avvicinata a quella della politicante, ovviamente. Il suo vestire? Poco strutturato e, in alcuni casi, quasi disordinato, da "donna del popolo" ("figlio/a di Roma" era del resto l'epiteto con cui si rivolgeva alla gente nei rioni fino a qualche anno fa).
L'idea banalmente era quella di non sembrare parte della classe dirigente, ma completamente vicina ai bisogni reali: nulla doveva essere aspirazionale. All'inizio della sua carriera politica, ci appare sicuramente più rigida e seriosa rispetto a quello che accade dopo: si passa dai pesantissimi tailleur giacca e pantaloni degli albori (mai una gonna, mai un abito), a una combinazione molto basica di camicette informi e pantaloni sempre aderenti, da cui ogni tanto spuntano decolleté con vertiginosi tacchi a spillo e plateau, quelli che vediamo in giro normalmente nelle ordinarie occasioni di festa da anni.
Il bianco la fa spesso da padrone, ogni tanto qualche colore sorbetto o qualche dettaglio tricolore, sempre negli stessi volumi. E, pur non mostrandosi mai vezzosa o iperfemminile, nelle sue incursioni televisive è capitato negli anni di vederla sfoggiare degli orecchini piuttosto importanti o una messa in piega più giocosa, ma molto raramente (senno’, piastra e via).
L’apparizione ad agosto su Fox News un cambio di rotta: la mise-en-scene è stata letteralmente fantastica, pura proiezione di desideri coltivati fin da adolescente. Con un trucco piallante di livello cinematografico e perfettamente adatto alla classica luce televisiva americana, Meloni si è presentata (con dietro un dettaglio di giardino di una possibile “mansion” da qualche parte negli Stati Uniti) con piglio da battaglia “stato per stato” e per una volta una camicetta di seta puritana con fiocchetto, tutta chiusa, da “Tea Party”, ma dal colore yankee perfetto, un verdino acido improbabile e quindi ancora una volta “sbagliato”.
Lo stesso make-up “piallato” – che deve averla ingarellata - lo si e’ visto emergere nelle apparizioni delle ultime settimane della campagna elettorale, tutta raggiante. Poi, improvvisamente, il taglio ‘dog lungo’, che già dal nome richiamata gli universi interspecie dei manga più sofisticati. Fino al trionfo elettorale. E alle giacche morbide doppiopetto coi bottoni oro e a quella grigiocangiante del giorno dell’elezione di Fontana.
Forse si potrebbe riassumere l'evoluzione stilistica di GM nelle seguenti fasi: 1) la non-politica; 2) i rigidi inizi; 3) una rilassata banalità; 4) ufficiale ma non distante; 5) “americanata”; 6) dopo la vittoria, direttore/direttora generale di una partecipata pubblica.
Tuttavia dietro questo straordinario esempio di cosplaying vediamo sempre brillare quella furbetta luce che sta negli occhi di Maghetta. E' sempre lei. Non è mica cambiata. Dentro il cavallo di Troia degli astutissimi vestiti-grande occasione del mercato, ci stanno sempre le truppe in armatura della saga più terrorizzante che sta andando in scena nei prossimi 45 giorni.
Non a caso Tolkien- appare tra le parolechiave degli allegri cruciverba “enigma del patriota” che giravano sulle spiagge anche quest’anno.
E' incredibile che le sgangherate forze che si trova di fronte non abbiano la benché minima coscienza degli immaginari popolari che sono chiamata a conoscere e fronteggiare se vorranno rimanere in piedi come giocatori dentro questo spietato gioco.
(con uno speciale a Giangi Giordano per la speciale analisi iconografica)
Dagospia il 17 ottobre 2022. Da Un Giorno da Pecora
I capelli di Giorgia Meloni? “Sono già venute quasi 50 donne nel mio salone che mi hanno chiesto il taglio alla Giorgia, le mie clienti mi telefonano e mi chiedono il taglio 'bob lungo', il taglio alla Meloni, e il suo stesso colore, un biondo mielato”. A parlare a Rai Radio1, ospite di Un Giorno da Pecora, è Antonio Pruno, parrucchiere della premier in pectore Giorgia Meloni, che oggi è stato ospite della trasmissione condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari.
Per il probabile giuramento da premier pensa le farà un nuovo look? “No, magari cambierò la piega, vediamo come ci si sentirà quella mattina. Probabilmente Giorgia si presenterà con il 'bob lungo' biondo mielato - ha detto Pruno a Un Giorno da Pecora - magari le farò una piega con delle onde ma dipende da come ci sveglieremo quella mattina. Comunque le faremo qualcosa di elegante, con lo stile di Giorgia Meloni”.
Il maschilismo delle donne. Tutte contro Giorgia Meloni. Intervista a Wanda Ferro, deputato di Fratelli d'Italia. Michel Dessì il 30 settembre 2022 su Il Giornale.
Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.
Rosicano tutti. Anzi, tutte. I risultati elettorali sono indigesti al popolo della sinistra che, da sempre, si è detto democratico ed anti fascista. Ma come? Non c’è cosa più bella e democratica del voto eppure a loro non va giù. Aja aja... Vedere una donna, Giorgia Meloni, alla presidenza del consiglio non va affatto bene.
Ad urlarlo in cinquanta piazza italiane le femministe incallite di Non una di meno che, approfittando della giornata nazionale dell’aborto sicuro, sono scese in piazza per sfogare tutta la loro rabbia nei confronti dei cittadini che hanno preferito il centrodestra al centrosinistra. Inutile dire che sotto attacco c’era lei, Giorgia Meloni. Ma come, non dovrebbero essere felici per il successo di una donna? Ci hanno triturato i cabasisi per mesi sulle donne nei ruoli di potere ed ora che succede dopo anni di attesa cosa fanno? Protestano. Evidentemente per loro non tutte le donne sono uguali. Quanta ipocrisia.
Fratelli d’Italia è il partito delle donne. Tante candidate, tante elette e non perché andava fatto. Ma a quanto pare la democrazia non piace alla sinistra. Lo dice bene Wanda Ferro, rieletta alla Camera dei Deputati tra le file del partito di Giorgia Meloni. (ASCOLTA IL PODCAST) Lei, missina della prima ora, ha militato tanto nel partito e assicura che non c’è nulla da temere.
Ma, a volte, le donne sono le peggiori nemiche delle donne. Ricordate i tempi delle elezioni per il Quirinale? Tutte a pretendere una donna alla guida del Colle più alto di Roma. Solo perché donna. Non tanto per le sue capacità. Tanto che anche la politica se ne stava convincendo. Elisabetta Belloni, Marta Cartabia i nomi più accreditati. Per non parlare poi delle parole declinate al femminile. Teresa Bellanova ci teneva ad essere chiamata ministra, Virginia Raggi insisteva per essere chiamata la sindaca. Siamo certi che Giorgia sarà il Presidente.
Giorgia Meloni? Che tristezza l'invidia delle femministe contro chi ce l'ha fatta. Simona Bertuzzi su Libero Quotidiano il 30 settembre 2022
Che tristezza un paese incapace di festeggiare la sua prima donna premier. Se al posto della Meloni avessero eletto una Serracchiani dal caschetto fugace, l'Italia stapperebbe champagne e masticherebbe fiumi di retorica e orgoglio al pensiero di avere la prima signora presidente del consiglio. Invece è stata scelta la Meloni, donna di destra. E la notizia è risultata talmente indigesta alla sinistra, e ancora più a certe femministe di questo paese ipocrita e stantio, da scivolare nelle ultime righe delle cronache e nei titoli di coda dei giornali. Improvvisamente le articolesse e i salotti sulla condizione femminile, sulla parità di genere, sulle quote rosa e sul famoso tetto di cristallo che ci ha oppresso, schiacciato e umiliato fino a questo momento, sono finite in secondo piano triturate da una foga demolitrice e ideologica che nel rispolverare vecchi spauracchi e regimi morti e sepolti vede nella Meloni la quintessenza di ogni male. È bastato che Chiara Ferragni - influencer prezzemolina di quest' era social e non certo una statista - mettesse in guardia i suoi followers sui rischi di una deriva antiabortista in caso di vittoria di FdI, per riempire le strade di cortei insensati di femministe convinte che Giorgia voglia davvero sopprimere il diritto all'aborto.
La leader del centrodestra ha spiegato che non toccherà la 194, semmai rinforzerà la prevenzione e gli aiuti alle donne in difficoltà, ma non è bastato... Persino questa estate, quando è cominciato il tiro al bersaglio del Pd e dei soliti commentatori contro la candidata della destra, nessuna delle donne di sinistra che si riempiono la bocca e la penna di diritti civili e poi si indignano per una mutandina di troppo su un manifesto pubblicitario o una letterina dell'alfabeto mal declinata ha versato, non dico una lacrima, ma almeno una riga di inchiostro per fermare lo scempio. Il famoso fattore M... M come Meloni e come Mussolini. Con quei capelli lì. Quella voce lì. Quel modo di parlare un tantino urlato per soverchiare il clamore della folla... vuoi che non sia un chiaro ritorno al Ventennio? Il paradosso è che la campagna di fango è stata a tal punto scientifica e protesa a fare carta straccia dell'avversaria che ha fatto perdere di vista le battaglie vere. La cronaca di queste pagine è lì a dimostrarlo. Si organizzano mobilitazioni in diverse città d'Italia per fermare la Giorgia nazionale. Ma non si muove refolo e neppure un modesto sit-in per la povera Masha Amini arrestata dalla polizia religiosa a Teheran il 13 settembre per mancata osservanza della legge sul velo e perché anche in quell'ora, in quel luogo, davanti a tutti i gendarmi che stavano per toglierle il futuro e la vita a suon di botte, aveva due ciocche che uscivano dal copricapo e anelavano libertà. Ma da noi il problema è la Meloni.
E così arriviamo a salutare quella che sarà la prima donna premier italiana sessant' anni dopo lo Sri Lanka (pensate che record) - e dopo aver guardato scorrere nella carrellata dei potenti le Liz Truss, Elisabeth Borne, Theresa May, Angela Merkel (per non scomodare i tempi antichi della Thatcher) - senza neppure un festeggiamento. Mesti e tremebondi come si va a un funerale, pronti ad annientare psicologicamente e moralmente la poveretta che osi dire fuori dal seggio elettorale «finalmente una donna al potere... avremo più spazio, più attenzione, più anima e magari uno straccio di welfare che ci aiuti a lavorare e non ci mortifichi a fare la calzetta». Viene il sospetto che dietro l'impalcatura ideologica si nasconda anche quel maldestro rosicare dei successi altrui in cui noi italiani siamo maestri. La sinistra non è stata capace di produrre un premier donna. Il centrodestra sì. La sinistra è una costellazione di nomi autorevoli che si inseguono e susseguono senza mai imporsi. Meloni ha scalato il centrodestra da un misero 1,9% e si è fatta strada in un mondo - la politica - maschilista per definizione stessa di alcuni politici (e non perché agisce e pensa da maschio, come ha detto qualche autorevole commentatore). La diffidenza rende tristi, sosteneva Totò. Qui è qualcosa di più della diffidenza. Ma l'effetto è lo stesso.
Meloni e l'ipocrisia del "sistema donne". Valeria Braghieri il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.
E adesso che c'è Giorgia Meloni? Alla vigilia del secondo mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, il vuotissimo slogan che girava a invocazione era "o una donna, o Mattarella"
E adesso che c'è Giorgia Meloni? Alla vigilia del secondo mandato di Sergio Mattarella al Quirinale, il vuotissimo slogan che girava a invocazione era «o una donna, o Mattarella». Non ci avevano neppure appiccicato un nome a quel «o una donna». Ma era giusto dirlo, doveroso pronunciarlo, e poi indispensabile passare ad altro, il più in fretta possibile. Perché in fin dei conti, a nessuno interessava davvero giocare quella partita. Tanto che anche quando i nomi erano stati individuati, ed erano i «loro» nomi, «quelli giusti» perché seduti dalla parte corretta del mondo (Marta Cartabia, Anna Finocchiaro, Elisabetta Belloni) comunque non se n'era fatto alcunché. Però lo spauracchio-donna era stato esposto e soprattutto ritirato al momento esatto. Le femministe avevano potuto crogiolarsi nella rassicurante «potenza» di ciò che tanto non sarebbe mai diventato insidioso «atto»: una donna al Quirinale. Pericolo scampato, tormentone intatto: «Le alte cariche dello Stato ci sono inibite».
Poi arriva Giorgia Meloni. E questo è un giorno che apre gli occhi tagliandoli. Perché, come spiega Natalia Aspesi su Repubblica, si è costretti a prendere atto che anche quando una donna c'è, comunque non basta. O non va bene. O non rappresenta tutte. O non è compresa nel ruolo di «Sorella» (tanto che chiama il suo partito «Fratelli» d'Italia»). O non cita abbastanza la parola «donna» nel suo programma. La Aspesi parte dal documento firmato da un gruppo di associazioni femminili che auspicano «un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti», e le mette in guardia dal rischio di illudersi: «La candidata premier ragiona al maschile». Con la Meloni, la causa non fa passi avanti.
Da sempre fanno finta di volere una donna al Quirinale, e adesso che la Meloni può diventare la prima premier donna, non c'è nulla per cui gioire. È molto meglio quando un desiderio rimane sempre fermo nel palato. Perché i conti con la realtà non tornano quasi mai. Tanto per cominciare Giorgia è di destra, poi non è «cipriosamente» concettuale, non veste di lino d'estate e velluto d'inverno, è più sedotta dai fatti che dalle parole. Giorgia è giovane ma gonfia di certezze, ha un ego fin troppo sazio, secondo alcuni ha pretenziosamente chiamato sua figlia Ginevra mostrando un'imperdonabile fragilità nei confronti dei salotti «a numero chiuso». Insomma, è (quasi) arrivata dove nessuna prima di lei, ma i detrattori non mancano. E le donne, quelle che contano, l'hanno già ampiamente avvisata: not in my name. Tutte, ma non tu. O la Santanchè. O qualunque altra di destra
Niente male come dimostrazione del saper far «sistema», come «orizzonte unico». La Meloni sta per accomodarsi nella Storia, sta per mettersi alla guida di un Paese più straziato che abitato e sa già su chi non può contare. Ma visto che il pragmatismo non le fa difetto, ci auguriamo che saprà ottimizzare anche le defezioni.
Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 17 agosto 2022.
Ho ricevuto da Marina Terragni un lungo documento firmato da una ventina di associazioni di donne italiane (credo su un centinaio che non la pensano così), sostenute da altrettante straniere: titolo pacificante e bellicoso insieme "Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti". Segue, 1) citazione di Olympe de Gauges, 1791: "Le donne saranno sempre divise le une dalle altre? Non formeranno mai un corpo unico?" Segue, 2) proposta elettorale, "Nel segno di Carla Lonzi a quarant' anni dalla scomparsa: elettrici e attiviste di tutti i partiti si uniscono nel dono di un 'programma imprevisto' comune, orizzonti per un cambio di civiltà".
Commenti miei, 1), la protofemminista girondina dai rivoluzionari maschi fu ghigliottinata in quanto fastidiosa con le sue lamentele donnesche; 2), quando nel 1970 proposi a Italo Pietra, direttore del Giorno, un articolo sull'epocale "Sputiamo su Hegel" della Lonzi, quell'uomo fascinosissimo e di gran classe si mise a urlare come un pazzo in piena redazione e non mi licenziò perché ex partigiano e quindi molto democratico. E adesso ragazze come la mettiamo?
Finalmente una di noi, cioè una donna- donna, presidente di un partito, tra l'altro quello attualmente più votato, potrebbe diventare (i menagrami e pure lei lo danno per sicuro) la protagonista di un evento storico che il femminismo persegue da quando c'è: finalmente una donna a capo del governo italiano, cioè un primo ministro che essendo femmina rappresenti il massimo della democrazia, della parità, dei diritti, delle inclusioni, degli aiuti, di ogni forma di libertà verso un sol dell'avvenire che neanche ti immagini.
Eccola Giorgia Meloni, 45 anni di oggi, cioè tipo ragazzina eppure mamma, vestita classico e seducente, mai un capello fuori posto, in politica da 30 anni, da quando aveva 15 anni e già non aveva dubbi da che parte stare; la sua carriera è stata fulminea, perseguita con una volontà stupefacente, tutti i gradini superati velocemente per sua sola volontà, fondando con Crosetto e La Russa 'Fratelli d'Italia' a 35 anni e diventandone presidente due anni dopo, nel 2014, a 37 anni, un volto da Madonna vendicativa ma fresco, rispetto a quello inquietante del suo predecessore Ignazio.
A 8 anni di distanza e senza chiedere l'aiuto di nessuno, ignorando camerati e camerate e puntando solo su se stessa, ha portato il suo partito dal 3 % a essere il primo, fregando soprattutto i due alleati di destra- destra, sottraendo loro parecchi simpatizzanti. Si è proclamata da sola prossima prima ministra con tale fermezza che neppure i suoi due sodali Salvini e Berlusconi, non parliamo dei suoi oppositori, hanno aperto bocca, le hanno detto, si calmi, aspetti un momento, vediamo come va.
Nello spavento di una classe politica dormiente, o vociante, o fuori di testa, c'è poco da fare gli altezzosi, i colti, gli eleganti, gli antifascisti: solo il finimondo, temo, potrebbe scongiurare il luttuoso evento. A questo punto mi rivolgo a voi, donne di valore che avete composto e sottoscritto questo documento davvero importante per contenuto e per un modo di raccontare che ricorda i testi femministi meravigliosi e perduti degli anni '70, e vi chiedo: lo avete proposto anche a Giorgia Meloni che è donna come noi, e che però ha fondato un partito di Fratelli, dimenticando le Sorelle?
E che nei 15 punti del documento integrale del programma di governo del centro destra (che a leggerlo tutto altro che Mussolini, un bel fascismo XXI secolo, molto più ardito, checché ne dica la signora), non c'è una sola volta la parola 'donna', al massimo l'aggettivo 'femminile', quasi sempre collegato con i sostantivi 'infanzia', 'famiglia', e anche 'giovani' e 'disabili'. In centinaia di righe non una sola volta la parola 'diritti', che, è vero, forse da noi, dalla parte opposta, è stata abusata cancellando i 'doveri'.
E avete pensato prima di tutto se in questo momento di massima pressione Meloni, o chiunque altro, avrà il tempo e la pazienza di leggerlo tutto, perché nella sua intensità e verità è di una lunghezza a cui non siamo più abituati, e infatti io non ho ancora superato la prima intensissima pagina e me ne mancano ancora quattro, intensissime pure loro.
Temo che il vostro 'Orizzonte Politico' si riveli oggi ingenuo, come del resto lo fu in passato, perché certo non è la prima volta che le donne si illudono di costituire un solo popolo: no, non credo che essere donna sia più importante della visione ideologica personale e dei compagni che per quanto maschi, la dividono con noi: io so che mai potrei sentirmi compagna e complice, mettiamo della Santanché o della stessa Meloni, che pure non posso fare a meno di ammirare per la sua implacabile sicurezza, mentre con cautela lo sarei di Veltroni e soprattutto di un Pisapia, se si facesse vivo e se i suoi compagni non se ne fossero dimenticati in quanto non del loro giro.
Ma poi cerchiamo di essere realisti: voi tra mille cose molto belle dite, "Non si può più tenere nascosta la verità. La verità sotto gli occhi di tutti è che troppi uomini stolti governano il mondo e la vita è diventata invivibile. Li stiamo vedendo trattare per il potere, sempre e solo loro, e siamo sgomente. Si permane nella cultura patriarcale che è la cultura della presa di potere". Se adesso il potere se lo prendesse una donna, una giovane donna, la cultura patriarcale sarebbe sconfitta oppure semplicemente sostituita da un matriarcato altrettanto violento? Le vostre parole, forse perché creatrici di visioni, mi hanno fatto pensare a una Gilead al contrario, a un luogo dove sono le donne, le ancelle, a condurre un potere armonioso e rispettoso del mondo eppure altrettanto dispotico.
È giusto, voi chiedete che la maternità torni "al centro delle comunità umane" per "orientare il programma politico , per il bene di tutte e di tutti". Questo credo non ve lo concederebbe non dico la Meloni ma neppure un Gilead femminista. Mentre su un paio di punti il centrodestra potrebbe essere d'accordo con voi, quando definite l'identità di genere "ideologia misogina e mercantile la nuova faccia glitterata del patriarcato che non vuole morire e che per sopravvivere ha bisogno di cancellare le donne persino nel linguaggio di genere".
E quando definite "l'aspetto più straziante della gender ideologyla farmacologizzazione e la manipolazione chirurgica dei corpi di bambini e bambine dal comportamento non conforme agli stereotipi di genere - nuova lobotomia". Concludendo con l'unica cosa che conta: votereste la Meloni perché donna o per carità neanche morta, per due possibili ragioni; è chiaro che per lei le donne in quanto tali non esistono, ma anche perché alla fine si tenta di fare massa, gruppo, ma come sempre viene fuori che ci detestiamo tra noi, quindi in tutti i casi, fortunatamente, siamo costrette proprio dall'essere donna e detestare anche lei.
Natalia Aspesi al delirio: “La Meloni ragiona al maschile. Femministe, non votatela”. Adriana De Conto il 17 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.
Femministe, non cantate vittoria se la Meloni diventerà la prima donna premier. Anzi. Lei “pensa al maschile”. Il suo partito è fatto di Fratelli d’Italia e ha dimenticato le “Sorelle d’Italia”, avverte allarmata su Repubblica Natalia Aspesi in un articolo lunare e pieno di notazioni infondate. Scrive l’anziana editorialista: no, la Meloni non è “la protagonista di un evento storico che il femminismo persegue da quando c’è: finalmente una donna a capo del governo italiano”. Niente di tutto questo. Dando per scontata l’ascesa della leader di FdI a palazzo Chigi (”Solo il finimondo, temo, potrebbe scongiurare il luttuoso evento”), si rivolge a un gruppo di donne e femministe che le ha inviato un documento dal titolo: “Un orizzonte politico comune a donne di tutti i partiti”. Un documento che invita a non avere pregiudizi.
Aspesi su Repubblica: “Meloni non pensa alle Sorelle d’Italia”
La Aspesi dà loro – e a tutte le donne- delle ingenue, le tratta da idiote. Perché? Perché nei 15 punti del programma di governo del centro destra “non c’è una sola volta la parola ‘donna’. Al massimo – scrive- l’aggettivo ‘femminile’, quasi sempre collegato con i sostantivi ‘infanzia’, ‘famiglia’, e anche ‘giovani’ e ‘disabili’”. Insomma, declinare il femminile in questi ambiti così delicati e dimenticati dalla cultura dei governi sarebbe per le contro le donne. Sarebbe “pensare come un uomo”. Stendiamo un velo pietoso e andiamo avanti.
“Non potrei sentirmi complice di Meloni o Santanchè…”
Scrive che ammira la Meloni per il suo coraggio, determinazione e autostima, ma poi le rinfaccia di tutto. Ne sottolinea in un passaggio il “volto da Madonna vendicativa ma fresco, rispetto a quello inquietante del suo predecessore Ignazio”. Ne rievoca la carriera rapida, conseguita confidando solo nelle sue forze e nel suo carattere. Eppure neanche il “merito” va bene per la Aspesi nell’ascesa di una donna in politica. Perché la Meloni ha il difetto di essere di destra. E infatti esce fuori il livore, la condanna: “Non credo che essere donna sia più importante della visione ideologica personale e dei compagni che per quanto maschi, la dividono con noi: io so che mai potrei sentirmi compagna e complice, mettiamo della Santanché o della stessa Meloni (…). Mentre con cautela lo sarei di Veltroni e soprattutto di un Pisapia, se si facesse vivo”.
Meloni premier, Aspesi: “Matriarcato altrettanto violento del patriarcato”
Alt, qui non capiamo più niente del discorso. Il filo si perde del tutto. La Aspesi per rivendicare il femminismo doc sogna un Veltroni o un Pisapia? Due uomini? Prima si dice atterrita perché la politica è tutt’ora scolpita “nella cultura patriarcale”. E poi sogna Veltroni? Pisapia?Si contorce la Aspesi: “Se adesso il potere se lo prendesse una donna, una giovane donna, la cultura patriarcale sarebbe sconfitta oppure semplicemente sostituita da un matriarcato altrettanto violento?”. Inutile dire che per lei, con la Meloni, si invererebbe la seconda ipotesi. Termina infatti con una professione di inimicizia: “E chiaro che per lei le donne in quanto tali non esistono, ma anche perché alla fine si tenta di fare massa, gruppo. Ma, come sempre, viene fuori che ci detestiamo tra noi, quindi in tutti i casi, fortunatamente, siamo costrette proprio dall’essere donna e detestare anche lei”. Assurdo, la conclusione è: “volemose male”.
Consiglio non richiesto alla Aspesi: guardi le donne di sinistra
La Aspesi farebbe meglio a guardare in casa sua: è la famiglia di sinistra che ha qualche problema col “femminile”. Dove una Cirinnà evoca per se stessa la figura mashile del Gladiatore per definire la sua battaglia politica in un collegio ostico. Come nota argutamente sui social Annalisa Terranova, collega e storica. Dove per avere due donne capogruppo di Camera e Senato si è dovuta attendere l’“imposizione” dall’alto di Letta per segnare la distanza dal suo predecessore Zingaretti. Suggeriamo pertanto all’anziana editorialista di fare le pulci nel suo ambito politico; di leggere con attenzione un’analisi del sociologo Luca Ricolfi del gennaio di quest’anno, certo uno studioso che non ha la tessera di FdI. Il quale scrisse in soldoni: altro che patriarcato, è la sinistra che esclude le donne dai luoghi di potere.
Le analisi di Ricolfi smentiscono la Aspesi
“Nei meccanismi che regolano le carriere politiche, a sinistra è ancora dominante la cooptazione, mentre a destra c’è anche un po’ di meritocrazia». Ancora Ricolfi: «Le donne di destra non paiono avere remore a sfidare in campo aperto i rivali maschi; mentre quelle di sinistra troppo spesso paiono attendere la chiamata del capo, umili e ossequiose come le donne di un tempo». Parole che calzano a pennello, per prendere un esempio attuale, l’atteggiamento della dem Alessia Morano, che ha rifiutato un collegio difficile. Vincere facile tra le donne del Pd sembra essere la scelta migliore. E con tutto questo, con buona pace di Natalai Aspesi, la Meloni non c’entra nulla, anzi rappresenta l’esatto contrario.
La risposta della Meloni: “Ecco perché mi detestano”
E infatti la sua risposta dai suoi canali social non si fa attendere: “La Repubblica scrive che “ragiono al maschile”. Perché a loro non va giù che, come tante altre donne, non accetto di essere rinchiusa nel recinto delle cose “da femmina”. Mi detestano perché ho la pretesa di competere con i maschi al loro livello invece di aspettare che gli uomini mi concedano qualcosa: mi nominino, mi impongano, come accade alle donne a sinistra. Perché non mi interessa la loro benevolenza- incalza la leader di FdI. Perchè penso che le donne si debbano prendere il loro spazio e non pietirlo. Repubblica oggi ci dice che una che ragiona così è nemica delle donne, e conferma l’idea che la sinistra ha del ruolo delle donne in politica. Sempre subalterne, sempre seconde. Noi no, noi siamo per il merito sempre e comunque. Chi vale emerge, uomo o donna che sia. Fatevene una ragione”.
Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 18 agosto 2022.
Natalia Aspesi, femminista firma de La Repubblica, esperta di questioni di cuore e di sesso oltre che icona del femminismo radical chic ieri è giunta a una conclusione storica: donne d'Italia non fidatevi, Giorgia Meloni è un uomo. Questa davvero ci mancava: per essere donna oggi bisogna passare il test Aspesi, che non misura il quoziente intellettivo bensì il livello di testosterone del soggetto sotto esame.
Secondo la Aspesi il problema di Giorgia non è che è un po' fascista come sostiene il suo giornale, no quello è un dettaglio. È che ragiona e si comporta come un uomo e quindi le donne, di destra e di sinistra che siano, non devono cadere nella trappola delle tette e dei lineamenti: non va votata, è una nemica come lo è chi è dotato di pisello. Siamo alla piena riabilitazione della canzone più ostracizzata proprio dalle donne di sinistra, quella «Voglio una donna con la gonna» incisa trent' anni fa da Roberto Vecchioni e caduta poi nel dimenticatoio - l'autore stesso ha raccontato di Libero vergognarsene perché ritenuta politicamente scorretta. La ricordate?
«Prendila te la signorina Rambo / Che s' innamori di te 'sta specie di canguro / Che fa la corsa all'oro veloce come il lampo, tenera come un muro, padrona del futuro / Prendila te quella che fa il "leasing" / Quella che va al "briefing" perché lei è del ramo / E viene via dal meeting stronza come un uomo, sola come un uomo».
Già, sono passati trent' anni e il femminismo non ha ancora deciso se la donna è, come diceva Vecchioni nella stessa canzone, quella che serve per «pulire il culo ai figli» o viceversa quella che può e deve guidare un paese, ammesso e non concesso che non si possano fare entrambe le cose contemporaneamente. È che la Aspesi non vuole ammettere che il potere non ha sesso, è quella cosa lì indipendentemente se chi lo esercita porti o meno la gonna.
Giorgia Meloni è sicuramente donna e madre, su questo non si può discutere, è il potere che lei esercita ed eserciterà in futuro a essere, per dirla alla Vecchioni, "stronzo" e quindi cara Aspesi esci dalle tue contorsioni genetiche e arrenditi all'idea che non siete superiori a noi ometti né più pure né più etiche, se volete il potere, e se ne siete capaci, prendetelo e noi potremmo finalmente cantare "stronza come una donna", con licenza poetica "stronza come la Aspesi".
Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 26 agosto 2022.
Se lo dice la Ferragni vale 20 volte Conte, 10 volte Calenda, 7 volte la Bonino ma anche almeno 5 volte Letta: lei sa vendere con eleganza di tutto, anche cose bruttine come le sue borse col disegnino delle ciglia, o democratiche come i suoi pensieri (si tratta di eleganza, quindi di sinistra), o sorridenti come i suoi piccini, per di più anche in inglese, così capita che pure la stampa straniera, annoiata sempre dalle curiose gesta degli italiani, venga a sapere qualcosa di noi.
Adesso nelle Marche governata dai Fratelli e neanche da una vera Sorella (semmai c'è una figlia, la Rauti) pare che molte donne così poco avvedute da ritrovarsi gravide senza volerlo (cosa voglia il complice mai responsabile resta sempre un mistero), non possano usufruire della pillola del giorno dopo e siano quasi impossibilitate a trovare un ospedale con ginecologo disponibile, che poi magari è più generoso nel suo studio se sei generosa pure tu; tanto che, dicono i menagramo, già c'è chi per interrompere la gravidanza torna ai secolari metodi un po' assassini, tipo ferro da calza o infuso di prezzemolo (siamo sinceri, non è che nelle regioni governate dalla sinistra ci sia la coda di ginecologi a disposizione).
Cose da donne, e infatti nella campagna elettorale che non se ne era mai vista una meno colpevole di negligenza, il tema non è venuto in mente a nessuno, (nemmeno alle poche donne ammutolite che i partiti si sono ricordati di candidare), tutti impegnati a darsi del fascista, del ladro, del traditore, del pirla e, massimo insulto da parte dei ragazzi rimasti nel M5S, in omaggio al loro capo che non perdona, draghiano!.
Ma poi per fortuna ecco la soluzione cui sempre si ricorre quando si è alla frutta: una guerra tra dame (esempio impolverato Callas-Tebaldi, ma anche Elisabetta II-Thatcher, silenziato), ancor meglio una guerra tra bionde, cose da cinema, vedi "Gli uomini preferiscono le bionde", "La rivincita delle bionde", "Bionda atomica", "Odio le bionde".
La bionda Chiara (anche il nome conta, fa luce e fa santa) può vantarsi di avere poco meno di 28 milioni di consumatori (follower), che non sono pochi, mentre la bionda Giorgia continua a strappare preferenze ai suoi due alleati che standole a lato come i carabinieri di Pinocchio, paiono, senza offesa, i fratelli De Rege: tanto che oggi, domani non si sa, roteando i suoi occhioni azzurri che mettono in riga grandi e piccini, raccoglie nei sondaggi il 24% delle preferenze (dei sudditi); che (però non so far di conto) su 47 milioni di italiani con diritto al voto, ammesso che vada al seggio anche l'ultimo pastore sperduto nelle Murgie e tutti i brontoloni che si danno delle arie sui social bacchettando ogni singolo politico, corrisponderebbero a una ventina di milioni di voti: davvero tutti suoi, non certo dei suoi seguaci Fdl di cui non ci si ricorda una sola faccia; quindi meno del partito Ferragni ma, non si può negare, molto più pesanti.
Della Ferragni sono una fan più che una follower, non avendo occasione di comprare da lei alcunché, e seguo con piacere Leone, Vittoria e pure il cane, meno Fedez perché tutti quei tatuaggi mi fanno impressione, come i draghi di, appunto, House of the Dragon.
Per questo mi permetto di fare una osservazione di merito: qualsiasi rettifica chiedano alla bionda di destra, tipo togliere la Fiamma dal simbolo o chiedere scusa per usare come propaganda il video di una stupro, lei risponde sempre marameo: è cioè una vera dura.
Mentre la bionda di sinistra ha ascoltato forse i suoi ragionieri che alla fine del mese contano i milioni incassati e, come registra la nostra straordinaria Oriana Liso nella sua rubrica "Scusi lei", si è subito corretta: pettinatura da bambina e maglietta con la scritta " we should all be feminists ", prima ha scritto su Instagram «Facciamoci sentire a queste elezioni», poi si è sfumata in «Ora è il nostro tempo di agire e far si che queste cose non accadano».
Metti il caso che le diciottenni che adorano il suo modo di truccarsi piaccia anche la Meloni perché così vuole il nonno, secondo voi non avendo alcuna nozione di quel che stanno facendo, disubbidiranno all'adorato vecchio o smetteranno di comprare succhi di frutta vegani targati C.F.?
È un brutto pensiero e per quanto la Patria con aborto certo chiami, meglio andare cauti, al massimo si potrebbe mettere sul mercato che la ditta depreca l'horror dei manifesti con embrioni che gli manca la parola.
È immaginabile un vero duello per la conquista del governo tra due donne, mettiamo appunto Meloni e Ferragni? E chi vincerebbe? Intanto bisognerebbe che Chiara sacrificasse la sua splendida vita nella sua stolta casa milanese e rinunciasse, come nei post più recenti, a presentarsi col suo corpicino quasi del tutto nudo (ci sono i bambini! No, i parlamentari, che si spaventano di più), per passare giorni e giorni a discutere con colleghi italiani e stranieri anche cheap, anzi, a oggi molto cheap, smettendo di accumulare ricchezze e di spegnere candeline coi suoi bambini davvero meravigliosi; soprattutto sarebbe necessario che alla sempre più variegata sinistra impegnata in suoi oscuri, sanguinosi duelli, venisse in mente che le donne esistono e se ne potrebbe candidare una, non una qualsiasi, ma una brava in grado di salvarli, compito eterno delle femmine.
Come ha fatto la destra affidandosi a una giovane donna fornita di righello da battere sulle dita dei disubbidienti, che in quanto donna disprezza i maschi e li comanda come una vera mamma italiana, cui chiede ubbidienza e silenzio mentre lei rimette ordine, spazza via ciò che disturba la loro fragilità, gli ridà l'illusione di contare, rimette al loro posto le donne (in casa, ovvio) e le zittisce, non parliamo dei "deviati" cui saranno negate le famose inclusioni che immagino subito cancellate. Io non ho ancora capito cosa sia successo in poche settimane, perché tutti i maschi leader degli altri partiti si siano lasciati fregare da una persona, una donna poi, cui stupidamente non davano alcun credito.
Visione macabra ma forse di fantasia: perché con tutte le sue vere doti di leader, che a essere sinceri non si vedono in nessun altro, osservando Giorgia muoversi con imperio tra la folla di uomini della politica, piccina, carina, svelta e mai zitta, sfida secondo lei già vinta, già primo ministro fai da te, non un dubbio, non un momento di stanchezza, non una cedimento, di una presunzione e sicurezza impressionanti; non so, forse, limitandoci soltanto a chiedere ai Ferragnez, intesi come famiglia, di dire ogni tanto la loro che qualsiasi cosa sia, fa impazzire la destra invidiosissima, consiglierei ai nostri amici di tentare la rimonta facendosi sentire col silenzio, visto che ogni volta che aprono bocca a noi che forse, ma forse, li voteremo, fanno cadere le braccia.
Dolenze e acrilico. Meloni è la gran maestra del secolo della fragilità. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Agosto 2022
A differenza dei suoi colleghi, Giorgia ha capito come si ottengono i consensi: con le cose di cui ci si vergogna. La cosa più divertente è che le militanti dei cuoricini, essendo intellettualmente inattrezzate, non si sono ancora rese conto di quanto lei somigli a loro
Io cerco di non scrivere tutti i giorni di Giorgia Meloni, ma la strada di questo buon proposito vede riproporsi quasi ogni giorno lo stesso ostacolo: che Giorgia Meloni è l’unica, tra coloro che si agitano sul palcoscenico politico in questo momento, che non sembri al disperato inseguimento della modernità.
È l’unica che assomigli al tempo sbandato in cui si muove – in cui ci muoviamo – e non so se gli assomigli per vocazione o perché s’è messa a studiarlo per tempo, ma insomma non fa l’effetto disperato che ottengono le mie coetanee che mandano a memoria le canzoni che piacciono alle figlie quindicenni.
Se posso usare esempi che stanno dalle parti di Thomas Bernhard e Robert Musil: Giorgia Meloni gioca nel campionato delle influencer che vendono dolenze e acrilico; gli altri candidati, in quello delle cinquantenni che, per sentirsi più vicine a figli dodicenni cui piacciono i Måneskin, mettono i cuoricini all’Instagram della fidanzata – venditrice di dolenze e acrilico – di Coso dei Måneskin.
Giovedì sera, quando la Meloni ha fatto il colpo da gran maestra del secolo della fragilità di dire come vi permettete di dirmi che discrimino gli obesi, io ho la mamma obesa, mi sono alzata in piedi ad applaudire. Poi ho pensato: ma non l’avevo previsto? Certo che l’avevo previsto, dopo aver letto la sua biografia, quindici mesi fa. (Voi non sapete la noia d’aver sempre già scritto tutto: avrei diritto a un risarcimento da parte di ogni politico di sinistra che ci arrivi tardi. Il che, considerato che tutti i politici di sinistra arrivano strutturalmente tardi su tutto, potrebbe rendermi ricca).
Sempre giovedì, Daniela Santanchè ha postato la schermata d’un augurio di morte alla Meloni, ovviamente spacciandolo per gravissima minaccia. L’ha potuto fare perché sono anni che la sinistra presentabile ci vende la clamorosa stronzata dell’odio on line come prologo di chissà quale violenza.
Invece di ringraziare le multinazionali che hanno creato uno sfogatoio sul quale ogni carneade s’accontenti di dirmi che merito lo stupro nonché di morire di fame e che nessuno al mondo ha mai fatto schifo quanto me, uno sfogatoio che evita al carneade di aspettarmi sotto casa con una rivoltella; invece di ammettere che il tizio che on line ci dice quanto facciamo schifo poi, se c’incontra al bar, ci chiede un video in cui facciamo gli auguri di compleanno a sua nonna; invece d’essere razionali, abbiamo deciso di drammatizzare.
Siccome sfogarsi on line è un fenomeno di massa, eccoci qua: che naturalmente a sinistra ci saranno tanti carneadi che notificano a Giorgia Meloni la loro repulsione quanti a destra ne accumula Laura Boldrini, e la campagna elettorale potrebbe essere ancora più noiosa di così, potrebbe essere una gigantesca gara a chi è più fragile vittima d’insulti. Grande sarebbe l’orchite sotto il cielo di questo spirito del tempo, ma le militanti dei cuoricini sarebbero in brodo di giuggiole.
Militanti dei cuoricini che, essendo intellettualmente inattrezzate, non si sono ancora rese conto di quanto la Meloni somigli a loro. Sì, proprio a loro, che hanno a cuore i profughi e l’aborto e tutte le giuste cause e mai mai mai penserebbero di avere qualcosa in comune con quella fascista.
Proprio a loro, che come Giorgia fanno d’ogni fragilità valuta, ma di Giorgia non hanno il catalogo perfetto: la mamma obesa, l’adolescenza col metabolismo lento, il papà che l’ha abbandonata, il cane zoppo, la maternità col senso di colpa delle donne che lavorano. Tutte, le ha. Voialtre che vi vendete ogni endometriosi e tassista scorbutico e fidanzato malmostoso (in neolingua: abusante) e maestra che non vi capiva e capi che vi hanno sottovalutate, voialtre ne avreste da imparare, da Giorgia, sull’influencing della dolenza.
Si capiva, leggendo il suo libro, da quella scena in cui Giorgia rievocava la sé stessa povera, figlia di madre sola nonché esaurita, unica bambina senza maschera a una festa di Carnevale. Certo che era Amy March. Certo che non aveva il vestito buono per stare in società. Voialtre eravate troppo impegnate a cercare di sentirvi Jo, che in Piccole donne era la fintissima sorella contenutista che vendeva i capelli per beneficenza, per sapere in che parte di quel romanzo risiedeva l’immedesimabilità. Troppo occupate a rappresentarvi come quella buona e giusta, per sapere come si ottengono i consensi: con le cose di cui ci si vergogna.
Sono un po’ stupita che Giorgia Meloni non si sia ancora appropriata del tema dell’odio on line. Foss’in lei, farei un vero colpo da maestra. Giorgia, dai retta, ti faccio da spin doctor gratis. Sfrutta tutta l’attenzione catalizzata da «io sono stata grassa, come potete pensare consideri deviati i grassi, io ho la mamma obesa, come potete pensare non voglia bene agli obesi» (bravissima, nessuno ti batte in spirito e neppure in tempo); poi, appena quell’attenzione lì cala, prendi una manciata di schermate d’insulti e buttati su una dichiarazione tipo: Vedete, vomitano veleno anche su di me, ma sono comunque per la libertà d’espressione.
Daresti modo alla sinistra presentabile di dire lo vedete, ve l’abbiamo sempre detto che la libertà d’espressione era una priorità da fascisti (sì, siamo arrivati a questi paradossi: Rushdie non può ridere perché gli si stanno rimarginando le coltellate e gli tira tutto e insomma ci prega di smetterla; di Orwell invece si sentono le risate dalla tomba); e a Enrico Letta di fare un bel cancelletto «Viva la censura».
Giorgia Meloni, Michela Murgia: "La vera domanda da farsi", un altro caso. Libero Quotidiano il 18 agosto 2022
Dopo Natalia Aspesi, non poteva mancare la voce di Michela Murgia al coro di donne di sinistra contro Giorgia Meloni. Il tema è noto: quanto è pericolosa la leader di Fratelli d'Italia? O meglio: è più pericolosa per l'Italia o per le italiane? Il tedio post-ferragostano genera mostri e la scrittrice sarda, sempre in prima fila nelle sue (a volte balzane) battaglie politiche e linguistiche contro la destra cattiva e gli uomini padri-padroni mette subito le cose in chiaro: "Se esistano o meno femministe di destra è una domanda che non porta da nessuna parte. Il giorno in cui mi metterò a dare patenti di femminismo alle altre donne deve ancora sorgere", spiega su Instagram. Il sospiro di sollievo è relativo.
"So però per certo che esiste un modo femminista di esercitare la propria forza e uno che femminista non lo è per niente. Ogni volta che incontro una donna potente, quello che mi chiedo è: che modello di potere sta esercitando? Se usa la sua libertà per ridurre o lasciare minima quella altrui, questo non è femminista. Che sia di destra o di sinistra, se chiama meritocrazia il sistema che salvaguarda il suo privilegio di partenza e nega i diritti di altre persone, questo non è molto femminista. Che sia di destra o di sinistra, se il suo modello di organizzazione dei rapporti è la scala e non la rete, nemmeno questo è particolarmente femminista".
"Che sia di destra o di sinistra, se la sua visione della fragilità altrui è paternalista e l’unica soluzione che le viene in mente è una protezione che crea dipendenza, questo è il contrario del femminismo. Che sia di destra o di sinistra, se per lei le funzioni patriarcali sono più importanti delle persone che le svolgono, questo senz’altro non è femminista. È quindi inutile chiedersi se Giorgia Meloni sia femminista o non lo sia solo perché è a capo di un partito. Fatevi domande sul suo modo di esercitare il potere e vedrete che il dubbio neanche vi viene". La risposta, insomma, lei la conosce già. E per mettere le mani avanti di fronte a possibili appunti, conclude: "Sì, conosco anche donne di sinistra che usano il potere così, ma nessuna corre il rischio di diventare presidente del consiglio". Forse solo perché, stando ai sondaggi, non ne hanno la possibilità.
Mirella Serri per “la Repubblica” il 18 agosto 2022.
Il termine "donna" è da tempo per Giorgia Meloni un vero tormentone dei suoi comizi. Ma la pasionaria della destra è davvero una paladina a tutto tondo delle ragioni femminili?
Oppure dietro alla parola magica "donna" c'è un trucco, si tratta di un modo per mascherare una concezione dell'altra metà del cielo assai conservatrice, per non dire reazionaria?
Meloni, per esempio, sottolinea ripetutamente qualità delle donne come "serietà, responsabilità e pragmatismo".
Ma contemporaneamente assicura che a loro non riconoscerà mai nessun percorso preferenziale: con lei al potere pari opportunità e quote rosa finiranno alle ortiche poiché trasformano il gentil sesso in panda, in una specie tutelata.
Con l'uso e l'abuso della parola "donna" Meloni addolcisce e mitiga molte delle sue più note e meno presentabili immagini: da quella di Giorgia militante "dura e pura" all'interno della sua "seconda famiglia" (così chiama la squadra della sua adolescenza, il Fronte della Gioventù schierato contro le istituzioni e i valori democratici) all'immagine della leader che si riconosce in "Dio, patria e famiglia", imperativo di conio fascista attraverso il quale mantiene il legame con la "sua" destra, missina e tradizionale.
Sempre facendosi forte della sua identità femminile. Giorgia cerca di fronteggiare conciliazioni difficili, come le polemiche sull'aborto: "Fratelli d'Italia non vuole l'abolizione della legge 194", ripete spesso.
Poi però opta per "il potenziamento dei centri di aiuto alla vita", ribadisce il suo "sì alla cultura della vita e no all'abisso della morte".
In generale disegna per le donne un ruolo molto simile a quello propagandato e praticato nel Ventennio, tutto centrato sulla cura della famiglia e sulla procreazione.
Altro che investimenti per la parità di genere in luoghi di lavoro inclusivi, altro che la creazione di sistemi di assistenza più equi, altro che la promozione dell'ascesa delle donne a posizioni di leadership! Meloni predica l'importanza dell'occupazione femminile, ma lo fa in termini generici, non adatti a tempi di grave crisi come gli attuali, e non considera le soluzioni che potrebbero davvero aiutare le donne a non essere discriminate sul lavoro, né tiene conto dell'aumento del gap salariale tra i sessi.
Sulla questione delle quote la leader di FdI aggiunge: "Da capo di un partito voglio poter scegliere le persone migliori, indipendentemente dal genere. Ma non ditelo a certe sedicenti femministe".
E aggiunge: "Non è importante quante siano le donne al comando, ma quale sia il grado di comando". Qui casca l'asino: proprio il suo partito è largamente dominato dai maschi a tutti i livelli.
L'obiettivo di Giorgia è "un welfare a misura di famiglia". Beninteso, una famiglia che non è contemplata per i soggetti lgbtq: "No a genitore uno e genitore due, noi difendiamo i nostri nomi perché non siamo codici".
Anche sugli abusi nei confronti delle donne Meloni si dimostra assai reticente: la Turchia e la Polonia sono fuoriuscite dalla Convenzione di Istanbul (per la prevenzione e l'eliminazione della violenza di genere) e il premier sovranista Viktor Orbàn, a cui la leader romana ha sempre fatto riferimento, si è rifiutato di ratificarla.
La punta di diamante della destra italiana dà segni che potrebbe seguire la medesima strada in un futuro non lontano. In Fratelli d'Italia i comportamenti beceri, offensivi nei confronti delle donne sono diffusi.
Si possono cogliere perle come "Chiamate qualcuno che le tappi la bocca con qualcosa di lungo e duro", "Povera scema", "Vomitevole", "Demente", "Posso dire du palle con 'ste propagande sulla violenza verso la donna?".
Non risulta che questi "fratelli" fallocrati siano stati espulsi dalla "famiglia" di Giorgia la quale nega che esista un maschilismo diffuso nella destra: eppure storici autorevoli, come Giuseppe Parlato e Piero Ignazi, documentano la notevole influenza che ha tra i giovani, per esempio, il pensiero di Julius Evola, feroce contro le donne-ostacolo alla piena espressione del virilismo e dell'eroismo maschile. Adesso la leader accusa di misoginia i suoi nemici politici. Ma lei adopera l'amato slogan "sono una donna", "sono una madre" per riportarci verso il Ventennio.
L’ultima cretinata della sinistra: “Per Giorgia Meloni le donne esistono solo se sono madri”. Riccardo Angelini 3 Agosto 2022 su Il Secolo d'Italia.
Patriarcale. Antifemminista. Fascista. Così Nadia Urbinati ha di recente bollato la proposta di Fratelli d’Italia di sostenere la natalità. Una proposta desunta da un programma elettorale che è del 2018 e non di oggi. Ma queste sono “sottigliezze” che alla sinistra non interessano. Pur di colpire l’avversario si inventano, come fa la Urbinati, che per Giorgia Meloni la donna esiste solo in quanto esercita la sua funzione riproduttiva. Come Mussolini e il fascismo, fa notare la studiosa femminista e di sinistra. Che proprio lì voleva andare a parare.
Urbinati: per Meloni la donna esiste solo se è madre
Ecco il succo del ragionamento di Nadia Urbinati, in un articolo pubblicato sul quotidiano “Domani”, uno dei più aggressivi contro Giorgia Meloni. “Si dice al primo punto che questo programma elettorale destina «il più grande sostegno alle famiglie e alla natalità della storia d’Italia». Certo! Tutto ruota intorno alla donna-madre. Non ci si faccia ingannare – e probabilmente molti/e si faranno ingannare: questa attenzione assistenziale presume che la famiglia e i figli siano l’orizzonte di vita della donna, e soprattutto che siano a suo carico. La donna, come donna, non è presente: lo è come madre e come italiana. In linea con la fotografia che Giorgia Meloni ha voluto dare di sé in questi anni: una madre italiana che lavora. La donna ha una funzione produttiva perché prima ha una funzione riproduttiva. Non serve molta immaginazione per riandare alla tradizione fascista…“.
Pregiudizi radicati a sinistra
Invece di fantasia ne occorre molta. E soprattutto ci vogliono pregiudizi molto radicati per avventurarsi in queste arrampicate dialettiche. Che tra l’altro – ripetiamo – prendono spunto da un programma del 2018. Ecco, in ogni caso, il punto commentato da Urbinati: “Asili nido gratuiti e aperti fino all’orario di chiusura di negozi e uffici e con un sistema di apertura a rotazione nel periodo estivo per le madri lavoratrici. Reddito infanzia con assegno familiare di 400 € al mese per i primi sei anni di vita di ogni minore a carico. Quoziente familiare in ambito fiscale. Deducibilità del lavoro domestico. Congedo parentale coperto fino all’80% ed equiparazione delle tutele per le lavoratrici autonome. Incentivo alle aziende che assumono neomamme e donne in età fertile. Tutela delle madri lavoratrici e incentivi alle aziende per gli asili nido aziendali. Deducibilità del costo ed eliminazione dell’IVA sui prodotti per la prima infanzia. Intervento sul costo del latte artificiale. Difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita“.
La libertà di scelta è sostenuta dalle politiche family friendly
Si può comprendere che Urbinati, seguendo le dotte elucubrazioni di Elodie, sia spaventata da queste istanze ma in che modo esse possano interpretarsi come nemiche delle donne è davvero difficile da dimostrare visto che la libertà di una donna di essere madre o no si misura anche col grado di sostegno che le istituzioni sono in grado di darle. Con la sostanza di politiche che oggi chiamano “family friendly” e che sono proprio quelle auspicate da FdI. Altrimenti la strada è obbligata: si sceglie di non essere madre non per libera scelta ma per necessità. E’ questo che vuole la sinistra?
Meloni: “L’ideologia gender mira alla scomparsa delle madri. Noi difenderemo l’identità femminile”. Augusta Cesari il 29 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.
“L’ Occidente ha rinunciato alla sua anima, ha svenduto i suoi valori al miglior offerente”: un passaggio lungamente applaudito. Giorgia Meloni ha parlato di famiglia, di donne, di maternità, di bambini alla Conferenza programmatica di Fdi a Milano. Il discorso non potava non toccare una battaglia che FdI ha combattuto e vinto. “I bambini non sono prodotti da banco, non si comprano. Eppure è quello che esattamente accade ogni giorni grazie alla pratica mostruosa dell’utero in affitto. Vi rendete conto? – interroga la platea- . Uomini ricchi che pagano donne povere per portare in grembo un bambino che poi le verrà tolto. Questo, signori, non è non è sintomo di modernità. E’ una pratica infame. significa confondere i desideri con i diritti. E’ sostituire Dio con il denaro”.
Utero in affitto e ideologia gender
Già, se la pratica che mercifica il corpo delle donne diventerà reato punibile in Italia anche se commesso all’estero, lo dobbiamo a FdI. La Commissione Giustizia della Camera ha adottato come testo base la proposta di legge di Fratelli d’Italia per rendere l’utero in affitto reato universale. Una vittoria su cui si cui Giorgia Meloni si è soffermata con parole vibranti che hanno infiammato la platea.
“La famiglia è sotto attacco”
La famiglia è l’architrave della società. E “‘architrave della famiglia sono le donne in quanto madri. Se andiamo oltre gli slogan, ci renderemo conto che il vero obiettivo non dichiarato dell’ideologia gender è la la scomparsa della donna in quanto madre. Lo ha spiegato con lucidità Eugenia Roccella, in un convegno al quale ho partecipato”, ha ricordato. “L’individuo indifferenziato di cui parlano i paladini dell’ideologia gender non è poi tanto indifferenziato. E’ maschio. Fateci caso. L’uomo può essere tutto, madre, padre, in un’infinita gamma che va dal maschile al femminile. Se ci fate caso- ha scandito- le parole più censurate dal politicamente corretto sono donna e madre. Perché? Perché si vuole distruggere la straordinaria forza simbolica della maternità”.
“Questo è il tempo delle donne”
Ha proseguito Giorgia Meloni: “E’ nel rapporto madre figlio che si fa esperienza dell’amore gratuito, della cura, dell’acccettazione delle imperfezioni: ecco perché quell”architrave’ è un nemico. E noi – avvisa le vestali del mainstream dominante – difenderemo non solo l’identità delle donne. Di più. Noi anzi pensiamo che questo è il tempo delle donne. Dentro e fuori le mura domestiche“. C’è tanto lavoro da fare – ammette-. “L’unica ragione per cui vogliamo arrivare in vetta è che da lì sapremo guardare più lontano”.
L’ossessione di Repubblica per Giorgia la nera…Diventa virale quel video del lontano 1996 in cui Giorgia Meloni sostiene che Benito Mussolini sia stato un buon politico. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 18 agosto 2022.
Da ieri nella rete circola un video del lontano 1996 in cui Giorgia Meloni, in un apprezzabile francese, sostiene che Benito Mussolini è stato un buon politico perché amava il suo paese. La leader di Fratelli d’Italia all’epoca aveva 19 anni ed era una giovanissima militante di Azione studentesca, il movimento giovanile di Alleanza Nazionale.
A 19 anni si dicono tante sciocchezze, alzi la mano chi non lo ha fatto; anche ( e soprattutto) nella nostra classe politica, quanti tra deputati, senatori, sindaci governatori e ministri, in gioventù sono scesi in piazza gonfi di ormoni gridando slogan violenti e ultra- radicali, alcuni anche commettendo reati gravi e subendo persino condanne penali. A destra come a sinistra. Rimproverare a Giorgia Meloni la breve intervista rilasciata a France 3 26 anni fa vuol dire non avere più argomenti seri per contrastarla se non l’allarme farlocco al “pericolo fascista”, una cantilena che ormai sembra svuotata di senso tanto suona a sproposito. E significa costruire la campagna elettorale per demolire il nemico, con il morboso rimestare nel passato, nella speranza di sollevare un po’ di fanghiglia e magari di scoprire imbarazzanti scheletri nell’armadietto di famiglia. Una campagna a tema, vuota di contenuti, che sconfina nel dossieraggio.
Come l’ “Inchiesta su M” che la Repubblica consacra alla nostra eroina ; da notare la finezza, M come il Mussolini di Antonio Scurati, o come il Mostro di Dusseldorf di Fritz Lang, tanto per alimentare la narrazione ansiogena attorno alla candidata del centrodestra che starebbe calando su Palazzo Chigi assieme con la sua orda fascio- barbarica.
Decine di articoli scritti dalle firme di punta del giornale ( naturalmente tutti uomini) racchiusi in un unico lunghissimo file presentato con il pedante occhiello “Longform” ( una specie di versione giornalistica dell’urticante slow food), inchiestone definitive sulle allarmanti “anime nere” che ruotano intorno alla galassia di Giorgia, sui nostalgici del Duce, sulle fantasie “orbaniane”, sulla cerchia degli amici ristretti che ancora oggi si chiamano con i nomignoli e soprannomi di quando erano giovani e forti, roba da teppaglia romana di periferia, un po’ come i protagonisti di Romanzo criminale.
Oltre al sarcasmo classista sulla ragazzotta di borgata, non potevano mancare le esaltanti incursioni nel gossip e nel bodyshaming, vera specialità della ditta di Largo Fochetti, che raccontano quanto da adolescente Giorgia fosse sovrappeso ( 65 chili ma per i nostri aspiranti al premio Pulitzer era una ragazzina «obesa» ) e quanto venisse bullizzata dai coetanei ( sarà per questo che è diventata cattiva come i villain dei film), poi l’amore sconsiderato per la Nutella che addirittura «mangiava con le mani».
Ormai è un filone letterario. Animato da autori intrepidi che non temono il senso del ridicolo. A pensarci bene il racconto potrebbe arricchirsi di altre clamorose rivelazioni, come Giorgia a 8 anni che schiaccia una lucertola, Giorgia a 10 anni che fa il saluto romano ai gabbiani, oppure Giorgia a 12 anni che entra al cinema senza pagare il biglietto, o Giorgia a 16 anni che risponde male ai professori.
In compenso sempre Repubblica ci ha lasciati senza parole con un altro sensazionale scoop: in gioventù Giorgia era una tifosa della Lazio. Capito? Lei che si professa romanista da sette generazioni in realtà sarebbe di fede calcistica biancoceleste, ulteriore prova di opportunismo e doppiezza. Lo hanno scoperto andando a ficcanasare in un vecchio sito web della fine degli anni 90, Undernet, in cui si faceva chiamare “draghetta”. Con avversari del genere è logico che la destra non abbia nemmeno bisogno di fare campagna elettorale, basta sedersi e aspettare il cadavere del nemico sul ciglio del fiume cosa che avverrà immancabilmente il prossimo 25 settembre.
Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 29 settembre 2022.
I giornali della destra, che cannoneggiavano un giorno sì e l'altro pure contro Draghi, adesso sarebbero a corto di bersagli. Ma ne hanno già trovato uno: gli avversari di Giorgia Meloni. E dunque Il Giornale spara nel mucchio, "Sciacalli in agguato", mentre Libero prende la mira su Antonio Scurati: "Il principe dei rosiconi: l'uomo di M", dove M non sta per Mussolini ma per qualcos' altro. Quando si dice lo zelo: il nuovo governo deve ancora nascere, però loro si portano avanti col lavoro.
Carlo Bonini per “la Repubblica” il 29 settembre 2022.
Come un disco rotto ripetono che no, che questa storia del fascismo che ritorna è una boiata per mummie del Novecento o da maniaci compulsivi. Che le braccia tese sono folklore o, meglio, un equivoco.
Che il culto di Predappio e della fiamma è solo museale. Che è caricaturale e in mala fede ritrarre il vento che soffia nelle vele del tempo nuovo come una riproposizione di suggestioni, stilemi, riflessi, di una Storia che non può ripetersi. E tuttavia, guardate un po', nel giorno tre dell'anno uno dell'era di M., accade che sulla prima pagina dell'edizione di ieri del quotidiano Libero, si organizzino una bella bastonatura e olio di ricino.
E di chi? Del "principe dei rosiconi", lo scrittore Antonio Scurati, colpevole autore della trilogia M, il figlio del secolo, e per questo gratificato di un titolo a cinque colonne che ha l'eleganza e la nuance di un rutto e la violenza verbale utile ad annichilire ogni genere di replica: "Uomo di M". Si, "Uomo di M", dove nel simpatico calembour, M potrebbe stare, alternativamente, per Mussolini o per il più prosaico "merda".
La trovata lessicale deve essere suonata così brillante e icastica all'orecchio di chi l'ha concepita che, nell'editoriale che la accompagna, a firma del direttore responsabile Alessandro Sallusti, se ne ripete e chiarisce l'uso, perché sia chiaro a tutti di quali infamie il reprobo scrittore si è macchiato.
Antonio Scurati è "un uomo di M.", di Mussolini" o di "merda" (scelga il lettore), perché "in un'intervista rilasciata a un importante sito francese, ha definito Giorgia Meloni e Fratelli d'Italia eredi di Mussolini". "È un uomo di M.", di Mussolini o di merda (scelga il lettore) perché è recidivo, "avendo già detto parole simili in una trasmissione televisiva di Lilli Gruber.
"È un uomo di M.", di Mussolini o di merda (scelga il lettore) perché nella sua trilogia "mischia storia a romanzo", "perché sputtana un Paese all'estero e fa passare per stupidi e ignoranti milioni di italiani". Ma sì, conclude il nostro, "L'uomo di M., è uomo di M. fino in fondo, e più fa l'uomo di M., più fa ascolti".
Si potrebbe evidentemente liquidare la faccenda facendo spallucce, vista la tribuna da cui proviene e lo stile della casa che la contraddistingue, consegnandola alla semplice commiserazione che merita.
E tuttavia, non è una buona idea accodarsi al silenzio assordante che ormai, da tempo, accoglie bastonature e olio di ricino a mezzo stampa (di cui Libero per altro non detiene il monopolio) e che lascia alle vittime di turno la scelta se difendersi in solitudine o tacere (ha fatto eccezione il ministro Roberto Speranza che ha voluto offrire pubblicamente la sua solidarietà a Scurati). Il silenzio ha definito e definisce infatti un nuovo contesto.
Che non ha a che fare solo con l'igiene delle parole, ma con un senso comune, questo si, tecnicamente e storicamente, fascista, per cui chi non sale sul carro della nuova Italia, avrà ciò che si merita. Solitudine, bastonature, e magari un po' di schizzi di M.
Oggi tocca a Scurati, uno scrittore, poi si procederà per categorie: cantanti, artisti, intellettuali, meglio se omosessuali (pardon, froci) o transgender, e giù per li rami. La violenza delle parole, di solito, dissimula il vuoto pneumatico degli argomenti. Ma, appunto, comincia a esserci qualcosa di più.
E il problema non è la sinistra rosicona che "le spara grosse", che non sa adeguarsi allo spirito del tempo, al "parla come mangi". È l'aria che tira. Quella del guai ai vinti, normalmente anticamera della libertà di parola a geometria variabile. Ma, naturalmente, anche queste sono ubbie da vecchi arnesi. Libero, nella persona di Vittorio Feltri, direttore editoriale del quotidiano e tribuno di Fratelli d'Italia, assicura che "Uomo di M." sta per Mussolini. E che se Scurati la intende come merda "vuol dire che si sente così". Appunto.
Sallusti dice che Scurati è l’uomo di “M”: e che male c’è? Emanuele Beluffi su Culturaidentita.it il 29 Settembre 2022
Cos’è il genio? E’ fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione. Non possiamo non citare il Melandri (interpretato dal grande Gastone Moschin) di Amici miei per commentare il podcast di Alessandro Sallusti dove lo scrittore Antonio Scurati viene definito come “l’uomo di M”. E che c’è di male? Non si intitola forse M la sua trilogia (ma quando finirà questa moda delle trilogie?) su Benito Mussolini (M il figlio del secolo, M uomo della provvidenza e M gli ultimi giorni dell’Europa)?
Dunque Scurati è l’uomo di M. Ma lo scrittore si indigna: “insulto volgare, del tutto chiaro nel suo significato”, dichiara all’AdnKronos. E dov’è la strizzatina d’occhio alla Umberto Eco? Non è invece una semplice verità, come dire “il libro è sul tavolo”? Scurati è o non è l’uomo di M, l’autore dei libri (repetita iuvant) M il figlio del secolo, M uomo della provvidenza e M gli ultimi giorni dell’Europa?
I titoli sono lunghi, dire “Scurati, l’autore di M” è come dire “Dante, l’autore della Commedia”, è economia di scrittura ma è anche un tributo a uno scrittore che ha fatto i soldi grazie a M e noi siamo contenti per lui.
Che M sia commercialmente profittevole se ne è accorta anche la Feltrinelli, la casa editrice di Giangiacomo che, oltre a pubblicare Il Dottor Zivago in anteprima mondiale, pubblicò Italia 68: guerriglia politica. Tesi e proposte per una avanguardia comunista, proprio lui, il volenteroso sostenitore dei guerriglieri che faceva gli shooting fotografici in pelliccia: in libreria è appena uscito un tomo di 700 pagine sui discorsi del Duce firmato Feltrinelli, dici poco (e che tempismo).
Ma la Meloni e FdI sono gli eredi di Mussolini e quindi rappresentano un pericolo per l’Europa: così parlò Scurati a un giornale francese.
Che barba, che noia questi antifa da salotto in assenza di fascismo. Poco tempo prima, ospite della Gruber, Sallusti fa notare allo scrittore che forse le sue esternazioni sul pericolo fascismo in Italia sono un tantino eccessive e che andrebbero argomentate; si vede replicare con una frase tipo «Lei non sa chi sono io, s’informi». Appunto. Il direttore responsabile di Libero scopre che anche Scurati, come Saviano, qualche castroneria nei suoi libri l’ha presa: “E mi sono ricordato”, scrive Sallusti su Libero, “che all’uscita del suo primo libro, M Il figlio del secolo, un vero professore, Ernesto Galli Della Loggia, lo aveva preso in castagna- ma i francesi questo non lo sanno – sui non pochi svarioni contenuti nella sua opera […] Eccolo qua, l’uomo di M. che mischia storia a romanzo, perché così funziona, così vuole il grande pubblico, così si vendono tanti libri”.
E’ la storia che si ripete: vi ricordate quando, nel 1994, un noto presentatore tv scrisse su Cuore che il centro destra aveva vinto le elezioni perché, testuale, “l’Italia è un Paese di m. (no, non quella M di cui stiamo parlando, n.d.r.) e gli italiano sono delle teste di c.”? Oggi 28 anni dopo è l’eterno ritorno dell’uguale, a sinistra dicono che FdI è il primo partito perché gli italiani sono scemi, hanno sbagliato a votare e le cancellerie europee fremono perché in Italia governeranno gli eredi del Duce e le Borse vanno giù (non è vero niente, anzi continuano a fare affari e il giorno dopo la vittoria della Meloni era Toro alla Borsa di Milano, altro che crollo di Wall Street per il ritorno del Fez).
Non puoi farci niente, è un riflesso condizionato della sinistra, la destra deve essere come dicono loro, una donna premier va bene solo se comunica con le e rovesciate e gli asterischi e il governo deve baciare la pantofola agli euroburocrati di Bruxelles.
Non conta che il 25 settembre scorso “milioni di italiani abbiano esercitato il diritto di voto e che presumendo di essere in una democrazia sperano di vederlo rispettato e applicato”.
E’ già successo, in 11 anni di governi sinistri che non sono passati dalle elezioni. Facciamo in modo che la storia non si ripeta. E si facessero una risata ogni tanto questi indignati speciali da presidio democratico permanente.
Enrico Franceschini per repubblica.it il 18 agosto 2022.
Il titolo di copertina dello Spectator è "Prima donna", ma l'articolo spiega fin dalle prime righe il doppio senso: Giorgia Meloni non è solo una protagonista nel teatro della politica italiana, ma potrebbe presto diventare la prima donna a Palazzo Chigi nella storia italiana.
L'autore del pezzo, Nicholas Farrell, è un noto giornalista inglese che conosce bene il nostro Paese: ha sposato un'italiana, vive in Italia, ha scritto un libro giudicato "revisionista" su Benito Mussolini (apprezzando il "carisma" e il "fenomenale machiavellismo" del duce), collabora al quotidiano Libero.
Ma è anche il corrispondente da Roma dello Spectator, storico settimanale conservatore britannico, una rivista raffinata, letta per le sue rubriche culturali anche da chi non ne condivide le opinioni politiche (…). Proprio per lo Spectator, Farrell ha firmato anni fa la sua intervista più celebre, a Silvio Berlusconi. Quella alla leader di Fratelli d'Italia aspira a fare non meno rumore.
"Giorgia Meloni è la donna più pericolosa d'Europa?" è il titolo del servizio. La risposta è lasciata a lei stessa, che smentisce le accuse nei suoi confronti. Farrell osserva: "Minuta e amichevole, Meloni certamente non corrisponde alla mia idea di un fascista". Ma questo non lo trattiene dall'incalzarla con le sue domande. Perché viene sempre definita "di estrema destra", un modo moderno di dire fascista? "Una campagna diffamatoria da parte dei miei oppositori politici che sono ben addentrati nei centri nevralgici del potere", replica la leader di FdI. "Gli attacchi contro di me in rapida successione possono solo avere un singolo agente. La sinistra controlla la cultura, non soltanto in Italia".
Sul minacciato blocco navale per fermare i migranti, Meloni nega ogni intento discriminatorio dal punto di vista razziale: "I razzisti sono dei cretini, okay? Ma questo non significa che l'Italia non debba coordinare i suoi flussi migratori". La sua soluzione preferita, dice a Farrell, è che l'Unione Europea paghi la Libia per fermare gli imbarchi e si riprenda quelli che sono sbarcati in Italia. "I confini esistono solo se vengono difesi. L'Italia ha bisogno di una quota di migranti, ma la prima regola è che nessuno deve entrare in Italia illegalmente".
Ma l'Italia, domanda l'intervistatore, non avrebbe bisogno di migranti per risolvere il suo spaventoso calo demografico? "Bisogna risolvere il problema a casa nostra, mettendo gli italiani in una posizione che li spinga ad avere più figli. Le donne non vogliono avere bambini perché vivono in una società che fa pagare loro un prezzo se ne hanno. Bisogna invece premiarle per essere madri".
Un'altra domanda è sui legami storici con il fascismo: Fratelli d'Italia non è forse l'erede di Alleanza Nazionale, che è l'erede del Movimento Sociale Italiano, che fu fondato dagli ex-fascisti nel 1946? "Quando abbiamo fondato Fratelli d'Italia, l'abbiamo fondato a testa alta come partito di centro-destra.
Quando sono qualcosa, io lo dichiaro. Non lo nascondo mai. Se fossi fascista, direi che sono fascista. Invece non ho mai parlato di fascismo perché non sono fascista". Poi Meloni ricorda una frase che disse a un giornalista "di sinistra" una ventina d'anni or sono: "Mussolini fece vari errori, le leggi razziali contro gli ebrei, la dichiarazione di guerra, un regime autoritario. Storicamente fece anche altre cose che erano buone, ma questo non lo salva".
Farrell cita il recente video in tre lingue in cui la leader di Fratelli d'Italia afferma di non avere alcuna nostalgia per il fascismo, poi le chiede: e allora che dice dei membri del suo partito che fanno il saluto fascista?
"Sono una piccola minoranza", risponde Meloni. "Ho sempre detto ai miei dirigenti di partito di esercitare massima severità contro ogni manifestazione di una nostalgia da imbecilli, perché non siamo noi quelli che hanno nostalgia del fascismo. Lo sono soltanto gli utili idioti della sinistra". E perché rifiuta di togliere la fiamma come simbolo del suo partito? "Non ha nulla a che vedere con il fascismo, bensì è il riconoscimento del viaggio fatto dalla destra democratica nel corso della storia della nostra repubblica. Ne siamo orgogliosi".
Alla fine dell'intervista, la donna che potrebbe diventare la prima premier d'Italia, o la più pericolosa d'Europa, rivela due delle sue fonti di ispirazione. Una è Roger Scruton, filosofo conservatore inglese: "Credo che la grande sfida globale di oggi, non solo in Italia, sia tra coloro che difendono un'identità e coloro che non la difendono. Scruton diceva che, se distruggi qualcosa, non costruisci necessariamente qualcosa di nuovo e di meglio. Se fossi britannica, probabilmente voterei per i Tories". E l'altro suo punto di riferimento politico culturale è J.R.R. Tolkien: "Il Signore degli anelli non è un libro che ti insegna qualcosa. È un libro che ti insegna a scoprire chi sei". Dopo le elezioni del 25 settembre potrebbe toccare agli italiani, sembra concludere Farrell, scoprire chi è Giorgia Meloni.
Fratelli d'Italia e lo scoglio della storia. Giorgia Meloni è antifascista, lo dica chiaramente! Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Agosto 2022
Credo che abbia fatto molto male Enrico Letta a farsi sfuggire quella frase su Giorgia Meloni e la cipria. Non penso che la sua battuta fosse sessista, nelle intenzioni, oggettivamente però sessista è risultata. E ha finito per fare da contrappeso alle ignominie qualunquiste del Fatto e dei giornali di destra contro Elisabetta Piccolotti e Michela de Biase, dirigenti di Sinistra Italiana e del Pd. Sarebbe ora che i politici italiani maschi la smettessero di considerare l’esser donna un handicap da sottolineare o qualcosa di buffo da sbeffeggiare. O almeno cercassero di levare questa convinzione dai loro automatismi retorici. Che sono un po’ come il braccio teso che il dottor Stranamore non riesce a trattenere.
Detto questo, e dopo aver ascoltato il discorso alla stampa estera di Giorgia Meloni, secondo me un problema che la riguarda, in questa campagna elettorale, è sul tappeto. La vecchia questione del fascismo. Che è stata sempre presente nelle polemiche politiche italiane, ma di solito come fattore laterale alla battaglia politica. Stavolta assume un valore particolarissimo per due ragioni, Una casuale, ma simbolicamente di grande peso, e cioè la coincidenza delle elezioni con il centenario dei giorni tragici nei quali fu preparata e poi realizzata la marcia su Roma di Mussolini. L’altra, molto più stringente, che consiste nella altissima probabilità che per la prima volta nella storia della repubblica un’erede del Msi, che fu erede del fascismo, possa assumere la guida del governo.
Qual è il problema, che Meloni è fascista? La conosco abbastanza bene: non è fascista.
Il problema è che il fascismo in Italia è stato al potere, ha provocato inauditi disastri, ha facilitato lo sterminio degli ebrei, ha portato il paese alla rovina, e alla fine è stato fortunatamente sconfitto dagli eserciti alleati con l’aiuto valoroso, e in molti casi eroico, della resistenza, cioè dei partigiani comunisti, socialisti, liberali e cattolici. E che di conseguenza l’antifascismo è diventato un valore fondante della repubblica, ed è stato per decenni il baluardo contro ogni tentazione autoritaria. Giorgia Meloni è stata chiara, nella dichiarazione alla stampa estera: Il fascismo per noi è il passato. Chiara, ma non chiarissima. Trascrivo qui di seguito il passaggio decisivo della sua dichiarazione: “La Destra italiana ha consegnato il fascismo alla storia ormai da decenni, condannando senza ambiguità la privazione della democrazia e le infami leggi anti-ebraiche. E senza ambiguità è ovviamente anche la nostra condanna del nazismo e del comunismo, l’unica delle ideologie totalitarie del XX secolo che è ancora al potere in alcune nazioni, sopravvivendo ai suoi tragici fallimenti, che la sinistra fatica a condannare, forse anche perché dall’Unione Sovietica ha ricevuto per decenni generosi finanziamenti”.
Ci sono due punti deboli in questa dichiarazione. Il primo è che Giorgia Meloni inizia condannando alcune infamie del fascismo ma poi trasforma la sua polemica in polemica anticomunista. Non funziona. Il problema dell’Italia non è stato quello di essere stata governata per vent’anni (o per dieci, cinque, uno solo…) da una dittatura comunista, ma di essere stata governato per vent’anni da una dittatura fascista. Non è un dettaglio. Se io fossi ungherese credo che mi dichiarerai sicuramente anticomunista, perché il mio paese – l’Ungheria – è stato oppresso dal comunismo russo e ungherese. Ma l’Italia è stata oppressa dal fascismo, e il comunismo italiano è sempre stato perfettamente democratico. E se poi vogliamo andare a vedere perché, al fondo, il Pci (e anche il Msi), sono stati partiti democratici, torniamo al punto di partenza: non potevano fare altrimenti perché in Italia dominava il valore dell’antifascismo. Inteso come difesa dei valori della democrazia, della libertà, della tolleranza, dello stato di diritto, della lotta alla sopraffazione e alla repressione. E io oggi aggiungo: del garantismo. Cara Meloni, la chiave di tutto è lì: nella definizione dell’antifascismo, che è una grande idea liberale e libertaria e non è solo la condanna per la storia del mussolinismo. Non basta condannare Mussolini, o alcune sue scelte, per essere antifascisti.
Possibile che la destra italiana, ciclicamente, debba tornare al punto di partenza? Almirante sicuramente guidò un partito democratico, e inventò quella formula del “né restaurare né rinnegare” che ebbe successo, ma certo non fu una rottura col fascismo. Era molto ambigua. Fini andò oltre, prima divise in due la storia del fascismo, disse che c’era una storia buona fino all’entrata in guerra (in quel periodo Mussolini fece uccidere Matteotti, arrestare Gramsci e Terracini, spedire in esilio Sturzo, Nenni, Rosselli, Saragat, De Gasperi, e alcune altre migliaia di esponenti democratici) e poi una storia cattiva con le leggi razziali e la guerra. Qualche anno dopo andò oltre e parlò di “male assoluto”: ma si riferiva ad Hitler e non a Mussolini. Ecco, onorevole Meloni, ora tocca a lei. Ha l’occasione per fare chiarezza assoluta. Pronunciare quella frase che assomiglia al Rubicone: “Sono Giorgia e sono antifascista”. Perderà il 2 per cento dei voti? Può darsi. Però avrà trasferito in modo definitivo e irreversibile la destra italiana nel campo della democrazia. Non le sembra che valga la pena?
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
La storia d’Italia e le ombre del passato. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.
Non si può guidare la Repubblica italiana se non si accetta il fatto che essa ha le sue radici nell’antifascismo. Chi non intende accettare i verdetti della storia è difficile che possa avere un grande avvenire in politica. In nessun altro Paese dell’Europa occidentale come da noi, tra fascismo prima e comunismo poi, si è avuta una così grande diffusione di culture politiche ostili alla democrazia liberale
Non si governa la Gran Bretagna se chi la governa non si riconosce nella monarchia, né la Francia se si rifiuta l’eredità della Rivoluzione. Allo stesso modo non si può guidare la Repubblica italiana se non si accetta il fatto che essa ha le sue radici nell’antifascismo. Un fatto stabilito innanzi tutto dalla storia: e chi non intende accettare i verdetti della storia è difficile che possa avere un grande avvenire in politica. Ma ciò detto — dunque con relativo invito alla destra perché si disfi senza se e senza ma di ogni rimasuglio nostalgico (perché alla fine di questo si tratta a me pare: di rimasugli) — ciò detto, esiste un altro ordine di considerazioni egualmente importanti che riguarda il passato italiano. Si tratta del fatto che in nessun altro Paese dell’Europa occidentale come da noi, tra fascismo prima e comunismo poi, si è avuta una così grande diffusione di culture politiche ostili alla democrazia liberale. Alle spalle dell’Italia che oggi va a votare ci sono insomma due lunghi passati antidemocratici, milioni di italiani che li hanno condivisi, tradizioni tenaci che da lì sono nate.
Di fronte a questi passati è possibile, per chi ne ha voglia, dividere gli antidemocratici buoni da quelli cattivi e naturalmente stare dalla parte dei buoni e della loro storia, qualunque cosa ciò possa oggi significare. Per 80 anni è stato abbastanza inevitabile che fosse così. Ma oggi? Oggi è forse possibile un atteggiamento diverso, più corrispondente alla realtà delle cose. Vale a dire considerare questi due passati apparentemente opposti come un tutto unico peculiarissimo della vicenda nazionale italiana, che va compreso per ciò che esso è realmente stato. Quel tutto unico — la presenza così centrale di fascismo e comunismo nella nostra storia — non è stato un caso. Esso ha significato un momento decisivo del lungo travaglio dell’Italia del popolo, delle enormi masse povere e sfruttate, perlopiù racchiuse nel buio della più cupa ignoranza, quali esse erano agli albori dello Stato unitario, per giungere alla moderna cittadinanza. Ha insieme rappresentato anche lo sbocco di un disagio morale e politico che tale condizione non aveva mancato di produrre fin dall’inizio in alcuni settori dell’élite del Paese.
Ma la miseria e l’analfabetismo si accordano male con la democrazia liberale, con le sue procedure, con la libertà di stampa e le elezioni. Suggeriscono altre strade per raggiungere l’emancipazione. Per una parte importante la nostra storia è stata per l’appunto la storia di queste «altre strade», che si sono chiamate fascismo e comunismo. Nell’un caso e nell’altro - nel ’19 e nel ’43, non a caso in coincidenza con due guerre sconvolgenti - proprio tali strade furono imboccate da minoranze guidate da giovani intellettuali perlopiù di estrazione piccolo borghese i quali, sprezzanti dell’antico ordine liberale e confidenti nell’uso della forza, erano intenzionati ad aprire la via a un’Italia nuova: declinata secondo gli uni nella prospettiva della potenza della «nazione proletaria», secondo gli altri nella prospettiva del rovesciamento dell’ordine capitalistico-borghese. Usando entrambi la violenza, certo: dal momento che la violenza era nell’aria dei tempi e era la via più radicale e per dei giovani anche quella più carica di fascino. Una violenza che dai fascisti fu impiegata a piene mani e con ferocia, conseguendo il successo che si sa. Dagli altri invece, dai comunisti, fu solo sporadicamente praticata nel ’45, per poi essere esclusivamente teorizzata ed evocata, ma a lungo ammirata e politicamente condivisa, nelle innumerevoli forme di brutalità e di crudeltà efferata che fin dall’inizio avevano caratterizzato la rivoluzione bolscevica e la Russia sovietica dalla quale il loro partito traeva origine, prestigio e denaro.
Chi guarda con lo sguardo lungo e profondo della storia sa che l’Italia moderna è nata per una parte significativa così, da questo succedersi e sovrapporsi di culture antidemocratiche. Sa che essa ha preso le mosse dal fascismo grazie a non pochi istituti pubblici e alcune decisive esperienze industriali da esso varati, grazie ai primi interventi del suo Stato a favore delle masse, alle sue aperture al nuovo nel campo delle arti e delle idee. Così come sa quanto è stata importante nell’Italia repubblicana l’azione e la pressione del partito comunista e delle sue organizzazioni, in specie quelle sindacali – e forse ancor più l’azione spontanea di tanti suoi militanti- per arginare ingiustizie, garantire diritti, per aprire spazi di libertà e per lo svecchiamento del Paese. Ma non solo: anche per suscitare e organizzare, ad esempio, tante vocazioni imprenditoriali di piccola e media portata, talora di grande successo, nelle regioni dove più forte era la presenza dei «rossi».
Il fascismo e il comunismo sono stati entrambi qualcosa di profondamente italiano e nazionale, profondamente nostro e familiare (e forse proprio perciò destinati a suscitare quell’odio che solo nelle famiglie può durare in eterno). Sono stati entrambi l’espressione di un tratto di fondo della storia italiana novecentesca che è stato il populismo (un aspetto assai diverso del quale è stato pure il popolarismo cattolico). Un populismo che non c’entra nulla con quello di cui si parla oggi perché esso ha voluto dire la centralità assegnata all’elemento popolare e al suo riscatto storico debitamente trasfigurato nell’ideologia della Nazione in un caso e della Rivoluzione nell’altro.
L’Italia deve ancora compiere un’opera di autocomprensione di sé in relazione a questo suo passato così complesso che ha visto la contrapposizione feroce tra due estremi, in qualche modo provenienti tuttavia da una medesima radice e con più di un aspetto in comune. Oggi che tutto è finito, tenere in vita e alimentare tra di essi ( o meglio tra i loro presunti e pallidissimi epigoni) le ostilità di un tempo serve solo a rinviare l’inevitabile momento di una tale presa di coscienza. Serve soprattutto a distorcere e inquinare perennemente il confronto politico all’interno del nostro Paese, rinchiudendo tale confronto in uno schema sempre eguale, in un recinto senza vie d’uscita che condanna l’Italia a un virtuale immobilismo maledettamente simile alla paralisi. Farsi consapevoli del passato italiano non significa un banale embrassons nous, non significa l’oblio. I torti e le ragioni stanno ormai scritti nella storia, che registra tutto e aiuta a non dimenticare. Ma la storia non è una prigione, non può essere la prigione del nostro futuro.
QUEI RIPETUTI ALLARMI CONTRO LE DITTATURE CHE RISCHIANO DI UCCIDERE L'ANTIFASCISMO. Giovanni Orsina per “la Stampa” il 18 agosto 2022.
Son parecchi anni, ormai, che l'antifascismo non se la passa troppo bene. A giudicare da com' è cominciata, non è impossibile che questa campagna elettorale finisca per ucciderlo definitivamente. Con un'aggravante: che a vibrargli il colpo di grazia saranno stati proprio gli antifascisti. Come quella della patria per Salvatore Satta, la morte dell'antifascismo potrebbe rivelarsi «l'avvenimento più grandioso», se non delle nostre vite, quanto meno di questa stagione della nostra storia.
La Repubblica italiana sorge sulle macerie del fascismo dandosi valori diametralmente opposti a quelli del regime e proponendosi di scongiurarne per sempre il ripresentarsi.
È indiscutibile, perciò, che il nostro ordine costituzionale sia antifascista e che il fascismo non possa trovare cittadinanza al suo interno. Una volta detto questo, tuttavia, non è che abbiamo risolto poi molto.
Le etichette politiche sono elastiche, infatti, e l'attribuirle è esso stesso un esercizio politico. Che cosa dobbiamo intendere per fascismo, allora? Quand'è che siamo in presenza di un pericolo fascista e dobbiamo perciò mobilitarci a difesa della democrazia antifascista? E soprattutto: a chi spetta il diritto di rispondere a queste due domande?
Storicamente, la cultura e le forze politiche di orientamento progressista hanno arrogato a se stesse quel diritto, nel nome della propria purezza antifascista e appoggiandosi al proprio predominio nel mondo intellettuale. E hanno dato alle prime due domande delle risposte «larghe», dilatando la nozione di fascismo ben al di là dei confini storici del fenomeno e, di conseguenza, moltiplicando i pericoli fascisti e le chiamate alla difesa della democrazia.
Fin quando è durata la Guerra Fredda, quest' antifascismo «largo» è servito soprattutto al Partito comunista per contrastare la retorica anticomunista che lo delegittimava e, a sua volta, delegittimare le forze politiche che adoperavano quella retorica.
Una volta caduto il Muro di Berlino, l'antifascismo - fattosi nel frattempo ancora più largo - è in buona misura confluito nell'antiberlusconismo. Più in quanto potenziale autocrate mediatico da terzo millennio che a motivo dei suoi alleati post-missini, Berlusconi è diventato la nuova incarnazione del pericolo fascista.
Per le elezioni del 2001, così, Umberto Eco promosse un noto appello che definiva il voto nientemeno che un «Referendum Morale», con tanto di maiuscole, «contro l'instaurazione di un regime di fatto». Qualche tempo dopo, ironicamente ma non troppo, lo storico Paul Ginsborg si chiedeva se fosse «del tutto fantasioso immaginare che nel 2013 i "piccoli forzisti" vadano a letto stringendo nella manina il medaglione di Silvio B., come facevano i piccoli Balilla con quello del duce nel 1935».
L'obiettivo politico in questo caso era duplice: da un lato indebolire Berlusconi, delegittimandolo in Italia e all'estero (Berlusconi, dal canto suo, contraccambiava generosamente con l'anticomunismo), dall'altro restituire un po' di tono e compattezza a una sinistra esangue e divisa.
Dilatare l'antifascismo per ragioni politiche è un'operazione comprensibile e legittima. Gli effetti collaterali negativi, tuttavia, sono legione. Suonare a martello l'allarme antifascista e chiamare alla difesa della democrazia è un'arma da fine del mondo, una risorsa di ultimissima istanza. Se la si usa in continuazione la si banalizza e rende inefficace, un po' come il pastorello che gridava al lupo per scherzo ed ebbe infine le pecore divorate quando il lupo arrivò davvero, e nessuno rispose ai suoi richiami.
Tanto più se, come nella favola di Esopo, i primi allarmi si sono dimostrati infondati: dal «Referendum Morale» del 2001, che Berlusconi stravinse, sono passati ventun anni, e pure se ne abbiamo viste davvero di tutti i colori, abbiamo tuttavia continuato a votare in elezioni libere e il paventato «regime di fatto» proprio non s' è visto. Semmai, il governo Berlusconi del 2008-2011 resta l'ultimo che gli italiani si siano potuti scegliere nelle urne: piuttosto bizzarro come segno di fascismo.
Se poi, come accadde appunto nel 2001, la parte politica accusata di fascismo o parafascismo vince pure, l'antifascismo (o meglio: quel tipo «largo» di antifascismo) ne riceve un danno ulteriore. Di fatto, la maggioranza degli elettori dimostra di non riconoscervisi, di non considerarlo il fondamento comune della convivenza repubblicana, ma il frutto indigesto di una drammatizzazione a uso politico, di una strumentalizzazione a fini elettorali.
Torniamo così alla terza delle domande che facevo in apertura: a chi spetta il diritto di decidere se ci si trova in presenza di un pericolo fascista? In una democrazia, è difficile che la risposta a questa domanda non passi almeno in parte - e una parte rilevante, direi - per gli elettori.
Per mancanza di concorrenti più qualificati, se non altro. Ma tanto più se la stragrande maggioranza di quegli elettori non ha dato segni rilevanti - negli studi demoscopici, nelle piazze, nel tasso pressoché nullo di violenza politica - di aver rifiutato i valori democratici e di vagheggiare derive autoritarie. Veniamo così a quest' estate del 2022. Quel che non cesserà mai di sbalordirmi del progressismo italiano, politico e culturale, è la coazione ossessiva a ripetere, l'incapacità d'imparare dai propri errori. Ci risiamo, quindi: l'uso politico dell'antifascismo, l'allarme democratico, la fine del mondo, gli strumenti di ultimissima istanza.
Tutto questo di fronte a un Paese disincantato, stanco e distratto che pare crederci ancora meno che nel 2001, alla fine del mondo. Anzi, che non pare crederci affatto, se non altro perché, in una forma magari istintiva e confusa, conserva memoria degli allarmi rivelatisi infondati vent' anni fa.
E se alla fine la coalizione di destra vincerà le elezioni, com' è probabile, l'antifascismo «largo» si sarà dimostrato ancora una volta lo strumento politico di una parte minoritaria che non sa più parlare altrimenti agli elettori.
E quando, fra cinque anni al massimo, torneremo a votare in un sistema politico probabilmente altrettanto scombinato ma non meno democratico e liberale dell'attuale - esito sul quale, come la stragrande maggioranza degli italiani, non nutro il benché minimo dubbio - il Paese ricorderà che per l'ennesima volta il pastorello ha gridato al lupo, ma il lupo non c'era. E dovremo allora pregare che il lupo non abbia ad arrivare davvero, prima o poi. Perché a quel punto, se arrivasse, sbranerebbe indisturbato fino all'ultima pecora.
"BELLA CIAO" DIVENTA UN JINGLE. DI FASCISMO E ANTIFASCISMO NON FREGA DAVVERO PIÙ A NESSUNO. Antonio Gurrado per ilfoglio.it il 18 agosto 2022.
Questa mattina mi son svegliato e ho acceso la tivù. E c’era uno spot il cui slogan veniva scandito sulla musica di “Bella ciao”: credevo fosse campagna elettorale, invece era la pubblicità di una ditta di arredamenti. Ne ho tratto un dilemma insolubile, che mi tormenta tuttora.
O gli autori dello spot, i musicanti, i parolieri, l’ufficio marketing, l’amministratore delegato, gli operatori e il canale televisivo – poiché non si può stare a controllare ogni dettaglio – non si sono accorti che quel motivetto era “Bella ciao”. O, camuffato da endorsement a una ditta di arredamenti, quello spot vuole in realtà sottintendere un messaggio partigiano, che si conficca subliminale nella mente di chi osserva divani e piantane, poiché ogni contesto è opportuno per mostrarsi antifascisti.
Oppure, infine, di fascismo e antifascismo non frega davvero più a nessuno e sono diventati un sostrato pop, usitato e innocuo come una canzoncina che ti frulla in testa, quindi entro fine estate ci sarà da aspettarsi la réclame di un compro oro che ci proporrà di versargli i nostri preziosi sulle note di “Faccetta nera”.
Giorgia Meloni, tutte le volte che ha chiarito sul fascismo ma la sinistra fa finta di non sentire. Il Tempo il 12 agosto 2022
Non basta mai, neanche l'intervento in tre lingue per la stampa estera ha impedito alla sinistra di continuare a chiedere "parole chiare" sul fascismo da parte di Giorgia Meloni e, ultima trovata, di togliere la fiamma tricolore dal simbolo. Ma la leader di Fratelli d'Italia, come ricorda spesso lei stessa, quelle parole le ripete da vent'anni. Ecco allora qualche esempio di una lunga rassegna che parte dal lontano 2006, anno in cui l'Italia vinceva i Mondiali di calcio a Berlino, veniva lanciato Twitter e nasceva Wikileaks. Un'era geologica fa, insomma. A ricordare le parole di Meloni è Libero con un articolo che raccoglie alcune delle sue dichiarazioni sul "pericolo nero" usato come uno spauracchio dalla sinistra.
Il 7 dicembre 2006 a Claudio Sabelli Fioretti per il Corriere Magazine, la leader di FdI aveva detto: "Ho un rapporto sereno con il fascismo. Lo considero un passaggio della nostra storia nazionale. Mussolini ha fatto diversi errori, le leggi razziali, l'ingresso in guerra, e comunque il suo era un sistema autoritario. Storicamente ha anche prodotto tanto, ma questo non lo salva. La libertà e i diritti civili valgono di più della bonifica delle paludi pontine, tanto per intenderci". Parole nette. Il 17 settembre 2008 aveva scritto agli attivisti di Azione giovani. "Siamo stati e restiamo gente che crede nella libertà, nella democrazia, nell'uguaglianza e nella giustizia. Sono i valori sui quali si fonda la nostra Costituzione e che sono propri anche di chi ha combattuto il fascismo. Noi rifiutiamo ogni forma di violenza, oppressione e intolleranza".
Nel 2016 a Lucia Annunziata, nel corso di In mezz' ora, aveva chiarito: "Io sono di destra. Sono nata nel 1977, non sono mai stata fascista". Ancora? Nel 2021 per il Giorno della Memoria Meloni aveva ribadito: "Ricordare per onorare. Ricordare per contrastare l'antisemitismo in ogni sua forma, affinché gli orrori del passato non tornino mai più. Nel Giorno della Memoria un pensiero commosso a tutte le vittime della Shoah e a chi ancora oggi porta nell'anima i segni indelebili di quelle atrocità".
Un anno fa replicando a un intervento di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della sera, la leader di Fdi aveva ricordato all'editorialista quanto trattato a suo tempo nelle "tesi di Fiuggi", nel 1995, quando "si condannarono l'infamia delle leggi razziali e la sciagurata alleanza bellica dell'Italia mussoliniana con la Germania nazista e si riconobbe il ruolo storico della vittoria alleata a guida anglosassone per la costruzione della nostra democrazia". E sempre al Corriere, qualche mese dopo, aveva ribadito "Nel dna di Fratelli d'Italia non ci sono nostalgie fasciste, razziste, antisemite. Non c'è posto per nulla di tutto questo. Nel nostro dna c'è il rifiuto per ogni regime, passato, presente e futuro". Ma alla sinistra non basta ancora.
Simbolo Fratelli d'Italia, qual è il significato. Continua la guerra sinistra contro Giorgia Meloni. Il Tempo il 12 agosto 2022
Come al solito, grande specialità della sinistra è voler disegnare il centrodestra a proprio piacimento. E così Repubblica impronta un mini congresso sulla fiamma nel simbolo di Fratelli d’Italia, tenuto, ovviamente, da esponenti del centrosinistra. Punto di partenza sono le dichiarazioni con cui Giorgia Meloni ha definitivamente e inequivocabilmente (perché a quanto pare il fattore anagrafico non era sufficiente) escluso qualsiasi legame con l’eredità storica del fascismo. Ovviamente, l’areopago progressista sentenzia un 5 in pagella. “Se fosse stato fatto qualche settimana prima sarebbe stato più credibile”, pontifica Andrea Orlando, “e se si superasse la fiamma tricolore sarebbe meglio”.
Elly Schlein, vice presidente della giunta regionale in Emilia Romagna, ragiona: “se parli di Dio, patria e famiglia, lasci la fiamma nel simbolo, e difendi i manifesti pro-vita, onestamente non bastano due minuti di videomessaggio per smarcarsi dalle ambiguità”. Non poteva mancare Laura Boldrini: “Meloni dovrebbe spiegare perché nel simbolo di Fratelli d’Italia compare la fiamma tricolore, raffigurazione del regime che risorge dalla tomba del dittatore”.
Insomma, votata all’unanimità la cancellazione del simbolo. Come se non bastasse, viene interpellato anche un esponente dell’area totalmente opposta, Roberto Jonghi Lavarini, esponente della destra radicale: “Meloni ha cambiato idea, diventando molto velocemente liberale, conservatrice, europeista, atlantista? Legittimo, ci mancherebbe, allora tolga definitivamente la fiamma tricolore del suo nuovo partitone sistemico moderato”. Insomma, una mozione bipartisan. Che sconvolgerà, c’è da credere, le impressioni degli italiani in questa campagna elettorale.
Ecco perché sulla fiamma di Fdi raccontano solo balle. Un Pd, privo di argomenti, chiede a Giorgia Meloni di togliere la fiamma dal simbolo di Fratelli d'Italia. L'ennesimo, inutile esame di antifascismo del tutto pretestuoso. Francesco Curridori il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.
"Vuole consegnare il fascismo alla storia? Allora tolga la fiamma del Movimento Sociale Italiano dal simbolo", è il disco rotto che da giorni imperversa in casa del Pd, utile solo per continuare a dipingere Giorgia Meloni come una pericolosa eversiva di destra.
Poco importa che lei, negli scorsi giorni abbia diffuso un video in cui condanna esplicitamente (e non è nemmeno la prima volta) il fascismo. Poco importa che lei sia diventata presidente del partito dei Conservatori e dei Riformisti europei a cui, tra l'altro, non aderisce né il movimento di Vitkor Orbàn né quello di Marine Le Pen e nemmeno i tedeschi dell'Afd. Ma non solo. La Meloni è spesso ospite della convention del Gop, il partito Repubblicano americano che fu di Ronald Reagan e dei Bush e che certamente non può essere tacciato di fascismo solo perché ora è guidato da Donald Trump. Insomma, vista l'impossibilità di criticare la Meloni a livello internazionale se non con accuse che rasentano il sessismo come quella dell' “incipriarsi” per apparire gradevole alle cancellerei europee, al Pd non resta che attaccarsi a un logo. Ma, a sinistra, qualcuno si prendesse la briga di approfondire la storia del Movimento Sociale Italiano, scoprirebbe che tante leggende che ruotano attorno alla fiamma sono solo leggende, appunto. Cesco Giulio Baghino, fondatore del MSI insieme a Giorgio Almirante, intervistato dal giornalista Nicola Rao, nel libro 'La fiamma e la celtica' che ripercorre gli inizi dei post-fascisti italiani, spiega così l’origine del simbolo del partito:“L’idea della fiamma tricolore come simbolo fu di Almirante. Inizialmente il simbolo del MSI era soltanto la fiamma tricolore, senza il trapezio sottostante. L’idea del trapezio ci venne dopo, per poter trovare uno spazio alla dicitura 'Msi'. La storia che il trapezio rappresenti la bara del Duce si diffuse dopo, ma non era nelle nostre intenzioni iniziali. Anche la diceria per la quale la sigla del Msi volesse dire 'Mussolini sei immortale' è una delle tante leggende nate nell’ambiente, ma non risponde al vero”.
"Vi spiego perché la Fiamma non c'entra con il fascismo". Davanti alle insistenze della sinistra su un fantomatico riferimento del simbolo di FdI al fascismo, Giorgia Meloni tira dritto e lo deposita al Viminale. Francesca Galici il 14 agosto 2022 su Il Giornale.
Con il centrodestra che cavalca verso una vittoria molto probabile, con Fratelli d'Italia primo partito e Giorgia Meloni possibile presidente del Consiglio, a sinistra non sanno più come fare per tentare una delegittimazione della coalizione. Nel mirino è finito pure il simbolo che da anni accompagna la compagine di Giorgia Meloni, la fiamma, un'eredità storica che a distanza di quasi un secolo si vuole a tutti i costi collegare al fascismo, pur di confermare la tesi che in caso di vittoria del centrodestra e di Fratelli d'Italia, il Paese corre un reale rischio dittatoriale. Anche Liliana Segre, dalle Pagine ebraiche, ha mosso alla Meloni l'invito a eliminare la fiamma dal suo logo: "Nella mia vita ho sentito di tutto e di più, le parole pertanto non mi colpiscono più di un tanto. A Giorgia Meloni dico questo: inizi dal togliere la fiamma dal logo del suo partito".
"Meloni tolga la fiamma da simbolo". Ma La Russa gela la Segre
A smontare le tesi dei troppi che in questi giorni si riempiono la bocca di ipotesi e richieste di eliminazione della fiamma per un possibile legame al fascismo sono stati numerosi esponenti di Fratelli d'Italia, ma non solo. "I cantori della libertà a condizione che decidano loro di che cosa si tratta, dovrebbero sapere che i partiti autenticamente democratici stabiliscono i loro simboli nei congressi. Ed è solo lì che si possono modificare. A meno che non si abbia un'altra pretesa: leva la fiamma e presentati con una specie di lista civica. Che sarebbe cinica, semmai. Ovviamente la Meloni è andata avanti e ha presentato la sua lista con tanto di Fiamma", scrive oggi Francesco Storace sul quotidiano Libero.
Perché solo adesso la fiamma brucia la sinistra
E sulla domanda che in tanti insinuano da settimane, chiedendosi se la fiamma nel simbolo di FdI sia legata al fascismo, Storace mette un punto: "No, o almeno non più. Il richiamo è al Msi, ce l'aveva anche Alleanza nazionale". Anche Giorgia Meloni, assalita da chi le chiede con insistenza di eliminare la fiamma dal simbolo di Fratelli d'Italia, ormai depositato al Viminale, ha voluto fare chiarezza. In particolare, ha risposto alla senatrice Liliana Segre che le aveva consigliato di far seguire alle parole i fatti in merito all'antifascismo. "La fiamma nel simbolo di FdI nulla ha a che fare con il fascismo, ma è il riconoscimento del percorso fatto da una destra democratica nella nostra storia repubblicana. Ne andiamo fieri", ha detto Giorgia Meloni al Corriere della sera.
Maria Pia Mazza per open.online il 20 agosto 2022.
I simboli dei partiti in vista delle elezioni del 25 settembre sono stati depositati e accettati dal Viminale. Tra questi c’è anche quello di Fratelli d’Italia, con la discussa fiamma tricolore e che, nelle scorse settimane, ha creato numerose polemiche. Ma anche appelli. Come quello della senatrice a vita Liliana Segre che ha chiesto di rimuovere la fiamma dal simbolo elettorale del partito di Giorgia Meloni.
La richiesta della senatrice Segre, nel frattempo, è caduta nel vuoto. Ma la polemica continua. E c’è chi, come Loredana Bertè che, in un video su Instagram, si rivolge alla leader di FdI e dice: «Signora Meloni, quando una senatrice come Liliana Segre chiede che sia cancellata dal suo logo quella fiamma che ricorda il fascismo e le sue conseguenze, lei la rimuove e basta, senza arrampicarsi sugli specchi con scuse improbabili. Lei la rimuove, ha capito?».
E Bertè, nel suo breve discorso, aggiunge: «Mi sembra il minimo per il rispetto che si deve a una signora che ha passato quello che ha passato (riferendosi alla senatrice Segre, ndr), oltre a noi cittadini che siamo veramente stufi e alla memoria di quelli che non ci sono più perché per quel simbolo sono stati uccisi».
E il “pettirosso da combattimento” (soprannome dato a Bertè da Fabrizio De André, ndr) incalza ancora la leader di Fratelli d’Italia e conclude: «Lei si deve vergognare, signora Meloni. Non l’ho chiamata “onorevole” perché di onorevole lei non ha niente, come la maggior parte dei politici italiani». Al momento Giorgia Meloni non ha replicato alle parole dell’artista, ma non si esclude possa farlo nelle prossime ore o giorni.
Giorgia Meloni, ecco perché la fiamma non c'entra col fascismo: la lezione di Storace. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 15 agosto 2022
Questa polemica sulla Fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia è davvero patetica. E stavolta ritorna sui media perché il Centrodestra può vincere le elezioni del 25 settembre e il partito di Giorgia Meloni vanta buone prospettive nel sondaggi. Altrimenti non se ne parlerebbe. Intimazioni senza senso: toglietela! Ora! Subito! Pretese insostenibili. Proprio perché elettoralistiche, insincere, fasulle. I cantori della libertà a condizione che decidano loro di che cosa si tratta, dovrebbero sapere che i partiti autenticamente democratici stabiliscono i loro simboli nei congressi. Ed è solo lì che si possono modificare. A meno che non si abbia un'altra pretesa: leva la fiamma e presentati con una specie di lista civica. Che sarebbe cinica, semmai. Ovviamente la Meloni è andata avanti e ha presentato la sua lista con tanto di Fiamma.
Ma quel simbolo significa Fascismo? No, o almeno non più. Il richiamo è al Msi, ce l'aveva anche Alleanza nazionale che la mantenne nel simbolo nello stesso congresso in cui rivendicava il diritto alla libertà "conculcata dal Fascismo", come si scrisse nelle tesi di Fiuggi.
TRE MINISTRI Al Msi appartenevano tre ministri, Pinuccio Tatarella addirittura vicepresidente del Consiglio- Adriana Poli Bortone e Altero Matteoli. E più in là- con An - Mirko Tremaglia, che militò nella Rsi. Il presidente Ciampi, al contrario di Scalfaro, non obiettò alcunché alla sua nomina, proposta da Fini a Berlusconi. Il partito da cui anche Tremaglia proveniva - il Msi - fu parte della democrazia italiana. E il suo simbolo ha più un valore storico che elettorale, va detto con chiarezza. Tanto è vero che milioni di elettori che furono missini votarono poi per partiti che la fiamma non l'avevano: Forza Italia, il Pdl, la Lega di Salvini. E continuano a farlo. Anche perché per la Meloni votano e sono candidati cittadini che per la fiamma non votarono mai nella loro vita.
Elettoralmente quel simbolo non fa più la differenza. Resta il suo valore storico e non a caso c'è la fondazione An chiamata a preservarne il valore. Probabilmente la Meloni potrebbe anche toglierla dal logo di Fdi senza perdere o guadagnare un solo voto. A condizione di non farlo per cedimento culturale alle pretese della sinistra, ma per scelta del suo partito. Altrimenti sarebbe sì una sconfitta ideologica ed è il motivo per cui non si deve abiurare persino alla simbologia.
Altra cosa - e ben più grave - sarebbe l'inevitabile pretesa successiva: ora dicci di essere antifascista. Vorrebbe dire passare come un carro armato sui corpi di tanti ragazzi di destra assassinati negli anni di piombo nel nome dell'antifascismo militante: sarebbe davvero insopportabile, irrispettoso, cinico. Ed è grave che si continui ad insistere sull'argomento. Questo sì è elettoralismo da parte della sinistra e di chi ci casca: a destra nessuno sogna dittature e probabilmente si è molto più democratici che altrove. Ma il sangue versato va rispettato.
Da tutti.
È il motivo per cui dalla notte dei tempi a destra si insegue il mito della pacificazione nazionale: che significa basta alla discriminazione dei vinti di ieri nel nome della faziosità ideologica.
La Patria è la Terra dei padri, che fu popolata anche da chi non scelse il carro del vincitore.
Perché solo adesso la fiamma brucia la sinistra. Quando Fini era leader di An la sinistra taceva e non si lamentava della fiamma. Adesso la musica è cambiata. Ma c'è un motivo. Domenico Ferrara il 12 Agosto 2022 su Il Giornale.
Ma dov'era prima la fiamma? E perché non bruciava come brucia oggi? Grazie alla Meloni, si potrebbe dire che adesso il simbolo ardente e tricolore viva (anzi, bruci) una seconda vita. Perché c'era un tempo in cui la fiamma non scaldava i cuori dei detrattori. La sinistra infatti taceva, quasi non dando peso al "fardello", al contrario quando faceva discutere era quasi sempre all'interno di dibattiti e liti confinati nell'alveo della destra. Insomma, prima la fiamma era come se fosse spenta. E le volte in cui dall'altro lato della barricata si puntava il dito contro chi presideva il partito nel cui simbolo era presente la fiamma si contano sulle dita di una mano. Infatti basta fare una ricerca d'archivio nei giornali e nelle cronache del passato per accorgersi della scarsità di titoli e di agenzie sul tema.
"La fiamma tricolore non è mica il fascio littorio. È il simbolo di un partito, il Msi, votato democraticamente dai cittadini''. A dirlo, nel 1998, fu Gianfranco Fini, all'epoca leader di An. Pensate che le sue parole abbiano scatenato il putiferio che si sta scatenando in queste ore contro la Meloni? Ma quando mai. Zero. Niente di niente.
Quando nel 2003 lo stesso Fini si recò a Gerusalemme dove marcò la famosa distanza dal fascismo, si levò qualche sparuto scudo. Rutelli, allora leader della Margherita, gli chiese di togliere la fiamma dal simbolo di An, ma Fini fu tranchant: "Questo non c'entra assolutamente nulla con il viaggio in Israele. Risponderemo a Rutelli quando saremo in Italia''. Ma la polemica durò quanto un giro di orologio. E continuò ad andare così anche anni dopo, quando nel 2006 per esempio Fini rimproverò Renato Mannheimer reo di aver proposto un sondaggio il cui risultato vedeva i simpatizzanti di An al 50% favorevoli al mantenimento della fiamma, mentre l'altro 50% sarebbe contrario. "È una questione che interessa solo i politologi...", chiosò Fini.
A parte questo, il nulla. Nessun coro di protesta degno di nota, nessun attacco frontale, nessuna richiesta perentoria di eliminazione della fiamma. Nemmeno nel 2017 quando la stessa Meloni svelò il nuovo simbolo di Fdi con la fiamma si alzò un polverone. Era come se non ci fosse il carbone o - se preferite- gli attizzatori. Oggi invece è tutta un'altra storia. Ma la fiamma è sempre lì almeno da 28 anni.
Quell'eterno dibattito alimentato di ipocrisia che la sinistra (vuota) non riesce ad archiviare neanche dopo cent'anni. Alessandro Gnocchi il 3 Settembre 2022 su Il Giornale.
Già negli anni Settanta, Sciascia e Pasolini avevano chiarito i limiti del tema (o, peggio, la sua malafede). Eppure la campagna elettorale si gioca ancora su categorie ormai consunte
«I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Questa geniale battuta di Mino Maccari, resa però famosa da Ennio Flaiano, era da intendersi alla lettera. Sia Maccari sia Flaiano avevano visto i propri amici intellettuali transitare senza alcuna contrizione dalla camicia nera a quella rossa. Un processo descritto magnificamente dal liberale Antonio Delfini nei suoi Diari appena ristampati da Einaudi e nella Introduzione ai Racconti appena ristampati da Garzanti. Sono pagine impietose sul mondo dei letterati e degli imboscati, degli ex amici Mario Pannunzio ed Eugenio Scalfari, ma anche dei mitici intellettuali delle Giubbe Rosse, tutta gente che aspettava la caduta del regime, rigorosamente in silenzio, per impadronirsi poi del potere culturale. Nei Diari, troviamo appunti come quello del 15 marzo 1937: «C'è troppa affinità letteraria tra intellettuali fascisti e intellettuali avversari, perché si possa credere nella nascita di qualcosa di grande da quelli». Gli scrittori di regime sono cortigiani ma non sono molto differenti da «quelli che sono, o stanno, fuori del fascismo, indifferenti ma... illuminatissimi; oscuri ermetici, ma chiari probanti coscienziosi nel loro... mestiere di letterato». Ecco poche righe in cui c'è la storia d'Italia: «Dopo il 25 luglio venni a sapere, con mia meraviglia, che tutti quegli Antifascisti (ma fascisti o fascistizzati) avevano lavorato loro, soltanto loro, per far cadere il fascismo. Io temo di intuire che essi si erano organizzati per l'eventuale caduta del fascismo; e non per far cadere il fascismo. Siamo giusti. Il fascismo l'hanno fatto cadere gli Inglesi (filo-fascisti fino al 1935), gli Americani, i Russi e i Fascisti meno stupidi e meno delinquenti». Conclusione sarcastica: «Quanto alla massa degli Antifascisti - via, siamo franchi: apriamo il nostro cuore! - la loro innocenza per la caduta del fascismo è quasi completa».
Sono considerazioni da tenere a mente in questa campagna elettorale nella quale non si dibatte di nulla che non sia un ricordo del XX secolo. Dunque, il centrosinistra ha impostato tutta la propaganda sull'allarme fascismo, ponendo l'accento sulla continuità (tutta da dimostrare) tra M e M, Meloni e Mussolini. C'è chi lo fa rozzamente e chi lo fa con maggiore intelligenza, archiviando il fascismo storico ma tirando fuori un «nuovo autoritarismo» che si intuisce essere parente stretto, forse il gemello, del fascismo. Ci sono poi gli «impressionisti» del fascismo, quelli che il fascismo è uno stato d'animo, un'emozione, un accento nero tra le parole «t'odio».
Intorno alla metà degli anni Settanta, alcuni intellettuali rigorosamente di sinistra, avevano già archiviato la questione. Erano spiriti liberi, stupefatti davanti all'ondata di conformismo e alla trasformazione dell'autore impegnato in autore impiegato, burocrate del Partito comunista che a tutto e tutti provvede. Nella sua evoluzione, Pier Paolo Pasolini incominciò a interrogarsi su quali fossero i frutti dell'ortodossia di sinistra. In una intervista del 1974, rilasciata a Massimo Fini, il poeta non usava mezzi termini: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più». Pasolini affondava il coltello nella ferita: «Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo... Io credo profondamente che il vero fascismo sia quello che i sociologi hanno troppo bonariamente chiamato la società dei consumi».
Il totalitarismo della società dei consumi è peggio del fascismo storico. Il fascismo poteva chiedere e imporre obbedienza ma non poteva impadronirsi delle coscienze. Il consumismo, al contrario, colonizza i nostri desideri e le nostre fantasie. Ci rende tutti uguali attraverso una finta tolleranza. Vuole abbattere ogni confine e travolgere ogni tradizione perché ha come unico scopo l'efficienza del mercato globale, che richiede consumatori uno identico all'altro. La sinistra progressista, incluso il movimento sessantottino, ha assecondato in pieno la nascita del nuovo totalitarismo, contestando e scardinando le «vecchie» istituzioni e le tradizioni millenarie.
Pasolini ci sta parlando di globalizzazione, mercato falsamente libero, pensiero unico, pigrizia culturale, difesa della differenze. Tutti temi interessanti, senz'altro più complessi da elaborare rispetto a usurati paragoni tra la destra di oggi e quella di un tempo ormai superato (da qualcosa di peggio, nella visione di Pasolini).
Anche Leonardo Sciascia, altro uomo di sinistra, e come Pasolini vicino al Partito radicale, aveva le idee chiare. Nel suo diario, Nero su nero, edito da Einaudi nel 1979, scrive pensieri come questo: «Il più bello esemplare di fascista in cui ci si possa oggi imbattere (e ne raccomandiamo agli esperti la più accurata descrizione e catalogazione) è quello del sedicente antifascista unicamente dedito a dar del fascista a chi fascista non è». Il più bello esemplare di fascista era un caso particolare di una legge storica, l'ascesa del cretino di sinistra: «Intorno al 1963 si è verificato in Italia un evento insospettabile e forse ancora, se non da pochi, sospettato. Nasceva e cominciava ad ascendere il cretino di sinistra: ma mimetizzato nel discorso intelligente, nel discorso problematico e capillare. Si credeva che i cretini nascessero soltanto a destra, e perciò l'evento non ha trovato registrazione». In quanto al «movimento» studentesco, ecco un micro-racconto che si direbbe una pietra tombale: «Era un fascista dice di Dubcek una ragazza molto rivoluzionaria che ha sposato un uomo molto ricco ed è entrata ora a far parte da assistente a un professore molto fascista». Sciascia aveva visto anche il sorgere della doppia morale: «A me, uomo di sinistra, è permesso, è lecito, è da approvare quel che non è permesso, è illecito, è riprovevole a un uomo di destra. Pericolosissimo principio, se si considera la facilità, e a volte la comodità, con cui si può essere uomo di sinistra, oggi».
Sciascia credeva che il fascismo, in una forma o nell'altra, fosse sempre possibile in Italia. Ma non era all'ordine del giorno. Lo scrittore siciliano insisteva su altri temi: la separazione dei poteri, l'eguaglianza davanti alla legge, il corretto funzionamento della giustizia. E proprio la giustizia, con i suoi tempi e la sua a volte dubbia indipendenza, è uno degli eterni problemi italiani. Nonostante ciò, non è fino a qui entrata nella campagna elettorale di alcun partito, se non in modo marginale.
Il dibattito sul fascismo ha fatto, negli ultimi decenni, marcia indietro. Era più interessante in passato, quando uscivano libri fondamentali sulla questione, a sinistra e anche a destra. Il dibattito che invece non è mai cominciato è quello su antifascismo e anticomunismo. Per appartenere alla famiglia democratico-liberale non è sufficiente l'antifascismo. È necessario anche l'anticomunismo. Si finge di non saperlo, ci si nasconde dietro all'illusione che il Partito comunista italiano fosse diverso. È ipocrita vedere sempre il fascio littorio nell'occhio altrui e non vedere la falce e martello nel proprio.
Non basta gridare: «Allarme fascismo». Bisognerebbe anche provare che la democrazia è in pericolo ma in questa disamina nessuno si avventura perché il risultato potrebbe rivelarsi un clamoroso buco nell'acqua. Delegittimare l'avversario, soprattutto quando si parte condannati alla sconfitta, è una tentazione alla quale la sinistra non è capace di rinunciare. Così parte la manganellata progressista, verbale ma non innocua: la destra e i suoi elettori sono fascisti e dunque indegni di prendere parte alla vita pubblica.
Nessuno, a sinistra, capisce la mediocrità (e il fascio-comunismo) di questo atteggiamento?
I sovranisti hanno accompagnato i voti contrari a critiche aspre all'Unione e alla moneta unica. La Repubblica il 3 Agosto 2022.
Tenete a mente queste cinque date: 13 ottobre 2020, 15 dicembre 2020, 10 febbraio 2021, 24 marzo 2021 e 27 aprile 2021. Cosa sono? I giorni in cui Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, nelle aule di Camera e Senato e in quella del Parlamento europeo, ha evitato con cura di votare a favore del Recovery Fund.
Claudio Tito per “la Repubblica” il 4 agosto 2022.
Tenete a mente queste cinque date: 13 ottobre 2020, 15 dicembre 2020, 10 febbraio 2021, 24 marzo 2021 e 27 aprile 2021. Cosa sono? I giorni in cui Fratelli d'Italia, il partito di Giorgia Meloni, nelle aule di Camera e Senato e in quella del Parlamento europeo, ha evitato con cura di votare a favore del Recovery Fund.
E del Pnrr predisposto dal governo Draghi. Voti di astensione accompagnati da critiche asperrime nel merito del progetto, nei confronti dell'Ue e della moneta unica, l'euro. Una visione del mondo e del Vecchio Continente che non risale a qualche nostalgico decennio fa, ma agli ultimi 21 mesi. Spesso in compagnia della Lega.
Le perplessità, i dubbi e il pesante scetticismo della Commissione e della gran parte del Consiglio europeo si fondano su quei voti e non su pregiudizi. Perché ogni singolo atto ufficiale a Bruxelles e a Strasburgo pesa molto di più che nel catino di Montecitorio o Palazzo Madama. Nella politica italiana la memoria è sovente labile. Nei Palazzi europei si dimentica molto meno.
Tutto, quindi, inizia il 13 ottobre del 2020. In carica ancora il secondo governo Conte. A Montecitorio e Palazzo Madama si compie il primo atto per ufficializzare il Recovery Fund. Dibattito e poi una risoluzione sulle linee programmatiche del NextGenerationEu e quindi sugli oltre 200 miliardi messi a disposizione dell'Italia. Alla Camera 276 favorevoli, 3 contrari e 219 astenuti. Al Senato 148 favorevoli, 122 astenuti e 2 contrari.
Tra gli astenuti tutto il centrodestra (Forza Italia, Lega e Fratelli d'Italia) che dunque in quel momento era compatto contro gli aiuti europei. E Andrea De Bertoldi, incaricato di parlare al Senato a nome del gruppo "meloniano", diceva: «Non arriverà un grande aiuto dall'Ue» e questo Recovery è «un manuale delle banalità».
Dello stesso tenore le dichiarazioni di forzisti e leghisti che pochi mesi dopo, però, hanno ingranato la marcia indietro. Massimo Garavaglia, poi diventato ministro con Draghi, ironizzava: «È solo poesia ». Mentre un altro leghista, il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, preconizzava: «Un cavallo di Troia per andare a mettere becco nella nostra politica di sicurezza ».
Due mesi dopo la scena si ripete. Ma il teatro non è più quello di Roma, bensì Strasburgo. Non si tratta esattamente del Recovery e del connesso Pnrr, ma del cosiddetto "React Eu", il primo provvedimento europeo per provare a porre argine agli effetti della pandemia. È il 15 dicembre del 2020. E niente. Anche in quell'occasione, sotto l'albero di Natale, Fratelli d'Italia impacchetta un voto di astensione. A quel punto il gioco si fa duro.
Nel nostro Paese si apre la crisi di governo. L'esecutivo giallorosso di Conte se ne va ed entra in scena l'unità nazionale guidata da Mario Draghi. Primo obiettivo: redigere un Piano di Ripresa e Resilienza credibile e metterlo in pratica. Nel frattempo il Recovery approda all'Europarlamento. Il 10 febbraio 2021 all'ordine del giorno il Regolamento che rende effettivo il Fondo. Viene approvato con 582 sì. La destra si spacca. La Lega, presente adesso nel Gabinetto Draghi, deve cambiare rotta e vota sì.
Il partito di Giorgia Meloni insiste: non vota a favore. Ancora astensione. È Carlo Fidanza, allora capodelegazione di FdI poi indagato per corruzione, ad annunciare la decisione. Accompagnata da una serie di giudizi pesantissimi sul Recovery. Più che un'astensione sembrava un voto contrario: questo provvedimento, avvertiva con veemenza, porterà «un diluvio di tasse» e imporrà di nuovo «le regole dell'austerità».
Passa un mese e mezzo. È il 24 marzo 2021. A Palazzo Europa, sede del Parlamento europeo a Bruxelles, il ritornello non cambia. Stavolta si vota sulle cosiddette "risorse proprie", ossia il meccanismo che finanzia anche il NextGenerationEu. Pure in quell'occasione il gruppo di Meloni si astiene. Ma, con una piccola giravolta, anche la Lega segue. La scusa di Salvini: il timore di nuove tasse.
Che non ci sono mai state. Ma la prova del 9 risale a poco più di un anno fa. Nel Parlamento italiano si discute del Pnrr rivisto e messo a punto dal governo Draghi. Entro la fine del mese, infatti, scadeva il termine per consegnarlo alla Commissione europea. Data fondamentale per accedere ai soldi. Il premier interviene nelle assemblee di Montecitorio e Palazzo Madama. Vengono presentate le risoluzioni.
Tra questa una di maggioranza e una di FdI, firmata dal capogruppo Francesco Lollobrigida. È il giorno dei "big". E così alla Camera prende la parola la leader del partito. «Se votassimo questo documento si potrebbe dire che siamo seri? - chiede rivolgendosi al presidente del Consiglio lamentando il fatto che non c'è stato il tempo sufficiente per esaminare il Piano - Io francamente penso di no». E poi ancora con tono costantemente antieuropeista: «La bassa crescita in Italia non è stata colpa delle aziende italiane, ma della gestione di una moneta unica pessima».
La risoluzione di Lollobrigida, poi, smaschera le intenzioni: «Il voto che il Parlamento si appresta a esprimere sarà riferito alle comunicazioni rese dal presidente del Consiglio e non al contenuto del Piano». Risultato: ancora astensione. Ma soprattutto un giudizio negativo sul Pnrr. Proprio quel programma di riforme che invece l'Ue si aspetta dall'Italia. In caso di vittoria del centrodestra, dopo il 25 settembre che fine farà allora il Pnrr? E gli altri 150 miliardi che Bruxelles dovrebbe erogare fino al 2026?
Da affaritaliani.it il 2 agosto 2022.
La campagna elettorale in vista delle elezioni politiche del 25 settembre è in pieno svolgimento. Il tempo per presentare liste e coalizioni sta scadendo ed è iniziata la corsa contro il tempo per aggiudicarsi un posto nel prossimo Parlamento con movimenti dei politici in tutte le direzioni.
L'unica coalizione che sembra ormai formata è quella di centrodestra, con Meloni, Salvini e Berlusconi che hanno definito gli accordi e correranno insieme. Ma proprio la designata futura candidata premier e leader di Fdi in passato è stata anche lei protagonista di un clamoroso cambio di maglia. Giorgia Meloni - si legge su Repubblica - ha sempre detto di tifare per la Roma e lo ha rimarcato negli anni ad ogni occasione utile.
Tanto da definirla una "fede calcistica nota". Eppure nelle chat di fine anni ‘90 in cui si faceva chiamare “la draghetta di Undernet” della squadra giallorossa Meloni parlava come dell’unica che "può perdere qualsiasi cosa ci sia da perdere" e concordava con chi la definiva "la rometta".
Già, perché all’epoca la fede era tutt’altra: Meloni - prosegue Repubblica - da giovane era una laziale sfegatata e assicurava che avrebbe per sempre tifato per i biancocelesti. Le vecchie chat in effetti mostrano la lazialità meloniana in tutto il suo vigore. "Sempre forza Lazio" scriveva a caratteri cubitali nel 2003.
Tre anni prima, un certo Maury apriva la conversazione così: "Seriamente parlando, con le squadre che ci sono in Uefa solo la rometta la può perdere". Risposta della giovane Meloni: "Sono assolutamente d’accordo con te... su tutti gli obiettivi, ormai solo la Roma può perdere qualsiasi cosa ci sia da perdere". Ancora Maury, che non era né della Roma né della Lazio: "Quasi quasi se non eri lazzziale mi eri simpatica". La replica: «Quasi quasi... ma sono laziale, anzi lazialissima... e sebbene terrei tanto alla tua considerazione, pur con molta sofferenza, continuerò ad essere lazialissima".
Rai: Elisa Anzaldo, battuta venuta male, me ne scuso.
(ANSA il 3 agosto 2022) - "Mi rendo conto che una battuta venuta male, nella rassegna delle 7 del mattino, sta dando spazio a interpretazioni distorte del mio pensiero. Nella conversazione con Alessandro Barbano ho chiosato sulla metafora calcistica ma il risultato finale è stato diverso da quello che avrei voluto. Nelle mie intenzioni parlavo ancora di calcio. Poiché il tono è stato avvertito come improprio, me ne scuso". Lo afferma la giornalista del Tg1 Elisa Anzaldo in merito all'episodio di questa mattina nella Rassegna Stampa.
Giovanna Vitale per repubblica.it il 3 agosto 2022.
È un assaggio di quel che potrebbe capitare in Rai se il 25 settembre dovesse vincere il centrodestra: beccarsi una sospensione dal lavoro per aver fatto una battuta su Giorgia Meloni, magari poco felice visto l'arroventato clima elettorale, ma pur sempre una battuta. È quel che ora rischia Elisa Anzaldo, volto storico del Tg1, rea di aver risposto in modo scherzoso durante l'edizione mattutina dedicata alla rassegna stampa.
La battuta in studio
Ma cos'è accaduto di tanto grave? Vediamo. Ospite in studio, a commentare le notizie del giorno, c'è Alessandro Barbano, condirettore del Corriere dello Sport ed ex direttore del Mattino. L'argomento è la fede calcistica della leader di Fratelli d'Italia, su cui in questi giorni pesa l'accusa di aver tradito la fede laziale ed essere passata a quella romanista. Ebbene, interpellato sulla questione che sta appassionando i tifosi, Barbano usa l'ironia: "Se peccato è, in questo caso non è il peggior peccato di Giorgia Meloni". La conduttrice sorride e, per chiudere l'argomento, replica usando lo stesso registro dell'ospite: "Ce ne sono tanti altri". Non l'avesse mai fatto.
La richiesta di sospensione
Il centrodestra sale sulle barricate. E subito i parlamentari leghisti in Vigilanza, fedeli alleati della candidata alla premiership, chiedono alla Rai "l'immediata sospensione di Elisa Anzaldo dalla partecipazione ai programmi dopo lo spettacolo indecente visto stamane". Sono furibondi, i commissari del Carroccio:
"È inaccettabile - tuonano - che un volto di primo livello quale Anzaldo, che è conduttrice del Tg1 delle 20, ovvero il principale e più seguito telegiornale dell'azienda su scala nazionale, si permetta di deridere un leader politico senza contraddittorio e durante un appuntamento informativo come la rassegna del mattino". Neanche l'avesse insultata, rincarano: "Un comportamento inammissibile, in sfregio a tutti i principi della par condicio, che viola qualsiasi codice deontologico e di correttezza a cui sono tenuti i giornalisti". Tutto per una battuta. Finito qui? Macché.
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 3 agosto 2022. (...)
Si parla di calcio, ma se Meloni sostiene di essere romanista mentre gli archivi della memoria digitale rivelano che in gioventù era "lazialissima", ecco che la faccenda scivola immediatamente nel campo, già ben concimato, delle elezioni. Non solo, ma la sorpresa risuona maggiore proprio per le caratteristiche di Giorgia che finora, pure declamandosi in lingua spagnola, ha potuto contare su un alto grado di limpidezza personale e spontanea autenticità. Insomma, prima la Lazio e poi la Roma: da quando e perché?
Nel tempo dell'esaurimento delle culture politiche, dell'auto-esposizione dei leader e delle semplificazioni selvagge non è questione da poco. Colori sociali, sciarpe, striscioni, cori, danze, esultanze e oltraggi da divano: fra politica e calcio, a livello di atmosfere e segni espressivi, l'interscambio è ormai costante; con il che il mondo vitale del pallone, dai boati delle curve ai suoi aspetti meno edificanti, è divenuto un tale veicolo di consenso da comportare anche i più spericolati sospetti e il più paradossale discredito - così c'è chi sostiene che da ragazzetto Silvio Berlusconi facesse il tifo per l'Inter. (...) A Roma, città capitale massimamente scettica e depositaria di due squadre colme di gloria anche se abbastanza arruffate e arruffone, tutto questo prende la strada di uno spassoso spettacolo di potere che da quasi un secolo accompagna la vita pubblica condizionandone le transazioni e gli avvicendamenti. Così a Mussolini, sospetto laziale come certissimi laziali erano i suoi figlioli, vengono però attribuiti interventi che " regalarono" il primo scudetto alla Roma, per giunta durante il periodo bellico. (...) Marino, per evitare violenze al derby, si mostrò in tv con una incredibile stola metà giallorossa e metà biancoceleste. Sullo sfondo improbabili acquirenti americani, fantasmagorie alla Lotito, saluti romani, aquile che volteggiavano sullo stadio, immani pressioni per costruirne altri due, con tanto di mazzette e arresti.
Virginia Raggi, sospetta laziale, dissimulava la sua fede: « Il mio cuore è per la città».
Mica tanto, a pensarci. Adesso la verità, per favore, sull'affaire Meloni: Roma o Lazio? ( « Vince sempre chi più crede/ chi più a lungo sa patir»).
Andrea Bianchini per “il Giornale” il 3 agosto 2022.
Fermi tutti. «Repubblica» ieri ha svelato un nuovo neo nello scomodo passato di Giorgia Meloni. Qui non si parla di un sassolino, ma di un macigno che potrebbe addirittura sovvertire le sorti dell'intera campagna elettorale del centrodestra. Tenetevi forte. La leader di Fdi dice di essere tifosa della Roma, ma in gioventù il suo cuore palpitava per i colori biancazzurri della Lazio. Scrive il quotidiano romano: «Giorgia Meloni ha sempre detto di tifare per la Roma, tanto da definirla una «fede calcistica nota».
Eppure nelle chat di fine anni '90, della squadra giallorossa Meloni parlava come dell'unica che può perdere qualsiasi cosa ci sia da perdere e concordava con chi la definiva la rometta. Già, perché all'epoca la fede era tutt' altra: Meloni da giovane era una laziale sfegatata». Qui ci starebbe bene un commento del mitologico «gran capo Estiqaatsi», creato da Lillo&Greg, ma vabbè. Il senso è già abbastanza chiaro.
Questa non vuole essere una difesa della Meloni, semmai un avvertimento sulla campagna elettoral-mediatica che ci attende nei prossimi mesi. Perché, se il buongiorno si vede dal mattino, finora si è sentito parlare di tutto fuorché di un vero confronto sui programmi (tali o presunti) delle due coalizioni. Non a caso ieri, e ne scriviamo ampiamente, un centinaio di costituzionalisti di diverso orientamento politico ha firmato un manifesto «contro la delegittimazione e le campagne denigratorie che purtroppo hanno contraddistinto questa prima fase del confronto elettorale».
Quindi, in attesa di tempi migliori e (si spera) di analisi più profonde, non possiamo fare altro che avvertire lettori ed elettori delle prossime scottanti inchieste che presumibilmente leggeremo a proposito dei leader del centrodestra.
Eccone una anteprima.
Nuovo scoop sulla leader di Fdi e sulle discutibili scelte in cucina: «Giorgia Meloni mette la panna nella carbonara e usa anche la pancetta confezionata».
Indagine sul Capitano e sull'emergenza caldo: «Matteo Salvini mangia poca frutta ed esce nelle ore più calde della giornata».
Spunta un vecchio compagno di classe del Cavaliere che svela una scomoda verità: «Una volta Silvio Berlusconi ha raccontato una barzelletta che non ha fatto ridere».
Un dossier che convincerà gli indecisi e che farà cambiare idea anche ai più ferventi elettori. Già. Ma in quale direzione?
Battuta sulla Meloni al Tg1: Rai nella bufera. "Episodio inaccettabile". Marco Leardi il 3 Agosto 2022 su Il Giornale.
La conduttrice del Tg1 Elisa Anzaldo si lascia andare in diretta a una considerazione di troppo sulla Meloni. Piovono polemiche. La Lega ne chiede la sospensione, lei si scusa
Una battutina su Giorgia Meloni pronunciata al Tg1 ha innescato una prevedibile ondata di polemiche. Il notiziario della rete ammiraglia Rai - dal quale ci si aspetterebbe sobrietà e rigore - è finito nella bufera dopo che, stamani, la conduttrice Elisa Anzaldo si era lasciata andare a una considerazione di troppo sulla leader di Fratelli d'Italia. Ecco i fatti. In riferimento a un'indiscrezione di stampa, secondo la quale l'esponente politica sarebbe diventata tifosa romanista dopo essere stata laziale in gioventù, in diretta il giornalista Alessandro Barbano (presente in studio) aveva chiosato: "Se peccato è, in questo caso non è il peggiore peccato di Giorgia Meloni". E la Anzaldo, ridendo, aveva aggiunto: "Ce ne sono tanti altri...".
Caso Tg1, Lega: "Inammissibile sfregio alla par condicio"
Parole che non hanno fatto certo piacere al centrodestra e che hanno provocato un'immediata levata di scudi contro il tg diretto da Monica Maggioni. "È inaccettabile che un volto di primo livello quale Anzaldo, che è conduttrice del Tg1 delle 20 ovvero il principale e più seguito telegiornale dell’azienda su scala nazionale, si permetta di deridere un leader politico senza contraddittorio e durante un appuntamento informativo come la rassegna del mattino. Un comportamento inammissibile in sfregio a tutti i principi della par condicio, che viola qualsiasi codice deontologico e di correttezza", hanno tuonato in una nota i parlamentari leghisti della commissione di Vigilanza Rai, chiedendo la sospensione della anchorwoman. Gli stessi esponenti del Carroccio hanno poi annunciato una segnalazione dell'accaduto all'Agcom, perché - si legge nel loro comunicato - "non è in alcun modo tollerabile che ci siano giornalisti che fanno politica sempre nella stessa direzione".
Da Fratelli d'Italia, Daniela Santanché ha invece lamentato: "Si tratta di un episodio inaccettabile e gravissimo, senza alcun contraddittorio, del tutto pretestuoso e per giunta alle soglie della campagna elettorale". Il deputato meloniano e commissario di Vigilanza Rai, Federico Mollicone, ha poi avvisato di aver richiesto all'AD Rai Carlo Fuortes l'immediata applicazione della par condicio. Di segno diametralmente opposto le considerazioni del deputato Pd Andrea Romano, che invece ha accusato la destra di "agitare il manganello contro il servizio pubblico". Ci chiediamo però cosa sarebbe successo se una simile battutina fosse stata rivolta, nel pieno della campagna elettorale, a un leader del centrosinistra.
Caso Tg1, Maggioni: "Porre maggior attenzione"
Dopo quella chiosa di troppo pronunciata in diretta tv è intervenuta anche la stessa direttrice del Tg1 Monica Maggioni. La giornalista, in una lettera alla redazione, ha scritto: "Un episodio accaduto nella rassegna stampa di questa mattina mi spinge a ricordare che il nostro dovere è quello di andare in onda restituendo ai nostri spettatori il senso di sobrietà e di totale equilibrio proprio del servizio pubblico. Per questa ragione dobbiamo tutti porre una attenzione ancora maggiore del consueto in tutto quello che facciamo e diciamo in onda".
Battuta sulla Meloni al Tg1, le scuse di Elisa Anzaldo
La conduttrice Elisa Anzaldo, da parte sua, è ritornata poi sull'accaduto facendo pubblica ammenda. "Mi rendo conto che una battuta venuta male, nella rassegna delle 7 del mattino, sta dando spazio a interpretazioni distorte del mio pensiero. Nella conversazione con Alessandro Barbano ho chiosato sulla metafora calcistica, ma il risultato finale è stato diverso da quello che avrei voluto. Nelle mie intenzioni parlavo ancora di calcio. Poiché il tono è stato avvertito come improprio, me ne scuso", ha precisato la giornalista in una nota.
Ma, nel clima rovente e tesissimo di questa campagna elettorale, il caso sembra essere tutt'altro che chiuso.
Mazzetta Nera: L’Espresso in edicola e online da domenica 7 agosto 2022. L’inchiesta di copertina sul sistema di affari intorno agli uomini di Ignazio La Russa. I personaggi che si affrettano a salire sul carro di Fratelli d’Italia. E il grande freddo economico alle porte. Cosa trovate sul nuovo numero e gli articoli in anteprima per gli abbonati digitali. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 4 Agosto 2022.
Mazzetta Nera è una storia di corruzione: dall’arresto per tangenti di un manager della Fiera di Milano emerge un sistema di affari che ruota intorno agli uomini di Ignazio La Russa. Ne scrivono Paolo Biondani e Carlo Tecce nell’inchiesta di copertina. «Una storia che ci fa pensare a trent’anni fa, all’arresto da cui partì quella che poi abbiamo chiamato Tangentopoli», ricorda il direttore Lirio Abbate nel suo editoriale.
Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, il partito che ha fatto della legalità la sua bandiera, intanto tace sulle inchieste che coinvolgono i suoi uomini. Ma, come sottolinea Loredana Lipperini, delinea un programma che trae la sua forza dalle discriminazioni: «difesa della famiglia naturale, lotta all’ideologia gender e sostegno alla vita», per dirne una.
Susanna Turco racconta chi sono i personaggi che si affrettano a salire sul carro della presidente di FdI in vista delle elezioni, Gabriele Bartoloni fa il punto sul caos che vige nel campo largo. «I partiti scelgano candidati al di sopra di ogni sospetto» sottolinea Federico Cafiero De Raho che nel suo intervento ricorda come l’economia vada protetta dalle infiltrazioni mafiose. Mentre Rosaria Capacchione riporta l’attenzione sui social utilizzati dalle organizzazioni criminali per fare propaganda.
SOLDI E POLITICA. Affari neri: la corruzione in Fiera di Milano porta a Fratelli d’Italia. L’arresto di un manager del colosso espositivo svela un sistema di tangenti divise tra camerati, con affari milionari intestati a prestanome. E in quattro società sotto accusa spunta un parlamentare, Marco Osnato, pupillo e nipote acquisito di Ignazio La Russa. Paolo Biondani e Carlo Tecce su L'Espresso il 4 Agosto 2022.
Faccetta Nera? No, mazzetta nera: una storia di corruzione che parte dalla Fiera di Milano e arriva a Fratelli d'Italia. Gli inquisiti hanno nomi sconosciuti ai più, vivono nella periferia nord-est di Milano, tra schiere brumose di condomini, fabbriche e centri commerciali, ma è difficile liquidarli come personaggi secondari del teatro politico lombardo. Perché almeno fino a ieri, fino all'arresto per tangenti di un loro camerata e presunto mercante in fiera, sono stati grandi collettori di voti in un centro delle dimensioni di Cologno Monzese, che ha oltre 50 mila abitanti, aziende simbolo come Mediaset, la storica linea della metropolitana che porta dritta in centro, passando da piazzale Loreto.
Il silenzio di Giorgia Meloni sui camerati sotto accusa. Lirio Abbate su L'Espresso il 4 Agosto 2022.
La leader di FdI si è sempre proclamata per la legalità. Ma tace sulle inchieste che coinvolgono suoi uomini. È una questione innanzitutto politica che riguarda la sua credibilità davanti agli elettori.
Mazzetta nera è una storia di corruzione che parte dalla Fiera di Milano e arriva a Fratelli d’Italia. L’inchiesta di copertina di questa settimana, firmata da Paolo Biondani e Carlo Tecce, svela il contesto lombardo in cui sarebbero state divise tangenti che hanno coinvolto uomini del partito di Giorgia Meloni, estranea all’inchiesta, e sono vicini a Ignazio La Russa, che non è indagato. Una storia che ci fa pensare a trent’anni fa, all’arresto da cui partì a Milano quella che poi abbiamo chiamato Tangentopoli. Gli scandali che all’epoca demolirono l’ordine politico italiano portarono a una nuova generazione nella vita pubblica e tra loro c’era Giorgia Meloni, che all’età di 15 anni scelse di entrare a far parte del ramo giovanile del Movimento Sociale Italiano.
Il protagonista di questi giorni è un camerata che dal 2017 al 2021 è stato il capo ufficio acquisti della Fiera di Milano accusato di incassare mazzette, come ammettono tre diversi imprenditori. Tangenti nere, divise tra un gruppo di amici con cui ha fatto politica. Assieme hanno organizzato affari, dall’Italia all’Albania, assieme sono finiti nei guai. Nel fascicolo processuale compaiono i nomi di persone che sono collegati o fanno parte del partito che guida la coalizione di destra che marcia su Roma con i sondaggi in poppa. Di solito nelle indagini si segue la traccia del denaro qui, invece, la fiamma tricolore missina del partito.
«Fratelli d’Italia ha sempre fatto della legalità la sua bandiera: se ne facciano tutti una ragione», ripete spesso Giorgia Meloni. Però i fatti dimostrano il contrario, o almeno, i fatti più gravi in cui sono coinvolti gli uomini di Fratelli d’Italia: il voto di scambio politico mafioso alla vigilia delle amministrative a Palermo; la sindaca di Terracina coinvolta in una inchiesta di corruzione e costretta a dimettersi; l’eurodeputato Carlo Fidanza accusato sempre di corruzione. Su questi fatti si registra solo un silenzio assordante di Meloni.
La legalità che intende la leader della destra non fa certo il paio con i reati contestati ai suoi uomini. Certo, si è innocenti fino a terzo grado di giudizio, ma politicamente parlando, e qui di politica stiamo discutendo, quando hanno un rilievo sociale e pubblico, queste storie vanno evidenziate e non vanno certo nella direzione di rispetto delle regole e della società che Meloni e i suoi camerati professano.
Abbiamo iniziato ad esaminare il programma elettorale di Fratelli d’Italia, lo spiega nelle pagine successive Loredana Lipperini, la quale fa notare che Meloni ha messo la famiglia - non tutte - al primo punto, e non c’è nessun aiuto alle coppie Lgbtqi+. Non affronta il vero nodo della questione. Per lei le donne devono rimanere a casa e se lavorano guadagnano meno degli uomini.
L’ex procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho, lancia sulle pagine de L’Espresso un appello: i partiti scelgano candidati al di sopra di ogni sospetto. E sottolinea un passaggio che condividiamo: «Bisogna che i candidati siano assolutamente trasparenti e immuni da rapporti con gli ambienti criminali. I nostri parlamentari non dovranno essere nemmeno sfiorati dal sospetto di illegali relazioni. Il Paese vuole persone affidabili per preparazione ed etica; non è sufficiente non aver riportato condanne penali. Il profilo della responsabilità penale è proprio della giustizia; per il Parlamento occorrono persone credibili per il profilo professionale e, al tempo stesso, per quello morale».
IL REGNO DI GIORGIA MELONI. Nel feudo di Terracina, la giunta di Fratelli d’Italia travolta dagli arresti. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 luglio 2022.
«Roberta Tintari è una donna estremamente capace e quando le donne sono capaci hanno una marcia in più», diceva Giorgia Meloni, leader di Fratelli D’Italia, presentando la candidatura a sindaca di Terracina, provincia di Latina, di Roberta Tintari.
Sono passati due anni, Tintari è diventata sindaca, ma questa mattina è finita ai domiciliari con accuse gravissime in un’operazione che vede tra gli indagati anche Nicola Procaccini, parlamentare europeo di Fratelli D’Italia, molto vicino a Giorgia Meloni.
Un’indagine che è il continuo di una inchiesta precedente che aveva già coinvolto pezzi della giunta, ma che non aveva sortito alcun effetto nel partito meloniano, anzi. Chi era stato indagato nel primo filone dell’inchiesta ha fatto carriera.
Clemente Pistilli per “la Repubblica” il 28 luglio 2022.
«Questa è una terra nella quale si respira amore. Nella quale si respira patriottismo. Nella quale si respirano i valori fondamentali e tradizionali che noi continuiamo a difendere nonostante siano considerati politicamente scorretti».
Così Giorgia Meloni, nel corso di un comizio, si rivolge al suo popolo, i fedelissimi di Latina, provincia a 70 chilometri a Sud di Roma, che la leader di Fratelli d'Italia ha scelto come collegio elettorale, blindato da una fedeltà ideologica mai spezzata da quel 18 dicembre del 1932, quando Benito Mussolini annunciò la nascita di Littoria. Novanta anni dopo Latina e la vicina Terracina sono divenute il "feudo nero" dei Fratelli d'Italia, una striscia dell'entroterra pontino che affaccia sul mare e combatte una battaglia quotidiana contro le infiltrazioni criminali.
È qui che l'aspirante premier annaffia le radici del suo consenso ed è qui che gli astri nascenti del partito hanno preso il largo, naufragando tra gaffe e inchieste giudiziarie per diventare meteore, quando non stelle cadenti.
Una storia che lega FdI alle vicende personali e politiche dei suoi uomini più in vista: Nicola Procaccini, l'europarlamentare braccio destro di Giorgia Meloni, indagato a piede libero con l'accusa di turbativa d'asta e induzione indebita a dare o promettere utilità nella maxi inchiesta "Free beach" sulle concessioni balneari di Terracina, e Pasquale Maietta, il vulcanico ex-deputato di Fratelli d'Italia, già presidente del Latina Calcio, fuoriuscito dal partito dopo essere stato coinvolto in almeno tre inchieste giudiziarie.
Tirando le fila dei rapporti tra i due uomini forti di Giorgia Meloni si compie un balzo indietro al 2014, quando Maietta prende parte a un comizio organizzato a sostegno di Nicola Procaccini, allora sindaco di Terracina.
Un'assemblea presieduta da un insolito servizio d'ordine, dove l'uomo di garanzia della pubblica sicurezza è Costantino Di Silvio, detto Cha Cha, uno dei capi dell'omonima famiglia imparentata con i Casamonica di Roma e già condannato a 10 anni per associazione a delinquere.
Di Silvio è un'ombra che spesso compare sulle tracce di Maietta ed è la stessa ombra che qualcuno tira in ballo poche settimane prima del maggio 2015, quando Procaccini viene sfiduciato da 13 consiglieri comunali. Per evitare la disgregazione del sistema di potere tra Terracina e Latina una manina si mette al lavoro e nei giorni che precedono la sfiducia un consigliere comunale viene avvicinato e minacciato.
Su quella vicenda il pm Ddda di Roma, Corrado Fasanelli, apre un fascicolo a carico di Maietta, ipotizzando il reato di violenza o minaccia a un corpo politico e amministrativo. Il fumo nero che sale dal brodo dell'agro pontino non preoccupa Giorgia Meloni, che nel maggio 2014 lancia i suoi legionari migliori: «Ringrazio Pasquale Maietta perché grazie a lui ci prendiamo soddisfazioni di ogni genere».
Sommerso dalle inchieste, l'ex-tesoriere di FdI rinuncia a candidarsi nel 2018. Nonostante questo la stirpe littoria conquista spazio e credibilità all'interno di FdI e dopo un secondo mandato da sindaco Nicola Procaccini viene eletto europarlamentare nel 2019. Il 19 luglio scorso la Procura di Latina tira la rete di "Free beach" e arresta tra gli altri anche la sindaca di Terracina, Roberta Tintari. Il sistema si sfalda e volano gli stracci.
Accade così che Gianfranco Sciscione, ex-presidente del consiglio comunale di Terracina, racconti agli uomini della Guardia Costiera di aver saputo di una presunta mazzetta da 40mila euro destinata proprio a Procaccini. Dichiarazioni da verificare su quello che è stato il "modello Terracina", come la stessa Meloni lo aveva definito in un comizio del 2020. «Prenderemo questi laboratori, questo esempio, e lo porteremo al governo della nazione». Alla vigilia delle elezioni, qualcuno si chiede se il governo della nazione meriti qualcosa di più.
"Mazzette da 40mila euro" per Procaccini, l'uomo di fiducia di Giorgia Meloni. Clemente Pistilli su La Repubblica il 27 luglio 2022.
In un verbale l'ex presidente del consiglio comunale di Terracina inguaia l'uomo di fiducia della leder di FdI: "L'intermediario era uno di Fratelli d'Italia".
"È vero. Mi parlarono di una busta contenente 40mila euro diretti a Nicola Procaccini". Era il 22 luglio 2020 quando Gianfranco Sciscione, ex presidente del consiglio comunale di Terracina, venne interrogato dalle guardie costiere e riferì delle indiscrezioni raccolte su una presunta bustarella destinata all'attuale eurodeputato di FdI. Un sospetto inquietante, a quanto pare rimasto tale, che spunta in un verbale allegato all'inchiesta "Feronia", culminata sei mesi fa con l'arresto dell'allora vicesindaco di Terracina, Pierpaolo Marcuzzi, in quel momento dato tra i favoriti per una candidatura alle regionali con Fratelli d'Italia.
Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 27 luglio 2022.
«È vero. Mi parlarono di una busta contenente 40mila euro diretti a Procaccini » . Era il 22 luglio 2020 quando Gianfranco Sciscione, ex presidente del consiglio comunale di Terracina, venne interrogato dalle guardie costiere e riferì delle indiscrezioni raccolte su una presunta bustarella destinata all'attuale eurodeputato di FdI.
Un sospetto inquietante, a quanto pare rimasto tale, che spunta in un verbale allegato all'inchiesta "Feronia", culminata sei mesi fa con l'arresto dell'allora vicesindaco di Terracina, Pierpaolo Marcuzzi, in quel momento dato tra i favoriti per una candidatura alle regionali con Fratelli d'Italia. Quest' ultimo intanto è stato messo la settimana scorsa di nuovo ai domiciliari nell'indagine " Free Beach", in cui lo stesso Nicola Procaccini. uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni, è indagato a piede libero con le accuse di turbativa d'asta e induzione indebita a dare o promettere utilità.
VOCI INQUIETANTI L'inchiesta " Feronia" è partita da un luna park installato su suolo demaniale a Terracina da una famiglia rom e ben presto si è allargata alle pressioni che Marcuzzi avrebbe fatto per ottenere finanziamenti diretti allo stadio di Borgo Hermada, essendo presidente della locale squadra di calcio, alle gare inquinate a favore di imprenditori amici del politico e alla consegna a domicilio da parte di quest' ultimo di schede elettorali con dentro i bigliettini con le indicazioni di voto.
Un'indagine che ha portato alla richiesta di giudizio per l'ormai ex vicesindaco, già imputato nel processo sulla riqualificazione dell'area della Pro Infantia, un tempo colonia marina per i bambini poveri, e che rischia di dover rispondere di falso ideologico, tentata truffa aggravata, turbativa d'asta e induzione indebita a dare o promettere utilità a fini elettorali.
Nel corso degli accertamenti il rappresentante di un comitato civico consegnò agli investigatori la registrazione di una telefonata tra lui e Sciscione in cui l'allora presidente del consiglio comunale gli riferiva di indiscrezioni raccolte su mazzette consegnate a Marcuzzi e Procaccini.
IL VERBALE A quel punto le guardie costiere interrogarono Sciscione. L'allora presidente del consiglio comunale confermò, sostenendo di essere stato avvicinato dal titolare di una pescheria, il quale gli avrebbe detto che una persona voleva parlargli di quelle bustarelle, di cui però non aveva prove avendo consegnato denaro contante, non tracciabile. Sciscione disse che, a detta dell'imprenditore ittico, una persona appunto voleva fargli delle rivelazioni sulla consegna di «una busta contenente 50mila euro al signor Marcuzzi e un'altra busta contenente 40mila euro che invece aveva consegnato ad una persona ben vestita che avrebbe dovuto farla recapitare al signor Nicola Procaccini».
E aggiunse che secondo lui l'intermediario per Procaccini, considerando come gli era stato descritto, era un avvocato impegnato con FdI. Denaro che sarebbe servito per la campagna elettorale delle europee 2019. Sciscione affermò infine che l'imprenditore ittico non lo aveva ancora messo in contatto con l'uomo che avrebbe consegnato le tangenti e che non gli riferì « il nome o la descrizione ne cosa facesse nella vita questa persona » , così come non gli disse «lo scopo dei soldi consegnati a Marcuzzi e verosimilmente a Procaccini».
L'ALTRO FRONTE L'inchiesta " Feronia" non sembra aver creato particolare imbarazzo a FdI. La sindaca Roberta Tintari ha cercato di andare avanti e Procaccini ha anche ingaggiato come collaboratore Marcuzzi. Poi però la settimana scorsa sono arrivate le 13 misure cautelari nell'ambito dell'indagine " Free Beach". Ai domiciliari sono finiti la stessa Tintari e di nuovo Marcuzzi, mentre Procaccini è tra i 59 indagati. E proprio negli atti di " Free Beach" è emerso il sospetto su finanziamenti per la campagna elettorale 2019 dati o promessi all'eurodeputato dagli imprenditori romani che avevano rilevato il camping " Romantico", abusivo e ora sequestrato, a favore dei quali l'esponente di Fratelli d'Italia si sarebbe speso molto.
Diverse le telefonate intercettate in cui Procaccini si interessa del campeggio. I dubbi principali sono però concentrati su quanto affermato dall'ex presidente del consiglio comunale Gianni Percoco, anche lui arrestato, che parla alla Tintari del camping e su quegli imprenditori, intercettato grazie a uno spyware inoculato sul suo cellulare, dice: « Siamo andati a pranzo insieme, amm chiamat Nicola e stavano là per il finanziamento a Nicola per le europee, ci abbiamo mangiato insieme » . Ma per Procaccini la notizia dell'intercettazione è «atto di una violenza morale e civile inaudita».
Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 29 luglio 2022.
«Di quelle mazzette mi parlò un mio cliente abituale. Mi disse che voleva dire tutto a Gianfranco Sciscione ». Un imprenditore ittico di Terracina ha confermato alle guardie costiere di aver raccolto confidenze su delle bustarelle dirette all'eurodeputato Nicola Procaccini, di FdI, uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni, e all'ex vicesindaco di Terracina, Pierpaolo Marcuzzi, anche lui di Fratelli d'Italia.
Alla domanda su chi fosse quel cliente abituale che voleva vuotare il sacco l'imprenditore ha però affermato di non ricordarne il nome, rendendo così pressoché impossibile accertare se siano state versate tangenti per la campagna elettorale. Un muro di omertà quello contro cui si sono scontrati gli inquirenti.
Il caso è spuntato nell'inchiesta "Feronia", culminata sei mesi fa con l'arresto di Marcuzzi, che si preparava a una candidatura alle regionali. Il 22 luglio 2020 Gianfranco Sciscione, ex presidente del consiglio comunale di Terracina, venne interrogato dalle guardie costiere e riferì delle indiscrezioni raccolte su una presunta bustarella destinata all'attuale eurodeputato di FdI, ora indagato nella maxi inchiesta "Free Beach" con le accuse di turbativa d'asta e induzione indebita a dare o promettere utilità, e su una diretta all'ex vicesindaco, arrestato nuovamente la settimana scorsa ma già rimesso in libertà dal gip.
Dopo che il rappresentante di un comitato civico consegnò agli investigatori la registrazione di una telefonata tra lui e Sciscione, in cui l'allora presidente del consiglio comunale gli riferiva di indiscrezioni raccolte sulle mazzette, le guardie costiere interrogarono lo stesso Sciscione, che confermò. Sostenne di essere stato avvicinato dal titolare di una pescheria, il quale gli avrebbe detto che una persona voleva parlargli di quelle bustarelle, di cui però non aveva prove avendo consegnato denaro contante, non tracciabile.
Disse che, a detta dell'imprenditore ittico, si trattava di «una busta contenente 50mila euro al signor Marcuzzi e un'altra busta contenente 40mila euro che invece aveva consegnato ad una persona ben vestita che avrebbe dovuto farla recapitare al signor Nicola Procaccini». Gli investigatori hanno quindi interrogato anche l'imprenditore ittico, che ha confermato tutto, assicurando che le confidenze gli erano state fatte da un cliente abituale, di cui però non ricordava il nome.
Per quanto riguarda invece i due imprenditori romani alla guida del camping " Romantico", sequestrato perché ritenuto completamente abusivo e per i quali molto si era speso Procaccini, come emerso da diverse intercettazioni, gli investigatori hanno ipotizzato che quegli imprenditori finanziassero in parte la campagna elettorale dell'esponente di Fratelli d'Italia. L'ex presidente del consiglio comunale Gianni Percoco, messo ai domiciliari, è stato intercettato mentre diceva: «Siamo andati a pranzo insieme, amm chiamat Nicola e stavano là per il finanziamento a Nicola per le europee, ci abbiamo mangiato insieme».
Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 21 ottobre 2022.
C'è un lato ufficiale e conosciuto della dimensione finanziaria del partito di Giorgia Meloni. E un altro, invece, distante dai riflettori. Caratterizzato da associazioni e fondazioni che solo ufficialmente sono separate da Fratelli d'Italia, al cui interno compaiono tutti i fedelissimi della leader, alcuni con incarichi di rilievo e prossimi a occupare ministeri di peso. Attraverso queste entità esterne Meloni ha costruito una rete di relazioni internazionali, ha dialogato con pezzi dell'establishment dei conservatori americani, con i network conservatori che hanno ispirato le politiche neoliberiste più aggressive dei governi repubblicani e in alcuni casi hanno contaminato i programmi dei conservatori europei.
Fondazione Tatarella e Alleanza nazionale, Farefuturo e Nazione futura sono le sigle che ruotano attorno al partito erede del neofascista Movimento sociale italiano. Organizzano eventi collaterali all'attività di Fratelli d'Italia o contribuiscono a fornire il supporto necessario, per esempio la sede, come nel caso di quella di via della Scrofa, nel centro di Roma, di proprietà della fondazione Alleanza nazionale. Questi satelliti hanno agevolato l'ascesa di Meloni e le hanno garantito la legittimazione nazionale e internazionale.
È il caso della fondazione New Direction, creata nel 2009 da Margaret Thatcher e nella quale Raffaele Fitto ha un ruolo di vertice. New Direction coadiuva il lavoro dell'Ecr (European Conservatives and Reformists), i conservatori europei di cui Fratelli d'Italia fa parte e di cui Meloni è presidente. Fitto è indicato come il regista dell'operazione: ha convinto la leader di FdI che il contenitore più adatto e autorevole dove collocarsi in Europa fosse una formazione fedele al patto atlantico e custode dei principi del neoliberismo economico, piuttosto che diventare marginali aderendo al gruppo sovranista, di cui fanno parte la Lega e il partito di Marine Le Pen, guardati con sospetto perché filorussi. Per l'adesione all'Ecr Fratelli d'Italia dal 2017 versa una somma annuale variabile, nel 2021 è stata pari a 100mila euro.
Due milioni di servizi
I dati pubblici sui finanziamenti privati svelano che Fratelli d'Italia ha raccolto numerose donazioni per la campagna elettorale. Soldi ben spesi visto il trionfo dei post fascisti. Dagli elenchi pubblici risultano 2,5 milioni raccolti nel 2022, fino a luglio scorso. Le maggiori contribuzioni coincidono con l'inizio della campagna e la presentazione delle liste. Tra i candidati c'è chi ha dovuto versare anche 30mila euro a titolo di sostegno per le spese, ingenti, richieste da un tour pre elezioni in cui Meloni non si è certo risparmiata.
I conti del partito sono a posto: non solo in ordine, ma anche in attivo da quando Fratelli d'Italia ha iniziato la sua ascesa. Nel rendiconto finanziario 2021, l'ultimo disponibile, i ricavi sono raddoppiati superando i 4 milioni di euro. La metà di questi arrivano dal 2 per mille, la quota che ogni cittadino può devolvere ai partiti quando compila la dichiarazione dei redditi. Quasi un milione arriva dalle quote associative, in pratica il tesseramento divario tipo. Il resto da donazioni di privati, inclusi i parlamentari.
Rispetto al 2021 c'è un altro dato interessante: per tutte le campagne elettorali, dalla Calabria alla Lombardia, il partito nazionale ha speso all'incirca un milione. Ci sono poi le uscite per le decine di manifestazioni organizzate in tutta Italia. In particolare Atreju, l'evento annuale che è diventato un appuntamento fisso della politica nostrana. Non esiste una cifra pubblica messa a bilancio. I responsabili amministrativi, nella nota del bilancio 2021, spiegano che «tra i servizi sono indicate le spese per l'attività di propaganda e le manifestazioni».
Atreju rientra tra le kermesse organizzate dal movimento, si legge ancora. Certamente la più importante e la più impegnativa in termini di risorse impiegate. L'anno scorso Fratelli d'Italia ha speso in servizi 2,3 milioni. Parte di questa somma è stata destinata ad allestire il "Natale dei conservatori", l'ultima edizione di Atreju che si è svolta dal 6 al 12 dicembre 2021. Gli eventi organizzati nello stesso anno indicati nel documento contabile sono 18, la maggior parte però sono direzioni nazionali convocate su Zoom, quindi á costo zero, e campagne mirate ed elettorali, o il tour "L'Italia del riscatto" che ha toccato cinque città.
Fondazione in rosso
È difficile dire che la fondazione Alleanza nazionale sia altro rispetto a Fratelli d'Italia. Chi ne fa parte lo precisa di continuo, eppure basta dare uno sguardo al consiglio di amministrazione, di cui Meloni non fa parte, per dubitare. C'è Ignazio La Russa, il presidente del Senato. C'è Francesco Lollobrigida, capogruppo di FdI alla Camera, uomo forte del partito e marito di Arianna Meloni. Ci sono Fabio Rampelli e Andrea Delmastro Delle Vedove.
E ancora: Edmondo Cirielli e Luca Sbardella. Tutti esponenti di FdI. Certo c'è anche chi non appartiene alla "nuova destra", come Gianni Alemanno, il quale però è apprezzato dalle giovanili del partito, tanto da presenziare ad alcune iniziative degli studenti meloniani. Un altro link tra fondazione e movimento è rappresentato dalle sedi: di proprietà della fondazione presieduta dall'avvocato Giuseppe Valentino e usate da Fratelli d'Italia. Su tutte quella storica di via della Scrofa 39, il quartier generale del partito.
Ma anche l'altra di via Livorno 1, sempre a Roma, che ospita una sezione. Lo stesso vale per le sedi di Fermo e di Brescia e per molte altre. Non si sa quanto paghi di affitto FdI. Se qualcosa versa non è tantissimo, lo si capisce dai bilanci disastrosi della fondazione. Perennemente in perdita da anni: nel 2018 aveva chiuso il rendiconto con oltre 3 milioni di rosso, nel 2021 con un disavanzo di oltre un milione e più.
La fondazione, nonostante il rosso fisso, non risparmia: lo scorso anno ha speso un milione in servizi, divisi tra spese ordinarie non meglio specificate (440mila euro circa) e attività istituzionali (541mila euro). Ha incassato appena 170mila euro da attività editoriali, manifestazioni e altre attività. E ha dichiarato zero alla voce contributi da persone o società.
La domanda è quindi: come si finanzia? Solo con gli affitti? «Il valore del patrimonio immobiliare della fondazione è stimabile, complessivamente, in circa 20 milioni di euro», dice il presidente Valentino, «i canoni provenienti dagli immobili locati ammontano a oltre 450.000 euro su base annua». Cifra non sufficiente per presentare un conto in utile o quantomeno con perdite azzerate. «Non abbiamo mai accettato donazioni. Si avvale di quanto ottiene dalla gestione degli investimenti in portafoglio e delle proprie dotazioni patrimoniali», è la replica di Valentino. Che investimenti? «Sono costituiti da prodotti standard proposti dalle più importanti banche e assicurazioni italiane ed europee, a bassissima componente azionaria, come è tipico per gli investimenti a basso rischio».
Non può dirsi diversamente per la storica testata il Secolo d'Italia, di proprietà della fondazione An e, se non tecnicamente l'house organ di Fratelli d'Italia, certamente giornale amico. Con la redazione nello stesso palazzo di via della Scrofa. Il Secolo d'Italia ha chiuso il 2021 con un rosso di 161mila euro, il doppio rispetto al 2020, nonostante sia una testata online. I dipendenti sono 17, per un costo totale di 1,3 milioni tutto compreso, come si legge nel bilancio. Non è sufficiente neppure il contributo pubblico per l'editoria ricevuto a riportare in attivo il giornale.
Gli amministratori hanno dichiarato che anche per il 2021 spetta alla testata un milione di euro pubblici, è la cifra scritta a bilancio. Il presidente Valentino ha spiegato che «i disavanzi di gestione della fondazione sono strutturali e correlati a spese, oltremodo contenute, finalizzate alle sole attività istituzionali e alla gestione del Secolo d'Italia, storica testata della fondazione che costantemente incrementa la sua diffusione e riduce i suoi costi, mantenendo il posto di lavoro dei propri dipendenti».
Adolfo network
L'altra fondazione che supporta Fratelli d'Italia è Farefuturo, creatura di Adolfo Urso, presidente del Copasir, il Comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti, nella scorsa legislatura, oggi dirigente e parlamentare di Fratelli d'Italia, nome sempre presente nel totoministri come possibile titolare di diversi dicasteri, in pole position per lo Sviluppo economico. Al di là dei ruoli futuri, è certamente l'uomo che ha più lavorato per intensificare le relazioni con i repubblicani americani: sulla rivista della fondazione Charta Minuta scrive spesso James Carafano, analista della Heritage Foundation, dal 1973 è uno dei think tank conservatori più influenti al mondo.
Carafano è stato indicato dalla stampa internazionale tra gli esperti scelti da Donald Trump per comporre il team di transizione dopo la sua elezione. Tra le partnership segnalate dalla fondazione Farefuturo c'è anche quella con Iri, International Republican Institute, l'organizzazione espressione del partito repubblicano e presieduta per 25 anni da John McCain, l'ex candidato alla Casa Bianca morto nel 2018. Farefuturo ha raccolto diverse donazioni da privati.
La curva dei finanziamenti è cresciuta in coincidenza della nomina di Urso a presidente del Copasir. Dal 3 agosto 2020 a oggi ha incassato 97.300 euro, dichiarati secondo le norme che regolano le erogazioni ai partiti e alle fondazioni nei cui board sono presenti degli eletti. 1190 per cento di questa somma è arrivata sui conti di Farefuturo da maggio 2021, cioè da quando hanno iniziato a circolare le indiscrezioni sulla possibile elezione del parlamentare a presidente del Comitato.
Tra i più generosi troviamo il gruppo Gvm (Gruppo Villa Maria), oltre mezzo miliardo di fatturato, che fa capo all'imprenditore Ettore Sansavini e che nel 2021 ha ottenuto un finanziamento da 96 milioni, garantito dallo stato grazie al decreto Liquidità, da un pool di banche. Sansavini ha finanziato la fondazione di Urso attraverso due sigle, tra queste c'è anche l'istituto clinico Casal Palocco, durante la pandemia trasformato dalla regione Lazio in centro Covid. «Farefuturo rispetta appieno la normativa sulle fondazioni anche per quanto riguarda la massima trasparenza su bilanci e sostegno finanziario», dice Urso. Che rapporto lo lega al gruppo Gvm di Sansavini?: «Non ho alcun rapporto con il "patron" del gruppo. Conosco da lungo tempo il senatore e professore Valentino Martelli, noto cardiochirurgo, con cui costruimmo Alleanza nazionale nel 1994, e che credo ricopra un ruolo rilevante nel gruppo». Così è. Martelli fa parte dell'organico dell'istituto clinico Casal Palocco.
Gli altri donatori sono perlopiù sconosciuti imprenditori divari settori: società immobiliari, di logistica e di costruzioni. Nell'elenco anche la casa editrice Ad Maiora di Giuseppe Pierro, presente nel comitato scientifico di Farefuturo. Ad Maiora ha pubblicato un libro molto caro a Urso. Titolo: La sicurezza nazionale come interesse costituzionale, il caso Copasir. La presentazione del volume: con «Adolfo Urso, senatore di Fratelli d'Italia e unico componente dell'opposizione, presidente del Copasir si apre una stagione di protagonismo per il Copasir, come mai prima d'ora».
Farefuturo ha contribuito alla vita di Fratelli d'Italia, non solo in termini di dibattiti e idee, ma anche economicamente. Nel 2018 ha versato 20mila euro al partito. Con Farefuturo collaborano anche Kiril Maritchkov e lo psichiatra Alessandro Meluzzi. Il primo è il bulgaro che, da ambasciatore presso la Santa sede, ha creato grande scandalo con il libro clandestination. Un romanzo sull'immigrazione, in cui racconta di un uomo disperato costretto a prostituirsi, che aveva irritato le alte sfere vaticane, tanto da negargli il gradimento come diplomatico. Meluzzi è invece un idolo dei complottisti. No-vax convinto al punto da essere stato espulso dall'Ordine dei medici di Torino, in passato è stato candidato con Forza Italia.
Oggi più vicino all'estrema destra fa parte del comitato scientifico che, per Farefuturo, si occupa del Rapporto sull'islamizzazione d'Europa. L'ex Nar Urso risulta ancora tra i soci di E'uropa, osservatorio sulle politiche dell'Unione. «Mi risulta che l'associazione da lei citata non sia attiva da tanti anni». Dunque l'organizzazione, ancora visibile nei registri della camera di commercio, non esiste più. Ma rivela alcune relazioni di Urso. Alcuni suoi compagni di quell'avventura risultano adesso in Farefuturo, come Federico Eichberg, dirigente del ministero dello Sviluppo economico. Eichberg potrebbe quindi trovarsi presto, fossero confermate le indiscrezioni, con il suo amico Urso come ministro. Altro socio di E'uropa era Gabriele De Francisci, un militante "nero" nei Nuclei armati rivoluzionari, legato a Francesca Mambro e a Giusva Fioravanti, condannati per la strage di Bologna del 2 agosto 1980.
Di Fioravanti è stato «testimone delle nozze con Mambro», si legge in alcuni atti giudiziari, ed è citato ampiamente in una relazione del 1989 sull'omicidio di Piersanti Mattarella come soldato neofascista legatissimo ai capi dei nuclei armati. «Gli errori del passato non possono marchiare le persone a vita. Come accaduto con altri, per esempio con Adriano Sofri, che è stato accolto in un grande gruppo editoriale e di cui leggo ancora oggi, con interesse, le sue analisi. Nella nostra Costituzione lo scopo della pena è la riabilitazione», dice Urso.
De Francisci dal canto suo non nasconde la sua amarezza per i vecchi camerati armati: «112 agosto segna la fine dello stato di diritto e l'inizio dello stato della menzogna», scriveva sui social contestando la verità processuale sull'attentato alla stazione del capoluogo emiliano. Giudizio condiviso da molti in Fratelli d'Italia. In Europa, al fianco di Urso, c'era anche Domenico Temperini, manager della sanità, in particolare dell'Idi, l'Istituto dermopatico di proprietà della Congregazione dei figli dell'immacolata concezione.
Temperini dopo tanti anni è ancora sotto processo per il crac dell'ospedale vaticano. «Una storia surreale», commenta, «la giustizia in Italia andrebbe cambiata». Conferma la sua esperienza ai tempi di Alleanza nazionale nell'associazione E'uropa: «L'idea era di fare politica e creare un think tank che portasse idee fresche in An, poi ognuno ha preso la propria strada ma siamo rimasti molto amici con Adolfo».
Soldi pubblici
Urso è anche in un'altra fondazione di area conservatrice, nata per custodire la storia della destra sociale e neofascista del Movimento sociale: la prestigiosa fondazione Giuseppe Tatarella, intitolata al politico del Msi poi fondatore di An, l'anima moderata di quel partito. Urso non è l'unico di Fratelli d'Italia all'interno della onlus: ci sono La Russa, Tommaso Foti, Giulio Tremonti (eletto alle ultime elezioni con Meloni) e molti altri.
Il presidente del comitato scientifico è Pietrangelo Buttafuoco, scrittore e intellettuale d'area, amico di Meloni oltreché, secondo alcuni osservatori, suo ascoltatissimo consigliere. La fondazione è stata costituita nel 2002, quando regnava Alleanza nazionale e il leader era Gianfranco Fini (nel comitato pure lui). Il fratello Salvatore ha donato l'archivio e la biblioteca di Giuseppe "Pinuccio" Tatarella, un vero tesoro storico, politico, editoriale.
La fondazione, di cui non si conoscono i finanziatori privati, tra 112020 e i12021 ha ricevuto 1,6 milioni di fondi pubblici. Piccole quote sono arrivate da enti locali, la stragrande maggioranza dal ministero dei Beni culturali. A presiederla è Francesco Giubilei, enfant prodige della nuova destra meloniana ispirata dai conservatori inglesi e dai repubblicani a stelle e strisce. Giubilei, 30 anni, è un editore e fondatore di Nazione futura, movimento nato nel 2017 (pubblica una rivista).
Fino a qualche tempo fa era una realtà marginale, fuori dal perimetro della destra, adesso, con il trionfo di Meloni, tutto è cambiato. Nonostante la giovane età, il presidente della fondazione Tatarella conta su un capitale notevole di relazioni con i conservatori europei e americani. Dal 30 settembre al 2 ottobre è riuscito a portare a Roma parte di quel mondo all'evento "Italian conservatism". L'appuntamento, già previsto prima del voto ha però goduto del successo registrato appena una settimana prima da Meloni alle elezioni del 25 settembre. La tre giorni si è trasformata in una celebrazione della rivoluzione conservatrice in atto in Italia. Molti gli ospiti dall'estero, dell'estrema destra spagnola di Vox agli svedesi di Sweden Democrats fino al partito di Viktor Orbán, il premier ungerese.
Tra i relatori organici a Fratelli d'Italia c'erano Fitto in rappresentanza di Fratelli d'Italia e dell'eurogruppo Ecr, l'ex ministro ora senatore Giulio Terzi Sant'Agata e alcuni consiglieri comunali di varie parti d'Italia. In platea erano presenti tanti altri meloniani. A patrocinare l'evento, cioè a metterci i soldi, oltre a Nazione futura, altre due sigle: Fondazione Tatarella e The European Conservative.
Quest'ultima è una rivista trimestrale (ha anche un sito web quotidiano), che gli editori definiscono «il principale giornale trimestrale conservatore in lingua inglese di filosofia, politica e arti d'Europa. Pubblica articoli, saggi, interviste e recensioni che illuminano le diverse varietà di pensiero conservatore, tradizionalista, reazionario e di destra da tutta Europa e nel mondo».
Nel consiglio consultivo spicca John O'Sullivan, storico collaboratore di Margaret Thatcher. Tra i membri della redazione ci sono sia Giubilei sia Benjamin Harnwell, fedelissimo di Steve Bannon, consigliere di Trump negli anni della sua ascesa e collegamento con l'estrema destra europea. Alla tre giorni non poteva mancare Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d'Italia in odore di ministero, qualora dovesse lasciare l'incarico di presidente di Aiad, la federazione di Confindustria che rappresenta le aziende italiane del settore della difesa e aerospazio. L'Aiad è questione delicata per Crosetto, tra i consiglieri di cui Meloni si fida di più. Il conflitto di interessi è dietro l'angolo.
Di recente un'azienda ha versato 10mila euro al partito. Si tratta della Drass Galeazzi srl, si occupa di «tecnologia subacquea e prodotti per la difesa marina come sommergibili e veicoli per le forze speciali». Drass è specializzata in sottomarini, ed è tra i fornitori della marina militare italiana. Fin qui nulla di strano se non fosse che è anche membro di Aiad, il cui presidente è Crosetto, l'imprenditore e fondatore del partito di Meloni, che tra le altre cose ha intenzione di aumentare le spese militari ora che governerà. Almeno questa è la promessa fatta in campagna elettorale.
Gli affari sporchi di Fratelli d'Italia: "Finanziamenti illeciti" per l'europarlamentare Procaccini. Clemente Pistilli su La Repubblica il 26 luglio 2022.
Il fedelissimo di Giorgia Meloni avrebbe ricevuto soldi degli imprenditori romani per la campagna elettorale. In cambio ha agevolato “affari proibiti” sul litorale di Latina
Affari proibiti garantiti agli imprenditori romani in cambio di finanziamenti per la campagna elettorale che ha portato al Parlamento europeo Nicola Procaccini. Dalla maxi inchiesta della Procura di Latina sull'amministrazione comunale terracinese, che conta 59 indagati, spunta anche il sospetto che alcune pressioni per favorire chi voleva investire nella città pontina non siano state fatte solo per ottenere voti in quello che era un feudo di Fratelli d'Italia.
Chi è Nicola Procaccini, il politico indagato che imbarazza Meloni. Clemente Pistilli su La Repubblica il 21 luglio 2022.
La leader di Fratelli d'Italia ospite d’onore al matrimonio del politico indagato per turbativa d’asta
Quarantasei anni, tutti vissuti a pane e politica. L’eurodeputato Nicola Procaccini, indagato con le accuse di turbativa d’asta e induzione indebita a dare o promettere utilità, nell’ambito della maxi inchiesta sulle concessioni demaniali a Terracina, la sua città, è cresciuto in una casa di esponenti di Forza Italia e a destra si è fatto subito largo prima in Alleanza Nazionale e poi in Fratelli d’Italia, diventando uno degli uomini più vicini a Giorgia Meloni.
Giorgia Meloni, indagato il suo fedelissimo: pesanti sospetti sulla magistratura. Claudio Osmetti su Libero Quotidiano il 21 luglio 2022.
Toh, è finito indagato un fedelissimo di Giorgia Meloni. Ossia l'europarlamentare di Fratelli d'Italia Nicola Procaccini. Ché qui vale la vecchia massima di Andreotti: «A pensar male si fa peccato, ma...». Ecco, allora pecchiamo. C'è aria di crisi, elezioni forse che sì e forse che no; ogni sondaggio dà Meloni una spanna sopra gli altri, è il primo partito e con un distacco sempre più netto. E l'inchiesta dell'estate, il terremoto politico di fine luglio, chi ti va a beccare se non la costola laziale di Fdi, la sindaca di Latina (sempre in quota Fdi), il suo ex vice (anche lui Fdi) e nientemeno che uno stretto collaboratore del leader, guarda caso, di Fdi? Un caso? Può darsi, solo il tempo dirà se quest' indagine si sgonfierà come l'ennesimo soufflé malriuscito della giustizia italiana. Intanto i media (almeno quelli on-line, poiché la notizia è uscita ieri mattina e comunque ha impiegato mezzo secondo a fare il giro delle testate nazionali) si riempiono di titoli del tenore: "Maxi-inchiesta per corruzione, travolta anche Giorgia Meloni".
CONCESSIONI BALNEARI
I fatti: all'alba di martedì (ossia di ieri) i carabinieri e la capitaneria di porto entrano nel Comune di Terracina (Latina) sventolando sei provvedimenti di custodia cautelare appena emessi dal gip del tribunale locale su richiesta della Procura della Repubblica. Sono indirizzati ad altrettante persone: sia funzionari sia politici, nonché a qualche imprenditore. Tra loro c'è anche Roberta Tintari, che indosso ha la fascia tricolore perché dal novembre del 2019 guida l'amministrazione comunale dopo essere stata eletta in una coalizone che vedeva uniti Fratelli d'Italia e la formazione di Giovanni Toti. Le dicono che è agli arresti domiciliari per turbata libertà degli incanti e per falso nella gestione di un'arenile, anch' esso di proprietà comunale. Agli altri fioccano accuse legate all'affidamento in gestione delle spiagge e dei servizi della balneazione, frodi, indebite percezioni di erogazioni pubbliche e addirittura rilevazioni di segreti d'ufficio. Sei arresti (domiciliari) e sette ordinanze di interdizione dagli uffici pubblici.
È una giunta "decapitata", quella di Terracina: mica solo Tintari. Nei guai finiscono anche il presidente del Consiglio comunale e l'assessore ai Lavori pubblici. Si monta un polverone che ne basta la metà, sotto il sole che ribolle per via di un'estate rovente non soltanto a causa del meteo. Però, attenzione: non è esattamente un fulmine a ciel sereno. A metà gennaio, infatti, era toccato a Pierpaolo Marcuzzi, il vicesindaco, a essere coinvolto in un'indagine simile. Adesso, sostiene la procura di Latina, è stato possibile «accertare una pluralità di fatti penalmente rilevanti connessi alla gestione dei servizi di balneazione, oltre a condotte di sfruttamento del pubblico demanio marittimo che hanno interessato anche lavori e opere pubbliche».
PONTE CICLABILE
Come «la realizzazione di un ponte ciclopedonale attraverso un'indebita percezione di fondi europei con conseguenti danni erariali». Il clamore, insomma, sarebbe dovuto a una pista per le biciclette che, per carità, la legge e legge e va rispettata, però non è proprio il reato più infamante con cui ci si possa macchiare la fedina penale. Tant' è. E però, tra i nomi nel faldone ne sbuca un altro. Quello di Nicola Procaccini, che lavora tra Bruxelles e Strasburgo (è l'eurodeputato), è uno degli uomini più conosciuti di Fratelli d'Italia nella provincia di Latina e, in passato, è stato portavoce di Giorgia Meloni quando era ministro della Gioventù. Procaccini è originario di Terracina, è stato anche primo cittadino per due mandati, prima di Tintari, e adesso è accusato di induzione indebita e di turbata libertà degli incanti. «Non ho avuto modo di verificare con attenzione cosa mi viene esattamente attribuito», dice Procaccini in un commento laconico, «vedremo le carte. La cosa, ovviamente, non mi lascia indifferente, ma sono sereno la affronterà come si affrontano tutte le cose della vita». Complessivamente, a ieri sera, sul registro degli indagati, a Terracina, ci sono cinquanta persone. Sono stati sequestrati un campeggio e un ristorante a seguito di una «complessa e articolata», parole della procura, «attività investigativa svolta in un arco temporale di circa dodici mesi» e conclusa il giorno prima di una possibile crisi di governo. Niente, ora si vedrà. E chissà se ci abbiamo azzeccato, per dirla col Divo Giulio.
Marco Cusumano per “il Messaggero” il 20 luglio 2022.
Una giornata al mare nel gazebo riservato, una settimana in campeggio oppure una fornitura gratuita di carburante. Erano tanti i favori che diventavano merce di scambio, al Comune di Terracina, per ottenere benefici negli affari d'oro legati alle attività balneari. Un sistema di corruzione che ieri è stato stroncato da una retata dei carabinieri e della Guardia costiera che hanno fatto scattare una raffica di ordinanze di custodia cautelare, frutto di oltre un anno di indagini.
Agli arresti domiciliari è finita persino la sindaca Roberta Tintari, eletta nel 2020 con una lista di Fratelli d'Italia dopo un ballottaggio che la vedeva contrapposta a Lega e Forza Italia. Con lei sono stati arrestati anche Pierpaolo Marcuzzi, ex vicesindaco già colpito da un'ordinanza di custodia cautelare per un'altra vicenda a gennaio; Gianni Percoco, presidente del Consiglio comunale ed ex assessore al Demanio; i funzionari Costantino Corrado e Alberto Leone e l'imprenditore Giampiero La Rocca.
Altre sette persone sono state colpite da un provvedimento di interdizione dai pubblici uffici. Gli indagati sono 49, tra loro il nome più importante è senz' altro quello dell'ex sindaco di Terracina e attuale eurodeputato di Fdi, Nicola Procaccini.
(...)
La sindaca Tintari, invece, è accusata di aver distrutto il verbale di una riunione di Giunta dedicata al tema dell'abusivismo dopo un sopralluogo della Capitaneria all'interno dell'Arena del Molo. Ma nella sfilza di accuse ci sono anche gare pilotate e documenti falsificati. (...)
Un altro capitolo riguarda i contributi concessi senza procedure regolari. Cifre variabili che nel caso del servizio di salvamento arrivavano a 80.000: appalto assegnato alla cooperativa Mare e Monti 2018 ma senza un regolare bando pubblico. Un favore che, secondo la ricostruzione dell'accusa, fu sollecitato anche dall'europarlamentare Nicola Procaccini: intermediazioni ben riuscite tanto che alla fine la coop ottenne il contributo di 48.700 euro.
(...)
R.Cam. per “il Messaggero” il 20 luglio 2022.
Eletta sindaca alle amministrative del 2020, Roberta Ludovica Tintari 53 anni, ha un passato nel mondo del volontariato ed è stata presidente parrocchiale dell'Azione Cattolica.
(...)
Ed è stata proprio lei a celebrare, il 31 luglio 2017, il matrimonio con rito civile tra Procaccini e la sua sposa. Ma per Tintari è iniziata una stagione molto impegnativa, con la corsa di Procaccini verso il Parlamento europeo, conclusa con la candidatura (e l'elezione) del 2019.
Con la campagna elettorale prima e poi con il decollo di Procaccini a Bruxelles, Tintari diventerà di fatto il vice sindaco facente funzioni, appoggiandosi a Pierpaolo Marcuzzi, assessore in quota a Fratelli d'Italia della giunta municipale in carica. Si è arrivati così alle elezioni amministrative del 2020.
Il candidato sindaco questa volta è proprio lei, Roberta Ludovica Tintari. È a capo di una coalizione di centrodestra, ma che di fatto incamera anche esponenti politici fuoriusciti dal Partito democratico.
Un'apertura che le si ritorcerà contro in occasione di decisioni divisive all'interno della maggioranza, dove il principale azionista è Fratelli d'Italia, sempre pronto a contestarla. L'ultimo scontro poche settimane fa sulla scottante vicenda urbanistica che ha visto in città il sequestro di diversi immobili, frutto di una rigenerazione urbana ritenuta un po' troppo spinta.
(...)
Estratto dell'articolo di Clemente Pistilli per La Repubblica - Roma
Un ombrellone e due lettini, un fine settimana in un bungalow, un pranzo in un ristorante vip come "Il Vicoletto", ma anche solo un pieno di benzina. Secondo gli inquirenti, sarebbe servito poco ad alcuni imprenditori balneari di Terracina per corrompere politici e dirigenti comunali. (...)
Estratto dell'articolo di Marco Cusumano per “il Messaggero” il 21 luglio 2022.
Carte troppo compromettenti che dovevano sparire al più presto per evitare conseguenze. Così la sindaca Roberta Tintari decise di intervenire personalmente occultando i verbali di una riunione di Giunta nei quali si parlava dell'abusivismo all'Arena del Molo di Terracina. Era sotto osservazione e su questo si basa una parte delle accuse che la Procura di Latina avanza proprio nei confronti della prima cittadina finita agli arresti domiciliari con altre cinque persone. Sull'indagine che scoperchia la rete corruzione nel comune del litorale pontino ora vengono fuori nuovi particolari.
I PASTICCI Era il 25 settembre 2019 e la Tintari era ancora sindaco facente funzioni (fu poi eletta nel 2020 dopo il ballottaggio): la Giunta comunale quel giorno si riunì per affrontare il problema dell'abusivismo all'Arena del Molo.
La Guardia Costiera aveva già effettuato le sue verifiche e la Tintari, secondo la ricostruzione dell'accusa, tentò di insabbiare tutto, facendo sparire le carte più a rischio, probabilmente con l'aiuto di qualcuno. Secondo il giudice Castriota, che nell'ordinanza di custodia cautelare ne ha tracciato un profilo, la sindaca risulta «ottimamente inserita all'interno del sistema dì collusioni e interferenze tra imprenditoria e amministrazione comunale».
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Anche quando ricoprì la carica di vicesindaco, quando l'attuale europarlamentare Nicola Procaccini era primo cittadino, Tintari dimostrò di «disporre della connivenza di colleghi, ai quali si è rivolta non solo per soddisfare richieste illegittime del proprio elettorato ma anche per soddisfare interessi privati a scapito degli interessi della collettività, facendo mercimonio della propria funzione e infrangendo il rapporto di fiducia con chi le ha accordato il potere pubblico» scrive il giudice nell'ordinanza descrivendo la sindaca come una «personalità spregiudicata e particolarmente propensa al reato pur di soddisfare i propri interessi». Gli incontri per pianificare favori e iniziative si organizzavano, in alcuni casi, anche all'interno del palazzo comunale
Tra le accuse della Procura c'è anche la realizzazione di un ponte ciclopedonale grazie a un finanziamento europeo, un progetto inizialmente previsto come miglioramento delle aree di sbarco dei pescherecci, ma poi indirizzato verso una pista ciclopedonale con un passaggio sopraelevato. Intanto si attendono gli interrogatori di garanzia che sono stati fissati per lunedì con i primi tre arrestati: Roberta Tintari, Gianni Percoco e Corrado Costantino.
"Sapevo di essere innocente. Ma che rabbia la reclusione". Cadono le accuse sulle concessioni balneari contro l'ex sindaco di Terracina: «Vittima di un errore». Alessandra Benignetti l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.
Ventuno giorni di arresti domiciliari e altrettanti di gogna mediatica e social. Poi, la decisione netta del tribunale del riesame di Roma che cancella quattro dei cinque dei capi di imputazione (i più rilevanti) per cui era stata spiccata l'ordinanza di custodia cautelare contro Roberta Tintari, l'ex sindaco di Terracina, in quota Fratelli d'Italia. L'inchiesta «Free Beach» sulla gestione delle concessioni balneari sul litorale pontino che ha azzerato l'amministrazione di centrodestra, dipinta come il sequel di Mafia Capitale, inizia a sgretolarsi. Per effetto del provvedimento di piazzale Clodio la prima cittadina costretta a dimettersi è tornata in libertà. Ma la sua è una vittoria che lascia l'amaro in bocca. Come si è sentita quando ha firmato il verbale di scarcerazione?
«Come una persona perbene vittima di un errore che si sta chiarendo. Le cicatrici, però, sono molto profonde e non spariranno mai».
Cosa l'ha ferita in particolare?
«La cattiveria gratuita degli odiatori da tastiera, anche nei confronti della mia famiglia. E poi l'aver dovuto mettere la parola fine ad un'esperienza amministrativa che stava portando a termine tante opere pubbliche. Il danno inferto alla città è enorme. Terracina è una città che vive di turismo e il terremoto giudiziario si è verificato in piena estate: eventi cancellati, alcuni di grandissimo livello. Un dramma vero».
Per lei resta l'obbligo di firma due volte a settimana per una delibera riguardante il ponte pedonale del portocanale. L'accusa è di aver percepito indebitamente fondi europei, come replica?
«Più di due anni fa il Comune ha realizzato un ponte pedonale per i pescatori, grazie al quale ora possono trasportare agevolmente e in sicurezza i carrelli carichi di pesce. Un'infrastruttura utile anche per i passeggini o i disabili in carrozzina, in un punto molto delicato a livello di viabilità. Ma vedremo con i miei avvocati».
Come ha vissuto la reclusione?
«Con il dolore per la mia famiglia, la rabbia per la consapevolezza di essere innocente, l'angoscia che la situazione non si risolvesse in tempi brevi e la delusione per l'impegno vanificato e, anzi, inteso come finalizzato al malaffare. Ci vuole tanta forza per mantenere un equilibrio che si rischia di perdere senza l'amore della famiglia e il sostegno della fede».
Siamo davanti ad un caso di giustizia ad orologeria?
«Ho profonda fiducia nella magistratura. Certo, le scadenze elettorali sono note e la crescita dei consensi per Fratelli d'Italia anche. La vicenda di Terracina, iniziata a gennaio con l'arresto del mio vicesindaco (Pierpaolo Marcuzzi, di FdI, ndr), accomunata a questi due elementi e alla inconsistenza delle accuse lascia spazio agli interrogativi. Se giunte democraticamente elette vengono spazzate via con motivazioni come quelle del caso Terracina, nessuna persona perbene e sana di mente si candiderà mai più».
Lei si ricandiderebbe dopo questa esperienza?
«Oggi ho altre priorità. Ma non le nascondo che c'è un desiderio di riscatto per il lavoro fatto insieme alla mia giunta, che avremmo preferito sottoporre al giudizio popolare al termine del mandato. Non auguro a nessuno di vivere momenti come questi. E trovo assurdo che l'approssimarsi del più alto momento di democrazia per una nazione, scateni conflitti così accesi da infangare delle persone e lederne la dignità».
Estratto dell'articolo di M.Cusu. per “il Messaggero” il 21 luglio 2022.
«Tu mi devi solo dire con quante persone vieni, ci penso io a prenderti un bel gazebo e sabato mattina ti metto la benzina». Lo stabilimento più alla moda del litorale di Terracina, il Whitebeach, poteva contare sugli aiuti del Comune per risolvere ogni tipo di problema. Nelle carte dell'inchiesta giudiziaria sulla corruzione si fa spesso riferimento alle attività estive gestite da persone con agganci importanti.
Nell'agosto del 2019 la Guardia Costiera effettua un'ispezione nel locale Whitebeach contestando una serie di abusi, a cominciare da un allargamento dell'area utilizzata come cucina con una serie di pannelli di legno, piazzati senza alcuna autorizzazione. Successivamente anche i carabinieri del Nas effettuano i loro controlli nello stesso locale, riscontrando una serie di irregolarità che portano alla sospensione della licenza.
E a questo punto gli amici si mettono all'opera. «L'ordinanza - scrive il giudice Giorgia Castriota - prima ancora di essere notificata ai diretti interessati e agli organi di polizia amministrativa, fu comunicata dal dirigente Corrado Costantino al tecnico Giuseppe Zappone». Da qui i ringraziamenti per la soffiata, con l'offerta di gazebo e benzina, con il chiaro obiettivo di ottenere aiuti per risolvere il problema. (...)
Marina de Ghantuz Cubbe per repubblica.it il 29 luglio 2022.
"Cercare la comunità di pensiero e di intenti che da qualche parte esiste, lo so" e poi "nella vita vorrei tutto il possibile". Così, una giovane Giorgia Meloni 21enne, faceva il suo ingresso nel canale Italia di Undernet, uno dei primi luoghi della rete in cui si poteva chattare con altri nerd anni '90.
La pagina di presentazione di Meloni, che si faceva chiamare "la draghetta di Undernet Italia" ed è del 1998, è rispuntata su Twitter insieme a frasi di commento di un certo Pitagora, uno che all'epoca chattava con la draghetta. Il commento completo: "Conosciuta nella rete col nome di Khy-ri per le sue scorribande notturne in IRC sul canale Undernet #Italia. Romana, socialmente impegnata e con un bel caratterino è famosa per la sua passione per la letteratura "fantasy" e per le sue scazzottate virtuali sulla "pubblica" del canale #Italia. Simpatica e affabile con gli amici, diretta e pungente con chi lo merita, una amica nel vero senso della parola... occhio però a non pestarle la coda".
Ora, cosa siano le scazzottate virtuali sulla "pubblica" non è chiaro. Di sicuro Giorgia era già battagliera e con "un bel caratterino". Però era anche in cerca di una comunità di pensiero, le mancava un pezzo insomma. Eppure già da 6 anni faceva politica in quel Fronte della Gioventù che era l'organizzazione giovanile del Movimento sociale italiano.
Una continua ricerca di un luogo (una comunità) a cui appartenere: quella politica, quella virtuale. Ora guarda caso il suo partito sin dal nome, preme su un ulteriore senso di appartenenza: l'Italia, l'italianità. Tanto che i Fratelli sono sovranisti, euroscettici, sono fratelli d'Italia.
Nella presentazione che Giorgia fa di sé a 21 anni, con tanto di foto con il caschetto, la giacca nera un po' maschile, lo sguardo vivo e il sorriso accennato ma dolce, quella che potrebbe essere la prossima presidente del Consiglio si racconta: "Qui - in rete - sono stata accolta con tanto affetto e subito ho trovato un 'padrino', Mackley". Della serie: le tipologie di relazioni che si creano in rete non finiscono mai.
"Sono diplomata al liceo linguistico, studio all'università e nella vita vorrei tutto il possibile (e mi sembra abbastanza)", scriveva dimostrando subito di essere una che non si accontenta. E di provare gusto per le sfide: "I miei interessi sono i libri fantasy (naturalmente Il signore degli anelli è il mio libro preferito). Ma anche per le emozioni forti: "Mi piacciono i libri horror (soprattutto Stephen King)".
Il filosofo del cuore non poteva che essere quello del superuomo, Nietzsche. Il cui pensiero è stato interpretato in modo da diventare uno dei maggiori modelli teorici dagli ambienti di estrema destra nel Novecento. Su come è stato utilizzato dopo ci sono libri e discussioni ancora aperte, ma la draghetta sulla sua copertina si limitava comprensibilmente a scrivere "adoro Nietzsche".
C'è anche un po' di leggerezza in questa giovane ragazza: "Ascolto un sacco di musica anche classica, perfino la lirica, ma quella che preferisco è la musica dei complessi irlandesi". E poi "sto imparando a suonare la chitarra, da autodidatta, ma per ora i risultati sono pessimi e tento anche di cantare".
Giorgia Meloni, il retroscena di Vittorio Feltri: "Mi era antipatica. Poi..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 luglio 2022
Ebbi a che fare con Giorgia Meloni per la prima volta quando ella rivestiva il ruolo di ministro per la Gioventù nel governo Berlusconi. Mi aveva dato l'impressione di essere un po' superficiale, una da cui non mi sarei potuto attendere grandi opere in campo politico. Non per la giovane età, s' intende, bensì per le sue iniziative che mi sembravano effimere e banali, quindi non degne di essere prese in considerazione. Purtroppo, prima di dare un giudizio, di formarci una opinione riguardo una persona, subiamo l'influsso dell'immagine di quest' ultima, sebbene non ce ne rendiamo conto, non tendiamo ad approfondire, a volte ci basta uno sguardo perché qualcuno ci diventi simpatico o antipatico. Ebbene, a me Giorgia Meloni non era assolutamente simpatica. Allora dirigevo Libero ed ebbi con lei addirittura un piccolo scontro sul giornale in merito ad una delle sue proposte, una discussione sciocca tanto che si chiuse lì. Con stupore appresi dopo qualche anno che Meloni aveva intenzione di fondare un partito in sostituzione di Alleanza nazionale dato che Gianfranco Fini si era politicamente suicidato con la faccenda dell'appartamento e le liti con Berlusconi, che facevano apparire Fini un uomo più di sinistra che di centrodestra. Insomma, allorché Fini scomparve, la nostra Giorgia diede vita al suo partito, che è appunto Fratelli d'Italia. Mi risultava essere una scelta velleitaria, pensavo: "Ma dove diavolo crede di andare questa poveraccia, da chi prenderà i voti?". Pensieri - lo ammetto - un po' stupidi perché bisogna sempre dare a chiunque delle chance seppure noi non le intravediamo.
CON COSTANZA
Ha fatto bene Meloni a credere nel suo progetto e in se stessa, quando nessuno ci credeva, nemmeno io. In effetti Giorgia ha v edificato questo partito, stimato agli albori al di sotto del 2%, il quale tuttavia si mostrò subito vitale. Intanto passava il tempo e sentivo Meloni intervenire in aula e in tv, sempre in maniera puntuale, precisa, chiara, efficace. E leggevo altresì di alcune sue prese di posizione, così mi resi conto di condividere quello che Meloni sosteneva. Fu in tal modo che iniziai a seguirla con un certo interesse e osservavo sia lei sia il suo partito crescere, piano piano, poco a poco, eppure con costanza. Ad un certo punto mi sono persuaso che la destra in Italia non è mai morta, mentre io credevo che fosse agonizzante. Essa con Giorgia ha ripreso vitalità suscitando partecipazione nell'elettorato, tanto che in maniera non repentina eppure abbastanza veloce Fratelli d'Italia è arrivato a un livello che è addirittura concorrenziale alla Lega di Matteo Salvini.
Vincente la decisione di Meloni di restare salda all'opposizione con l'arrivo di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Molti italiani non condividono le linee del governo e hanno appoggiato Giorgia cosicché ella è arrivata a toccare vette altissime di gradimento. Peraltro il suo è l'unico partito retto da una donna, la quale per di più viene attaccata in modo sgangherato e questo ce la fa amare ancora di più. A mano a mano che Meloni cresce diventa più visibile nel mondo politico che prima la trascurava ola considerava una presenza ininfluente e non temibile. Ma soprattutto da quando è passata unica- all'opposizione ha suscitato una straordinaria attenzione pure da parte degli elettori i quali nutrono nei suoi confronti persino un certo affetto dal momento che si tratta di una donna, da sola, all'opposizione, con un partito aggressivo ma mai violento. Questo ha convinto parecchi italiani che Giorgia è coerente, coraggiosa, onesta, equilibrata nonché meritevole di essere appoggiata.
I FANTASMI
In questo Paese, quando non si sa come attaccare una persona che non sia di sinistra, si rievoca il fantasma del fascismo, che è appunto un fantasma in quanto il fascismo è morto settanta e rotti anni fa, quindi non esiste più, si sono estinti i fascisti così come si sono estinti i partigiani. Tuttavia l'antifascismo rappresenta tuttora un'arma che non si è spuntata. Allorché intendi attaccare qualcuno e non ravvisi le parole più taglienti, semplifichi dandogli del fascista e colui che è stato preso di mira non è più in grado di difendersi. Viene silurato con la stupidità. Ma Meloni non è assolutamente fascista né fa dichiarazioni che possano ispirarsi minimamente al fascismo, eppure per qualcuno il fascismo è una malattia mentale di cui soffrono tutti coloro che si schierano a destra, dunque pure Meloni. Fa ridere tutto ciò. In Europa si sono accorti di Giorgia prima che ce ne accorgessimo noi, dato che "nemo profeta in patria".
Ella è il capo dei conservatori, non è considerata come in Italia una fascistella, i fascisti non esistono se non a livello folkloristico, fanno il saluto romano e non beccano neanche un voto. Ormai Meloni ha consolidato la sua leadership e la sua posizione e addirittura c'è chi teme che nelle prossime elezioni politiche, che si terranno nel 2023, Fratelli d'Italia possa diventare il primo partito italiano e Giorgia Meloni possa quindi avere diritto ad assumere il ruolo di presidente del Consiglio. Questo è probabile che succeda. Eppure io ho un timore. Temo che codesto antifascismo di maniera, adoperato sovente come un manganello per zittire gli antagonisti politici, venga utilizzato proprio sudi lei allo scopo di impedire che divenga primo ministro. Qualora Giorgia fosse candidata al premierato in base ai voti incassati, i suoi nemici, per combatterla, ricorrerebbero a questi mezzucci fomentando una specie di sommossa popolare al fine di ostacolarne la strada verso la guida dell'esecutivo. E questo mi dispiacerebbe e non poco.
Spesso Giorgia viene a trovarmi nel mio ufficio, a Milano. Ridiamo, facciamo delle chiacchiere, ci confidiamo. Siamo diventati amici, direi che i nostri rapporti sono ottimi. Qualche mese addietro, giunta nel capoluogo lombardo per questioni di partito, ci siamo incontrati nell'ufficio di Ignazio La Russa e lì abbiamo parlato delle nostre tribolazioni. È stato in quella occasione che Giorgia mi ha chiesto di candidarmi come capolista al Consiglio comunale di Milano. Io che non ho mai fatto politica attiva perché non è il mio mestiere - faccio il giornalista e a fatica riesco a fare questo - figuriamoci se pensavo di buttarmi nell'agone politico. Però per un impeto di simpatia nei confronti di Giorgia ho accettato e sappiamo poi come è andata a finire. Insomma, soltanto una donna avrebbe potuto trascinarmi in politica, ma non una donna qualunque, bensì una donna intelligente, forte, capace come Giorgia.
Tuttavia, l'aspetto che mi rende Meloni simpatica è soprattutto il fatto che ella ama i gatti. Mi mandava le foto dei suoi mici e questo mi ha intenerito e la tenerezza è il sentimento più forte di qualunque altro, vince su tutto. Ci sentiamo quasi quotidianamente, ci inviamo messaggi, le do le mie opinioni senza la pretesa che vengano condivise e devo ammettere che Giorgia mi ascolta sempre, quantunque ella sappia benissimo come agire e non abbia bisogno dei consigli di chicchessia. Il punto di forza di Meloni, e occorre riconoscerglielo, è la sua capacità di ascoltare. Giorgia è attentissima a quello che succede alla gente, quindi anche a me, è una che presta l'orecchio, non soltanto una che parla, che fa dei comizi strepitosi.
Secondo me, questa è una dote fondamentale in politica perché, se non conosci il popolo, come fai a rappresentarlo o a governare?
LE FEMMINISTE
La prendono in giro per l'aspetto, l'accento marcatamente romano, la statura, trovo che ciò si volgare. Giorgia è una donna molto gradevole e produce tristezza la circostanza che sia bersaglio proprio dalla sinistra femminista. Il fenomeno Meloni è interessante da studiare poiché, nonostante questo femminismo imperante, assolutamente di facciata, la sinistra alimenta un'ondata di disgusto nei confronti di tutta la destra, signore incluse, tacciandola di essere sessista, maschilista, razzista. La contraddizione tra le prediche dei radical-chic e il loro agire è stridente. Trattasi di una propaganda negativa compiuta in mancanza di altri argomenti, validi e sostenibili. C'è sempre un buon motivo per inveire contro Meloni ricorrendo anche ad insulti brucianti, eppure la solidarietà in questo caso non scatta mai in quanto Meloni non è progressista. In Italia la politica è rimasta proprio nelle caverne. Tutto intorno a noi si è sviluppato, ma i politici seguitano ad insultarsi nella maniera più squallida possibile. Essi sono esseri primitivi, si ricoprono di improperi e accumulano debito pubblico, non sanno fare altro.
Giorgia Meloni: «La maternità mi ha cambiata, Andrea Giambruno è un padre fantastico. Il mio problema? Non sono mai contenta». Paola Di Caro su Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.
La leader di Fratelli d’Italia: il mio problema è la serotonina, ne ho troppo poca e quindi è come se non fossi mai serena. Intorno a me c’è astio, diventare madre però mi ha reso più sicura. Solo la fobia per gli scarafaggi è rimasta...»
Silvio Berlusconi, 85 anni, presidente di Forza Italia, Giorgia Meloni, 44 anni, leader di Fratelli d’Italia e Matteo Salvini, 49 anni, segretario della Lega
Negli ultimi cinque anni ha avuto la gioia di diventare madre di una desideratissima bambina; la soddisfazione di portare Fratelli d’Italia dal 3 al 22%, per i sondaggi oggi primo partito in Italia; il riconoscimento di guidare il partito Conservatore europeo; insieme l’onere e l’onore di una grandissima popolarità che spazia dai titoli del New York Times all’infinità di meme (insulti compresi) a lei dedicati; perfino un successo editoriale anomalo per un’autobiografia scritta a soli 44 anni, Io sono Giorgia. Quasi tutto, insomma.
Ma a Giorgia Meloni ancora due cose mancano. E su entrambe è difficile che si arrenda: la prima è il riconoscimento da parte degli alleati del suo diritto ad aspirare alla premiership. La seconda è la serotonina. Che c’entrano l’una con l’altra lo si capisce mentre parla per due ore praticamente di tutto, sul divano del suo ufficio a Montecitorio con vista sui tetti mozzafiato di una Roma già afosa, tra un caffè, l’ininterrotto vibrare del cellulare, le sollecitazioni del suo staff -- la portavoce Giovanna Ianniello, la segretaria Patrizia Scurti, donne essenziali per lei — a «sbrigarsi, facciamo tardi!» ad uno dei continui appuntamenti che scandiscono la vita di questa donna così granitica nelle sue convinzioni anche ideologiche — «Vesto e uso solo marchi italiani» detta — e insieme a tratti disarmante: «La verità è che mi sono sempre sentita inadeguata. Come se avessi ogni giorno “sfangato” in qualche modo l’esame di maturità. Come se non bastasse mai quello che faccio, e dovessi fare meglio, e meglio, e meglio. Però forse è la mia fortuna: mi fa stare con i piedi per terra, non mi fa perdere il senso delle cose e della realtà. Quello che accade a tanti, quando arriva il “successo”».
Nel suo libro, scritto quando i numeri di FdI erano già in crescita, lei si chiede: «Cosa voglio fare?». La risposta oggi è «il premier»?
«La verità è che io sono un soldato. Non ho mai detto “voglio fare questo”, che fosse il segretario del movimento giovanile, il deputato o il ministro. Mi ci sono ritrovata. E qualunque cosa stia facendo, penso sempre che vorrei essere da un’altra parte».
Però lei sa bene che il momento per provarci è ora.
«Io so che non sono un paria e che non voglio essere considerata come tale. Alle condizioni date, non voglio andare al governo a tutti i costi, ma penso che FdI, Meloni - noi insomma -, possiamo fare un bel lavoro per la Nazione. E penso che non possano esistere dei no pregiudiziali: non siamo inferiori a nessuno. Abbiamo affrontato una pandemia con Speranza alla Salute, una guerra con Di Maio agli Esteri, la tragedia di un ponte crollato con Toninelli alle Infrastrutture: e il problema sarebbe l’inadeguatezza di Fdi? Se fossero gli ultimi governi un parametro di riferimento della capacità e preparazione necessarie, noi potremmo governare a occhi chiusi. Ma noi pretendiamo di più».
I suoi alleati sono gelidi però. Lei ha sempre detto che essere donna non l’ha discriminata in politica, lo direbbe ancora?
«Diciamo che le reazioni che ho avuto io quando gli altri erano molto più forti di me - prima Berlusconi, poi Salvini - sono ben diverse da quelle che percepisco ora, quasi di astio... Non so se si tratti di misoginia, di antipatia, sicuramente c’è una rigidità innaturale. Poi però non credo che quella rigidità arriverà fino al sostegno a una ipotesi di proporzionale, che avrebbe come unico obiettivo - dichiarato - quello di colpire e provare a isolare FdI».
La sua provenienza dal Movimento Sociale è il fattore decisivo?
«No, non lo credo. E non lo crede davvero neanche chi lo dichiara. Chiunque abbia un minimo di senno e onestà intellettuale non può seriamente sostenere che io sia un pericolo per la democrazia. Ho i miei toni, i miei modi. E le mie proposte frutto di lavoro, studi, dati e conoscenza del mondo reale, non di ideologia. Possono essere non condivisibili da tutti, ma sono rispettabili e devono essere rispettati».
E, torniamoci, è donna. Anche madre di una bambina di 5 anni, Ginevra: da quando è nata la crescita sua e di FdI è stata esponenziale: un caso?
«No, non credo. La maternità mi ha cambiata, perché i figli per una madre - e credo anche per i padri - entrano in ogni aspetto della vita e ti fanno capire il valore delle cose. Per una donna poi, sicuramente per me che organizzo, imposto, mi prendo cura di ogni aspetto della vita di mia figlia, le arrabbiature, le tensioni, le insoddisfazioni, le delusioni, si sono tutte ridimensionate. I terrori quotidiani li ho superati, tranne per gli scarafaggi che sono una fobia vera! Sono sempre stata coraggiosa, ma ora sono coraggiosissima. Non voglio perdere tempo, non posso sprecare energie: quando torno a casa la sera e guardo mia figlia, e sta bene, ed è felice, penso: ecco, questo conta. Contano le cose importanti, nella vita di tutti noi. E la fermezza nei comportamenti, la concretezza, il senso dei valori di una madre sì, possono essere un di più in politica. Che manca».
Il vecchio detto «dietro ad un grande uomo c’è una grande donna» vale al contrario anche per lei?
«Certamente sì. Andrea (Giambruno, giornalista e conduttore Mediaset, ndr) è un padre fantastico, presentissimo. Passa a Milano una settimana al mese, ma quando è qui lavora quasi sempre di sera e durante il giorno sta molto con Ginevra. Ci alterniamo, ci aiutiamo, ci completiamo».
Gli chiede consigli, pareri?
«Lo coinvolgo, sì, ma non troppo. Quando siamo assieme cerco di lasciare fuori la politica, di staccare. Non è facile: lui segue tutti i talk, io passo davanti: “Ancora co’ la politica? Ti prego, cambia, non ne posso più!”, gli dico. A volte litighiamo perché nemmeno lo avverto prima di cosa faccio, dove vado: ha saputo che sarei andata a parlare in America due giorni prima, che c’era la Convention a Milano assieme ai giornalisti...».
Lei dice di non essere in competizione con le donne, ma nemmeno così sodale, sembra, con le colleghe. È vero?
«Non ho nessun problema, ci mancherebbe. Anche con le colleghe di partiti avversari: ricordo che Roberta Pinotti quando rivelai di aspettare un figlio mi mandò in regalo delle scarpine da neonato; mi sta simpatica Valeria Fedeli, scherzo spesso con Simona Malpezzi. Non guardo il sesso per entrare in empatia e nemmeno la parte politica per avere stima di una persona. Dovessi “rubare” qualcuno agli avversari sarebbe Roberto Giachetti, persona meravigliosa. E ho sempre avuto grande stima per Fausto Bertinotti, lontanissimo da me, ma crede in quello che dice. E questo conta». Va molto d’accordo anche con Enrico Letta, lei stessa definì il vostro rapporto come quello «tra Sandra e Raimondo».
È il sigillo di un nuovo bipolarismo o addirittura l’ipotesi di una strana alleanza futura?
«Quella volta sbagliai battuta. Avrei dovuto dire “sembriamo Don Camillo e Peppone”, mi vennero in mente Sandra e Raimondo, il che ha provocato letture in chiave da “amorosi sensi”, come se la donna dovesse essere sempre accoppiata a un uomo per contare. Ovviamente no, non esiste alcuna ipotesi di alleanza possibile futura. Sono orgogliosa di aver sempre detto che non governeremo mai col Pd e di averlo fatto. Il confronto con Letta è quello che dovrebbe essere normale in una democrazia matura, certo non la ricerca di una legittimazione, che non ho mai chiesto alla sinistra. E che non serve: chi ti legittima è sempre il voto degli elettori, anche quando scelgono un partito guidato da un comico come Grillo, per citare chi è lontanissimo da me».
Anche Draghi è ancora così distante da lei?
«Di lui penso quello che pensavo prima, anzi un po’ peggio. Perché ha dimostrato che non si governa senza il Parlamento e non si governa senza gavetta, anzi si rischia di perdere l’autorevolezza conquistata: è capace, è intelligente, ma non è miracoloso».
Tra un anno si vota, e lei parte in pole position: cosa direbbe alla bambina insicura, testarda, a volte sola e bullizzata - come racconta nel suo libro - se la incontrasse oggi?
«Difficile... Forse le chiederei “ma perché non sei mai contenta”?».
Oggi lo ha capito?
«Sì, da poco. È scritto nero su bianco, sul test del Dna che ho appena fatto, e che mi permetterà di migliorare con specifici integratori: ho i valori massimi di adrenalina e dopamina, fondamentali per l’eccellenza e la resistenza, ma minimi di serotonina, che permette l’adattamento. È come se non fossi mai serena, come se volessi stare sempre in un altro posto...».
A Palazzo Chigi?
«(Ride) E ti pare che non finivamo lì!».
Giorgia Meloni, Sallusti vede la trappola del Corriere: come vogliono distruggere la leader di Fdi. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 25 maggio 2022.
Due editoriali consecutivi sul Corriere della Sera buttano lì, accarezzano, una pazza idea per il futuro governo dl Paese. Il primo, lunedì, era firmato da Paolo Mieli: “… A meno che, nel parlamento rinnovato non si costituisca un asse tra Fratelli d’Italia e il Pd di Enrico Letta, un asse però assai improbabile”. Il giorno dopo, ieri, Angelo Panebianco è stato più esplicito. La prende alla lontana, anno 1200 quando Firenze fu governata insieme da Guelfi e Ghibellini, ma poi arriva al punto: “Ci si può chiedere se ci sarà qualcuno di così autorevole da costringere i due partiti probabilmente più votati alle prossime elezioni - Fratelli d’Italia e Pd - a governare insieme… i gruppi dirigenti dei due partiti dovrebbero riflettere… dismettere entrambi le bandierine e fare un bel disarmo simmetrico e bilanciato, discutere su come rafforzare le istituzioni di governo”.
Due editoriali di fila sullo stesso tema non sono un caso, non da quelle parti. La tesi è suggestiva: prendiamo i due partiti che si sono dimostrati più anti putiniani e più filo atlantisti, mandiamoli al governo e chiudiamola lì con questi balletti su dove collocare l’Italia nel mondo. Semplice, no? Onore a Giorgia Meloni che con il suo rigore si è conquistata la stima degli intellettuali organici non di destra, ma la questione puzza di trappola lontano un miglio. È vero che in questi anni ne abbiamo viste di tutti i colori - dal governo giallo-verde a quello rosso-verde e infine l’attuale arcobaleno - ma a immaginare per il domani a un esecutivo rosso-nero giuro non ci ero arrivato.
Sarò prevenuto, ma quando la sinistra manda avanti i suoi pensatori a lusingare qualcuno di destra dalle autorevoli colonne del Corriere c’è da preoccuparsi. Negli ultimi anni è accaduto due volte. La prima quando improvvisamente Gianfranco Fini diventò l’idolo dei progressisti che lo convinsero a mollare la casa del Centrodestra prima e a provare a far cadere il governo Berlusconi poi. La seconda quando la stessa cosa capitò con Angelino Alfano, segretario del Pdl, per poter insediare il governo Letta prima e spaccare definitivamente Forza Italia poi. Voglio dire che le avance della sinistra sono funzionali solo a dividere la destra, altrimenti difficilmente battibile nelle urne. Il messaggio è chiaro: cara Giorgia, non perdere tempo appresso a quei due perdenti filo putiniani di Salvini e Berlusconi che ti detestano, vieni con noi e vedrai che faremo grandi cose, tanto poi sulla legge Zan, sullo ius soli, sugli sbarchi e sull'aumento delle tasse un accordo in qualche modo lo troveremo.
In altre parole: tu hai i voti, noi siamo intelligenti, facci vincere le elezioni che una fettina di torta ci sarà anche per te. Detto solo per dovere di cronaca che Fini e Alfano politicamente hanno fatto la fine dei fazzolettini usa e getta, e detto che Giorgia Meloni è fatta di altra pasta, mi chiedo: se la sinistra, dopo averle provate tutte compresa l'annessione dei Cinque Stelle, è così disperata da immaginare di attaccarsi alla gonnella della Meloni (per poi ovviamente fregarla come è nel suo costume) perché offrirle l'ennesima ciambella di salvataggio? Provassero a vincere una elezione invece che tramare per governare da perdenti che la Meloni, immagino, saprà lei cosa fare al momento giusto.
“Nozze” Meloni-Letta? Giorgia stronca la trappola del ‘Corriere’: “Le parole per noi hanno un valore. Mai col Pd”. Adriana De Conto mercoledì 25 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.
“Il Corriere prepara la trappola per Giorgia“, titola a tutta pagina in prima Libero oggi in edicola. “Pd e FdI sposi in nome dell’Ucraina”. Chi è che “sogna” di officiare il rito dello sposalizio ? E’ il Corriere della Sera, che in due articoli di fondo consecutivi- quello di Paolo Mieli più cautamente, quello di Angelo Panebianco esplicitamente- “sognano” l’unione tra Meloni e Letta. Scrive il professore che entrambi i leader dovrebbero «dismettere le bandierine, fare un bel disarmo simmetrico e bilanciato, e cominciare sul serio a discutere di come rafforzare le istituzioni di governo». Due prove fanno un indizio: via Solferino vorrebbe celebrare l'”inciucio” non tanto per il bene dell’Italia, ma soprattutto per disinnescare i “putiniani” che sono nel M5S, della Lega e in FI, in nome del filoatlantismo e delle posizioni sulla guerra in Ucraina, scrive Belpietro sulla “Verità”. Ma guarda un po’ che bei sogni si fanno al Corriere.
Sallusti mette in guardia la Meloni dalla “trappola” della sinistra
Sallusti mette in guardia la Meloni: quando la sinistra attraverso gli intellettuali di punta del Corriere fa le avances alla destra c’è puzza di bruciato. Trappolone. Storicamente. Ciò avviene quando c’è l’intenzione di distruggere una destra troppo ingombrante, come quella di FdI, ormai primo partito consolidato; e quando nel mirino c’è l’idea di mandare a scatafascio la coalizione di centrodestra, anch’essa maggioritaria. Anche qui due indizi fanno una prova, scrive il direttore ripercorrendo due passaggi politici cruciali: la sinistra usò questa strategia eleggendo Gianfranco Fini a “icona” dei progressisti per far crollare il governo Berlusconi. “La seconda quando la stessa cosa capitò con Angelino Alfano, segretario del Pdl, per poter insediare il governo Letta prima e spaccare definitivamente Forza Italia poi”, rammenta Sallusti.
Chi sogna l’inciucio tra Meloni e Letta
L’avvertimento è chiaro: quando da sinistra si blandisce la destra è solo per “dividere la destra, altrimenti difficilmente battibile nelle urne. Il messaggio è chiaro: cara Giorgia, non perdere tempo appresso a quei due perdenti filo putiniani di Salvini e Berlusconi che ti detestano: vieni con noi e vedrai che faremo grandi cose, tanto poi sulla legge Zan, sullo ius soli, sugli sbarchi e sull’aumento delle tasse un accordo in qualche modo lo troveremo”. Ma Giorgia Meloni “è fatta di altra pasta”, scrive Sallusti.
Meloni: “Niente cambierà quello che pensiamo: Mai col Pd e M5S”
E infatti, è proprio lei, la “sposa” di questo fantomatico inciucio con il leader del Pd Letta, a scrivere un bel post di risposta che gela tutti gli “auspici” interessati a questo matrimonio di convenienza: “In un tempo nel quale si pensa che la parola data non conti più nulla; e in cui i partiti cambiano idea e opinioni sui propri avversari in base a poltrone e interessi, c’è Fratelli d’Italia che è rimasta sempre dalla stessa parte. Le ricostruzioni giornalistiche possono immaginare quello che vogliono, ma niente cambierà mai quello che pensiamo: mai con la sinistra, mai col M5S”. Il valore delle parole dette e degli atti concreti come contraltare a “sogni proibiti”.
Inciucio Letta Meloni? Il Pd provi a vincere una volta tanto
E pensare che basterebbe andare a leggere i discorsi della leader di FdI in ogni circostanza – in ultimo gli interventi di questi giorni in giro per l’Italia- per ascoltare parole precise di polemica contro Letta; contro il Pd, partito delle tasse, contro la riforma del catasto, di cui la sinistra è il principale sponsor. Basterebbe rileggere, ad esempio, gli accordi “anti-inciucio” chiesti a più riprese dalla Meloni agli alleati di Lega e FI prima di ogni tornata elettorale. Insomma: c’è chi pensa che cambiare idea da un giorno all’altro rientri nella sfera delle possibilità. C’è chi penmsa che le alleanze possano essere somme algebriche senza contenuti. E c’è chi, come Giorgia Meloni, non lo pensa minimamente. C’è chi ha della politica una visione. Se ne facciano una ragione. Anzi, postilla dell’editoriale: il Pd le ha provate tutte: il tentativo di “annessione dei cinquestelle”, ora attaccandosi “alla gonnella della Meloni (per poi ovviamente fregarla come è nel suo costume). Ecco, perché invece non prova “a vincere una elezione invece che tramare per governare da perdenti”?
Daniele Di Mario per iltempo.it il 3 maggio 2022.
«Questa è la convention degna del primo partito italiano». Un militante di Fratelli d'Italia ha quasi le lacrime agli occhi guardando il MiCo di Milano stracolmo di delegati, giornalisti, militanti. Vengono da ogni parte d'Italia: Veneto, Lombardia, Sicilia, Campania. Ovunque.
Adesso i sondaggi danno il partito di Giorgia Meloni al 21%, di poco sopra il Pd. E la conferenza programmatica, con tutto il suo entusiasmo, certifica l'ottimo stato di salute di un movimento che s' appresta a correre per il governo del Paese.
Ma tra padiglioni con dibattiti che s' avvicendano, delegati che parlano, giornalisti che inseguono questo o quel parlamentare per un'intervista, una battuta, un retroscena, c'è anche l'altra faccia del partito.
Quella che non è mai cambiata. Chi frequenta da anni Atreju, tradizionale kermesse giovanile meloniana, ricorda le provocazioni culturali e le gag. Ecco, la convention di Milano non è luogo per gag. Ma le provocazioni culturali restano.
Così, nel pantehon dei conservatori ci sono Margherita Sarfatti (intellettuale, mecenate dei futuristi e amante di Benito Mussolini, sul quale ebbe una enorme influenza), Giovanni Paolo II, Enzo Ferrari, Ennio Flaiano e persino Pierpaolo Pasolini, il cui totem figura a fianco a quello di Tolkien.
La musica poi. «L'avvelenata» di Francesco Guccini insieme con «Berta filava» di Rino Gaetano a tutto volume prima dell'inizio dei lavori.
C'è naturalmente la libreria che vende pubblicazioni di area culturale conservatrice. E poi c'è lo stand dei gadget di Fratelli d'Italia, un brand che tira e che viene usato giustamente come forma di autofinanziamento. Si vendono felpe, penne, accendini, braccialetti di gomma. Ma anche felpe e penne. I prezzi? Popolari: dieci euro un berretto da baseball. Molto meno il braccialetto o l'accendino. I militanti e i delegati si fermano, parlano coi ragazzi dello stand. E comprano. Il brand FdI tira eccome.
Estratto dell'articolo di Marcello Veneziani pubblicato a novembre 2009 da il Giornale il 3 maggio 2022.
L’inventore moderno della destra divina è uno scrittore sui generis, con tessera Pci: Pier Paolo Pasolini. La destra divina di Pasolini non era una destra storica ma onirica, perché viveva nella dimensione del sogno. Stupido è dunque cercarla nella realtà.
Ne parlai anni fa in un mio saggio, ripescando la sua poesia Saluto e Augurio, l’ultima prima di morire che Pasolini scrive quasi presago della sua morte, ed è dedicata a un giovane fascista. In quei versi in friulano Pasolini sciorina la sua destra divina, il suo amore disperato del passato e della tradizione ed esorta il giovane fascista a servire la destra divina attraverso un triplice comandamento: difendi, conserva, prega. La poesia di Pasolini, che si definiva «uno sgraziato reazionario», diventa il viatico del testo di Langone e il triplice imperativo pasoliniano campeggia sotto il titolo del suo libretto.
Ma, informo Camillo, l’inventore storico e mitico della destra divina è addirittura un Re normanno, Ruggero II Altavilla, che nel sud Italia coniò il mirabile motto: Dextera domini fecit virtutem, dextera domini exaltavit me. Traduco anche se è un latino trasparente: la destra del Signore fece la virtù, la destra del Signore mi esaltò. Insomma la destra divina ha quasi nove secoli, quella umana neanche tre, se partiamo dal Parlamento inglese o dalla Rivoluzione francese (…)
Il direttore editoriale di «Libero» nel suo intervento alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 2 Maggio 2022.
«Sono contento che questa conferenza si tenga a Milano perché tutto succede a Milano, anche dal punto di vista politico. Non a caso il fascismo è nato a Milano, Berlusconi non è di Sorrento, la Lega è nata a Milano. Attenzione: chi conquista Milano conquista anche Roma (a parte che Giorgia Roma l’ha già conquistata). Sono convinto che FdI continuerà a essere il primo partito italiano. Il Tricolore l’anno prossimo stravincera’». Così il direttore editoriale di «Libero», Vittorio Feltri, nel suo intervento alla conferenza programmatica di FdI
Da repubblica.it l'1 maggio 2022.
L'intervento ieri sul palco della conferenza programmatica di FdI di Gennaro Sangiuliano, direttore del Tg2, diventa un caso. Italia viva e Pd chiedono l'intervento dei vertici Rai per un chiarimento urgente.
"Trovo grave e assolutamente improprio il comizio politico del direttore del Tg2 Sangiuliano alla conferenza di Fdi a Milano. Non è mai accaduto che un direttore di Tg Rai facesse un comizio a una convention di partito. Secondo le regole Rai chi lo ha autorizzato? Serve un urgente chiarimento e l'intervento dei vertici Rai" dice la senatrice Valeria Fedeli, capogruppo del Pd nella Commissione di Vigilanza Rai.
Sulla stessa linea anche Michele Anzaldi di Italia viva, segretario della commissione di Vigilanza Rai, che scrive su Facebook: "Il comizio del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano alla convention di Fratelli d'Italia a Milano rappresenta un caso senza precedenti: mai un direttore di un tg Rai era salito sul palco di una conferenza di partito per un intervento di carattere politico, addirittura proprio l'intervento chiamato a lanciare il discorso immediatamente successivo della leader Giorgia Meloni. Come ha potuto l'amministratore delegato Fuortes autorizzare una tale umiliazione della funzione del servizio pubblico? Come è stato possibile avallare un atto di tale disprezzo e arroganza nei confronti dei cittadini che pagano il canone?".
"Che sia stato un intervento politico - prosegue Anzaldi - lo confermano gli stessi quotidiani che ne hanno dato conto: la convention Fdi è stata apostrofata come 'giornata di avvio della campagna elettorale', 'inizio del percorso per portare Fdi a Palazzo Chigi', 'atto fondativo del nuovo partito dei conservatori', e il discorso di Sangiuliano sul conservatorismo è stato inserito dal Corriere della Sera in un pezzo sul nuovo 'Pantheon' di Fdi. Nessun dubbio, quindi, che sia stato un episodio dal chiaro carattere politico.
A novembre, in occasione della scadenza del mandato dei direttori nominati dal governo gialloverde, avevo chiesto pubblicamente al presidente Draghi di assicurare al servizio pubblico veri direttori di garanzia per i tg, anche alla luce di quanto era accaduto negli anni precedenti con le sanzioni Agcom: un appello lasciato cadere nel vuoto e oggi vediamo i risultati.
Era stato proprio Fuortes alcuni mesi fa, con una circolare, a regolare e limitare ad un massimo di 10 all'anno le partecipazioni esterne dei giornalisti e direttori Rai a convegni, presentazioni, eventi di vario tipo: a che serve ridurre le partecipazioni, se poi si autorizza un intervento del genere?
Oppure dobbiamo pensare che Fuortes non ne sapesse nulla e Sangiuliano non abbia ricevuto nessuna autorizzazione, in violazione delle regole aziendali? Di certo chi ha dato l'ok a quell'intervento a una manifestazione politica ha assestato un duro colpo alla credibilità dell'informazione Rai. In tante occasioni i direttori Rai hanno partecipato a feste ed eventi di partito facendo il proprio lavoro, ovvero intervistando leader e moderando dibattiti, ma mai si era assistito ad un vero e proprio speech politico come quello del direttore del Tg2 a Milano, chiamato a lanciare il discorso della leader del partito".
Da leggo.it l'1 maggio 2022.
Giorgia Meloni, nel discorso di chiusura della tre giorni della conferenza proframmatica di Fratelli d'Italia a Milano non ha risparmiato qualche frecciata alla stampa. La leader di FdI, ad un certo punto, dopo aver raccontato un aneddoto su una domanda di un cronista ad un delegato ha allargato le braccia, guardando incredula il pubblico in platea.“Domande lunari" le ha etichettate, mentre - quasi come una consumata attrice - faceva intuire ai delagati il suo sgomento.
«Un giornalista - ha raccontato - ha chiesto a un delegato, “ma questa maglietta scura è un omaggio alle camicie nere?”... Ma cosa vuoi rispondere? Vi rendete conto che siete lunari: lo dico per la vostra professionalità. Mi vergogno a fare sta domanda, gli risponderei io. Pensano che con questi argomenti che fermeremo la guerra e la crisi? E che tutto questo interessa la gente? C'è chi fa riunioni di redazione per trovare qualcosa per non raccontare quello che sta succedendo».
«Voi sognate una destra sfigata - ha incalzato Meloni - cupa, invece siamo una destra vincente, rispettata, che ha al vertice una donna, mentre a sinistra le donne si devono accontentare dei ruoli che gli uomini danno loro. Non vi va giù. Voi raccontate le favolette, noi facciamo la storia»
Da “la Stampa” l'1 maggio 2022.
Parlando da Milano il cofondatore di Fratelli d'Italia Guido Crosetto ha accusato Ugo Magri: «Scrive che ieri (venerdì, ndr) non si è parlato di programma. Io ho sentito per la prima volta un discorso di un'ora e dieci pieno di programmi. Voi giornalisti vi siete ormai abituati agli slogan, perché per voi è più comodo riempire l'articolo di quello che vi chiede il direttore».
La risposta di Ugo Magri
Giorgia Meloni ha parlato molto (e bene) di politica, poco (o nulla) di programmi. Si è sforzata di offrire una chiave di lettura del presente e una prospettiva di destra proiettata in avanti con un discorso che a tratti, per la sua vastità, ha ricordato i «brevi cenni sull'universo» dei grandi leader di una volta, i quali cercavano di fornire anzitutto una visione del mondo.
Ha rotto l'incantesimo di un'emergenza in cui per due anni s' è parlato solo di Covid e, adesso, di guerra, bruciando sul tempo gli avversari: nello scontro delle idee ha segnato un punto a favore. Ma i programmi concreti per governare sono tutt' altra cosa. Preoccupa che Guido Crosetto non ne colga la differenza, proprio lui, così spesso candidato suo malgrado a tutti i ruoli di un futuro governo di centrodestra. Quanto all'accusa di aver mosso critiche per compiacere la direzione, potrei adottare lo stesso metro e rispondergli che mi attacca per ordine della Meloni. Ma non lo penso: temo che sia tutta farina del sacco di Crosetto.
Quando Giorgia Meloni era un “coatto antico” della Garbatella. Giampiero Casoni il 25/08/2022 su Notizie.it.
"Piccolo coatto antico in un corpo da bambina", questo il titolo della canzone di quando Giorgia Meloni era una giovane promessa della destra romana
Ci è voluto un account Twitter ricco della curiosità per ricordare e far rammentare di quando Giorgia Meloni era un “coatto antico” della Garbatella. Di cosa parliamo? Di una vecchia canzone di “rock identitario” orientato politicamente a destra dedicata all’allora responsabile di Azione Studentesca Giorgia Meloni, ragazza tenace e di piglio già sicuro proveniente dalla periferia di Roma ed approdata nella galassia del movimentismo controllato allora da Alleanza Nazionale.
Come spiega bene Fanpage quel pezzo rock è una celia, una “ballad goliardica” dove si gioca in stereotipo voluto sul contrappunto fra la dolcezza femminile di Giorgia e l’anima “quasi maschile e borgatara” di una giovane con un carattere di ferro. Ecco un frame del testo con strrofa-titolo: “Coatto antico in un corpo da bambina, ce tieni in un coro grosso e na mente fina, coatto antico dici troppe parolacce, ma quanta grazia con il trucco e con le trecce”.
Una ragazza con i “c******i quadri”
E ancora: “Coatto antico ma quanto quanto sei coatto, anche se hai quegli occhi da cerbiatto, mi guardi e sorridi con i tuoi occhioni ma quando serve c’hai i coglioni quadri”. La band era quella degli Aurora e il suo frontman era Persiko, cioè Raffaele Persichetti, il coordinatore nel 2014 dei volontari della campagna elettorale sui social di Giorgia Meloni e più volte candidato alle elezioni municipali di Roma.
Da lastampa.it il 26 agosto 2022.
"Coatto antico in un corpo da bambina/Ce tieni un core grosso e na mente fina/Coatto antico dici troppe parolacce/Ma quanta grazia con il trucco e con le trecce". Comincia così, con questi quattro versi in rima baciata, la canzone che nell'estate del 1998 la band di estrema destra "Aurora" dedica a Giorgia Meloni, allora ventunenne, già leader nazionale di Azione studentesca, l'organizzazione giovanile di An che di lì a pochi mesi l'avrebbe proiettata nelle istituzioni con l'elezione alla Provincia di Roma, guidata all'epoca da Silvano.
La canzone si intitola "Pcaiucdb", acronimo di "Piccolo coatto antico in un corpo da bambina". I versi sono di Raffaele Persichetti, in arte Persiko, già esperto social di FdI nel 2014 e, prima ancora, frontman della band "non conforme" che frequentava lo stesso ambiente di Meloni, quello delle organizzazioni giovanili della destra romana più o meno estrema.
Da rollingstone.it il 26 agosto 2022.
Questa campagna elettorale a trazione social sta regalando colpi di scena inaspettati, tra coalizioni fatte (e disfatte) su Twitter, scaramucce da asilo tra leader di partito e aut aut non proprio riuscitissimi come questo.
Le settimane che precedono le elezioni, solitamente, sono anche quelle in cui è più facile fare emergere dettagli sconosciuti che ripescano nel passato dei principali leader di partito: è successo anche ieri, quando un utente, @KulaPemaChoki, ha condiviso sul suo profilo Twitter una canzone che, nel 1998, il gruppo romano di ispirazione neofascista Aurora ha dedicato a Giorgia Meloni, al tempo 21enne e leader nazionale di Azione studentesca, l’organizzazione giovanile dell’ex Alleanza Nazionale (potete ascoltarla qua sotto).
Il brano, intitolato Piccolo coatto antico in un corpo da bambina, presenta nel testo diversi riferimenti all’attuale leader di Fratelli d’Italia. È una canzone goliardica, che fa utilizzo di inflessioni dialettali, dedicata a una figura carismatica e alla sua capacità di imporsi, da donna, all’interno del sottobosco dell’estrema destra capitolina con i suoi modi apertamente “maschili” e un po’ coatti, per l’appunto.
Versi come «Coatto antico in un corpo da bambina, ce tieni in un core grosso e na mente fina, coatto antico dici troppe parolacce, ma quanta grazia con il trucco e con le trecce» e «quando serve c’hai i coglioni quadri, mi piaci così coatto antico come sei, parli come magni e nun fai piagnistei, mi piaci perché sei tutta d’un pezzo e te ingrugni con chi ti sta sul cazzo» suggeriscono che, al tempo, Meloni rappresentasse una sorta di punto di riferimento per la destra studentesca romana.
Il frontman della band si chiama Persiko, al secolo Raffaele Persichetti, ed è una figura abbastanza conosciuta tra le fila di Fratelli d’Italia: già nel 2014, avrebbe coordinato i volontari della campagna elettorale sui social di Giorgia Meloni consacrandosi come una sorta di spin doctor, ed è stato più volte candidato alle elezioni municipali di Roma.
Gli Aurora sono una band nota agli ambienti underground dell’estrema destra romana: ad esempio, si sono esibiti in più occasioni assieme agli ZetaZeroAlfa, il gruppo di Gianluca Iannone, leader e fondatore di CasaPound. La domanda sorge spontanea: chissà se, 24 anni fa, Persichetti e soci immaginavano già che quella “piccola coatta antica in un corpo da bambina” sarebbe diventata talmente potente e popolare da rischiare di diventare la prima presidente del Consiglio donna della storia repubblicana.
IL TESTO DELLA CANZONE “COATTO ANTICO”
Coatto antico in un corpo da bambina
Ce tieni in un coro grosso e na mente fina
Coatto antico dici troppe parolacce
Ma quanta grazia con il trucco e con le trecce
Coatto antico ma quanto quanto sei coatto
Anche se hai quegli occhi da cerbiatto
Mi guardi e sorridi con i tuoi occhioni
Ma quando serve c’hai i coglioni quadri
Mi piaci così coatto antico come sei
Parli come magni e nun fai piagniste
Mi piaci perché sei tutta d’un pezzo
E te ingrugni con chi ti sta sul cazzo
Coatto antico ma quanto poi esse rozza
Quando ridi a squarciagola e sei sbronza
Quando alla tv ti incazzi con Santoro
E degli studenti porti la coron d’alloro
Coatto antico ho votato i tuoi Meloni
Perché so che sei brava a rompe li cojoni
A tutti quei potenti ministri e papponi
Che non so proprio boni a guidà le istituzioni
Coatto antico vieni dalla Garbatella
Borgatara ignorante ma di presenza bella
Coatto antico in un corpo da bambina
di questo povero cuore tu sei la rovina
Coatto antico in un corpo da bambina
Senza di te sto movimento va in rovina
Coatto antico in un corpo da bambina
Ai tuoi studenti ignoranza rara infondi.
Da “Posta e Risposta” – “la Repubblica” il 7 settembre 2022.
Caro Merlo, il Paese è tutto Coattonia: tatuaggi, pettinature da calciatori e niente più per favore, grazie, prego, scusi Non ci salveremo e la Reginetta regnerà. Giorgio Fossati
Risposta di Francesco Merlo: Sapremo il 26 settembre se Coattonia è così grande come lei teme. Ma cosa vuol dire Coattonia? Antonio Padellaro ha spiegato bene ieri sul suo giornale che il "reginetta di Coattonia", che qui noi usiamo, nasce dall'identità di passionaria di periferia che Giorgia Meloni esibisce e rivendica in contrapposizione alla spregevole natura nostra di radical chic, caro Fossati.
Ma il nostro, che non è un complimento, è un gioco d'ironia con l'album di famiglia di Giorgia. Padellaro ha accennato alla canzone "Coatto antico" che nel 1998 le fu affettuosamente "dedicata dalla banda di estrema destra Aurora".
Eccola: "Coatto antico in un corpo da bambina/ ci tieni 'n core grosso e 'na testa fina / Coatto antico dici troppe parolacce / ma quanta grazia col trucco e le trecce / Coatto antico ma quanto sei coatto / anche se hai gli occhi da cerbiatto / guardi e sorridi con i tuoi occhioni / ma quando serve quadrati hai i coglioni /
Mi piaci così coatto antico come sei / parli come magni e non fai piagnistei / mi piaci perché sei tutta d'un pezzo / e te 'ngrugni con chi ti sta sul cazzo / Coatto antico ma quanto poi esse' rozza / quando in tv ti incazzi con Santoro / Coatto antico ho votato i tuoi meloni / perché so che sei brava a rompere i coglioni / a tutti quei potenti ministri e papponi / Coatto antico vieni dalla Garbatella / borgatara ignorante di presenza bella / Coatto antico in un corpo da bambina / di questo povero cuore tu sei la rovina / senza di te 'sto movimento va in rovina".
Come si racconta Giorgia Meloni sui social. Pier Luigi Pisa su La Repubblica il 23 agosto 2022.
Intervista al deputato Mauro Rotelli, responsabile della comunicazione di Fratelli d’Italia: laureato in Economia aziendale e in Scienze politiche, si divide tra l’attività del partito e i dibattiti su innovazione e tecnologie
“Tutta la nostra catena organizzativa è animata da persone che hanno avuto a che fare con la destra. E dunque con Fratelli d’Italia ma anche, per esempio, con Alleanza Nazionale”. Mauro Rotelli, il responsabile nazionale del Dipartimento Comunicazione di FDI, non ha dubbi: ai contenuti che finiscono sui social deve pensare chi ha avuto un “impegno diretto nel partito”.
Rotelli segue la scia di Giorgia Meloni da quando quest’ultima è diventata ministro della Gioventù nel 2008. All’epoca era un consulente, 10 anni dopo è stato eletto alla Camera.
Rotelli, perché per la vostra strategia comunicativa è così importante l’appartenenza al partito?
“La sensibilità politica è indispensabile. Un’agenzia esterna ci metterebbe al pari di un qualsiasi cliente commerciale”.
La campagna elettorale di FDI, come quelle degli altri partiti, sarà profondamente influenzata dai social. Per una comunicazione efficace conta l’esperienza, la pancia, o un algoritmo?
“La differenza la farà il contenuto. Se è buono, cavalcherà l’algoritmo. Certo, tutto cambia da social a social. Su Facebook punteremo, per veicolare i messaggi, su grafiche che ricordano icone e app. Più in generale useremo pillole video per spiegare il nostro programma. E continueremo a usare YouTube, dove Giorgia Meloni è molto forte”.
Perché Meloni funziona, su YouTube?
“Ci abbiamo scommesso fin dall’inizio, lo usiamo per condividere i video più lunghi. I suoi interventi, per esempio, anche di 40 minuti. Oppure le interviste, come quella rilasciata recentemente a Fox News. Le visualizzazioni sono importanti, e lo sono da prima che Meloni scalasse posizioni nei sondaggi”.
Come si declina, sui social, Giorgia Meloni?
“La linea che abbiamo tenuto, da sempre, è quella dell’autenticità. C’è un piccolo staff che la segue e che poi fa riferimento a me. Cerchiamo di modificare il meno possibile ciò che dice, anche il suo essere forte e decisa nelle affermazioni. Insomma proviamo semplicemente a raccontarla”.
Chi approva i post che riguardano la leader del partito?
“La stessa Giorgia Meloni. È molto pignola, vidima tutto personalmente”.
Ha fatto discutere la sua scelta di condividere il video pubblicato dal Messaggero che testimonia uno stupro avvenuto in strada a Piacenza. Letta ha criticato fortemente la scelta di condividerlo, Meloni ha ribattuto fornendo le sue motivazioni. In molti sostengono che la campagna elettorale sui social, con questo video, abbia passato il segno. Cosa pensa di queste polemiche e soprattutto come avete deciso di pubblicarlo?
La campagna ha passato il segno da tempo e non per nostra volontà o di Giorgia Meloni. Lo stupro di Piacenza è un fatto gravissimo. Il video pubblicato (che in seguito è stato rimosso, ndr) è oscurato, in modo da non far riconoscere la vittima ed è condiviso dal sito di un importante quotidiano nazionale. C’è spesso una doppia morale nel raccontare questi fatti gravi.
Su Facebook il divario tra la pagina di Meloni (2,3 milioni di follower) e quella ufficiale di FDI (438mila follower) è evidente: i social sono lo specchio perfetto della personalizzazione della politica?
“L’immediatezza e le prese di posizione di Giorgia Meloni per noi sono strategiche, i suoi contenuti animano la comunicazione del partito. Ma va detto che sono cresciuti anche gli altri. Prima del 2018, FDI viveva con soli 9 deputati e il canale ufficiale era ancora più depresso. Ora abbiamo due gruppi parlamentari sostanziosi, più politici da mandare in tv e più contenuti da queste trasmissioni che si possono usare sui social, insieme agli estratti dei lavori parlamentari”.
Come hanno cambiato, i social, il modo in cui dialogate con gli altri partiti?
“Ci siamo dovuti organizzare, come tutti. Ora abbiamo uno staff che monitora continuamente quello che gli avversari politici dicono e fanno sulle varie piattaforme. Affinché un nostro politico, se restasse offline per il tempo di un volo, al suo atterraggio non riceva solo informazioni sull’attualità ma anche su ciò che è accaduto sui social, per rispondere adeguatamente alle domande dei cronisti”.
Giorgia Meloni punterà su TikTok?
“Su questo social ha avuto un’impennata di visibilità dopo il remix di un suo discorso che è diventato virale. Quel video ha generato meme e balletti. Ma non faremo contenuti specifici per TikTok, che resta una piattaforma giocosa: inquinarla con video più seri non credo sia positivo”.
E Twitch? Lo userete?
“Abbiamo un po’ di richieste: le stiamo valutando. Le elezioni sono vicinissime, forse nel breve periodo questo social non può raggiungere la massa che ci interessa. E poi vogliamo pensare alle piazze, al territorio: non vogliamo tralasciare i luoghi di aggregazione reali passando ore su Twitch”.
Secondo lei, i social sono populisti?
“Credo di no, c’è veramente di tutto. C’è anche molto fake, ma definirli populisti no, non lo direi”.
Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 15 giugno 2022.
Il titolo del libro che ha pubblicato nel maggio del 2021, giunto all'ottava edizione, Io sono Giorgia (Rizzoli), racchiude il senso stesso della personalità politica della segretaria di Fratelli d'Italia: il pronome della prima persona singolare, riferita ovviamente a sé stessa, è lo stigma della sua forza; Io seguito dal verbo: Io sono.
Niente da dire: un'affermazione incontrovertibile, così come il nome: Giorgia. Non il cognome, che è l'appartenenza a una gens, a una famiglia, c'è anche quella spiccatamente matrilineare, ma il nome proprio, segno d'una identità semplice, diretta e immediata.
Se si fosse intitolato: Io sono Giorgia Meloni, non avrebbe funzionato. Chi ha inventato quel titolo, editore, ghost writer o pubblicitario che sia, ha reso perfettamente lo stigma della capa di Fratelli d'Italia - non Sorelle d'Italia, perché sono gli uomini ora da conquistare.
Poi la foto di copertina di Giammarco Chieregato, anch'essa perfetta nell'interpretare il ruolo che vuole avere la candidata Prima ministra, prima donna della storia della Repubblica italiana.
Ti guarda dritto negli occhi senza sorridere, in modo quasi neutro. Il punctum dell'immagine è la mano che, senza reggere la testa - non è la foto d'una "pensatrice", cui la testa pesa -, s'appoggia alla guancia e solleva leggermente la chioma, che cade sul lato destro del viso, mentre il resto del corpo è sfumato.
Si tratta senza dubbio della fotografia d'una diva, ma non di una diva cinematografica, e neppure televisiva; piuttosto una foto pubblicitaria in bianco e nero con cui si promuove un prodotto di bellezza, una crema per il viso, oppure un profumo, usando una modella anonima, capace di trasmettere un messaggio diretto: la-uso-io-che-sono-come-te. Non troppo bella, e neppure brutta, una donna qualsiasi, che però ci tiene al proprio volto, alla sua pelle.
La forza di Giorgia Meloni sta in questa medietà, che sa trasformarsi in un messaggio pubblicitario: nella "naturalezza". Giorgia, poi, è uno dei nomi più diffusi oggi in Italia tra le bambine, uno dei primi dieci, e proviene, da una antica radice greca: indica la lavoratrice della terra, la contadina.
La leader della destra italiana, destinata a rinverdire i fasti del Movimento Sociale e di andare elettoralmente al di là del passato neofascista del partito creato dai reduci della Repubblica di Salò, non poteva avere un nome più adatto.
La autobiografia, scritta in prima persona singolare, costruisce la leggenda di Santa Giorgia Meloni, una ragazza acqua e sapone, cioè autentica, che ha edificato il proprio mitologema partendo da una frase pronunciata il 19 ottobre 2019: «Io sono Giorgia. Sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana», cui si era aggiunge la frase: «Non me lo toglierete». Nella costruzione della mitologia personale di Giorgia Meloni il tema vittimistico è rovesciato in un'affermazione polemica rivolta a "voi": «togliere», ovvero «portar via».
Nel suo libro l'io domina sul noi, rovesciando uno dei punti salienti del secolo passato, dove il Noi ha dominato, sia a destra che a sinistra, sulla prima persona singolare: il collettivo era più importante del singolo.
Giorgia Meloni è il perfetto prodotto della televisione berlusconiana, della cultura del narcisismo, come l'ha definita Christopher Lasch in suo libro, il cui sottotitolo è: "L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive".
L'autobiografia Io sono Giorgia è scandita su quella frase emblematica: «Sono donna», «Sono una madre», «Sono una italiana», «Sono di destra». Quel «Sono di destra» è lo slogan centrale della sua identità. Il capitolo con questo titolo è aperto da una frase dei Maroon 5, il gruppo musicale pop rock: «Ora il mio cuore si sente come un tizzone e sta illuminando l'oscurità/ Porterò queste torce per te e sai che non le farò mai cadere».
Anche nel primo capitolo, intitolato Piccole donne, c'è l'immagine del fuoco: «Allora dovremmo tutti bruciare insieme», recita un verso di Ed Sheeran il cantautore inglese. Il fuoco indica la passione, sia umana che politica, e la fiamma è il principale simbolo del Movimento Sociale Italiano: la fiamma tricolore.
La passione è il leitmotiv dell'autobiografia di Giorgia, su cui è costruita la sua immagine pubblica. Ma non c'è solo quella. Al di là dell'invenzione pubblicitaria, del mitologema personale costruito con attenti strumenti retorici, del tutto simili a quelli utilizzati per la pubblicità di prodotti estetici - l'estetica è importante per Giorgia, così come lo era, in senso rovesciato, quindi simmetrico, per Silvio Berlusconi -, c'è la faccia trash della Meloni.
In un libro di Tommaso Labranca, che andrebbe riletto con attenzione, Andy Warhol era un coatto. In Vivere e capire il trash, pubblicato l'anno della vittoria elettorale di Berlusconi, sono enucleate le cinque caratteristiche del Trash: la libertà di espressione, il massimalismo, la contaminazione, l'incongruenza, l'emulazione fallita.
Come commenta nella sua fulminante voce Trash nel volume della Treccani Arte Elio Grazioli, alla caratteristica fondamentale della rivendicazione trash «fa da sfondo un apparente e significativo ossimoro libertà-fallimento».
La parte trash della Meloni consiste proprio nel trasformare alcune delle sue caratteristiche apparentemente fallimentari - l'inflessione romana, da borgatara, il suo modo di vestirsi, le posture che prende nei comizi -, in elementi di libertà e di positività.
«Io sono Giorgia» significa: io sono una del popolo, io so come vive la gente che si è fatta da sé. La borgatara diventa perciò una popolana, secondo una tradizione a Roma propria dei personaggi della letteratura dialettale (pasquinate e Trilussa): popolana che dice la verità.
Così viene percepita anche al Nord, dove ora raccoglie consensi rubando sostenitori ed elettori alla Lega di Matteo Salvini, un leader che ha cercato di costruirsi una identità trash, ma finendo per essere kitsch. Contro la ragazza Giorgia, che da bruna si è trasformata in bionda, le felpe di Salvini appaiono una trovata da oratorio, o al massimo da centro sociale.
Un leader che s'è intestato un partito, ma senza realizzarlo fino in fondo, distruggendo nel contempo la mitologia leghista precedente: un vero fallimento. Dal punto di vista del mitologema, Matteo non può gareggiare con l'invenzione di Io-Giorgia.
Se è vero che la politica resta ancora oggi una questione di simboli, a destra non c'è gara. Basta vedere, o rivedere, Io, io, io... e gli altri, il film di Blasetti interpretato da Walter Chiari, per capire come andrà a finire.
Niccolò Dainelli per leggo.it il 15 giugno 2022.
Guido Crosetto ha attaccato Lilli Gruber, giornalista e conduttrice di Otto e Mezzo, paragondola a Erode. Questo il twitter del cofondatore dei Fratelli d'Italia: «La Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell’infanzia».
In molti su Twitter si stanno chiedendo il perché di questo paragone. E la spiegazione sta nella puntata di Otto e Mezzo di martedì 14 giugno. Lilli Gruber ha mandato in onda un estratto dell'intervento di Giorgia Meloni al comizio di Vox, partito di estrema destra spagnolo, a Marbella. La Meloni si è dichiarata contro le lobby lgbt, ma a favore della famiglia tradizionale, contro l'immigrazione incontrollata, ma favorevole all'apertura delle frontiere, favorevole alla "vita", e contraria alle ideologie del "fine vita". Un discorso in crescendo che ha fatto breccia tra i militanti del partito di estrema destra spagnolo.
Una clip che non è piaciuta a Guido Crosetto, visti i toni che la Meloni ha tenuto durante il comizio. E per questo, dunque, secondo il deputato, la Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell'infanzia. Crosetto fa riferimento alla Strage degli innocenti raccontato nel Vangelo secondo Matteo, in cui Erode il Grande, re della Giudea, ordinò un massacro di bambini allo scopo di uccidere Gesù, della cui nascita a Betlemme era stato informato dai Magi.
Il tweet di Crosetto è diventato subito virale scatenando le ire di chi sta dalla parte dell'informazione e l'ilarità, invece, di chi sostiene il deputato di Fratelli d'Italia. C'è chi infatti risponde con la stessa ironia «O come la Meloni ai diritti umani», e chi invece «Chi ha detto infatti che la Gruber è una giornalista?». In molti, adesso, si chiedono se Lilly Gruber risponderà.
Libero Quotidiano il 15 giugno 2022.
Lilli Gruber risponde a Fratelli d'Italia e lo fa nel corso dell'ultima puntata di Otto e Mezzo. Al centro del dibattito c'è Giorgia Meloni, forte del risultato alle amministrative e finita sotto il fuoco della sinistra per aver parlato in Spagna, alla convention di Vox. E così la Gruber ieri sera ha condotto una trasmissione dove gli ospiti "rossi" presenti hanno picchiato duro sulla leader di Fratelli d'Italia rispolverando la retorica "nera" per attaccarla dopo il risultato elettorale delle Amministrative. E Guido Crosetto, come vi abbiamo raccontato, ha tuonato contro la Gruber: "La Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell’infanzia".
E questa sera a fare da scudo alla Gruber c'ha pensato Pier Luigi Bersani: "Fratelli d'Italia al Nord non arriva neanche lontanamente alle cifre che stimano i sondaggi, se fossi in loro ci farei una riflessione... Poi, sull'intervento della Meloni a Vox, io lo distribuirei pubblicamente perchè è un'operazione verità. Perché sia nel tono aggressivo e rabbioso che nei contenuti, loro sono questo: un restyling di 'Dio - Patria - Famiglia'. Ma non puoi pensare che gli italiani non reagiscono se gli tocchi nel profondo il senso democratico. Io non condivido le parole usate da Crosetto..".
La risposta della Gruber non si è fatta attendere: "Possiamo sbagliare come giornalisti ma certamente noi non manganelliamo".
"Compagna chic, impari la decenza". La Gruber finisce nella bufera. Marco Leardi il 15 Giugno 2022 su Il Giornale.
Dopo una puntata di Otto e Mezzo piena di critiche a Giorgia Meloni, la giornalista finisce nelle polemiche. Crosetto attacca: "Sta al giornalismo come Erode al rispetto dell'infanzia".
"Meloni, destra di governo o estrema destra?". La domanda, più che altro, era un assist. Nella puntata di Otto e Mezzo in onda ieri sera su La7, il dibattito sull'attualità politica si è trasformato in una sorta di tiro al bersaglio contro la leader di Fratelli d'Italia. Nulla di nuovo sotto il sole, soprattutto alla luce degli attacchi piovuti contro la suddetta esponente politica dopo le amministrative. Nel talk show della rete terzopolista non sono per l'appunto mancate critiche a senso unico, accompagnate da una conduzione che - ancora una volta - è stata accusata di smaccata faziosità.
Durante e dopo la puntata in questione, infatti, su Lilli Gruber si è scatenata la bufera: in molti hanno rimproverato alla giornalista di aver fatto trasparire la propria ostilità politica alla Meloni. Già durante la diretta, l'atteggiamento della conduttrice e quello di certi suoi ospiti erano stati stigmatizzati sui social da alcuni telespettatori. Tra di essi, anche il fondatore di Fratelli d'Italia, Guido Crosetto, che aveva riservato alla giornalista un tweet al fulmicotone. "La Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell’infanzia", aveva scritto l'imprenditore.
A finire tra le critiche, anche gli interventi di alcuni ospiti intervenuti nel corso del dibattito. Ad esempio, la filosofa Rosi Braidotti, che aveva accostato le tesi della Meloni a quelle Putin, parlando di "propaganda di stampo assassino". Parole alle quali la stessa leader di Fratelli d'Italia aveva poi risposto a tono: "Risponderà delle sue affermazioni nelle sedi opportune. È finita la ricreazione, cari amici della sinistra senza argomenti e senza dignità. Ora basta".
In riferimento a quanto andato in onda, le rimostranze nei confronti di Lilli Gruber non si sono però esaurite con la serata di ieri. Stamani, infatti, presenziando in collegamento a un dibattito proprio su La7, anche la senatrice di Fratelli d'Italia, Daniela Santanchè, è tornata sull'argomento. Ospite di Myrta Merlino, l'imprenditrice ha colto l'occasione per evidenziare il proprio disappunto. "Ieri sera su La7 abbiamo visto una delle peggiori pagine della televisione, perché quando si fanno le trasmissioni tutte contro la leader di un partito c'è qualcosa che non funziona", ha attaccato la Santanchè. E ancora, esplicitando il soggetto di quelle critiche: "Parliamo della compagna chic, Gruber, non di un conservatore o di un liberale...".
Poi, la senatrice di Fratelli d'Italia ha replicato anche alla conduttrice Myrta Merlino, che provava a stemperare gli animi. "Una giornalista dovrebbe informare, non dovrebbe dare opinioni così pesanti... Impari la decenza", ha chiosato.
"Propaganda di stampo assassino". La prof in tv contro Giorgia Meloni. Francesca Galici il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.
Ancora un attacco contro Giorgia Meloni dopo il suo intervento in Spagna e dopo le amministrative che vedono FdI in netta crescita.
Giorgia Meloni come Vladimir Putin: questo è il parallelismo fatto da Rosi Braidotti, professoressa, durante l'ultima puntata di Otto e mezzo. Ha definito "Propaganda assassina" il comizio fatto dalla leader di Fratelli d'Italia durante un appuntamento elettorale degli alleati di Vox a Marbella. "O si dice sì o si dice no. Sì alla famiglia naturale, no alle lobby LGBT, sì alla identità sessuale no alla cultura gender, sì alla cultura della vita no all'abisso della morte, sì all'universalità della Croce no alla violenza islamista, sì ai confini sicuri no all'immigrazione di massa, sì al lavoro della nostra gente, no alla grande finanza internazionale. Viva l'Europa dei patrioti", ha detto Giorgia Meloni parlando in Spagna.
Parole che hanno scosso Rosi Braidotti, che collegata con Lilli Gruber ha fortemente dissentito, addirittura dichiarando di provare timore: "Ho paura cara Lilli, questo tono riconfortato dalla vittoria elettorale, una furia scatenata contro i presunti nemici dei sacri valori Dio Patria e Famiglia. Linguaggio violento contro omosessuali, donne non madri, migranti". Alla filosofa viene lasciato ampio spazio per esprimere la sua opinione e lei non si fa pregare, muovendo ulteriori accuse a Giorgia Meloni oltre a quelle già mosse dal Pd nel pomeriggio: "Mi rassicura perché capisco chi è veramente la Meloni. Mi sembra che ricalca la rabbia micidiale di Putin, Kirill e Dugin, che rivendicano anche loro quei valori ma esclusivamente russi e in contrapposizione con l'Occidente decadente. Ed è per questo che vogliono distruggerci".
Anche la conduttrice è rimasta attonita davanti a queste parole, ma soprattutto davanti alla conclusione portata dalla professoressa: "Discorsi ideologicamente diversi si ricongiungono su violenza, misoginia, omofobia, una propaganda di stampo assolutamente assassino che mi fa molta paura e molta tristezza. Se questo è il programma io resto all'estero, grazie". L'incremento del consenso alle urne da parte di Fratelli d'Italia ha evidentemente scosso molti intellò rossi, che ora hanno ripreso la campagna d'odio contro Giorgia Meloni.
"È ripartita la solita solfa del Pd che non fa altro che certificare il successo di FdI in queste amministrative e la loro consueta incapacità di interpretare le vere necessità degli italiani. Le bugie della sinistra crescono esponenzialmente con il consenso che gli italiani tributano a Giorgia Meloni e a Fratelli d'Italia. Questo modo becero di intendere il confronto politico non fa altro che certificare il terrore crescente di chi non ha altro da offrire all'Italia se non il proprio odio per chi non si piega agli interessi loro e dei potentati che rappresentano", ha sintetizzato Maria Cristina Caretta, deputata di Fratelli d'Italia.
Francesca Paci per “La Stampa” il 15 giugno 2022.
All'indomani del voto da cui i rispettivi partiti sono emersi vincitori, schizzano scintille tra Giorgia Meloni e la responsabile esteri del Pd Lia Quartapelle, che commenta il discorso della leader di FdI al comizio dell'ultradestra spagnola Vox evocando il passato fascista che non passa. Dura la replica dell'altra: pretendo di sapere se Letta condivide.
Meloni è fascista o no?
«Ho toccato un nervo scoperto. Da anni è in atto un tentativo di creare una internazionale sovranista che ha caratteri eversivi e che vede alleate l'ultra destra americana, i neofascisti europei e gli oligarchi russi che agiscono per conto di Putin e finanziano il World Congress of Family.
Tutti sanno che FdI non ha preso soldi da Mosca, ma Meloni ha pronunciato un discorso che contiene le parole d'ordine di questa galassia. In Italia si presenta come una leader di destra moderata ma a Marbella è andata a fare campagna per Vox, i nostalgici del franchismo. Della serie, dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. È come se la leader di FdI avesse detto in spagnolo cosa pensa davvero».
Meloni chiede a Letta cosa ne pensi il Pd. Cosa ne pensa?
«Meloni parla come se in Italia ci fosse un complotto contro la famiglia tradizionale. Io non lo vedo. Lei lo agita per nascondere che su economia e lavoro non sa cosa dire. Se Meloni ha una ricetta migliore di Draghi contro l'inflazione e il lavoro la proponga. Perché invece fa proclami e urla additando come nemici quanti difendono la libertà sessuale? Chi vuole la famiglia tradizionale ha tutto il diritto di averla, ma mi ripugna chi vuole discriminare altre esperienze di vita. Vogliamo far crociate per dividere le famiglie le une dalle altre? » .
E se evocare il fascismo fosse un modo un po' semplicistico per non dire che la leader di FdI ha un messaggio chiaro per un popolo definito, ossia quanto manca alla sinistra?
«Il suo messaggio, tutto rivolto al passato, sta riscuotendo un certo successo, è vero, tra gli italiani preoccupati del presente. Ma non serve ad aiutare chi affronta le difficoltà e l'incertezza del futuro. Noi vogliamo sostenere gli italiani a muoversi verso un futuro in nome di salari giusti, transizione ecologica, lavoro, Europa».
La crescita di FdI e l'ambizione di Meloni alla guida del Paese, sono un pericolo fascista per la nostra democrazia?
«Gli sbandamenti di Salvini hanno aperto un'autostrada a Meloni. La destra è contendibile, lei ne approfitta. Siamo il primo partito in Italia. Per contrastare la sua crescita dovremmo occuparci dell'astensione. Se vogliamo difendere la democrazia ed evitare che diventi un sistema autoreferenziale, bisogna ridare ragioni per partecipare a chi si astiene».
Eppure sulla guerra Meloni è super atlantista. Non basta la svolta filoccidentale a fugare i fantasmi del fascismo?
«L'atlantismo di Meloni è quello di Trump e di Kaczyski. E il linguaggio violento che usa contro i gay o gli immigrati alimenta l'odio e la divisione sociale. Così non rende più forte l'Italia. Un Paese diviso è un Paese più debole».
"Il Medioevo...". E la Boldrini si unisce al coro anti-Meloni. Marco Leardi il 15 Giugno 2022 su Il Giornale.
Tra i detrattori di Giorgia Meloni mancava qualcuno che evocasse i fantasmi del Medioevo. Ci ha pensato Laura Boldrini con un tweet. E la sardina Santori: "È rigurgito del fascismo che fu".
Il fascismo, la xenofobia, l'oscurantismo. Il pericolo nero e il Medioevo. Gli slogan, gira e rigira, sono sempre gli stessi. Rilanciati e ripetuti, all'occorrenza, per "mascariare" l'avversario di centrodestra. Nelle ultime ore, dopo il positivo risultato ottenuto alle urne da Fratelli d'Italia, i detrattori avevano scaricato su Giorgia Meloni quasi tutti i loro abituali leitmotiv critici. All'appello mancava solo qualcuno che evocasse il cosiddetto "secolo buio" (definizione peraltro discutibilissima), ma alla fine è arrivato pure quello. A colmare il vuoto, in particolare, ci ha pensato Laura Boldrini.
La deputata Pd e presidente del Comitato della Camera sui diritti umani nel mondo ha commentato a modo suo la partecipazione della Meloni a un evento elettorale in Spagna. "Ma che società vorrebbe Giorgia Meloni? Nel suo comizio tra i nostalgici del dittatore Franco in Spagna tratteggia una società cupa, vecchia, che cancella le differenze, nega i diritti e si allontana dall'Europa", ha attaccato la Boldrini su Twitter, rimproverando alla leader di Fratelli d'Italia di aver espresso posizioni troppo conservatrici per i suoi gusti. Quindi, la bacchettata finale: "Giorgia, siamo nel 2022...Il Medioevo è passato da un pezzo!".
Il tweet della deputata Pd ha chiaramente generato una valanga di commenti, non tutti di eguale segno. Accanto alle reazioni dei sostenitori della Boldrini sono infatti comparsi dei tweet di dissenso nei confronti di quel biasimo espresso dalla parlamentare dem. Alcuni, peraltro, hanno associato il fermento anti-Meloni innescatosi nell'area progressista proprio al clima politico post-elettorale. "Non avete fatto passare nemmeno una settimana per partire all'attacco", ha osservato ad esempio un'utente.
Peraltro al coro intonato da sinistra contro la leader di Fratelli d'Italia si era unita nelle scorse ore anche la voce della sardina Mattia Santori. Da Bologna, l'esponente dem aveva parlato di "discorso intriso di ignoranza e anacronismo". "Si finge destra sociale che non è altro che un rigurgito del fascismo che fu", aveva aggiunto il consigliere comunale Pd, sempre attingendo all'ormai noto repertorio delle critiche evregreen.
Da "La Zanzara - Radio24" il 17 giugno 2022.
Il noto fotografo Oliviero Toscani ha attaccato la leader di Fratelli d’Italia ai microfoni de La Zanzara su Radio 24: “Ha detto cose di una ideologia violenta. E’ razzista? Sicuro, lei è fascista. Non che arriva col fez e la camicia nera, va messo in rapporto al tempo in cui viviamo. E’ una mentalità fascista”
Sul ballottaggio a Verona tra Damiano Tommasi e Federico Sboarina ha aggiunto: “Tommasi è un grande uomo, una fortuna ad avere uno come lui. Tosi è li da vent’anni, Sboarina non va bene. Se ne vada con le Meloni in Spagna e lascino la gente civile a vivere civilmente. Porterei anche il mio cane a votare Tommasi, almeno diamo due voti”
Giorgia Meloni? Selvaggia Lucarelli fa scattare il linciaggio: "Pazza, malata, fai vomitare". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 18 giugno 2022.
Al catalogo affollato di donne che si stanno accanendo contro Giorgia Meloni donna sì, ma "colpevole" di essere di destra- non poteva certo mancare lei, la fustigatrice per eccellenza dei costumi altrui, la massima esperta di ballo, politica, vaccini, guerra e rami restanti dello scibile umano, la moralizzatrice esemplare che, come da tradizione, predica bene e razzola malissimo. Parliamo di Selvaggia Lucarelli, la firma del Domani, il volto di Ballando con le Stelle, la penna pungente sui social e la lingua tagliente in tv che ha sentito l'esigenza di scrivere un post contro l'ormai celebre discorso della Meloni in Andalusia, già oggetto di insulti e balle da parte della sinistra tutta, soprattutto di quella al femminile. Così anche lei, Selvaggia, l'anticonformista per finta che non vede l'ora di unirsi al coro "corretto", non poteva esimersi dal dire la sua. Riversando altro fiele sulla Meloni e inevitabilmente aizzando i suoi follower, che infatti hanno colto la palla al balzo per scrivere commenti traboccanti di odio contro Giorgia.
DA CHE PULPITO... - Lecito chiedersi: ma non erano la Meloni e Salvini, secondo la narrazione della Lucarelli, ad alimentare l'odio nel nostro Paese, parlando alla pancia di lettori ed elettori, stuzzicando la loro rabbia e vellicando i loro istinti più bellicosi? Già, peccato che sia invece Selvaggia a farlo. Da che pulpito... Tre giorni fa la Lucarelli ha postato sul suo profilo Facebook il video del comizio in spagnolo della leader di Fratelli d'Italia: e, non avendo molto da contestare sul discorso di Giorgia (che la Meloni parli a difesa della famiglia naturale, dei confini, contro l'immigrazione di massa, l'utero in affitto e la grande finanza non è certo una novità), se l'è presa contro i suoi toni, giudicati spaventosi, minacciosi, feroci (del resto Giorgia stava facendo un comizio: che parlasse alzando la voce e scandendo i termini era abbastanza prevedibile...). E allora ecco l'indignato commento di Selvaggia: «Non è solo quello che dice, ma come lo dice. Lo sguardo minaccioso, il tono di voce che si abbassa e si alza a seconda del climax dell'invettiva, le pause, la faccia che diventa rossa per lo sforzo di urlare» è l'incipit. Poi si passa al disprezzo estetico-antropologico. «La sua è adesione totale a idee spaventose, a cui ha finito per somigliare. In effetti, la guardi e fa spavento».
Dopo queste parole al veleno, non c'erano da aspettarsi commenti amorevoli. Infatti gli utenti si scatenano scagliando palate di fango. Le accuse più ovvie contro Giorgia sono quelle di essere una fascista, una reincarnazione del Duce odi Francisco Franco: «È posseduta dal duce», «Fascista allo stato puro», «Essere immondo, indegna. Fascista razzista» sono le frasi più ricorrenti (a cui si aggiunge un ironico «Bene ma non Benito»). Ma la parte più insopportabile è quella dei commenti che danno alla Meloni dell'indemoniata, della pazza, della malata, della creatura horror. Ecco un estratto di offese: «Mai che ci fosse un esorcista quando serve», «Sembra posseduta», «È un'invasata», «Mi sembra in balia del diavolo», «Ma a che minuto gira la testa di 360 gradi e schiuma?». Dopo il demonio, è la volta del manicomio: «Una non donna malata. Che qualcuno dovrebbe aiutare», «Questa fa paura. Pare psicopatica», «È proprio na pazza».
«Suvvia, rinchiudetela!». Non manca poi la "mostrificazione": «Pensare a questa donna premier fa venire i brividi», «Un horror», «Più la guardo, più mi sembra la bambola assassina. Mi fa paura!». Si chiude con la denigrazione lombrosiana, fatta di insulti estetici e di associazioni gratuite al Male: «Quando si dice la fisiognomica», scrive una, «Mi fa veramente schifo», rincara la dose un'altra. E ancora: «Mi viene il vomito», «Anch' io quando sto in bagno e faccio i bisogni solidi divento così rosso. E infatti dice una cagata dopo l'altra. Che donna orrenda», «È la bruttezza», «Terribile e disgustosa».
La marea di insulti testimonia che, contro la Meloni, non c'è soltanto un odio ideologico, figlio dell'eterna diatriba rossi contro neri, ma anche un odio fisiognomico, antropologico, oseremmo dire ontologico: a sentire gli hater, la leader di Fdi non avrebbe neppure diritto di esistere in quanto donna di destra. E a maggior ragione non ci si deve aspettare per lei solidarietà di genere, sorellanza, capacità femminile di fare squadra: macché, a leggere i commenti, sono proprio le donne le più accanite contro Giorgia. Né , per gli insulti fisici e le squallide manifestazioni di machismo, qualcuno grida al sessismo, al disprezzo di genere, evoca il Me Too e la molestia verbale. No, se la vittima è la Meloni, le femministe tacciono e anzi ammettono gli attacchi gratuiti alla sua persona, gli affondi vigliacchi, che nulla hanno a che fare con il suo discorso, con il confronto di idee, col merito delle sue convinzioni.
STADIO ANCESTRALE - Siamo allo stadio ancestrale, belluino, della dialettica politica. E la Lucarelli, più o meno consapevolmente, contribuisce a fomentare queste pulsioni basiche dei suoi utenti, questa vocazione selvaggia... Anche delle parole della Lucarelli, del resto, potremmo dire lo stesso: «Non è solo quello che dice, ma come lo dice. Lo sguardo minaccioso, il tono di voce, la sua adesione a idee spaventose». Potremmo dire che è lei, con i suoi post, a fare spavento. Ma preferiamo non darle la soddisfazione di metterci al suo stesso livello.
Vanessa Incontrada contro Giorgia Meloni: «Che orrore le sue parole». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.
L’attrice ha riportato sui suoi social alcuni passaggi del comizio tenuto dalla leader di Fratelli D’Italia in Spagna, scrivendo anche ai suoi tanti follower: «Che paura».
Continua a far discutere l’intervento di Giorgia Meloni alla convention di Vox, il partito di destra spagnola a Marbella, in Andalusia. In particolare, dopo che aveva criticato le parole della leader di Fratelli d’Italia Kasia Smutniak, anche Vanessa Incontrada ha deciso di esprimere il suo dissenso. In particolare, facendo riferimento al passaggio del discorso in cui la politica diceva: «Non c’è mediazione possibile, o si dice sì o si dice no. Sì alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt», l’attrice ha commentato nelle sue storie di Istagram con un chiarissimo «Che paura», riferendosi al passaggio della famiglia naturale, mentre in riferimento alla frase sulla «lobby Lgbt», Incontrada ha aggiunto: «Ancora più paura, l’orrore in queste parole».
Ospite di D’Alessio
Sono giorni in cui l’attrice e conduttrice è al centro dell’attenzione. Solo qualche giorno fa è stata ospite di Gigi D’Alessio che, nel suo show, l’ha invitata ad assaggiare delle mozzarelle. Nel mentre, il pubblico le ha dedicato “sei bellissima”, in chiara risposta al bodyshaming di cui era stata vittima nei giorni scorsi.
Kasia Smutniak insulta Giorgia Meloni: "Vaff*** a questa mer*** disumana, indegna, idiota, pericolosa". Libero Quotidiano il 18 giugno 2022
Sotto a chi tocca nello sparare ad alzo zero contro Giorgia Meloni. Sotto a chi tocca per chi vuole indulgere all'insulto contro la leader di Fratelli d'Italia. E ora tocca all'attrice Kasia Smutniak, che si unisce al coro d'odio contro la Meloni, coro d'odio che si è levato dopo l'intervento a Marbella dal palco di Vox, in cui la leader di FdI ha sostenuto la candidatura di Macarena Olona alla presidenza dell'Andalusia.
Ed ecco che la Smutnika, postando parte dell'intervento della Meloni su Instagram, commenta: "Più i pensieri sono bassi, volgari, inadeguati, non all’altezza, tristi, morbosi, infelici, privi di eleganza, di amore, di buon senso, indegni, ingiusti, aspri, acidi, vomitevoli, piccoli, inutili, stupidi, idioti, pericolosi, malformati, kitch, sbiaditi, inesatti, errati, carichi di odio, disumani, più la persona che li esprime diventa… volgare, inadeguata, non all’altezza, triste, morbosa, infelice, priva di eleganza, di amore, di buon senso, indegna, ingiusta, aspra, acida, vomitevole, piccola, inutile, stupida, idiota, kitch, sbiadita, inesatta, errata, carica di odio, disumana", conclude. Insomma, dieci righe d'insulti.
Il tutto condito da un ulteriore commento. Il primo in Italiano. "Cara Giorgia Meloni, che brutto vedere". Dunque, traduciamo dall'inglese la riga successiva: "Buon mese del pride. E vaff*** a questa mer***". Infine, la Smutniak chiosa: "Scusate, mi è partita la vena". Già, piuttosto vergognoso.
Concita De Gregorio, odio contro Giorgia Meloni: "La foto di quello col cu*** di fuori". Libero Quotidiano il 28 giugno 2022
Scatenata. Concita De Gregorio non usa mezzi termini e su Repubblica mette nel mirino Giorgia Meloni. Lo fa il giorno dopo dei risultati dei ballottaggi per infierire su un centrodestra che qualche errore lo ha commesso. Peccato però, come ha ricordato Libero, che la sinistra non ha aumentato il numero di città che amministra, quindi c'è poco da festeggiare. Ma l'ordine di scuderia arrivato nel campo progressista di iniziare a mettere nel mirino la leader di Fratelli d'Italia pare sia applicato con zelo dalle parti della De Gregorio. E così su Repubblica si va all'attacco della Meloni.
Partiamo dal titolo: "Meloni, l'imperatrice dei sondaggi prigioniera del suo passato". Ma la Meloni, dando un'occhiata alle ultime prestazioni elettorali di Fratelli d'Italia non è "imperatrice" solo nei sondaggi, ma anche nelle urne. E c'è un passaggio di questo ritratto che fa la De Gregorio della Meloni, che merita di essere evidenziato: "Perde nelle elezioni locali perché il voto nelle città è la cartina di tornasole della fiducia delle persone non nei leader di partito, ma nei candidati sul posto, appunto. Che sono il cognato della tua migliore amica, la maestra di boxe di tua figlia, quello che una volta mise la foto di un culo nudo in zoom, il tipo di CasaPound che ha preso a botte tuo nipote e l'ha fatta franca, ma tu lo sai che è stato lui. Li conosci, insomma. Sai molto bene chi sono e alla fine - se non sei proprio un militante di quella falange - preferisci di no". Parole che dire pesanti è poco. Insomma la Meloni per la De Gregorio è colpevole di tutto. Di ogni cosa.
Poi arriva l'affondo: "Alle sue spalle ci sono i fascisti, vecchi e nuovi. Questo è il momento in cui Yo-soy-Giorgia si inalbera, nella lettura di queste righe, o nel riassunto che qualcuno le farà". E ancora: "L'atlantismo non basta. Non basta la ola di Confindustria, che sta sempre con chi vince". Insomma la De Gregorio attacca a testa bassa: "Come problema supplementare Giorgia Meloni ha quello che dietro alle sue spalle - a quelle dei suoi candidati consiglieri comunali - non c'è propriamente il niente, o una pletora di vecchi ex Dc di provincia privi di miglior imbarco". Inutile ricordare alla De Gregorio il risultato delle liste di Fratelli d'Italia alle amministrative e probabilmente il risultato che raggiungerà la Meloni alle prossime politiche. C'è solo la legge dell'odio.
Elodie si unisce al coro contro la Meloni: “Dovrebbe andare in terapia per gestire la rabbia”. Mia Fenice venerdì 24 Giugno 2022 su Il Secolo d'Italia.
Non solo gli attacchi virulenti della sinistra. Giorgia Meloni è stata bersagliata pretestuosamente anche da personaggi del mondo dello spettacolo. L’ultima ad averla presa di mira è stata la cantante Elodie Di Patrizi, meglio nota come Elodie. Il motivo è sempre lo stesso: le parole pronunciate dalla Meloni in Spagna. «Vedo una donna molto arrabbiata, mi dispiace per lei…», commenta al settimanale 7 del Corriere della Sera.
Elodie contro la Meloni
Ad Elodie è stato chiesto se la destra conservatrice può pescare nel disagio. “Prendiamo Giorgia Meloni di recente, in Spagna, ha attaccato la lobby Lgbt in difesa della famiglia naturale”, chiede il settimanale. Da qui la risposta. Per Elodie, «non dovrebbero esserci queste distinzioni, e mi spiace ci siano persone che le fanno. Famiglie di serie A, serie B, serie Z… I diritti sono per tutti e poi bisogna capire come vivere bene, in società, assieme. C’è troppa rabbia in queste persone». «Io pure – dice Elodie – sono arrabbiata, ma vado in terapia e non la sfogo sugli altri. Solo che devi essere cosciente di questo problema con la rabbia».
Giorgia Meloni stanca degli attacchi concentrici di stampa e avversari, nei giorni scorsi aveva risposto con un lungo post sui social agli accusatori.
«“Sì alla famiglia naturale, no alle lobby Lgbt. Sì all’identità sessuale, no all’ideologia di genere”. Mi dispiace – aveva scritto su Fb – per i vari menestrelli mobilitati in queste ore dalla sinistra – terrorizzata dal successo di FdI nelle elezioni amministrative e dai sondaggi – ma questo estratto del mio discorso pronunciato in Spagna ha un significato molto chiaro. Significa sostenere la maternità e non terribili pratiche come l’utero in affitto, che mercificano il corpo delle donne e trasformano la vita umana in un prodotto da banco. Significa che ognuno può amare chi vuole, ma non può far prevalere i propri desideri di genitorialità su un bambino che ha il diritto di avere un padre e una madre. E non c’è nulla di omofobo in questo, tant’è che vale anche per i single».
Francesca Galici per ilgiornale.it il 15 luglio 2022.
Elodie torna a parlare di Giorgia Meloni e lo fa incalzata da Peter Gomez nel programma La confessione, in onda sul Nove. La cantante sarà l'ultima ospite di questa stagione del programma nella puntata che andrà in onda questa sera a partire dalle 22.45. Stando alle anticipazioni riportate da il Fatto quotidiano, nel corso dell'intervista il giornalista ha stuzzicato la cantante sul tema politico, ben consapevole dell'orientamento di pensiero della cantante, che non si è lasciata sfuggire l'occasione, parlando di "fascismo" in riferimento a Giorgia Meloni.
Durante la chiacchierata, che solitamente nel programma di Peter Gomez si svolge per temi, il conduttore ha mostrato a Elodie una foto di Giorgia Meloni, e la cantante, senza farselo ripetere due volte ha attaccato: "La verità? Io non capisco... Non ha delle cose più importanti da fare? Gestire un Paese, fare delle cose anche più burocratiche che stare a decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato per le persone? Non sta a te, non sei Dio, non ti ci avvicini neanche a Dio se dovesse mai... Ovviamente magari esiste, non lo so...".
Il riferimento è al comizio della leader di FdI in Spagna, che già era stato criticato da Elodie, che non si esime dal menzionare il fascismo nel discorso incentrato sulla leader di Fratelli d'Italia: "È questo che a me disturba di più. Cioè, del fascismo è questo che mi disturba. Possiamo avere idee diverse, vedere la vita in modo diverso, ma non c'è bisogno con tutto quel livore, quella cattiveria... Incazzata... La lobby... Stai calma". Quindi, Elodie si spinge perfino a dare un consiglio a Giorgia Meloni su come fare politica: "Posso capire che dici: 'Ma io sono lontana da quella vita lì...', però non te ne frega un cazzo. Ci sta, ok? Non è che poi dobbiamo per forza... Cioè, non è che viviamo nella montagna del sapone. Ognuno ha la sua vita, il suo modo di vedere le cose. Però ci sono modi e modi di dire, di parlare e di fare politica. Non credo che sia questo il modo giusto".
Quindi, Elodie chiude il concetto con una spennellata di idealismo: "Dovremmo, anzi, cercare di capire come convivere tutti insieme nelle nostre diversità". E sul perché Giorgia Meloni sia ora il partito più apprezzato dagli italiani, come dimostrano i sondaggi, Elodie ha una sua personalissima visione: "La gente ha paura, ha tanta paura, perché non ha il coraggio di fare un passo verso gli altri. Quindi è molto più semplice additare, sfogarsi, incazzarsi col prossimo per le frustrazioni che però non riguardano molto la vita degli altri. Riguarda sempre il nostro modo di vivere". Quindi, ha concluso: "È molto più facile dire: stronzi, vaffanculo, te sei nero, te sei gay... Mi dispiace, perché è veramente una perdita di tempo enorme".
Non è la prima volta che Elodie attacca la leader di Fratelli d'Italia, in passato ha puntato in dito anche contro Matteo Salvini, com'è avvenuto al gay pride di Roma. E Peter Gomez ha colto la palla al balzo per ottenere nuove dichiarazioni.
Elodie, contro Meloni e Salvini: quando la musica non basta per farsi notare. Francesca Galici il 27 Giugno 2022 su Il Giornale.
Attacchi contro Matteo Salvini, la Lega e Giorgia Meloni da parte della cantante romana che così fa breccia sul pubblico buonista
Da qualche tempo, la cantante Elodie è beneficiaria di una straordinaria attenzione da parte dei media, che in pochi capiscono. Certo, non si può negare che sappia cantare, ci mancherebbe, ma di certo non è 'sta grandissima voce della quale l'Italia non può fare a meno. Eppure, la cantante romana originaria del popolare quartiere del Quartaccio, viene osannata come la nuova Madonna. E scegliete voi quale delle due si intende, vista la devozione che la circonda. Elodie è entrata nelle grazie del pubblico che conta, quello che fa più rumore: la lobby dei buonisti e dei paladini del politicamente corretto, che sui social hanno il dominio totale.
È stata furba in questo, c'è da ammetterlo, perché è andata a far leva con forza sui temi che scuotono maggiormente quella comunità, fatta prevalentemente di giovani alla ricerca del proprio idolo da venerare e innalzare a semi-Dio. Elodie ha innalzato il livello, perché ormai sono tutti bravi a professarsi paladini del politicamente corretto, dei diritti Lgbt+, amanti della schwa e tante altre belle cose "cool", ma lei è andata oltre e ha puntato direttamente l'obiettivo grosso: i leader politici più invisi da quella comunità. Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono finiti nel mirino di Elodie, come già erano finiti in quello dei Ferragnez qualche mese prima, per dire. La cantante romana è un'ottima stratega e ha ottenuto l'attenzione di quelli che passano le loro giornate a insultare i due leader sui social, tra bandierine arcobaleno e inviti alla pace. Perché la coerenza non è mai di casa da quelle parti.
"Indegni, siete omotransfobici" E Elodie sbraita contro la Lega
Chiamata come madrina del Pride di Roma, Elodie durante la sua presentazione che fa? Attacca Matteo Salvini. Copione abbastanza scontato di questi tempi, che in quel contesto le ha fatto racimolare facili consensi. Una risposta volpina, la sua, che a pensar male si direbbe perfino studiata: "Non vorrei aprire il discorso Salvini, però quando leggo determinate cose, quando devo sentire determinate cose, mi sembra veramente assurdo. Certe cose non vorrei proprio sentirle perché stiamo parlando della base, della correttezza, di essere un essere umano corretto". Non certo il primo attacco contro la Lega da parte della cantante, che ha definito i suoi eletti "indegni".
Vista l'acclamazione ricevuta parlando di Matteo Salvini, Elodie pochi giorni fa (dopo il successo al primo turno di Fratelli d'Italia), è entrata a gamba tesa anche su Giorgia Meloni: "Vedo una donna molto arrabbiata, mi dispiace per lei". Poi ha aggiunto: "Io pure sono arrabbiata, ma vado in terapia e non la sfogo sugli altri". Una strategia comunicativa che porta i suoi frutti, visto che di Elodie si parla soprattutto quando esterna certe dichiarazioni, piuttosto che per la sua musica. Bella, ci mancherebbe, ma evidentemente poco incisiva se ha bisogno di certi trucchetti per farsi notare.
"La Meloni? Violenta e poco donna": Elodie non perde il vizio di insultare. Giorgia Meloni parla "come un uomo del 1922", è "violenta" e "poco donna": così Elodie definisce la leader di FdI. E se queste parole fossero state rivolte a una donna di sinistra? Francesca Galici il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.
Ormai, non è più una novità. Sono ormai mesi che Elodie, quasi a ogni occasione disponibile, non manca occasione di attaccare Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Certo, qualcuno potrebbe obiettare che lei risponde alle domande che le vengono poste dai giornalisti. Ed è vero. Ma se lei non avesse in passato parlato in un certo modo di politica, esponendosi con prese di posizione nette, oggi i giornalisti la intervisterebbero sulla sua musica e non capiterebbe che, a ogni intervista, le venissero fatte domande sui leader di centrodestra. Anche durante la Mostra del cinema di Venezia, Elodie ha trovato il modo di attaccare Giorgia Meloni, in quello che per lei sembra essere diventato uno scontro personale.
Stavolta, Giorgia Meloni è stata paragonata a "un uomo del 1922" dalla cantante, che l'ha definita "poco donna", rispondendo a un giornalista che le chiedeva un suo parere sulle parole di Hillary Clinton pochi giorni fa, rilasciate proprio dalla città lagunare. Se c'è una cosa che di Hillary Clinton non si può dire è che l'ex segretario di Stato americano sia vicino alle posizioni di Fratelli d'Italia. Hillary Clinton è uno dei più importanti esponenti del Partito democratico americano ma, nonostante questo, si è espressa positivamente nei confronti di Giorgia Meloni, senza alimentare il clima d'odio con argomentazioni banali e, da un certo punto di vista, anche offensive. "L'elezione della prima premier in un Paese rappresenta sempre una rottura col passato, ed è sicuramente una buona cosa. Però poi, come per ogni leader, donna o uomo, deve essere giudicata per quello che fa. Non sono mai stata d'accordo con Margaret Thatcher, ma ho ammirato la sua determinazione. Chiaramente poi si votano le idee", ha detto l'ex segretario di Stato.
Quell'ossessione per la Meloni. La calda estate dei radical chic da Scurati a Elodie
Un discorso maturo quello di Hillary Clinton, soprattutto democratico e rispettoso del politico. Il rispetto dell'avversario politico, invece, sembra essersi completamente annebbiato nel nostro Paese, non solo tra i gli artisti che vorrebbero essere considerati come dei maitre a penser politici, ma dagli stessi politici. Quel che è ancora più grave è che l'avvelenamento dei pozzi di questa campagna elettorale da parte degli esponenti della sinistra probabilmente nasce proprio dalla volontà dei politici di imitare gli artisti che, con le loro invettive, raccolgono consensi sul web. "È incredibile che una donna parli come un uomo del 1922, questo è il problema. Una donna, una madre, dovrebbe avere un'attenzione per i diritti e dovrebbe capire che ci sono da sempre situazioni complesse dal punto di vista femminile. È incredibile come sia violenta e come sia poco donna", ha detto Elodie. Tralasciando ogni altra considerazione, superflua davanti al fatto che la leader di Fratelli d'Italia venga definita "poco donna", è evidente che Elodie non conosca la storia, se dice che la leader di Fratelli d'Italia "parla come un uomo del 1922". Domanda retorica: cosa sarebbe accaduto se a essere definita così fosse stata un'esponente politica della sinistra?
Estratto dell’articolo di Francesco Olivo per “La Stampa” l'8 settembre 2022.
[…] Nel mirino finiscono persino cantanti e attori di sinistra che l'attaccano di continuo: «Tutti questi artisti li avete visti, secondo voi è possibile che in tutto il mondo dello spettacolo non ce ne sia uno che la pensa come noi, se c'è allora perché non parla, forse perché sa che parlando le sue possibilità di crescita in quel mondo potrebbero ridursi».
Antonio Bravetti per “La Stampa” l'8 settembre 2022.
Giorgia Meloni presidente del Consiglio? «Aiuto, che paura». Ornella Muti allunga l'elenco delle donne dello spettacolo che hanno apertamente criticato la leader di Fratelli d'Italia.
Dopo Elodie, Levante, Giorgia, Loredana Bertè e la giovane Ariete, è la popolare attrice romana a dirsi spaventata dall'idea che la prima premier donna d'Italia possa essere l'ex ministra della Gioventù.
Una «Aiuto, che paura», dice intervistata dall'Adnkronos. Dello stesso avviso la figlia Naike Rivelli, più loquace: «Meloni mi inquieta per il suo modo di parlare così violento che serve solo ad aizzare la folla». Il riferimento è al celebre comizio a Marbella per l'ultradestra spagnola di Vox: «Anche questa cosa del cristianesimo mi spaventa. Tu non fai parte di un partito cristiano, che c'entra la religione? », chiede Naike.
«Già abbiamo il Vaticano - prosegue - che me ne frega di sapere che Meloni è cristiana? Proponesse qualcosa di più importante come ad esempio come facciamo a pagare le bollette a fine mese. Meloni non mi rappresenta come donna in nessun modo». Chi voterà quindi? «Sicuramente non la destra e mi spaventa molto il fatto che possa vincere, eravamo andati avanti e stiamo tornando indietro».
A febbraio, in occasione del festival di Sanremo, Ornella Muti era finita sotto il fuoco di FdI per aver pubblicato una foto in cui esibiva un ciondolo a forma di foglia di marijuana. «Un'esternazione impropria» per Federico Mollicone, arrivato a chiedere «il test tossicologico per conduttori e artisti». Sempre ieri, dalle pagine del Corriere della Sera, Vanessa Incontrada ha usato gli stessi argomenti per bocciare Meloni: «Mi fa molta paura, non amo e non condivido il suo tipo di politica.
La manifestazione a cui ha partecipato in Spagna con Vox mi ha scosso molto, perché conosco bene Vox, portavoce di un estremismo di destra per me inconcepibile. Da una donna io mi aspetto libertà, apertura mentale, invece sento discorsi che me la fanno sembrare un politico del 1920».
Enrico Spaccini per open.online il 12 settembre 2022.
«I politici italiani io li chiamo infami, tutti quei figli di cani, tu come li chiami. Carabinieri e militari io li chiamo infami, tutti quei figli di cani». Per chi non la conoscesse, questa è Tu come li chiami. Una canzone pubblicata da Fedez nel 2010: «L’ho scritta quando avevo 18 anni», spiega dal suo profilo Instagram, «oggi non rispecchia il mio pensiero». Se si prova a cercarla su Spotify, non si trova. Si può, invece, ascoltare da YouTube, caricata da canali non ufficiali, e su una vecchia pagina di MySpace del rapper. Questo particolare brano non è tra i più amati di Fedez, tuttavia è tornato alla ribalta dopo il concertone del Primo Maggio del 2021 e tra le associazioni di ex militari.
I versi sui carabinieri
Infatti, dopo quel discorso polemico, Fedez è stato il bersaglio primario di alcuni esponenti della politica. In particolare della Lega, che lo hanno attaccato per alcuni suoi testi discutibili, ad esempio proprio Tu come li chiami. Al punto, che l’associazione Pro territorio e cittadini onlus ha deciso di denunciarlo «per istigazione a delinquere per aver realizzato e diffuso in tempi diversi sulla rete internet» una canzone che «invita pubblicamente i suoi ascoltatori a vilipendere le forze armate della Repubblica italiana chiamandoli infami e definendoli figli di cani».
Qualche giorno fa, però, la Procura ha chiesto l’archiviazione del procedimento in quanto non sarebbe vilipendio ma solo «critica aspra, provocazione, ricerca spasmodica della notorietà». Una richiesta che non è piaciuta all’associazione. Roberto Colasanti, colonnello in congedo dei carabinieri e firmatario della denuncia contro il rapper, ha dichiarato come questa decisione «desta enorme preoccupazione». Poiché, dice, «significherebbe riconoscere delle aree di impunità che non appaiono tollerabili in uno stato di diritto».
La risposta di Fedez e l’attacco a Meloni
Di opinione opposta è l’accusato, Fedez, che sostiene che «se dovessero mai condannarmi sarebbe un guaio», riferendosi al fatto che i Tribunali sarebbero intasati dai testi dei rapper «che bene o male dicono le medesime cose sia qui che oltre oceano». Il cantante milanese, però, si spinge oltre. Criticando l’attenzione che gli è stata riservata per questa questione, ci tiene a ricordare che «viviamo in Italia».
Portando, poi, l’esempio di Giorgia Meloni e di quel video in cui «nelle trincee del Movimento sociale italiano» diceva che «Mussolini ha fatto anche cose buone». Alla fine, Fedez invita i suoi follower ad accettare quel testo così criticato e di prenderlo come espressione di un 18enne: «Se potete accettare senza indignazione le sue dichiarazioni, potrete accettare che anche io a 18 anni sparavo stronzate. E io non ricoprirò nessun ruolo istituzionale in questo Paese, per fortuna per voi».
Estratto dell'articolo di Andrea Bulleri per “il Messaggero” il 12 settembre 2022.
[...] A ogni elezione il tormentone si ripete: per chi vota il partito dei vip? Artisti, cantanti, attori, volti del piccolo e del grande schermo. In bilico tra la voglia di schierarsi e il pericolo di esporsi, con il rischio di inimicarsi una fetta del proprio pubblico. [...]
IN DIFESA DI GIORGIA
Oggi, a due settimane dalle urne, gli artisti che hanno scelto di schierarsi a favore di uno dei front-runner in corsa si contano sulle dita di una mano. Al punto che ieri, dal palco di Trento, Giorgia Meloni è sbottata: «È possibile che un partito stimato al 27% non abbia nemmeno un sostenitore nel mondo dello spettacolo? Possibile si è risposta la leader di FdI perché dichiarare simpatie di destra impedirebbe loro di lavorare». In realtà qualcuno che negli ultimi giorni ha preso le sue difese c'è. Anche se in modo discreto.
AL BANO
«Ho lavorato per 60 anni e sono sempre stato lontano dalle forze politiche si è lanciato ad esempio Albano Carrisi C'è stato un periodo in cui chi abbracciava una certa ideologia aveva le porte della carriera spalancate: io non l'ho mai fatto». Il cantautore di Cellino San Marco però ha voluto spezzare una lancia in favore di Meloni: «È sbagliato insultarla perché, anche se si hanno idee diverse, non è così che si discute». Lo stesso ha fatto la showgirl Valeria Marini, protagonista di un botta e risposta social tutto politico con Selvaggia Lucarelli.
VALERIA MARINI AL SENATO
«Cara Selvaggia ha risposto piccata Marini a una critica della giornalista hai tanto da imparare da Giorgia Meloni... Per esempio il rispetto che ha per gli altri e soprattutto per le donne». [...]
Spostando indietro le lancette dell'orologio, ecco che dagli archivi spuntano altre prese di posizione a favore di Meloni: quella del cantante Enrico Ruggeri, ad esempio. «Giorgia al governo? La vedrei bene, finalmente avremmo una donna premier», dichiarò un anno fa a Libero.
Chi invece della destra al governo dice di aver «paura» è Ornella Muti. Ma pure Vanessa Incontrada: «Meloni mi spaventa molto ammette l'ex conduttrice di Zelig, citando il comizio di Vox («soy una madre...») Non amo e non condivido il suo tipo di politica». Ma la carica dei vip antimeloniani è nutrita. E comprende anche le cantanti Elodie («è una donna, ma parla come un uomo del 1922») e Giorgia.
E pure Loredana Bertè. Che sulla fiamma nel simbolo di FdI affonda: «Signora Meloni, si vergogni. E la chiamo signora perché lei di onorevole non ha nulla». Qualche giorno prima, da Instagram, aveva detto la sua Chiara Ferragni (che sul social vanta un seguito da 27 milioni di follower). L'influencer aveva tuonato contro Fratelli d'Italia, che «ha reso impossibile abortire nelle Marche: dobbiamo far sì che queste cose non accadano», l'appello.
IL RAPPER
E se una storica pasionaria della sinistra come Alba Parietti (che nel 2008 lanciò la sua candidatura alle primarie del Pd) stavolta si smarca, affermando di «sperare nella figura di Meloni» (anche se «non condivido nulla del suo pensiero», precisa), la palma di endorsement che non ti aspetti va al rapper ventunenne Baby Gang. Che su Instagram esordisce così: «Gira e rigira il capo rimane sempre lui»: Silvio Berlusconi. «Quando c'era lui l'Italia era la vera Italia, non si può dire nulla a sto uomo. Forza Italia». [...]
Stefano Iannaccone per tag43.it il 7 ottobre 2022.
Una galassia variegata pronta a prendersi la scena acquisendo una maggiore visibilità. Con il tentativo di ribaltare il luogo comune secondo cui solo gli intellettuali di sinistra hanno spazio in tv e nel dibattito pubblico. Forse qualcosa in più di un luogo comune visto che la stessa Giorgia Meloni, in un comizio a Catania, si era chiesta come fosse possibile «che un partito stimato al 27 per cento» non avesse «nemmeno un sostenitore nel mondo dello spettacolo».
Domanda retorica, evidentemente. «È perché dichiarare simpatie di destra gli impedirebbe di lavorare nel mondo dello spettacolo? È questa la democrazia?», si era risposta con un filo di vittimismo la leader di FdI. Ora che Giorgia sta davvero per entrare a Palazzo Chigi le cose cambiano. Qualche vip e cantante si è già riposizionato, mentre scalpitano gli intellò, i giornalisti, gli artisti e gli storici che da sempre sono ascrivibili alla galassia della destra.
Uno dei volti più noti è Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore battitore libero che più volte ha avuto esperienze da conduttore in programmi tv tra cui la versione estiva di Otto e mezzo su La7. Nella sua carriera ha collaborato con varie testate, da Il Giornale a Panorama, ma nella lista figurano anche Il Fatto quotidiano e Il Foglio. Da sempre ha un legame con la sua regione natia, la Sicilia, a cui ha spesso dedicato riflessioni e anche qualche pubblicazione, come Buttanissima Sicilia.
Altro profilo mediatico è Vittorio Sgarbi, aspirante ministro della Cultura, noto per i suoi accessi d’ira durante le ospitate nei programmi tv. In più occasioni è arrivato anche alle mani con alcuni interlocutori: la lite con Giampiero Mughini è solo l’ultimo atto di una lunga lista. Di professione critico d’arte, è stato più a lungo parlamentare, anche grazie a una solida amicizia con Silvio Berlusconi.
Decisamente molto meno irruente è Angelo Crespi, critico d’arte e giornalista che vanta una parentesi come sottosegretario al ministero dei Beni culturali con Sandro Bondi. Uno dei punti di riferimento del pensiero di destra, in Italia, resta comunque il filosofo e scrittore Marcello Veneziani, che ha firmato articoli per le testate d’area, da Libero a Il Giornale, ma anche al Tempo e La Verità.
All’universo intellettuale conservatore appartiene Edoardo Sylos Labini, attore, regista, consulente artistico del teatro Manzoni di Milano, con un passato vicino a Forza Italia. Ex marito di Luna Berlusconi, figlia del fratello del Cav, Paolo, nei mesi scorsi ha lanciato un nuovo progetto editoriale: il mensile Cultura e identità, dopo aver già diretto, in passato, il GiornaleOFF.
Dal mondo accademico proviene Luigi Mascheroni, docente all’Università Cattolica di Milano, firma delle pagine culturali de Il Giornale con esperienze al Sole 24 Ore e Il Foglio. Tra i suoi saggi più discussi c’è il recente I libri non danno la felicità. Lo storico Giordano Bruno Guerri è un esponente a tutto tondo del mondo culturale di destra: studioso del ventennio fascista, ha spesso assunto posizioni libertarie, come ha sottolineato lui stesso. Per questo motivo è stato spesso vicino ai Radicali in alcune battaglie, soprattutto quella per l’abolizione della pena di morte.
Tra le sue ricerche, poi, figurano alcune pubblicazioni sul rapporto tra l’Italia e la Chiesa, a cui è molto vicino. Anche lui vanta una collaborazione con Il Giornale. Per quanto riguarda l’attività editoriale, va menzionata pure l’iniziativa del periodico culturale Italiani Liberi, con un’ispirazione dichiaratamente «antieuropeista». Dal 2008 è presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, la casa di Gabriele D’Annunzio a Gardone Riviera.
Un altro intellettuale di primo piano è Umberto Croppi, già assessore a Roma nella Giunta Alemanno. Fino al 1991, era stato nel Movimento sociale italiano, con cui tuttavia ha intrattenuto un rapporto critico che lo ha portato all’abbandono. Nel 2011, in seguito all’azzeramento della squadra al Campidoglio, ha seguito Gianfranco Fini nel partito Futuro e libertà, diventandone responsabile Cultura fino allo scioglimento. Il partito, come è noto, è stato bocciato dagli elettori.
Da allora è rimasto per lo più dietro le quinte, concentrandosi principalmente sulla scrittura di libri, fino a quando nel 2020 non è stato nominato presidente di Federculture. Altro intellettuale prestato alla politica è Massimilano Finazzer Flory, assessore alla Cultura al Comune di Milano nella Giunta Moratti (subentrò a Sgarbi). Di professione drammaturgo e regista, ha conquistato vari riconoscimenti anche negli Stati Uniti.
Il regista Renzo Martinelli rappresenta poi una sorta di idolo per i leghisti, specie quelli della prima ora, avendo concesso un cameo a Umberto Bossi nel suo film Barbarossa. Nel 2016, Martinelli si è pure cimentato nella narrazione dei fatti di Ustica. Sempre dal mondo dello spettacolo, in particolare della recitazione, arriva Luca Barbareschi, figura eclettica, passato dal ruolo di attore a quello di regista: il titolo più famoso è stato il Trasformista, realizzato nel 2002. Ma nel suo percorso ci sono tante esperienze in televisione e la (fallimentare) gestione del teatro Eliseo, affidatagli nel 2001.
Lo storico teatro romano ora è chiuso e in vendita. È stato anche parlamentare del Popolo delle libertà nella legislatura iniziata nel 2008 e finita il 2013. Come Barbareschi, anche Pino Insegno è un personaggio televisivo, di estrazione più leggera, essendo principalmente un comico. Tuttavia, è anche un doppiatore e presentatore. Di recente ha consacrato la sua appartenenza alla galassia del mondo culturale di destra, annunciando Giorgia Meloni sul palco di Piazza del Popolo, nel giorno della chiusura della campagna elettorale.
Andrea Roncato è un profilo affine, grazie alla fama conquistata in varie commedie italiane e al duo con Gigi e Andrea con Gigi Samamarchi. Nella sua carriera è stato spesso legato a Silvio Berlusconi, per cui ha simpatizzato anche in politica. Alle ultime elezioni si è poi speso per Sgarbi candidato a Bologna contro Pierferdinando Casini. E infine dalla musica arriva Beatrice Venezi, direttrice d’orchestra, che addirittura era stata indicata come possibile candidata al Parlamento per Fratelli d’Italia. Tanto per ribadire il proprio credo politico ha detto che «Dio, patria e famiglia sono i miei valori».
"Gridiamo insieme: siamo tutti antifascisti". Lo scivolone rosso a Venezia. Il regista brasiliano Pedro Harres arringa la platea della Sala Grande del Palazzo del Cinema: piovono applausi per la sua denuncia antifa. Massimo Balsamo l'11 settembre 2022 su Il Giornale.
Si chiude oggi la settantanovesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Un'edizione ricca di film, di star ma non solo. A pochi giorni dalle elezioni politiche, non sono mancate le prese di posizione di attori e attrici, registi e registe, e così via. Non sono mancati i richiami antifascisti, e l'ultimo appello è arrivato direttamente nel corso della cerimonia di premiazione.
A "infiammare" la platea della Sala Grande del Palazzo del Cinema ci ha pensato il regista Pedro Harres. Ritirando il Gran Premio della Giuria Venice Immersive per "From the main square", il cineasta brasiliano ha voluto lanciare un messaggio: "In Brasile non solo il cinema è in pericolo ma la democrazia. Noi dobbiamo gridare più forte possibile contro questo pericolo. Insieme gridiamo: siamo tutti antifascisti".
La Mostra di Venezia in campagna elettorale
L'accorato intervento di Harres ha riscosso grande successo. Tanti applausi per l'artista, che però non è stato l'unico a puntare sui temi antifascisti. Il primo episodio è stato registrato già nel giorno dell'apertura del Festival "grazie" al documentario "Marcia su Roma", diretto da Mark Cousins. L'americano, infatti, ha puntato forte sul parallelismo tra l'ascesa del fascismo e l'ascesa di Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia e "favorita" per la vittoria al voto del 25 settembre.
"Oggi ci sono molti più governi di destra di quanti io non ne ricordi in tutta la mia vita, e io ho 56 anni. Ungheria, Polonia, India, Brasile, l'America con Trump e adesso anche in Italia il pendolo sta oscillando verso destra. Questa è una condizione molto pericolosa", il giudizio di Cousins ai microfoni di Adnkronos. Oppure come dimenticare l'attacco frontale di Elodie, protagonista al Lido di un film nella sezione Orizzonti, sempre contro la Meloni. E ancora: da Loredana Bertè a Ficarra e Picone, l'elenco è folto.
Massimo Balsamo per ilgiornale.it il 23 settembre 2022.
“Che delusione”, “Vergognati”, “Uno schifo”. Questi solo alcuni dei messaggi comparsi sui profili social di Pino Insegno. La sua colpa? Aver introdotto il comizio di Giorgia Meloni. Una decisione inaccettabile per tanti presunti democratici, pronti a celebrare le icone della sinistra ma anche a biasimare (e insultare pesantamente) chi osa difendere o sostenere le cause degli altri. Ma gli attacchi ricevuti nelle ultime ore non hanno minimamente scalfito l’attore: “Mi criticano perché ho introdotto il comizio della Meloni? Sti ca…”.
“Dobbiamo essere tutti uguali?”
Intervenuto ai microfoni dell’Adnkronos, Pino Insegno ha spiegato di non essere un influencer ma un attore, doppiatore e formatore molto bravo “che vive nel rispetto degli altri perciò non ho problemi a dichiarare le mie preferenze politiche”. “Dobbiamo essere tutti uguali?", il quesito posto dall’artista dopo la folata di critiche, insulti e improperi.
L’interprete capitolino ha ricordato di essere Commendatore della Repubblica per meriti sociali. Una proposta arrivata da Napolitano e non da Almirante: “Questo vuol dire che nella mia vita ho fatto, faccio e farò sempre cose per aiutare gli altri. Non è che se io saluto la mia amica Giorgia faccio del male a qualcuno eppure sono stato attaccato dappertutto”.
Pino Insegno e l’esclusione dalla tv
E non sono mancati i momenti difficili per Pino Insegno, emarginato dal mondo televisivo senza un motivo: “Perché sono stato in un angolo senza motivo visto che ho fatto più di 1.600 puntate in tv di grande successo?". Qualcosa deve essere successo, considerando le qualità indiscutibili: “La meritocrazia esiste nel doppiaggio e nel teatro ma non nella televisione”.
Tornando sulla Meloni, Pino Insegno ha rivelato che la leader di Fratelli d’Italia è emozionata quanto basta per il possibile approdo a Palazzo Chigi. Il doppiatore ha speso parole al miele: “È una donna perbene e non è un'estremista. Non è una persona che vuole proibire agli omosessuali di vivere e o ai neri di non esistere”.
Il comizio a Piazza del Popolo. Pino Insegno presenta Giorgia Meloni, riapre la cloaca social: “Mi criticano? E sti****i”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 23 Settembre 2022
Pino Insegno non doveva, non poteva esporsi, che cosa ci faceva sul palco di Piazza del Popolo a Roma durante il comizio dei leader del centrodestra a soli tre giorni dal voto? Perché? Perché mai si sono chiesti per neanche troppo tempo gli internauti, i navigatori di social, e subito dopo sono partiti gli insulti e le offese. Pino Insegno che presenta Giorgia Meloni proprio no, non doveva farlo. E lui: lui fa spallucce, francamente se ne infischia, è un attore e non un influencer.
È l’ennesimo, si spera l’ultimo ma purtroppo c’è ancora tempo, episodio di una campagna elettorale estenuante, balneare sì ma anche di livello basso basso. L’artista, il personaggio noto che si espone bersagliato. Era successo anche a Laura Pausini che si era rifiutata di cantare Bella Ciao – che non è una canzone che appartiene a un partito: è una canzone sulla Liberazione dal nazifascismo, che appartiene a chiunque creda e pratichi la democrazia, ricordiamolo. E se certo a esprimersi ci si espone a critiche, l’insulto è un’altra storia.
L’attore, doppiatore e conduttore ha introdotto Meloni, la leader di Fratelli d’Italia data in vantaggio in tutte le proiezioni di voto. Con la stessa voce che ha prestato ad Aragorn ha citato proprio Il Signore degli Anelli: “Verrà il giorno della sconfitta, ma non è questo”. Anche il New York Times recentemente aveva parlato della passione della leader di Fdi per l’opera di Tolkien e per il mondo fantasy in generale citato anche nella convention Atreju, ispirata al protagonista della storia infinita. “Non considero Il Signore degli Anelli un libro fantasy”, aveva detto tempo fa la politica.
Quello di Insegno è stato una specie di regalo insomma, che però chi non è d’accordo, chi abita altre parti politiche non ha apprezzato, anzi non ha gradito proprio la presenza dell’attore. Il nome dell’attore è volato in tendenza sui social. “Mi criticano perché ho introdotto il comizio della Meloni? Sti ca … lo fanno anche perché sono della Lazio. Io non sono un influencer sono un attore, doppiatore e formatore molto bravo, che vive nel rispetto degli altri perciò non ho problemi a dichiarare le mie preferenze politiche. Dobbiamo essere tutti uguali?”, ha detto all’AdnKronos l’attore.
“Sono Commendatore della Repubblica per meriti sociali, proposto dal presidente Napolitano e non da Almirante questo vuol dire che nella mia vita ho fatto, faccio e farò sempre cose per aiutare gli altri. Non è che se io saluto la mia amica Giorgia faccio del male a qualcuno eppure sono stato attaccato dappertutto”, ha aggiunto l’attore approfittando dell’occasione anche per togliersi qualche sassolino dalla scarpa. “Io dalla televisione sono sparito perché? Non sono bravo? Perché Pino Insegno è stato messo in un angolo senza motivo visto che ho fatto più di 1.600 puntate in tv di grande successo?. Quello che posso dire è che se è successo qualcosa non è perché io non sia bravo ma per altri motivi. La meritocrazia esiste nel doppiaggio e nel teatro ma non nella televisione”. E chi vuole capire capisca insomma.
Se Fdi si appresta a diventare il primo partito italiano ci sarà pure qualcuno disposto a votarlo, se Meloni diventerà la prima donna Presidente del Consiglio da qualche parte dovrà pur esserci qualcuno pronto a darle fiducia? Come Pino Insegno, per esempio, che neanche si è lanciato in particolari esternazioni, non ha cantato Faccetta Nera, non ha salutato alla romana. Ha solo presentato un’amica, “una donna perbene e non è un’estremista” e che secondo lui “non è una persona che vuole proibire agli omosessuali di vivere e o ai neri di non esistere”. Certo continua a esserci gente preoccupata, per certe dichiarazioni e certe personalità nella galassia Fdi, ma l’impulso che spinge a scagliarsi in offese gratuite sui social resta ancora oggetto di ricerche classificate. Ma alla fine pure “sti****i”, come dice Pino Insegno.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Da repubblica.it il 23 settembre 2022.
''A chiunque usa la mia musica io dico grazie, perché la musica è di tutti, come l'arte'''. Così Pupo, ovvero Enzo Ghinazzi, commenta la scelta di usare il suo brano Su di noi per la chiusura del comizio elettorale di Giorgia Meloni a piazza del Popolo a Roma.
Per Pupo la musica appartiene a tutti e non ha colori, sia ''che siano di destra o di sinistra - dice nel video che il cantante intitola proprio Che siano - che siano atei o credenti, che siano rossi o che siano neri, che siano Guelfi o che siano Ghibellini, che siano conservatori o progressisti che siano juventini o fiorentini, che siano russi o ucraini'', conclude Pupo.
Sessantasette anni, una lunga carriera iniziata a metà anni Settanta, quando aveva vent'anni, il cantante ha portato al successo alcuni dei brani più longevi del pop italiano, da Gelato al cioccolato a Su di noi, e autore di canzoni celebri come Sarà perché ti amo che i Ricchi e Poveri portarono a Sanremo nel 1981
Dagospia il 22 settembre 2022. Da "La Zanzara"
“Sono conservatrice, mi piace la Meloni e la famiglia tradizionale. E guadagno con foto nude su Only Fans. Io adesso vivo di questo, è un lavoro, una moda che può far guadagnare anche molto bene. Quando passerà farò altro”. Ecco Paola Saulino, fotomodella e showgirl napoletana, a La Zanzara su Radio 24. “Non faccio nessuna chat – dice – ma solo foto, sia delle mie tette che della figa. Guadagno circa un milione all’anno, come un giocatore di serie A”.
Cosa pubblichi esattamente?: “Nella mia vita ho studiato e ho imparato molto da Immanuel Kant, lo dico a quelli che criticano questo lavoro. Era uno molto rigettato dai professoroni della scuola tedesco. Il problema del genio, spesso, è quello di essere compreso. E non mi aspetto di essere compresa, nemmeno da Parenzo. Ma torniamo alla domanda: che mi avevi chiesto”, dice a Cruciani.
Cosa c’è nel tuo profilo Only Fans?: “Ho un abbonamento vip dove faccio vedere anche le parti intime, in napoletano di può dire la fessa, la pucchiaccha, ma anche la sciuscia, che è molto carino. C’è il nudo che va dal seno al nudo integrale. Faccio pochissimi video, nessuna trombata, è una forma di arte. Voglio lavorare molto poco”. Ma come fai a dire che sei tradizionalista?: “Sono tendenzialmente di centrodestra, mi piace la famiglia e la patria. Vorrei innamorarmi e formare un nucleo familiare.
Però quelli che parlano di patria e famiglia predicano bene e razzolano male, tutti divorziati e puttanieri. Tutti sono contro la droga e poi si drogano come degli ossessi. Io posso dire di essere contro la droga, non mi drogo e non mi scoperei mai un drogato!!! Se uno si fa di cocaina io non lo scopo, la droga non mi piace”. “Se trovo uno di cui mi innamoro – dice ancora – potrei essere monogama. Non mi piace lo scambismo, la promiscuità. Ma a 32 anni non ho mai avuto una relazione vera, mai”.
“Sono più affascinata dal potere che dal sesso – dice la Saulino – però i soldi non possono comprare gli affetti e l’amore, ma migliorano la tua posizione contrattuale. A me la povertà non piace, perché vengo dalla fogna e nella fogna non ci voglio tornare. Guadagnare per una donna è il vero femminismo”. E l’aborto?: “Io non sono contro l’aborto, ma non abortirei mai.
Ecco il mio tradizionalismo”. Lei è napoletana, molti campani e napoletani prendono il reddito di cittadinanza, lei è d’accordo?: “A me non piace, è uno scambio di voti che è una cosa illegale. Qui nessuno produce, chi lo prende dovrebbe andare a lavorare e spesso fanno anche lavori in nero”. Ecco il video superhot di Paola Saulino negli studi della Zanzara
"A molti artisti fa gioco essere di sinistra". Giorgio Pasotti difende la Meloni. L'attore prende le difese della leader di Fratelli d'Italia: "Contro di lei c'è un accanimento barbaro e poco elegante. Poi ci lamentiamo perché le donne non vengono rispettate..." Luca Sablone il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.
Sembrava un evento impossibile, ma ecco che Giorgio Pasotti smentisce l'imprevedibilità e si schiera a difesa di Giorgia Meloni. Dopo i continui attacchi rivolti dal mondo dello spettacolo nei confronti della presidente di Fratelli d'Italia, l'attore ha preso posizione e ha confermato quanto sostenuto dall'aspirante presidente del Consiglio: tra gli artisti c'è la tendenza a dichiararsi di sinistra, magari anche per tentare di avere la strada spianata nel proprio lavoro.
Il passatempo dei vip di sinistra? Offendere il centrodestra
Gli artisti virano a sinistra
Nei giorni scorsi la Meloni ha fatto notare che tra i volti noti della televisione non spiccano figure che si professano di centrodestra, mentre c'è un esercito di personaggi influenti che non perde occasione per inveire contro il centrodestra e usare un linguaggio anche duro. La numero uno di FdI sospetta che più di qualcuno non si esponga a suo favore per timore di ricevere uno sgarbo nella sua carriera professionale.
Pasotti all'Adnkronos ha confermato che la tesi della Meloni contiene un fondo di verità: "La maggior parte dei miei colleghi si dichiara di sinistra ma onestamente non so se questo sia vero o no". Allora per quale motivo in molti si affrettano a far sapere di aver sposato la causa rossa? "Forse dire di essere di sinistra gli fa gioco. Spero non sia così perché sarebbe un po' squallido", ha dichiarato l'attore. L'auspicio è che ovviamente nessuno si pieghi a un meccanismo del genere: in effetti "se circoscriviamo l'arte in un recinto perde la sua funzione, cioè quella di creare libertà di pensiero".
"Accanimento barbaro contro Meloni"
La campagna elettorale sta per arrivare al capolinea: domenica 25 settembre gli italiani saranno chiamati a esprimere il proprio voto e tra pochi giorni verrà posta la parola fine sui continui dissidi e sulle costanti risse a distanza. Queste settimane sono state contrassegnate da uno scarsissimo livello di civiltà sul piano personale e dalla demonizzazione dell'avversario. Scaraventarsi contro i leader di centrodestra ormai è un esercizio diffuso tra i vip.
Pasotti ha osservato che nei confronti di Giorgia Meloni è in atto "un accanimento non solo poco galante ma addirittura barbaro". L'attore ha inoltre denunciato un doppiopesismo e una certa incoerenza che puntualmente si manifesta (a sinistra) quando si trattano le tematiche relative alla questione femminile: "Spesso ci lamentiamo perché le donne non vengono rispettate se non addirittura peggio. Questo deve valere anche per la Meloni che è innanzitutto un essere umano, a prescindere dalle proprie idee politiche".
Quella di Pasotti è una bella lezione di buonsenso al folto schieramento contro la Meloni. Palesare il proprio dissenso è ovviamente lecito e fa parte della democrazia; sfoderare insulti e falsi miti è invece la dimostrazione di pregiudizi e terrore politico.
Da fanpage.it il 17 settembre 2022.
Paolo Virzì ospite di Diego Bianchi a Propaganda Live nella puntata di venerdì 16 settembre. Il noto regista, reduce dal Festival del cinema di Venezia 79, dove ha presentato il film Siccità, ha parlato della situazione politica attuale. L'Italia sempre più vicina al voto del 25 settembre, l'ipotesi Meloni a capo del Governo che si fa sempre più concreta e Virzì che apre al discorso sul fascismo, con un link alla fine del mondo, scenario apocalittico della sua pellicola in uscita al cinema dal 29 settembre.
Assistiamo alla fine del mondo. C’è un problema gravissimo perché le elezioni sono diventate un mercato di scommesse. La leadership politica dà il peggio di sé, è un gioco isterico, non è in connessione con il bene di tutti noi. Il problema non è la Meloni in sé, lei fa il suo lavoro ed è stata una fascetta della Garbatella ma non lo è più. È una donna divorziata, che ora sta con un uomo di sinistra, però è una professionista della politica di questi anni e quindi intercetta umori e ha la giusta spregiudicatezza.
Anche Salvini, penso che di notte sogni delle orge erotiche con le nere, non gli importi nulla in fondo. È che usano questa voglia di nazifascismo, è la democrazia che sta scricchiolando, anche se sento che la Meloni non ha le idee giuste né il tono per governare questo Paese. È pericolosa per tanti motivi, dice cose autolesioniste in una disconnessione con la realtà, a tal punto da farmi pensare che forse ce la meritiamo sta fine del mondo.
Paolo Virzì si era già espresso con l'ANSA sul clima politico attuale, partendo dalle campagne elettorali: "Sono momenti difficili per il nostro Paese e questo film è pazzo, ambizioso e apocalittico allo stesso tempo. Volevamo raccontare quello che stava succedendo tra chi diceva che ci saremmo abituati a tutto e chi diceva che sarebbe stato sempre peggio.
È un film anche di solitudine che ti fa capire, è stato uno degli insegnamenti della pandemia, che in certi casi la redenzione viene dall'essere connessi e che alla fine è stupido ragionare nei termini dei confini nazionali. Questa è la visione che dovrebbero avere i nostri politici. Colpisce di questa campagna elettorale che i politici parlino solo di loro stessi, delle loro alleanze, dei punti percentuale: perché non fanno finalmente due passi indietro invece di parlare di bonus scaldabagno mentre il mondo si estingue e sprofonda?".
Giorgia Meloni, Renato Zero fuori controllo: "Votate la m... che siete". Libero Quotidiano il 26 settembre 2022.
Renato Zero non deve aver preso bene il risultato elettorale di queste Politiche 2022. Come è noto i dati parlano chiaro, il centrodestra ha vinto le elezioni con un grosso margine sul centrosinistra. E a trionfare in queste elezioni è stata di certo Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d'Italia aveva il suo comitato elettorale in un famoso hotel di Roma dove ha parlato intorno alle 2.30 di notte per ringraziare gli italiani che le hanno dato fiducia.
Ma a quanto pare l'hotel in cui si è tenuta l'attesa elettorale per i risultati di Fratelli d'Italia è lo stesso in cui è ospite Renato Zero. Proprio nei minuti concitati che hanno preceduto l'arrivo della Meloni per il suo intervento è rientrato in hotel il cantante.
Una volta sceso dalla sua auto, come riporta ilCorriere, ha inveito con i giornalisti presenti: "Non si può manco entrare in hotel, questo è un regime". Poi il durissimo attacco: "Votate la m... che siete". Una serata "no" per Renato Zero che è apparso piuttosto nervoso...
Anche Guccini nella schiera dei "vip contro Giorgia Meloni". Daniele Dell'Orco il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.
Il cantautore si unisce al coro dei vip per attaccare la leader di FdI e parla a ruota libera: "Mi invitò ad Atreju, ma rifiutai. Credo che dovrebbe riconoscere il 25 aprile"
Non poteva mancare nella schiera dei "vip contro Giorgia Meloni" il cantautore preferito dalla sinistra militante: Francesco Guccini. In una conversazione a tu per tu con Diego Bianchi di Propaganda Live, Guccini si unisce al coro degli "spaventati" dei consensi sempre crescenti riscossi dalla leader di FdI, che man mano che il 25 settembre si avvicina fanno perdere alla sinistra tutte le speranze di ribaltone.
Ma, se non altro, lo fa con la vena sarcastica di chi, in fin dei conti, a 82 anni può prendere l'eventuale vittoria del centrodestra con filosofia. Pensando di essere simpatico, Guccini offre una lettura ironica della continua associazione tra la Meloni e il fascismo: "Lei dice che quando è nata il fascismo non c’era più. Però si definisce cristiana e quando è nata lei, Cristo era già morto. Ora ha voluto tenere la fiamma nel simbolo del suo partito. Ma il problema è che la gente si dimentica spesso delle cose".
Guccini, poi, non si poteva esimere dal riferimento ai capisaldi dell'antifascismo facendo eco all'appello di Pier Luigi Bersani, tra comunisti si intendono, che chiedeva alla Meloni di "riconoscere" il 25 aprile: "Dicesse che è la festa di tutti gli italiani e dicesse che la Costituzione italiana è nata dal 25 aprile. Ma come Bersani, credo che la Meloni non riuscirà mai a dire queste cose".
Poi racconta un aneddoto, dei tempi in cui la Meloni era probabilmente poco più che ventenne: "Negli anni ’90 mi arrivò una telefonata di Giorgia Meloni, io non sapevo neanche chi fosse. All’epoca lei era la segretaria dei giovani di An e voleva che io partecipassi a un loro incontro ad Atreju. Io cortesemente rifiutai". Un gesto non così onorevole, per la verità, visto che il festival che all'epoca veniva organizzato da Azione Giovani altro non era, e non è, che un momento di confronto trasversale e di incontro oltre gli steccati ideologici. Ma a Guccini, a quanto pare, il suo steccato piace troppo, e si comprende bene che non possa né voglia accettare che altre correnti di pensiero possano ricevere apprezzamento.
Infine, dopo quel "gran rifiuto", i due sono tornati a confrontarsi in tempi più recenti, quando Guccini ebbe la grande idea di far scadere il suo incredibile talento da compositore per elaborare un ritornello davvero infantile: "Nel 2020 ho fatto una goliardata: cantare 'Bella Ciao', cambiando leggermente le parole. Lei mi ha infamato per un passaggio del testo: 'C’era Salvini con Berlusconi, (…)con i fasci della Meloni che vorrebbero ritornar. Ma noi faremo la resistenza, (…)noi faremo la resistenza come fecero i partigian. O partigiano portali via, come il 25 april'. Meloni – puntualizza Guccini – pensava che io mi riferissi a piazzale Loreto, ma io non pensavo assolutamente a piazzale Loreto. Io pensavo alle feste eleganti di Berlusconi, a Salvini del Papeete e del mojito, alla Meloni e allo spezzare le reni alla Grecia. E invece lei m'ha infamato. Dopo questo episodio non ci siamo più chiariti".
In realtà, oltre al fatto che i riferimenti di Guccini, sia quelli voluti che non voluti, fossero comunque tutt'altro che brillanti, la Meloni non lo infamò affatto. Scrisse sui suoi social: "Cosa intende esattamente Francesco Guccini quando dice che con Meloni, Salvini, Berlusconi faranno la 'resistenza come hanno fatto i partigiani'? Che dovrebbero farci i processi sommari, appenderci a testa in giù, rasarci i capelli ed esporci alla pubblica gogna? Cosa intende quando dice 'oh partigiano portali via'? Dove dovrebbero portarci questi partigiani? Al confino, in galera, dove? Questa si chiama istigazione all’odio, cari compagni. Ma noi non ci faremo intimorire, mai. Dovete batterci nelle urne, se ne siete capaci".
Ora, quel momento è arrivato. Tra una settimana si scoprirà che la sinistra, di vincere il confronto dal punto di vista elettorale com'è proprio delle democrazie, ne è capace o no.
Da tg24.sky.it il 26 settembre 2022.
Per protestare contro la vittoria del centrodestra alle elezioni e il futuro governo guidato da Fratelli d'Italia, gli studenti del liceo classico Manzoni di Milano hanno deciso di occupare la scuola. Dopo organizzato un picchetto all'ingresso, gli studenti sono ora riuniti in palestra in assemblea per discutere dell'occupazione, decisa anche per protestare contro l'alternanza scuola-lavoro, dopo la morte di Giuliano De Seta che già li aveva portati a organizzare un corteo interno 10 giorni fa.
La protesta
L'intenzione dei ragazzi è occupare parte delle aule del piano terra per due giorni e quindi di rimanere a dormire stanotte all'interno dell'edificio di via Orazio, per poi riprendere regolarmente le lezioni mercoledì. "Vogliamo dirlo chiaramente, alla Meloni, a Confindustria, a chi ci reprime - hanno scritto in un comunicato gli studenti -: non siamo più disposti a tirarci indietro, far finta di nulla e aspettare che voi cambiate le cose; perché, nonostante tutto, sempre e comunque, la scuola siamo noi.
Questa mattina come studenti e studentesse del Manzoni, abbiamo occupato la nostra scuola per parlare e confrontarci sulla situazione in cui versano le nostre vite: crisi e disastri climatici sono ormai all'ordine del giorno, provano lentamente ad abituarci a un lavoro precario, sfruttato e mortale e, come se non bastasse, ci prepariamo ad entrare in una fase politica pericolosa e repressiva, visti gli ultimi risultati elettorali".
E ancora: "Abbiamo preso coscienza di questa situazione e abbiamo deciso che questa volta non staremo fermi a guardare, non rimarremo passivi davanti a un presente che cerca con ogni mezzo di toglierci il futuro che ci appartiene".
"Fuori i fasci". Gli studenti in piazza bruciano le foto di Meloni e Draghi. Marco Leardi il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.
A Milano sfila il corteo studentesco anti-Meloni e Draghi. Ma la protesta contro l'alternanza scuola lavoro è un pretesto: dal palco, propaganda e slogan politici di sinistra. "Pagherete caro, pagherete tutto"
La solita retorica da centro sociale, con gli slogan strillati a ripetizione. Urlati al megafono. "Siamo una generazione queer e transfemminista, siamo per la pace e il disarmo". La solita contestazione politica, destinata - come spesso accade - a sfociare in manifestazioni antidemocratiche. Violente. Il corteo studentesco avvenuto stamani a Milano per chiedere l'abolizione dell'alternanza scuola-lavoro si è concluso con le foto di Mario Draghi e Giorgia Meloni bruciate in piazza. Date a fuoco come segno di dissenso verso la classe dirigente e il nuovo governo.
Nuove proteste, vecchia propaganda
Gli studenti protagonisti dell'odierna protesta, a quanto pare, avevano grosse lacune in educazione civica. In piazza, nuove proteste ma vecchia propaganda. "Fuori i fasci dalle scuole", si leggeva ad esempio su uno dei cartelli impugnati dai manifestanti. E ancora, lo striscione dispiegato all'apertura del corteo recitava: "L'Italia non è un Paese per giovani". Nel comizio che aveva dato avvio alla contestazione, i promotori dell'iniziativa avevano spiegato: "Siamo una generazione meticcia, antirazzista, ci opponiamo a questo governo che chiude i confini perché vogliamo libertà di migrare e diritti per tutti". Così, i bersagli facili del dissenso studentesco sono diventati Mario Draghi e la premier in pectore Giorgia Meloni.
Il "No Meloni Day"
Il successo elettorale di quest'ultima non dev'essere piaciuto affatto ai giovani della sinistra studentesca, che non a caso hanno colto l'occasione per lanciare la loro prossima adunata: il "No Meloni Day". Appuntamento il 18 novembre prossimo alle 9.30, in largo Cairoli a Milano. Nel frattempo, i ragazzi - circa 300 manifestanti - radunti da Rete Studentesca si sono portati avanti con le contestazioni alla leader del partito più votato in Italia. "Chi non salta la Meloni è...", hanno gridato dal palco. E via, tutti a saltellare. Intanto, tra i cartelloni esibiti c'era anche quello del partito marxista leninista italiano: "Uniamoci contro il governo neofascista Meloni. Per il socialismo e il potere politico del proletariato".
Draghi e Meloni a fuoco
In piazza duomo a Milano, poi, lo sfogo sulle immagini di Mario Draghi e della leader di Fratelli d'Italia, incendiate con dei fumogeni. Tra i simboli bruciati, anche quello di Confindustria. "Saremo in piazza finché questo modello non sarà cancellato", hanno affermato i manifestanti, riferendosi all'alternanza scuola-lavoro. Di seguito, il coro: "Per gli studenti uccisi non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto". Inquietanti echi del passato, in quel ritornello. Il riferimento iniziale era invece ai giovani purtroppo morti durante le esperienze di alternanza scuola-lavoro: Giuseppe Lenoci, Lorenzo Parelli e Giuliano De Seta.
Tra slogan intrisi di propaganda e gesti antidemocratici, il ricordo di questi ultimi (commemorato con un iniziale minuto di silenzio) è sembrato piuttosto un pretesto per fare agitazione politica.
GOVERNO, MELONI: “SINISTRA IN PIAZZA CONTRO ESECUTIVO CHE NON C’È”. Da lapresse.it l'8 ottobre 2022.
“Stiamo vivendo un paradosso in cui la sinistra – attualmente al Governo – scende in piazza contro ‘le politiche del Governo Meloni‘ non ancora formato“. Lo scrive su Facebook la leader di Fratelli d’Italia. “Comprendo la voglia di protestare dopo anni di Esecutivi inconcludenti che ci hanno condotto nell’attuale disastrosa situazione, ma il nostro obiettivo sarà restituire futuro, visione e grandezza all’Italia. A breve volteremo finalmente pagina”, aggiunge.
Fratelli d’Italia ha poi precisato che “non c’è alcuna relazione tra il post pubblicato questa mattina su Facebook da Giorgia Meloni e la manifestazione della Cgil di oggi a Roma, che a quanto risulta non è stata organizzata per protestare contro Meloni.
ll post del presidente di FdI si riferisce, infatti, alle manifestazioni organizzate nei giorni scorsi in varie città italiane, in cui tra le altre cose sono state bruciate in piazza delle immagini di Meloni”. Lo precisa in una nota l’ufficio stampa di Fratelli d’Italia.
Enrico Paoli per “Libero quotidiano” l'8 ottobre 2022.
E siamo solo all'inizio. Chissà cosa accadrà nelle prossime settimane quando la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, traslocherà a Palazzo Chigi. Perché bruciare in piazza le foto della premier in pectore, assieme a quelle del presidente del Consiglio uscente, Mario Draghi, e inveendo contro tutti, come hanno fatto a Milano i bravi studenti de' sinistra, sentendonsi anche un po' fighi nel fare tutto ciò, non è solo un pessimo segnale per la democrazia, ma è, soprattutto, la dimostrazione di come ci sia chi vuole avvelenare il clima. Innescando una sorta di caccia alle streghe, senza le streghe, ma con i roghi già accesi. E poi parlano di allarme fascismo, loro.
A mettere in scena la barbarie delle foto bruciate, in piazza Duomo, a Milano, gli studenti del capoluogo lombardo, scesi in strada per protestare contro l'alternanza scuola-lavoro e il nuovo governo (che ancora non c'è).
Insomma, una manifestazione preventiva, quella degli studenti lombardi, che arriva a poco più di una settimana dalla breve occupazione del liceo classico Manzoni, sempre a Milano, messa su per contestare l'esito delle elezioni politiche dalle quali Fratelli d'Italia ne è uscito come primo partito del Paese.
Eppure cori e slogan contro la Meloni, con le foto bruciate, hanno caratterizzato la mattinata di protesta. «Chi non salta la Meloni è», hanno intonano gli studenti, soddisfatti e contenti della loro piazzata. Il corteo ha preso forma in Largo Cairoli, di fronte al Castello Sforzesco, e ha marciato fino a piazza Fontana. Il tutto è durato poco più di un paio d'ore, quasi fosse una sorta di prova generale per le prossime settimane.
Sui volantini distribuiti o affissi sulle pensiline dei tram le ragioni della contestazione: «Fascisti al governo; morti e sfruttamento in alternanza; repressione e carovita».
Insomma, di tutto di più, mescolando bene le carte insieme, in modo da creare il solito mix ideologico. E poi l'esortazione: «Non stare a guardare: ribelliamoci!». In altri manifesti, sotto la scritta «colpirne uno, colpirli tutti», sono ritratti i volti di varie personalità e leader politici tra cui Matteo Salvini, Enrico Letta e il sindaco Giuseppe Sala. Perché nel mirino mica c'è solo la Meloni.
In testa al gruppo, con il megafono d'ordinanza, si alternano gli studenti che ribadiscono la necessità di «dire no al governo neofascista di Giorgia Meloni; dire no alle istituzioni politiche che non pensano agli studenti; dire no all'alternanza scuola-lavoro». Poche idee, ma confuse benissimo. Immancabile il flash mob dedicato agli studenti rimasti uccisi durante le ore di alternanza: i ragazzi si siedono a terra e osservano un minuto di silenzio per ricordare Giuseppe Lenoci, Lorenzo Parelli e Giuliano De Seta, l'ultimo morto in provincia di Venezia.
Sono le stesse istanze che, all'indomani della vittoria del centrodestra al voto del 25 settembre, avevano portato i liceali del Manzoni ad occupare l'istituto: «Ci prepariamo ad entrare in una fase politica pericolosa e repressiva», avevano scritto gli studenti in un comunicato in cui spiegavano le ragioni del gesto. L'agitazione si era esaurita nel giro di 24 ore dopo la minaccia della preside del liceo, Milena Mammani, di dare 5 in condotta agli studenti che sarebbero rimasti a dormire nelle aule di via Orazio. «Abbiamo iniziato per non fermarci», si legge su molte delle felpe sfoggiate in Duomo, e uno striscione già annuncia una nuova manifestazione per il 18 novembre: il «No Meloni Day».
«Dirsi dalla parte della democrazia e poi protestare contro al nuovo governo perché il risultato delle elezioni non coincide con ciò che si sarebbe desiderato, non è propriamente coerente», afferma l'onorevole di Fratelli d'Italia, Riccardo De Corato, commentando la protesta degli studenti milanesi di diversi istituti, tra cui Agnesi, Tenca, Tito Livio e Varalli. a Colpire, però, è quel gesto inutile quanto stupido, ovvero «bruciare in piazza le foto di Giorgia Meloni nel silenzio assordante delle istituzioni. È gravissimo che sia stato lasciato fare loro tutto questo», sostiene l'esponente di FdI, «l'ennesima dimostrazione che per alcuni la democrazia va bene solo se le cose vanno come vogliono loro. Come dimostrano gli striscioni si stanno preparando già alla resistenza con il 'no Meloni day' previsto per il 18 novembre. Si mettano tutti l'anima in pace: il nuovo governo è stato eletto democraticamente dagli italiani».
Maurizio Landini, insulti in piazza a FdI: "Fascismo, la cultura della violenza". Libero Quotidiano l'8 ottobre 2022
"Noi dobbiamo combattere il fascismo": Maurizio Landini ha parlato nel corso della manifestazione di questo pomeriggio a Roma, in piazza del Popolo, a un anno dall'assalto neo fascista alla sede del sindacato. Il segretario della Cgil, con tono allarmistico, ha dichiarato: "100 anni fa il fascismo partì proprio attaccando le Camere del lavoro e finì con il mettere in discussione il diritto di votare. Oggi vediamo il risorgere della cultura della violenza". Si tratta forse di un riferimento a Fratelli d'Italia, che ha vinto le ultime elezioni?
Nonostante questo, il segretario della Cgil ha voluto precisare che la manifestazione non è stata organizzata contro qualcuno: "Questa decisione di scendere in piazza l'abbiamo presa prima di sapere come andavano le elezioni, non perché l'abbiamo decisa noi dirigenti ma insieme a voi, e l'abbiamo decisa perché abbiamo visto che in questi mesi, in questi anni, il governo non ha ascoltato le lavoratrici e i lavoratori". Le accuse di Landini sono rivolte a tutti, a chi ha governato ma anche a chi è stato all'opposizione: "In questi mesi e anni il governo e le opposizioni non hanno ascoltato i lavoratori".
Landini, poi, è andato avanti col suo discorso: "La Costituzione l'abbiamo sempre difesa e non abbiamo cambiato idea. La Costituzione del nostro Paese non è né di destra né di sinistra ma antifascista e democratica e si fonda sulla libertà e il lavoro". Infine due appelli. Uno per "una vera riforma fiscale che aumenti i salari e le pensioni più basse". L'altro per evitare che si continui a "morire per il lavoro".
Roma, la Cgil scende in piazza e Meloni risponde: “La sinistra attacca un governo non ancora formato”. Felice Emmanuele e Paolo de Chiara su Notizie.it l'08/10/2022
Giorgia Meloni esprime un suo parere in risposta alla manifestazione della Cgil a Roma. Interviene anche il ministro Orlando.
Un corteo autorizzato della Cgil è sceso in piazza a Roma per chiedere garanzie e perché è preoccupato per il nuovo governo. La Meloni risponde a tono ed è sorpresa di quanto sia accaduto nella Capitale.
Cgil scende in piazza a Roma e fa una richiesta di 10 punti all’Italia e all’Europa
I rappresentanti della Cgil, come si apprende dall’Ansa, hanno presentato all’Italia e all’Europa una lista di dieci proposte che sono: l’aumento di stipendi e pensioni; il superamento della precarietà; l’introduzione del salario minimo legato al trattamento economico complessivo dei contratti nazionali e una legge sulla rappresentanza; la sicurezza nei luoghi di lavoro; la necessità di garantire e migliorare una misura universale di lotta alla povertà, come il Reddito di cittadinanza; rendere il sistema pensionistico più flessibile superando la legge Fornero; fissare un tetto alle bollette; fare investimenti e un piano per l’autonomia energetica fondato sulle rinnovabili e una vera riforma del Fisco (no flat tax).
La risposta di Giorgia Meloni
Giorgia Meloni, che non è ancora premier in carica, come nessun politico della coalizione del centrodestra, ritiene questa manifestazione paradossale, in quanto, come affermato dalla leader di Fratelli d’Italia su Facebook: “La sinistra, attualmente al Governo, scende in piazza contro “le politiche del Governo Meloni” non ancora formato. Comprendo la voglia di protestare dopo anni di Esecutivi inconcludenti che ci hanno condotto nell’attuale disastrosa situazione, ma il nostro obiettivo sarà restituire futuro, visione e grandezza all’Italia.
A breve volteremo finalmente pagina”.
Il ministro Orlando difende il sindacato
A prendere le parti del sindacato vi è l’attuale ministro del Lavoro Andrea Orlando che ha partecipato alla manifestazione. Orlando ha dichiarato: “Alla Meloni rispondo che non ha ascoltato la parola d’ordine del sindacato. Oggi la Cgil chiede solo di proseguire un metodo che è quello che caratterizza tutte le democrazie europee, quello del dialogo sociale e del confronto col mondo del lavoro.
È la ragione per cui pensa sia giusto appoggiare questa parola d’ordine”.
Milano, gli studenti di sinistra non accettano l'esito del voto e occupano il Liceo Manzoni. Il Tempo il 26 settembre 2022
Occupazione di protesta contro l’esito delle elezioni politiche del 25 settembre che hanno visto trionfare il centrodestra. È la scelta fatta degli studenti e le studentesse del liceo classico Alessandro Manzoni di Milano. «Abbiamo occupato la nostra scuola - hanno scritto in una nota gli alunni - per parlare e confrontarci sulla situazione in cui versano le nostre vite. Crisi e disastri climatici sono ormai all’ordine del giorno, provano lentamente ad abituarci a un lavoro precario, sfruttato e mortale, e, come se non bastasse, ci prepariamo ad entrare in una fase politica pericolosa e repressiva, visti gli ultimi risultati elettorali».
«Abbiamo preso coscienza - spiegano ancora i ragazzi - di questa situazione e abbiamo deciso che questa volta non staremo fermi a guardare, non rimarremo passivi davanti a un presente che cerca con ogni mezzo di toglierci il futuro che ci appartiene. Ci siamo presi e prese uno spazio che troppe volte si è dimostrato repressivo e inadatto nel tentativo di dimostrare che non solo è possibile che studenti e studentesse decidano autonomamente di prendersi dei loro spazi, ma che è anche giusto e deve diventare una pratica normalizzata; se voi ci toglierete dei nostri spazi noi saremo pronti a riprenderceli e non cederemo più su quelle cose che riteniamo indispensabili per la nostra formazione».
Poi, rivolgendosi direttamente alla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni - per distacco primo partito alle urne - e a Confindustria, dichiarano: «Non siamo più disposti a tirarci indietro, far finta di nulla e aspettare che voi cambiate le cose, perché, nonostante tutto, sempre e comunque, la scuola siamo noi».
Da repubblica.it il 26 settembre 2022.
Mentre Giorgia Meloni scendeva dal palco al comitato elettorale allestito all’Hotel Parco dei Principi a Roma, si scatenava la festa tra militanti, parlamentari e volontari sulle note di Ma il cielo è sempre più blu e A mano a mano di Rino Gaetano. Tra abbracci e cori per la presidente del partito i militanti di Fratelli d'Italia si sono commossi cantando a squarciagola, ma perché le canzoni del musicista morto 41 anni fa sono diventate la colonna sonora della vittoria della destra?
Passione personale di Meloni che nell'ottobre scorso ricordava la nascita del cantante con un post sentimentale che diceva: "Il 29 ottobre 1950 nasceva Rino Gaetano, un grande artista italiano che grazie alla sua intramontabile musica continua ancora a regalarci emozioni uniche e indescrivibili. Ci manchi Rino". Appropriazione culturale di un'artista che si era sempre professato apolitico o semplicemente mancanza di un carnet di musicisti e canzoni da utilizzare sul palco?
Raggiunto da Repubblica Alessandro Gaetano, nipote ed erede dell'artista di culto, si è sfogato: "Non se ne può più. Anna, la sorella di Rino, ed io abbiamo detto centinaia di volte che non gradiamo questo tipo di iniziative: Rino è di tutti, e la politica non deve appropriarsene".
Non è la prima volta che i brani più famosi di Rino Gaetano Ma il cielo è sempre più blu, A mano a mano, ma anche Nuntereggae più vengono utilizzate dai partiti per le proprie campagne politiche e in passato la famiglia del musicista aveva protestato. Nel 2018, quando le canzoni erano state utilizzate dalla Lega, avevano detto: "Nel corso degli anni è capitato più volte che le canzoni e l'immagine di Rino venissero usate da parte di diversi schieramenti. Questo è solo stato l'ennesimo episodio che ci viene segnalato in questi anni e di cui siamo stufi. Fosse stato chiunque altro l'avremmo pensata allo stesso modo. Rino non è di destra né di sinistra, non ha colori politici. Perché devono farsi forza usando lui e la sua musica?".
"Non ci è mai piaciuto" avevano aggiunto. "Anzi, ogni volta che ci hanno invitato a parlare o cantare su un palco abbiamo chiesto di togliere le bandiere del partito di turno. Non critichiamo nessun messaggio, semplicemente ci sembra scorretto politicizzare la sua musica. Rino non era d'accordo neanche allora. Ha suonato alcune volte alla Festa dell'Unità, ma lui era solo a favore del popolo e contro chi tradiva i suoi ideali".
A mano a mano in realtà è una canzone di Riccardo Cocciante cantata dal vivo un'unica volta da Rino Gaetano nel 1981 durante una tournée congiunta (con l'accompagnamento di Cocciante e del gruppo New Perigeo; mentre Gaetano faceva cantare a Cocciante la sua Aida, A mano a mano veniva affidata da Cocciante alla voce di Gaetano. Non ci sono versioni in studio della versione cantata da Gaetano, il brano è contenuto nella registrazione del concerto Q disc live Q Concert.
Ma a distanza di anni la sua versione è quella più popolare, nonché una delle canzoni di maggiore successo di Rino Gaetano, essendo la più ascoltata in assoluto su Spotify sorpassando hit come Gianna e Ma il cielo è sempre più blu. Nel 2019, in occasione dell'uscita del cofanetto Ahi Maria 40th, nel giorno del suo compleanno, il 29 ottobre, sul canale YouTube dell'artista è stato pubblicato un videoclip con la versione live della canzone che ha totalizzato oltre 35 milioni di visualizzazioni.
Sui social intanto i fan di Rino Gaetano sono più o meno tutti compatti nel criticare la scelta. C'è chi dice "Rino Gaetano utilizzato per festeggiare la vittoria da Fratelli d'Italia si starà rivoltando nella tomba buon'anima", oppure "Il comizio post elettorale della Poponi con Rino Gaetano? Ma stiamo scherzando?", ancora "Certo che ascoltare Rino Gaetano al bunker di FdI fa tanto, tanto, tanto male". C'è anche chi critica la sinistra: "Sono riusciti a farsi scippare anche Rino Gaetano". E chi sceglie di citare una sua intervista: "'Perché ho amato tutti i sessi ma posso garantirvi che io non ho mai dato troppo peso al sesso mio, oh'. Buongiorno Giorgia a te e a tutto il tuo circo".
Gli eredi di Rino Gaetano: "Fdi non lo sfrutti". Ma le canzoni famose sono patrimonio di tutti. Polemica dopo l'uso durante la festa elettorale dei brani del cantautore. Paolo Giordano il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.
Ci risiamo. Stavolta tocca a due brani di Rino Gaetano, A mano a mano e Ma il cielo è sempre più blu che Giorgia Meloni ha accennato, canticchiato, ascoltato domenica in piena notte all'Hotel Parco dei Principi di Roma festeggiando il successo elettorale. «Non se ne può più. Anna, la sorella di Rino, ed io abbiamo detto centinaia di volte che non gradiamo questo tipo di iniziative: Rino è di tutti, e la politica non deve appropriarsene», ha subito commentato Alessandro, nipote ed erede di uno dei cantautori più creativi di sempre e senza dubbio il più sfortunato.
Non è la prima volta che gli eredi Gaetano si lamentano e non è neppure la prima volta che l'utilizzo di un brano in contesti politici crea polemiche, in Italia ma pure all'estero. Per capirci, a ogni giro elettorale, scatta la solita polemica sull'utilizzo di canzoni famose e non si contano gli artisti che, anno dopo anno, se ne sono lamentati. Ci sono pure «pentimenti postumi» come quello di Ivano Fossati che concesse all'Ulivo l'utilizzo de La canzone popolare ma poi se ne pentì: «Prestare una canzone alla politica è una cosa che non consiglio a nessuno».
Qui il problema è più generale. Di chi è una canzone famosa decenni dopo la sua pubblicazione? «È di tutti», come giustamente dice la famiglia Gaetano. Ossia non ha vincolo di mandato: essendo diventata parte della cultura popolare può essere utilizzata liberamente, fatti ovviamente salvi i diritti d'autore. Oltretutto A mano a mano non è neppure un brano di Rino Gaetano, ma è stato scritto (anche) da Riccardo Cocciante che lo ha incluso nel suo album omonimo del 1978. Rino Gaetano non l'ha mai inciso in studio, ma la versione dal vivo registrata in Q Concert del 1981 ha avuto uno strepitoso successo. Quindi, in teoria, anche Riccardo Cocciante ne dovrebbe impedire o circoscriverne l'utilizzo, cosa che, quantomeno al momento, non risulta. Di certo Rino Gaetano è uno dei più «saccheggiati» visto che alcuni suoi titoli come Nuntereggaepiù sono efficaci pure come slogan elettorali (la Lega lo ha sfruttato nel 2018 e la famiglia ha protestato). Le sue canzoni sono diventate titoli di film (Mio fratello è figlio unico del 2007 tratto da Fasciocomunista di Pennacchi) e persino di spot televisivi. Ad esempio la meravigliosa Ma il cielo è sempre più blu (canticchiata dalla Meloni) ha accompagnato una campagna promozionale della Lidl e anche una del Monte dei Paschi di Siena quattro anni prima della drammatica morte del capo della comunicazione David Rossi. Ma nessuno ha eccepito, nonostante di certo quel brano non fosse stato composto da Rino Gaetano per fare pubblicità a una banca.
In conclusione, un brano famoso diventa di proprietà popolare, salvo utilizzi specifici che vengono retribuiti da compensi adeguati e concordati con autore o eredi. Quindi libertà. A meno che fare pubblicità a una banca sepolta dai misteri sia più onorevole di essere canticchiati a una festa elettorale (di destra o sinistra, per carità).
La famiglia dell’artista si sfoga contro l’uso improprio. Meloni vince le elezioni e festeggia sulle note di Rino Gaetano, il nipote: “La politica non deve appropriarsene”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 26 Settembre 2022
Giorgia Meloni era appena scesa dal palco del suo comitato visibilmente emozionata quando è partita la colonna sonora di Rino Gaetano. “Il cielo è sempre più blu” e “A mano a mano” risuonavano nel quartier generale di Fratelli d’Italia mentre la leader abbracciava e ringraziava fan e colleghi. Ma la famiglia dell’artista tragicamente scomparso il 2 giugno 1981, all’età di trent’anni, non ci sta e si sfoga: “La politica non usi la voce, la musica, le canzoni di Rino Gaetano”, ha detto Alessandro Gaetano, nipote ed erede dell’artista intervistato da Repubblica.
Non è la prima volta che succede che le canzoni di Rino Gaetano siano usate in comizi elettorali e non è nemmeno la prima volta che la famiglia chiede di non usare quelle canzoni in un contesto politico. “Con mia madre Anna, la sorella di Rino, abbiamo detto decine di volte, anche nei giorni e negli anni passati, che non gradiamo questo tipo di iniziative e ce ne allontaniamo: preferiamo che la politica non se ne appropri”, dice Alessandro Gaetano.
“Che le sue canzoni siano apprezzate mi lusinga” ma, continua, non si deve strumentalizzare. Il problema è generale: “Non si tratta di destra e sinistra. È un problema di uso strumentale dell’amore che la gente ha per questo straordinario artista”. “A Rino, in fin dei conti, la cosa che interessava era che dalla politica venisse fuori qualcosa di buono per il popolo”. Rino Gaetano in vita non si era mai sbilanciato politicamente né a destra né a sinistra. “Le canzoni non sono testi politici e io non faccio comizi”, diceva.
Ma c’è un precedente: nel 2018 la Lega aveva usato le canzoni durante un comizio. E la famiglia aveva protestato anche allora. “Nel corso degli anni è capitato più volte che le canzoni e l’immagine di Rino venissero usate da parte di diversi schieramenti – dissero all’epoca dei fatti, come riportato da Repubblica – Questo è solo stato l’ennesimo episodio che ci viene segnalato in questi anni e di cui siamo stufi. Fosse stato chiunque altro l’avremmo pensata allo stesso modo. Rino non è di destra né di sinistra, non ha colori politici. Perché devono farsi forza usando lui e la sua musica?”.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Lorenzo D'Albergo per roma.repubblica.it il 26 settembre 2022.
Per Damiano, il frontman dei Måneskin, non è stato un bel risveglio. Il cantante della superband romana è deluso dal voto degli italiani e non fa nulla per nasconderlo. Lo sfogo arriva con una stories su Instagram.
L'artista posta la prima pagina di Repubblica con la foto di Giorgia Meloni e la notizia della vittoria del centrodestra. Poi il commento: "Oggi è un giorno triste per il mio Paese". Un messaggio diretto ai fan di tutto il mondo e destinato quindi a fare il giro del globo.
Chissà cosa ne penserà Meloni, che sui social aveva difeso il gruppo dopo la vittoria all'Eurovision e le accuse sulla presunta (e subito smentita) assunzione di stupefacenti in diretta tv proprio da parte di Damiano. "Da giorni leggiamo surreali polemiche contro i Måneskin, colpevoli di aver fatto conquistare l’Eurovision all’Italia. E sono tante le critiche, anche di pessimo gusto, che arrivano in particolare dai francesi.
Finalmente oggi la tv pubblica di Parigi ha fatto sapere che il voto è estremamente chiaro a favore dell’Italia e che non ha alcuna intenzione di sporgere un reclamo. La prossima volta imparino a perdere sportivamente, senza dover gettare fango addosso a dei bravissimi artisti che hanno meritato la vittoria con impegno e passione. Bravi ragazzi per questo straordinario risultato e complimenti anche per aver dichiarato apertamente di non aver fatto uso di droghe: un bel messaggio, soprattutto per i giovani", scriveva la leader di Fratelli d'Italia il 24 maggio 2021.
Parole che a quanto pare non hanno fatto breccia nel cuore di Damiano, in tour all'estero e quindi lontani dalle urne della Capitale. Ma a questo punto c'è da scommetterci: il cantante avrebbe votato tutto tranne che Fratelli d'Italia.
Da repubblica.it il 26 settembre 2022.
Boy George contro Giorgia Meloni. Il musicista inglese ha scritto un duro Tweet, poi rimosso, contro la presidente di Fratelli d'Italia a poche ore dal risultato elettorale che ha visto la vittoria della destra.
"Ehi Giorgia Meloni - ha scritto il musicista - mio padre etero era violento, ma tu lo sosterresti e forse approveresti l'idea di picchiare i bambini in nome del nucleo familiare tradizionale, ma due uomini o donne gay che allevano un bambino con amore incrollabile è sbagliato?".
Sul Tweet del musicista è cominciato un dialogo con i suoi fan (molti italiani) e insieme a chi sostiene la sua posizione c'è anche chi lo critica: "Hey Boy George, il padre di Meloni ha abbandonato la famiglia quando lei era una bambina, lei sa una o due cose su come una famiglia *tradizionale* potrebbe non funzionare, dovresti ascoltare i suoi ragionamenti invece di presumere".
Al quale però il musicista ha ribattuto: "Supponendo? Meloni è contro i diritti e la libertà dei gay. Capisco il vecchio concetto noioso di politica dura, ma abbiamo visto abbastanza attraverso la storia per capire cosa fa all'umanità. Un leader veramente grande non detta cose che le persone non possono capire".
Tra gli utenti c'è anche chi ribatte che l'Italia è "una grande democrazia", che Giorgia Meloni sarà la prima donna a capo del governo nella nostra storia e che il nostro Paese non ha bisogno di lezioni. Il cantante dei Culture Club replica che tutti ne hanno bisogno e cita Mussolini, evidentemente per lui una lezione non imparata dagli italiani. "La storia modellata su Mussolini ha bisogno di lezioni" chiosa.
Dagospia il 26 settembre 2022. E POI SI CHIEDONO PERCHÈ GIORGIA MELONI STRAVINCE - DOPO IL RISULTATO ELETTORALE LA CANTANTE FRANCESCA MICHIELIN SPARA IL SUO TWEET SCOMPOSTO: "OGGI INIZIA LA RESISTENZA. BUONGIORNO A TUTT*" - MA RESISTENZA A COSA? AL VOTO ESPRESSO DAGLI ITALIANI? E CHI DOVREBBE FARE "RESISTENZA", LA CONDUTTRICE DI X-FACTORI? - CON QUESTI SINISTRATI, SEMPRE A EVOCARE IL PERICOLO FASCISMO, LA DESTRA PUO' DORMIRE TRANQUILLA...
Dagospia il 26 settembre 2022. "DA OGGI CAMBIA TUTTO, TRE PONTI SULLO STRETTO E VI PAGHERANNO LE BOLLETTE" – FIORELLO SHOW SULLA VITTORIA DELLA MELONI (CHE IN GIOVENTU' E' STATA LA BABY SITTER DELLA FIGLIA) - ANCHE LA FERILLONA IRONIZZA: "NUOVA ERA. IL TRENO VIAGGIA IN ORARIO”, CHE RICHIAMA IL MITO DELL’EFFICIENZA DELLE INFRASTRUTTURE ITALIANE DURANTE IL REGIME FASCISTA...
Da repubblica.it il 26 settembre 2022.
Gli amici e tanti ospiti speciali, oltre ai tanti fan dei Pooh. All'Auditorium Parco della Musica "Ennio Morricone" di Roma è andato in scena lo spettacolo Stefano!, una serata speciale in memoria di Stefano D'Orazio, a due anni dalla sua scomparsa. A ricordarlo amici e colleghi, a cominciare dai suoi compagni di una vita nei Pooh, da Roby Facchinetti a Red Canzian e Riccardo Fogli. Solo con un messaggio registrato, Dodi Battaglia.
Special guest della serata, presentata da Eleonora Daniele, lo showman Fiorello che ha omaggiato l'artista e manager prima cantando con Facchinetti Uomini soli e Tanta voglia di lei, poi con alcuni momenti che preparano il grande pubblico al suo ritorno su Rai1 e su Radio2."Oggi è una giornata particolare.
Siete andati a votare? Siete contenti di cambiare il destino di questo paese? Non voglio fare satira, perché questa non è la serata giusta. Ma qualcosa bisogna pur dire", ha esordito. "Da domani cambia tutto. Ma non avete sentito tutte le promesse che ci hanno fatto? Da domani non ci saranno più tasse. Da domani vi pagheranno pure le bollette della luce. Faranno i ponti sullo stretto. E mica solo uno: ne avremo tre. Addirittura, ne avremo uno che collegherà la Sicilia e Genova".
Poi un cenno alla performance "dance" di Luigi Di Maio: "L'immagine che ricorderò per sempre? Di Maio che fa Dirty Dancing". Quindi un'imitazione di Bruno Vespa: "Sono usciti i primi exit poll. A Roma i cinghiali hanno superato la soglia di sbarramento del 3 per cento". Tra gli ospiti d'eccezione a ricordare D'Orazio, anche il pianista jazz Danilo Rea, l'attore Pino Quartullo e il violoncellista Piero Salvatori.
Valentina Lupia per repubblica.it il 26 settembre 2022.
Tra le persone che sui social in queste ore commentano la vittoria del centrodestra alle elezioni c'è anche Sabrina Ferilli. L'attrice, sul suo profilo Instagram da quasi un milione di followers, ha condiviso una delle immagini che in queste ore girano maggiormente per ironizzare sui risultati dello spoglio: la foto di uno schermo intero di un treno Italo con su scritto Il treno viaggia in orario", che richiama il mito dell’efficienza delle infrastrutture italiane durante il regime fascista.
"Nuova era!", aggiunge la 58enne romana, già icona della sinistra, che a Roma virò sul Movimento 5 Stelle votando Virginia Raggi per le comunali. Un affondo al centrodestra e a Fratelli d'Italia, il partito guidato da Giorgia Meloni e risultato primo con oltre il 26% dei voti.
Nei giorni scorsi Ferilli, che è anche doppiatrice e conduttrice, si è unita al coro di donne indignate dopo che l'Ungheria di Orban ha lanciato una nuova crociata contro l'aborto: prima di interrompere la gravidanza saranno costrette a sentire il battito del feto.
"La donna continua comunque a essere l’individuo al quale sono rivolte più forzature e umiliazioni - aveva scritto in uno sfogo affidato, ancora una volta, a Instagram - la nostra utilità è solo nel procreare. Come un mammifero qualsiasi. Ma se decidi di prendere in mano la tua vita, di fare scelte autonome che escono fuori dalle direttive della società, che sono ancora ‘ridotte’ a moglie e madre, sono ca…". Oggi, invece, l’attrice ha scelto una sottile ma chiara battuta per dire la sua sui social.
L'esercito dei rosiconi: vip e influencer in lacrime. Francesco Maria Del Vigo il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.
Dai comizi social della Ferragni all'indignazione di Damiano: tutto il livore della sinistra sconfitta
Tanto livore per nulla. Alla fine i vip di sinistra si sono riscoperti very irrilevant people. Saranno pure degli influencer da milioni di followers, ma questa volta non hanno influenzato proprio nessuno. Le stories della novella staffetta partigiana Chiara Ferragni e i comizietti del di lei marito, i vaneggiamenti della Murgia, gli attacchi stonati (ma per nulla fuori dal coro) di Elodie, gli abusi da bullo catodico di Damilano, i post indignati per la tenuta democratica del Paese, le Bella ciao cantate fuoriluogo, le articolesse che diventano manifesti (tutti uguali) contro l'inesistente ritorno del fascismo, le dita alzate nel gesto saccente di chi si crede l'unica sentinella della Costituzione e poi quel desiderio, malcelato, di ammansire le plebi recalcitranti che vogliono andare al voto. Tempo perso, odio sparso inutilmente, traffico dati sprecato. Tutto inutile, tutto finito nella spazzatura. La democrazia ha fatto il suo corso, nonostante i piedini battuti e l'isteria collettiva che ha pervaso per mesi la sinistra più chic e di moda.
E adesso, a poche ore dal voto, al livore si è sostituita la bile. In quantità industriali. Le reazioni stizzite del mondo dello spettacolo che denuncia una dittatura che non c'è, sono esse stesse uno spettacolo. Dalle paillettes al basco da partigiano, dai palchi e dalle sfilate ai monti il passo è veloce come un click. Perché non c'è nulla di più irresistibile che credersi protagonisti di una eroica resistenza, anche se in questo caso il nemico è la volontà degli elettori, non un regime. Ma poco conta. Che resistenza sia, innaffiata da champagne e combattuta a colpi di social.
Tra i primi a postare la sua indignazione c'è Damiano dei Maneskin: «Oggi è un giorno triste per il mio Paese», scrive su Instagram pubblicando una foto della Meloni. Per sicurezza lo ribadisce anche in inglese perché, sia chiaro, questa è una battaglia mondiale e lui ne è il novello e fluidissimo Che Guevara. Francesca Michielin - probabilmente già diretta con le altre brigate verso l'appennino - non usa giri di parole: «Inizia la resistenza, buongiorno a tutti», X Factor come ultimo baluardo della libertà.
Roberto Saviano, in preda a manie di persecuzione, vede squadracce nere ovunque e denuncia: «Leggo #Saviano in tendenza perché gli elettori di Meloni mi invitano a lasciare il Paese. Questi sono avvertimenti. Questa è l'Italia che ci aspetta. Stanno già stilando una prima lista nera di nemici della patria, alla faccia di chi diceva che il Fascismo è un'altra cosa». Sono anni che vomita fango sugli elettori di centrodestra, trattandoli come dei subumani, magari qualche sbertucciamento poteva metterlo in conto... E ci sentiamo di poterlo rassicurare: non ci sarà nessuna lista nera, quelle di solito le stila l'intellighentia rossa.
Sabrina Ferilli, per fortuna, la butta sul ridere, e dalla stazione commenta: «Il treno viaggia in orario. Una nuova era». Renato Zero, invece, è incazzato nero: domenica, di ritorno all'Hotel Parco dei Principi a Roma, non riesce a entrare perché l'albergo è anche la sede del comitato elettorale di Fratelli d'Italia e, quindi, è stato preso d'assalto dai giornalisti. Lui la prende benissimo, da sincero democratico: «Neanche più in albergo si va? È un regime questo. Stronzi! Votate la merda che siete». Sorcini in rivolta, è la prima vittima della nuova dittatura, pare si stiano già muovendo l'Onu, Amnesty international e le più importanti organizzazioni in difesa dei diritti umani.
Luciana Littizzetto torna sull'annoso tema delle minacce (mai onorate) di fuga all'estero in caso di vittoria elettorale del centrodestra: «Indecisi se fare il cambio di stagione o il cambio di Nazione». Non cambierà nulla, come al solito. Vanessa Incontrada indossa un bel broncio e posta: «Faccia da lunedì»; Kasia Smutniak punta più sui toni drammatici: «A ottobre indietro di un'ora, oggi di un secolo».
Persino il redivivo Boy George, da Oltremanica, attacca Fdi: «Ehi Giorgia Meloni mio padre etero era violento (...) ma due uomini o donne gay che allevano un bambino con amore incrollabile è sbagliato?» . E siamo solo all'inizio: le urla e gli strepitii si prolungheranno oltre il limite del ridicolo, ne siamo certi. Tra le tante, inutili, giornate celebrative, il 26 settembre potrebbe diventare a pieno titolo la «giornata mondiale dei rosiconi».
Lo spettacolo è assicurato.
Che tranvata per i vipponi radical chic. Andrea Indini il 26 Settembre 2022 su Il Giornale.
Un conto è la bolla degli influencer, il Paese reale è un'altra cosa. E la democrazia si pesa a suon di voti, anche se a molti questo ancora non piace
Che tranvata. Proprio sul grugno. Sono andati tutti a sbatterlo contro il muro. Chiara Ferragni e consorte, Elodie, Giorgia (l'altra), la Bertè e tutti i vipponi radical chic menagramo, Rula Jebreal, Roberto Saviano e la schiera dei giornalisti impegnati. Che tranvata, appunto. Di quelle che quando le prendi fanno male per un bel po'. Ma qui, oltre al dolore, c'è pure da considerare il fastidio, la rosicata per la sconfitta pesante, il nervoso che monta al solo pensiero di dover sopportare il centrodestra per un lustro.
Chissà come si sono svegliati stamattina i sinistri dopo che per settimane avevano occupato social network, televisioni e radio a berciare contro Giorgia Meloni. Chissà quanto si sono svegliati incazzati. E chissà se qualcuno di loro ha già fatto le valigie da imbarcare sul primo volo fuori dall'Italia. La sardina Jasmine Cristallo lo aveva promesso. "Se Giorgia Meloni diventa presidente, lascio la Nazione". Forse è la volta buona? Mah. Resteranno tutti quanti. Esattamente come i vipponi a stelle e strisce dopo la clamorosa vittoria di Trump nel 2016. Sguardo basso e coda tra le gambe. Un maalox plus e via. Si torna alla vita di sempre. Ai selfie su Instagram, ai post su Facebook, alle dirette su TikTok. Il pericolo fascismo? Le battaglie per i diritti Lgbtq+? E l'aborto? Ciao, ciao.
Il nemico Meloni non ha pagato. Ne sa qualcosa Enrico Letta che adesso rischia seriamente di capitolare e doversene tornare a Parigi (si spera non col pulmino elettrico, che sennò rischia di rimanere a piedi già a Grenoble). Anche il Pd si è preso una bella tranvata. Secondo partito sì, ma otto punti sotto Fratelli d'Italia e appena quattro sopra Conte. Hanno puntato tutto sulla carta "se arrivano le destre..." e hanno perso miseramente. A riprova del fatto che la bolla di influencer e cantanti non vale niente. I consensi non si misurano a suon di pollicioni alzati né di cuoricioni rossi su una foto, ma sulle ics che gli italiani imbustano nelle urne elettorali. E così Elodie può sbraitare quanto vuole, i Ferragnez possono chiamare alle armi i loro follower e la Jebreal può continuare a lanciare strali: quello che conta davvero sono i voti. Quello è il Paese reale. È la democrazia. Con buona pace di Debora Serracchiani che non riesce ancora a spiegarselo.
Il racconto dell’influencer. Comincia la resistenza Instagram contro il patriarcato meloniano e altre questioni epocali. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Settembre 2022.
Gli attivisti social solidarizzano con chiunque, tranne che coi poveri lavoratori costretti a gestire i loro vanesi capricci durante il voto. Viviamo in un’epoca di intellettuali che ritengono che una battutaccia sia più grave della povertà
«Oggi inizia la resistenza», twitta Francesca Michielin, che di mestiere presenta X Factor, ma è evidentemente pronta non dico a salire sulle montagne col mitra ma almeno ad andare a Cortina con un paio di sci nuovi (spero che gli impianti ampezzani di neve finta siano migliorati rispetto ai miei tempi, quando la rivoluzione volevamo farla, pensa te, contro la Dc, ma almeno non avevamo luoghi pubblici in cui dichiarare la nostra scemenza giovanile).
Il giorno prima, mentre l’Italia votava come ampiamente previsto Giorgia Meloni, la sinistra dell’Instagram s’indignava per le stronzate, come aveva fatto per tutto il resto della campagna elettorale e della vita.
È normale che sia così: siamo una società in cui il benessere è diffuso e i bisogni primari sono soddisfatti, ci resta tempo per occuparci di stronzate e quindi lo facciamo. Il dettaglio grave è l’apparente incapacità di distinguere tra le stronzate e le cose serie, riuscendo ad avere l’approccio sbagliato a entrambe.
L’elettore che s’informava dall’indignatissima militanza di Instagram non sapeva in che modo i candidati a governare questo miserabile paese intendessero affrontare il problema della scuola, che produce analfabeti che da grandi ci spiegheranno il mondo su Instagram; non sapeva in che modo intendessero affrontare la sanità, che la militanza sa solo di volere gratuita salvo poi trasecolare se ci sono attese di mesi per esami che non si pagano e quindi conviene farli; non sapeva che cosa nessuno dei candidati pensasse delle cose rilevanti, ma solo di quelle che la militanza di Instagram aveva deciso essere dirimenti.
E cioè: i temi identitari e quelli da studenti fuori sede. Come si pone il candidato rispetto alla schwa? Come rispetto al far votare il puccettone di mamma sua che a quarant’anni è ancora residente al paesello così mammà se lo detrae dalle tasse? Come, giuro che girava uno schemino con questa fondamentale informazione, rispetto al numero chiuso nelle università?
Fuori dall’Instagram, quelli che si prendevano il disturbo di andare a votare (sempre meno: chissà come mai, con tutto il lavoro che fa per noi la militanza di Instagram, siamo proprio degli ingrati) cercavano un candidato che gli promettesse che scaldare casa non gli sarebbe costato un rene, che quando il medico di base va in pensione fosse possibile trovar posto da un altro, che all’asilo ci fosse posto per puccettone.
Dentro l’Instagram, ci si scandalizzava forte. L’attivista Corinna De Cesare, più o meno quarantenne, indignata perché il presidente di seggio si sarebbe risentito per la di lei maglietta con scritto «Fuck patriarcato», traumatizzando anche la di lei figlia seienne che «assisteva a un abuso», faceva una sleppa di storie di Instagram taggando Beppe Sala, il quale avrà dovuto smettere di fotografarsi leggendo i suoi stessi libri per ascoltare le cronache del tizio che aveva detto alla De Cesare «La segnalo alla Digos» (qualunque cosa questa frase significhi).
Quello che ci meritiamo sono evidentemente attiviste quarantenni che pensano i seggi elettorali siano di competenza del sindaco (d’altra parte anche Chiara Ferragni, nelle sue storie Instagram sulla sicurezza a Milano, taggava il sindaco e non il prefetto; ma lei almeno è multimilionaria).
L’attivista Cathy La Torre, anche lei adulta, dedicava la sua sleppa di storie Instagram allo scandalo d’ogni tornata elettorale o referendaria. Appena la militanza di Instagram entra in un seggio, scopre l’atroce verità che l’elettorato è mammifero epperciò le file sono divise in maschi e femmine, e si costerna, s’indigna, s’impegna a cambiare le cose – sì, insomma: a ricavare da questo scandalo dei cuoricini.
Quindi Cathy La Torre avrebbe detto allo scrutatore che voleva verbalizzare la protesta per la grave discriminazione verso «le persone non binarie (come me)». Prima ancora che La Torre arrivasse alle storie successive, quelli in cui diceva «noi donne» (l’identità è fluida, sciocchi: perché vi stupite), lo scrutatore già l’aveva sfanculata. Cafone. Ma non finisce qui: La Torre promette querela. Lo scrutatore l’avrebbe diffamata dicendole «pazza». Ha quindi diffamato quella della storia «noi donne», non quella non binaria, se ho capito bene come funzionano le lingue romanze.
Spero che prima o poi questa obiezione trovi ascolto e le file vengano formate per ordine alfabetico: non vedo l’ora di leggere post e storie e tweet su come la divisione A-L M-Z discrimini i dislessici che non sono in grado di capire in che gruppo sia il loro cognome, e minacce di denunce di coloro che saranno passati a militare contro questo nuovo sopruso.
(È comunque inspiegabile che negli schemini di Instagram non fosse segnalata la posizione dei partiti rispetto alle lentezze della giustizia da eccesso di fascicoli e di cause a casaccio, un problema che a ogni fisima elettorale mi appare più chiaro).
L’attivista di Twitter Tomaso Montanari – ormai cinquant’anni e quindi più nessun margine di miglioramento – intanto fotografava la protesta che aveva costretto gli scrutatori a mettere a verbale, quella contro la legge elettorale. Gli attivisti social solidarizzano con chiunque, tranne che coi poveri lavoratori dei seggi costretti a gestire i vanesi capricci degli attivisti.
Non sono solo loro, eh. È un contagio di militanza sempre e solo sulle cazzate. Il loro pubblico, pur di piacere al proprio beniamino, è lieto di dire che adesso farà verbalizzare la protesta contro la legge elettorale anche lui (altri scrutatori che bestemmiano), o – ancor meglio – di sentirsi perseguitato. Scrive di temere, ora che ha vinto la Meloni, che il figlio sì e no nato diventi gay e la Meloni corra a portarglielo via. Impegnata come sarà a occupare la Rai e le ferrovie e il resto, cara Vongola75, non ha tempo per la tua prole potenzialmente busona. Il tuo beniamino però non te lo dirà: Vongola75 ha diritto a sentirsi al centro dell’attenzione in quanto potenzialmente perseguitata, e da perseguitata ha il diritto e il dovere di continuare a cuoricinare il suo beniamino.
Magari si trattasse solo di star di Instagram e relativi fan. Il contagio si estende. La scrittrice Chiara Tagliaferri racconta su Instagram che un prete (ve l’ho detto che questo paese l’ha rovinato Fellini) nel suo seggio avrebbe irriso qualche elettore nella fila sbagliata, coi documenti che riportavano un sesso che non corrispondeva a ciò da cui si era travestito (in neolingua: qualche persona in transizione), con le parole «a saperlo andavamo a Casablanca». È un’epoca di intellettuali che ritengono che una battutaccia sia più grave della povertà, più grave delle mancate diagnosi nella sanità pubblica, più grave delle bollette che non puoi permetterti di pagare, più grave del dover aspettare anni per una sentenza perché i tribunali devono smaltire prima tutti gli esibizionisti delle querele.
È anche un’epoca piena di tic lessicali, per cui se glielo dici, che ci sono gerarchie di gravità, vieni accusato di «benaltrismo». I diritti, ti spiegano con la cantilena di chi usa frasi che suonano bene senza interrogarsi sul loro senso, non sono una torta: se dai una fetta a qualcuno non la levi a qualcun altro. Eh, no, pulcino: le risorse sono una quantità finita, e i diritti per tutelare i quali non allochi risorse non sono diritti, sono cuoricini di Instagram. Speriamo capiscano la differenza tra la vita e Instagram prima di salire in montagna: lo sapranno che, mentre sono nascosti da qualche parte a organizzare la resistenza, non devono geolocalizzarsi negli autoscatti?
Otto e Mezzo, fango di Severgnini sulla Meloni: "Il tono, lo sguardo... non sono tranquillo". Libero Quotidiano il 16 settembre 2022
Ecco che a Otto e Mezzo si parla di Giorgia Meloni. Nella puntata di giovedì 15 settembre Lilli Gruber ha definito "l'ipernazionalismo" un'idea che "mal si concilia" con l'Unione europea "aperta e inclusiva". Un'affermazione che trova d'accordo Beppe Severgnini, suo ospite su La7: "Dio patria famiglia? Io sono credente, amo il mio Paese e sono sposato da 36 anni. Allora io potrei dire 'Dio, patria e famiglia mi vanno bene', ma se urlo 'Dio' puntando il dito contro qualcuno che non crede. Se urlo 'famiglia' dicendo che l'unica famiglia è quella che io ho costruito e se dico 'patria', ossia la mia mentre le altre non vanno bene... Dipende come si dicono le cose".
Il giornalista fa riferimento al discorso della leader di Fratelli d'Italia all'evento di Vox: "Eravamo qui in studio, eravamo tutti basiti. Non sono quelle tre parole che vanno bene. Dipende come le traduci, con che sguardo e come le dici". Da qui la frecciata: "Quelli della Meloni erano toni e sguardi sbagliati, se l'ha cambiato bene, io non sono del tutto tranquillo".
Tornando sulla politica e approfittando della presenza di Letizia Moratti in collegamento, Severgnini snocciola un retroscena. Subito smentito. "So che le hanno proposto il ministero della Salute" alla vicepresidente della regione Lombardia, afferma mentre la diretta interessata smentisce: "Non è vero". Sull'argomento la firma del Corriere della Sera si definisce "convinto che glielo abbiano offerto, ma la dottoressa Moratti è una donna di mondo e sa che certe promesse vanno prese con le pinze… Certo che se dopo le elezioni la deludessero e il prossimo anno si candidasse alla regionali con il Terzo Polo in Lombardia, la cosa si farebbe improvvisamente interessante. Ci sarebbero la destra, il Terzo Polo con Moratti che diventa forte e il centrosinistra, quindi tutto aperto per la presidenza della Regione".
Monica Guerritore si unisce al coro vip anti-Meloni: "Incapace e irresponsabile". La regista romana si iscrive al fronte dei personaggi famosi impegnati nella campagna elettorale contro FdI, dando il suo endorsement pubblico al Partito democratico, quello che elesse suo marito. Daniele Dell'Orco il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.
Non sarà la "Hollywood contro Donald Trump" del 2016 ma anche il Italia c'è un impressionante coretto dei vip che si sta coalizzando contro la principale candidata alla vittoria elettorale del 25 settembre: Giorgia Meloni.
Personaggi pubblici come Elodie, Chiara Ferragni, Loredana Bertè, Levante, La Rappresentante di Lista, Giorgia, Vanessa Incontrada hanno mostrato il pollice verso alla leader di FdI nel pieno della campagna elettorale, gettando la maschera e mostrando la loro natura di "artisti militanti". Al coro si è aggiunto un nuovo soprano: Monica Guerritore.
Mentre partecipa al Festival Internazionale di Capri, l'attrice e scrittrice romana, o meglio, di quell'enclave romana rinchiusa nella ZTL che si emoziona ogni volta che vede il simbolo del Partito democratico, ha rilasciato un'intervista a La Stampa bocciando la Meloni come possibile nuovo premier. Anzi, bocciandola in toto. Ma nella sua disamina politica la poco radical e molto chic Guerritore non lesina contraddizioni anche comiche.
Dice: "Il fatto che sia donna o uomo è ininfluente rispetto al dato gravissimo che questa persona abbia contribuito, in un momento storico drammatico, a buttare giù un governo sei mesi prima della sua fine naturale. Un governo che stava lavorando bene in uno scacchiere geopolitico molto complesso. Una grave complicità in un'azione che ha fatto un gran male al nostro Paese. Io credo che per diventare premier si debba innanzitutto essere responsabili".
"Questa persona", come la chiama lei, si è da subito posizionata all'opposizione rispetto al governo Draghi, e FdI è stato l'unico partito a permettere che le componenti di maggioranza e opposizione previste costituzionalmente in ogni Paese che non sia la Corea del Nord venissero salvaguardate. Per quanto si possa appoggiare l'operato di un premier, è davvero esilarante lamentarsi del fatto che la sua opposizione lavori alla critica e che faccia, cioè, il suo lavoro. Piuttosto, la Guerritore dovrebbe prendersela con chi, dall'interno, a Draghi ha tolto il supporto. Come il Movimento 5 Stelle che, a proposito di "responsabili", è guidato da un ex premier: Giuseppe Conte. A quanto pare, quindi, per entrare a Palazzo Chigi la responsabilità non è un requisito nemmeno ora.
Bellissima poi la sottesa bocciatura alle "quote rosa": "Il fatto che sia uomo o donna è ininfluente". Certo, quando bisogna spingere in alto le donne progressiste bisogna prevedere norme femministe, quando una donna emersa senza le quote rosa è di destra il genere non conta più e deve essere abbattuta proprio come fosse un uomo di destra.
Ma chi sarebbero, secondo la Guerritore, i responsabili? "C'è il Pd, ha dato sostegno a un progetto che ci aveva tirato fuori da una situazione drammatica. Non butterei a mare equipaggio e capitano di una nave in piena tempesta". Il Pd, ovviamente. Lo stesso Pd che con cui il suo attuale marito, l'ex presidente Rai Roberto Zaccaria, è stato eletto alla Camera dal 2004 al 2013 (prima con la Magherita e poi col Pd). Alla faccia del conflitto di interessi, ogni scarrafone è bell'a mamma soja.
Immancabile poi l'attacco a Matteo Salvini: "Un signore che ha un contratto firmato con Putin e questo signore è nell'alleanza di destra". Ma la cosa straordinaria è che Guerritore denunciando le presunte ingerenze russe che definisce "un fatto reale" in pratica confessa l'esistenza di pressioni internazionali sull'Italia, seppur di altra provenienza: "In fondo lei [la Meloni, NdR] è stata solo un cattivo ministro della gioventù in un governo terribile. Quando non sarà più all'opposizione le arriveranno mazzate da ogni parte. Con gli speculatori e lo spread impazzito finiremo in serie C".
Siano benedette, allora, le ingerenze di carattere finanziario che intendono rovesciare i governi democraticamente eletti. Se sono di destra. E sulle ricadute sull'Ue della guerra in Ucraina dice: "Metteremo calze di lana e piumoni sul letto. Abbiamo vissuto per troppo tempo con i caloriferi al massimo e le finestre aperte inquinando il mondo. E la storia ci ha detto di calmarci. E sono anche contenta che così ci libereremo da una dipendenza".
Ringraziandola per la seconda persona, è davvero poco probabile che a casa Zaccaria-Guerritore si indosseranno calze di lana. Al contrario di ciò che rischia di accadere dentro le stanze da letto di centinaia di migliaia di famiglie che il freddo lo patiranno sul serio e che sono le stesse che, da un bel pezzo, hanno smesso di votare Pd.
Bertè invita la Meloni a vergognarsi: ma perché? Da Loredana Bertè l'ennesimo attacco strumentale contro il centrodestra e Giorgia Meloni: la sinistra scomposta che non sopporta di perdere. Francesca Galici il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Così, de botto, da Loredana Bertè è arrivata la fiammata contro Giorgia Meloni. No, scusate, non si può dire. Diciamo che, d'improvviso, la cantante è andata su Instagram e ha pubblicato una storia in cui attacca Giorgia Meloni per la fiamma nel simbolo di Fratelli d'Italia. Che uno si chieda se sia accaduto dell'altro dopo le polemiche dei giorni che hanno preceduto ferragosto, se ci sia stato qualche altro politico che ha avanzato testi forzate pur di screditare quello che i sondaggi danno come primo partito del Paese. Niente, zero, silenzio assoluto. Ed è pure comprensibile che sia così, visto che il termine massimo per la presentazione dei simboli era il 14 agosto agosto. E considerando anche il fatto che il Viminale, a seguito dei controlli, non ha ravvisato alcuna irregolarità nel simbolo di Fratelli d'Italia, qualunque polemica su fascismo et simili può considerarsi meramente strumentale.
"Si vergogni, lei non ha nulla di onorevole": Bertè attacca la Meloni
Ma niente, Loredana Bertè probabilmente non vedeva l'ora di entrare a far parte del club degli artisti che, a caso, scelgono uno dei leader del centrodestra (o tutti, dipende dai momenti) e si inventano qualunque cosa pur di contribuire alla scomposta campagna elettorale del Partito democratico. O forse è il Partito democratico che copia gli artisti che, senza argomenti e conoscenza politica, imboccano la via dell'odio verso chi la pensa diversamente? In ogni caso, sono tutti imbarazzanti.
Il passatempo dei vip di sinistra? Offendere il centrodestra
"Quando una senatrice come Liliana Segre chiede che sia cancellata dal suo logo quella fiamma che ricorda chiaramente il fascismo e le sue conseguenze, lei la rimuove e basta, senza arrampicarsi sugli specchi con scuse improbabili. Lei la rimuove, ha capito?", dice con arroganza la cantante nel video. Ancora una volta, i sedicenti democratici cercano di imporre il proprio pensiero. Non dovrebbe più stupire, e invece... E poi, non è nemmeno ben chiaro perché Loredana Bertè inviti Giorgia Meloni a vergognarsi. Non è mica lei che ha inserito nelle sue liste dei candidati che negano l'esistenza di Israele, che verso questo Paese esprimono un rancore atavico e che inneggiano alle rivoluzioni bolsceviche. O no?
Che poi, alla fine, al di là dei discorsi politici, basterebbe dare uno sguardo al profilo di Loredana Bertè per capire il perché di questo attacco, anche se ormai fuori tempo massimo. Gli ultimi 5 reel pubblicati da Loredana Bertè non hanno superato le 50mila visualizzazioni. Quello su Giorgia Meloni è quasi a 800mila. A voi le conclusioni.
Levante: “Nauseata da Giorgia Meloni”. Alice Coppa il 29/08/2022 su Notizie.it.
Levante ha scritto un lungo post via social con cui si è scagliata contro Giorgia Meloni.
Con un lungo sfogo via social, Levante si è scagliata contro la leader di Fratelli D’Italia, Giorgia Meloni.
Levante contro Giorgia Meloni
Come altri personaggi pubblici nei giorni scorsi, anche Levante ha preso le distanze dall’operato e dalle dichiarazioni fatte da Giorgia Meloni.
“Presentandomi a voi dicendo a gran voce “sono una donna, sono una madre, sono cristiana”- senza un lontanissimo cenno di umiltà (soprattutto sul tema della fede) – chi potrebbe sentirsi escluso dal mio urlo orgoglioso che suona come una verità assoluta? Unica visione possibile”, ha scritto la cantante nel suo post, e ancora:
“Mi vengono in mente le donne che non sono madri, le donne che non sono cristiane (ma certo, anche tutti gli uomini).
Se poi facessi un distinguo tra gli immigrati di serie A (“i Venezuelani cristiani di origine italiana”) e quelli di serie B (i poveri Cristi di tutte le religioni? Chissà!) starei forse continuando un discorso di esclusione? (…) Se poi elogiassi Mussolini dicendo che “è stato un grande politico” (e utilizzassi un simbolo fascista per l’immagine del mio partito) starei calpestando la dignità, la sofferenza e la storia di quante persone? Se parlassi di “devianze” per riferirmi a disturbi alimentari che affliggono migliaia di giovani e non, quanta gente ferirei? Se mi schierassi contro l’aborto senza difendere il diritto delle donne a disporre del proprio corpo? Non proseguirò questo elenco, ho un po’ di nausea.
Fortunatamente nulla di cui sopra somiglia al mio modo di vivere e di rapportarmi agli altri. Ma visto che sono una donna, sono una madre e provo ad essere un’umana degna di essere tale, vorrei riportare un pensiero puntuale di Elly Schlein: “C’è molta differenza tra leadership femminili e leadership femministe”.
Nei giorni scorsi oltre a Levante anche Chiara Ferragni ha scritto un post via social appoggiando una campagna contro Fratelli D’Italia.
“Giorgia ci fai paura”. Le donne della musica in campo contro Meloni. Maria Novella De Luca il 30 Agosto 2022 su La Repubblica.
Dopo Elodie e Levante anche la ventenne Ariete ha invitato i giovani a non votare la destra
No, Giorgia, con te mai. Anzi, dice Elodie, "il tuo programma mi fa paura". E Giorgia (artista) pochi giorni dopo, versus Meloni: "Anche io sono Giorgia ma non rompo i coglioni a nessuno". Chiaro riferimento allo slogan della leader di Fratelli d'Italia: "Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana".
La (solita) campagna elettorale dei vip rossi contro Giorgia Meloni. Non hanno argomenti validi ma solo slogan, eppure se la credono tantissimo: sono gli artisti e gli influencer rossi che provano a parlare di politica. Francesca Galici il 29 Agosto 2022 su Il Giornale.
Quando la politica diventa strumento di consenso social, non per i politici ma per chi nella vita si occupa di intrattenimento, vuol dire che si è rotto qualcosa. Ormai la questione è diventata anche monotona, anche perché le cose sono due: o i cantanti che in questi giorni affilano i coltelli contro i leader politici e del centrodestra, guarda caso, lo fanno in particolare contro Giorgia Meloni, lo fanno perché sanno che così guadagnano qualche like, oppure sono manovrati da qualcuno. Togliendo pochi, che in realtà usano da sempre l'attacco politico per slogan, buttando nella mischia qualche accusa di fascismo a caso per raggranellare qualche "mi piace", tutti gli altri si sono svegliati giusto giusto a ridosso delle elezioni.
È come se, ma magari non è così, gli artisti e gli ingluencer siano stati arruolati per sponsorizzare la battaglia dei kompagni. C'è chi sponsorizza borse, chi sponsorizza scarpe e abiti e chi sponsorizza il Pd. Forse pensando sia più onorevole e più "alto" come tema, ma a volte gli utenti preferiscono vedere una onesta pubblicità di qualche barretta energetica piuttosto che un'occulta sponsorizzazione politica. Anche perché i temi che vengono portati per attaccare il centrodestra sono piuttosto scarsi, a tratti perfino ridicoli. Ma non c'è da dare la responsabilità agli artisti per questo, perché utilizzano gli stessi argomenti degli stessi politici del Pd in campagna elettorale. Se a sinistra, chi la politica la fa di professione, non riesce a creare un dibattito sul merito e si limita a insultare gli opponenti, come si può pretendere che siano gli artisti e gli influencer a farlo? Non si può.
Tuttavia, quel che fa tenerezza dei cantanti simil-impegnati e delle varie influencer di City Life, è che loro credono davvero in quel che dicono e non si rendono conto che invece di apparire dotti ed elevati con i loro interventi, suscitano un senso di fremdschämen. È una parola tedesca che indica la sensazione di imbarazzo per qualcosa che hanno fatto terzi. Ed è comprensibile la confusione di questi personaggi nel non capire perché questo accade, visto che fremdschämen non ha una traduzione letterale in italiano. E così, tra un "hi guys" e un altro cadono nella fake news a buon mercato oppure si sforzano nel creare un post social paraculi, meno furbi di chi si limita a pubblicare storie che durano 24 ore, senza però mai menzionare i partiti e i leader di riferimento e utilizzando argomenti che in 10 minuti verrebbero smontati. Tempo che noi che lavoriamo tutti i giorni seriamente per informare (senza fake news) i lettori preferiamo dedicare ad altro.
Ps: abbiamo volontariamente scelto di non fare nomi e cognomi in questo articolo perché, tanto, cambiano i personaggi ma non cambiano i contenuti. Che non esistono. Dei falsi rivoluzionari radical chic che vogliono irretire qualche povero stolto con argomenti di lotta rossa intrisi di una stantia e inensistente superiorità morali dall'alto dei loro attici di City Life a Milano o dalle loro ville con piscina sul mare in qualche località amena ma cool, ci piacerebbe iniziare a fare a meno.
Rita Dalla Chiesa difende Meloni? Ricoperta di insulti: "Fascista", "Tuo padre..."Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 22 giugno 2022
È una sorta di proprietà transitiva malata. Se una donna esprime sostegno a una donna (di destra) offesa ripetutamente, merita a sua volta insulti. E se pure quella donna, in un'intervista, ha invitato a deporre le armi dell'odio e a ricondurre lo scontro a una normale dialettica, viene attaccata proprio con messaggi pieni d'odio. È la sorte cui è andata incontro Rita Dalla Chiesa che due giorni fa ha rilasciato a Libero un'intervista sui numerosi improperi ricevuti da Giorgia Meloni, esprimendole solidarietà e provando a spiegare, con moderazione e lucidità, perché la sinistra, in particolare quella al femminile, si accanisca contro la leader di Fdi. Alcuni passaggi di quella chiacchierata sono stati ripresi sui social proprio dalla Meloni, in particolare la dichiarazione in cui la Dalla Chiesa avvertiva: «Della Meloni la sinistra ha paura. Le cattiverie nei suoi confronti sono gratuite ma hanno anche una motivazione politica: la verità è che temono la sua crescita elettorale. Detto questo, andare sul personale è da vigliacchi». Frase introdotta nel post da un ringraziamento di Giorgia alla conduttrice: «Non essendo in grado di confrontarsi con idee e proposte concrete, la sinistra preferisce denigrare l'avversario. Grazie Rita».
ODIATORI IDIOTI - Tanto è bastato per scatenare le bestie feroci e idiote dei social. Insieme a commenti di sostegno alla Dalla Chiesa e di apprezzamento per le sue parole, al suon di «Grande Rita, degnissima del cognome che porta» e «Che donna, intelligente e perbene», figuravano diversi messaggi aggressivi che niente avevano a che fare con il legittimo dissenso in democrazia, ma, come per la Meloni, andavano sul personale, tirando in ballo la memoria di suo padre, la sua età, la sua carriera, peraltro specchiata, con insulti infamanti e accuse infanganti ma infondate. E, come nel caso della Meloni, spesso gli affondi vigliacchi arrivavano da donne.
Tra le frasi di odiatori e odiatrici alcune chiamavano in causa in modo irriguardoso la figura del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: «Questa (Rita, ndr) fa rivoltare suo padre nella tomba» scriveva Jole Bacigalupi, «Suo padre si starà rivoltando nella tomba. Lui è morto per combattere il malaffare e lei difende un partito con parecchi condannati proprio per malaffare» aggiungeva Silvana Sitta, diffamando sia la Dalla Chiesa che Fdi. E ancora: «Se lei approvala violenza e la cattiveria di questa signora (la Meloni, ndr), di sicuro suo padre si sarebbe vergognato», avvertiva Raffaele Mattera. Per la proprietà transitiva per cui "la Meloni è fascista", anche la Dalla Chiesa diventa poi donna in camicia nera. Reductio ad benitum e ad capocchiam. «Ma la Dalla Chiesa da quando è diventata fascista?» notava Mariangela Erroi. Quindi c'erano le accuse imbecilli relative all'uso di stupefacenti: «Cambia spacciatore, Rita». E le aggressioni verbali legate all'età della Dalla Chiesa (che, tra l'altro, gli anni se li porta alla grande): «Ma sta vecchia scarpa ancora parla? Vomito» riversava melma un utente.
Infine le frasi più ignominiose, che riportiamo solo per documentare dove possano arrivare odio, ignoranza e menzogna: «E se lo dice una che si è venduta al mandante dell'omicidio del padre pur di lavorare in tv, c'è da crederci» commentava un certo Gerti Kukaj, «Questa ha campato grazie a Berlusconi e Dell'Utri, che miseria di persona» rincarava la dose un altro.
A queste frasi riprovevoli la Dalla Chiesa replicava con garbo. «Ormai hanno superato ogni limite», diceva riferendosi alla Meloni ma anche a se stessa. «Va bene contestare le idee.
Ma le offese personali, le ingiurie, la cattiveria che certe persone buttano addosso senza capire quanto possano fare del male, dimostrano solo la loro debolezza morale e intellettuale».
DAI CARABINIERI - Poi ai microfoni di Libero aggiungeva: «Sono veramente stanca, ora basta. Queste frasi sono da denuncia e intendo andare dai Carabinieri a farlo. Tra l'altro, mi dicono che assumo certe posizioni per lavorare in tv. Sì, si vede come lavoro, non ho neanche una trasmissione... Io ho solo espresso la solidarietà a una donna di destra, a cui nessuna donna di sinistra aveva manifestato sostegno. E lo rifarei ancora. Del resto nella mia vita io ho difeso anche tante donne di sinistra. Ma se ti azzardi a farlo con la Meloni, allora ti attaccano, diventi "colpevole", una donna di serie B. La verità è che questi individui non sopportano che io sia libera, non legata ad alcun un partito. Parliamo di gente ignorante, sono dei poveracci». Poi aggiunge nel merito: «Quanto ai mandanti dell'omicidio di mio padre, ricordo a chi mi attacca: erano nella Dc, non certo nei partiti attuali». Gli odiatori colpiti e affondati in poche parole, con classe. Ci sarebbe da dire: siamo tutti (e siamo tutte) Rita Dalla Chiesa.
Dall'"allarme fascismo" al "pericolo razza bianca": la realtà distorta di Letta &Co. Andrea Indini l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.
Come urla al fascismo di ritorno quando si vota così, ora che si batte per lo ius scholae, la sinistra accusa di razzismo chi si oppone. Per Pd e M5s è sempre meglio insultare che confrontarsi
Le destre, già. Tolgono il sonno a Letta e compagni. Quando si avvicinano le urne, partono le notti insonni, quelle agitate, fatte di continui incubi e risvegli madidi di sudore. Incubi costellati sempre da teste rasate che sventolano il Tricolore intonando l'Inno d'Italia. Poi, dall'alba al tramonto, si attaccano a tutti i mezzi di informazione per urlare l'allarme: "Il fascismo sta tornando", "La nostra Costituzione in pericolo", e così via. Chissà se ci credono davvero. Verrebbe da sperare di no. Altrimenti significherebbe dubitare seriamente del loro QI. Ogni scrutinio, infatti, smentisce i loro presagi neri: le formazioni di estrema destra (fasciste, direbbero loro) non raggiungono nemmeno un punto percentuale. Si fermano prima. Zero virgola. Eppure ogni volta, appena si avvicina il voto, eccoli di nuovo a impanicarsi.
E dopo le elezioni? Si tranquillizzano? Macché. L'agitazione resta. A quest'ultimo giro si sono tutti accaniti contro la Meloni. "Ha un passato fascista", Non può governare". Questi i più "teneri", per usare un eufemismo. "Buffona", "Borgatara", "Trash". Giusto per citarne alcuni tra i più beceri. Prima di lei, attraverso le stesse Forche Caudine, erano passati Berlusconi e Salvini. Stessa violenza, stesso trattamento. Da quando i sondaggisti hanno preso a premiarla, il mirino si è spostato sulla leader di Fratelli d'Italia. In lei i dem vedono un passato fascista che non esiste. Difficile dire se ci credono davvero. Forse, facciamo loro un favore a scrivere che si tratta solo di montatura ideologica, di odio atavico contro l'avversario, di sproloquio. Altrimenti come si fa a non rider loro in faccia quando la accusano di difendere la razza bianca solo perché contraria allo ius scholae?
Lo ius scholae è uno ius soli mascherato. Cinque anni fa il centrodestra si era battuto per non bloccarlo. Ci era riuscito. Ora Pd e 5 Stelle sono tornati alla carica sbianchettando e correggendo qua e là la vecchia legge. Il risultato non è poi così diverso. Pure la propaganda è la stessa usata nel 2017: l'immagine di un milione di bambini seduti al banco, gomito a gomito coi compagni italiani, tristi e umiliati perché non hanno la cittadinanza. Va da sé che non è certo questo il motore che li spinge a battersi per lo ius scholae. Ma è su questo che la sinistra preme l'acceleratore. Su questo e sugli insulti di razzismo a Salvini e Meloni. In entrambi i casi una lettura estremamente distorta e partigiana della realtà.
"Meloni razzista". Insulti choc dalla galassia piddì. Massimo Balsamo il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.
Torna l’odio rosso contro la leader di Fratelli d’Italia. Rampelli: “Dichiarazioni penose”.
Se non sei d’accordo con la sinistra, diventi matematicamente razzista, se non fascista. Il nuovo fronte di battaglia è lo ius scholae, diventato la priorità per il Partito Democratico insieme alla liberalizzazione delle droghe, nonostante la crisi in Ucraina e l’emergenza economica che colpisce milioni di italiani. E riecco, dunque, l’odio rosso contro Giorgia Meloni. Il motivo? La contrarietà della leader di Fratelli d’Italia alla legge sulla cittadinanza.
La sinistra mina la tenuta della maggioranza, ma i cattivi fanno parte del centrodestra. Matteo Salvini è nel mirino dei giallorossi per aver chiesto di archiviare i due dossier, alla Meloni è andata anche peggio. Le critiche di FdI allo ius scholae non sono piaciute al mondo dem, Valeria Fedeli non ha usato mezzi termini ai microfoni di Cusano Italia Tv: “Secondo me, lo voglio dire chiaro, Giorgia Meloni è razzista perché sta discriminando per ragioni di etnia e questo è inaccettabile, non è giusto”.
Ora il Pd incolpa la Meloni per il suicidio della docente trans
Un attacco choc, ricco di rabbia: “Io vorrei che Giorgia Meloni guardasse in faccia le bambine e i bambini che immagino frequentino la stessa scuola dell'infanzia di sua figlia, perché cresceranno con anche sua figlia. Non capisco perché debba dire che è ideologico il fatto che loro siano qui e abbiano questo diritto, avendo fatto un certo percorso. Non esiste dire che è ideologico”, ha aggiunto la senatrice Pd. L’ex ministro dell’Istruzione ha poi giocato la carta della pietà: “Non puoi dire a quei bambini ‘tu non puoi esistere perché non hai gli stessi diritti degli altri’”.
Offese pesanti, alle quali la Meloni è abituata. La sinistra, spesso supportata da artisti (da Elodie alla Incontrada) e presunti intellettuali, ricorre spesso all’ingiuria per delegittimare l’avversario. “La dichiarazione di Valeria Fedeli è veramente penosa”, il commento di Fabio Rampelli, vicepresidente della Camera. Ospite di Radio Cusano Campus, l’esponente di FdI ha aggiunto: “Penso che la sinistra dovrebbe essere un po’ più seria. La sinistra non approfondisce mai i temi. Razzista è chi si sente superiore e vuole imporre la propria legge. Invece noi vogliamo che ci sia un'adesione consapevole”.
Giorgia Meloni, "faranno di tutto". Cosa teme la sorella Arianna. Libero Quotidiano il 25 giugno 2022
Una Giorgia Meloni sconosciuta quella raccontata dalla sorella Arianna. Le due, cresciute in simbiosi, sono più unite che mai. Complice la mamma a cui entrambe sono legatissime: "Il vero genio di casa è lei, Anna. Ha 69 anni. È capace di parlarti di tutto, anche della teoria dei Buchi neri di Hawking. Ha scritto 140 romanzi, quasi tutti rosa. Storie belle". A differenza sua, però, le figlie hanno scelto la politica e il successo di Fratelli d'Italia sembra averle ripagate. A differenza di Giorgia, Arianna preferisce rimanere "dietro le quinte": "Io sono un’ansiosa: non mi piace apparire. Ecco perché non mi sono mai candidata, nonostante faccia politica da quando sono ragazza. Ecco, in questo siamo diverse: Giorgia a 28 anni era vicepresidente della Camera; io, a 47, vado in ansia pure per fare questa intervista". Al Foglio, però, sgancia subito una bomba: "Faranno di tutto" per impedire alla sorella di diventare premier. "Tuttavia - aggiunge" - gli italiani ci hanno capito. E ci saranno delle sorprese. Stiamo studiando, come sempre. Giorgia è insuperabile. Ha la sintesi in un cervello rapido, veloce. Ha l'intuito. Fratelli d'Italia è fatta da una generazione che fa politica da 30 anni e che in maniera graduale ha percorso tutti i gradini istituzionali. Siamo pronti".
Al Foglio Arianna svela qualche piccolo segreto, come i tanti scherzi telefonici che le hanno viste protagoniste: "A volte chiamavo io a suo nome. Pronto, sono Giorgia Meloni, e tutti ci credevano. Con Giorgia siamo simbiotiche, è vero. Abbiamo ancora oggi un linguaggio solo nostro. Ci scriviamo e diciamo, in mezzo alla gente, parole inventate per capirci al volo".
A far parte di Fratelli d'Italia anche il marito di Arianna, Francesco Lollobrigida. E a chi lo accusa di venire aiutato per questo, la sorella di Giorgia replica: "La storia del cognato è una cattiveria. Francesco ha una militanza che tutti conoscono. Ma fra noi parliamo di politica il meno possibile. Lollo, tanto lo chiamate tutti così, e Giorgia con il tempo hanno costruito insieme, e da soli, un rapporto. E lui sta là perché è bravo, credibile, autorevole". L'inizio della militanza? Grazie a Terminator: "Un giorno – conclude – avevo 17 anni, alla fermata della metro San Paolo vidi i ragazzi del Fronte della gioventù che volantinavano. Poi spuntò fuori un certo Terminator, un tipo biondo con i capelli lunghi, che iniziò ad aggredirli insieme ad altri compagni dei centri sociali". Da quel momento il loro impegno è sempre lo stesso.
Simone Canettieri per “il Foglio” il 30 luglio 2022.
Giorgia? “No, il vero genio di casa è nostra madre, Anna. Ha 69 anni. È capace di parlarti di tutto, anche della teoria dei Buchi neri di Hawking. Ha scritto 140 romanzi, quasi tutti rosa. Storie belle.
La prima era ambientata in Toscana, i protagonisti si chiamavano una come me, Arianna, e l’altro Lorenzo. Nostra mamma scriveva di notte, mentre noi dormivamo”. Si firmava con uno pseudonimo, però. “Sì, Josie Bell. In America sarebbe diventata ricca e famosa, avrebbe avuto una carriera pazzesca. Invece alla fine la Curcio Editore fallì. E io dovetti interrompere il liceo per andare a lavorare. Periodo complicato. Eravamo noi tre…”.
Le squilla il telefono: “Teso’, sto facendo una cosa, poi ti richiamo”. Tra poco, dice, dovrà mettere la testa sulla Calabria. Faccende politiche. Senza invidia. Seduta al tavolino di un bar in viale Europa – zona Eur dunque museo a cielo aperto del razionalismo – ecco Arianna Meloni. È lei la “sorella d’Italia”.
La descrivono come potentissima. Sorella maggiore di. Moglie di. Cognome tondo che non si dimentica. Ma da sempre due passi indietro, anche quattro. Da venti anni è una precaria della regione Lazio. Attualmente è il capo della segreteria politica di Chiara Colosimo, consigliere regionale della casa madre e presidente della commissione Trasparenza. Stipendio: 2.000 euro al mese, circa.
Arianna si accende una sigaretta slim. Ne fumerà quattro, addolcite da un cappuccino senza lattosio. “Io sono un’ansiosa: non mi piace apparire. Ecco perché non mi sono mai candidata, nonostante faccia politica da quando sono ragazza. A 19 anni andai a ‘Il rosso e il nero’ di Santoro in tv. Ero in diretta, feci una domanda a Bertinotti”. E come andò? “Che angoscia, mai più! Ecco, in questo siamo diverse: Giorgia a 28 anni era vicepresidente della Camera; io, a 47, vado in ansia pure per fare questa intervista con lei, la mia prima intervista. A proposito: posso rileggere l’articolo, vero? E soprattutto: che titolo farete?”. Arianna, l’altra Meloni.
È alta sette centimetri più della presidente di Fratelli d’Italia. È più grande di lei di due anni. La guardi, vai in bambola. Le sorelle Meloni hanno la stessa voce. I-den-ti-ca. La cosa fa impressione. Gesticolano allo stesso modo. Gli occhi vivi e roteanti, tipo spada di Excalibur, per indicare sgomento. Le pause teatrali. Medesima retorica.
Le risate per spezzare i discorsi. La battuta in romanesco che ti squarcia, da indole materna. È una persona che sa ascoltare. Sembra interessata alle vite degli altri. Empatica. Si fa avanti un dubbio: non è che partirà adesso con un “io sono Arianna, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”? Oppure, peggio, le scatterà la sindrome di Marbella (“sì a la familia natural, no a los lobbies Lgbt; sì a la identidad sexual, no a la ideología de género; sì a la cultura de la vida, no al abismo de la muerte”)?
L’ansia passa dall’alta parte del tavolino. Va provocata. L’altra Meloni ha esagerato in Spagna. Ha usato toni eccessivi all’iniziativa di Vox? I concetti forti non vanno urlati? E forse sua sorella se n’è anche pentita? Gli slogan non vanno bene, e di solito le liste non le squaderna Matteo Salvini? “Ma di cosa? Non siamo invasati, è inutile che adesso la sinistra si attacca a questo. Era un comizio, il tono va contestualizzato. A me l’intervento è piaciuto: diceva cose coerenti con la nostra storia, con il nostro percorso. Che fuori dal comizio sa argomentare, e bene”.
Eh, niente. Sembra di aver davanti la capa di Fratelli d’Italia, non c’è da nulla da fare. Banalità: immaginiamo gli scherzi telefonici. “A volte chiamavo io (qui c’è la furbizia di usare l’imperfetto, dunque il passato, ndr) a suo nome. Pronto, sono Giorgia Meloni, e tutti ci credevano. Con Giorgia siamo simbiotiche, è vero. Da bambine inventavamo canzoni e andavamo avanti per ore”.
Tipo? “Arianna è bella, Giorgia è una cozza. E viceversa. E comunque abbiamo ancora oggi un linguaggio solo nostro. Ci scriviamo e diciamo, in mezzo alla gente, parole inventate per capirci al volo”. Quali? “Seee, certo! Così poi le conoscono tutti. Abbiamo fatto entrambe le analisi con il genetista. I nostri dna sono sovrapponibili, tecnicamente sono come quelli di due gemelle omozigote. Siamo sempre carichissime. Non produciamo abbastanza serotonina, e per questo prendiamo integratori”. L’ultimo messaggio su Whatsapp? “Le ho mandato la foto di un vestito”.
Al tavolo vicino c’è una ragazza in shorts ultra minimalisti. Si alza. Gli sguardi la rincorrono. Ha praticamente il sedere di fuori. “Ma come si fa? Figuriamoci se sono bacchettona, io. Ma insomma se poi esci la notte alle undici così diventa pericoloso, no?”. E qui c’è la mamma d’Italia. Arianna Meloni ha due figlie. Si chiamano Vittoria e Rachele. Sono quasi adolescenti (la più grande è appena uscita dagli esami di Terza media). E iniziano a piantare le prime granette sul look. Ci sta. E’ la moda. Ma anche l’omologazione. O forse la lobby degli shorts? Come si sa, il marito di Arianna si chiama Francesco Lollobrigida, nipote della stellare Lollo.
E’ il capogruppo di FdI alla Camera. Le vipere del Palazzo lo chiamano “il cognato di Giorgia”. Prestante, lineamenti dolci. Tipo veloce. Da giovane per tutti era “Beautiful”. Ora è il colonnello del partito: parere pesante, il suo. E’ l’anticamera di responsi definitivi, il San Pietro del paradiso melonista. “La storia del cognato è una cattiveria. Francesco ha una militanza che tutti conoscono: è stato consigliere comunale, assessore comunale, capo dei giovani della provincia di Roma, ha fatto politica all’università. E’ consigliere regionale. Quindi per favore basta. Sa quando ci siamo dati il primo bacio?”.
Esitazione, in fin dei conti siamo tutti Signorini: no, e lo vogliamo sapere! “Allora, io avevo 20 anni, lui 23. Giorgia 18. Prendi e lascia per un po’, fino a quando un giorno si presentò con un mazzo enorme di rose. Non ci siamo più lasciati, era intorno al 2000. Dopo il primo bacio, a margine di una nostra iniziativa politico culturale, andai subito da Giorgia”. E? “Le dissi: Giorgia, non puoi capire!!!!!”.
Si dice che la domenica a pranzo a casa Meloni-Lollobrigida si faccia la linea del partito. Che si decidano carriere e candidature, traiettorie e strategie. Pare che sia nata fra queste quattro mura la trovata di Enrico Michetti, il più improbabile dei candidati sindaci di Roma, ab urbe condita.
“No, falso mito. Fra noi parliamo di politica il meno possibile. Lollo, tanto lo chiamate tutti così, e Giorgia con il tempo hanno costruito insieme, e da soli, un rapporto. E lui sta là perché è bravo, credibile, autorevole. Chiedete in giro. Non voglio fare la storia dell’oste e del vino. Dai, vi prego. Fratelli d’Italia è un partito strutturato con dirigenti in tutta Italia e in Europa”. Lollobrigida sogna il Viminale. Er governo Meloni. “Si farà ciò che c’è da fare. Siamo patrioti. Noi siamo una comunità cresciuta con certi ideali che non sono negoziabili. E non abbiamo mai fatto scelte di comodo per le poltrone”. Oddio sì, è lei, è proprio Giorgia. Cameriere, mi porta un caffè doppio?
Attenzione: Arianna Meloni è sicura che “faranno di tutto” per impedire alla sorella di diventare presidente del Consiglio. Sospiro. “Tuttavia gli italiani ci hanno capito. E ci saranno delle sorprese. Stiamo studiando, come sempre. Giorgia è insuperabile. Ha la sintesi in un cervello rapido, veloce. Ha l’intuito.
Fratelli d’Italia è fatta da una generazione che fa politica da 30 anni e che in maniera graduale ha percorso tutti i gradini istituzionali. Siamo pronti. Noi stiamo dalla parte degli ultimi, di chi non arriva a fine mese…”. Sul taccuino però rimane scritta la frase: faranno di tutto per impedirle di diventare premier. E allora parte l’assalto alla “sorella d’Italia”. Ce l’ha con Matteo Salvini, sta pensando a Silvio Berlusconi? Al sistema? Alla Bce? Alla lobby degli shorts? A proposito del leader della Lega si ode un “speriamo che rinsavisca”. Ma si confonde con voci circostanti. C’è un sacco di caos all’Eur, questa mattina. Traffico impazzito, sciopero dei taxi, clacson. Chi lo avrà detto: Arianna o la signora qui a fianco a proposito del marito? Boh. “Di sicuro, ecco, mai vedrete un governo Letta-Meloni”.
E qui scatta la chicca, il retroscena. Dopo le elezioni del 2018 Arianna esternò il dubbio sulla possibilità di entrare nel primo governo gialloverde, magari era il pranzo della domenica. Chiacchiere in confidenza. Era il governo Lega-M5s, una grande ammucchiata sovranista-populista-antisistema, anti euro. Ma Giorgia si convinse subito del contrario. “E’ fatta così: per i princìpi si farebbe tagliare la testa. Mai con i grillini, mai con i grillini”. Segue l’elogio della coerenza, che insomma si conosce abbastanza.
Questa meloneide è stata troncata all’inizio con Arianna che interrompe gli studi superiori (tipo film di Sergio Castellitto con lei interpretata da Jasmine Trinca). “Sì, e a 21 anni, e con i miei soldi pagai il bollettino alla posta per iscrivermi all’esame di Maturità al liceo Mamiani, scuola di sinistra, diciamo.
Avevo paura di essere bocciata. Non avrei sopportato quell’onta. Vado a sostenere gli orali. E mi chiedono: da cosa vuole iniziare?”. Da cosa inizio? “Da Marx, per togliermelo. Poi però fino a quando non uscirono i quadri, ansia totale. Una mia amica e compagna quella mattina mi chiama dalla scuola: ci hanno bocciate. Pianti, disperazione. Chiamo Giorgia. E lei: stai calma, ci sto io qui”. La sorella minore riuscì a scavalcare i cancelli del Mamiani, ad andare dalla bidella che aveva chiuso la scuola, e a sbirciare i quadri: “Sei stata promossa”. Giù pianti di gioia. Le sorelle Meloni nell’intimità piangono, ma non si deve sapere.
Al contrario è nota la storia della casa che va a fuoco. La matrice? “Giorgia dice che sono stata io, io dico che è stata lei. Concorso di colpa”. Niente di inedito, ormai. Le bambine hanno sei e quattro anni, e vivono a Roma Nord, in via Cortina d’Ampezzo. Una sera giocano, spostano i letti a castello, rimediano in giro le candele che trovano per casa. Poi sopra, tipo capanna, attaccano un telo nella cavità lasciata libera dai letti.
Di mattina una delle due o forse entrambe – bisognerebbe avere tutto il girato anche in questo caso – accendono le candele e poi vanno in sala a guardare i cartoni animati. Dopo poco l’appartamento andrà a fuoco. Distrutto. Le due biondine salve per miracolo, tra fiamme alte fino al soffitto. La madre, alle prese con un padre che sta in giro per il mondo e un po’ uccel di bosco, le prenderà da parte e le strillerà così: “Stavolta non vi dico nulla, altrimenti vi ammazzerei”.
La signora Anna si stava separando dal marito. E’ una storia, dettaglio più dettaglio meno, abbastanza conosciuta. Una storia complicata, cose che possono capire solo certi figli, solo chi le ha vissute. Ti scavano. “Ricordo ancora un orsetto squagliato: non avevamo più nulla”. Arianna e Giorgia si trasferiranno a casa della nonna: 45 metri quadrati. Anche qui, epica meloniana. Le due sorelle dormivano su un materasso, “una da capo e una da piedi”. C’era anche la bisnonna. Si finirà poi dove tutto avrà inizio. Alla Garbatella, il quartiere rosso dei lotti costruiti dal Duce che ospita la sede del Fronte della gioventù.
Meloni (Giorgia) si butta a destra nel ’92, a 15 anni, quando dice alla madre “lasciami qui davanti”. Arianna aggiunge: “Era un momento particolare per il paese: Tangentopoli, le bombe, la mafia. Un giorno, avevo 17 anni, alla fermata della metro San Paolo vidi i ragazzi del Fronte della gioventù che volantinavano. Poi spuntò fuori un certo Terminator, un tipo biondo con i capelli lunghi, che iniziò ad aggredirli insieme ad altri compagni dei centri sociali. Urlavano: voi non potete stare qui, ci fate schifo”.
Arianna correrà a casa a dirlo alla madre e alla sorella. Dibattito in cucina. Sdegno. Damose da fa’. Altro dubbio: non è che qui si sta scrivendo “Io sono Arianna”, libro biografico della Meloni grande? Ecco, parliamo di libri letti che non siano “Il signore degli anelli”, per favore.
“Casa di mia mamma è una foresta di libri. Ovunque. Posso dire che i libri di Stephen King e il Conte di Montecristo ci hanno formato. Poi certo, Giorgia era fissata fin da ragazzina con Tolkien, si sottolineava tutto il libro. Lo sa a memoria. Ma lei è stata sempre la secchiona di casa”. Album di famiglia: Meloni ministro del governo Berlusconi. “Ricordo i pianti al Quirinale e un vestito di Max Mara tanto caruccio, ma l’attaccarono anche su quello”.
Attacchi più dolorosi? “Quelli di Asia Argento (la figlia di Dario la fotografò al ristorante scrivendo sui social che aveva la schiena lardosa, ndr). Ma quando leggo su Facebook che se la prendono con lei mi si apre la vena, impazzisco”. Mario Draghi? “Ha avuto un percorso più che autorevole, una grandissima carriera e proiezione internazionale. Ovviamente non è Conte. Ovviamente non è nemmeno Houdini con la maggioranza che si ritrova. Però anche lui sta deludendo gli italiani: in Europa non incide”. Sua sorella lo voleva presidente della Repubblica, no? “Diceva semplicemente alla maggioranza: se può fare il capo del governo perché non il capo dello stato?”. Sorriso di chi mastica la politica.
A casa Meloni si parla di guerra, anche. E Arianna racconta che non ci sono mai stati dubbi sul posizionamento fra Russia e Ucraina. Eccola ancora in versione mamma d’Italia. “Quando vedi mamme che lasciano i bimbi sui treni e tornano a combattere per la patria, per la madre patria, cosa bisogna aggiungere?”. Ma insomma, Arianna Meloni quanto conta dentro Fratelli d’Italia? “Sono una militante da sempre, do una mano organizzativa, credo in ideali non negoziabili. Però l’intervista politica fatela a Giorgia, io che c’entro?”.
L'Aria Che tira, Elisabetta Gardini asfalta la Morani: vergognoso attacco alla Meloni. Libero Quotidiano il 24 giugno 2022
Scontro durissimo a L'Aria Che tira su La7 tra Alessia Morani del Pd ed Elisabetta Gardini di Fratelli d'Italia. La parlamentare dem ha messo subito nel mirino la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni. Ancora una volta la Meloni è finita sotto il fuoco dell'odio di sinistra per il suo comizio in Spagna a una convention di Vox in cui ha espresso di fatto tutti i principi politici fondamentali sui cui si basano le battaglie politiche del suo partito e della sua area politica. Apriti cielo.
La Morani non ha perso occasione per attaccarla: "Quella che la Meloni chiama lobby LGBT non esiste, sono semplicemente persone che chiedono dei diritti e che hanno il diritto di averli. Perché la Meloni è sempre carica d'ira?". Parole durissime che ancora una volta riaccendono lo scontro tra il Pd e la Fratelli d'Italia. Gli ultimi risultati alle amministrative che hanno rilanciato proprio il partito di Giorgia Meloni, hanno fatto scattare l'allarme al Nazareno.
I dem infatti si sono subito impegnati per mettere subito sotto accusa la Meloni, colpevole a loro dire, di essere stata troppo dura nei toni nel corso del suo discorso. E così la Gardini ha immediatamente replicato alle accuse della Morani in modo netto e chiaro: "Trovo scandaloso che ci siano donne che attaccano l'unica leader donna che abbiamo, indecente questo modo di attaccarla. Non ho parole. Ecco la differenza tra Giorgia e queste persone che la attaccano è che lei parla al cuore della gente. Ha semplicemente fatto un comizio politico e di fatto in tutti i comizi alla fine c'è una parte in crescendo e per attaccarla hanno usato solo quella parte lì".
Francesco Olivo per lastampa.it il 18 giugno 2022.
Il comizio di Giorgia Meloni alla manifestazione di Vox, ha fatto molto discutere anche in Spagna. Quelle parole contro la «lobby lgbt», in nome della «famiglia naturale» e «l’universalità della croce», è stato un argomento che ha occupato parte della campagna elettorale in Andalusia, la più popolosa delle regioni spagnole, che va al voto domani, con Vox che rischia di entrare nel governo.
Tra le reazioni più dure al discorso di Meloni c’è quella di Yolanda Díaz, vicepremier e ministra del lavoro, nuova leader della sinistra, dopo l’addio di Pablo Iglesias, il fondatore di Podemos. Figlia di uno storico sindacalista dei portuali della Galizia, la ministra ha la tessera del Partito comunista spagnolo, ma ha posizioni meno ortodosse di Iglesias e il suo rapporto con il premier Pedro Sánchez è molto solido. A Roma ha due alleati, Papa Francesco, che l’ha ricevuta in un’udienza privata, insolita per un ministro spagnolo e Andrea Orlando che ha apprezzato la sua riforma del mercato del lavoro. Il suo progetto politico fatica a nascere per le tante divisioni della sinistra, ma su un punto sono tutti d’accordo: Vox, alleato di Fratelli d’Italia, è un pericolo per la democrazia.
Vicepresidente Díaz, ha ascoltato il discorso di Giorgia Meloni alla manifestazione elettorale di Vox?
«Sì, e ho provato paura».
Perché paura?
«Perché era un discorso pieno di odio, e intolleranza verso maggior parte delle persone della nostra società: i lavoratori, le donne, le persone Lgtb+, la sinistra. L’intenzione era polarizzare: famiglia tradizionale, contro diritti Lgtb+».
L’ha stupita?
«È difficile da accettare il fatto che gente del tuo Paese, con una rappresentazione istituzionale e che governa alcune Regioni, abbia questo tipo di alleati internazionali».
Fratelli d’Italia e Vox hanno molti consensi in Italia e Spagna e potrebbero arrivare al governo di Italia e Spagna, dalle sue parole sembra alludere al fatto che ci sia un problema democratico. È così?
«Lo dico chiaramente: le posizioni dell’estrema destra di Vox su diritti civili e violenza di genere sono incompatibili con le democrazie e le costituzioni dei nostri Paesi».
È un attacco molto forte.
«Stiamo parlando di minoranze che vogliono imporre il proprio modo di vivere e i propri valori a una maggioranza».
Vox ha un sistema di alleanze internazionali, non si tratta di un partito isolato. E, come Fratelli d’Italia, si è opposto all’invasione russa dell’Ucraina. Questo non la tranquillizza?
«Vox ha una rete di relazioni internazionali alla quale si appoggia politicamente ed economicamente. Serve loro per poter dire: “Vedete? Ce ne sono molti nel mondo come noi”. Quello che è certo è che i loro punti di riferimento all’estero sono i governi ultraconservatori di Ungheria e Polonia. E fino a poco tempo fa c’era la Russia di Putin».
Oggi voi e i socialisti governate la Spagna, se domani toccasse a Vox non sarebbe una normale alternanza democratica?
«In quel caso sarebbe a rischio la nostra appartenenza all’Unione europea e in fondo la nostra democrazia. Ma Vox non governerà la Spagna».
Qual è la sua ricetta per sconfiggere la destra?
«A mio parere c’è una doppia dimensione importante: in primo luogo, bisogna svelare il loro “programma occulto”, che difendono strenuamente, del quale però non parlano mai».
Di che si tratterebbe?
«In Spagna quello che l’ultradestra vuole è lo smantellamento del sistema pubblico delle pensioni, il taglio dei salari, colpendo le condizioni di vita della classe lavoratrice. Le loro posizioni non sono soltanto reazionarie negli aspetti etici, ma sono un gradino più rispetto al programma economico delle élite. Attaccano la rappresentanza sindacale e il ruolo delle comunità autonome, per questo dico che c’è un problema democratico».
La sinistra si limita ad agitare il pericolo democratico o deve, secondo lei, proporre un’alternativa?
«La cosa più importante per combattere le posizioni, che le ho appena descritto, è progettare un’alternativa che rafforzi la democrazia. Senza il brodo di coltura dell’odio e della disperazione l’estrema destra non è nulla».
Da “la Repubblica” il 17 giugno 2022.
"Sì alla famiglia naturale, no alle lobby Lgtb, sì all'identità sessuale, no all'ideologia di genere, sì alla cultura della vita, no all'abisso della morte, sì all'universalità della croce, no alla violenza islamista, sì alle frontiere sicure, no all'immigrazione di massa".
È questo uno dei passaggi del comizio che Giorgia Meloni ha tenuto domenica sera a Marbella, in Spagna, a sostegno del partito di estrema destra Vox divenuto virale sui social.
Un comizio che, dopo le critiche da parte del Pd, ieri ha scatenato le reazioni della vicepremier spagnola Yolanda Díaz: "È un discorso che fa paura", ha dichiarato.
Giorgia Meloni, leader di FdI.
Da voce.com.ve il 17 giugno 2022.
Non sono passati inosservati in Spagna gli accesi toni con cui Giorgia Meloni è intervenuta domenica a sostegno di Vox in Andalusia. Domenica a Marbella, la leader di Fratelli d’Italia ha pronunciato un infervorato discorso in cui si è manifestata a favore “della famiglia naturale” e contro “le lobby Lgbt” e “l’immigrazione di massa”. Parole che hanno prodotto echi nella campagna elettorale, portando la vicepremier e ministra del Lavoro Yolanda Díaz, che appoggia la coalizione di sinistra Por Andalucía, ad affermare che le hanno fatto “paura”.
“Nel weekend ho avuto occasione di vedere il comizio di Vox a cui ha partecipato la rappresentante dell’estrema destra italiana, la signora Meloni. Il discorso faceva paura”, ha detto Díaz intervenendo in un comizio di “Por Andalucía” a Dos Hermanas, città situata alle porte di Siviglia. “La signora Meloni e Vox ci dicevano che loro difendono la famiglia naturale”, ha aggiunto, “noi diciamo loro che sapete molto bene che le famiglie in Andalusia, in Spagna e nel mondo sono diverse, che l’unica cosa che importa al mondo è che ci amiamo e ci vogliamo bene, e non è questione di famiglia naturale”.
La vicepremier ha poi insistito su uno dei temi ricorrenti di questa campagna elettorale, rivolgendosi al governatore uscente e favorito dai sondaggi, il popolare Juanma Moreno: “Ci dica chiaramente con chi governerà, se va a governare con le Meloni di domenica scorsa (in riferimento alla candidata di Vox Macarena Olona e alla leader di Fratelli d’Italia) o permetterà che esistano valori democratici in Andalusia”.
Già nei giorni scorsi, ad esempio nel dibattito tv tra candidati trasmesso lunedì sera da Canal Sur, Moreno era stato incalzato a più riprese su quali programmi post-elettorali abbia, nel caso in cui non raggiungesse l’obiettivo annunciato della maggioranza assoluta. “Io voglio governare in alleanza con gli andalusi”, ha risposto lui, eludendo prese di posizione nette.
Anche esponenti del mondo mediatico e intellettuale spagnolo si sono pronunciati sul discorso di Meloni, che Olona ha ringraziato sostenendo che per lei è “ispirazione”.
“Se quelli di Vox cercavano che Macarena Olona non facesse paura, niente di meglio che portare qui Giorgia Meloni, che direttamente provoca panico”, è stato per esempio il commento sarcastico del noto umorista Gran Wyoming. Ho visto il suo discorso 20 volte e non riesco a scrollarmi di dosso i brividi. Parla come una fascista del periodo tra le due guerre, con un odio profondo che le viene da sotto il diaframma, dall’anima in camicia nera”, ha scritto in una colonna pubblicata su El País Sergio del Molino, scrittore e giornalista.
Meloni aveva già dato sostegno a Vox in passato, ad esempio partecipando a Madrid, lo scorso ottobre, a un meeting del partito con invitati internazionali.
Da lastampa.it il 18 giugno 2022.
«Quando tu dici a milioni di italiani che io sono pericolosa per la storia, una persona che potrebbe per paradosso uccidere milioni di persone, invadere uno stato, o fare cose che hanno fatto le persone alle quali vengo accomunata, il rischio c'è che qualcuno, a un certo punto, decida di liberare il mondo da questa persona così pericolosa, perché magari ha qualche rotella fuori posto, e non capisce il gioco».
Così Giorgia Meloni in un video pubblicato sui suoi social con il titolo "La mia risposta agli insulti di La7" e una serie di spezzoni di programmi televisivi in cui si parla della leader di FdI. «Nella vita mi sono sempre assunta le mie responsabilità, è ora che lo facciano anche gli altri.
Querelerò chi ha raccontato falsità. Voglio sapere se in questa nazione c'è ancora il diritto di non essere di sinistra senza rischiare di diventare vittime dello spostato di turno perché gli hanno insegnato ad odiarti», ha concluso la leader di Fdi.
F.Oli. per “la Stampa” il 17 giugno 2022.
Giorgia Meloni si sente sotto assedio, crede che le critiche ricevute dopo il comizio pronunciato alla manifestazione di Vox in Spagna facciano parte di una strategia e certe accuse possano generare un pericolo, persino di sicurezza. La leader di Fratelli d'Italia ha pubblicato su Twitter un video nel quale compaiono alcuni ospiti di talk show in onda su La7 che l'hanno attaccata con toni molto duri, arrivando a paragoni con i nazisti, gli ideologi di Putin e di portare avanti «propaganda assassina».
La risposta di Meloni è netta: «Quando tu dici a milioni di italiani che io sono pericolosa per la storia, una persona che potrebbe per paradosso uccidere milioni di persone, invadere uno Stato, o fare cose che hanno fatto le persone alle quali vengo accomunata, il rischio c'è che qualcuno, a un certo punto, decida di liberare il mondo da questa persona così pericolosa, perché magari ha qualche rotella fuori posto, e non capisce il gioco».
Per Meloni si tratta di «minacce e insulti, andati in onda su unica rete televisiva, in appena 24 ore». Il direttore de La7, Andrea Salerno, risponde: «Da noi si ascoltano e si dà spazio a tutte le opinioni. Sempre con equilibrio, pluralismo, cura giornalistica.
Al servizio del pubblico, come dev' essere».
La leader di FdI, che minaccia querele, spiega di non voler difendere: «Voglio sapere se in questa nazione c'è ancora il diritto di non essere di sinistra senza rischiare di diventare vittime dello spostato di turno perché gli hanno insegnato a odiarti».
Nel centrosinistra, però, questo discorso viene definito «vittimista», perché sfugge alle critiche piovute addosso a Meloni dopo il comizio in Spagna dove si denunciava «la lobby Lgtb, la finanza internazionale, l'immigrazione di massa», elogiando «l'universalità della croce e la famiglia tradizionale». «Un discorso inaccettabile», per Enrico Letta.
DAGONEWS il 17 giugno 2022.
Si perde sempre sul più bello, Giorgia Meloni. Passa mesi a ritoccare la propria immagine istituzionale, a darsi un profilo euro-accettabile, a dialogare con gli avversari in modo pacato, poi basta una capatina a Marbella, tra i suoi amici dell’ultradestra di Vox, per mandare tutto all’aria. Il comizio a sostegno della candidatura di Macarena Olona alla presidenza all'Andalusia, durante il quale ha urlato come un’ossessa i suoi slogan (“Sì alla famiglia naturale, no alle lobby Lgbt, sì all’identità sessuale, no all’ideologia gender, sì alla cultura della vita”), l’ha fatta precipitare in un burrone politico.
Ha messo in difficoltà Enrico Letta, con cui ha sempre avuto un discreto rapporto di dialogo e stima. Al Nazareno avevano anche preso in considerazione l’idea, dopo l’eventuale approvazione di una legge elettorale proporzionale, di dialogare con Fratelli d’Italia per un governo in salsa atlantista nel 2023.
Le mattane spagnole hanno rimesso tutto in discussione spingendo prima Letta a dire “Faremo di tutto perché Giorgia Meloni non vada a palazzo Chigi” (Enrichetto è corso ai ripari incontrando Carlo Calenda) e poi ha scatenato la responsabile Esteri del Pd, Lia Quartapelle: “Il comizio della Meloni? Parole d’ordine fasciste. Un passato che non è mai passato”.
Anche in Europa hanno storto il nasino davanti al furore torero della “Ducetta”. Della serie: è lei che dovrebbe andare alla guida del governo in Italia, nel 2023, dopo Mario Draghi? I mugugni a Bruxelles sono quelli del “Sistema” che, da sempre, pretende moderazione, dialogo e tende a espellere i guasconi, Truci del Papeete, inaffidabili schegge impazzite (per informazioni chiedere all’austriaco Strache). Non è un caso che il suo Rasputin e consigliere, Guido Crosetto, fosse contrario al viaggio in Spagna.
Nell’intervista rilasciata oggi a “la Stampa” ha provato a minimizzare: “Giorgia non è che dica cose diverse in Italia. E’ il tono che ha scatenato tutto questo casino”. Ma poi Crosetto annusa qualcosa che non lo convince: “Fino a qualche giorno fa il nemico era Salvini, neutralizzato lui, adesso tocca al prossimo. D'altronde lo abbiamo già visto in passato con Berlusconi, Renzi e appunto Salvini. C'è un metodo, con il quale si fa politica e si vincono le elezioni. Prima si parte con le accuse di fascismo e o di conflitto di interesse. E poi parte la magistratura”.
Quel che è certo è che i partiti sono sempre più convinti a muoversi verso la legge elettorale proporzionale: nessuno si fida di nessuno, tutti vogliono le mani libere. Anche a Salvini, inizialmente contrario all’idea, ora conviene cambiare sistema: Berlusconi non è più convinto di sciogliere Forza Italia nella federazione di centrodestra e si è messo a flirtare con Renzi e Calenda per aggregare i centristi. Nei 5Stelle, proporzionale o maggioritario non conta, tanto c’è il caos. Tra i peones si è formato un “partito anti-Conte” dopo la batosta alle amministrative. E nonostante Peppiniello Appulo abbia fatto capire che il suo nemico interno numero 1 è Di Maio, quel "coniglio mannaro" di Luigino non muove un muscolo. E’ immobile e aspetta…
Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 17 giugno 2022.
La confessione di Giorgia Meloni, capa in ascesa di una destra con troppe memorie e parecchi voti, è di quelle autoincriminanti. Dopamina e adrenalina a strafottere, dice, ma le mancano le endorfine, la serenità, vorrebbe sempre essere altrove. I mediatori chimici o neurormoni pare siano molto importanti, secondo gli esperti.
Niente di deterministico, intendiamoci, l'uomo o la donna sono la loro anima insediata nel corpo e in certa misura autonoma. Ma certo dopamina e adrenalina aiutano la formazione di un carattere esagitato, energia cerebrale prona alla fuga o all'attacco, e può incidere invece sull'equilibrio, notevole dote politica, la mancanza di endorfine.
La capa della formazione ex, neo, postmissina ha accettato di buon grado, con intelligenza politica, di essere relegata all'opposizione del grottesco governo del contratto tra Salvini e grillini; ha elaborato tecniche della competizione che sono venute utilissime dopo il suicidio non assistito del Papeete;
si è trovata a suo agio nell'opposizione ribadita al governo Bisconte, con una caciara leghista meno credibile della sua per via delle premesse; ha cominciato la salita che la porta a superare la Lega anche in buona parte del nord con il rifiuto della missione nazionale Mattarella-Draghi, ma un rifiuto articolato, perfino a dirla tutta equilibrato, endorfinico, istituzionale, meno volatile della pseudotrasfigurazione del suo competitore insediato al governo, al culmine del quale, dopo la pandemia e le scemenze da lei dette su vaccini e Covid, la guerra all'occidente di Putin e soci la trova su posizioni di solidarietà euroatlantica senza indulgenze salviniane per gli scarti da circo Barnum. Per la serie: chi è il più freak del Reame? Forse qualche endorfina il suo organismo la produce, via.
Però una botta dopaminica o adrenalinica l'ha condotta il sabato del villaggio, elezioni locali italiane, a una trasferta, arte della fuga, in Andalusia, dove ha tenuto un comiziaccio alla Kirill contro l'andazzo prevalente in occidente. Niente di male, più che legittimo, non è che tutti possono sfilare nel gay pride, e Meloni voleva fare un piacere a quelli di Vox e alla sua amica Macarena.
C'è modo e modo, però. Si può mettere in discussione il relativismo morale con pacatezza razionale e afflato spirituale, come Ratzinger, o ammiccando ai doveri dell'uomo come il liberale neomazziniano Carlo Calenda, o anche con la verve di uno degli straordinari racconti della silloge Un amico di Kafka , di Isaac B. Singer, appena usciti per Adelphi: "Sì, l'Illuminismo, che i nostri poeti hanno glorificato con frasi altisonanti, ci ha trasformati tutti in libertini e puttane" (pagina 231).
Ma buttarla in caciara politica e elettorale sa molto di rosario-portachiavi, cuore immacolato di Maria violato nei comizi di paese eccetera. Non è che la mancanza di endorfine sia destinata a appaiare, a colpi di mediatori chimici estremi, Meloni e il leader di cui vuole sbarazzarsi, rendendolo un subordinato della coalizione di centrodestra, nella corsa al governo?
Coalizione e competizione sono un gioco pericoloso. Certe corse si fanno meglio in solitario, la coalizione viene dopo, escludonsi eventualmente chierichetti del nemico strategico. E Meloni è arrivata al punto di doverci pensare, la proporzionale non dovrebbe più essere un tabù nemmeno per lei. Vuoi costruire un profilo repubblicano a tutto tondo? Vuoi qualificarti su scala nazionale ed europea come una capa dei conservatori? Vuoi essere polacca alla frontiera con l'Ucraina, e un po' polacca anche nell'uso spregiudicato dello stato di diritto? Vuoi essere Grand Old Party americano dopo Trump?
Vedi un po' tu. Ma servono una classe dirigente minimamente accettabile e un profilo più endorfinico che dopaminico, meno autobiografico, che trasmetta anche, dico anche, serenità ed equilibrio. Meloni pensa con ogni evidenza che le sue fortune dipendono dall'essersi messa fuori da ogni sistema di alleanze politiche e di governo di questa legislatura arruffata, e in parte ha ragione. Rientrare in un sistema alla vigilia del prossimo voto politico, in nome di un centrodestra che esiste e non esiste, potrebbe essere il suo passo falso.
Furio Colombo per “la Repubblica” il 22 giugno 2022.
Potrebbe diventare il prossimo primo ministro del governo italiano. Parlo, come tutti, di Giorgia Meloni. Molti, infatti, pensano, e dicono di pensare, che sia la persona adatta a fare il nuovo capo del governo perché quando entra in scena (qualunque scena italiana) sembra portare un senso di novità, rafforzato dal panorama fisico e politico tra cui, con disinvoltura, si fa largo e si mette in vista.
L'impressione finisce per essere, indipendentemente dalla simpatia, che non sempre ottiene: giovane, di bell'aspetto, donna e furba. È tutto un po' al di la della realtà ma funziona.
Come una attrice fortunata, trova che c'è chi sta pensando a darle una mano,e ha già messo in scena gli attrezzi adatti al suo successo: una Russia forte e simpatica che piace ai suoi eventuali elettori (non è lei che si deve esporre, lei può persino dichiararsi atlantista), la libertà da una serie di questioni che imbrogliano gli altri, come l'invio delle armi, gli alti e bassi delle vicende di guerra, il tormento senza fine dei grillini, da cui sta alla larga.
E resta del tutto libera di occuparsi dell'unica questione che le interessa: chi comanda? Giorgia Meloni sembra curiosamente disinteressata al protagonismo collettivo del comando, ovvero: chi portare con me. L'impressione è che sia in discussione solo il suo ruolo. Il fatto meraviglia data la sua naturale astuzia e capacità di visione larga intorno a ciò che la riguarda.
Eppure (una volta perso l'amico Crosetto) non ha un suo Giorgetti e non vuole il rischio di avere un suo Zaia. Ma il caso Giorgia Meloni è molto più complicato (finché non conosci il futuro che sta per venire). Lo dimostra il fortissimo salto di umore di cui ha deliberatamente voluto dar prova nel discorso di Vox. La volevano estremista, e lei è stata febbrilmente estremista.
E conta anche il pieno e leale legame di amicizia con due leader europei da cui dipende il futuro e anzi la sopravvivenza della Unione Europea, da una parte, della estrema destra dall'altra. Sono il premier polacco Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán, primo ministro dell'Ungheria, dunque di una parte d'Europa storicamente e culturalmente importante.
Che cosa significano e che cosa contano questi legami e la solidarietà politica e anche la capacità di essere altra che ne deriva, per Giorgia Meloni che, allo stesso tempo indossa nella politica italiana che aspira a dominare, la tunica di una vestale fedele alle istituzioni, alle politiche e alle decisioni di media ragionevolezza?
Per esempio l'amico Morawiecki chiede che tutti - dunque anche l'Italia, riconoscano la legge polacca. Essa impone che chiunque accusi o ricordi un cittadino polacco fra i persecutori dei cittadini ebrei, nella Shoah, sarà condannato a tre anni di reclusione. Come tutte le documentazioni sulla storia della Shoah ricorda e dimostra, quasi metà dei personale addetto ai campi di sterminio era polacco.
Viktor Orbán ha fatto un'operazione più radicale: ha rimosso l'intera magistratura del suo Paese, sostituendola con funzionari del governo. Questo è dunque, per farne un breve riassunto, il mondo di Giorgia Meloni. Certo le è di grande aiuto la mano leggera e anzi gentile di coloro che dovrebbero essere i suoi oppositori, come se si trattasse di una scelta estetica e non di uno sradicamento di principi irrinunciabili.
Impossibile ignorare che la Meloni ha lanciato i suoi "no" con un urlo che le ha contorto la voce, mentre la civiltà da respingere erano tutte le conquiste della cultura contemporanea, intesa sia come scienza sia come comportamento umano.
Si può capire che porti sempre meno scandalo il frequente aggancio di gruppi e formazioni neo - fasciste a partiti di questa destra, in occasione delle elezioni locali, perché il fascismo di simboli e inni e saluti di quei gruppi è più blando e sbiadito del "lugubre discorso di Vox" (così definito da Letta) interpretato con furore da Giorgia Meloni.
Ora sappiamo che cosa vuol dire "estrema destra" quando si dice di un partito, o di un leader, adesso, in Italia. Ma lo sappiamo solo in parte. Infatti non sospettavamo che il discorso di Vox sarebbe stato solo l'annuncio di fatti che pesano molto di più.
Alla conta finale delle elezioni francesi si è scoperto che Marine Le Pen ha portato nel parlamento repubblicano francese, il parlamento di De Gaulle, Mitterand, Chirac, 89 deputati di estrema destra e di estrema devozione ai rabbiosi "no" del discorso di Giorgia Meloni a Vox. E che Macron ha perduto la difesa della sua perduta maggioranza.
Si potrebbe sostare a lungo a domandarsi come tutto ciò è avvenuto. Ma è avvenuto, e questo spiega il divertito sarcasmo con cui la Meloni, dopo avere detto ciò che fino a un momento fa era troppo persino per un fascista, risponde al segretario Pd, vantandosi della sua impresa e guardandosi bene dai cauti passi indietro che fino a poco fà erano la sua regola di condotta. Dunque ci stiamo affacciando al nuovo. E non è bello.
Francesco Olivo per “la Stampa” il 17 giugno 2022.
Guido Crosetto ritiene di essere titolato nel difendere Giorgia Meloni, perché pur essendo uno dei fondatori di Fratelli d'Italia non viene dal Msi (ma dalla Dc) e oggi ha lasciato la politica, pur restando uno dei consiglieri più ascoltati della leader.
Fdi ha un problema con il passato?
«Da adesso fino alle elezioni del prossimo anno vedremo questo mantra. Fino a qualche giorno fa il nemico era Salvini, neutralizzato lui, adesso tocca al prossimo. D'altronde lo abbiamo già visto in passato con Berlusconi, Renzi e appunto Salvini. C'è un metodo, con il quale si fa politica e si vincono le elezioni».
In cosa consiste, secondo lei, questo metodo?
«Prima si parte con le accuse di fascismo e o di conflitto di interesse. E poi parte la magistratura».
Succederà anche a Fdi?
«È un anno che lo dico a Giorgia, così come lo dissi a Renzi. Esiste un problema di democrazia, ma non per colpa di Fdi».
Ha funzionato il metodo?
«Sempre. È drammatico perché non consente il confronto sulle idee. È un metodo che costringe la politica a non migliorarsi: io vinco perché distruggo l'avversario».
Per affrontare il pericolo che lei denuncia, si potrebbero dire parole chiare sul fascismo e sul 25 aprile.
«Fini lo fece, dicendo, "ditemi cosa dovrò rinnegare e lo faccio", ma non è servito».
Lei ha ascoltato il comizio di Meloni alla manifestazione di Vox, il partito dell'estrema destra spagnola?
«Sì. Tutti i 19 minuti e non solo i pochi secondi di cui si parla».
Cosa ne pensa?
«Conosco i ragionamenti che fa Giorgia. La cosa che le ho detto è che quando urla troppo distrugge qualunque cosa stia dicendo».
E nel merito?
«La famiglia naturale è presente nella Costituzione».
E la lobby gay?
«Ha detto lobby Lgtb, che è un'altra cosa. Anche all'interno della comunità omosessuale e delle femministe questi sono temi di discussione. Chi parla di omofobia, non vuole confrontarsi. Lo dico in maniera un po' secca: sui temi etici Giorgia fa i ragionamenti che fa Papa Francesco».
Si può arrivare così a Palazzo Chigi?
«Non stiamo parlando di arrivare a Palazzo Chigi, ma di poter giudicare una persona senza che le si scarichino addosso insulti».
Meloni sta affrontando l'eredità fascista in Fdi?
«Quelli che sono nel partito sono passati da An e poi nel Pdl di Berlusconi. Giorgia è stata ministra, La Russa e Urso anche. Di che parliamo?».
Però a volte spuntano esponenti di Fdi facendo saluti romani o inneggiando al Duce. È un caso?
«Chi si alza con il braccio teso è come il mafioso che ti trovi nelle liste. Magari hai fatto di tutto, ma te lo ritrovi».
Meloni ha fatto di tutto per non averli?
«Ma certo».
Punisce i nostalgici?
«Non vengono puniti, ma cacciati. Questi soggetti danneggiano più Letta o Meloni? Ovviamente Meloni».
L'alleanza con un partito come Vox non stride con questo percorso?
«Vox è una scissione del Partito popolare spagnolo. La Meloni è la presidente dei Conservatori europei e in quanto tale dialoga con chi fa parte di quel gruppo. Dialogare non vuol dire sposare le idee».
Il Pd accusa: Meloni usa un doppio linguaggio, relativamente moderato in Italia ed estremista in Spagna.
«Quando vai a parlare a un congresso, ti accordi sugli argomenti da trattare».
Ma quello che si dice a Marbella si ascolta anche in Italia.
«Ma lei non è che dica cose diverse. Ripeto: è il tono che ha scatenato tutto questo casino».
Fratelli d'Italia ha vinto le amministrative?
«È l'unico partito che ha continuato praticamente ovunque il suo trend di crescita».
Fdi punta a Palazzo Chigi oppure a un'opposizione perenne?
«Si sta attrezzando ad avere una classe dirigente all'altezza, sia all'interno che all'esterno per un compito importante con gli altri partiti. Di essere presidente, però, Giorgia non fa la ragione della sua esistenza».
Luca Sablone per ilgiornale.it il 21 giugno 2022.
È la solita sinistra nostrana, che si affretta a dare patenti e ad attaccare etichette agli avversari politici senza però rendersi conto che nel proprio mondo ingloba chi non disdegna affatto l'insulto e la volgarità. L'ultimo esempio è lampante. Rita Dalla Chiesa si è schierata dalla parte di Giorgia Meloni per la valanga di odio ricevuta in seguito agli ottimi risultati maturati in occasione delle elezioni amministrative. Alt, però: per la galassia rossa ciò non è tollerabile, tanto da scatenare altrettanto livore contro la conduttrice.
L'odio rosso
Rita Dalla Chiesa aveva invitato tutti a riportare la questione politica in un sano dibattito, evitando invettive sul personale e soprattutto epiteti che denigrano l'immagine piuttosto che confrontarsi sul merito della questione. E aveva provato ad analizzare i motivi per cui la sinistra prova una paura del genere verso Giorgia Meloni: "Le cattiverie nei suoi confronti sono gratuite ma hanno anche una motivazione politica: la verità è che temono la sua crescita elettorale".
È bastato questo per far scatenare gli odiatori rossi, che sui social non hanno perso tempo per rivolgere parole e accuse spregevoli all'indirizzo della conduttrice. Il punto è sempre lo stesso: alcuni messaggi hanno assunto un tono molto aggressivo e hanno addirittura tirato in ballo la morte di suo padre e la propria carriera televisiva. Il che va oltre il legittimo dissenso, che andrebbe espresso nei limiti del rispetto dell'interlocutore.
Come riportato da Libero, c'è chi con nonchalance ha chiamato in causa la figura del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: "Questa fa rivoltare suo padre nella tomba". Anche un altro utente ha affermato che il padre "si starà rivoltando nella tomba" per il comportamento della figlia: "Lui è morto per combattere il malaffare e lei difende un partito con parecchi condannati proprio per malaffare". Qualcuno si è permesso di scrivere che il generale "si sarebbe vergognato" perché sua figlia "approva la violenza e la cattiveria" della Meloni.
"Ma la Dalla Chiesa da quando è diventata fascista?", si chiede una donna sui social. Non poteva mancare la teoria secondo cui la leader di Fratelli d'Italia sarebbe fascista e la conduttrice, solo per averla difesa, lo è di conseguenza. Il tutto accompagnato da veleno vigliacco: "Ma sta vecchia scarpa ancora parla? Vomito". Infine l'accusa choc: "E se lo dice una che si è venduta al mandante dell'omicidio del padre pur di lavorare in tv, c'è da crederci".
Le denunce
In questi casi si è portati a dire di lasciar perdere, di non dare considerazione e attenzione agli odiatori da tastiera. C'è però un punto su cui non si può sorvolare: il vomito ricevuto prima o poi va punito perché la propria immagine viene infangata. Ecco perché Rita Dalla Chiesa ha annunciato la volontà di muoversi per vie legali: "Sono veramente stanca, ora basta. Queste frasi sono da denuncia e intendo andare dai carabinieri a farlo".
La colpa della conduttrice? Essersi schierata dalla parte di una donna di centrodestra a cui (pensate un po' che strano) le donne di sinistra non avevano espresso solidarietà per le ingiurie ricevute. "Lo rifarei ancora. Del resto nella mia vita io ho difeso anche tante donne di sinistra. Ma se ti azzardi a farlo con la Meloni, allora ti attaccano, diventi 'colpevole', una donna di serie B", ha fatto notare Rita Dalla Chiesa. Che ha messo ben in risalto il buonismo a intermittenza della galassia rossa a cui ormai siamo abituati.
Vittorio Feltri sbugiarda la sinistra: “L'unica strategia è insultare il nemico. Incapaci di controbattere”. Il Tempo il 21 giugno 2022.
Vittorio Feltri non ci sta e passa al contrattacco dopo gli attacchi della sinistra nei confronti di Giorgia Meloni. “Da oltre dieci anni abbiamo al governo la sinistra (nonostante perda immancabilmente le elezioni, merito che ci tocca riconoscerle), eppure questa seguita ad attribuire alla destra la responsabilità di tutto ciò che non funziona in Italia, facendone un improbabile capro espiatorio a carattere permanente. Era sempre colpa di Silvio Berlusconi, perseguitato da media e magistratura, poi è stata sempre colpa di Matteo Salvini ed ora è sempre colpa di Giorgia Meloni e ancora di più lo sarà a mano a mano che ci appropinquiamo alle votazioni della primavera 2023” l’incipit dell’editoriale del direttore di Libero nell’edizione del 21 giugno del quotidiano.
“Eppure - dice Feltri - Giorgia è colpevole di nulla, dal momento che se ne sta ferma e salda all'opposizione, attendendo pazientemente di vedere passare sul letto del fiume gli avversari, annegati nelle loro stesse schizofrenie, menzogne e incoerenze. Insomma, l'andazzo non muta: in questo Paese ci si lagna perché nessuno realizza quello che chiunque, stando al governo, potrebbe fare e si punta il dito sempre contro gli antagonisti per giustificare la propria inettitudine e le proprie inefficienze. Quanto ancora potrà reggere questo castello di frottole edificato da Pd e partiti affini? Resisterà per un'altra campagna elettorale? Non credo, io lo sento scricchiolare da un bel po'. Ormai è molto in voga non presentare più un programma, bensì una lista di improperi nei confronti degli sfidanti. Piovono le consuete accuse di razzismo, fascismo, sessismo, misoginia, omofobia e chi più ne ha più ne metta. Che noia, che barba, che barba, che noia!”.
Feltri fa poi un invito alla sinistra: “Cambiate registro, poiché questo è vecchio e ci ha alquanto ammorbato. I progressisti non desistono, intendono persuaderci che i partiti di centro-destra rappresentino il male e che una loro eventuale e sempre meno remota vittoria possa segnare il tracollo dell'Italia, la morte della democrazia, la disgregazione della Unione Europea, il trionfo della tirannide, l'allargamento della guerra, la persecuzione degli omosessuali, la regressione del gentil sesso. Tutte balle. Nessuno come i cosiddetti democratici è avvezzo all'uso della censura, al soffocamento delle libertà inviolabili, allo spargimento di odio come tattica politica, alla colpevolizzazione della parte avversa per nascondere le proprie incolmabili lacune, all'attacco sgangherato come strategia per logorare e screditare il temuto nemico, alla presa di mira di chiunque manifesti un pensiero non appiattito sulla bibbia del politicamente corretto, alla derisione di chi ha il coraggio delle sue idee, quantunque non ordinarie”.
Vittorio Feltri smaschera la sinistra: insulti al nemico, ecco l'unica strategia che conoscono. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 giugno 2022.
Da oltre dieci anni abbiamo al governo la sinistra (nonostante perda immancabilmente le elezioni, merito che ci tocca riconoscerle), eppure questa seguita ad attribuire alla destra la responsabilità di tutto ciò che non funziona in Italia, facendone un improbabile capro espiatorio a carattere permanente. Era sempre colpa di Silvio Berlusconi, perseguitato da media e magistratura, poi è stata sempre colpa di Matteo Salvini ed ora è sempre colpa di Giorgia Meloni e ancora di più lo sarà a mano a mano che ci appropinquiamo alle votazioni della primavera 2023. Eppure Giorgia è colpevole di nulla, dal momento che se ne sta ferma e salda all'opposizione, attendendo pazientemente di vedere passare sul letto del fiume gli avversari, annegati nelle loro stesse schizofrenie, menzogne e incoerenze. Insomma, l'andazzo non muta: in questo Paese ci si lagna perché nessuno realizza quello che chiunque, stando al governo, potrebbe fare e si punta il dito sempre contro gli antagonisti per giustificare la propria inettitudine e le proprie inefficienze.
Continuiamo ad accogliere migliaia di sedicenti profughi, ma la colpa sarebbe del leader della Lega che pure li rispedirebbe volentieri a casa loro e non di chi non chiude risolutamente porte e porti a quella che assomiglia più ad una invasione, essendo compiuta massicciamente e nel disprezzo di ogni regola, che ad una legittima richiesta di asilo e protezione. Le nostre metropoli diventano sempre più insicure, pullulano di delinquenti, ma la colpa è della destra, che non vuole lo ius soli, e non della sinistra che spalanca le braccia agli extracomunitari e poi li getta sulla strada come fossero robaccia e non esseri umani, non lasciando loro altra via se non quella della devianza e della disperazione. Quanto ancora potrà reggere questo castello di frottole edificato da Pd e partiti affini? Resisterà per un'altra campagna elettorale? Non credo, io lo sento scricchiolare da un bel po'. Ormai è molto in voga non presentare più un programma, bensì una lista di improperi nei confronti degli sfidanti. Piovono le consuete accuse di razzismo, fascismo, sessismo, misoginia, omofobia e chi più ne ha più ne metta.
Che noia, che barba, che barba, che noia! Invitiamo caldamente la sinistra a cambiare registro poiché questo è vecchio e ci ha alquanto ammorbato. Il fascismo è defunto da un pezzo e prova ne è il fatto che nel marzo del 2018 i partiti di estrema destra non hanno beccato neppure lo 0,50% dei consensi. Inoltre, sessismo e misoginia sono più di sinistra che di destra, basti pensare che nei consigli regionali a prevalenza radical-chic le signore quasi non figurano, sono quattro gatte, a volte anche meno. I partiti di destra, dal canto loro, dimostrano di riporre molta fiducia nelle donne e di volere valorizzare il nostro capitale umano femminile, candidando ai vertici proprio delle promettenti politiche.
Eppure i progressisti non desistono, intendono persuaderci che i partiti di centro-destra rappresentino il male e che una loro eventuale e sempre meno remota vittoria possa segnare il tracollo dell'Italia, la morte della democrazia, la disgregazione della Unione Europea, il trionfo della tirannide, l'allargamento della guerra, la persecuzione degli omosessuali, la regressione del gentil sesso. Tutte balle. Nessuno come i cosiddetti democratici è avvezzo all'uso della censura, al soffocamento delle libertà inviolabili, allo spargimento di odio come tattica politica, alla colpevolizzazione della parte avversa per nascondere le proprie incolmabili lacune, all'attacco sgangherato come strategia per logorare e screditare il temuto nemico, alla presa di mira di chiunque manifesti un pensiero non appiattito sulla bibbia del politicamente corretto, alla derisione di chi ha il coraggio delle sue idee, quantunque non ordinarie. Ci auguriamo che la sinistra ci esponga i suoi obiettivi, ammesso che li abbia, senza fare di Berlusconi, Salvini e Meloni i propri bersagli quotidiani su cui scagliare cazzate a grappolo, che gli fanno soltanto il solletico.
Otto e mezzo, Sallusti zittisce lo studio La7 sul caso Meloni: "Tutto ciò che non è di sinistra, è fascista". Giada Oricchio su Il Tempo il 16 giugno 2022.
Botta e risposta tra Alessandro Sallusti e Annalisa Cuzzocrea sul caso Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, primo partito nei sondaggi. A "Otto e Mezzo", il talk politico di La7, giovedì 16 giugno, si parla della diarchia Conte-Di Maio in seno al M5S e dell’ascesa di Meloni. Secondo la vicedirettrice de La Stampa Cuzzocrea, la tattica del vittimismo sta funzionando: “Dice sempre che l’attaccano, che le danno della fascista, parla dei saluti romani derubricando a folklore quello che folklore non è. Il fascismo è parte della nostra storia e le persone scoperte a fare i saluti fascisti o a inneggiare a Hitler non le ha mandate via. Ha una visione di mondo di estrema destra e molto conservatrice”.
Il direttore di Libero Sallusti ha scosso la testa e difeso l’ex ministra: “Funziona la tecnica di dire che lei è destra estrema, è come dire che in Italia c’è un partito al 20-25, forse anche 30% di neofascisti ed è una grande stupidaggine” e Gruber con un sussulto: “Dove lo hai visto questo 30%?!”.
Sallusti ha spiegato che si trattava di una possibile ipotesi futura, poi ha voluto riportare il focus sulle etichette sbagliate: “Ogni sera in tv ci sono opinionisti e giornalisti che per il gusto dello sfregio definiscono Giorgia Meloni di destra estrema, mentre in realtà è una leader neo conservatrice con un programma coerente. Non ci sono neo fascisti in FdI, ci sono cretini che fanno i saluti romani”.
Un’indispettita Cuzzocrea ha replicato giustamente di non averla mai definita neo fascista: “Volutamente non ho usato quella parola. E’ una destra moderna e liberale, ma simile al partito spagnolo Vox. Ho detto di estrema destra non neofascista”, “Le due cose confinano – ha incalzato Sallusti -. Nel bouquet politico esistono i conservatori di destra, in questo Paese tutto ciò che non è di sinistra, è fascista. E’ una cosa insopportabile. Per voi è tutto ‘estremo’ a destra, Vox è un partito parlamentare con un grande consenso, non è extra parlamentare, non sono le brigate nere”.
Le parole e il sospetto. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 16 giugno 2022.
Almeno potevano essere più originali. Non appena ha vinto e si è dimostrata vera avversaria da battere, i compagni si sono uniti in massa, come i proletari di Marx, contro Giorgia Meloni, rispolverando per screditarla tutto l'armamentario di accuse trite e ritrite sebbene destituite di fondamento. E allora ecco che dal Pd le hanno dato della fascista, della razzista, della reazionaria, della neonazionalista... Ah già, stavolta hanno aggiunto ai fanta-insulti anche quello di filo-russa. Che tristezza: temendo di non riuscire a battere la Meloni sul campo e nel merito, i piddini non trovano miglior arma che quella di offenderla. Dimenticando che così rischiano di fare solo il gioco di Giorgia: più la insultano e più gli italiani sono indotti a votarla. Ma, si sa, l'arte del tafazzismo ha una lunga tradizione a sinistra... Ha cominciato l'altro ieri il vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, colui che già si era arrogato il diritto di dichiarare Fdi «fuori dall'arco costituzionale». Due giorni fa, a corto di idee, ha sciorinato la solita stanca litania: «La Meloni ha dimostrato di rappresentare una destra estrema, inadatta a governare, attraversata da sentimenti xenofobi e reazionari». Provenzano si ricordi che non porta bene dare a un leader di destra dell'unfit, dell'inadatto. Lo aveva fatto l'Economist nel 2001 contro Berlusconi: poi il Cav ha governato per 8 anni...
NIENTE FAIRPLAY - Ma l'affondo meno atteso e perciò più odioso arriva proprio dal leader dem Enrico Letta che finora aveva sempre dimostrato fairplay verso la Meloni. Ora invece, sentendosi il fiato di Giorgia sul collo, la spara grossa. «Sento tanto parlare», dice Enrico che non sta sereno, «del percorso moderato della Meloni. Ma ho visto il video del suo sostegno al candidato di estrema destra in Andalusia (del partito Vox, ndr). Guardatelo: è da brividi». Noi lo abbiamo guardato, e i brividi li proviamo solo per le frasi di Letta. In quel discorso la leader di Fdi parla di difesa della famiglia naturale, di minaccia delle lobby Lgbt, di promozione della cultura della vita e delle radici cristiane e di rifiuto della violenza islamista e dell'immigrazione di massa, e di lotta per tutelare la nostra civiltà. Nulla di nuovo sotto il cielo, sono i riferimenti valoriali che da sempre nutrono il lessico e l'immaginario della Meloni e della destra conservatrice che lei rappresenta.
ATTACCO SGANGHERATO - Eppure per Lia Quartapelle, deputata e responsabile Esteri del Pd, queste frasi confermano la sua «mentalità fascista», essendo «parole d'ordine fasciste», «rantoli rancorosi», figli di «un passato spaventoso che non passa». Ma fin qui siamo alla nota reductio ad hitlerum. Il passo ulteriore e inaccettabile è l'allusione all'appartenenza della Meloni a una destra mondiale che vanta un filo diretto, anche economico, con la Russia. «Nel suo discorso per la candidata di Vox c'erano tutti i luoghi comuni di questa internazionale di destra, sostenuta finanziariamente dalla Russia, legata alla destra trumpiana che sta dietro all'assalto del Congresso Usa del 6 gennaio», avverte la Quartapelle. Un attacco talmente sgangherato ed eclatante da non poter restare lettera morta. La Meloni prima si appella al segretario dem: «Pretendo di sapere da Letta se condivide queste affermazioni». Poi minaccia querela: «Dice la Quartapelle in queste deliranti dichiarazioni che noi faremmo parte di una Internazionale di destra sostenuta finanziariamente dalla Russia. Mi aspetto che dica esattamente a cosa fa riferimento o dovrà dirlo ai giudici». Messa alle strette, la Quartapelle è costretta a correre goffamente ai ripari: «Nessuno accusa Fdi di prendere finanziamenti dai russi», dice, ma «la Meloni sa bene che la rete che ha diffuso il messaggio di Vox fa parte di una galassia ambigua legata all'Alt Right americana e ad alcuni oligarchi russi». Dove non poté l'onestà intellettuale riuscì la strizza... Né potevano mancare le parole di un altro "rosso" del Pd, l'europarlamentare Pierfrancesco Majorino che accusa la leader Fdi di neonazionalismo: «Il comiziaccio di Meloni dai fascisti di Vox racconta dove va la destra europea. Il crollo di Salvini non deve far credere che il neonazionalismo sia sconfitto».
CHE SPOCCHIA - Ma l'assedio concentrico contro la Meloni coinvolge anche esponenti in teoria più moderati come Carlo Calenda di Azione. Che, ringalluzzito dalla buona performance alle Amministrative, gioca a dare lezioni di competenza a destra e a manca, soprattutto a destra. E allora va giù pesante dando a Meloni dell'incompetente che parla a vanvera ed è degna al più di stare nei parchi giochi. «La politica non è aprire bocca e dare fiato a seconda delle inclinazioni del Paese», sentenzia l'illuminato Carlo. «Alla Meloni l'unica cosa che non deve succedere è di andare al governo, perché questo giochino di dire la prima fesseria è finito. Quella non è politica. Andassero a fare qualcos' altro. Ci sono i Kinder Garden, posti dove ci si arrampica sulle altalene, si va sopra il muro. Ma il governo è un'altra cosa». Dio santo, quanta spocchia... La verità è che fino a tre giorni fa la Meloni veniva coccolata dalla sinistra perché avrebbe potuto distruggere politicamente Matteo Salvini, il vero Nemico; e veniva anche invitata agli incontri insieme a Letta, in un clima di civile confronto, al punto che gli editorialisti del Corriere avevano evocato un governo rosso-nero, di alleanze molto trasversali tra Pd e Fdi. Ora però Giorgia ha dimostrato di non essere una pedina nelle mani dei dem, utile a spaccare il fronte della destra per far restare al potere la sinistra. Ha dimostrato piuttosto di essere colei che, la sinistra, potrebbe sbatterla fuori dalle stanze del potere, e grazie al voto degli elettori. La Meloni fa paura, e molto, al Pd. Per questo viene descritta come un mostro. Ennesima conferma che una Giorgia premier non è un'ipotesi così remota... A noi piace immaginarlo, se non altro perché vuoi mettere la goduria di vedere i dem rosicare?
La contro-Fiuggi di Giorgia. Il problema di Fratelli d’Italia non è il suo passato, ma il futuro sovranista che ha in mente. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 2 Maggio 2022.
La convention si è rivelata una tappa del processo di sostituzione della destra “normale” con una nazionalista. E i nomi di Tremonti, Pera e Ricolfi non servivano a recidere le radici con la storia post-fascista, ma a legittimare il ripudio del conservatorismo liberale in nome di un conservatorismo reazionario
Da un certo punto di vista, si comprende l’orgoglio e il dispetto dei figli del dio minore della storia post-fascista, sempre costretti a esibire patenti di legittimazione politica, rilasciate dalle prefetture ideologiche del nemico post-comunista. Si capisce la fatica e l’irritazione di essere chiamati a un redde rationem con un passato sempre più remoto e sempre più immaginario, che però a destra obbligatoriamente deve assumere la forma dell’abiura morale, mentre a sinistra ha potuto prendere quella di un più comodo superamento storico.
A tutto questo, poi, si aggiungeva e tuttora si aggiunge una sorta di odiosa pregiudiziale antropologica, che solo Marco Pannella ha sfidato nella Prima Repubblica. Quella per la quale se il comunismo era cattivo, nondimeno i comunisti erano buoni, mentre dal male fascista finivano segnati tutti quelli che avevano, in qualunque modo, fatto parte della sua storia, pure di quella postuma: tutti delinquenti politici, tutti senza coscienza e senza nobiltà d’animo o di propositi.
Che insomma la destra italiana abbia dovuto fare i conti con una “questione della colpa”, da cui la sinistra è stata per principio esentata, è una circostanza che ha lasciato strascichi non solo psicologici in un mondo tormentato dalla sindrome dell’assedio.
Non c’è dubbio, quindi, che anche la convention nazionale di Fratelli d’Italia, che si è chiusa ieri a Milano e che doveva servire per presentare il volto e l’anima della destra di governo e la piattaforma della rivoluzione conservatrice per l’Italia, abbia finito per essere interpretata secondo canoni desueti: come la “nuova Fiuggi” della storia post-fascista e come una tappa di un processo di istituzionalizzazione, che ha davvero poco senso chiedere a quello che per i sondaggi è oggi il primo partito italiano.
Vale quindi la pena leggere l’evento milanese, le sue premesse e le sue prospettive in una chiave più direttamente politica, partendo da quello che questo partito è e vuole essere per il futuro, non dalle sue credenziali storiche, dal suo dna e dal suo presunto peccato originale.
Come era prevedibile e voluto, la passerella di numerosi politici e intellettuali che non provengono dai ranghi della destra italiana, ma tutti in qualche modo dal centro o dalla sinistra lato sensu liberale – Tremonti, Pera, Ricolfi, Nordio … – è servita per accreditare la forza e capacità di allargamento di FdI e quindi il suo oggettivo superamento delle colonne d’Ercole della destra tradizionale. Ma proprio da questo si capisce quanto il vero “problema democratico” di FdI – su cui osservatori e analisti si sono mostrati disattenti, essendo più interessati a chiedere conto dei saluti romani alle esequie di donna Assunta Almirante: quando si dice la lungimiranza – sia la qualità e la natura della proposta cosiddetta conservatrice del partito di Giorgia Meloni e la sua collocazione nel palinsesto della destra politica internazionale. Insomma: non da dove viene, ma dove va.
Il termini canonici, magari troppo didascalici e scontati, ma utili per segnare la mappa ideologica dei partiti, la destra conservatrice in Occidente, fino all’ascesa alla Casa Bianca del primo presidente anti-americano della storia americana, Donald Trump, e alla proliferazione dei suoi auto-proclamati e riconosciuti terminali sud-americani e europei (da Bolsonaro alla coppia Salvini-Meloni), aveva alcuni caratteri consolidati: la difesa dell’ordine politico occidentale e dei rapporti Usa-Ue, la difesa del libero mercato e della sua proiezione transnazionale, e il presidio di un sistema politico fondato sulla limitazione dei poteri politici sovrani, a vantaggio dell’autonomia della società e degli individui. La “rivoluzione conservatrice” reaganian-thatcheriana era, grosso modo, quella cosa lì. E su quella linea aveva indirettamente guidato la trasformazione della sinistra mondiale nella stagione clintoniana e blairiana, che provò, con notevole successo, a salvare il bambino della globalizzazione senza buttarlo via con l’acqua sporca di una retorica in larga misura posticcia, ma un po’ troppo brutalmente darwiniana.
Ecco, la “nuova” destra conservatrice nasce esattamente in opposizione ai successi della “vecchia” destra conservatrice, intestati per comodità alla “nuova” sinistra liberal-liberista, a cui oggi è imputata la rottura del paradigma nazionalista, che ha aperto la strada alla globalizzazione economica, politica e demografica, all’integrazione dei mercati e delle istituzioni internazionali e alla pluralizzazione dei costumi e dei consumi, delle credenze e delle fedi e quindi allo sgretolamento delle identità tradizionali.
Giorgia Meloni è stata in questi anni, quanto Matteo Salvini, un’infaticabile propagandista delle più indecenti panzane nazionaliste: dal cosiddetto piano Kalergi per la sostituzione etnica degli italiani, all’accusa di depredazione economica dell’Italia da parte dell’Europa delle banche, obbediente all’imperio franco-tedesco.
Non c’è praticamente capitolo di quell’enorme Protocollo dei Savi di Sion populista e sovranista, che si è provveduto a scrivere e a diffondere negli anni dell’antipolitica, che ieri FdI abbia mancato di sposare e oggi abbia provveduto a rinnegare. I nomi di Giulio Tremonti, di Marcello Pera e di Luca Ricolfi non servono affatto a recidere le radici con la storia post-fascista, ma a legittimare il ripudio del conservatorismo liberale in nome di un conservatorismo reazionario.
Tremonti serve a giustificare il nuovo bipolarismo sovranismo-globalismo e ad accusare la sinistra di avere sostituito il comunismo con il “mercatismo” e di avere violato i diritti naturali degli uomini e delle nazioni. Pera serve a giustificare un identitarismo politico-religioso costruito su una sorta di moralismo clericale, su un ratzingerismo un po’ di lotta e un po’ di governo: il gender come problema del mondo, i valori non negoziabili in materia di morale sessuale e familiare come Santo Graal della destra del futuro.
Ricolfi serve a dare una rispettabilità “realista” al pendolarismo ideologico della Meloni, oggi, dopo l’aggressione di Putin all’Ucraina, a metà tra polacchi e ungheresi, tra i peggiori avversari di Putin e i più scontati complici del Cremlino. E proprio Ricolfi, nei giorni della convention di FdI, ha tracciato la rotta di un possibile accomodamento: basta dare qualche pezzo di Ucraina a Putin, e tutto si risolve. Perfino Nordio, recente idolo del pantheon di FdI, serve, più che al rewashing garantista, alla precostituzione di un alibi manettaro. Si invita lui, che agevolmente si presta, e si parla dei mali della giustizia italiana, per giustificare meglio il no ai referendum sulla limitazione del ricorso alla custodia cautelare e sulla legge Severino.
La convention di Milano, dunque, da molti punti di vista, non è stata una “nuova Fiuggi”, ma una “contro-Fiuggi”, non un modo per entrare nell’alveo della destra di governo europea, che nel frattempo ha perso i pezzi fino quasi a scomparire in Francia e a ridimensionarsi pesantemente in Germania e in Spagna, ma una tappa del processo di sostituzione della destra “normale” con una destra sovranista. Guardando la geografia del centro-destra e della destra europea si tratta di un’operazione tutt’altro che impossibile, ma non esattamente provvidenziale né per i destini dell’Italia, né per quelli dell’Ue.
Paolo Bracalini per “il Giornale” il 29 aprile 2022.
La Meloni punta apertamente a Palazzo Chigi e gli ultimi sondaggi (Fdi primo partito al 21,7%, sopra il Pd) sembrano darle ragione. La leader, già da tempo, ha avviato un'operazione di allargamento del partito per coinvolgere personalità esterne al partito, uscire dal ghetto della destra post-missina e preparare una classe dirigente spendibile per una eventuale squadra di governo (e più «presentabile» agli occhi dell'establishment anche internazionale, condizione necessaria per ambire alla carica di premier).
Così ecco sfilare a Milano, da oggi a domenica, nella conferenza programmatica di Fdi (titolo: «Italia, Energia da Liberare»), i «testimonial» del nuovo corso meloniano, personalità «con le quali punto di continuare a lavorare», ha detto la Meloni. A che livello è presto a dirlo ma sicuramente a qualunque livello possibile. Intanto per contribuire a scrivere «una prima traccia per un programma di governo».
Qualcosa di simile a quanto fatto in passato da Salvini che ha portato in Parlamento una serie di personalità esterne alla Lega, e anche da M5s che prima delle elezioni del 2018 presentò una squadra di tecnici senza tessera grillina (tra loro c'era un certo prof.
Giuseppe Conte, ma anche Pasquale Tridico, ora presidente Inps). Il governo ombra della Meloni, o quantomeno gli esperti che partecipano alla sua kermesse in vista delle future elezioni politiche, è formato da alcune personalità con una curriculum chiaramente di centrodestra, altri invece qualificabili come «tecnici».
Tra i primi, ci sono Giulio Tremonti, ex ministro dei governi Berlusconi, per l'area economica, l'ex presidente del Senato Marcello Pera, l'ex sottosegretario e magistrato Alfredo Mantovano (il suo tema è la famiglia) e ovviamente Guido Crosetto, impegnato fuori dalla politica ma cofondatore di Fdi e consigliere della Meloni.
Tra gli esterni invece la Meloni è riuscita a coinvolgere l'ex magistrato Carlo Nordio, che già si era reso disponibile alla candidatura al Quirinale (Nordio ovviamente è il saggio di Fdi sul tema giustizia). Ma c'è anche uno studioso, da sempre presentato come «sociologo di sinistra», come Luca Ricolfi (ministro ombra della Scuola?), e poi l'ex ministro del governo Monti, Giulio Terzi di Sant' Agata che è stato arruolato da Fdi come «responsabile Rapporti diplomatici» del partito.
Sempre in questo ambito nella squadra di esterni simpatizzanti della Meloni c'è l'ambasciatore Stefano Pontecorvo, già Alto rappresentante civile Nato in Afghanistan, mentre sul versante culturale ci sono il sociologo Francesco Alberoni, il filosofo Stefano Zecchi («pronto a dare una mano»), il regista Edoardo Sylos Labini, la direttrice d'orchestra Beatrice Venezi, i giornalisti Paolo Del Debbio e Vittorio Feltri.
Poi una serie di docenti universitari, dai costituzionalisti Alfonso Celotto e Felice Giuffrè, all'economista Cesare Pozzi («uno dei massimi esperti di politica industriale») ad avvocati e medici, dirigenti ministeriali, mentre per la quota imprenditoria-industria c'è Matteo Zoppas (San Benedetto SpA) e l'ad di Terna Stefano Donnarumma. Tutti nomi con cui la Meloni terrà contatti in vista di futuri impegni (governativi).
Un percorso di accreditamento di Fdi, già iniziato con la trasformazione di Atreju da festa identitaria a kermesse politica aperta a ospiti trasversali (l'estate scorsa c'erano Letta, Renzi, Cartabia...) e poi la scuola di formazione di «FareFuturo», la fondazione guidata dal senatore Adolfo Urso. Che nell'edizione di quest' anno conta tra i suoi docenti Massimo Cacciari, Domenico De Masi, Ernesto Galli della Loggia, Giulio Sapelli, tutti lontani dalla destra. Lo sdoganamento ormai è compiuto
Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.
Meloni: "L’Italia poteva opporsi al nazismo, ma non lo fece". Emanuele Lauria su La Repubblica il 17 Marzo 2022.
Napoli, manifesti col simbolo Fdi e la foto del coordinatore del partito che fa il saluto romano. "Io penso che chi sostiene che l'Italia non aveva le forze di opporsi ai nazisti dice il falso, la Bulgaria lo fece, si poteva fare e non si è fatto". La leader di Fdi, Giorgia Meloni, prende le distanze dalle pagine più buie del Ventennio, dalle leggi razziali e dalle persecuzioni degli ebrei. Lo fa intervenendo alla presentazione del libro di Virman Cusenza, "Giocatori d'azzardo", edito da Mondadori.
Ma cosa voleva dire Giorgia Meloni quando ha detto che l’Italia non fece come la Bulgaria contro il nazismo? Nel corso della presentazione del libro di Virman Cusenza, la leader di Fratelli d’Italia ha reso pubblica la sua tesi sul nostro Paese prima e durante la Seconda Guerra Mondiale. NeXt quotidiano il 18 Marzo 2022.
I rapporti con la storia, tra quelle ideologie che hanno devastato la prima metà del Secolo scorso. Rapporti tra gli estremismi rappresentati da nazismo e fascismo che hanno portato al secondo conflitto mondiale e a una lunga serie di crimini di guerra, anche oltre la guerra. Una lotta interna ed esterna: Italia e Germania, in quel periodo storico, erano seduti dalla parte sbagliata (quella più crudele) della storia del mondo. Unite, a braccetto, dietro la guida di Benito Mussolini e Adolf Hitler e dei deliri culminati nella stesura e approvazione unilaterale di leggi discriminatorie. Combattuti all’interno e all’esterno, ma per Giorgia Meloni – almeno in Italia – nessuno combatté realmente il nazismo.
Giorgia Meloni e l’Italia che “non fece nulla per opporsi al nazismo”
Nel corso della presentazione del libro del giornalista Virman Cusenza – che racconta proprio la storia di un avvocato anti-fascista che difese un giornalista vicinissimo a Mussolini -, la leader di Fratelli d’Italia ha provato a rivendicare un ideale anti-razzista del suo partito (e anche non anti-semita) sostenendo che i suoi iscritti difendano il principio di Nazione per cittadinanza (e allora perché avere paura dello ius soli?) e non per etnia. E tra i temi affrontati, inevitabilmente vista la trama del libro presentato a Roma, si è parlato anche del passato del nostro Paese. E, a un certo punto, Giorgia Meloni ha pronunciato questa frase:
“Io penso che chi sostiene che l’Italia non aveva le forze di opporsi ai nazisti dice il falso, la Bulgaria lo fece, si poteva fare e non si è fatto”.
Sintetizzando: l’Italia poteva opporsi al nazismo, ma non lo fece. L’Italia, quella guidata da Benito Mussolini che andò a braccetto (insieme a tutti i fascisti) con il nazista Adolf Hitler, non si oppose e non lottò contro il nazismo. E non lo fece – limitandoci alle politiche attive – proprio perché c’era il fascismo di Benito Mussolini. Insomma, seguendo alla lettera le parole di Giorgia Meloni appare evidente un controsenso.
Perché gli anti-fascisti (quelli che spesso vengono strumentalizzati dalla stessa leader di Fratelli d’Italia nelle polemiche, come quelle in risposta dei manifesti del coordinatore Sergio Rastrelli a Napoli, con tanto di saluto romano) hanno lottato contro il fascismo e contro il nazismo. Ed è anche grazie a loro che dopo anni di buio sono state sconfitte quelle due dottrine ideologiche e politiche che hanno devastato Italia e Germania provocando persecuzioni, deportazioni (per religione, politica e orientamento sessuale) morti, distruzioni e una guerra sanguinosa per tutti.
L’esempio fuori contesto della Bulgaria
In quel suo pensiero, inoltre, Giorgia Meloni ha fatto riferimento anche alla Bulgaria. Ma in che senso? Probabilmente la leader di Fratelli d’Italia fa riferimento a quel che accadde a Sofia nel 1943, quando Dimitar Peshev, vicepresidente del parlamento bulgaro, si oppose alla deportazione dei quasi 50mila ebrei bulgari. Un gesto coraggioso che viene ricordato ogni anno (e siamo proprio in quello stesso periodo dell’anno, dato che il tutto avvenne nel marzo del 1943) che salvò la vita a migliaia di cittadini che non furono mai consegnati alla Germania e condotti nei campi di concentramento. Ma si tratta di un paragone che lascia il tempo che trova. In Italia c’era una dittatura. Il Parlamento era inesistente e inconsistente. L’uomo solo al comando, Benito Mussolini, si era unito anima e mente alle follie di Hitler. E così fascismo e nazismo andarono a braccetto. E furono combattuti e battuti sul campo. Dagli anti-fascisti, in Italia.
La Meloni: "In Fdi non c'è spazio per antisemitismo e razzismo". Francesco Boezi il 18 Marzo 2022 su Il Giornale.
"L'Italia - ha detto la Meloni - avrebbe potuto opporsi alle imposizioni della Germania nazista ma non lo fece".
Il leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni ha di nuovo preso posizione sulla necessità di una pacificazione nazionale.
Questa volta, il presidente dell'Ecr, ha voluto dire la sua durante la presentazione di "Giocatori d'azzardo", un libro scritto dal giornalista Virman Cusenza che è edito da Mondadori e che è stato presentato a Roma presso il Tempio di Adriano.
L'opera riguarda nello specifico la storia di un avvocato antifascista, il bresciano Enzo Paroli, che, nonostante la sua fede ideologica e la battaglia condotta in vita, si spinse sino alla difesa, da legale, di un professionista considerato prossimo a Benito Mussolini. Una vicenda umana, dunque, riportata alla luce dall'ex direttore de Il Messaggero e del Mattino.
Telesio Interlandi, il cosiddetto "giornalista del Duce", era un "vinto" della storia, oltre che l'ex direttore de "La difesa della razza". Si direbbe un non pentito del ventennio. Eppure Paroli scelse, a prescindere da tutto, di rappresentarlo come avvocato.
Per la Meloni, si tratta di un testo che fornisce "le risposte giuste" a "molte domande". La prima parte del ragionamento presentato è stato riservato al concetto di pietas, uno di quelli che da sempre fa capolino quando si parla di "pacificazione nazionale". "L'onestà intellettuale di questi tempi è una cosa rara - ha premesso l'ex vicepresidente della Camera - , porta con sé enormi interrogativi, il tema della pietas della nostra civiltà". "Perché pietas - ha argomentato la Meloni - non è tradire se stessi, la pietas è atto di forza. Una persona che sta dalla parte sbagliata della storia merita un processo giusto? Gli errori che si fanno possono portarci a venir meno ai nostri principi? Sono domande che si possono fare...".
Nel corso dell'incontro, è stato citato anche il pensiero sul concetto di "rispetto" dell'ex presidente della Camera Luciano Violante (che ha preso parte alla presentazione). "Viene dal latino respicere: guardare in profondità. Significa non fermarsi a ciò che è superficiale - ha proseguito - per comprendere nel complesso la vicenda. Noi siamo in un tempo in cui è tutto un gioco di etichette". L'ex ministro della Gioventù ha insistito molto sull'evitamento della complessità che sarebbe alla base del dibattito politico nel contemporaneo.
Sul razzismo, il giudizio è come sempre nitido: "Io penso - ha continuato, così come ripercorso dall'Adnkronos - che chi sostiene che l'Italia non aveva le forze di opporsi ai nazisti dice il falso, la Bulgaria lo fece, si poteva fare e non si è fatto". L'esempio fatto sulla Bulgaria è quello che molti addetti ai lavori hanno inteso rimarcare. L'Italia, per la Meloni, aveva la "forza" di "opporsi" alle "imposizioni della Germania nazista". Ma "non è stato fatto".
Anche in relazione a Fratelli d'Italia le argomentazioni sono le medesime esposte in altre circostanze: "Le parole di Fdi sono state durissime sull'antisemitismo, nella mia parte politica non ci può essere spazio per il razzismo e l'antisemitismo". Poi l'attualizzazione: "Noi oggi abbiamo ancora un problema di antisemitismo. C'è un antisemitismo di estrema destra, l'antisemitismo di estrema sinistra e c'è il problema del fondamentalismo islamico".
Infine, l'invito alla pacificazione nazionale "Noi prima di essere di destra e sinistra siamo italiani, dobbiamo provare a esaltare ciò che unisce, piuttosto che ciò che divide", ha chiosato.
Santanché, ha ceduto le azioni del Twiga: metà a Briatore e metà al fidanzato Dimitri Kunz d’Asburgo. Della serie “Tutto in famiglia” ! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Novembre 2022
La Santanchè al momento si trova al centro del polverone per la gestione fallimentare della società Visibilia editore, della quale è stata azionista sino ad ottobre, attualmente oggetto di una richiesta di fallimento avanzata dalla Procura di Milano.
Ricordate le affermazioni-annuncio della Santanchè ? “Ho venduto le mie quote del Twiga. A chi? Questo non vi riguarda, l’ho fatto” ed invece ecco rivelato il mistero creato stamattina in un’intervista dal ministro del Turismo. Daniela Santanchè ha ceduto il 44,10% delle azioni del Twiga di Forte dei Marmi intestate alla Immobiliare Dani srl ed alla Thor srl, lo stabilimento balneare-turistico dei vip creato da Flavio Briatore. Quote cedute guarda caso metà allo stesso Briatore e l’altra metà al suo fidanzato Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena. Ritenendo così di aver annullato il conflitto d’interesse successivo alla sua nomina a Ministro del Turismo.
Il conflitto di interesse della Santanchè era sorto dopo la sua nomina a ministro nel governo Meloni, motivo per cui ha lasciato al ministro Musumeci la delega sulle spiagge visto che il Twiga è anche uno stabilimento balneare molto frequentato dal jet set: a fronte di un canone di concessione di 17.600 euro l’anno, realizza un fatturato di 4 milioni, e come tutti gli altri stabilimenti balneari simili è nel mirino dell’Europa per il mancato rispetto della Direttiva Bolkestein sulla concorrenza.
Dopo aver inizialmente affermato a caldo che avrebbe mantenuto la partecipazione nel Twiga, probabilmente consigliata e sollecitata in tal senso è ritornata sui suoi passi trovando una soluzione amichevole-familiare che però non annulla del tutto i conflitti d’interesse. La Santanchè al momento si trova al centro del polverone per la gestione fallimentare della società Visibilia editore, della quale è stata azionista sino ad ottobre, attualmente oggetto di una richiesta di fallimento avanzata dalla Procura di Milano.
La cessione di quote è avvenuta davanti al notaio Paola Casali di Milano che ha redatto tre documenti, di cui il quotidiano romano Il Messaggero è venuto in possesso.
La Santanchè ha reso noto infatti di essersi spossessata del pacchetto azionario nel Twiga per evitare conflitti di interesse, ma l’operazione in realtà suscita più di qualche dubbio ed imbarazzo persino nella compagine di governo, considerati che gli acquirenti sono a lei legati da vincoli di affari e affettivi. Prezzo: 1,4 milioni per l ’11,025% ceduto alla società lussemburghese Majestas di Flavio Briatore, da pagare in due rate. Invece il suo compagno Dimitri Kunz ha acquisito il restante 11% in due operazioni distinte: la prima del 3,75% tramite la Thor che era titolare della nuda proprietà dell’intero 22,05% della ministra a un prezzo di 487.500 euro, la seconda del 7,275% attraverso Modi srl di cui è amministratore unico per 945.800. A seguito del rimpasto azionario, la Majestas di Briatore è salita al 56,9%, mentre la quota restante è di Thierry Bruno Thierry Sebastien (10%), della Thor srl e della Modi entrambe con rappresentante legale Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena. La Santanchè ha portato a casa sulla carta (non potendo chi scrive avere visione dei relativi bonifici di pagamento) circa 3 milioni. Redazione CdG 1947
Il principe e compagno discreto. Chi è il compagno di Daniela Santanchè: Dimitri Kunz d’Asburgo, il principe e gli incroci curiosi con Sallusti. Elena Del Mastro su Il Riformista il 26 Settembre 2022
Alle Politiche 2022 un’altra donna della compagine di Fratelli d’Italia ha stravinto le elezioni. Si tratta di Daniela Santanchè che ha battuto Carlo Cottarelli con un margine molto ampio, rischiando il doppiaggio nel collegio di Mantova e Cremona, quest’ultima città natale dell’economista. L’imprenditrice di Cuneo e coordinatrice regionale di Fratelli d’Italia ha portato a casa quasi duecentomila voti (199mila 691) raggiungendo il 52,17 per cento e staccando di oltre 23 punti il rivale che si è fermato al 27,3 (117mila 445 voti). “La passione, il coraggio e la determinazione pagano sempre. Grazie a tutti per questo stupendo risultato”, ha commentato sui suoi social.
Come Giorgia Meloni, anche lei ha un compagno che l’ha supportata passo passo in questa campagna elettorale, pure restando lontano dai riflettori. Si tratta di Dimitri Kunz d’Asburgo Lorena che sarebbe appunto un principe. Secondo le indiscrezioni riportate da Repubblica, i due non sarebbero solo compagni nella vita ma anche in affari nella società Visibilia, di cui è presidente e da dicembre scorso anche amministratore delegato: la società di editoria.
Santanchè è stata vista con Kunz proprio sull’ultimo red carpet di Venezia. Sempre Repubblica riporta un’altra curiosità, un particolare incrocio. L’ex moglie di Kunz, Patrizia d’Asburgo Lorena, nata Groppelli, sarebbe attualmente la compagna di Alessandro Sallusti, ex compagno proprio di Daniela Santanchè.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Estratto dell’articolo di Alfredo Faieta per milanotoday.it il 6 luglio 2022.
Vi abbiamo raccontato di Visibilia Editore, gruppo del quale la prima azionista è la senatrice di Fratelli d’Italia Daniela Garnero Santanché, pasionaria della destra italiana, in parlamento ormai da oltre un ventennio. Una situazione spinosa quella in cui si trova la “pitonessa” il suo gruppo, con i revisori che hanno bocciato l’ultimo bilancio, quello relativo al 2021.
Non è però l’unica questione a preoccupare la senatrice e il suo attuale compagno di vita Dimitri D’Asburgo Lorena, presidente e amministratore delegato del gruppo subentrato proprio a Santanché nel corso dell’ultimo anno: il prossimo 8 luglio si terrà l’udienza che segue alla citazione in tribunale da parte dei piccoli azionisti del gruppo.
Questi ultimi dopo 21 segnalazioni alla Consob, l’autorità di vigilanza sulla borsa e i mercati, hanno citato Visibilia per comprendere cosa sia successo al gruppo che ha visto il valore delle azioni erodersi quasi completamente, e soprattutto l’ingresso di un fondo con uffici a Dubai, ma, come ha potuto riscontrare Dossier con sede alle Isole Vergini Britanniche, riconosciuto come paradiso off-shore.
I piccoli azionisti si chiedono dunque da dove arrivino questi soldi, di chi siano e soprattutto come abbia funzionato la gestione di questi anni con il valore delle azioni in via di azzeramento. Una galassia in disfacimento?
In effetti urge chiaramente una risposta che diradi la nebbia, anche perché nel frattempo Negma ha investito con lo stesso metodo in altre società quotate italiane, e tra queste alcune di quelle nelle quali Santanchè, che nel 2021 ha ritenuto di dover lasciare la presidenza di Visibilia Editore, ha avuto in passato un ruolo di vertice come Bioera e Ki Group.
Aziende indirettamente riferibili in piccola parte anche a lei ma soprattutto al suo ex compagno Canio Mazzaro, professione imprenditore con una spiccata vocazione alla Borsa.
I due, oltre ad avere un figlio in comune, dividono com'è noto anche un'indagine penale aperta dalla procura di Milano – il pm è Paolo Filippini – nella quale si contesta loro un reato fiscale.
Cosa è successo? Secondo la ricostruzione del Nucleo economico finanziario della guardia di finanza, la Santanchè avrebbe aiutato Mazzaro, gravato negli anni da cartelle esattoriali che hanno raggiunto la cifra di un milione e mezzo di euro tra imposte, interessi e sanzioni (solo nel 2014 è contestata un evasione di 284 mila euro circa), a disfarsi della sua barca “Unica” che è finita a una sconosciuta società maltese dopo essere stata comprata, e subito rivenduta da una azienda italiana presieduta proprio dalla senatrice, la Biofood Italia, una società sulla quale si tornerà e nella quale la Santanchè risulta essere socia.
Buona parte dei problemi col fisco di Mazzaro – già indagato a Milano nel 2016 per il crac delle farmacie Essere e Benessere - derivano dal fatto che i compensi da amministratore delle sue aziende Bioera e Ki Group, presiedute fino a poco tempo fa dalla Santanchè venivano pagati a una sua società – M Consulting – grazie a un accordo che si chiama di «reversibilità», invece che direttamente a lui.
Cosa comporta questo? Su questi redditi Mazzaro avrebbe pagato non le aliquote Irpef per le persone fisiche, che crescono al salire del reddito, ma quelle flat delle imprese, ben più basse. Si sarebbero quindi aggirate le norme fiscali sulla tassazione dei redditi da lavoro. […]
Da Invitalia a Negma, gli investimenti sul gruppo
Ma non è finita, perché anche Invitalia, società di proprietà del ministero dell’Economia, con Domenico Arcuri allora nel ruolo di amministratore delegato, ha acquistato obbligazioni Ki Group per 2,7 milioni di euro nel marzo 2021, un periodo nel quale la società versava già in condizioni pessime. Un investimento nato sotto il cappello della Legge Rilancio, ma in un momento delicatissimo per la società: nel febbraio del 2022, dopo le dimissioni anche di Mazzaro, è decaduto tutto il consiglio d'amministrazione di Ki Group.
Negma ha deciso di aiutare anche Bioera, altra società di Mazzaro che naviga ugualmente in cattive acque e che è presieduta sempre dalla senatrice di Fdi. Fino alle dimissioni, comunicate nel settembre del 2021 ma congelate perché la società non è riuscita a fondersi con Helon, un'azienda nata nel 2021 che opera nel settore digital e social media con la quale avrebbe dovuto convolare a nozze. […]
Alfredo Faieta per milanotoday.it il 26 luglio 2022.
Otto milioni e mezzo di euro in aumenti di capitale entrati nella società dei quali non si ha una traccia precisa. Spunta questo dato nella causa promossa da alcuni piccoli azionisti di Visibilia Editore che hanno citato al tribunale delle imprese di Milano gli amministratori della società di Daniela Santanchè sospettando “gravi irregolarità nella gestione” a loro danno. Un contenzioso che è diventato una battaglia di trasparenza per la gestione nel quale è finito anche l'ex collegio sindacale presieduto dal noto commercialista milanese Massimo Gabelli.
Proprio mentre la senatrice di Fratelli d'Italia si prepara ad affrontare le elezioni del 25 settembre che potrebbero consacrare il suo partito come prima forza politica del Paese anche nel nord Italia, i giudici milanesi iniziano a prendere le misure di un contenzioso che potrebbe rivelare molte sorprese. Il collegio presieduto da Amina Simonetti, in attesa che si entri nel vivo di questa causa, ha nominato una ventina di giorni fa come curatore speciale per la società Massimo Fabiani.
Ex magistrato e stimato professore universitario, Fabiani dovrà rappresentare in questo giudizio Visibilia al posto degli amministratori e per farlo dovrà cercare di capire cosa è successo negli ultimi anni nella gestione della società di così grave da costringere i soci al ricorso in tribunale dopo aver inutilmente cercato spiegazioni dagli amministratori e dal collegio sindacale.
Bilanci in rosso
Peraltro gli azionisti hanno dovuto ingoiare nel 2021 l'ennesimo fallimentare bilancio, chiuso con 3,5 milioni di euro di perdite su 4 milioni di ricavi. Un rosso, dovuto molto a inattese svalutazioni degli asset, che ha divorato quasi tutto il patrimonio netto e che ha portato anche la società di revisione Bdo Italia a non certificare il bilancio. Documento nel quale si legge che l'azienda ha accumulato un debito tributario già scaduto per 1,7 milioni di euro, che va a sommarsi a debiti previdenziali per 450 mila euro. I debiti totali, invece, si avvicinano a 7 milioni di euro.
In questa situazione, che non si fatica a definire pesante, si innesta il nodo dei soldi derivanti dai continui aumenti di capitale realizzati negli ultimi anni, anche attraverso la conversione in azioni di obbligazioni che hanno questa facoltà. I soci di minoranza li hanno ricostruiti in una relazione depositata agli atti: a partire dal 2016 sono entrati quasi 8,5 milioni di euro nella società grazie anche a questi bond sottoscritti, con inizio nel 2017, da due misteriosi “fondi” esteri, basati e Dubai e riferibili alla stessa proprietà.
Lo shopping italiano di Negma
Il primo è Bracknor Investment, con cui Visibilia che aveva chiuso un contratto di investimento da 3 milioni di euro poi passato a Negma Group, che ha accresciuto l'impegno fino a 5 milioni. Negma negli ultimi anni è diventato un importante investitore nella borsa italiana, attratto molto dalle società dove la Santanchè aveva un ruolo apicale come Bioera e Ki Group, ad esempio, oltre a Visibilia.
Tutte società che navigano in cattive acque dove il fondo sta operando con lo stesso schema e che si sommano ad altri nomi di piccole aziende, sempre quotate a Milano, quali Prismi, Askoll Eva, Fidia, ed ePrice, di cui un'importante controllata è appena stata dichiarata fallita dai giudici di Milano. Curiosa questa volontà di puntare spesso su aziende che non attraversano un buon momento.
Tornando a Visibilia editore, i soci si chiedono che fine abbiano fatto questi soldi se poi i debiti hanno continuato a salire e anche le tasse non sono state pagate. In un corposo memoriale inviato alla Consob di cui Dossier ha dato notizia in esclusiva qualche giorno fa, questo gruppo di azionisti molto arrabbiati per la gestione sollevano una serie di dubbi. Uno di questi merita particolare attenzione. Si tratta dei prestiti tra le varie società dalla galassia editoriale della senatrice, che comprende anche Visibilia Editore Holding e Visibilia Concessionaria.
La segnalazione alla Consob
“Tutte aziende riconducibili” a Santanchè scrivono i soci alla Consob, che sono a monte della catena di controllo della società quotata. “Dai bilanci depositati” si legge nel memoriale, “non solo risulta che la Visibilia Editore ha finanziato le sue controllanti, ma addirittura che valuta i crediti verso le stesse a rischio di difficile recupero”.
La Santanchè in una lettera a sua firma datata dicembre 2020, che Dossier ha potuto visionare, aveva invece negato che fossero stati erogati finanziamenti a queste due società, che avrebbero poi utilizzato questi soldi per acquistare azioni di nuova emissione, in palese contrasto con il codice civile. Saranno i giudici a dover capire meglio cosa è successo.
“La circostanza che sia la Visibilia Editore che le sue controllanti sono tutte riconducibile alla senatrice Santanchè, persona politicamente esposta, avrebbero dovuto comportare una vigilanza più accorta e stringente dell’ordinario” dicono gli azionisti alla Consob con un chiaro accento polemico.
C'è da dire che nel mercato dov'è quotata la società - Euronext Growth Milan (ex Aim) – per espressa volontà del Parlamento Consob non vigili sui bilanci, come negli altri mercati di Borsa, ma solo sulla regolarità degli scambi. E quindi sarà il giudice civile, e magari la procura, a dover verificare se il comportamento degli amministratori nella gestione del denaro entrato grazie agli aumenti di capitale sia stato gestito in modo oculato.
A proposito della regolarità degli scambi, il secondo grande problema sollevato dai soci, assistiti dall'avvocato Antonio Piantadosi, è quello dell'effetto sul valore dei titoli di Visibilia Editore nella conversione in azioni delle obbligazioni acquistate negli ultimi anni da Negma. Senza entrare in inutili tecnicismi che distoglierebbero dall'attenzione, il risultato di queste conversioni è stato quello di far crollare letteralmente il valore titolo che già soffriva dei risultati negativi dell'attività editoriale.
Di chi sono i soldi?
Un bagno di sangue per chi ha investito negli scorsi anni, dovuto probabilmente al fatto che questi titoli non erano mantenuti nella proprietà di Negma una volta acquisiti, ma erano immessi sul mercato in grandi quantità, anche a prezzi che hanno lasciato dubbiosi i soci. I quali hanno pensato bene di chiedere lumi in passato su questo fondo ottenendo ben poche risposte. Negma, come riportato nelle scorse settimane da Dossier, ha una sede fisica a Dubai. Ma l'ex collegio sindacale aveva indicato come sede le British Virgin Islands (Bvi), paradiso fiscale offshore caraibico molto opaco. Un rilievo che sempre Dossier ha potuto riscontrare in autonomia e carte alla mano.
Anche Dossier ha fatto qualche approfondimento a proposito. Tempo fa, come già scritto, avevamo rivelato che la sede italiana di Negma in realtà non esiste. Quantomeno nell'indirizzo indicato nel sito internet, cui corrisponde una sede di un coworking dove da più di un anno la società non sarebbe presente. Negma, che presenta essa stessa come un “fondo” che investe a livello internazionale e così è spesso rilanciata dalla stampa, in realtà non sarebbe nemmeno un fondo d'investimento in senso proprio del termine.
E non è un dettaglio da poco. Negli elenchi della Financial service commission delle Isole Vergini Britanniche, l'ente che controlla e autorizza i fondi, non c'è traccia di Negma e nemmeno di Bracknor, l'altro “fondo” che l'ha preceduto e che risulta riferibile sempre alla stessa persona.
Anche in Italia Negma non ha ottenuto nessuna autorizzazione da Banca d'Italia, nemmeno come intermediario finanziario. Eppure, sostengono i soci, quando ha sottoscritto le obbligazioni Visibilia Editore ha preteso il pagamento di una commissione del 5%, come se fosse un intermediario. A che titolo sarebbero dovuti questi soldi se non può agire da intermediario?
Negma è davvero un fondo?
Se quindi non è un fondo (e la questione è ancora aperta perchè potrebbe essere registrato altrove nel mondo, ma al momento non è possibile verificarlo) allora è una semplice società. La differenza non è da poco: anche nelle Isole Vergini Britanniche i fondi sono soggetti a una vigilanza sull'origine del denaro che vi confluisce in gestione. Si può sapere a chi appartiene. Questo è molto difficile da capire per le società, le “limited company” come sarebbe in realtà Negma, che proprio in questi paradisi trovano ampia protezione da occhi indiscreti come hanno dimostrato i tanti scandali del passato come i Panama Papers e i Pandora Papers.
Dossier ha individuato una banca italiana, piuttosto importante e quotata in Borsa, dove è acceso un conto corrente di Visibilia Editore che riceve il denaro da Negma quando quest'ultima acquista le obbligazioni. Denaro in arrivo dall'estero che deve essere sottoposto ad “adeguata verifica” come impongono gli standard normativi internazionali “anti riciclaggio” cui l'Italia si è adeguata con leggi ad hoc. Nel caso vi siano dubbi le banche italiane devono inviare una specifica segnalazione all’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d'Italia.
Abbiamo chiesto dunque alla banca stessa se la filiera dei controlli riguardo le persone politicamente esposte (quale è Daniela Santanchè) fosse stata rispettata. Ci è stato risposto che l’informazione non può essere rilasciata, vista l’esistenza di una privacy molto rigorosa.
Luigi Ferrarella per il Corriere della Sera il 17 settembre 2022.
Ma non era lei, l'onorevole e imprenditrice Daniela Santanchè, la presidente e legale rappresentante della società Biofood Italia srl? Vero, ma «senza alcun ruolo gestionale, operativo, strategico», si è fatta piccola piccola la senatrice di Fratelli d'Italia nell'interrogatorio in Procura per difendersi dall'accusa d'aver aiutato nel 2019 l'ex compagno Canio Giovanni Mazzaro a sottrarre al Fisco i 393.000 euro incamerati dall'uomo con la vendita di una barca a un acquirente maltese per interposta Biofood srl.
La linea di difesa non sarà stata proprio il massimo per una imprenditrice e politica in passato sottosegretaria alla Presidenza del Consiglio e addirittura prima donna relatrice di una legge Finanziaria in Parlamento (nel 2005). Ma penalmente deve essere stata efficace se la senatrice del partito di Giorgia Meloni - pur partendo da quell'avviso di conclusione delle indagini che 7 mesi fa sembrava avviarla per certo alla richiesta di rinvio a giudizio - ora invece vede la Procura di Milano chiederne a sorpresa l'archiviazione, sotto elezioni del 25 settembre alle quali è candidata per il centrodestra nel collegio uninominale Lombardia-11 (Cremona), oltre che nei collegi plurinominali di quattro regioni.
Mazzaro, per il quale il pm Paolo Filippini chiede al contrario il processo, il 19 settembre 2018 ricevette dal Fisco un avviso di accertamento per 589.000 euro, e l'1 aprile 2019 vendette alla maltese Flyingfish Yachting Ltd la sua imbarcazione «Unica» per 393.000 euro: ma per non rischiare che questi soldi, appena accreditati sul proprio conto, venissero pignorati dall'Agenzia delle Entrate, tra sé e l'acquirente interpose la Biofood, nella quale aveva deleghe solo fino a 100.000 euro: a firmare così gli atti della compravendita fu appunto la legale rappresentante Santanchè, benché adesso ai pm rimarchi non solo di non essere mai stata sposata con Mazzaro e di non essergli più stata legata sentimentalmente dal 2006, ma appunto anche di non aver mai avuto ruoli gestionali o operativi in Biofood srl.
Per l'ufficio del procuratore Marcello Viola «l'essersi assunta, nonostante il suo status di soggetto politicamente esposto, un incarico meramente formale di legale rappresentanza, con tutti i rischi giuridici connessi», resta uno dei 5 oggettivi «indici di anomalia» nella vicenda. Ma a motivare il 3 agosto scorso la richiesta di archiviazione di Santanchè, difesa dall'avvocato-parlamentare Ignazio La Russa, è il fatto che, se si prescinde dal rapporto personale con Mazzaro e dal ruolo di legale rappresentante, «al di là di tali prove logiche è carente la prova diretta» che Santanchè avesse con Mazzaro un accordo e sapesse con certezza del suo debito fiscale. Inoltre i soldi della barca (393.000) somigliano (391.000) a quelli che Mazzaro per altre vicende doveva rimettere in cassa a Biofood, sicché in teoria per la legale rappresentante Santanchè la compravendita della barca poteva avere «una sua oggettiva utilità».
Monica Serra per lastampa.it il 4 febbraio 2022.
Tutto ruota attorno a un’imbarcazione, si chiama “Unica”, del valore di 390 mila euro. Una barca che l’ex marito Canio Giovanni Mazzaro, secondo gli investigatori per sottrarsi al pagamento delle tasse, avrebbe venduto a una sua società. Così è finita sotto inchiesta per concorso in sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte la senatrice Fdi Daniela Santanché.
A dare il via alle indagini, condotte dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Paolo Filippini, una segnalazione dell’agenzia delle entrate che, attraverso un controllo relativo al 2013, avrebbe rilevato 300 mila euro di imposte Irpef evase. Debiti tributari che si sommerebbero, stando alle indagini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Gdf, ad altre pendenze per un valore complessivo di un milione e mezzo di euro.
Così, per i magistrati, con l’obiettivo di sottrarsi al pagamento delle tasse, Mazzaro si sarebbe disfatto della barca. L’intera operazione contestata si è svolta nel 2019. Il primo aprile, l’imprenditore l’avrebbe venduta alla società Biofood Italia srl con sede a Milano, all’epoca rappresentata dall’ex moglie Santanché, per poco meno di 400mila euro.
Una vendita che per gli investigatori sarebbe avvenuta senza il pagamento di alcun corrispettivo. Poco più di venti giorni dopo, il 24 aprile, la stessa barca sarebbe stata ceduta per 393mila euro dalla Biofood ad una società di diritto maltese, la Flying Fish Yachting ltd.
Secondo quanto si legge nell’avviso di conclusione indagini appena notificato, la prima vendita dell’imbarcazione sarebbe avvenuta dopo la notifica dell’avviso di accertamento all’imprenditore per i presunti debiti tributari. Da qui l’ipotesi di sottrazione fraudolenta sia per Mazzaro che per Santanché, la quale avrebbe concorso, ritengono i pm, a nascondere la barca, bene dell’ex marito, al Fisco.
Ora gli indagati hanno venti giorni per presentare eventuali memorie o chiedere di essere interrogati, prima che la procura decida se richiederne o meno il rinvio a giudizio.
Lorenzo d'Albergo per "la Repubblica - Edizione Roma" il 24 gennaio 2022.
Uno scontrino da 215 euro da Max Mara in via Condotti, una fermata in un nail bar del centro storico per la manicure, spese per lingerie di Victoria' s Secret a New York. E poi pranzi e cene. Renata Polverini, ex presidente del Lazio e oggi deputata di Forza Italia in agitazione per l'elezione del prossimo presidente della Repubblica, è stata condannata in primo grado a 9 mesi di reclusione per appropriazione indebita. La pena è stata sospesa, ma l'onorevole dovrà comunque restituire 25 mila euro all'Ugl e 5 mila a Confintesa Fp.
Le spese risalgono ai mesi a cavallo tra il 2013 e il 2014, mentre il processo per Polverini era iniziato nel 2016. L'accusa, come si legge nel capo di imputazione, è quella di aver usato una carta ricaricata ogni mese dall'Ugl « per impieghi di carattere strettamente personale (viaggi, borse, capi di abbigliamento e simili)». Sulla Visa affidata all'ex governatrice venivano versati 2 mila euro al mese. Così, com' è emerso durante il processo, aveva deciso l'allora segretario del sindacato, Giovanni Centrella. Altri 3 mila euro mensili finivano invece su una seconda carta assegnata a Stefano Cetica.
A differenza della deputata forzista, l'ex dirigente dell'Ugl è stato assolto per insufficienza di prove: pur a fronte di una gestione « allegra » , come si legge nella sentenza, l'incarico che il manager ricopriva per il giudice basta a giustificare il rimborso spese e i prelievi in contanti.
La lista delle spese che la sentenza mette in carico a Renata Polverini è lunga: nell'elenco ci sono shopping da Max Mara con lo scontrino «abbinato alla scheda cliente Polverini » e le « spese voluttuarie » registrate tra il 3 e il 10 luglio 2013. In quei giorni l'ex presidente del Lazio e Cetica erano entrambi «a New York, dove si erano recati insieme per un viaggio di piacere».
Risultano altre spese a Parigi, cene al Caminetto e pranzi a Cerveteri. Acquisti che Polverini ha sempre negato di aver effettuato. Davanti al pm, l'onorevole ha assicurato di non essere mai stata in possesso di alcuna carta di credito: «Non era nella mia disponibilità. Mi risulta che fosse nella sede dell'Ugl di via delle Botteghe Oscure e pertanto a disposizione di Stefano Cetica, in quanto responsabile della struttura».
Quindi sulle spese: «Non posso escludere che qualcuno abbia utilizzato la carta mentre si trovava in mia compagnia in qualche negozio. Escludo di averla utilizzata io». Per la deputata era Cetica a utilizzare la carta per rimborsare « anche alcune mie attività a sostegno del sindacato».
Una versione confermata, nail bar incluso, da Cetica. Tanti i dubbi del giudice, che nella sentenza etichetta come «stringate e bizzarre» le parole di Polverini e bolla come maldestro, ai limiti dell'autocalunnia, il tentativo dello stesso Cetica di difenderla. Per l'ex governatrice replica l'avvocata Irma Conti. Nel suo appello, la legale punta a «evidenziare le prove che non sono state correttamente valutate dal giudice di primo grado. Basti pensare a una spesa fatta in farmacia, addirittura riconducibile ad un codice fiscale non di Polverini. Ovviamente Cetica ha prodotto tutte le ricevute delle spese fatte per l'attività sindacale e per l'intero importo attribuito a Polverini».
Daniela Santanchè, Domani: "Nei conti del Twiga...". Libero Quotidiano l'01 novembre 2022
Usano anche il Twiga per colpire Giorgia Meloni e la sua ministra, Daniela Santanchè. Dopo aver attaccato Guido Crosetto (rimediando una querela), il direttore del Domani Stefano Feltri affida alla penna di Nello Trocchia un "reportage" sui conti del locale simbolo della movida della Versilia, di cui la neo-ministra del Turismo è socia storica in tandem con l'amico imprenditore Flavio Briatore. Proprio per la sua esperienza nel settore, la senatrice di Fratelli d'Italia a sinistra è stata subito sprezzantemente ribattezzata "la ministra del Twiga" e dipinta come un pupazzo nelle mani dei balneari.
Dopo che la Santanchè ha chiarito di non aver intenzione di cedere le sue quote societarie, ecco però partire l'attacco in grande stile del giornale edito da Carlo De Benedetti, che dedica alla Pitonessa la foto di prima pagina con un titolo che è tutto un programma: "Nei bilanci del Twiga c'è l'Italia che piace alla destra". Dentro, a pagina 3, si spiega tutto: la creatura di Santanchè e Briatore "racconta cosa significano gli interessi e come rischiano di entrare in conflitto con gli incarichi istituzionali, ma racconta anche le fatiche di fare impresa in Italia e quello stato 'impiccione' che, secondo la destra, disturba chi lavora".
Dopo aver scavato nei registri contabili della società, assicura Trocchia, ecco spuntare "aiuti dallo stato, libertà d'impresa e pace fiscale". Alla Santanchè, che pure ha annunciato che non avrà le deleghe dei balneari (basterebbe questo per allontanare le accuse di conflitto d'interessi, ma tant'è), viene anche contestato il fatto di aver usato il locale di Forte dei Marmi come sfondo per le sue partecipazioni televisive in cui contestava le politiche del governo italiano e dell'Unione europea contro il settore oppure attaccava il reddito di cittadinanza. Non è chiaro dove sia lo scandalo, ma tutto fa brodo.
Semmai, il fatto che la Santanchè sia fosse esposta mediaticamente contro i governi di centrosinistra da cui la società di cui è azionista di minoranza ha ricevuto sussidi dovrebbe testimoniare quanto la sua battaglia fosse ideologica, non di facciata o per sola convenienza. Nel dettaglio, i proprietari del Twiga a fronte della pandemia Covid hanno ricevuto dallo Stato "141mila euro di contributi a fondo perduto (ristori), 9mila euro di contributi per la sanificazione e acquisto mascherine, 14mila euro di contributi per canoni di locazione, 3.748 euro per acquisto di beni strumentali e primo acconto Irap di 12.983 euro non dovuto grazie al decreto Rilancio. In tutto 180mila euro dal governo dei balletti".
Uno scandalo, per il Domani. Che non ricorda come le proteste della Santachè erano legate ai ristori minimi e in ritardo rispetto alle esigenze di un settore allo stremo dopo mesi di tira-e-molla su aperture, chiusure, lockdown e limitazioni. Forse, avrebbe dovuto semplicemente incassare (poco), tacere. E, magari, chiudere.
Daniela Santanché: "Io indagata? Tutto falso". Libero Quotidiano il 02 novembre 2022
E' un giallo l'iscrizione sul registro degli indagati del neo ministro al Turismo, Daniela Santanché. Secondo alcune fonti investigative la Santanché risulterebbe indagata dalla procura di Milano per falso in bilancio nelle comunicazioni sociali nell'inchiesta che riguarda il fallimento della Visibilia editore, società di cui è stata la fondatrice e di cui ha dismesso le quote, ma lei smentisce ed è pronta a querelare. Un giallo in cui non si trova la sintesi. La Santanchè, contattata dall'Adnkronos, smentisce seccamente e preannuncia querele. Stando a fronti investigative si tratta di una iscrizione 'top secret' che nasce dall'inchiesta del pm di Milano Roberto Fontana che ha avanzato un'istanza di "liquidazione giudiziale" sulla società editoriale. Dall'annotazione della polizia giudiziaria trasmessa dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Milano emerge lo stato di insolvenza, mentre dalle analisi contabili vengono quantificato debiti scaduti, ossia iscritti a ruolo, nei confronti dell'Agenzia delle Entrate per 984.667,14 euro, con data di notifica delle prime cartelle a partire dal 2018.
La ministra, come detto, respinge con forza ogni addebito. "E' falso che io sia indagata. Querelerò tutti coloro che vicino a Visibilia scrivono Santanchè, visto che io ho venduto tutte le quote. E peraltro nel caso di specie non solo non è indagata la Santanchè ma non c'è nessun indagato, perché il fascicolo è aperto a 'modello 45', quindi senza indagati" le sue parole all'Adnkronos. La società ha conferito mandato ai propri legali per "acquisire la documentazione a supporto dell'istanza della procura di Milano" e contestare "la sussistenza dello stato di insolvenza, non ritenendo gli inadempimenti richiamati quali elementi di prova di incapacità della società a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni". Visibilia eserciterà quindi le "prerogative difensive entro l'udienza fissata per il 30 novembre 2022".
E nell'interesse della senatrice Santanché scende in campo anche l'avvocato Salvatore Sanzo, il quale - in una nota - rimarca che la ministra "non risulta indagata in alcun processo penale e da anni non ricopre alcuna carica in Visibilia Editore" e di come "non risponde al vero che 'sia aperto un fascicolo per ipotesi di bancarotta fraudolenta', stante l'assenza del presupposto obiettivo della liquidazione giudiziale della società, soltanto ipotizzata in astratto". Non solo, si sottolinea come "Visibilia Editore spa sta assumendo in ogni sede opportuna le iniziative affinché l'Autorità giudiziaria possa riconoscere l'assenza di tale presupposto ed in particolare, come evidenzia un comunicato della società, gli azionisti di riferimento della stessa - Reale Ruffino e Sif Italia spa - hanno manifestato la disponibilità ad intervenire, ove necessario, per adempiere ad ogni obbligazione nei confronti dell'Agenzia delle Entrate". Per il legale Sanzo "ogni diversa rappresentazione dei fatti non corrisponde alla effettiva realtà degli stessi ed è lesiva della reputazione della senatrice Santanchè".
Indagine sui conti della Visibilia: guai per Santanchè. Tra debiti con lo stato e soci misteriosi. GIOVANNA FAGGIONATO su Il Domani il 02 novembre 2022
La procura di Milano ha deciso chiedere il fallimento per la società amministrata fino a novembre 2021 dalla ministra del Turismo Daniela Santanchè.
Da amministratrice della Visibilia Editore Spa ha accumulato debiti tributari col fisco. I soci di minoranza hanno presentato un esposto in cui la accusano di averli danneggiati.
Un anno fa tre azionisti avevano denunciato al collegio sindacale presunte scorrettezze nella acquisizione del capitale della società da parte di fondi emiratini.
La procura di Milano ha chiesto il fallimento per la società Visibilia Editore, di cui la ministra del Turismo, Daniela Santanchè, fino a poco tempo fa era prima azionista, ed è stata fondatrice, presidente e amministratore delegato fino al novembre del 2021. Secondo i magistrati che hanno chiesto il fallimento dell’azienda, la società è «in evidente e manifesto stato di insolvenza». I soci di minoranza contestano perdite costanti a partire dal 2016 e secondo una informativa della Guardia di finanza citata nell’istanza dei magistrati si ipotizza il falso in bilancio per irregolarità nei conti. «La Visibilia è una società quotata, io non sono indagata e non c’è nessun indagato e chi scrive cose non vere si prenderà una querela», dice Santanchè a Domani.
La Guardia di finanza ha preso in esame gli ultimi anni di gestione. Nel 2019 e 2020 la società ha registrato perdite pari a un terzo del capitale sociale. Santanchè ha dato le dimissioni nell’autunno 2021. Dal bilancio 2021 in poi, i revisori non hanno più voluto mettere la firma sui conti. A giugno le perdite della società ammontavano a 600mila euro, il patrimonio netto consolidato a 300mila euro, la posizione finanziaria netta negativa per 3,9 milioni di euro. Ma solo perché nell’assemblea del 30 giugno 2022 si è deciso di coprire interamente con il capitale perdite pari a 3,5 milioni di euro. Per via di tutte le incertezze i revisori hanno concluso: «Non siamo in grado di esprimere una conclusione sul bilancio consolidato».
Contributi non pagati
A giugno scorso otto soci hanno presentato un esposto per contestare la recente gestione societaria degli amministratori, quindi anche di Santanchè, che avrebbe secondo loro danneggiato l’azienda. La guardia di finanza ha analizzato i conti e da qui è arrivata la richiesta di fallimento della procura e con tutta probabilità l’apertura di un fascicolo di indagine. Visibilia ha fatto sapere che contesterà l’istanza di fallimento, collegandola al già grave mancato pagamento di tributi allo stato per un milione di euro. L’udienza in tribunale è fissata il 30 novembre.
Eppure già nel bilancio 2020, l’ultimo depositato in Camera di commercio, si registravano debiti per 6milioni e 900 mila euro, di cui 2milioni di debiti tributari e 796mila verso gli istituti di previdenza, mentre 1,66 milioni erano i debiti verso le banche e 1,432 verso i fornitori.
I bilanci
Nel 2021 i debiti tributari ammontavano a 1,7 milioni e quelli previdenziali a 448 mila euro, nella prima metà del 2022 sono saliti rispettivamente a 2,1 milioni e 600 mila euro. Gli amministratori, cioè la ministra Santanchè (nel novembre 2021 è stata sostituita dal compagno Dimitri d’Asburgo Lorena) spiegavano nella relazione del 2020 di ritenere di «avere oggi la ragionevole aspettativa che la società sarà in grado di avere adeguate risorse per continuare ad operare in un prevedibile futuro o di disporre di adeguate risorse finanziarie per continuare l’attività operativa». I soci di minoranza, che allora rappresentavano circa l’ 8 per cento del capitale, la pensavano diversamente.
Nel 2020 la Visibilia Editore era controllata per il 58,16 per cento della Visibilia Editore holding e dalla Visibilia Concessionaria srl per il 7,45 per cento, mentre più di un terzo delle quote erano sul mercato. L’unico altro azionista che deteneva una quota maggiore dell’un per cento era Giuseppe Zeno (con il 3,9 per cento), un finanziere fondatore della Giuseppe Zeno Family group basata a Monaco e rappresentante di società alle Cayman, dove secondo il registro delle imprese britannico avrebbe residenza anche lo stesso Zeno e che rappresenta anche un secondo azionista della società, la società britannica Merchant Credit Ltd. Domani ha provato a contattare la Giuseppe Zeno Family Group, sia via mail che per telefono: alla mail non ha risposto, mentre al numero di telefono con prefisso svizzero indicato sul sito della società risponde una signora che dice di fare l’ortopedica a Zurigo.
I fondi degli Emirati
Sta di fatto che Zeno si presenta all’assemblea del 2021 presieduta da Santanché e verbalizzata dal compagno della ministra Dimitri Lorena Kunz d’Asburgo, allora consigliere della Visibilia e segretario, con la delega di rappresentare gli altri soci e bocciare il bilancio. Santanché tira dritto, anche se lascia il ruolo di amministratrice e presidente al compagno e ottiene nuovi capitali da fondi di investimento degli Emirati Arabi.
La Visibilia ha sottoscritto un primo contratto per un prestito obbligazionario con il fondo degli Emirati Bracknor Ltd nel 2017 per un valore di 3milioni di euro, che nel 2019 è stato ceduto a un’altra società di Dubai, la Negma Group Ltd.
Il prestito obbligazionario viene progressivamente convertito in azioni con la società di Dubai che entra nel capitale della Visibilia Editore. Nel 2021, Santanché conferisce tutte le attività editoriali a una nuova società e intanto firma un nuovo contratto con Negma per un nuovo prestito sempre obbligazionario da due milioni di euro.
La lettera di contestazione
Nell’ottobre del 2021, poco prima della firma del nuovo contratto, i soci di minoranza Giuseppe Zeno, Massimo Palmentieri e Ciro Russo, contestano che la conversione delle obbligazioni abbia fatto crollare il titolo della Visibilia.
E chiedono al collegio sindacale anche di verificare la composizione societaria dei fondi degli Emirati e la natura delle acquisizioni di Bracknor e Negma Group Ltd in seno alla Visibilia, a Visibilia Editore Holding e a Visibilia Concessionaria. La tesi dei soci è che ci siano stati degli errori nella conversione delle obbligazioni in azioni, che la quota della società emiratina sia stata sopravvalutata e che quindi tutti gli atti siano nulli.
Intanto dalla relazione semestrale al 30 giugno 2022 la composizione societaria è profondamente cambiata: Visibilia Editore Holding ora detiene circa il 12 per cento, Visibilia concessionaria il 2,97 per cento, Negma è salita all’8 per cento e il restante 76 per cento è sul mercato e a marzo è entrata in consiglio dei amministrazione la sorella Fiorella Garnero.
Poi, due settimane fa, dopo denunce, esposti degli azionisti e conti non approvati, la fondatrice ha tolto il disturbo, dismettendo le quote e prendendo serenamente posto nel governo Meloni. Almeno fino a ieri.
GIOVANNA FAGGIONATO. Giornalista specializzata in economia e affari europei. Prima di arrivare a Domani, ha lavorato a Milano e Bruxelles, per il Sole 24 Ore e Lettera43.
LA MINISTRA SANTANCHÈ INDAGATA PER BANCAROTTA E FALSO IN BILANCIO. LA PROCURA CHIEDE IL FALLIMENTO DELLA SOCIETÀ VISIBILIA. Sandro De Riccardis, Luca De Vito per repubblica.it il 2 novembre 2022.
Un "evidente e manifesto stato di insolvenza" ha portato la procura ad avanzare istanza di fallimento per Visibilia editore, la società di cui è stata fondatore e primo azionista il ministro del Turismo Daniela Santanchè. Dagli atti emerge come anche la senatrice di Fratelli d'Italia sia indagata per bancarotta e false comunicazione sociali.
Nei confronti della società editrice, il pm di Milano Roberto Fontana ha avanzato quella che tecnicamente è un'istanza di "liquidazione giudiziale", ossia una richiesta di fallimento. Le analisi contabili hanno quantificato debiti scaduti nei confronti dell'Agenzia delle Entrate per circa 984mila euro.
L'indagine condotta dal Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza di Milano è partita da un esposto dei soci di minoranza e ha evidenziato come i bilanci "tra il 2016 e il 2020" abbiano avuto "costanti perdite già a far data dall'esercizio 2016". In una informativa della Gdf vengono analizzati i rilievi sollevati dai titolari delle quote - dalla cui denuncia è nata anche una causa civile per "gravi irregolarità nella gestione" - ed emergerebbero "false comunicazioni sociali relative ai bilanci, almeno dal 2017, con particolare riguardo alle voci "avviamento" e "imposte anticipate"".
Per discutere l'istanza di liquidazione giudiziale, il Tribunale fallimentare ha fissato udienza per discuterla per il 30 novembre.
Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 2 novembre 2022.
Pronta la replica dell'interessata: «È falso che io sia indagata. Querelerò tutti coloro che vicino a Visibilia scrivono Santanchè, visto che io ho venduto tutte le quote. E peraltro nel caso di specie non solo non è indagata la Santanchè ma non c'è nessun indagato, perché il fascicolo è aperto a `modello 45´, quindi senza indagati», conclude Santanchè.
Da “Libero quotidiano” il 2 novembre 2022.
Un mese, qualche giorno di meno. Poi l'udienza, e a quel punto sarà più chiaro il futuro dell'azienda, o comunque ci sarà qualche informazione ulteriore. Per il momento, in assenza di elementi aggiuntivi, ci si deve attenere alla comunicazione che "Visibilia Editore", società che fa capo al ministro del Turismo Daniela Santanchè (Fdi), ha inoltrato agli organi di informazione. «La società quotata su Euronext Growth Milan, sistema multilaterale di negoziazione organizzato e gestito da Borsa Italiana, rende noto che in data 31 ottobre 2022 è stata notificata dal Tribunale di Milano - Sezione Seconda civile - la fissazione, al 30 novembre 2022, dell'udienza per l'accertamento dei presupposti per la liquidazione giudiziale».
In pratica vorrebbe dire fallimento. «Il procedimento», prosegue la nota, «è stato promosso dalla Procura della Repubblica di Milano sulla base di un prospetto trasmesso dall'Agenzia delle Entrate-Riscossione che riporta iscrizioni a ruolo a carico della Società, per 984 mila 667 euro e 14 centesimi. La Società eserciterà le prerogative difensive entro l'udienza fissata», dicevamo, per il 30 novembre.
«L'emittente comunica di aver conferito mandato ai propri legali per acquisire la documentazione a supporto dell'istanza della Procura della Repubblica di Milano e che contesterà la sussistenza dello stato di insolvenza, non ritenendo gli inadempimenti richiamati quali elementi di prova di incapacità della società a soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni».
"Visibilia Editore", dunque, ritiene di essere a posto, che non sussistano i presupposti per la liquidazione giudiziale. Nel frattempo il ministro Santanché ha già avviato i primi dossier sul turismo. Ha parlato di «dati incoraggianti» per il ponte del primo novembre. «Il settore resiste nonostante la crisi ma è nostro dovere sostenerlo sempre più». Soddisfazione anche per l'alleggerimento sul Covid e «pugno duro contro le mafie».
Daniela Santanchè indagata per falso in bilancio nei conti di Visibilia Editore spa. Ma lei nega: «Ho venduto le mie quote». Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022
I pm chiedono il fallimento della società. La GdF: «Situazione di squilibrio finanziario». La replica dell'interessata: «Querelerò tutti coloro che vicino a Visibilia scrivono Santanchè»
La neo ministra del Turismo e senatrice di Fratelli d’Italia, Daniela Santanchè, è indagata dalla Procura di Milano per l’ipotesi di reato di falso in bilancio nelle comunicazioni di Visibilia Editore spa, di cui fino allo scorso 23 gennaio è stata presidente dal 2016. Lo si deduce dall’incrocio tra due norme della legge fallimentare e alcuni degli atti allegati al ricorso con cui la Procura ha chiesto alla sezione Fallimentare del Tribunale civile di Milano l’apertura della liquidazione giudiziale (cioè il fallimento ai sensi del codice della crisi d’impresa) perché la società «versa in uno stato irreversibile di crisi assimilabile a tutti gli effetti al concetto di insolvenza prospettica, intesa come “incapacità non solo passata, ma anche e soprattutto futura, di pagare i propri debiti” in un ragionevole arco temporale».
Tantomeno i debiti iscritti a ruolo con il Fisco per 984.000 euro di cartelle emesse dal 2018. A evocare «la sussistenza del reato di false comunicazioni sociali delle società quotate (art.2622), con particolare riferimento alle voci avviamento e imposte anticipate», sono le conclusioni dei militari del Gruppo Tutela Mercati della Gdf di Milano in una annotazione depositata nella già nota inchiesta aperta dai pm Fontana e Gravina dopo la denuncia di alcuni piccoli azionisti, i quali lamentavano «gravi irregolarità nella gestione della società» e «omissioni negli organi di vigilanza come i revisori contabili». Sulla scorta della «analisi di liquidità, solidità e redditività» di Visibilia Editore spa, infatti, la GdF restituisce «il quadro complessivo di una società in situazione di squilibrio finanziario», nella quale «si può pacificamente osservare che, oltre alle importanti svalutazioni intervenute sugli asset societari, anche le opinabili ricerche di finanziamenti esteri operate dal consiglio di amministrazione hanno senz’altro contribuito al sostanziale downgrade societario».
Tanto che gli inquirenti, procedendo a una rettifica dei bilanci pur nell’ottica migliore possibile per la società, concludono che «già a partire dall’esercizio 2017 il consiglio di amministrazione avrebbe dovuto approvare i bilanci riportanti valori di “avviamento” e “imposte anticipate” largamente diversi da quelli deliberati». Invece quello che è avvenuto, secondo la GdF, è che Visibilia a partire dall’esercizio 2016 ha riportato costanti perdite, seppure calmierate dalla erronea contabilizzazione delle poste dell’attivo patrimoniale «avviamento» e «imposte anticipate». E le iniezioni di liquidità derivanti dal finanziamento «hanno sì permesso la prosecuzione dell’attività imprenditoriale, ma anche causato di fatto il crack del valore azionario regredito del 99,97%».
Pronta la replica dell'interessata: «È falso che io sia indagata. Querelerò tutti coloro che vicino a Visibilia scrivono Santanchè, visto che io ho venduto tutte le quote. E peraltro nel caso di specie non solo non è indagata la Santanchè ma non c'è nessun indagato, perché il fascicolo è aperto a `modello 45´, quindi senza indagati», conclude Santanchè.
Le accuse alla società della Santanchè: bancarotta e false comunicazioni. Ed un conflitto d’interesse imbarazzante. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Novembre 2022
I revisori della Bdo non sono stati in grado di esprimersi sul bilancio 2021 di liquidazione di Visibilia Editore. La società, su richiesta da Consob, lo scorso 20 giugno ha confermato i suoi conti, ma anche i nuovi revisori di Rsm non si sono espressi neanche sulla semestrale chiusa con 600 mila euro di perdita e debiti netti per 3,9 milioni, ed a giugno alcuni azionisti hanno sporto ricorso civile al Tribunale di Milano per presunte “gravi irregolarità” di gestione.
La denuncia dei soci di minoranza di Visibilia, la società editrice da cui Daniela Santanchè è uscita due settimane fa, ha trovato i primi riscontri nelle indagini condotte dai pm Roberto Fontana e pm Marina Gravina della Procura di Milano e del Nucleo di polizia economico finanziario della Guardia di Finanza di Milano, che hanno rilevato “Gravi irregolarità nella gestione della società” e “rilevanti omissioni degli organi di vigilanza“.
Daniela Garnero Santanchè (il cognome del primo marito, chirurgo estetico), è stata eletta cinque volte in Parlamento come deputata e senatrice tra An, PdL, Forza e Fratelli d’Italia dopo deviazioni con La Destra (movimento fondato da Francesco Starace) ed il proprio Movimento per l’Italia, dissoltosi nel nulla.
“E’ assolutamente falso che io sia indagata e daremo corso a azioni legali” ribatte la Santanchè supportata dal suo legale, l’avvocato Salvatore Sanzo che smentisce l’esistenza di un fascicolo per bancarotta “mancando il presupposto obiettivo della liquidazione giudiziale”, esibendo il documento della Procura di Milano richiesto dall’avvocato Nicolò Pelanda con il quale si conferma la non iscrizione della Santanchè nel registro degli indagati della Procura.
La legge fallimentare prevede che una Procura possa indagare e iscrivere per bancarotta anche in pendenza dell’istanza di fallimento e prima della dichiarazione di default. La vicenda della società Visibilia rientra in questo caso, come hanno ricostruito le Fiamme Gialle che hanno analizzato i bilanci dal 2016 al 2020, ipotizzando lo stato di insolvenza.
«Visibilia Editore ha registrato costanti perdite già dall’esercizio 2016, seppur calmierato dall’erronea contabilizzazione delle poste dell’attivo patrimoniale “avviamento” e “imposte anticipate”»– sono le conclusioni della Gdf che spiega che «le iniezioni di liquidità derivanti dal finanziamento attraverso Poc (prestito obbligazionario convertibile) cum warrant hanno sì permesso la prosecuzione dell’attività, ma anche di fatto causato il crack del valore azionario regredito del 99,97 per cento». Secondo la Guardia Finanza, non vi sono prospettive di continuità aziendale, in quanto «l’irreversibilità dello stato di crisi di Visibilia, assimilabile a tutti gli effetti al concetto di insolvenza prospettiva» è relativa alla «incapacità non solo passata, ma anche e soprattutto futura di pagare i propri debiti in un ragionevole arco temporale».
I soci di minoranza della società Visibilia detentori di oltre il 5 per cento del capitale sociale nel loro esposto di giugno, riferiscono di aver investito nella società della Santanchè per le prospettive di sviluppo on line delle testate, ma soprattutto per “la fiducia che ispirava una tale figura istituzionale» e per i controlli più stringenti a cui sono soggette le «persone politicamente esposte“. Ma queste considerazioni si sono rivelata contraria alle aspettative dell’investimento effettuato. I firmatari dell’esposto sostengono che il crollo del valore dei titoli sia stato conseguente innanzitutto a causa del contratto di finanziamento dell’ottobre 2017 sottoscritto tra Visibilia Editore ed un fondo degli Emirati arabi Bracknor Investment Ltd, che è stato ceduto nel maggio 2019 a un altro fondo, Negma Group Ltd. Società che con la conversione delle obbligazioni in azioni hanno poi “concorso significativamente a far crollare il valore del titolo”.
Nel 2007 la Santanchè aveva fondato la concessionaria Visibilia che raccoglieva pubblicità per i quotidiani Libero, Il Riformista e Il Giornale all’epoca diretto dal suo ex compagno Alessandro Sallusti, ora direttore del quotidiano Libero edito dalla famiglia Angelucci. Nel 2014 la Santanchè edita Ciak, Pc Professionale e Villegiardini rilevate dalla casa editrice Mondadori, e l’anno successivo nel 2015 rileva dalla RCS Periodici i settimanali Novella 2000 e Visto. Insieme all’ex compagno Canio Mazzaro, con il quale ha avuto il figlio Lorenzo, acquista la società alimentare Ki Group e quella di arredamento di esterni Unopiù.
Dopo aver licenziato ad agosto 2017 tutti i 14 dipendenti di Visto e Novella2000, le due testate acquisite da Rcs, la società Visibilia Magazine è stata liquidata, e viene liquidata anche la Dani Comunicazione (la 1a società fondata dalla Santanchè a Milano) e la Albatross Srl. I numeri sono impietosi: la Visibilia Srl (in liquidazione) ha segnato nel 2020 perdite in bilancio per 3,36 milioni, la D1 Partecipazioni (in liquidazione) di 33 mila.
Nel 2021 la Visibilia Concessionaria ha chiuso il suo bilancio di esercizio in perdita di 149 mila euro, la società Immobiliare Dani di 4.900 euro . I revisori della Bdo non sono stati in grado di esprimersi sul bilancio 2021 di liquidazione di Visibilia Editore. La società, su richiesta da Consob, lo scorso 20 giugno ha confermato i suoi conti, ma anche i nuovi revisori di Rsm non si sono espressi neanche sulla semestrale chiusa con 600 mila euro di perdita e debiti netti per 3,9 milioni, ed a giugno alcuni azionisti hanno sporto ricorso civile al Tribunale di Milano per presunte “gravi irregolarità” di gestione.
La Santanchè è stata amministratore dal 2019 al 4 marzo scorso di Bioera – società quotata all’Aim, gestita da Canio Mazzaro che nel 2013 aveva comprato per 900mila euro il 40% di Visibilia – e dal 2019 sino al 2020 anche di Ki Group: i revisori della Rsm non sono stati in grado di esprimersi né sui conti 2021 e la semestrale 2022 di Bioera né su quelli 2021 di Ki Group, che negli ultimi mesi ha ridotto i dipendenti da una sessantina a 7 grazie ad uscite volontarie, licenziamenti e ingiunzioni per il pagamento di stipendi, contributi e Tfr.
La Procura di Milano ipotizza anche una frode fiscale da 393 mila euro nella compravendita di uno yacht. Sulla Biofood Italia Srl, un’ altra società che univa Mazzaro e la Santanchè, a fine settembre i pm hanno chiesto l’archiviazione per la neoministra, ma non per l’ex compagno Canio Mazzaro: nonostante fosse presidente e rappresentante legale e società, Daniela Santanchè ha provato di non avere ruoli operativi, e quindi poteva non sapere delle questioni fiscali.
Anche lo stabilimento balneare Twiga di Forte dei Marmi, amministrato dall’ attuale compagno della Santanchè, il “principe D’Asburgo”, Dimitri Kunz, non naviga in buone acque . Il bilancio 2021 riporta incassi (ricavi) per 6,24 milioni di euro, a fronte di una concessione demaniale pagata allo Stato appena 20 mila euro, ed un utile di esercizio 435.151 euro. La società ha debiti per 4,17 milioni, 1,05 dei quali sono tributari (Fisco) e previdenziali e 1,37 con le banche (con Banca Versilia Lunigiana e Garfagnana e con il Mps per un prestito del 2020 con scadenza 2028).
Nella relazione è presente una sanzione dell’Ispettorato del lavoro per 68.043 euro “impugnata nelle sedi opportune”: l’azienda Twiga ha 180 dipendenti cui applica i contratti del turismo/pubblici esercizi per chi lavora in discoteca e ristorante e quello turismo/stabilimenti balneari per gli addetti al bagno. A giugno 2021 l’Agenzia delle Entrate ha notificato alla società due ingiunzioni di pagamento contestando il ritardato pagamento di due rate dei piani di ammortamento relativi alla verifica fiscale fino al periodo di imposta 2015. La società ha fatto “tempestivo ricorso in autotutela alla Commissione Tributaria in parte accolto con una riduzione dell’importo richiesto di 101.955 euro”. Ma c’è anche un accertamento sull’imposta di registro applicata, per un maggior tributo di 23.897 euro.
Sulla neoministro Santanchè pende il rischio di megaconflitto d’interesse sul business balneare. Infatti il ministero del Turismo dovrà predisporre le nuove, fondamentali gare per tutto il settore in attuazione del Ddl concorrenza. Il Twiga ribatte che la “dottoressa Garnero Santanchè non ha nessun incarico e ruolo nella società ed è socio indiretto di minoranza”. Ma in un’intervista di fuoco rilasciata il 20 agosto scorso al quotidiano economico Verità & Affari diretto da Franco Bechis, dal titolo “Draghi ha svenduto i lidi all’Ue, per noi viene prima l’Italia”, la Santanchè in campagna elettorale affermava che “il Twiga non è un divertimento ma un impegno molto serio e totale, sono vent’anni che non faccio vacanze. I bandi 2023 sugli stabilimenti balneari approvati dagli ultimi governi mettono a rischio molte famiglie”.
Probabilmente il premier Meloni per risolvere questo insanabile conflitto di interessi della Santanchè dovrà togliere la delega sulle concessioni balneari alla Santanchè delegandola al nuovo ministro del Mare. Resta da chiedersi: ma è stato opportuno nominarla ministro? Redazione CdG 1947
Le furbate della Santanchè con i soldi della cassa Covid ed i “profondi rossi” delle sue società. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Novembre 2022. Di Nicola Borzi e Thomas Mackinson (articolo tratto da Il Fatto Quotidiano)
Durante il lockdown la sua Visibilia ha richiesto la Cig a zero ore. Il manager al telefono: “I dipendenti? Tutti qui al lavoro”. Anche le altre avventure imprenditoriali della senatrice di Fratelli d’Italia non sono esattamente dei successi.
di Nicola Borzi e Thomas Mackinson*
Marzo 2020. L’Italia sprofondava nella prima ondata del Covid, la pandemia entro fine aprile avrebbe fatto quasi 30 mila vittime. Lockdown, imprese ferme, disoccupazione, famiglie in difficoltà. Il 17 marzo il governo Conte emanava d’urgenza il decreto legge “Cura Italia” con i sostegni per famiglie, lavoratori e aziende. In quei giorni anche Visibilia Editore, società quotata in Borsa il cui azionista di maggioranza (48,6%) all’epoca era la senatrice di Fratelli d’Italia – e oggi ministro del Turismo – Daniela Santanchè, faceva domanda per gli aiuti della Cassa integrazione Covid. Ma alcuni dipendenti di Visibilia ufficialmente in cassa integrazione a zero ore, percependo gli aiuti Inps, continuavano invece a lavorare a orario pieno.
La vicenda emerge da documenti in mano alla Consob, che Il Fatto ha potuto esaminare, e coinvolge tanto la società quanto il ministro Santanchè, che all’epoca ne era presidente e amministratore delegato. Non basta: secondo i documenti i fatti sono proseguiti con forme diverse almeno sino al novembre 2021, nonostante fossero noti a manager ed esponenti di Visibilia, tra i quali Dimitri d’Asburgo Lorena, compagno della Santanchè subentratole ai vertici aziendali a fine 2021.
Il 22 marzo 2020 Visibilia Editore comunicava che nonostante “le misure restrittive annunciate dal presidente del Consiglio e la decisione del governo di chiudere tutte le attività non essenziali fino al 3 aprile” non avrebbe “bloccato la produzione e la vendita dei giornali. L’attività operativa viene garantita in smart working e dove necessario fisicamente garantendo la piena compliance rispetto alle misure di sicurezza”. Il 20 aprile seguente il consiglio di amministrazione di Visibilia Editore, presieduto da Santanchè, “con l’obiettivo di tutelare la solidità finanziaria dell’impresa” deliberava “di mantenere invariato l’organico, ma di ricorrere allo strumento della cassa integrazione in deroga, con diversi regimi per il personale, dal 2 marzo 2020 e per le successive nove settimane, per equilibrare, parzialmente, l’assenza degli incassi storici. La cassa integrazione ordinaria prevede il versamento al lavoratore di un’indennità pari all’80% circa, in funzione dei massimali di legge, dello stipendio che avrebbe percepito se avesse potuto effettuare il suo normale orario di lavoro. L’azienda integrerà al 100% la retribuzione netta mensile di tutti i dipendenti che dovranno accedere alla cassa integrazione prevista dal decreto Cura Italia”.
Ma i documenti nelle mani della Consob raccontano un’altra storia: la parte della retribuzione a carico di Visibilia Editore è stata mascherata anche come “rimborso chilometrico”. La società avrebbe inoltre compilato, all’insaputa di alcuni dipendenti, le autocertificazioni Inps, coinvolgendo manager che non potevano restare “a zero ore” per il ruolo apicale e la funzione pubblica rivestiti. A continue richieste di regolarizzazione della situazione, uomini di Visibilia Editore avrebbero chiesto di tacere. Ne emerge traccia in alcune telefonate in mano a Consob.
Tra queste una conference call del 12 novembre 2021 alla quale parteciparono alcuni manager di Visibilia e Dimitri d’Asburgo Lorena, oggi presidente e Ad. Un manager lamentava “non avendo avuto mai comunicazioni in merito alla cassa integrazione, che tipo fosse, quando iniziasse… buste paga ricevute sei mesi dopo… ho detto “ma mi mandi una comunicazione ufficiale della cassa integrazione?”, non m’è mai arrivato niente. Sono andato al Caf e ho detto “senta l’azienda mi chiede questo” lei mi ha fatto domande… ho detto “guardi non so niente, perché comunicazioni non ne ho”. Ho provato a chiedere all’Inps perché poi i soldi me li manda l’Inps. Lei si è presa le buste paga, m’ha detto “scusi ma lei è in cassa integrazione a zero ore? Dico “ma dove lo legge”, “Si capisce perché c’è scritto, lavorato zero, vede la sua busta paga addirittura in negativo”. Dico “Cosa vuol dire?”, “Che lei non deve lavorare”, “Come non devo lavorare!?”, “Ma lei sta lavorando?”, “Sì! Cioè non ho mai smesso di lavorare”. Mi ha detto “guardi che lei in questo modo…” mi ha detto, è complice… che praticamente sto commettendo un illecito. Mi ha detto “lei deve smettere di lavorare, mandi una Pec all’azienda”. Mi ha fatto vedere la legge, articoli di giornale: i dipendenti vengono perseguiti come reato di truffa aggravata allo Stato…”.
Risponde D’Asburgo: “Anche M., sta qua davanti a me… è a zero ore. So’ tutti a zero ore… te ti sei messo in regola e però magari hai messo in difficoltà l’azienda, bastava ne parlassi con noi e non avremmo avuto problemi… adesso, è chiaro, non è che possiamo renderli all’Inps perché sarebbe come ammettere…”. Un altro manager: “Il problema ce l’ho io, se domani mi inizia un controllo, ti fa vedere il computer che hai lavorato da aprile 2020, maggio, giugno, ecc… evitiamo”.
In una telefonata del 17 novembre 2021, un manager di Visibilia riferiva “sul pregresso c’è poco da fare… nel senso… tu o vai lì e ti auto denunci, però non conviene a nessuno dei due, perché l’Inps ti ha pagato… loro non se ne accorgono… A noi c’hanno detto che il passato non si può sanare… perché hai preso i soldi… un conto dici “non li ho presi… lo sa ripagando” ma qui invece è diverso. Ma questa cosa perdonami, è un discorso tra me e te e lo sappiamo io, io e te, l’azienda, e te, che tu hai lavorato da casa. Sì, ma lì sono delle note spese…”. Un manager risponde “Eh ma io non c’ho le pezze d’appoggio delle note spese”. Il primo manager: “Lo so no, no… facciamo figurare… come gli altri, le note spese figurative, cioè tipo rimborsi chilometrici”, al che il secondo “Ma se non mi sono mosso, c’è il Covid”, e il primo “Allora che hai lavorato, lo sappiamo io, noi e te… l’Inps non sa che tu hai lavorato”.
Contattati dal Fatto Quotidiano, né Visibilia Editore né Daniela Santanchè hanno commentato
(*articolo tratto da Il Fatto Quotidiano)
I “profondi rossi” delle società di “Dani” Santanchè. Antonello de Gennaro su Il Corriere del Giorno il 6 Novembre 2022.
Nel novembre 2021 Daniela Santanchè ha rassegnato le dimissioni irrevocabili dalla carica di presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Visibilia Editore di cui detiene il 48.64% capitale sociale della società. Tale partecipazione è detenuta attraverso le controllate Visibilia Editore Holding S.r.l., per il 40.87%, e attraverso Visibilia Concessionaria S.r.l., per il 7.77%.
Se le dimissioni sono state giustificate dalla presenza di impegni legati al ruolo istituzionale rivestito dalla Santanchè che non permetterebbero alla stessa di proseguire a svolgere in modo adeguato le attività di presidente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato della società, aveva dichiarato al quotidiano Libero che si era dimessa “Perchè adesso l’azienda si è ristrutturata e ha meno bisogno di me”.
La notizia ha incuriosito Pier Luca Santoro, un esperto di marketing, comunicazione & sales che dal 1987 in poi é stato responsabile del marketing e dell’organizzazione commerciale di grandi imprese (Star, Farmaceutica Giuliani, Bonomelli ecc.) che ha approfondito la questione analizzando i conti della società che pubblica diversi periodici, sia mensili che settimanali, tra cui Ville Giardini, Ciak e PC Professionale, acquisite dalla Santanchè nel marzo 2014 dal Gruppo Mondadori.
Dal 2015, l’anno dopo la quotazione in borsa della società, al primo semestre del 2021 Visibilia Editore ha perso la bellezza, si fa per dire, di oltre 4,5 milioni di euro, l’avventura editoriale della “pitonessa” , quella che si candidò con La Destra di Francesco Starace con lo slogan “Abbiamo la bava alla bocca” è stata da sempre tutto fuorché un successo tanto da veder scendere la sua quota, come sopra riportato, al 48.6% quando inizialmente ne deteneva il 62%, avendo ceduto ad un fondo arabo, con sede alle isole Cayman, la Bracknor Ltd, una parte delle quote per risanare i debiti. Ma l’andamento del titolo negli ultimi cinque anni è disastroso.
Anche il primo semestre del 2021 in cui per molti editori si è avuto un rimbalzo rispetto al 2020, è negativo con ricavi in calo e Ebit e risultato netto in peggioramento rispetto al pari periodo dell’anno scorso. Pure le altre avventure imprenditoriali della senatrice di Fratelli d’Italia non sono esattamente dei successi, e di recente la Santanchè ha lasciato un’altra società azzerando la propria partecipazione con 44mila euro di perdite.
Insomma, forse è vero che Visibilia non aveva più bisogno della Santanchè ma probabilmente non nel senso delle sue dichiarazioni, visto che, a giugno 2021, i conti non non sono certo quelli di una società in salute e “ristrutturata“, e che sin qui la vita da imprenditrice sicuramente non è stata costellata di successi, non potendo più contare delle “aperture” pubblicitarie che le arrivavano per tramite di Luigi Bisignani. Nell’intervista ad “A Ciascuno Il Suo” di Radio 24, Bisignani parlò anche dell’offerta avanzata dalla Santanché per i periodici Rcs. “Se mi avesse chiesto consiglio, le avrei detto – rispose Bisignani – di stare molto lontano dall’ acquisito ora di un gruppo di periodici, accollandosi 110 giornalisti”.
E’stato il CORRIERE DELLA SERA a raccontare le successive “rotture” della Santanchè con AN-Alleanza Nazionale . Cosa che non impedì alla Santanchè grazie ai buoni “uffici” di Bisignani a mantenere rapporti con tutti. “In questo scenario politico si innesta la mia attività collaborativa, senza fini di lucro, a favore della Santanchè. In pratica feci stringere i rapporti tra lei e la famiglia Angelucci… In seguito questo rapporto si istituzionalizzò con una iniziativa che io stesso le consigliai, e cioè la costituzione di una vera e propria concessionaria di pubblicità denominata Visibilia, che poi è diventata la società che ha raccolto per circa un anno la pubblicità degli Angelucci“”.
Luigi Bisignani, interrogato per la prima volta dai pubblici ministeri di Napoli Francesco Curcio (ora procuratore capo a Potenza) ed Henry John Woodcock, che l’avevano inquisito per il reato di associazione segreta, mise a verbale “Ho facilitato la costituzione di rapporti commerciali tra Visibilia, ovvero la Santanchè, e Eni, Enel e Poste”. Lorenzo Borgogni, all’epoca direttore centrale delle relazioni esterne di Finmeccanica dichiarò a verbale: “Bisignani ufficialmente lavora alla Ilte, in ogni caso io so che è molto legato a Letta e Scaroni e che ha “le mani in pasta” in tante cose; a tale proposito posso dire che ha grande influenza sull’Eni. Alfonso Papa (l’ex magistrato deputato del Pdl, indagato nell’inchiesta napoletana) me l’ha presentato Luigi Bisignani a casa di Daniela Santanchè in occasione di una cena circa due anni fa…” Ma questa è un altra storia ancora tutta da raccontare…. Redazione CdG 1947
Da lastampa.it il 4 novembre 2022.
La ministra Daniela Santanché non è indagata. A confermarlo è il documento della Procura di Milano richiesto dall’avvocato Nicolò Pelanda con il quale si conferma la non iscrizione nel registro degli indagati dell Procura.
Pietro De Leo per “Libero quotidiano” il 4 novembre 2022.
Il Ministro del Turismo Daniela Santanché contrattacca rispetto alle indiscrezioni che la vedrebbero indagata alla Procura di Milano in relazione ai conti della sua ex società Visibilia, di cui oramai da tempo ha ceduto le quote. E smentisce tutto, ai microfoni di "Radio Anch' io", trasmissione di Rai Radio1.
«È assolutamente falso», dichiara perentoria a proposito del rumor dell'inchiesta a suo carico, e anzi rilancia: «Daremo corso ad azioni legali, perché non c'è nessun indagato». E poi spiega: «Visibilia è una mia creatura e non voglio prenderne le distanze, ma non ci sono indagati perché non c'è ipotesi di reato: non è giusto scrivere cose che non hanno fondamento».
Sottolinea, inoltre, che «tutto nasce dall'esposto di un socio di minoranza della Procura», a seguito del quale «d'ufficio viene aperto il provvedimento». Considerato questa premessa, aggiunge il ministro, «non può esserci bancarotta perché prima una società deve fallire, ma i soci Visibilia non hanno problemi di solvibilità e la prossima settimana pagheranno la cartella esattoriale», oggetto della contestazione.
«Purtroppo - prosegue - oggi devo subire quel che viene scritto, ma fra qualche giorno subiranno gli altri». Insomma, una linea in piena continuità con quella tenuta mercoledì sera, quando l'indiscrezione era maturata. E il difensore del ministro, Raffaele Sanzo, aveva spiegato in una nota che Santanché «non risulta indagata in alcun processo penale e da anni non ricopre nessuna carica in "Visibilia Editore", aggiungendo che «non risponde al vero che sia aperto un fascicolo per ipotesi di bancarotta fraudolenta, stante l'assenza del presupposto obiettivo della liquidazione giudiziale della società, soltanto ipotizzata in astratto».
L'ipotesi dell'indagine, comunque, è stata rilanciata da Agi e Adnkronos anche nella giornata di ieri, ventilando due presunte fattispecie che potrebbero essere oggetto dell'attività inquirente, bancarotta fraudolenta e false comunicazioni sociali. Dunque, una vicenda destinata ad avere sviluppi o a spegnersi come accaduto mille volte per altre simili.
Tutto questo giunge, peraltro, in una settimana molto delicata, che segna l'accensione dei motori vera e propria del governo. Ieri, Giorgia Meloni ha di fatto "esordito" nella dimensione europea, incontrando i vertici delle istituzioni comunitarie. E oggi il Consiglio dei ministri varerà il Primo stanziamento per contrastare le bollette. A far da contorno, i rapporti non sempre semplici tra alleati di maggioranza. In questo contesto, un refolo di grana giudiziaria per un componente del tavolo ministeriale non è certo un balsamo. Tuttavia, per ora, dalla maggioranza traspare massima cautela, e nessuno commenta.
Sandro De Riccardis per milano.repubblica.it il 5 novembre 2022.
Più che un affare, sembra il soccorso degli amici di Fratelli d'Italia. La data spartiacque è il 18 ottobre scorso. Visibilia editore comunica che Daniela Santanché "non detiene alcuna partecipazione nella società". Contestualmente appare il nuovo acquirente. "Nell'azionariato - si legge nella stessa nota - sono entrati Luca Giuseppe Reale Ruffino con il 12,94 per cento del capitale, e Sif Italia, spa controllata sempre da Ruffino che ne è anche a.d., con l'8,78 per cento".
Una nuova compagine che arriva dopo l'esposto dei soci di minoranza che, lo scorso giugno, hanno denunciato "gravi irregolarità nella gestione della società", gravata da un dissesto di circa tre milioni e mezzo di euro. Due settimane dopo, scatta l'istanza di fallimento e la procura indaga la neoministra del Turismo per bancarotta e falso in bilancio.
I pm Roberto Fontana e Maria Gravina indagano, insieme al Nucleo di polizia economico finanziario della Guardia di Finanza di Milano, sui bilanci di Visibilia dal 2016 al 2020. "Da istanza in procura, Santanché non risulta indagata", ha dichiarato ieri l'avvocato della ministra, Nicolò Pelanda.
I soci autori dell'esposto restano attendisti sulle mosse del nuovo azionista di maggioranza. Ma si pongono numerose domande sul senso dell'operazione. "Perché si acquista una società gravata da debiti con il fisco e l'istituto di previdenza, e su cui pende un esposto per gravi irregolarità nella gestione e con operazioni finanziarie illogiche?", si chiede Giuseppe Zeno, imprenditore che ha acquistato il maggior numero di azioni di Visibilia con lo scopo di sviluppare il comparto on line, oggi assente, e di valorizzarne asset e valore di borsa.
"Perché si acquista una società il cui bilancio non è stato certificato da due distinte società di revisione? Io, come imprenditore, sarei stato più prudente: se ho intenzione di acquistare, sottoscrivo prima una lettera d'intenti con cui il venditore accetta di farmi visionare i libri contabili, in modo da verificare lo stato di salute della società".
Del nuovo socio di maggioranza di Visibilia, Luca Reale Ruffino, 59 anni, si sa che è uno dei più grandi imprenditori del settore delle amministrazioni condominiali. Con un passato nell'Udc, è stato membro del coordinamento regionale lombardo del Pdl, sponda Alleanza Nazionale, vicino al gotha regionale del partito diventato poi Fratelli d'Italia. Nel 2012, con due esponenti di FdI, è coinvolto in un'indagine della procura di Milano.
Uno è Romano La Russa, fratello del presidente del Senato e in quegli anni assessore alla Sicurezza nella giunta Formigoni. L'altro è l'ex parlamentare Marco Osnato, sempre di Fratelli d'Italia, genero di Romano La Russa, allora consigliere comunale a Milano per il Popolo delle Libertà ma anche dirigente di Aler, l'Azienda di edilizia pubblica lombarda.
Proprio le gare di appalto Aler erano al centro dell'inchiesta, dalla quale tutti e tre gli indagati sono usciti con un'assoluzione definitiva. "Un incubo durato sette anni, assolto da un reato assurdo, sono stato nel tritacarne mediatico dell'era Formigoni, durante i quali un'imputazione fantasiosa mi ha costretto alla vergogna", aveva commentato Ruffino dopo l'assoluzione in Cassazione, nel 2018, con la formula "perché il fatto non sussiste".
Ruffino era accusato di un finanziamento da diecimila euro versato per la stampa di manifesti e altro materiale elettorale per le campagne di Osnato (comunali 2011) e La Russa (Regionali 2010). Finanziamenti considerati poi regolari dai giudici della Suprema Corte.
Ora l'imprenditore si fa avanti per salvare la società della neoministra Santanché, gravata non solo dal milione di debito col fisco, ma anche dai due milioni e 700 mila euro di debito erariale e previdenziale indicati nell'ultimo bilancio.
Per la Guardia di Finanza di Milano, siamo di fronte a una "irreversibilità dello stato di crisi" con "assenza di prospettive di continuità aziendale". Eppure dopo l'istanza di fallimento presentata dalla procura, Visibilia ha comunicato che "i soci Luca Giuseppe Reale Ruffino e Sif Italia hanno espresso la volontà di procedere alla nomina di un nuovo organo amministrativo.
Questa ristrutturazione - continua la nota - sarà fatta con l'obiettivo di permettere alla società di adempiere alle obbligazioni nei confronti dell'Agenzia delle entrate". Anche con "la sottoscrizione di un nuovo prestito obbligazionario convertibile da parte di Negma Group Ldt, fondo delle British Virgin Island". Nell'assemblea di venerdì prossimo il compagno di Santanché, Dimitri Kunz D'Asburgo Lorena, dovrà lasciare le cariche di presidente e ad ai nuovi amministratori. Riuscirà poi Ruffino a salvare la nave che affonda?
Estratto dell’articolo di Luca De Vito per “la Repubblica - edizione Milano” il 6 novembre 2022.
Quello di Giuseppe Zeno - 58 anni, originario di Torre del Greco e residente alle Bahamas - è il primo nome che appare tra i soci di minoranza che hanno fatto ricorso al Tribunale per la vicenda della Visibilia Editore, la società che fino a ottobre era controllata dalla ministra Daniela Santanché e su cui ora indaga la procura di Milano per bancarotta e falso in bilancio. Operatore nei mercati finanziari di mezzo mondo, titolare della "Giuseppe Zeno Family Group", con gli altri soci aveva acquistato sul mercato il 5 per cento della società. Dalla loro denuncia è cominciato tutto.
Quando e perché vi siete interessati alla Visibilia?
"Nel 2019 volevamo avviare un'attività di pubblicità del nostro gruppo sul web. Le nostre società si occupano un po' di tutto, dalla produzione di energia rinnovabile ai prodotti alimentari. Quindi ci siamo detti, invece di andare spendendo soldi qua e la facendo pubblicità, cerchiamo di trovare un canale unico e vediamo di organizzare in modo intelligente l'attività sul web".
E quindi dopo averla studiata siete entrati nella società.
"Ci siamo presentanti come azionisti al 5 per cento e lo abbiamo subito comunicato alla Consob. Da quel momento in poi però i vertici della Visibilia non hanno mai voluto avere a che fare con noi, non ci hanno mai voluto incontrare. […] Mandavo i miei avvocati alle assemblee, ma non era mai possibile parlare con la presidente".
Perché la situazione è diventata tesa?
"Noi chiedevamo a cosa servissero quei soldi, perché ricorrere ai prestiti di Negma Group, una società che ha sede alle British Virgin Island. Eravamo pronti a investire e convinti che ne sarebbero serviti di meno per fare bene".
Il primo prestito obbligazionario però risale al 2017, prima che voi entraste.
"Sì, ma poi sono proseguiti. All'inizio è normale che ci sia bisogno di liquidità, ma continuavano a chiederne. Perché farlo, senza neanche ascoltarci?".
Prestiti convertibili in azioni.
"Esatto. A un certo punto sono iniziate le conversioni della Negma che quindi deteneva azioni. Quando un'azienda fa un aumento di capitale partecipano tutti. È una questione di quanti soldi ha uno o l'altro, come una sorta di rilancio. Invece questo sistema delle obbligazioni convertibili è come voler privilegiare qualcuno: un'operazione alla luce del sole, ma che immobilizzava noi che volevamo comprare. Non ci rendeva possibile partecipare sul mercato perché per noi il prezzo era più alto".
Cosa è successo poi?
"Ci siamo domandati fin da subito cosa succedesse con quelle azioni. Era un titolo molto volatile che con quattro soldi saliva e scendeva. E si vedevano movimenti stranissimi: comunicavano che il venerdì Negma aveva il 14 per cento e poi il lunedì questa quota non c'era più. Inspiegabile".
A questo punto cosa avete fatto?
"Ho scritto a tutti, dalla Consob, alla Banca d'Italia. Anche alle banche dove Visibilia e Negma hanno i conti. Ma non ho avuto riscontri".
Nell'esposto segnalate una serie di mancanze.
"Nel prestito obbligazionario ci sono tre figure: chi riceve il denaro e quindi emette l'obbligazione, chi dà i soldi e chi fa da intermediario. In questa operazione l'intermediario era la stessa Negma. Hanno ricevuto due fatture, una da 165mila euro e l'altra da 150mila euro per l'intermediazione. Perché esporsi a questo rischio? Chi c'è dietro Negma?". […]
Estratto dell’articolo di Nicola Borzi e Thomas Mackinson per “il Fatto Quotidiano” il 9 novembre 2022.
È metà luglio 2021. In Visibilia Editore, società quotata controllata all’epoca dalla senatrice di Fratelli d’Italia e oggi ministro del Turismo, Daniela Santanchè, che ne era pure presidente e Ad, infuria la guerra tra vecchi e nuovi soci. A capitanare i nuovi è Giuseppe Zeno, manager 57enne di Torre del Greco residente alle Bahamas.
Nel 2014 è stato indagato nell’“operazione Side”, un carosello fiscale internazionale che fa scattare richieste di arresto per i tre fratelli a capo del Gruppo Padovani di Castel San Giorgio (Salerno), società di prodotti metallici che secondo l’accusa gestiva un patrimonio di 140 milioni e avrebbe realizzato un’evasione fiscale di 72,5 milioni attraverso operazioni tra l’Italia e una dozzina di Paesi off shore.
Nel processo, ancora pendente in primo grado al Tribunale di Napoli, a Zeno è contestata una posizione che lui definisce “assolutamente marginale, s’ipotizza che fossi amministratore di fatto di due società coinvolte nell’indagine, che dimostrerò erano state già cancellate nel 2009”.
A luglio 2021, come il Fatto ha appreso, Zeno incontra Dimitri d’Asburgo Lorena, compagno della Santanchè e manager di Visibilia, società per la quale la Procura di Milano oggi chiede la liquidazione giudiziale per debiti e la Guardia di Finanza ipotizza il falso in bilancio. In cambio della pace, Zeno porta a D’Asburgo Lorena non una, ma ben tre offerte alternative, di quelle che non si possono rifiutare, perché le riferisca a Santanchè. Io sono un pulitore, metto a posto tutto, dice Zeno, sono molto bravo con le carte, le so muovere.
Aggiunge, io so dove manager e consulenti di Visibilia hanno sbagliato e gli faccio male. Io ti taglio dall’albo dei revisori dei conti, tu non prendi più un lavoro in tutta Milano. Ma è estorsione? No, è realtà, risponde Zeno. Una promessa che si concretizzerà solo 11 mesi dopo, il 10 giugno 2022, nella forma di un esposto di 18 pagine inviato al Tribunale di Milano da soci di Visibilia capitanati proprio da Zeno.
Cosa offre nel lungo faccia a faccia l’azionista Zeno a D’Asburgo Lorena perché riferisca alla senatrice Santanchè? Prima proposta: bisogna capire se è loro interesse averlo in giro oppure no, può anche darsi che vogliano farsi i fatti loro senza gente in giro. Una via si trova, dice Zeno: se mi volete fuori fatemi fare business con i vostri contatti [...]
Se questa soluzione non piace, c’è la seconda: d’Asburgo si deve interfacciare con la sua compagna, dice Zeno, e chiederle se vogliono davvero rimanere in Borsa. Perché Santanchè ha una società quotata, è come avere una Ferrari Enzo, ma la senatrice la usa per andare a comprare le sigarette dal tabaccaio, valuta l’azionista. Se a Santanchè questa Ferrari Enzo non interessa, allora lei con calma si fa un programma e una società, ci porta i suoi giornali e Zeno si prende la scatola vuota. Perché il mio business è comprare aziende in default, dice Zeno [...]
C’è poi l’ultima opzione: Zeno può portare Visibilia a capitalizzare 100 milioni e Santanchè potrebbe restarci dentro pure lei. Ma, dice Zeno, la senatrice deve ricordarsi che se non si chiamava come si chiama era già andata al Creatore, lui ha avuto difficoltà a darle spallate perché ovviamente altri la difendono. Ora non è che Zeno non sia in grado di buttarla giù, dice l’azionista, però non butterà lei, butterà gli altri. Io so che il consigliere d’amministrazione avvocato è in conflitto di interessi, dice Zeno, vado all’albo e lo faccio cacciare, io so che Visibilia ha pagato la commissione di collocamento al fondo Negma di Dubai che ha sottoscritto le sue obbligazioni convertibili, dice [...]
Io metterò in croce i vostri avvocati, manderò all’aria i vostri revisori, dice Zeno, che consiglia a D’Asburgo di chiedere a Santanchè se è veramente sicura che l’operazione Negma sia la cosa più intelligente, perché non si sa chi c’è dietro il fondo di Dubai, non si sa da dove vengono i soldi, magari proprio da Milano?
Quella guerra ora è arrivata in tribunale, ma solo 11 mesi dopo questo colloquio. Contattata dal Fatto su questa vicenda, Visibilia non ha risposto.
· Nazista…a chi?
Nazista a chi?
Da corriere.it l'8 maggio 2022.
I combattenti di Azovstal: «Combatteremo fino alla fine»
I combattenti ucraini barricati nell’acciaieria Azovstal a Mariupol hanno tenuto una conferenza stampa online durante la quale hanno dichiarato che «ci sono molti militari feriti da evacuare» da Azovstal a Mariupol «ma combatteremo fino alla fine: la resa per noi è inaccettabile». «Le forze russe - hanno detto - stanno continuando a bombardare l’area e stanno cercando di assaltare l’impianto».
I civili, secondo quanto dichiarato dal presidente Zelensky in un videomessaggio, sono già stati tutti evacuati ma il capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov che è intervenuto alla conferenza stampa, ha sottolineato di non poterlo confermare. Il responsabile dell’intelligence del reggimento Azov, Ilya Samoilenko, nel suo intervento, ha dichiarato che sono «più di 25mila le persone che sono morte a Mariupol, in gran parte civili».
Palamar ha aggiunto: «Ora i nostri politici stanno provando a negoziare con quegli animali. Ma non ricordano cosa hanno fatto? Non possiamo parlare con questa gente. Il nostro obiettivo è eliminare la minaccia: servono più armi, più munizioni, più addestramenti, più aiuti a livello logistico».
Putin: «La vittoria sarà nostra, sconfiggeremo la feccia nazista »
«I nostri militari, proprio come i loro antenati, stanno combattendo insieme per liberare il loro suolo dalla feccia nazista»: lo ha scritto il presidente russo, Vladimir Putin, in «telegrammi di congratulazioni» inviati ai leader delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk nel 77esimo anniversario della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica: lo scrive il Cremlino sul suo sito, sottolineando che il leader russo ha inoltre «espresso la certezza che la vittoria sarà nostra, proprio come nel 1945».
Il presidente russo ha inviato un messaggio agli altri Paesi della Federazione russa in occasione del 9 Maggio, festa nazionale per la vittoria in Europa dell’Unione Sovietica sul nazismo, in cui ha affermato che «il dovere comune oggi è prevenire la rinascita del nazismo che ha portato tante sofferenze a persone di diversi Paesi», così come «è necessario preservare e trasmettere ai posteri la verità sugli eventi degli anni della guerra, i valori spirituali comuni e le tradizioni di amicizia fraterna».
Nazista da Treccani
s. m. e f. e agg. [v. nazismo] (pl. m. -i). – Forma accorciata per nazionalsocialista, usata comunem. con tono polemico per indicare non solo chi fu esponente o fautore del nazionalsocialismo, ma anche chi tuttora ne condivida o esalti l’ideologia e la prassi: le rappresaglie, le stragi compiute dai n.; come epiteto ingiurioso e spreg.: è un n., un vero nazista! Come agg.: i gerarchi n.; metodi, crimini n.; la fine del regime nazista.
Nazista Da dizionari Corriere
[na-zì-sta] agg., s. (pl.m. -sti), anche abbr. nazi
agg. Del nazionalsocialismo, in senso proprio o estens.: regime n.; crimini n.
s.m. e f.
1 Seguace del nazionalsocialismo; membro del partito fondato da Hitler e basato sul nazionalsocialismo: le persecuzioni operate dai n.
2 estens. spreg. Persona dai modi prepotenti o che approva e applica metodi crudeli e spietati: usare metodi, avere idee da n.
Nazista Da dizionari Repubblica
[na-zì-sta] s.m. e f. (pl. m. -sti, f. -ste)
1 Nazionalsocialista
2 estens., spreg. Persona che si comporta deliberatamente in modo intollerante, violento e crudele
Hitler e il Nazismo: storia, ideologia e significato. A cura di Edoardo Angione su Studenti.it.
Hitler e il Nazismo
Adolf Hitler riuscì a dominare in modo totale la società tedescaIl nazismo è stato definito un sistema politico totalitario . Cosa significa? Che il partito nazista e il suo capo, Adolf Hitler, riuscirono a dominare in modo completo e totale la società tedesca, la sua politica, la sua cultura, l’economia, nonché la vita (e come vedremo anche la morte) dei tedeschi per un lungo periodo: parliamo infatti di un dominio assoluto che dal 1933 costituisce una delle più grandi sfide alla democrazia e al liberalismo. Ciò che il nazismo voleva era la morte di ogni teoria, di ogni pensiero libero. Il volere del proprio leader carismatico Adolf Hitler era l’unica ispirazione dei tedeschi nella Germania nazista.
Per Adolf Hitler era prioritaria l'eliminazione di tutti i nemici del popolo arianoIl nazismo traeva ispirazione dal fascismo, riproponendo e rielaborando molti elementi del modello fascista, ma portandoli a conseguenze più estreme. In ultima analisi, ciò che Adolf Hitler (e quindi il nazismo) voleva più di ogni altra cosa era l’eliminazione di tutti i nemici del popolo ‘ariano’.
IL FASCISMO DEGLI ANTIFASCISTI. PIER PAOLO PASOLINI Da Garzanti.
La riflessione sul fascismo e sulla sua evoluzione storica attraversa tutta l’opera di Pasolini: questo volume raccoglie alcuni dei suoi testi più significativi scritti sull’argomento tra il settembre 1962 e il febbraio 1975. Prendendo coraggiosamente posizione contro un antifascismo di maniera ormai fuori tempo massimo, Pasolini mette in guardia da una nuova forma di fascismo, più subdola e insidiosa, intesa «come normalità, come codificazione del fondo brutalmente egoista di una società». È il sistema dei consumi, che a partire dagli anni Sessanta si è reso responsabile dell’omologazione culturale del paese: un potere senza volto, senza camicia nera e senza fez, ma capace di plasmare le vite e le coscienze. A distanza di oltre quarant’anni, questi interventi mantengono intatta la loro forza critica, permettendo di cogliere alcuni dei tratti più profondi dell’Italia di oggi.
Il fascismo degli antifascisti. Alessandro Gnocchi il 10 Gennaio 2019 su Il Giornale.
Il fascismo degli antifascisti. È un'espressione di Pier Paolo Pasolini e il titolo di un libro tanto piccolo quanto interessante pubblicato da Garzanti. Non ci sono inediti ma una selezione esaustiva degli articoli dello scrittore dedicati a fascismo e antifascismo. In coda una splendida intervista a Pasolini realizzata da Massimo Fini, nel 1974.
Ieri un amico (via twitter), il libraio e scrittore Emiliano Gucci, notava che l'analisi più lucida dei nostri giorni è firmata da un uomo ucciso quando lui, Gucci, aveva due mesi. Ottimo spunto, che rubo a Emiliano (grazie). Infatti la lettura de Il fascismo degli antifascisti finisce con l'essere illuminante. Prima di entrare nel merito, una considerazione marginale: come poteva Pasolini, al netto di un marxismo posticcio, definirsi comunista? In questi scritti viene fuori piuttosto un conservatore, se non addirittura un reazionario. Non stupisce che Pasolini fosse un appassionato lettore di Antonio Delfini, scrittore geniale, dimenticato e pubblicato con i piedi dall'editoria italiana. Delfini aveva scritto un semi-delirante Manifesto per un partito conservatore e comunista, una formula nella quale Pasolini doveva riconoscersi.
Il limite dell'analisi di Pasolini è linguistica: in sostanza definisce «fascista» tutto quello che non gli piace, antifascismo incluso. Il fascismo è trasformato in una categoria morale, che indica il carnefice, la sopraffazione, la violenza. Anche nella vaghezza del significato di fascismo Pasolini rispecchia lo spirito del nostro tempo, in cui il fascismo è tutto e niente, quasi sempre un insulto da usare come clava per zittire l'avversario non conforme al politicamente corretto.
Veniamo ai testi.
Punto primo. L'antifascismo ha fatto nulla per cancellare il fascismo e i fascisti: «Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l'indignazione più tranquilla era la coscienza».
Punto secondo. L'antifascismo è una litania che si snoda da Ferruccio Parri ad Adriano Sofri, ed è ben accetta dai perbenisti della politica. Sorpresa: i veri fascisti sono quelli al potere e al governo. I Moro, i Fanfani, i Rumor, i Pastore, i Gronchi, i Segni, i Tanassi, i Cariglia e magari i Saragat e i La Malfa. «Contro la politica di costoro, si può e si deve essere antifascisti» (qui Pasolini ruba le parole a Marco Pannella).
Punto terzo. Oggi il fascismo è un'altra cosa rispetto al Ventennio. Fascisti e antifascisti sono diventati uguali e hanno desideri simili: «Il nuovo fascismo - che è tutt'altra cosa - non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l'omologazione brutalmente totalitaria del mondo». Le tradizioni devono essere spazzate via dalla «società dei consumi» e dal conformismo. La cultura di massa «è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare un Potere che non sa più cosa farsene di Chiesa, patria e famiglia». L'omologazione riguarda tutti: popolo e borghesia, padroni e sottoproletari. La stessa divisione in classi sociali tende a scomparire o quantomeno a essere indistinguibili.
Punto quattro. Cos'è il Potere e chi lo detiene? «Scrivo Potere con la P maiuscola (...) solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c'è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale) e, per di più come tutto non italiano (transnazionale)».
Di cosa sta parlando Pasolini? A cosa si riferisce quando impropriamente usa la parola fascismo per descrivere l'assimilazione totale dei nostri tempi? Sostituite «fascismo» con «globalizzazione»: i conti tornano. Ecco spiegato il potere transazionale che scavalca le vecchie forme di potere nazionale. Ecco cosa significa l'appiattimento e la confusione delle classi sociali. Ecco cosa significa l'omologazione del mondo, imposta con brutale forza totalitaria.
Pasolini, integrato e apocalittico, membro della società letteraria con licenza di fuga nei sobborghi, si rivela davvero preveggente. Non tanto per la questione del fascismo e dell'antifascismo che, in termini storici, ritiene conclusa e da accantonarsi. Pasolini è scioccato dalle forze che daranno vita alla globalizzazione a trazione americana. Lì intuisce l'esistenza di un nuovo potere ubiquo e senza volto, che potremmo forse individuare nelle istituzioni transnazionali, nell'alta finanza e nella casta dei «tecnici». Per commerciare agevolmente, meglio cancellare le frontiere, le differenze, le tradizioni e perfino la politica, che ha tempi lunghissimi rispetto all'economia. Il tempo è denaro e il denaro è tempo. Meglio decidano rapidamente i tecnici con o senza l'investitura del voto, come abbiamo potuto verificare sulla nostra pelle.
Rispetto a Pasolini, la sinistra di oggi ha fatto qualche passo indietro, tornando all'antifascismo, caricaturale in assenza di fascismo. A volte finisce a schiaffoni, come nel caso dei giornalisti dell'Espresso picchiati dai «camerati» a margine della commemorazione della strage di Acca Larentia. La violenza è da condannare duramente. Ma non basta quest'episodio per descrivere un'Italia in mano agli squadristi. Piuttosto vale la pena notare che la sinistra ha sposato completamente la globalizzazione. Forse Pasolini oggi si chiederebbe se la sinistra sia ancora di sinistra.
Da corriere.it l'8 maggio 2022.
I combattenti di Azovstal: «Combatteremo fino alla fine»
I combattenti ucraini barricati nell’acciaieria Azovstal a Mariupol hanno tenuto una conferenza stampa online durante la quale hanno dichiarato che «ci sono molti militari feriti da evacuare» da Azovstal a Mariupol «ma combatteremo fino alla fine: la resa per noi è inaccettabile». «Le forze russe - hanno detto - stanno continuando a bombardare l’area e stanno cercando di assaltare l’impianto».
I civili, secondo quanto dichiarato dal presidente Zelensky in un videomessaggio, sono già stati tutti evacuati ma il capitano Svyatoslav Kalina Palamar, vice comandante del battaglione Azov che è intervenuto alla conferenza stampa, ha sottolineato di non poterlo confermare. Il responsabile dell’intelligence del reggimento Azov, Ilya Samoilenko, nel suo intervento, ha dichiarato che sono «più di 25mila le persone che sono morte a Mariupol, in gran parte civili».
Palamar ha aggiunto: «Ora i nostri politici stanno provando a negoziare con quegli animali. Ma non ricordano cosa hanno fatto? Non possiamo parlare con questa gente. Il nostro obiettivo è eliminare la minaccia: servono più armi, più munizioni, più addestramenti, più aiuti a livello logistico».
Putin: «La vittoria sarà nostra, sconfiggeremo la feccia nazista »
«I nostri militari, proprio come i loro antenati, stanno combattendo insieme per liberare il loro suolo dalla feccia nazista»: lo ha scritto il presidente russo, Vladimir Putin, in «telegrammi di congratulazioni» inviati ai leader delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk nel 77esimo anniversario della Vittoria nella Grande Guerra Patriottica: lo scrive il Cremlino sul suo sito, sottolineando che il leader russo ha inoltre «espresso la certezza che la vittoria sarà nostra, proprio come nel 1945».
Il presidente russo ha inviato un messaggio agli altri Paesi della Federazione russa in occasione del 9 Maggio, festa nazionale per la vittoria in Europa dell’Unione Sovietica sul nazismo, in cui ha affermato che «il dovere comune oggi è prevenire la rinascita del nazismo che ha portato tante sofferenze a persone di diversi Paesi», così come «è necessario preservare e trasmettere ai posteri la verità sugli eventi degli anni della guerra, i valori spirituali comuni e le tradizioni di amicizia fraterna».
"I crimini di guerra dei russi? Gli Azov usavano scudi umani". Gian Micalessin il 28 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il capo delle milizie musulmane: "Noi siamo cittadini della Russia. Se il Paese è in pericolo accorriamo".
Rubisnaya. «La Repubblica di Cecenia fa parte della Federazione russa e quando la Russia è in pericolo il popolo ceceno ha il dovere di correre in soccorso. Per questo sono qui». Se gli chiedi cosa ci facciano lui e i suoi uomini a 1.700 chilometri da Grozny in un'Ucraina cristiana così diversa dalle montagne della Cecenia musulmana il comandante Zamid Alievich Chalaev non ha dubbi. Nel 2021 si guadagnò il titolo di eroe della Russia sgominando l'ultima cellula cecena dell'Isis, oggi è pronto a replicare contribuendo alla caduta di Severodonetsk, ultima roccaforte ucraina sui territori dell'autoproclamata repubblica di Lugansk. E poco importa se i ceceni sono stati in passato i grandi nemici della Russia dì. «Quel passato non conta - spiega in questa intervista a Il Giornale il 41enne comandante delle unità cecene schierate sui fronti del Lugansk - le guerre del '94 e del 2000 le fomentarono gli americani pronti, anche allora, ad allearsi con chiunque pur di indebolire la Russia. Sono stati gli americani a mettere i nostri popoli l'uno contro l'altro sfruttando il fanatismo di qualche piccolo gruppo wahabita. La maggioranza dei ceceni non ha mai appoggiato quelle mosse. Per fortuna il nostro leader Ramzan Kadirov, e prima ancora suo padre Achmat, hanno messo fine a quell'inganno contribuendo alla riconciliazione tra i nostri popoli».
Americani ed europei vi accusano di crimini di guerra per il vostro ruolo in questa guerra...
«Questo è totalmente falso non dovete neanche chiederlo. Chi lo dice dovrebbe dimostrarlo esibendo le prove. Ho partecipato personalmente ai combattimenti di Mariupol e ho visto come andavano le cose. Il reggimento Azov usava i civili come scudi umani, impediva loro di fuggire e sparava su chi tentava di farlo. Mentre ero lì ho ascoltato una comunicazione tra un unità di quel reggimento. Volevano sapere cosa fare di un furgone diretto fuori città e il comando ha ordinato di distruggerlo nonostante fosse pieno di civili. Noi non abbiamo mai fatto cose del genere, abbiamo sempre contribuito all'evacuazione dei civili».
Molti musulmani vi considerano degli infedeli perché state dalla parte di Putin.
«Farebbero meglio a guardare a quel che ha fatto l'America in Siria armando e sobillando le correnti del wahabitismo più fanatico e intollerante contro il presidente Bashar Assad. Noi ceceni abbiamo mandato due reggimenti a combattere al fianco di Assad. Sappiamo che la maggioranza della popolazione siriana sta con lui e con i nostri alleati russi».
E qui qual è il vostro obbiettivo?
«Qui siamo in prima linea nell'offensiva per la conquista di Severodonetsk. Ho convogliato qui tutti gli uomini che avevamo a Mariupol e li ho schierati tra Rubisnaya e Kamishevaka. Grazie alla presenza dei miei uomini al fianco degli alleati russi e ai combattenti di Lugansk la pressione si sta facendo sempre più imponente. Tra breve avremo il controllo di tutto il Lugansk. E potremo dedicarci alla lotta per liberare anche i territori di Donetsk».
L'avvertimento dei servizi segreti tedeschi: gruppi neonazisti e di estrema destra al fianco della Russia. Il Tempo il 27 maggio 2022.
Gruppi neonazisti e di estrema destra si sono affiancati all’armata russa per sostenerla nell’attacco all’Ucraina. L’allarme arriva dai servizi segreti tedeschi del Bnd: un rapporto confidenziale in questo senso è stato inviato la settimana scorsa a svariati ministeri del governo federale. Nelle sette pagine elaborate dagli 007 di Berlino - visionate dai giornalisti dello Spiegel - si afferma che due formazioni «di matrice estremista di destra», ossia la Russian Imperial League ed il gruppo Russitch, combattono in Ucraina contro le truppe di Kiev. Secondo la valutazione degli analisti del servizio d’intelligence estero della Germania, la collaborazione di queste formazioni con l’esercito russo porta «la presunta motivazione del conflitto della cosiddetta denazificazione a rivelarsi come un’assurdità».
Sebbene non vengano indicati quanti miliziani neonazisti siano attualmente in azione in Ucraina, il documento dà indicazioni precise circa le attività delle formazioni in questione: per esempio la Russian Imperial League (Ril), considerato il braccio paramilitare del Russian Imperial Movement, sarebbe già intervenuta nei combattimenti. A detta dello Spiegel, il capo di quest’unità, tale Denis Garijev, il giorno successivo all’invasione aveva scritto su Telegram che «senza dubbio siamo favorevoli alla liquidazione dell’entità separatista dell’Ucraina». Negli anni 2014 e 2015 la Ril aveva combattuto nel Donbass. Poi, mentre ad inizio marzo Garijev aveva chiesto ai suoi «legionari» di avere ancora pazienza, poco dopo la Ril aveva annunciato la decisione di partecipare in prima linea ai combattimenti. Stando al rapporto confidenziale del Bnd, sono stati coinvolti «soprattutto persone con esperienza militare» nonché individui usciti dal centro di addestramento ‘Partizan’ di San Pietroburgo.
Affermano gli analisti del Bnd che «non è chiaro» se decisione di andare al fronte ucraino «sia avvenuta su appello o in condivisione con la leadership russa». Aggiunge il settimanale tedesco che Garijev sarebbe rimasto ferito in azione, lo stesso dicasi di almeno altri due miliziani di estrema destra. Anche i membri di ‘Russitch’ sarebbero andati al fronte, e secondo alcune fonti avrebbero affiancato il gruppo dei mercenari del famigerato gruppo Wagner. Il rapporto del Bnd descrive questa formazione come «nota per la sua particolare brutalità», e avrebbe la fama «di non fare mai prigionieri». Alcuni elementi di questo gruppo avrebbero partecipato anche al conflitto siriano. Nel documento del Bnd sono accluse anche alcune fotografie: una ritrae uno dei fondatori di Russitch, Aleksej M., con una bandiera della svastica, in un’altra si vede l’altro capo della milizia, Jan P., mentre mostra il saluto hitleriano.
Buongiorno Bieloitalia. Gli ucraini non combattono per procura, sono i nostri compagni contro il fascismo. Christian Rocca su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.
Kiev denuncia da anni la pianificazione russa volta a cancellare l’Ucraina e a sterminare un’intera nazione. È arrivato il momento di aiutare sul serio un popolo coraggioso che difende la sua indipendenza sul fronte libero dell’Europa.
C’è un formidabile libro di alcuni anni fa scritto da Philip Gourevitch a proposito dell’atroce genocidio in Ruanda del 1994, quello che fece oltre un milione di vittime in poche settimane e tutto il mondo rimase a guardare. Il titolo del saggio è “Desideriamo informarvi che domani saremo uccisi assieme alle nostre famiglie”.
Quell’annuncio insieme burocratico e agghiacciante, come se la notifica di sterminio imminente fosse l’avviso della prossima fermata della metropolitana, è più o meno quello che sta capitando quotidianamente al popolo ucraino in lotta per la sua sopravvivenza. Ogni maledetto giorno a est e a ovest di Kiev suonano le sirene che avvertono dell’arrivo di missili russi, mentre la sera gli ospiti dei nostri talk show fanno un osceno intrattenimento a spese delle vittime che cercano riparo nei corridoi e negli scantinati assieme ai bambini costretti a convivere con gli incubi, il tutto a maggior gloria degli aggressori nazibolscevichi.
Inascoltati dal 2016, ma in realtà da molto prima, gli ucraini denunciano da anni la pianificazione russa per cancellare il loro paese e per sterminare fisicamente e culturalmente un’intera nazione. Sono stati ignorati, nonostante i russi ci abbiano provato sistematicamente almeno dai tempi dell’Holodomor, della pianificazione staliniana della carestia, a eliminare gli ucraini in quanto nemici del popolo.
Da tempo, gli ucraini avvertono anche noi europei delle intenzioni imperialiste del Cremlino perché sanno che se Putin dovesse prevalere a Kiev, dopo toccherà a noi combattere.
La Finlandia, la Polonia, la Svezia e i paesi baltici lo sanno benissimo e infatti si mobilitano e prendono decisioni sofferte e storiche che fanno piangere i guitti da talk show.
Noi che siamo più lontani dal fronte, invece, affidiamo la salvaguardia delle nostre libertà alle mani sicure della televisione spazzatura di Urbano Cairo e ai propagandisti russi e bieloitaliani del Cremlino, illudendoci che un solenne inchino a Putin possa farci schivare il colpo e che pettinare il fascismo russo possa rendere Putin ragionevole e caritatevole.
Nel tentativo in corso dei russi di sterminare gli ucraini c’è un’aggravante, rispetto al genocidio Tutsi perpetrato dagli Hutu in Ruanda: gli aggrediti, questa volta, non devono soltanto trovare riparo dai machete aerei russi ed escogitare nuovi modi per resistere e per respingere l’invasore, ma sono anche costretti ad ascoltare i surreali appelli ad arrendersi a mani alzate o a rinunciare a una fetta della propria indipendenza.
Il paradosso è che non si tratta di appelli alla resa lanciati dai russi, i quali invece continuano imperterriti a bombardare i civili indossando gli usuali guanti bianchi già messi in mostra ad Aleppo e a Grozny, ma sono appelli alla capitolazione a cura dei volenterosi complici di Putin in giro per l’Europa e di stanza nei reggimenti dell’operazione speciale televisiva di La7, Rete4 e un pezzo della Rai.
Sentendo il gelido annuncio ucraino «desideriamo informarvi che saremo uccisi dai russi assieme alle nostre famiglie», la risposta degli appeaser bieloitaliani è del tipo: cari ucraini, arrendetevi, lasciatevi soggiogare, in fondo ve la siete cercata.
Non siamo tutti così, naturalmente, e dobbiamo ancora rallegrarci che Mario Draghi non sia stato rimosso da Palazzo Chigi per andare a svernare al Quirinale, altrimenti oggi anziché del finto piano di pace di Di Maio discuteremmo di una proposta di adesione italiana alla Federazione russa.
Palazzo Chigi, il Quirinale, la Difesa, la Cisl di Luigi Sbarra tengono la barra dritta dell’Italia, ma, come ha scritto Gourevitch nel libro sul Ruanda, le buone intenzioni non bastano perché denunciare il male è tutt’altra cosa rispetto a fare del bene.
Fare del bene oggi è inequivocabilmente salvare l’Ucraina e proteggere gli ucraini con una grande campagna di solidarietà europea e occidentale, accogliendoli a braccia aperte nell’Unione e nella Nato, con aiuti umanitari e finanziari, ma soprattutto con la fornitura accelerata di tutti i sistemi di difesa possibili affinché Kiev rispedisca i russi nelle loro fogne, perlomeno fino a quando continueremo a finanziare lo stragismo russo acquistando il gas e il petrolio dalla cosca del Cremlino.
Come ha scritto Garri Kasparov su Twitter: senza le armi che ha chiesto, l’Ucraina oggi sanguina e Putin accelera l’annessione di altri territori ucraini, rilasciando passaporti russi ed emettendo rubli, uccidendo e deportando migliaia di ucraini rimpiazzandoli con i russi, come sta facendo da otto anni con l’occupazione della Crimea e del Donbas.
Ha scritto, infine, Kasparov: «Basta pensare alle concessioni che potrebbe fare l’Ucraina, perché l’Ucraina sta pagando un prezzo orrendo in termini di sangue, peraltro sapendo che serviranno decenni per ricostruire il paese; l’Ucraina sta anche pagando il prezzo di anni di debolezza e corruzione delle nazioni europee che hanno concluso affari e stretto rapporti diplomatici con il suo invasore. L’Ucraina ha bisogno delle armi che chiede senza esitazione, e il modo libero è fortunato ad avere un esercito coraggioso e preparato come quello ucraino in prima linea, al fronte di una guerra che gli ucraini non hanno mai voluto e che l’occidente ha fatto finta non esistesse. Gli ucraini non combattano questa guerra per procura, gli ucraini sono i nostri partner». Sono i nostri compagni nella lotta al fascismo.
Il Nazista Zelensky. Da corriere.it l'8 maggio 2022.
«In queste giornate, caratterizzate dalla violenza e dalla brutalità della guerra scatenata dalla Federazione Russa nei territori dell’Ucraina, non possiamo fare a meno di ricordare in particolare i soldati italiani vittime della Seconda guerra mondiale. Alla loro memoria, al loro sacrificio e a quello di tutti i caduti delle nostre Forze Armate, ai sentimenti di pace che maturarono dolorosamente in quel conflitto e che ci hanno restituito un’Europa priva di guerre per oltre mezzo secolo, dedichiamo questo giorno». Lo scrive il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della 93/ma adunata nazionale degli Alpini.
Zelensky nel Giorno della Memoria: «La Russia come i nazisti»
La Russa sta imitando il regime nazista in modo fanatico, riproducendone i dettagli in modo maniacale: lo ha detto oggi il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, in un video pubblicato su Telegram in occasione della Giornata della Memoria e della Riconciliazione. «Durante i due anni di occupazione, i nazisti vi uccisero 10.000 civili. In due mesi di occupazione, la Russia ha ucciso 20.000 persone» in Ucraina, dice Zelensky nel video in bianco e nero. «In Ucraina è stata organizzata una sanguinosa ricostruzione del nazismo.
Una ripetizione fanatica di questo regime: delle sue idee, azioni, parole e simboli. Una riproduzione dettagliata, maniacale, delle sue atrocità e un `alibi´ che presumibilmente dà uno scopo sacro malvagio. Una ripetizione dei suoi crimini e persino tentativi di superare il `maestro´ e toglierlo dal piedistallo del più grande male della storia umana. Questo segna un nuovo record mondiale di xenofobia, odio, razzismo e numero di vittime che possono causare», ha prosegue Zelensky.
«La primavera può essere in bianco e nero? Esiste un febbraio eterno? Le parole d’oro sono svalutate? Sfortunatamente, l’Ucraina conosce le risposte a tutte queste domande. Sfortunatamente, le risposte sono `sì´: esordisce Zelensky nel suo discorso. «Ogni anno l’8 maggio, insieme all’intero mondo civile, onoriamo tutti coloro che hanno difeso il pianeta dal nazismo durante la seconda guerra mondiale. Milioni di vite perdute, destini paralizzati, anime tormentate e milioni di ragioni per dire al male: mai più!», prosegue il presidente ucraino.
«Quest’anno diciamo Mai più in modo diverso. Sentiamo `Mai più´ in modo diverso. Ha del doloroso, crudele. Senza un punto esclamativo, ma con un punto interrogativo. Dite: mai più? Ditelo all’Ucraina. Il 24 febbraio la parola `mai´ è stata cancellata. Gli hanno sparato e l’hanno bombardata. Con centinaia di missili alle 4 del mattino, che hanno svegliato l’intera Ucraina. Abbiamo sentito terribili esplosioni. Abbiamo sentito: `di nuovo!´»», commenta Zelensky. E poi: «Decenni dopo la seconda guerra mondiale, il buio è tornato in Ucraina. Ed è diventato di nuovo in bianco e nero. Di nuovo! Il male è tornato. Di nuovo! Con una divisa diversa, con slogan diversi, ma con lo stesso scopo».
Zelensky, nessuno si approprierà della vittoria del '45. (ANSA il 9 maggio 2022) - Anche gli ucraini hanno sconfitto il nazismo nella Seconda guerra mondiale e per questo "non permetteremo a nessuno di appropriarsi di questa vittoria". Lo ha affermato oggi il presidente Volodymyr Zelensky, citato dall'agenzia Interfax Ucraina, nell'anniversario della vittoria.
"Il nostro nemico - ha aggiunto Zelensky, riferendosi alla Russia - sognava che avremmo rinunciato a celebrare il 9 maggio e la vittoria sul nazismo". E ciò per sostenere la tesi di Mosca secondo la quale l'invasione è diretta a "denazificare" l'Ucraina.
Zelensky, presto avremo 2 Giorni della Vittoria, altri no.
(ANSA il 9 maggio 2022) - "Stiamo lottando per la libertà dei nostri figli, e quindi vinceremo. Non dimenticheremo mai cosa hanno fatto i nostri antenati durante la Seconda guerra mondiale, in cui morirono più di otto milioni di ucraini. Molto presto ci saranno due Giorni della Vittoria in Ucraina. E qualcuno non ne avrà nessuno".
Lo ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelensky in un video postato sui social mentre cammina nel viale Khreschatyk deserto all'alba. "Abbiamo vinto allora. Vinceremo ora. E Khreshchatyk vedrà la parata della vittoria: la vittoria dell'Ucraina!"
Ucraina, l’offensiva di Zelensky: «Il male non vincerà». Francesco Battistini per corriere.it il 9 maggio 2022.
Quante volte avete detto mai più? Volodymyr Zelensky guarda dritto in camera: «Quest’anno è in un modo diverso che diciamo “mai più!”. Queste parole stavolta suonano in un modo crudele, doloroso. Senza punti esclamativi. Ma con un punto interrogativo. Quest’anno vi chiedete: “Mai più?”.
Ebbene, chiedetelo agli ucraini». E non vi fa impressione tutto questo? La regia è accurata, l’operatore tv si muove: «Il 24 febbraio, la parola “mai” è stata cancellata. Le hanno sparato, l’hanno bombardata. Con centinaia di missili alle 4 del mattino, che hanno svegliato l’intera Ucraina. Abbiamo sentito terribili esplosioni. E abbiamo detto: di nuovo!…».
Loro sfilino pure a passo d’oca sulla Piazza Rossa. Lui cammina da solo e in bianco e nero. Loro si mettano sull’attenti al discorso di Putin. Lui sta in piedi, barcollando, fra gli scheletri dei palazzi di Borodyanka. A Mosca applaudano sotto le gigantesche zeta neroarancio, «za pabedu», per la vittoria. A «Ze» basta una t-shirt nera con una scritta bianca, «I’m Ukrainian». Se Vladimir oggi caricherà l’Armata Russa dichiarando guerra al mondo, e dirà di farlo per combattere l’euronazismo come fecero i sovietici col nazismo vero, Volodymyr gli risponde al suo modo solito: caricando in rete un video dalle lugubri tinte stile Schindler’s List , commemorando anche lui il 77esimo anniversario della Grande Guerra Patriottica e dicendo allo Zar che se c’è un nazista, oggi, quello abita al Cremlino.
«Durante i due anni d’occupazione, i nazisti uccisero 10 mila civili. In due mesi d’occupazione, la Russia ha ucciso 20 mila persone».
Nazista tu. No, nazista tu. Il presidente è tornato con un altro dei suoi piccoli capolavori di fregolismo e di resistenza web. Un cortometraggio pensato dal fidato regista Sheriy Sheffield, l’orchestratore di tanti video Twitter e Telegram, oggi copywriter dello Zelensky leader come lo fu per vent’anni dello Zelensky attore.
Una voluta citazione dei celebri e radiofonici discorsi clandestini di De Gaulle. Nell’unica sfida possibile per questo fatale 9 maggio, se fatale sarà, «Ze» ha scelto il più tetro dei teatri: la Borodyanka alle porte della capitale che i russi cominciarono a martellare subito, il primo giorno d’invasione, donne stuprate e bambini a vivere da topi, il sindaco del villaggio che diceva inorridito «han fatto peggio dei nazisti».
Volodymyr passeggia virtualmente fra le macerie, i sottotitoli in inglese: «Borodyanka è una delle molte vittime di questi crimini. Dietro di me, ecco uno dei molti testimoni. Non una struttura militare o una base segreta, no, solo un palazzo di nove piani. Poteva essere una minaccia alla Russia?».
La retorica naturalmente non basta. Ed è per questo che un consigliere di Zelensky, Oleksiy Arestovytch, più prosaico «non conferma e non nega» al New York Times che ci siano corpi speciali dietro i misteriosi incendi degli ultimi giorni a caserme, depositi di munizioni e bacini di carburante russi (ce l’ha insegnato Israele, è il sottotesto, a non rivelare le operazioni coperte…).
Il ruolo presidenziale esige che «Ze» riceva il premier canadese Trudeau e il croato Plenkovic — «a Zagabria sappiamo cosa vuol dire essere sotto operazione militare speciale» —, inviti Biden a imitare la moglie e a visitare Kiev e partecipi in videoconferenza al G7, sottolineando che l’obiettivo finale dell’Ucraina è garantire «il pieno ritiro delle forze russe dall’intero territorio nazionale».
Una certa reticenza obbliga a sorvolare sul collaborazionismo nazi degli ucraini nella Seconda guerra mondiale. Ma oggi è il 9 maggio, l’anniversario dei veleni, e alle sparate di Putin dalla parata militare si risponde con toni uguali: «In Ucraina è stata organizzata una sanguinosa ricostruzione del nazismo. Una ripetizione fanatica di questo regime: delle stesse idee, azioni, parole, simboli.
Una ripetizione dei suoi crimini, perfino con tentativi di superare il “maestro” e toglierlo dal piedistallo del più grande male della storia umana. Quello che sta succedendo segna un nuovo record mondiale di xenofobia, odio, razzismo». Il bianco e nero di Ze alterna le bombe della Seconda guerra mondiale a quelle di oggi. «Il male è tornato. Ma il nostro esercito lo sconfiggerà ora come lo sconfisse allora». Attento Putin: del bunker di Hitler, «restano poche pietre. Rovine. Le rovine di una persona che si credeva grande e invincibile». Se le parole sono pietre, chissà se la fionda di «Ze» riuscirà a farle arrivare sulla Piazza Rossa.
9 maggio, Zelensky: "Abbiamo vinto allora, vinceremo ora". Da adnkronos.comil 09 maggio 2022.
Il presidente si è congratulato con gli ucraini nel giorno della vittoria sul nazismo.
"Abbiamo vinto allora, vinceremo ora". Il presidente dell'Ucraina Zelensky si è congratulato con gli ucraini nella giornata del 9 maggio che celebra la vittoria sul nazismo.
"Stiamo lottando per la libertà dei nostri figli e quindi vinceremo - ha scritto su Telegram - Non dimenticheremo mai cosa fecero i nostri antenati durante la seconda guerra mondiale, che uccise più di otto milioni di ucraini. Molto presto ci saranno due giornate della vittoria in Ucraina. E qualcuno non ne avrà. Abbiamo vinto allora. Vinceremo ora. E Khreshchatyk vedrà la parata della vittoria: la vittoria dell'Ucraina! Buona vittoria nel giorno della vittoria sul nazismo!".
Il discorso di Zelensky: “Vinceremo perché combattiamo per la nostra libertà”. Il Manifesto.it il 9 maggio 2022.
IL TESTO UFFICIALE. Il discorso di Zelensky per l'anniversario della vittoria sul nazismo. Versione ufficiale tradotta dall'inglese dal sito della Presidenza ucraina
Il testo integrale del discorso del Presidente dell’Ucraina per l’anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale. Versione ufficiale tradotta dall’inglese dal sito della Presidenza ucraina.
Grande popolo della grande Ucraina!
Il 24 agosto 2021 l’intero Paese ha celebrato il 30mo anniversario della nostra indipendenza! I nostri soldati, i nostri difensori, il nostro equipaggiamento si muovevano lungo il Khreshchatyk, il nostro “Mriya” volava nel cielo!
“Non c’è niente di più pericoloso di un nemico insidioso, ma non c’è niente di più velenoso di un finto amico”. Queste le parole del grande filosofo ucraino Hryhorii Skovoroda.
Il 24 febbraio abbiamo realizzato questa verità quando un finto amico ha iniziato una guerra contro l’Ucraina.
Questa non è una guerra tra due eserciti. Questa è una guerra tra due visioni del mondo.
La guerra condotta dai barbari che bombardano il Museo Skovoroda e credono che i loro missili possano distruggere la nostra filosofia. Li infastidisce. Non è loro familiare. Li spaventa. La sua essenza è che siamo persone libere che hanno il proprio percorso.
Oggi stiamo facendo la guerra su questa base e non daremo a nessuno nemmeno un pezzo della nostra terra.
Oggi celebriamo il giorno della vittoria sul nazismo. E non daremo a nessuno nemmeno un pezzo della nostra storia.
Siamo orgogliosi dei nostri antenati che, insieme ad altre nazioni della coalizione anti-hitleriana, hanno sconfitto il nazismo. E non permetteremo a nessuno di annettere questa vittoria, non permetteremo che se ne appropri.
Il nostro nemico sognava che ci saremmo rifiutati di celebrare il 9 maggio e la vittoria sul nazismo. In modo che la parola “denazificazione” abbia una possibilità. Milioni di ucraini hanno combattuto il nazismo e hanno fatto un viaggio lungo e difficile. I nazisti furono espulsi da Luhansk, i nazisti furono espulsi da Donetsk e Kherson, Melitopol e Berdyansk furono liberate dagli occupanti.
I nazisti furono espulsi da Yalta, Simferopol, Kerch e dall’intera Crimea. Mariupol fu liberata dai nazisti. Hanno espulso i nazisti da tutta l’Ucraina, ma le città che ho nominato ci ispirano particolarmente oggi. Ci danno fiducia che scacceremo di sicuro gli occupanti dalla nostra terra.
Nel giorno della vittoria sul nazismo, stiamo combattendo per una nuova vittoria. La strada per arrivarci è difficile, ma non abbiamo dubbi che vinceremo.
Qual è il nostro vantaggio sul nemico? Siamo più intelligenti di un libro. Questo è un libro di testo sulla storia dell’Ucraina. Non conosceremmo il dolore se tutti i nostri nemici potessero leggere e trarre le giuste conclusioni.
Il 24 febbraio la Russia ha lanciato un’offensiva. Ogni volta vediamo lo stesso errore. Ogni occupante che viene nella nostra terra la calpesta. Abbiamo attraversato diverse guerre. Ma hanno tutti avuto la stessa fine.
La nostra terra era disseminata di proiettili e proiettili, ma nessun nemico poteva mettere radici qui. Carri e carri armati nemici attraversarono i nostri campi, ma non diedero frutti. Aerei e missili nemici hanno volato nei nostri cieli, ma nessuno potrà oscurare il nostro cielo azzurro.
Non ci sono catene che possono legare il nostro spirito libero. Non c’è occupante che possa mettere radici nella nostra terra libera. Non c’è invasore che possa governare il nostro popolo libero.
Prima o poi si vince. Nonostante l’orda, nonostante il nazismo, nonostante la mescolanza del primo e del secondo, che è l’attuale nemico, vinciamo, perché questa è la nostra terra.
Perché qualcuno sta combattendo per il padre zar, il führer, il partito e il capo, mentre noi stiamo combattendo per la Patria. Non abbiamo mai combattuto contro nessuno. Combattiamo sempre per noi stessi. Per la nostra libertà. Per la nostra indipendenza. In modo che la vittoria dei nostri antenati non sia stata vana. Hanno combattuto per la libertà per noi e hanno vinto.
Stiamo lottando per la libertà dei nostri figli, e quindi vinceremo. Non dimenticheremo mai cosa fecero i nostri antenati durante la seconda guerra mondiale. Dove sono morti più di otto milioni di ucraini. E un ucraino su cinque non è tornato a casa. In totale, la guerra ha causato almeno 50 milioni di vittime.
Non diciamo “possiamo ripeterlo”. Perché solo un pazzo può desiderare di ripetere i 2194 giorni di guerra. E’ un altro quello che oggi sta ripetendo gli orribili crimini del regime di Hitler, seguendo la filosofia nazista, copiando tutto ciò che hanno fatto. È condannato. Perché è stato maledetto da milioni di antenati quando ha iniziato a imitare il loro assassino. E quindi perderà tutto.
E molto presto ci saranno due Giorni della Vittoria in Ucraina. Mentre a qualcuno non ne rimarrà nemmeno uno.
Abbiamo vinto allora. Vinceremo anche noi adesso!
E Khreshchatyk vedrà la parata della vittoria: la vittoria dell’Ucraina!
Congratulazioni per il Giorno della Vittoria sul nazismo!
Gloria all’Ucraina!
Il Nazista Puti. Putin: "Stiamo liberando l’Ucraina dalla feccia nazista". Edoardo Sirignano l'8 Maggio 2022 su Il Giornale.
Lo zar paragona l’operazione in Ucraina alla seconda guerra mondiale e sostiene come i russi possono ancora sconfiggere Zelensky proprio come fecero con Hitler nel 1945.
La vittoria sarà nostra. Non si fa attendere la risposta di Vladimir Putin alle parole di Volodomyr Zelensky, che qualche ora fa, in un video, aveva paragonato lo zar a Hitler. Il presidente russo, nella giornata della commemorazione della Piazza Rossa, prendendo sempre come spunto la seconda guerra mondiale, ha messo la sua operazione militare alla pari di quella avvenuta nel 1945 per mano di Stalin.
Per il capo del Cremlino, come riporta la Tass, la vittoria sugli ucraini corrisponde a quella avuta dai sovietici sulla Germania nazista di Hitler. “Oggi i nostri soldati – si legge sul sito del governo di Mosca – stanno combattendo fianco a fianco per la liberazione della loro terra nativa dalla feccia nazista”.
Nei telegrammi di congratulazioni inviati ai leader delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk, in occasione del 77esimo anniversario della vittoria nella Grande Guerra Patriottica, inoltre, Putin ha incoraggiato i suoi uomini a credere ancora nell’successo dell’operazione, seppure siano state diverse le sconfitte registrate sul campo: “Sono certo che la vittoria – ha sottolineato – sarà nostra, proprio come nel 1945”.
Non a caso proprio nella giornata di oggi hanno ricominciato a suonare le sirene che avvertono dei bombardamenti in tutte le grandi città ucraine non ancora occupate. Lo slogan, come riportato dalla principale agenzia stampa russa, sarebbe basato su un “dovere comune”, ovvero prevenire la restaurazione di un regime simile a quello del Fuhrer.
Un grido di battaglia, però, che ancora una volta allontana due popolazioni, ormai sempre più distanti tra loro. Secondo Kiev, infatti, la Russua corrisponderebbe all’aggressore che nella seconda guerra mondiale da Berlino mandò le sue truppe verso est. Lo stesso premier Zelensky, in un discorso in bianco e nero, pubblicato oggi, ha chiarito come è stata organizzata una “ripetizione fanatica del regime nazista”.
Il riferimento è proprio alla piazza di Mosca, oggi piena di manifesti a sostegno di Putin, z sui muri, parate e segni di un paese che come riferito dal presidente ancora non si sente sconfitto, nonostante le perdite e crede quindi nel rovesciamento delle sorti.
DAGONOTA il 9 maggio 2022.
Il discorso di Vladimir Putin davanti alla Piazza Rossa, con la parata organizzata per celebrare il 77esimo anniversario del giorno della vittoria dell’Unione sovietica sul nazismo, ha sorpreso gran parte degli analisti internazionali di geopolitica.
Ha sorpreso per il suo tono cauto, dimesso, al limite del sottomesso, al punto che non ha fatto alcun riferimento al nucleare, non ha dato inizio ad alcuna escalation, non ha trasformato l’Operazione militare speciale in guerra. Nessuna enfasi, nessuna mobilitazione generale, nessuna dichiarazione di guerra: il conflitto è diventato una lotta in difesa della “patria” nel Donbas.
Ha sorpreso perché ha riconosciuto il gran numero di soldati e ufficiali che sono morti: “un dolore per tutti noi e una perdita irreparabile per parenti e amici… Daremo un sostegno speciale ai figli dei compagni morti e feriti. In merito ho firmato oggi un decreto”.
Ha sorpreso perché lo scontatissimo attacco a Washington si è trasformato in un appello ai paesi europei di non farsi trascinare in un abisso di morte: “Gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, hanno curato solo la loro esclusività, umiliando così non solo tutto il mondo ma anche i propri Paesi satelliti che sono costretti a far finta di non accorgersi di nulla e a inghiottire tutto questo docilmente”.
Ha sorpreso perché ha spazzato via la minaccia nucleare spiegando che "l'orrore di una guerra globale non si deve ripetere" sottolineando che con l'attacco all'Ucraina Mosca ha risposto ad "una minaccia diretta vicino ai confini russi", perché "una attacco era stato preparato, anche alla Crimea". "Se ci fosse stata anche una possibilità di risolvere la questione ucraina pacificamente, la Russia l'avrebbe usata", ha aggiunto.
Un discorso dimesso che, secondo gli analisti, denota che Putin ha difficoltà all’interno del suo regime. Uno spiraglio che potrebbe portare a una trattativa è stato subito percepito da Macron parlando a Strasburgo alla chiusura della Conferenza sul futuro dell'Europa: “Non siamo in guerra contro la Russia, lavoriamo per la preservazione dell'integrità dell'Ucraina, per la pace nel nostro continente. Ma sta solo all'Ucraina definire i termini dei negoziati con la Russia".
Ha acutamente chiosato sul corriere.it Marco Imarisio: “Non sono volati neppure gli aerei di guerra in formazione a Z, bloccati dalle avverse condizioni atmosferiche, come ha detto il portavoce Dmitry Peskov. Anche il suo presidente, tutto sommato, ha volato basso. Forse la vera novità è questa: quello di Putin è un discorso in tono minore, quasi sulla difensiva. Come se anche lui avesse voglia di farla finita. Ma questa è solo una nostra impressione, la nostra speranza”.
Estratto dell’articolo di Micol Flammini per ilfoglio.it il 9 maggio 2022.
[…] Davanti alla Piazza Rossa, con la parata organizzata per celebrare il 77esimo anniversario del giorno della vittoria dell’Unione sovietica sul nazismo, Vladimir Putin ha ricordato per un attimo le perdite che questa nuova guerra: “La morte di ciascuno dei nostri soldati e ufficiali è un dolore per tutti noi e una perdita irreparabile per parenti e amici… Daremo un sostegno speciale ai figli dei compagni morti e feriti. In merito ho firmato oggi un decreto”.
Davanti al ricordo dei soldati morti, di cui non ha fornito numeri, il presidente russo ha ribaltato la realtà, cercando di tratteggiare la storia di una guerra nata non per aggredire un paese vicino, bensì per difendere il territorio di una Russia che il resto del mondo vuole aggredita e isolata.
Il 24 febbraio, giorno dell’inizio dell’invasione, Putin aveva parlato di un’operazione speciale per denazificare l’Ucraina. Oggi, 9 maggio, la guerra è diventata una lotta in difesa della “patria” nel Donbas.
[…] Quello di Putin nella Piazza Rossa era un discorso rivolto soprattutto ai russi, per dire loro: siamo un popolo unico, forte, indipendente, ne dobbiamo subire le conseguenze, le morti e dobbiamo difenderci. Lamentele e sacralità al servizio della propaganda e per continuare a giustificare una guerra alla quale non ha intenzione di mettere fine: le accuse agli Stati Uniti e la dichiarazione seconda la quale la Nato punta al territorio russo lo dimostrano. [...]
Marco Imarisio per corriere.it il 9 maggio 2022.
Anatomia di un discorso tanto cauto quanto atteso, ed è una cautela che induce a una piccola speranza. Perché per una volta, sono più importanti le parole non dette di quelle effettivamente pronunciate. Sul palco allestito nella Piazza Rossa , davanti agli «hurrah» dell’esercito schierato, Vladimir Putin non ha fatto alcun riferimento al nucleare, non ha dato inizio ad alcuna escalation, non ha trasformato l’Operazione militare speciale in guerra.
Niente di tutto questo. Anzi, per la prima volta ha riconosciuto il prezzo in termini di vite umane che la Russia sta pagando. «La morte di ognuno dei nostri soldati e dei nostri ufficiali è un dolore che grava su tutti noi» ha detto, aggiungendo che «lo Stato farà di tutto per aiutare le famiglie, e darà un supporto speciale ai bambini delle vittime e ai nostri compagni feriti».
La sorpresa è stata nei contenuti mancanti, e nel tono del discorso. Nonostante lo sfarzo dell’allestimento guerresco, Putin non ha fatto ricorso all’enfasi trionfalistica, e neppure alla retorica nazionalista. Ha cominciato facendo un parallelo tra i veterani del 1941-1945 che sedevano dietro di lui e i soldati che stanno combattendo nel Donbass. «La milizia del Donbass e l’esercito russo stanno combattendo per la loro terra, che gli eroi della Grande Guerra Patriottica hanno difeso fino alla morte».
Ma ben presto ha abbandonato questo paragone. Per passare a un riassunto dei motivi che lo hanno spinto ad invadere l’Ucraina, Paese mai nominato durante la sua orazione, come se esistessero solo le sue ragioni ma non lo Stato che le contiene. «Nonostante tutte le divergenze nei rapporti internazionali, la Russia si è sempre battuta per creare un sistema di sicurezza equo e paritario, un sistema di vitale necessità per tutta la comunità mondiale.
Nel dicembre scorso abbiamo proposto di concludere un accordo sulle garanzie di sicurezza. La Russia esortava l’Occidente ad un dialogo onesto, alla ricerca di soluzioni ragionevoli e di compromesso, alla considerazione dei reciproci interessi. Tutto invano. I paesi della Nato non ci hanno voluto ascoltare e ciò significa che avevano ben altri piani.
Ci si preparava a una ennesima aggressione nel Donbass, all’invasione nelle nostre terre storiche, inclusa la Crimea. A Kiev intanto veniva dichiarata possibile l’acquisizione dell’arma nucleare. Siccome esisteva una minaccia immediata ai nostri confini, la Russia ha fermato preventivamente l’aggressione. Era l’unica decisione corretta e tempestiva da prendere». Già sentito, già visto.
Se proprio vogliamo trovare una novità, è nell’attacco frontale agli Usa, ormai ritornati in Russia al ruolo di «Grande Satana» come ai tempi della guerra fredda. Mai sulla Piazza Rossa si era sentito un attacco così diretto e frontale, come se Washington fosse il ricettacolo di ogni male.
«Gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica, hanno curato solo la loro esclusività, umiliando così non solo tutto il mondo ma anche i propri Paesi satelliti che sono costretti a far finta di non accorgersi di nulla e a inghiottire tutto questo docilmente. Ma noi siamo un Paese diverso.
La Russia ha un altro carattere. Non rinunceremo mai all’amore per la Patria, alla fede e ai valori tradizionali, alle usanze degli antenati, al rispetto verso tutti i popoli e le culture. Mentre in Occidente, a quanto pare, hanno deciso di abolire questi valori millenari. Un degrado morale che è diventato la base di ciniche falsificazioni della storia della Seconda guerra mondiale, della fomentazione della russofobia, dell’esaltazione dei traditori, arrivando a cancellare il coraggio di coloro che ottennero tra le sofferenze la Vittoria».
L’ultimo passaggio è un chiaro riferimento alla scarsa importanza che secondo Putin gli Usa attribuiscono alla Russia per la sconfitta del Terzo Reich. Ai veterani americani, ha aggiunto, è stato impedito di venire oggi a Mosca. «Ma noi invece li onoriamo, come facciamo con gli altri alleati». Il presidente russo ha poi chiesto un minuto di silenzio, non solo in onore dei caduti della Seconda Guerra Mondiale, ma anche «dei martiri di Odessa bruciati vivi nella Casa dei sindacati nel maggio 2014”, dei residenti del Donbass e dei partecipanti all’Operazione militare speciale».
Putin ha concluso in crescendo, ricordando come «altre volte i nemici della Russia tentarono di usare contro di noi bande di terroristi internazionali cercando di seminare ostilità etnica e religiosa per indebolirci dall’interno, senza mai giungere ad alcun risultato». Ma infine non c’è stata alcuna nessuna dichiarazione di guerra, nessuna mobilitazione generale.
Solo un riepilogo delle ragioni russe, e la sottolineatura del fatto delle cose che il Cremlino sostiene di aver chiesto più volte alla Nato e agli Usa, senza mai ottenerle. Non sono volati neppure gli aerei di guerra in formazione a Z, bloccati dalle avverse condizioni atmosferiche, come ha detto il portavoce Dmitry Peskov. Anche il suo presidente, tutto sommato, ha volato basso. Forse la vera novità è questa: quello di Putin è un discorso in tono minore, quasi sulla difensiva. Come se anche lui avesse voglia di farla finita. Ma questa è solo una nostra impressione, la nostra speranza.
Putin, il discorso integrale in italiano. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 9 maggio 2022.
Il discorso integrale di Vladimir Putin alla parata militare del 9 maggio a Mosca, in occasione del 77esimo anniversario della vittoria nella Seconda guerra mondiale.
«Russia», 11 volte. «Soldati», 8 volte. E ancora, altre 8 volte, «Guerra» e «Patria» (anche nella declinazione «patriottica» 5 volte). Sono queste le parole più utilizzate nel discorso tenuto il 9 maggio dal presidente russo, Vladimir Putin, alla parata nella Piazza Rossa a Mosca per il giorno della Vittoria. E proprio il concetto di «Vittoria» è rimasto oggi in ombra: il termine è stato pronunciato “solo” 5 volte dallo zar. Grande attenzione è stata riservata anche ai concetti di «memoria» (5 volte) e «sicurezza» (4 volte).
Cari cittadini russi!
Cari veterani!
Compagni soldati e marinai, sergenti e capisquadra, guardiamarina e guardiamarina!
Compagni ufficiali, generali e ammiragli!
Mi congratulo con te per il Grande Giorno della Vittoria!
La difesa della Patria, quando si decideva il suo destino, è sempre stata sacra. Con tali sentimenti di autentico patriottismo, la milizia di Minin e Pozharsky si alzò per la Patria, attaccò il campo di Borodino, combatté il nemico vicino a Mosca e Leningrado, Kiev e Minsk, Stalingrado e Kursk, Sebastopoli e Kharkov. Quindi ora, in questi giorni stai combattendo per la nostra gente nel Donbass. Per la sicurezza della nostra Patria - la Russia.
Il 9 maggio 1945 è per sempre iscritto nella storia mondiale come un trionfo del nostro popolo sovietico unito, della sua unità e del suo potere spirituale, un’impresa senza precedenti al fronte e alle retrovie. Il Giorno della Vittoria è vicino e caro a ciascuno di noi. Non c’è famiglia in Russia che non sia stata bruciata dalla Grande Guerra Patriottica. La sua memoria non svanisce mai. In questo giorno, nel flusso infinito del «Reggimento immortale» - figli, nipoti e pronipoti degli eroi della Grande Guerra Patriottica. Portano fotografie dei loro parenti, soldati caduti che sono rimasti per sempre giovani e veterani che ci hanno già lasciato. Siamo orgogliosi della generazione invincibile e valorosa di vincitori, che siamo i loro eredi, ed è nostro dovere conservare la memoria di coloro che hanno schiacciato il nazismo, che ci hanno lasciato in eredità a essere vigili e fare di tutto affinché l’orrore di una guerra globale non succede più. E quindi, nonostante tutti i disaccordi nelle relazioni internazionali, la Russia ha sempre sostenuto la creazione di un sistema di sicurezza uguale e indivisibile, un sistema vitale per l’intera comunità mondiale. Nel dicembre dello scorso anno abbiamo proposto di concludere un accordo sulle garanzie di sicurezza. La Russia ha invitato l’Occidente a un dialogo onesto, a cercare soluzioni ragionevoli e di compromesso, a tener conto dei reciproci interessi. Tutto invano.
I Paesi della Nato non volevano ascoltarci, il che significa che in realtà avevano piani completamente diversi. E l’abbiamo visto. Apertamente, erano in corso i preparativi per un’altra operazione punitiva nel Donbass, per un’invasione delle nostre terre storiche, compresa la Crimea. A Kiev hanno annunciato la possibile acquisizione di armi nucleari. Il blocco Nato ha avviato lo sviluppo militare attivo dei territori a noi adiacenti. Così, una minaccia per noi assolutamente inaccettabile è stata sistematicamente creata, direttamente ai nostri confini. Tutto indicava che uno scontro con i neonazisti, su cui puntavano gli Stati Uniti e i loro partner, sarebbe stato inevitabile. Ripeto, abbiamo visto come si sta sviluppando l’infrastruttura militare, come hanno iniziato a lavorare centinaia di consulenti stranieri, ci sono state consegne regolari delle armi più moderne dai paesi della Nato. Il pericolo cresceva ogni giorno. La Russia ha rifiutato preventivamente l’aggressione. È stata una decisione forzata, tempestiva e l’unica giusta. La decisione di un Paese sovrano, forte, indipendente. Gli Stati Uniti d’America, soprattutto dopo il crollo dell’Unione Sovietica, hanno iniziato a parlare della sua esclusività, umiliando così non solo il mondo intero, ma anche i suoi satelliti, che devono fingere di non accorgersi di nulla e accettare docilmente tutto. Ma siamo un paese diverso. La Russia ha un carattere diverso. Non rinunceremo mai all’amore per la Patria, alla fede e ai valori tradizionali, ai costumi dei nostri antenati, al rispetto per tutti i popoli e le culture. E in Occidente, questi valori millenari, a quanto pare, hanno deciso di cancellarsi.
Tale degrado morale divenne la base per ciniche falsificazioni della storia della seconda guerra mondiale, incitando alla russofobia, elogiando i traditori, deridendo la memoria delle loro vittime, cancellando il coraggio di coloro che vinsero e subirono la Vittoria. Sappiamo che ai veterani americani che volevano partecipare alla parata di Mosca è stato effettivamente vietato di farlo. Ma voglio che sappiano che siamo orgogliosi delle tue imprese, del tuo contributo alla Vittoria comune. Onoriamo tutti i soldati degli eserciti alleati - americani, inglesi, francesi - i partecipanti alla Resistenza, i valorosi soldati e partigiani della Cina - tutti coloro che hanno sconfitto il nazismo e il militarismo.
Cari compagni!
Oggi la milizia del Donbass, insieme ai combattenti dell’esercito russo, sta combattendo nella propria terra, dove i combattenti di Svyatoslav e Vladimir Monomakh, i soldati di Rumyantsev e Potemkin, Suvorov e Brusilov, hanno combattuto il nemico, dove gli eroi della Grande Guerra Patriottica - Nikolai Vatutin, Sidor Kovpak, Lyudmila Pavlichenko hanno combattuto fino alla morte. Mi rivolgo ora alle nostre forze armate e alla milizia del Donbass. Stai combattendo per la Patria, per il suo futuro, in modo che nessuno dimentichi le lezioni della Seconda Guerra Mondiale. In modo che non ci sia posto nel mondo per carnefici, punitori e nazisti.
Oggi chiniamo il capo davanti al ricordo benedetto di tutti coloro la cui vita è stata tolta dalla Grande Guerra Patriottica, davanti al ricordo di figli, figlie, padri, madri, nonni, mariti, mogli, fratelli, sorelle, parenti, amici.
Chiniamo il capo davanti alla memoria dei martiri di Odessa, bruciati vivi nella Camera dei sindacati nel maggio 2014. Davanti alla memoria degli anziani, delle donne e dei bambini del Donbass, dei civili morti per i bombardamenti spietati, i barbari attacchi dei neonazisti. Chiniamo il capo davanti ai nostri compagni d’armi, che morirono alla morte di coraggiosi in una giusta battaglia - per la Russia. Viene annunciato un momento di silenzio. (Momento di silenzio.) Decreto sulle misure aggiuntive a sostegno delle famiglie del personale militare e dei dipendenti di alcune agenzie del governo federale La morte di ciascuno dei nostri soldati e ufficiali è un dolore per tutti noi e una perdita irreparabile per parenti e amici. Lo stato, le regioni, le imprese, le organizzazioni pubbliche faranno di tutto per prendersi cura di queste famiglie e aiutarle. Daremo un sostegno speciale ai figli dei compagni morti e feriti. Firmato oggi il DPR in merito. Auguro una pronta guarigione ai soldati e agli ufficiali feriti. E ringrazio i medici, i paramedici, gli infermieri, il personale medico degli ospedali militari per il loro lavoro disinteressato. Un profondo inchino a te per aver combattuto per ogni vita - spesso sotto tiro, in prima linea, senza risparmiarti. Cari compagni! Ora qui, sulla Piazza Rossa, stanno spalla a spalla soldati e ufficiali di molte regioni della nostra vasta Patria, compresi quelli che sono arrivati direttamente dal Donbass, direttamente dalla zona di combattimento. Ricordiamo come i nemici della Russia hanno cercato di usare contro di noi bande di terroristi internazionali, hanno cercato di seminare inimicizia nazionale e religiosa per indebolirci e dividerci dall’interno. Niente è riuscito.
Oggi, i nostri combattenti di diverse nazionalità sono insieme in battaglia, coprendosi a vicenda da proiettili e schegge come fratelli. E questa è la forza della Russia, la grande, indistruttibile forza del nostro popolo unito e multinazionale. Oggi difendi ciò per cui hanno combattuto i tuoi padri, i tuoi nonni, i tuoi bisnonni. Per loro, il senso più alto della vita è sempre stato il benessere e la sicurezza della Patria. E per noi, loro eredi, la devozione alla Patria è il valore principale, un supporto affidabile per l’indipendenza della Russia. Coloro che hanno schiacciato il nazismo durante la Grande Guerra Patriottica ci hanno mostrato un esempio di eroismo per tutti i tempi. Questa generazione di vincitori, e noi li ammireremo sempre.
Gloria alle nostre valorose Forze Armate!
Per la Russia! Per la vittoria!
Evviva!
Vittimisti di successo. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera 9 Maggio 2022.
Fare la vittima funziona. Persino Putin, il macho per eccellenza, se ne è uscito sulla Piazza Rossa con un piagnisteo contro la Nato che, secondo lui, stava per invadere la Russia. In fondo anche Zelensky, che vittima lo è per davvero, sembra sempre voglia farci sentire un po’ in colpa perché non lo aiutiamo abbastanza. Ma la lista dei vittimisti di successo è infinita. L’ex presidente degli Stati Uniti che, agitando il fantasma dei brogli, solleva una mezza insurrezione e si rilancia politicamente. L’ex premier italiano che si costruì una carriera facendo la vittima dei giudici. Gli oppositori che se la costruirono facendo le vittime dell’ex-premier. Il partito che diventa «establishment» lamentandosi di essere vittima dell’«establishment». Fino al professore universitario di recentissima notorietà che attribuisce la sua ritardata consacrazione alle bocciature inflittegli «mille volte e ingiustamente» da colleghi invidiosi e collusi. Di solito il vittimista si rappresenta come un eroe lasciato solo a combattere contro un esercito di ombre maligne e vendicative. C’entra l’umana indulgenza verso sé stessi e, forse, il calcolo malizioso che niente produce più empatia del vittimismo: tutti imputiamo i nostri errori alla malafede altrui e tendiamo a solidarizzare con chi ce ne dà conferma. Tra tanti aspiranti al ruolo di vittima, l’unico controcorrente sembrava Calenda, che a Como aveva in lista una mistress sadomaso. Poi però l’ha tolta. Nel Paese delle vittime una «dominatrice» prenderebbe pochi voti.
DAGONEWS il 9 maggio 2022.
La parata della vittoria si è trasformata in una clamorosa umiliazione per Putin. Mentre milioni di cittadini russi si preparavano a guardare in diretta il discorso di “Mad Vlad” dalla piazza rossa di Mosca, un gruppo di hacker è riuscito a colpire le tv del Paese, facendo comparire un messaggio con su scritto: “Nelle tue mani c’è il sangue di persone in Ucraina e dei loro bambini assassinati. La tv e il governo ti mentono”
Parata della Vittoria, il mistero dei jet scomparsi: cosa è successo davvero sui cieli della Piazza Rossa. Libero Quotidiano il 09 maggio 2022.
Oggi, nove 9 maggio, in un giorno così importante per la Russia, a destare scalpore è stato l’annullamento dello spettacolo dell’aviazione russa. Nel giorno della Parata della Vittoria, che è al suo 77esimo anniversario dalla liberazione della Germania, i celebri Mig (i caccia dell’armata russa) non hanno sfilato come programmato. Un’assenza che non poteva passare inosservata dopo le foto delle esercitazioni in volo a formare una Z, simbolo dell’operazione militare in Ucraina.
Il portavoce del Presidente Putin, Dmitry Peskov, ha spiegato al Kommersant che tale esibizione è stata annullata causa maltempo. La giustificazione ha destato parecchio sospetto data la giornata soleggiata, confermato anche dalle analisi meteo fornite da AccuWeather. L’unica scusa plausibile è stata fornita da Peter Layton alla Cnn, il quale ha affermato che probabilmente ci sarebbe stato: “Vento forte alle basi di partenza”. Durante la Parata il vento era: “Intorno ai 24 km/h, con raffiche di 50 km/h” ha spiegato la meteorologa della Cnn Monica Garrett. Ad aumentare il mistero su questa faccenda ci sarebbero altri due dati ad aggiungersi.
Da un lato il fatto che le parate aeree non sia state cancellate solo a Mosca ma anche a San Pietroburgo e Rostov, ha riferito l’agenzia stampa Tass. Mentre l’agenzia Ria Novosti ha dichiarato cancellazioni anche a Murmansk, Kaliningrad e Samara. Dall’altro lato, in condizioni meteo più avverse, come ad esempio gli aerei delle città di Niznij Novgorod, hanno sfilato. Quest’ultimo dato sconfessa quindi ogni altra dichiarazione. Chissà quindi quale risposta si cela dietro questa misteriosa decisione dello Zar.
Mosca, le foto della parata del 9 maggio: Putin e Shoigu, "non è al suo fianco". Il dettaglio inquietante. Il Tempo il 09 maggio 2022.
Nell'attesissimo discorso pronunciato sulla Piazza rossa in occasione del Giorno della vittoria, il presidente russo Vladimir Putin rivendica la sua "operazione militare speciale" in Ucraina, ma non spinge la guerra a uno step successivo. Anzi, il leader di Mosca evita di pronunciare esplicitamente la parola, come temuto alla vigilia delle celebrazioni per la vittoria sul nazismo, nonostante le smentite del Cremlino, concentrandosi sulle motivazioni che lo avrebbero spinto a questo gesto e attaccando frontalmente la Nato e l'Occidente, che "non ha voluto ascoltarci".
In una Piazza rossa gremita da circa 11mila soldati divisi in 33 colonne, con sfoggio di carri armati, armamenti e dell'aereo anti attacco nucleare Ilyushin-80, ma dove non si è potuta tenere la parte aerea della parata a causa - almeno secondo quanto riferito dal Cremlino - delle condizioni meteo, risuona forte anche ciò che Putin non ha detto. Nessun accenno proprio al nucleare, o a un'escaltion del conflitto, ma un monito a essere vigili nel "fare di tutto affinché l'orrore di una guerra globale non succeda più".
Ma non solo il discorso anche le immagini del Giorno della Vittoria fanno discutere e persino scoppiare un giallo. Sulla piazza appare trionfante anche Sergej Shoigu, il fedelissimo ministro della Difesa russo, scomparso e riapparso. Su di lui è stato scritto di tutto, persino che fosse ridotto in fin di vita. Poi il suo ritorno in pubblico - due settimane fa - con il faccia a faccia con lo zar trasmesso in tv). Ma Shoigu sulla piazza Rossa non si è mai visto al fianco del presidente: nemmeno un istante vicini né una foto insieme. Un caso in un giorno tanto atteso e significativo per la Russia o il segno inequivocabile della distanza fra i due?
L'assente di lusso del 9 Maggio. Il mistero di Valery Gerasimov, il generale russo assente alla parata di Mosca: i dubbi sul suo ferimento in Ucraina. Carmine Di Niro su Il Riformista il 9 Maggio 2022.
Nessuna minaccia di una escalation nucleare, né della trasformazione del conflitto in corso in Ucraina da “operazione militare speciale” a vera e propria “guerra”. Accanto al ‘non detto’ di Vladimir Putin nel suo discorso tenuto questa mattina nella Piazza Rossa di Mosca per celebrare il 9 Maggio, data che simboleggia la vittoria dell’Unione Sovietica sul nazismo, c’è anche il ‘non presente’.
Fa infatti discutere l’assenza alla cerimonia, accanto alle alte sfere del governo russo e delle forze armate, del generale Valery Gerasimov, capo delle Forze armate russe e ufficiale in uniforme più alto in grado della Russia, una delle tre persone assieme a Putin e al ministro della Difesa Sergei Shoigu ad avere i codici nucleari.
L’assenza di Gerasimov alla celebrazione del 9 Maggio rilancia dunque i rumors, per ora non confermati, di un suo ferimento lo scorso primo maggio durante un attacco ucraino al centro di comando russo di Izyum, stabilito all’interno di una scuola ‘sequestrata’ dai militari. Gerasimov sarebbe stato ferito in modo non grave alla gamba destra.
La notizia era stata pubblicata da Bellingcat, noto sito di giornalismo investigativo, e confermata dall’ex ministro dell’Interno ucraino Arsen Avakov. Gerasimov, teorico della dottrina di guerra non-convenzionale che prende il suo nome, era stato ‘spedito’ da Putin nel Donbass per coordinare l’offensiva russa che dovrebbe portare il Cremlino a prenderei il totale controllo della Regione che ospita le due repubbliche separatiste filorusse di Donetsk e Lugansk.
Di Gerasimov in realtà si erano già perse le tracce ‘pubbliche’: il capo delle Forze armate russe era stato visto l’ultima volta in pubblico l’11 marzo scorso, data dell’incontro con la sua controparte turca Yasar Güler. Sempre a marzo suo nipote Vitalij Gerasimov, a capo del 41esima armata dell’esercito russo, era stato ucciso durante dei combattimenti vicino a Kharkiv.
In realtà sullo stesso ferimento di Gerasimov l’intelligence ucraina aveva chiarito che era stata attaccato l’area in cui il generale russo era presente, precisando però di non averlo colpito e che probabilmente il capo delle Forze armate russe fosse poi riuscito a fare ritorno in patria. Nell’attacco sarebbero però morti circa 200 militari russi, tra cui il maggiore generale Andrey Simonov.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Chi sono gli "Immortali" che non hanno partecipato alla parata di Putin. Alessandro Ferro il 9 Maggio 2022 su Il Giornale.
A 10 anni dalla fondazione, i tre capi del Reggimento degli "Immortali" non hanno partecipato alla parata di Mosca per le celebrazioni del 9 maggio: ecco cosa c'è dietro a questa scelta.
Durante la parata del 9 maggio che si è da poco conclusa hanno preso parte anche i componenti del "Reggimento Immortale", in pratica figli, nipoti e pronipoti degli "eroi" della Grande Guerra Patriottica che portano con loro le foto in bianco e nero e i ritratti dei loro cari che sono caduti nel campo di battaglia. Gli "Immortali" sono un popolo numerosissimo che comprende milioni di persone sia in Russia ma anche oltreconfine ed è stato istituito dieci anni fa. Il ricordo dei propri familiari e parenti, però, quest'anno è stato sporcato dalla guerra ordinata da Putin nei territori ucraini. È per questa ragione che i fondatori di questo reggimento non hanno sfilato per le vie di Mosca.
"I bisnonni ci avrebbero maledetto"
Sergej Lapenkov, Igor Dmitriev e Sergej Kolotovkin, i tre fondatori, hanno deciso di incrociare le braccia e bloccare una tradizione che loro stessi avevano lanciato con una nobile motivazione. "Purtroppo assistiamo a fenomeni ed eventi che cambiano il significato originario", hanno scritto sul sito web degli Immortali. Possessori anche di Tv2, chiusa lo scorso 4 marzo per le posizioni anti-putiniane e contro le fake news della propaganda russa, i tre soci non ci stanno. "È la nostra posizione. E non è cambiata. Il guaio è che pochi pensano che in Ucraina siano stati gettati, dall'una e dall'altra parte, i pronipoti di coloro che combatterono allora e che oggi chiamiamo Reggimento Immortale. I nostri bisnonni ci avrebbero maledetto per quello che sta succedendo", ha affermato a Repubblica Lapenkov.
Chi ha boicottato la parata
Oltre alla loro protesta, hanno partecipato alla parata ma per esprimere il loro dissenso anche i componenti di Vesna (Primavera), che avevano già mostrato la loro contestazione in diverse maniere tra le quali l'invito ai loro sostenitori di mettere una scritta sotto i ritratti dei propri familiari morti in guerra: "Non hanno combattuto per questo", riferendosi, ovviamente, al conflitto in Ucraina. È chiaro che il Cremlino ha fatto da spettatore attento in questa vicenda e sta già operando le contromosse come l'arresto del coordinatore di Vesna e altri tre attivisti che rischiano fino a 24 mesi di carcere per la "creazione di un'organizzazione senza scopo di lucro che viola i diritti dei cittadini".
"Da vittorioso a aggressore"
Lo storico Jurij Alekseev, veterano in Afghanistan e in Cecenia, senza mezzi termini ha affermato che lo scorso 24 febbraio la Russia "da Paese vittorioso è diventata aggressore. Che metamorfosi. Che cosa ha a che fare con il 9 maggio?", e che questa aggressione è avvenuta in un giorno in cui sono stati messi in bella mostra i vessilli della "denazificazione" "anche se non so come vogliano denazificare gli ebrei, intendo il presidente Zelensky". Se da un lato c'è stato l'orgoglio e la commozione delle famiglie di chi non c'è più, dall'altro lato la Russia oggi non si è preoccupata della "moralità", come l'ha definita Alekseev. Secondo quanto riferito dall'Agenzia russa Novosti, si sarebbero tenute anche a Kherson alcune manifestazioni degli Immortali, città ucraina occupata dai russi.
"Putin come Hitler?". E Cacciari sbotta in tv. Luca Sablone il 9 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il filosofo attacca senza mezzi termini chi paragona la figura di Putin a quella di Hitler: "Una perfetta idiozia che vale solo come volgare propaganda".
L'accusa di fondo che in molti hanno avanzato da circa due mesi a questa parte è davvero forte, una tesi che paragona la figura di Vladimir Putin a quella di Adolf Hitler. Ma davvero si può effettuare un'uguaglianza tra i due? C'è chi fa notare che si tratta di una pratica impossibile, poiché andrebbero messe a confronto due epoche storiche completamente differenti e circostanze che tra di loro non possono essere assimilate con estrema superficialità.
L'argomento in questione è stato al centro dell'ultima puntata di Non è l'arena, programma in onda su La7 la domenica sera, che si è occupato di prendere in esame la situazione che il mondo sta attraversando mentre è in corso il conflitto militare tra Ucraina e Russia. Una voce importante è stata quella di Massimo Cacciari, che senza mezzi termini se l'è presa con chi continua a paragonare Putin a Hitler: "Si tratta di una perfetta idiozia che vale solo come volgare propaganda".
Come mai il filosofo ha una posizione così netta nei confronti di questa tematica? A suo giudizio non bisognerebbe farsi guidare dall'istinto, ma ragionare in maniera distaccata e tenendo bene in mente tutte quelle che sono le effettive differenze. "Quando si vuole demonizzare l'avversario è naturale che si usi l'immagine del demonio, cioè di un male assoluto", ha fatto notare. Agire in questo modo, sostiene Cacciari, non è solo facile e superficiale ma soprattutto "perfettamente idiota".
Il filosofo ha posto l'accento sul fatto che le tragedie che stiamo vivendo "non hanno nulla a che fare con quello che ha rappresentato il nazionalsocialismo e la figura di Hitler", né dal punto di vista ideologico né da un punto di vista strategico-politico. I pensieri di Cacciari non vanno messi in relazione solo all'attuale conflitto militare tra Ucraina e Russia, ma andrebbero presi in considerazione ogni volta che si parla di qualsiasi conflitto avvenuto dalla Seconda Guerra Mondiale in poi.
"Se vogliamo parlare seriamente di nazismo allora facciamo un discorso sulla straordinarietà dell'esperienza nazionalsocialista anche nei confronti del fascismo", ha aggiunto il filosofo. Che infine ha voluto ammonire pure tutti coloro che in maniera frettolosa e sbrigativa parlano di nazi-fascismo, anche se in fin dei conti c'è stata un'alleanza politica: "È una stupidaggine. Ideologicamente e culturalmente sono due fenomeni che andrebbero rigorosament
Otto e mezzo, Alessandro Sallusti: "Hitler come Putin? Ci sono analogie inquietanti..." Libero Quotidiano il 26 febbraio 2022.
"Putin come Hitler?". Alessandro Sallusti, in collegamento con Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nella puntata del 25 febbraio, conferma il paragone: "Ci sono analogie, dei corsi e ricorsi storici, inquietanti... Nel 1938 Hitler invase la Cecoslovacchia con la scusa che ci fosse una minoranza tedesca vessata e l’Europa stette a guardare. Come quella era una scusa per Hitler così le minoranze russe lo sono per Putin", sottolinea il direttore di Libero.
Che osserva: "La domanda è se questo è il primo passo per ricostituire l'Unione Sovietica, per ricostituire un impero". "Se Vladimir Putin fosse il nuovo Hitler", aggiunge Gad Lerner, anche lui in collegamento, "e noi abbiamo sentito indicare tanti nuovi Hitler negli ultimi 20 anni, ci sarebbe solo una cosa da fare e ce lo dice la storia: armare una guerra militare contro la Russia".
"Questa è la seconda grande sconfitta dell'Occidente in pochi mesi dopo la fuga ingloriosa da Kabul", conclude dunque Gad Lerner. "Per me non è Hitler, è uno che vuole sviluppare una sua sfera d'influenza e avere la certezza che ai suoi confini non ci siano missili della Nato puntati contro di lui".
Caracciolo ridicolizza Putin: “Il Donbass vale poco, è già sconfitto”. Il Tempo l'08 maggio 2022.
Francesco Verderami è stanco delle bugie sulla guerra della Russia usate da un certo colore politico, quello a sinistra, per motivi di pura auto-propaganda. Il giornalista del Corriere della Sera è ospite in studio della puntata dell’8 maggio di Controcorrente, programma tv di Rete4 che vede Veronica Gentili alla conduzione, e si toglie un sassolino, anzi un macigno dalla scarpa: “Tra le varie fake news io ne noto una che va avanti da un po’ di tempo, è una sorta di revisionismo storico su Vladimir Putin. Oggi è incentrato sul nazionalismo, sulla religione, sull’ortodossia russa, ma Putin è un comunista, nato in Unione Sovietica, cresciuto dai servizi segreti del Kgb e che ha operato attraverso gli strumenti che il comunismo gli dava per cercare di rilanciare la vecchia Unione Sovietica che aveva fallito. Putin passa per un fascista ed autorevolissimi intellettuali della sinistra, o delle terrazze romane o dell’azionismo, continuano a dargli del fascista, vorrei ricordare che - conclude il giornalista - Putin sta nella foto del comunismo, nella foto di famiglia…”.