Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

GLI STATISTI

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

GLI STATISTI

INDICE PRIMA PARTE

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero Moro.

Le aste dei cimeli giudiziari.

Le Brigate Rosse.

Il retroscena di un delitto. La pista dei servizi segreti domestici. 

Il retroscena di un delitto. La pista della ‘Ndrangheta.

Il retroscena di un delitto. La pista palestinese.

Il retroscena di un delitto. La pista russa.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando Andreotti.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Gli Amici di Craxi.

I Nemici di Craxi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Berlusconi e la Famiglia.

Berlusconi e lo Sport.

Berlusconi e gli amici.

Berlusconi e la politica.

Berlusconi e la Giustizia.

 

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Stato, Fascismo e lotte di classe: eran e son comunisti.

Al tempo del Nazismo.

L’Olocausto.

Dio, Patria, Famiglia.

Le Leggi Razziali.

Al tempo del Fascismo.

Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.

Dopo il Fascismo.

I Figli di Mussolini.

Le Marocchinate.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Eredi di Mussolini.

Nazista…a chi?

 

 

 

 

GLI STATISTI

TERZA PARTE

 

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Economia pianificata. Le affinità tra Hitler e Stalin sulla proprietà privata e le nazionalizzazioni. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 2 Luglio 2022.

Nel suo nuovo libro, Rainer Zitelmann analizza il pensiero economico e socio-politico del dittatore tedesco che durante il regime nazista sottolineò quanto disporre dei propri beni non era in alcun modo un affare privato degli industriali. E tollerava la proprietà individuale solo se utilizzata nella cornice di obiettivi stabiliti dallo Stato 

Rispondere alla domanda sulla posizione di Hitler sulla proprietà privata e sulle nazionalizzazioni appare piuttosto semplice. In genere si ritiene che Hitler riconoscesse la proprietà privata dei mezzi di produzione e rifiutasse la nazionalizzazione. Ma fermarsi qui, come si fa di solito, significherebbe essere superficiali, perché questa affermazione è troppo generica e lascia aperte troppe domande. Nel mio nuovo libro Hitler’s National Socialism, analizzo il pensiero economico e socio-politico del dittatore.

In un articolo sul sistema economico del nazionalsocialismo pubblicato nel 1941, l’economista e sociologo Friedrich Pollock (cofondatore dell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte, che in seguito divenne il nucleo della Scuola di Francoforte) sottolineava quanto segue: «Sono d’accordo sul fatto che l’istituto giuridico della proprietà privata sia stato mantenuto e che molti tratti caratteristici del nazionalsocialismo comincino a manifestarsi, sia pure in modo ancora vago, in Paesi non totalitari. Ma questo significa che la funzione della proprietà privata non è cambiata? È vero che l’aumento del potere di pochi gruppi è il risultato più importante del cambiamento avvenuto in Germania? Io credo che sia molto più profondo e che debba essere descritto come la distruzione di tutti i tratti essenziali della proprietà privata, con una sola eccezione. Anche alle imprese più potenti fu negato il diritto di aprire nuove attività in settori in cui si aspettavano maggiori profitti, o di interrompere una linea di produzione quando questa diventava poco redditizia. Questi diritti furono trasferiti in toto ai gruppi al potere. Il compromesso tra i gruppi al potere determinava inizialmente l’estensione e la direzione del processo produttivo. Di fronte a una tale decisione, il titolo di proprietà è impotente, anche quando si basa sul possesso della stragrande maggioranza del capitale sociale, figuriamoci poi quando ne possiede solo una minoranza».

Come sappiamo, il metodo di Hitler raramente consisteva nella radicale eliminazione di un’istituzione o di un’organizzazione. Viceversa, egli continuava a corroderne la sostanza fino a che non rimaneva pressoché nulla della sua funzione o del suo contenuto originari. Solo per amore dell’analogia, dobbiamo osservare che neppure la Costituzione di Weimar venne mai formalmente abrogata: la sua sostanza e il suo intento vennero indeboliti poco a poco e, infine, all’atto pratico eliminati.

Nei discorsi pronunciati agli esordi, Hitler propugnava la nazionalizzazione della terra, ma, in linea di principio, si dichiarava ancora favorevole alla proprietà privata. Come appare evidente dalle note di Otto Wagener, lo scetticismo di Hitler in materia di nazionalizzazione derivava dalle sue convinzioni darwinistico-sociali. Otto Wagener, capo del Dipartimento di Politica Economica della NDSAP (il partito nazista) dal gennaio 1931 al giugno 1932 e che rivestiva il ruolo di consigliere politico di Hitler, riporta che nel 1930 il futuro Führer aveva dichiarato «A questo proposito, mi sembra che l’intero concetto di nazionalizzazione, nella forma che è stata sperimentata e richiesta finora, sia erroneo e sono giunto alla medesima conclusione di Herr Wagener. In qualche modo, dobbiamo applicare a tale questione un processo di selezione. Se vogliamo addivenire ad una soluzione naturale, sana e soddisfacente del problema, [è necessario] un processo di selezione di quei soggetti aventi titolo – e ai quali sia permesso – di vantare pretese e far valere il diritto di proprietà sulle aziende del Paese».

D’altro canto, in numerose occasioni Hitler sottolineò con forza che come disporre dei propri beni non era in alcun modo un affare privato degli industriali. Il 9 ottobre del 1934, ad esempio, egli dichiarò: «Pertanto la ricchezza, in particolare, non solo comporta maggiori possibilità di godimento, ma soprattutto maggiori responsabilità. L’idea che l’uso di una fortuna, non importa quanto grande, sia esclusivamente una questione privata dell’individuo dev’essere corretta, a maggior ragione nello Stato nazional-socialista, giacché, senza il contributo della comunità, nessun individuo sarebbe mai stato in grado di godere di un tale beneficio».

Per Hitler, il mantenimento formale della proprietà privata non era importante. Una volta che lo Stato ha un diritto illimitato di stabilire le decisioni dei proprietari dei mezzi di produzione, l’istituto giuridico formale della proprietà privata non ha più significato. È questo che afferma Pollock quando individua «la distruzione di tutti i tratti essenziali della proprietà privata, con una sola eccezione». Dal momento in cui i proprietari dei mezzi di produzione non possono più decidere liberamente il contenuto, l’occasione e l’entità dei loro investimenti, le caratteristiche essenziali della proprietà privata sono abolite, anche se rimane un a garanzia formale del diritto di proprietà.

Nei suoi colloqui a tavole del 3 settembre 1942 Hitler affermò che la terra era «proprietà nazionale e, in definitiva, concessa agli individui solo in prestito». Hitler riconosce la proprietà privata solo nella misura in cui essa viene utilizzata in accordo con il principio del beneficio comune prima del beneficio privato, il che significa, in concreto, solo nella misura in cui essa viene utilizzata nella cornice di obiettivi stabiliti dallo Stato. Per Hitler, il principio di “beneficio comune prima del beneficio privato” significa che, se risulta necessario per l’interesse collettivo, lo Stato ha sempre il diritto di decidere il modo, l’entità e il momento dell’uso della proprietà privata, mentre l’interesse collettivo, ovviamente, è definito dallo Stato stesso.

Nel maggio 1937 Hitler dichiarò: «Dico all’industria tedesca, ad esempio: “adesso dovete produrre questo e quello”, dopo di che ritorno su questo punto nel Piano Quadriennale. Se l’industria tedesca dovesse replicare “non possiamo farlo”, allora risponderei: “Benissimo, assumerò io il controllo delle vostre officine, ma dev’essere fatto”. Ma se l’industria mi dice “lo faremo”, allora sono ben lieto di non dover assumerne il controllo».

Che queste affermazioni di Hitler non fossero vuote minacce divenne chiaro agli industriali già il 23 luglio 1937, quando Göring annunciò la formazione della “SpA per l’Estrazione Mineraria e Fusione della Ghisa Hermann Göring”. Il processo avviato con le ripetute minacce di Hitler e di Göring condusse infine alla creazione delle Reichswerke [Industrie del Reich] Hermann Göring, che nel 1940 impiegavano 600.000 persone. La fabbrica di Salzgitter sarebbe diventata la più grande d’Europa. In tal modo lo Stato nazional-socialista aveva dimostrato che il più volte proclamato “primato della politica” era una cosa seria e che non avrebbe esitato ad avviare attività e costruire imprese controllate dallo Stato ogniqualvolta l’industria privata avesse opposto resistenza alle direttive statali. In occasione di una conversazione tenuta il 14 febbraio 1942 con Josef Goebbels sul problema dell’aumento della produzione, Hitler ebbe a dire: «…qui dobbiamo procedere rigorosamente, che l’intero processo di produzione debba essere riesaminato e che gli industriali che non vogliono assoggettarsi alle direttive che emaniamo dovranno perdere le loro fabbriche, senza curarci del fatto che ciò possa causare la loro rovina economica».

Il modello di Hitler: Stalin e la sua economia pianificata

I nazional-socialisti intendevano espandere l’economia pianificata anche nel periodo successivo alla guerra, come sappiamo da numerosi commenti di Hitler. Al trascorrere del tempo, l’ammirazione del Führer per il sistema economico sovietico crebbe. «Se Stalin avesse continuato nella sua opera per altri dieci o quindici anni – ebbe a dire Hitler ad un gruppo ristretto di ascoltatori nell’agosto del 1942 – la Russia sovietica sarebbe diventata la nazione più potente sulla terra, per centocinquanta, duecento, trecento anni, tanto è unico questo fenomeno! Che il livello di vita si sia accresciuto, non c’è dubbio. Il popolo non ha patito la fame. Tutto considerato, dobbiamo dire: hanno costruito fabbriche dove due anni fa non c’era nient’altro che villaggi sperduti, fabbriche grandi quanto le Industrie Hermann Göring».

In un’altra occasione, sempre parlando alla cerchia dei collaboratori più stretti, egli affermò che Stalin era «un genio», nei confronti del quale si doveva avere un «rispetto indiscusso», particolarmente in considerazione della vasta pianificazione economica che aveva guidato. Hitler aggiunse di non avere il minimo dubbio che nella Russia sovietica, a differenza dei paesi capitalisti come gli Stati Uniti, non è mai esistita la disoccupazione.

In diverse occasioni il dittatore tedesco osservò in presenza dei propri collaboratori che sarebbe stato necessario nazionalizzare le società per azioni più grandi, il settore dell’energia e tutti gli altri rami dell’economia che producevano “materie prime essenziali” (ad esempio, l’industria siderurgica). Ovviamente, in tempo di guerra non era il momento più opportuno per attuare nazionalizzazioni radicali di questa portata. Hitler e i nazional-socialisti ne erano ben consapevoli e, in ogni caso, avevano fatto tutto il possibile per calmare i timori per le nazionalizzazioni degli uomini d’affari del paese. Ad esempio, nell’ottobre 1942 un memorandum di Heinrich Himmler, il capo delle SS, afferma che «finché dura la guerra» non sarebbe stato possibile un cambiamento fondamentale dell’economia capitalistica tedesca.

Chiunque si fosse battuto contro di essa avrebbe suscitato “una vera e propria caccia alle streghe” ai suoi danni. In un rapporto preparato nel luglio 1944 da un Hauptsturmführer (grado paramilitare equivalente a capitano) delle SS, alla domanda «Perché le SS sono impegnate in attività economiche?» si rispondeva «Questa domanda è stata specificamente sollevata da circoli che pensano esclusivamente nei termini del capitalismo e che non amano assistere allo sviluppo di aziende pubbliche, o quanto meno aventi una natura pubblica. L’epoca del sistema economico liberale imponeva il primato degli affari, vale a dire, prima vengono gli affari, poi lo Stato. Al contrario, il Nazional-Socialismo sostiene la posizione opposta: lo Stato dirige l’economia, lo Stato non è qui per le aziende, ma le aziende sono qui per lo Stato».

Mises: «Socialismo con l’aspetto esteriore del capitalismo»

Era in questi termini che Hitler e il Nazional-Socialismo vedevano l’essenza del sistema economico che avevano instaurato, come avevano ben compreso studiosi attenti come l’economista Ludwig von Mises. Incidentalmente, egli giunse alla medesima conclusione dell’economista di sinistra Friedrich Pollock che abbiamo visto poc’anzi. Il 18 giugno 1942 von Mises inviò una lettera al New York Times nella quale, più chiaramente di tanti dei suoi contemporanei e, soprattutto, più chiaramente di tanti autori che scrivono oggi in materia di nazional-socialismo, egli riconosceva che «il modello di socialismo tedesco (Zwangswirthschaft) è contraddistinto dal fatto di conservare, sia pure solo nominalmente, alcune istituzioni del capitalismo.

Il lavoro, ovviamente, non è più “una merce”; il mercato del lavoro è stato solennemente abolito; lo Stato stabilisce i salari e assegna a ciascun lavoratore il posto che deve occupare. La proprietà privata, in teoria, è stata mantenuta. Di fatto, tuttavia, alcuni imprenditori sono stati ridotti alla condizione di capireparto (Betriebsführer). Lo Stato dice loro cosa devono produrre e in che modo, da chi ottenere forniture e a quali prezzi, così come a chi vendere a quali prezzi.

Le aziende possono presentare rimostranze in occasione di decisioni inopportune, ma la decisione finale rimane nelle mani delle autorità … Gli scambi di mercato e l’imprenditorialità, pertanto, non sono che una facciata. Lo Stato, non la domanda da parte dei consumatori, dirige la produzione; lo Stato, non il mercato, stabilisce il reddito e le spese di ciascun individuo. Si tratta di socialismo con l’apparenza esteriore del capitalismo: pianificazione ovunque e controllo totale di tutte le attività economiche da parte dello Stato. Alcune delle etichette dell’economia capitalistica di mercato sono state conservate, ma esse significano qualcosa di completamente diverso da quello che indicherebbero in un’autentica economia di mercato».

Come sappiamo dalle dichiarazioni di Hitler, una volta terminata la guerra egli si sarebbe voluto spingere ulteriormente verso un’economia diretta dallo Stato. Nei monologhi diretti al circolo dei collaboratori più intimi (le cosiddette “conversazioni a tavola”) e tenuti il 27 e 28 luglio 1941, Hitler affermò che «un impiego sensato delle risorse di un. paese può essere realizzato esclusivamente in un’economia diretta dall’alto». Più o meno due settimane dopo egli aggiunse: «Per quanto riguarda la pianificazione dell’economia, siamo a mala pena agli inizi e immagino che sarà meraviglioso costruire un ordine economico tedesco ed europeo che comprenda tutto».

·        Stato, Fascismo e lotte di classe: eran e son comunisti.

Stato, Fascismo e lotte di classe. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Ottobre 2022.

«Lo Stato ed il Fascismo»: Gabriele Faggella, primo presidente della Corte di Cassazione di Napoli e procuratore generale presso la Corte d’Appello di Trani, pubblica sulle colonne del Corriere delle Puglie del 22 ottobre 1922 la sua analisi politica. L’atmosfera è calda: il governo Facta è in crisi, Giolitti è tornato in campo e per il 24 ottobre i fascisti hanno organizzato una grande adunata a Napoli, che sarà sicuramente uno «spiegamento delle forze e della loro potenza».

Scrive Faggella: «Questo fenomeno, che preoccupa il Governo, non è stato considerato e studiato nel suo vero valore nell’attuale momento storico, perché è stato riguardato da punti di vista unilaterali. Il fascismo, per quanto possa essere predominante nella nazione, non giungerà mai a sopprimere la lotta delle classi sociali, ch’è lotta d’interessi in contrasto tra loro».

L’adunata di Napoli, in realtà, è solo un diversivo per distogliere l’attenzione dalla preparazione di qualcosa di molto più imponente. Dopo circa venti mesi di azioni squadristiche, culminate negli assalti di luglio e agosto, il fascismo è al punto di svolta. Mussolini sa bene che non possono coesistere a lungo l’apparato dello Stato e l’apparato militare fascista: o meglio, questo potrebbe accadere solo se il Pnf riuscisse ad andare al potere, con un’azione politico-parlamentare o con un’insurrezione.

Mussolini inizia a preparare il terreno e apre un canale istituzionale con Giolitti, illudendo i liberali di voler aderire ad un nuovo governo di concentrazione. Al contempo, rassicura la monarchia dicendosi disponibile ad abbandonare le proprie convinzioni repubblicane.

Le trattative con lo statista liberale, come si evince dal titolo in prima pagina, iniziano però a vacillare.

Nel frattempo, si legge sempre sul Corriere, la Regina Madre ha ricevuto a Bordighera il comandante generale della Milizia fascista, l’on. Cesare De Vecchi, e il generale Emilio Del Bono. Si tratta di un vero e proprio esercito privato del tutto illegale, costituitosi ufficialmente poche settimane prima, contro cui lo Stato non ha preso nessun provvedimento. Anzi, il gesto di andare in visita alla sovrana sembra eloquente: «De Vecchi e Del Bono sono stati trattenuti per oltre un’ora dalla Regina Margherita che si è dimostrata minutamente informata della vita del fascismo e delle sue nuove tabelle disciplinari», si legge sul Corriere. Pochi mesi dopo nascerà la «Milizia volontaria di sicurezza nazionale»: sarà uno dei primi provvedimenti del nuovo capo del Governo, Benito Mussolini. Lo strumento principale della violenza fascista diventerà parte integrante dello Stato.

Crisi dello stato liberale e avvento del fascismo. Da Skuola.it.

L'appunto contiene informazioni sulle classi sociali presenti in Italia nel primo dopoguerra, sul biennio rosso in Italia, sull'avvento del fascismo da movimento politico a partito, sulle riforme portate dal fascismo e sui patti lateranensi.

La crisi dello stato liberale e l'avvento del fascismo Problemi per la riconversione delle industrie belliche in industrie civili. Classe operaia → presa di coscienza e vogliono diritti. Contadini → presa di coscienza → vogliono ciò che gli era stato promesso (spartizione delle terre). Ceto impiegatizio → scontento del carovita poiché loro hanno un reddito fisso. Classe dirigente → ancora quella liberale di fine '800 → non è in grado di affrontare il dopoguerra e i contadini e operai non si sentono rappresentanti da questi liberali. L'appunto contiene informazioni sulle classi sociali presenti in Italia nel primo dopoguerra, sul biennio rosso in Italia, sull'avvento del fascismo da movimento politico a partito, sulle riforme portate dal fascismo e sui patti lateranensi.

I sindacati sostengono gli operai. 1919 nasce Partito Popolare Italiano fondato da Don Luigi Sturzo. Principi: solidarietà e giustizia sociale → sostiene i contadini. È un partito laico. 1920 cresce il Partito Socialista → “riformisti” e “massimalisti”. Massimalisti avevano come leader Giacinto Serrati e il direttore del giornale “L'Avanti” Mussolini. Si ispiravano a socialismo russo (dittatura proletaria) → paura ne borghesia. Il Biennio Rosso in Italia 1919 Caro-viveri → scioperi e tumulti, lotte dei lavoratori agricoli. Novembre 1919 prime elezioni del dopoguerra. Vincono i liberal-democratic Socialisti primo partito. Al governo risale Giolitti → Trattato di Rapallo con Jugoslavia: Italia tiene Trieste, Gorizia e Istria. Il Fascismo Nasce a Milano nel 1919 quando Mussolini, escluso dal partito socialista per essersi schierato con gli interventisti durante la Prima Guerra Mondiale, fonda i Fasci di Combattimento (= si proponevano la difesa degli interessi degli ex combattenti). All'inizio schierati a sinistra. Nascono le squadre d'azione → lotta contro socialisti. Creano clima di terrore instabilità. Hanno un programma che sembra popolare ma usano mezzi violenti. 1921 da movimento politico a partito fascista (ideologia espressa in un programma e gerarchia all'interno). Si presenta alle elezioni del '21 e prende voti.

1922 Mussolini, convinto dei consensi degli italiani, fa un colpo di stato: presa del potere con forza → Marcia su Roma: da tutta Italia i fascisti vanno a Rom (camicie nere con armi). Nonostante fosse illegale poiché non si può occupare la capitale con l'esercito, il re non dichiara lo stato d'assedio → dimostra la fragilità delle istituzioni italiane. La costituzione era lo Statuto Albertino. Il re pensa di sfruttare il fascismo per riparare ai disordini sociali, qualcuno che agisse per conto suo.

1922 Mussolini nominato capo del Governo. Il fascismo si rivela conservator protettore degli interessi delle classi alte ed è liberticida. Per lavorare bisognava avere la tessera del fascismo. Apparentemente vengono mantenute le istituzioni liberali. Esistono ancora g altri partiti solo che Mussolini cerca di portarli dalla sua parte. La gente che andava a votare veniva controllata e minacciata. Giornali controllati da capitalisti che erano a favore del fascismo. Nascono 2 nuove istituzioni: la milizia volontaria per la sicurezza nazionale → esercito parallelo a quello italiano ed è a servizio del fascismo; il Gran Consiglio del Fascismo: indicava le linee generali del partito fascista, era presieduto da Mussolini e aveva il compito di indicare il successore. 1922 Giovanni Gentile, ministro dell'istruzione (introduce esame di maturità Scuola classista: bisognava scegliere dall'inizio se si voleva andare all'università o fermarsi prima e andare a lavorare. Sostenitori del fascismo. Ex combattenti delusi, opinione pubblica, gli industriali, i capitalisti e i proprietari terrieri. Gli industriali perché erano preoccupati per gli scioperi e Mussolini mandava missioni per combattere i sindacati e gli scioperanti. 1924 elezioni → fascismo con intimidazioni e alleanze con gli altri partiti vince. Il deputato Giacomo Matteotti denuncia in parlamento le intimidazioni fasciste e viene ucciso. Mussolini esce allo scoperto e dichiara che è stato un delitto politico e tiene un discorso in Parlamento dove si assume la responsabilità di tutte le violenze → primo fascismo. Fascismo diventa dittatura → secondo fascismo: nelle istituzioni solo fascisti 1924 -1928 date delle elezioni in cui il fascismo acquista potere. 1928 lista unica. Il fascismo dichiara fuori legge tutti gli altri partiti e i sindacati. Regime di stato: totalitario (=una sola idea che domina ed essa controlla tutti gli aspetti della vita). Organizza i lavoratori nelle Corporazioni delle Arti e dei Mestieri.

Sociale Quei fascisti che avevano aderito al primo fascismo rimangono delusi a causa del delitto, delle leggi liberticide, ecc forma di opposizione. Per avere consensi si rivolge alla massa con strumenti di massa: radio dove Mussolini fa i suoi discorsi; nelle campagne c'erano le case del fascio: sedi periferiche del fascismo per essere vicino alla gente per controllare ma anche per sopperire ai bisogni della massa. Riforma della scuola (Gentile → scuola classista). Le famiglie numerose vengono premiate perché il fascismo conta sul numero. La gioventù inquadrata in un apparato sportivo-militare: i più picco erano i Balilla. Istituite le colonie estive per combattere la tubercolosi e il rachitismo dei bambini grazie ad aria di mare o montagna. Bonifica delle zone paludose dove c'era la malaria → nuove terre da coltivar Si introduce la coltura estensiva (cerealicoltura) per 2 motivi → 1) no bisogno di importare cereali da USA Liberale e da URSS comunista → programma di autosufficienza → Autarchia (=bastiamo a noi stessi); 2) gli agrari avevano sempre dato appoggio a fascismo e allora si crea un latifondismo moderno. L'autarchia mette in crisi la lavorazione artigianale → non si importano le materie prime. Politica Il fascismo acquista potere quando ristabilisce i rapporti con la santa chiesa Patti Lateranensi: - la prima parte era un trattato internazionale, con il quale la Santa Sede riconosceva lo Stato Italiano ponendo fine alla questione romana, e lo Stato Italiano riconosceva la sovranità della Santa Sede sul territorio di Città del Vaticano e su altri particolari edifici; - la seconda parte era una convenzione finanziaria, con la quale lo Stato Italiano si impegnava a corrispondere alla Santa Sede una cospicua somma, risarcimento dei territori persi con l'annessione dello Stato Pontificio al Regno d'Italia; - la terza parte era una concordato, che definiva i diritti della Chiesa in Italia, elevando la religione cristiana cattolica a religione di stato, limitando i diritti degli altri culti ammessi e limitando anche chi incorresse in sanzioni ecclesiastiche. Fascismo visto positivamente da paesi esteri più conservatori.

Nei primi 20 anni del secolo scorso fino alla vigilia della presa del potere dei fascisti. I più forti in quel periodo erano i socialisti

Che erano sostenuti dal sindacalismo rivoluzionario che ebbe influenze anche su Mussolini. Cesare Maffi su ITALIAOGGI - NUMERO 148   PAG. 8  DEL 25/06/2022

Dall'inizio del secolo alla grande guerra, essenziale fu il ruolo svolto da un numero ristretto di periodici, fiorentini ma non soltanto, i quali avevano una vendita limitata, di poche migliaia di copie, lontane quindi dai milioni di presenze odierne sulla rete sociale. Tuttavia La Voce e il Regno, Lacerba, Leonardo e altre ancora promossero la riflessione, la formazione, l'analisi di minoranze che nei decenni successivi si mostrarono decisive per l'intero mondo politico e per la società.

Il ventennio fu dominato dalla figura di Giovanni Giolitti, tanto da prendere la di lui aggettivazione; ma non senza contrasti e scontri. Ne tratta Giuseppe Bedeschi, emerito di Storia della filosofia, in Miti e ideologie, uscito presso Le Lettere, in un'edizione che rinnova la precedente. Alcuni partiti segnarono la storia, dall'assunzione di Vittorio Emanuele III sul trono fino al consolidarsi del fascismo. In verità l'unica formazione strutturata fin dall'avvio del secolo era quella socialista, a lungo dominata da Filippo Turati. Insieme si collegava, specie negli enti locali, in una coalizione denominata “l'estrema”, con repubblicani e radicali. Inoltre l'intervento diretto era promosso dalla sempre maggiore rilevanza del sindacalismo, nel quale un versante peculiare era costituito dal sindacalismo rivoluzionario, di cui non vanno dimenticate le influenze su Benito Mussolini, sia nella sua fase socialista sia nella progressiva costituzione dei fasci. Al sorgere di una vera forza politica, come quella fascista, e del coevo partito popolare promosso da Luigi Sturzo (il quale va distinto dallo Sturzo che aveva sperimentato la società americana, negli anni Cinquanta, liberista, avverso alla corruzione, lontano da personaggi come Enrico Mattei e Giorgio La Pira), non corrispose la formazione dell'unico partito che ininterrottamente aveva ispirato la storia nazionale, da Camillo Cavour in poi: il liberale. La costituzione formale del partito risalì infatti al periodo della marcia su Roma, dopo decenni di frantumazioni e di notabilati.

La divisione maggiore rimase quella fra destra storica, al potere fino al 1876, e sinistra storica, insediatasi successivamente; ma le sigle sotto le quali individuare candidati ed eletti liberali si sprecarono, ancora nel 1924 con il listone mussoliniano. Un ruolo essenziale fu svolto dai singoli: su tutti, Benedetto Croce e Giovanni Gentile, uniti dapprima con La Critica e man mano allontanatisi, prima ancora per prospettive filosofiche che non per visioni politiche o personali, evidenti del resto con l'interventismo fra il 1914 e il '15. Proprio gli interventisti si divisero, non secondo il classico schema destra-sinistra, bensì amalgamando i contrapposti schieramenti, unificando i neutralisti prevalenti fra gli elettori ma non fra chi decise l'entrata in guerra.

Una netta novità giunse con l'affermarsi dei nazionalisti. Indicativa risultò la vittoria di Luigi Federzoni nel primo collegio di Roma, che era stato di Giuseppe Garibaldi. Una funzione propria, arrivata all'indicibile affermazione di Gabriele d'Annunzio, va attribuita al fiumanesimo, che Bedeschi avrebbe potuto commentare. Si notarono altresì personaggi anomali, come il liberal socialista Carlo Rosselli (cui si può attribuire l'imputazione di ircocervo pronunciata da Croce) e Pietro Gobetti, invero molto più confusionario che creativo.

Si avvertì già nel primo Novecento l'incapacità di unione nel mondo socialista, diviso e perfino contrapposto. Proprio nel mondo socialista s'impose il comunismo, nel quale salì in primo piano Antonio Gramsci (Bedeschi ne ricorda l'incisiva influenza gentiliana, non soltanto nell'attività giovanile). Egli rivelò una progressiva lontananza da Palmiro Togliatti, il quale rimase talmente avvinto al Cremlino da agire da succubo a Mosca, come ben si vide in epoca staliniana (ma non solo).

Dall'amministrazione socialista all'avvento del fascismo (1920-1926). Da comune.erba.co.it il 5 aprile 2019

Introduzione

Gli anni che seguirono la fine del primo conflitto mondiale costituiscono uno dei momenti più importanti nella storia d’Italia. Gli effetti della Grande Guerra infatti non si esaurirono nella tremenda distruzione di vite umane e nello sconvolgimento dei confini fra gli Stati. Essa rappresentò la più grande esperienza di massa mai vissuta fino ad allora ed agì come un potentissimo acceleratore dei fenomeni sociali. Al termine del conflitto il primo problema che si pose con urgenza alle classi dirigenti di tutti i paesi fu il reinserimento dei reduci. Chi aveva rischiato la vita sui campi di battaglia tornava a casa con una nuova coscienza dei propri diritti, con la convinzione di aver maturato un credito nei confronti della società. La guerra aveva dimostrato l’importanza del principio di organizzazione applicato alle masse. Per far valere i propri diritti e per affermare le proprie rivendicazioni sembrava dunque necessario associarsi e organizzarsi in gruppi il più possibile numerosi. Risultò così bruscamente accentuata la tendenza, già in atto, alla massificazione della politica. Partiti e sindacati videro aumentare ovunque il numero dei loro iscritti. Di fronte a questa crescita delle organizzazioni di massa persero importanza le forme tradizionali dell’attività politica nei regimi liberali, mentre acquistarono maggior peso le manifestazioni pubbliche, basate sulla partecipazione diretta dei cittadini. La consapevolezza del sacrificio subita dai popoli giustificava di per sé l’attesa di soluzioni nuove. L’aspirazione ad un nuovo ordine era dunque comune alla maggioranza degli europei. Per un buon numero di lavoratori e di intellettuali l’ordine nuovo era quello che si stava cominciando ad attuare in Russia.

L’economia italiana nel biennio immediatamente successivo al conflitto presentava i tratti tipici della crisi postbellica: sviluppo abnorme di alcuni settori industriali, sconvolgimento dei flussi commerciali, deficit gravissimo del bilancio statale, inflazione galoppante. Tutti i settori della società erano in fermento. La classe operaia, tornata alla libertà sindacale e infiammata dal mito della rivoluzione russa, non solo chiedeva miglioramenti economici, ma reclamava maggior potere in fabbrica e manifestava tendenze rivoluzionarie. I ceti medi, coinvolti nell’esperienza della guerra e colpiti dalle sue conseguenze economiche, tendevano ad organizzarsi per difendere i loro interessi e gli ideali patriottici. Di fronte a questi problemi la classe dirigente liberale si trovò sempre più contestata e isolata e finì col perdere l’egemonia. Risultarono invece favorite quelle forze socialiste e cattoliche che non erano compromesse con le responsabilità della guerra e che, inquadrando larghe masse, potevano meglio interpretare le nuove dimensioni assunte dalla lotta politica. Furono i cattolici a portare il primo e più importante fattore di novità dando vita, nel ’19, al Partito popolare italiano (Ppi). Il nuovo partito, che ebbe il suo primo segretario in don Luigi Sturzo, si presentava con un programma di impostazione democratica e si dichiarava laico; in realtà il Ppi era strettamente legato alle strutture organizzative del mondo cattolico. L’altra grande novità nel panorama politico italiano fu la crescita impetuosa del Partito socialista. Importante era nel partito la prevalenza della corrente di sinistra, ora chiamata massimalista, i cui esponenti si dichiaravano ammiratori entusiasti della rivoluzione bolscevica. Questa radicalizzazione finì con l’isolare il movimento operaio. I socialisti si preclusero ogni possibilità di collaborazione con le forze democratico – borghesi, spaventate dalla minaccia della dittatura proletaria. L’espansione del partito socialista nel biennio successivo al conflitto fu un fenomeno che caratterizzò tutta l’Italia, anche quelle zone rurali dove la tenuta delle forze costituzionali era tradizionalmente più netta. L’avvento del partito di massa nelle piccole realtà comunali delle periferie italiane stravolse letteralmente l’equilibrio sociale e la vita stessa di quella parte dei cittadini fino ad allora esclusi aprioristicamente dalla scena politica. La crescita del fenomeno sindacale e la nascita di quella fitta rete di istituzioni sulla quale si basava il sistema socialista di formazione culturale e partecipazione democratica allargò notevolmente il ventaglio delle occasioni di accesso alla politica da parte dell’intera classe proletaria. La partecipazione attiva alla vita pubblica attraverso la trafila nei nuovi partiti riscattò le classi sociali più deboli cui la nuova realtà dava finalmente la possibilità di confrontarsi con quelle forze che per anni avevano egemonizzato l’apparato amministrativo provinciale e comunale. Alla fine del 1920 i comuni retti da maggioranze socialiste decuplicarono in tutta Italia. Unitamente alla crescita del partito si intensificarono le battaglie sindacali, e proprio nel 1920 si assistette all’occupazione delle fabbriche, ultimo capitolo dell’ondata di scioperi ed agitazioni che avevano sconvolto il paese durante il cosiddetto “biennio rosso”. Anche se queste forme di lotta proletaria si conclusero di fatto con il 1921, nell’opinione pubblica moderata si era ormai diffuso l’allarme per una situazione che si giudicava minacciosa. L’espansione del movimento socialista era sotto gli occhi di tutti e i timori di una rivoluzione sul modello bolscevico venivano, a torto o ragione, definiti attendibili. Fu così che in molti guardarono con simpatia alle prime manifestazioni dello squadrismo fascista: l’ ”ordine” andava ristabilito. Nel corso di soli quattro anni (dal 1920 al 1924) l’Italia passò dal pericolo di una rivoluzione proletaria ad un regime di stampo fascista che ne condizionerà la storia per i successivi vent’anni.

Scopo primario di questo lavoro è lo studio di quel periodo di grandi trasformazioni sociali e culturali che seguì il termine del conflitto mondiale attraverso la ricostruzione storica dell’attività di un comune della provincia comasca: Erba. Come la maggior parte dei comuni lariani anche Erba visse l’esperienza di un’amministrazione socialista prima che il fascismo oscurasse ogni forma di partecipazione democratica alla vita pubblica. La “giunta Giussani” (dal nome del sindaco socialista), governò la cittadina dall’ottobre del 1920 al gennaio del 1923, anno in cui gli squadristi locali la costrinsero alle dimissioni. Successivamente il municipio venne retto da commissari prefettizi fino alla nomina del podestà nel 1926. La ricerca verte quindi sui sei anni che intercorsero tra l’elezione dell’amministrazione “rossa” e la definitiva conquista della città da parte dei fascisti con l’istituzione della carica podestarile, assegnata inizialmente al segretario politico del fascio locale. Le elezioni amministrative del 20 ottobre 1920 furono le ultime ad eleggere democraticamente gli organi di governo comunali e provinciali; la nomina del podestà il 12 luglio 1926 (in tutti i comuni lariani), sancì l’inizio del governo fascista anche in ambito locale. Il tema centrale di questo lavoro si sviluppa all’interno del lasso di tempo delimitato da queste due date. In questo modo è stato possibile osservare come gli avvenimenti che sconvolsero l’Italia nel dopoguerra si ripercossero anche su di una piccola realtà come quella del comune di Erba, fino a quel momento immune ai mutamenti che attraversavano il paese. Attraverso lo studio dell’ amministrazione comunale nelle due fasi contraddistinte dalla supremazia del partito socialista e successivamente da quella del partito fascista si è ottenuto inoltre uno spaccato di quella che era la vita sociale di una cittadina di periferia nel contesto di uno tra i periodi più controversi della nostra storia.

Fonte principale per la compilazione è stato l’Archivio Comunale di Erba, all’interno del quale sono conservati documenti inerenti l’amministrazione municipale a partire dal 1800. Per il periodo considerato (1920 – 1926), gli argomenti sono suddivisi in una decina di categorie corrispondenti a circa cinquanta cartelle, ciascuna di svariati fascicoli. La parte più preziosa si è rivelata quella corrispondente al “governo” della città poiché attraverso gli atti comunali è stato possibile ricostruire la dinamica degli eventi più importanti. Di grande aiuto sono stati inoltre i registi delle delibere consiliari, all’interno dei quali, oltre alle iniziative della maggioranza, si trovano le contestazioni e le controproposte dell’opposizione. Piuttosto scadente rimane invece la documentazione relativa ai comuni lariani conservata nell’Archivio di Stato di Como. Specie per gli anni 1919-1923 scarseggia infatti la raccolta documentale. Le comunicazioni tra prefetto e Ministero degli Interni, effettuate attraverso relazioni, rapporti e telegrammi, si intensificano con l’avvento del fascismo e danno un quadro significativo della situazione politica, economica e sociale di tutta la provincia, mentre del periodo precedente diverse rimangono le lacune storiche. Fondamentale infine si è dimostrato l’apporto dei giornali e dei periodici del tempo conservati preso la Biblioteca Comunale di Como. I quotidiani “La Provincia di Como” e “L’Ordine” sono indispensabili per conoscere fatti e vicende del territorio lariano, anche perché erano gli unici ad uscire durante tutto l’anno con continuità. I periodici “Il Corriere delle Prealpi” moderato, “Il Lavoratore Comasco” socialista, “Vita del Popolo” cattolico e “Il Gagliardetto” fascista rappresentano singoli spicchi di opinione ed è quindi necessario effettuare un controllo presso i carteggi archivistici per “depurare” le notizie dalle interpretazioni più faziose. Si sono rivelati tuttavia delle fonti preziose per questa ricerca perché contengono le corrispondenze dai comuni del circondario con le cronache dettagliate degli avvenimenti più importanti

I socialisti che diventarono fascisti. Mauro Suttora il 4 Giugno 2021 su huffingtonpost.it.

La tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del libro di uno dei suoi principali collaboratori

La maggioranza dei dirigenti socialisti italiani aderì al fascismo. È questa la tesi, provocatoria solo per chi non ha letto Renzo De Felice, del nuovo libro di uno dei suoi principali collaboratori: Antonio Alosco, già docente di storia contemporanea all’università di Napoli, autore di ‘I socialfascisti’ (D’Amico editore, 2021).

“Furono tanti i socialisti che aderirono al fascismo, o si ritirarono dalla politica, o scrissero a Mussolini facendo atto di sottomissione, collaborando e affiancando il regime”, scrive Alosco. “In confronto a loro i socialisti fuoriusciti all’estero o clandestini in Italia appaiono una minoranza trascurabile”.

Senza nulla togliere agli eroi dell’antifascismo come Pertini, Nenni, i fratelli Rosselli, Lelio Basso o Ernesto Rossi, insomma, nel decennio del consenso al regime (1928-38) fra i socialisti prevalsero rassegnazione e “indifferentismo” (la definizione sconsolata che i marxisti ‘scientifici’ davano da Parigi della situazione italiana).

Alosco esamina i casi più eclatanti di passaggio dalla sinistra al fascismo. Arturo Labriola, fondatore del partito socialista a Napoli, economista, deputato, ministro del Lavoro con Giolitti nel 1921, finì sull’Aventino e scappò in Francia. Ma nel 1935 tornò clamorosamente in Italia, lodando Mussolini per la guerra d’Etiopia. Il duce lo ricevette in nome del comune passato soreliano, e trovò lavoro a lui e al figlio. Più in là il collaborazionismo di Labriola non si spinse, ma tanto bastò perché il partito socialista gli negasse un seggio alla Consulta nel 1945. 

L’anno dopo si fece eleggere in una lista liberale, e fu senatore fino al 1953 tornando a sinistra, tanto che fu capolista Pci alle comunali di Napoli nel 1956.

Un altro caso scandaloso fu quello di Emilio Caldara, primo sindaco socialista in una grande città, a Milano dal 1914 al 1920. Grazie alla sua buona amministrazione divenne più popolare di Turati, e portò il Psi al trionfo elettorale del 1919: primo partito col 32% (allora i fascisti ebbero solo 4mila voti).

Dopo lo scioglimento dei partiti e l’inizio della dittatura Caldara tornò a fare l’avvocato, ma nel 1934 chiese un colloquio a Mussolini, che conosceva bene come collega consigliere comunale a Milano. Gli propose di collaborare al corporativismo, che riteneva vicino agli ideali socialisti. Fu il duce a declinare l’offerta del gruppo di Caldara, per evitare frizioni con i sindacalisti fascisti.

Ma forse l’episodio più pregnante fu quello dell’intero gruppo dirigente della Cgl, il sindacato di sinistra. I suoi due primi segretari, Rinaldo Rigola e Ludovico d’Aragona, si offrirono anch’essi a Mussolini nel 1927, entusiasti per la Carta del lavoro fascista. L’unico a opporsi, dall’esilio parigino, fu Bruno Buozzi.

Anche Alberto Beneduce, issato dal duce alla testa dell’Iri nel 1933, era di sinistra, tanto da chiamare col bizzarro nome di Idea Nuova Socialista la figlia, poi moglie di Enrico Cuccia, fondatore di Mediobanca.

Tragico il destino di Nicola Bombacci, l’ex segretario nazionale socialista passato prima al Pci e poi al fascismo (Mussolini gli finanziò il giornale ‘La Verità’), fucilato a Dongo e appeso in piazzale Loreto col duce, Claretta e i gerarchi.

Ma il professore Alosco presenta molti altri casi di dirigenti politici e sindacali socialisti i quali via via chinarono la testa di fronte al fascismo, che acquistava un consenso sempre maggiore.

Nel 1932, per il decennale del regime, Mussolini era così saldo al potere che potè permettersi magnanimità: amnistiò i due terzi dei 1056 condannati per reati politici, e liberò 595 confinati.

Il crescente consenso deprimeva gli antifascisti fuoriusciti a Parigi, che passavano molto tempo in dispute ideologiche fra loro. Tutto sommato, lo sprezzante epiteto di “socialfascisti”, con cui il comunista Togliatti equiparava i socialisti antibolscevichi ai fascisti, aveva un fondamento nei fatti. 

Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca su Gliscritti.it il 24/09/2009  

Riprendiamo dalla rivista “Ventunesimo secolo”, 8 (2009), pp. 9-30, la sintesi storica proposta dall’articolo Il ‘secolo breve’ della democrazia italiana (1919-2008), di Stefano De Luca. Le chiavi di lettura offerte dall’autore per comprendere l’evoluzione della democrazia dei partiti in Italia meritano attenzione per la chiarezza con la quale pongono in risalto gli snodi attraversati dalla cultira politica nel nostro paese; le riproponiamo per stimolare il dibattito che possono suscitare.

Nell’articolo in questione, la sintesi storica si apre poi all’analisi delle elezioni del 2008, auspicando che esse abbiano dato il via ad un bipolarismo reale e non più solo formale, anche se i recenti sviluppi del paese sembrano rimettere in discussione questo approdo. Questa lettura degli eventi attuali che viene proposta nell’articolo del prof. De Luca è stata omessa dalla nostra selezione. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Stefano De Luca è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha recentemente curato la prima edizione italiana dei Principi di politica di Benjamin Constant (1806), per i tipi della Rubettino.

Su questo sito, vedi Le ideologie totalitarie del novecento e la rivoluzione francese. Appunti da un dialogo con il prof. De Luca. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (23/9/2009)  

[...] 

1. La genesi (1919-21) della democrazia in Italia: guerra e rivoluzione 

Il 21 gennaio 1919, in una riunione socialista Turati «stava spiegando: “Dobbiamo preparare le coscienze all’avvento della società socialista, ma, al tempo stesso, bisogna operare per la graduale trasformazione della società”, allorché una voce lo interruppe, dicendo: “È troppo lungo!”. E Turati di rimando: “Se conoscete una via più breve, indicatemela”. Allora molte voci risposero: “La Russia, la Russia, viva Lenin!”» (F. Chabod, L’Italia contemporanea, Einaudi, 2002², p. 37). 

«Io ho l’impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. (…) Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci» (B. Mussolini, Discorso per la fondazione dei Fasci di Combattimento, in “Popolo d’Italia”, 24 marzo 1919) 

Non verrà sottolineato mai abbastanza il fatto che la democrazia di massa, in Italia, nasce all’insegna di un binomio fatale: guerra e rivoluzione. La Grande Guerra è la prima esperienza ‘nazionale’ degli italiani e vede il protagonismo di ceti sociali rimasti sino ad allora ai margini della vita politica (contadini, piccola borghesia, operai); la Rivoluzione bolscevica, dal canto suo, dimostra che la società comunista non è un approdo così lontano da apparire irraggiungibile, ma qualcosa che si può realizzare qui e ora. 

Nasce su questo sfondo quella «miscela esplosiva di aspirazioni di riscatto sociale» e di «diffusi miti rivoluzionari» (1) che caratterizza l’Italia del 1919: i contadini vogliono la terra, una richiesta di cui si è discusso sui giornali durante il conflitto e che è stata blandita, dopo Caporetto, persino dalla propaganda ufficiale; gli operai, inebriati dal successo della rivoluzione leninista, vogliono la repubblica socialista e i soviet; la piccola borghesia, che subisce le conseguenze economicamente più pesanti della guerra ed è esacerbata dalla sindrome della ‘vittoria mutilata’, vuole uno status sociale adeguato e una nazione forte, rigenerata moralmente, rispettata all’estero e all’interno. 

Su tutto domina un clima di impazienza (specie tra i giovani) e di radicalizzazione emotiva e ideologica. Le due nuove ‘religioni politiche’ che si dividono le piazze – questo nuovo luogo della politica, dove ci si mobilita, dove si tengono i comizi e dove sempre più spesso ci si scontra fisicamente – sono il socialismo e il nazionalismo: a dividere i loro seguaci, sin dalla guerra di Libia, è la nazione. 

Il conflitto tra nazione e internazionalismo (tra nazione e ‘antinazione’) è la prima forma di polarizzazione ideologica che si manifesta nell’Italia del Novecento, portando con sé la demonizzazione dell’avversario e la disposizione all’uso della violenza. 

Alla ‘mobilitazione rumorosa’ di socialisti e nazionalisti si affianca quella ‘silenziosa’ dei cattolici, che sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, quando è ancora in vigore il non expedit, operano nella dimensione sociale e culturale, dando vita ad una serie di iniziative (settimane sociali, cooperative e leghe, banche popolari) che rafforzano il loro rapporto con il mondo rurale e con i ceti medi. E se nel 1913, grazie al Patto Gentiloni, entrano in parlamento una trentina di deputati cattolici, dopo la guerra i tempi sono ormai maturi perché i cattolici, nonostante le diffidenze della Chiesa verso la democrazia, operino senza la ‘tutela’ della classe dirigente liberale: nasce così nel 1919 il Partito popolare, guidato da don Sturzo. 

Alla mobilitazione di ispirazione nazionalista, cattolica e socialista (cioè di quelle che diverranno le culture politiche di massa dell’Italia del Novecento) si contrappone l’inerzia dei liberali, che governano il paese dall’unità ma non riescono a comprendere quanto esso sia profondamente mutato. I liberali accetteranno nel 1918 – quando dispongono ancora di un’ampia maggioranza parlamentare – di varare la legge elettorale proporzionale e lo scrutinio per liste di partito, ma non si doteranno di un partito organizzato, cioè dell’unico strumento adeguato per fronteggiarne gli esiti di una simile riforma. 

In questo quadro, le elezioni del 1919 produrranno «il più grande terremoto elettorale della storia nazionale» (2): il Partito socialista, pur essendosi opposto ad una guerra vittoriosa, passa dal 17,7 al 32,3% dei consensi, triplicando i suoi deputati (da 52 a 156); il Partito popolare, che ha solo pochi mesi di vita, ottiene il 20,5% dei voti e 100 deputati; i vari gruppi liberali, riuniti come sempre intorno a singole personalità (Nitti, Giolitti, Orlando, Salandra), scendono dal 67,6% al 38,9%, passando da 383 a 216 deputati. La classe dirigente che ha governato il Paese per sessant’anni non ha più una maggioranza, a meno di non allearsi con i socialisti o con i popolari. 

A questo straordinario successo politico dei primi due partiti di massa della democrazia italiana va aggiunto che ciascuno di essi dispone di un sindacato ‘amico’: i socialisti controllano la Confederazione generale del lavoro (Cgdl, sorta nel 1906), che ha due milioni di aderenti; i popolari possono contare sulla Confederazione italiana lavoratori (Cil, nata nel 1918), che ha quasi un milione e duecentomila iscritti (di cui un milione sono coltivatori). Se a questo si aggiunge l’insediamento nelle amministrazioni locali (i socialisti controllano il 24% dei comuni, i popolari il 13%) si ha un’idea di come il 1919 abbia letteralmente travolto i vecchi assetti politici. 

Ma la poderosa armata socialista realizza una sorta di autoconventio ad excludendum: confermando, nel congresso del 1919, la linea rivoluzionaria adottata sin dal 1918 (che eliminava qualsiasi obiettivo intermedio e puntava all’istituzione della Repubblica socialista, alla dittatura del proletariato e alla socializzazione dei mezzi di produzione e scambio), il Partito socialista non solo esclude «ogni ipotesi di collaborazione con governi o maggioranze ‘borghesi’», ma preconizza «la conquista violenta del potere» e addita «nelle istituzioni liberali una fortezza nemica da conquistare e da distruggere» (3). 

Un episodio riassume il senso e le conseguenze di questa scelta anti-sistema (che, non va dimenticato, era stata premiata dagli elettori): alla seduta inaugurale della Camera i deputati socialisti, obbedendo ad una delibera del partito, abbandonano l’aula prima del discorso della Corona. All’uscita vengono aggrediti da un gruppo di nazionalisti: seguono tre giorni di scioperi di protesta con violenti scontri di piazza in tutto il Paese. 

La scelta rivoluzionaria dei socialisti – e soprattutto lo svilupparsi di quell’ondata di conflittualità operaia e contadina che va sotto il nome di ‘biennio rosso’, con le occupazioni di fabbriche e di terre – innesca la ‘grande paura’ dei ceti borghesi, che non si sentono sufficientemente garantiti dall’attendismo con il quale la vecchia classe dirigente liberale affronta la crisi: su questo senso di insicurezza e di abbandono da parte dello Stato fanno leva i Fasci di combattimento, che vengono da un risultato elettorale assai deludente (alle elezioni del 1919 hanno preso solo poche migliaia di voti, senza ottenere alcun seggio). 

L’azione violenta dei fascisti in difesa della proprietà e dei valori della nazione inizia a guadagnare consensi: tra il 1920 e il 1921 i fasci si decuplicano (da 100 a 1000), mentre lo squadrismo si allarga a macchia d’olio dalla pianura padana alla Puglia. Si afferma così, nel giro di pochi mesi, «un soggetto politico dalle caratteristiche del tutto inedite: un movimento che da un lato si ergeva a difensore dei valori borghesi, della tradizione nazionale, di un ideale dello Stato forte e autorevole; dall’altro assumeva una connotazione tipicamente sovversiva» (4) e rivoluzionaria. 

Tra il 1919 e il 1922 si consuma la prima fase di guerra civile ideologica del Novecento italiano: è il conflitto tra due radicalismi, uno di sinistra e uno di destra, uno alimentato dal mito della rivoluzione sociale e l’altro da quello della rivoluzione nazionale, mentre le due forze che rifuggono dall’uso della violenza e sono aliene dal radicalismo (liberali e popolari) non riescono a dare vita ad una stabile ed efficace collaborazione di governo. 

Il Partito popolare di Sturzo è indubbiamente una grande novità: secondo Chabod la sua nascita rappresenta «l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente» (5). Esso segna infatti il definitivo ingresso dei cattolici nella vita dello Stato italiano, fatto di per sé di importanza straordinaria; ma segna anche, nella linea democratico-cristiana di Sturzo, l’incontro dei cattolici con il mondo moderno. 

I cattolici, per il prete siciliano, non dovevano più appartarsi in forme proprie, ma aderire alla vita moderna per assimilarla e trasformarla: il moderno, più che sfiducia e ripulsa, doveva destare «il bisogno della critica, del contatto, della riforma» (6). Ai cattolici italiani – profondamente radicati nelle masse, a partire da quelle rurali, e sensibili ai loro bisogni sociali e politici – spettava un compito proprio, distinto da quello dei liberali (che per Sturzo erano conservatori, mentre i cattolici dovevano essere democratici) e da quello dei socialisti (portatori di un sovversivismo distruttivo delle strutture sociali e della fede religiosa): per questo i cattolici avevano dovuto organizzarsi in un loro partito, che doveva essere libero di muoversi ora a destra ora a sinistra, al fine di realizzare il suo programma. 

Programma nel quale, insieme alle tradizionali richieste del mondo cattolico (libertà d’insegnamento, difesa della famiglia, riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali), erano presenti contenuti schiettamente democratici (voto alle donne, Senato elettivo, riforma fiscale in senso progressivo, sviluppo delle autonomie locali, politica estera ispirata al wilsonismo). Ma la novità del Partito popolare viene sottovalutata dalle altre forze politiche e in particolare dai liberali, nei quali prevalgono vecchi pregiudizi e più recenti incomprensioni. 

Ad esempio, Giolitti – protagonista per eccellenza della democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca – non sopportava l’idea di dover trattare con un leader (Sturzo) che non sedeva in parlamento e che quindi ai suoi occhi era soltanto un privato cittadino, oltretutto appartenemente al clero. Quanto a Salandra, riconoscendo nel 1924 al fascismo il merito inestimabile di aver debellato i «fatali avversari» dei liberali, individuava quegli avversari non solo nei socialisti, ma anche nei popolari. 

Queste incomprensioni di fondo – unite al risorgere di antichi risentimenti, ai personalismi dei vecchi leaders e al fatto che i popolari volevano nel governo una parità che i liberali non erano disposti ad accordare – avrebbero avuto «non piccola parte nel bloccare la funzionalità delle istituzioni liberal-parlamentari e nel determinare la crisi dell’intero sistema» (7). 

Va peraltro sottolineato come i popolari fossero gli unici, nel periodo 1919-21, ad avere un seguito di massa e, al tempo stesso, se non una compiuta cultura politico-istituzionale della democrazia (su questo terreno molte erano ancora le carenze, tra i conservatori, i clerico-moderati e i ‘giacobini bianchi’ alla Miglioli), certamente una cultura antropologica i cui valori (rifiuto della violenza, attitudine al dialogo e alla mediazione) erano compatibili con le regole della democrazia. 

I social-comunisti avevano (e i fascisti avrebbero avuto) un seguito di massa, ma certamente la loro cultura era incompatibile con la democrazia liberale; quanto al mondo liberal-democratico, aveva la cultura politica appropriata, ma era sprovvisto di seguito popolare. 

Nel 1921 interviene infine un ulteriore avvenimento, a complicare il già complesso quadro politico. Il Partito socialista subisce – nonostante le sue posizioni rivoluzionarie – la scissione della sua ala sinistra, che fonda il Partito comunista d’Italia (PCd’I). La spinta decisiva era venuta dal II congresso dell’Internazionale comunista, che aveva imposto ai partiti aderenti condizioni vincolanti, tra le quali il cambiamento del nome (da socialista o socialdemocratico a comunista, come aveva fatto lo stesso Lenin nel 1918) e l’espulsione degli elementi riformisti e centristi. 

Inaspettatamente la dirigenza massimalista del Partito socialista resiste, forse per orgoglio (ritenendo di non avere nulla da imparare in tema di intransigenza rivoluzionaria), forse perché consapevole del peso che la componente riformista ha nell’elettorato e negli organismi sindacali. La sinistra si trova così spaccata in due partiti: il Psi, all’interno del quale convivono due anime (quella massimalista, largamente maggioritaria, e quella riformista), e il Pcd’I. 

A questa scissione – la ‘madre’ di tutte le scissioni che la sinistra italiana avrebbe sperimentato nella sua storia – seguiranno due espulsioni, entrambe dal Psi: nel 1922 vengono espulsi i riformisti, che fondano il Partito socialista unitario (Psu), e nel 1923 i ‘terzinternazionalisti’, che confluiranno nel PCd’I. 

Tornando alla scissione del 1921, questa scompagina i piani di Giolitti, che pensava di servirsi dei socialisti riformisti per formare una nuova maggioranza parlamentare, liberandosi dal condizionamento dei popolari e recuperando il ruolo di perno centrale del sistema politico. L’impossibilità di realizzare questo disegno induce il vecchio statista alla scelta delle elezioni anticipate, alle quali i liberali si presentano, nel Nord, in ‘blocchi nazionali’ che includono nazionalisti e fascisti, allo scopo di compattarsi, rivitalizzarsi e infliggere un colpo a socialisti e popolari. 

Le elezioni del 1921, che si svolgono in un clima di violenza, segnano un’ulteriore frammentazione del sistema politico, con l’ingresso alla Camera di due nuovi partiti, quello comunista (che ottiene 15 seggi) e quella fascista (che elegge, all’interno dei blocchi nazionali, una trentina di deputati). Nel complesso si confermano gli equilibri del 1919: i socialisti ottengono 122 seggi, che sommati a quelli comunisti danno alla sinistra rivoluzionaria e classista una ventina di seggi in meno rispetto al 1919; i popolari hanno un lieve incremento, passando da 100 a 108 deputati; i gruppi liberal-nazionali raggiungono a stento la maggioranza e soltanto grazie alla presenza dei deputati fascisti. 

Questi ultimi, sotto la guida di Mussolini, fanno subito capire che intendono muoversi liberamente: fallito il disegno di Giolitti e archiviati velocemente i deboli tentativi di Bonomi e Facta, inizierà l’avventura di Mussolini alla guida del governo, che nel giro di due anni condurrà alla nascita di un sistema dittatoriale a partito unico. 

Cosa emerge alla luce di questa breve – e per forza di cose sommaria – ricostruzione del periodo 1919-1922? 

In primo luogo, che il sistema politico cambia natura e struttura: da una democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca si passa ad una democrazia dei partiti tipicamente novecentesca. Nel 1914 la politica la faceva ancora il Parlamento, per impulso di personalità di spicco che riunivano intorno a sé composite ‘maggioranze ministeriali’, formate da gruppi tra i quali le differenze di programma erano poco marcate. Partiti organizzati, se si eccettuano il Partito socialista e il piccolo Partito repubblicano, non ce n’erano e la libertà d’azione dei parlamentari era ampia: la nazione, politicamente, esisteva soltanto nel Parlamento. 

Nel 1919 tutto è cambiato: la politica si fa nella società, nelle piazze, attraverso partiti organizzati che hanno una precisa fisionomia ideologico-programmatica e che incanalano le esigenze e le aspirazioni di milioni di persone. La nazione, politicamente, esiste fuori del Parlamento e quest’ultimo dev’essere soltanto una proiezione fedele di tale fisionomia: i deputati votano seguendo le delibere delle direzioni dei rispettivi partiti. 

Assistiamo, quindi, alla nascita della democrazia dei partiti e, al suo interno, al successo dei ‘partiti di massa’ (che, come abbiamo visto, sono fiancheggiati da ‘sindacati amici’): il Partito socialista, espressione della subcultura operaia, e il Partito popolare, espressione della subcultura cattolica. A partire dal 1921 si rafforzerà il Partito nazionale fascista, che diverrà espressione (pur nel peculiare contesto di un sistema dittatoriale) della piccola e media borghesia. 

In secondo luogo, il sistema politico manifesta la tendenza alla frammentazione partitica e alla polarizzazione ideologica. Per quanto riguarda la frammentazione – cioè la tendenza alla divisione e quindi alla moltiplicazione dei partiti – la vicenda della sinistra è emblematica: nel giro di un anno quest’area politica si spezza in tre partiti (il Psi, il PCd’I e il Psu), tra i quali quello di ispirazione riformista è largamente minoritario. 

Inoltre i due grandi partiti della sinistra assumono una precisa configurazione: il Psi è caratterizzato dal massimalismo verbale e dalla rissosità interna, mentre il Pcd’I è caratterizzato dalla ferrea disciplina interna (lo statuto del partito stabilisce che la disciplina è il «supremo dovere di ogni membro di ogni organizzazione del partito») e dal legame con l’Unione Sovietica (la sua fonte di legittimazione sta «nell’autorità della Terza Internazionale e comunque del Partito bolscevico russo» (8) ). 

Quanto al Partito popolare, fin dalle sue origini esso è contrassegnato dalla eterogeneità dei suoi componenti: reduci della prima democrazia cristiana, esponenti del clerico-moderatismo, seguaci di Sturzo, nonché un mondo sociale composito tenuto insieme dal richiamo all’ispirazione cristiana. In un solo partito – ha scritto Carlo Morandi – «non s’erano mai veduti così opposti temperamenti, così diverse concezioni della lotta politica» (9), anche se la disciplina cattolica e l’accorta guida di Sturzo riescono a preservarne l’unità. 

Vi è infine il vario mondo liberale e democratico di ascendenza risorgimentale, la cui incapacità a costituirsi in partito (il Partito Liberale, com’è noto, fu costituito soltanto nel 1922, a venti giorni dalla marcia su Roma) costituisce paradossalmente un’altra conferma della tendenza alla frammentazione: qui non si divide qualcosa che era stato unito, ma non riesce a unirsi qualcosa che era diviso in partenza (anche se si trattava di divisioni ideologicamente ‘deboli’). 

Venendo alla polarizzazione ideologica, essa trova espressione, a sinistra, nella deriva massimalistica del Psi e nella nascita del PCd’I e, a destra, nella nascita e nello sviluppo del fascismo. Quando entrano in scena le culture politiche di massa di sinistra e di destra, queste conducono subito alla lacerazione, si annunciano come gli attori di un conflitto incomponibile, che ha per luogo la piazza (e non il parlamento), per oggetto la trasformazione rivoluzionaria della società (e non il suo governo), per metodo lo scontro violento (e non il conflitto istituzionalizzato). 

Si annuncia così la lunga guerra civile che attraverserà l’Italia del Novecento, con fasi calde e fasi fredde, fasi di partecipazione allargata e fasi di partecipazione ristretta. In presenza di questo radicale conflitto si radicherà l’abitudine alla demonizzazione dell’avversario e la tendenza (a volte necessaria) a posizionarsi contro qualcuno piuttosto che a favore di qualcosa: nasce così la ‘sindrome dell’anti’, che avrà una lunga serie di incarnazioni. 

In terzo luogo, si manifesta la tendenza all’instabilità governativa: tra il 1919 e il 1921 si succedono cinque governi, tra il 1921 e il 1922 tre. Tale instabilità nasce dalle caratteristiche sopra richiamate: la frammentazione partitica rende più difficile la formazione e la tenuta di una maggioranza, mentre la polarizzazione ideologica (cioè la presenza di partiti anti-sistema) rende più ristretta l’area dei partiti candidabili al governo. 

2. La rinascita (1945-1948) della democrazia in Italia: fratture e persistenze 

La rinascita del sistema democratico, così come la sua genesi, avviene sotto il segno della guerra; una guerra resa ancora più drammatica dalle divisioni interne. A partire dal 1943 il nostro Paese è diviso in due Stati, due governi e due regimi d’occupazione, i quali non definiscono solo due diverse giurisdizioni, ma contribuiscono «a ridisegnare le linee di frattura in cui si ricolloca l’universo politico degli italiani. L’Italia, forse come nessun altro paese d’Europa, diventa la rappresentazione simbolica delle due opzioni di civiltà che si sono date battaglia sul teatro del secondo conflitto mondiale» (10). 

Se la nascita della democrazia di massa, nel 1919, era stata seguita da una sorta di guerra civile tra fascisti e social-comunisti, la sua rinascita, nel 1945, è preceduta da una vera e propria guerra civile tra fascisti e antifascisti. Anche questa è una circostanza che non verrà sottolineata mai abbastanza. 

Ad essa vanno aggiunti tre elementi che ci riconducono al primo dopoguerra: l’incidenza del mito sovietico (dovuta, in questo caso, al ruolo militare dell’Urss), la debolezza delle istituzioni e la «grande forza espansiva dei partiti» (11) (che si mobilitano o si ricostituiscono nel 1942-43) e del sindacato (che rinasce in forma unitaria, come Cgil, nel 1944). 

Nuovo e importante, rispetto al 1919, è invece il ruolo della Chiesa, che negli anni terribili della guerra e dello sfaldarsi delle istituzioni ha rappresentato per molti italiani (di ogni tendenza, politica e apolitica) l’unica rete di protezione e di aiuto: «il sacerdote, la parrocchia, le varie sedi in cui si esercita la carità cristiana diventano gli uomini ed i luoghi, le realtà ed i simboli di un’umanità che cerca riparo ed una trincea di resistenza da cui ripartire per costruire una convivenza civile finalmente emendata dalle atrocità procurate dalla politica» (12). Questo ruolo di «collante socioculturale» (13) della Chiesa avrà certamente un peso nell’orientare le scelte di molti italiani, quando – finita la guerra – si tornerà a votare e quindi nella costruzione del nuovo Stato. 

Sin dal 1943-44 il quadro delle forze politiche riassume la fisionomia del 1919-21, con i socialisti (le cui diverse componenti sono ora riunificate nel Partito socialista di unità proletaria, Psiup), i comunisti (nel Pci), i cattolici (riuniti nella Democrazia cristiana, erede del Partito popolare), i liberali (nel Pli) e i repubblicani (nel Pri). Le novità sono soltanto due: il Partito d’Azione, che nasce dal movimento antifascista ‘Giustizia e libertà’, ispirato ad un radicalismo democratico impregnato di spiriti giacobini; e l’Uomo Qualunque, movimento che dà voce, nel Meridione, al sentimento antipolitico dei ceti medi, raccogliendo un variegato mondo di destra (il cui unico collante è l’anti-antifascismo, ennesima variante di quella sindrome conflittuale che porta gli italiani a definirsi e contrario). 

Gli attori sono quindi gli stessi del primo dopoguerra (quelli nuovi, sia detto per inciso, avranno vita breve); e ancora più forte è la tendenza verso quella ‘democrazia dei partiti’ che allora prese forma. Su questo terreno agisce anche l’eredità del fascismo: è stato infatti il fascismo, come ha osservato Lanaro, «a inaugurare in Italia la politica di massa, a declinarne alcune regole fisse e a esplorarne le principali possibilità» (14); e il Pnf rappresenta il modello organizzativo nel cui alveo i grandi partiti popolari, «non potendo né volendo ritornare ai rituali della politica di élite, sono costretti a muoversi» (15). 

È chiaro, quindi, che la ‘successione al regime’ – per usare le parole del Mussolini del ‘19 – è cosa che nel ‘45 riguarda i partiti di massa e soltanto loro. I più veloci a muoversi, in questo senso, sono i comunisti: il partito comunista, dirà Togliatti nel 1944, da «piccola ristretta associazione di propagandisti di idee generali del comunismo e del marxismo» deve trasformarsi in «un grande partito, un partito di massa» (16). Ciò significa che «bisogna creare i sindacati, le cooperative, le mutue (…). Bisogna organizzare i giovani, bisogna fare un lavoro tra le donne»; bisogna «che tutto il popolo senta realmente, non soltanto che il partito esiste, ma senta che il partito si occupa dei suoi interessi e di tutte le cose che interessano il popolo in generale» (17). 

Il Partito socialista rimarrà sempre indietro, sotto questo profilo; la Dc potrà invece contare sull’immenso patrimonio di risorse umane e organizzative del mondo cattolico. Cattolici e comunisti, però, seguono una diversa strategia rispetto al primo dopoguerra: De Gasperi vuole che nella Dc si realizzi l’unità politica di tutti i cattolici e per fare questo ha bisogno dell’esplicito riconoscimento da parte della Chiesa (riconoscimento che arriverà nel 1944); Togliatti, dal canto suo, innesta sul tronco rivoluzionario e filosovietico del partito una dose massiccia di realismo politico, che nasce dal freddo riconoscimento del nuovo quadro internazionale e dalla lezione gramsciana della ‘guerra di posizione’ (ed è questo realismo, insieme al radicamento capillare e alla disciplina interna, che distinguerà i comunisti dai socialisti). 

Il 1946, dal punto di vista elettorale, è l’anno della rinascita del sistema democratico. Il voto per la Costituente conferma la nascita di un sistema politico imperniato sui partiti di massa: la Dc (35,1%), il Psi (20,7%) e il Pci (18,9%) raccolgono insieme il 75% dei consensi; il Pli il 6,8%, il Pri (grazie al traino referendario) il 4,4%, l’Uq il 5,3%, i monarchici il 2,8%, gli azionisti l’1,8%. 

La Dc diventa il primo partito italiano, sostituendo i liberali nel ruolo di perno del sistema politico; i socialisti, per l’ultima volta nella storia repubblicana, superano i comunisti, in virtù probabilmente del retaggio storico del partito. Sommati insieme i due partiti della sinistra classista raggiungono quasi il 40% dei consensi, una percentuale molto alta ma insufficiente a governare il Paese e che sicuramente beneficia, al Nord, del prevalere della linea di frattura ‘fascismo/antifascismo’. 

In una fase di passaggio così delicata e drammatica (trattato di pace, ricostruzione economica e morale, questione istituzionale, riscrittura della costituzione, problema del Concordato), il Paese non può che essere governato in modo unitario: dividersi ora potrebbe essere fatale per un organismo già profondamente ferito e debilitato. Prosegue così l’esperienza, avviata nel 1945, dei governi di unità nazionale, sostenuti dalle grandi forze popolari (cattolici, comunisti e socialisti). Ma è chiaro che si tratta di una coabitazione forzata, un compromesso dettato dall’emergenza, giacché le differenze ideologico-politiche e programmatiche tra i cattolici da un lato e i social-comunisti dall’altro sono profonde. 

Anche se rimandato ad un futuro piuttosto vago e lontano, i comunisti mirano al superamento della ‘democrazia borghese’ e alla nascita del socialismo. La ‘democrazia progressiva’ di Togliatti altro non è che la progressiva fuoriuscita dal modello della democrazia occidentale; i cattolici, invece, sotto la guida di De Gasperi, hanno compreso che la democrazia liberale, pur con tutti i suoi limiti e i correttivi di cui abbisogna, è l’unica democrazia possibile. Il superamento delle principali emergenze, l’incalzare dei problemi economici (sui quali l’accordo con le sinistre è molto più difficile) e il mutare del quadro internazionale – con l’emergere della ‘guerra fredda’ – porterà alla rottura con le sinistre e alla nascita del centrismo, ossia dell’alleanza tra Dc e partiti laici (liberali, repubblicani e socialdemocratici, che nel 1947 si sono staccati dal Partito socialista). 

Nel giro di due anni sotto la linea di frattura fascismo/antifascismo riemerge il cleavage originario della democrazia italiana, comunismo/anticomunismo, acuito dalla divisione bipolare a livello internazionale. La Dc, rompendo con i social-comunisti e resistendo alle sirene di un accordo con l’estrema destra (qualunquisti e monarchici, ai quali si aggiungono, dalla fine del ’46, i missini), si colloca al centro del sistema politico e si configura come il garante della sua tenuta. 

È in questo ruolo che affronta le elezioni del 1948, in una campagna elettorale che vede socialisti e comunisti riuniti nel Fronte popolare. Sarà la campagna elettorale più divisiva della storia repubblicana. La sfida che viene dai due grandi partiti della sinistra, concordi nel considerare l’Urss la ‘patria del socialismo’, è temibile; dal canto suo, il mondo cattolico mobilita tutte le sue energie (Azione cattolica, Acli, Confederazione dei coltivatori diretti, Comitati civici). Non è uno scontro elettorale ‘normale’: non si sceglie tra politiche e programmi diversi, ma tra sistemi ispirati a principi di legittimazione alternativi. Il linguaggio (verbale e iconografico) è estremo: la controparte non è un avversario, ma un nemico, una minaccia dalla quale occorre ‘salvarsi’. Con il 1948 inizia la lunga contrapposizione ideologica della prima Repubblica, anche se è bene ricordare che al di sotto dei toni propagandistici e delle affermazioni ideologiche si sarebbe stabilita una convivenza sostanzialmente rispettosa degli istituti democratici. 

Il risultato delle elezioni non lascia adito a dubbi: la Dc raccoglie il 48,5% dei voti; il Fronte popolare il 31%, cioè quasi il 9% in meno rispetto a quanto Pci e Psi hanno preso separatamente nel 1946 (e qui opera sicuramente la scissione dell’ala riformista del Psi: il Psdi prende infatti il 7,1%); i liberali, insieme ai qualunquisti, il 3,8; i repubblicani il 2,5%, i monarchici il 2,8% e il Movimento sociale, che per la prima volta si presenta al voto, il 2%. 

La Dc non raggiungerà più, in futuro, la soglia del 50% dei voti, ma si attesterà stabilmente intorno al 40% dei consensi per tre decenni; nello stesso periodo il Pci (che già alle elezioni del 1953 è di gran lunga il primo partito della sinistra) accrescerà ininterrottamente i suoi consensi, sino a raggiungere nel 1976 il 35% circa dei voti. Quanto al Psi, oscillerà tra il 12-14% negli anni Cinquanta e Sessanta, per poi scendere intorno al 10% negli anni Settanta. Gli altri rimarranno attori ‘minori’ del sistema: i liberali oscilleranno tra il 3 e il 5% (toccando un picco del 7% nel 1963, quando vedranno premiata la loro opposizione al centro-sinistra), i repubblicani oscilleranno tra l’1,5 e il 3% e i socialdemocratici si attesteranno sul 5%.; il Movimento sociale si attesterà intorno al 5-6% (con un picco quasi del 9% nel 1972, dovuto alle paure innescate nei ceti moderati dal ‘secondo biennio rosso’, il 1968/69), mentre i monarchici, a partire dagli anni Sessanta, andranno verso la scomparsa. 

A partire dal ’68 comparirà sulla scena politica la piccola ma vivace galassia della ‘nuova Sinistra’, espressione dei movimenti sociali e radicata soprattutto tra i giovani e gli intellettuali: questa troverà la sua proiezione parlamentare in alcuni partiti (Partito democratico di unità proletaria, Pdup; Democrazia proletaria, Dp) che criticheranno il Pci da sinistra, trovandolo troppo ‘moderato’, ma non ne scalfiranno mai l’egemonia (collocandosi intorno al 2% dei consensi). In un quadro siffatto – caratterizzato, a sinistra, dalla presenza del più grande partito comunista dell’Occidente e, a destra, da un partito che si richiama al fascismo – l’Italia non può che essere governata dal centro: un centro imperniato sulla Dc, che dapprima include i partiti laici (centrismo) e quindi si allarga, negli anni Sessanta, ai socialisti (centro-sinistra), escludendo i liberali. 

Nonostante gli straordinari mutamenti economici, sociali e di costume che l’Italia sperimenta in questo trentennio, il sistema politico manterrà sostanzialmente la configurazione assunta nel 1948 e i caratteri congeniti risalenti al 1919: frammentazione partitica, polarizzazione ideologica, instabilità governativa. La frammentazione è attestata non solo dall’elevato numero di partiti (8-10), ma dal ripetersi di fenomeni di scissione, dal fallimento dei tentativi di unione e dalla nascita di nuovi partiti. 

Lo scissionismo prospera, come sempre, tra i socialisti: l’eccessiva vicinanza dei Psi al Pci ha portato, nel 1947, alla scissione dell’ala riformista, con la nascita del Psdi, mentre l’avvicinamento all’area di governo ha portato, nel 1964, alla scissione dell’ala classista e internazionalista, con la rinascita del Psiup (ed è da una componente del Psiup, scioltosi nel 1972, che nascerà il Pdup). La sinistra continua quindi ad essere stabilmente divisa in tre partiti principali (comunisti, socialisti, socialdemocratici), ai quali si affianca, dalla metà degli anni Sessanta, un quarto partito, intermedio tra il Psi e il Pci, come il Psiup, o alla sinistra del Pci e vicino ai ‘movimenti’, come il Pdup o Dp. 

Anche i liberali subiscono, a metà degli anni Cinquanta, la scissione dell’ala sinistra, che darà vita al Partito radicale, la cui azione sul terreno politico si farà incisiva a partire dagli anni Settanta. Quanto ai tentativi di unione (e quindi di riduzione della frammentazione), sono tre, di cui due fallimentari: a destra, quello tra liberali e qualunquisti alle elezioni del 1948 (che totalizzano l’8.3% dei voti in meno rispetto a quelli presi separatamente nel 1946) e quello tra missini e monarchici nel 1972 (che registrano invece un incremento del 2,9%, subito perso però alle elezioni successive); e, a sinistra, quello tra Psi e Psdi, che nel 1966 danno vita al Partito socialista unitario (Psu), il quale alle elezioni del 1968 prenderà il 5,4% dei voti in meno rispetto alla somma dei voti raccolti da Psi e Psdi nel 1963. 

Va infine ricordato che la maggior parte dei partiti sono fortemente divisi al loro interno. Su tutti, il perno del sistema, quella Dc che, dopo la morte di De Gasperi, assume la configurazione di un arcipelago di correnti, tenute insieme dalla necessità di arginare il Pci e sempre più della gestione del potere: al suo interno convivono correnti di sinistra, di destra e di centro, sempre in lotta tra loro per il controllo del partito e sempre pronte a scaricare le tensioni sul governo. 

Quanto alla polarizzazione ideologica, essa permane perché il Pci conserva e accentua (a partire dagli anni Settanta) la natura bifronte impressagli da Togliatti, dichiarando per un verso la sua apertura ai principi della democrazia pluralistica e iniziando a criticare il modello sovietico, ma pretendendo per l’altro di portare con sé tutto il proprio bagaglio ideologico e simbolico, sino all’ossimorica pretesa di essere ‘partito di lotta e di governo’, il che scontenterà sia quelli che credono ancora nell’alternativa di sistema (la sinistra del partito e gran parte della base), sia quelli che puntano alla ‘socialdemocratizzazione’ del partito (la destra migliorista). 

A destra, nel frattempo, si è consolidato il Msi, che anche se non è stato un ‘polo escluso’ in senso politico-parlamentare (i suoi voti furono, in alcune circostanze, ‘accolti’ dalla Dc ), certamente lo fu in senso ideologico, per via del suo richiamo al fascismo. In un simile quadro non poteva che prodursi una cronica instabilità governativa: in 28 anni (dal 1948 al 1976) si succedono 32 governi. 

Questo assetto fondato sulla contrapposizione Dc-Pci entra in crisi con le elezioni del 1976, quando il Pci raggiunge quasi il 35% dei suffragi, rendendo impossibile la formazione di una maggioranza che lo escluda. Un insieme di circostanze emergenziali (la profonda crisi economica e un diffuso clima di violenza tra estremisti di destra e di sinistra, che culmina nel fenomeno del terrorismo) e di convinzioni strategiche (il ‘compromesso storico’ di Berlinguer e la ‘terza fase’ di Moro, che trovano un punto d’incontro nel ritenere necessaria una convergenza tra le grandi forze popolari, sul modello di quella avvenuta tra il 1945 e il 1947) porta alla stagione dei ‘governi di solidarietà nazionale’, con l’ingresso nella maggioranza (ma non nel governo) dei comunisti. 

Ma è proprio a partire dal 1976 – ossia dall’anno in cui Dc e Pci raccolgono insieme il 73% dei consensi – che inizia il declino dei due grandi partiti popolari. La deludente esperienza dei governi di solidarietà nazionale accentua quella sfiducia nella classe politica e nei partiti tradizionali che si è fatta strada sin dalla fine degli anni Sessanta: emblematico, in questo senso, l’esito del referendum del 1978, proposto dai radicali, per abrogare il finanziamento pubblico dei partiti, referendum nel quale il ‘fronte del no’ prevalse con il 56% dei voti, quando i partiti che avevano dato indicazione di votare ‘no’ rappresentavano oltre il 90% degli elettori (a favore del ‘sì’ erano solo radicali, liberali e demoproletari). 

Gli anni Ottanta rappresenteranno il lento declino della Dc (che scenderà al 32-34%) e soprattutto del Pci, che scenderà sotto il 30%, senza riuscire ad imboccare definitivamente, nonostante l’impegno della componente migliorista, la strada della trasformazione in un partito del socialismo europeo. 

Nella permanente impossibilità di una vera alternativa di governo, inizia la fase dell’alternanza, ossia della coabitazione competitiva all’interno del governo tra democristiani e socialisti (nel quadro di maggioranze ‘pentapartitiche’). Il Psi, infatti, sotto la guida di Craxi, è approdato – per la prima volta nella sua storia – ad una chiara identità riformista, che lo mette in rotta di collisione col Pci e lo porta a incalzare la Dc sul terreno della modernizzazione economica e istituzionale del Paese. 

Il progetto socialista – rompere lo storico duopolio Dc-Pci e, in prospettiva, ribaltare i rapporti di forza a sinistra con i comunisti – non riuscirà tuttavia a produrre significativi mutamenti del sistema politico (dopo il governo Craxi, nel 1987, il Psi raggiungerà il 14% dei voti; ma in quelle stesse elezioni il Pci, pur perdendo il 3% dei consensi, si attesterà quasi al 27%). 

La durezza delle fedeltà ideologiche e/o identitarie, nonostante la crescente sfiducia verso i partiti, rimane altissima. Soltanto uno shock potrebbe rompere questa crosta: e lo shock arriva con il crollo inaspettato dei regimi comunisti, nel 1989. La crisi del sistema politico italiano, che sarebbe esplosa nel 1992, inizia allora: venuto meno l’orizzonte internazionale del comunismo, il Pci è destinato ad un declino inesorabile o ad una profonda trasformazione. Questo significa però anche il venir meno della necessità dell’unità politica dei cattolici, il cui senso profondo stava nell’esigenza di rispondere ad una ‘sfida di sistema’. 

3. Crisi e trasformazione (1992-94): verso il bipolarismo formale 

Sebbene il Pci abbia subito un’innegabile evoluzione democratica, non è certo un caso che la vera rottura del cordone ombelicale dell’ideologia – rappresentata dal cambio del nome – avvenga soltanto dopo il crollo del Muro di Berlino. Nato come proiezione italiana del 1917, il Pci poteva morire soltanto dopo il 1989. Il trauma, per i militanti, sarà comunque grande e darà luogo, ancora una volta, ad una scissione: quando il Pci, nel 1991, si scioglie, per dare vita al Partito democratico della sinistra (Pds), una parte dei suoi aderenti fonda il Partito della Rifondazione comunista (Prc). 

Con la scomparsa del Pci il composito blocco elettorale che sosteneva la Dc inizia, nella parte più avanzata del Paese, a sgretolarsi: e, dando corpo all’insofferenza verso i partiti tradizionali, si dirige verso un soggetto completamente nuovo del panorama politico, la Lega, un ‘partito territoriale’ caratterizzato da una forte carica anti-centralistica. La cera dell’elettorato, per dirla con Sartori, inizia a perdere la sua vischiosità. 

Nelle elezioni del 1992 la Dc scende per la prima volta sotto il 30%, mentre il Pds, con il suo 16%, prende poco più della metà dei voti del vecchio Pci. Gli altri partiti si attestano sulle percentuali delle precedenti elezioni. Il vero vincitore di queste elezioni è la Lega, che a livello nazionale prende quasi il 9% e in regioni come Lombardia e Veneto si attesta tra il 20-30%. 

Il sentimento di insofferenza verso la classe politica tradizionale è sempre più forte ed è in questo clima che le inchieste giudiziarie della procura di Milano – inchieste che portano alla luce il carattere pervasivo della corruzione politica, ma che riveleranno ben presto un orientamento ‘selettivo’ e tratti fortemente anti-garantisti – innescano un vero e proprio terremoto: sotto i colpi della magistratura crollano i partiti che hanno governato il Paese dal 1948 in avanti. 

Inizia un processo di trasformazione al quale darà un contributo decisivo il cambiamento del sistema elettorale (dal proporzionale al maggioritario corretto), ottenuto per via referendaria nel 1993. Nel 1994 il sistema dei partiti ha ormai assunto una fisionomia irriconoscibile: i grandi partiti popolari del 1948 non esistono più. Del Pci (trasformatosi in Pds) abbiamo già detto; quanto alla Dc, dal suo scioglimento nascono il Partito popolare, il Centro cristiano-democratico (Ccd) e i Cattolici democratici uniti (Cdu); già da due anni, inoltre, esistono i Popolari per la Riforma di Segni. I socialisti, così come i partiti laici, si riducono in piccole formazioni, avviandosi a divenire irrilevanti. 

Le novità più importanti si collocano nell’area di centro-destra. Nel 1994 il Movimento sociale avvia la sua trasformazione in una destra «democratica, oltre i totalitarismi e oltre le ideologie» (18): nasce così Alleanza nazionale (An), che era stata ‘legittimata’ dal voto popolare per il suo leader nelle elezioni per il sindaco di Roma del 1993 (nelle quali Fini, pur perdendo il confronto con Rutelli, raccoglierà il voto in libera uscita dalla Dc). 

Infine, sempre nel 1994, nasce Forza Italia, un inedito movimento guidato da un outsider della politica come Silvio Berlusconi, che si candida ad ereditare l’area dell’elettorato che votava per il pentapartito – riempiendo la voragine apertasi al centro del sistema politico tra il ’92 e il ’94 – e ad interpretare senza pregiudizi (e quindi senza preclusioni a destra) la logica bipolare insita nel nuovo sistema elettorale. 

Quando tornano alle urne, nel 1994, gli elettori si trovano di fronte un panorama politico imperniato su tre formazioni principali: il ‘Polo delle libertà e del buon governo’, che unisce Forza Italia, Lega, An e Ccd; i ‘Progressisti’, che uniscono al loro interno il Pds, il Prc, i Verdi e altri piccoli gruppi; e il ‘Patto per l’Italia’, che unisce i popolari e i seguaci di Segni, che non si riconoscono nell’incipiente bipolarismo. 

Il grimaldello della legge elettorale funziona: le forze centriste ottengono il 16%, ma un numero molto esiguo di seggi. I Progressisti totalizzano il 34% dei voti – è impressionante, sia detto per inciso, la stabilità del 30-35% della sinistra nelle sue varie incarnazioni, dal Partito socialista del 1919, al Fronte democratico del 1948, al Pci degli anni Settanta, sino ai Progressisti del 1994 – mentre il Polo delle libertà e del buon governo vince inaspettatamente le elezioni, superando il 40% dei consensi. 

Il sistema politico uscito dalle elezioni del 1994 è profondamente diverso da quello del 1948, negli attori, nella logica (maggioritaria) e nei comportamenti (che vedono l’accentuarsi della personalizzazione e del momento della leadership). Governata dal centro per mezzo secolo, per via della polarizzazione ideologica (a sinistra i comunisti, a destra i neofascisti), l’Italia si avvia verso un sistema bipolare assimilabile a quello delle democrazie maggioritarie evolute. 

Non a caso, si inizia a parlare, sebbene l’assetto costituzionale sia rimasto invariato, di ‘seconda Repubblica’. Dopo una prima legislatura breve, dovuta al ‘ribaltone’ della Lega, si succedono due legislature regolari, nelle quali il centro-sinistra (nel quale confluiscono i popolari) e il centro-destra (nel quale, nel 2001, ritorna la Lega) si alternano al governo. 

Ma il bipolarismo nato nel 1994 e consolidatosi dopo il 1996 è un bipolarismo formale, giacché i suoi contenuti rimangono gli stessi del cinquantennio precedente. Anzitutto, la frammentazione: sotto il velo delle coalizioni, il numero dei partiti rimane elevato, anzi tende ad aumentare. Nel polo di centro-sinstra, l’area di sinistra è rappresentata da quattro formazioni: oltre al Pds (che diventerà Ds), al Prc e ai Verdi, nel 1998 si forma, per scissione dal Prc, il Partito dei comunisti italiani (Pcdi). 

Sebbene il ‘secolo breve’ sia ormai finito, la sinistra italiana rimane frammentata e perdura al suo interno una tenace fedeltà, anche se ormai minoritaria, all’idea di un’alternativa di sistema (i cui contorni, sempre più indistinti, sfumano in un vago ‘altermondialismo’ o ingrigiscono in una sorta di reducismo comunista). 

L’area centrista si raccoglie invece in un nuovo partito (la Margherita, 2000), nel quale i popolari si uniscono con varie formazioni minori del mondo post-democristiano (i Democratici di Parisi, l’Udeur di Mastella) e laico (la Lista Dini): ma sarà un’unione attraversata da continue tensioni, anche di carattere personale.

 Il centro-destra appare più compatto, ma ha il problema della Lega, che oscilla tra tentazioni secessionistiche e richiesta del federalismo; inoltre a destra di An si sono formati alcuni piccoli partiti (Movimento Sociale-Fiamma tricolore, Azione sociale) che cercano di catturare l’elettorato della destra nostalgica e radicale, ostile alla svolta di Fiuggi. 

Se durante la prima Repubblica i partiti erano 8-10, durante la seconda Repubblica salgono a 10-15 e il loro peso elettorale si assottiglia: Fi non raggiunge le percentuali della Dc, così come i Ds non raggiungono quelle del Pci. Le due coalizioni, infine, sono tenute insieme non da un idem sentire, ma da un idem adversare. Esse trovano il loro collante, soprattutto a sinistra, nell’esigenza di battere l’avversario, nel quale vedono ancora un nemico, un pericolo per la democrazia. 

In questo riemergere della ‘sindrome anti’ (da un lato, l’antiberlusconismo, prosecuzione dell’anticraxismo e ultima incarnazione dell’antifascismo retorico; dall’altro, l’anticomunismo) riemerge la polarizzazione, che da ideologica si fa post-ideologica, quasi antropologica. È come una tossina, il residuo di una lunghissima malattia che l’organismo del Paese non riesce ad espellere. 

Del resto, il mutamento della legge elettorale può cambiare i comportamenti degli attori politici, ma non può trasformare le culture politiche, il cui mutamento richiede i tempi lunghi dei processi storici. Le culture politiche toccano le convinzioni profonde, le passioni, le abitudini, le vicende personali, gli schemi mentali delle persone: sono parte costitutiva della loro identità. L’Italia è stata troppo a lungo ‘abitata’ dall’idea comunista perché la contrapposizione ideologica che ha suscitato possa sparire velocemente: e tutto questo perché il comunismo non è stato, come si è sostenuto, un Dio minore, ma un Dio grande e terribile, intorno al quale si è sviluppata la più grande ‘religione politica’ del XX secolo. 

Assistiamo così ad una sopravvivenza politicamente anacronistica, ma storicamente (e psicologicamente) comprensibile, della contrapposizione ideologica: i figli sono catturati nel gioco dei padri (anche perché i padri non hanno mai avuto il coraggio di ‘strappare’ veramente la tela del passato). Su tutto impera la demonizzazione dell’avversario: sebbene tutti possano concorrere al governo, manca ancora la legittimazione reciproca, che è il prerequisito di un sistema democratico maturo. 

Quanto all’instabilità governativa, essa è certamente diminuita, ma fino ad un certo punto, giacché nelle coalizioni, una volta battuto il nemico comune, riemergono le antiche appartenenze e si riapre la conflittualità interna. La seconda Repubblica ha avuto quattro legislature: la prima e l’ultima si sono concluse anticipatamente, a causa dei contrasti interni alla maggioranza, mentre le altre due sono durante regolarmente 5 anni: ma in quella governata dal centro-sinistra (1996-2001) sono avvenuti ben tre cambi di presidenza del consiglio, mentre in quella governata dal centro-destra (2001-2006) la conflittualità interna alla maggioranza è stata all’ordine del giorno, indebolendo non poco l’azione del governo. 

Per queste ragioni la seconda Repubblica, nata dal biennio 1992-94, non ha rappresentato un vero punto di svolta, ma una stagione di transizione, in cui vecchio e nuovo si sono mescolati tra loro e le storiche caratteristiche del sistema italiano sono riemerse in forme diverse. 

[...] N.B. L’articolo nella sua versione originale prosegue con una quarta parte intitolata: Nascita del bipolarismo sostanziale (2008)

NOTE AL TESTO

(1) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici. L’Italia dal Risorgimento alla Repubblica, B. Mondadori, Milano 2008, p. 65.

(2) G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, in Storia d’Italia. a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1998, vol. 5, p. 116.

(3) G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, cit., p. 117.

(4) Ivi, p. 128.

(5) F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961; II ed., 2002, p. 43.

(6) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 80.

(7) G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, cit., p. 111.

(8) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 80.

(9) C. Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia (1848-1985), Le Monnier, Firenze 1945; X ed.ampliata, 1986, p. 80.

(10) R. Chiarini, Le origini dell’Italia repubblicana (1943-1948), in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1997, vol. 5, p. 15.

(11) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 125.

(12) R. Chiarini, Le origini dell’Italia repubblicana (1943-1948), cit., p. 10.

(13) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 125.

(14) S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 48.

(15) Ibid.

(16) P. Togliatti, Politica comunista (discorsi dall’aprile 1944 all’agosto 1945), citato in R. Chiarini, Le origini dell’Italia repubblicana (1943-1948), cit., p. 49.

(17) P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale (1944), citato in M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 154.

(18) Discorso di G. Fini al congresso di Fiuggi (1995), citato in M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 216.

IL VOLUME

L'inerzia dei governi liberali carta vincente del fascismo. I militari, non i capitalisti, spianarono la strada al Duce. Ernesto Galli Della Loggia su Il Corriere della Sera il 9 ottobre 2012

Con questo terzo volume (Storia delle origini del fascismo. L'Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma, Il Mulino), che esce a più di 45 anni di distanza dal primo, Roberto Vivarelli consegna alla cultura italiana un'opera monumentale, paragonabile solo a quella di Renzo De Felice su Mussolini. E, aggiungendo la sua all'altra - non importano, su alcuni punti, le differenze pure non irrilevanti tra le due -, egli segna la vittoria definitiva del cosiddetto revisionismo su quella che è la questione cruciale della storia italiana del Novecento. Revisionismo è un termine maledetto nel lessico del conformismo ideologico onnipresente, se in realtà esso non volesse dire - come lo stesso autore rivendica - «una delle più elementari esigenze del mestiere» di storico. È giusto comunque adoperarlo per significare come dopo quest'opera nessuno potrà più continuare a sostenere le interpretazioni del fascismo e delle sue cause che pure vanno ancora oggi per la maggiore, tutte in realtà rivolte ad assegnare torti e ragioni secondo le convenienze dell'antifascismo di allora e di poi (esattamente come, dopo l'opera di De Felice, nessuno ha potuto più accreditare l'immagine trucemente macchiettistica del regime che i suoi avversari gli avevano cucito addosso). Naturalmente nessuno che voglia muoversi sul terreno dei fatti e che non sia accecato dal pregiudizio. Resta infatti vero ciò che lo stesso Vivarelli osserva nella prefazione - in polemica con certa imperversante storiografia internazionale, in specie anglosassone, che da noi ha il suo rappresentante in Emilio Gentile - e cioè che la sua opera non varrà certo a far cambiare punto di vista a quegli «studi che discettano di un fenomeno fascista senza confrontarsi affatto con le vicende effettive del movimento di Mussolini e con la storia del Paese in cui quelle vicende si svolsero», riducendone le esperienze a quelle del nazismo tedesco «che con il fascismo italiano avevano in realtà poco a che fare».

Roberto Vivarelli «Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla marcia su Roma», edita dal Mulino (pp. 544, € 36),

Secondo Vivarelli il fascismo non è nato, e neppure si è affermato, come un movimento reazionario di classe sollecitato dagli agrari o tanto meno dagli industriali, come vuole lo stereotipo ancora oggi corrente. L'idea centrale della sua ricostruzione, invece - condotta, così come nei volumi precedenti, su una vastissima documentazione anche di ambito locale -, è che in Italia, tra il 1919 e il 1922, si sia combattuta in realtà una vera e propria guerra civile «tra due opposte passioni politiche», incarnate dai socialisti da un lato e dai fascisti dall'altro: la passione della classe e quella della nazione. Tra la bandiera rossa e il tricolore.

In una simile prospettiva di guerra civile il punto chiave, come è evidente, è l'uscita del conflitto sociale dai binari della legalità; il problema del «chi ha cominciato». E qui una montagna schiacciante di prove vale a mettere sul banco degli accusati il Partito socialista. Per pagine e pagine il lettore s'inoltra in una sorta di interminabile rassegna di quello che è difficile non definire un vero e proprio attacco di demenza politica che in quel dopoguerra colpì i socialisti. Inebriati fino alla forsennatezza dalla rivoluzione leninista, infatti, e non sospettando neppure che con la guerra e la vittoria si apriva una pagina interamente nuova della storia del Paese, dopo il 1918 essi misero in atto due orientamenti suicidi. Da un lato il desiderio di prendersi la rivincita della sconfitta patita nel maggio del 1915 a opera del fronte interventista (il quale però si dà il caso che avesse portato il Paese a un'affermazione storica di cui era impossibile ignorare la portata), e dall'altro l'illusione che in Italia si potesse «fare come la Russia», cioè impadronirsi del potere.

A fare da trait d'union tra questi due obiettivi, e da sfondo ideologico alla grande ondata di lotte sociali successive alla lunga compressione bellica, il Partito socialista mise in campo una violentissima predicazione antinazionale e antipatriottica, una martellante propaganda antimilitaristica fin dentro le caserme e ben oltre i limiti del disfattismo; un fiume ininterrotto di minacce di ogni tipo rivolte ai «borghesi», ai «padroni», ai «signori ufficiali». Non erano solo parole (che pure in politica contano e come!), perché ad esse si aggiungevano i fatti: l'appoggio incondizionato agli scioperi più insulsi, alle violenze più inutili, alle agitazioni anche le più distruttive come gli assalti ai negozi; e poi, laddove il potere era nelle mani degli uomini del partito (a cominciare dalle campagne e dai piccoli centri della bassa Lombardia, del Rodigino, dell'Emilia, della Toscana), «uno stillicidio continuo di abusi e di provocazioni». E non solo: dal momento che, scrive Vivarelli, «non corrisponde al vero che i socialisti fossero alieni dalla violenza». Si arrivò al punto, come a Bologna nel 1920, di disporre la chiusura del camposanto nel giorno dei Morti per festeggiare la conquista del municipio; o, come nei comuni del Genovese, di ordinare alle scuole di rimuovere, insieme ai crocefissi, i ritratti dei sovrani, le lapidi in memoria dei caduti in guerra, le corone con nastri tricolori. E infine dovunque prepotenze, più o meno piccole angherie ai «nemici di classe» e illegalità analoghe.

Ma tutto questo senza la minima iniziativa politica concreta, nonostante che dal 1919, come si sa, i socialisti, con oltre 150 seggi, fossero il maggior partito presente alla Camera. Il fatto si è, però, che dalla retorica massimalista e rivoluzionaria, dalla fissazione leninista di cui erano tutti prigionieri - salvo forse il solo Turati (sì, tutti: perfino i Baldesi, i Matteotti, i Buozzi, i Montemartini si dicevano ancora nel 1921 a favore dell'adesione al Comintern) - essi si sentivano obbligati a teorizzare come unico fine della propria presenza nelle istituzioni rappresentative il boicottaggio delle medesime. Basti pensare che nella legislatura 1919-21 il gruppo parlamentare socialista non avanzò una sola proposta di legge, non una. E che ancora nell'agosto del 1922 - quando ormai l'organizzazione socialista in intere regioni della Penisola era stata ridotta dallo squadrismo a un mucchio di macerie - un uomo come Claudio Treves, presunto portabandiera del riformismo, affermava alla Camera: «Quando si minaccia il parlamentarismo e si inneggia alla dittatura, noi vi diciamo, o signori, de re vestra agitur . Il regime liberale parlamentare è vostro, non nostro». 

Un gruppo di fascisti provenienti dal Sud bivaccano in attesa di entrare nella Capitale durante la marcia su Roma (28 ottobre 1922).

La vera e massima colpa degli eterogenei governi a maggioranza liberale di quel dopoguerra fu, secondo Vivarelli, di non aver opposto un'energica azione repressiva, come peraltro le leggi consentivano, a questo autentico attacco frontale dei socialisti nei confronti dello Stato nazionale. Ma anzi di aver mantenuto di fronte a un simile attacco, che era rivolto senza mezzi termini alle istituzioni, un'assurda posizione di sostanziale neutralità.

Sta qui, direi, il nocciolo interpretativo decisamente nuovo del libro (nuovo almeno per la storiografia d'ispirazione liberaldemocratica, cui il nostro autore appartiene). Il quale spiega questa debolezza/incapacità con il fatto che il fronte liberalcostituzionale si riconosceva ancora largamente nell'antinterventismo di marca giolittiana, a cui di fatto pure il Partito socialista e i cattolici avevano a suo tempo aderito, ed era quindi ideologicamente ed emotivamente restio a rivendicare il valore della guerra e della vittoria. All'antipatriottismo sovversivo socialista, insomma, i liberali e i popolari furono incapaci di opporre un consapevole, ma fermo, patriottismo delle istituzioni. La loro inazione, protrattasi per almeno due anni, produsse non solo un grave e capillare deterioramento dell'ordine pubblico, ma insieme - ciò che era ancora più grave - quella che a molti e in tante occasioni apparve come un'autentica latitanza dello Stato. Fu questa scelta suicida - quasi una replica sul versante liberale di quella compiuta dai socialisti - che finì per scavare un fossato tra la tradizionale classe dirigente e un'opinione pubblica, specie borghese, che per tanta parte si identificava pienamente nello Stato nazionale, tanto più riconoscendosi, dopo la vittoria, nelle ragioni della guerra e nell'esperienza bellica a cui aveva direttamente partecipato. Da qui una paurosa perdita di prestigio e di autorità da parte dei vari governi che si succedettero dal 1919 al '22 - a cominciare da quello di Giolitti stesso -; da qui l'insuperabile mancanza di credibilità e di forza politica comune a tutti.

Combattuti ferocemente dai socialisti, non difesi in modo adeguato dai liberali, lo Stato e l'eredità della guerra rimasero in certo senso alla mercé di chiunque avesse la volontà, la capacità e la forza di farsene tutore e rappresentante. Proprio perché mancò la reazione legale, è opinione di Vivarelli, sorse e si affermò quella illegale, cioè il fascismo. Dietro l'origine e il successo del quale, non vi fu dunque nessun particolare interesse di classe, bensì, per l'essenziale, una vasta adesione ideologico-culturale allo Stato nazionale nonché la volontà di difenderne la vittoria del '18. Agrari e industriali vennero solo dopo, a cose fatte o quasi, tanto più che «il carattere distintivo del movimento fascista - leggiamo - sin dalle origini, non è l'antisocialismo, ma l'antiliberalismo». La ragione ultima e più vera del successo dei fascisti deve essere vista nel fatto che essi, prendendo atto che la situazione del Paese era ormai quella di una virtuale guerra civile - e cioè che all'uscita dalla legalità da parte dei socialisti poteva contrapporsi solo un'illegalità organizzata, data la «neutralità» del governo - ne trassero le ovvie conseguenze e cominciarono a combattere gli avversari sul loro stesso terreno; e che potendo disporre in una misura enormemente superiore ai loro avversari dei mezzi per vincere (la giovane età, l'esperienza militare, la disciplina, una leadership anche tattica abilissima come quella di Mussolini), alla fine vinsero. Ma non senza avvalersi di una carta decisiva: l'appoggio, fin dall'inizio, delle forze dell'ordine e dell'esercito.

Vivarelli contrasta, in modo che a me sembra anche sul piano documentario convincente, la tesi tradizionale che ciò sarebbe stato il frutto di una voluta complicità con il nascente fascismo della classe dirigente liberale. A un'analisi attenta si direbbe che non fu proprio così. In realtà, sostiene il libro, si sarebbe trattato di una sorta di vera e propria sedizione tacita della struttura militare dello Stato, la quale avrebbe di fatto cessato di obbedire agli ordini di contrasto al movimento fascista impartiti dal governo. I quali ordini invece ci furono, energici e ripetuti, sebbene avvolti sempre da un'ambigua genericità (per esempio non fu mai previsto esplicitamente dalle autorità l'uso delle armi contro i fascisti o disposta la messa fuori legge delle squadre), e così furono ancor più destinati a restare elusi o inascoltati. Il fatto è che, avendo mancato di difendere la legalità contro i socialisti, agli occhi delle forze dell'ordine e dell'esercito (e assai probabilmente anche ai propri stessi occhi) i governi liberali avevano perduto qualunque autorità necessaria per ordinarne ora il rispetto contro i fascisti. Dichiarando una specie di neutralità nella guerra civile in atto, senza peraltro avere la forza di reprimere le due parti in lotta, il governo e i partiti costituzionali erano in pratica usciti dal novero degli attori politici; e con ciò avevano segnato la propria fine.

Come si vede, è un radicale spostamento d'asse interpretativo quello che questo libro opera rispetto all'immagine del fascismo e delle sue premesse, depositata da sempre nel discorso pubblico italiano. E poiché quell'immagine, come si sa, è in qualche modo alla base di tutta la vita della Repubblica, proprio per ciò esso ci aiuta a capire non poche delle fragilità e delle contraddizioni che ne hanno accompagnato la nascita, e non solo.

Ernesto Galli Della Loggia 9 ottobre 2012 

·        Al tempo del Nazismo.

La Germania cede la guerra è finita. Abdica il Kaiser, a Weimar sì alla Repubblica. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Novembre 2022

È il 12 novembre 1918: il «Corriere delle Puglie» annuncia a caratteri cubitali la notizia che da anni gli Italiani aspettano. «La capitolazione della Germania» è il titolo in prima pagina sul quotidiano: la Grande guerra è finita. «In seguito alla firma dell’Armistizio con la Germania, le operazioni di guerra sono state sospese su tutte i fronti alle ore 11 dell’11 novembre 1918», si legge sulle colonne del «Corriere». Il conflitto era scoppiato in seguito all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono asburgico, da parte dello studente serbo Gavrilo Princip del 28 giugno 1914.

L’Italia, dopo convulse discussioni tra neutralisti e interventisti, era entrata in guerra contro gli Imperi centrali nel 1915: abbandonando il sistema di alleanze in cui era inserita, aveva deciso di partecipare, infatti, al fianco della Francia e della Gran Bretagna e delle altre potenze dell’Intesa, in cambio di ampie concessioni territoriali. Dopo alcuni anni di stallo e la disastrosa disfatta di Caporetto, il 18 luglio 1918 era scattata la controffensiva sul fronte italo-austriaco. Finalmente, il 29 ottobre ‘18, le armate austriache vengono definitivamente sconfitte dall’esercito italiano a Vittorio Veneto. Dopo la resa della Bulgaria e della Turchia, il 4 novembre è stato firmato l’armistizio con gli Austriaci a Villa Giusti: l’impero asburgico è ormai disgregato sotto la spinta delle tendenze autonomistiche delle varie nazionalità. Si risolve adesso anche la partita con la Germania, un paese in profonda crisi. «La fuga del Kaiser in Olanda», titola il «Corriere».

L’imperatore Guglielmo II ha abdicato e si è rifugiato a Maastricht: nella città di Weimar è stata proclamata la repubblica. «I giornali accolgono con gravità la notizia dell’abdicazione del Kaiser, gran signore della guerra allegra, responsabile dell’eccidio che costò la vita a milioni di giovani», si legge ancora sul quotidiano. La conferenza di pace si aprirà a Versailles nel gennaio 1919: i paesi vincitori - Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Italia - si incontreranno per discutere le condizioni, ma ben presto verranno fuori i contrasti tra i paesi. Il presidente Usa Wilson, nella prospettiva della disgregazione dei quattro grandi imperi (austriaco, tedesco, ottomano e russo), punterà ad affermare il principio dell’autodeterminazione dei popoli. L’Italia dovrà subire, come verrà spesso definita nella propaganda nazionalista, una «vittoria mutilata»: non riuscirà a ottenere né l’annessione di Fiume, né quella della Dalmazia. Lasciandosi dietro dai 9 ai 13 milioni di vittime, si conclude, così, la Grande guerra: una enorme tragedia, una carneficina senza precedenti.

Storia d'assalto. Il sergente che conquistò da solo la fortezza inespugnabile. Fort Douaumont venne conquistato da un solo sergente tedesco, un certo Kunze, che catturò l'intera guarnigione francese e fu trovato a pasteggiare con uova, vino e formaggio. Oltre centomila uomini verrano sacrificati per riconquistare la fortezza. Davide Bartoccini il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

Sono le 15:45 di un freddo e nevoso pomeriggio di fine febbraio 1916 quando il sergente Kunze e altri nove pionieri del 24° reggimento Brandeburgo si spingono all’estremità settentrionale di Fort Douaumont, che appare massiccio e silenzioso, nella sua pianta a punta di freccia rivolta verso il Beglio ma a difesa dalla Germania del Kaiser Guglielmo.

Le mitragliatrici francesi poste a difesa del principale caposaldo del settore di Verdun tengono sotto tiro l’intera area circostante. Il compito dei pionieri è ridotto a spingersi nei pressi del forte in attesa che il 12° Reggimento Granatieri, anch’esso parte del 3° corpo d'armata del generale von Lochow, attestate in posizioni analoghe per tentare un assalto. Kunze e i suoi, pickelhaube ben calzati in testa e fucili Mauser in spalla, si spingono oltre il necessario per dare un'occhiata alle possenti posizioni difensive francesi, incappando in qualcosa di completamente inaspettato: una breccia nel filo spinato che potrebbe condurli, con una certa facilità, al perimetro difensivo. È il preludio di un colpo di mano leggendario, che porterà all'incredibile cattura di una fortezza che si era guadagnata l'immeritata fama di "inespugnabile".

Una fortezza inespugnabile ma indifesa

Lungo 400 metri e occupante una superficie di ben 30.000 metri quadrati, Fort Douamont - principale dopo saldo difensivo del settore di Verdun - doveva essere difeso, almeno in origine, da una guarnigione di 500 uomini. Armato con un cannone da 155 mm montato su una torre girevole/retrattile del tipo Galopin, e da altri cinque pezzi da 75 mm, era parte di una linea difensiva composta da altri 5 forti principali (e almeno 40 di più ridotte dimensioni), che, assistendosi l'un l'altro, dovevano scongiurare le tattiche che i prussiani avevano sfruttato nel 1870 - quando assediando i grandi forti risalenti ai tempi di Luigi XIV, erano riusciti a tagliare fuori intere guarnigioni che erano rimaste asserragliate dentro le mura.

Il sistema difensivo di Fort Douaumont era affidato, oltre che al tiro dei cannoni, al fuoco incrociato delle numerose mitragliatrici dislocate in modo da tenere sotto tiro l'intero perimetro circostante. Nel caso di un assalto in forze - che secondo i piani sarebbe stato decimato dal tiro dei cannoni e delle mitragliatrici - gli attaccanti avrebbero dovuto attraversare un muro di filo spinato e superare un fossato profondo sette metri prima di potersi infiltrare attraverso una qualsiasi apertura. Non esattamente una passeggiata secondo l'alto comando francese, che nel caso di un'incursione, prevedeva la pronta risposta di una numerosa "guarnigione" che sarebbe rimasta al sicuro da ogni cannoneggiamento dei livelli sotterranei, ben protetti dal cemento armato.

Questo se tutto fosse andato secondo i piani, e se qualcuno fosse stato avvertito che - per ragioni strategiche da collegare a informazioni errate - la fortezza di Douaumont era tenuta da soli 56 riservisti dell'artiglieria posti agli ordini di un sottuficiale, un sergente maggiore che rispondeva al nome Chanot.

Un colpo di mano inaspettato

Quando Kunze e i suoi, spintisi ben oltre le posizioni comandate, si imbatterono in una breccia nelle recinzioni - aperta dalla caduta di un colpo di artiglieria amica - decisero di tentare di accedere alla fortezza dalla quale - stranamente - non era partito un colpo. Non una raffica, non una fucilata. Solo le bordate sparate da un grosso cannone che doveva aver messo nel collimatore obiettivi assai distanti.

O nessuno li aveva vista avvicinarsi, o forse, sebbene impossibile anche solo da immaginare, la guarnigione doveva essere impegnata altrove. Il sergente indomito, allisciatosi i baffi che ormai si portavano corti per indossare più “comodamente” le salvifiche maschere anti-gas, ordinò ai suoi pionieri di creare una piramide umana per consentirgli di inerpicarsi sul mucchio di membra in blusa grigioverde e raggiungere una feritoia. Ancora una volta non un colpo di fucileria, non un francese di sentinella. Sette dei pionieri se la batterono a gambe. Due restarono con Kunze che, preso da un impeto di coraggio o più semplicemente da implacabile curiosità, si avventurava nella fortezza oscura e silenziosa per ispezionarla.

Il seguito ebbe dell’incredibile. Vagando per i corridoi oscuri e deserti, Kunze trovò l'accesso alla torretta del cannone da 155 millimetri, l’unica presidiata e impegnata in un combattimento, prendendo prigionieri i quattro serventi e mettendo a tacere la principale arma difensiva del forte. Non contento, continuò a bighellonare per Fort Douaumont sorprendendo un'altra trentina di soldati francesi impegnati in una riunione. Un colpo di cannone che aveva centrato la fortezza fece saltare la luce per qualche istante, e Kunze, che seppe ben sfruttare la confusione, agì in fretta chiudendo la pesante porta di metallo per intrappolare all’interno della stanza il grosso della guarnigione. Fu allora che, imbattutosi in un solitario soldato francese, Kunze si fece accompagnare - a fucile spianato - verso le cucine, dove si farà servire una cena a base di uova e formaggio.

Una conquista terminata senza sparare un colpo

La leggenda vuole che una secondo gruppo di fanti tedeschi, incontrati dai fuggitivi del gruppo di Kunze, seguirono la stessa via per introdursi nel forte. Erano agli ordini di un tenente, il tenente Radtke. Quest'ultimo, imbattendosi nei pochi francesi rimasti, li fece prigionieri, e, dopo essere entrato in contatto con il manipolo di Kunze, trovò il sergente temerario seduto a tavola, intento a rimpinzarsi di fronte al suo ultimo prigioniero.

Esistono versioni leggermente discordati sul preciso succedersi degli eventi. Ad esempio, i trenta prigionieri presi da Kunze sarebbero riusciti a fuggire per essere ricatturati appena trenta minuti dopo dal gruppo di Radtke. Ma quel che è certo è che in poco più di un’ora nel freddo pomeriggio del 25 febbraio 1916, l’imponente Fort Douaumont era stato catturato dai tedeschi senza sparare un colpo.

Un dispaccio con questa notizia venne inviato all’alto comando tedesco dagli ufficiali von Haupt e von Brandis - perfetti esemplari della stirpe di junker prussiana - che erano sopraggiunti con il grosso delle forze e per questo vennero insigniti - pur non avendo minimamente preso parte all'azione - della più alta decorazione dell’esercito imperiale, la "Pour le Mérite”. Dell’impresa di Kunze e Radtke - entrambi sopravvissuti alle tempeste d’acciaio ben narrateci da Ernst Jünger - non si sarebbe saputo nulla fino agli anni Trenta, quando un'indagine approfondita condotta dal maggiore von Klüfer presso il Reichsarchive fece luce su ciò che era accaduto durante l’incredibile cattura di Fort Douaumont.

Dalla parte francese il colpo fu talmente duro che l'alto comando, smarritosi tra gravi negligenze e profondi imbarazzi, non poté far altro che ingannare l'opinione pubblica raccontando una versione di fantasia della "grande e stoica resistenza" della guarnigione asserragliata nel forte. Un manipolo di coraggiosi che aveva resistito sino all'ultimo uomo, provocando gravi perdite tra le fila tedesche. In realtà, pare che durante il colpo di mano che prese Fort Douaumont si fosse registrato un solo ferito: un soldato tedesco che si era sbucciato un ginocchio mentre si inerpicava tra fossati e casematte deserte.

Ben diverso e assi più sanguinoso fu il proseguio della storia bellica del forte, che vide la morte di ben 600 soldati tedeschi posti a guarnigione per uno stupido incidente, oltre a tutti quei soldati francesi cui fu ordinato di riprendere la fortezza a tutti i costi. Ci riusciranno solo il 24 ottobre di quello stesso anno. Pagando un prezzo di vite altissimo. Si parla di oltre centomila anime. Sacrificate per riconquistare il forte che il sergente Kunze aveva preso, quasi da solo, quasi per gioco.

Hans-Ulrich Rudel, pilota di Stuka. Pietro Emanueli il 18 ottobre 2022 su Inside Over.  

Quello che il teologo della supremazia ariana Alfred Rosenberg aveva denominato il Mito del XX secolo, cioè l’ideologia nazista, è durato il tempo di una generazione, nascendo e morendo con Adolf Hitler, ma molti dei suoi seguaci, come è noto, ebbero la meglio sulla caccia all’uomo senza confini degli Alleati, dei giudici di Norimberga, dei vendicatori del Mossad e dei caccia-nazisti amatoriali.

Furono moltissimi, difatti, i nazisti che, sopravvissuti alla caduta del Reich che sarebbe dovuto durare mille anni, acquistarono una nuova identità e cominciarono una nuova vita altrove, lontano dal Vecchio Continente. Alcuni trovarono protezione tra Nord Africa e Medio Oriente, come Johann von Leers, ma la maggior parte di loro – tra i novemila e i dodicimila – scelse come rifugio le Americhe Latine. E tra coloro che ripartirono da zero al di là dell’Atlantico, reinventandosi dei mercenari al soldo del miglior offerente, vi fu l’Erwin Rommel dei cieli: il leggendario pilota Hans Rudel.

La vita prima della guerra

Hans-Ulrich Rudel nacque il 2 luglio 1916 in quel di Konradswaldau, un villaggio all’epoca tedesco ma oggi localizzato in Polonia.

Allevato ad un’educazione rigida e religiosa – il padre era un ministro luterano –, Rudel crebbe con una passione: lo sport, il culto per il corpo. Dopo aver terminato gli studi presso il Ginnasio di Lauban, oggi nota come Lubań ed in territorio polacco, Rudel entrò a far parte di un’organizzazione all’interno della quale poter mescolare sport e patriottismo: la Gioventù Hitleriana.

Dopo un breve periodo trascorso nel Reichsarbeitsdienst, l’agenzia governativa adibita a contenere la disoccupazione, Rudel sarebbe entrato nella Luftwaffe, ricevendo addestramento da pilota di aerei da ricognizione, e da essa non sarebbe più uscito.

La seconda guerra mondiale

Rudel trascorse i primi due anni della Seconda guerra mondiale a svolgere missioni di ricognizione presso nei fronti prossimi alla Germania, come la Polonia, ma nel 1941, complice l’apertura del teatro sovietico, fu addestrato a pilotare il gioiello dell’aeronautica militare nazista: il bombardiere Junkers Ju 87, altresì noto come Stuka.

Preparato al pilotaggio degli Stuka in tempi record, Rudel fu trasferito inizialmente nei Baltici. E qui, il 21 settembre 1941, portò a compimento la prima grande impresa di una carriera in ascesa: l’affondamento (in solitaria) della nave da guerra sovietica Marat, sprofondata negli abissi delle acque baltiche con più di 300 soldati a bordo.

Lo Stuka più temuto dai nemici del Terzo Reich, con Rudel alla guida ed Erwin Hentschel all’artiglieria, dal 1941 al 1944 avrebbe combattuto in lungo e in largo l’Europa, compiendo approssimativamente 1.400 missioni, alcune delle quali durante la battaglia di Stalingrado, e diventando motivo di orgoglio in patria.

Rudel e Hentschel sarebbero stati premiati con delle medaglie al merito per i loro servigi, mentre i filmati dei loro attacchi letalmente chirurgici, quasi sempre terminati con esito positivo, sarebbero stati impiegati dal Ministero della propaganda per sollevare il morale alle truppe e alla popolazione.

Entro la fine della guerra, spostato di volta in volta nei fronti dove si sentiva maggiormente la necessità del Rommel dei cieli, Rudel sarebbe riuscito a raggiungere e poi superare la soglia delle 2.500 missioni di combattimento, vantando, tra i vari record la distruzione di:

Oltre 500 carri armati;

Oltre 800 veicoli militari di vario tipo;

Oltre 150 postazioni militari di tipo anticarro e antiaerea;

Più di 70 mezzi da sbarco;

Fu una delle ultime persone a vedere Hitler in vita, avendolo incontrato il 19 aprile 1945, cioè undici giorni prima del suicidio. Il faccia a faccia, evidentemente, lo convinse della sorte inevitabile del conflitto. Da Berlino, difatti, sarebbe volato a Praga per consegnarsi alle forze armate americane, che, a loro volta, lo consegnarono ai sovietici.

La nuova vita in America Latina

Nel 1948, reduce da un periodo di internamento, Rudel avrebbe deciso di seguire le orme di molti ex commilitoni: ricominciare una nuova vita al di là dell’Atlantico, nelle Americhe Latine. Per farlo, Rudel si sarebbe recato in Italia, più precisamente alla corte di Alois Hudal, ottenendo una nuova identità: Emilio Meier.

Con quel nome, Meier, la leggenda degli Stuka sarebbe riuscita a volare da Roma a Buenos Aires, ivi stabilendosi nel 1948 e rimanendovi tutta la vita. Qui, ad ogni modo, chi di dovere sapeva chi aveva davanti: soltanto la gente comune lo ignorava.

Di nuovo, seguendo le orme degli ex colleghi, Rudel avrebbe capitalizzato la propria fama e attinto al proprio bagaglio esperienziale per amicarsi il potere e assicurarsi protezione. In Argentina avrebbe erogato consulenze sull’aviazione all’allora presidente Juan Perón, facendo lo stesso nel Paraguay del dittatore Alfredo Stroessner.

Mai redento, anzi furioso con l’apparato militare per aver determinato la caduta di Hitler, Rudel, una volta acquisita una certa stabilità, avrebbe fondato una rete di aiuto per i ricercati da Norimberga e dal Mossad: la Kameradenwerk. Tra coloro che Rudel riuscì ad aiutare, con la possibile complicità dei regimi fascisteggianti del cono sud, si ricordano l’ex Gestapo Kurt Christmann e l’ex spia August Siebrecht.

Legato a Josef Mengele e Walter Rauff, coi quali era solito incontrarsi dentro e fuori l’Argentina, Rudel sarebbe stato in contatto con un altro grande ricercato: Adolf Eichmann. Tra una consulenza ai governi e un incontro segreto con gli altri sopravvissuti al Terzo Reich, Rudel trovò il tempo di diventare uno scrittore e un opinionista, dando alle stampe libri e mettendo la firma su articoli sulla Seconda guerra mondiale.

La pubblicazione delle proprie memorie, Pilota di Stuka, avrebbe trasformato Rudel in una celebrità. Il libro, difatti, sarebbe divenuto il caso editoriale del 1952, andando in ristampa più volte e venendo tradotto in diverse lingue. La popolarità, oltre a renderlo un voto conosciuto anche da chi prima ne aveva ignorato il passato, lo avrebbe portato al centro dell’internazionale neonazista. L’ideologa neonazista Savitri Devi, ad esempio, nel dopo-pubblicazione si recò a Buenos Aires per incontrarlo.

Nel dopo-pubblicazione di Pilota di Stuka, curiosamente, Rudel provò a cavalcare l’onda della notorietà nel più teatrale dei modi: candidarsi alle elezioni federali del 1953 alla testa di un partito neonazista, Deutsche Reichspartei.

Rudel era interessato tanto alla fama quanto al mercenariato. La fama per l’autogratificazione, il mercenariato per il denaro. Raccomandato da Perón e Stroessner, Rudel avrebbe trascorso gli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta recandosi da parte a parte del cono sud, in quanto richiesto come consulente militare, politico e industriale dai regimi militari che andavano instaurandosi: dal Brasile dei gorillas al Cile pinochetista.

Secondo lo storico Peter Hammerschmidt, che ha indagato a fondo la seconda vita di Rudel in America Latina, non sarebbero mancati, anzi sarebbero stati tanti, i contatti coi servizi segreti dell’Occidente, in particolare di Germania Ovest e Stati Uniti. Spionaggio, ma non solo: anche servizi di intermediazione e partite di armi.

Gli ultimi anni e la morte

Rudel trascorse un ventennio, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, viaggiando tra Germania Ovest e America Latina. Con l’avanzare dell’età, però, scelse di passare più tempo nella prima e meno nella seconda. Questione di stanchezza, ma anche di stabilità economica oramai raggiunta.

In Germania Ovest, tra uno scandalo e l’altro – quando per le simpatie raccolte tra i militari in servizio alla ricerca di autografi e quando per le interviste incendiarie –, Rudel sarebbe rimasto un personaggio popolare ma enigmatico fino alla fine dei suoi giorni. Popolare perché sempre presente sui giornali, in prima linea ai grandi eventi sportivi, alla ricerca costante delle telecamere. Enigmatico perché associato a Gladio e implicato in trame invisibili con gli ex colleghi scampati a Norimberga e al Mossad.

Morì a Rosenheim il 18 dicembre 1982, colpito da un infarto fulminante, risultando capace di destare scandalo anche post-mortem. Perché il giorno della sepoltura, oltre alle varie sanzioni comminate dalla polizia ai partecipanti per la messa in mostra di simbologia nazista, due Phantom F-4 della Bundeswehr si palesarono nel cielo, volando ad un’altitudine stranamente bassa e passando sopra le teste dei presenti. Un tacito omaggio al Pilota di Stuka secondo un’infuriata sinistra radicale, una semplice coincidenza secondo un’indagine coordinata dal Ministero della difesa. Rudel, un enigma fino alla fine, anzi, persino dopo la fine.

La (vera) partita della morte che ispirò Fuga per la vittoria. Fuga per la vittoria è il film con Michael Caine e Sylvester Stallone che è ispirato a fatti realmente accaduti durante la Seconda guerra mondiale. Ma le cose sono andate davvero come si racconta sul grande schermo? Erika Pomella il 16 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Fuga per la vittoria è il film del 1981 che va in onda questa sera alle 23.05 su Iris. Sebbene il soggetto della pellicola sia tratto da un romanzo firmato da Yabo Yablonsky, Djordje Milicevic e Jeff Maguire, il film con Sylvester Stallone è tratto da un'incredibile storia vera che tuttavia non si è svolta esattamente come si vede sul grande schermo.

Fuga per la vittoria, la trama

John Colby (Michael Caine) era un giocatore della squadra di calcio del West Ham, ma ha dovuto rinunciare alla sua carriera quando, con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, si è dovuto arruolare nelle truppe inglesi per proteggere il suo Paese. Il suo servizio militare, però, non si è concluso con l'onore, ma con la prigionia. John, infatti, è tenuto prigioniero in un campo di concentramento dove vengono tenuti tutti i prigionieri alleati. Il talento di John, però, non passa inosservato. Il maggiore nazista Von Steiner (Max Von Sydow), a sua volta ex calciatore, è in qualche modo toccato dal destino dello sportivo e, colpito dal suo talento, gli propone di creare una squadra per poter partecipare a una partita "amichevole". Ben presto, però, la partita si trasforma in una strategia usata dal regime nazista per vantarsi e mostrare la propria supremazia in qualsiasi ambito. Si decide, così, che la partita dovrà svolgersi allo stadio Colombes di Parigi e che dovrà essere vinta necessariamente dalla squadra tedesca. Colby, nonostante le prime incertezze, accetta la proposta e mette su una squadra improvvisata che include Luis Fernandez (Pelé) e il canadese Robert Hatch (Sylvester Stallone) che in realtà vuole sfruttare la partita per lasciare il campo di concentramento e fuggire dallo stadio insieme ai suoi compagni di squadra durante l'intervallo del primo tempo. Ma il piano comincia a traballare quando la squadra di Alleati si rende davvero conto del motivo per cui sta gareggiando.

La vera partita della morte

Non c'è alcun dubbio che Fuga per la vittoria, con la regia firmata da John Houston e un grande parterre di cameo d'eccezione dal mondo del calcio, sia forse uno dei film sportivi più famosi e amati di sempre, da quando fece il suo debutto in sala nell'ormai lontano 1981. A sua volta ispirato al film ungherese dal titolo Due tempi all'inferno, Fuga per la vittoria è il classico film che propone al pubblico lo stereotipo di Davide e Golia, contrapponendo un gruppo di deboli e oppressi giocatori che combattono per onore e con lealtà e che sono costretti a sfidare un avversario sleale, crudele che rappresenta la personificazione del male. Storia di riscatto e coraggio, Fuga per la vittoria deve il suo successo non solo all'utilizzo di questo espediente narrativo, ma anche al fatto che sia ispirato a fatti realmente accaduti e che risalgono a ottanta anni fa, all'agosto del 1942, quando a Kiev si tenne quella che oggi è conosciuta con il nome di Partita della morte. Come riporta Il Corriere della Sera tutto ebbe inizio nel settembre 1941, poco dopo l'occupazione nazista dell'Ucraina, quando un uomo di nome Josef Kordik riuscì a costruire una squadra di calcio composta dai migliori calciatori della città di Kiev, grazie allo stop del campionato e al bisogno degli sportivi di trovare un mezzo di sostentamento visto che l'occupazione aveva di fatto reso vano il loro talento.

Pescando a piene mani dalla Dinamo Kiev e dalla Lokomotiv Kiev, Kordik diede vita alla Start, una squadra che a partire dal giugno 1942 riuscì a vincere tutte e dieci le partite che i tedeschi avevano permesso si giocassero per cercare di riportare un po' di vita nella città occupata. Il punto di svolta si ebbe il 9 agosto 1942 quando la Start sfidò la Flakelf, formazione composta da ufficiali della Lutwaffe che aveva voglia di "vendicarsi" di una sonora sconfitta impartita loro proprio dalla Start. A differenza di quanto si vede in Fuga per la vittoria e a dispetto del macabro nome con cui è stata tramandata alla storia, la partita della morte fu però uno scontro leale e sportivo, che non subì né un arbitraggio di stampo filo-nazista né pressioni sulla Start per giocare male e perdere appositamente. Anzi, la squadra ucraina finì per vincere di nuovo, festeggiando a fine partita senza minaccia di arresti e fucilazioni.

Guerra ai tedeschi ex alleati dei fascisti. Il 14 ottobre ‘43 il proclama di Badoglio. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Ottobre 2022

Èil 14 ottobre 1943: l’Italia ha dichiarato guerra alla Germania. “La Gazzetta del Mezzogiorno” riporta in prima pagina il comunicato che il maresciallo Badoglio ha fatto consegnare ai tedeschi: «Di fronte ai ripetuti e sempre più violenti atti di ostilità commessi contro italiani dalle forze armate della Germania, a partire dalle ore 16 del 13 ottobre l’Italia si considera in guerra con la Germania».

Il capo del governo Badoglio chiarisce la sua posizione con alcune dichiarazioni rilasciate ai giornalisti italiani ed alleati: «Scopo unico del mio governo è quello di liberare il Paese dall’oppressione tedesca. Evidente che tale liberazione non può essere raggiunta se non unendo strettamente la nostra azione militare con quella degli Anglo-americani».

Dopo l’8 settembre 1943, l’Italia è divisa in due. Gli ex alleati tedeschi si sono trasformati in forza di occupazione in tutto il centro-nord del Paese. Mussolini, che era stato arrestato dopo aver rassegnato le dimissioni il 25 luglio 1943, è stato liberato dai tedeschi, e ha dato vita nell’Italia occupata alla Repubblica Sociale Italiana, un governo collaborazionista appoggiato da Hitler per contrastare Alleati e partigiani.

Il re e Badoglio, abbandonata Roma nelle mani dei nazisti, si sono rifugiati a Brindisi, dove hanno dato vita al «Regno del Sud». Nella città pugliese si è installata anche la Missione Militare Alleata, guidata dal generale britannico F. M. MacFarlane con l’incarico, ricevuto da Eisenhower, di comunicare le istruzioni militari, controllare e indirizzare l’opera del governo italiano, organizzare, per quanto possibile, un’azione coordinata delle forze armate e del popolo italiano contro i tedeschi. Anche la stampa, così come ogni forma di informazione, è sotto la supervisione degli Anglo-americani. Dopo l’annuncio di Badoglio, i governi di Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica dichiarano di accettare l’Italia come cobelligerante nella lotta contro la Germania: questo vuol dire che non la riconoscono giuridicamente come Stato alleato. «I rapporti di cobelligeranza tra il governo italiano e quelli delle Nazioni Unite non possono di per sé alterare le condizioni firmate recentemente, che conservano la loro piena validità. Queste condizioni possono essere modificate previo accordo tra i governi alleati e alla luce del grado di assistenza che il governo italiano sarà in grado di dare alla causa delle Nazioni Unite», si legge nella nota riportata sulla «Gazzetta».

Mentre gran parte del Mezzogiorno, ormai liberato, vive una sorta di dopoguerra anticipato, nell’ottobre 1943 entra nel vivo la guerra di Liberazione nazionale che per diversi mesi dilanierà il resto del Paese.

Polonia chiede a Germania i danni di guerra: 1.300 miliardi di euro. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022.

La nota diplomatica verrà consegnata domani - 4 ottobre - nel corso di un incontro tra ministri degli esteri. Varsavia: «È una cifra prudenziale». Ma per Berlino un trattato del 1953 ha chiuso la partita 

La Polonia si appresta a presentare alla Germania il «conto» dei danni patiti durante l’occupazione da parte dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale. La richiesta bsarà avanzata domani - 4 ottobre - in occasione di un vertice tra i ministri degli esteri di Varsavia e Berlino. A fare scalpore è soprattutto l’ammontare della cifra pretesa dai polacchi: 1.300 miliardi di euro, frutto di un calcolo compiuto da una commissione parlamentare. Una cifra che però i tedeschi contesteranno - come hanno già fatto n altre circostanze - sostenendo che una serie di trattati internazionali firmati negli ultimi 70 anni avrebbero messo una pietra tombale su ogni pretesa legata ai danni di guerra.

La Polonia , attraverso il suo ministro degli esteri Zbigniew Rau ha firmato una nota diplomatica in cui descrive la richiesta. «Le parti dovrebbero adottare misure immediate per risolvere in modo permanente ed efficace... la questione delle conseguenze dell’aggressione e dell’occupazione tedesca» ha detto Rau in una conferenza stampa a Varsavia. «Un simile accordo ci consentirebbe di basare le relazioni polacco-tedesche sulla giustizia e la verità e chiudere capitoli dolorosi della storia». La lettera verrà consegnata in occasione delle celebrazioni per l’unità tedesca domani a Varsavia alla presenza della ministra degli esteri di Germania Annalena Baerbock.

La cifra di 1.300 miliardi di euro, secondo la commissione parlamentare polacca, tiene conto dei danni subiti dai bombardamenti, dalla perdita di vite umane , di sovranità politica e integrità territoriale patite tra il 1939 e il 1945 da parte dei nazisti. «Si tratta di una richiesta prudenziale» si è spinto a dire Jaroslaw Kachinski, leader del partito sovranista Pis, al potere in Polonia. Il Paese contò in quel quinquennio circa 6 milioni di morti e la capitale venne rasa al suolo. la cifra richiesta ha comunque dimensioni mostruose: per fare un paragone, corrisponde a circa la metà del debito pubblico italiano.

La replica della Germania alla nota diplomatica al momento non è arrivata ma Berlino ha da tempo chiarito la sua linea sulla spinosa questione. Un trattato sottoscritto dalla Polonia nel 1953 rinunciava a qualunque pretesa, volontà ribadita nel 1990 quando dopo la riunificazione tedesca vennero stabiliti in maniera definitiva i confini tra i due stati. Ma, ecco l’argomento che fa da appiglio per i polacchi, il tratto del 1953 venne da loro accettato con il fucile puntato alla schiena» da parte dell’Urss che non voleva mettere in difficoltà l’allora Ddr.

Nonostante i trattati internazionali, nonostante il tempo trascorso e nonostante i 70 anni di pace garantita dalla Ue, le cicatrici lasciate dall’ultimo conflitto mondiale tornano a farsi dolorosamente sentire periodicamente. Nel 2019 toccò alla Grecia - che stava vivendo gli anni dell’austerity imposto su spinta della Germania - avanzare la richiesta di riparazione dei danni di guerra. Il governo di Atene calcolò per l’occasione 289 miliardi di euro. Anche in quella circostanza Berlino si appellò a precedenti trattati che avevano chiuso la partita, in particolare quello del 1960 proprio tra governi tedesco ed ellenico.

"Vespe arrabbiate": il primo squadrone sui cieli della Normandia. Uniformi per confondersi e aeroplani dalle insegne molto visibili, così nei cieli della Normandia arrivò il primo "squadrone tattico" della storia. Davide Bartoccini il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.

C'è una curiosa discordanza in quello che venne ribattezzato 2° Tactical Air Force, nel gergo TAF, ossia il raggruppamento tattico che nella fase più delicata della Seconda guerra mondiale, garantì la tanto ridiscussa superiorità aerea agli Alleati durante l'invasione della fortezza Europa occupata dai nazisti. Chi è appassionato di storia ne saprà, ma molti neofiti si saranno domandati - almeno una volta guardando filmati e fotografie - per quale ragione gli aerei da combattimento che presero parte al D-Day in Normandia, invece di mantenere le loro consuete livree mimetiche per rendersi il meno evidenti possibili, avessero invece nelle grandi strisce bianche e nere sulle ali e sul ventre. Un singolare disegno che li faceva assomigliare, secondo i piloti da caccia canadesi almeno, a delle "angry wasps", ossia delle grandi "vespe arrabbiate”.

Costituita nel 1 giugno 1943, fu inizialmente affidata al comandato di Sir John d’Albiac, al quale sarebbe presto succedo il maresciallo dell’aria Sir Arthur Coningham: comandante che aveva già sperimentato le tattiche di supporto aereo ravvicinato per le truppe di terra in rapido movimento sul fronte del Nord Africa, e nella campagna d’Italia. Un punto sul quale torneremo a breve.

Ali vistose di "vespe arrabbiate"

Con i moderni caccia o cacciabombardieri Hawker Typhoon e Tempest, le nuove versioni del Supermarine Spitfire, i grandi e veloci cacciabombardieri di legno DeHavilland Mosquito e con i Mustang americani - le "Cadillac del cielo" - i piloti britannici, canadesi, polacchi, cechi, norvegesi, francesi, sudafricani, australiani, neozelandesi e ovviamente statunitensi fornirono un fondamentale e pionieristico "supporto aereo ravvicinato" (il noto Close Air Support, ndr) per sostenere le divisioni sbarcate in Normandia. Dalle prime fasi dello sbarco fino al consolidamento delle teste di ponte, e per tutta l'avanzata che si spinse, passo dopo passo, battaglia dopo battaglia, nel cuore dell'Europa nord-occidentale tra il 1944 e il 1945. Supporto che si realizzò effettuando missioni di bombardamento a bassa quota per distruggere bunker e casematte del Vallo Atlantico e ogni linea di collegamento per il trasporto di uomini, munizioni e mezzi, oltre che ingaggiando la Luftwaffe nei combattimenti aerei.

La loro peculiarità distintiva - almeno nelle primissime battute dell’invasione della Normandia e della successiva liberazione della Francia settentrionale - fu la presenza delle famose "Invasion stripes”: un disegno presente sulle ali e sul ventre degli apparecchi che contemplava tre strisce bianche alternate da strisce due nere. Questo particolare segno di riconoscimento, avrebbe consentito agli aerei alleati di essere facilmente riconoscibili e di non venire bersagliati dal fuoco amico. Una decisione necessaria dopo gli incidenti avvenuti nel corso dell’Operazione Husky (lo sbarco in Sicilia, ndr) che vide un intera formazione di aerei per il trasporto dei paracadutisti DC-3 bersagliati dal fuoco delle navi da guerra alleate e dalla contraerea appena sbarcata. Con una terribile conseguenza di 23 velivoli abbattuti e 37 danneggiati. Nel raggruppamento della TAF erano infatti presenti anche gli aerei per il traino degli alianti con le truppe d'assalto, oltre che i ricognitori fotografici e alcuni gli occhi dell'artiglieria navale americana che avrebbero dovuto fornire le coordinate per il fuoco di sbarramento.

Una divisa "semplice" per non distinguersi

Se i racconti dei “few” e dei giovani dai capelli lunghi che spiccavano nelle loro belle e uniformi blu avio, avevano reso emblematici oltre che ben riconoscibili i piloti della Raf, nel pieno dell’invasione della Normandia e delle complesse operazioni di appoggio e incursione nel cuore del territorio nemico, il passare inosservati nel cose venisse abbattuti, divenne un cruccio del Comando alleato come dei piloti stessi; che accettarono di buon grado la loro nuova uniforme basata una semplice battle dress color kaki: facilmente confondibile con quella di un comune soldato di fanteria.

Se un pilota fosse stato abbattuto, e si fosse trovato costretto ad atterrare dietro le linee nemiche, l’ordine - nonché la sua prima preoccupazione - sarebbe stata quella di nascondersi e tornare, passo dopo passo, verso la linea di avanzamento. La sua uniforme blu avio però, poteva essere scambiata alla distanza in quella utilizzata dalla Luftwaffe, e questo gli avrebbe potuto causare non pochi problemi. Compresa qualche fucilata, almeno nei primi giorni di concitate operazioni. Ci sarebbero diversi casi documentati in precedenza. La tenuta color kaki, oltre a rendersi assai più funzionale nel mimetizzarsi nella vegetazione normanna, era inoltre utile a proteggere il pilota dall’ira dei soldati tedeschi e non meno da quella della popolazione francese che - sebbene liberata - si trova sotto costanti bombardamenti costieri e aerei che spesso contarono vittime collaterali tra i civili. Ovviamente, come sempre accadeva per i piloti in missione sull'Europa occupata, una certa quantità di denaro in valuta francese, mappe del territorio stampate su foulard di seta, e particolari attrezzature come gli stivali da volo modello Escape, disegnati dal maggiore Clayton Hutton dell'MI9 per sembrare all'occorrenza delle semplici scarpe da uomo, erano concessi in dotazione ai piloti tattici.

Una missione chiamata superiorità aerea

Quando la testa di ponte iniziò ad espandersi nell’entroterra, gli Squadron del 2° TAF iniziarono a schierarsi su piste d’atterraggio avanzate, ad un passo dalle linee nemiche. Una strategia che fu possibile grazie agli sforzi del personale di terra della Raf che fu in grado di allestire degli aeroporti tattici avanzati dove potevano essere tenuti in allerta gli apparecchi “fondamentali” per portare a termine la tattica del “cab rank”: ossia il mantenimento di una riserva cacciabombardieri in allerta che potevano essere chiamati a fornire supporto aereo ravvicinato alle truppe in avanzamento. Questa delicata fase viene raccontata con commozione da Pierre Clostermann, testimone d’eccezione delle battaglie aeree che si consumarono nei cieli della sua Francia liberata nel suo romanzo “Il grande circo”.

Dalla metà di giugno infatti, le missioni dei piloti tattici alleati si concentrarono sui veicoli corazzati e sul trasporto ferrato di armi e munizioni. I cacciabombardieri della 2°TAF, con le invasion stripes che ormai occupavano solo il ventre dei velivoli, e mano a mano scomparivano - come scompariva pure la presenza dei caccia della Luftwaffe nei cieli della Francia - attaccavano i panzer tedeschi con i primi “razzi” da 80 mm- progenitori dei moderni missili anticarro - terrorizzando il nemico al punto che l’avvistamento di un solo Typhoon era sufficiente a far abbandonare a decine di equipaggi i loro mezzi corazzati (almeno i più leggeri nella blindatura, ndr) se sorpresi in campo aperto. E palesando una superiorità aerea che si era rivelata essenziale per il successo dell’invasione.

Sebbene la presenza nei cieli della Luftwaffe fosse estremamente ridotta, non furono poche le occasioni in cui i più moderni caccia Fw-190 e i pionieristici prima caccia a reazione Me 262 cercarono e trovarono il duello aereo con i piloti alleati che si erano man mano stabiliti nelle basi avanzate. L’ultima notevole impresa ed eccezione, fu il grande attacco sferrato dalle forze aeree del Reich nel giorno di Capodanno del 1945: l’Operazione Bodenplatte. Obiettivo del comando di Berlino, infatti, era quello di tentare di ri-ottenere una superiorità aerea durante la battaglia delle Ardenne per consentire alle truppe tedesche di avanzare e respingere il nemico. In quell’occasione la forza aerea tattica alleata subì gravi perdite, la maggior parte a terra. Ma né questa offensiva fulminea, né l’impiego dei più moderni e straordinari caccia dell’epoca fu sufficiente a frenare l’avanzata alleata che puntava dritta a Berlino accompagnata dalla devastazione portata dagli stormi dei bombardieri che riempivano il cielo, e ormai non venivano neppure più dipinti per essere mimetizzati. Erano solo letali frecce color argento vivo. 

Magli, il generale-eroe che sconfisse i tedeschi. Il generale Giovanni Magli. L'8 settembre 1943 con i suoi soldati attaccò la Wehrmacht in Corsica. Fu l'unico caso di vittoria italiana. Giovanni Di Cagno  su la Gazzetta del Mezzogiorno l'8 Settembre 2022

Sono le ore 19 dell’8 settembre 1943. Siamo a Corte, in Corsica, nel comando del VII corpo d’armata del generale Giovanni Magli, da pochi mesi comandante militare dell’isola. Il servizio informazioni comunica che Radio Londra ha annunciato l’armistizio. Immediatamente, cioè un’ora prima del famoso comunicato di Badoglio, Magli rivolge a tutti i comandanti delle unità ai suoi ordini un fermo messaggio: «... Ove mai si attentasse da parte di chicchessia ad esprimere atti che possano offendere il nostro sentimento di italiani e di soldati, la reazione deve essere immediata». Subito dopo, si reca ad accogliere l’illustre ospite atteso per cena, il generale Von Senger, comandante delle forze tedesche in Corsica. L’atmosfera è fredda: ciascuno dei due comandanti intuisce che l’altro sa. Alle 20, quando anche Radio Roma annuncia l’armistizio, Magli interrompe la cena e, pur non conoscendo ancora il testo del comunicato ufficiale, informa Von Senger che da quel momento le forze italiane non avrebbero più potuto prestare alcuna assistenza a quelle tedesche. Von Senger assicura che le sue truppe avrebbero abbandonato l’isola pacificamente, saluta militarmente, e va via. Magli (fervente monarchico, ma mai iscritto al partito fascista) è privo di ordini e di contatti con l’Italia, ma intuisce immediatamente le implicazioni politiche dell’armistizio: così, dispone la scarcerazione immediata dei detenuti politici e dei partigiani corsi catturati nei mesi precedenti.

All’una di notte, Magli viene informato che truppe tedesche hanno attaccato proditoriamente le forze italiane a Bastia, e si sono impadronite con la forza del porto; senza indugi, allora, dà ordini per la riconquista di quell’infrastruttura strategica, e all’alba le forze italiane attaccano il contingente tedesco che vi si era asserragliato. Battaglia breve ma violentissima, nel corso della quale circa ottocento tedeschi perderanno la vita prima della resa. Alle 8 del mattino del 9 settembre il porto di Bastia è di nuovo in mano italiana. È in assoluto il primo episodio, dopo la proclamazione dell’armistizio, di belligeranza tra italiani e tedeschi, e per questi ultimi finisce malissimo. Subito dopo la resa tedesca, Von Senger - che evidentemente non si aspettava la reazione italiana - si precipita al comando di Magli, si scusa, parla di un malinteso, e assicura che non vi saranno altre ostilità da parte delle truppe tedesche. Magli finge di credergli, ma a scanso di equivoci gli mostra il durissimo messaggio diramato all’alba alle sue unità: «Non sarà tollerato alcun atto di ostilità nei riguardi delle truppe italiane. Alla forza si risponde con la forza, al fuoco col fuoco».

Nelle prime ore del mattino del 10 Magli - sempre privo di ordini - viene informato che imponenti forze tedesche, tra cui la 90° divisione corazzata, stanno sbarcando a Bonifacio provenienti dalla Sardegna. Il comandante italiano capisce che la sua linea di condotta, improntata alla difensiva nello spirito del comunicato di Badoglio, non è più sufficiente: occorre attaccare i tedeschi prima che questi si rafforzino troppo (è quello che non farà il comandante della divisione «Acqui» a Cefalonia, pagandolo a caro prezzo). Magli, allora, convoca il comandante dei partigiani corsi, Colonna d’Istria, ne chiede l’appoggio per combattere i tedeschi e fa distribuire armi ai patrioti francesi. Alle ore 6 del 13 settembre, dopo i necessari concentramenti delle fanterie italiane, al solito penalizzate dalla mancanza di automezzi, inizia l’offensiva del VII° corpo d’armata appoggiata dai partigiani corsi. I tedeschi, tuttavia, dispongono di forze di gran lunga superiori, potendo contare su ben due divisioni corazzate (di cui gli italiani sono privi). Così, i carri armati Tigre soverchiano i fanti della divisione Friuli in località Casamozza, e nella serata del 13, dopo un’intera giornata di combattimenti, i tedeschi entrano a Bastia. Le cose rischiano di mettersi male per gli italiani, quando il mattino del 14 cominciano a sbarcare ad Ajaccio forze francesi. Magli, pur totalmente all’oscuro delle clausole di armistizio, intuisce subito che occorre stringere rapporti di collaborazione operativa con gli Alleati, e il 17 settembre, mentre proseguono violenti scontri tra italiani e tedeschi, incontra il comandante del corpo d’armata francese generale Martin per definire piani comuni.

L’offensiva italo-francese ha inizio il 29 settembre e ben presto travolge le forze tedesche, che sono costrette a imbarcarsi frettolosamente. All’alba del 4 ottobre i bersaglieri italiani riconquistano Bastia, lasciando ai francesi l’onore di entrare per primi in città; il giorno dopo gli ultimi reparti tedeschi rimasti sull’isola si arrendono: la battaglia della Corsica è vinta!

Si tratta dell’unico caso di una grande unità italiana che, dopo l’8 settembre, non solo resiste ai tedeschi, ma li attacca e riesce a sconfiggerli. Una vicenda da celebrare adeguatamente, si penserebbe. E invece, sui fatti della Corsica è sostanzialmente caduto l’oblio. Dei combattimenti tra italiani e tedeschi dopo l’armistizio, infatti, si tende a ricordare solo la resistenza spontanea del 10 settembre di reparti militari e di cittadini romani davanti a Porta San Paolo; ovvero, quella della divisione Acqui a Cefalonia, conclusasi con il barbaro massacro perpetrato dai tedeschi. Solo sconfitte, insomma! Così, in larghi strati di opinione pubblica è passata l’idea che il disfacimento del regio esercito fosse sostanzialmente inevitabile, tanto che chi osò resistere ai tedeschi venne deportato o massacrato; e invece, vi furono comandanti militari che, pur lasciati senza ordini dai propri superiori, seppero dare esempi di assoluta fermezza (oltre a Magli, ad esempio, i comandanti delle divisioni Taurinense e Venezia nei Balcani, o il generale Bellomo che organizzò la difesa del porto di Bari).

Insomma, l’8 settembre non si è esaurito nel «tutti a casa»! Intere grandi unità composte da decine di migliaia di uomini adeguatamente comandati, restarono compatte senza sbandarsi, rifiutarono la resa ai tedeschi, e in Corsica riuscirono addirittura a sconfiggerli. Ed ecco, allora, perché nel dopoguerra si è preferito dimenticare le vicende della Corsica: perché lì abbiamo vinto, lì abbiamo sconfitto i tedeschi, lì abbiamo dimostrato che lo «squagliamento» delle nostre forze armate non era inevitabile, che l’alternativa non era tra arrendersi o morire. E’ stato molto comodo per tanti, nel dopoguerra, occultare le proprie responsabilità gettando la croce solo sul Re e su Badoglio. La cui fuga fu ignobile, sia chiaro! Ma le vicende della Corsica dimostrano che si poteva resistere ai tedeschi anche senza ordini del Comando Supremo; che Roma avrebbe potuto essere difesa con successo, se solo i comandanti dei reparti ivi stanziati si fossero comportati come il comandante della Corsica; che se ognuno avesse fatto il proprio dovere, se il Re, il Governo, lo Stato Maggiore non fossero tutti scappati, se i comandanti delle grandi unità si fossero assunti la responsabilità di organizzare la resistenza delle proprie truppe alla prevedibilissima aggressione tedesca, la Storia d’Italia sarebbe stata diversa; e forse, almeno fino al Po ci sarebbero stati risparmiati gli orrori dell’occupazione nazifascista, della repubblica di Salò, e della guerra civile.

Il generale Giovanni Magli, di cui porto orgogliosamente il nome, era mio nonno. Un uomo che, nell’ora più buia, ha saputo trovare nella propria coscienza di comandante militare e di italiano quegli ordini che i propri superiori non ebbero il coraggio di dare: «Alla forza si risponde con la forza, al fuoco col fuoco».

Lord Lovat, il leggendario sabotatore gentiluomo. Davide Bartoccini l'8 Settembre 2022 su Il Giornale.

Churchill si divertiva a presentarlo come "l'uomo più educato che avesse mai tagliato una gola", Hitler aveva emesso un particolare ordine per "eliminare" lui e i suoi uomini. La Francia liberata lo ricorda con affetto...

Alle prime ore dell'alba di un incerto giorno d’inizio giugno, un maglione a collo alto di spessa lana d’aviatore è ben piegato nella cuccetta di una delle migliaia e migliaia di navi da guerra che al largo della Manica attendono l’ora X di quello che passerà alla storia come "giorno più lungo". Nel bagno attiguo a una cabina spoglia, un uomo al termine della toletta delle grandi occasioni si spazzola indietro i capelli lisci, chiude la porta e infila quel maglione ricamato, bianco e vistoso, in segno di sfida a tutto l’esercito tedesco. Lord Lovat - “l’uomo più educato che abbia mai tagliato una gola” secondo il primo ministro britannico Winston Churchill - è pronto a sbarcare in Normandia con i suoi commando.

Nato nel 1911 nel castello di Beaufort nell’Inverness-shire, discendente di una delle più antiche e ricche famiglie di Scozia, ha passato l’infanzia tra la pesca e la caccia alle lepri e adolescenza e maturità tra i ricevimenti aristocratici dove indossare fiero il kilt dei suoi colori: emblema perfetto per incitare i sospiri delle dame del nord ad ogni suo passo. Ai tempi di Oxford, Simon Fraser, quindicesimo Lord Lovat, si voltava al nome di Shimi, soprannome tratto dal gaelico, donatogli dagli amici più cari. Magro e slanciato, dai tratti delicati, ha un bel paio di baffi chiari, appena accennati, e capelli del colore che alcuni amano richiamare alla sfumatura bionda della cenere. Ha 32 anni, non è un militare di carriera, è stato richiamato. Ma da uomo virtuoso dalla spiccata sensibilità, si è saputo rendere ottimo soldato guadagnandosi in due anni di guerra il grado di colonnello.

Con il No.3 e il No. 4 Commando di sabotatori, specialità voluta proprio da Churchill in persona per dare "fuoco all’Europa occupata", si è bagnato i piedi sulle coste di Hardelot, a Dieppe - dove minando la casamatta di un pezzo da 150mm ottiene l’unico successo di quel sanguinoso raid - e alle Lofoten, dove affondate 12 navi e distrutte 18 fabbriche di olio di pesce (fondamentale per esplosivo) troverà il tempo di inviare personalmente un telegramma di insulti a Hitler. All’alba del 6 giugno del 1944 come allora, sulla sua testa pende una taglia di 100.000 marchi da parte della Gestapo. Ma la sua unica preoccupazione è quella di dar filo da torcere ai tedeschi e di liberare la Francia.

Alle 8.40 balza giù dal mezzo da sbarco tinto di celeste pallido che tocca la riva dinanzi a Ouistreham, settore "Queen red" della spiaggia di Sword. L’acqua è grigia, la sabbia pensate; ovunque sulla costa si alzano tetre colonne di fumo nero. Shimi si volta tranquillo e ordina al suo cornamusiere personale - un giovanotto di 21 anni di nome Bill Millin - di fischiare nel bordone basso del suo arnese "Highland Laddie": che lo sentano bene che in Normandia sono arrivati gli scozzesi. I colpi dei tedeschi sibilano alti sulle teste dei 2.500 commando della 1st Special Service Brigade. Alcuni alzano schizzi d’acqua accanto ai giovani figli d’Albione, altri li centrano in pieno, lasciandoli supini sulla sabbia fino a sera, fino a quando le batterie e i nidi di mitragliatrici non saranno messi a tacere per sempre. Lovat imbraccia un fucile da caccia Winchester e tocca la spiaggia senza guardarsi indietro.

Al suono delle cornamuse deve percorrere 10 chilometri a piedi, nell’entroterra, e raggiungere un fiume che non ha mai visto: l'Orne. Lì c’è un ponte che hanno ribattezzato "Pegasus" e lui deve raggiungerlo prima che sia troppo tardi, prima che i tedeschi sbaraglino i "Diavoli rossi" (soprannome dei paracadutisti inglesi per via del loro basco amaranto) scesi nella notte con gli alianti per levarglielo di mano. Sono ore di marcia estenuati, tra il caldo, il peso degli armamenti, il fuoco dei Panzer tedeschi dai quali possono solo fuggire. Si imbattono in sporadici gruppi di unni, dando luogo a combattimenti sporadici, e se ne lasciano alle spalle altri, che risulterebbero solo un intralcio dalla loro meta. Alle 13:00 sono a vista del ponte. Millin suona ancora per tirare su il molare - "Road to the Isles" - e i Diavoli rossi tra l’eco dei cannoni alzano la testa. In testa a una colonna un maglione bianco marcia sotto un basco verde. Sono i commandos di Lovat. Ce l’hanno fatta. Simon Fraser, quarto barone di Lovat è arrivato sul suono delle cornamuse a salvare i ponti sul fiume Orne, e con essi l’intera Francia. L’Europa forse.

Mentre i suoi commando prendono posizione, e gli ultimi tedeschi si ritirano, un vecchio francese, monsieur Georges Gondrée, il proprietario di caffè dall’altro capo del ponte, dissotterra le casse di champagne d’annata che aveva nascosto ai tedeschi, e mentre intona la "Marsigliese" tra le lacrime di commozione, versa calici da offrire ai liberatori marcianti. Lovat ne tracanna una coppa. Ringrazia con un sorriso, e prosegue nella sua avanzata tra il fuoco incrociato delle mitragliatrici avvolto nel suo maglione bianco candido, con il suo fucile da caccia in spalla e la sua antica danza di cornamuse. In fondo quale orario migliore per lo champagne, se non la colazione.

Simon Fraser è morto all’età di 83 anni, con tre figli e una ferita nel deretano guadagnata a Breville, appena una settimana dopo lo sbarco in Normandia. Dopo la guerra sedette spesso alla Camera dei Lord, ma abbandonò la carriera politica dopo la sconfitta di Churchill a favore dei laburisti. Oggi a Ouistreham una statua di bronzo troneggia in suo onore.

Dall’iperinflazione all’ascesa del nazismo: alle radici della grande paura tedesca. Andrea Muratore il 15 Agosto 2022 su Inside Over.

L’inflazione è la grande paura per la Germania e la sua economia, un nemico ritenuto insidioso la cui pericolosità è percepita a livello sociale. Non poteva essere altrimenti in un Paese la cui economia è figlia dell’incontro tra il modello renano di capitalismo, di matrice protestante, e quello cattolico-bavarese, fondato sull’economia sociale di mercato: per la Germania e la sua società l’economia e i suoi modelli informano la società, gli equilibri interni, i rapporti tra i corpi intermedi. E l’inflazione è la perturbazione per eccellenza: danneggia il meccanismo di mercato, turba i rapporti tra salari, dinamiche delle imprese, organi sociali, crea incertezza. E in prospettiva, quella povertà che il modello vuole evitare.

La memoria dell’inflazione di Weimar

Il precedente storico del lungo decennio che condusse dall’iperinflazione di Weimar all’ascesa del nazismo (1923-1933) ha segnato radicalmente la storia e la politica tedesche. Tanto da portare l’inflazione stessa ad essere il grande tabù nel discorso politico germanico. Lo ricordiamo bene, pensando ai tempi dell’austerità merkeliana, in cui la deflazione interna e la compressione delle economie mediterranee ad alto indebitamento, spesso guidate da leader totalmente allineati alle logiche economiciste di Berlino (vedasi Mario Monti), fu ritenuta dalla Germania preferibile a qualsiasi politica monetaria e fiscale interventista. Il timore? L’aumento dell’inflazione. Che anche Mario Draghi ha dovuto limitare, come target, al 2%, per far digerire ad Angela Merkel il quantitative easing.

E di fronte a un’inflazione che in Germania, soprattutto per i rincari dei prezzi energetici, è arrivata nel luglio 2022 al 7,5% non si può non pensare al fatto che l’impatto psicologico e politico di questi rincari, senza precedenti per la Germania tornata unita, possono giocare un ruolo nel condizionare le scelte strategiche che Berlino prenderà per condizionare le politiche europee. “Il problema con cui abbiamo vissuto negli ultimi anni è stata piuttosto la pressione deflazionistica, cioè tassi di inflazione troppo bassi”, ha dichiarato all’Huffington Post lo studioso austriaco Philipp Heimberger, economista dell’Istituto di studi economici internazionali di Vienna. “I salari sono cresciuti poco, la disoccupazione è rimasta alta. È quindi difficile immaginare come in questo contesto possa innescarsi una spirale salari-prezzi che apra la strada all’inflazione galoppante. Siamo lontani, molto lontani dalla piena occupazione”. Motivo per cui, secondo l’economista austriaco, il problema ora “non è tanto l’inflazione ma le preoccupazioni eccessive per l’inflazione”. Vero nodo da tenere in considerazione quando di mezzo c’è la Germania.

Come esplose il costo della vita

Racconta Tucidide che nella marcia di avvicinamento alla Guerra del Peloponneso fu il timore reciproco di Atene e Sparta a creare le condizioni per la guerra aperta tra le due potenze elleniche. Lo stesso si può dire dell’inflazione. Spesso è il timore di conseguenze rovinose per i rincari dei prezzi a generare, per una strana eterogenesi dei fini, politiche economiche contraddittorie tali da far avverare i più foschi presagi. Accadde ai tempi della recessione dell’Eurozona: il mito dell’austerità espansiva, del pareggio di bilancio, della deflazione interna portò l’euro a un passo dal fallimento, diede fiato alle trombe dei movimenti populisti, da ultimo provocò la recessione che si temeva avrebbero causato manovre eccessivamente libertarie sui conti pubblici e inflattive. Soprattutto, esiste il grande precedente del 1923-1933.

Terrorizzata dallo choc dell’iperinflazione del 1923, la classe dirigente della Repubblica di Weimar finì per mettere in campo le scelte politiche distruttive che, al momento della verità, alimentarono i consensi del Partito Nazionalsocialista, esploso come movimento populista ed eversivo ai tempi del Putsch di Monaco guidato da Adolf Hitler e, dopo la sua scarcerazione in seguito al fallito golpe, esploso come forza di protesta capace di catalizzare la rabbia del ceto medio impoverito.

La Repubblica di Weimar aveva prodotto, soprattutto per la convergenza sui temi di Zentrum, il partito cattolico, e Spd, la principale formazione socialdemocratica, una Costituzione di avanzatissimo livello sociale per costruire le basi della Germania uscita sconfitta dalla Grande Guerra: suffragio universale esteso alle donne, libertà di assemblea, tutela delle libertà individuali e della proprietà, massime libertà sindacali. La cui attuazione fu messa fin dall’inizio in difficoltà dai vincoli con cui Berlino si confrontava. Come ha ricordato nel 2015 dall’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio in una lectio magistralis tenuta a Trento per parlare delle conseguenze economiche della Grande Guerra, la pace punitiva di Versailles fu una di queste problematiche: “A causa delle esagerate riparazioni di guerra richieste dagli Stati vincitori, la Germania viveva gravi difficoltà dell’economia, anche per tentare di venire incontro, con sussidi e forme di occupazione fittizia, a quasi 6 milioni di uomini che dalla guerra erano rientrati nelle attività civili” e considerati la base sociale più fragile del Paese.

L’equilibrio, ha ricordato Fazio, venne trovato “ricorrendo progressivamente alla stampa di moneta. Il marco inizia a perdere valore nei confronti delle altre monete: salgono i salari e i prezzi, lo Stato riduce la disoccupazione creando nuova moneta. Nel 1919 l’aumento dei prezzi sale in un anno al 60%, nel 1920 del 240%. Nel 1923, a causa anche dell’invasione della Ruhr da parte dei francesi, sale tra il 15 e il 40% al giorno”. A novembre 1923 un chilo di pane costava 428 miliardi di marchi, un francobollo 100 miliardi. Il governo di Weimar ritirò il Reichsmark e lo sostituì con una nuova versione per decapitarne i rincari. Da allora in avanti, qualsiasi espansione di bilancio fu vista per anni in Germania come una vera e propria eresia. E sul fronte politico si prepararono i primi segni della svolta che si sarebbe concretizzata dieci anni prima.

Dall’austerità all’ascesa del nazismo

Quando nel 1929, infatti, la Grande Depressione travolse gli Usa, ritrovatisi a essere primi creditori della ricostruzione tedesca, il governo tedesco si trovò di fronte alla necessità di rafforzare la domanda interna per evitare che la tempesta finanziaria si tramutasse in uno tsunami industriale. Ma il governo centrista di Heinrich Bruning rimasto in carica dal 1930 al 1932 ebbe timore della lezione del 1923. La sua risposta alla crisi si sostanziò, dopo il voto del 1930, in un vero e proprio pacchetto di austerità: aumento del tasso di sconto, forti riduzioni delle spese dello Stato, aumento dei dazi doganali, riduzione dei salari e dei sussidi di disoccupazione. La mossa si inserì nella corsa globale alla trincerazione delle economie dietro i propri muri invalicabili che avrebbe causato un’estensione degli effetti della crisi. Cavalcando la rabbia popolare contro i “Brüning verordnet Not” (I decreti disagio di Brüning) Hitler trovò un’occasione per conquistare nuove posizioni di rilievo nella politica nazionale. Sospinto dal boom nazista al voto del 1930, che aveva portato il Nsdap dal 2,6 al 18,6% dei consensi, Hitler fece della battaglia contro il rigore di Bruning un simbolo della sua sfida per la rinascita del Paese. “Dal 1924 in poi la politica economica tedesca”, ricorda Fazio, “si è ispirata al concetto che la preoccupazione della stabilità monetaria dovesse prevalere su qualunque altra considerazione”. Il risultato? “Nel 1932 si parla in Germania di 6 milioni di disoccupati, ma forse erano 8 milioni, contro gli appena 800mila del 1928”. Su questa base di disperazione sociale il nazismo pescherà i suoi più grandi successi.

La “trappola di Tucidide” dell’inflazione era andata in scena. L’austerità scelta come risposta a quello che era una crisi da affrontare difendendo il potere d’acquisto, la produzione industriale, i salari e il lavoro aveva portato, per il timore di generare il carovita, a un disastro annunciato. La classe dirigente di Weimar aveva dimenticato la lezione di John Maynard Keynes: “La difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali per coloro che sono stati educati, come la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente”. Per il potere repubblicano tedesco erano bastati solo sei anni. Non fu l‘iperinflazione di Weimar a causare l’ascesa del nazismo in forma diretta. Ma furono le politiche austerità pensate come alternative al terrore da carovita a dare il via alle conseguenze materiali di disastro sociale in cui lo spirito revanscista del partito di Hitler avrebbe prevalso con la maggioranza dei voti alle elezioni. Gregori Galofré-Vilà, dell’Università Bocconi, ha nel 2017 guidato un gruppo di ricerca che ha realizzato la pubblicazione dell’analisi Austerity and the rise of the Nazi Party uscita sul prestigioso National Bureau of Economic Research in cui si è dimostrato che proprio i distretti in cui la spesa pubblica fu decurtata maggiormente e il welfare trascurato videro il partito di Hitler dominare alle elezioni.

Ovviamente questo paragone storico non intende affermare che una reazione austeritaria, in caso di impennata odierna dell’inflazione, porterà a un esito simile, anche perché la storia mai si ripete uguale a sé stessa. Tuttavia, la più grande delle paure tedesche in economia, quella che ha spinto Angela Merkel e Wolfgang Schauble a imporre all’Europa il grande quinquennio del rigore tra il 2010 e il 2015, è tale da rappresentare un fattore di condizionamento politico e sociale importante ancora oggi. E senza capire gli errori del passato, che indicano nell’austerità e non nell’inflazione il vero male da abbattere, il rischio di logoramenti dell’intero Vecchio Continente, che oggi sarebbero devastanti per tutti i Paesi membri dell’Unione a partire dalla Germania stessa, rischia di amplificarsi. Come del resto già insegna, nel suo piccolo, la storia dello scorso decennio.

La resa dei tedeschi: Parigi è libera. La capitale era occupata da quattro anni. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Agosto 2022.

Parigi è libera: finalmente «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 27 agosto 1944 può annunciarlo senza timori. «La Resistenza è cessata a Parigi ieri allorché il comandante tedesco della città si è arreso. Con la scorta di unità militare alleata egli ha fatto un giro per la città dando ordine ai caposaldi di cessare il fuoco. I ponti sulla Senna sono intatti e truppe alleate hanno incominciato oggi a procedere verso nord e nord-est, dove si ritiene vi sarà ancora una disperata resistenza dei tedeschi per alcuni giorni», scrive il corrispondente da Londra.

​​Occupata da quattro anni, Parigi attendeva con impazienza l’ora della sua liberazione. Tutto è cominciato con lo sbarco alleato in Normandia del 6 giugno 1944: da ogni parte del Paese si sono mobilitati combattenti della Resistenza e sono iniziati gli scioperi.

A capo del Comitato francese di liberazione nazionale c’è il generale Charles De Gaulle, fondatore del movimento clandestino «France libre» e capo del governo provvisorio.

A partire dal 19 agosto Parigi è insorta contro il nemico nazista. Le barricate vengono erette frettolosamente. Uomini, donne, bambini partecipano all’impresa: è l’impegno spontaneo degli abitanti a fare la differenza.

​​Il Comando alleato decide di far intervenire la 2ª Divisione corazzata francese agli ordini del Generale Leclerc, supportata dalla 4ª Divisione di fanteria statunitense del Maggior Generale Burton. Il 25 agosto le forze francesi e americane sono calorosamente accolte dai parigini. Il comandante tedesco della piazza di Parigi, von Choltitz, è catturato e trattenuto presso l’Hotel Meurice: poche ore dopo ordina la resa alle sue truppe. Il generale De Gaulle, che ha guidato la resistenza parigina, pronuncia all’Hotel de Ville un memorabile discorso: ​​«Paris! Paris outragé! Paris brisé! Paris martyrisé! mais Paris libéré! libéré par lui-même, libéré par son peuple avec le concours des armées de la France».

Con la liberazione della capitale, aggiunge il futuro presidente della Repubblica francese, vi è il riscatto della nazione intera!

«In un discorso tenuto a Radio Parigi ieri sera, il generale De Gaulle ha detto che i soldati francesi non si arresteranno fino a quando non saranno entrati da conquistatori in Germania. Un’accoglienza entusiastica è stata tributata al Generale», si legge sulla «Gazzetta».

Il 26 agosto, circondato dalla folla festante, de Gaulle depone una corona di fiori sulla tomba del milite ignoto all’Arc de Triomphe e guida la storica sfilata trionfale sugli Champs-Élysées.

 L’assedio e le stragi. Battaglia di Stalingrado, così 80 anni fa Hitler perse la guerra: la disfatta nazista e l’operazione Urano di Stalin. David Romoli su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

“I primi aerei comparvero verso le quattro del pomeriggio.. Avevano appena passato le campagne di Burkovskij, vicino al Volga, quando si udì un sibilo, subito seguito dalle prime esplosioni e sugli edifici in fiamme si levarono alti il fumo e la polvere. L’aria era trasparente e gli aerei perfettamente visibili. Il sole splendeva e i suoi raggi accendevano migliaia di finestre; con gli occhi al cielo la gente guardava gli aerei tedeschi… Poi venne il silenzio, l’ultimo silenzio di Stalingrado”.

Così, nel suo capolavoro ricostruito solo un paio d’anni fa e uscito in Italia nel marzo scorso, Stalingrado, Vasilij Grossman descrive il vero inizio della battaglia destinata decidere il corso della guerra tra Germania e Unione sovietica e probabilmente dell’intera Seconda Guerra Mondiale. Il 23 agosto 1942, esattamente ottanta anni fa, gli aerei della Luftwaffe al comando del generale von Richtofen bombardarono per la prima volta a tappeto la città che per 400 anni si era chiamata Carycin, oggi è Volgograd ma portava allora il nome del capo assoluto dell’Unione sovietica. Due giorni prima la VI armata della Wehrmacht guidata dal generale von Paulus aveva passato il fiume Don, stabilito alcune teste di ponte e si preparava a lanciare l’attacco finale. La città sul Volga era isolata dalla Panzer Division del generale Hube a nord e dall’Armata corazzata del generale Hoth a sud. Gran parte della popolazione era imbottigliata nella città. Stalin in persona aveva ordinato di non evacuare la città per ricollocare a est le importantissime fabbriche e le acciaierie.

I sovietici si ritiravano sia pur combattendo senza tregua, da quando il 22 giugno dell’anno precedente la Germania aveva attaccato a sorpresa l’Urss, avviando l’operazione Barbarossa. Grossman, giornalista in prima linea per tutta la durata della guerra, descrive perfettamente nel suo libro la frustrazione e la disperazione provocate da questo continuo arretramento, dallo sfollamento di una città dopo l’altra, dalla perdita dell’Ucraina, della Bielorussia, dall’avanzata continua in Russia. A Stalingrado i sovietici decisero di resistere come avevano fatto a Mosca, dove le truppe tedesche e degli alleati italiani e romeni erano state fermate e respinte. Hitler era altrettanto deciso a dare sul Volga il colpo di grazia all’Armata Rossa. L’ordine perentorio era prendere la città di Stalin entro il 25 agosto.

Nonostante la fulminea avanzata e le immense conquiste, l’operazione Barbarossa non era stata il successo sperato. Il progetto era ancora una volta la Blitzkrieg, una guerra lampo che avrebbe dovuto concludersi in otto settimane, prima dell’inverno. La resistenza di Mosca e di Leningrado, ancora cinta d’assedio, avevano vanificato il disegno. Hitler però era riuscito, a differenza di Napoleone oltre un secolo prima, a superare il terribile inverno russo ed era senza dubbio un enorme vittoria. In primavera era deciso a sferrare il colpo finale. La Direttiva 41, diramata il 5 aprile 1942 dal Fuhrer, dettava le linee dell’Operazione Blu: una poderosa offensiva concentrata solo nella Russia meridionale con gli obiettivi di conquistare i bacini del Don e del Volga e Stalingrado (fondamentale sia come postazione strategica che come centro produttivo), e impossessarsi delle aree petrolifere del Caucaso.

L’Armata di Hitler contava un milione di uomini, olte2500 carri armati. Altre quattro armate di rinforzo italiane, romene e ungheresi che schieravano altri 600mila soldati. Rallentata dalla resistenza sovietica a Sebastopoli, l’Operazione Blu fu lanciata il 28 giugno, invece che all’inizio di maggio come previsto. Il fronte meridionale russo fu immediatamente sfondato. I caduti nell’Armata Rossa, prima dell’attacco diretto a Stalingardo, furono oltre 400mila. Come in un incubo i sovietici si ritrovarono nella stessa situazione dell’anno precedente: costretti ad arretrare inesorabilmente mentre a Mosca Churchill dissipava la speranza di un alleggerimento della situazione grazie all’apertura di un secondo fronte in Europa: sarebbero stati necessari ancora mesi. I sovietici dovevano vedersela da soli.

Il 28 luglio, mentre la corsa dei panzer di Paulus sembrava inarrestabile, Stalin diramò l’ordine n.227. Il dittatore era consapevole di quanto diffusa fosse la tendenza a ritirarsi contando sulla vastità della Russia a oriente. Sapeva che le diserzioni crescevano in modo esponenziale. L’ordine fu dunque tassativo: “E’ ora di smettere di ritirarsi. Non un passo indietro…D’ora in poi la legge ferrea della disciplina per ogni ufficiale, soldato e commissario politico dovrà essere: Non un singolo passo indietro senza un ordine dal più alto comando. Comandanti di compagnie, battaglioni, reggimenti e divisioni, così come i commissari e i commissari politici dei corrispondenti ranghi che si ritirano senza ordine dall’alto sono dei traditori della Madrepatria. Dovranno essere trattati come traditori della Madrepatria”.

Nei giorni seguenti Stalin inviò nella città sotto attacco Nikita Chrusciov, futuro leader dell’Urss, come commissario politico. Sostituì il comandante del Fronte di Stalingrado con uno dei suoi generali più duri ed esperti, Andrej Eremenko, mise a capo della principale armata della città un altro dei suoi principali generali, Vasilij Cujkov, e alla fine di agosto raggiunse la città anche il principale stratega del Cremlino, il maresciallo Zukov. I bombardamenti su Stalingrado e gli scontri alla periferia proseguirono fino al 13 settembre quando Paulus lanciò l’attacco frontale contro la città. I sovietici avevano sino a quel momento rallentato l’avanzata tedesca senza riuscire a fermarla. A partire dal 13 settembre la battaglia fu combattuta strada per strada, edificio per edificio. In condizione di inferiorità numerica e di mezzi, senza poter contare sul sostegno dell’aviazione, le truppe di Cujkov scelsero di fortificare singoli postazioni, fabbriche, rovine già bombardate, singoli palazzi dalle quali lanciavano soprattutto di notte incursioni e piccoli contrattacchi.

Ma nella stessa giornata del 13 settembre, al Cremlino, Stalin, Zukov, il capo dell’Armata Rossa generale Vasilevskij e i vertici dello Stakva – l’Alto comando sovietico – prepararono un piano molto audace e destinato a capovolgere le sorti del conflitto: l’Operazione Urano. Una controffensiva basata su una manovra strategica a tenaglia in realtà molto semplice ma per il successo della quale era essenziale che rimanesse completamente segreta, in modo da cogliere gli attaccanti di sorpresa. Nella città la battaglia infuriò per due mesi. Il centro fu perso e ripreso più volte. Alla fine di settembre Paulus piantò la bandiera con la svastica nella centralissima piazza rossa. Alcuni palazzi e alcune fabbriche, soprattutto quella di trattori, diventarono gli epicentri della battaglia. I cecchini, dall’una e dall’altra parte, erano sempre in agguato e alcuni dei più precisi e micidiali diventarono veri eroi popolari La battaglia proseguì senza sosta, ogni giorno, anche se in due occasioni, il 14 ottobre e l’11 novembre i tedeschi tentarono di chiudere la partita con offensive massicce.

Nel giro di una settimana l’ultima offensiva di Paulus, quella di novembre, arrivò a un passo dalla vittoria. La resistenza russa era limitata a tre sole teste di ponte. In nessuna di queste tre aree la profondità di territorio controllata dai sovietici andava oltre 1 km e mezzo. Il 19 novembre i sovietici lanciarono la controffensiva cogliendo di sorpresa la Wehrmacht. La manovra a tenaglia delineata nell’operazione Urano travolse prima i riparti romeni poi quelli tedeschi e costrinse Paulus a ritirare le truppe e i panzer dalla città per tentare una difesa di fronte al del tutto inatteso contrattacco. Nell’arco di 4 giorni la situazione sul campo appariva completamente rovesciata. Gli assedianti tedeschi erano ora assediati nella “sacca di Stalingrado”. Il 23 novembre è la vera data della svolta nella guerra mondiale. Da quel momento ad arretrare e a subire l’iniziativa dei sovietici e degli alleati sarebbe stata sempre l’Asse.

Il 24 novembre Hitler diramò un “ordine tassativo” che imponeva alla VI Armata di Paulus di resistere a ogni costo e mise a capo di un “Gruppo di armate del Don” il feldmaresciallo Erich von Manstein, con il compito di rompere l’assedio e liberare l’Armata di Paulus. La “Fortezza Stalingrado” nazista resistette molto più a lungo del previsto, prima nella convinzione che l’assedio sarebbe stato rotto presto poi, a partire dal natale 1942, senza più vere speranze di salvezza ma con il solo obiettivo di tenere impegnate su quel fronte quante più truppe sovietiche possibile per indebolire l’offensiva generale che era nel frattempo stata lanciata dallo Stakva. Il 10 gennaio 1943 i sovietici lanciarono l’offensiva finale. Paulus fu fatto prigioniero il 26 gennaio.

Pochi giorni prima Hitler lo aveva nominato feldmaresciallo, non per tributargli un riconoscimento ma per spingerlo al suicidio: nessun feldmaresciallo tedesco era mai stato fatto prigioniero. Paulus scelse di ignorare la spintarella e di farsi catturare vivo. Il 2 febbraio gli ultimi reparti tedeschi si arresero. Le perdite russe erano state di quasi 480mila morti. Quelle tedesche non sono mai state valutate ma vanno certamente oltre i 140mila morti solo nella fase dell’assedio sovietico alla sacca. I prigionieri, tra tedeschi, romeni, ungheresi e italiani furono oltre 300mila.

La maggior parte degli storici, ma non tutti, concorda nel ritenere la battaglia di Stalingrado il vero punto di svolta strategico della guerra. Ma sul ruolo incomparabile che ebbe sul piano psicologico e del morale degli eserciti coinvolti di dubbi non ce ne sono. La fine del Terzo Reich iniziò tra le rovine di Stalingrado. David Romoli

Isbuscenskij, l'ultima carica di cavalleria. Isbuscenskij, 24 agosto 1942: il Savoia Cavalleria condusse e vinse, contro truppe sovietiche, l'ultima carica di cavalleria lanciata dall'esercito italiano contro forze regolari nemiche. Andrea Muratore il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

Ansa del Don, pochi chilometri dal villaggio di Isbuscenskij, 24 agosto 1942. L'alba lascia presagire una soleggiata mattinata nella steppa russa, sempre uguale a sé stessa e divoratrice di uomini e reparti nella grande campagna orientale dell'Asse. Quel giorno, però, la steppa si sarebbe illuminata delle gesta del Reggimento Savoia Cavalleria. In azione per quella che resterà nella storia come l'ultima carica del Regio Esercito compiuto contro truppe regolari nemiche.

Isbuscenskij è un punto sperduto nella steppa; il Savoia Cavalleria è un punto ancor più minuto nel grande complesso militare che la Germania, l'Italia e i loro alleati (Ungheria, Romania, Slovacchia, Finlandia) mettono in campo dal Baltico al Mar Nero per combattere la macchina da guerra sovietica. Sull'ansa del Don, partecipa alle operazioni Raggruppamento truppe a cavallo "Barbò" (dal nome del suo comandante, il generale Guglielmo Barbò, originario del paesino cremonese di Casalmorano), di cui è parte integrante assieme al reggimento fratello "Lancieri di Novara" e al Reggimento artiglieria a cavallo "Voloire", con il compito condiviso con il resto dell'Armata Italiana in Russia (Armir) di tenere il fianco sinistro delle truppe corazzate tedesche che avanzano verso Stalingrado e il Caucaso. L'inverno inclemente in cui la steppa avrebbe rappresentato la tomba degli italiani in Russia e in cui si sarebbe consumata l'anabasi degli alpini della Julia e della Tridentina appariva lontana. In quella calda estate, l'Asse coltivava ancora speranze di vittoria contro il nemico sovietico.

Il Savoia Cavalleria, piccolo reparto in un minuscolo punto del fronte, era in quel giorno chiamato però a una missione tutt'altro che secondaria: contenere una puntata offensiva di alleggerimento compiuta dall'812º Reggimento di fanteria siberiano oltre il Don per logorare ai fianchi lo schieramento dell'Asse. Il 20 agosto i russi avevano attraversato il Don e sfondato il tratto di fronte tenuto dalla Divisione fanteria "Sforzesca". Il Savoia Cavalleria si posiziona a poco più di un chilometro da uno schieramento di truppe dell'812° reggimento desideroso di avanzare per colpire al cuore le retrovie italiane.

700 cavalleggeri italiani del Savoia si trovavano nella regione di Isbuscenskij a affrontare 2.500-3mila uomini sovietici del reparto appartenente alla 304° Divisione di Fanteria, che si erano posizionate formando un ampio semicerchio in un campo di girasoli, pronte a travolgere gli italiani acquartierati nella steppa poco dopo l'alba. Il colonnello Alessandro Bettoni Cazzago, comandante di Savoia Cavalleria, ebbe però la prontezza di inviare delle pattuglie in perlustrazione che si trovarono sotto un intenso fuoco sovietico.

Con l'obiettivo di alleggerire la pressione sovietica, Bettoni Cazzago, cavalleggero bresciano classe 1892 e considerato assieme ad Amedeo Guillet uno dei principali esperti del settore nell'Italia del tempo, pensò di utilizzare la più tradizionale strategia della cavalleria per creare confusione tra i nemici: la carica. Inizialmente intenzionato a mandare all'assalto l'intero reparto di cui faceva parte dal 1920 e comandava da pochi mesi, il colonnello fu convinto dal proprio aiutante maggiore Pietro de Vito Piscicelli di Collesano a non impegnare l'intera forza con il rischio dell'annientamento, ma di rivolgersi unicamente al 2° Squadrone comandato dall'audace capitano Francesco Saverio De Leone, 26enne abruzzese di Penne. De Leone, seguito dai suoi sottoposti, ordinò allo squadrone di montare a cavallo e di uscire dal quadrato nella direzione opposta del nemico, simulando una ritirata. Appena scompare dal campo visivo il 2° squadrone compie un'ampia conversione e De Leone lanciò l'ordine "Sciabl-mano".

"Avanti Savoia!". Il grido che sarebbe rimasto nella storia frastornò i sovietici che, intenti ad ingaggiare le pattuglie a cavallo italiane si trovarono senza alcuna previsione attaccati sul fianco. 120 cavalleggeri italiani piombarono armati di sciabole, mitragliette e bombe a mano sul nemico, seminando il panico e lo sgomento tra le truppe di Stalin. L'intuizione dell'attendente di Bettoni Cazzago si rivela, del resto, vincente perché un'altra unità del Savoia, il 4° Squadrone, appiedato viene mandato in avanti a dare sostegno alla carica. "Io vado. 4° Squadrone: baionetta!”. Inizia così la terza fase della battaglia, la più lunga. Appiedati, superiamo d’un balzo gli 800 metri che ci separano dalla quota: dobbiamo ora occupare il terreno. Non possiamo permettere al nemico di riorganizzarsi; dobbiamo andare oltre. I nemici sono tantissimi per noi che siamo solo in 80", ha dichiarato ad Avvenire uno degli ultimi testimoni della battaglia recentemente scomparso, il sergente maggiore Giancarlo Cioffi. Il capitano Silvano Abba, colpito e ucciso nell'azione (riceverà la Medaglia d'Oro al valore militare), guidò l'azione d'alleggerimento mentre De Leone, penetrato nelle linee nemiche, caricava alle spalle i reparti sovietici mandati completamente allo sbando.

Bettoni Cazzago, visto il momento favorevole, liberò le energie residue del reparto: fu convocato il sergente Diego Saccardi e ordinato al 3° Squadrone a cavallo di sferrare una carica frontale superando il 4° Squadrone appiedato. Fu l'azione decisiva. Ingaggiati frontalmente, caricati sullo stesso fronte e con uno squadrone alle spalle capace di muoversi a proprio piacimento, i sovietici lasciarono il campo di girasoli di Isbuscenskij, avvicinandosi alle loro postazioni sull'ansa sul Don.

Per un'intuizione tattica era andata in scena a Isbuscenskij quella che sarebbe stata una manovra mai più ripetuta nel secondo conflitto mondiale. Il 17 ottobre 1942 a Poloj, in Croazia, il Reggimento "Cavalleggeri di Alessandria" avrebbe caricato contro un gruppo di partigiani iugoslavi ma mai più l'Esercito italiano avrebbe mosso le proprie forze a cavallo contro uno schieramento di truppe regolari. Isbuscenskij avrebbe dato un ultimo momento di gloria alla cavalleria nella prima guerra dei caccia a reazione e delle bombe atomiche. Avrebbe a suo modo rappresentato la tragedia del Regio Esercito, lanciato da Mussolini in una guerra colossale contro eserciti dotati di mezzi e risorse maggiori. Sarebbe rimasta una pagina di onore militare importante in una guerra sanguinosa e violenta, in cui l'Armir si ritrovò, in ultima istanza, a soccombere pochi mesi dopo questa impresa. Compiuta in un punto della mappa da un piccolo reparto, non decisiva sul piano militare, che si reggeva su equilibri ben più grandi, ma cruciale sotto il profilo storico. A emblema del dramma che fu, per l'Italia, la partecipazione al secondo conflitto mondiale. In cui con la generosità e il coraggio degli uomini sul campo spesso il Regio Esercito doveva contrastare, contro forze impari, la pusillanimità degli alti gradi politici e militari.

I cacciatori nei cieli dell'Atlantico. Lanciati dalla poco note Cam Ship, gli Hurricat rappresentano un singolare metodo di difesa dei mercantili alleati che facevano la spola nell'Atlantico. Davide Bartoccini il 25 Agosto 2022 su Il Giornale.

C'è una bella fatica di pittura, realizzata da uno di quei talentosi artisti britannici che tanto amano celebrare la loro storia bellica, intitolata "One way ticket”, ed è dedicata a quelli che forse furono tra i piloti più coraggiosi del Secondo conflitto mondiale. Forse ancor più dei kamikaze giapponesi. Sì perché a differenza loro, i piloti Alleati che venivano catapultati a razzo sull'oceano Atlantico in tempesta non volevano morire, volevano tornare a casa. Solo non avevano un "biglietto di ritorno" dopo esser decollati per duellare con i grandi aerosiluranti tedeschi e tentare così di difendere i convogli che portavano uomini e rifornimenti da una parte all'altra dell'Oceano. Quando gli u-boot, organizzati nei branchi di lupi, già erano abbastanza "efficaci" nel far colare a picco le navi mercantili riducendo alla fame il Regno Unito.

Se c'è una singolarità affascinante del Sea Hurricane (caccia Hawaker Hurricane navalizzato, ndr) e dei suoi piloti più temerari, infatti, è quella dell’impiego che se ne fece sulle così dette Cam Ship, acronimo di Catapult Armed Merchantman: navi mercantili che accompagnavano i convogli nell'Atlantico e nel Mare del Nord.

Le Cam ship e il loro impiego

Questo tipo di navi erano dei comuni mercantili di 7mila tonnellate di stazza che mantenevano il loro comune carico, provvisti però di una "catapulta" posta a prua che lanciava un singolo caccia Hurricane Mk.I A soprannominato “Hurricat” o “Catafighter” per operazioni di copertura e protezione da attacchi nemici.

La sua funzione principale, essendo un unico caccia contro intere formazioni, era quella di scoraggiare l'avversario o di spendersi in manovre difensive per guadagnare tempo in attesa di supporto di unità terze come le portaerei di scorta che nel corso del conflitto aumentavano di numero. Il velivolo sarebbe poi riatterrato - ci si augurava - sul ponte di una di queste imbarcazioni oppure avrebbe fatto rotta verso la costa più vicina. Ma l’atterraggio in sicurezza il più delle volte si rivelò infattibile. E i piloti, fornite le coordinate, si trovavano costretti a lanciarsi con il paracaduto o ad ammarare. "I rischi del mare non sono apparentemente sufficienti per questi giovani gentiluomini.." commentavano i marinai.

Le Cam erano di norma comandate da un equipaggio della Reale Marina Mercantile e ospitavano - agli ordini del capitano civile - una mezza dozzina di personale della Royal Air Force: un rigger, un fitter, un operatore radio, un addetto agli armamenti, e una coppia di questi coraggiosi piloti, inizialmente selezionati dalla Raf (spesso veterani della Battaglia d’Inghilterra volontari e con un expertise in campo nautico alle spalle) che venivano inquadrati nella Merchant Ship Fighter Unit, e poi dalla Fleet Air Arm (la componente aerea imbarcata della Royal Navy).

La particola precauzione che aveva portato all'impiego di questi piloti per "missioni suicide" venne ideata dall’Ammiragliato britannico per rispondere alla minaccia crescente portata dai Focke-Wulf Fw 200 "Condor" della Luftwaffe: bombardieri a lungo raggio che, dopo la conquista tedesca della Francia, potevano decollare da aeroporti in prossimità della costa come quelli di Bordeaux-Mérignac, per raggiungere con facilità i convogli alleati nell’Atlantico. Combinandosi in azioni offensive con i branchi di u-boot, i Condor potevano distruggere i natanti che componevano i preziosi convogli. Avvistato un bombardiere nemico, in attesa dell’arrivo dei caccia lanciati delle portaerei di scorta, l’Hurricat sarebbe stato così lanciato dalla catapulta per ingaggiare l'attentatore e abbatterlo, o comunque impedirgli di portare a termine l'attacco. Una volta sventata la minaccia, il pilota, come detto in precedenza, avrebbe fatto rotta su una vicina portaerei o, nel peggiore dei casi, avrebbe portato il suo aereo in volo rovesciato - come da procedura - per lanciarsi con il paracadute ed essere ripescato dal convoglio. Durante il conflitto furono 35 i mercantili convertiti a Cam Ship e 50 gli Hawker Sea Hurricane modificati per essere lanciati da catapulte.

La catapulta e il decollo "a razzo"

La catapulta delle Cam Ship consisteva in un'intelaiatura di travi che accoglievano un particolare carrello su un'apposita rotaia, collegato attraverso un sistema di funi metalliche e pulegge che rendevamo possibili il "decollo a razzo" in seguito all'innesco di una carica che catapultava l'aereo a una velocità sufficiente da consentirne il volo.

Riporta un marinaio di servizio sulla HMS Empire Lawrence, dotata di Hurricat affidato all'ufficiale pilota Alistair Hay, che poco prima di un'incursione nemica si trovava sul ponte a fumare una sigaretta con il pilota temerario: "Spense la sigaretta e se la mise nel giubbotto da volo. Sapeva di non avere speranza di atterrare in territorio amico. Lo abbiamo visto decollare e siamo rimasti in comunicazione con lui. Dalla radio potevamo sentire le sue parole, e il rumore delle mitragliatrici che facevano fuoco, anche dalla cabina di pilotaggio dell'aereo. Ne abbattè uno e dall'altro usciva del fumo [doveva aver colpito un secondo velivolo, ndr]. Poi abbiamo sentito il suo grido , doveva essere stato colpito". E infatti così andò, perché mentre era di scorta al convoglio russo Pq16 diretto a Murmansk, ad est dell'Isola degli orsi dell'arcipelago norvegese delle Svalbard, il pilota di questo Hurricat ingaggiò idrovolanti e bombardieri tedeschi di una formazione composta sei velivoli Heinkel He-115 e He-111, prima di doversi lanciare con il paracadute sui flutti ghiacciati del mare del Nord. Gli vennero accreditati due abbattimenti. Una seconda sortita nella stessa giornata gli valse l'encomio e la Distinguished Flying Cross.

Altra testimonianza utile a capire l'impiego degli Hurricat, è quella redatta sul diario di bordo della HMS Maplin, nel settembre del '41. In seguito all'avvistamento da parte delle vedette di un aereo identificato come un Fw-200, quando esso si trovava a circa sette miglia dal convoglio, ponendosi in posizione d'attacco, venne lanciato l'Hurricane, che, avvistato immediatamente il nemico ha fatto rotta sul nemico per ingaggiarlo. Dopo essere stato centrato più volte, il Fw-200 sganciò le sue bombe per sparire tra le nuvole. Al pilota dell'Hurricat non restò altro che lanciarsi con il paracadute per essere recuperato dalla HMS Rochester, e venir condotto a bordo della Maplin. Il primo avvistamento era avvenuto alle 11.45 della mattina, terminata alle 14.17.

Temeraria risorsa utile allo sforzo bellico

Nel corso nel conflitto, secondo quanto registrato dai diversi diari di bordo, vennero effettuati almeno una dozzina di lanci dalle catapulte delle Cam ship. Questi portarono all'abbattimento di cinque Fw-2000, di due Heinkel 111 e di uno Junker Ju 88. Vennero sventati due volte gli attacchi portati da Fw-2000, e in un'altra occasione quello condotto da un idrovolante Blohm & Voss BV 138. Le Cam ship e i loro famigerati Hurricat rimasero operativi fino al 1943. Anno in cui il gran numero di portaerei costruite nei cantieri degli Alleati consentì una svolta decisiva nello scortare e proteggere i convogli di mercantili che dovevano attraversare l'Atlantico. Dove alcuni tra i piloti più temerari della guerra avevano affrontato le tempeste, i siluri, e le dozzine di mitragliatrici degli stormi nemici che nel collimatore avevano solo quei cacciatori temerari con un biglietto di sola andata per i mari dell'Atlantico.

Arte, svelato un probabile inedito di Picasso: il volto di Hitler per demonizzare il dittatore. Il confronto tra la foto di Hitler e l'opera che potrebbe essere attribuita a Picasso. L'annuncio durante la una conferenza Internazionale nel Castello dei Conti Brancaleoni di Piobbico. La Repubblica il 20 Agosto 2022.

Un probabile capolavoro di Picasso di tributo a Klee raffigurante un ritratto di Hitler è stato svelato durante la Conferenza Internazionale L'Arte in Fuga da Hitler nel Castello dei Conti Brancaleoni di Piobbico. Il tema vastissimo della memoria  è stato il perno della serata, importante per riflettere non solo sull'arte e gli artisti, ma anche per portare testimonianza di quei tragici momenti per l'intera umanità.

Nel 1933 il partito nazionalsocialista prende il potere e con esso si controlleranno tutti gli aspetti della vita intellettuale della nazione, agendo sul sistema educativo, sui teatri, cinema, letteratura, stampa, radio e soprattutto sull'arte cercando di annientare tutto ciò che era contrario alle linee guida del regime. La straordinaria occasione ha visto lo svelamento in prima mondiale di un dipinto probabilmente attribuibile a Pablo Picasso in cui il maestro di Malaga ha voluto rappresentare il volto di Hitler con oggetti ed elementi vietati dallo stesso dittatore, come a voler demonizzare mettendo in ridicolo la sua immagine. L'opera sarebbe un tributo fatto nei confronti dell'artista Paul Klee.

I due artisti, infatti  avevano un'ammirazione reciproca e amicizia e si incontrarono in almeno due occasioni, tanto che nel 1914 Klee fa un tributo a Picasso e alla sua forma d'arte. "Ovviamente non esistono presupposti tali al momento che ci portino ad attribuire l'opera con certezza a Picasso, sicuramente il dipinto e il suo studio dovranno essere ulteriormente approfonditi", ha spiegato l'esperta internazionale d'arte Annalisa Di Maria che ha presentato lo studio stilistico, la ricerca storico-archivistica e l'accostamento attributivo. L'esperta è concorde insieme agli altri esperti che l'opera non sia mai stata catalogata e che sia stata dispersa per un lungo periodo, sono molti gli elementi che riconducono la creazione dell'opera forse alla mano di Pablo Picasso.

A curare la presentazione sono intervenuti studiosi e ricercatori, tra cui è seguito l'intervento del perito calligrafo forense Stefano Fortunati per lo studio degli elementi di scrittura rintracciati nell'opera. Le analisi scientifiche e multispettrali e lo studio simbolico sono state illustrate dal ricercatore Andrea da Montefeltro. Lo studio del supporto, del pigmento, le analisi stilistiche e di comparazione hanno portato a presupporre la  collocazione della realizzazione dell'opera tra il 1935-1937. Scopo della conferenza è stato quello di presentare pubblicamente l'opera affinchè altri esperti possano studiarla fornendo il loro contributo. Aprendo un dibattito e confronto su un'opera che è rimasta per troppo tempo sconosciuta. 

Il suicidio di Hitler, l’uscita di scena di uno scellerato fallimento. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Nessun parallelismo fra Hitler e Putin, ma toccherà agli storici stabilirne il grado di abiezione. 

Guardare la Storia con un occhio rivolto al futuro. Di Adolf Hitler abbiamo letto e visto molte cose, dalla sua irresistibile ascesa (come la società tedesca abbia permesso all’invasato caporale di comandare un intero popolo rinunciando alle prerogative delle proprie libertà personali resta un mistero) alla morte nel bunker di Berlino, un’uscita di scena sinistramente memorabile, come una grandiosa recita della dissoluzione o di uno scellerato fallimento. Nel primo dei cinque capitoli de «La Grande Storia» (Rai3), Paolo Mieli ha presentato l’ultimo anno del Terzo Reich: gli ultimi undici mesi di combattimento, interminabili e decisivi, che dopo lo sbarco in Normandia saranno ancora necessari agli Alleati per sconfiggere Hitler e vincere la Seconda Guerra Mondiale in Europa. La Germania nazista è nella morsa, molti pensano che entro dicembre la guerra sarà finita. Invece Hitler, dal suo bunker, ordina di resistere a ogni costo, fino all’ultimo uomo.

Abbiamo visto i tedeschi che si ritirano facendo terra bruciata, Stalin che fa marciare a Mosca 60.000 prigionieri tedeschi in segno di disprezzo, il mancato attentato al Führer, il suicidio di Rommel con gli onori di Stato, lo shock dei campi di concentramento e i corpi degli ebrei seppelliti dai bulldozer, la conquista di Berlino nel maggio 1945. Chissà, prima o poi ci sarà una puntata de «La Grande Storia» dedicata all’invasione russa dell’Ucraina: si comincia a parlare di genocidio, del massacro dei civili compiuto a Bucha, di centinaia di attacchi a strutture mediche, di pericolose incursioni alle centrali nucleari, delle deportazioni di bambini in Russia, delle esecuzioni extragiudiziarie, di uso di bombe a grappolo e bombardamenti su insediamenti civili, di detenzioni arbitrarie di giornalisti. Per carità, nessun parallelismo fra Hitler e Putin. Toccherà agli storici stabilirne però il grado di abiezione.

Hiroshima e Nagasaki: il Giappone si era arreso ben prima delle atomiche...Piccole Note il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

Mamoru Shigemitsu, ministro degli esteri giapponese, firma la resa il 2 settembre 1945 davanti al generale Douglas MacArthur

I giapponesi avevano chiesto la resa alcuni mesi prima del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki. A rivelare, anzi ricordare, questa pagina tremenda della Seconda guerra mondiale è David Payne sul National Interest, che ripesca dagli archivi una parte di storia dimenticata quanto orribile.

“Uno dei più grandi miti popolari della seconda guerra mondiale –  scrive Payne –  è che Truman non avesse altra scelta che sganciare le bombe atomiche sul Giappone perché i giapponesi erano disposti a combattere fino all’ultimo uomo e che sganciare le atomiche ha salvato la vita a un milione di soldati statunitensi che sarebbero morti in un’invasione delle isole giapponesi”.

“In realtà, l’esercito degli Stati Uniti all’epoca stimò che l’invasione su vasta scala del Giappone avrebbe comportato la morte di 44.000 i soldati. Ma la cruda verità è che i bombardamenti atomici statunitensi sul Giappone non hanno salvato la vita a nessun militare statunitense perché il Giappone aveva tentato di arrendersi già diversi mesi prima dei bombardamenti atomici, dopo la conquista da parte degli Stati Uniti dell’isola delle Marianne e l’inizio della campagna di bombardamenti dei B-29 sulle più grandi città del Giappone del luglio del ’44”,

Il Memorandum MacArthur

“Il generale Douglas MacArthur aveva raccolto cinque diverse richieste di resa di alto livello da parte dei giapponesi, che presentavano condizioni di resa praticamente identiche a quelle che abbiamo imposto loro sette mesi dopo, e le aveva inviate a FDR [Franklin Delano Roosevelt, ndr] nel gennaio 1945, poco prima della Conferenza di Yalta, in forma di un Memorandum di quaranta pagine. Purtroppo FDR le rigettò, osservando che ‘MacArthur è il nostro più grande generale, ma un modesto politico’”.

“Non è chiaro quale fosse esattamente la logica di FDR – aggiunge Payne -, dal momento che la resa del Giappone nel gennaio 1945 sarebbe stata accolta con grande sollievo dall’elettorato statunitense stanco della guerra, ma alcuni hanno ipotizzato che la decisione fosse dovuta al suo desiderio di prolungare il conflitto in modo da consentire ai sovietici di intervenire nella guerra del Pacifico e spartirsi con questi le conquiste territoriali”.

Motivazioni a parte, che potrebbero esser vere oppure no (come potrebbero essercene altre, ad esempio mostrare al mondo la Bomba che avrebbe consegnato l’egemonia globale agli Usa), la rivelazione del gran rifiuto resta ed è talmente sconvolgente che sembrerebbe frutto dell’abbaglio di un cronista che indulga al complottismo. Invece, le fonti che cita Payne sono più che solide.

“L’esistenza del Memorandum MacArthur – scrive Payne – è stata rivelata per la prima volta dal giornalista Walter Trohan sulle prime pagine del Chicago Tribune e del Washington Times-Herald quattro giorni dopo la resa dei giapponesi del 15 agosto”.

[Trohan] “Era stato costretto a tenerlo nascosto per sette mesi a causa della censura propria del tempo di guerra. Gli era stato consegnato in via riservata dal Capo di stato maggiore di FDR, l’ammiraglio William Leahy, il quale temeva che sarebbe stato classificato top secret per i decenni a venire o addirittura distrutto”.

“La sua autenticità non è mai stata messa in dubbio dall’amministrazione Truman. Come scrive l’ex presidente Herbert Hoover nelle sue memorie, Freedom Betrayed: Herbert Hoover’s Secret History of the Second World War and its Aftermath , la sua veridicità è stata confermata in ogni dettaglio dallo stesso generale MacArthur. Ed è stato confermata anche nel libro  How the Far East Was Lost di Anthony Kubek”.

“A parte alcune altre fonti conservatrici dell’epoca, la sua esistenza è stata in gran parte cancellata dai libri di storia approvati dall’establishment liberale, che ha cercato di nascondere verità tanto scomode di un conflitto che ha a lungo raccontato, travisando la storia, come ‘la buona guerra’”.

Payne dettaglia il numero impressionante di morti che la resa anticipata dei giapponesi avrebbe risparmiato: non solo le vittime di Hiroshima e Nagasaky, non solo i soldati americani e giapponesi e i civili nipponici caduti dal gennaio all’agosto del ’45, ma anche tutte le innumerevoli vittime, cinesi, giapponesi e russe, causate dalla guerra che si stava consumando in Cina, dove i cinesi avevano trovato il supporto dei sovietici contro i giapponesi. E probabilmente le vittime successive, causate dalla guerra civile cinese tra comunisti e nazionalisti e tanti altri.

Per non parlare del fatto che il venir meno dell’impegno nel Pacifico avrebbe presumibilmente accorciato i tempi dell’altro fronte, quello occidentale, e magari anche del calvario dei campi di sterminio nazisti, che negli ultimi mesi intensificarono la loro funesta attività…

L’altra guerra, dimenticata, del fronte asiatico

A tale rivelazione Payne fa seguire alcune considerazioni sull’influenza decisiva delle opinioni di MacArthur sul destino successivo del Giappone, al quale fu risparmiata la sorte della Germania, ma soprattutto, più interessante, sul ruolo che i sovietici ebbero sul fronte asiatico, spesso ignorato dai libri di storia.

Appare esagerato quanto scrive Payne, che cioè le atomiche influirono poco sulla decisione di Tokio di arrendersi (in realtà di arrendersi per la sesta volta, a stare ai documenti citati); e che i giapponesi “decisero di arrendersi incondizionatamente agli Stati Uniti il ​​15 agosto dopo la fulminea vittoria sovietica della ‘tempesta d’agosto’ in Manciuria”, che pure accelerò la resa (lo dice la tempistica).

Ma è pur vero che, nonostante fossero stati sconfitti da entrambe le potenze, essi decisero di arrendersi agli Stati Uniti, temendo che il loro Paese finisse smembrato come la Germania. Così i dividendi di quella vittoria, che costò vittime americane, cinesi e russe (e più russe e cinesi che americane), di fatto furono appannaggio soltanto degli Stati Uniti.

Forse è un bene, data la sorte toccata ai Paesi satelliti dell’Unione sovietica, ma insieme alle luci occorre tenere presente anche le ombre, che fanno del Giappone l’unico Paese asiatico a condividere la sorte della sovranità limitata che pesa su tanti Stati europei. Ma con i se non si fa la storia.

Resta che, al netto dei “se e dei ma”, questa pagina dimenticata/cancellata della Seconda guerra mondiale conferma le osservazioni di Hegel sulla tragedia della storia, che riportiamo: “Solo mettendo insieme esattamente le calamità sofferte da quanto di più splendido è esistito in fatto di popoli e di stati, di virtù private e di innocenza, e in tal modo si può spingere il sentimento sino al più profondo e inconsolabile cordoglio, che non è compensato da nessun risultato conciliante, e nei riguardi del quale noi organizziamo la nostra difesa o ricuperiamo la nostra libertà, solo pensando: – è andata così, è il destino; non c’è nulla da farci …”

“Ma pure quando consideriamo la storia come un simile mattatoio, in cui sono state condotte al sacrificio la fortuna dei popoli, la sapienza degli stati e la virtù degli individui, il pensiero giunge di necessità anche a chiedersi in vantaggio di chi, e di quale finalità ultima, siano stati compiuti così enormi sacrifici”.

I politici del '900 si trovano nel Limbo dei cattivi (attori). "La guerra è una sventura necessaria, purtroppo. È figlia di statisti scadenti ma, tutto sommato, a noi che cosa importa della politica se i nostri cari stanno male". Stefano Giani l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

«La guerra è una sventura necessaria, purtroppo. È figlia di statisti scadenti ma, tutto sommato, a noi che cosa importa della politica se i nostri cari stanno male». L'applauso internazionale di Locarno ad Alexander Sokurov è piovuto immediato alle parole del regista russo, che ha presentato al Festival del film il suo Fairytale, cioè favola, invitato anche a Cannes due mesi fa ma ritirato dallo stesso autore, convinto che la Croisette non fosse la sede più idonea per la sua ultima opera, ritenuta «troppo seria per la Costa Azzurra».

La fiaba, in realtà, è pretenziosa e a tratti ha il sapore di una caricatura. I grandi della terra del secolo scorso - Mussolini, Hitler, Stalin e Churchill - con l'aggiunta di Napoleone si ritrovano in una sorta di limbo in attesa di conoscere il loro destino nell'aldilà. Sono consapevoli della transitorietà della loro collocazione. Non si azzardano a pensare al paradiso. Sperano di evitare l'inferno. Il rebus resta in sospeso, vista l'ambientazione che sembra uscire dalle illustrazioni della Divina Commedia di Gustave Dorè, cui il taglio in bianco e nero disegnato allude con grande evidenza.

Il resto lo fa un montaggio che usa la dissolvenza a scopo non soltanto estetico o esteriore. È una forma di comunicazione che rende il cinema un medium, come insegnò Christan Metz e un esempio sta proprio nello sfumare le folle plaudenti all'indirizzo dei dittatori in un bianco nulla cosmico che, senza troppe verbosità, risulta decisamente eloquente degli effetti del totalitarismo sulla società, trasformata in massa informe, priva di volontà e autodeterminazione, strumento nelle mani del despota.

Non a caso il dialogo tra i grandi della terra è più frivolo ed effimero che importante. Mussolini arriva a celebrare la centralità del Vaticano più che l'importanza della religione o della fede, perché in fondo è un altro modo di fare politica. Sokurov si dissocia e preferisce ironizzare. «Se Lucifero avesse incontrato quegli uomini si sarebbe dimesso con effetto immediato» ha detto senza pensare forse a un'attualità, diversa dal '900 ma, per tanti versi, ugualmente inquieta e tragica.

Per un Churchill che usa una sorta di cellulare mastodontico per comunicare con Sua Maestà di cui si sente emissario, ecco spuntare tre interlocutori che fanno di un egocentrico personalismo la cifra del loro individuale spessore. Un dislivello appiattito da un eloquio che sorprende. I protagonisti usano infatti la loro lingua madre ma si comprendono perfettamente perché il limbo non ha ostacoli né confini. È un giudizio universale paralizzato che sembra non saper indicare una strada post mortem agli «attori» del secolo breve.

Il "guanto di velluto" che costò la guerra a Hitler. L'Operazione Dynamo, la miracolosa evacuazione dello sconfitto corpo di spedizione britannico dalle spiagge di Dunkerque, è forse la prima vittoria degli Alleati contro l'esercito di Hitler, che commise il suo primo grande sbaglio. Davide Bartoccini su Il Giornale il 28 Luglio 2022.

La sabbia chiara e fredda, sulla quale si estinguono una dopo l'altra le onde grigie della Manica, è sommersa di elmetti sporchi e stanchi. Somigliano a scodelle di latta, per quanto gli ufficiali abbiano sempre preferito chiamarle "bombetta da battaglia". Dunkerque - o Dunkirk che dir si voglia - , cittadina costiera francese che dista soli dieci chilometri dal Belgio, è letteralmente l’ultima spiaggia per il British Exeditionary Force, di ciò che resta dell’Armée de terre e degli sbandati del piccolo Esercito belga.

Sono stati travolti dall’avanzata della Wehrmacht che, efficiente e potentissima, li ha chiusi in un una sacca di meno di centro chilometri quadrati e potrebbe travolgerli da un momento all’altro. Ripiegamento dopo ripiegamento, 300.000 uomini si sono riuniti dietro al perimetro difensivo in attesa d'essere evacuati sotto i bombardamenti incessanti che vengono portati - in picchiata - dai Stuka della Luftwaffe: che li tormentano come topi in un barile di sabbia. Quello era lo stato delle cose, al preludio della più grande missione di evacuazione mai vista nella storia: l’Operazione Dynamo.

A seguito dell’offensiva tedesca (Operazione Fall Gelb, ndr) che attraverso l’avanzata irrefrenabile delle Panzer-Division costrinse il contingente Anglo-franco-belga ad attestarsi sulla Linea di Lys per ripiegare verso zona costiera di Dunkerque, lo Stato Maggiore britannico, certificata la completa incapacità di resistere ad una ulteriore offensiva, diede l’ordine di ammassare mezzi e uomini in prossimità delle spiagge per consentirne il ritorno in Inghilterra. Dove con buona probabilità la battaglia sarebbe proseguita di lì a poco tempo.

Esposti al continuo fuoco dell’artiglieria e ai continui raid dei bombardieri della Luftwaffe, migliaia di uomini allo sbando si riunirono dopo aver ricevuto l'ordine di raggiungere la costa il prima possibile. Fu così che sulla spiaggia di Dunkerque, presto di ritrovarono intere colonne di mezzi leggeri e centinaia di distaccamenti, gruppi, brandelli di reggimenti disgregati e diversi, che, spalla a spalla, attendevano l'arrivo delle navi da guerra della Royal Navy per essere portati in salvo. Alle più diverse unità navali militari, tra le quali si annoveravano non solo navi convoglio e per il trasporto truppe, ma incrociatori, cacciatorpediniere, motovedette e lance di ogni genere, si unirono mercantili, traghetti, navi postali, imbarcazioni civili, navi da pesca e yacht privati, addirittura a vela.

La grande flotta finì per contare un totale di 693 imbarcazioni - la più piccola, fu un gozzo di 4 metri e mezzo chiamato Tamzine - e salpò temerariamente da tutti i porti dell’Inghilterra meridionale per attraversare la Manica, raggiungere la Francia e poi rifare in gran fretta rotta su Dover. Ad attenderla, ci sarebbero state le bombe da 500kg dei bombardieri in picchiata Ju-87 "Stuka", le raffiche di mitragliatrici e cannoncino dei caccia Bf-109 "Emil", le Schnellboote della Kriegsmarine, e sotto di loro, nelle profondità oscure della Manica, i temibili u-boot pronti a lanciare i loro siluri sul bersaglio.

Il più grande salvataggio della storia

Il 27 maggio, sotto il comando dell’Ammiraglio Bertram Ramsey, l’Operazione Dynamo ebbe. Sotto violenti bombardamenti i primi 7.100 soldati vennero rimpatriati, ma le perdite si mostrano ragguardevoli, e risultò subito chiaro che operare nelle ore diurne si sarebbe dimostrato un suicidio. Terrorizzati dalle incursioni degli aerei nemici, gli uomini che non rimanevano uccisi dalle raffiche dei caccia e dalle schegge delle bombe, si lanciavano in mare anche non sapendo nuotare. La morte sopraggiungeva così ugualmente puntuale, attraverso l'annegamento. Ovunque navi stipate di soldati saltavano in aria dopo aver urtato le mine francesi o dopo essere state centrate da siluri e bombe. Più duecento battelli non faranno ritorno. Scompariranno sul fondo della Manica; lasciando in superficie solo enormi chiazze di nafta infuocata, e cadaveri con indosso uniformi khaki inzuppate, che una volta spezzatisi gli scafi riaffiorano, uno dopo l'altro, con i loro salvagenti ancora ben stretti alla vita.

La Royal Air Force – che venne accusata dai soldati inglesi di non contrastare in maniera efficace gli attacchi aerei nemici – schierò a rotazione 32 squadriglie di caccia Hurricane, Spitfire, Defiant e bombardieri medi. Questi ultimi spesso volando sopra le nuvole basse della Manica per intercettare il nemico, non venivano neanche visti, ma oltre cento velivoli vengono abbattuti tra le fila delle due fazioni in duello nell'aria. Mentre i pezzi di artiglieria inglesi schierati lungo la linea trincerata voluta dal generale Gort, iniziano a finire le munizioni, e i Panzer II e Panzer IV affiancati dai blindati della SS "Totenkopf" Division guadagnano terreno sulla testa di ponte alleata.

Il 30 di maggio altri 54.000 uomini vengono tratti in salvo grazie all’intervento dei cacciatorpediniere della Marina britannica. La situazione, tuttavia, era prossima al collasso, e le perdite tra navi e uomini proibitive. Per i nove giorni di Dynamo i viaggi per evacuare il corpo di spedizione britannico e ciò che resta dell'armata francese proseguono comunque ininterrottamente. Termineranno il solo 4 di giugno, quando gli ultimi soldati dell’Armée salperanno alla volta di Dover.

Il risultato - inaspettato - finirà per sbalordire anche i più pessimisti: 338.226 uomini, dei quali 198.229 britannici e 139.997 francesi e belgi riuscirono a trovare la salvezza oltre la Manica. Ben 34.000 soldati invece, giunti troppo tardi al rendez-vuos sulla spiaggia di Dunkerque, proprio mentre la città che cadeva sotto il completo controllo dei tedeschi, saranno costretti ad arrendersi. Sul fondo della Manica invece, erano finite la HMS Grafton, HMS Granade, HMS Wakeful, HMS Basilisk, HMS Havant, HMS Keith, della Royal Navy; la Bourrasque, la Sirocco, Le Foudroynat della Marine National che ancora non era ancora fedele a Vichy. Accanto a loro, giacevano i relitti di decine di navi civili e mercantili di vario tonnellaggio, che avevano deciso di servire la patria e la causa. Al loro timone in molti casi erano rimasti stessi audaci e caparbi capitani e marinai della domenica. Eroi per un giorno.

Un'occasione di vincere la guerra perduta

Dopo aver travolto gli Alleati in una furiosa avanzata iniziata il 21 di maggio, le divisioni corazzate e meccanizzate agli ordini dei generali von Rundstedt e von Kluge - che avevano attraversato la Mosa prendendo Arras, Boulogne e Calais - si erano arrestati in attesa di procedere nella seconda fase dell’offensiva tedesca (Operazione Falb Rot, ndr). Questa scelta, giustificata come una "pausa" da concedere ai loro uomini che potevano "prendersela comoda" dinnanzi a un nemico alle corde, si rivelerà una rovinosa svista strategica delle conseguenze inimmaginabili. I pochi giorni di tregua, infatti, permisero infatti al corpo di spedizione britannico di riorganizzarsi in attesa dell’evacuazione. Complice di questa tregua fu anche il Feldmaresciallo Göering, che spinse affinché Dunkerque fosse lasciata alla sua Luftwaffe.

Quella che sulla carta si palesava come una vittoria schiacciante ottenuta dai tedeschi, ormai padroni dell’Europa e ad un passo dall’annientamento dell’intero esercito britannico, verrà considerata da Winston Churchill come un "miracolo" dinnazi la Camera dei Comuni che udì il suo ormai noto discorso. Nella stessa occasione, conscio dell’inevitabile prossimità dell'invasione del Regno Unito, pronunciò la celebre frase: “Noi li combatteremo sulle spiagge...". Spiagge sulle quali i tedeschi, tuttavia, non avrebbero mai messo piede per la poca capacità logistica nel campo delle operazioni anfibie e grazie alla tenacia di quei pochi piloti della RAF che si batteranno duramente nei duelli tra le nuvole durante la Battaglia d’Inghilterra. Molti degli uomini che attraversarono la Manica nei giorni di Dynamo, sconfitti sul campo, zuppi di mare e feriti nell'orgoglio, quattro anni dopo riattraverseranno quella stesso mare per assaltare le spiagge della Normandia. qQando si bagneranno di nuovo i piedi nelle acque di Francia, a Sword, Gold e Juno Beach, con un solo obiettivo da raggiungere: Berlino.

Giallo nero La misteriosa scomparsa di un gerarca nazista nella omertosa Germania del 1949. Philip Kerr su L'Inkiesta il 26 Luglio 2022.

In “L’uno dall’altro”, il detective della saga di Philip Kerr è sulle tracce di un ex funzionario della Gestapo che dirigeva uno dei lager più feroci della Polonia. Il lavoro sembra semplice, ma si rivela un viaggio nella coscienza collettiva di una nazione che vuole dimenticare il sui passato. 

Non lo dubitai neppure per un attimo. Era fin troppo facile immaginarla con una corta sottoveste bianca e una corona di alloro sui capelli a fare cose interessanti con un cerchio in un bel film di propaganda per il dottor Goebbels. Il vigore femminile non è mai apparso così biondo e pieno di salute come a quei tempi.

«Sarò onesta con lei, Herr Gunther». Si toccò un occhio con l’angolo del fazzoletto. «Friedrich Warzok non era un brav’uomo. Durante la guerra ha fatto delle cose terribili».

«Dopo Hitler, non c’è nessuno di noi che possa dire di avere la coscienza pulita».

«È molto gentile da parte sua dire questo. Ma ci sono cose che uno deve fare per sopravvivere. E poi ce ne sono altre che non riguardano affatto la sopravvivenza. Questa amnistia della quale si discute in Parlamento… non includerebbe mio marito, Herr Gunther».

«Non ne sarei troppo sicuro», dissi. «Se uno malvagio come Erich Koch è pronto a rischiare di uscire allo scoperto per rivendicare la protezione della nuova Legge fondamentale, allora chiunque potrebbe fare lo stesso. Non importa cosa abbia fatto».

Erich Koch era stato governatore della Prussia orientale e commissario del Reich in Ucraina, dove erano state compiute azioni terribili. Lo sapevo perché ne avevo viste un bel po’ con i miei occhi. Koch contava sul fatto di ricevere protezione dalla nuova Legge fondamentale della Repubblica Federale, che proibiva sia la pena di morte che l’estradizione per tutti i nuovi casi di crimini di guerra. Koch era tenuto prigioniero nella zona britannica. Il tempo dirà se abbia preso una decisione accorta o no.

Cominciavo a vedere dove si sarebbero avviati questo nuovo caso e la mia professione. Il marito di Frau Warzok era il mio terzo nazista nella fila. E grazie alle simpatie di Erich Kaufmann e del barone von Starnberg, dal quale avevo ricevuto una lettera personale di ringraziamento, sembrava che fossi diventato l’uomo da cercare, se il problema riguardava una giacca rossa o un criminale di guerra latitante.Non mi piaceva molto. Non era per quello che ero tornato a fare il detective privato. E avrei buttato fuori Frau Warzok se fosse rimasta lì a dirmi che suo marito non aveva niente di personale contro gli ebrei, o che era semplicemente una vittima di “giudizi storici”. Ma fino a quel momento, non mi aveva detto cose del genere. Piuttosto il contrario, visto ciò che continuò a raccontare.

«No, no, Friedrich è un uomo diabolico», disse. «Non dovrebbero mai concedere un’amnistia a un uomo così. Non dopo quello che ha fatto. E si merita tutto ciò che gli accadrà. Niente mi farebbe più piacere di sapere che è morto. Mi creda».

«Oh, le credo, le credo. Perché non mi dice che cosa ha fatto?».

«Prima della guerra era nei Freikorps, poi nel partito. Poi si arruolò nelle SS e raggiunse il grado di Hauptsturmführer. Fu dislocato nel campo di Janowska, in Polonia. E lì fu la fine dell’uomo che avevo sposato».

Scossi la testa. «Non ho mai sentito parlare di Janowska».

«Se ne rallegri, Herr Gunther», disse. «Janowska non era come gli altri campi. Nacque come un complesso di fabbriche che facevano parte delle Officine belliche tedesche, a Leopoli. Utilizzava condannati ai lavori forzati, ebrei e polacchi.

Nel 1941, circa seimila. Friedrich andò là all’inizio del 1942 e, almeno per un po’ di giorni, io andai con lui. Il comandante era un uomo di nome Wilhaus, e Friedrich divenne il suo assistente. C’erano circa dodici o quindici ufficiali tedeschi come mio marito. Ma la maggior parte delle SS, le guardie, erano russi che si erano arruolati volontari nelle SS per sfuggire ai campi dei prigionieri di guerra». Scosse la testa e aumentò la stretta sul fazzoletto, come per strizzare dal cotone delle memorie lacrimevoli. «Dopo che Friedrich raggiunse Janowska, arrivarono altri ebrei. Molti ebrei. E la filosofia – se posso usare una parola simile per Janowska – la filosofia del campo cambiò.

Fare in modo che gli ebrei producessero munizioni divenne molto meno importante che, semplicemente, ucciderli. Non era lo sterminio sistematico in uso ad Auschwitz-Birkenau. No, si trattava di ammazzarli individualmente in qualsiasi modo una SS desiderasse. Ogni SS aveva il suo metodo preferito per uccidere un ebreo. E tutti i giorni c’erano fucilazioni, impiccagioni, annegamenti, impalature, sbudellamenti, crocifissioni… sì, crocifissioni, Herr Gunther. Non lo può immaginare, giusto? Eppure è vero. Alcune donne furono accoltellate a morte, o fatte a pezzi con le accette. I bambini venivano utilizzati come bersagli da allenamento. Ho sentito la storia di una scommessa su come un bambino potesse essere diviso in due con un solo colpo d’ascia. Ogni SS era obbligato a tenere il conto di quanti ne aveva ammazzati, così che si potesse compilare una lista. Sono state uccise in quel modo trecentomila persone, Herr Gunther. Trecentomila persone uccise brutalmente, a sangue freddo, da sadici che ridevano. E mio marito era uno di loro».

Mentre parlava non guardava me, ma il pavimento, e non ci volle molto tempo perché una lacrima scendesse giù per la lunghezza del suo bel naso e cadesse sul tappeto. Poi un’altra.

«A un certo punto non sono sicura di quando sia successo, perché Friedrich dopo un po’ smise di scrivermi – ha preso il comando del campo. E sono certa di ciò che dico, quando dico che sotto di lui le cose continuarono ad andare come erano sempre andate. Mi scrisse una volta per farmi sapere che Himmler aveva visitato il campo e che era rimasto molto soddisfatto di come fossero migliorate le cose a Janowska. Il campo fu liberato dai russi nel luglio del 1944. Wilhaus adesso è morto. Penso che lo abbiano ucciso i russi. Fritz Gebauer, che aveva comandato il campo prima di Wilhaus, è stato processato a Dachau e condannato all’ergastolo. È nella prigione di Landsberg. 

“L’uno dall’altro”, di Philip Kerr, Darkside (Fazi Editore), 442 pagine, 15 euro

La storia degli uomini che tentarono di uccidere Hitler. E perché l’Operazione Valchiria fallì. Carlo Galli su La Repubblica il 19 Luglio 2022.

A Rastenburg, subito dopo il fallito attentato: alle spalle di Hitler a sinistra Martin Bormann, a destra (con la testa fasciata) il generale Alfred Jodl  

Il tentativo di uccidere Hitler avvenne il 20 luglio 1944 a Rastenburg. E dimostrò come il tiranno può essere sconfitto solo dalla politica.

"Chiedo al mondo di accogliere il nostro martirio come una penitenza del popolo tedesco". Così Carl Goerdeler, ex borgomastro di Lipsia, mentre veniva impiccato, il 2 febbraio 1945, dopo essere stato torturato per mesi dalla Gestapo. Era coinvolto ai livelli più alti (avrebbe dovuto essere il nuovo Cancelliere) nella Operazione Valchiria, la cospirazione prevalentemente militare che era arrivata a fare esplodere una bomba quasi ai piedi di Hitler, a Rastenburg, la remota località della Prussia orientale in cui il Führer aveva installato il proprio quartier generale, la "Tana del lupo".

"Deutschland über Allah" La guerra santa del Kaiser. Matteo Sacchi il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.

Un saggio di Peter Hopkirk racconta i tentativi di ribaltare, a Oriente, il primo conflitto mondiale.

Se si guarda una foto del Kaiser tedesco Guglielmo II (1859-1941), con l'alta uniforme ed i baffi a manubrio, si stenta a credere che anche la più spericolata delle spie, il più funambolico degli agenti propalatori di sommosse, abbia cercato di farlo passare per un converso segreto dell'Islam, la spada venuta da Occidente per scacciare l'oppressione britannica e francese dai territori soggetti alla legge del profeta Maometto, la pace su di lui.

Eppure... Eppure furono queste le bugie che il carismatico e spietato agente tedesco Wilhelm Wassmuss (1880-1931) usò per sobillare parte della popolazione persiana contro gli inglesi durante la Prima guerra mondiale. Contattò i capi tribù Tangistani raccontando della conversione segreta all'Islam del Kaiser, e della maggioranza dei tedeschi. Avendo perso tutte le sue attrezzature mentre gli inglesi lo braccavano, si era costruito una finta radio, aveva in pratica solo un'antenna e un magnete da cui far partire delle scintille. Con questi eseguiva spettacoli da prestigiatore con cui ingannava i capi tribali, inventando incredibili conversazioni con Berlino e messaggi diretti dall'imperatore tedesco a ciascuno di loro.

Abbastanza per trasformare Wassmuss nel Lawrence tedesco, una vera spina nel fianco dei britannici per gran parte della guerra. Quello che abbiamo appena raccontato è soltanto uno dei tanti tasselli del tentativo espansionistico prussiano verso il Medioriente e l'Asia che si possono leggere in Servizi segreti a oriente di Costantinopoli (Edizioni Settecolori, pagg. 564, euro 32). Questo saggio firmato da Peter Hopkirk (1930-2014) ricostruisce nel dettaglio il drang nach Osten che la Germania guglielmina sognava di mettere in atto, arrivando all'idea di minare la potenza britannica colpendola direttamente nel cuore economico dell'impero: l'India.

Hopkirk, reporter e viaggiatore espertissimo di Asia e premiato dalla Royal Society, racconta con piglio puntuale ma sempre divertente una vicenda complessa, e relativamente poco nota nei suoi dettagli e che va oltre quello che, tradizionalmente, gli storici chiamano il Big game per il controllo dell'Asia centrale. Se di questa partita geopolitica è sempre stato molto raccontato lo scontro tra britannici e russi, messo in sordina ai primi del novecento per le nuove tensioni con gli Imperi centrali, oppure l'avventura di Lawrence d'Arabia che contribuì a detonare l'Impero turco, il ruolo tedesco è stato spesso soltanto accennato. Eppure fu determinante.

Sin dalla caduta di Otto von Bismarck (lasciò il cancellierato nel 1890) una parte dell'intellighenzia tedesca iniziò a progettare un piano ardito per minacciare il dominio inglese nel continente indiano. Le mosse fondamentali?

Un'alleanza con la Turchia che consentisse di minacciare il Canale di Suez e di costruire una ferrovia che dalla Germania arrivasse al Golfo persico. Da lì rifornire e finanziare qualunque movimento di rivolta nell'India britannica. E ancora sfruttare l'autorità religiosa del sultano turco, formalmente il capo supremo dell'Islam, per far scoppiare una guerra santa che coinvolgesse i seguaci del profeta Maometto in tutti i domini e i protettorati dei britannici.

Un piano folle su cui scherzare come fece il giornale satirico Punch con il titolo «Deutschland über Allah!»? No davvero. La spinta tedesca all'ingresso della Turchia in guerra fu davvero fortissima. La rocambolesca missione tedesca per trascinare in guerra l'Afghanistan, capitanata da Werner Otto von Henting, e minacciare da nord l'india velleitaria. Ma fece tremare a lungo Londra. I piani tedeschi per sovvenzionare vari ribelli indiani crearono una rete terroristica che produsse attentati a Londra e finì per generare imbarazzo diplomatico persino negli Stati uniti, dove si trovava una consistente ed arrabbiata comunità Sikh. Dagli Usa tentarono di rimpatriare in migliaia, sperando nelle armi tedesche e finirono arrestati o confinati grazie all'efficiente sistema di sorveglianza britannico. Il risultato fu un'incredibile scia di sangue, una tremenda serie di rovesci militari ottomani e anche l'inizio di una serie di scontri etnici pagati carissimi dagli Armeni e anche dalla popolazione greca d'Anatolia.

Ma non solo tedeschi, questa guerra di spie che dopo la caduta della Russia e la sua frammentazione, la storia spesso ritorna sugli stessi percorsi, costrinse i britannici ad intervenire in Azerbaigian in un complesso gioco di equilibri tra Russia e Turchia. E si concluse nuovamente nel sangue.

Seguendo Hopkirk in questa lunghissima narrazione ci si trova a seguire l'evoluzione di una sciarada mortale che traccia un percorso diverso a quello di libri famosi sulla Prima guerra mondiale, come ad esempio Sonnambuli di Christoper Clark.

Difficile dire che l'entourage di Guglielmo II e molti degli intellettuali tedeschi che spinsero per la grande impresa ad Oriente non avessero le idee chiare sui loro scopi. Paul Rohrbach ad esempio scriveva: «Ove riposa il destino della Germania? Riposa a Est, in Turchia... in Mesopotamia... in Siria». E non era certo una voce isolata, c'era chi desiderava un’espansione sino alla Cina basta prendere atto di cosa disse l'ammiraglio Tirpitz (l'autore della corsa alla guerra navale che precipitò il conflitto a von Bülow dopo aver occupato il porto cinese di Tsingtao: «Centinaia di migliaia di cinesi tremeranno quando sentiranno il pugno di ferro della Germania sul collo, mentre l'intera nazione tedesca sarà felice che il proprio governo abbia compiuto un atto virile». La flotta d'acciaio e la linea d'acciaio della ferrovia Berlino - Baghdad portarono ad esiti ben diversi. Non bastarono le eroiche e fantasiose spie tedesche a cambiare il destino. I loro precisi piani annegarono nel marasma d'Oriente, un marasma che gli inglesi conoscevano meglio, per pratica di lunga data e, in parte, per averlo anche provocato, con il più classico divide et impera.

Seguire le rotte di questa lotta sotterranea dei primi decenni del Novecento non è soltanto un viaggio nel passato, che dimostra che la realtà è superiore a qualsiasi romanzo, ma anche un viatico a capire alcuni dei percorsi sotterranei, delle linee di forza, che caratterizzano ancora il presente.

La visita di Hitler a Roma: ritrovate 38 foto inedite. Giacomo Galanti su La Repubblica l'8 Luglio 2022.

Il prezioso album fotografico è stato sequestrato dai carabinieri nel 2020. Ora è stato restituito agli archivi di Cinecittà

Trentotto foto per documentare i preparativi di una giornata particolare: la visita di Adolf Hitler a Roma. Nei primi giorni di maggio del 1938 infatti il dittatore tedesco fu accolto dagli alleati italiani nella Capitale e sfilò insieme a Benito Mussolini su via dei Fori imperiali. Ora quell’album fotografico, con una trentina di immagini in bianco e nero della Capitale in attesa del Fuhrer, è stato restituito all’Archivio storico Luce a Cinecittà.

 I fantasmi giapponesi: uomini in guerra con il tempo. Davide Bartoccini il 7 Luglio 2022 su Il Giornale.

Furono moltissimi i soldati dell'imperatore a non abbandonare le loro postazioni a guerra finita. Molti credevano che le notizie della resa fossero menzogne degli Alleati. Altri non ricevettero più alcuna notizia né ebbero contatti con il mondo esterno.

Birmania, Malesia, Borneo, Filippine, Thailandia, Manciuria, una distesa di isole e atolli sperduti nel tratto di Pacifico che divide il continente dalle Hawaii e via giù, fino a lambire la Nuova Guinea. Questa la massima espansione dell’Impero del Sole Nascente, il Giappone, che finì per trascinare gli Stati Uniti d'America nella Seconda guerra mondiale. Le sorti del conflitto, ben note, portarono a un graduale ripiegamento dell’esercito giapponese. Ma qualcuno, in quella distesa infinita di isole, rimase disperso dietro le linee senza radio e senza approvvigionamento, o peggio. E alla divulgazione della resa e della firma dell’armistizio con gli Alleati, non volle credere ai comunicati, ai cifrati, alle migliaia di volantini lanciati dagli aerei nemici in tutto il Pacifico sotto il dominio nipponico.

Per loro era soltanto un piano della propaganda nemica, una menzogna inaccettabile: subdola tattica che li avrebbe spinti a una resa disonorevole. La guerra, per tutti quei figli dell’Impero non poteva essere finita così. Per lo loro il conflitto sarebbe continuato fino alla morte, secondo il codice etico del Bushidō. E inizia qui la storia dei "fantasmi giapponesi".

Chi ha adorato il film di Sergio Corbucci "Chi trova un amico trova un tesoro" non dovrà sforzarsi troppo per capire chi sia stato un fantasma giapponese. Dal 1945 al 1989, migliaia di soldati che avevano prestato il giuramento all'imperatore Hiroito di non arrendersi per nessun motivo, rimasero attestati sulle loro posizioni finché il tempo non avrebbe svelato che tutto era finito. Rintanati nei bunker sotterranei puntellati dal bambù, negli avamposti più isolati, dispersi su isole disabitate dopo l’affondamento delle loro navi o lanciati da aerei abbattuti, alla macchia nella giungla per sfuggire al nemico o in attesa di nuovi ordini, tagliati fuori dalle comunicazioni e in attesa di approvvigionamenti e avvicendamenti che non giunsero mai, erano stati lasciati indietro dalla storia: zan-ryū Nippon hei.

Protagonisti di queste vicende incredibili sono stati i circa 15.000 membri di una divisione che si arrese nel 1949 in Manciuria. Ci fu Hiroo Onoda, arresosi nel 1974 sull'isola di Lubang dopo aver dato per decenni filo da torcere alle pattuglie di soldati filippini. Tra i "fantasmi" più noti ci furono anche Teruo Nakamura, arresosi 1974 a Morotai, Indonesia, Yokoi Shoichi, arresosi nel 1972 sull'Isola di Guam, Fumio Nakahira, fino al 1980 sull'isola di Mindoro, Filippine. Decisi a non cedere la loro katana al nemico in segno di resa , trovarono il modo di sopravvivere convinti dalla devozione a respingere per più di 30 anni un nemico che non sarebbe mai più tornato.

È questo l’epilogo comune di fantasmi che oltre ad una guerra hanno provato a combattere la storia, la stessa storia che forse non ci riporterà mai notizie di altri come loro; probabilmente deceduti e dimenticati per sempre dopo essere stati dati per dispersi. Forse nella fitta vegetazione di qualche sperduta isola che avete intravisto dal finestrino di voli di linea diretti verso qualche località esotica nel Pacifico. Magari su quell’isola solitaria, paradiso vuoto, c’è ancora uno di loro. Un fiero novantenne un poco acciaccato, che si nutre di bacche e pesca, che imbraccia un vecchio fucile Type 99 e che non ha mai visto lo schermo di un personal computer o il vassoio di un fast-food. Un uomo a cui è stata data la possibilità di fermare il tempo e rimanere nel nostro passato. Un onorevole soldato dell’Impero del Sol Levante che ha sacrificato tutta la sua vita per non tradire la parola data: quella di non indietreggiare. Mai.

Gli obiettivi dichiarati dalla Russia nella sua invasione dell’Ucraina rimangono il cambio di regime a Kiev e la fine della sovranità ucraina in qualsiasi forma essa sopravviva all’attacco russo, nonostante le battute d’arresto dei militari russi e la retorica che allude a una riduzione degli obiettivi della guerra dopo tali sconfitte”. Questo sarebbe il significato delle dichiarazioni rese ieri dal segretario del Consiglio di sicurezza russo Nikolai Patrushev, secondo l’Institute for the Study of War, il think tank dal quale i media mainstream Usa, e a ricasco quelli europei, dipendono per le loro notizie e analisi di guerra.

La nota dell’ISW, fedele al suo obiettivo guerrafondaio, conclude così la sua analisi: “La dichiarazione di Patrushev aumenta notevolmente l’onere per coloro che suggeriscono che sia possibile un cessate il fuoco tramite compromesso o addirittura una pace basata su limitati guadagni territoriali russi, anche se fosse accettabile per l’Ucraina o desiderabile per l’Occidente (e non è questo il caso)”. Così, quindi, il think tank guidato dai noti guerrafondai neocon sotto la guida di Kimberly e Frederick Kagan, Bill Kristol e i loro compagni di merende.

In realtà, alla notizia della conquista di Severodonetsk, Putin ha dichiarato esplicitamente che l’obiettivo della campagna russa è il Donbass (AdnKronos), facendo seguire a tali parole il ritiro da Snake Island, la porta di Odessa, confermando con i fatti le parole.

Ma alla follia neocon non c’è limite, né si riscontra un limite, se non in via eccezionale, nella dipendenza dei media mainstream dalle loro direttive (a proposito di autoritarismi e democrazie).

Si può riscontrare tale dipendenza da un particolare: per mesi i media hanno accusato la Russia di bloccare il grano ucraino nei porti del Mar Nero (con riferimento specifico a quello di Odessa) e, in tal modo, di essere responsabili del dilagare della fame nel mondo.

Dopo il ritiro da Snake Island, cioè la liberazione del porto di Odessa, questo tema è stato semplicemente rimosso dalla narrazione, nulla importando che, nonostante lo sblocco della situazione, nessuna nave ucraina sia partita col suo carico di grano dal porto in questione per sfamare il mondo; né si hanno notizie di uno sminamento da parte degli ucraini delle acque antistanti, che loro stessi hanno disseminato di tali ordigni… Tant’è.

Intanto, la Russia annuncia che ha distrutto due batterie di lanciamissili HIMARS nella regione di Lugansk… La Nato aveva assicurato, tramite politici e media, che tali sistemi d’arma avrebbero ribaltato le sorti del conflitto (vedi ad esempio AdnKrons: “Lanciarazzi Himars in Ucraina: perché possono cambiare la guerra”).

E su tale assunto hanno fondato la necessità di continuare questa guerra che, se invece è persa, sarebbe inutile, anzi controproducente, proseguire (inutile strage, inutili le sofferenze globali causate delle sanzioni, sprecati i soldi dati alle industrie delle armi).

Ad oggi pare siano stati inviati in Ucraina una decina di HIMARS, otto americani e due britannici (almeno stando agli annunci, troppo spesso caotici). Ma alcuni di essi potrebbero non essere ancora arrivati o, se giunti, non ancora pervenuti al fronte, da cui la possibilità che siano distrutti prima ancora di essere usati in battaglia, come capita ad altri armamenti Nato,

D’altronde era ovvio immaginare che, se anche fossero stati risparmiati dal fuoco preventivo, una volta che fossero giunti destinazione e avessero iniziato a sparare venissero subito individuati, diventando così il target più rilevante per i missili russi.

Invano abbiamo cercato la notizia della distruzione di tali armamenti su fonti d’Occidente, essendo stata rilanciata solo dall’ignoto bulgarianmilitary.com.

Tale oblio può essere spiegato facilmente: non si tratta solo di un rovescio sul piano militare, ma del crollo dell’intera narrativa sulle magnifiche sorti e progressive di questa guerra per procura, che gli HIMARS hanno rilanciato.

Se vera la notizia (e tale sembra), c’è da inventarsi un’altra narrativa sulla vittoria ucraina, ma dopo mesi passati a contrabbandare quella legata all’invio dei magici lanciarazzi, è davvero arduo.

Così trattare col nemico resta l’unica via per evitare un’inutile ulteriore distruzione dell’Ucraina e che la frustrazione di neocon e compagni spinga la Nato a interventi più diretti e incisivi, cioè all’escalation. Non si tratta di essere pacifisti a oltranza, ma semplicemente realisti, come nel caso di Henry Kissinger.

Leopoli del 1941 e le truppe tedesche. Il luglio infuocato che fa ripensare a oggi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Luglio 2022

«Leopoli e Libau occupate dalle truppe tedesche» titola La Gazzetta del Mezzogiorno del 1° Luglio 1941. Inizialmente appartenente alla Polonia, poi all’Impero asburgico, Leopoli era capitale della storica regione russo-polacca della Galizia. La sua popolazione era principalmente ucraina di religione greco-ortodossa. Fu conquistata dai russi durante la Prima guerra mondiale, ma nel 1919, concluso l’armistizio, passò ancora una volta in territorio polacco.

Con l’invasione della Polonia del settembre 1939, Leopoli subì un primo attacco da parte dell’esercito nazista e contemporaneamente da parte dell’Armata Rossa. Arresasi al maresciallo Timošenko, entrò a far parte dell’Ucraina sovietica. Con l’avvio dell’«Operazione Barbarossa», cioè l’invasione dell’Unione Sovietica da parte della Germania, nel giugno 1941 il destino della città ancora una volta mutò.

Ecco il comunicato diffuso dal Comando supremo delle forze armate tedesche: «Le truppe tedesche che avanzano in Galizia hanno occupato Leopoli. Al centro del fronte dell’esercito l’anello, stretto intorno alle armate sovietiche rinchiuse, si stringe sempre di più. L’ala settentrionale si trova in rapido inseguimento. Sulla costa è stata presa la città di Libau». Sulla Gazzetta si legge ancora: «Le popolazioni dell’Ucraina accolgono i soldati del Reich con entusiastiche dimostrazioni».

Si tratta, naturalmente, di pura propaganda: l’occupazione tedesca nella città sarà durissima e due mesi dopo, nell’agosto 1941, alcuni professori dell’università Jan Kazimierz saranno massacrati dalla Gestapo insieme ad altri intellettuali polacchi.

Mentre in Europa orientale si combatteva, a Bari si incontravano i ragazzi dell’organizzazione sportiva della Gioventù italiana del Littorio e della Hitlerjugend, l’omologa tedesca. «I camerati della HitlerJugend in visita turistica» titola il pezzo in seconda pagina.

«I giovani della Hitlerjugend e della Gil, dopo le tre giornate di cavalleresca contesa, hanno trascorso ieri l’ultimo giorno di permanenza tra noi dedicandolo a visitare i maggiori centri turistici della provincia, unitamente ai loro dirigenti e alle autorità, nel più schietto cameratismo». Il gruppo ha visitato le grotte di Polignano e quelle di Castellana, «rimanendo ammirati dello straordinario spettacolo». Ad Alberobello, inoltre, hanno potuto ammirare anche le opere del Regime e «il popolo ha inneggiato con vibrante entusiasmo al Duce, al Führer e alla vittoria dell’Asse».

Ho incontrato Hitler, non esprimeva sentimenti Il volto ermetico, diafano, lontano come lo sguardo. Indro Montanelli su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

Il racconto dal fronte tra Germania e Polonia, poco dopo lo strozzamento del Corridoio. Il Führer era venuto come promesso a condurre i suoi soldati. Semplicemente vestito nella sua uniforme grigioferro con la decorazione della croce, un esiguo seguito, modestissimo. Era venuto per essere con i suoi al momento del passaggio della Vistola, momento sacro nella storia tedesca. Non ha voluto onori né saluti né squilli di tromba. È apparso e scomparso, un soldato fra tanti. 

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dal numero di «7» in edicola il 24 giugno, vi proponiamo questa corrispondenza di Indro Montanelli, che apparve sul quotidiano nel settembre 1939. Buona lettura 

Prendete una carta. Vedete sul lato meridionale del Corridoio là dove questo si slarga per poggiare meglio e con più larga base sul troncone espanso della Polonia, vedete quasi attaccata alla Prussia Orientale, sulla riva della Vistola, una città di nome Graudenz? Bene, in questa città e nei suoi dintorni si sono ricongiunti oggi i due gruppi di armate che, muovendo uno dalla Pomerania con direzione est e l’altro dalla Prussia Orientale con direzione sud-ovest, avevano fissato come obiettivo di questa giornata lo strozzamento del Corridoio.

Da oggi dunque uno dei punti richiesti dal Führer per via diplomatica è stato acquisito al Reich con la forza delle armi: le truppe tedesche hanno agganciato il troncone mozzo della Prussia Orientale rinsaldandolo alla Patria. La sutura è un fatto compiuto. Ma non si creda che l’operazione sia stata indolore: i Polacchi hanno tenuto con i denti, non hanno sgombrato che quando il terreno ha cominciato a sfarinarsi e a bruciare sotto i loro piedi per il tambureggiare del cannone nemico e anche allora la ritirata non si è tramutata in fuga: rimorchiandosi dietro il materiale i morti e i feriti, scrupolosamente devastando il paese, sterilizzandolo di messi e di bestiame, senza mai volgere le spalle i Polacchi testardi hanno rinculato, opponendo all’avanzata avversaria un perfetto sbarramento di fucileria. È stata una catabasi prima verso est: poi, quando da est l’abile manovra di strozzamento tedesca ha fatto sorgere il pericolo della tenaglia con l’avanzata del gruppo di armate che come ho detto muovevano dalla Prussia Orientale, la ritirata ha volto verso sud e ha cercato di tamponare la falla di Bromberg.

L’inizio delle operazioni

Carta alla mano cerchiamo di dare un’idea la più possibile chiara della situazione generale. Le operazioni militari sono cominciate il 1° settembre alle 5.45. Alle 5.45 tutto il fronte si è messo in movimento con perfetta sincronia. I punti di forza sono cinque: essi corrispondono altrettanti gruppi di armate: uno parte dalla Prussia Orientale con direzione nord-sud e punta deciso su Varsavia; il secondo è quello che partendo anch’esso dalla Prussia Orientale ha tagliato alla base come un tumore il Corridoio e si è ricongiunto a Graudenz con il terzo gruppo che muove dalla Pomerania; il quarto gruppo opera in Slesia con direzione nord-nord-est occupando tutto il bacino minerario e industriale di Kattowitz, il meglio attrezzato della Polonia; un quinto parte invece dalla frontiera slovacca con direzione sud-nord.

È una morsa che inesorabilmente stringe e soffoca convergendo verso il centro del paese nemico e la sua capitale. Una enorme tenaglia che ha i suoi punti di forza e di pressione ma che si chiude a cerniera senza soluzione di continuità. Finora le armate germaniche hanno operato in zona di lingua e di razza germaniche, un poco svuotata dai terrori della guerra, ma rapidamente ripopolantesi a misura che la conquista si estende e si consolida. La maggior pressione e, di contro, la più accanita resistenza si sono avute però sul fronte settentrionale e precisamente su questo di Bromberg ove noi ci troviamo da stamane all’alba.

Fino a qualche chilometro dalla linea del fuoco non ci siamo accorti della guerra; la notte era chiara e serena, freddissima, con una luna ottimista e «menabuono» in mezzo ad un cielo verniciato di fresco e quattro stelle, quattro sole, come quattro brillanti in vetrina. Tenuti svegli dalla brezza baltica e dall’ansia di arrivare e di vedere, ci accorgemmo solo per caso di un cartello, appiccicato di fresco, che stavamo passando il confine. Ma invano tendevamo l’orecchio per sorprendere il rombo del primo colpo di cannone. Il cannone taceva. Tacevano le mitragliatrici e i fucili i camioni gli aeroplani le motociclette gli zoccoli dei cavalli i fischietti di comando degli ufficiali. Taceva il cielo e la terra. Tacevamo anche noi per sorprendere e stupirci del silenzio di tutte queste cose che tacevano. Diavolo, pensavamo, dove è andata a finire questa guerra? 

La guerra era andata a finire a Bromberg. La città - una città di 100.000 abitanti che prima di Versaglia erano tutti tedeschi e ancora lo sono, in maggioranza, una città che fa da granaio di tutta la Polonia Occidentale - era caduta o stava per cadere in seguito alla manovra avvolgente.

I Polacchi la difendevano ancora, con ammirevole cocciutaggine, dall’insidia calante dal nord e forse la stanno difendendo anche in questo momento. Ma in questo momento un’altra insidia è spuntata dal sud dopo un movimento rapido e perfetto di divisioni motorizzate che sfilando sulle ali della resistenza avversaria la stanno prendendo a tergo rinserrandola nella tenaglia. Il territorio occupato fino qui è tedesco, tedesco si parla, tedesco si mangia, tedesco si saluta, tedesco si pensa. Quel po’ di polacco che c’è, insegne di negozi e nomi di strade, è appiccicaticcio e posticcio come una sbaffatura di rossetto su una gota di contadina. Se volete mangiare dovete chiedere: schwein, kartoffeln, kalb, ecc. E la vodka la considerano un lusso di importazione come da noi la sciampagna o il vin del Reno.

Ma tiriamo avanti con la guerra e tiriamo avanti in fretta se si vuole star dietro ai Tedeschi che ne hanno l’iniziativa. Sul fronte ove ci troviamo dunque la situazione è la seguente: il secondo e il terzo gruppo di armate, saldandosi a Graudenz come i due coltelli di una forbice, hanno fatto saltare via il Corridoio come un dito amputato. E le truppe polacche che vi si trovano dislocate fra Graudenz e il mare per tamponare una eventuale avanzata più a nord? Il loro destino è segnato. Quante siano queste truppe non si sa con precisione.

Guerra di movimento

Si parla di divisioni intere. Ma anche se si trattasse di una sola divisione, perderla così senza averla potuta neanche impiegare è un colpo che qualunque esercito accuserebbe, e particolarmente quello polacco, già così duramente provato. Mi sembra che questo irriducibile avversario non voglia arrendersi nemmeno all’evidenza: chiuso, si dibatte, si avventa a capo basso contro la trappola nell’assurdo tentativo di urtare in un punto di minore resistenza, che cedendo sotto il colpo consenta l’evasione e il ricongiungimento al grosso del battuto esercito. So solo che fino a questo momento sulla landa giallastra che si perde verso nord in direzione del mare nessuna bandiera bianca si è alzata; so solo che i comandi tedeschi considerano l’operazione che si sta svolgendo in questa strozzatura del Corridoio più come operazione di polizia, che come operazione militare vera e propria.

II cannone tuona in quella direzione, candide fumate si levano nel cielo terso, stormi da bombardamento trinciano l’azzurro. Ma i Comandi tedeschi non danno molta importanza a questo troncone avversario incapsulato nel ferro. Gli hanno volto le spalle. Intanto l’esercito di Hitler scende verso sud avvolgendo gli obiettivi con le motorizzate, di rado investendo i centri di resistenza, più spesso scivolandogli sopra e prendendoli a tergo con manovra geometricamente precisa, facendoli crollare con abile azione di erosione, sconvolgendo, sfaldando ogni cosa; situazioni che pare maturino da sè dall’interno. La guerra di movimento qui è in pieno gioco. Il terreno aiuta.

È una landa monotona, con qualche bosco di pini qua e là, ma senza appiglio per la difensiva. Aggrapparvisi è impossibile.

Procedendo verso sud sulle orme delle armate vittoriose abbiamo incontrato il Führer. Era venuto come aveva promesso a condurre egli stesso i suoi soldati, primo soldato della Germania. Semplicemente vestito nella sua uniforme grigioferro con la decorazione della croce con un esiguo seguito, modestissimo.

Era venuto per essere con i suoi al momento del passaggio della Vistola, momento sacro nella storia della Germania. Il suo volto non esprimeva né gioia né commozione né compiacenza. Sapete come è il volto di Hitler: ermetico, diafano, lontano come il suo sguardo. Tale era anche oggi.

È passato in direzione di Kulm e a Kulm si è fermato. Non ha voluto onori né saluti né squilli di tromba. È apparso e scomparso. Un soldato fra i tanti che vedevamo. Ma subito dopo il suo arrivo, è giunta fuori del bollettino la notizia della presa di Graudenz e del passaggio della Vistola. La tenaglia si stringe sempre più sul cuore della Polonia, la cerniera non ha soluzione di continuità. Balzati da cinque differenti trampolini, i gruppi di armate germaniche avanzandosi e dilatandosi a ventaglio si ricongiungono a formare una catena infrangibile. Da est giunge notizia di Mlawa caduta, da sud della caduta di Censtocau.

E i Polacchi? I Polacchi si battono bene. Un po’ vecchio stile, ma con decisa bravura. E i Tedeschi soldati di razza che amano i soldati di razza li guardano e ne parlano con franco rispetto. Di fronte al guerreggiare un po’ romantico dell’esercito polacco, le forze armate tedesche sono quanto più di razionalmente moderno si possa immaginare, irresistibili.

Più che un esercito sono una macchina che ha un movimento da orologio : una guerra che invece che sul terreno sembra combattuta sulla carta: una guerra che stranamente somiglia ai bollettini aridi secchi geometrici nei quali seralmente si riassume: una guerra silenziosa che t’impaura per la sua meccanicità, per questa sua fatalità. Un passo dopo l’altro, un passo uguale all’altro: i Tedeschi scandiscono la loro avanzata.

La prima linea

A ridosso della prima linea stamane non si udiva non si vedeva nulla. Un immobile silenzio ristava fra il cielo e la terra. Un cane latrava. Nakel abbandonata pareva morta per sempre. Un molino a vento immobile, dirigeva la sua sagoma funerea nel cielo incerto. Un treno si era acquattato in una gola angusta e pareva un animale antidiluviano disseppellito da un archeologo. Poi cominciò l’azione e non si udiva altro che un duetto, un terzetto di mitraglia. E poi il cannone che pareva sempre lo stesso. Un cannone aggrondato. E pareva che nessuno si muovesse. Non si vedeva nulla, se non qualche fumata bianchiccia verso est.

La notizia giungeva tardi: Graudenz caduta. La Vistola attraversata.

E ora a giornata finita c’è il silenzio di prima; l’immobile silenzio di stamane che ristà tra il cielo e la terra.

L’autore. Toscano di Fucecchio (Firenze), dove nacque nel 1909, Indro Montanelli fu giornalista e scrittore. Per il Corriere della Sera fu un vero e proprio simbolo e vi lavorò dal 1938 al 1973 e di nuovo dal 1995 al 2001, al termine dell’esperinza della Voce, quotidiano fondato dopo aver lascato il Giornale in contrast con il proprietario Silvi Berlusconi appena entrato in politica. Dal 1974 al 1996 fu sposato con la scrittrice Colette Rosselli. Nel 1977 fu ferito alle gambe in un attentato dalle Brigare Rosse.

Ladri di aerei nel Pacifico Davide Bartoccini il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.

Un incidente presso le isole Aleutine condusse a un'importante vittoria sul fronte del Pacifico. Da lì nacque un'unità di "ladri" di aerei che cercava i segreti dei caccia giapponesi

Se si tralascia il vantaggio concesso da una posizione favorevole al momento dell’ingaggio, in ogni duello aereo che si rispetti, l’abilità del pilota e le capacità tecniche del velivolo sono sempre i fattori fondamentali per decretare una probabile vittoria o una sicura sconfitta. Nel progredire della storia dell’aeronautica e della strategia militare, tuttavia, un altro fattore si è fatto spazio in campo tattico come “risolutivo”: la conoscenza, attraverso operazioni di spionaggio ben pianificate o fortuita casualità, delle caratteristiche dei velivoli avversari.

È questo il caso del famigerato “Zero di Akutan”: lo sfortunato caccia giapponese che svelò agli americani tutti segreti del più temibile aereo da combattimento impiegato nel Pacifico durante il secondo conflitto mondiale.

Il caso di Akutan

L'Akutan Zero, anche noto come Zero delle Aleutine, o Zero di Koga - dal nome del pilota dell’Aviazione navale dell’Impero giapponese a cui era stato affidato - è il protagonista di uno dei fortuiti casi che contribuirono in maniera decisiva nella vittoria degli Alleati. Si trattò infatti di un aereo da caccia imbarcato nipponico del modello Mitsubishi A6M “Zero” Type 21, che si schiantò sull'isola di Akutan, nella regione dell’Alaska, dopo aver condotto una missione di mitragliamento a bassa quota sulle isole Aleutine. La missione su Dutch Harbor avvenne in due riprese nella prima settimana del giugno del 1942. Mentre nel Pacifico, si sparavano i primi colpi di quello che sarebbe stato uno degli scontri decisivi per le sorti della guerra: la battaglia aeronavale delle isole Midway.

Assegnato a questa missione marginale era il sottufficiale pilota Tadayoshi Koga, di appena 19 anni. Decollato dalla portaerei Ryujo nel pomeriggio del 4 giugno, Koga volava in formazione con altri due Zero e, piombando sul porto già bersagliato nella giornata precedente, fu accolto dal fuoco di terra che gli americani potevano opporre con poche mitragliatrici antiaeree e armi leggere. Dopo aver abbattuto un idrovolante Catalina della US Navy, i tre aerei giapponesi si allontanarono in gran fretta. Lo Zero di Koga però trascinava dietro di se una lunga scia di fumo nero. E realizzato che i danni subiti erano troppo elevati per tornare alla portaerei, decise di volare livellato fino all’isola di Akutan, dove avrebbe tentato un atterraggio di fortuna. Lì avrebbe atteso l’arrivo di un sottomarino amico che lo avrebbe tratto in salvo dopo aver distrutto ciò che rimaneva del suo aereo. Era ordine tassativo, infatti, che ogni pilota atterrato in zone controllate dal nemico distruggesse il proprio aereo affinché non cadesse in mano avversaria.

Un’errata valutazione della zona d’atterraggio portò il giovane Koga nel bel mezzo di una palude che lui i suoi gregari avevano confuso per un accogliente manto erboso. Errore fatale che provocò la rottura del collo e la morte immediata del pilota, che in questo modo non poté distruggere lo Zero che, invece, non aveva riportato grandi danni nell'impatto con l'acquitrino. Credendo che il loro compagno fosse sopravvissuto e fosse solo in procinto di abbandonare l'aereo, i gregari non se la sentirono di mitragliare l’aereo a terra e fecero rotta per la loro strada, Lasciando agli americani, che lo avrebbero scoperto presto, un tesoro appena celato in una piccola palude delle Aleutine.

L’aero di Koga, numero di matricola 4395, venne avvistato appena un mese dopo da un ricognitore. Subito venne ordinata una missione di recupero che portò l’aereo sul continente, dove esperti meccanici e piloti collaudatori lo avrebbero riparato per carpirne ogni segreto. Già in agosto, lo Zero di Akutan venne definito dagli americani come: "un premio quasi inestimabile.. probabilmente uno dei più grandi premi della Guerra del Pacifico”.

I segreti dietro le ali del nemico

Gli esperti della Us Navy, che avevano dovuto fare i conti con il disastro di Pearl Harbour e la dura sconfitta nel Mar dei Coralli, avevano ora tra le mani un esemplare di quello che poteva tranquillamente essere considerato come il “principale aereo da combattimento della Marina imperiale giapponese durante la guerra”. Un aereo che aveva superato in combattimento i P-40 Kittyhawk e gli F4 Wildcat, oltre ad aver fatto strage di ogni tipo di aerosilurante e bombardiere leggero imbarcato. Carpirne i segreti avrebbe aiutato statunitensi e britannici a calibrare le loro tattiche e migliorare i propri aeroplani per competergli più facilmente e sbilanciare, almeno nell’aria, le sorti del conflitto sul fronte del Pacifico.

Gli alti papaveri dello Stato maggiore si avvalsero del Langley Research Center (attualmente parte della Nasa) e, partendo dall’input del duello "Wildcat vs Zero", svilupparono caccia come lo F6F Hellcat e l'F4 Vought Corsair: aerei che, in mano ai piloti Alleati, vinsero la guerra nei cieli controllati dall'Impero del Sol Levante.

Ladri di aerei

Considerato il successo dell’operazione che portò alla scoperta dei segreti dello Zero delle Aleutine, vennero formate in tutte le forze alleate coinvolte nel del Pacifico delle Technical Air Intelligence Units (abbreviate con l’acronimo Taiu). Queste unità di intelligence avrebbero recuperato con qualsiasi stratagemma ogni genere di aereo giapponese per ottenere dati sulle loro capacità tecniche e tattiche. Unità di questo tipo, letteralmente cacciatori e ladri di aerei caduti e abbandonati o sperduti nella costellazione di isole e atolli che coprono l’immensa regione del Pacifico, comparvero tra le file della Us Navy, della Us Air Force, nelle Reale Aeronautica Australiana, e una addirittura inquadrata tra i nazionalisti cinesi fedeli al generale Chiang Kai-shek.

Ogni possibile preda avvistata da ricognitori o squadre di terra veniva localizzata, identificata nel modello e valutata nello stato di conservazione prima di essere recuperata e messa in cantiere per essere riparata e testata. Così facendo, passo dopo passo, i servizi segreti alleati riuscirono ad analizzare la produzione bellica giapponese in campo aeronautico. Vennero catturati, oltre al famigerato Zero, alcuni esemplari di Nakajima Ki-43 Hayabusa "Oscar", il principale caccia utilizzato dall'Aeronautica giapponese durante la guerra, modelli di Kawasaki Ki-45 "Nick", aereo pressoché sconosciuto dagli alleati. Furono rivenuti modelli di Kawasaki Ki-61 “Tony”, un bombardiere in picchiata Yokosuka D4Y “Judy” e l'aereo da ricognizione Mitsubishi Ki-46 “Dinah". L'elenco potrebbe proseguire ancora. Insieme ad essi, spesso vennero catturate solo componenti di motori e armamenti che consentivano di analizzare le innovazioni di cui sarebbero stati dotati gli aerei nipponici. Tasselli di un puzzle che aveva una sola fine possibile per gli americani: la resa di Tokyo.

Così, mentre i piloti con le loro divise kaki dalle calze corte, decollavano sui loro caccia blu e celesti dalle porterei che incrociavano nel mezzo dell’oceano o da basi remote in isole mai sentite - ma che sarebbero divenute note alla storia come Guadalcanal o Iwo Jima - i ladri di aerei delle intelligence si addentravano nelle giungle impenetrabili e negli hangar abbandonati per rubare i segreti dei kamikaze. Per farli analizzare agli antenati di quelli che sarebbero diventati “i genietti della Nasa”, e poi poter dire a chi duellava tra le nuvole dalla parte degli alleati: “Ecco come devi abbatterlo”, “Ecco come vinceremo”.

Così il soldato Jünger cantava la pace. Luca Gallesi il 25 Giugno 2022 su Il Giornale.

Torna il breve saggio dello scrittore tedesco che voleva una nuova Europa.

La fama di Ernst Jünger come scrittore si deve soprattutto alle sue gesta belliche vissute nelle Tempeste d'acciaio della Prima guerra mondiale e raccontate nel libro omonimo, classico bellicista spesso contrapposto al pacifista Niente di nuovo sul fronte occidentale di E.M. Remarque. Il pluridecorato autore di saggi tra i quali La battaglia come esperienza interiore e di opere a carattere autobiografico come Fuoco e sangue, nonché curatore di libri collettanei dedicati a Guerra e guerrieri, continuò a considerarsi un «soldato del fronte» anche a guerra finita. Scriveva infatti, ancora nel 1925, di ritenersi un «uomo che anche oggi vuole combattere perché il destino gli ha conferito l'abitudine al combattimento» e di sentirsi «parte di una comunità combattente intimamente stretta dalla comunanza di una grandiosa impresa storica».

Fa quindi un certo effetto leggere un suo scritto intitolato La Pace, appena ripubblicato da Mimesis a cura di Maurizio Guerri (pagg.96, euro 10). Si tratta di un breve saggio, concepito probabilmente nel 1941, quando l'Autore era a Parigi come ufficiale della Wehrmacht, rielaborato durante il 1943 e fatto circolare sotto forma di samizdat dopo la sconfitta tedesca a Jünger fu proibito dalle truppe di occupazione di pubblicare in Germania fino al 1949- per essere infine tradotto e stampato in Francia nel 1948 grazie a Banine e ad Armand Petitjean. Dedicato al «caro figlio Ernst Jünger, nato il 1° maggio 1926 e caduto il 29 novembre 1944 presso Carrara» questo manifesto è diviso in due parti: nella prima, intitolata La semina, vengono ricordate le innominabili sofferenze causate dalle due guerre mondiali, che per Jünger non sono che un'unica, grande guerra civile, mentre nella seconda, Il frutto, l'Autore si augura che questi sacrifici non siano vani, ma annuncino all'umanità un'era di pace universale. Detto questo, si illuderebbe chi immaginasse di poter inserire lo scrittore tedesco tra le schiere dei pacifisti arcobaleno: l'ammirazione per le virtù militari e per la figura del combattente non è affatto venuta meno; possiamo infatti leggere che «la guerra è la fucina dei popoli e dei cuori», indispensabile per uscire «dai travagli della nascita», affinché l'uomo conquisti una nuova forma. Forse un po' troppo ottimisticamente Jünger ritiene che la pace «incarnerà in pieno il senso del nostro tempo», e non importa a che prezzo tale obiettivo venga raggiunto: «è meglio combattere più a lungo, soffrire più a lungo piuttosto che fare ritorno al vecchio mondo. Che cadano pure le città se in esse non ci sono diritti e libertà, che crollino pure le cattedrali se al loro interno non è dato pregare».

La pace augurata da Jünger è, quindi, di carattere spirituale, e per questo motivo non si può basare né sul diritto, né sulla ragione e nemmeno sulla volontà ma soltanto su una giustizia superiore, amministrata da un'entità spirituale che in Europa non può che essere la Chiesa, che ha protetto milioni di vite non abbandonandole nemmeno nell'ora della morte. È compito, però, di ogni singolo individuo adoperarsi per la giustizia e, quindi per la pace: «la vera lotta che ci troviamo a combattere si rivela sempre più un conflitto tra le forze della distruzione e le forze della vita. In questa lotta i guerrieri di retto sentire stanno fianco a fianco, come gli antichi cavalieri. Quando ciò accadrà, la pace sarà duratura».

La battaglia che spopolò la "fine del mondo". Davide Bartoccini il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

L'isola di Hirta è la più distante di Scozia e oggi è completamente disabitata. Gli eventi che la scossero durante il primo conflitto mondiale, secondo alcuni storici, ne definirono il destino. Al resto, pensò il correre dei tempi.

Ai confini delle Ebridi, l'arcipelago più remoto della vecchia Europa, sorge l'isola di Hirta, rimasta completamente disabitata nel 1930. Colonia prediletta dalle pulcinelle di mare, simpatici uccelli che ricordano dei pinguini audaci, capaci di volare, fu abitata dall'uomo fin dal tempo dei celti e dei vichinghi, ma secondo i molte fonti, sarebbe stata la piccola innocua battaglia armata da un sommergibile della Kaiserliche Marine nel 1918 a decretarne il definitivo spopolamento.

Dopo l'attacco del sommergibile che distrusse alcune istallazioni del tutto innocue mettendo in fuga isolani e soldati che si erano stabiliti con compiti di avvistamento, si optò per la costruzione di una postazione di artiglieria (che non sparò mai). Il flusso di personale militare, tuttavia, portando con se storie ed eventi che mai avevano neppure sfiorato la mente della piccola comunità vissuta da sempre ai confini del mondo, convinsero molti ad abbandonare la remota Hirta per affrontare altrove un mondo dove la vita di tutti i giorni sembrava farsi più facile. Giustificando, sebbene con dispiacere immenso, l'abbandono della terra natia che aveva raggiunto il suo “picco” con i 180 abitanti della fine del XVII secolo.

La guerra ai confini del mare

La Grande Guerra che aveva travolto e scosso il mondo, nel maggio nel 1918 - sulle ultimissime battute del conflitto totale - finì per scuotere anche le isole di St.Kilda. Un sommergibile tedesco U-90 (Type 87), impegnato nel suo sesto pattugliamento nell’Atlantico occidentale a caccia di naviglio della Triplice Intesa, decise di entrare nella baia dell’isola - dove sorge il Village Bay - per verificare l’eventuale presenza di installazioni militari nemiche. Era il 15 maggio, quando nelle prime ore del mattino il sommergibile tedesco aprì il fuoco con l’unico pezzo d’artiglieria montato sul ponte dopo aver emesso un segnale acustico che terrorizzò gran parte degli isolani quale cattivo presagio. I marinai del Kaiser pensavano di aver centrato una stazione radio con annessi acquartieramenti militari: centrarono un magazzino per granaglie, la chiesa e alcune case (una di queste adibita ad ufficio per la stazione radio). Alla vista di soldati inglesi, l’equipaggio del sommergibile decise di rinunciare allo sbarco per dileguarsi nelle basse profondità concessegli dalla tecnologia del tempo.

Questa piccola scaramuccia venne comunque considerata dall’Ammiragliato come uno dei più “temerari attacchi” sferrati ai danne delle coste britanniche in tutta la guerra. Se ne registrarono 15 in tutto. E in virtù di questo, il comando ordinò l’immediata installazione di artiglieria a protezione della baia. I lavori per la ricostruzione e l’impianto di quella che avrebbe rappresentato la "difesa permanente” di Hirta furono terminati con fatica per il 13 ottobre. Appena 28 giorni dopo, si ratificava l’armistizio che poneva fine alla guerra, lasciando sull’isola un cannone che non avrebbe mai sparato un colpo ma il passaggio e la contaminazione non trascurabile degli uomini giunti sull’isola con racconti “straordinari” di un mondo che cambiava velocemente.

I racconti straordinari di un mondo moderno

Secondo molti scrittori e ricercatori, l’occupazione e la battaglia della baia e la costruzione del “cannone che non sparò mai” rappresenterebbero uno spartiacque significativo della storia di St Kilda. Non meno della perdita di valore sul mercato delle poche cose che venivano esportate dagli isolani per tirare a campare.

Quando “piume, tweed, pecore ed olio di uccelli marini” iniziarono a non interessare più come un tempo sul continente, dove la vita si faceva sempre più facile grazie alle moderne tecnologie, le coriacea resistenza degli isolani iniziò a venir meno. La vita su Hirta era diventata anacronistica, e i racconti dei militari che vi avevano prestato servizio non avevano fatto altro che mettere sempre più a nudo la faccenda. Le storie che avevano portato sull’isola narravano di “semplicità” nel vivere e grande ricchezza di “opportunità”. Mentre il tasso di mortalità infantile su Hirta cresceva, e si protraeva il rischio di morire per semplici complicazioni mediche che sulla terraferma sarebbero state facilmente curate.

Nel 1930 gli ultimi 36 abitanti dell’isola, a seguito di un inverno particolarmente rigido che li aveva quasi ridotti alla fame, chiesero di essere evacuati sul continente, abbandonando la loro terra per sempre. Il destino dell’intero arcipelago di St. Kilda era segnato.

Sull’isola di Hirta rimase solo una piccola postazione militare per il controllo dei sistemi missilistici di quello che gli inglesi hanno chiamato Deep Sea Range. L’unica cosa che nel corso degli anni è rimasta al passo coi tempi. Per il resto, sull’isola più grande del remoto arcipelago che per secoli ha eccitato l'immaginazione di scrittori, storici, scienziati e avventurieri, rimangono solo case di pietra disabitate, un cannone che non ha mai sparato un colpo, i resti di tre sfortunati aerei da guerra schiantati sulle sue alture, alcune pecore della razza più antica di Scozia, le Soay, centinaia di pulcinelle di mare, e pochi sparuti e temerari turisti. Persone che affrontando un lungo viaggio su piccole imbarcazioni a motore - di solito in agosto - non possono fare a meno di pensare quanto potesse essere dura la vita su Hirta, quando ogni cosa doveva essere raggiunta a vela o a remi, nei mesi più rigidi dell’anno, magari con il mare mosso.

Nel 1697 lo scrittore scozzese Martin Martin scrisse che gli abitanti di Hirta apparvero ai suoi occhi come “molto più felici della generalità dell’umanità”, poiché erano a suo dire "le uniche persone al mondo" capaci di sentire "la dolcezza della vera libertà”. Molti degli isolani di ultima generazione che ripararono in Australia pare abbiano lottato con questo pensiero fino alla loro ultima dipartita. Non avendo mai dimenticato lo straordinario senso di libertà di una vita passata ai confini del mondo.

Da leggo.it il 21 giugno 2022.

Sentenza storica del Tribunale civile di Bologna, che condanna la Germania a risarcire le vittime della strage di Marzabotto, uno degli eccidi più cruenti della Seconda Guerra Mondiale durante l'occupazione nazista in Italia. La giudice Alessandra Arceri ha infatti condannato la Repubblica Federale Tedesca a risarcire le vittime degli eccidi perpetrati a Monte Sole dalle 'Waffen SS' dal 29 settembre al 5 ottobre 1944.

La sentenza emessa dal Tribunale, scrive oggi l'edizione bolognese di Repubblica, sottolinea in particolare che i soldati tedeschi, «come accertato dal Tribunale Militare di La Spezia nella sentenza resa il 13 gennaio del 2007», agirono «in esecuzione dell'ordine loro impartito di 'uccidere tutti e distruggere tutto'.

«Clown e mostro», il pianista che voleva civilizzare Hitler (e non si pentì mai). Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.  

Ernst Hanfstaengl detto Putzi, padre tedesco e madre americana, laureato a Harvard, ebbe un rapporto strettissimo con il Führer. Spiega lo scrittore Thomas Snégaroff: «Attraverso la sua vita, io racconto i totalitarismi e il fascino che il nazismo ebbe sugli Usa fra le due guerre» 

Ernst Hanfstaengl al pianoforte nell’appartamento di Joseph Goebbels, a Berlino, nel 1932. Ad ascoltarlo, sulla sinistra c’è Adolf Hitler, a destra Wilma Schaub, Magda Goebbels, Wilhelm Brückner e Goebbels

Ancora oggi nel centro di Monaco c’è una Hanfstaenglstraße, una strada dedicata alla grande famiglia aristocratica bavarese dove nacque, nel 1877, Ernst Hanfstaengl detto Putzi, Il pianista di Hitler (Feltrinelli). L’«ometto» (Putzi in dialetto bavarese) alto due metri è raccontato nel romanzo di Thomas Snégaroff come l’affascinante e inquietante personaggio che sognò di diventare - e quasi ci riuscì - l’eminenza grigia di Adolf Hitler. L’uomo che con la sua cultura, i modi eleganti e la disinvoltura nel suonare Wagner al pianoforte nelle serate mondane incuriosì, divertì e poi irritò il dittatore nazista, incapace di sopportare qualcuno manifestamente più colto e brillante di lui. La vita incredibile di Ernst Hanfstaengl, di padre tedesco e madre americana, nazista laureato a Harvard, amico del Führer e di Roosevelt, fino al 1937 capo del dipartimento della stampa estera di Hitler, si è conclusa senza l’ombra di un pentimento a 88 anni, il 6 novembre 1975 a Monaco di Baviera dove era nato. Attraverso la sua figura lo storico francese Snégaroff rievoca un antisemitismo che all’epoca era diffuso e socialmente accettato in Europa ma anche negli Stati Uniti, e descrive la base storico-culturale dei totalitarismi, oggi di nuovo evidente nella retorica putiniana di Mosca «terza Roma».

Ernst Hanfstaengl era tedesco e americano insieme, la sua vita si articola intorno a questa doppia identità. Come poteva conciliare le due anime negli Anni Trenta, l’epoca dei nazionalismi?

«Una delle chiavi per comprendere questo personaggio così complesso è certamente la sua doppia identità e il desiderio di riportarla a una. È quasi psicanalitica questa ossessione di un’alleanza tra il Paese di papà, la Germania, e il Paese di mamma, gli Stati Uniti della famiglia Sedgwick (anche se a sua volta tedesca di origine). Nei primi del Novecento Ernst Hanfstaengl ha vissuto negli Stati Uniti per curare gli affari di famiglia, si è diplomato a Harvard, parlava un inglese americano perfetto».

Quando torna negli Stati Uniti da prigioniero per fornire informazioni su Hitler a Roosevelt e vede suo figlio in divisa yankee si commuove e ne è felice: «Ecco un vero americano».

«Il che mostra quanto fosse combattuto tra le due appartenenze, tra la Germania di Hitler e l’America di Roosevelt».

Come mai ha deciso di occuparsi di questo personaggio?

«Da tempo volevo scrivere un libro sul fascismo negli Stati Uniti tra le due guerre, un argomento relativamente poco conosciuto. Le immagini dei comizi nazisti al Madison Square Garden di New York, pieno di svastiche, non sono un caso. C’era un diffuso interesse per le idee di Hitler negli Usa, e viceversa: la dottrina razzista dei nazisti è largamente ispirata alla segregazione razziale americana. Facendo le mie ricerche mi sono imbattuto molte volte nella figura di Ernst Hanfstaengl. Lui ha avuto un ruolo centrale, di ponte tra gli ambienti suprematisti diffusi in entrambi i Paesi. Era lui che presentava Hitler ai giornalisti americani».

E provava a convincere Hitler di allearsi con l’America.

«È stato il grande sogno di Putzi. Sono passato dall’opera storiografica al romanzo per provare a descrivere la sua psicologia misteriosa, questo essere allo stesso tempo clown e mostro: un uomo istruito e colto, nato da genitori che ricevevano a casa Wagner e Liszt, protagonista di serate piacevoli con il suo pianoforte suonato in modo impeccabile, felice di divertire Hitler, e naturalmente antisemita». 

In tutto il libro non c’è mai un suo momento di riflessione, di pentimento.

«No, ed è stupefacente, la Shoah non lo ha cambiato di una virgola. Ernst Hanfstaengl era antisemita senza slancio, non ne aveva bisogno, negli anni Venti e Trenta il razzismo bianco contro ebrei, neri, slavi e anche europei del Sud era diffuso nei suoi due Paesi, Germania e Stati Uniti. L’antisemitismo era considerato un’opinione come un’altra, si poteva esserlo o no, ma era comunque socialmente accettato».

Perché Hitler teneva nel suo ufficio un ritratto di Henry Ford?

 «Di Ford tendiamo a ricordare soprattutto il taylorismo realizzato e le auto, ma la sua dimensione ideologica era agghiacciante. Hitler lo considerava un modello, Henry Ford spese una fortuna per diffondere i Protocolli dei Savi di Sion , il falso storico usato dagli antisemiti. La storia del pianista di Hitler mi ha permesso di raccontare che a Harvard, dove ha studiato, negli anni Venti c’erano quote per limitare la presenza di studenti ebrei. Tante persone in Germania e negli Stati Uniti, per fortuna non Roosevelt, erano convinte di essere unite da un nemico comune, ebrei e comunisti che secondo loro erano una cosa sola, il giudeo-bolscevismo».

E perché Hanfstaengl teneva tanto alla considerazione di Hitler?

«Era totalmente irretito dal suo carisma. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per compiacerlo e avere la sua considerazione. Hanfstaengl disprezzava gli alti dignitari nazisti come Goebbels, li considerava volgari, come in effetti erano. Anche Hitler era volgare e incolto, ma Hanfstaengl sperava di civilizzarlo. Per anni Putzi ha agito obbedendo a tre idee fisse».

Quali erano queste tre idee?

«Convincere Hitler ad allearsi con gli Stati Uniti; offrire al Führer la cultura della sua grande famiglia bavarese e renderlo una persona civile; dargli una moglie. Fallì a tutto campo».

Hanfstaengl entrò nel cuore di Hitler ma non riuscì a conquistarlo davvero.

«Erano troppo diversi, Hilter all’inizio era divertito e lusingato dalle sue attenzioni ma poi finì con lo stufarsi di quel mezzo americano che gli suonava Wagner, sì, ma lo portava anche nei musei ad ammirare opere di cui non capiva nulla».

Caduto in disgrazia, costretto all’esilio, Hanfstaengl aspetta con tale ardore un cenno da Hitler, una sua lettera, da finire per scriversela da solo.

«Un gesto da adolescente innamorato. Ma non credo che ci fosse una dimensione omosessuale nella loro relazione. Putzi visse con grande senso di colpa il fatto di non avere combattuto durante la Prima guerra mondiale: mentre lui faceva la bella vita in America, due dei suoi fratelli morirono nelle trincee. Hitler gli offriva una possibilità di riscatto personale, e sembrava potere difendere i valori e la cultura della Germania eterna di cui la famiglia Hanfstaengl era espressione».

A Strasburgo, nella giornata dell’Europa, il presidente francese Emmanuel Macron ha auspicato che in futuro, finita la guerra in Ucraina, ci si siederà al tavolo della trattativa con la Russia senza umiliarla, per non ripetere gli errori fatti a Versailles che portarono al nazismo. Ma dal suo libro non sembrerebbe che sia stato Versailles a portare il nazismo.

«Ci furono molte cause concomitanti, i pianeti erano allineati, come si dice. Ma se si fosse trattato soprattutto di Versailles, di economia, di iper-inflazione e riparazioni insostenibili, allora in Germania avrebbero potuto prendere il potere i comunisti. Io credo invece che l’elemento più importante fu l’aspetto non economico ma profondamente culturale e storico del nazismo, quella fascinazione per la Grecia antica, come nel fascismo di Mussolini c’era quella per l’Impero romano. La Germania del Parsifal a Bayreuth riunì gli aristocratici come Hanfstaengl e il popolo, convinti che solo Hitler potesse salvare l’anima germanica profonda».

Non ricorda un po’ Putin e i suoi discorsi sulla grande Russia di due secoli fa che servono a giustificare l’invasione dell’Ucraina?

«Certamente, e nella Russia di oggi quell’aspetto è ancora più evidente se guardiamo al ruolo del patriarca ortodosso Kirill. È un grande classico dei dittatori: scovare nel passato e nella presunta anima di un popolo le ragioni per costruirsi un avvenire totalitario».

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 21 giugno 2022.

Prendete i Bastardi senza gloria di Tarantino con la loro bella carica di antinazismo tonante. Aggiungeteci i nazisti antihitleriani dell’operazione Valchiria del guidato dal colonnello Von Stauffenberg; poi speziate il tutto con scene in stile Lega degli straordinari gentiluomini di Alan Moore e con una trama fittissima, alla Ian Fleming, affogata nel grande racconto della fissione atomica. 

Otterrete La brigata dei bastardi ( Adelphi, pp 496, euro 32), la spy-story perfetta: uno stupefacente saggio/romanzo che Sam Kean di professione fisico ha scritto su uno degli eventi più decisivi e misconosciuti: l’Operazione Alsos. Ossia la «vera storia degli scienziati e delle spie che sabotarono la bomba atomica nazista». «Secondo alcune voci», racconta Kean, «i nazisti avevano davvero pensato d’usare l’equivalente tedesco del Progetto Manhattan per distruggere la Manhattan vera e propria».

Non era un’ipotesi peregrina. Il Terzo Reich aveva davvero varato il Club dell’Uranio già nel 1939, in anticipo sull’americanissimo Progetto Manhattan che aveva come star Enrico Fermi, proprio per costruire l’arma definitiva. Ed era palese ai servizi segreti d’ogni colore che Hitler disponesse delle migliori industrie, delle materie prime necessarie e di una ferrea volontà per l’accelerazione finale sull’ordigno. Se avesse costruito l’atomica, tutti gli sforzi e i morti sarebbero stati inutili e il mondo sarebbe definitivamente cambiato.

E tutto ciò nonostante le stesse intelligence avessero capito che il progetto nazista fosse probabilmente condannato a causa degli abnormi errori di valutazione del chimico tedesco Walther Bothe, mente aguzza ma sempre intorpidita da desideri erotici. Il quale Bothe dichiarò, errando assai che fosse l’acqua pesante, e non la grafite, l’elemento più importante nella costruzione di un reattore nucleare.

Ed è qui che entra in scena il colonnello Pash, un tostissimo veterano della Prima Guerra mondiale abbastanza folle di disobbedire agli ordini e «fare venire l’ulcera ai suoi superiori»; da lanciare la sua jeep a tutta velocità contro i posti di blocco nemici; e, soprattutto, da arruolare una banda di folli che – abbandonati a sé stessi, in caso di fallimento, dallo stesso governo Usa che li aveva imbrancati- avrebbe dovuto strappare il mondo ad un’apocalisse nucleare molto nazi.

E i bastardi sono anch’essi, a raccontarli uno ad uno, attori di un grande racconto shaskespeariano. C’è, per dire Moe Berg, ebreo di Harlem the brainiest guy in baseball, un lanciatore- poliglotta laureato a Princeton e alla Sorbona (dove seguiva 32 corsi contemporaneamente) che parlava sei lingue compreso il tedesco e il sanscrito. Uno che, dai ranghi dell’Oss, viene incaricato di capire se il grande fisico Heisenberg – germanico ma non hitleriano - avesse trovato il segreto della fissione e l’avesse fornita ai suoi; se così fosse avrebbe dovuto ammazzare lo scienziato (ma i tedeschi era indietro nella ricerca). Ci sono i coniugi Irène e Frédéric Joliot-Curie, vincitori del Nobel nel 1935.

C’era Joe Kennedy jr, figlio dell’ambasciatore americano a Londra, Joe senior, due anni più anziano del fratello JFK, futuro presidente degli Stati Uniti, al quale invidiava la medaglia d’oro guadagnata in missione nel Pacifico. E, proprio per l’invidia, Joe si offre volontario, nella missione più pericolosa: pilotare una gigantesca bomba volante - un aereo inzeppato di «Torpex, una miscela di Tnt e polvere di alluminio, che crea un botto più intenso e duraturo» del napalm - da sganciare dritta sulle rampe di lancio dalle quali l’intelligence alleata teme che la Wehrmacht s’accinga a lanciare missili atomici o bombe radioattivamente «sporche» su Londra.

Epperò, l’aereo, esplode in volo sopra «New Delight Wood, nell’estremo est dell’Inghilterra» e si trasforma in una terrificante «palla di fuoco giallo-verde riempie il cielo. È la più grande esplosione della storia, superata solo undici mesi dopo dal test nucleare Trinity», la prima esplosione atomica. C’era il direttore scientifico dei “bastardi” Samuel Goudsmit, autore, da giovane, di scoperte importanti sulla fisica quantistica. C’era, insomma, una quantità indefinita di fisici, di soldati, di spie che sembrano sempre uscite dalla pagine di Le Carré.

Quest’allegra brigata di bastardi con la gloria, di pazzoidi più radioattivi delle stesse bombe che riuscirono a fermare, entrò nella storia in modo sghembo e, comunicativamente tronco. Datata 1944, l’Operazione Alsos appare oggi come un elemento narrativo distopico, o ucronico; ma si connota pure come la storia di «esseri umani, catapultati in situazioni che rivelano il loro lato migliore, ma anche quello peggiore» dall’inganno tattico all’omicidio. Intravediamo il futuro cinematografico di una sceneggiatura – è il caso di dirlo - esplosiva...

Lo strano "campo di prigionia" diviso tra nemici. Davide Bartoccini il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.

Durante il Secondo conflitto mondiale, piloti tedeschi e britannici che avevano appena terminato di misurarsi in combattimento nei cieli di Francia e Inghilterra si ritrovarono prigionieri nella stessa isola neutrale: così l'Irlanda li tenne al sicuro dalla "guerra totale".

Dicembre 1940, cieli del canale di San Giorgio. Quando la battaglia d’Inghilterra è appena terminata e la battaglia dell’Atlantico già si combatte senza tregua, un biposto da addestramento britannico, il meno noto Miles Master, è diretto senza piani di volo sull’Isola di Man: a metà tra Regno Unito e Irlanda. L’equipaggio, peccando di fiducia nella buona sorte, era certo di trovare la destinazione pilotando a vista, ma il maltempo li portò fuori rotta. Perduto e a corto di carburante, l’equipaggio del monoplano dal vistoso ventre giallo tentò un atterraggio di fortuna non appena vide terra. Non poteva immaginare d’essere nell’Eire: l’allora neutrale Repubblica d’Irlanda. Non poteva immaginare, salvo per miracolo, che avrebbe passato il resto della guerra “impacchettato” nel Curragh Camp o “K-Lines”: il più strano campo di prigionia della guerra. Dove piloti tedeschi e inglesi che si erano misurati in battaglia, adesso trascorrevano le proprie giornate fianco a fianco col nemico.

Che si trattasse di “Fews” (come chiamava Wiston Churchill i piloti inglesi nel 1940) o di “Jerries” (come venivano chiamati i tedeschi dagli Alleati), per l’Irlanda che aveva scelto di restare neutrale mentre il mondo si confrontava nella guerra totale, non faceva nessuna differenza. Per gli accordi di non belligeranza ratificati con il governo di Londra e Berlino, essi dovevano essere trattenuti per impedire che potessero tornare nei rispettivi paesi e di ricongiungersi ai loro commilitoni per proseguire nello sforzo bellico contro l’avversario. Questa la decisione del primo ministro Éamon de Valera ha fatto di tutto per mantenere quella neutralità aveva assicurato di trattenere in un campo di prigionia di Curragh, che originariamente destinato ai militanti dell’IRA (famigerato Irish Republican Army) dopo averlo suddiviso in 3 sezioni. Così, Tra il 1940 e il 1943, circa 40 militari britannici e 200 tedeschi furono internati nel campo K-lines. Si trattava principalmente equipaggi e uomini di sottomarini, superstiti di unità coinvolte in combattimento nell’Atlantico, e come suddetto, piloti costretti ad atterraggi di fortuna sulla prima “isola” in vista.

Lo "strano" campo

Da principio il campo di Curragh era un normale campo di detenzione affatto diverso dallo Stalag III fedelmente riprodotto nel capolavoro cinematografico La grande fuga. Un campo fatto di baracche di legno allineate, circondate da muri di reti metalliche e filo spinato, sorvegliato da torrette di guardia su cui montavano sentinelle armate. Inizialmente l'unica differenza - o per meglio dire “peculiarità” del campo “K-Lines” - era la separazione tra i settori che dovevano “ospitare” i militari Alleati dagli avversari dell’Asse e la presenza di due pub dove i prigionieri potevano gestire autonomamente le loro scorte alcoliche tentando di trascorrere il tempo privo di pensieri, in attesa che la guerra terminasse. Altra peculiarità, resa nota solo in seguito, era la carica di proiettili a salve nei fucili delle sentinelle che doveva sorvegliare inglesi e tedeschi. Il complesso occupato dalle forze tedesche era noto come campo "G", mentre quello occupato dalle forze alleate, noto come campo “B”.

Per l'ufficiale in comando, colonnello delle forze di difesa locali irlandesi (Ldf) Thomas McNally, gli internati dovevano essere considerati come tutti i prigionieri di guerra: "Questi prigionieri secondo me sono il tipo che considera un dovere effettuare la fuga alla prima opportunità disponibile", aveva dichiarato in principio. Ma gli uomini detenuti nei campi B e G non erano tecnicamente prigionieri di guerra, bensì andavano considerati come "ospiti dello Stato" - contro la loro volontà, ovviamente - che aveva solo l'obbligo di impedire loro di tornare in guerra. Per questo le condizioni della loro detenzione si fecero via via sempre meno restrittive e le libertà più estese, al punto da garantire ai questi Pow (prisoner of war, ndr) una vita quasi normale - sebbene il loro destino li avesse condotti al limite dello straordinario.

È abbastanza singolare infatti il caso di un bombardiere della RAF con equipaggio canadese, che, dopo essere scampato ad un atterraggio d'emergenza, aveva cercato ristoro in una locanda isolata dei pressi di Curragh. Secondo il racconto, il pub era uno di quelli messi a disposizione dei prigionieri tedeschi in libera uscita. Così non appena entrati, un ufficiale della Luftwaffe li apostrofò dicendo loro di andarsene "nel loro pub!". Si rifereva a quello destinato agli Alleati. I canadesi rimasero a lungo perplessi, prima di essere presi in custodia e capire in che assurda situazione si fossero ritrovati.

Senza via di fuga

Inizialmente, almeno nelle prime battute del conflitto, i piloti inglesi che si trovavano costretti ad atterrare venivano rispediti in Inghilterra senza troppe cerimonie. Ma quando il 20 agosto del 1940 un pattugliatore quadrimotore tedesco Fw 200 "Condor" si schiantò nel sud dell'Irlanda mentre era in missione sull'Atlantico e i sei membri dell'equipaggio vennero fatti prigionieri, per mantenere lo stato di completata neutralità il governo di Dublino si trovò "costretto" a trattenere anche i piloti alleati. Una sola eccezione erano gli americani, che invece venivano rimpatriati in ragione di differenti accordi ratificati con Washington. Il primo prigioniero britannico, arrivato su di un caccia Hurricane dopo essersi lanciato all'inseguimento di un bombardiere tedesco uscito di formazione, fu catturato il 29 di settembre.

La fuga non era una buona opzione né per gli internati tedeschi né per i loro avversari britannici. I primi, nella migliore delle ipotesi, avrebbero dovuto puntare a raggiungere la Francia, il Paese occupato dalle forze dell'Asse più vicino all'Irlanda. Ma sarebbe stato molto difficile, e avrebbe previsto il transito vicino il Regno Unito. Il tutto con scarsissime probabilità di successo. Per i piloti inglesi la pianificazione di una fuga era sicuramente più semplice. Oltre a padroneggiare la lingua, avrebbero dovuto viaggiare con mezzi di fortuna solo per qualche centinaio di miglia verso il confine con l'Irlanda del Nord. Ma una volta giunti nell'Ulster clandestinamente, sarebbero potuti cadere in mano ai nazionalisti che notoriamente non nutrivano molta simpatia per i soldati di Sua Maestà. Per queste ragioni, venne registrato un solo tentativo d'evasione, nonostante venne creato un "comitato di fuga" (l'Escape club) come in ogni altro campo di prigionia.

Attendere da "gentiluomini" la fine della guerra

Nessuno si sentì disonorato nell'essere stato fatto prigioniero da un Paese non belligerante che aveva ratificato accordi con il proprio governo. Agli "ospiti", sia tedeschi che inglesi, fu concesso di partecipare a funzioni religiose, di possedere delle radio per tenersi aggiornati sullo svolgimento del conflitto, di andare ai pub di Curragh e dalle cittadine di Kildare, Newbridge e Killcullen. Cittadine dove potevano recarsi prendendo in prestito delle biciclette, a patto di siglare, di volta in volta, una sorta di accordo tramite lasciapassare che recava il seguente testo: "Prometto di rientrare nel complesso alle ore X e, durante la mia assenza, di non prendere parte ad alcuna attività connessa alla guerra o lesiva degli interessi dello Stato irlandese”.

Col passare del tempo le concessioni agli "ospiti forzati" iniziarono a contemplare svaghi sempre maggiori: ad esempio l'accesso a cinema e hotel, dove i prigionieri poterono trascorrere anche l'intera notte. Il tutto, ovviamente, sempre in abiti civili prontamente forniti dai rispettivi governi per non dare nell'occhio. Battute di pesca, partite di golf, cacce alla volpe diventarono la norma. Si tennero addirittura un incontro di boxe e una partita di calcio tra Alleati e Asse. Da annotare lo strabiliante risultato che vide la Germania vincitrice almeno sul campo di pallone con 8 goal a 2.

Quando nel 1943 la vittoria della guerra da parte degli Alleati iniziò ad apparire sempre più evidente, tutti gli aviatori britannici vennero trasferiti in un altro campo per essere liberati in segreto. Al termine del conflitto anche i prigionieri tedeschi furono rilasciati, ma diversi di loro rimasero in Irlanda, sposandosi e mettendo su famiglia e imprese. Questa storia, a lungo celata dal governo irlandese e completamente dimenticata da chi ne era al corrente, tornò alla luce per caso, grazie al racconto di un tassista che aveva servito come guardia nel campo di Curragh; la "strana" prigione irlandese che tenne quei piloti nemici al sicuro dalla guerra totale. Il romanziere John Clive ne trasse un libro dal titolo Ali spezzate.

L'esercito fantasma che ingannò Hitler. Davide Bartoccini il 26 Maggio 2022 su Il Giornale.

Ci fu un curioso "esercito" che rese lo sbarco in Normandia un successo. E la "Operazione Fortitude" fece vincere la guerra agli Alleati.

Deve essere andata più o meno così: un solitario ricognitore della Luftwaffe vola ad alta quota, sfidando temerario la superiorità aerea che gli Alleati hanno ritrovato oltre Manica, quando lungo la costa del sud dell'Inghilterra, proprio lì dove la Francia si vede ad occhio nudo, ad un tratto scorge quel che è venuto a cercare. Allora fa un ampio giro, una, due volte, e fotografa in obliquo con i suoi imponenti obiettivi incassati nella pancia della carlinga.

Sulla via del ritorno poi, quando si scopre inaspettatamente salvo, comunica in cifra quello ciò che ha visto: gli Alleati si radunano in forze dall’altra parte della Manica. Le truppe si stanno concentrando in prossimità del Passo di Calais. Aerei, carri armati, mezzi da sbarco, intere divisioni. Forse un'intera armata. C'erano cascati. Si erano imbattuti nell'"esercito fantasma". Il messaggio cifrato dalle macchine Enigma viene riportato allo Stato Maggiore del Reich. Intanto a Bletchley Park - dove gli Alleati hanno decriptato da anni il codice e spiano ogni trasmissione - confermano: i tedeschi non hanno mangiato la foglia, l’Operazione Fortitude può considerarsi un successo.

L’Operazione Fortitude

Ideata per ingannare i tedeschi, l'Operazione Fortitude era parte di un piano ben congegnato per non rivelare la scelta della Normandia come reale settore di sbarco per l'invasione dell'Europa. La tecnica dell'inganno visivo, sommata alle false informazioni diffuse da una rete di spie doppiogiochiste o addirittura di "spie mai esistite" (come quelle create dalla fantasia dell'agente Garbo), spinse l'intelligence militare tedesca a convincersi che gli Alleati stavano concentrando il "grosso" della loro forza di spedizione nel sud-est dell'Inghilterra. Considerando quindi ciò che accadeva nel sud-ovest delle mere operazioni diversive. Gli agenti doppiogiochisti inserirono nei loro rapporti informazioni minuziose, come le insegne che comparivano sulle uniformi dei soldati e segni di unità sui veicoli delle divisioni fantasma avvistate dai ricognitori tedeschi.

Con il senno di poi, si possono certamente criticare le scelte dei generali tedeschi. Ma allora qualsiasi pianificatore militare - almeno al preludio dello sbarco e in forza dei rapporti che venivano forniti da spie considerate attendibili come l'agente Garbo - avrebbe concluso che l'invasione dell'Europa sarebbe avvenuta in Francia e precisamente a Calais. Il punto dove la distanza dall'Inghilterra era minore ma le difese costiere del Vallo Atlantico più imponenti. L'intelligence tedesca, con l'ausilio del Abwher, impiegò i rapporti forniti dagli agenti doppiogiochisti per ricostruire l'ordine di battaglia delle forze alleate che sarebbe giunto al Pas-de-Calais. Spingendo il comando e non meno Adolf Hitler a mantenere ben 15 divisioni in riserva vicino a Calais anche dopo l'inizio dell'invasione della Normandia.

La "banda dei miracoli", attori e illusionisti di guerra

È difficile da ammettere, ma se i primi passi dell’invasione della "Fortezza Europa" sono andati a buon fine, si deve a carri armati di legno, aeroplani gonfiabili, navi finte, manichini abbagliati da soldati e a fantocci volanti. Tra loro, tra l'Esercito fantasma, solo 1.100 uomini in carne e ossa della 23ª Divisione Truppe Speciali. Gli straordinari artefici del vero e proprio set cinematografico che ha ingannato Adolf Hitler al punto di fargli perdere una guerra.

Noti come l’Esercito Fantasma, più che soldati erano un eclettico ed eterogeneo gruppo di attori, scenografi, pubblicitari, ingegneri e tecnici del suono in divisa. Uomini e donne che misero in scena alcuni tra i più grandi inganni della storia militare. Dozzine di spettacolari messe in scena, dozzine di show plateali per celebrare agli occhi del nemico le più fondamentali operazioni - false - quali preludio di delicate mosse strategiche vere. Artisti del depistaggio. Impegnati dalla Normandia al Reno per imbrogliare uno dopo l'altro i generali di Hitler. Convincendoli del fatto che gli Alleati si sarebbero sempre trovati in luoghi dove in realtà non si trovarono mai.

Questa unità tattica atta ad operazioni segrete di depistaggio durante il conflitto, era discepola di Jasper Maskelyne, l’illusionista inglese che comandò la “Banda dei miracoli” durante la campagna di El Alamein nel 1942. Quando fu in grado di "spostare" agli occhi dei tedeschi l’intero Porto di Alessandria di qualche miglio, riproducendolo fedelmente in fango e paglia, per attirare i bombardieri tedeschi che portarono parecchi raid a vuoto, mentre si convincevano di aver inflitto pesanti perdite agli inglesi.

Le armi dell'Inganno

Per Fortitude, parte della più grande Operazione Bodyguard, riprodusse un intero corpo d’armata finto che prese letteralamente vita dall’altra parte del passo di Calais, dove i tedeschi si erano sempre attesi l’invasione, e dove avevano concentrato i lori sforzi per fortificare il Vallo Atlantico. Venne così allestito il FUSAG (First United States Army Group), nel quale erano inquadrate 50 finte divisioni ed un finto mezzo milione di soldati che presero vita attraverso il talento di poco più di mille uomini.

La 603ª Unità addetta al Camouflage (camuffamento e mimetismo, ndr) dispiegò migliaia di carri armati Sherman, Willys, camion Dodge, caccia P-51 Mustang e Spitfire di gomma gonfiabile e tela. Mentre alla fonda nei porti e nelle darsene vennero sistemati mezzi da sbarco di legno tenuti a galla da barili vuoti, che emettevano vapore fittizio dai fumaioli per accentuare l’illusione. Chiazze d’olio venivano versate ad arte per simulare spostamenti e manovre recenti. Intanto, la 3123ª Trasmissioni Speciali diffondeva da potenti altoparlanti nastri che simulassero il rombo degli aerei e carri armati in addestramento. Il tutto venne registrato a Fort Knox negli Usa.

Nelle basi interamente allestite in legno, con mense, depositi di munizioni, postazioni antiaeree, venivano addirittura stesi abiti sugli stendini per rimarcare veri e propri "segni di vita". Vita di tutti i giorni, che nell'inganno non deve mai essere trascurata.

Nei paesi circostanti i giornali locali stampavano notizie sulla difficile convivenza con le operazioni militari. Addirittura false mostrine vennero ideate per le false divisioni del FUSAG. Per completare l’inganno l’unità impiegava mezzi veri secondo schemi prescritti. L’atmosfera era mantenuta viva da mezzi reali, come camion telonati, guidati in traiettoria circolare con solo due soldati vivi seduti negli ultimi posti, per simulare trasporti di fanteria. Gli aerei da caccia decollavano e atterravano sulle piste, passando in rassegna le squadriglie gonfiabili. Le batterie di artiglieria vera sparavano salve per simulare esercitazioni di tiro. La polizia militare vigilava gli incroci e le visite dei generali dello Stato Maggiore, ed addirittura da Re Giorgio venivano rifilate come esca alle spie doppiogiochiste che riferivano tutto ai servizi segreti nazisti. Così la 15° armata di Von Salmuth rimaneva attestata nei pressi di Calais, e la Normandia rimaneva difesa da pochi effettivi mal equipaggiati. Il D-Day doveva attendere solo il bel tempo, la schiarita del 5 giugno diede il via alle operazioni, il giorno dopo sarebbe stato "il giorno più lungo".

La sera della "prima"

Il culmine della messa in scena venne toccato la notte del D-Day, quando l’Operazione Titanic prese vita attraverso il lancio di fantocci paracadutisti degli aerei della RAF, ma questa è un’altra storia. Poche settimane dopo lo Sbarco In Normandia, la 23ª venne mandata in Francia ad allestire un finto porto artificiale Mulberry per attirare e distogliere l’artiglieria tedesca; poi per simulare un accerchiamento ulteriore della città di Brest, cosi' che la guarnigione in seguito si arrese. E così via, da quella che fu Linea Maginot fino al Reno, e poi alla fine della guerra. Questo “show ambulante”, che mise in scena più di venti battaglie al ridosso delle linee di fronte utilizzando dei giocattoli per divertire i bambini, salvò un’infinità di vite. Un numero che è difficile anche solo immaginare. “Il nemico“ scrisse il generale Omar Bradley “..cadde nelle nostre mani, vittima del più grande bluff di tutta la guerra.”

L’inganno del Fusag fu un tale successo che anche dopo il consolidamento della testa di ponte alleata in Normandia, Hitler e lo Stato Maggiore tedesco continuarono a temere che il grosso delle forze (inesistente) sarebbe sbarcato a Calais. Sarebbe stato niente di meno che il generale Patton, volutamente trattenuto fuori dalla scena, a guidare lo sbarco principale. Lo confermavano gli agenti doppiogiochisti tedeschi controllati dagli Alleati. Colui che rispondeva al nome in codice di Brutus riferì: "Ho visto con i miei occhi il gruppo di armate Patton che si prepara a imbarcarsi nei porti sulla costa orientale e meridionale". E in seguito affermava di aver sentito dire al generale Patton dire: "Ora che la diversione in Normandia sta funzionando così bene, è venuto il momento di iniziare le operazioni intorno a Calais". 

Vennero inscenate di nuovo le stesse simulazioni di attività pre-sbarco che avevano preceduto l’invasione della Normandia. Operazioni di commando atte al sabotaggio delle posizioni difensive più inespugnabili. Finti lanci di paracadutisti nell’entroterra di Calais, bombardamenti mirati nei punti di sbarco, luci notturne che indicavano l’imbarco in corso, aumentato traffico radio tra le flotte in mare e in cielo.

Lo stesso agente segreto Garbo, forse la più nota falsa spia nazista, comunicò: "Trasmetto questo messaggio con la convinzione che l’attacco in corso [in Normandia] sia un tranello messo in atto allo scopo di indurci a riposizionare strategicamente tutte le nostre risorse, cosa che in seguito ci pentiremmo di aver fatto". Mentre Rommel sopperiva di fronte a quella che si mostrava settimana dopo settimana un implacabile e inesauribile insieme di forze e mezzi impiegati dagli alleati, lo Stato Maggiore ai comandi di Hitler tentennava nell’inviare le fatidiche divisioni corazzate per ricacciare in mare gli Alleati e fargli fare una seconda Dunquerke. Una seconda Dieppe. L'ordine non arrivò in tempo. La guerra prendeva in tal modo una piega definitiva. Gli Alleati, affollando cielo, terra e mare, riempivano l’etere dei tre punti e una tacca che ogni mezzo da battaglia si cambiava via codice morse. Quel "tu tu tu tuuuuum", la V che stava per vittoria.

I Leslie Fry, una spia nazista all’ombra della Casa Bianca. Pietro Emanueli su Inside Over il 16 maggio 2022.

Prima che gli Stati Uniti entrassero nella Seconda guerra mondiale contro l’Asse, a causa di Pearl Harbour, i rapporti con la Germania nazista erano stati caratterizzati da un altalenare tra tacita simpatia e animosità contenuta. Lo stesso Führer, come è noto, era un estimatore del sistema segregazionistico e alcuni dei più ricchi e influenti imprenditori americani, come Henry Ford, erano favorevoli ad un’intesa germano-americana.

Adolf Hitler, intravedendo la possibilità (seppur remota) di un accordo amichevole con gli Stati Uniti, portò avanti una campagna di condizionamento dell’opinione pubblica a stelle e strisce a mezzo di giornali, influenzatori e gruppi di pressione. Una storia semisconosciuta, perché dell’agenda americana del Führer si è sempre scritto poco, ma che merita di essere raccontata per dovere divulgativo. Una storia che vede il German America Bund, la Legione d’argento dell’America e Leslie Fry come protagonisti.

La vita prima del nazismo

Leslie Fry, al secolo Louise Arabella Chandor, nacque a Parigi il 16 febbraio 1882. Figlia di due americani appartenenti all’alta borghesia, John Arthur Chandor ed Elizabeth Fry, era legata da parte di padre all’avventuriere e imprenditore magiaro László Fülöp Sándor.

La Fry avrebbe trascorso gran parte dell’infanzia e dell’adolescenza in Russia, dove il padre e Sándor avevano basato il grosso delle loro attività economiche. E proprio in Russia, nel 1906, la Fry avrebbe contratto matrimonio con il capitano Feodor Shishmarev, un membro dell’omonima famiglia di nobili, assumendo una nuova identità: Paquita Louise de Shishmareff.

Vivere nella Russia zarista prerivoluzionaria avrebbe avuto un impatto profondo sulla futura agente del Terzo Reich. Perché, benché disinteressata alla politica, la Fry ebbe modo di respirare l’aria del tempo, permeata da e intrisa di isteria giudeofobica. Erano i tempi dei pogrom antiebraici e della pubblicazione dei Protocolli dei Savi di Sion, del resto, e la Fry, come tante altre persone altolocate dell’epoca, avrebbe creduto alle teorie sull’esistenza di un piano dell’internazionale ebraica per rovesciare i Romanov.

Nel 1917, all’alba della Rivoluzione d’ottobre, Shishmarev ordinò a Fry di fuggire da San Pietroburgo insieme ai loro due figli, Kyril e Misha, e di portare con sé tutti gli averi di famiglia. I due non si sarebbero più rivisti: Shishmarev fu giustiziato dai bolscevichi qualche mese dopo.

Al servizio della svastica

Testimone delle violenze bolsceviche nella Russia postrivoluzionaria, e in fuga dall’Europa distrutta dalla Grande guerra, la Fry avrebbe fatto riparo negli Stati Uniti nel primo dopoguerra. E qui, forte di un cognome pesante, farsi largo nei salotti buoni non sarebbe stato difficile.

Carismatica, persuasiva e con al seguito una mole di documenti del cospirazionismo giudeofobico di matrice zarista, la Fry si sarebbe rapidamente affermata come la madrina dell’antisemitismo intellettuale a stelle e strisce, convincendo alcuni dei personaggi più influenti dell’epoca che i Protocolli fossero veri. Personaggi come Henry Ford, che dopo aver fatto la conoscenza della Fry sarebbe divenuto uno dei più accaniti sostenitori della teoria del complotto demo-pluto-giudaico-massonico.

L’attivismo della Fry non sarebbe passato inosservato né in patria, dove attirò l’attenzione del Ku Klux Klan, né in Germania, dove diventò il punto di riferimento oltreoceano dell’albeggiante galassia nazionalsocialista. Non si sa bene né quando né come, ma ad un certo punto degli anni Trenta, sicuramente dopo il 1933, la Fry sarebbe stata arruolata dal Terzo Reich nelle vesti di agente di propaganda.

Benestante, inquadrata all’interno di un circuito di amicizie potenti e colta, la Fry era ritenuta la persona giusta al posto giusto. Le fu affidata la missione di trasformare il principale gruppo di pressione tedesco dell’epoca, il Bund Tedesco Americano (GAB, German American Bund), in un potente strumento di condizionamento dell’opinione pubblica e della politica.

Istituito nel 1936 su ordine di Adolf Hitler, il GAB era composto da cittadini statunitensi di origine tedesca e rispondeva alle direttive di Berlino. Il fondatore, del resto, era Fritz Julius Kuhn, un tedesco che era stato inviato negli Stati Uniti con il solo scopo di dare vita al GAB. Con il supporto della Fry, che dagli anni Venti era in contatto con la grande imprenditoria e con il KKK, il GAB sarebbe riuscito a farsi largo tra l’elettorato WASP e a vantare, all’acme dell’espansione, più di sessantamila iscritti.

Curiosamente, ma non sorprendentemente, il GAB avrebbe cominciato a fare un uso crescente della violenza in concomitanza con l’approssimarsi della Seconda guerra mondiale – celebri, a questo proposito, le “violenze di Madison Square Garden” del 20 febbraio 1939: una giornata di scontri alla quale parteciparono ventimila persone.

Demolito a colpi di arresti, sanzioni ed espulsioni, il GAB si sarebbe estinto entro il 1941. La Fry, invece, fu indagata per sedizione e propaganda nazista e chiamata a testimoniare dinanzi alla Commissione per le attività antiamericane della Camera dei rappresentanti. E dopo un breve periodo di detenzione, durato dal dopo-Pearl Harbour alla fine del conflitto, fu rimessa in libertà.

Il dopoguerra e la morte

La Fry avrebbe trascorso il secondo dopoguerra a divulgare i risultati delle sue indagini sul complotto demo-pluto-giudaico-massonico, cercando di trasformare l’imponente due-volumi Occult Theocrasy nel testo di riferimento di antimassoni, neonazisti e investigatori dell’esoterismo.

Pubblicato fra il 1931 e il 1933, ma divenuto popolare a posteriori, Occult Theocrasy è effettivamente divenuto un testo-culto tra i principali circoli cospirazionistici della destra radicale occidentale ed è largamente ritenuto, nonostante il carattere esplicitamente dietrologico e antisemita, uno dei lavori di ricerca più dettagliati mai realizzati su società segrete e logge massoniche.

Complice il mutamento dei tempi, e dunque l’esclusione da quei salotti che un tempo l’avevano resa una socialite, la Fry avrebbe vissuto gli ultimi anni della propria esistenza in disparte, lontano dai riflettori, divulgando ed evangelizzando a distanza. Muore il 15 luglio 1970, nella sua dimora di Los Angeles, senza aver mai rinnegato nessuno degli ideali professati e, soprattutto, senza aver mai svelato i segreti dell’agenda americana del Terzo Reich.

Charles Lindbergh, l’aviatore che sognava di unire Roosevelt e Hitler. Pietro Emanueli su Inside Over il 16 maggio 2022.

Il nazismo e Adolf Hitler hanno esercitato un fascino ed un impatto notevoli sull’immaginario collettivo a stelle e strisce. E non poteva essere altrimenti, visto che gli Stati Uniti degli anni Trenta stavano venendo travolti dalla seconda onda del Ku Klux Klan, erano un ambiente fertile per la proliferazione della giudeofobia ed erano permeabili alle idee e alle ideologie razzialistiche in ragione dell’egemonia politico-culturale del suprematismo WASP e del sistema segregazionistico.

Vari furono i grandi imprenditori, i politici e i personaggi pubblici che prestarono l’orecchio, e a volte persino il cuore, a quello che Alfred Rosenberg aveva definito il Mito del ventesimo secolo. Celebre è il caso del pioniere dell’automobilismo Henry Ford, autore de L’ebreo internazionale e destinatario dell’Ordine dell’Aquila tedesca per i servigi resi al Terzo Reich. E altrettanto noto è il caso di Charles Lindbergh, l’aviatore più adulato dagli americani, che sognò di unire in un matrimonio politico Franklin Delano Roosevelt e il Führer.

Leggenda dell'aviazione

Charles Augustus Lindbergh nacque a Detroit il 4 febbraio 1902. Figlio di due svedesi appartenenti alla classe alta – il padre un avvocato, la madre una professoressa –, Lindergh fu allevato alla coltivazione di due passioni sin dalla tenera età: la politica e l’esercito.

Il padre, che all’epoca della Grande guerra aveva lottato per mantenere gli Stati Uniti neutrali, era comunque un patriota: isolazionista, sì, ma patriota. E Lindbergh, una volta adulto, avrebbe tradotto quel patriottismo in arruolamento nelle forze armate, più precisamente nell’aviazione.

Dotato di un talento naturale in materia di pilotaggio di aerei, Lindbergh avrebbe ottenuto il grado di capitano in soli due anni: nel 1924 l’ammissione al corso di pilota dell’aviazione militare, nel 1926 il prestigioso riconoscimento. Un anno dopo aver ottenuto il grado di pilota, tra il 20 e il 21 maggio 1927, Lindbergh avrebbe scritto e fatto la storia a bordo del proprio monoplano leggero: lo Spirit of Saint Louis.

Su quel monoplano, al di là di ogni aspettativa e previsione, il giovane Lindbergh avrebbe compiuto un’impresa storica: la prima traversata transatlantica in aereo, in solitaria e senza fare scalo. Non è dato sapere perché volle imbarcarsi in una simile follia, forse per la gloria o forse perché incitato dai piani alti, ma è noto ciò che accadde durante e dopo la traversata. Nel durante, il pilota ebbe l’appoggio della loggia massonica alla quale era affiliato e della quale mostrò la bandiera in volo. Nel dopo, invece, il pilota ottenne la Dinstinguished Flying Cross dall’allora presidente Calvin Coolidge.

Il talentuoso pilota, il migliore della sua generazione, era, forse, stato scelto dalla Casa Bianca per portare avanti un’incredibile operazione pubblicitaria, di proiezione di potere morbido oltreconfine. Lo stesso anno della traversata, inoltre, fu eletto Uomo dell’anno dal Time.

Nel 1932, all’acme della popolarità, Lindbergh fu sconvolto da una tragedia che lo avrebbe cambiato profondamente: il rapimento (con successiva uccisione) del figlio Charles August. Fu il primo caso di scomparsa di persona ad avere eco internazionale.

Sparito nei pressi di casa il 1 marzo, il piccolo Charles August fu ritrovato senza vita due mesi dopo, il 12 maggio, in una località del New Jersey. Per quel barbaro omicidio fu condannato alla sedia elettrica un noto pregiudicato, Bruno Hauptmann, che, però, si proclamò innocente sino all’ultimo. Gli stessi Lindbergh, del resto, non sembrarono mai totalmente convinti dell’effettiva colpevolezza di Hauptmann.

I Lindbergh, ancor prima che Hauptmann venisse giustiziato, decisero di trasferirsi momentaneamente in Europa per allontanarsi dalle luci dei riflettori, perché bisognosi di tutto meno che delle attenzioni ossessive dei giornalisti d’assalto. E fu precisamente qui, in concomitanza con l’ascesa del nazifascismo nel Vecchio Continente, che il disincantato e depresso pilota avrebbe trovato una via di fuga dalla realtà: il nazismo.

Diventò un visitatore assiduo della Germania, nella quale si recò più volte tra il 1936 e il 1939, cominciando a scrivere e parlare pubblicamente, chiaramente in termini positivi, di Adolf Hitler e dell’esperimento nazista. Fiutando l’opportunità di avere tra le mani un personaggio pubblico, e tremendamente influente, il Führer insignì Lindbergh della Croce di Servizio dell’Ordine dell’Aquila tedesca all’alba della Seconda guerra mondiale.

Rincasato nel 1939, perché chiamato in servizio attivo nell’aviazione militare, Lindbergh si sarebbe trasformato in un attivista anti-interventista: nel più celebre dell’epoca. Divenuto il portavoce del più importante gruppo di pressione isolazionistico di quegli anni, l’America First Committee, Lindbergh cominciò a parlare tra piazze e università a decisori politici, studenti e gente comune della necessità di restare fuori dal conflitto, del bisogno di riconoscere il pericolo per la sicurezza nazionale costituito da una presunta “lobby ebraica” e dell’imperativo di riconoscere il nuovo ordine europeo, di scendere a patti con Berlino.

Lindbergh trovò supporto in sua moglie, la scrittrice di successo Anne Spencer Morrow, che nel 1940 diede alle stampe il manifesto del nazismo americano: The Wave of the Future. Un’opera che, negli anni a venire, avrebbe esercitato una notevole influenza su personaggi come George Lincoln Rockwell.

Gli Stati Uniti si sarebbero dovuti alleati con la Germania nazista, sosteneva l’aviatore, in funzione anticomunista e antiebraica. Perché sovietici ed ebrei, secondo Lindbergh (e secondo Hitler), erano i veri nemici della pace mondiale. Idee pericolose, estrapolate letteralmente dal Mein Kampf, che Lindbergh poté esprimere liberamente ovunque, da costa a costa, parlando sul palco di università come Yale.

Ad un certo punto, all’alba di Pearl Harbour, il caso Lindbergh finì sulla scrivania dell’allora presidente Franklin Delano Roosevelt. Le capacità di persuasione dell’aviatore, però, nulla poterono per smuovere l’inamovibile Roosevelt: i nazisti erano i nemici, sebbene la guerra tra le due potenze non fosse ancora scoppiata, e nessuna alleanza avrebbe potuto essere siglata con loro.

Nel dopo-Pearl Harbour, complice l’ondata di patriottismo che investì gli Stati Uniti, Lindbergh si conformò alla linea della presidenza Roosevelt. Inizialmente, causa la memoria fresca del suo attivismo politico unidirezionale, non fu arruolato nell’aviazione, perché ritenuto un possibile agente nazista, ma gli fu permesso di addestrare i piloti e di erogare consulenze agli sviluppatori di aerei. Con l’avanzare della guerra, però, sarebbe stato infine reclutato e inviato a combattere i giapponesi nel Pacifico.

Il dopoguerra e la morte

I flirt con il nazismo non avrebbero intaccato in nessun modo la popolarità di Lindbergh. Era una leggenda vivente, al di là delle sue discutibili convinzioni politiche, e tale sarebbe rimasto dall’immediato dopoguerra alla morte.

Continuò a servire nelle forze armate, dapprima partecipando allo sviluppo dei caccia per la United Aircraft e dipoi ricoprendo il ruolo di generale di brigata nella riserva dell’aviazione militare a partire dell’amministrazione Eisenhower, sullo sfondo dell’erogazione di consulenze a giganti dei cieli come la Pan American World Airways.

Ebbe un nuovo picco di popolarità negli anni Cinquanta, nel corso dell’era Eisenhower, a seguito della pubblicazione di un libro di memorie, intitolato The Spirit of St. Louis, che gli valse il Pulitzer per la biografia e autobiografia. Non era la notorietà, comunque, che andava cercando. Perché di lì a breve, difatti, avrebbe abbandonato l’entroterra in direzione delle più solitarie Hawaii. E qui, a Kipahulu, il 26 agosto 1974, morì per un linfoma.

Karl Haushofer, il geopolitico che plasmò il nazismo. Pietro Emanueli su Inside Over il 16 maggio 2022.

Bistrattata da taluni, incompresa da qualcuno e sopravvalutata da altri, la geopolitica è la disciplina che indaga le relazioni intercorrenti tra la geografia e l’azione umana. Ieri in stato di disuso, mentre oggi in misuso semi-permanente, la geopolitica è sempre stata quando fraintesa e quando abusata.

Coloro che han saputo servirsi di questa disciplina più egregiamente sono stati i britannici e i loro eredi, cioè gli statunitensi, che hanno basato il loro potere, la costruzione delle loro egemonie, sulla conoscenza approfondita della geografia. E se britannici e statunitensi hanno potuto dominare il mondo, prendendo il controllo di luoghi all’apparenza irrilevanti e conducendo politiche a prima vista insensate, ciò è accaduto perché hanno dato i natali e/o hanno adottato alcuni dei migliori geopolitici e strateghi che siano mai esistiti, come Alfred Mahan, Edmund Walsh, Halford Mackinder, Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski.

Chi era Albert Speer, l’architetto di HitlerLa geopolitica è sempre stata affare delle grandi potenze, di regni ed imperi, e se oggi è ambito quasi esclusivo di una cerchia ristretta di attori, in primis Stati Uniti, Federazione russa, Repubblica Popolare Cinese e Turchia, ieri fu (soprattutto) l’oggetto di studio degli europei continentali, in particolare dei tedeschi. E se si scrive di geopolitica tedesca, che ancora oggi è molto meno conosciuta rispetto a quella angloamericana, non si può fare a meno di citare Karl Haushofer.

La vita prima del nazismo

Karl Ernst Haushofer nacque a Monaco di Baviera il 27 agosto 1869. Appartenente ad una famiglia di letterati, artisti e politici, Haushofer crebbe nell’agio e fu allevato in un ambiente aristocratico. Al termine della leva, svolta presso il reggimento di artiglieria, rimase negli ambienti militari grazie ad una cattedra di insegnamento all’Accademia della guerra bavarese.

Nel 1903, anno dell’ingresso all’Accademia della guerra bavarese, nacque il suo primo figlio dal matrimonio con l’ebrea tedesca Martha Mayer-Doss: Albrecht. Scrivere di Albrecht è importante. Una volta adulto, difatti, avrebbe seguito le orme le padre diventando un geopolitico a sua volta.

Nel 1908 sarebbe partito alla volta dell’Asia agli ordini del Kaiser, Guglielmo II, allo scopo di studiare da vicino la potenza emergente del continente: il Giappone. A Tokyo, dove alternò lo studio dell’Esercito imperiale e l’erogazione di consulenze in artiglieria, riuscì persino ad incontrare l’imperatore Meiji. Dopo aver visitato la Corea e la Manciuria, all’epoca occupate dai giapponesi, fece ritorno in patria in transiberiana.

Colpito dai progressi fatti dal Giappone durante l’era Meiji, nonché dalla cultura e della civiltà nipponica, Haushofer avrebbe dedicato l’anteguerra alla popolarizzazione degli studi sull’Estremo Oriente in patria, diventandone il capofila. Temporaneamente costretto dallo scoppio della Grande guerra a mettere da parte i libri e l’insegnamento, in quanto chiamato a servire l’esercito tedesco nel fronte occidentale, Haushofer avrebbe ripreso in mano la carriera accademica nel dopoguerra. E sarebbe diventato, incidentalmente, il «geopolitico del nazismo».

Il pensiero

Definire Haushofer un nazista è semplicistico, oltre che sbagliato: era un figlio legittimo del suo tempo, che era stato testimone, come ognuno dei suoi contemporanei, della rovinosa disfatta della Germania guglielmina e della sua successiva riduzione in frammenti.

Vero è che le teorie geopolitiche di Haushofer ebbero un impatto dirompente sulla formazione e sulla formulazione dell’agenda estera del Partito nazista, ma lo è altrettanto che prese in moglie una donna ebrea e che crebbe il frutto del loro matrimonio nella fede ebraica – difendendo tali scelte apertamente.

Haushofer era un appartenente alla scuola spengleriana, cioè un declinista, che si era formato sui testi dei padri fondatori della geopolitica e della geostrategia: Alexander von Humboldt, Halford Mackinder, Friedrich Ratzel, Rudolf Kjellen e Karl Ritter.

Il geopolitico, in breve, era dell’idea che la Germania avesse perduto la guerra (anche) a causa della scarsa conoscenza della geografia e che il tracollo post-imperiale avrebbe potuto essere rallentato, e magari fermato, se si fosse dotata la classe dirigente weimariana di una coscienza storico-geografica.

Dalla cattedra di geografia politica della prestigiosa Università di Monaco, nel primo dopoguerra divenuta il punto di riferimento di un mondo accademico in frantumi e spaesato, Haushofer avrebbe spiegato ad una platea variegata di ascoltatori – studenti, politici e attivisti, come un giovane Rudolf Hess – i cinque fondamenti teorici della geopolitica della rinascita:

Lo Stato da intendere come entità organica, cioè dotata di vita propria e dunque esposta al rischio di morire;

L’importanza di assicurare allo Stato, in quanto entità organica e bisognosa di ossigeno, uno spazio vitale (lebensraum) di adeguate dimensioni;

L’imperativo di riconoscere la perniciosità dell’interdipendenza economica, poiché utilizzabile come un’arma da parte altrui in ogni momento, con conseguente riscoperta e rivalorizzazione del sistema autarchico;

La consapevolezza che ogni potenza, oltre ad un lebensraum, abbisogna di panregioni (Panideen), cioè di sfere di influenza, da satellizzare per scopi demografici, economici e securitari;

La lettura della storia come uno scontro eterno tra Terra e Mare, ovverosia tra potenze tellurocratiche alla ricerca di sbocchi in mari e oceani e di talassocrazie impegnate nell’ingabbiamento delle prime in una condizione terrestre.

Nella curiosa concezione geopolitica di Haushofer, frutto della fusione, dell’ampliamento e dell’approfondimento del pensiero di Mackinder, Mahan e Ratzel, la storia sembra insegnare che i confini degli Stati siano fluidi, ovvero variabili sulla base della contingenza storica e degli interessi biogeografici, e che sia legittimo e possibile costruire uno spazio vitale a spese altrui.

Haushofer, che era un grande studioso della storia degli Stati Uniti e dell’Impero britannico, credeva che la dottrina Monroe dei primi e il Commonwealth del secondo validassero l’ipotesi sulla divisione del mondo in panregioni e sul bisogno primordiale degli spazi vitali. E la Germania, ugualmente alle potenze dell’anglosfera, avrebbe dovuto dotarsi di un lebensraum da coltivare, dal quale estrarre risorse e sul quale scaricare eventuali surplus demografici.

Il geopolitico aveva le idee piuttosto chiare su fino a dove si sarebbe potuto estendere il lebensraum della Germania: ovunque si trovassero i Volksdeutsche – cioè i tedeschi residenti al di là dei confini nazionali, sparsi tra Austria, Polonia, Cecoslovacchia, Romania e Svizzera – e ovunque si trovassero praterie sconfinate, tanto ricche di risorse quanto sottopopolate, come l’Ucraina.

Per quanto riguardava la panregione della rinata Germania, cioè l’insieme di terre da vassallizzare e/o con cui partnereggiare per scopi securitari e di profondità strategica, Haushofer l’aveva identificata, oltre che con l’Europa – perché bisognosa di una guida che la unisse –, con l’intera Eurafrasia. In questo senso, poiché patrocinatore di un grande asse tellurocratico tra Berlino e le principali potenze dell’Asia – Mosca, Pechino, Tokyo – in funzione anti-angloamericana, Haushofer è stato ritenuto dai posteri un proto-eurasista.

L'influenza su Hitler

L’impatto del pensiero geopolitico di Haushofer sul nazismo, fatti storici alla mano, è stato enorme. È innegabile, difatti, l’influenza haushoferiana nell’agenda estera del Terzo Reich: l’Italia come testa di ponte dell’Impero tedesco verso l’Africa, il Giappone come difensore dell’Asia orientale dagli Stati Uniti, l’Europa orientale come fabbrica adibita al soddisfacimento dei bisogni del popolo germanico, l’autarchia come terza via al capitalismo e al comunismo.

Nulla avrebbe potuto Haushofer, però, per persuadere il Führer a forgiare un’alleanza durevole con l’Unione Sovietica. Perché sul fato di quella relazione, come è noto, Adolf Hitler si era già espresso chiaramente ed esplicitamente nel Mein Kampf.

Noto esoterista, oltre che geopolitico, Haushofer sarebbe stato anche un membro di due delle più politicamente influenti società segrete della Germania interguerra: Vril e Thule. Non credeva che i tedeschi avrebbero combattuto per imporre al mondo un ordine incardinato sulla gerarchia delle razze, perché di razzismo scientifico stricto sensu non si ha traccia nei suoi scritti, però era convinto che la posta in gioco fosse tanto politica quanto metafisica, e poco terrena ma molto escatologica.

Le relazioni tra Haushofer e il Terzo Reich, più intellettuali che altro – non fu mai un membro del Partito nazista –, sarebbero andate incontro ad un progressivo e inevitabile deterioramento con il passare del tempo: prima per via delle leggi razziali e poi a causa del coinvolgimento di suo figlio Albrecht nel complotto del 20 luglio. E Albrecht, per il ruolo giocato nella cospirazione, avrebbe trovato la morte in un campo di prigionia nell’aprile 1945.

Incapaci di perdonarsi per la morte del loro figlio, della quale si ritenevano responsabili, i coniugi Haushofer si suicidarono a cavallo tra la sera del 10 e la notte dell’11 marzo 1946.

Roberto Giardina per "il Resto del Carlino" l'8 maggio 2022.

«Quando lo vidi per l'ultima volta, al Führer tremavano le mani. Mi parve subito chiaro che aveva scelto con decisione di togliersi la vita», è la testimonianza di Hans Baur, il pilota di Hitler. Fu catturato dai sovietici, subito dopo la caduta di Berlino, che lo interrogarono a lungo sulla fine del Führer. 

Il suo racconto e il suo diario vengono resi pubblici solo 77 anni dopo dal Fsb, il servizio segreto erede del Kgb. Un documento che dovrebbe porre fine una volta per tutte alle voci più o meno incredibili sul Führer, che si sarebbe messo in salvo in Sud America.

C'è da chiedersi perché i russi pubblichino il racconto del pilota mentre è in corso il conflitto in Ucraina. Forse per ricordare ai tedeschi che la capitale del III Reich fu liberata dall'Armata Rossa. Qualcuno oggi chiede che per protesta contro Putin vengano tolti gli ultimi mausolei che ricordano i caduti sovietici nell'ultima battaglia di Berlino. 

Hans Baur era il pilota del Führer fin dal 1932, prima della presa di potere, e Hitler volle congedarsi da lui e dai suoi più intimi collaboratori. Aveva tenuto pronto il suo aereo, racconta nell'autobiografia manoscritta rimasta in mano ai russi, per portare in salvo Hitler e Eva Braun, rimasta al suo fianco nel Bunker, ormai circondato dai russi.

I panzer con la stella rossa erano giunti nella Potsdamer Platz, a poco più di un chilometro. Gli aeroporti erano stati bombardati, e Baur sarebbe decollato dal viale che attraverso il Tiergarten, il parco nel cuore della città, giunge alla Porta di Brandeburgo, quello che è oggi il 17 Giugno. 

«Il Führer mi fece chiamare nel pomeriggio del 30 aprile, ricorda, insieme con il mio aiutante, il colonnello Betz. Ci incontrammo nel corridoio, all'ingresso del Bunker, mi condusse nella sua stanza, mi strinse la mano e mi disse: "Baur, voglio dirle addio e ringraziarla per tutti gli anni di fedele servizio, ora cerchi di andarsene da qui, si metta in salvo» Il Führer sembrava molto vecchio e smunto. Come segno di gratitudine voleva regalargli il ritratto di Federico il Grande, re di Prussia, che aveva nella sua stanza. 

Il pilota raccontò ai sovietici di aver tentato invano di convincere Hitler a non togliersi la vita. «I miei soldati non possono resistere, gli rispose, e anch'io non ce la faccio più». Era preda di un rabbioso risentimento, si sentiva tradito da tutti. Sulla sua tomba, gli confidò, voleva che si scrivesse: «Tradito dai suoi generali».

Il Führer temeva di essere catturato vivo dai sovietici, che avrebbero potuto invadere il Bunker con un sonnifero gassoso. Non voleva fare la fine di Mussolini, il cui cadavere fu impiccato a testa in giù a Piazzale Loreto. Secondo Baur, lo era venuto a sapere. Il Führer si uccise poco dopo l'incontro con Baur, insieme con Eva Braun, sposata in extremis il 29 aprile. 

Quel che restava del suo corpo, bruciato malamente dalle SS, fu scoperto dai russi il 13 maggio. Baur strinse la mano a Hitler alle 18. Poi si allontanò con Beitz per distruggere documenti riservati. Tornò nel Bunker alle 21, nella stanza da Hitler si avvertiva l'odore di cordite dell'ultimo colpo fatale, i cadaveri del Führer e di Eva Braun erano già stati portati via.

Baur decollò il 2 maggio verso ovest, per raggiungere le zone occupate dagli alleati, ma fu abbattuto, e catturato dai russi gravemente ferito. Gli fu amputata una gamba, e venne trasferito a Mosca. Nel 1950 venne condannato a 25 anni, ma liberato nel '55. Andò a vivere a Hersching, su un lago a sud di Monaco, cercando di farsi dimenticare. È morto nel 1993, a 96 anni. 

Era stato un asso dell'aviazione durante la Grande Guerra, combattendo sul fronte occidentale accanto a Manfred von Richtofen, il Barone Rosso, ma non nella stessa squadriglia. Abbatté sei aerei nemici, lontano da record del Roter Baron (80 duelli aerei vinti). Dopo la sconfitta, lavorò come pilota per la prima Lufthansa, nel '26 si iscrisse al partito nazista.

Fu lui a inaugurare il primo aprile del '31 la linea Berlino-Monaco-Roma. Suoi passeggeri furono in seguito Arturo Toscanini, il nunzio apostolico Pacelli, che divenne Papa, e perfino Benito Mussolini. Nel '32, divenne il primo "Luftmillionär", aveva cioè percorso in volo un milione di chilometri, record straordinario all'epoca. Hitler lo scelse come suo pilota di fiducia e lo fece arruolare nelle SS.

In extremis, nel febbraio del '45 lo promosse generale. Nel '56 pubblicò le memorie con il titolo Ich flog die Mächtige der Erde (Ho fatto volare i potenti della Terra). Non si dovrebbe dubitare della sua testimonianza, ma la storia romanzesca per qualcuno è sempre più credibile.

Hitler e il Nazismo: storia, ideologia e significato. A cura di Edoardo Angione su Studenti.it

Hitler e il Nazismo

Adolf Hitler riuscì a dominare in modo totale la società tedesca.

Il nazismo è stato definito un sistema politico totalitario. Cosa significa? Che il partito nazista e il suo capo, Adolf Hitler, riuscirono a dominare in modo completo e totale la società tedesca, la sua politica, la sua cultura, l’economia, nonché la vita (e come vedremo anche la morte) dei tedeschi per un lungo periodo: parliamo infatti di un dominio assoluto che dal 1933 costituisce una delle più grandi sfide alla democrazia e al liberalismo. Ciò che il nazismo voleva era la morte di ogni teoria, di ogni pensiero libero. Il volere del proprio leader carismatico Adolf Hitler era l’unica ispirazione dei tedeschi nella Germania nazista.  

Per Adolf Hitler era prioritaria l'eliminazione di tutti i nemici del popolo ariano.

Il nazismo traeva ispirazione dal fascismo, riproponendo e rielaborando molti elementi del modello fascista, ma portandoli a conseguenze più estreme. In ultima analisi, ciò che Adolf Hitler (e quindi il nazismo) voleva più di ogni altra cosa era l’eliminazione di tutti i nemici del popolo ‘ariano’.        

Chi era Adolf Hitler

La famiglia Hitler e il problematico rapporto del ragazzo con la scuola.

Adolf Hitler nasce nel 1889 a Braunau, cittadina austriaca. Suo padre Alois era un impiegato, sua madre Klara veniva da un’umile famiglia di contadini. All’età di 15 anni viene bocciato e decide di lasciare la scuola. Tre anni dopo, diciottenne, perde anche la madre e si trasferisce a Vienna, dove prova ad iscriversi all’Accademia di Belle Arti e ad una facoltà di architettura, ma entrambe le istituzioni lo respingono. Si guadagnerà da vivere per un po’ facendo il pittore ed il decoratore. 

L'avvicinamento alla politica e la delusione per la Prima Guerra Mondiale.

A questo punto Adolf Hitler in erba inizia ad interessarsi alla musica, ma anche a cose più concrete, come la politica, avvicinandosi a idee al tempo di gran moda come l’antisemitismo, il razzismo, e le tecniche di manipolazione di massa. Nel 1912 è a Monaco di Baviera: lavorerà per un po’ come operaio, e allo scoppio della Prima Guerra Mondiale si arruola come volontario con l’esercito tedesco col grado di caporale, distinguendosi per un po’, finché nel 1916 non viene ferito nella battaglia della Somme. Nel 1918 viene quasi accecato in battaglia da un gas letale, l’iprite: quando la Germania si arrende, Adolf Hitler si trova in ospedale, in preda ad una grave depressione. È sempre più convinto che la Germania ha perso per colpa di un tradimento interno, di cui i principali colpevoli erano stati i socialisti e gli ebrei, e per questo decide di darsi definitivamente alla politica.  

La costruzione del Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi.

Il suo primo contatto con il Partito dei Lavoratori Tedeschi, una formazione antisemita e nazionalista, è nel 1919: con loro Adolf Hitler inizia a sviluppare doti di grande oratore, denunciando l’ingiustizia del trattato di Versailles.

Hitler stava diventando una vera e propria sensazione: pur di sentirlo parlare, un buon numero di tedeschi si iscriveva al suo partito. Un partito che si stava evolvendo in fretta: nel 1921 cambia nome, ed è ormai ufficialmente la NSDAP, Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi - in altre parole il partito nazista, che già allora riconosce Hitler come leader. In una Germania in condizioni economiche disastrose, nel 1923, il partito conta già 56.000 membri, e moltissimi sostenitori.  

Il ‘putsch di Monaco’

Un'impresa ispirata alla Marcia su Roma.

Tra l’8 ed il 9 novembre del 1923 Adolf Hitler, che all’epoca ammirava molto Mussolini, tenta di coinvolgere il governo Bavarese in un’impresa ispirata alla Marcia su Roma: il putsch di Monaco. Il tentativo è anche ricordato come Putsch della birreria, essenzialmente perché partiva da un’enorme birreria situata al centro della città bavarese, dove si stava svolgendo un comizio di Gustav von Kahr, un vecchio politico reazionario. Il piano di Adolf Hitler era semplice: entrare nella birreria durante il comizio, aizzare la folla, occupare i palazzi del potere, e poi marciare verso Berlino con l’appoggio dell’esercito, dello stesso von Kahr e delle forze di polizia.   

Un tentativo fallito.

Adolf Hitler era sicuro dell’appoggio di Ludendorff, un generale della Prima Guerra Mondiale piuttosto influente, ma non quello di von Kahr, né tantomeno poteva fidarsi in quel momento delle forze dell’ordine. Seguito da una ventina di seguaci, tenta comunque l’impresa, irrompendo nella birreria con una pistola, gridando e proclamando l’inizio di una ‘rivoluzione nazionale’. Tra i 2.000 ed i 3.000 nazisti il mattino dopo marciano verso il ministero della difesa bavarese, ma vengono fermati dai poliziotti in uno scontro a fuoco: c’è qualche morto, 4 poliziotti e 16 nazisti.   

L'accusa di alto tradimento e la reclusione.

Adolf Hitler è nei guai: non soltanto ha subito una lussazione alla spalla, ma è anche ricercato per tradimento. Si rifugia per un po’ in casa di un amico, ma viene presto trovato e arrestato. Al processo l’accusa è piuttosto grave: alto tradimento. Ma il processo è anche un ottimo teatro per i comizi di Hitler, che parlerà personalmente in difesa di sé stesso. Tutto ciò che dice viene stampato sui giornali, e la sua popolarità durante il processo aumenta. Alla fine se la caverà con una pena relativamente leggera: cinque anni di prigione, peraltro in una prigione relativamente comoda. Qui Adolf Hitler resterà in realtà per meno di un anno, durante il quale potrà ricevere visitatori e rispondere alle lettere dei suoi ammiratori. In questo anno, Hitler avrà anche tutto il tempo per scrivere, con l’aiuto di Rudolf Hess, il Mein Kampf, “la mia battaglia”.  

4dolf Hitler, Mein Kampf - La mia battaglia

Il successo del Mein Kampf e la pena ridotta.

Il titolo originale del Mein Kampf doveva essere molto più lungo: “Quattro anni e mezzo di lotta contro la menzogna, la stupidità e la codardia”. L’editore, un ex commilitone di Adolf Hitler, lo convincerà, per ragioni di ‘marketing’, ad adottare un titolo più sintetico e funzionale: “la mia battaglia”.  Il libro riscuote un certo successo anche fuori dalla cerchia degli iscritti al partito nazista, rendendo Hitler ancora più famoso: in qualche modo, i contenuti riescono a fare presa sui tedeschi. Il Mein Kampf uscirà nel 1925 - otto anni prima che Adolf Hitler arriverà al potere. Nel frattempo, alla fine del 1924, il futuro dittatore era stato liberato in anticipo grazie ad un’amnistia.  

I progetti di Hitler per la Germania.

Ma cosa c’era scritto sul Mein Kampf? Essenzialmente, il libro delineava l’ideologia di Adolf Hitler ed i suoi piani futuri per la Germania. L’elemento più importante era la necessità di colonizzare altri paesi, poiché il popolo germanico (volk) aveva bisogno di spazio vitale (lebensraum) dove poter prosperare senza essere contaminato da altre razze. Il popolo ebraico, al contrario, era per Hitler un popolo di parassiti, che infestavano quegli spazi che spettavano di diritto agli altri popoli: per avvalorare queste tesi, Hitler non si fa problemi ad utilizzare materiale falso e complottista, come i Protocolli dei Savi di Sion. Un altro nemico da combattere, poi, erano i socialisti ed i comunisti, perché le loro idee negavano concetti come la classe e la nazione, due elementi fondanti del nazionalsocialismo. L’espansione tedesca profilata da Adolf Hitler avrebbe dovuto essere diretta verso est, perché ad est c’era il nemico, comunista ed asiatico. Soltanto così si sarebbe realizzato un ‘nuovo ordine Europeo’, naturalmente contrassegnato da una supremazia tedesca.  

Gli ebrei non furono mai nomadi, ma sempre e soltanto parassiti. 

La scalata verso il potere di Adolf Hitler

La crisi economica e politica della Germania.

La crisi del 1929 aveva dimezzato la produzione industriale tedesca, creato 6 milioni di disoccupati, e preoccupato i risparmiatori: diviso sulla strada da seguire per migliorare la situazione, il governo socialdemocratico si dimette nel 1930. Il nuovo governo del centrista Heinrich Brüning, privo di una maggioranza, punta al contenimento del debito pubblico, senza però risolvere i problemi dei ceti più poveri. Brüning considera i nazisti degli alleati di cui servirsi all’occorrenza. Quanto alle sinistre, i socialdemocratici (votati  dagli operai organizzati) e i comunisti (votati dai disoccupati) erano più divisi che mai. Gli uni puntavano a salvaguardare la democrazia, gli altri puntavano invece direttamente alla rivoluzione.  

Le alternative di destra a Hitler.

Il partito nazista non era l’unica formazione di destra che stava rapidamente guadagnando consensi nella Germania della Repubblica di Weimar. Il Partito nazionalpopolare tedesco (DNVP) costituiva la principale alternativa ad Adolf Hitler: era una formazione ostile alla costituzione di Weimar, al movimento operaio e alla democrazia, ma priva degli elementi di novità che rendevano il nazismo unico. Insieme ad importanti personalità dell’esercito, il Partito popolare si illudeva di poter sfruttare Hitler, sottovalutandone l’unicità e le capacità.    

Gli ingredienti del successo del Partito Nazista.

Ma cos’è che rendeva il partito nazista così efficace e così particolare? I loro punti di forza erano essenzialmente quattro:    

Agire secondo le leggi

Dall’esperienza fallita del Putsch, Hitler aveva imparato alcune cose: in una società di massa, il potere non si conquistava con la forza, ma con il consenso delle masse, e per di più, per garantirsi l’appoggio dei poteri già consolidati, bisognava agire, almeno in apparenza, secondo le regole. Per questo motivo, nel 1928 e nel 1930 il partito nazista si candida regolarmente alle elezioni, ottenendo prima il 2%, e poi il 24,5%.

Un’Organizzazione paramilitare e violenta

I nazisti accompagnavano le tattiche ‘legalitarie’ con la violenza politica sistematica e con un’organizzazione paramilitare e gerarchizzata, largamente ispirata al fascismo italiano. Studenti, contadini, medici, donne: c’era un’organizzazione nazista per ognuna di queste categorie, ognuna con la propria divisa ed il proprio regolamento. Dal 1921, poi, esistevano organizzazioni paramilitari naziste come le SA (‘truppe d’assalto’), principalmente dedite ad atti di violenza nei confronti di comunisti e socialisti, o come le SS (Schulz Staffen, ‘squadre di protezione’), che costituiscono inizialmente la guardia del corpo di Hitler. Tutte queste organizzazioni inquadravano i giovani in un’ottica di purezza razziale, e attraverso la violenza sistematica contribuivano a rendere l’atmosfera in Germania sempre più pesante e tesa. Era Adolf Hitler, il Führer (‘capo’), l’unico che poteva controllare queste organizzazioni. Non lo Stato, l’esercito o la polizia.

La propaganda

Joseph Goebbels, laureato in filosofia e capodistretto del partito nazista a Berlino, intuisce l’importanza delle nuove tecnologie di comunicazione. Il suo sarà un imponente lavoro di propaganda, di costruzione del mito del Führer, di imponenti coreografie di massa e manifestazioni pubbliche in grado di colpire profondamente le emozioni dei tedeschi. Soprattutto, Goebbels sfrutta al massimo i nuovi media per la comunicazione di massa, in particolare la radio. Nel 1933 Goebbels farà esplicitamente progettare il ‘ricevitore del popolo’, una radiolina portatile in vendita a prezzi stracciati. I tedeschi la battezzeranno ironicamente ‘la bocca di Goebbels’, ed avrà un ruolo importantissimo nel diffondere in modo profondo la propaganda nazista.

Il carisma del leader

Hitler riusciva a farsi amare dal popolo non per le sue capacità, non per il suo sangue, ma perché riesce ad entrare in rapporto diretto con la massa attraverso la retorica, la propaganda, le emozioni e le scenografie. La propaganda nazista era illustrata nel Mein Kampf, ed il nazionalismo è la chiave propagandistica che assicurerà ad Hitler il successo: alla fine della Prima Guerra Mondiale la Germania era stata umiliata, ed Hitler era portatore di un messaggio e di una politica che incarnavano il bisogno di riscossa dei tedeschi.

Le nuove elezioni e la vittoria del Partito Nazista: Hitler è il nuovo cancelliere tedesco.

Questi elementi garantiscono al nazismo un successo che va oltre le classi medie, e che riesce a toccare anche operai, contadini e disoccupati. Dopo il successo del 1930, iniziano ad accorgersi del nazismo anche gli imprenditori, gli aristocratici ed i funzionari statali. Nel 1931 Hitler si incontra col capo del partito nazionalpopolare, ma rimane tra le due forze un dissenso di fondo: Adolf Hitler vuole rovesciare il potere, i nazionalpopolari puntano soltanto ad una svolta autoritaria. Nel 1932 ci sono le elezioni presidenziali, e la spunta il candidato nazionalpopolare, appoggiato anche dai socialdemocratici: entrambi sperano di contenere Hitler. I socialdemocratici vengono presto esclusi dal parlamento, e passano all’opposizione. Ci sono nuove elezioni: stavolta i nazisti sono il primo partito, col 37% dei voti. In realtà avevano perso consensi, ma i loro oppositori, profondamente divisi non sanno approfittarne: con l’appoggio degli industriali, dei poteri economici, e dell’esercito, Adolf Hitler viene nominato cancelliere il 30 gennaio del 1933, quasi 10 anni dopo il putsch della birreria.   

Il Terzo Reich

Le tappe verso la dittatura nazista.

In soli 6 mesi, i nazisti riescono ad instaurare una dittatura fondata sul proprio partito, escludendo dal potere tutti gli altri: 

1 febbraio 1933: sciolto il parlamento

4 febbraio 1933: vietati i giornali e le assemblee in caso di pericolo per la sicurezza pubblica

27 febbraio: incendio del Reichstag, palazzo del parlamento a Berlino. Vengono incolpati i comunisti: uno di loro, il giovane operaio Marinus van der Lubbe, verrà ghigliottinato per tradimento, ma è un ottimo pretesto per arrestare i principali esponenti del partito comunista e limitare ulteriormente le libertà:

28 febbraio: vista la situazione un nuovo decreto sopprime la libertà di stampa, di opinione e di associazioni (diritti costituzionali) - il governo centrale poteva ora controllare le comunicazioni postali e telefoniche dei cittadini.

A marzo ci sono nuove elezioni, la NSDAP è al 44%, ed Hitler deve formare un governo di coalizione con i nazionalpopolari. Il 21 del mese una manifestazione pubblica celebra l’ordine e la pace, mentre Heinrich Himmler, capo delle SS, apre a Dachau il primo di molti campi di concentramento per gli oppositori politici. In pratica si tratta di un carcere autonomo rispetto alle leggi e allo stato, interamente gestito dai nazisti.

I pieni poteri di HitlerCon l’arresto dei deputati comunisti e di molti socialdemocratici, il nuovo parlamento ha la maggioranza necessaria per approvare una legge che dà pieni poteri al governo, che da questo momento può legiferare in contrasto con la costituzione e gestire la politica internazionale. I poteri del cancelliere Adolf Hitler si sovrappongono a quelli del presidente della repubblica.

Il partito nazista, a questo punto, può inserire i propri uomini in tutte le istituzioni tedesche, pubbliche e private. Partiti operai e sindacati vengono sciolti, i movimenti di Centro si sciolgono, gli ebrei vengono espulsi dalla gestione di aziende, e le associazioni di industriali si sottomettono al regime: non avevano più nulla da temere dai sindacati.  

Bücherverbrennungen, il rogo dei libri. Nel maggio del 1933 vengono bruciati i lavori di alcuni tra gli esponenti più illustri della cultura tedesca degli ultimi due secoli, in un rito dal sapore medievale, architettato da Goebbels, ormai padrone assoluto anche della stampa. Il 6 luglio, la ‘rivoluzione nazista’ è conclusa e poco dopo vengono vietati i partiti: l’unico partito riconosciuto è quello nazista, che coincide ormai con lo stato stesso.  

La demilitarizzazione delle SASegue una fase di pacificazione: gli elementi più radicali del nazismo, come le SA, volevano schierarsi contro gli industriali e la grande economia. Per rassicurare i ‘poteri forti’, Adolf Hitler toglie alle SA ogni riconoscimento militare. Le forze armate tedesche rimangono l’unico elemento militare riconosciuto in Germania, escludendo allo stesso tempo gli ebrei ed adottando la svastica, già simbolo del nazismo, a proprio emblema.  

L'assassinio delle SA e di diversi rivali politici di HitlerIl 30 giugno del 1934 gran parte dei dirigenti delle SA vengono assassinati insieme ad esponenti dell’Azione Cattolica e a molti altri rivali di Adolf Hitler. Il pretesto è quello di un colpo di stato che le SA starebbero organizzando, le vittime sono circa 200, ed un altro migliaio di persone vengono arrestate. Questo vero e proprio regolamento dei conti era stato voluto in particolare dai leader delle SS e dell’esercito, che iniziano così una collaborazione intensa. Ironicamente, dato che le SA erano colpevoli di soprusi e violenza organizzata, la popolazione vede questo episodio come una liberazione.  

La morte del presidente della Repubblica: Hitler e il potere illimitato.

Nell’agosto del 1934 muore il presidente della repubblica Hindenburg, ed Adolf Hitler ne assume la carica: il suo potere ormai è senza limiti, essendo al contempo capo dello stato, del governo e delle forze armate. Il tutto è ratificato da un plebiscito.  

I nemici del Nazismo e il desiderio di incrementare la razza ariana.

Il dominio di Adolf Hitler si fonda su una concezione di stato pensato esclusivamente per i cittadini razzialmente puri e rispettosi delle regole. Non rientrano in queste categorie non soltanto gli oppositori politici e gli ebrei, ma anche gli omosessuali, i criminali comuni e i vagabondi, i testimoni di Geova, gli zingari e più in generale gli ‘asociali’, i diversi. Tutti gli altri, godono di agevolazioni mirate all’incremento demografico: le donne vengono incoraggiate a non lavorare e a procreare, ciò le esclude al contempo dai diritti politici (come quello di voto) e da quelli civili, impedendo loro di studiare e di fare carriera.  

Gli ebrei: il principale bersaglio politico di Hitler.

Naturalmente, il principale bersaglio delle persecuzioni naziste sono gli Ebrei, una comunità numerose (quasi il 10% della popolazione) e relativamente benestante. Risale al 7 aprile del 1933 una legge che impediva agli Ebrei di lavorare nell’amministrazione statale, nelle università, negli ospedali, nei tribunali e persino nel mondo dell’arte. Sono invece del 1935 le leggi di Norimberga, che vietano il matrimonio tra ‘ariani’ ed ebrei. Tutti i non tedeschi vengono esclusi dal diritto di cittadinanza, e gli ebrei vengono privati di qualunque diritto civile. 

La notte dei cristalli e l'inizio della persecuzione di massa.

Il passaggio dalla discriminazione civile alla persecuzione di massa è segnato dalla cosiddetta notte dei cristalli (9-10 novembre 1938), in cui 200 sinagoghe vengono incendiate, 91 ebrei assassinati e migliaia di negozi saccheggiati da una folla inferocita. Il nome ‘notte dei cristalli’ è in riferimento alle vetrine spaccate, e l’evento scatenante era stato l’omicidio di un diplomatico tedesco da parte di un giovane ebreo polacco: le prime rappresaglie sono scatenate da membri in borghese delle SS e delle SA, mentre alle forze dell’ordine viene imposto di non intervenire. Per la stampa di regime si tratterà di una manifestazione popolare spontanea. Dopo questo pogrom, circa 26.000 ebrei vengono internati in campi di concentramento: il nuovo obiettivo è quello di cacciare gli ebrei dal paese rendendo loro la vita impossibile. Prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, più di mezzo milione di ebrei emigra da Germania, Austria e Sudeti, accompagnati da moltissimi oppositori politici. Alcuni di loro sono tra le massime menti del novecento, come Einstein, il filosofo Cassirer, lo scrittore Thomas Mann o il regista Fritz Lang.   

Dai campi di concentramento ai campi di sterminio.

Con lo scoppiare della guerra (1 settembre 1939), e la progressiva annessione di nuovi territori, la popolazione ebraica aumenta, ed inizia ad essere applicata una vera e propria politica di sterminio di massa. Soltanto da questo momento nei campi di concentramento, dove prima di allora si moriva comunque di stenti, verranno impiegate strutture espressamente dedicate ad uccidere persone in modo sistematico e massificato. L’1 settembre del 1939 Adolf Hitler firma anche un ordine che autorizzava l’eutanasia medica, che causò l’assassinio di tedeschi affetti da handicap fisici e mentali in ospizi creati appositamente dalle SS. Nel 1941 il personale delle SS sarebbe stato trasferito presso campi di sterminio allestiti in territorio polacco (uno dei quali ad Auschwitz).   

7Economia e consenso

La creazione di nuovi posti di lavoro.

Con l’avvento del nazismo al governo, la Germania era ancora un paese segnato da una disoccupazione e da un’inflazione gravissime. Per sanare il debito pubblico vengono stanziati 5 miliardi di marchi allo scopo di creare posti di lavoro, in particolare nel settore dell’edilizia (pubblica e privata) ed in quello dell’industria militare. Queste politiche provocheranno un netto calo della disoccupazione, da 5,5 milioni nel 1932 a 1,5 nel 1936. 

Un'economia basata sulla produzione delle armi.

Il principale mezzo per creare posti di lavoro è il riarmo: l’economia della Germania nazista è indirizzata in modo netto verso la produzione di armi. Non vi sono invece significative riforme dal punto di vista dell’agricoltura, a parte una tutela della piccola proprietà. 

La guerra: l'unica via per la totale autosufficienza.

Obiettivo del regime era la totale autosufficienza (autarchia), che portava i tedeschi a dover sostituire beni per loro di primo consumo (ad esempio il burro) con succedanei più economici (come la margarina). Alla fine del 1938 l’economia tedesca era in deficit, e l’unica alternativa al prendere accordi con gli altri paesi era la guerra. 

La decrescita della disoccupazione e la struttura paramilitare in cui venivano inquadrati i lavoratori.

Nel 1938, in compenso, la disoccupazione era pressoché sparita. Le organizzazioni sindacali erano state sostituite dal Fronte tedesco del lavoro, che non negoziava condizioni vantaggiose per i lavoratori, ma li inquadrava piuttosto in una struttura paramilitare: in questo modo, ad esempio, la giornata lavorativa si allungava. Ciò non impediva agli industriali e allo stato di mantenere i prezzi bassi per i generi di consumo, riportando il potere d’acquisto dei tedeschi a livelli accettabili. Le aziende garantivano aree verdi, colonie estive per i figli dei dipendenti e pasti caldi in mensa (tutte novità, del resto, introdotte negli anni della Repubblica di Weimar). Se le ferie aumentavano, il tempo libero dei lavoratori veniva gestito dallo stato, che organizzava manifestazioni sportive e spettacoli cinematografici.   

La incessante e pervasiva propaganda.

Resta celebra l’opera di Leni Riefenstahl, un’ex attrice che realizzò film di propaganda ancora oggi considerati artisticamente validi. Uno di questi, Il trionfo della volontà, realizzato grazie ad ingenti finanziamenti del governo, e premiato sia in Europa che negli Stati Uniti, documenta un congresso del partito nazista del 1934 a Norimberga, restituendoci ancora oggi un’impressione piuttosto inquietante del trionfalismo nazista. Insomma, tutti gli ambiti di evasione e di intrattenimento erano dominati dalla propaganda: un fattore essenziale per la costruzione di un consenso di massa, che in Germania non vedrà mai significativi movimenti di resistenza popolare, guadagnandosi anzi il silenzio-assenso di alcuni intellettuali di alto profilo del tempo, come il compositore Richard Strauss o il filosofo Martin Heidegger. 

Il rapporto con la religione.

Le autorità religiose protestanti, pur prendendo le distanze dal nazismo, ne condividevano il progetto nell’ottica di una lotta al comunismo, mentre la chiesa cattolica, pur condannando il nazismo prima del 1933, firmava un concordato con il regime nel luglio del 1933 (il Vaticano è tra i primi a riconoscere così la Germania nazista). Il nazismo tendeva comunque a violare l’autonomia di tutte le confessioni, anche tramite una certa insistenza su miti neopagani legati al popolo germanico e alla razza ariana.   

Il regime, insomma, era penetrato in modo approfondito in una popolazione che tendeva a rimanere non soltanto soggiogata, ma ad immedesimarsi in pieno in Adolf Hitler.   

Un nuovo imperialismo

Una politica basata su un imperialismo aggressivo.

Alla base del programma nazista, così come alla base del consenso dei tedeschi, c’era anche una politica estera fondata su un imperialismo aggressivo, che andava a soddisfare quel bisogno di rivalsa che risaliva alla fine della Prima Guerra Mondiale.     

L'uscita dalla Società delle Nazioni e il desiderio di Hitler di riunire tutti i tedeschi d'Europa.

Nell’ottobre del 1933 la Germania esce dalla Società delle Nazioni: era evidente che il regime puntava sulla forza, piuttosto che sulla diplomazia, per mettere in discussione la Pace di Versailles. Nonostante questo, vengono stipulati accordi bilaterali con l’Unione Sovietica e con la Polonia. Un altro obiettivo di Adolf Hitler era quello di includere nella Germania nazista tutti i tedeschi d’Europa: un primo tentativo di annettere l’Austria fallisce nel 1934, mentre nel 1935 viene annessa la Saar, regione occidentale ricca di carbone occupata da Britannici e Francesi, attraverso un plebiscito.     

Le annessioni dei territori circostanti, l'invasione della Polonia e lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Anche l’energica politica nazista di riarmo violava apertamente il trattato di Versailles: durante una riunione del 1937 Adolf Hitler esponeva ai ministri il proprio progetto di scatenare una guerra l’anno successivo allo scopo di annettere Austria e Cecoslovacchia alla Germania. Gli oppositori a questa politica, membri del vecchio establishment conservatore, vengono allontanati. Il paese si era ormai trasformato in un’efficace ‘macchina da guerra’: nel 1938 vengono annesse l’Austria ed i Sudeti, nel 1939 la Boemia e la Moravia, territori cecoslovacchi. Il 1 settembre dello stesso anno, la Germania nazista invade la Polonia e scatena la Seconda Guerra Mondiale.     

Per noi è chiaro che la guerra potrà finire soltanto con la liquidazione delle popolazioni ariane oppure con la scomparsa del Giudaismo dall'Europa. 

Concetti chiave

Adolf Hitler

Hitler nasce in Austria nel 1889

A 18 anni è in Austria, non viene ammesso alle scuole, lavora come artista e disegnatore, inizia ad interessarsi alla politica

Nel 1912 va a Monaco, lavora come operaio edile

Nel 1914 si arruola con l’esercito tedesco

Nel 1916 ferito alla Somme, nel 1918 quasi accecato dall’iprite

Nel 1919 entra nel Partito dei Lavoratori Tedeschi. Nei propri comizi parla di antisemitismo e denuncia il trattato di Versailles

Nel 1921 Hitler è ormai un riconosciuto oratore e leader del partito, ora Partito Nazional Socialista dei Lavoratori Tedeschi (partito nazista)

Il putsch di Monaco

Nel 1923, nella notte tra 8 e 9 novembre, il partito nazista tenta il putsch di Monaco

Il putsch viene bloccato dalla polizia, Hitler viene arrestato qualche giorno dopo

Hitler viene condannato per tradimento a cinque anni, ma il processo, molto seguito dai giornali, sarà per lui occasione di guadagnarsi altri sostenitori

Durante la condanna, che durerà solo un anno grazie ad un’amnistia, Hitler scrive il Mein Kampf

La scalata al potere

Gli effetti della crisi del ‘29 in Germania sono devastanti: inflazione e disoccupazione sono alle stelle

Nel 1930, il governo centrista di Heinrich Brüning inizia a dialogare con le destre eversive (in particolare con i nazisti)

Le forze di sinistra sono divise, quelle di destra non possono competere col nazismo

Punti di forza della NSDAP (partito nazista): 

legalità formale;

organizzazione paramilitare, violenza organizzata;

propaganda innovativa;

potere carismatico di Hitler

Alle elezioni presidenziali del 1932, sembrano prevalere i nazionalpopolari

Con il consenso di industriali, poteri economici ed esercito, il 30 gennaio del 1933 Hitler è cancelliere

Il Terzo Reich, il razzismo e lo scoppio della guerra

In pochi mesi, nel 1933 i nazisti riescono ad instaurare una dittatura completa, tutti i poteri vengono concentrati nella persona di Adolf Hitler, tutte le opposizioni ridotte al silenzio. Il 6 luglio la ‘rivoluzione’ nazista è dichiarata conclusa

Il 30 giugno, con la notte dei lunghi coltelli, una sanguinosa resa dei conti elimina i quadri delle SA e numerosi altri oppositori e concorrenti

La prima legge di discriminazione nei confronti degli ebrei è del 7 aprile del 1933. Nel 1935 le leggi di Norimberga priveranno gli ebrei dei diritti civili

La notte dei cristalli (9-10 novembre del 1938) segnerà l’inizio della persecuzione di massa nei confronti degli ebrei

Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale (settembre del 1939) verrà avviato lo sterminio di massa

Le politiche economiche della Germania nazista puntano a far calare la disoccupazione sanando il debito pubblico

Il governo investe in modo massiccio sul settore bellico

Aboliti i sindacati, i lavoratori vengono inquadrati nel ‘Fronte tedesco del lavoro’, un’organizzazione paramilitare fortemente gerarchizzata

Il potere di acquisto e le condizioni di vita dei lavoratori tedeschi migliorano nettamente, ma al contempo aumentano le ore di lavoro

L’industria dell’intrattenimento e del tempo libero è interamente gestita dallo stato con forti intenti propagandistici

Non ci sono particolari tentativi di resistenza

Il nuovo imperialismo e lo scoppio della guerra

L’unico sbocco possibile per il regime nazista era la guerra

Nell’ottobre del 1933 la Germania lascia la Società delle Nazioni

Vengono stipulati accordi bilaterali con la Polonia e con l’Unione Sovietica

Nel 1935 viene annessa la Saar tramite un plebiscito

Nel 1937 Hitler manifesta in una riunione di governo il suo progetto: annettere l’Austria e la Cecoslovacchia

Nel 1938 iniziano le annessioni dell’Austria e di alcuni territori Cecoslovacchi

Nel 1939 proseguono le annessioni, e il 1 settembre, con l’attacco alla Polonia, scoppia la Seconda Guerra Mondiale 

Domande & Risposte

Cos’è il nazionalsocialismo?

Il nazionalsocialismo, o nazismo, è un insieme di ideologie elaborate da Adolf Hitler ma si trasforma in un sistema di governo totalitario con la presa al potere da parte del Partito Nazionalsocialista.

Quando nasce il nazionalsocialismo?

Nella prima metà del XX secolo.

Chi è stato Hitler?

Politico tedesco, cancelliere del Reich dal 1933 e dittatore nazista della Germania dal 1934 al 1945.

Dagospia il 6 maggio 2022. TOM LEONARD da dailymail.co.uk.

Al volante di una Volkswagen, BMW o Porsche, quando stipuli una polizza assicurativa con Allianz o anche solo assapori una pizza surgelata Dr Oetker o un biscotto Bahlsen Choco Leibniz, sappi che sei direttamente connesso a una azienda che si è ingrassata a causa della corruzione e della crudeltà nazista.  

I proprietari di tali aziende facevano parte di un gruppo di industriali che sostenevano il regime di Adolf Hitler. Nel febbraio 1933, subito dopo essere stato nominato cancelliere, Hitler convocò una riunione segreta dei più potenti industriali tedeschi , chiedendo loro di accumulare tre milioni di Reichsmark per la campagna elettorale del suo partito.

Le due dozzine di uomini d'affari presenti non esitarono a tirare fuori i loro libretti degli assegni. Molti sarebbero diventati i principali sostenitori del Terzo Reich, non solo tedeschi patriottici, ma membri impegnati del partito nazista e persino delle SS. Tipini che decorarono le loro dimore con dipinti rubati a ricchi ebrei inviati nei campi di concentramento.  

La narrativa convenzionale è che non erano in realtà nazisti, ma stavano semplicemente facendo il loro dovere di tedeschi. È anche generalmente accettato che, insieme al resto del paese, abbiano espiato la loro parte in uno dei capitoli più oscuri della storia. Incredibilmente, nessuno dei due presupposti – rivela un nuovo libro – è vero.  

Alcune delle famiglie più ricche della Germania oggi rimangono beneficiarie dell’attività di mostruosi collaboratori nazisti che non furono mai puniti e la cui orribile eredità continua a essere taciuta.  L'intera portata di questa terribile e persistente macchia sulla storia aziendale tedesca è esposta in Nazi Billionaires - The Dark History Of Germany's Wealthest Dynasties.  

Il suo autore, il giornalista finanziario olandese David de Jong, si concentra su alcuni dei peggiori trasgressori, cinque dinastie i cui prodotti sono ancora famosi in tutto il mondo: i Quandt della BMW; i Flick che un tempo controllavano la Daimler-Benz (ora Mercedes-Benz); la famiglia Porsche-Piech che controlla il colosso automobilistico Volkswagen; i von Fincks, finanziatori che hanno co-fondato Allianz, la più grande compagnia assicurativa del mondo; e gli Oetkers, il cui impero commerciale si estende dalla pizza surgelata del Dr Oetker alle torte.  

L'uomo che gestiva l'impero Oetker durante la seconda guerra mondiale era un ufficiale delle Waffen SS che si addestrava nel campo di concentramento di Dachau e riforniva le forze naziste di budino istantaneo. Non lo troverai scritto sull'etichetta di un vasetto di Fairy Sprinkles del dottor Oetker. 

De Jong scrive: 'I loro nomi adornano edifici, fondamenta e premi. In un paese che è così spesso elogiato per la sua cultura del ricordo e della contrizione, un riconoscimento onesto e trasparente delle attività in tempo di guerra di alcune delle famiglie più ricche della Germania rimane, nella migliore delle ipotesi, un ripensamento». 

Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia meritano parte della colpa, dice. Per motivi di "opportunità politica" e per contrastare la "minaccia incombente del comunismo", gli alleati vittoriosi hanno restituito la libertà alla maggior parte dei magnati tedeschi, il che ha permesso alla maggior parte di loro di camminare liberi.  

Anche i pochi che hanno trascorso alcuni anni in prigione sono tornati presto a gestire le loro attività. Ferdinand Porsche è ricordato come il designer dell'iconico Maggiolino Volkswagen e il nome di alcune delle più belle auto sportive. 

Fino a quando non è stato rivelato in un documentario televisivo nel 2019, la società da lui fondata ha taciuto sul fatto che avesse avuto un partner e co-fondatore ebreo, il pilota da corsa Adolf Rosenberger. L'omissione non era difficile da capire.  

Rosenberger aveva lasciato l'azienda nel 1935, costretto a vendere la sua partecipazione per una frazione del suo vero valore a Porsche e al co-fondatore Anton Piech, in base a una spietata politica nazista nota come "arianizzazione", progettata per impedire agli ebrei di possedere imprese.  

Quando Rosenberger è stato portato in un campo di concentramento, Porsche non ha fatto nulla per farlo rilasciare anche se, per fortuna, un altro dirigente della società lo ha fatto ed è fuggito senza un soldo negli Stati Uniti.  

Dopo la seconda guerra mondiale, la società rifiutò di risarcirlo, contestando la sua richiesta in tribunale. (Porsche ha anche rifiutato di alzare un dito per un altro collega ebreo che ha chiesto il suo aiuto ma è finito per morire nel campo di sterminio di Bergen-Belsen).  

Ferdinand Porsche divenne l'ingegnere preferito di Hitler e si unì al partito nazista. La sua azienda è passata dalla produzione di auto civili alla progettazione di armi e carri armati. Hanno utilizzato circa 20.000 lavoratori forzati o schiavi, portati dai paesi occupati o dai campi di concentramento.

La maggior parte erano donne, comprese le madri che hanno dovuto lasciare i loro figli in un asilo nido dove le condizioni, ha detto un pubblico ministero britannico, "sfuggono a ogni immaginazione".  

Il figlio e successore di Ferdinando, Ferry Porsche, divenne un ufficiale delle SS (in seguito affermando falsamente di essere stato costretto a unirsi a lui da Himmler) e, dopo la guerra, istituì una politica di reclutamento attivo di altri ex ufficiali delle SS nella compagnia.  

Uno è diventato il suo capo delle PR globali, mentre un altro - un comandante di carri armati delle SS che aveva massacrato 84 prigionieri di guerra statunitensi nel famigerato massacro di Malmedy - è stato nominato capo della promozione delle vendite. In una memoria del 1976, Ferry fece osservazioni antisemite su Rosenberger. 

Le famiglie Porsche e Piech ora valgono insieme $ 20 miliardi e controllano il gruppo Volkswagen, che comprende Bentley, Audi, Lamborghini, Seat e Skoda. 

Non hanno mai affrontato pubblicamente le attività dei loro antenati sotto i nazisti il che, data l'intensa pressione su aziende e individui nel Regno Unito e negli Stati Uniti per scusarsi per peccati storici molto più antichi e tenui, è uno stato di cose sorprendente.  

Invece, nel 2018 hanno creato la Ferry Porsche Foundation per rafforzare l'impegno dell'azienda nei confronti della responsabilità sociale. 

Sotto la pressione dell'opinione pubblica, ha finanziato uno studio dell'Università di Stoccarda sul periodo nazista dell'azienda che, sospettosamente, ha minimizzato i maltrattamenti di Rosenberger. 

Anche adesso, il sito web della Ferry Porsche Foundation non contiene alcuna biografia dell'uomo delle SS da cui prende il nome. 

Poi ci sono i Quandt, ancora più ricchi delle Porsche grazie a una partecipazione di controllo in BMW, Mini e Rolls-Royce, oltre a cospicui interessi chimici e tecnologici. 

Due degli eredi, Stefan Quandt e Susanne Klatten, fino a poco tempo fa erano la famiglia più ricca della Germania e hanno il controllo quasi maggioritario (47%) della BMW. (Un altro ramo della famiglia vale altri $ 18 miliardi.  

I fratelli sono nipoti dell'industriale Gunther Quandt la cui seconda moglie, Magda, era una "groupie" nazista che attirò l'attenzione di Hitler ma in seguito sposò il principale propagandista di Hitler Joseph Goebbels. 

Sia Gunther che suo figlio maggiore Herbert erano membri del partito nazista e molto più entusiasti della sua politica ripugnante di quanto non avessero mai ammesso, dice de Jong. Gunther si è affrettato a cacciare gli ebrei dai consigli delle sue compagnie non appena i nazisti hanno introdotto politiche antisemite. 

Quandt sfruttò anche "viziosamente" la politica di arianizzazione del regime, acquisendo varie società di proprietà di ebrei e altre sequestrate dai tedeschi nei paesi occupati per prezzi stracciati.  

Come i Porsche-Piech, la famiglia fece un uso massiccio di sfruttamento del lavoro: circa 57.000 lavorarono in condizioni spaventose nelle loro fabbriche. 

I Quandt costruirono anche il loro piccolo campo di concentramento in loco in modo da poter ospitare più lavoratori.

Fabio Govoni per ANSA l'1 maggio 2022.  

Quando Adolf Hitler lo ringraziò personalmente e si congedò da lui e dagli altri suoi stretti collaboratori, "gli tremavano le mani. Mi apparve subito chiaro che aveva scelto con decisione di suicidarsi" e confessò che "non ce la faceva più": questa la drammatica testimonianza diretta di Hans Baur, il pilota personale del Führer, che trascorse con lui gli ultimi giorni nel bunker sotto la cancelleria di Berlino, con le truppe russe ormai a poche centinaia di metri di distanza, prima del suicidio, la sera del 30 aprile del 1945.

L'autobiografia manoscritta di Baur e il verbale del suo interrogatorio in Russia nel 1945 da parte dell'Nkvd, predecessore del Kgb, che lo aveva fatto prigioniero, sono stati infatti pubblicati in Russia dopo essere rimasti quasi 77 anni negli scaffali del servizio segreto di Mosca. Inediti che aggiungono frammenti di testimonianza diretta del clima di quelle ultime ore, sospeso fra deliri di rivincita e il muro della morte certa, nella luce tetra di quei claustrofobici spazi. 

Per Hitler e i suoi, Baur mantenne pronta una piccola squadra di aerei, "nel caso avesse cambiato idea" e avesse acconsentito di provare a mettersi in salvo. Ma decise invece di restare a Berlino. "Fu solo il 30 aprile nel pomeriggio che mi chiamò, insieme al mio aiutante, il colonnello Betz", testimonia Baur nel documento, che contiene anche le sue foto segnaletiche. "Ci incontrammo nel corridoio e mi a condusse nella sua stanza. Mi strinse la mano e mi disse: "Baur, voglio dirle addio e ringraziarla per tutti gli anni di fedele servizio. Ora cerchi di andarsene da qui".

Il Führer, "sembrava molto vecchio e smunto. Gli tremavano le mani". Disse al suo pilota personale che come segno di riconoscenza voleva regalargli il ritratto di Federico il Grande di Prussia dipinto da Rembrandt, che era appeso nella sua stanza. Baur disse ai servizi russi di aver cercato di convincere il Führer a non uccidersi, perché "tutto sarebbe poi crollato nel giro di poche ore". Ma fu inutile: "I miei soldati non possono più resistere e non lo faranno più. Anch'io non ce la faccio più", gli confessò Hoitler, in preda a un risentimento che risparmiava veramente pochi.

Sulla sua Lapide - disse Baur, volle che si scrivesse "Tradito dai suoi generali". Secondo Hitler, i russi erano già a Potsdamer Platz e avevano l'ordine di catturarlo vivo, magari iniettando nel bunker gas sonnifero. Non solo non voleva essere catturato, ma neanche che il suo cadavere fosse esibito come un trofeo, magari appeso a testa in giù come nel truce rituale riservato al suo sodale Benito Mussolini in Piazzale Loreto solo un paio di giorni prima. 

Morì in preda a una lucida disperazione ingoiando una capsula di cianuro e sparandosi in testa durante l'agonia insieme alla compagna Eva Braun, sposata il giorno prima. I loro corpi furono bruciati dalle Ss nel giardino della Cancelleria, dove furono ritrovati dai russi il 13 maggio. L'addio avvenne alle 18. Poi Baur e il suo collaboratore Betz si allontanarono per disfarsi di alcuni documenti e preparare una fuga.

Tornati per un attimo nel bunker alle 21, videro che nella stanza privata di Hitler aleggiava il fumo stagnante degli spari. I cadaveri non c'erano più. Baur decollò il 2 maggio da Berlino diretto verso le linee degli alleati occidentali, ma fu abbattuto dalla contraerea russa e ferito a una gamba, che i medici russi gli amputarono. Fu condannato nel 1950 a 25 anni di carcere, dei quali scontò solo cinque. Tornò nell'allora Germania occidentale nel 1955 e morì nel 1993.

Lo scrittore guerriero che odiò la modernità. Matteo Sacchi il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

Siamo a Berlino, il 26 ottobre 1929, nel carcere di Moabit, cella 396. Ernst von Salomon è in prigione, per gli attentati collegati alla rivolta dei contadini nello Schleswig-Holstein. Ormai lontano dalla lotta politica diretta, Von Salomon scrive a Jünger: è l'inizio di un rapporto intellettualmente prolifico. A breve arriverà il capolavoro letterario di questo scrittore combattente: I proscritti (1930). I soldati perduti, il breve saggio, di cui anticipiamo un estratto in questa pagina, è frutto diretto del legame di von Salomon con Jünger, che lo invitò a dare un contributo al lavoro collettivo da lui diretto, Krieg und Krieger (Guerra e guerrieri). Assieme ad altri due racconti, di quello stesso periodo, è raccolto nell'omonimo I soldati perduti appena pubblicato per i tipi di Oaks. Sono testi strettamente legati a I proscritti e aiutano a capire come sia nato il meglio della produzione di von Salomon (1902-1972). E soprattutto aiutano a capire un'epoca. Lo scrittore era nato in una nobile famiglia tedesca cosmopolita, i suoi risultati scolastici mediocri spinsero i genitori a inviarlo in collegi militari dove c'era il meglio della formazione prussiana. Un insegnamento che fece presa in maniera profondissima sul giovane Ernst. Che vide il crollo della Germania, dopo il Primo conflitto mondiale, come una ferita a tutto ciò che vi può essere di più sacro.

A partire dal 1919 von Salomon entrò nel Corpo Franco del capitano Liebermann, che operò contro l'Armata Rossa nelle regioni baltiche. È l'inizio di una militanza, con radici all'interno di una destra conservatrice, che non avrà simpatie per il nazismo e nemmeno per Weimar (lo scrittore fu coinvolto nell'attentato a Walther Rathenau). Von Salomon credeva in un nazionalismo spirituale e individuale. Immaginava l'azione politica, sulla scia di Hugo von Hofmannsthal, rivolta a conquistare lo spazio etico della nazione. Ciò lo portava a una lontananza di fondo dalla vocazione di massa del nazionalsocialismo. «Le masse non hanno in sé alcuno slancio, e quando... vogliono organizzare la rivoluzione, organizzano al massimo una casta di burocrati». Nello scrittore la prospettiva veniva, prussianamente, rovesciata: depositario della sovranità è lo Stato. A marcare la distanza dal nazionalsocialismo erano inoltre i riferimenti a razzismo e darwinismo, visti da von Salomon come estranei alla Kultur tedesca. Prussiani per lui si diventava, non si nasceva. E prussianamente si lottava senza speranza nei Freikorps.

La Germania al di sopra di tutto è il titolo di Émile Durkheim/ Bruno Karsenti uscito da Marietti 1820. Carlo Franza il 28 marzo 2022 su Il Giornale.

Ho appena terminato di leggere Émile Durkheim–Bruno Karsenti,  La Germania al di sopra di tutto,  traduzione di Elena Muceni , pp. 144, Euro 13. In libreria dal 17 febbraio 2022. Sociologia, Storia. Si potrebbe auspicare per il critico d’oggi quanto Pier Paolo Pasolini scriveva nella sua introduzione al volume di Giacomo Debenedetti “Poesia italiana del Novecento, che cioè il critico “si fa complice degli autori che legge e commenta. Insieme scoprono il mondo. E per accedere alla scoperta utilizza tutti gli strumenti possibili senza privilegiarne alcuno, così che non esita ad affiancare all’indagine testuale quella psicanalitica, linguistica o filosofica, ed ha il metodo di non avere metodo”.

Quelle del titolo sono le prime parole dell’inno nazionale tedesco, scritto nel 1841, vietato dagli Alleati nel 1945 e ridiventato inno nazionale nel 1952, purgato anche dalle prime due strofe, tra cui quella appena citata. Potremmo dire che sono vicende del passato, ma è pur vero che la Germania, tornata unita nel 1990, ha rafforzato pacificamente in Europa il suo ruolo fino a diventare la colonna portante dell’Unione Europea, quasi a voler riprendere di nuovo quella prima strofa dell’inno nazionale.

Lo scoppio della prima guerra mondiale e il comportamento della Germania durante il conflitto non possono essere spiegati in termini geopolitici, ma hanno origine nella “mentalità tedesca” e nel suo carattere nazionale. Pubblicato nel 1915 e qui tradotto per la prima volta in Italia, questo testo di Durkheim rivela le dinamiche sociali di cui la guerra è il risultato. Come un medico con il suo paziente, egli guarda al caso tedesco decretando una diagnosi definitiva: la Germania pratica l’idealismo in modo patologico. Considerato testo di circostanza o di pure propaganda nazionalista, questo scritto di Durkheim è stato a lungo ignorato dai sociologi. Sollevando il velo sul suo carattere sulfureo, Bruno Karsenti mostra come in realtà esso condanni il nazionalismo, si inserisca in modo coerente nella sociologia di Durkheim e sia in perfetta sintonia con le riflessioni sui pericoli insiti nelle società moderne.

E’ certo che la Grande Guerra si chiamò grande per le sofferenze che impose al mondo. Questo truce motivo è attenuato dalla mitologia che spesso si accompagna alla memoria, costruendo singolari amnesie. Nei nomi intagliati sulle marmoree tavole dei nostri monumenti celebrativi della Grande Guerra devono essere scolpiti i volti di più di seicentomila giovani che persero la vita in tutte le contrade d’Italia. E non solo, perché furono milioni nel mondo. Alla Prima Guerra Mondiale subentrò la Seconda Guerra Mondiale con l’Olocausto e gli eccidi di massa. Gli intellettuali, che pensavano a una Repubblica Europea delle idee, si sono ricreduti per infilarsi di nuovo dentro i confini delle patrie-nazioni. Ancora oggi si discute di ciò. Ora, a ben guardare la figura di Émile Durkheim, autore del volumetto che qui si presenta e si recensisce e che pone sul banco degli imputati la Germania, notiamo senza se e senza ma, che quei comportamenti derivano in realtà da una speciale concezione del mondo di lunga maturazione.

Émile Durkheim (1858–1917), tra i fondatori della Sociologia, insegnò all’Università di Bordeaux e, dal 1902, alla Sorbona. Diresse l’Année sociologique dal 1896 al 1912 e si interessò attivamente ai programmi per l’istruzione pubblica. In polemica con le correnti marxiste e utopiste, fu fautore di una concezione corporativa del socialismo. Nel catalogo Marietti 1820 è disponibile Appunti su Hobbes. Un corso di Émile Durkheim seguito da Marcel Mauss (2021).

Bruno Karsenti, direttore di studi École des hautes études en sciences sociales di Parigi, studia l’influsso delle tradizioni sociologica e antropologica sulla formazione del pensiero politico moderno. Nel 2013 è stato insignito della medaglia d’argento del Centre national de la recherche scientifique. Carlo Franza

Paolo Mieli per il “Corriere della Sera” il 17 febbraio 2022.

Ha dell'incredibile la sostanziale assenza di consapevolezza con la quale intellettuali e artisti europei vissero il decennio che precedette la Seconda guerra mondiale. Personalità del calibro di Thomas Mann, Pablo Picasso, Bertolt Brecht, Greta Garbo, Walter Gropius, Lotte Lenya, Hermann Hesse e moltissimi altri, furono incapaci di distogliere lo sguardo dalle loro vicende anche minime. 

I libri di storia quasi sempre raccontano qualcosa di diverso, cercano di dimostrare che chi voleva presagire a cosa avrebbe portato l'avventura hitleriana aveva tutti gli elementi per vedere in anticipo l'abisso verso cui si stava scivolando. E che la maggior parte degli intellettuali e artisti dell'epoca si rese conto di cosa stesse accadendo. Invece furono assai pochi quelli che intravidero quanto si stesse avvicinando il giorno dell'apocalisse.

Qualcosa in più, ovviamente, la intuirono gli ebrei tedeschi costretti all'emigrazione. Quasi tutti gli altri sostanzialmente non seppero vedere il baratro verso cui l'Europa stava precipitando. Se non per ciò che atteneva ai propri destini personali (quelli strettamente privati). Poi, a guerra finita, al cospetto delle macerie del continente, raccontarono di aver presagito.

Ma a rileggere i loro diari, le testimonianze in tempo reale, le lettere che si scambiarono, il panorama appare diverso. Del tutto diverso. Tale panorama è adesso ricostruito da Florian Illies in un libro asciutto e, proprio per questo, straordinario: L'amore al tempo dell'odio. Una storia sentimentale degli anni Trenta , pubblicato da Marsilio. Illies non dà interpretazioni, non ha tesi da proporre. Ricostruisce le atmosfere di quel decennio con le parole degli interessati. 

E si rimane sgomenti. Soprattutto per quel che riguarda gli ultimi mesi, l'estate prima dell'inizio di settembre del 1939 allorché la Germania avrebbe invaso la Polonia. Appena impartito l'ordine di aprire le ostilità, Adolf Hitler telefona a Leni Riefenstahl (l'amica che aveva filmato le Olimpiadi di Berlino) e le domanda se non «le andrebbe di fare due riprese sul fronte polacco». La regista accetta con entusiasmo e, racconta Illies, «corre da un sarto sul Kurfürstendamm da cui si fa confezionare a tempo di record un'uniforme fantasia tra il giallo e il verde, con tanto di spalline e distintivo».

Di suo aggiunge una pistola nel cinturone e un pugnale nello stivale. Per ordine del Führer, Riefenstahl ha libertà di movimento pressoché totale tra i soldati in armi. Gli ufficiali non la sopportano. La volta in cui deve assistere alla fucilazione di ventidue ebrei, «la nostra visitatrice si ritira un po' sconvolta» (scrive il generale Erich von Manstein, comandante del gruppo di armate del Sud). Ma si riprende immediatamente. 

Nell'estate del 1939 Marlene Dietrich trascorre le ferie ad Antibes, accompagnata dal marito Rudolf, dall'amante di lui, Tamara, dalla figlioletta Maria, la madre Josephine, l'ex amante Josef von Sternberg e l'amante in carica Erich Maria Remarque. Le loro sono, a detta di Illies, «settimane indolenti di sole, di alcol e di sofferenza». Il 14 agosto la Dietrich parte per l'America dove le hanno offerto un ruolo in un piccolo film, Partita d'azzardo .

 Interpreta il ruolo di una cantante di saloon. Le canzoni gliele scrive Friedrich Hollaender che, esule, ha trovato rifugio a Hollywood. Sul set la Dietrich ha una storia con l'attore principale, il trentenne James Stewart. La raggiunge Remarque, che per lei abbandona la moglie sposata l'anno prima. Dietrich gli fa esplicitamente intendere che «non sente alcun bisogno di un amante malinconico uscito dal Vecchio Mondo».

Lui le dà un ceffone, lei gli morde una mano. Nel diario Remarque prende nota del «grande dolore» provocatogli da questo screzio e trascura ogni riferimento al fatto che il paese di entrambi, la Germania hitleriana, stia dando inizio alle danze di guerra. 

Lo scrittore Lion Feuchtwanger (1884-1958) si è rifugiato in Francia, a Sanary-sur-Mer fin dal 1933. Nell'estate del 1939, la moglie Marta e l'amante principale Eva Herrmann («per una volta unanimi» nota Illies) insistono perché se ne vada al più presto e lasci l'Europa. Lui nicchia. Finché il 16 settembre annota sul diario: «Dormito malissimo, un disastro. Chiamato al posto di polizia. Con gli altri tedeschi rimasti. Devo partire domani per un campo di concentramento». 

Viene internato a Les Milles, a sud di Aix-en-Provence. Pochi giorni dopo verrà rimesso in libertà. Tornerà da Marta ed Eva per riprendere la vita di sempre. Con uno strano presentimento, però. Nel 1940, dopo l'invasione nazista della Francia, verrà internato nuovamente nel campo di Les Milles. Stavolta sarà più dura. Riuscirà a scappare travestito da donna.

 E ad emigrare in California dove resterà per il resto della vita. Allo scoppio della guerra, il filosofo Heinrich Blücher, futuro marito di Hanna Arendt, aderente alla frazione antistalinista del Partito comunista tedesco, è, anche lui, in Francia. Blücher è in stretti rapporti con Walter Benjamin: discutono fino a notte fonda dei processi di Mosca. A fine estate del 1939 i francesi lo arrestano. In quanto «nemico straniero», viene portato allo stadio olimpico di Colombes. 

Ottenuta la libertà, tornerà a Parigi da dove fuggirà negli Stati Uniti (passando per Lisbona) assieme alla Arendt. Sarà l'ex marito della Arendt, Günther Anders (vero cognome: Stern), ad aiutarli a sopravvivere in America. Del suo Paese Blücher non vorrà più saperne. Mai più. Anni dopo (nel 1956) scriverà all'amico Karl Jaspers di non «sentirsi più tedesco», otterrà dalla Germania un risarcimento per essere stato costretto ad espatriare e quando morirà, per infarto, nel 1970 verrà sepolto, per sua esplicita disposizione, negli Stati Uniti. In Francia c'è anche, come s' è detto, Walter Benjamin. Benjamin nell'estate del 1939 finisce, come tutti gli emigranti tedeschi, allo stadio di Colombes e a Sanary-sur-Mer.

Tutti quelli che lo vedono o gli parlano in quei momenti, nota Illies, sono «turbati dalla sua calma». Una serenità, riferiscono, «che mette i brividi». Benjamin fantastica sul passato e scrive lettere meravigliose a Hélène Léger, una prostituta parigina che gli ha rapito il cuore. Tornato a Parigi lavora al suo ultimo saggio, Sul concetto di storia (verrà pubblicato in Italia da Einaudi). 

«C'è un quadro di Paul Klee che si intitola Angelus Novus », scrive Benjamin. «Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo», prosegue, «ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L'angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi». Benjamin è uno dei pochissimi che intuiscono davvero quel che sta accadendo.

Nei suoi ultimi scritti c'è, secondo Illies, «tutta la tragedia degli anni Trenta». Quando il 14 giugno del 1940 i tedeschi arriveranno a Parigi, il quarantottenne Benjamin, sollecitato dall'amico Theodor W. Adorno che è già in America, proverà a fuggire per imbarcarsi alla volta degli Stati Uniti. Ma giunto il 25 settembre a Portbou in Catalogna, gli viene ritirata la licenza di transito. Immagina di essere rispedito nella Francia occupata dai nazisti. Quella notte stessa si suicida con una fiala di morfina. 

Nel pomeriggio del giorno successivo ai suoi compagni viene concesso il visto per l'America. Una sua amica, Henny Gurland (futura moglie di Erich Fromm), provvede alla sua tumulazione nel piccolo cimitero di Portbou. Ma ha pochissimi soldi, paga solo per cinque anni. Trascorsi i quali, il corpo di Benjamin verrà gettato in una fossa comune.

Anche Henry Miller è in Francia. Il 13 luglio del 1939, Miller trascorre la sua ultima notte con Anaïs Nin, in un alberghetto di Aix-en-Provence.

L'indomani si imbarcherà per Marsiglia da dove, passando per la Grecia, rientrerà negli Stati Uniti. In nave legge Nostradamus ed elabora oroscopi: il proprio e quello di Hitler. Quando si accorge che, secondo i calcoli, il Führer vivrà molto più a lungo di lui, decide di lasciar perdere per sempre l'astrologia. Ma, nota Illies, sopravviverà a Hitler (più anziano di lui) di ben trentacinque anni. 

Venuto a sapere che il suo amico Ernst Toller, fuggito dalla Germania, si era impiccato in una stanza d'hotel newyorkese, il cantore della finis Austriae Joseph Roth, in esilio a Parigi, ha un crollo emotivo. La notizia gli provocherà un infarto al «Café Tournon», il successivo ricovero in un ospizio per poveri, una polmonite malamente diagnosticata e la morte. Non ha ancora compiuto 45 anni. In margine a ciò, Stefan Zweig scrive a Romain Rolland: «Non camperemo a lungo, noialtri esuli».

Zweig si suiciderà, assieme alla moglie, in Brasile nel 1942 Lo scrittore francese Louis-Ferdinand Céline riceve da Vienna una lettera da Cillie Pam, sua ex amante ebrea. Cillie lo informa che suo marito è stato assassinato a Dachau. Céline le risponde frettolosamente dicendosi addolorato per la notizia. Si dilunga un po' più per raccontarle di essere stato rinviato a giudizio in un processo per antisemitismo. 

Aggiunge che questo imminente processo è la prova che «anche gli ebrei sono capaci di perseguitare». Tra gli intellettuali rimasti in Germania, Ernst Jünger è in ansia per un ritratto, a torso nudo, che gli ha fatto Rudi Schlichter, esposto dal pittore nel suo atelier. Gli è giunta notizia di molti suoi amici finiti in prigione per «atti omosessuali». 

Prende allora la decisione di scrivere a Schlichter: «In un Paese come questo non si può più vedere un ritratto come il suo le sarei grato se volesse farmi indossare un cappottino». Il filologo Victor Klemperer aveva già scritto, nel 1937, sul proprio quaderno privato di aver raggiunto «l'apice dello sconforto e dell'insopportabile». Prova ad emigrare - in America, quantomeno in Palestina - ma non riesce. Gli tocca portare la stella di David per le strade di Dresda. Ma ancora alla viglia della guerra annota sobriamente: «Sarebbe prematuro illudermi di essere già precipitato nell'ultimo girone dell'inferno».

Qualcuno è stato più fortunato. Il figlio di Thomas Mann, Klaus (scrittore come il padre, con il quale ha un rapporto difficile), è già approdato negli Stati Uniti da qualche anno. Nell'estate del 1939 trascorre il tempo in compagnia di Aldous Huxley e Ludwig Marcuse. Molte ore anche con Christopher Isherwood l'autore di Addio a Berlino (Adelphi). E poi ancora con Billy Wilder, Fritz Lang. Parlano ossessivamente della nostalgia per la Germania d'inizio anni Trenta. 

La sera del 21 agosto Klaus Mann scrive sul diario: «La fine agghiacciante che stanno facendo tutti quanti Presagio della mia stessa morte Possa trovarmi prima che io veda andarsene tutte le persone che ho conosciuto e amato». Si suiciderà con un'overdose di barbiturici. Ma dieci anni dopo, nel maggio del 1949.

Il più inconsapevole di tutti è Jean-Paul Sartre. Per l'intero corso degli anni Trenta, lui e Simone de Beauvoir (che fungono da filo conduttore del libro di Illies) «sembrano totalmente ignari delle brutalità naziste e degli esuli tedeschi che vagano sperduti per Parigi». 

Come nell'autunno del 1933, quando riferiscono di essersi «beatamente rimpinzati di cheesecake» al Café Kranzler di Berlino «senza neppure accennare alle colonne di SA che marciavano per le strade o alle svastiche al vento». O ancora nel 1938 quando, scrive Illies, «non sembrano vedere oltre il perimetro della loro complicata struttura amorosa». Il 31 agosto del 1939, Sartre e Jacques-Laurent Bost, (amante di Simone de Beauvoir) vengono precettati per il servizio militare. Solo Simone sembra comprendere che sta per accadere qualcosa di terribile.

Accompagna Sartre alla stazione e lui vuole solo raccontarle di come sia riuscito a sedurre Wanda, sorella di Olga, la fidanzata di Bost. E di come si accinga a concupire Olga stessa. La de Beauvoir è affranta all'idea di perdere i suoi due uomini. Sartre annota sul suo quaderno: «Tutti esigono che l'altro li ami, senza capire che amare significa voler essere amati Di qui la costante insicurezza degli amanti». Nessun cenno a Hitler che quel giorno stesso muove in direzione di Varsavia. 

Corrado Augias per “il Venerdì – la Repubblica” il 24 giugno 2022.

Una ventina d'anni fa lo scrittore britannico John Cornwell pubblicò un saggio su papa Pio XII dal titolo eloquente: Il papa di Hitler. Era eccessivo. Papa Pacelli fu soprattutto il papa della sua Chiesa ed è all'interno di questa premessa che il suo atteggiamento verso il nazifascismo va esaminato. 

È esattamente quello che fa David I. Kertzer (Simonetta Fiori lo ha intervistato sul Venerdì del 20 maggio, ndr) nel saggio Un papa in guerra (Garzanti) per il quale si è avvalso anche dei nuovi documenti degli archivi vaticani resi, finalmente, pubblici e, sperabilmente, integrali. Quale il quadro? Premetto che il racconto è terribile e affascinante. 

Pio XII era un uomo all'antica, figlio, per così dire, della Roma della restaurazione.

Vedeva il mondo con gli occhiali del seminario in cui s' era formato, amava sinceramente la sua religione, compresi i dogmi e la pompa dei riti. Fu lui a proclamare l'ultimo dogma su Maria che, nel 1950, dichiarò Assunta in cielo corpo e anima. 

Tale la sua fede. 

Sicuramente Pacelli non amò i nazisti, al contrario vide nel regime di Hitler un nemico e un concorrente della fede cristiana. Fu più cauto con Mussolini anche perché lo considerò un possibile intercessore presso il demoniaco Führer dei tedeschi.

L'autore fa notare come Pacelli valutasse sua prima responsabilità: «proteggere la chiesa istituzionale, le sue proprietà, le sue prerogative». Quando Hitler nel 1939 invase la Polonia scatenando la guerra, Pacelli non disse una parola in difesa di quel popolo profondamente cattolico e del suo clero. Vero che la Chiesa aiutò alcune vittime della persecuzione ma, si fa notare, fu un compito di gran lunga inferiore a quello che un papa avrebbe potuto svolgere.

Quanto agli ebrei, Pio XII considerava i "perfidi giudei" eredi del popolo che aveva mandato a morte Gesù. 

Quando più di mille ebrei vennero rastrellati nella sua città per essere mandati ad Auschwitz, il papa non disse una parola. Non fu complice, fu debole e, conclude Kertzer: «Come leader morale Pio XII dev' essere considerato un fallimento»

David I. Kertzer per “la Repubblica” il 25 giugno 2022.

Il 20 giugno, il quotidiano del Vaticano ha dedicato un'intera pagina a una critica del mio nuovo libro, Un papa in guerra. Il sito web Vatican News ha successivamente pubblicizzato la critica fornendo una traduzione in inglese dell'articolo. 

Il mio libro ricostruisce il dramma vissuto da Pio XII durante la Seconda guerra mondiale. L'articolo de L'Osservatore Romano si concentra su tre punti. Il primo riguarda le trattative segrete tra il Papa e l'emissario di Hitler iniziate poco dopo l'elezione di Pio XII. 

Matteo Luigi Napolitano, l'autore del pezzo de L'Osservatore Romano, sostiene che il mio racconto non offre nulla di nuovo, ma non fornisce alcuna prova che la natura, la portata o i dettagli dei colloqui siano mai stati resi noti prima. 

In realtà, i verbali completi, redatti in lingua tedesca, dei colloqui segreti del Papa con l'inviato di Hitler, il principe nazista Philippe von Hessen, sono venuti alla luce solo ora, con l'apertura degli archivi vaticani nel 2020, e pubblicati per la prima volta nel mio libro.

Napolitano descrive questi colloqui come motivati dal desiderio di Hitler di rivedere il concordato con il Vaticano sulla scia dell'espansione del Terzo Reich. Questo non è vero. Appena eletto, Papa Pacelli inviò subito segnali a Hitler che lasciavano intendere che era desideroso di raggiungere un'intesa. 

Ordinò infatti di sospendere le critiche alla persecuzione tedesca della Chiesa cattolica che avevano caratterizzato le pagine del giornale vaticano negli ultimi mesi di vita di Pio XI.

Nel giro di poche settimane, Hitler decise di inviare von Hessen, genero del re d'Italia Vittorio Emanuele III, per avviare i colloqui segreti. Il Papa voleva che Hitler rispettasse i termini del concordato che lo stesso Pacelli aveva negoziato sei anni prima. 

Hitler voleva che il Papa ponesse fine a tutte le critiche pubbliche al trattamento della Chiesa da parte del governo nazista. In questo ebbe successo. Pio XII e il Vaticano rimasero in silenzio.

Napolitano sostiene poi che il Papa pose come condizione per continuare i negoziati l'accordo da parte di Hitler di rispettare cinque punti che egli aveva stilato in un documento per il führer, cosa che, scrive Napolitano, «Kertzer conosce». 

L'insinuazione è che io lo sapessi ma non l'abbia menzionato. Però, nel mio libro cito il documento per intero. Tuttavia, quando Ribbentrop rispose ai cinque punti, chiedendo se il loro adempimento fosse necessario per l'avvio dei negoziati, il Papa negò espressamente che fosse così. 

La critica dell'Osservatore Romano si rivolge poi alla mia breve discussione della prima enciclica di Pio XII, la Summi Pontificatus, emanata poco dopo l'invasione tedesca della Polonia nell'ottobre 1939.

Mi si accusa di non aver rappresentato l'enciclica come un attacco alla Germania per la sua aggressione. Eppure non lo era. Come ha scritto John Conway, storico della Chiesa in Germania, «Papa Pio XII espresse simpatia e dolore per tutti i popoli che erano stati trascinati nel tragico abisso della guerra, ma non fece alcun riferimento all'aggressione tedesca». 

L'enciclica fu trattata con rispetto dai principali giornali fascisti italiani. È vero che in privato alcuni leader tedeschi non erano soddisfatti delle parole che potevano essere lette come una critica allo Stato totalitario contenuta nel documento.

Come ampiamente documentato nel mio libro, l'enciclica seguiva la prassi adottata da Pio XII per tutta la durata della guerra, più volte segnalata dai diplomatici stranieri in servizio in Vaticano: egli preparava con cura i suoi discorsi in modo che avevano passaggi che potessero essere utilizzati da entrambe le parti come prova del sostegno del Papa alla loro causa.

Dietro le quinte, sia gli Alleati che i tedeschi e gli italiani si scagliarono contro il Papa per quelle dichiarazioni che ritenevano più amichevoli nei confronti dei loro nemici. Ma pubblicamente entrambi fecero tutto il possibile per presentare il papa come dalla propria parte.

Il terzo punto focale dell'attacco dell'Osservatore Romano riguarda la retata delle SS di oltre mille ebrei a Roma il 16 ottobre 1943. Mi si rimprovera di non aver incluso, nella mia ampia citazione del resoconto del Segretario di Stato, cardinale Maglione, del suo incontro del 16 ottobre con l'ambasciatore tedesco Ernst von Weizsäcker, la sua dichiarazione che «la Santa Sede non deve essere messa nella necessità di protestare. Qualora la Santa Sede fosse obbligata a farlo, si affiderebbe, per le conseguenze, alla Divina Provvidenza».

Ma cosa aggiunge esattamente questo al resoconto fornito ne Un papa in guerra? Cito Maglione che dice all'ambasciatore: «È doloroso, per il Santo Padre, doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre Comune, siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono a una stirpe determinata».

E quando Weizsäcker risponde con la domanda «che farebbe la Santa Sede se le cose avessero a continuare?», riporto la risposta del cardinale: «La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire una parola di disapprovazione». 

In effetti, il Papa non pronunciò alcuna parola di protesta mentre gli ebrei di Roma venivano mandati a morire ad Auschwitz. Annunciando l'apertura degli archivi del papato di Pio XII, Papa Francesco ha detto: «La Chiesa non ha paura della storia». 

Si può solo sperare che, dopo l'iniziale reazione difensiva alla rivelazione di questa storia, il Vaticano possa iniziare il processo di venire a patti con essa. L'agiografia papale può avere il suo posto, ma mi sembra più importante comprendere meglio questo tragico capitolo della storia umana.

Pio XII chiese di nascondere nei conventi ebrei e ricercati dai nazisti: le carte dagli archivi vaticani. Vittorio Giovenale martedì 15 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Fu direttamente Pio XII a chiedere di nascondere nei conventi i ricercati dai nazisti. È quanto rivela il memoriale del monastero di Santa Maria dei Sette Dolori a Roma, nel quale si legge che a sollecitare la protezione dei perseguitati durante i nove mesi dell’occupazione tedesca della Capitale era stato il Papa in persona. 

La ricostruzione della vicenda, anticipa l’Adnkronos, è del ricercatore Antonello Carvigiani, autore del saggio “Il desiderio del Papa: salvare vite umane. Pio XII nella cronaca del monastero di Santa Maria dei Sette Dolori”, che apparirà sul prossimo numero della rivista “Nuova Storia Contemporanea “(Le Lettere), diretta dal professore Francesco Perfetti.

Si legge nella cronaca conventuale: “Le truppe tedesche, padroneggiando l’Italia, perseguitano ovunque uomini e li deportano nei campi di concentramento. In modo speciale perseguitano gli ebrei che fucilano o li fanno morire nelle camere a gas. In tale frangente ebrei – fascisti – soldati – carabinieri e borghesi, cercavano rifugio negli istituti religiosi; che con grave pericolo, aprono le porte per salvare vite umane. È questo il desiderio espresso, ma senza obbligo, dal Santo Padre Pio XII, che per primo riempie di rifugiati il Vaticano – la Villa di Castel Gandolfo e San Giovanni in Laterano”.

Tra il settembre del 1943 e il giugno del ’44, il monastero di Santa Maria dei Sette Dolori, a Trastevere, alle pendici del Gianicolo, in via Garibaldi, divenne uno dei più importanti rifugi per i ricercati dai nazisti. Secondo la ricerca dello storico Renzo De Felice, pubblicata nel 1961 (“Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo”, Einaudi) nel monastero trovarono scampo 103 ebrei. La cronaca della casa religiosa fornisce però un altro computo: “Nel nostro convento sono rifugiate circa 150 persone, sono intere famiglie con numerosi bambini – donne e uomini che tratteniamo qui con le proprie famiglie, dopo che i superiori ci hanno dato il permesso di lasciarli qui. Per dar posto a tanta gente, abbiamo ceduto parecchie stanze nostre e ci siamo ristrette in poche stanze. Il locale sopra la Chiesa, detto il Noviziato, è pieno di gente e le famiglie hanno formato con cartoni dei piccoli recinti, dove vivono per essere più liberi gli uni dagli altri”. Sono quasi 50 rifugiati in più rispetto all’elenco pubblicato da De Felice, il quale, però, spiegava di riferirsi nella sua ricerca agli ebrei. Si può ipotizzare, dunque, che gli altri rifugiati siano ricercati per motivi diversi: antifascisti o renitenti alla leva.

L’eroismo delle monache: il convento era di fronte al presidio nazista

Fu un vero e proprio atto di audacia quello delle monache. Il monastero sorgeva, infatti, al cospetto del palazzo che ospitava una caserma dei carabinieri, occupata, tra il 1943 e il ’44, dalle truppe tedesche. Un rischio ben presente nella coscienza delle religiose, che si preoccuparono di non far avvicinare le persone che nascondeva alle finestre.

“È pericoloso per essi avvicinarsi alle finestre – si legge nella cronaca . perché i tedeschi che hanno occupato la caserma dei carabinieri qui davanti al nostro cancello, stanno sempre guardando con i binoccoli sulle nostre finestre, e siccome hanno già sentore di qualche cosa, possono irrompere da un momento all’altro dentro il monastero, e portarli via”.

L’ordine di Pio XII: “Accogliete gli ebrei perseguitati”

Commenta Antonello Carvigiani: “Confrontando questa cronaca con quelle coeve di due altri monasteri romani – Santi Quattro Coronati e Santa susanna – si rafforza l’ipotesi di una medesima comune derivazione dei tre testi in questione: una disposizione – scritta o orale – arrivata direttamente dal Vaticano”. Carvigiani avanza anche una ipotesi: questi memoriali dei conventi romani potrebbe costituire la testimonianza indiretta dell’esistenza di quella famosa circolare vaticana – datata 25 ottobre 1943 – di cui, in passato, il cardinale Tarciso Bertone ha in più occasioni parlato senza mai però essere in grado di renderla pubblica.

Il 17 aprile del 2007 Bertone, allora segretario di Stato della Santa Sede, spiegò alla stampa che Pio XII, il 25 ottobre 1943, siglò “una circolare della Segreteria di Stato, con la quale si forniva l’orientamento di ospitare gli ebrei perseguitati dai nazisti in tutti gli istituti religiosi, di aprire gli istituti e anche le catacombe”. Questa affermazione venne ripetuta in più occasioni da Bertone, anche nella presentazione del libro di Suor Margherita Marchione, “La verità ti farà libero” (Città del Vaticano, Lev, 2008).

Hitler progettò di rapire papa Pio XII. Lo scrisse Goebbels. Il blitz raccontato nel libro “Il Vaticano nella tormenta”. Giovanni Trotta venerdì 24 Gennaio 2020 su Il Secolo d'Italia.

Hitler voleva rapire il Papa e il Vaticano era pronto a difenderlo, ma senza usare le armi. È quanto emerge dall’Archivio della Gendarmeria Pontificia, scandagliato dal medico, storico e scrittore Cesare Catananti, già direttore del policlinico Gemelli di Roma. L’autore dalle rivelazioni ha tratto il volume Vaticano nella tormenta, pubblicato dalle Edizioni San Paolo. “Proprio così – racconta Catananti – Hitler voleva davvero rapire Pio XII, come risulta dai diari di Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda del Terzo Reich.

Il piano di Hitler raccontato da Goebbels

Goebbels riferisce di un incontro con Hitler il giorno successivo alla caduta di Mussolini, il 26 luglio. E quella stessa sera Hitler disse: “Ora basta! Dobbiamo invadere il Vaticano e prendere il Papa e arrestare anche il Re d’Italia”. E successivamente Karl Wolff, il capo delle Ss in Italia, dichiarò che Hitler lo aveva chiamato per preparare un’organizzazione che invadesse il Vaticano e prendesse il Pontefice”. Non è chiaro poi perché il progetto non si concretizzò.

Ma come avrebbe reagito, in quel caso, Pio XII? “Dagli Archivi risulta un piano di difesa del Papa che ha dell’incredibile: c’è per la prima volta una documentazione dettagliata su come organizzare la difesa del Santo Padre. C’è scritto che è proibito l’uso delle armi, al massimo si possono usare gli idranti dei vigili del fuoco… E comunque, bisognerà esercitare una difesa passiva ma energica, con un piano di progressivo arretramento verso il Palazzo Apostolico, dove alla fine la guardia nobile si sarebbe dovuta mettere attorno al Papa, per proteggere la sua sacra persona fino al loro spargimento di sangue”.

Quanto durò la “tormenta” descritta nel suo libro? “Imperversò per almeno quattro anni, tra il 1940 e il 1944 – spiega Catananti – ovvero dall’ingresso in guerra dell’Italia fino alla Liberazione di Roma. Il Vaticano era, come è tuttora, una enclave dentro Roma. E a un certo punto, dal 1943 in poi dopo la caduta di Mussolini, confinava direttamente con il Terzo Reich. Era già un polo di interesse per i fascisti, in quanto era forte il dubbio che la Segreteria di Stato vaticana appoggiasse gli alleati. Anche i tedeschi lo sapevano e dunque il Vaticano era sotto un doppio fuoco: fascista e nazista”.

Dagli archivi, come emerge la figura di Pio XII e il suo impegno, o disimpegno, nei confronti degli ebrei avviati nei campi di concentramento nazisti e destinati all’Olocausto? “La questione di Pio XII rimarrà probabilmente aperta ancora per lungo tempo – spiega Catananti -. Certamente, chi voleva ascoltare dal Papa del tempo parole chiare e nette contro il nazismo, non le ascoltò”. Ma “Pio XII preferì tacere e agire. Dagli atti della Gendarmeria non c’è ombra di dubbio che l’opera di salvataggio che fece per assistere tanti ebrei è assolutamente dimostrata. Così come l’asilo ai militari scappati dai campi di prigionia e, dopo la Liberazione di Roma, anche ai militari tedeschi. A un certo punto, in Vaticano c’erano militari alleati e militari tedeschi, ospitati nella caserma della Gendarmeria, posti tutti sotto la protezione del Papa”. 

13 agosto 1943: gli aerei “alleati” colpirono Roma per la seconda volta. Redazione giovedì 13 Agosto 2015 su Il Secolo d'Italia. 

Il 13 agosto 1943, alle 11 di mattina, gli “alleati” effettuarono il cosiddetto secondo bombardamento su Roma: il primo, quello di San Lorenzo, era avvenuto il 19 luglio dello stesso anno. Nell’estate del 1943 gli anglo-americani effettuarono 51 incursioni aeree sulla capitale che provocarono oltre settemila morti. In questo secondo bombardamento presero parte solo aerei statunitensi che, pur se ostacolati dalla contraerea italiana, fecero diverse ondate sganciando i loro micidiali ordigni su molte zone della città. Le incursioni durarono un’ora e mezza. San Giovanni e San Lorenzo furono nuovamente colpite, così come la via Casilina, dove fu anche mitragliato un treno dai caccia Usa. Il Verano fu ancora una volta violato, e la stessa tomba della famiglia Pacelli fu distrutta dalle esplosioni. Colpite anche la via Flaminia e la zona di Tor di Quinto. Le arcate dell’acquedotto Claudio, che avevano resistito duemila anni, crollarono. Pio XII si recò immediatamente sui luoghi colpiti, accompagnato dal cardinal Montini e da un ingegnere del Vaticano. Il Papa scese tra la folla e cercò di portare conforto ai sinistrati. A livello mondiale l’impressione fu enorme, perché per la seconda volta in poche settimane la città eterna, il cuore della cristianità, era stata colpita tanto brutalmente. Poco importa che il giorno dopo i bombardamenti Badoglio dichiarasse Roma “città aperta”; agli alleati non interessava, erano padroni assoluti dei cieli, e potevano colpire i civili impunemente, nel tentativo di stroncare il morale della popolazione, operazione solo parzialmente riuscita. Gli inglesi addirittura giudicarono il gesto una cosa grottesca.

Roma subì in tutto 51 incursioni, per un totale di settemila morti

Ma l’ipotesi del bombing of Rome terroristico aveva iniziato a circolare tra gli alleati sin dall’entrata in guerra dell’Italia al fianco della Germania. Poi la partecipazione italiana, anche se limitata, alle offensive aeree su Londra e gli attacchi italiani in Egitto e in Grecia, spinsero sempre più gli americani e gli inglesi a pensare a un bombardamento sulla città sede del governo fascista. Inutili furono le dichiarazioni continue del Vaticano in difesa delle opere d’arte e del patrimonio culturale presenti a Roma. Lo stesso papa Pacelli si prodigò per l’immunità della città eterna nei confronti delle bombe di tutti i belligeranti. Ma la verità è che i romani, abituati a tutto dalla storia, non credevano alla possibilità che effettivamente Roma fosse bombardata, tanto che la capitale fu una delle pochissime grandi città, se non l’unica, a incrementare la propria popolazione durante la guerra. Roma infatti non aveva insediamenti militari di rilievo, tanto che gli americani per giustificare i bombardamenti dissero che si erano intesi colpire gli snodi ferroviari. Ma, come Winston Churchill aveva detto già nel 1941, Roma era un simbolo, e inoltre doveva pagare l’alleanza con Hitler. Concetti condivisi e ribaditi anche da Roosevelt in più di un’occasione. Obiettivo marginale Roma, ma che tuttavia non fu trascurato. Che si sia trattato solo di un gesto simbolico lo prova il fatto che tutti gli aerei avevano la mappa di Roma dove erano tracciati ben visibili i confini del Vaticano e altri luoghi, su cui spiccava la scritta “No bombing area”. In quello stesso giorno, il 13 agosto, Torino subiva la sua 24ma incursione aerea e Milano era attaccata da oltre mille bombardieri dei “liberatori”.

Richard Sorge, la spia che ha vinto la seconda guerra mondiale. Davide Bartoccini il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Al servizio dei nazisti con il marxismo nel cuore, Sorge rivelò ai generali di Mosca l'informazione strategica più importante, ma venne abbandonato e dimenticato dalla patria comunista che tanto amava.

Molti storici hanno sempre asserito, non a torto, come la Seconda guerra mondiale non sia stata vinta dalle armate composte da milioni di soldati, ma da pochi matematici e fisici. Uomini come Alan Turing, che decifrò il codice Enigma, o come Enrico Fermi e Robert Oppenheimer, che con i loro studi, consentirono lo sviluppo della prima bomba atomica.

Eppure, ci sono uomini che ancora più di loro hanno contribuito al conseguimento della vittoria. Sono le spie come Richard Sorge: l'uomo che ne entrò in possesso e rivelò una delle informazioni strategiche più essenziali di tutta la guerra.

Nato nel 1895 nell'estremità del Caucaso che si affaccia sul Mar Caspio, oggi Azerbaigian, al tempo parte della Russia imperiale, crebbe a Berlino, con una madre russa e un padre tedesco. Nella Germania guglielmina condusse un’infanzia tranquilla e retta, tipica della di quella borghesia fin de siècle. Si tratti di un semplice caso o di quell’indole che si passa attraverso la genetica, si scoprirà idealista e patriota, tanto da attendere la maggiore età con impazienza per arruolarsi volontario e raggiungere le tempeste d’acciaio della Grande Guerra col 3º reggimento artiglieria della Guardia. Tornerà ferito, nell’animo e nel corpo. Durante l’offensiva del 1916 sul fronte occidente, viene investito dallo scoppio di uno shrapnel che lo costringerà ad una lunga degenza. Le sfere di piombo gli amputano tre dita e spezzano entrambe le gambe al punto da renderlo claudicante a vita. Ma non è quello il trauma peggiore: il giovane Richard Sorge è rimasto profondamente turbato dall’ignobile destino di milioni di giovani che spinti dal patriottismo, partirono a caccia di epiche avventure trovando solo la morte nell’impietoso fango della terra di nessuno.

Deluso ma sopravvissuto, con una croce di cavaliere di seconda classe come encomio e il grado di caporale, al suo ritorno da reduce in quella Germania umiliata dalla sconfitta, agli ideali nazionalisti che gonfieranno le fila di Hitler preferisce gli ideali internazionalisti degli spartachisti di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Legge e si appassiona agli scritti del filosofo ed economista Karl Marx, del quale il fratello di suo nonno è stato collaboratore, oltre ad essere stato segretario della Prima Internazionale. Ed è qui che entra in ballo la scelta: indole o semplice caso? Ogni uomo e donna scelgano la propria risposta.

Diventa comunista, pronto a offrire spirito e corpo all’Unione Sovietica nata sulle ceneri dell’impero degli zar. Mosca lo accetterà, assoldandolo prima come agente dell’apparato d’intelligence del Komintern, poi come spia per il servizio informazioni dell’Armata Rossa, quello che oggi è noto con l'acronimo GRU.

Un "giornalista" nazista a caccia di segreti

Con lo pseudonimo di R. Sonter e la copertura di giornalista, l’agente Sorge viene inviato in Inghilterra, Svezia e Danimarca. La sua missione è quella di tastare il terreno per valutare se l’insorgere di rivolte comuniste potrebbero condurre nuovi Paesi sulla via di Mosca.

In seguito, gli viene affidato il compito più pericoloso per la sua reale identità: deve tornare a Berlino e infiltrarsi nel Partito Nazionalsocialista e rche appresenta l’antitesi degli ideali che spronano il giovane Sorge a rischiare la sua vita per la causa comunista. L'uomo si stabilisce con successo nella redazione del quotidiano Getreide Zeitung, ma la sua presenza viene richiesta in Cina, dove il Kuomintang di Chiang Kai-Shek contrasta l’esercito comunista di Mao Tse-Tung. Con la nuova identità di Ramsay opera tra Nanchino e Shanghai e stabilisce una rete informativa degna di nota, che vanta la fiducia delle autorità consolari tedesche e che spingerà i servizi segreti sovietici ad affidargli una nuova impegnativa missione: stabilire una rete spionistica in Giappone. Sarà nella Tokyo dell’imperatore Hirohito che Sorge apprenderà i segreti del nemico.

Sbarcato nell'"Impero dove nasceva il sole", si spaccia per un fervente nazista e inizia a collaborare con diversi quotidiani, compresa la rivista filo-nazista Geopolitik, e stringe una forte amicizia con Ozaki Hotsumi, intimo del primo ministro giapponese Fumimaro Konoe. Il suo obiettivo è accedere all’ambasciata del Terzo Reich per entrare in possesso di quante più informazioni possibili. Grazie alla raccomandazione dell’attaché militare tedesco Eugen Ott del quale si è accaparrato la simpatia, potrà muoversi nei palazzi del potere che hanno scelto di siglare l’Asse Roma-Berlino-Tokyo.

La spia migliore di Stalin

Al Cremlino sono tutti estremamente preoccupati per politica espansionista del Giappone, che potrebbe arrivare a lambire i confini orientali della Russia. Una pedina come l’affascinante ed enigmatico Sorge può rivelarsi non soltanto “utile”, ma addirittura fondamentale, specialmente quando il "giornalista" - descritto nei cablo dell’atteché di Berlino come un "fine conoscitore delle questioni giapponesi" - viene convocato dall’ambasciata del Reich per ricoprire il ruolo di addetto stampa.

In questa posizione, Sorge non solo può veicolare informazioni a Berlino, ma può ascoltare le informazioni che provengono dalla Cancelleria dove Adolf Hitler pianifica le sue manovre di guerra. Nella primavera del 1941, Richard Sorge fa pervenire a Mosca la copia di un telegramma firmato dal ministro degli esteri tedesco Joachim Von Ribbentrop dove si fa riferimento a un "inevitabile attacco all’URSS". Erano coinvolte 190 divisioni già ammassate lungo quello che sarebbe diventato il disastroso il fronte orientale. L’attacco era previsto per la metà di giugno (il ritardo fu dovuto alla punizione che Hitler volle infliggere alla Jugoslavia, ndr). Una simile informazione avrebbe dato a Stalin la possibilità di mobilitare la mastodontica Armata Rossa per tempo, cosa che avrebbe consentito a Mosca di respingere con vigore le divisioni della Wehrmacht. Ma alla preziosa informazione della spia di Tokyo non viene dato credito. Stalin e i suoi consiglieri sono ancora convinti della solidità del patto Molotov-Ribbentrop. Il telegramma tuttavia terminava con le parole: “Non ci saranno né ultimatum né dichiarazioni di guerra; l'esercito russo dovrà crollare e il regime sovietico cadrà entro due mesi”. Conosciamo tutti la prosecuzione della storia.

Una spia alla quale non viene creduto, le cui informazioni vengono sottovalutate se non addirittura ignorate, subisce spesso un trauma professionale, se non una profonda delusione nell'ideale. Ma Sorge non si scoraggia, e anzi, continua a svolgere la sua missione. E per la seconda volta, entra in possesso di un segreto fondamentale per le sorti del fronte dove l’Armata Rossa ha già mandato al sacrificio milioni di uomini. Il suo collega Osaki ha appreso da fonti di alto livello che l’esercito giapponese non intende attaccare l’Unione Sovietica. I generali dell’esercito imperiale sono troppo impegnati nell’occupazione dell’Indocina francese e guardano agli Stati Uniti come avversario principale.

Questa informazione fondamentale consente ai generali di Stalin - che questa volta concede il suo benestare alla spia che era venuta dalla Germania - di smobilitare le divisioni che sono schierate in Siberia e Mongolia, per rinforzare il fronte europeo nel rigido inverno che sta già mettendo a dura prova le armate tedesche. Hitler ha di fatto perso la guerra. Sorge invece, verrà arrestato nell'ottobre del 1941 dal Kempeitai - la polizia militare nipponica - perché sospettato di spionaggio.

L'oblio di un eroe da dimenticare

Rinchiuso nel carcere di Sugamo, Richard Sorge viene condannato a morte per impiccagione. Verrà giustiziato in una grigia mattina del novembre 1944 insieme a Ozaki Hotsumi, l’uomo che gli aveva rivelato una delle informazioni più preziose della guerra. A Mosca nessuno muoverà un dito. La sua storia verrà nascosta al popolo per non mettere in imbarazzo Stalin e gli strateghi del Cremlino. Coloro che, ignorando l’informazione di Sorge, avevano mandato a morire milioni di russi consentendo ai nazisti di radere al suolo Stalingrado, quando potevano essere fermati molto prima.

La spia disconosciuta dai comunisti e non meno dai nazisti, l’affascinante idealista che si era messo a disposizione dei sovietici tradendo la patria per la quale era partito volontario nella Grande Guerra, verrà dimenticato dal mondo. Solo negli anni successivi al conflitto - quando l’Unione Sovietica dovrà rispolverare i suoi miti per contrapporli a quelli del suo nuovo avversario, gli Stati Uniti - Sorge verrà riconosciuto ufficialmente come una spia del GRU. Come un valoroso soldato del popolo meritevole dell'onorificenza di Eroe dell'Unione Sovietica. Passata la destalinizzazione, la Pravda scrisse di lui: "Numerose circostanze impedirono che si dicesse prima tutta la verità sulle imprese immortali dell’agente di intelligence Richard Sorge e dei suoi compagni. L’ora è venuta di parlare dell’uomo il cui nome sarà per le generazioni future un simbolo di dedizione alla grande causa della lotta per la pace, un simbolo di coraggio ed eroismo".

Fino ad allora, a non dimenticare l’uomo che aveva salvato l'Urss dalla sconfitta, cambiando senza dubbio il corso della Storia, era rimasta solo Hanako Ishii, l'amante giapponese che non smise mai di fare visita sulla sua tomba. Pare abbia continuato fino al sopraggiungere della sua morte, nel primo anno del nuovo millennio. Il giovane Richard Sorge, la spia con Marx e Lenin sul cuore, era del resto sempre piaciuto molto alle donne e ha saputo farsi amare. Possiamo vederlo come un cliché se volete. Qualcosa che non di rado appartiene alle spie. O forse come una ricompensa, per il coraggio che mostrano in vita.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Gianni Riotta per “La Stampa” il 12 febbraio 2022.

La sera dell'11 dicembre 1941, raccontava mio padre Salvatore, gli studenti universitari dei gruppi fascisti Guf sfilarono nella sua città, inneggiando alla dichiarazione di guerra che Benito Mussolini e Adolf Hitler avevano consegnato agli ambasciatori del presidente americano Franklin Delano Roosevelt. 

Quattro giorni prima, il 7 dicembre, le forze aeronavali giapponesi avevano attaccato, e colpito con efficacia, la flotta Usa, in rada a Pearl Harbor, Hawaii, aprendo il conflitto con Washington nel Pacifico. 

Ma il presidente Roosevelt, che dal 1939 sperava di battersi al fianco della Gran Bretagna contro i nazisti, non riusciva a persuadere il riottoso Congresso, popolato da senatori democratici del Sud, isolazionisti, a votare le ostilità contro Berlino e Roma, riuscendo solo a combattere contro il Giappone imperiale.

È la scelta di Hitler, dissennatamente imitato da Mussolini, a suggellare il destino finale della guerra 1939-1945. Il ricordo di mio padre si completava con la disperazione del suo barbiere, emigrato per anni a Pittsburgh, operaio alle acciaierie, che nel clamore dei fascisti, gli confida dopo aver chiuso, per cautela, la bottega: «L'America forte è!».

Quei giorni che han segnato la storia, 7-11 dicembre 1941, sono al centro di un saggio degli studiosi inglesi Brendan Simms e Charlie Laderman, "Hitler's American Gamble, Pearl Harbor and Germany's march to global war", tradotto da Vittorio Ambrosio per Newton Compton come "I cinque giorni che hanno cambiato la Seconda guerra mondiale. Da Pearl Harbor alla dichiarazione di guerra di Hitler agli Usa: come la guerra diventò mondiale".

In oltre 500 pagine Simms e Laderman documentano un mondo in bilico tra esiti opposti, vicino a una diversa storia, con gli Usa isolati contro il Giappone e Hitler padrone d'Europa, con il vassallo Mussolini. 

Nel dicembre 1941 il premier britannico Winston Churchill dispera di convincere Roosevelt ad entrare nel conflitto e teme che i giapponesi attacchino le colonie inglesi e olandesi, ricche di risorse e indifendibili, senza coinvolgere gli Usa. 

Il leader sovietico Stalin sa, dalla spia tedesca a Tokyo Richard Sorge, che la cricca dei generali nazionalisti non intende attaccare Mosca, e, di soppiatto, ritira dal fronte orientale 20 divisioni, per farle affluire verso la capitale dove, il 5 dicembre, lancia una controffensiva contro la Wermacht che, per la prima volta dall'invasione, arretra.

Le buone notizie dal fronte russo non rallegrano però Churchill che, nelle memorie del capo di gabinetto, Lord Alanbrooke, viene dipinto come depresso, alticcio, irascibile, convinto che dalle trame segrete fra Hitler, Stalin e i generali dell'imperatore Hirohito possa scaturire un'intesa per distruggere l'impero di Sua Maestà. Simms e Laderman non credono alla vulgata di un Hitler in preda a un cupio dissolvi, pronto a incenerire la Germania in un'Apocalisse finale. 

Già nella biografia del Fuhrer del 2019, "Hitler's a global biography", contestatissima dai critici, Simms negava l'idea di un Hitler pazzo e votato all'autodistruzione, ritraendolo come cosciente della debolezza tedesca di fronte al potere americano, ma determinato a ribaltare la bilancia dell'egemonia con il latifondo, la manodopera sovietica e il petrolio del Caucaso.

Il fascino del volume di Simms e Laderman sta nel contraddire la nostra pigrizia mentale, l'idea che la Storia conosciuta sia l'unica possibile, in un determinismo, antico come Hegel, ma falso: in ogni pagina, come a ogni giro di mano a poker, un Fato originale è in agguato. 

Hitler apprende del raid a Pearl Harbor da un subalterno, che gli traduce i dispacci dell'agenzia di stampa Reuters, mentre il rivale Churchill lo scopre ascoltando la radio. Nessuno dei due leader sembra sconvolto, troppo immersi nella fatica del presente, per individuare scenari alternativi. 

Churchill ha paura che gli Usa tronchino il programma di aiuti Lend-Lease, che mantiene viva l'industria bellica anglosassone; Hitler, che detesta lo stato maggiore Wermacht, considerando gli ufficiali snob e incapaci, è preoccupato per i bollettini negativi sull'attacco dell'Armata Rossa alla periferia di Mosca.

Benito Mussolini avrebbe, nel frattempo, potuto rinsaldare il «Fronte Latino», con la destra francese del generale Petain, costituendo, senza guerra agli Usa e d'intesa con il Caudillo Franco in Spagna, un Mediterraneo bunker anti-flotta inglese. 

Hitler, alla fine, dopo i cinque giorni che avrebbero potuto salvare il Terzo Reich e il fascismo, umiliando Londra e abbandonando Washington e Tokyo a un difficile duello, con il Sol Levante padrone di Singapore, Malesia e, presto di India e Australia, dichiara guerra a Roosevelt.

Non per eccesso di sicurezza, lo storico Benjamin Carter Hett, sul New York Times, ricorda che, nel gennaio del 1942, il Fuhrer confida all'ambasciatore giapponese Hiroshi Shima: «Non ho idea di come sconfiggere l'America» e, per provargli la sua stima, lo insignisce dell'Ordine dell'Aquila d'Oro, concesso solo a 15 dignitari.

Shima ricambierà, chiedendogli invano, nel 1945, di non essere evacuato con gli altri diplomatici, restando a combattere a Berlino contro i russi. 

Allora la Storia era già quella che conosciamo e mio padre, lavorando con gli americani dello Psychological Warfare Branch, doveva riconoscere la saggezza del barbiere, miglior stratega di Hitler, Mussolini e del premier Hideki Tj: «L'America forte è!».

Giuseppe Scarpa per "Il Messaggero" l'11 febbraio 2022.

C'è un tesoro italiano di inestimabile valore rubato dai nazisti a cui i carabinieri danno la caccia in tutto il mondo. Dipinti, sculture, arazzi e statue saccheggiati dalla Wehrmacht alla fine della seconda guerra mondiale e portati a Berlino, alla corte del Terzo Reich. 

Capolavori svaniti nel nulla quando il regime di Hitler è stato sconfitto. Gli investigatori italiani hanno, però, in mano il catalogo di questi gioielli trafugati. Più di 11mila pezzi, e combattono con musei, case d'asta e privati per ottenere il rimpatrio. Un lavoro complicatissimo.

Perché nonostante gli inquirenti dimostrino, carte alla mano, la paternità delle opere le autorità giudiziarie di altri Paesi europei, su tutti Germania e Francia, negano in molti casi la restituzione rappresentando le scuse più assurde.

Intanto, però, nel corso degli anni gli specialisti a cui è stato affidato il difficilissimo compito di individuare e recuperare la refurtiva, i carabinieri tutela patrimonio culturale, hanno riportato a casa 532 capolavori.

Ma il loro è un lavoro infinito. Adesso, della lunga lista degli 11mila 547 pezzi, gli uomini e le donne coordinati dal generale Roberto Riccardi hanno individuato altri 21 quadri. Su questi diverse procure lavorano per ottenere la restituzione. Si indaga per illecita esportazione e ricettazione.

Reati funzionali a ottenere la confisca e la consegna, non per condannare i responsabili, impossibili da individuare e in molti casi già morti. Ma le risposte che ottiene la magistratura italiana, quando avanza le richieste ai colleghi europei, sono folli. Tutte con un unico obiettivo. Non restituire nulla.

La procura di Roma ha dovuto rinunciare. Non c'è stato niente da fare di fronte al muro francese. Questa la storia: Il Tpc spulciando i siti delle case d'asta individua un pezzo pregiato rubato dalla prefettura di Roma nel 1943 dai nazisti.

È un capolavoro di Bendetto Luti, un pittore del Settecento. Gli inquirenti italiani mostrano la documentazione, le prove. I colleghi d'Oltralpe negano tutto e con un laconico "Luti ha dipinto tante teste di donna, come fate a dirci che è questa la vostra" e cestinano così la richiesta di restituzione. 

Gli inquirenti italiani sono costretti ad alzare bandiera bianca, nonostante gli elementi portati a sostegno. Stessa sorte, sempre nella Capitale, per un altro quadro scoperto, come al solito, dai carabinieri e in vendita in una casa d'aste a Monaco, Germania.

Ma nonostante i no incassati, il lavoro dei carabinieri va avanti. E così l'Italia ha potuto riabbracciare capolavori come un quadro di Lavinia Fontana (1552 - 1614) Cleopatra, datato 1580, rubato dalle truppe naziste tra il dicembre 1943 ed il luglio 1944 dalla Pinacoteca di Civitavecchia. 

Oppure un Busto di Cristo di Matteo Civitali (1436 - 1501) prelevato dai tedeschi dalla Chiesa di Santa Maria della Rosa a Lucca nella notte tra il 7 e l'8 febbraio 1944.

LE RESTITUZIONI

E ancora un capolavoro di Jacopo Zucchi (1545 - 1596) Betsabea al bagno che i nazisti avevano preso dall'Ambasciata d'Italia a Berlino dopo l'8 settembre 1943. Il Tpc è riuscito a recuperare anche un disegno di Giovanni Antonio Dosio (1533 - 1609) Veduta della Basilica di San Pietro che i soldati del Terzo Reich avevano preso nel 1943 dalla Galleria degli Uffizi di Firenze.

Ci sono poi le opere di Girolamo dai Libri (1474 - 1555) La Circoncisione di Gesù Bambino, la Madonna con Bambino di Cima da Conegliano (1459 - 1518) e la Trinità di Alessio Baldovinetti (1425 - 1499) trafugate dalla 16^ divisione corazzata Waffen-SS dalla Villa delle Pianore (Camaiore, Lucca) nella primavera del 1944. 

Il saccheggio non aveva risparmiato nemmeno le caserme, dal circolo Ufficiali di Pordenone nel 1943 venne rubato Carica dei Bersaglieri di Michele Cammarano (1835-1920). Adesso inquirenti e investigatori hanno individuato altri 21 quadri. La caccia al tesoro è ancora aperta e lo sarà per anni.

Walter Rauff, il nazista che non poteva essere catturato. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Febbraio 2022.  

Quello che il teorico della supremazia ariana Alfred Rosenberg aveva rinominato il Mito del ventesimo secolo, cioè il nazionalsocialismo, è nato e morto con Adolf Hitler, ma molti dei suoi seguaci, come è noto, sarebbero riusciti a divincolarsi dalle grinfie degli Alleati, dalla giustizia di Norimberga e dalla vendetta del Mossad e dei caccia-nazisti israeliani.

Furono molti, moltissimi, i nazisti che, sopravvissuti alla caduta del Terzo Reich, acquisirono una nuova identità e iniziarono una nuova vita altrove, lontano dall’Europa. Alcuni fuggitivi trovarono protezione in Medio Oriente, come Johann von Leers, ma la maggior parte di loro – tra i novemila e i dodicimila – scelse come meta le Americhe Latine. E tra coloro che ripartirono da zero nel subcontinente latinoamericano, mettendo il proprio cervello a disposizione di vari governi e servizi segreti, vi fu uno dei più grandi esecutori dell’Olocausto: Walter Rauff.

Walter Rauff nacque in quel di Köthen il 19 giugno 1906. Allevato secondo un’educazione rigida e militare, incardinata sulla disciplina, Rauff avrebbe intrapreso la carriera militare una volta compiuti diciotto anni.

Nostalgico di un’epoca mai realmente vissuta, quella dell’Impero, Rauff si sarebbe avvicinato agli ambienti neo-guglielmini, protonazisti e anti-weimariani già in adolescenza. E l’entrata nelle forze armate, avvenuta nel 1924, non sarebbe stata che la foce naturale di un percorso introspettivo e ideologico cominciato da adolescente.

Arruolatosi nella Reichsmarine, la Marina tedesca riformata nel primo dopoguerra, Rauff avrebbe quivi conosciuto persone con le quali si sarebbe reincontrato anni dopo. Persone come Reinhard Heydrich, il futuro braccio destro di Heinrich Himmler e direttore dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich, con il quale Rauff avrebbe instaurato un rapporto di profonda amicizia.

Rauff avrebbe fatto carriera nella Reichsmarine, sino ad ottenere il grado di tenente, e con le navi battenti la bandiera tedesca avrebbe visto il mondo, servendo tra la penisola iberica, l’Atlantico e l’America meridionale. L’ascesa di Adolf Hitler, però, lo avrebbe spinto a fare ritorno in patria e a vestire una nuova casacca: quella nazista.

La seconda guerra mondiale

Le strade di Rauff e Heydrich si sarebbero incrociate nuovamente negli anni Trenta. Heydrich era divenuto uno dei principali esponenti del Terzo Reich, essendo a capo dell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich e della Gestapo, mentre Rauff era un insofferente membro della Marina alla ricerca di una meta. Meta che avrebbe trovato lontano dai mari, in patria, in quanto aiutato dall’amico di vecchia data a fare ingresso nell’Ufficio Centrale per la Sicurezza del Reich.

La Seconda guerra mondiale si sarebbe rivelata l’opportunità di scalare i gradoni della piramide nazista. Dopo aver diretto le operazioni in Norvegia del Sicherheitsdienst, il servizio segreto delle SS, Rauff fu successivamente coinvolto nello sviluppo delle camere a gas.

Martin Bormann, il nazista fantasma

Johann von Leers, un nazista al servizio del nazionalismo arabo

Reinhard Gehlen, il nazista redento al servizio di Washington e Berlino

Nel 1942 fu inviato dal Sicherheitsdienst in Tunisia per supervisionare la persecuzione della comunità ebraica locale; un ruolo svolto per un anno, all’ombra della campagna africana di Erwin Rommel, che si sarebbe concluso con la morte di oltre 2.500 ebrei tunisini e con il trasferimento nella Reichsbank di oltre quaranta chilogrammi di ori e gioielli a loro appartenuti.

Nel 1943, dopo aver concluso la campagna antigiudaica in Tunisia, Rauff fu inviato in Italia settentrionale per dirigere le le cacce all’uomo della Gestapo e del Sicherheitsdienst in loco. Cacce che da Milano a Torino, passando per Genova, erano principalmente dirette contro due categorie di persone: partigiani ed ebrei.

Ricercato ma non troppo

Rauff fu catturato dagli Alleati sul finire della guerra e trasferito in un campo di prigionia nei pressi di Rimini in attesa di giudizio. In tribunale, però, non ci sarebbe mai arrivato. Dopo essere fuggito dal sito, con la vociferata complicità di Alois Hudal avrebbe acquisito una nuova identità, prendendo una nave per l’estero e facendo perdere ogni sua traccia.

Il nazista sarebbe riapparso in pubblico tre anni dopo, nel 1948, quando fu avvistato a Damasco in compagnia dell’allora presidente siriano Husni al-Za’im, dal quale era stato assunto per scrivere un piano d’azione contro il neonato stato di Israele. Terminata la prima guerra arabo-israeliana, con la sconfitta del fronte filopalestinese e la detronizzazione di al-Za’im, Rauff avrebbe abbandonato il Medio Oriente alla ricerca di lidi più sicuri. Ed è a questo punto che realtà, leggende e teorie del complotto cominciano a mescolarsi.

Rauff, secondo delle teorie corroborate da alcuni e smentite da altri, sarebbe fuggito dal Medio Oriente perché avrebbe completato la missione: sabotare l’agenda anti-israeliana delle potenze arabe. Secondo dei documenti declassificati della CIA, invero, l’ex nazista sarebbe stato assoldato dal Mossad per carpire i piani militari di siriani ed egiziani, giocando un ruolo fondamentale nel determinare l’esito della guerra, e ripagato per l’aiuto dato con un salvacondotto per l’America Latina.

In teoria, Rauff era un fuggitivo, perché ricercato per l’assassinio di circa centomila ebrei. In pratica, nessuno lo cercava e lui, di conseguenza, non si nascondeva. Libero da ogni forma di pressione, contrariamente a molti ex colleghi, Rauff avrebbe potuto camminare alla luce del giorno e mettere persino in piedi delle profittevoli attività commerciali tra Argentina ed Ecuador.

Ricercato ma imprendibile

A partire dal 1958, e fino al 1963, Rauff avrebbe arrotondato le entrate mensili esperendo delle attività spionistiche per il Servizio di Intelligence Federale della Germania Ovest. Attività illegali, inquadrabili nel contesto della Guerra fredda, e alle quali avrebbe posto fine il governo tedesco dopo essersene venuto a conoscenza.

Rauff fu fatto oggetto di una richiesta di estradizione nel 1962, ma dalle autorità cilene non fu mai consegnato alle controparti tedesche. Era ritenuto intoccabile. Sapeva troppe cose. Era a capo di un piccolo impero economico che gli era valso la protezione dei potenti.

Mengele, l’angelo della morte

Candido Godoi, la città dei “gemelli ariani” di Mengele

Il Mossad, forse incoraggiato dall’onda emotiva suscitata dal caso Eichmann, nella seconda metà degli anni Sessanta avrebbe cominciato a pianificare il rapimento di Rauff. L’impresa, però, si sarebbe rivelata più ardua del previsto. Dopo vari tentativi infruttuosi, inclusa un’incursione nel suo alloggio, il potente servizio segreto di Israele avrebbe sperimentato ulteriori difficoltà con l’avvento della dittatura pinochetista.

Rauff, consapevole di essere ricercato dal Mossad, a partire dal 1973 si sarebbe trasformato in un fantasma. Continuava a gestire le sue attività, ma senza mai recarvisi direttamente. Continuava a vivere in Cile, ma senza farsi vedere. Di lui si sapeva soltanto che era coperto da Augusto Pinochet, che aveva aiutato nella costituzione della temibile Direzione di Intelligence Nazionale e che per questo era diventato un suo protetto.

Pinochet avrebbe mantenuto la parola data a Rauff sino all’ultimo momento e dimostrandolo in più occasioni: dall’arresto della caccia-nazisti Beate Klarsfeld, entrata in Cile nel 1984, al rifiuto di una richiesta di estradizione formale inoltrata da Israele.

La lealtà incondizionata di Pinochet avrebbe permesso a Rauff di godersi l’anzianità e di morire da uomo libero sul proprio letto, nella propria dimora di Santiago, il 14 maggio 1984.

Jorge von Marees, Hitler e il sogno della svastica sulle Ande. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Febbraio 2022.

Germania e Stati Uniti, a volte nemici, talvolta aminemici, ma mai completamente amici. Il loro è un rapporto di amore-odio, dove il secondo ha storicamente prevalso sul primo, che affonda le origini nella competizione tra grandi potenze tardo-ottocentesca, più precisamente nell’agenda antiamericana di Guglielmo II.

Quella dei sogni di egemonia del Kaiser sull’America, o meglio sulle Americhe, è una storia quasi sconosciuta, ignorata dai più, ma della quale è indispensabile scrivere, sulla quale è essenziale indagare, perché l’«aminimicizia» germano-americana di oggi è il risultato degli accadimenti di ieri. Accadimenti come il tentativo di Guglielmo II di intrufolarsi nella spinosa questione del Canale del Nicaragua. Accadimenti come il Telegramma Zimmermann – motivo conduttore dell’entrata degli Stati Uniti nella Grande guerra. E accadimenti come le azioni di disturbo del Terzo Reich tra Caraibi e Terra del fuoco, tra le quali le operazioni Bolivar e Pastorius, il Progetto 14 e l’eclatante tentativo di golpe consumato in Cile dai filonazisti di Jorge González von Marées all’alba della seconda guerra mondiale.

Jorge González von Marées nacque in quel di Santiago del Cile il 4 aprile 1900 in una famiglia dell’alta classe, di nobile lignaggio. Figlio di un ricco imprenditore del settore sanitario – Marcial González Azócar, fondatore della Clinica tedesca di Santiago (ancora oggi esistente) – e di una nobile imparentata con il pittore Hans von Marées – Sofía von Marées Sommer –, González avrebbe manifestato un interesse per i più deboli, in particolare per la classe operaia, sin dalla gioventù.

Cresciuto con un profondo di disagio, legato al fatto di avere del sangue blu nelle vene in una nazione capillarmente indigente e diseguale, González avrebbe trascorso la giovinezza e la prima età adulta a lavorare in senso contrario ai voleri dei genitori. Dapprima un ciclo di studi estremamente lungo, terminato soltanto nel 1932 – con una tesi dedicata alla questione operaia –, e dipoi la decisione di imboccarsi in una strada senza ritorno, rifiutando l’aiuto di due genitori disposti a farlo entrare nelle forze dell’ordine o in politica: l’adesione al nazismo.

La scelta che lo avrebbe condizionato tutta la vita, macchiandone per sempre l’immagine e incrinando i rapporti già logori con la famiglia, avvenne nel 1932, Quell’anno, in data 5 aprile, González, in collaborazione con l’economista Carlos Keller e il militare in pensione Francisco Javier Diaz, avrebbe dato vita al Movimento nazionalsocialista del Cile (MNS, Movimiento Nacional-Socialista de Chile).

Ufficialmente indipendenti, cioè privi di legami con il Terzo Reich – del quale, a detta di González, avrebbero condiviso soltanto l’ideologia –, i membri del MNS avrebbero svelato molto presto il loro (vero) volto, quello, cioè, di una quinta colonna mossa dalla longa manus di Adolf Hitler. Il loro stesso soprannome, del resto, non lasciava spazio alla fantasia: González e i suoi gregari si facevano chiamare los nacistas, i nazisti.

Nel 1933, ad un solo anno dalla fondazione, il MNS avrebbe cominciato a incutere timore ai dipendenti della Moneda. E il motivo non era dato dagli scontri pressoché quotidiani con i gruppi studenteschi di estrema sinistra, in prevalenza marxisti e stalinisti, che avevano portato un inusuale caos lungo le strade cilene. Il motivo era che González aveva costituito un corpo paramilitare ispirato alle camicie brune (Sturmabteilung), dandogli un nome altrettanto eloquente: Truppe naziste d’assalto (Tropas Nacistas de Asalto).

Carismatico, nonché forte di un cognome pesante, in grado di suscitare approvazione, González avrebbe successivamente riformato alcuni concetti-chiave del MNS, ad esempio depurandolo dalla giudeofobia e dal biancocentrismo, allo scopo di tentare la conquista di ampi settori dell’opinione pubblica. Una moderazione tattica, in vista delle parlamentari del 1937, che avrebbe permesso al MNS di raggiungere una serie di traguardi notevoli, tra i quali la presidenza della Federazione degli studenti universitari cileni e un trattamento simpatetico da parte della grande stampa, persino da El Mercurio, il giornale più letto della nazione.

Nel 1937, sorprendendo lo stesso González, il MNS sarebbe riuscito a entrare in Parlamento. Avendo ottenuto il 2,04% a livello nazionale, infatti, il piccolo partito fu in grado di eleggere tre deputati: Fernando Guarello Fitz-Henry, Gustavo Vargas Molinare e lo stesso González.

Che la presenza del MNS non sarebbe stata identica a quella degli partiti, però, la politica e la società lo avrebbero compreso molto rapidamente. Il giorno dell’apertura dei lavori del nuovo Congresso, infatti, González avrebbe estratto una pistola nel corso di un alterco con degli altri deputati; un gesto costatogli l’immunità parlamentare e precorritore di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve.

Il tentato golpe

Il risibile eppur importante esito delle parlamentari aveva convinto il MNS che la presa del potere, della Moneda, fosse più che possibile. Le urne avevano prodotto un risultato esiguo, ma le strade erano movimentate e le forze armate in trepidazione. Tutto sembrava indicare, in breve, che i tempi maturi affinché la nazione delle Ande si unisse all’internazionale nazifascista.

Il 5 settembre 1938, alla vigilia delle presidenziali più attese del decennio e il giorno successivo alla Marcia della Vittoria – la discesa su Santiago di oltre diecimila nacistas –, un piccolo esercito del MNS tentò un azzardo passato alla storia: una sedizione avente l’obiettivo di detronizzare il presidente in carica, Arturo Alessandri, e sostituirlo con l’ex dittatore Carlos Ibáñez del Campo.

Speranza-aspettativa dei golpisti era che le loro gesta eclatanti dessero vita ad un effetto domino nelle forze armate, incoraggiando i fedelissimi dell’ex dittatore, gli ibañisti, a destituire Alessandri e proclamare un regime militare, simil-fascista, in tutto il Cile. 

Poco dopo lo scoccare delle dodici, al grido “¡Chileno, a la acción!“, più di trenta nacistas addestrati all’arte della guerra urbana – selezionati tra i migliori combattenti delle Truppe naziste d’assalto – avrebbero fatto irruzione nel Palazzo del Seguro Obrero, sede dell’omonima agenzia governativa responsabie delle politiche assistenzialistiche.

Guidati dal tenente Gerardo Gallmeyer Klotze, i putschisti avrebbero mietuto la prima vittima entro cinque minuti dall’inizio dell’assalto: il carabinero José Luis Salazer Aedo. Preso in ostaggio il personale e convertito l’edificio in un avamposto fortificato e colmo di trappole ad ogni piano, i nacistas avrebbero iniziato a comunicare le loro intenzioni via radio, esortando i cileni, sia civili sia militari, a scendere in strada per sostenere la rivoluzione in corso.

La reazione della presidenza sarebbe stata ferma, intransigente e fulminea. Alessandri, dopo aver preannunciato l’apertura di un fascicolo di indagine teso a far luce sull’esistenza di legami tra i golpisti, apparati statali e forze straniere, avrebbe ordinato ai Carabineros di fare irruzione nell’edificio e sedare quel putsch in tempi brevi e con ogni mezzo necessario.

Entro le quattordici, un tiratore scelto avrebbe eliminato Gallmeyer, privando i golpisti della loro guida. Ed entro le quindici, tra lo stupore generale, sarebbe cominciata la battaglia per il Cile. Poco dopo aver inviato il reggimento di fanteria Buin al Seguro Obrero, infatti, la presidenza avrebbe dovuto mobilitare il reggimento Tacna per via dello scoppio di disordini in altre parti della capitale, tra i quali l’occupazione del Palazzo centrale dell’università del Cile.

Ordine e sicurezza sarebbero stati restaurati entro il tramonto, ma ad un prezzo carissimo: il sangue dei putschisti tra le mani di Alessandri e dei Carabineros. Il presidente, invero, dette l’ordine agli uomini in divisa di giustiziare il maggior numero di aspiranti rivoluzionari. Un severo monito per l’intero ambiente nazionalsocialista cileno che, alla fine della giornata, sarebbe costato la vita a 59 nacistas e avrebbe scioccato tanto l’opinione pubblica quanto gli intellettuali cileni più celebri dell’epoca, come il poeta Gonzalo Rojas.

Le urne avrebbero punito Alessandri per quell’eccidio, passato alla storia come il Massacro del Seguro Obrero (Matanza del Seguro Obrero), decretando la vittoria del rivale Pedro Aguirre Cerda. E Cerda, consapevole di essere stato eletto (anche) per protesta, una volta in ufficio avrebbe proceduto ad amnistiare i putschisti in stato di detenzione, tra i quali González.

Il secondo dopoguerra e la morte

Dopo un periodo di silenzio e raccoglimento, caratterizzato da un profilo sostanzialmente basso, González avrebbe tentato un nuovo colpo di mano all’acme della seconda guerra mondiale. Con l’aiuto di Buenos Aires e Berlino, secondo i servizi segreti britannici e statunitensi, avrebbe voluto occupare la Moneda e instaurare una dittatura militare a Santiago. Questa volta, però, a fermare González non sarebbero stati i militari cileni: sarebbero stati gli americani, che inviarono l’incrociatore Trenton al largo di Valparaiso in segno di avvertimento, riuscendo negli obiettivi di farlo desistere e di placarne a tempo indefinito l’animo sobillatore.

Reinventatosi liberale negli anni Cinquanta, e per questo accusato di tradimento da ex camerati e nacistas di nuova generazione – come il celeberrimo Miguel Serrano –, González sarebbe morto a Santiago del Cile il 14 marzo 1962, all’età di 61 anni.

Che cos’è la Fratellanza Ariana. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Febbraio 2022.

Era dai tempi della battaglia per i diritti civili degli anni Sessanta che gli Stati Uniti non erano così divisi su linee di faglia etno-razziali. I nazionalismi etnici proliferano, il terrorismo domestico va diventando una minaccia crescente e persino il discorso politico, sia a destra sia a sinistra, ha ceduto al fascino perverso della dialettica dell’odio.

Quanto fosse frammentata la società americana lo si è potuto capire, tanto in patria quanto nel mondo, all’indomani della morte di George Floyd, l’afroamericano morto durante un’operazione di polizia il 25 maggio 2020. Gli incidenti scaturiti da quell’evento, oltre ad aver giocato un ruolo nella sconfitta di Donald Trump alle successive elezioni, hanno fatto piombare gli Stati Uniti in una sorta di guerra civile a bassa intensità di cui continua a non intravedersi la fine.

La nuova guerra civile che ha avvolto gli Stati Uniti è combattuta da una costellazione variegata di attori, tra i quali i celeberrimi Antifa e Black Lives Matter, e vede il mondo del cosiddetto nazionalismo bianco giocare un ruolo da co-protagonista. Un mondo che, rispetto al passato, non è più guidato dal Ku Klux Klan, moribondo e diviso, ma da nuovi movimenti, brulicanti di vita e ricchi di membri, come le Nazioni Ariane, i Proud Boys, il movimento Boogaloo, il Fronte patriottico e la Fratellanza Ariana.

La fondazione

La Fratellanza Ariana (Aryan Brotherhood) nasce tra le celle del famigerato Penitenziario di San Quintino negli anni Sessanta. Erano i tempi della segregazione razziale, delle lotte del movimento per i diritti civili, e le carceri non erano immuni dalla tensione che attanagliava le strade.

La Fratellanza Ariana nacque, inizialmente, come un gruppo carcerario di autodifesa privo di connotazioni politiche. Non aveva un nome, non possedeva un’ideologia, ma per aderirvi era necessario soddisfare un requisito: essere bianchi. I detenuti afroamericani avevano formato la temibile Famiglia della guerriglia nera (Black Guerrilla Family) e avevano rapidamente assunto il controllo di San Quintino, seminando il panico tra i bianchi, i quali erano sì maggioritari, ma disorganizzati e disinteressati a fare politica.

In breve tempo, complici le tensioni interrazziali e la natura politica del confronto con la Famiglia della guerriglia nera, il gruppo carcerario di autodifesa dei bianchi sarebbe divenuto il cuore pulsante del nazionalismo bianco dietro le sbarre, a San Quintino come nel resto della nazione.

La trasformazione del gruppo divenne chiara negli anni Ottanta, età caratterizzata da una pioggia di omicidi a sfondo razziali e di violenze antipoliziesche perpetrate dalla Fratellanza. In principio fu il caso Robert Chappelle, un detenuto afroamericano ucciso nel 1981 dai due suprematisti Thomas Silverstein e Clayton Fountain nel penitenziario di Marion. Due anni più tardi, la Fratellanza avrebbe cominciato a prendere di mira le guardie, come palesato dal brutale assassinio di Merle Clutts – ucciso con quaranta coltellate –, diventando l’«incubo delle prigioni americane».

Ideologia, struttura e composizione

La Fratellanza Ariana, con il passare del tempo, è uscita dalle carceri e si è avventurata nella conquista delle strade. Non più una realtà penitenziaria, circoscritta a San Quintino, oggi la Fratellanza è un’organizzazione destrutturata, orizzontale e presente da costa a costa.

Le autorità stimano che la Fratellanza abbia tra i diecimila e i ventimila membri, buona parte dei quali si trova nelle prigioni per scontare delle condanne a vita, e la ritengono una delle realtà più attive e vibranti del nazionalismo bianco per varie ragioni:

Ha stabilito contatti, o meglio alleanze, con le principali organizzazioni del suprematismo bianco degli Stati Uniti, come il KKK, le Nazioni Ariane (Aryan Nations) e la Milizia del Montana (Militia of Montana);

Ha stabilito dei rapporti di collaborazione con le grandi organizzazioni criminali presenti nelle carceri nazionali, in particolare con le bande latinoamericane e con Cosa nostra americana, con le quali conduce affari, pianifica omicidi e organizza rivolte;

Non ha un capo unico, perché orizzontale, ma è composta da una serie di cellule a livello penitenziario, ciascuna dotata di una gerarchia e di un comune metodo di reclutamento e funzionamento, che interagiscono tra loro e permettono all’organizzazione di superare le barriere fisiche.

Entrare nella Fratellanza Ariana non è facile. L’ingresso va «meritato», dove per meritato si intende che l’aspirante fratello ariano deve dimostrare la lealtà alla causa, la volontà di appartenenza, commettendo delle gesta piuttosto gravi e pericolose, che spaziano dall’aggredire a sangue freddo un poliziotto all’uccidere un afroamericano a caso.

Una volta superata la prova del fuoco, al fratello ariano sono richieste altre due cose: la dedizione allo studio e la sua carne. Lo studio di libri come il Mein Kampf e Il Principe di Niccolò Machiavelli. La sua carne da marchiare a vita con tatuaggi inneggianti ad Adolf Hitler, al Terzo Reich e, in generale, al nazismo.

Potere bianco o potere al denaro?

La Fratellanza Ariana, pur figurando nell’elenco delle organizzazioni dell’odio del Southern Poverty Law Center, viene descritta da quest’ultimo come un’entità più interessata al denaro che all’ideologia.

I fratelli ariani sono noti per i vistosi tatuaggi denotanti la passione per il nazismo, nonché per gli innumerevoli crimini d’odio a sfondo razziale, ma questo non impedisce loro di fare affari con le bande latinoamericane, con Cosa nostra americana e coi gruppi criminali asiatici.

A metà tra l’organizzazione estremistica che predica l’odio e l’organizzazione criminale che fa affari con (quasi) tutti, la Fratellanza ariana è nota per il coinvolgimento in una vasta gamma di attività illecite, tra le quali il traffico di sostanze stupefacenti, l’estorsione, la prostituzione, le rapine e gli omicidi su commissione. Attività che intraprende quando singolarmente e quando in collaborazione con le famiglie mafiose italoamericane, con i cartelli della droga latinoamericani e coi gruppi criminali asiatici.

L’alleanza con Cosa nostra americana, più precisamente con la famiglia Gambino, sembra essere nata negli anni Novanta, in coincidenza con l’entrata in carcere dell’allora padrino John Gotti. Gotti, dopo essere stato aggredito da un detenuto afroamericano nel Penitenziario di Marion, aveva offerto alla Fratellanza del denaro in cambio dell’omicidio del suo assalitore.

La pecunia più che l’ideologia, in sintesi, sembra essere il motivo conduttore delle azioni dei fratelli ariani, dentro e fuori le sbarre, che alternano l’evangelizzazione dei carcerati – perché le prigioni sono e restano le loro basi operative – e la conduzione di attività criminose con chiunque, eccezion fatta per gli afroamericani, proponga loro un affare illecito.

Hitler, Rockwell e il Partito Nazista Americano. Pietro Emanueli su Inside Over il 29 gennaio 2022.

Gli Stati Uniti sono la terra delle opportunità per antonomasia; il luogo in cui tutto è possibile e dove chiunque ha il diritto, quasi sconfinato, di predicare ciò che vuole. Un diritto che ha permesso, ad esempio, alla Nazione dell’Islam di fare propaganda a favore del separatismo nero. Che ha permesso al Ku Klux Klan di riapparire a cadenza regolare, nonostante i linciaggi, gli omicidi e il terrorismo. E che ha permesso a tal George Lincoln Rockwell, negli anni Sessanta, di evangelizzare il popolo americano al credo nazista.

Il fondatore

Non si può scrivere e comprendere quel fenomeno più unico che raro che è stato il Partito Nazista America senza una previa introduzione a colui che lo fondò: George Lincoln Rockwell.

Nato il 9 marzo 1918 a Bloomington, stato dell’Ilinois, Rockwell era un membro della cosiddetta galassia WASP, in quanto di origini inglesi, francesi e tedesche. Cresciuto tra il New Jersey e il Maine, perché diviso tra i genitori divorziati, avrebbe tentato la carriera universitaria prima di arruolarsi nella Marina degli Stati Uniti.

Dopo l’attacco di Pearl Harbour, casus belli dell’entrata dell’America nella Seconda guerra mondiale, Rockwell avrebbe prestato servizio sia nell’Atlantico sia nel Pacifico, alternando mansioni logistiche, organizzative e azione – pilotaggio di aerei – e risaltando agli occhi dei superiori per la preparazione e l’efficienza.

Nel 1950, allo scoppio della guerra di Corea, Rockwell fu richiamato per servire la patria in qualità di tenente comandante, occupandosi di addestrare i piloti della Marina. E in questi anni, profondamente influenzato dal maccartismo, sarebbe diventato un sostenitore del nazismo, un nostalgico di Adolf Hitler, ritenendo l’ideologia della svastica l’unica forza in grado di fermare l’avanzata del comunismo negli Stati Uniti.

Dal dopo-Corea al 1959, coerentemente con il nuovo credo adottato, Rockwell avrebbe passato il tempo a persuadere esercito e opinione pubblica che il nazismo fosse la via. E dopo due tentativi fallimentari, la rivista U.S. Lady e il Comitato nazionale per liberare l’America della dominazione ebraica, avrebbe infine costituito il Partito Nazista Americano.

La nascita e l'espansione

Il Partito Nazista Americano viene fondato ufficialmente nel marzo 1959, ma assumerà quel nome soltanto un anno più tardi. Nel primo anno di vita, infatti, si sarebbe chiamato Unione mondiale dei nazionalsocialisti per la libera impresa.

Con sede ad Arlington, nell’Illinois, il Partito fu concepito come la replica all’americana dell’originale, dal quale mutuò gergo, iconografia, vestiario e, naturalmente, ideologia. Dopo alcuni anni di magra, a partire dal 1965, e fino al 1967, Rockwell sarebbe divenuto una sorta di icona culturale, per quanto negativa, e il Partito l’oggetto dell’attenzione della grande stampa (e della polizia federale). Il motivo? La bizzarra scenicità del Partito, frutto della teatralità e dell’inventiva di Rockwell.

A partire dal 1965, e fino al 1967, tutti avrebbero parlato di Rockwell. Rockwell l’anti-integrazionista, il nazionalista bianco, il neonazista. E alcuni, i più impavidi – o meglio, i più avidi di lettori –, come Playboy, lo avrebbero persino intervistato, adibendo le loro colonne ad uno spazio inconsapevole di proselitismo.

Tutti parlavano di Rockwell, perché, del resto, era impossibile ignorarlo. Era il creatore dei “bus dell’odio”, il promotore degli anniversari della nascita di Hitler, l’inventore del termine “potere bianco” e il fondatore dell’Unione mondiale dei nazionalsocialisti – l’organizzazione ombrello, ancora oggi esistente, che riunisce i principali partiti neonazisti del pianeta. Era colui che aveva convinto un militante ad assaltare Martin Luther King durante un comizio pubblico nel 1962, premiandolo ad aggressione avvenuta. Era colui che aveva stretto un’alleanza con la Nazione dell’Islam, figurando ad una loro marcia nel 1961 e parlando ad un loro evento l’anno dopo. Era colui che, contrariamente ad ogni aspettativa, era arrivato quarto alle elezioni governatoriali della Virginia nel 1965.

Il declino

Intuendo la possibilità di una popolarizzazione su larga scala, complice il clima dell’epoca – il risveglio del KKK, le tensioni interrazziali, l’ascesa della destra religiosa, l’albeggiare delle guerre culturali –, Rockwell, nel 1966, avrebbe dato un nuovo nome alla sua creatura: Partito nazionalsocialista della gente bianca. L’obiettivo? Superare definitivamente il nazismo, poiché ostacolo alla crescita, in favore di un più accettabile e moderato nazionalismo bianco.

Ma la transizione che avrebbe dovuto assicurare a Rockwell la simpatia di più ampie sezioni dell’opinione pubblica, magari permettendo al Partito di vincere qualche elezioni, non avrebbe mai avuto luogo. Il 25 agosto 1967, poco dopo aver annunciato la trasformazione della sua creatura, Rockwell fu assassinato da una vecchia conoscenza: John Patler, un nazista che era stato espulso dal Partito per aver tentato di diffondere idee marxiste.

Matthias Koehl, numero due del Partito e nebuloso personaggio legato all’internazionale nera – in contatto, tra gli altri, con Savitri Devi –, avrebbe rispettato le ultime volontà di Rockwell, proseguendo sulla via della ristrutturazione della piattaforma ideologica e dello stile comunicativo.

L’emergere di divisioni, in parte causate dal forte dissenso verso la svolta moderata e in parte dall’inabilità di Koehl di mediare conflitti e differenze, avrebbe progressivamente condotto il Partito alla morte per scissioni interne. Più vicini all’impianto ideologico e al modus operandi del KKK che alla moderatezza e al misticismo di Koehl, i nazisti americani sarebbero andati incontro ad una crescente radicalizzazione nel corso degli anni Settanta. E acme di questo processo di estremizzazione fu indubbiamente il massacro di Greensboro, ovvero l’uccisione di cinque attivisti comunisti, in concorso con membri del KKK, il 3 novembre 1979.

Disilluso dai compagni, che riteneva incapaci di cogliere i lati più profondi e metafisici del nazismo, in quanto esclusivamente interessati a commettere crimini d’odio, Koehl avrebbe deciso di trasformare la creatura di Rockwell nel Nuovo Ordine (New Order) nel 1983. Un’organizzazione apartitica e dal nome eloquente, indicativo della netta cesura con il passato e riflettente il focus sul lato mistico del nazismo, e che è sopravvissuta fino ai giorni nostri.

IL SENSO DI HITLER, DA GIOVEDÌ 27 GENNAIO AL CINEMA. Un'indagine alternativa e rivoluzionaria sull'influenza che Adolf Hitler continua ad esercitare ancora oggi sulla società. Da mymovies.it lunedì 10 gennaio 2022 - News.

A partire dal libro mai pubblicato in Italia "The Meaning of Hitler" di Sebastian Haffner (1978), volto a smantellare i miti e le idee comuni su Hitler e la sua ascesa al potere, il film propone un'indagine alternativa e rivoluzionaria sull'influenza che Adolf Hitler continua ad esercitare ancora oggi sulla società: da immagini dell'epoca nazista e documenti storici ad un'analisi approfondita del fenomeno anche attraverso i media e i social network di oggi, come Tik Tok e Twitch. Critici e storici rispondono a una domanda fortemente attuale: Hitler continuerà ad essere sempre più influente per le nuove generazioni?

Il film Il Senso di Hitler, diretto da Petra Epperlein, Michael Tucker (II), è distribuito da Wanted e in uscita giovedì 27 gennaio.

UN'INDAGINE AD AMPIO RAGGIO SUL PERCHÉ LE IDEE DI HITLER TROVINO CONSENSO ANCORA OGGI, NONOSTANTE TUTTO. Recensione di Giancarlo Zappoli su mymovies.it giovedì 20 gennaio 2022. 

Il documentario, basandosi sull'omonimo libro di Sebastian Haffner si interroga su come, a distanza di quasi 80 anni dalla sua morte, Adolf Hitler e la sua ideologia di sterminio possano ancora affascinare un numero non del tutto trascurabile di persone. Il ritorno dell'antisemitismo, la riscrittura falsificante della Storia e i movimenti del suprematismo bianco si rifanno, anche quando apparentemente lo negano, alla sua dottrina e alla sua azione. Intervengono numerosi storici e anche dei cosiddetti 'cacciatori di nazisti' che si interrogano sul fenomeno. Viene anche però concesso spazio al saggista inglese David Irving, noto supporter dei negazionisti dell'Olocausto.

Quasi nessuno prima di Sebastian Haffner aveva cercato di dare una spiegazione possibilmente razionale al fenomeno del nazismo. È stata proprio questo tentativo a suscitare l'interesse di Petra Epperlein e di Michael Tucker.

Epperlein e Tucker hanno provato a chiedersi (e a chiedere ai loro intervistati) se quanto Haffner ha intuito trovi riscontro dal loro punto di vista. Cosa hanno a che fare, ad esempio, i Beatles con Adolf? Ideologicamente nulla ma sul piano di proporsi come oggetto del desiderio per una vasta audience femminile un punto di contatto c'è. Così come c'è nell'utilizzo degli strumenti più avanzati della tecnologia. Hitler fu il primo a dotarsi di un particolare microfono (il cui funzionamento viene qui illustrato) che gli permetteva di allontanarsi ed avvicinarsi e di modulare l'emissione del suono dal pianissimo all'urlo di incitazione. Questi potrebbero essere considerati dei dettagli ma sono significativi così come è significativo seguire le visite guidate di Irving in cui stravolge la storia ad uso e consumo degli antisemiti come lui. 

I due registi non solo compiono un percorso nei luoghi storici della vita privata e pubblica di Hitler ma mostrano anche manifestazioni dell'estrema destra dei nostri giorni. Non nascondono la luna di miele che gran parte del popolo tedesco ebbe con il Führer che risollevò la Germania dalle macerie del Trattato di Versailles e, con un ampia selezione di materiali, ci mettono sull'avviso. Perché l'irrazionalità di gruppi più o meno ampi sta tornando a farsi presente e gli aspiranti dittatori, come il loro modello, hanno come obiettivo l'alimentare il caos per poter poi assumere surrettiziamente l'incarico di governarlo. Cercandosi un nemico da additare alle masse. 

“Il senso di Hitler”, l’influenza del nazismo nella società di oggi: dai media ai social network. Asia Angaroni il 27/01/2022 su Notizie.it.

Dal 27 gennaio è in sala “Il senso di Hitler”, il film di Petra Epperleine e Michael Tucker: un’indagine alternativa sull’influenza che Hitler ha ancora oggi. 

“Il senso di Hitler” è il film di Petra Epperleine e Michael Tucker, che dai filmati dell’epoca nazista ai video su Tik Tok offre un’indagine alternativa sull’influenza che Adolf Hitler continua ad avere ancora oggi. Dal 27 gennaio, Giorno della Memoria, arriva nelle sale italiane con Wanted Cinema “Il senso di Hitler”.

Si alternano in un connubio ricco di riflessioni attuali e coinvolgenti immagini dell’epoca nazista e documenti storici, offrendo al contempo un’analisi approfondita del fenomeno anche attraverso i media e i social network di oggi, come Tik Tok e Twitch. Un viaggio nella storia e nell’attualità più viva, per conservare il ricordo di un male passato ma mai svanito e scoprire la centralità dei social, talvolta controversi e gestiti con scarsa accuratezza.

A partire dal libro mai pubblicato in Italia “The Meaning of Hitler” di Sebastian Haffner (1978), volto a smantellare i miti e le idee comuni su Hitler e la sua ascesa al potere, critici e storici rispondono a una domanda fortemente attuale: Hitler continuerà a essere sempre più influente per le nuove generazioni? Forse, il primo passo è uccidere la leggenda che di lui ancora esiste.

Trucidare per sempre la mitizzazione del progetto fanatico da lui perseguito (e preannunciato nel suo diario, il Mein Kampf, scritto dallo stesso Hitler durante la detenzione nel carcere di Landsberg per la condanna dopo un colpo di stato fallito).

Che il docu-film sia mosso da un intento nobile e profondo, dai tratti storici e sociologici al contempo, è innegabile.

Altrettanto innegabile è il lavoro minuzioso che ne sta alla base: il film è stato girato in 9 Paesi e ripercorre i movimenti di Hitler, la sua ascesa al potere e le scene dei suoi crimini dal punto di vista di storici e scrittori. Così gli esperti esaminano l’impatto che Hitler ha avuto nella storia. Un’ideologia folle e macabra che – almeno in parte – ancora aleggia sulla società di oggi. Il documentario, analizzando diversi aspetti, esplora i vari modi in cui la tossicità di Hitler ha continuato a diffondersi dopo la sua morte attraverso le pagine di storia, i social media, il cinema, l’arte e la politica contemporanea. Con le riprese, i registi hanno scoperto che negazione e odio antisemita sono ancora esistenti. “In un mondo di contenuti illimitati è possibile che noi abbiamo involontariamente veicolato propaganda messa a fuoco di proposito dai nazisti per trasmettere il loro virus ideologico in futuro. Questo porta solo ad una domanda: come si può responsabilmente esplorare il passato senza contribuire alla riabilitazione del Nazismo?”, avvertono i registi. 

Ad arricchire il film e darne un valore aggiunto sono interviste e testimonianze che imprimono in immagini d’impatto quegli attimi andati conservati nella memoria, dandone una spiegazione concreta. Tra le testimonianze, quelle della scrittrice Deborah Lipstadt, dello storico britannico Sir Richard J. Evans, dell’autore di romanzi sull’Olocausto Martin Amis, dello storico israeliano Saul Friedlander, dello storico e studioso dell’Olocausto Yehuda Bauer e degli attivisti e “cacciatori nazisti” Beate e Serge Klarsfeld.

Giorno della Memoria, il doc 'Il senso di Hitler' esce in sala: i giovani e l'eredità avvelenata del Terzo Reich. Roberto Nepoti su La Repubblica il 27 Gennaio 2022.

Il documentario in sala oggi, tratto dal libro omonimo di Sebastian Haffner, racconta la terribile parabola del nazismo. Dai social ai media, una 'normalizzazione' del male che fa paura, confondendo la propaganda con la realtà.  

“Se accendi la televisione tedesca in un giorno qualsiasi – dice uno degli intervistati – hai il 95% di probabilità di vedere immagini del nazismo”. Così Petra Epperlein e Michael Tucker, autori del documentario Il senso di Hitler (in uscita nelle sale italiane il 27 gennaio, Giorno della Memoria), si pongono un interrogativo insolito: sarà il caso di fare un film che contribuisca ulteriormente all’espansione dell’universo nazista, continuamente riproposto e magnificato da Hollywood come un grande dramma storico? La risposta è sì, ne valeva la pena. Perché, a partire dal libro omonimo di Sebastian Haffner, Il senso di Hitler è una riflessione pacata e profonda sull’eredità avvelenata del III Reich, che ancor oggi trova proseliti ed esercita una fascinazione sulle giovani menti. 

Dopo la guerra i monumenti nazisti sono stati abbattuti; invece sono rimaste intatte le immagini, i fotogrammi, diventati monumenti essi stessi grazie alla loro perversa grandiosità. E’un’autentica invasione dei media: programmi di storia, anniversari, perfino una serie intitolata Hitler a colori... Tutte cose che non solo hanno “normalizzato” il nazismo, ma che confondono – più o meno consapevolmente – la propaganda con la realtà. Il grosso guaio è che questa marea di immagini alimenta fenomeni sociali e politici dell’oggi, in tutto simili a quelli che portarono alla presa di potere del nazismo. All’epoca, la radicalizzazione del vittimismo di massa generò nella Germania del dopoguerra (come del resto in Italia) il fenomeno diffuso dell’antisemitismo, che concentrava sugli ebrei la colpa di tutti i guai. E non è, questo, lo stesso meccanismo psicologico dell’odierno complottismo, nell’America di Trump come dalle nostre parti? Che addita nemici nell’avversa parte politica, nei migranti o nella stampa. 

Lontano anni luce dalle celebrazioni di tanti documentari, Il senso di Hitler ci parla soprattutto dell’oggi. Quando gli enormi progressi della tecnologia, già padroneggiata da Hitler (che utilizzava un sofisticato sistema di microfoni e altoparlanti per rendere più effiaci i suoi discorsi), possono consentire a un demagogo di raggiungere senza filtri milioni di persone mobilitandole e istillando odio (è necessario ricordare, appena un anno fa, i fatti di Capitol Hill?). Purtroppo la Storia non segue un andamento lineare: a quasi ottant’anni dalla fine del nazismo, neonazionalismo e neonazionalisti tornano a invadere lo spazio pubblico, in Polonia come in altri Paesi europei.

La seconda parte del documentario, che si avvale anche di testimoni eccellenti come Martin Amis e la storica americana Deborah Lipstadt, focalizza sull’antisemitismo e le teorie cospirazioniste ancora vigenti. Quelle di un (sedicente) storico negazionista come David Irving o di altri che pretendono di riscrivere la Storia cancellando la Shoah; così come il campo di sterminio di Sobibor fu “cancellato” dai nazisti nascondendone le vestigia sotto una foresta di alberi appositamente piantati. 

Per fortuna esistono ancora testimoni eccellenti, ormai in età veneranda, dei quali Epperlein e Tucker raccolgono le parole, a contrappeso delle immagini del Reich trionfante. Uno è lo scrittore novantenne Saul Friedlander, che accompagna lo spettatore per buona parte del documentario. Un altro il grande storico Yeudah Bauer, novantacinque anni, cui dobbiamo un ammonimento fondamentale sulla “banalità del male”, nel senso in cui la intendeva Hannah Arendt: “Non è che i nazisti fossero disumani – dice Bauer a conclusione del documentario – le idee naziste sono state messe in pratica da persone assolutamente normali”.

Lord Haw Haw, il più arcigno traditore d'Inghilterra. Davide Bartoccini il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'ascesa e la caduta di Lord Haw Haw, il controverso e talentuoso broadcaster filo-nazista che intratteneva gli inglesi con propaganda e disinformazione.

29 maggio 1945, Flensburg, Germania. Nel retro di un’ambulanza militare con le grosse croci rosse nei necessariamente vistosi cerchi bianchi, giace un uomo magro e dal volto assai arcigno, segnato da una lunga e profonda cicatrice sulla guancia destra che ricorda quelle da mensur degli ufficiali nazisti le cui gesta ha lungo osannato alla radio. Indossa un pigiama a righe ed è contornato da alcuni fucilieri di sua Maestà con i mitra Sten spianati. Il suo nome è William Joyce, ma è più famoso con il nomignolo di Lord Haw Haw. La voce di “Germany calling”, trasmissione di propaganda filo nazista che ha intrattenuto o disturbato l’intero regno con il suo accento britannico molto upper-class, è agli arresti dopo essere stato inseguito e anche ferito da una raffica di mitra. Gli avvertimenti non erano stati sufficienti, e una mano in tasca suggeriva l'intenzione di estrarre un'arma per l'ultimo tentativo di una difesa disperata.

”Nei paesi civilizzati gli uomini feriti non sono dei peep-show”, incalza con sarcasmo il fotografo che vuole immortalare la scena una volta giunto al quartier generale della Seconda Armata inglese. Il volto arcigno si contrare in una risata amara. Una delle ultime della sua lunga e “disonorevole” carriera. Appena un mese prima, nell'ultima puntata della sua trasmissione, si era abbandonato a una folle e sconclusionata tirata che metteva in guardia tedeschi e inglesi dalla minaccia dei bolscevichi, che come un'orda di barbari avrebbero travolto quel che restava del Reich per attentare al Regno Unito: colpevole di non essersi alleato con i tedeschi quando poteva, per arginare l'espansione del comunismo.

Sull'orlo dell'esaltazione mistica, Lord Haw-Haw concluse le trasmissioni con un tetro "Heil Hitler" seguito da un "addio". Appena qualche ora dopo Adolf Hitler si sarebbe sparato un colpo in testa nella Berlino assediata dall'Armata Rossa. Radio Amburgo, da cui Joyce trasmetteva, sarebbe stata sequestrata dagli alleati nei giorni successivi.

Un improbabile fascista

Figlio di una coppia di irlandesi stabilitasi negli Stati Uniti alla fine dell’800, Joyce nacque a Brooklyn, New York, nell’aprile del 1906, ma tornò in Irlanda quando aveva appena tre anni. I suoi genitori, entrambi fedeli unionisti contrari a un'Irlanda sovrana, incoraggiarono fin dall’infanzia il piccolo Joyce a mantenere le medesime convinzioni, tanto da vederlo impegnato come corriere per i servizi segreti dell'Esercito britannico durante la guerra d'indipendenza irlandese.

Questo suo servigio, ispirato dalla simpatia per l’ideologia unionisti lo portò nel circolo dei Black and Tans: formazione paramilitare voluta da Winston Churchill che inquadrava veterani dell’esercito che avevano servito nella Grande Guerra intesi a combattere contro i nazionalisti dell’Esercito Repubblicano Irlandese (il neonato IRA, ndr). La guerra condotta dai Black and Tans degenerava sovente in atti di terrorismo. Essi erano noti per la brutalità che non di rado sfociava in esecuzioni extragiudiziali, incendi dolosi e ogni altro tipo di violenza.

Sarà proprio la passione per le formazioni miliari che porterà Joyce, trasferitosi in Inghilterra, ad arruolarsi nell’University of London Officer Training Corps, del quale indossava fieramente l’uniforme ad ogni occasione possibile, e ad appassionarsi alla politica reazionaria, che non era ancora vista come un pericolo da debellare nel Regno che voleva quietare il laburismo.

Iniziò così il suo longevo flirt con il fascismo, culminato nel 1932 con l’adesione al British Union of Fascists, il partito fondato da Sir Oswald Mosley che date le sue ottime qualità di oratore, lo vedrà nominato direttore della Propaganda nel 1934. Se la sua retorica, benché violenta, rimase sempre brillante e molto apprezzata, le sue radicali posizioni antisemite e filonaziste finirono per provocarne l’espulsione dal partito per volere di Mosley - che simpatizzava con le marce, le tirate e le uniformi delle Camicie Nere e delle SA, ma puntava alla prosperità economica attraverso il corporativismo, restando fedele alla Corona; non all’antisemitismo e al germe del collaborazionismo.

Quando nell’agosto del 1939 le rivendicazioni sullo stretto di Danzica mosse da Adolf Hitler minacciavano lo scoppio di un nuovo conflitto in Europa, Joyce decise di rinnovare il suo passaporto e abbandonare il Regno Unito che in qualche modo aveva ripudiato lui e i suoi ideali, partendo alla volta di Berlino con la sua seconda moglie. Nel suo libro, “Twilight over England”, scriverà: "L'Inghilterra stava per entrare in guerra. Per ragioni di coscienza sentivo di non poter combattere per lei, per questo dovevo lasciarla per sempre".

Al servizio del Reich, per abbassare il morale di sudditi di sua Maestà

Joyce divenne cittadino tedesca nel 1940, quando la Wehrmacht travolgeva i primi eserciti e Londra si ostinava a combattere quella “strana guerra” che i tedeschi chiamavano Sitzkrieg: la guerra “seduta”. Considerati i suoi talenti, divenne annunciatore radiofonico per alcune trasmissioni in lingua inglese della Reichsrundfunk. La fama lo avrebbe raggiunto presto, almeno nella sua vecchia patria, attribuendogli il nome di "Lord Haw-Haw”; nomignolo datogli dal giornalista britannico J. Barrigton che lo immaginava come un gentiluomo che parlava un inglese del genere haw-haw (dunque contrassegnato dall'uso frequenta di “haws” abitudine associata a dell'alta borghesia britannica, ndr). "Il suo forte è l’indignazione", diceva Barrington, “dal suo accento e dalla sua personalità, Lord Haw Haw lo immagino con un mento sfuggente, un naso interrogativo, capelli biondi e sottili pettinati all'indietro, un monocolo e una gardenia all’occhiello".

E in effetti il mento sfuggente lo aveva, e aveva anche una profonda cicatrice che ricordava quelle degli junker prussiani che si erano misurati della duello alla Mensur; ma che in realtà gli aveva procurato un fendente inflitto con un rasoio in una rissa avuta con alcuni militanti comunisti nel 1924. Il taglio impose sul suo viso una profonda cicatrice che correva dal lobo dell'orecchio destro all’angolo della bocca.

Tutte le trasmissioni di Joyce, che non era l’unico conduttore che padroneggiava la lingua inglese, ma che resterà l’unico a passare alla storia, iniziavano on l'annuncio "La Germania chiama, la Germania chiama”, e proseguivano con una lettura beffarda e pungente delle notizie, che miravano sempre a esortare gli inglesi a riconsiderare le loro posizioni nei confronti del nemico germanico. Incolpando i "sionisti" dello scoppio di quella nuova ennesima guerra. Ascoltare quel genere di trasmissioni radio non era considerato illegale, ma era fortemente sconsigliato dalle autorità che pure non riuscirono ad impedire a ben sei milioni di ascoltatori “fissi” - e oltre 18 milioni di ascoltatori occasionali - di sintonizzarsi sulla frequenza e rispondere in qualche modo alla quella Germania che chiamava per i primi otto mesi di guerra.

Informazione o disinformazione? Un vecchio pericolo mai sopito

Il successo delle trasmissioni condotte da Joyce nelle sua nuova veste di arma della propaganda nazista fu tale da destare la preoccupazione dell’intelligence britannica che non poteva ignorare l’interesse che il popolo nutriva per questo singolare avversario. Nessuno inoltre conosceva la vera identità di questa “voce” che disinformava il 50% degli inglesi con notizie a volte false e tendenziose, a volte lievemente distorte per insinuare il dubbio negli ascoltatori.

Alle speculazioni sulla sull’identità di Lord Haw Haw mise fine la lettera del signor M. Kelly di Galway, dove Joyce aveva frequentato il collegio gesuita: “Sono abbastanza certo che si tratti di Joyce. L’annunciatore inglese delle 21:15 e delle 23:15 da Amburgo, Brema, ecc. Sono rimasto colpito dalla familiarità di quella voce. Ho detto spesso che avevo già sentito quella voce ma non riuscivo a collocarla.. poi ho capito che era Willie”, aggiungendo “..anche da bambino era così velenoso, beffardo e sarcastico quando parlava di qualsiasi cosa riguardasse irlandese o Galway”. Così l’intelligence potè dare un nome a quello che sarebbe stato senza dubbio iscritto nella lunga lista dei nemici da mettere a tacere.

Il ministero dell’Informazione, con l’ausilio della BBC, aveva nel frattempo intrapreso una serie di azioni per contenere il fenomeno “Haw Haw”, dopo aver analizzato con attenzione i risultati di alcuni sondaggi che si erano rivelati a dir poco inquietanti. Secondo una larga parte degli intervistati, inizialmente entusiasti della trasmissione tedesca, Lord Haw Haw appariva come “un uomo estremamente simpatico”, di cui venivano particolarmente apprezzati i “giochi di parole astuti” e i modi. Spesso il popolo di ceto più basso, invece che provare antipatia, ne rimaneva affascinato. “Sento che è un gentiluomo”, rispondevano alcuni, “anche se non conosciamo il significato di alcune parole”, aggiungevano altri.

Secondo la maggioranza degli ascoltatori la trasmissione meritava di essere seguita per ascoltare il punto di vista tedesco. Altri invece speravano di ”ricevere più notizie". Notizie che Londra non voleva condividere con il suo popolo, innescando un neonata sindrome complottista. Il rischio era - allora come ora - quello di far prendere per buone molte delle invenzioni propagandistiche di Lord Haw Haw. Un pilota della Royal Air Force che aveva preso parte attiva nella campagna di Francia risposte lapidario: “Dice un sacco di cazzate. Il 75% delle sue affermazioni sono bugie o propaganda, ma a volte colpisce nel segno. È allora che ti fa pensare. Ti chiedi se anche molte delle sue affermazioni siano vere”. Un bibliotecario invece affermava: “Ci sintonizziamo quasi sempre alle 9.15 per cercare di raccogliere alcune notizie che il ministero dell'Informazione ci nasconde. È interessante ottenere le opinioni della BBC e i resoconti della radio tedesca sugli stessi impegni aerei”.

Oltre al Regno Unito, Lord Haw Haw aveva una nutrita schiera di ascoltatori negli Stati Uniti e in Canada, dove vennero reclutati conduttori radiofonici che avevano il preciso compito di rispondere alle sue parole, confutando ogni informazioni false o tendenziosa. Sebbene il progetto fosse intelligente, nessuno di questo conduttori raggiunse nel primo anno di guerra il successo di Lord Joyce. Considerato dai suoi avversari come "uno dei migliori broadcaster di sempre”.

La caduta del Lord beffardo

La popolarità di Joyce diminuì drasticamente con il progredire della guerra che finiva di essere “seduta” e contava già decine di migliaia di morti. L'invasione tedesca di Danimarca e Norvegia, l'attacco contro i Paesi Bassi e infine la conquista della Francia, con la bruciante ritirata di Dunkirk, minarono il successo di Lord Haw Haw, che nel frattempo aveva cambiato approccio, incentrando la sua trasmissione su degli appelli diretti al popolo inglese affinché si arrendesse ai nazisti. Il corrispondente radiofonico americano che aveva incontrato Joyce a Berlino durante l'inverno del 1940 riportava: “Cominciava ad inasprirsi. Aveva perso il senso dell'umorismo e con esso, credo, quale influenza della quale aveva goduto”.

La battaglia d’Inghilterra aveva senza dubbio influito più di ogni racconto radiofonico. Dimostrando che il morale degli inglesi non si piegava nemmeno di fronte alle bombe che incendiavano ogni notte i centri delle città. Nel corso del conflitto le trasmissioni di Joyce divennero sempre più monotone e deliranti. Dopo aver registrato le ultime puntante, Lord Haw Haw preferì fuggire dalla scena per rifugiarsi con sua moglie in un piccolo villaggio nei pressi di Flensburg, al confine con la Danimarca. Proprio dove l’Ammiraglio Donitz, raccolto il testimone del defunto Hitler, si preparava a firmare la resa con gli Alleati. Joyce - nella lista dei servzi segreti che avevano iniziato a rastrellare i territori liberati in cerca di criminali di guerra, ed erano stati informati di una “tranquilla coppia britannica” che si era appena trasferita in un cottage - venne sorpreso mentre era nella boscaglia, pronto ad esibire un documento falso che non ebbe il tempo di estrarre dalla tasca. Identificato, venne riportato nel Regno Unito dove sarebbe stato processato per tradimento.

Traditore “fino a prova contraria”

Consegnato alla polizia militare britannica, gli vennero contestate tre accuse di alto tradimento. Sorsero immediatamente però delle questioni inerenti la giurisdizione e la cittadinanza di Joyce. L'uomo era nato negli Stati Uniti, aveva vissuto in Irlanda, rimasta neutrale, era diventato cittadino tedesco, ma pur non dichiarandosi un suddito britannico, possedeva un passaporto emesso dal Regno Unito.

Quando nel 1922 i genitori di Joyce si rifugiarono in Inghilterra per sfuggire alle vendette dei nazionalisti irlandesi, il futuro Lord Haw Haw avrebbe dichiarato: "Sono nato in America, ma da genitori britannici”. Una falsa dichiarazione confermata da suo padre che gli costerà la vita. Il procuratore generale, Sir Hartley Shawcross, sostenne le sue accuse dichiarando che Joyce possedeva un passaporto britannico. Dunque, dovendo la sua fedeltà alla Gran Bretagna, doveva essere processato per tradimento qualunque fossero le sue dichiarazioni in merito. Assolto da due delle tre accuse, fu comunque condannato a morte per tradimento.

Senza mostrare alcun rimorso Joyce concluse la sua vita con dichiarazioni antisemite: "Nella morte come nella vita, sfido gli ebrei che hanno causato quest'ultima guerra e sfido il potere delle tenebre che rappresentano. Avverto il popolo britannico contro l'imperialismo schiacciante dell'Unione Sovietica.” Dichiarandosi orgoglioso di morire per i suoi ideali, mostrò poi “dispiacere” per quei “figli della Britannia” che erano morti senza conoscere un “misterioso perché”.

Il 3 gennaio 1946, presso il carcere di Wandsworth, William "Lord Haw-Haw" Joyce venne impiccato. Il corpo fu sepolto in una tomba senza nome. Trent’anni dopo venne esumato e traslato in Irlanda per volere di sua figlia. Secondo il giornalista William L. Shirer, durante tutta la durata della guerra nessuno dei suoi celeberrimi rivali, nemmeno Tokyo Rose o Axis Sally, aveva mai raggiungo il suo talento. Lord Haw Haw era stato, e sarebbe rimasto, il più eccezionale “traditore radiofonico della guerra”.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

Erik Jan Hanussen, il mago di Hitler. Pietro Emanueli su Inside Over il 22 gennaio 2022.  

Dietro ogni statista, in democrazia come in dittatura, si celano sempre un maestro dal quale ha appreso e un ispiratore dal quale è stato influenzato. Perché la storia non è che una catena di trasmissione di conoscenze, di condivisione di esperienze e di circolazione di idee. E pochi posseggono la sete di imparare, e poi di mettere in pratica, che è tipica di statisti e strateghi.

Giulio Mazzarino ebbe come maestro il cardinale Richelieu, di cui portò a compimento il sogno di fare della Francia la regina d’Europa e di mantenere le terre tedesche frammentate in una miriade di micro-Stati in guerra tra loro. Lenin ebbe come ispiratori Karl Marx e Friedrich Engels, dei quali traspose in realtà l’utopia comunista. E Adolf Hitler ebbe insegnanti l’esoterista Erich Ludendorff e il veggente Erik Jan Hanussen.

La stella dell'illusionismo tedesco

Erik Jan Hanussen, al secolo Herschmann Chaim Steinschneider, nacque a Vienna il 2 giugno 1889. Figlio d’arte – il padre era attore, la madre una cantante -, nelle sue vene, sebbene una volta adulto si sarebbe spacciato per danese, scorreva sangue moravo ed ebraico.

Allevato sin dalla tenera età alle arti della recitazione, dell’improvvisazione e dell’intrattenimento, Hanussen, crescendo, avrebbe mostrato un talento innato nell’ipnotismo e nel mentalismo. Un talento che avrebbe avuto modo di esprimere in lungo e in largo in Austria e in Germania: nei cabaret, nei caffè-concerto, nei circhi e, infine, nei teatri.

Tra uno spettacolo e l’altro, quando sorprendendo perché telepate e quando stupefacendo perché telecineta, Hanussen sarebbe divenuto il più popolare illusionista e prestigiatore della Germania weimariana, nonché il secondo più celebre del mondo – superato per fama, ma non per bravura – soltanto dal contemporaneo Harry Houdini.

Avrebbe trascorso il primo dopoguerra in viaggio, come un girovago, perché ricercato e contrattato dai signori dell’intrattenimento di Europa, Medio Oriente e Stati Uniti, per i quali Hanussen, in quanto sinonimo di qualità, era un magnete di incassi.

Il legame con Hitler e il nazismo

Hanussen, che si era allontanato dal padre da giovane, crebbe come uno spirito libero, privo di qualsivoglia formazione religiosa, perciò da adulto, nonostante le origini ebraiche, non avrebbe avuto problemi a sposare la causa nazista e a stringere un legame particolarmente intenso con un Hitler in carriera, reduce dal putsch della birreria e lontano dal cancellierato.

I due erano soliti trascorrere molto tempo insieme, a volte in pubblico e a volte in privato, e discutevano del più e del meno, di politica come di psicologia delle masse. Hitler era alla ricerca di un nuovo metodo comunicativo, di uno stile in grado di renderlo magnetico, persuasivo e trascinante, e Hanussen aveva la soluzione: applicazione delle tecniche del mentalismo alla comunicazione politica. Ma Hitler, più di tutto, voleva il potere, quello vero – politico -, e Hanussen, all’inizio del 1932, lo rassicurò: aveva interrogato gli astri, e gli avevano risposto che avrebbe vinto le future elezioni.

Sono i cuori degli uomini che vanno conquistati, non le loro povere menti, con le parole e con la mimica del volto e dell’intero corpo. Non è il contenuto di una frase a decidere il suo effetto sul pubblico, bensì il modo in cui viene pronunciata: è il tremare o il tuonare della voce dell’oratore a toccare le corde del cuore umano.

L'assassinio

Aver predetto con un anno di anticipo l’ascesa di Hitler al trono di Germania, ed erogato altrettanti vaticini rivelatisi profetici ai nazisti che nel tempo lo avevano interrogato sul loro futuro, non avrebbe cambiato il suo destino, che era quella di una separazione (tragica) con Hitler.

Nell’immediato dopo-elezioni, complice la sua vicinanza a Hitler, gli ambienti comunisti avrebbero lavorato al boicottaggio della celebrità di Hanussen, diffondendo documentazione probante la sua ascendenza ebraica. L’opera di assassinio del personaggio avrebbe dato i suoi frutti: Hanussen, sebbene fosse diventato da poco cattolico, fu allontanato dal Partito e da un giorno all’altro messo all’angolo da coloro che fino al giorno prima erano stati suoi amici.

Il vero punto di rottura, ad ogni modo, sarebbe stato un altro. La sera del 24 febbraio, nel corso di una sessione di divinazione per intrattenere un vasto pubblico, avvertì gli spettatori di aver intravisto il crollo del Reichstag a causa delle fiamme. Fiamme del destino, precorritrici di una nuova era, divampanti dinanzi ad una folla acclamante le SS. Il vaticinio sarebbe divenuto realtà tre giorni dopo e a lui, Hanussen, sarebbe costato la vita.

La mattina del 25 marzo, a poco meno di un mese dall’incendio del Reichstag, Hanussen fu prelevato dalla propria abitazione con l’inganno. Gli agenti delle SA gli dissero di vestirsi, e di seguirlo sulla loro macchina, perché avrebbe dovuto interrogarlo. Lo avrebbero ritrovato senza vita dei contadini due settimane dopo, il 7 aprile, orribilmente mutilato, crivellato di proiettili, nel bosco di Staakowen. Karl Maria Wiligut, signore delle rune e stregone di Himmler. Pietro Emanueli su Inside Over il 22 gennaio 2022.

L’età nazista è stata la grande epoca buia del Novecento. Breve, perché durata solamente dodici anni, eppure incredibilmente intensa, poiché causa scatenante della Seconda guerra mondiale e di genocidi come la Shoah e il Porrajmos, quella nazista è e resta la saga storica più studiata, eppure più incompresa, di tutti i tempi. Un paradosso, perché la comprensione dovrebbe seguire lo studio, eppure è così.

Il motivo per cui, ancora oggi, laici e professionisti faticano a capire le ragioni di quello che Alfred Rosenberg aveva ribattezzato il Mito del ventesimo secolo è che ne ignorano le origini – oppure le conoscono ma non ne afferrano del tutto la complessità. Perché il nazismo ebbe tanti padri, dal razzismo scientifico angloamericano all’occultismo britannico. E tra quei padri, che furono molti e diversi tra loro, uno dei più importanti fu lo stregone Karl Maria Wiligut.

Prima del nazismo

Karl Maria Wiligut nasce a Vienna il 10 dicembre 1866. Di estrazione aristocratica, Wiligut riceve un’educazione rigida, militare, che a soli 17 anni lo traghetta nel reggimento di fanteria dell’esercito di Milan I di Serbia. Ottenuto il grado di tenente a soli 22 anni, cioè nel 1888, l’anno seguente aderisce ad una loggia paramassonica rispondente al nome di Schlaraffia.

Di questa società, ancora oggi esistente, Wiligut avrebbe scalato i vertici in poco tempo, acquisendo conoscenze e competenze in una varietà di ambiti: dall’esoterismo alla poesia. Ne sarebbe uscito nel 1909, dopo aver ottenuto il titolo di cavaliere e pubblicato due libri grazie al bagaglio sapienziale ivi ricevuto: una raccolta di poemi intitolata Seyfrieds Runen ed un’opera sullo gnosticismo iperboreo dal titolo Neun Gebote Gôts.

Chiamato a servire nell’esercito allo scoppio della Grande guerra, Wiligut avrebbe combattuto per gli Imperi centrali tra Balcani ed Europa orientale. Si accommiata dal servizio militare nel 1919, con gli onori, vantando il titolo di colonnello e portando su di sé le cicatrici di una battaglia avvenuta nei pressi di Leopoli.

Nel dopoguerra, ufficialmente in pensione, Wiligut inizierà a profittare del tempo libero per dedicarsi a quella che era stata la sua più grande passione dopo l’esercito: l’occultismo. Una passione che da giovane lo aveva condotto all’interno di Schlaraffia, a studiare le teorie misteriosofiche di Guido von List e Josef Lanz, e che ora, ormai maturo, lo avrebbe riportato da una vecchia conoscenza: Theodor Czepl dell’Ordo Novi Templi.

Stregone dei nazisti

Internato in un ospedale psichiatrico nel 1924 per via degli abusi consumati ai danni della moglie tra le mura domestiche, Wiligut avrebbe riassaporato la libertà e rivisto la luce del Sole soltanto tre anni dopo. Libero, ma senza famiglia e con una diagnosi di schizofrenia e disturbo narcisistico della personalità, Wiligut avrebbe abbandonato l’Austria, sua terra natale, e preso residenza in Germania, a Monaco di Baviera.

Nella Germania dei primi anni Trenta, in stato di agitazione per l’ascesa del nazismo e in fermento culturale per via del proliferare di società segrete, sette, ordini esoterici e nuovi movimenti religiosi, Wiligut sarebbe rapidamente divenuto un punto di riferimento per amatori dell’occultismo e mistici nazisti. Il motivo? Quel libro sull’ariosofia pubblicato nel lontano 1908, tanto inosservato in Austria quanto popolare in Germania.

Tutti volevano attingere a quel pozzo di scienza dell’occulto e negromanzia che era Wiligut, la cui dimora bavarese sarebbe divenuta il punto di fermata di personaggi come Ernst Rüdiger e di membri dell’Ordine dei nuovi templari e del Partito nazionalsocialista dei lavoratori.

Vril, la società del mistero dietro alla nascita del nazismo

Troppo famoso nei circoli occultistici per essere ignorato, o meglio per non essere reclutato, Wiligut sarebbe stato introdotto nelle SS su volere di Heinrich Himmler. E non per svolgere un ruolo qualunque: Himmler lo avrebbe messo a capo del Dipartimento per la storia antica e la preistoria dell’Ufficio centrale per la razza e le colonie (RuSHA, Rasse und Siedlungshauptamt).

All’interno del RuSHA, lavorando a stretto contatto con l’Ahnenerbe, Wiligut avrebbe gestito l’agenda dei viaggi dei cercatori di misteri e curato i piani per il restauro del suggestivo castello di Wewelsburg – pensato per diventare il “centro del mondo” nel dopoguerra e nel frattempo utilizzato dalle SS per svolgere riti iniziatici, pratiche occulte e cerimonie ariosofiche, come battesimi ed evocazioni.

Il pensiero

Wiligut, come tanti connazionali dell’epoca, era realmente convinto della superiorità della civiltà germanica e del suo essere diretta discendente della perduta razza ariana, in qualche modo connessa con gli atlantidei e gli iperborei. Da giovane era stato un seguace della scuola ariosofica di von List e Lanz – i primi “ricercatori scientifici” della razza ariana e dell’Iperborea –, ma crescendo se ne sarebbe distanziato e avrebbe sviluppato una propria dottrina filosofica attingendo alla mitologia norrena, all’epica germanica e al misticismo giudeocristiano.

Wiligut era anche convinto che la storia dei popoli del mondo fosse cominciata molti millenni prima di quanto attestato dalla storiografia ufficiali. La storia della civiltà germanica, ad esempio, avrebbe avuto approssimativamente inizio prima del duecentomila avanti Cristo.

I nazisti, la ricerca della Terra cava e il mito di Agarthi

Wiligut, contrariamente a molti nazisti, non disprezzava né il messaggio cristiano né la Chiesa cattolica. Era stato, del resto, allevato al credo cattolico sin dalla tenera età. Del cristianesimo, ad ogni modo, aveva una concezione più che eterodossa: credeva che la prima Bibbia fosse stata scritta in tedesco e che Cristo, più che un ariano – tesi in circolazione sin dai tempi di Émile-Louis Burnouf, Houston Stewart Chamberlain e Madison Grant –, non fosse altro che un antichissimo dio venerato dagli avi dei tedeschi dalla notte dei tempi.

Ossessionato dalle rune, parimenti a von List, Wiligut sviluppò un proprio alfabeto runico e realizzò diverse micro-opere con l’antico sistema di scrittura germanico. Wiligut avrebbe trasmesso questa fissazione a Himmler, che nel sistema delle rune armane dell’esoterista avrebbe trovato l’ispirazione per forgiare l’anello con testa di morto delle SS.

Convinto sostenitore della storicità di Atlantide e dell’Iperborea, nonché della tesi della fuga degli ariani nel sottosuolo, Wiligut avrebbe giocato un ruolo-chiave nella formazione dell’agenda dell’Ahnenerbe. Gli viene dato credito, infatti, per aver influenzato una miriade di missioni, dalla Scandinavia all’Asia centrale.

Gli ultimi anni

Le avventure naziste di Wiligut avrebbero raggiunto il capolinea nel 1938. Il Partito era venuto a conoscenza dei trascorsi dell’uomo con la psichiatria, degli abusi domestici, e Himmler, per ragioni di immagine, diede l’istruzione perentoria di pensionarlo. Fu congedato pochi giorni prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale, nell’agosto 1939.

Anziano, privo di affetti ed ostracizzato dal Partito, Wiligut avrebbe vissuto con inquietudine e in solitudine l’intero conflitto, cambiando città sulla base dei bollettini di guerra. Avrebbe trovato la morte ad Arolsen il 3 gennaio 1946, qualche tempo dopo aver avuto un infarto e non prima di aver erudito i necrofori sull’incisione da apporre sulla lapide: La nostra vita vola via come una chiacchierata inutile

L’isola di Thule e i misteri del nazismo. Emanuel Pietrobon su Inside Over il 28 settembre 2021.

L’epopea nazista non è durata mille anni come avrebbe desiderato Adolf Hitler, ma quel dodicennio è stato sufficiente a catalizzare l’entrata della storia e dell’umanità in una nuova era: l’era della guerra fredda, della decolonizzazione e della fine definitiva del sistema europeo degli Stati. E ancora oggi, a distanza di quasi un secolo, quella nazista continua ad essere la saga storica che, più di ogni altra – anche più del confronto egemonico tra Stati Uniti e Unione sovietica –, stuzzica maggiormente l’immaginazione di scrittori e sceneggiatori.

Le ragioni alla base dell’eterno interesse verso il nazismo sono molteplici, poiché spazianti dalla curiosità antropologica alla trasmissione della memoria e dalla ricerca storica alla fascinazione verso il lato misterico e misticistico del Mito del ventesimo secolo. Perché il nazismo non fu soltanto odio e guerra, ma fu anche criptoarcheologia, esoterismo, occultismo, teosofia e ufologia. Perché il nazismo non fu soltanto Joseph Goebbels, ma fu anche il ricercatore del Graal Otto Rahn, il mistico Karl Maria Wiligut e l’enigmatico Rudolf Hess. Perché il nazismo non fu soltanto SS e Luftwaffe, ma fu anche Ahnenerbe e Società di Thule.

Introduzione a Thule

Thule è l’isola dove non tramonta mai il Sole sulla quale l’esploratore greco Pitea avrebbe messo piede trecento anni prima della venuta di Cristo. Un’isola dalla bellezza apollinea, intrisa di magia, a metà tra questo mondo e l’Altro – Thule deriva dall’etrusco “tular“, cioè “confine” – e che nessuno ha mai più ritrovato.

Da alcuni identificata come l’Islanda, da taluni come la Groenlandia, e da altri ancora come un luogo accessibile soltanto ai puri, agli eletti, quest’isola perduta e leggendaria, Eden in terra, ha plasmato per secoli l’immaginario collettivo dei pensatori, degli scrittori e degli esoteristi. Ed è a lei che ad un certo punto del Novecento, compreso fra il 1911 e il 1918, un manipolo di occultisti, veterani e nostalgici del Reich avrebbe dedicato una delle fratellanze segrete più influenti dell’epoca: la Società di Thule.

Fondata da Walter Nauhaus, un militare con la passione per l’arte e per lo studio dei miti degli antichi popoli germanici, come i norreni, la Società di Thule nasce come gruppo di studio riunente seguaci dell’ariosofia di Guido von List e Jorg Lanz von Liebenfels, della teosofia di Helena Blavatsky, dell’occultismo razzistico di Aleister Crowley e di scuole di pensiero come il neoteutonismo di Theodor Fritsch.

Questa associazione di studi, che avrebbe acquisito il nome di Thule soltanto nel 1918 – in seguito all’incontro tra Nauhaus e l’esoterista Rudolf von Sebottendorf –, tra l’immediato dopoguerra e la prima metà degli anni Venti avrebbe visto la partecipazione alle proprie riunioni segrete di quella che, un decennio dopo, sarebbe divenuta l’élite del nazismo: Hess, Rosenberg, Hermann Goring, Heinrich Himmler, il futuro governatore della Polonia occupata Hans Frank, l’ideologo Dietrich Eckart, il propagandista Julius Lehmann, il geopolitico Karl Haushofer e l’economista Gottfried Feder.

Alcuni di loro si conoscevano già, altri si sarebbero conosciuti tra una lezione e l’altra sulle origini ariane dei tedeschi; quel che è certo ed innegabile è il contributo di Thule all’ascesa del nazismo, da essa creato inconsapevolmente favorendo l’incontro di personaggi che insieme avrebbero scritto la storia del Novecento e galvanizzando la diffusione di idee che avrebbero plasmato la NS-weltanschauung.

La popolarità

Se la Società di Thule non fosse esistita, i nazionalsocialisti avrebbero dovuto inventarla. Perché Thule è dove nasce quel misticismo nazista che avrebbe condotto gli archeologi e gli esploratori dell’Ahnenerbe in lungo e in largo per il mondo, alla ricerca dei resti della perduta razza ariana, di reliquie leggendarie come il Santo Graal e di luoghi mitologici come il regno di Agarthi.

Ai convegni di Thule veniva insegnato che i tedeschi erano i discendenti di una razza superiore (herrenrasse), quella dei perduti ariani, che all’alba dei tempi aveva dominato l’Eurasia e portato prometeicamente il fuoco agli Uomini. Un legato che il popolo tedesco era chiamato a valorizzare, a custodire gelosamente e a difendere della minacce della mescolanza razziale, del materialismo e del cosmopolitismo; tre prodotti di un presunto complotto demo-pluto-giudaico-bolscevico-massonico ordito ai danni della Germania, dell’Europa e della Cristianità.

I maestri di Thule insegnavano ai loro allievi che avrebbero dovuto dare vita ad una resistenza spirituale contro l’incedere delle suddette insidie e che avrebbero trovato la forza necessaria ad esperire la missione di salvare la Germania e l’Europa dall’energia promanante dall’isola dell’ultima Thule. Un’isola che non era come altre: perché era perduta, perché era il centro del regno leggendario di Iperborea e perché era la fonte di volitività della herrenrasse.

Il loro appello alla salvazione del Großgermanisches Reich, il Reich della Grande Germania, non avrebbe mai catturato l’attenzione delle masse – in tutta la Baviera si contavano circa 1.500 membri –, ma la storia, si sa, non l’hanno mai fatta le masse: la storia è, da sempre, prerogativa di condottieri carismatici che trascinano le masse.

All’acme della popolarità, cioè il 1919, la Società di Thule fu accusata dal governo centrale di aver pilotato i tumulti alla base della nascita della cosiddetta Repubblica Sovietica Bavarese. Non era vero, ovviamente, anche perché i thulisti erano fermamente anticomunisti, ma quell’accusa servì a Berlino per inaugurare una campagna repressiva contro di loro a base di arresti ed esecuzioni.

La fine

Braccati dal governo centrale, dal quale stavano venendo incarcerati e giustiziati, i thulisti avrebbero progressivamente e silenziosamente smantellato la Società. Erano degli esoteristi con la fissazione per le razze, non degli aspiranti golpisti, perciò decisero che il gioco non valeva la candela.

Poco a poco, uno dopo l’altro, i thulisti sarebbero entrati a far parte del precursore del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi, il Partito dei Lavoratori Tedeschi (DAP, Deutsche Arbeiterpartei), condividendone lo spirito conservatore e patriottico. E quel partito, chiaramente, sarebbe stato foggiato in maniera determinante dall’influsso significativo di thulisti, assumendo di lì a breve una nuova forma: quella nazista.

Per quanto riguarda Thule, su di essa non esiste una data di scioglimento così come non ne esiste una relativa alla fondazione. Essa nacque nell’anonimato e morì nell’ombra. Quel che è noto è che strutturalmente non sopravvisse agli anni Venti, dato che von Sebottendorff avrebbe cercato di riportarla in vita dopo il 1933 – ma non fu possibile per via della legislazione antimassonica della Germania nazista. Thule, ad ogni modo, avrebbe continuato a vivere sotto forma di idea, guidando le bussole degli esploratori della Ahnenerbe, arricchendo la propaganda di Joseph Goebbels e influenzando la mente e stuzzicando la fantasia di quella generazione di statisti, politici e pensatori tedeschi allevata al culto del Mito del ventesimo secolo.

Otto von Bolschwing, il nazista della Cia. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Gennaio 2022.

Quando si scrive e si parla di nazisti fuggiti alla giustizia di Norimberga e scampati alla vendetta del Mossad, sebbene si dovrebbe, non si fa quasi mai riferimento a Otto von Bolschwing.

Si scrive (giustamente) di Josef Mengele, morto serenamente in Brasile – dove avrebbe proseguito i propri esperimenti sui generis. Si scrive di Reinhard Gehlen, diventato il primo direttore dei servizi segreti della Germania Ovest. Si scrive di Martin Bormann, deceduto quietamente nel Paraguay stroessnerista nel più totale anonimato. Si scrive di Otto Skorzeny, reinventatosi un mercenario al servizio della causa anticomunista. Ma non si scrive quasi mai di von Bolschwing, anche se si dovrebbe. Perché von Bolschwing, similmente a Gehlen, riuscì in un’impresa straordinaria: ripulirsi al punto tale da entrare nelle stanze dei bottoni. Da vestire la divisa della Central Intelligence Agency.

Le origini

Otto Albrecht von Bolschwing nasce a Schönbruch il 15 ottobre 1909. La sua città natale, all’epoca localizzata nella Prussia orientale, oggi è parte integrante della Polonia.

Figlio di una nota famiglia dell’aristocrazia prussiana, i Bodelschwingh, Otto riceve un’educazione di primo livello, cosmopolita e internazionale, formandosi tra la Germania e l’Inghilterra, più precisamente nelle università di Breslavia (oggi in Polonia) e di Londra.

Allevato al culto della patria e testimone inerme della Grande Guerra, Otto, come tanti altri connazionali della sua generazione, negli anni Trenta avrebbe aderito entusiasticamente al Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori dell’incompreso Adolf Hitler.

Dapprima arruolatosi nelle SS e dipoi reclutato dalla sezione intelligence del SD, dopo l’ascesa di Hitler al cancellierato fu inviato nel Mandato britannico di Palestina in qualità di agente sotto copertura. Qui, raccogliendo informazioni sulle mosse di Sua Maestà e supervisionando il piano nazista per l’emigrazione ebraica, sarebbe entrato nelle grazie del celeberrimo Adolf Eichmann.

Durante la Seconda guerra mondiale

Von Bolschwing giocò un ruolo-chiave nell’implementazione dell’accordo di Haavara, che fra il 1933 e il 1939 avrebbe consentito l’emigrazione di oltre sessantamila ebrei tedeschi nell’odierna Israele. Freddo, calcolatore e nonviolento, von Bolschwing avrebbe scritto dozzine di memoranda e relazioni su come incoraggiare un’emigrazione ebraica volontaria e su larga scala, invitando le autorità a porre in essere delle restrizioni alla vita sociale e alle attività economiche tali da rendere l’esistenza ai giudei impossibile.

Entrato nelle grazie di Heinrich Himmler, che a sua volta lo mise al servizio di Eichmann, von Bolschwing sarebbe rientrato in Europa in tempo per assistere allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ad ogni modo, non avrebbe trascorso molto tempo in patria nel corso del conflitto. Le sue competenze manageriali, invero, venivano richieste ovunque: dalla Romania, dove fu incaricato di aiutare la Guardia di Ferro durante il pogrom di Bucarest, ai Paesi Bassi, dove fu inviato per gestire la confisca dei beni ebraici.

Più interessato al denaro che alla causa nazista, nonché consapevole del probabile esito del conflitto – era, del resto, un agente dell’intelligence –, ad un certo punto della guerra avrebbe cominciato a lavorare per i Corpi di Controspionaggio (CIC, Counter Intelligence Corps) del Servizio Segreto dell’Esercito degli Stati Uniti.

Al servizio degli Stati Uniti

Von Bolschwing avrebbe continuato a lavorare per gli Stati Uniti nel secondo dopoguerra, sposandone la crociata anticomunista e rivelandosi uno dei loro agenti migliori. Reclutato dall’organizzazione Gehlen, che esperiva operazioni antisovietiche per conto di Washington tra le due Germanie, l’Europa centro-orientale e i Balcani, giocò un ruolo-chiave nel determinare l’esito della guerra civile greca, fornendo agenti e informative all’Occidente.

Dotato di un’intelligenza al di sopra della media e forte di un vasto capitale sociale, rivelatosi determinante nel teatro greco, von Bolschwing riuscì laddove nessuno dei propri connazionali passati all’altra sponda avrebbe mai avuto successo: formalizzare la cooperazione con la Casa Bianca, uscire dall’ombra, cioè siglare un contratto. Contratto che siglò con la Central Intelligence Agency, diventandone un agente a tutti gli effetti.

Troppo prezioso per essere perduto, o meglio ceduto, von Bolschwing avrebbe ricevuto la protezione incondizionata della Cia in più occasioni:

1950. La Cia sabota le indagini delle autorità austriache sul conto dell’ex nazista, che era sospettato di crimini di guerra, dichiarando di non possedere alcuna informazione compromettente nei suoi riguardi e veicolando l’idea che fosse “pulito”.

1954. Causa il continuare delle attività investigative da parte di Vienna, la Cia opta per un’operazione di evacuazione, occupandosi di acquistare i biglietti e fornire il visto per gli Stati Uniti all’agente e alla sua famiglia.

1961. Il Mossad, venuto a conoscenza del ruolo di von Bolschwing durante il processo Eichmann, chiede l’estradizione dell’ex nazista. La Cia rigetta la richiesta adducendo ragioni legalistiche – era diventato un cittadino statunitense nel 1959 – e impedisce che l’apertura di un caso nascondendo il fascicolo dell’agente al Dipartimento di Giustizia.

Von Bolschwing avrebbe pagato la protezione ricevuta dalla Cia, che per evitarne una possibile condanna a morte in Israele aveva litigato con il Mossad. Dovette dapprima rinunciare ad un prestigioso incarico semidiplomatico in India e dipoi accomiatarsi, de facto, dal mondo dell’intelligence.

Avrebbe vissuto gli ultimi anni in maniera turbolenta, tragica, assistendo alla scomparsa prematura della moglie – suicidatasi nel 1978 – e alla riapertura delle indagini a suo carico nel 1981. Morì il 7 marzo dell’anno seguente, a causa di una malattia incurabile al cervello, prima che il mutamento dei tempi ne potesse determinare una condanna, come già accaduto all’amico ex collega Gehlen in Germania Ovest. 

Operazione Atlas, obiettivo Palestina. Pietro Emanueli su Inside Over il 6 febbraio 2022.

Il Medio Oriente è una trincea, tanto lunga quanto larga, presso la quale le grandi potenze dell’Eurasia si confrontano, combattono e consumano sin dall’epoca d’oro islamica. È il luogo in cui si è scritto il destino di una moltitudine di imperi, dai califfati a quello britannico, e la cui rilevanza geografica è andata crescendo con il tempo, in particolare a partire dal Novecento.

La Germania, in questo luogo dove l’aria è intrisa di cariche elettriche a causa dell’alta tensione perenne, è entrata qualche secolo più tardi di francesi e britannici, causa il processo di unificazione nazionale tardivo, ma questo non le ha impedito di ritagliarsi in brevissimo tempo un ruolo di primo piano.

Assertiva, combattiva e lungimirante, la Germania è salita sull’Orient Express nel 1889, anno della visita di Guglielmo II a Costantinopoli, ed è scesa soltanto nel 1945, con la fine del Terzo Reich. E in quel cinquantennio, nonostante la relativa giovinezza e l’assenza di esperienza internazionalistica, avrebbe dato filo da torcere ai tradizionali guardiani del Medio Oriente, cioè francesi e britannici, riuscendo a sollevare la umma contro l’imperialismo occidentale e gettando le basi per la trasformazione della Terra Santa nella grande faglia dell’Eurasia.

Aggredire Gerusalemme per colpire Londra

Mandato britannico di Palestina, 1944. La culla dei profeti della giudeocristianità, nonché terra santa delle tre religioni abramitiche è in subbuglio, o meglio in stato di guerra. Una guerra in parte civile ed in parte etno-religiosa, un bellum omnium contra omnes dove gli arabi guerreggiano con gli ebrei, ed entrambi aggrediscono i britannici, che a loro volta sono vittime dei magheggi delle spie e delle quinte colonne del Führer.

L’operazione Atlas nasce in questo contesto di elevata conflittualità, precorritore della successiva questione israelo-palestinese, ed è stata una delle imprese più audaci tentate dal Terzo Reich in Medio Oriente durante la Seconda guerra mondiale. Sicuramente la meno conosciuta. L’obiettivo? Creare una base operativa per la propagazione del nazismo e la conduzione di sabotaggi e azioni eclatanti nel Mandato britannico di Palestina.

Max von Oppenheim, il jihadista del Kaiser

Franz Wimmer-Lamquet, il Lawrence d’Arabia nazista

Fritz Grobba, il nazista che sognava un’alleanza con l’Islam

La storia dell’operazione Atlas

Atlas è la storia di Amin al-Husseini, Gran Muftì di Gerusalemme e reduce del Jihād globale della Grande guerra, della Società dei Templari, una setta pietistica in voga tra i tedeschi di Palestina, e dell’Abwehr, l’agenzia di spionaggio per l’estero della Germania nazista.

L’imam al-Husseini era il più grande agitatore islamico dell’epoca, un simpatizzante nazista, e aveva persuaso l’asse Roma-Berlino a supportare l’albeggiante causa palestinese in cambio dell’appoggio della umma all’Asse e, nello specifico, all’aggressione degli interessi e degli obiettivi britannici in Medio Oriente. Avrebbe contribuito all’operazione Atlas fornendo due agenti: Hasan Salama e Abdul Latif.

La Società dei Templari, il cui nome ingannevole non aveva a che fare coi Compagni d’armi di Cristo quanto con Giovanni 2:21, era un microcosmo a se stante nel Mandato britannico di Palestina: una setta pietistica, fondata da tedeschi per tedeschi, con a disposizione terreni, mansioni e proprietà. Avrebbe partecipato all’operazione Atlas entusiasticamente, nella speranza di ritrasformare Gerusalemme nella capitale de facto della Cristianità, fornendo tre agenti: Kurt Wieland, Werner Frank e Friedrich Deininger.

L’inusuale e profana alleanza, quella tra gli islamisti dell’imam al-Husseini e i nazionalisti cristiani della Società dei Templari, avrebbe dovuto, nei piani della Germania nazista, condurre allo stabilimento di una base operativa in Terra santa deputata alla raccolta di intelligence, al reclutamento di agenti e alla pianificazione di atti eclatanti, tra i quali l’avvelenamento delle sorgenti idriche di Tel Aviv, volti a provocare una guerra etno-religiosa di vastissime proporzioni. 

Un sogno durato poco

Dopo tre anni di dibattiti e preparativi, la notte del 6 ottobre 1944, i cinque si paracadutarono nella valle del Wadi Qelt da un Boeing B-17 Flying Fortress catturato in precedenza dalla Luftwaffe.

Equipaggiati con armi, esplosivi, strumentazione radio e (tanto) denaro, i cinque non sarebbero riusciti nell’obiettivo di mettere in piedi una base. Tre giorni dopo, invero, le pattuglie britanniche avrebbero cominciato a mettersi sulle tracce di intrusi dopo aver trovato i resti del paracadutaggio nel corso di normali operazioni di controllo del territorio.

Salama, sanguinante per via di un cattivo atterraggio, fu arrestato sulla strada per Gerusalemme. Latif fu trovato all’interno di una grotta e gli altri furono catturati con l’aiuto della popolazione locale. L’imam al-Husseini, infatti, aveva sottovalutato il fattore della diffidenza araba verso lo straniero. I locali, non sapendo chi fossero quei tedeschi né cosa cercassero, rifiutarono di aiutarli in ogni modo.

L’imam al-Husseini, nell’immediato dopoguerra, avrebbe poi tentato di rifarsi per il fallimento dell’operazione Atlas, e in generale per la sconfitta subita nel Mandato, sobillando i correligiosi di tutto il Medio Oriente contro il neonato Israele e giocando un ruolo-chiave nella guerra del 1948. Ma questa è un’altra storia.

I nazisti, la ricerca della Terra cava e il mito di Agarthi. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Gennaio 2022.

Quando si scrive dei miti e delle leggende che hanno affascinato i ricercatori di reliquie, tesori perduti e luoghi introvabili dell’Ahnenerbe, l’incubatore di idee del Terzo Reich, si sa quando inizia ma non si sa quando si finisce. Perché nel corso di quel dodicennio di vita, che fu tanto breve quanto intenso, gli esploratori e gli investigatori dell’occulto del Führer traversarono il mondo in lungo e in largo, dall’Amazzonia all’Antartide, assetati di potere come di conoscenza.

Guidati dagli obiettivi di carpire i segreti del cosmo e di risalire alle origini della razza-civiltà ariana, nonché di impossessarsi di reliquati di natura divina, gli archeologi e i cercatori della Germania nazista misero piede in una moltitudine di luoghi. Chi in Francia perché sulle tracce del Sacro Graal. Chi nella foresta amazzonica per studiare le tribù incontattate. Chi nel Nord Europa perché sulle orme di Atlantide e degli Iperborei. E chi nell’Asia inoltrata perché alla ricerca della porta d’accesso al favoloso regno di Agarthi.

Obiettivo Terra cava

Per circa un secolo, dalla seconda parte dell’Ottocento alla prima parte del Novecento, sono esistiti politici ed esploratori fermamente convinti dell’esistenza di un regno sotterraneo, rispondente al nome di Agarthi, la cui entrata sarebbe localizzata da qualche parte tra l’Asia centrale e il subcontinente indiano, forse nell’Himalaya, e che, per quanto serafico e sardanapalesco, altro non sarebbe che una parte infinitesimale di un mondo nascosto al di sotto della superficie abitata dall’Uomo: la Terra cava.

La leggenda di Agarthi e la teoria pseudoscientifica della Terra cava, forse perché coraggiosamente imaginifiche in un mondo prosciugato e intristito da scientismo e positivismo, hanno plasmato profondamente l’immaginario collettivo europeo tardo-ottocentesco e primonovecentesco, ispirando scrittori, pionieri e occultisti. Perché a credere che potesse realmente esistere un mondo nel mondo, una terra sotto la terra, furono (veramente) in tanti. E i più degni di nota, tra loro, furono sicuramente l’occultista Alexandre Saint-Yves, lo scrittore Jules Verne, il politico Willis Georges Emerson, l’esploratore Ferdynand Ossendowski e la teosofa Madame Blavatsky.

Agarthi era uno dei luoghi dove si sarebbe rifugiata la Herrenrasse, la razza ariana, perciò il mito trovò il modo di trasmigrare dal panorama occultistico-esoteristico angloamericano al sottobosco iniziatico della Germania weimariana, venendo conglobato nel già ricco apparato misticistisco di società segrete protonaziste come Vril e Thule. Anni dopo, complice l’ingresso en masse di ex vriliani ed ex thuliani nelle file del Partito Nazista, l’ala negromantica del Terzo Reich avrebbe fatto della ricerca di Agarthi una delle priorità della propria agenda.

L’ossessione per Agarthi, combinata ad un altro fisima di Heinrich Himmler – la teoria del ghiaccio cosmico di Hanns Hörbiger –, avrebbe assunto una forma ben definita nel 1938: la spedizione in Tibet. Capeggiata dall’esploratore Ernst Schäfer, e finanziata da entità pubbliche e donatori privati, la missione fu ufficialmente concepita per conseguire scopi scientifici e culturali, tra i quali un’indagine di natura botano-pedologica, lo studio dei testi sacri e della mitologia del buddhismo tibetano e lo stabilimento di contatti con le autorità politico-religiose.

Il gruppo avrebbe fatto rientro in patria nel 1939, all’alba della Seconda guerra mondiale, portando ad un felice Himmler una caterva di tesori: prove di una presunta parentela tra i tibetani e gli ariani, libri sconosciuti all’Europa, sementi ed esiti di studi frenologici e fisiognomici sulle genti dell’Himalaya. Tutto sembrava indicare che dal Tibet fossero passati gli ariani in fuga dal mondo, magari innestandosi al di sotto della città santa, Lhasa, ma lo scoppio della Seconda guerra mondiale non avrebbe reso possibile indagare ulteriormente la circostanza.

La lucidità dietro la follia

Perché una potenza alla ricerca di egemonia planetaria avrebbe dovuto investire ampie somme di denaro nella realizzazione di strambe e apparentemente folli missioni esplorative ai confini del mondo? Perché, evidentemente, non erano né strambe né folli. Al contrario, la storia del Terzo Reich è la storia di un impero che ha sempre cercato di combinare visionarietà e pragmatismo, riuscendoci egregiamente, perché edotto del “potenziale politico” della fantasia e delle mirabili imprese di cui sono capaci i folli. È la storia di un impero ha assecondato le stravaganti voglie di ideologi, archeologi ed esploratori ogniqualvolta potessero rivelarsi un mezzo per un fine: l’interesse nazionale.

Vril, la società del mistero dietro alla nascita del nazismo

L’isola di Thule e i misteri del nazismo

In Amazzonia per studiare le tribù, ma anche per pianificare la possibile cattura della Guyana francese. In Antartide per analizzare i ghiacci perenni del continente del gelo, ma anche per valutare la fattibilità di stabilire una base militare. E nei meandri dell’Eurasia per recuperare prove dell’esistenza della razza ariana, cercare la porta d’accesso al regno di Agarthi, ma anche (e soprattutto) per vagliare la possibilità di edificare un avamposto dal quale aggredire da settentrione l’India britannica e inserire il Tibet all’interno dell’asse Tokyo-Berlino.

Quando i nazisti andarono alla ricerca di Atlantide. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Gennaio 2022.

I nazisti avevano un’ossessione verso la razza, come l’Olocausto degli ebrei, degli slavi e del popolo romani ha orribilmente dimostrato, ed è storia che abbiano avuto anche una profonda fissazione nei confronti di tutto ciò che riguardasse l’esoterico, l’occulto e il mistico. Perché il nazismo, ancor prima che politica, fu religione.

Scrivere e parlare del lato misterico di quello che Alfred Rosenberg aveva definito il Mito del ventesimo secolo è più che importante – è indispensabile –, perché è soltanto disaminando ciò che accadde nel dietro le quinte del Reichstag che si può comprendere la lucidità delle imprese apparentemente folli dell’Ahnenerbe. Imprese come la caccia al Santo Graal, la spedizione in Tibet, la missione in Amazzonia e la dimenticata ricerca di Atlantide.

Le prime ricerche

Dietro ogni leggenda si cela un pizzico di verità, così si suol dire, e il rinvenimento delle colonne d’Ercole ne è l’ennesima dimostrazione. E i nazisti, per un insieme di ragioni avevano affidato all’Ahnenerbe il compito di indagare sugli antichi miti europei, erano legati ad una leggenda in particolare: quella della civiltà perduta di Atlantide.

La storia della ricerca di Atlantide è la seguente. Nel 1935, anno della fondazione dell’Ahnenerbe, Heinrich Himmler radunò una squadra di specialisti in una varietà di discipline – archeologia, esplorazione sottomarina, storia – allo scopo di trovare prove della passata esistenza di quest’isola perduta, localizzata al di là delle colonne d’Ercole, che stando alle cronache degli antichi sarebbe stata la casa di una civiltà avanzata. Una civiltà che, secondo gli occultisti e gli esoteristi che avevano ispirato la mitologia nazista – come la Società di Thule, la Società Teosofica di Madame Blavatsky e la Società Antroposofica di Rudolf Steiner –, sarebbe stata collegata agli iperborei ed un’espressione della razza ariana.

Influenzato da Herman Wirth, storico fermamente convinto della passata esistenza dell’isola-civiltà e co-fondatore dell’Ahnenerbe, Himmler diede il via all’operazione Atlantide. I cantieri furono inaugurati nell’Europa continentale, più precisamente nel complesso megalitico di Externsteine, dove fu data vita ad una sessione di scavi archeologici supervisionata da Wilhelm Teudt. Gli scavi non contribuirono agli scopi della missione, non avendo portato alla luce nessun collegamento tra il sito e Atlantide, ma Externsteine, a partire dal 1935, sarebbe comunque divenuto uno dei luoghi-simbolo del misticismo nazista.

Una missione senza confini

Wirth e Himmler avrebbero seguito i lavori dell’operazione Atlantide, a Externsteine come nel resto del mondo, da una pittoresca palazzina costruita appositamente per pubblicizzare la bizzarra missione, Haus Atlantis – ancora oggi esistente –, realizzata dal visionario architetto Bernhard Hoetger e fungente da centro studi su Atlantide.

Da Haus Atlantis, un veridico incubatore di idee, nel dopo-Externsteine sarebbe provenuta l’idea di estendere le ricerche al Tibet, ritenuto un luogo tanto connesso ad Atlantide quanto ad altri miti di interesse per l’Ahnenerbe, come l’Iperborea, il regno sotterraneo di Agarthi e la teoria del ghiaccio cosmico. L’insieme di moventi di cui sopra, nel 1938, avrebbe dato vita alla spedizione nazista in Tibet.

Lo scoppio della seconda guerra mondiale, come è noto, avrebbe posto un freno all’Ahnenerbe, coartando il governo a riorientare le risorse dalla ricerca pseudostorica al settore bellico. Haus Atlantis, ad ogni modo, avrebbe continuato le proprie attività fino al 1945, attraendo ricercatori e semplici appassionati ai miti del mondo antico e raccogliendo fondi utili a espletare missioni di ricerca tra Francia, Islanda, Scozia e Svezia.

·        L’Olocausto.

Simon Wiesenthal, il cacciatore di nazisti. Pietro Emanueli il 17 Ottobre 2022 su Inside Over.

La storia è nota: nel secondo dopoguerra, con la complicità di apparati deviati del Vaticano e di un insieme di reti transnazionali, migliaia di nazisti riuscirono a fuggire dall’Europa e a ricostruirsi una nuova vita altrove, principalmente nelle Americhe Latine, perché protetti da una nuova identità e dalle pareti spesse dell’omertà.

Coloro che scapparono dalla giustizia di Norimberga e dalla vendetta del neonato Mossad furono in tanti, oltre diecimila, sebbene le cronache abbiano frequentemente posto l’enfasi su un gruppo di pochi noti, carnefici dal cognome pesante, composto da personaggi come Adolf Eichmann, Josef Mengele e Martin Bormann.

La maggior parte dei fuggitivi morì di vecchiaia o per cause naturali, come Walter Rauff, ma non tutti ebbero la stessa sorte fortunata. Perché il Mossad riuscì a catturarne alcuni, come Eichmann, e ad eliminarne altri, come Herberts Cukurs. E un ruolo importante nella caccia all’uomo dei servizi segreti israeliani fu giocato dai cosiddetti «cacciatori di nazisti», in particolare da Simon Wiesenthal.

La vita prima del nazismo

Simon Wiesenthal nacque il 31 dicembre 1908 in quel di Buczacz, ieri appartenente alla Polonia austriaca e oggi nota come Bučač e sita in Ucraina. Figlio di due commercianti ebrei rifugiatisi in Galizia per fuggire dai pogrom giudeofobici che stavano scuotendo l’Impero russo, Wiesenthal rimase orfano di padre all’età di sette anni – morì nel fronte orientale nel 1915, combattendo nell’esercito austro-ungarico.

Le strade dei membri della famiglia Wiesenthal si sarebbero divise nel primo dopoguerra: Rosa, la madre, si risposò e si trasferì a Dolyna insieme al nuovo marito; Simon, invece, rimase alcuni anni in Galizia, dove trovò moglie, prima di spostarsi a Praga per ragioni di studio.

In Repubblica Ceca, complice il clima dell’epoca, Wiesenthal sarebbe venuto a contatto con due realtà contrapposte e inconciliabili: il nazismo e il sionismo. E per fronteggiare il primo, che minacciava di riproporre in Europa una replica su larga scala di quei pogrom zaristi che avevano traumatizzato la sua infanzia, decise di sposare la causa del secondo.

La seconda guerra mondiale

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Wiesenthal si trovava a Leopoli in compagnia della madre, che, causa l’assassinio del secondo marito – arrestato dai sovietici perché “capitalista”, morì in un campo di prigionia –, era tornata dai figli.

Con l’aggravarsi della guerra, e in concomitanza con il peggioramento delle condizioni di vita degli ebrei ucraini, Wiesenthal e sua moglie furono trasferiti con la forza, dalle autorità naziste, nel campo di concentramento di Janowska. La madre di Wiesenthal, invece, avrebbe trovato la morte nel campo di sterminio di Belzec nell’agosto 1942.

Lavoratore instancabile, loquace e mai causa di problemi, Wiesenthal sarebbe riuscito a diventare amico di un importante ufficiale del lager di Janowska, Adolf Kohlrautz, che, nell’ottobre 1943, all’alba dello smantellamento del sito – con annessa eliminazione fisica dei prigionieri – lo avrebbe aiutato a fuggire.

Cacciatore di nazisti

Finita la guerra, della cui violenza era stato testimone diretto (e vittima), Wiesenthal prese la decisione che avrebbe cambiato per sempre la sua vita: si sarebbe messo alla caccia dei fuggitivi nazisti. Cominciò aiutando le forze alleate a schedare gli ufficiali che avevano prestato servizio presso i campi di concentramento, come quello di Mathausen, per poi entrare a far parte dell’Ufficio dei Servizi strategici degli Stati Uniti.

Le informazioni sensibili ottenute supportando gli Alleati, inclusive di nomi, cognomi, indirizzi e fotografie, sarebbero state utilizzate per dare vita al Centro di documentazione ebraica (Jewish Documentation Center), fondato nel 1947, avente quale obiettivo la raccolta di prove contro i perpetratori dell’Olocausto. Wiesenthal e soci, insieme, riuscirono a depositare presso le cancellerie del tribunale di Norimberga oltre tremila testimonianze di sopravvissuti ai lager, giocando un ruolo-chiave nel processo.

La chiusura di Norimberga, avvenuta in concomitanza con l’ascesa della Guerra fredda, avrebbe però portato Wiesenthal e soci a sperimentare un progressivo e crescente isolamento, persino da parte del neonato Israele. Perché le priorità, ovunque, date le circostanze, erano diventate altre.

Nella consapevolezza che migliaia di nazisti l’avrebbero fatta franca a causa del confronto egemonico tra i due blocchi, Wiesenthal decise di radunare i soci del Centro di documentazione ebraica per perseguire un nuovo obiettivo: partire dalla documentazione in loro possesso per dare la caccia a coloro che ancora risultavano mancanti all’appello della giustizia.

Dei tanti nazisti sulle cui tracce Wiesenthal decise di mettersi, uno fu particolarmente importante: Adolf Eichmann, uno degli architetti della Soluzione finale. Tutto ebbe inizio nel 1953, quando Wiesenthal ricevette una lettera attestante la presenza di Eichmann a Buenos Aires. Quella lettera, poi passata alle autorità israeliane e tedesche, avrebbe dato vita alle prime ricerche in loco.

Nel 1960, alla morte di Eichmann padre, Wiesenthal ebbe un’altra idea: infiltrare degli investigatori privati al funerale per fotografare il fratello di Adolf, Otto. I due, difatti, avevano un aspetto molto simile. L’importanza di quelle fotografie, in seguito, fu confermata dagli agenti del Mossad che parteciparono alla cattura di Eichmann.

Nel dopo-Eichmann, Wiesenthal sarebbe divenuto un agente operativo del Mossad, dal quale ricevette la delega di occuparsi dei rimanenti fuggitivi di alto profilo. Tra i vari successi di Wiesenthal, si ricordano per importanza la localizzazione con annessa cattura di Erich Rajakowitsch, Franz Murer, Franz Stangl e Hermine Braunsteiner.

Non sarebbe mai riuscito, però, a catturare due nazisti per i quali aveva sviluppato un’ossessione pari a quella provata per Eichmann: Josef Mengele e Martin Bormann. Impossibili da localizzare, perché ben protetti, sarebbero morti entrambi per cause naturali, anziani, lontani dall’Europa e al riparo dai caccia-nazisti di Wiesenthal e del Mossad.

Gli ultimi anni e la morte

Wiesenthal, per il contributo dato alla messa a processo degli architetti dell’Olocausto, fu fatto oggetto di una pluralità di riconoscimenti prestigiosi, tra i quali il Premio Erasmo dei Paesi Bassi, la Legione d’onore della Francia e l’Ordine dell’Impero britannico. Nel 1985, all’acme della popolarità, fu persino candidato per il Nobel per la pace – poi andato a Elie Wiesel, scrittore e superstite dell’Olocausto.

Si ritirò a vita privata nel 2001, morendo quattro anni più tardi – il 20 settembre 2005 –, poco dopo aver contribuito alla cattura dell’ultimo nazista della sua lunga carriera: Julius Viel. In totale, secondo i resoconti del Centro Wiesenthal, le indagini del più famoso cacciatore di nazisti di sempre avrebbero permesso e/o facilitato la cattura di un numero impressionante di ex seguaci del Terzo Reich: approssimativamente un migliaio.

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Quei silenzi sull'attentato alla Sinagoga di Roma, il libro denuncia nel racconto di un superstite. Maurizio Molinari su La Repubblica il 12 settembre 2022

Gadiel Gaj Taché torna a casa dall’ospedale dopo l’attentato alla sinagoga di Roma 

A quasi quarant'anni dal sanguinoso atto antiebraico di un commando di terroristi del 9 ottobre 1982 la testimonianza di Gadiel Gaj Taché, fratello del piccolo Stefano, unica vittima a soli due anni

A pochi giorni dal quarantesimo anniversario dell'attentato alla Sinagoga di Roma Gadiel Gaj Taché, fratello di Stefano che fu l'unica vittima, ci consegna un libro-verità con un racconto mozzafiato su un fatto di terrorismo che ferì il nostro Paese ma resta ancora avvolto in troppi interrogativi senza risposta. Nel volume Il silenzio che urla, edito da Giuntina, 121 pagine di emozioni laceranti, fatti drammatici e domande spietate accompagnano i lettori, consentendo di rivivere da dentro, senza perifrasi, il più sanguinoso atto antiebraico avvenuto in Italia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.

Penetrare l’umano. La memoria della Shoah oggi e l’inesauribile conflitto delle immagini. Gilda Policastro su L'Inkiesta il 7 Settembre 2022.

Arturo Mazzarella indaga le ragioni dietro alla grande produzione culturale che ha tentato di testimoniare il genocidio di milioni di ebrei. La sua è anche una riflessione sulla temporalità e sulla distanza che frapponiamo ai traumi

Il nuovo saggio di Arturo Mazzarella, La Shoah oggi. Nel conflitto delle immagini, uscito nella collana “agone” curata da Antonio Scurati per Bompiani, prende le mosse da un’interrogazione sulla gran quantità di libri, film, serie tv che continuano a dedicarsi al tema annunciato dal titolo, quasi non si fosse esaurita e non si potesse mai del tutto esaurire, nemmeno con la progressiva evanescenza biografica dei testimoni oculari (aggettivo ben programmatico, come vedremo), la funzione-reperto o testimonianza sull’episodio più violento, osceno, incomprensibile della storia del Novecento. 

La prima impressione potrebbe essere, dietro suggerimento dello stesso autore, quella di una ridondanza: l’ennesimo libro su un tema abusato. Ma l’indagine di Mazzarella si svolge in una prospettiva particolarmente originale, decostruendo passo dopo passo, sulla scorta di plurimi testi-guida (dall’Antelme della Specie umana all’Améry di Intellettuale ad Auschwitz fino a Celan e Sebald, passando inevitabilmente per Levi), l’idea comune e inevitabile di un evento choc e perciò inimmaginabile. 

È invece proprio sull’immagine come risorsa, antidoto, spina (sulla scorta di Elias Canetti) che Mazzarella incentra il discorso sulla Shoah, scandendolo nel primo capitolo in tre momenti dinamici (che torneranno, cioè, in altri punti del discorso) e consequenziali. 

Il primo è come l’immagine del deportato si costituisca nella reciprocità ma anche nell’omissione dello sguardo, conservando una propria autonomia dalla visione coatta, che preluderebbe (vorrebbe preludere, scopriremo) all’omologazione delle “figure” (così venivano chiamati i prigionieri) e all’annientamento individuale. Proprio da quest’autonomia (relativa, ma pur sempre autonomia) deriva una possibilità di aggiramento del negativo storico e del suo (tentato) azzeramento della vita, attraverso la preservazione di ciò che dalla storia (e dalle azioni umane) non dipende (la natura, ad esempio) e continua a esistere anche in mezzo all’orrore (le betulle fuori da Auschwitz). 

L’immagine come “pungolo” è il successivo scatto: pungolo o, per dirla di nuovo col Canetti più volte richiamato dall’autore, «stimolo contrario all’imposizione» e dunque fattore di trasformazione, di mutazione o metamorfosi all’interno del Lager.

In ultimo, l’aspetto forse più interessante perché prevede un rovescio prospettico (ed etico): il ribaltamento dell’ottica del dominio e l’inferenza dello scacco nazista (lo sterminio, cioè, come progetto fallimentare perché i morti, col Fédida citato dall’autore, «non sono mai scomparsi abbastanza«»).  

Si procede, da qui in poi, con una serie di campioni (opportunamente Mimmo Cangiano nella sua recensione uscita su “Le parole e le cose” ha parlato di «metonimie») del discorso indiretto, non testimoniale sulla Shoah: su tutte, il passato “carbonizzato” di Celan e le sue “tracce di cenere” (dai Microliti), che Mazzarella paragona all’autocombustione delle tele di Kiefer. Riferimento più che mai pertinente dopo la recente mostra site-specific al Palazzo Ducale di Venezia, con traduzione visiva ovvero smaterializzazione iconografica dell’incendio che distrusse la città nel 1577. 

L’assunto comune è l’immagine come fattore di dispersione e allo stesso tempo come coagulo, riproposta di frammenti, deposito di tracce e collettore di resti. È propriamente il Celan «che non ha visto nulla ma sa troppo» a incentrare la riflessione in questo punto cruciale del libro, il Celan che sconta la colpa della sopravvivenza al posto di qualcun altro (i suoi genitori, ma tutti i morti della Shoah) e «continua a incunearsi in un passato sempre vivo, tanto da essere intrecciato con il presente, per strapparvi […] qualche mucchio di pietre o una distesa di ombre che vorrebbe riportare, senza abbandonarli più, nei propri versi». 

Da questo breve estratto, tra l’altro, si può notare quello che gli altri recensori non hanno a parer mio finora sottolineato fino in fondo: il tono letterariamente sostenuto, qualche volta finanche lirico, che l’autore di volta in volta adatta mimeticamente non solo, come atteso, al singolo motivo ma anche e soprattutto al genere e allo scrittore che tratta. 

Si passa così dal rigore analitico del primo capitolo, dedicato alla “visione” come strumento di opposizione al potere attivo e fattuale, al secondo che invece approccia il tema plastico della riconversione in immagine dell’indicibile (o dell’ignoto) dalla specola di un esistenzialismo poetico, creaturale, che resta però meditativo e interpretativo e non rinuncia alla filologia: le fonti, la ricezione, la costellazione attesa (Anne Carson su Celan) e quella meno ovvia (Kiefer, appunto, che pure ha dedicato esplicitamente a Celan più di una mostra). Fino all’ultimo capitolo, che giungendo all’iconologica più tipicamente mnestica della ricostruzione attraverso il “museo” (sebaldiano), si fa più asciutto e refertuale (“la faccenda del sopravvivere”). 

L’interesse del libro, in ogni sua parte, resta primariamente creativo: l’immagine finta, cioè rappresentata, elaborata, ricreata è per il critico il vero motivo di interesse, al di là del tema estremo tra gli estremi, quasi come se quest’ultimo volesse ridimensionarsi a uno dei temi possibili in merito alla riflessione estetica, e dunque potesse finalmente essere rivisitato senza l’attitudine ricattatoria (e “ripulita”, hollywoodiana) dei romanzi, dei film, delle testimonianze vittimarie. 

Un’operazione rischiosa, audace e perfettamente riuscita, nell’aderenza storica che non rinuncia alla visione personale (né potrebbe, data la curvatura dell’indagine), attraverso però uno sguardo trasversale, quello più lucido, che non fissa troppo da vicino l’oggetto e ne rimonta gli effetti, le rielaborazioni, le omissioni e le prospezioni, facendo seguito al metodo di Perec (il falso ricordo) e a quello dello stesso Sebald (il prospettivismo). 

Se non il solo atteggiamento possibile, quello più produttivo sul piano estetico-conoscitivo, rispetto a un evento che, alla stregua di Celan, non abbiamo vissuto ma su cui pesa l’eccesso di memoria e di testimonianza proprio mentre si affievolisce, come si notava all’inizio, la viva “presenza” dei testimoni. 

L’immagine è «ripresentazione», con David Freedberg, o, col Didi-Hubermann direttamente convocato da Mazzarella, è quello che è “qui”, nell’adesso, «l’oggetto dello sguardo». Ma di quelle immagini, ossimoricamente “inimmaginabili”, è inutile e improduttivo cercare l’autenticità: vanno manipolate, alterate, proprio «per non tradire la pluralità di significati che portano inscritti al di là della loro evidenza sensibile». 

Quella di Mazzarella è anche una riflessione sulla temporalità, e sulla distanza che frapponiamo a un qualsivoglia trauma: cosa succede, quando non siamo più dentro le cose, le vediamo meglio o peggio? Qui ci soccorre non solo la memoria, con le sue tecniche (su cui i neuroscienziati hanno parecchio insistito proprio attraverso la spazializzazione della mente, negli ultimi anni), ma anche l’après-coup lacaniano, l’idea che il fatto vada preso per la coda, per essere fino in fondo compreso e metabolizzato. 

La questione della prospettiva si dà, nel saggio di Mazzarella, comunque come una questione di montaggio (oltre che di soggettiva): con il Farocki di Respite «il senso di un evento dipende dalle condizioni di visibilità», al contrario di Claude Lanzmann, per il quale la distanza nulla può aggiungere al “sigillo” della compiutezza. 

Come si sarà compreso, il viaggio attraverso le immagini in questo libro riassetta lo scarto tra posizioni apparentemente inconciliabili: il conflitto è nella stessa ispirazione iniziale, l’attrazione-repulsione di fronte al macabro sovrabbondare di documentazione più o meno narrativamente o cinematograficamente adattata. Procedendo con la lettura, si scopre che la vulgata dell’interdetto adorniano sulla poesia (e più in generale sulla letteratura finzionale) dopo Auschwitz si può rovesciare nel suo contrario: non si parla d’altro che di Auschwitz, quando si vuole penetrare, occhi negli occhi, l’umano.

Marcello Pezzetti per “la Repubblica” il 5 luglio 2022.

Io non capivo niente quel che mi facevano fare, facevo! Ero diventato un robot. Così sono uscito da Auschwitz». Donato Di Veroli, uomo semplice, ingenuo, mite, fino alla fine dei suoi giorni si è chiesto come abbia fatto a ritornare da Auschwitz. 

Perché, pur nella sua ingenuità, una cosa era ben chiara nella sua mente fin dal momento in cui era stato scaricato da quel treno a Birkenau: il suo destino, così come per tutti gli ebrei deportati, era quello di essere eliminato, anche se inizialmente aveva evitato la camera a gas, dove era finita la stragrande maggioranza di quelli che erano sul suo convoglio. In ogni caso i nazisti lo avrebbero eliminato. 

Ma lui è ritornato, e non ha mai smesso di chiedersi il perché. Donato, l'ultimo ebreo romano ancor in vita fino a ieri, era la quintessenza della romanità: nato a Trastevere, in via dei Vascellari, era figlio di un «commerciante di carta da avvolgere », come descriveva l'attività di suo padre, ed aveva tre fratelli e quattro sorelle. Una famiglia numerosa, che era andata ad abitare in piazza Campitelli, nei pressi del quartiere ebraico della città, e che era caduta in una situazione catastrofica dopo la promulgazione delle leggi antiebraiche.

Nel 1942, obbligato a lavorare sotto Tevere, umiliato aveva deciso di non continuare a farsi trattare da schiavo, ma per questo era stato arrestato e rinchiuso a Regina Coeli.

Tornato libero, aveva capito che dopo l'8 settembre il pericolo lo poteva colpire duramente, e il 16 ottobre, infatti, si era nascosto e aveva evitato la deportazione. 

Ma poi, con suo fratello, era ritornato a casa, come molti altri ebrei in città, nonostante fosse estremamente pericoloso. Per sopravvivere lui e il fratello facevano dei trasporti con un carretto e un cavallo, che ogni sera portavano a turno in una stalla a Trastevere. Una sera di aprile del 1944, però due fascisti in borghese lo aspettavano sul ponte "Quattro Cape" e lo arrestavano, perché ebreo. 

Lo portarono nella Caserma Mussolini, poi nella sede della Gestapo di via Tasso, dove venne torturato, poi ancora una volta a Regina Coeli, e infine spedito a Fossoli. Lì fu testimone dell'uccisione di un compagno, ucciso a freddo sul piazzale degli appelli perché non aveva capito un ordine e non l'aveva immediatamente eseguito. Inserito nel convoglio partito il 16 maggio, senza capire quel che stava succedendo, si ritrovò dopo qualche giorno nell'inferno di Birkenau.

Selezionato per il lavoro forzato temporaneo nel campo e immatricolato col numero A 5372, venne assegnato a un lavoro massacrante nel sottocampo di Harmense, vicinissimo ai crematori di Birkenau: doveva lavorare in impianti che i nazisti avevano istituito per l'allevamento dei pesci. «Nudo come Dio lo aveva fatto», lui e gli altri compagni di quel Kommando doveva stare nell'acqua, in grossi bacini infestati da sanguisughe e altri animali, dal mattino alla sera, con temperature insostenibili. 

Lì, un giorno assistette al tentativo di fuga di molti deportati, finito con il massacro di tutti quanti. Erano gli uomini del Sonderkommando di Bi rkenau, gli uomini assegnati al lavoro nei crematori, tra cui Shlomo Venezia e suo fratello, così come Nicolò Sagi, eroe della resistenza ebraica ucciso anch' egli proprio in quel giorno. 

Ma Donato, con un comportamento sempre "ubbidiente", umile e timoroso, ma nello stesso tempo non disposto ancora a cedere (non è un caso che avesse appreso perfettamente alcune espressioni in tedesco, che ricordava benissimo anche a distanza di anni), resistette fino al trasferimento all'interno del Reich, a Struthof-Natzweiler e infine a Dachau, dove nella primavera del 1945, ormai vicino alla morte, vide l'arrivo degli americani.

«Mi ero rassegnato a morire, perché non c'era nemmeno uno su cento da potersi salvare, niente! » mi disse più volte col suo linguaggio semplice e particolare.

Invece rivide, tremando di gioia e insieme di infinita tristezza per tutti i compagni "sommersi", ancora la sua Roma, la sua piazza Campitelli, la sua casa e i suoi famigliari.

Rimase sempre nell'ombra, non si mise mai in prima fila in nessuna "manifestazione della Memoria", ma ebbe il coraggio straordinario, nel 1972, di testimoniare a Roma nel corso dell'istruttoria contro Friedrich Boßhammer e di salire sul banco dei testimoni al processo a Berlino nel 1972 contro lo stesso "Judenberater", ovvero il principale responsabile della deportazione degli ebrei dall'Italia nel 1944. Grazie anche a questa sua testimonianza, Boßhammer venne condannato all'ergastolo. Questa la grandezza di quest' uomo mite e semplice che si definiva un "robot".

Anche ad Auschwitz ci fu una rivolta: la fecero rom e sinti. Susanna Schimperna su Il Riformista il 7 Giugno 2022.

I nazisti l’avevano chiamata “Questione zingara” e avevano deciso che andasse risolta al più presto. Dichiarati razza inferiore, Rom e Sinti vennero prima deportati e internati, poi costretti ai lavori forzati, quindi sterminati. Perirono più di mezzo milione di persone, ma ci fu un giorno speciale, un giorno che va ricordato da tutti, in cui Rom e Sinti diedero luogo a quella che è forse l’unica ribellione organizzata registrata in un campo di concentramento nazista: il 16 maggio 1944.

Le deportazioni iniziano nell’autunno del 1941. Oltre 5.000 Rom e Sinti vengono deportati dall’Austria al ghetto ebraico di Lodz e qui rinchiusi – ammassati – in un settore speciale separato dal resto dell’area. Date le condizioni igieniche, l’assoluta assenza di cure mediche, il freddo e la sottoalimentazione, dopo pochi mesi dei deportati ne resta soltanto la metà, che le SS e i funzionari di polizia trasferiscono nel campo di sterminio di Chelmo e quindi uccidono nelle camere a gas. Nuovo rastrellamento nel dicembre del 1942, e questa volta in grande stile. Tutti i Rom e Sinti che vivono nella cosiddetta “Grande Germania” finiscono nei campi, molti di loro ad Auschwitz-Birkenau, anche qui separati dagli altri prigionieri, riuniti in uno spazio (minimo) dedicato esclusivamente a loro, lo Zigeunerlager, il “campo degli Zingari”.

Era stato decretato che alcune categorie fossero esenti dalle deportazioni: chi stava prestando o aveva prestato servizio nell’esercito tedesco, chi si era integrato perfettamente nella società, e infine chi potesse dimostrare di avere “puro sangue” zingaro, cioè discendenza zingara da più generazioni. I mezzo sangue erano considerati più “scadenti” e “pericolosi” dei puro sangue. Ma nei rastrellamenti a questi particolari non si bada. Accade così di frequente che non solo siano presi e portati via puro sangue e famiglie con un lavoro stabile, ma anche, crudele paradosso, militari Rom o Sinti che essendosi distinti nell’esercito stanno trascorrendo qualche giorno di licenza premio. Nei campi, alle epidemie di vaiolo, tifo e dissenteria, si aggiunge lo spauracchio degli esperimenti. I prigionieri non sanno che fine facciano quelli che tra loro vengono prelevati e non tornano più, ma il fatto che spesso si tratti di bambini e/o di gemelli fa loro immaginare ogni sorta di orrore. La storia li ricostruirà dettagliatamente, questi orrori. Esperimenti “scientifici” autorizzati, in cui si distingue il dottor Mengele, capitano delle SS.

Gli Zingari del campo di Auschwitz-Birkenau a maggio del 1944 sono più che decimati. Nelle camere a gas sono finiti, a marzo, molti dei sopravvissuti alle malattie e agli stenti, ma qualche migliaio resiste, e allora si pensa a una soluzione drastica: liquidare definitivamente la sezione dello Zigeunerlager, uccidendo tutti in una volta.

Qualcuno però parla, e il campo viene avvertito. Quando le guardie circondano lo Zigeunerlager ed ordinano a tutti di uscire, ricevono come risposta un rifiuto. I prigionieri si sono messi d’accordo e hanno deciso di tentare, più per orgoglio che pensando al successo, una disperata resistenza. Con gli strumenti del loro lavoro di schiavi – tubi di ferro, martelli, vanghe, picconi, pale -, i prigionieri resistono al di là delle loro forze, prendendo di sorpresa le guardie e, dopo alcuni morti dall’una e dall’altra parte, costringendole a desistere. La strage è solo rimandata di qualche mese, ma nell’ambito della tragedia del Porrajmos, come è chiamato in lingua romanì il massacro nazista di oltre mezzo milione di Rom e Sinti, non smetterà mai di essere ricordato.

Il nuovo antisemitismo e l'elefante islamista nella stanza. Stefano Magni l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.

C’è grande confusione sotto il cielo dell’antisemitismo. Invocato quando non c’è, usato come clava propagandistica contro i nemici, da decenni sta attraversando una trasformazione che pochi analizzano, ma tutti vedono. La matrice principale della giudeo-fobia è islamica e non più di estrema destra.

C’è grande confusione sotto il cielo dell’antisemitismo. Invocato quando non c’è, usato come clava propagandistica contro i nemici (i russi, ad esempio, accusano gli ucraini di antisemitismo e neonazismo, anche se hanno eletto a gran maggioranza un presidente ebreo), l’antisemitismo aumenta in modo esponenziale nelle società occidentali, soprattutto dopo i due anni di pandemia. Si è soliti dare la colpa a chi era il più virulento antisemita nel XX Secolo: il nazista, il fascista, il nazionalista autoritario nelle sue varie declinazioni. Si va ancora a ricercare la radice dell’antisemitismo nel XIX Secolo, nei pogrom condotti dai cristiani, soprattutto ortodossi. E nei secoli dell’Età Moderna, per puntare ancora il dito contro la Chiesa Cattolica e l’Inquisizione spagnola. Ma, anche se i servizi nei Tg, ogni volta che si parla di antisemitismo, per riflesso condizionato, ci mostrano ancora le immagini di svastiche e teste rasate, siamo sicuri che sia ancora quella la matrice principale dell’odio contro gli ebrei?

Almeno dagli anni della guerra al terrorismo, la cui fase più acuta è stata fra il 2001 e il 2008, gli intellettuali più liberi da pregiudizi in Francia, come Alain Finkielkraut, additavano un nuovo nemico: l’anti-giudaismo di matrice islamista (intesa come Islam politico) e le sue numerose connessioni con la sinistra massimalista. Nel nome dell’“antirazzismo”, soprattutto, si associa anche la retorica dell’antisionismo islamico, che si traduce automaticamente in antisemitismo: il bersaglio non è solo Israele, ma l’ebreo in quanto tale, ovunque si trovi. Gli attentati in Francia di matrice antisemita, come la strage nella scuola ebraica di Tolosa del 2012 e quella del Hyper Cacher di Parigi del 2015 (contemporanea al massacro dei redattori del giornale satirico Charlie Hebdo), sono di matrice islamica. Anche i delitti individuali, come il rapimento, la tortura e l’uccisione di Ilan Halimi nel 2006, più recentemente l’assassinio di Sarah Halimi nel 2017 (il cui assassino resta impunito perché ritenuto “non perseguibile”) e di Mireille Knoll nel 2018, sono stati tutti commessi da delinquenti comuni. Che però erano anche musulmani, si erano radicalizzati e hanno ucciso le loro vittime, esplicitamente perché ebree. Mireille Knoll, pugnalata e poi bruciata, in casa sua, da un vicino che conosceva, è una vittima che ha subito il passaggio di consegne da un antisemitismo all’altro: l’anziana donna, classe 1932, era sfuggita per miracolo alla retata dei nazisti del 1942. Ha trovato la morte nel secolo successivo, per mano di un giovane che ha aderito a un altro totalitarismo.

A svelare l’esistenza di questo elefante nella stanza, che si stenta a vedere e condannare, da ultimo è Pierre André Teguieff, sociologo e storico francese. Da studioso della nuova destra, non nega affatto le matrici neonaziste e nazionaliste di parte dell’attuale galassia antisemita, ma nel suo nuovo saggio Sortir de l'antisémitisme? segnala, nella sua intervista rilasciata a Le Figaro, quella che è ormai la nuova tendenza universale dell’antisemitismo: "La grande trasformazione risiede nell’islamizzazione crescente della giudeofobia, attraverso lo spazio occupato dalla fine degli anni Sessanta da parte della 'causa palestinese', innalzata a 'causa universale' nel nuovo immaginario antiebraico condiviso ormai da musulmani e non musulmani. Dall'inizio degli anni Duemila, gli assassinii di francesi di confessione ebraica in quanto ebrei non sono commessi da estremisti di sinistra o di destra ma da giovani musulmani, spesso delinquenti o ex delinquenti, siano essi o no jihadisti in missione - come Mohammed Merah (lo stragista di Tolosa, ndr) o Amedy Coulibaly (autore del sequestro di ostaggi all’Hyper Cacher, ndr)".

Se l’islamismo è la matrice principale, questo poi trova sponde occidentali, sia nell’estrema destra, sia nell’estrema sinistra. E in entrambi i casi, sfrutta il comune odio per Israele e il sionismo, quello che viene identificato nella loro mitologia complottista (comune ad entrambe le estreme) come la belva che domina il mondo, attraverso la finanza, i media, l’arte popolare (il cinema soprattutto) e l’infiltrazione nella politica. Una visione allucinata della realtà che si sposa benissimo con la demonizzazione religiosa dell’ebreo, da parte dei radicali islamici. Teguieff constata infatti che: "Mentre dalla fine degli anni Settanta del Diciannovesimo secolo alla metà del Ventesimo secolo la giudeofobia militante aveva abbracciato i presupposti della secolarizzazione e il razzismo scientifico, rompendo con l'antigiudaismo religioso di origine cristiana - da cui ha ereditato, tuttavia, la visione satanizzante del nemico -, in seguito è entrata nel vasto contro-movimento della de-secolarizzazione, ritrovando una base religiosa in un islam bellicoso che possiamo caratterizzare come un islam politico, che si nutre del risentimento e di una volontà di vendetta - contro gli ebrei e i 'crociati' - così come di un desiderio di conquista del mondo".

L’Anti Defamation League, che ogni anno “fotografa” la diffusione del pregiudizio antisemita in tutto il mondo, nel 2021, come sempre negli ultimi decenni, ha pubblicato dei dati che confermano l’islamizzazione dell’antisemitismo. Il 49% degli antisemiti, in tutto il mondo, è di religione musulmana, contro il 24% di religione cristiana e il 21% fra gli atei (dato significativo per comprendere la tendenza nella sinistra massimalista). Dunque quasi la metà dell’antisemitismo in tutto il pianeta è di matrice islamica. Parlando di aree geografiche, la zona del mondo con la più alta concentrazione di antisemiti è il Medio Oriente allargato (incluso il Nord Africa) con il 74% di rispondenti al sondaggio che mostra di condividere i peggiori pregiudizi e paure contro gli ebrei. È un dato unico al mondo, se confrontato con il 34% in Europa orientale, il 24% in Europa occidentale e il 19% in America. Le nazioni da cui arriva la maggior parte degli immigrati musulmani in Francia sono, per altro fra le più antisemite del mondo, in assoluto. L’Adl rileva infatti la diffusione dell’ostilità contro gli ebrei all’87% in Algeria, 86% in Tunisia, 80% in Marocco, “solo” il 53% in Senegal.

Caterina Soffici per “la Stampa” il 5 Febbraio 2022.

Sono le piccole cose a rendere epiche certe storie. E questa inizia con una frase: «Buona fortuna e felicità». È quanto scrisse un soldato ebreo americano su una banconota che regalò nel maggio 1945 a una ragazza appena liberata dal campo di Auschwitz. Quella ragazza si chiama Lily Ebert e ha compiuto 98 anni lo scorso 29 dicembre e quel piccolo gesto di umanità e di speranza ha segnato l'inizio della sua seconda vita, da sopravvissuta all'Olocausto. 

E grazie a quella banconota è cominciata anche la sua terza vita da star di TikTok, dove racconta la Shoah ai giovani, con 1,6 milioni di follower e con 25 milioni di like. La storia è questa. Lily Ebert è la maggiore di una numerosa famiglia di ebrei ungheresi, quando a vent' anni viene deportata. Nei campi di sterminio di Aushwitz e Buchenwald vengono uccisi un fratello, una sorella e la madre. Lei e altre due sorelle si salvano, fingendosi più giovani della reale età riescono a raggiungere la Svizzera e poi Israele dove col tempo si ricostruisce una vita, si sposa, nascono i suoi tre figli. Poi si trasferisce a Londra.  

L'impossibilità di ricordare per non rivivere il passato, la volontà di guardare avanti per non rimanere intrappolati nel dolore della memoria, il senso di colpa verso i sommersi: come è successo a molti salvati per anni Lily non ha potuto parlare di Olocausto. Non poteva raccontare il terrore, l'odore ripugnante delle ciminiere dove stavano cremando la tua famiglia, le umiliazioni, i capelli e i peli del pube rasati, la vergogna, la paura, la fame (per tutta la vita ha dovuto tenere sempre con sé un pezzo di pane), i cadaveri delle compagne, la selezione, i medici che lavorano con Josef Mengele, l'angelo della morte. 

Si vergognava anche di mostrare quel tatuaggio sul braccio, con il numero A-10572, che nasconde anche ai figli. Come biasimare chi vuole solo dimenticare? Solo quarant' anni dopo quel maggio del 1945, rimasta vedova e con i figli grandi, Lily trova la forza di tornare ad Aushwitz e di onorare la promessa che si era fatta nel campo: se sopravvivo racconterò cosa è successo, perché il mondo non ci crederà, come non ci credevamo noi; e perché una cosa del genere non accada più. Inizia così ad andare nelle scuole, a impegnarsi con associazioni e progetti che tengono viva la memoria, soprattutto le interessa parlare con i giovani. 

Talvolta si siede su un divano nel mezzo alla stazione della metropolitana di Liverpool Street, una delle più caotiche, convulse e congestionate della rete londinese, e invita i passanti a farle compagnia e a parlare di Olocausto. È la sua promessa, lo deve a sua madre e ai suoi fratelli e a tutti gli altri uccisi nei campi. Dice: «Posso raccontare cosa è successo ma non riesco a ricordare le emozioni. Si poteva sopravvivere solo non provando nulla». 

Finché non scoppia la pandemia. Anche la battagliera nonnina è costretta a chiudersi in casa. Ma non vuole interrompere la sua opera di divulgazione contro l'odio antisemita. E qui interviene il pronipote Dov (ha 10 nipoti e 34 pronipoti), che le propone di fare una lezione su Zoom. Poi posta il link sul suo account Twitter: 65 like, non male pensa. Ma non sa cosa sta per accadere. Perché mentre la bisnonna sfoglia gli album del passato, salta fuori questa banconota, con la scritta del soldato. Chi era? Non si sa. Lily pensava fosse una cosa preziosa solo per lei. 

Dov le dice che grazie alla Rete lo ritroverà. Posta la foto del biglietto e nel giro di poche ore il tweet ha ottomila notifiche e un milione di visualizzazioni. Inizia una caccia internazionale al soldato gentile. Scopriranno che è morto, ma riescono a mettersi in contatto con la famiglia. L'onda sui social media è partita. E proseguirà su TikTok, dove i dialoghi tra bisnonna e pronipote sulla Shoah diventano virali, totalizzano milioni di visualizzazioni. 

Alla fine scrivono anche un libro, che nel Regno Unito è stato un bestseller. In Italia è pubblicato da Newton Compton, con il titolo: Mi chiamo Lily Ebert e sono sopravvissuta all'Olocausto. Se io fossi un insegnante, lo adotterei per i miei studenti e ne farei una lettura obbligatoria. E li obbligherei anche a vedere i video su TikTok.

Whoopi Goldberg: «L’Olocausto non riguarda la razza». Sospesa dalla Abc per 15 giorni. Redazione online su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2022. 

La presidente dell’emittente Abc, Kim Godwin: «Se da un lato Whoopi Goldberg ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendere tempo per riflettere». E la popolare attrice si scusa per le sue dichiarazioni: «Ho sbagliato». 

Abc News ha sospeso la popolare attrice afroamericana Whoopi Goldberg, conduttrice di «The View», per due settimane dopo le critiche suscitate dalla sua affermazione che l’Olocausto «non riguarda la razza». Lo ha annunciato la presidente del network Kim Godwin, definendo le sue dichiarazioni «sbagliate e offensive». «Se da un lato Whoopi ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendere tempo per riflettere e imparare in merito all’impatto dei suoi commenti», ha aggiunto Godwin sottolineando che «l’intera organizzazione di Abc News è in solidarietà con i nostri colleghi, amici, famigliari e comunità ebraici».

Goldberg aveva detto che l’Olocausto «non aveva nulla a che vedere con la razza», ma è stato “solo” un episodio di «disumanità degli uomini contro altri uomini”. Il suprematismo non c’entrava niente, e la prova starebbe nel fatto che i protagonisti erano «due gruppi di persone bianche». In sostanza «gente bianca contro gente bianca, e quindi voi che combattevate tra voi». Dichiarazioni sconcertanti. Poi in serata ha provato a scusarsi ma non è bastato.

Le sue ultime dichiarazioni in merito sono un’ammissione di responsabilità: «Ho capito. La gente è arrabbiata. Lo accetto, e sono io che mi sono cacciata in questo guaio. Ho detto qualcosa che sento la responsabilità di non lasciare senza esame, perché le mie parole hanno sconvolto così tante persone, cosa che non era mai stata mia intenzione. Ma ora capisco perché, e perciò sono profondamente, profondamente grata, perché le informazioni che ho ricevuto sono state davvero utili e mi hanno aiutato a capire alcune cose diverse. Si trattava davvero di razzismo, perché Hitler e i nazisti consideravano gli ebrei una razza inferiore. Ora, le parole contano e le mie non fanno eccezione. Mi rammarico dei miei commenti, e mi correggo».

 Il caso Whoopi Goldberg e le battaglie culturali incrociate dell’America. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 02 febbraio 2022.

Durante una puntata del talk show The View, l’attrice ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza». È stata sospesa. Gli attori di Hollywood sono bravissimi a pronunciare frasi scritte da altri, e approvate da produttori e registi. Quando parlano a ruota libera, può succedere un po’ di tutto. L’ultima vittima del fenomeno che i nostri antenati avrebbero visto come molto bizzarro — l’attore considerato maître à penser dalle masse: fino a qualche secolo fa erano tenuti ai margini della società — è Whoopi Goldberg, che durante una puntata del fortunatissimo talk show The View, che conduce con altre colleghe, ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza» ma più genericamente «l’inumanità dell’uomo verso l’uomo». Frase ovviamente senza senso, che però prima dei social media e della mitologica «cancel culture» forse sarebbe anche passata sotto silenzio. Adesso invece l’ha fatta sospendere per due settimane dal programma e riprendere dalla presidente del network Kim Godwin (afroamericana come Goldberg), che ha definito le sue dichiarazioni «sbagliate e offensive».

«Se da un lato Whoopi ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendersi del tempo per riflettere e imparare, i suoi commenti hanno avuto un impatto. L’intera organizzazione di Abc News è in solidarietà con i nostri colleghi, amici, famigliari di religione ebraica, e l’intera comunità», ha spiegato Godwin. Goldberg si era anche scusata con un comunicato via Twitter, ma le scuse non sempre bastano. Non è stata «cancellata» — le sue credenziali progressiste la proteggono dal licenziamento — ma semplicemente messa in castigo: è comunque faticoso da comprendere per gli osservatori non americani come si sia arrivati a questo punto. Da una parte gli attori che si avventurano su terreni scivolosi per chi non ha letto — studiato — abbastanza: terreni come le radici del nazismo, l’ascesa di Hitler, il milieu antisemita tedesco nel quale Mein Kampf trovò terreno fertile. Dall’altra la cosidetta «wokeness», l’attivismo militante progressista americano che fa dell’identità un feticcio e per sua stessa natura ha continuamente bisogno di colpevoli da mettere alla berlina.

La sinistra americana gioca male questa partita mediatica, ormai da decenni: affida i suoi messaggi a celebrità a volte — spesso? — poco attrezzate, andando a scovare esempi di razzismo un po’ ovunque (esempi che, tristemente non mancano perché il problema esiste ed è enorme) e buttando tutto in caciara sui social. La destra lavora invece sotto traccia, nei poco mondani ma importantissimi «school board» locali ormai largamente in mano a repubblicani che dettano le regole nelle scuole, creando scandali che non esistono per togliere dal curriculum e a volte anche dalle biblioteche scolastici i libri non graditi, giudicati cioè poco patriottici. Aspettano i nemici di sinistra sulla proverbiale riva del fiume: tanto le «celebrities» democratiche prima o poi qualche passo falso lo fanno, grande o piccolo.

Enorme come quello della «comedian» che si fece fotografare agitando una finta testa mozzata di Trump, alla maniera dell’Isis. O, appunto, come quello molto sgradevole di Goldberg, mandata in punizione — in ginocchio sui ceci come Fantozzi? — in attesa dell’inevitabile perdono. Cose di altri mondi per noi. Ma che forse aiutano a capire — anche — come mai i democratici fanno così fatica a comunicare decentemente il loro messaggio, con messaggeri di questo tipo. E come mai Joe Biden ha in quest’anno e un mese di governo messo a segno un boom occupazionale storico ma ha un indice di approvazione del 33%, peggiore di quello di Trump tra un impeachment e l’altro.

 Whoopi, bufera sull'Olocausto. Pier Luigi del Viscovo il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi ". «Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi - ha detto Kim Goodwin, presidente della ABC, importante network americano -. Le ho chiesto di prendersi il tempo di riflettere e imparare dall'impatto dei suoi commenti». Invece il Primo Emendamento della Costituzione Americana recita che «il Congresso non emanerà alcuna legge (...) per limitare la libertà di espressione o di stampa». Il potere politico no, ma il potere del marketing sì. Sta tutta qua la vicenda. La sospensione è motivata da commenti non illegali ma solo inopportuni per la sensibilità di alcune persone. Eccoli. «L'Olocausto non fu una questione razziale, ma di disumanità dell'uomo verso l'uomo. È questo il problema. Non importa se sei nero, bianco o ebreo». Poi si è scusata: «Ho detto che l'Olocausto non riguarda la razza ma la disumanità. Avrei dovuto dire che riguarda entrambe». Nel merito, la Goldberg ha ragione e torto. Ha ragione, perché tecnicamente l'ebraismo non è una razza ma una religione e infatti lei spiega che erano tutti bianchi, vittime e carnefici. Ha anche torto, perché nella sostanza non la vedevano così i tedeschi - e nemmeno gli italiani, non ce lo dimentichiamo mai. La persecuzione era fondata sulla differenza, tutta razziale, tra ariani ed ebrei. Però la Goldberg offre una lettura più profonda, antropologica prima che culturale. La capacità di compiere gesti tanto efferati, pur nel nome della razza o della religione, non è la realizzazione cruenta di un'idea, ma una patologica degenerazione dell'uomo. E non dipende dal colore della pelle o dalla fede, come la storia ha dimostrato. Tuttavia, resta un'opinione. Ciò che invece pare devastante è il bavaglio imposto in spregio al Primo Emendamento. Quasi che la differenza tra una grande testata giornalistica del Mondo libero e i terroristi che hanno colpito Charlie Hebdo stia solo nell'uso della lettera invece del mitra. L'obiettivo è lo stesso: mettere a tacere una voce che urta delle sensibilità. L'informazione esiste non per compiacere ma per conoscere i fatti e confrontare le opinioni. Fuori dal perimetro dell'istigazione al crimine, le opinioni vanno criticate, non censurate. Purtroppo, ciò che viene difeso dall'ingerenza del potere politico viene poi assoggettato alle leggi della convenienza commerciale, che suggerisce di non inimicarsi gruppi influenti. Se non è Medioevo questo? Pier Luigi del Viscovo

Le storie e le testimonianze. Giornata della memoria, perché il dovere del ricordo è spento da troppa retorica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Gennaio 2022. 

La memoria muore con la morte di coloro che hanno vissuto gli eventi e ormai sono morti quasi tutti, restando solo coloro che erano bambini che hanno ascoltato e vissuto attraverso il racconto di genitori e nonni. Abbiamo celebrato da poco il Giorno della Memoria, nella data scelta dalle Nazioni unite e che è quella della liberazione dei sopravvissuti di Auschwitz fra montagne di cadaveri, ceneri, cataste di occhiali, scarpe, denti d’oro, capelli, abiti perché il mattatoio per esseri umani ebrei, zingari, omosessuali e nemici del Reich era straordinariamente organizzato, specialmente da quando tutti i campi avevano ricevuto l’ordine di liquidare alla svelta il carico umano accumulato, perché la guerra di Hitler era finita e presto sarebbe arrivata l’ora della giustizia. E si è deciso che quello dovesse essere il giorno del ricordo e abbiamo udito molte volte troppe parole meccaniche, inutili, prove di qualsiasi potere evocativo e anche poco inclini a dare corpo emotivo all’accaduto reale che ormai è sempre più lontano nella conta degli anni, benché sia sempre tragicamente attuale.

Questo è un difetto di tutte le celebrazioni ma in particolare quelle che hanno la pretesa di ingiungere il ricordo senza rinnovare la ferita facendola sanguinare almeno dal centro della pena e dell’indignazione che da qualche parte dovremmo possedere tutti. Come si fa a mantenere la buona intenzione di ricordare? Abbiamo visto più volte nel web ragazzi, per lo più nati nel nuovo millennio, che dicevano, essendo ormai adulti: noi non abbiamo vissuto la guerra mondiale né la guerra fredda e neanche il muro di Berlino. Neanche i nostri genitori hanno vissuto nulla di tutto questo. Eppure. noi esistiamo insieme a voi che un giorno non esisterete più. E poi saremo la totalità di viventi e non avremo più nulla da ricordare. Che cosa significherà allora per noi il Giorno della Memoria? Oggi restano soltanto gli ultimi testimoni, coloro che erano bambini come la senatrice Segre. Io stesso, nel mio minimo, posso considerarmi un testimone perché giocavo nei giardinetti di largo Cairoli appena fuori dal Ghetto con coetanei finiti nel fumo di Auschwitz.

Non c’è altro modo che raccontare storie. Le storie. Giovedì la tv pubblica ha mandato in onda un bellissimo servizio su Rai ragazzi: un programma di undici minuti folgoranti e gentili intitolato “Come foglie al vento” su quel che accadde a Venezia, la città dove fu creato il primo ghetto che dette il suo nome a tutti i ghetti. E lo ha fatto raccontando una storia d’amore limpida e persino sorridente, realizzata da Caterina De Mata e Anna Giurickovic. Dato che ha sfidato la retorica perentoria mostrando un testimone che è figlio di sopravvissuti che racconta qualcosa di non retorico, triste e memorabile come deve essere ciò che resta nella memoria. Un uomo, una troupe della Rai, una barca nei canali porta a visitare luoghi ora muti ma che contengono le urla della caccia all’uomo, ma anche una storia d’amore fra giovani ebrei che vincono, sfuggono alla cattura, attraversano la pancia del mostro generano un figlio che è l’io narrante Riccardo Calimani, scrittore e storico dell’ebraismo e dei al centri della memoria.

Un documentario arricchito da cartoni animati che mostrano i due innamorati come giovani belli, vitali, attraenti, sposati in sinagoga in fretta e furia per fuggire insieme e sopravvivere. Ecco una novità, capace di accendere la memoria: mostrare ebrei avventurosi e belli, innamorati e giovani, espressione dell’unica giusta certezza: dopo l’immane carneficina, il sacrificio umano di massa più diabolico e criminale della storia (che contiene in sé il sacrificio meno ricordato dei gitani, dei prigionieri di guerra, disabili, omosessuali, dei deboli, degli ultimi) tornò a vincere la vita, il mondo riconobbe il diritto non solo di esistenza, ma di impedire che mai più potesse accadere un simile delitto.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La rimozione del male. L’Italia non ha fatto quasi nulla per restituire i beni rubati agli ebrei con il fascismo. Ilaria Pavan su L'Inkiesta l'1 Febbraio 2022.

Come spiega il libro di Ilaria Pavan (Il Mulino), il primo gruppo di lavoro sul tema è stato creato nel 2020, a quasi 80 anni di distanza. In generale, la questione venne evitata fin dal Dopoguerra perché in tanti avevano approfittato, sia in misura economica che sociale, delle conseguenze delle leggi razziali.

A oltre ottant’anni dalla campagna antisemita del fascismo diversi aspetti relativi alle proprietà perdute e ai diritti mai pienamente reintegrati rimangono aperti. Molto resta da esplorare, ad esempio, circa la sorte del patrimonio culturale ebraico andato disperso. Non solo occorrerebbe ancora indagare sul destino di opere d’arte di grande valore, su cui si è solitamente concentra l’attenzione mediatica, ma anche sugli oggetti rituali o sul rilevante patrimonio bibliografico scomparso; o, ancora, sul destino di quelle migliaia di oggetti forse di minore pregio artistico, ma parte della vita di tutti i giorni degli ebrei perseguitati.

Oggetti espressione di quella living room art – come è stata efficacemente definita – che avevano un significato tanto simbolico-affettivo quanto identitario, e che alimentarono assai spesso un fiorente mercato cittadino, se non di quartiere:

Di tutti i nostri beni ritrovammo un tavolo, una scrivania del Seicento, e una credenza della cucina. Non ritrovammo mai più né l’argenteria, né un preziosissimo servizio di piatti di porcellana del Settecento decorato in oro zecchino, né le suppellettili, né i bellissimi mobili antichi autentici, né una natura morta […] di Giorgio Morandi, né una «Maddalena» della Scuola di Guido Reni e tutto il resto che ci può essere in una grande casa. Avendo la mamma, subito dopo la fine della guerra, ritrovato un nostro vaso presso un antiquario di Ferrara, abbiamo sempre pensato che la nostra roba sia stata comprata dagli stessi ferraresi e che sia ancora nelle loro case.

Resa nei mesi successivi alla fine del conflitto dai membri di una famiglia di ebrei di Ferrara che aveva subito la razzia dei propri beni, questa testimonianza illustra con efficacia un fenomeno che, seppure mai quantificato né approfondito, a guerra conclusa dovette risultare piuttosto diffuso. 

Sul problema dei beni artistici, nell’estate del 2020 il ministero della Cultura ha istituito il Gruppo di lavoro per lo studio e la ricerca sui beni culturali sottratti in Italia agli ebrei tra il 1938 e il 1945 a seguito della promulgazione delle leggi razziali, in seno al quale, tuttavia, non siede neppure uno storico.

La nascita, solo nel 2020, del Gruppo di lavoro è significativa del grande ritardo che l’Italia ha registrato anche su questo specifico fronte delle restituzioni, che in altri paesi ormai da tempo costituisce un tema su cui a livello politico-istituzionale diversi governi europei hanno invece investito molto, e molto realizzato.

In anni recenti, proprio le questioni legate al destino dei beni culturali ebraici hanno infatti rappresentato in Europa uno dei terreni privilegiati per misurare i percorsi nazionali di Vergangenheitsbewältigung – lemma che, proveniente dal contesto tedesco, è generalmente utilizzato dalla storiografia per definire i complessi processi di «confronto con il passato», e i modi in cui questi si realizzano.

Se in Italia il recupero, dopo la seconda guerra mondiale, del patrimonio artistico proprietà di musei, enti e istituzioni statali, o religiose, è stato oggetto di attenzione da parte delle istituzioni, e gli studi hanno sottolineato l’alta salienza diplomatica e simbolico-identitaria di quelle politiche, la scomparsa del patrimonio culturale ebraico non ha sollecitato la stessa attenzione.

Non a caso, nel novembre del 2018, in occasione della conferenza che a Berlino ricordava il ventennale dai Washington Principles on Nazi-Confiscated Art, l’Italia era tra i cinque paesi segnalati per l’inerzia con cui stavano affrontando la questione, affiancata da Polonia, Ungheria, Grecia e Spagna:

Le città e le regioni italiane, dove è conservata gran parte delle collezioni artistiche del paese, hanno ignorato i Principi di Washington. Non c’è stata alcuna ricerca sulla provenienza delle opere [conservate nei musei] o censimento di possibili opere d’arte rubate […] da parte del

governo italiano.

Anche il ritardo su questo particolare capitolo delle restituzioni dei beni ebraici si collega al modo in cui in Italia è stata vissuta, e velocemente metabolizzata, la fiammata di interesse suscitata alla fine degli anni Novanta, a livello internazionale, dalle cosiddette Holocaust Litigations. Come ricordato nelle pagine precedenti, neppure le indagini promosse dalla Commissione Anselmi, e le molte evidenze contenute nel suo denso Rapporto conclusivo, sono infatti riuscite a riportare l’attenzione mediatica e politica su questi aspetti della stagione razzista.

Dal lavoro della Commissione era emerso chiaramente come la burocratizzazione dello sterminio, ravvisabile anche nella fase della persecuzione economica degli ebrei – fase che ovunque in Europa aveva preceduto e poi accompagnato quella della deportazione – fosse una categoria da applicare pienamente anche all’Italia. Anche nel caso italiano si era dunque in presenza di quel fenomeno di «transpropriazione» di cui ha scritto Jan Gross:

La discriminazione, la progressiva espropriazione e l’espulsione degli ebrei dalle cariche ricoperte, apre la strada alla mobilità sociale e all’arricchimento del resto della società. In questo modo l’antisemitismo di stato si privatizza per l’appunto sotto forma di molteplici opportunità di miglioramento delle condizioni di vita di tutti coloro che ebrei non sono. Questo processo assume forme diverse a secondo che abbia luogo nel Terzo Reich oppure nei paesi occupati o subalterni alla Germania. Le sue modalità in Polonia sono differenti da quelle in Francia, in Ungheria o in Grecia, ma il fenomeno presenta ovunque un tratto comune accolto con soddisfazione dalle società locali: è un meccanismo di «transpropriazione» e di redistribuzione dei beni ebraici a favore degli ariani.

Ma sul coinvolgimento attivo e diretto della popolazione italiana nell’attacco ai beni ebraici e sulle «molteplici opportunità» che la persecuzione aveva aperto nel paese «a favore degli ariani», grava a tutt’oggi un’ipocrita rimozione, che non è ancora stata messa criticamente in discussione. Una rimozione di lunga durata, la cui origine si colloca subito a ridosso della conclusione del conflitto.

da “Le conseguenze economiche delle leggi razziali”, di Ilaria Pavan, Il Mulino, 2022, pagine 320, euro 25

Mattia Feltri per "la Stampa" il 27 gennaio 2022.

Una ragazzina di nemmeno sedici anni mi racconta che nella sua scuola, soprattutto fra i giovani maschi, l'insulto più diffuso è ebreo di m. Lo si chiama antisemitismo a bassa intensità perché non ha conseguenze, ed è peggio, lo rende senso comune e quotidiano. 

Dobbiamo pensarci e non solo oggi, nel Giorno della memoria, ricorrenza che corre il rischio, fra i tanti, di marmorizzarsi esclusivamente in quell'enormità dello sprofondo umano che è stata Auschwitz. Come se l'antisemitismo fosse nato e morto nei lager nazisti, mentre ha attraversato le terre e i millenni dalla Bibbia allo smartphone, e congiunge noi agli antichi con un unico filo dell'infamia.

 In Italia si assommano notizie che sembravano perdute, appunto, negli esercizi della memoria: a Livorno un ragazzino è stato preso a calci e sputi da coetanei perché è ebreo; lo scorso mese una studentessa è stata immobilizzata e ricoperta di prosciutto dalle compagne perché è ebrea.

Ogni indagine segnala in crescita gli episodi di antisemitismo da molti anni, e specialmente in questi di pandemia, in cui l'inafferrabilità della minaccia virale ingrassa le superstizioni. I social, luogo delle viscere per loro natura, diventano il ricettacolo di quelle eterne menzogne che sono le cariatidi dell'antisemitismo: gli ebrei sono avidi, gli ebrei sono truffatori, gli ebrei sono doppi, gli ebrei sono dei succhiatori di sangue, gli ebrei complottano contro di noi. Nel Giorno della memoria dobbiamo anzitutto ricordarci che l'antisemitismo ancora erutta da sotto i nostri rancori perché, come disse l'immenso Vasilij Grossman, dimmi di quali colpe accusi gli ebrei, ti dirò quali colpe hai.

Giornata della Memoria, Mafalda di Savoia e la testimone di Geova nel lager. LUCIANA DE LUCA su Il Quotidiano del Sud il 27 Gennaio 2022.

MARIA e Mafalda, la serva e la padrona. Eppure tra loro nacque una relazione speciale che durò fino alla morte della principessa di casa Savoia, avvenuta il 28 agosto del 1944, nel campo di concentramento di Buchenwald in Germania, dove fu internata con il falso nome di Frau von Weber.

Alla figlia del re Vittorio Emanuele III, arrestata a Roma il 23 settembre del 1943, le SS assegnarono un’aiutante, Maria Ruhnau, che era una delle tante testimoni di Geova perseguitate e imprigionate per sua fede. Sapendo che la donna era guidata da elevati princìpi morali e che per questo diceva sempre la verità, i nazisti speravano di raccogliere informazioni confidenziali sulla famiglia reale, ma Maria non tradì mai Mafalda e anzi, diventò la sua confidente, la sarta che le adattò i vestiti recuperati nel campo e che le cedette persino le sue scarpe. La principessa le si affezionò al punto tale che prima di morire lasciò in dono all’amica l’unica cosa che le rimaneva: l’orologio che aveva al polso.

I nazisti in preda al loro delirio di onnipotenza, presero di mira milioni di persone a causa della loro razza, nazionalità o ideologia politica. Tra questi ci furono migliaia di testimoni di Geova, che furono perseguitati per la loro fede cristiana. I Testimoni di Geova, allora conosciuti come “Studenti Biblici”, furono gli unici sotto il Terzo Reich a essere perseguitati unicamente sulla base delle loro convinzioni religiose. Il regime nazista li bollò come nemici dello Stato per il loro aperto rifiuto di accettare anche gli aspetti più marginali del nazismo contrari alla loro fede e al loro credo: si rifiutavano di fare il saluto “Heil Hitler”, di prendere parte ad azioni razziste e violente o di arruolarsi nell’esercito tedesco. Inoltre, nelle loro pubblicazioni identificavano pubblicamente i mali del regime, incluso ciò che stava accadendo agli ebrei.

I Testimoni furono tra i primi ad essere mandati nei campi di concentramento, dove portavano un simbolo sull’uniforme: il triangolo viola. Dei circa 35.000 Testimoni presenti nell’Europa occupata dai nazisti, più di un terzo subì una persecuzione diretta. La maggior parte fu arrestata e imprigionata. Centinaia dei loro figli furono affidati a famiglie naziste o mandati nei riformatori. Circa 4.200 Testimoni finirono nei campi di concentramento nazisti con l’intenzione dichiarata di eliminarli dalla storia tedesca. Si stima che morirono 1.600 Testimoni, di cui 370 per esecuzione.

I nazisti cercarono di infrangere anche le loro convinzioni religiose offrendogli la libertà in cambio di una promessa di obbedienza. A nessun altro fu data questa possibilità. La dichiarazione di abiura (emessa a partire dal 1938) richiedeva al firmatario di rinunciare alla propria fede, denunciare altri Testimoni alla polizia, sottomettersi completamente al governo nazista e difendere la Patria con le armi in mano. I funzionari delle prigioni e dei campi spesso usavano la tortura e le privazioni per indurre i Testimoni a firmare, ma un numero estremamente basso abiurò la propria fede. Maria, una “bibelforscher”, una studentessa biblica, rimase fedele ai suoi principi e diventò il punto di riferimento della principessa Mafalda, colpevole di essere italiana e di appartenere alla famiglia reale. Le due donne alloggiavano nella Baracca 15, riservata agli “internati speciali”, ed era composta da dieci camerette e divisa in due parti da una piccola separazione. In entrambe le parti si trovavano una cucina e un bagno. Intorno alla baracca c’era un giardinetto circondato da un muro alto circa tre metri e mezzo, sormontato da un filo spinato inclinato verso l’esterno.

Da un rapporto inviato a Sua Maestà Vittorio Emanuele si ricavarono alcune importanti informazioni sulle condizioni di vita nel campo di Mafalda e Maria che poterono godere di una condizione privilegiata rispetto agli altri internati: il letto era fatto con semplici tavolette sulle quali era posto un saccone riempito di “paglia di legno” come materasso. Il vitto poteva considerarsi sufficiente come quantità (pane nero, margarina, surrogato di caffè non zuccherato, zuppa d’orzo e carne insaccata). Ma Mafalda era dimagrita in maniera impressionante e per lungo tempo non ricevette alcun cambio di vestiario.

Il 24 agosto del 1944, a mezzogiorno in punto, gli aerei alleati bombardarono il campo colpendo anche la baracca 15 e Mafalda fu ferita gravemente. La principessa poco dopo morì e di Maria non si seppe più nulla.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandiera dell’Italia riunita.

Teresa Motta, la bibliotecaria che accolse internati ebrei e antifascisti. Anna Martino su La Repubblica il 27 Gennaio 2022.  

Nel volume della ricercatrice Antonella Trombone il ritratto di una giovane maestra e funzionaria che svolse fino in fondo il suo servizio alla comunità, mettendo a repentaglio se stessa per consentire l'accesso alla biblioteca provinciale di Potenza vietato alle "persone di razza non ariana". 

È il 1942 quando il governo italiano dispone il divieto di entrata alle biblioteche pubbliche governative alle "persone di razza non ariana". Agli ebrei - e non solo - è negato l'accesso alle sale di lettura, ai cataloghi, al prestito, alle informazioni bibliografiche. A Potenza una giovane bibliotecaria apre loro le porte.

Ebrei stranieri, politici e intellettuali antifascisti internati nei campi del potentino frequentano abitualmente i luoghi della biblioteca provinciale di Potenza.

La caccia agli ebrei di Stalin, l’ultima purga dell’Urss. Andrea Muratore su Inside Over il 29 gennaio 2022.  

L’Unione Sovietica di Stalin è stata, nella seconda guerra mondiale, la nazione grazie alla cui avanzata si sono potuti scoprire i peggiori orrori associabili al regime nazista, primi fra tutti i campi di sterminio liberati dall’Armata Rossa tra il 1944 e il 1945 nella sua avanzata verso Occidente. Avendo, inoltre, subito più perdite di ogni altro Paese per la guerra e per le politiche di pulizia etnica e di sterminio condotte dai tedeschi, prima fra tutti la “Soluzione Finale” della questione ebraica, l’Urss staliniana volle porre nell’immediato dopoguerra la questione del superamento dell’oppressione di popoli come gli ebrei in cima all’agenda politica. Stalin contribuì in maniera decisiva alla nascita di Israele nel 1948, i suoi alleati (Cecoslovacchia in testa) armarono Tel Aviv fino ai denti, il blocco comunista lo sostenne in sede Onu.

Ma negli ultimi anni del regime il graduale avvicinamento di Tel Aviv all’Occidente, unitamente all’apertura di frange sotterranee e di settori del potere sovietico a una distensione della Guerra Fredda in vista della successione a Stalin portò gli ebrei nel mirino della dittatura bolscevica come potenziale “popolo ostile”. La morte di Stalin interruppe, in tal senso, quella che fu l’ultima purga del trentennio del suo dominio sullo Stato comunista: la repressione del presunto complotto dei medici ebrei. Una delle pagine meno conosciute della storia dell’Urss.

L'ultima campagna di terrore e le sue origini

Il 13 gennaio 1953 Stalin parlò alla popolazion sovietica e le annunciò l’esistenza del “complotto dei medici” : secondo le accuse del dittatore sovietico, nove medici che curavano personalmente gli inquilini Cremlino e il loro entourage, di cui sei ebrei, avevano assassinato tra il 1945 e il 1948 alcuni stretti collaboratori di Stalin e si preparavano a uccidere i maggiori dirigenti politici e militari dell’Urss, secondo gli ordini ricevuti “dagli imperialisti occidentali e dai sionisti”.

Così facendo l’anziano dittatore voleva rendere esplicito un clima di tensione e terrore per alzare l’escalation di una repressione già avviata da alcuni anni con attacchi mirati a esponenti dell’apparato, molti dei quali ebrei.

Va sottolineato un fatto importante: gli ebrei nella Rivoluzione bolscevica e nell’edificazione dell’Urss erano stati a lungo protagonisti. Fortemente repressi dall’impero zarista, ben inseriti nelle città nei club culturali e politici, i membri dell’élite ebraica di aree come Mosca e San Pietroburgo avevano contribuito sia al progetto di Lenin che all’edificazione del regime di Stalin. Ebreo era Lazar Kaganovic ed ebree erano le consorti di due suoi colleghi nel Politburo del Partito Comunista, Vjaceslav Molotov e Kliment Vorosilov, così come l’ex rivale di Stalin Lev Trotskij, comandante dell’Armata Rossa durante la guerra civile. Tutti gli ebrei dell’Europa orientale avevano poi visto i sovietici come liberatori proprio perché la scelta dei nazisti era stata il loro sterminio. Gli ebrei avevano combattuto nell’Armata Rossa contro i tedeschi ricevendo in proporzione alla popolazione un numero di onorificenze maggiore di ogni altro gruppo etnico.

Tuttavia, già pochi mesi dopo la nascita di Israele, nel maggio 1948, il regime staliniano iniziò a vedere gli ebrei come “quinte colonne” ostili. “Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949” – scrive Timothy Snyder in Terre di sangue – “la vita pubblica in Unione Sovietica virò verso l’antisemitismo” anche remando contro la genuina simpatia della popolazione di molte aree del Paese per uomini e donne che avevano sofferto privazioni ancora più gravi delle loro durante l’invasione e l’occupazione nazista di parte del Paese. “Stalin aveva deciso che gli ebrei stavano influenzando lo Stato sovietico più di quanto i sovietici stessero facendo con quello ebraico” e nel quadro generale reso teso dal blocco di Berlino Ovest da parte dell’Urss, dal consolidamento dei due blocchi su scala globale, dalla minaccia di una nuova guerra mondiale, dalla corsa sovietica verso la parità atomica il regime pensò a una nuova purga per compattare il fronte interno come fatto con il Grande Terrore del 1937-1938.

L'architetto dell'antisemitismo di Stalin

In quest’ottica, gli ebrei sovietici divennero un bersaglio naturale. Questo per un triplice ordine di motivi. In primo luogo, la Grande Guerra Patriottica contro la Germania aveva risvegliato nell’Urss il nazionalismo panrusso come collante dello sforzo bellico e l’idea della primazia dell’etnia russa nel quadro politico dell’Unione, facendo rifiorire le pulsioni più ataviche tra cui la diffidenza verso gli ebrei. In secondo luogo, si ricominciò a perseguitare ogni tipo di nazionalismo potesse essere ritenuto in qualche modo ostile, e in quest’ottica, nota Osservatorio Russia, ” le accuse rivolte agli intellettuali ebrei di scarsa adesione agli interessi della «patria socialista», dedicandosi alla difesa del particolarismo identitario e l’accusa di apoliticismo e di essere estranei alla causa dell’«internazionalismo proletario», furono tra i vettori che rimodellarono l’atteggiamento del Cremlino verso gli ebrei”. In terzo luogo, nonostante proprio gli ideali egalitari e emancipatori della Rivoluzione fossero stati tra i moventi dell’avvicinamento di molti ebrei alla causa bolscevica, nel secondo dopoguerra la natura cosmopolita e fluida della cultura ebraica, capace di adattarsi a contesti diversi, fu tra i motivi che giustificò il sospetto del regime di Stalin proprio a causa del suo presunto percorso di convergenza con l’individualismo borghese di stampa occidentale.

Gli ebrei, dunque, erano visti di traverso in quanto presunti nazionalisti sostenitori di una potenza straniera che l’Urss aveva per prima riconosciuto e da cui poi si era allontanata, Israele, ma anche perché ritenuti apolidi e internazionalisti. Due tesi che sarebbe stato spericolato portare alla convergenza, ma che nel paranoico clima dell’Urss postbellica trovarono un cantore in Andrej Zdanov (1896-1948).

Zdanov fu fedelissimo braccio destro di Stalin, responsabile della politica culturale e della propaganda, un Goebbels rosso dalla profondissima capacità di comunicazione. Nel 1946 coniò la sua celebre dottrina in cui il mondo veniva diviso in due campi: quello “imperialista”, guidato dagli Stati Uniti, e quello “democratico”, guidato dall’Urss, i cui avversari venivano dichiarati esplicitamente rivali della causa nazionale, dunque traditori. Prese il via la cosiddetta Zdanovscina, il regno del terrore culturale contro l’intellighenzia. Per due anni, dal 1946 al 1948 (e cioè fino alla sua morte) Zdanov divenne l’occhio di Stalin su medicina, letteratura, filosofia, linguistica (della quale il dittatore era fanaticamente appassionato), economia. La cultura ebraica ne fu pesantemente penalizzata, e si preparò l’identificazione tra l’ebreo, il borghese e l’Occidente, dunque il mondo imperialista. Ironia della sorte, una chiave di lettura non dissimile, nella semplicità della relazione causa-effetto, da quella nazionalsocialista.

Fino al 1952, nota Luis Rapport nel saggio La guerra di Stalin contro gli ebrei, ” gli ebrei vennero estromessi ed eliminati dalle file del Partito e dai gangli vitali della società sovietica” nel silenzio e inesorabilmente: “nella nuova edizione della grande enciclopedia sovietica, pubblicata nel 1952, la voce “Ebrei” passò dalle 54 pagine dell’edizione precedente – suddivise per storia cultura e religione – a due misere pagine. In quella due pagine, la frase: “Gli ebrei non costituiscono una nazione”. I vertici dell’Esercito vennero ripuliti di 63 generali e 260 colonnelli ebrei, estromessi o eliminati tra il 1948 e il 1953”, mentre uomini celebri dell’intellighenzia ebraica come il direttore del Teatro yiddish di Mosca Solomon Mikhoels, furono fatti assassinare per essersi opposti al nuovo clima.

La morte improvvisa di Zdanov, nel 1948, segnò una nuova fase della repressione. E sarebbe stato il viatico per il lancio dell’ultima, grande purga immaginata dal dittatore sovietico. Una purga che solo la sua morte e l’eliminazione successiva del suo “boia”, Lavrentij Berija, avrebbe impedito di portare a compimento.

Il complotto dei medici

Già dal 1949 iniziarono gli arresti di importanti personalità ebraiche, mentre il 27 novembre del 1951 finirono in carcere per opera dei proxy sovietici di Praga i politici ebrei Rudolf Slànsky, segretario generale del partito comunista cecoslovacco, e il suo vice Bedrich Geminder, che sarebbero stati processati e giustiziati un anno dopo, ironia della sorte proprio leader del Paese che su ordine dell’Urss aveva rifornito di armi Israele nel 1948.

Nel maggio 1952 in Unione Sovietica furono invece processate quindici persone collegate al disciolto  Comitato Ebraico Antifascista che proprio in Mikhoels aveva avuto il suo presidente. Essi erano ritenuti colpevoli di aver chiesto otto anni prima a Stalin, di istituire in Crimea una Repubblica ebrea in vece del remoto territorio assegnato agli Ebrei in Estremo Oriente. Il processo si sarebbe concluso concluso a luglio con la condanna a morte di 13 imputati. Nel novembre dello stesso anno la stampa ucraina annunciava come a Kiev molti ebrei fossero stati fucilati per “ostruzionismo controrivoluzionario”. Il romanziere Il’ja Erenburg, il violinista David Ojstrach, lo scrittore Vasilij Grossman furono emarginati dalla vita pubblica del Paese in quanto ebrei.

Tutto era maturo perché la campagna informale assumesse strutturazione: la caccia agli ebrei, nell’intenzione di Stalin, avrebbe dovuto sostanziarsi nell’azzeramento della loro intellighenzia, in deportazioni nei gulag e in esecuzioni di membri di spicco per mostrare al Paese la volontà di reprimere ogni frangia ritenuta ostile al potere sovietico.

“Verso la fine di agosto del 1948”, nota Rapport, “dopo l’improvvisa morte di Zdanov, una sconosciuta addetta al reparto radiologico dell’ospedale del Cremlino – Ljdija Timasuk – esaminò, chissà come e per conto suo, gli elettrocardiogrammi di Zdanov, e informò gli organi di sicurezza sulla possibilità che l’illustre membro d’apparato non fosse deceduto di morte naturale. La Timasuk era solo una paramedica, da sempre divorata dall’odio per la propria superiore (ebrea) direttrice del reparto elettrocardiografico, Sofija Karpaj (in odore di arresto, che puntualmente avvenne nell’estate del 1951)”; quattro anni dopo, una sua lettera avrebbe svolto da catalizzatore per la campagna annunciata da Stalin all’inizio del 1953.

Nell’ottobre del 1952 Semyon Ignatyev, capo dell’MGB, informò il capo di Stato che erano state trovate prove in merito all’esistenza di un complotto per eliminare i dirigenti del partito. Colpito dalla rivelazione, il dittatore ordinò l’arresto dei cospiratori, nove medici di cui sei ebrei, e ordinò alla Pravda di preparare il terreno mediatico alla campagna anti-ebraica: epurazioni e avvisaglie di pogrom cominciarono a svilupparsi per tutto il Paese, e si parla di circa 2mila vittime tra la fine del 1952 e l’inizio del 1953.

La morte di Stalin interruppe questo pericoloso trend. L’Urss, nella destalinizzazione, non proseguì in questa paranoica persecuzione. Ma tuttora è impossibile sapere cosa sarebbe stato degli ebrei sovietici, più volte perseguitati nelle terre rese sanguinanti dai due totalitarismi del Novecento, nei mesi e negli anni successivi. Misteri di una superpotenza comunista dalle enormi contraddizioni. Andata vicina a risvegliare i demoni che aveva sconfitto con la forza delle armi pochi anni prima.

Il più grande sterminio del '900. Perché il 27 gennaio si celebra il Giorno della Memoria, la commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

Il 27 gennaio si celebra in tutto il mondo la Giornata della Memoria. Le commemorazioni per ricordare l’Olocausto, lo sterminio degli ebrei, di avversari politici e di altre minoranze etniche a opera del regime nazista e dei suoi alleati che tra il 1933 e il 1945 (dati dell’Holocaust Memorial Museum di Washington) fece tra 15 e 17 milioni di vittime. Di questi tra cinque e sei milioni di ebrei. A designare la data la risoluzione 60/7 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del primo novembre 2005 durante la 42esima riunione plenaria.

Il 27 gennaio è diventata la data simbolica della Shoah (in ebraico “disastro”, “catastrofe”) perché il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche della 60esima Armata del “1° Fronte ucraino” scoprirono e liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Il complesso, nei pressi della città polacca di Oświęcim, era il più grande complesso di sterminio realizzato dai nazisti. È diventato il simbolo del più grande genocidio del 900. Oggi accoglie milioni di visitatori all’anno.

La scoperta del campo di Auschwitz rivelò al mondo lo sterminio dell’Olocausto. Dieci mesi prima di Auschwitz l’armata sovietica aveva liberato il campo di concentramento di Majdanek. Dal 1979 il campo di concentramento e sterminio nazista di Auschwitz Birkenau è Patrimonio dell’Umanità UNESCO. Ogni anno, in tutto il mondo, si commemora la Shoah in tutto il mondo con cerimonie ufficiali e occasioni di incontro per ricordare la pagina più orrenda del 20esimo secolo.

Le iniziative, in Italia, si svolgeranno quest’anno nelle scuole, in Parlamento, nei Comuni, nelle televisioni. Alle 11:00 le celebrazioni ufficiali al Palazzo del Quirinale con il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il premier dimissionario Giuseppe Conte, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, la Presidente dell’Ucei (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane), Noemi Di Segni e Sami Modiano, sopravvissuto all’Olocausto.

“Ricordare è una espressione di umanità, ricordare è segno di civiltà, ricordare è condizione per un futuro migliore di pace e di fraternità, ricordare è anche stare attenti perché queste cose possono succedere un’altra volta, incominciando dalle proposte ideologiche che vogliono salvare un popolo e finendo a distruggere un popolo e l’umanità. State attenti a come è incominciata questa strada di morte, di sterminio, di brutalità”, ha dichiarato Papa Francesco all’udienza generale in occasione del Giorno della Memoria. Antonio Lamorte

27 GENNAIO - GIORNO DELLA MEMORIA. “Ho visto mamme costrette ad uccidere il proprio figlio”. I terribili ricordi di Elisa Springer. Con gli occhi lucidi, nell’intervista la testimone di tante sofferenza racconta forse il più atroce dei ricordi.

Marzia Baldari su La Voce di Manduria giovedì 27 gennaio 2022.

In quaranta minuti, all’incirca, di video registrazione Elisa Springer scuce i ricordi prima della sua infanzia e adolescenza viennesi, poi della morte dei suoi familiari sino alla sua deportazione nei diversi campi di concentramento. La sua storia, però, s’incrocia anche con quelle di altre donne fantasma incontrate in questo suo viaggio di memoria e salvezza. Donne costrette a uccidere i propri figli, cicli mestruali interrotti dalle sperimentazioni dei nazisti attraverso farmaci sciolti nei miseri pasti e cadaveri costretta scavalcare. Racconta la Springer, «La vita per noi donne nei campi era difficile. È stata una umiliazione tremenda, anche tra di noi. Poi ci si abitua, perché vuoi o non vuoi ti devi abituare. C’erano donne incinte».

Con gli occhi lucidi, nell’intervista la testimone di tante sofferenza racconta forse il più atroce dei ricordi. «Una donna che aveva appena partorito è stata costretta ad uccidere il proprio figlio, non le hanno permesso di allattarlo dopo aver partorito là dentro. Le hanno fasciato il seno per non farla allattare». E ancora ricordi di giovani mamme e adolescenti ebree private dai nazisti della propria umanità e del proprio ciclo per scoprire quale reazione potessero avere. 

Senza paura di morire o della morte, la vera tragedia per la signora Springer è quanto la sete di potere e denaro abbia portato la vita umana a non contare più nulla. «Se non sappiamo perdonare, tendere la mano anche al nemico, se non avviene questo non ci sarà mai pace – racconta la sopravvissuta. L’uomo di oggi ha perduto la propria dignità e l’amore per se stesso. Se non ha stima  e amore di se stesso come può amare il prossimo?». Terribili ricordi della sua storia da deportata che s’intrecciano con queste donne senza nome e dal volto sbiadito incontrate nei diversi campi di concentramento. A vent’anni dalla sua scomparsa, l’obbligo morale di ricordare persiste in diverse forme proprio nella città messapica, Manduria, dove la Springer ha trascorso numerosi anni della sua vita dopo la sua liberazione e dove è stata sepolta. Una città che non può dimenticare le sue confessioni strazianti e tutte le vittime dell’Olocausto, onorandola annualmente come meglio può. Marzia Baldari

Raffaele Mattioli, il banchiere che voleva salvare i dipendenti ebrei. PIERLUIGI PANZA su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.

Intesa Sanpaolo e Chora presentano un podcast in sei episodi di mezz’ora ciascuno. Ogni puntata è dedicata a un addetto Comit che il presidente cercò di sottrarre alla persecuzione

«Ebrei onorari» erano chiamati, per scherno, i difensori degli ebrei negli anni della propaganda antisemita. Raffaele Mattioli, banchiere antifascista allora presidente della Banca Commerciale Italiana (poi confluita in Intesa Sanpaolo), pur non essendo ebreo aveva scelto per sé stesso tale definizione per affermare la sua vicinanza al mondo ebraico e il suo impegno per il salvataggio di tanti cittadini. Oggi, in occasione del Giorno della Memoria, Intesa Sanpaolo e Chora — podcast company italiana — presentano L’Ebreo Onorario, una serie podcast realizzati con la collaborazione dell’Archivio storico Intesa Sanpaolo. Questo aspetto della vicenda di Mattioli viene raccontato in sei episodi progressivamente disponibili su Intesa Sanpaolo On Air, piattaforma di contenuti audio della Banca che raccoglie voci, storie e idee con oltre 700 episodi e 5 milioni di stream dal lancio, avvenuto nel giugno 2020 (disponibili anche su choramedia.com e sulle principali piattaforme audio). La voce è quella di Camilla Ronzullo, autrice milanese conosciuta come Zelda was a writer.

Sono sei storie di mezz’ora ciascuna relative a un dipendente Comit che Mattioli e altri uomini della banca hanno provato a salvare dalla deportazione. Si parte dalla corrispondenza tra il ragioniere Guido Schwarz e il collega Tiburzio Pinter. Il 1° marzo del 1939, Schwarz fu forzatamente mandato in pensione a causa delle leggi razziali. Grazie ai colleghi riuscì a ottenere un visto di lavoro per il Brasile, ma le cose non furono semplici. Quanto a Tiburzio Pinter, fu assunto dalla Comit nel 1926 alla filiale di Fiume, dove prestò servizio fino al forzato pensionamento del 28 febbraio 1939. Dal 1° dicembre ’43 Pinter fu nascosto in vari alloggi di fortuna.

Antonello Gerbi è stato non solo un dipendente Comit, ma anche uno storico e un critico cinematografico. Anche la sua vita fu stravolta dalle leggi razziali, ma Mattioli giocò d’anticipo. Nel 1938 lo mandò a Lima per farlo lavorare a un saggio sull’economia peruviana. Gerbi restò in Perù fino al 1948: nel podcast ascolteremo le testimonianze del figlio, il saggista Sandro Gerbi.

Werner Prager era un libraio antiquario berlinese che, per sfuggire dal nazismo, si trasferì in Italia nel 1937. Non aveva rapporto con la Comit, solo con Mattioli, che era un bibliofilo. Fu arrestato ma, grazie all’intercessione di Massimiliano Majnoni della Comit di Roma fu assunto in Vaticano come bibliotecario e salvato insieme alla famiglia.

Nel 1941 dopo l’occupazione tedesca della Jugoslavia e la creazione dello Stato ustascia, Hermann Schossberger fu preso di mira dai croati. Giuseppe Zuccoli, direttore centrale Comit, intercedette per lui presso Ante Pavelic, il capo degli ustascia, ma ottenne solo di fargli avere l’esonero di portare la stella di David. Fu licenziato il 30 settembre 1942 e si deduce che fu deportato ad Auschwitz.

Infine, si racconta la storia di Carlo Morpurgo, che dopo il pensionamento forzato tornò a Trieste, dove divenne segretario della Comunità ebraica. In questo ruolo nell’estate del ’43 si prodigò per aiutare famiglie ebree a mettersi in salvo. Il 20 gennaio 1944 fu catturato dai tedeschi e poi deportato.

In ogni storia ampi flashback consentono di ripercorrere la scelta antifascista di Mattioli iniziata nel 1919, quando partecipa da osservatore all’Impresa di Fiume di d’Annunzio 

Ricominciare dopo Auschwitz. Vita, memoria e speranza per Edith Bruck. IDA BOZZI su Il Corriere della Sera il 19 gennaio 2022.

Su «7» l’intervista alla scrittrice ebrea che venne deportata dall’Ungheria. Eventi in tutt’Italia per il 27 gennaio, Giorno della Memoria, tra testimonianze, dibattiti, spettacoli, incontri.

Ad Auschwitz, la fila di deportati dov’era sua madre andò diretta alla camera a gas. Lei si salvò soltanto perché si ritrovò, spinta via, nella fila a fianco: in vista del Giorno della Memoria, venerdì 21 su «7» la scrittrice e poetessa Edith Bruck — che nel 2021 è stata nominata Cavaliere di Gran Croce da Sergio Mattarella e ha ricevuto la visita di Papa Francesco — si racconta dalla sua casa romana nell’ampio servizio di copertina del settimanale, in un’intervista di Alessia Rastelli.

Lo sguardo di Bruck, che ha vissuto la tragedia dei campi di sterminio, testimonia con lucidità estrema l’indicibile. Lo ha fatto per tutta la vita nelle scuole, e nei suoi libri. E lo fa anche in Lettera alla madre (la nuova edizione esce giovedì 19 da La nave di Teseo) nella forma di un’epistola postuma a quella mamma persa nel lager, che era così diversa da lei adolescente ma alla quale era visceralmente unita. Già l’anno scorso, inoltre, l’autrice ha vinto lo Strega Giovani ed è stata finalista al Premio Strega con Il pane perduto (pubblicato sempre da La nave di Teseo), in cui ripercorreva la sua esistenza.

La copertina del numero «7» che esce il 21 gennaio

Nell’intervista a «7» Bruck ricorda sia chi le chiese, a Bergen Belsen, «se sopravvivi, racconta anche per noi», sia il difficile ritorno alla vita dopo il lager. Tra le prove che l’avrebbero ancora attesa ci sarebbe stata la perdita di una figura come Primo Levi, che era sua amico e le telefonò quattro giorni prima della scomparsa. Ma Bruck rievoca anche ciò che le ha dato forza, come l’incontro con il poeta e regista Nelo Risi, poi suo marito, il valore della scrittura, per lei «gonfia di parole», come testimonianza e impegno. La scrittrice osserva anche il tempo attuale, i nazionalismi che montano (incluso quello di Orbán, nell’Ungheria che le ha dato i natali), l’odio diffuso anche online. Uno sguardo di poetessa, che si allarga alla pandemia, con il suo pianto per le bare sui camion, il silenzio dei giorni del lockdown, di cui ha scritto nei suoi versi.

La testimonianza

Testimonianze come quella di Edith Bruck, ma anche dibattiti, incontri, concerti, ritornano (quest’anno anche in presenza, con le adeguate norme di sicurezza) a celebrare il Giorno della Memoria, il 27 gennaio. Tra gli eventi organizzati a Roma dalla Fondazione Museo della Shoah, ci sarà Passaggi di Memoria, il 27 gennaio al Teatro Palladium di Roma (ore 20): dopo i saluti del presidente della Fondazione Mario Venezia, in scena un monologo di Stefano Massini, cui seguirà un incontro con Edith Bruck; tra i partecipanti, Furio Colombo, Micol Pavoncello, il testimone Sami Modiano in video.

Rigurgito pericoloso è il negazionismo: ne parla, a Roma, Donatella Di Cesare, lunedì 24, in presenza, al Cinema Farnese (ore 20). Al tema, la filosofa ha dedicato Se Auschwitz è nulla. Contro il negazionismo (Bollati Boringhieri), che presenterà con Mario Venezia, Marco Damilano, direttore de «L’Espresso», il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, e il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi.

Il Giardino dei Giusti

Numerosi gli eventi anche a Milano. Gariwo, la foresta dei Giusti propone martedì 25 lo spettacolo Il Memorioso. Breve guida alla memoria del bene, ispirato ai libri di Gabriele Nissim (Centro Asteria, ore 10). Giovedì 27 l’associazione offrirà anche agli studenti visite guidate al Giardino dei Giusti. E intanto propone il volume collettaneo Domande sulla memoria (pubblicato con l’editrice Cafoscarina), con contributi di noti studiosi, tra i quali Francesco M. Cataluccio, Marcello Flores, Anna Foa. Il libro parte dalla memoria imprescindibile della Shoah, per riflettere anche su cosa accade oggi ad altri popoli. E fare in modo che «Mai più» sia un impegno per presente e futuro.

Le visite, gli incontri

Organizza un programma in presenza e in digitale il Memoriale della Shoah di Milano, che conserva la memoria di un luogo terribile da cui partirono i treni per i lager. In presenza, martedì 25, ospita la proiezione del documentario 1938: lo sport italiano contro gli ebrei, ideato da Matteo Marani e prodotto da Sky, e un dibattito con Roberto Jarach, presidente della Fondazione del Memoriale, Federico Ferri, direttore responsabile di Sky, e altri (ore 18.30). Il 27, inoltre,il Memoriale sarà aperto alle visite gratuite: l’accoglienza sarà gestita in collaborazione con i detenuti della 2ª Casa di Reclusione di Milano Bollate. Denso anche il programma sulla pagina Facebook del Memoriale: tra gli incontri, lunedì 24 (ore 18) si parla di Diritto ed ebraismo, con Giorgio Sacerdoti, Piergaetano Marchetti, Daniela Dawan, Marco Vigevani; il 30 (ore 15) l’incontro con Marilisa D’Amico e Milena Santerini.

Il ricordo a teatro

Al Teatro alla Scala di Milano, nel ridotto dei palchi, il 24 (ore 16.30) si tiene il Concerto per il Giorno della Memoria, organizzato da Comune, Anpi e Associazione Figli della Shoah. Al Conservatorio Verdi di Milano, il 27 (ore 20.30) il concerto La musica proibita come strumento di resistenza. Blues, Swing e Jazz organizzato con Figli della Shoah, Fondazioni Cdec e Memoriale della Shoah. Anche a Venezia, al Teatro La Fenice, il 23 (ore 11), il reading. Tra il mare e la sabbia.

Ragazzi

Tra le numerose iniziative per i più giovani, il 27 gennaio l’evento dedicato alle scuole Troppo piccolo il cielo. Musiche, letture e testimonianze dal ghetto di Terezín al Conservatorio di Milano, organizzato dall’associazione Figli della Shoah (che lo trasmette dal suo canale YouTube) e a cura di Matteo Corradini. L’incontro ricorda i bambini di Terezín, dei quali sono arrivate fino a noi alcune migliaia di disegni e qualche decina di poesie.

Sardegna: Odissea di un internato

Chi pesava meno di 35 chili veniva ucciso: il prigioniero Vittorio Palmas, soldato, ne pesava 37 e si salvò. Sopravvissuto al lager di Bergen Belsen, ricordò: «Sono vivo per 2 chili». Si ispira alla sua storia, raccontata nel libro di Giacomo Mameli La ghianda è una ciliegia (Il Maestrale) lo spettacolo Storia di un uomo magro, del regista attore Paolo Floris: per iniziativa dell’Associazione Pane e Cioccolata, e con il sostegno della Fondazione di Sardegna, lo spettacolo celebrerà il Giorno della Memoria con quindici rappresentazioni in tredici centri della Sardegna, fino al 2 febbraio, coinvolgendo 1.600 studenti delle scuole medie e superiori. Lo spettacolo di Floris rievoca la vita del soldato sardo, la prigionia nel lager e il destino di chi non fece ritorno: morì nello stesso lager anche Anne Frank. Prima del recital, il canto del coro «Murales» di Orgosolo. Tra le repliche dello spettacolo, appuntamento giovedì 20 gennaio a Lanusei (Nuoro), venerdì 21 a Oschiri (Sassari), e giovedì 27 a Oristano e a Orgosolo.

La data del 27 gennaio

Il Giorno della Memoria è stato istituito per legge nel 2000 in Italia e a livello internazionale nel 2005 dall’Onu per ricordare le vittime dello sterminio nazista degli ebrei compiuto durante la Seconda guerra mondiale. Come data è stato scelto il 27 gennaio, giorno nel quale, nel 1945 le truppe sovietiche liberarono il lager di Auschwitz-Birkenau, principale campo di sterminio utilizzato dalle SS per eliminare gli ebrei deportati dai Paesi occupati di tutta Europa 

Giorno della Memoria, storia (mai raccontata prima) del ragazzo che beffò i nazisti vestendo la camicia nera. Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 27 gennaio 2022.

Genitori ebrei, nel 1938 il padre aveva voluto convertire la famiglia al cattolicesimo contro il parere della madre. Lui, a 16 anni, scelse di fuggire dal nascondiglio dove si erano rifugiati. Catturato dai fascisti prima e dai nazisti poi, fu «salvato» da un pastore tedesco e dal proprio istinto di sopravvivenza.  

Questa è una storia, una delle tante, che non è mai stata raccontata. Perché, può sembrare incredibile - visto che sulla Shoah sono stati scritti migliaia di libri, diffuse altrettante vicende personali e collettive, girate montagne di pellicole - eppure, sono milioni (sì, milioni) i percorsi familiari, ciascuno con una sua specificità, un suo privatissimo universo, di cui non sappiamo e mai sapremo nulla perché inghiottiti nel gorgo nazista. Insomma, nonostante gli sforzi per ricostruire tante esistenze, 80 anni più tardi ci ritroviamo in realtà con un pugno di mosche in mano. Quel mondo è scomparso, e dobbiamo accontentarci di ricordare una minima parte dei volti e delle architetture umane che lo componevano.

Dunque è venuto il momento di ricostruire la vita di una famiglia come tante, padre, madre, tre figli nati a distanza di pochi anni l’uno dall’altro, l’ultimo alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, nel 1940. Sono tutti ebrei, naturalmente. Ma, e qui incontriamo la prima conseguenza dell’odio antisemita che sta avviluppando l’Europa, il capofamiglia - il signor Levi - nel 1938 ha deciso di convertire tutti i suoi cari al cattolicesimo: «Perché sono stanco di vivere in un mondo che ci vuole tanto male».

Il signor Levi, un uomo ombroso, triste anche, e piuttosto pasticcione nella vita, pensa in questo modo di aver messo al sicuro tutti dalle leggi razziali, di aver oltrepassato quel confine invisibile che divide gli esseri umani in categorie e aver smesso definitivamente la pelle più odiata della storia d’Occidente: quella da ebreo. Una decisione tanto radicale naturalmente ha avuto un costo: la moglie, discendente di una schiatta di pii rabbini, è sgomenta. Ma nulla può perché in quell’epoca, il volere dell’uomo di casa si trasforma in decisioni irrevocabili per tutti in famiglia. I figli, ancora piccoli, non capiscono granché, ma cercano di adattarsi alla nuova realtà e “fare gruppo” con i nuovi amici di cui capiscono la lingua ma non la devozione religiosa, così diversa dalla propria.

La famiglia di «nuovi cristiani» prova a andare avanti come nulla fosse, mandando a memoria preghiere fino a quel momento sconosciute, cercando di introiettare l’idea di essere finalmente «liberi». Ma le difficoltà non mancano. Intanto, data la conversione tardiva, i ragazzi non possono frequentare le scuole pubbliche, riservate agli italiani «ariani»: per loro si aprono invece le porte di una scuola gestita dalla Chiesa. Ma anche questo dura poco. Il settembre 1943 arriva in fretta. Così come l’occupazione nazista dell’Italia. E il giorno in cui un questore convoca l’intera famiglia Levi nei suoi uffici. Per arrestarli.

Il signor Levi è sconvolto, non capisce: «Ma signor questore, noi non abbiamo fatto nulla, siamo bravi cittadini, siamo cattolici ora!». «Mio caro signor Levi - risponde sconfortato il questore, uno dei non pochi italiani incapaci di vestire i panni degli aguzzini - non ha capito che tempi viviamo? Perché non è scappato? Perché non si è ancora nascosto con tutta la sua famiglia?». Silenzio gelido nella stanza: i Levi, tutti, impalliditi dal terrore. «Senta, facciamo così: io non vi ho trovato, oggi. Voi non siete mai stati qui. Però la avviso: tra una settimana verremo a casa sua per arrestarvi tutti. Mi ha capito?».

Finalmente, Orlando Levi sembra aver capito. Ma non sa cosa fare. Perciò si rivolge al parroco che li ha battezzati tutti. Non c’è tempo da perdere: preparate le valigie con il minimo indispensabile, i Levi salgono su un’auto e partono per la montagna, lontano dalle vie più trafficate. Rimarranno nascosti fino alla fine della guerra: la conversione ha garantito loro la protezione attiva della Chiesa cattolica. Le loro vite sono salve. Ma non le loro esistenze. Nei mesi che mancano alla Liberazione, la famiglia Levi implode. Marito e moglie non fanno altro che litigare: lei non gli perdona di averla spossessata di un’identità che racchiude ricordi e affetti, mai così distanti. Mentre il primogenito, Fiorello Levi, incapace - è solo un adolescente - di comprendere la natura di tanta tensione, decide di scappare. Fiorello sa di essere ebreo. Ma al tempo stesso comprende che qualcosa è cambiato irreparabilmente. Non solo nel mondo esterno: nella sua famiglia. A 16 anni l’orizzonte può essere molto vicino. Fiorello pensa di raggiungere la Svizzera, dove sa che si sono rifugiati alcuni suoi parenti. Chiedendo passaggi, attraversando a piedi campi e paesi, riesce in qualche modo ad arrivare a Chiasso. Ma è lì che la sua giovane età lo blocca: non sa come superare la frontiera. In più è stravolto dalla fame e i vestiti che indossa sono ormai pieni di buchi e strappi. È allora che una pattuglia di camicie nere lo ferma. Gli chiede i documenti. Gli chiede chi è e cosa fa lì. «Mi chiamo Fiorello Levati - risponde ben sapendo che non deve rivelare in nessun modo di essere ebreo -. Sono rimasto solo, i miei sono tutti morti sotto il bombardamento di Treviso (7 aprile 1944, ndr), non ho più nulla, nessun documento» .

I militari fascisti sono sospettosi. Ma si inteneriscono di fronte a questo ragazzino smunto, il viso pieno di efelidi, che sembra davvero uscito da un bombardamento. Eppure ripetono la domanda: «Va bene, ma cosa fai qui, vicino al confine?». È allora che il panico avvolge il ragazzo. In un istante sceglie la risposta più pericolosa e gravida di conseguenze: «Sono un fascista, mi vergogno dei Savoia. Voglio arruolarmi». Fiorello Levi un fascista? In effetti non sembra una bugia: quanti italiani non lo erano fino al 1943? Comunque la Repubblica Sociale ha bisogno di braccia. Perciò le camicie nere gli battono le mani sulle spalle e lo portano al loro quartier generale di Milano.

Fanno parte delle Brigate Nere, squadristi feroci che danno la caccia ai partigiani, agli ebrei e sono i «migliori alleati» dei tedeschi. Fiorello sa quello che sta facendo? Probabilmente no: ma quello era, per lui, l’unico modo di sopravvivere. Così riceve una uniforme e un compito: dal momento che sa guidare (le automobili sono sempre state la sua passione), il maresciallo che lo ha arruolato lo prende come attendente e gli affida una Topolino e il suo cane, un pastore tedesco. Poche settimane più tardi, il destino offre l’ennesimo inciampo. Fiorello ha portato l’auto dal meccanico. E nell’attesa gioca con il cane lupo. Improvvisamente arriva un tedesco. Il soldato ha bisogno di soldi e prova a vendere la sua Luger al meccanico, un borsanerista. Spara due colpi in aria per dimostrare che la pistola funziona. Il meccanico si convince. Ma il cane, terrorizzato, scappa a gambe levate. Fiorello prova a riprenderlo. Ma non c’è nulla da fare: in un istante l’animale scompare nei vicoli del centro di Milano. Che fare? Il ragazzo telefona in caserma e racconta cosa è successo. Il maresciallo, gelido come l’inverno che avvolgeva l’Italia stremata dalla guerra, gli risponde: «Trovalo, se torni senza cane ti ammazzo».

Fiorello non sa cosa fare. Ma quando il meccanico gli riconsegna la Topolino, mani e piedi agiscono di comune accordo e l’auto si dirige verso le Alpi, nella località dove la famiglia Levi viveva nascosta. Poche ore e l’auto è venduta al mercato nero. Dei soldi ricavati, Fiorello ne consegna una parte al padre, sempre più curvo e spaventato. Poi pensa: se non sono riuscito a passare in Svizzera, forse potrò superare il fronte a Sud e passare con gli alleati. Perché farlo? Non lo sa nemmeno lui. Ma una cosa è certa: in famiglia non è più possibile stare. Fiorello prende un treno, poi una corriera, poi fa l’autostop fino ad arrivare in Romagna. È ancora in divisa fascista. E, in una locanda dove si è fermato per mangiare qualcosa, viene avvicinato da un nazista che lo guarda da capo a piedi e gli dice, sibilando: «Tu chi sei? Che ci fai qui? Dov’è la tua unità?». Fiorello risponde. Il tedesco, allora, con un ghigno: «So riconoscere un ebreo: tu sei ebreo!».

Il ragazzino si vede nella stessa situazione di Chiasso, quando era stato fermato dai fascisti. Solo che ora si trova ad affrontare un nazista. Di nuovo, lo spirito di sopravvivenza guida le sue parole. «Non sono ebreo, sono un fascista italiano. Sono venuto al fronte per combattere. Sono stufo di stare nelle retrovie insieme ai vigliacchi». Detto fatto: il tedesco lo porta al comando e lo fa assegnare al reparto logistico: visto che sa guidare, lo mettono al volante di un camion. La storia di Fiorello e della sua avventura nel centro dell’orrore è quasi al termine. Nell’aprile 1945 tutto cambia. Le difese nazifasciste crollano. I reparti si dissolvono e Fiorello si trova a camminare verso nord insieme a migliaia di sconfitti. Nessuno si preoccupa più di lui, ognuno pensa a se stesso, a come salvarsi la vita, alle vendette che verranno. Cosa ne sarà dunque di Fiorello, ebreo in camicia nera?

Lui non sa (ancora) cosa è accaduto a milioni di ebrei europei passati nei camini dei Lager nazisti. Pochi in verità percepiscono la realtà della Shoah in quei giorni. Così, quando, dopo giorni di cammino, Fiorello è di nuovo nella sua città e suona al campanello di un suo vecchio compagno di classe, quasi si sorprende che lui gli strappi di dosso la divisa da fascista: «Fiorello, sei impazzito? Vuoi farti fucilare dai partigiani?».

Il ragazzo è riuscito a superare la guerra e la tragedia della Shoah. Anche la sua famiglia è potuta tornare a casa. Ma per quanto la sorte dei Levi sia stata certamente migliore rispetto a chi è morto nei Lager o chi magari (pochi) è riuscito a tornare alla vita di prima, comunque la persecuzione ha lasciato un segno indelebile e un istinto insopprimibile passato alle generazioni successive. Un sentimento che guiderà i suoi passi e le sue decisioni da lì in avanti: è accaduto, perciò accadrà ancora.

Postilla: questa è una vicenda reale in cui i nomi sono stati alterati quanto basta per mascherare i protagonisti: alcuni sono ancora tra noi. 

Livorno, aggressione antisemita a un 12enne. Le scuse mancate: «Perché nessuno ha detto basta?» di Giusi Fasano inviata a Campiglia Marittima (Livorno) su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.

Spunta un video dell’aggressione da parte di due ragazzine nei confronti di un 12enne, mentre altri assistevano senza fare nulla. L’inchiesta della Procura per lesioni aggravate dalla finalità di razzismo. Il sindaco ha organizzato una fiaccolata.

Da qualunque parte la si guardi questa storia fa tristezza. Ed è quanto mai cupa oggi, nel Giorno della Memoria che ricorda la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico. C’è un bambino di 12 anni che torna a casa mesto e in lacrime, corre in cucina, si toglie il giaccone e con la spugna per i piatti strofina macchie di sputi. C’è un padre che non crede a quel che sente mentre il piccolo gli racconta che «quelle mi hanno preso a calci e pugni, ma io non le conosco nemmeno. Mi sputavano addosso. Una mi ha detto: ebreo di merda, devi morire nel forno». Poi ci sono «quelle», le due ragazzine di questa storia triste. Una di loro non ha nemmeno 13 anni, quindi anche per lei la parola bambina è più adeguata; l’altra ne ha compiuti 14 da poco. Infine ci sono i quattro testimoni, pure loro ragazzetti. «Non dico intervenire fisicamente, ma possibile che a nessuno sia venuto in mente almeno di dire: cosa state facendo? Fermatevi! Niente. Hanno guardato e basta», è l’amarezza del padre del bimbo ebreo.

La denuncia del papà del bimbo

Tutto questo avveniva domenica pomeriggio a Venturina Terme, una frazione di Campiglia Marittima (Livorno). E da domenica a oggi non risulta che i genitori delle due ragazzine abbiano fatto nessuna contromossa, chiamiamola così: né chiedere scusa, né smentire il racconto del bambino e nemmeno firmare una controdenuncia (come vorrebbero i racconti da bar a Venturina) dopo quella presentata dal papà del bambino. Lui, il padre, si dice commosso dall’affetto che sta ricevendo: «Scalda il cuore», commenta. «Quello che rimarrà di questa storia non è il ricordo dei lividi, che passeranno. È qualcosa di più profondo: è la ferita dell’anima che mi preoccupa. Lui quelle due ragazze le aveva già viste in passato ma sapeva appena i loro nomi. È cominciato tutto con uno “stai zitto tu, che mi da noia la tua voce”. Quando siamo tornati dal pronto soccorso mi ha chiesto: babbo, ma se poi vado al giardino e le rivedo? Ecco, questo è il risultato: la paura. Ho deciso di denunciare perché non è più tollerabile, nel 2022, una cosa del genere. Né verso un ebreo né verso un musulmano o un gay. Basta».

L’inchiesta per lesioni aggravate dalla finalità di razzismo

La procura dei minori di Firenze ha aperto un’inchiesta per lesioni aggravate dalla finalità di razzismo: una delle due ragazzine non è però imputabile essendo minore di 14 anni, anche se il caso sarà quasi certamente segnalato ai servizi sociali per una indagine sulle condizioni socio-familiari. I carabinieri di Piombino hanno raccolto le testimonianze dei ragazzini che hanno assistito alla scena e il loro racconto «è compatibile», per dirla con le parole di un inquirente con quello del bambino insultato e picchiato. Dell’aggressione, tra l’altro, esiste anche un video (senza audio), estratto dalle telecamere di sorveglianza. Si vede la zuffa (durata pochi secondi) e poi il gruppo che si divide e si allontana mentre il bambino scappa.

Il giorno della memoria e la fiaccolata

Il 27 gennaio — oggi — è la data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz. Chissà se lo sanno le due piccole protagoniste di questa storia triste. Chissà se hanno mai sentito parlare di persecuzione, di leggi razziali, di deportazione. E soprattutto: chissà se i loro genitori gliene hanno parlato adesso, in questi giorni di accuse e di finto anonimato, in questi luoghi in cui tutti sanno tutto, indirizzo compreso. «È gente perbene, non crocifiggetela», si raccomanda una signora che indica la casa della quattordicenne. Nella palazzina dove vive non apre nessuno fino a sera. Per la più piccola, invece, parla davanti al cancello una donna che non dice chi è: «Aspettiamo che si chiarisca tutto. La famiglia parlerà al momento opportuno». Nessuno osa sperare che sia stasera, alla fiaccolata organizzata a Venturina dalla sindaca Alberta Ticciati e dalla Regione.

Le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah nelle registrazioni raccolte nel 1955 sono documenti fondamentali, che non contemplano ancora la portata di una tragedia che la Storia avrebbe analizzato successivamente. La Repubblica il 26 gennaio 2022.   

Nel 1982 partecipai a Parigi ad un convegno internazionale dal titolo "L'Allemagne nazie et le génocide juif" organizzato dall'Ecole des Hautes Etudes en Sciences sociales. Erano presenti i più grandi specialisti della materia, che sovrastavano abbondantemente in conoscenza me, che ero una storica alle prime armi: c'erano Raul Hilberg, Yehuda Bauer, Christopher Browning, Leon Poliakov e altri.

La giornata della memoria. Abraham B. Yehoshua: vacciniamoci contro l'odio. Abraham B. Yehoshua La Repubblica il 26 gennaio 2022.

Un grande scrittore israeliano spiega perché l’antisemitismo, come il Covid, non si combatte solo con una “prima dose”: servono i richiami. 

Sono passati settantasei anni da quando l’esercito russo liberò il campo di concentramento più terribile mai messo in atto nella storia umana, il campo di sterminio di Auschwitz, un campo tedesco in Polonia dove, durante la seconda guerra mondiale, si perfezionò il modo di dare la morte a milioni di prigionieri, in gran parte milioni di cittadini ebrei deportati da tutti gli angoli d’Europa.

Thomas Geve: "I miei disegni raccontano che cos'era Auschwitz". Wlodek Goldkorn La Repubblica il 26 gennaio 2022.

Da bambino sopravvissuto ha raccontato il lager in disegni che sono ora esposti allo Yad Vashem di Gerusalemme e riuniti in un libro edito da Einaudi. E a 92 anni dice: “Nei campi c’erano anche vita e solidarietà”.

Thomas Geve ha novantadue anni, vive vicino Tel Aviv. La cosa che più colpisce, parlandogli, è l'ostinato rifiuto di considerarsi vittima, unito all'idea che i valori più importanti sono solidarietà e giustizia.

Geve è nato a Stettino, ai tempi una città tedesca. Famiglia borghese, padre e nonno medici, quando aveva poco più di tredici anni venne deportato da Berlino ad Auschwitz.

L'intervista. Edith Bruck:"Io non posso tacere. Auschwitz è stata la mia università. Scrivere è respirare".  Rodolfo di Giammarco La Repubblica il 26 gennaio 2022.  

La scrittrice ma soprattutto lucida testimone dello sterminio ebraico sarà al Palladium con Furio Colombo per la Giornata della Memoria.

Edith Bruck è protagonista il 27 gennaio al Teatro Palladium della serata "Passaggi di Memoria" (ore 20). Attesi anche i saluti di Mario Venezia, presidente della Fondazione Museo della Shoah, Sami Modiano (in video) e gli interventi di Furio Colombo e Stefano Massini. Serata trasmessa in diretta sulla pagina Facebook della Fondazione. Ingresso libero fino ad esaurimento posti con Green Pass.

Quei cinquecento ebrei in mare in cerca della salvezza. Eleonora Lombardo La Repubblica il 26 gennaio 2022.  

La storia del Pentcho, il battello sul quale trovarono posto uomini, donne e bambini in fuga dal nazismo, diventa un libro di Antonio Salvati. Pubblicato da Castelvecchi.  

In un nitido pomeriggio del maggio 1940, dal porto di Bratislava, tra l’incredulità degli astanti, salpava il Pentcho, un battello fluviale costruito in Scozia e registrato in Italia che, da semplice rimorchiatore, diventa l’unica possibilità di salvezza per 520 ebrei che da tutta la Mitteleuropa scappano con destinazione la Terra Promessa. E’ una storia rocambolesca, di ardore, di slancio, di avventura e di umanità, ma è anche una storia vera quella che Antonio Salvati racconta in Pentcho, sorprendente esordio narrativo edito da Castelvecchi.

I libri della memoria dell'Olocausto rimarranno sempre con noi. Meir Ouziel su La Repubblica il 27 gennaio 2022.

Nella mia libreria ci sono alcuni volumi che iniziano con le parole "L'estate del 1939 fu bella". Un incipit agghiacciante. Nel giro di poche righe, si passa dalla descrizione dei campi estivi organizzati dai movimenti giovanili ebraici, all'inferno provocato dai nazisti con l'invasione della Polonia. Si tratta di alcuni delle migliaia di libri di memorialistica pubblicati in Israele in cui i protagonisti raccontano la propria trasformazione da persone semplici, comuni a subumani perseguitati su cui pende un solo verdetto: la morte.

Disegni e ricordi di una bambina in fuga: «Io, scampata alla Shoah». JESSICA CHIA su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.

Le pagine scritte a 9 anni dalla milanese Bruna Cases, che raggiunse la Svizzera per sfuggire alla persecuzione, rivivono in un libro (Piemme) scritto con Federica Seneghini 

La pagina del diario di bambina di Bruna Cases con il disegno del momento del passaggio in Svizzera

Poche pagine, la scrittura è precisa e composta, appena appresa alle elementari, ma quello che custodisce è il racconto della tragedia. Sui fogli c’è il conto dei giorni, e alcuni disegni — come un filo spinato che separa il confine italiano da quello svizzero — che rappresentano la fuga dall’Italia di una bambina di 9 anni per salvarsi dalla Shoah.

Bruna Cases, Federica Seneghini, «Sulle ali della speranza» (Piemme - Il Battello a Vapore, pp. 186, euro 14)

È così che Bruna Cases (Milano, 1934) quasi ottant’anni fa ha affidato a un diario i ricordi del momento in cui, a causa della persecuzione degli ebrei, è stata costretta a lasciare il suo Paese. Oggi quel diario, nato da appunti sparsi presi durante la traversata, è diventato un libro per bambini (e non solo), Sulle ali della speranza. Il mio diario di bambina in fuga dalla Shoah (Piemme - Il Battello a Vapore), scritto da Bruna Cases con la giornalista del «Corriere» Federica Seneghini, che ha scoperto questa storia e l’ha raccolta attraverso la testimonianza della stessa Cases. Mentre una copia di quelle pagine — che tristemente ricordano quelle scritte da Anne Frank (1929-1945) negli stessi anni — è conservata nell’Archivio della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano.

Bruna ha 4 anni quando tutto ha inizio, indifferenza dopo indifferenza. I suoi fratelli maggiori (tra cui il futuro critico letterario e germanista Cesare Cases) vengono espulsi dalla scuola e inizia una serie di misure che progressivamente cancellano i diritti degli ebrei: è il 1938, l’anno terribile delle leggi razziali. Bruna non capisce, per lei «essere ebrea voleva dire essere uguale agli altri bambini, solo di una religione diversa». Nel 1940, inoltre, su Milano arrivano i bombardamenti: Mussolini ha appena dichiarato l’entrata in guerra. Per i Cases è sempre più pericoloso restare in città, così due anni dopo sfollano a Parma, da alcuni familiari.

Dopo l’armistizio, l’8 settembre 1943, l’Italia è divisa in due. Nei territori occupati dai tedeschi e in quelli della Repubblica sociale (Rsi), inizia la deportazione degli ebrei nei lager. La famiglia di Bruna tenta la fuga in Svizzera; un viaggio rischioso, sia per la presenza al confine dei soldati della Zollgrenzschutz, la polizia di frontiera tedesca, e dei militi fascisti, sia perché non era scontato essere accolti: «In altre occasioni, di fronte a profughi ebrei come noi, non si erano fatti problemi a respingere le persone (…). E allora, cosa sarebbe successo?». I primi a partire sono il papà e la nonna; poi la mamma e le sue sorelle, guidate al confine dai contrabbandieri. La bambina annota tutto di quel viaggio, le emozioni che prova, il sollievo quando toccano il suolo svizzero: «Essere in terra libera, senza guerra, senza che nessuno si ammazzi l’uno con l’altro!». E qui diventa improvvisamente adulta: «Per la prima volta mi resi conto di essere diventata una profuga, una bambina di nove anni in fuga dal suo Paese». Quando la guerra finirà, avrà ormai 11 anni: è da quando ne ha 4 che vive la persecuzione.

Sulle ali della speranza racconta la drammatica storia del nostro passato, ma è pure un monito per il presente: anche se nessun paragone è possibile, Bruna stessa dice di poter capire quello che provano i profughi di oggi che scappano dai loro Paesi. E il suo diario ci ricorda quanto sia pericolosa l’indifferenza: «Ecco, “memoria” significa capire che essere neutrali, di fronte all’intolleranza, è e deve essere impossibile — scrive Seneghini nell’introduzione —. Perché in quegli anni fatti e avvenimenti minimi crebbero a valanga, fino a diventare fatti atroci».

Il libro

Bruna Cases, Federica Seneghini, Sulle ali della speranza. Il mio diario di bambina in fuga dalla Shoah (Piemme - Il Battello a Vapore, pp. 186, euro 14; dai 10 anni) Alla fine di ottobre del 1943. Bruna Cases (Milano, 1934) raggiunse la Svizzera per sfuggire alla persecuzione degli ebrei e lo raccontò in un diario. Federica Seneghini (Genova, 1981) è giornalista del «Corriere». Ha pubblicato Giovinette, le calciatrici che sfidarono il Duce (Solferino, 2020) 

Il diario ritrovato della piccola Bruna Cases, scappata in Svizzera per salvarsi dalla Shoah. Federica Seneghini su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.

La voce di una bambina ebrea di Milano, fuggita con la famiglia per salvarsi la vita nel 1943, nelle pagine del suo diario. Che oggi rivive in un libro (Piemme)

«Prendevo appunti dove capitava. Foglietti, biglietti, i bordi di un foglio di giornale. Scappavamo e io non volevo dimenticarmi niente. Mi segnavo i particolari, le cose che mi succedevano intorno, i nomi delle persone. Adoravo scrivere. A scuola l’italiano era la mia materia preferita. Finché i fascisti non chiusero la scuola ebraica di Milano e io, come tanti altri bambini, fui costretta a smettere di studiare. Sfollammo a Parma, poi riuscimmo a fuggire in Svizzera. Papà ci precedette con la nonna. Mio fratello Cesare viveva là già da qualche anno, era scappato subito, nel 1939. Studiava chimica all’Università di Losanna e poi filologia e letteratura a Zurigo (divenne un grande critico letterario e germanista, ndt.) . Io, mamma e le mie sorelle li raggiungemmo dopo. Se chiudo gli occhi mi sembra ancora di vedere quel filo spinato che separava l’Italia dalla salvezza». Ha la voce ferma Bruna Cases. Classe 1934, aveva nove anni quando con la famiglia riuscì a lasciare l’Italia grazie ad alcuni «contrabbandieri», come li chiamava allora e come li definisce tuttora. Gli uomini che per un po’ di denaro traghettarono lei e tanti altri oltreconfine. Una volta in salvo, la piccola trasformò quei bigliettini in un diario di fuga. Poche pagine che oggi sono custodite nell’Archivio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. Raggiunta al telefono nella sua casa di Milano, Bruna Cases è stata felice di condividere quelle pagine così preziose, con noi. E noi siamo felici di ripubblicarle integralmente qui di seguito in occasione del Giorno della Memoria.Alla fine di ottobre del 1943 Bruna Cases raggiunse la Svizzera per sfuggire alla persecuzione degli ebrei e lo raccontò in un diario. Oggi la sua storia è diventata un libro per bambini: «Sulle ali della speranza» (Piemme - Il Battello a Vapore, pp 186, euro 14)

La prima pagina del diario di Bruna Cases (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Diario, 31 ottobre 1943

L’Italia era occupata a nord dai tedeschi e a sud dagli inglesi, ma gli ultimi procedevano adagio adagio. Intanto i tedeschi maltrattavano gli ebrei; appunto noi eravamo di questi. Incominciammo quindi ad andare via da casa e pensammo di andare in Svizzera come facevano molti. Allora, fai le valigie di qua, disfa i sacchi di là, una cosa da impazzire. Finalmente fummo pronti, ci avviammo verso la stazione. Poco dopo eravamo a Varese, dai Rossi, nostri amici e siamo stati là un giorno o due. A Varese combinammo coi contrabbandieri che noi saremmo andati alla stazione e che loro ci avrebbero condotto in automobile fino a una cascina. 

Alla notte si sarebbe passati; poi ci avrebbero condotti in un’altra casa (col telefono) di là avrebbero telefono a un deposito di macchine di venirci a prendere in automobili di condurci fino a Lugano. Invece nulla di tutto questo; siete curiosi? State a sentire come finì. Alla stazione aspettavamo impazienti che arrivasse l’automobile. Finalmente giunse un uomo che ci condusse in una rimessa e ci fece salire in un camioncino. Che delusione fu per me! Speravo di andare in una bella automobile, mentre invece mi trovai in una specie di stanzetta tutta chiusa con un solo forellino piccolissimo da cui potevo appena intravedere il paesaggio. Ad un tratto il camioncino si fermò con nostro gran spavento ma invece vidi che di fuori c’erano cinque o sei uomini che salirono anch’essi. Dovevano venire anche loro in Svizzera, con i loro bagagli. Poco dopo giungevamo alla cascina. Ci fecero entrare in un’ampia cucina ben riscaldata. C’era una numerosa famiglia. Due ragazze stavano facendo la polenta. Siamo stati là tre giorni e quattro notti. Le notti le passavamo ansiosi, aspettando i contrabbandieri che dovevano condurci al di là della frontiera. Finalmente vennero. Erano in due; ognuno di loro aveva una rivoltella; il capo, Guido, aveva un berretto di pelliccia bianca con in mezzo una croce nera. Queste due cose mi fecero molto effetto. Dopo un po’ partimmo; camminavamo al buio, in silenzio, inciampavamo nei solchi della montagna, entravamo in un bosco, finalmente la strada era piana; potevamo camminare un po’ più in fretta; ogni tanto la guida ci faceva fermare di colpo.

Nel piccolo diario di Bruna Cases c’erano anche alcuni disegni. Nella pagina qui sopra la bambina disegnò il filo spinato che separava l’Italia dalla Svizzera (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

C’era pericolo. Perché degli uomini di tanto in tanto si avvicinavano; bisognava, quasi, trattenere il respiro. Sbucammo in una vasta prateria: bisognava allora fare il meno rumore possibile: eravamo vicino alla tanto desiderata frontiera. Ah, me ne dimenticavo! Prima di uscire dal bosco ci fecero fermare per un quarto d’ora; intanto andavamo ad esplorare i dintorni e a tagliare la rete. Poco dopo ci rimettevamo in marcia. Vedemmo una garitta che era proprio davanti al buco della rete, fortunatamente la sentinella non c’era. A uno a uno, silenziosamente, passammo attraverso il buco della rete. Che emozione! Finalmente eravamo in terra libera, in Svizzera.

Nella pagina qui sopra il momento in cui la famiglia Cases si nascose tra i cespugli per sfuggire alle forze dell’ordine che perlustravano il confine con una lampadina tascabile (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Le prime ore del nostro soggiorno in Svizzera i contrabbandieri ci dissero: «Andate in là, circa cento metri, vi raggiungeremo». Noi fiduciosi nei contrabbandieri non sospettando nulla, aspettammo un po’ più in là: quand’ecco che sentiamo parlare sommessamente, tendiamo le orecchie. «In che lingua parlano?», bisbigliarono tutti. «In tedesco», rispose qualcuno, ancora di più, frugavano i cespugli con una lampadina tascabile: non ne potevamo più. Eravamo là accovacciati, fu un miracolo, pensate, eravamo in undici, e non ci hanno visto! Poco dopo le voci si erano allontanate, respirammo, non c’era più pericolo. È vero che si trattava di svizzeri tedeschi, ma avrebbero potuto rispedirci in Italia. Per fortuna c’era con noi un certo dottor Segré. Egli disse: «Ci hanno traditi, andiamo avanti, ce la caveremo da soli». Poco dopo arrivammo a Stabio, evviva! Avevamo trovato la via buona.

Appena giunti a Stabio, abbiamo interrogato i contadini: volevamo sapere dov’era il Comando. Eravamo stanchissimi. Arrivati al Comando, ci chiesero in tedesco: «Siete ebrei? Siete italiani?». «Ja» abbiamo risposto noi. «Va bene - dissero loro - seguiteci». Sapete dove ci condussero? Alla mensa militare. Là ci diedero una bella tazzona di cioccolata e pane a volontà. Mi regalarono anche mezzo pacchetto di cioccolatini marca Lindt. Poi siamo andati in un piccolo giardino, là abbiamo aspettato un bel po’, poi rientrammo e ci fecero ancora sedere a tavola: c’era il pranzo. Ci tenevano molto gli svizzeri a nutrirci! Il pasto era composto di potage carne e patate. Era tutto fatto molto bene.A gennaio 2022, Bruna Cases è tornata in Svizzera. Sul sito naufraghi.ch è possibile vedere il documentario girato dalla giornalista Ida Sala sul ritorno della signora nel Paese che nel 1943 la accolse come profuga

Poco dopo ci condussero alla dogana. Là ci chiesero nome, cognome e gli altri dati. Ci lasciarono molto incerti e ci dissero di andare fuori e di aspettare la risposta. Fuori eravamo custoditi da sentinelle le quali mi regalarono, di nascosto ai superiori, dolci e frutta. Tutte queste buone cose non potevano farmi dimenticare che in quei momenti si stava decidendo del nostro avvenire, vedevo la mamma in pensero che passeggiava su e giù nervosamente. Finalmente ci richiamarono e ci diedero il consenso. Figuratevi la nostra gioia! Non essere più perseguitati da quegli odiati tedeschi! Essere in terra libera, senza guerra, senza che nessuno si ammazzi l’uno con l’altro!

La nostra gioia, però, fu un po’ turbata al sapere che solo uno dei nostri compagni di ventura poteva rimanere, gli altri quattro dovevano ritornare in Italia. Poveretti! Ora incomincia la nostra peregrinazione in Svizzera. Un po’ a piedi, un po’ issati su un carretto accanto ai nostri bagagli, siamo andati da Stabio a Mendrisio, da Mendrisio a Ligornetto. Ora avevamo l’animo più tranquillo e potevamo ammirare il magnifico paesaggio. «Attendete in questo piccolo caffè», ci disse a Ligornetto un gentilissimo ufficiale svizzero che ci accompagnava. «Io provvederò intanto a farvi cercare un alloggio per stanotte». Mi pare che sia stato impossibile trovare un alloggio vero e proprio, e abbiamo dovuto passare la nottata sulla paglia. La mattina prestissimo eravamo di nuovo pronte, partenza per Bellinzona: avremmo rivisto papà e la nonna che erano in Svizzera già da due settimane, mio fratello Cesare che non vedevamo da tanto tempo. Ben presto fummo disilluse. Ci accompagnarono all’asilo di Bellinzona, dove abbiamo passato i primi due mesi della nostra residenza in Svizzera. Ogni pochi giorni arrivava all’asilo un gruppo di persone stanche e depresse per le fatiche del passaggio dalla frontiera; ogni pochi giorni un gruppo di persone ripartiva per andare in altre residenze. Siamo state molto bene all’asilo, soprattutto per la gentilezza delle samaritane, ma fummo felicissime quando ci annunciarono che era stata accolta la nostra domanda di essere ricongiunte con papà in un campo misto.

Partenza quindi per Rovio dove avremmo dovuto, dopo un paio di giorni raggiungere papà a Lugano. Ma a Rovio abbiamo avuto il primo grande dispiacere; una telefonata da Lugano avvertiva che papà era stato trasportato all’ospedale con la polmonite. Il viaggio per Lugano che avrebbe dovuto essere pieno di gioia, fu naturalmente molto triste. E molto triste è stato tutto il primo periodo passato in questo magnifico albergo dove siamo tutt’ora. Da qualche giorno papà sta meglio e possiamo dunque godere un pochino: siamo un bell’albergo, al Majestic, dove abbiamo una magnifica camera riscaldata tutta per la nostra famiglia e un bagno attiguo a completa nostra disposizione, due balconcini da cui si vede una collina coltivata, alcune casette, il lago di Lugano, belle montagne che qualche volta sono coperte di neve, la ferrovia. Da quando sono qui è cambiata spesso la compagnia dei ragazzi con cui gioco….

27 marzo lunedì 1944

Alle 9 e 30 incomincia la scuola; dura fino alle 11 e 30, si fanno cose varie, un tema, un problema, lezione di storia o lettura di Pinocchio. Poi vado su e gioco un po’ con la palla. Quand’ecco: dan dan, suona il gong per il pranzo; mangio in fretta e furia, perché vorrei trovare il ping pong libero; se è libero, gioco un po’ ma dopo pochi minuti, ecco la mamma che vuole che io vada due ore in giardino perché, dice, che l’aria aperta fa tanto bene. Fino all’ora del caffè e e latte sto in giardino; dopo la merenda faccio i compiti.

Nella pagina qui sopra alcuni dei passatempi preferiti dalla piccola Bruna. Si riconoscono bene la racchetta da ping pong con la sua pallina, la corda per saltare, un pallone, un piccolo gong e i libri. La bambina amava molto leggere (Bruna Cases/Archivio Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea)

Se non sono molto lunghi faccio ancora a tempo a giocare alla palla. La palla e la corda sono la mia passione, ma la corda purtroppo non ce l’ho, ora cercherò di fabbricarmene una. Poi ancora suona il gong: è la cena. Mangio; questa volta non tanto in fretta perché alla sera non ho più voglia di giocare a ping pong, preferisco giocare con le mie amiche a carte o a palla. «Ancora a palla», direte voi. Ma ve l’ho già detto: a me piace tanto. Raramente passo la mia giornata in maniera diversa: esco per qualche ora e una volta siamo andati alla Casa d’Italia dove c’era uno spettacolo bello. Qualche sera c’è lo spettacolo anche qui.

29 marzo 1944, giovedì

Nella mia cameretta ci sono una finestra e un balcone che offrono una magnifica vista. Spesso sto sul balcone a prendere il sole: intanto osservo il bellissimo panorama: vedo il grande giardino con belle piante che ora incominciano a fiorire, alcune casette sopra una collina coltivata e più in là belle montagne che qualche volta sono coperte di neve. C’è una linea ferroviaria e il treno che passa per andare in Italia mi fa a volte pensare alla mia patria. Vedo anche la strada e mi piace osservare la gente che passa. Che bella vista che c’è qui in confronto a Milano! Qua c’è aria aperta mentre a Milano tutte le case sono soffocate da altre. Davanti alla mia c’era la scuola e i bambini che andavano avanti e indietro mettevano allegria.

Federica Seneghini

Si ringrazia la signora Bruna Cases e l’Archivio della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano per la gentilezza e la disponibilità

Nel 2022 il diario della piccola Bruna Cases è stato raccontato nel libro per bambini “Sulle ali della speranza” (Piemme - Il Battello a Vapore).

Morta a 93 anni Hannah Goslar, l'amica di Anna Frank: era la «Lies» del Diario. S.Mor. su Il Corriere della Sera il 29 Ottobre 2022.

Hannah Goslar è stata per molti anni preziosa testimone della Shoah e ha raccontato del suo rapporto con l’autrice del «Diario», morta a Bergen-Belsen 

«Venerdì 12 giugno ero già sveglia alle sei: si capisce, era il mio compleanno! Ma alle sei non mi era consentito d’alzarmi, e così dovetti frenare la mia curiosità fino alle sei e tre quarti... Poi Lies venne a prendermi e andammo a scuola. Nell’intervallo offrii dei biscottini ai professori e ai compagni e poi ci rimettemmo al lavoro. Ora devo smettere di scrivere. Diario mio, ti trovo tanto bello!». È nella pagina di domenica 14 giugno 1942 che per la prima volta appare il nome di Hannah Goslar, (ricordata anche come «Hanneli» o «Lies»), una delle migliori amiche di Anna Frank (Francoforte sul Meno, 1929- Bergen-Belsen, 1945) , «simbolo della sventura di tutte le mie amiche e di tutti gli ebrei» — come viene definita nella pagina del diario del 6 gennaio 1944. Come annunciato dalla Anne Frank Foundation di Amsterdam, la donna è morta venerdì 28 ottobre all’età di 93 anni, a Gerusalemme. 

Nata a Berlino il 12 novembre 1928 da genitori ebrei tedeschi, Goslar fuggì con la sua famiglia dalla Germania nel 1933, subito dopo l’arrivo al potere di Adolf Hitler, per stabilirsi ad Amsterdam. Nella città olandese Goslar e Frank, che abitavano nella stessa strada, frequentarono la stessa scuola, fin dall’asilo nido, diventando ben presto amiche, come si legge nel «Diario» fatto pubblicare da Otto Frank, il padre di Anna, quando tornò come unico superstite dai campi di concentramento. Giorno per giorno, dal lunedì 15 giugno 1942 al primo agosto del 1944, una bambina olandese di tredici anni registra in un grosso quaderno la sua scoperta del mondo: angosce, illusioni, sogni e speranze rivelate a una immaginaria amica di nome Kitty. «Non ho affatto intenzione di far leggere ad altri questo quaderno rilegato di cartone», si legge nelle prime pagine. Franck non poteva immaginare che quelle pagine sarebbero scampate al saccheggio della polizia militare segreta della Wehrmacht tedesca, e diventate uno dei documenti più vivi dell’orrore dell’Olocausto. 

Le due bambine persero i contatti nel luglio 1942 quando la famiglia Frank si nascose nel sottotetto della ditta del padre Otto per sfuggire alle SS. Più volte«Lies» appare ad Anna in sogno, come lei stessa racconta: «Cara Kitty, Ieri sera, mentre stavo per addormentarmi, ebbi d’improvviso una visione: Lies. La vidi dinanzi a me vestita di stracci e col viso smunto e smagrito. Mi guardò con due grandi occhi tristi, pieni di rimprovero, nei quali potevo leggere: “Oh Anna, perché mi hai abbandonata? aiutami, fammi uscire fuori da quest’inferno!”. E io non la posso aiutare, posso soltanto guardare come altri uomini soffrono e muoiono, posso soltanto pregare Iddio di ricondurla a noi... Oh Lies, se vedrai la fine della guerra e tornerai fra noi, spero di poterti accogliere e riparare ai miei torti» (20 novembre 1943).

Goslar e la sua famiglia furono arrestate dalla Gestapo nel 1943 e deportati prima a Westerbork, poi nel 1944 a Bergen-Belsen. Nel lager nazista Hanneli incontrò di nuovo nel febbraio 1945 la sua migliore amica, poco prima della morte di Frank. Hannah e la sorella Gabi furono gli unici membri della loro famiglia a sopravvivere all’Olocausto. Nel 1947 Goslar emigrò a Gerusalemme, dove divenne infermiera, prima di sposare il medico Walter Pinchass Pick. La coppia ha avuto tre figli, 11 nipoti e più di 31 pronipoti: «Questa è la mia risposta a Hitler», diceva Goslar, il cui incontro con Anna ha ispirato il film Anne Frank - La mia migliore amica di Ben Sombogaart, dal 1 febbraio scorso su Netflix. «Vivevamo vicine e il nostro primo incontro avvenne nel 1934. Ci incontrammo in un negozio di alimentari... Anna era con lei. Il giorno dopo, quando la rividi all'asilo, la riconobbi e corsi ad abbracciarla . Da allora, divenimmo amiche... Quando la rividi nel campo di concentramento provai sentimenti contrastanti... Ero felice di rivederla ma al tempo stesso triste. Speravo si fosse salvata scappando in Svizzera».

 Libro per ragazze. Perché hanno ignorato a lungo i meriti letterari del diario di Anna Frank. David Barnouw su L'Inkiesta il 27 Gennaio 2022.

Il volume veniva celebrato come straziante documento storico, senza valutarne le qualità più profonde e intrinseche della scrittura. Nel suo libro (pubblicato da Hoepli) David Barnouw, il massimo esperto sul tema, ne indaga le ragioni

AP Photo/Peter Dejong, File

Ai curatori dell’edizione critica De Dagboeken van Anne Frank talvolta è stato rimproverato di non aver dedicato nemmeno una nota al nome di Kitty, la persona a cui Anne indirizzava le lettere del suo diario: «Per esempio, gli studiosi hanno a lungo trascurato il fatto che Anne Frank, indirizzando le sue lettere a Kitty, avesse scelto un personaggio della serie Joop ter Heul. Non conoscevano il lavoro di Cissy van Marxveldt» (Monica Soeting in «Letterhoeke», 2008, 2).

In parte era vero, perché i redattori di De Dagboeken van Anne Frank erano uomini, che perlopiù hanno poca conoscenza dei libri per ragazze. Tuttavia non toccherebbe ai redattori occuparsi di analisi letteraria o di interpretazione testuale, cosa che è lasciata ai lettori. Nell’edizione critica le note a piè di pagina sono state inserite solo in riferimento a eventi esterni all’alloggio segreto menzionati da Anne Frank, come per esempio i bombardamenti.

È comunque curioso che i critici letterari abbiano cominciato a prestare attenzione ai testi di Anne soltanto più di quarant’anni dopo la pubblicazione di Het Achterhuis. Peraltro, la chiave dell’enigma riguardante il nome Kitty era lì da quarant’anni. Il 21 settembre 1942 Anne scriveva: «Sono entusiasta della serie di Joop ter Heul», e tre settimane dopo, il 14 ottobre: «Per inciso, penso che Cissy van Marxveldt scriva benissimo.» Lo storico olandese Berteke Waaldijk aveva già evidenziato il collegamento con van Marxveldt nel 1993. Il critico Soeting ha poi addirittura raccontato che van Marxveldt fosse la prima persona cui Otto Frank aveva fatto leggere il diario di sua figlia, cosa che riempì d’orgoglio la scrittrice. Purtroppo non vi sono prove convincenti a riguardo.

Da quando è stato pubblicato per la prima volta, il diario di Anne Frank è stato considerato in primo luogo, e per decenni, come un documento umano, un objet trouvé, una testimonianza di guerra o una fonte storica, ma non come un’opera letteraria. 

Come abbiamo visto, una prima eccezione è rappresentata da Kurt Baschwitz che scrisse alla figlia Isa all’inizio del 1946: «È il documento più sconvolgente che io conosca su quel periodo, e oltretutto un capolavoro letterario sbalorditivo.» Il diario era probabilmente considerato letteratura per ragazze, non particolarmente soggetta, almeno in passato, ad analisi letteraria. Soprattutto negli Stati Uniti il diario era stato destinato a uso educativo: non se ne esploravano gli aspetti letterari, ma serviva a mostrare quanto cattivi o buoni possano essere gli umani. Anche l’enfasi messa sull’opera teatrale e le differenze fra il testo del diario e il testo scenico hanno impedito una valutazione delle sue qualità letterarie.

È perciò curioso che, nonostante ciò, nel 1957 fosse stato istituito un premio letterario Anne Frank, destinato a giovani autori al di sotto dei 30 anni. Gli autori americani dell’opera The Diary of Anne Frank avevano stanziato 5.000 dollari per questo premio. I vincitori furono Harry Mulisch per il suo romanzo Archibald Strohalm, pubblicato cinque anni prima, e Cees Nooteboom per il suo primo libro Philip e gli altri. Il premio fu assegnato annualmente fino al 1966, e a metà degli anni ottanta si tentò di rinverdire l’anima dell’evento. Nel 1985 il sindaco di Amsterdam consegnò il premio alla scrittrice ebrea polacca Ida Fink (1921-2011).

Intitolare un premio letterario ad Anne e non riconoscerla come autrice letteraria può sembrare una contraddizione. Il mancato riconoscimento del diario come letteratura ha indubbiamente fatto sì che esso sia stato raramente, se non mai, fonte d’ispirazione letteraria. Eppure ha dato vita a decine di composizioni musicali, così come ad altrettante sculture e dipinti. Una singolare eccezione letteraria la dobbiamo all’autore ebreo americano Philip Roth e al suo libro del 1979, Lo scrittore fantasma.

«Se la documentazione relativa ad Anne Frank è cospicua, non si può dire altrettanto per le menzioni del diario nelle opere letterarie di riferimento», ha sottolineato il critico letterario Arjan Peters durante un convegno tenutosi ad Amsterdam nel 2007, in occasione del sessantesimo anniversario della pubblicazione di Het Achterhuis. Trent’anni prima, negli Stati Uniti, il poeta John Berryman (1914-1972) aveva già evidenziato l’aspetto letterario di The Diary of a Young Girl: «L’opera ha un deciso merito letterario; è vivida, spiritosa, candida, astuta, drammatica, patetica, terribile – ci si innamora della ragazza, la si trova formidabile, fino a che non ci spezza il cuore».

Probabilmente Berryman era stato troppo lungimirante, perché rimase a lungo una voce solitaria. Nel 1980 in Het geminachte kind [La bimba disdegnata], lo scrittore olandese Guus Kuijer definiva Anne una grande scrittrice che aveva raggiunto un «successo letterario» e scritto «un capolavoro». Ed era particolarmente arrabbiato per il fatto che Het Achterhuis non fosse considerato letteratura, per il solo fatto di esser stato scritto da una ragazzina.

La pubblicazione di De Dagboeken van Anne Frank nel 1986 innescò una rinnovata attenzione nei confronti di quanto Anne aveva effettivamente scritto. In questa edizione era possibile rintracciare i suoi sviluppi come scrittrice. La pubblicazione dell’edizione definitiva di Het Achterhuis nel 1991 provocò ugualmente un dibattito sulla natura letteraria della scrittura di Anne.

da “Il fenomeno Anne Frank”, di David Barnouw (postfazione di Massimo Bucciantini), Hoepli, 2022, pagine 179, euro 17,90

Da "il Giornale" l'1 febbraio 2022.

La casa editrice olandese che ha pubblicato un saggio in cui il delatore che portò la polizia ad arrestare Anna Frank e la sua famiglia viene identificato in un ricco notaio ebreo di Amsterdam si è scusata pubblicamente. Ambo Anthos ha detto che non stamperà più copie del volume, firmato da Margaret Sullivan e intitolato «Il tradimento di Anna Frank» fino a quando gli autori non offriranno prove più concrete di quelle finora pubblicate.

 «Avremmo dovuto avere un approccio più critico», ha detto la casa editrice. Negli Usa il libro è stampato da HarperCollins che non ha fatto ancora commenti. Dopo la pubblicazione del volume, storici olandesi avevano gettato dubbi sulle conclusioni dell'inchiesta coordinata dall'ex agente dell'FBI Vincent Pankoke che aveva puntato i riflettori sul notaio Arnold van den Bergh.  

«Offrono informazioni che meritano approfondimento, ma nessuna base per l'accusa centrale», aveva detto Ronald Leopold, il direttore della di Anna casa -museo Frank che ha deciso di presentare le scoperte del gruppo di Pankoke come «una delle tante teorie» considerate nel corso degli anni.

Anna Frank: esperti gettano dubbi sul notaio delatore. ANSA il 19 gennaio 2022.

E' stato davvero un ebreo di Amsterdam a tradire Anna Frank? Storici olandesi gettano dubbi sulle conclusioni dell'inchiesta coordinata da un ex agente dell'Fbi secondo cui il ricco notaio Arnold van den Bergh avrebbe indirizzato la polizia nella soffitta di Prinsengracht dove la famiglia Frank si nascose per due anni per sfuggire ai campi di sterminio.

L'indagine dell'ex agente dell'Fbi Vincent Pankoke e di un 'dream team' di investigatori e ricercatori d'archivio, pubblicata ieri nel libro "The Betrayal of Anne Frank" di Rosemary Sullivan in vista della Giornata della Memoria il 27 gennaio, ha ricevuto nelle ultime ore una vasta copertura in tutto il mondo. Oggi però in Olanda numerosi esperti hanno espresso dubbi sulle conclusioni: "Offrono informazioni che meritano approfondimento, ma nessuna base per l'accusa centrale", ha detto Ronald Leopold, il direttore della casa-museo di Anna Frank che presenterà le scoperte del gruppo di Pankoke come "una delle tante teorie" considerate nel corso degli anni.

Molti hanno poi contestato il peso dato nel corso dell'inchiesta al Jewish Council di Amsterdam, un comitato di collaborazionisti di cui van den Bergh era stato tra i fondatori e che, secondo gli investigatori, avrebbe tenuto liste dei nascondigli degli ebrei come quello dove si erano chiusi i Frank. "Accusano senza dare vere prove", ha detto Laurien Vastenhout, una ricercatrice del NIOD Institute for War, Holocaust and Genocide Studies: "Ancora una volta abbiamo una narrativa in cui sono gli ebrei ad essere i colpevoli". (ANSA).

Olocausto. La teoria della delazione di Anna Frank da parte di un notaio ebreo suscita notevoli dubbi.  Thierry Clermont su La Repubblica il 20 gennaio 2022.

Secondo gli specialisti, scottati da ricorrenti tesi revisioniste, le “prove” addotte da un nuovo libro firmato da Rosemary Sullivan esigono una contro-indagine. Anna Frank, morta a Bergen-Belsen nella primavera del 1945, fu denunciata e tradita davvero da un notaio, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam (Oodse Raad) nell’estate del 1944, quando la quindicenne viveva in clandestinità con la sua famiglia? Questa è l’ipotesi avanzata da un libro in uscita mercoledì per HarperCollins dopo una campagna pubblicitaria ben mirata. 

Da ANSA il 17 gennaio 2022.

Un'investigazione storica svolta negli Usa ha individuato a oltre 75 anni di distanza il presunto delatore che tradì Anna Frank, giovanissima vittima della Shoah resa celebre dal diario intimo scritto durante l'occupazione tedesca dell'Olanda nella Seconda Guerra mondiale, vendendola di fatto ai nazisti insieme alla sua famiglia per cercare di salvare la propria. 

L'uomo sarebbe Arnold van den Bergh, membro della comunità ebraica di Amsterdam, e il suo nome è venuto alla luce come quello del "probabile" responsabile della cattura di Anna (morta poi quindicenne in un campo di sterminio nel 1945) al termine di 6 anni di ricerche condotte da una team di storici, esperti e anche da un ex detective dell'Fbi.

L'indagine si è avvalsa di moderni metodi utilizzati al giorno d'oggi per la riapertura di un cosiddetto 'cold case', un caso criminale irrisolto da anni: inclusi algoritmi computerizzati in grado di scavare nelle connessioni storiche fra numerose persone, come riportano i media internazionali. Van den Bergh fu componente del Jewish Council, organismo collaborazionista resosi disponibile a facilitare l'attuazione della politica d'occupazione nazista, salvo essere comunque smantellato nel 1943 con l'invio finale anche dei suoi membri nei lager.

Avrebbe tradito la famiglia Frank, "dopo aver perduto una serie di protezioni ed essersi ritrovato nella necessità di offrire qualche informazione di valore ai nazisti, per cercare di mantenere in salvo se stesso e sua moglie", ha detto Vince Pankoke, ex agente dell'Fbi e membro del team investigativo, in un'intervista a 60 Minutes dell'americana Cbs ripresa fra gli altri dalla Bbc.

Estratto dell’articolo di Frediano Sessi per il "Corriere della Sera" il 17 gennaio 2022. 

(...) Tra tutti gli indagati rimaneva solo il notaio ebreo, membro del Consiglio ebraico di Amsterdam, Arnold van den Bergh. Sposato con tre figlie, era stato membro della commissione del Consiglio ebraico che, su ordine dei nazisti, doveva selezionare i nomi degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione. Ricco e rispettato, nato nel 1886, era riuscito a farsi inserire nella lista del tedesco Hans Georg Calmeyer che, ufficialmente, dichiarò la sua non appartenenza alla razza ebraica. 

Per questo, nonostante il decreto nazista che obbligava i notai ebrei olandesi a cedere la loro attività, Arnold van den Bergh poté svolgere il suo lavoro fino al gennaio del 1943, fino a quando un collega ariano, destinato a occupare il suo studio, J. W. A. Schepers, lo denunciò alle SS e gli fece perdere i suoi privilegi. Nel gennaio del 1944, Arnold van den Bergh venne informato dall'ufficio di Calmeyer che da quel momento lui e la sua famiglia erano passibili di arresto.

Dopo essere riuscito a mettere in salvo le figlie grazie ai suoi conoscenti che militavano nella Resistenza, come moneta di scambio per salvare se stesso e la moglie, offrì alla polizia tedesca un certo numero di indirizzi di ebrei nascosti, senza sapere che la numero 263 di Prinsengracht c'erano i Frank. Ebrei venduti ai nazisti da un ebreo, una scoperta sconcertante, ma ormai da anni studiata e approfondita dagli storici dell'Olocausto e dai sopravvissuti, tra i quali Primo Levi. 

Nell'elaborare il concetto di «zona grigia», a partire da un libro di uno storico olandese, Jacob Presser, che ha raccontato la lotta per la vita degli ebrei prigionieri dei nazisti, Levi scrive: «È ingenuo, assurdo e storicamente falso ritenere che un sistema demoniaco, qual era il nazionalsocialismo, santifichi le sue vittime: al contrario esso le degrada, le sporca, le assimila a sé».

Nel libro di Rosemary Sullivan, scritto come un romanzo, oltre alla conclusione scioccante, si coglie la pietas che la scrittrice rivolge al colpevole, contagiato dal male, e si comprende bene come ciò renda ancor più colpevoli i tedeschi. L'autrice, nel proporre al mondo la scoperta della verità, non si sofferma a esprimere un giudizio morale, perché sa che la condizione di offeso non esclude la colpa e se anche questa è obiettivamente grave, come ci ricorda Levi, non c'è tribunale umano «a cui delegarne la misura». Il libro, curato in modo eccellente, con un buon apparato di note e bibliografico, fornisce elementi importanti a comprendere anche il contesto storico in cui ebbe luogo questo dramma.

Un'indagine americana individua il traditore di Anne Frank. La Repubblica il 17 Gennaio 2022.  

Secondo le ricerche di un team di storici e investigatori il delatore fu Arnold van den Bergh, membro della comunità ebraica di Amsterdam. La rivelazione in un libro che sbarca anche in Italia.

Anne Frank potrebbe essere stata tradita da un notaio ebreo. È questa la rivelazione sconcertante a cui giunge un’indagine americana: sarebbe stato individuato il probabile delatore che tradì la giovane vittima della Shoah resa celebre dal diario in cui raccontava la sua prigionia durante l’occupazione tedesca nell’Olanda nella seconda guerra mondiale. Se la notizia è vera, Arnold van den Bergh, membro della comunità ebraica di Amsterdam, rivelò il nascondiglio della famiglia di Anne per salvarsi la pelle. Il suo nome è venuto alla luce come quello del "probabile" responsabile della cattura di Anne (morta poi quindicenne in un campo di sterminio nel 1945) al termine di 6 anni di ricerche condotte da un team di storici, esperti e anche da un ex detective dell'Fbi.

L'indagine si è avvalsa di moderni metodi utilizzati al giorno d'oggi per la riapertura di un cosiddetto "cold case", un caso criminale irrisolto da anni: inclusi algoritmi computerizzati in grado di scavare nelle connessioni storiche fra numerose persone.

Van den Bergh, componente del Jewish Council, organismo collaborazionista resosi disponibile a facilitare l'attuazione della politica d'occupazione nazista, avrebbe tradito la famiglia Frank, "dopo aver perduto una serie di protezioni ed essersi ritrovato nella necessità di offrire qualche informazione di valore ai nazisti, per cercare di mantenere in salvo se stesso e sua moglie", ha detto Vince Pankoke, ex agente dell'Fbi e membro del team investigativo, in un'intervista  Il notaio doveva selezionare, su ordine dei nazisti, i nomi  degli ebrei da inserire nelle liste di deportazione. Quando cadde in disgrazia, denunciato da un collega alle Ss, ricorse alla delazione come moneta di scambio fornendo alla polizia tedesca alcuni indirizzi di ebrei nascosti. 

La vicenda è al centro del saggio di Rosemary Sullivan (HarperCollins, in libreria dal 20 gennaio) intitolato Chi ha tradito Anne Frank. Indagine su un caso mai risolto. Il libro ricostruisce proprio la vicenda della squadra di specialisti che ha indagato intorno alla delazione che portò all'arresto di Anne e dei suoi familiari. Un'equipe coordinata da Vince Pankoke e composta da decine di ricercatori e analisti, e da Thijs Bayens, cineasta olandese; Pieter van Twisk, storico e giornalista; Vince Pankoke, ex agente Fbi. 

Anna Frank, trovato l’uomo che la tradì: fu un notaio ebreo. A 75 anni di distanza, un team coordinato dall’Fbi statunitense sembra finalmente aver svelato il mistero e individuato il delatore più celebre della Seconda guerra mondiale. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 17 gennaio 2022.

È stato uno dei “cold case” più misteriosi della storia recente che per decenni ha impegnato i ricercatori senza che ne venissero a capo: chi nel 1944 consegnò Anna Frank alla Gestapo di Amsterdam destinandola alla morte nel campo di sterminio di Bergen Belsen?

In principio venne accusato un magazziniere con precedenti per furto che viveva nello stesso quartiere del nascondiglio, Willem van Maaren, ma nessun ex membro della Gestapo ha mai confermato la sua identità e l’uomo fu scagionato. Poi venne il turno di Lena Hartog-van-Bladeren, che lavorava come donna delle pulizie nel magazzino “Opekta e Gies & Co” di proprietà di van Maaren ma gli storici hanno scagionato anche lei. Allo stesso modo della n nota collaborazionista. Ans van Dijk che rivelò ai nazisti l’identità e i nascondigli di almeno duecento ebrei olandesi.

Ora, a 75 anni di distanza dalla scomparsa della giovane martire del nazismo, un team coordinato dall’Fbi statunitense sembra finalmente aver svelato il mistero e individuato il delatore più celebre della Seconda guerra mondiale: si tratterebbe di Arnold van der Bergh un notaio ebreo vicino di casa della donna che nascondeva Anna e altri quattro membri della sua famiglia; van der Bergh era un noto esponente della comunità ebraica della città olandese, esponente di spicco del Jewish Council di Amsterdam. L’organismo venne coptato dai nazisti che in cambio delle delazioni promettevano immunità. Il notaio denunciò Anna e i suoi cari per mero interesse, ovvero per evitare la deportazione di campi di sterminio tanto che continuò a vivere tranquillamente nel centro Amsterdam fino al 1950 anno in cui morì per cause naturali.

Le conclusioni dell’inchiesta durata cinque anni sono state raccolte nel volume Het verraad van Anne Frank, (Chi ha tradito Anna Frank) pubblicato da HarperCollins France e dovrebbero mettere la parola fine sull’identità del “traditore”. O quasi, perché come spiegano gli autori: «Poiché naturalmente non ci sono immagini né è stato possibile lavorare sul Dna bisogna fare affidamento su prove circostanziali: la sicurezza al 100% non potremo mai averla, ma credo che ci avviciniamo all’85%».La prova maestra delle indagini guidate dall’agente del Fbi Vince Pankoke assieme al videomaker olandese Thijs Bayens, e allo storico e giornalista Pieter van Twisk, durante le quali sono state esaminate centinaia di migliaia di documenti in otto paesi e ascoltate una settantina persone, è rappresentata dalla copia di una lettera anonima ricevuta dal padre di Anna Frank, Otto, nel 1946 e nella quale viene menzionato il nome del notaio, deceduto nel 1950.

La lettera è stata ritrovata tra gli archivi di un ufficiale di polizia e spiegava che il nascondiglio segreto della famiglia Frank era stato rivelato da un uomo chiamato Arnold van den Bergh; un uomo che aveva dato ai nazisti anche un’altra serie d’indirizzi e preziose liste di nomi. Il fatto che non si tratti di un documento originale lascia spazio ancora ad alcuni dubbi. Anna Frank visse nascosta assieme ad altre quattro persone in una casa di Amsterdam al numero 263 di Prinsengrachttrat tra il 1942 e il 1944. Nell’agosto di quell’anno, il nascondiglio venne rivelato ai nazisti. La famiglia fu deportata prima a Birkenau- Aushwitz e successivamente a Bergen Belsen. Solo il padre Otto sopravvisse all’internamento e fu proprio lui che decise di rendere pubblico il toccante diario in cui la figlia raccontava la vita nell’alloggio segreto.

Le storie dimenticate degli italiani non ebrei deportati ad Auschwitz. LAURA FONTANA Il Domani il 22 Gennaio 2022.

Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione).

Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione.

L’intuizione di approfondire queste vicende mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo. Sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici).

LAURA FONTANA. Storica della Shoah ed esperta di didattica. È responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah di Parigi, ha pubblicato numerosi saggi scientifici in diverse lingue. È autrice di Gli Italiani ad Auschwitz. 1943-1945. Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime, Oswiecim, Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2021.

L’INCOMPARABILE PARAGONE TRA LA SHOAH E LE FOIBE. La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato. RAOUL PUPO Il Domani il 21 Gennaio 2022.

La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le Foibe. In alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.

Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.

RAOUL PUPO. Storico. Professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste. Tra le sue ultime pubblicazioni: Fiume città di passione (Laterza, 2018), Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (Laterza, 2021), Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio (ediz. aggiornata, Rizzoli, 2022).

Foibe silenziate, altre vergogne a Roma e a Milano. Carla Cace: “Riduzionismo strisciante”. Augusta Cesari venerdì 4 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Ancora un vergognoso riduzionismo sulle foibe a pochi giorni dal 10 febbraio. “I consiglieri di maggioranza del Municipio XIII, con un imbarazzante teatrino, hanno prima presentato e poi ritirato un atto sulla Memoria.  Ma cosa ancora più grave, hanno bocciato una nostra mozione che prevedeva un dibattito sulle Foibe. Organizzato, a titolo gratuito, dall’associazione di promozione sociale “Comitato 10 Febbraio”. Accade a Roma, la denuncia è del capogruppo di Fratelli d’Italia in Municipio XIII, Isabel Giorgi e i consiglieri municipali di FdI, Marco Giovagnorio e Simone Mattana. Un atto gravissimo. Nulla di nuovo sotto il sole, si potrebbe dire amaramente. Ma ogni anno va sempre peggio e il ricordo della tragedia italiana trova sempre un muro di ostracismo. Vietato ricordare. 

Roma, il XIII Municipio vieta un dibattito sulle foibe

“Una decisione assurda, mai successa prima in Consiglio, che infanga la memoria di migliaia di persone morte in questo tragico eccidio; e soprattutto non rispetta la legge 92 del 2004 attraverso la quale il Parlamento ha designato il 10 febbraio come “Giorno del Ricordo”. I rappresentati di FdI sono attoniti, sconcertati. “Mentre nelle scuole di ogni genere e grado saranno previste iniziative; nonché la realizzazione di studi, convegni e incontri  per favorire e diffondere la memoria di queste vicende; nel Municipio XIII sarà vietato “ricordare”. Tutto ciò è semplicemente vergognoso”. Si è già scatenata la vergogna, a più riprese.

Foibe, Milano: il 10 febbraio sarà una cerimonia “carbonara”

L’iniziativa di Gorizia con il convegno negazionista, presente Eric Gobetti (“E allora le foibe“?) non è il solo punto di caduta. A Torino c’è stata la vergognosa protesta di tutto il sinistrume, Anpi in testa, per una locandina che mostra i comunisti partigiani di Tito “troppo brutti” e mostruosi. Ne sa qualcosa l’assessore regionale Maurizio Marrone di FdI, promotore di un ciclo di iniziative per il 10 febbraio. Preso di mira per un manifesto “troppo realistico”. Già, meglio silenziare e rendere “meno orribili” i fatti raccapriccianti. E in effetti è quel che succederà a Milano. Qui la cerimonia per i familiari degli esuli giuliano dalmati sarà una cerimonia “carbonara” come hanno denunciato le associazioni. Ci sarà infatti una cerimonia in tono minore. In programma fra una settimana in piazza Della Repubblica, dopo tanti ritardi, è stata infine collocata una bella stele realizzata  da Piero Tarticchio, punto di riferimento per la comunità degli esuli istriano-dalmati. Ebbene, il comune di Milano ha fatto già sapere che la cerimonia sarà “silenziata”: non sono previsti discorsi e neanche la figura di un sacerdote.

Foibe, Milano umilia i familiari  delle vittime

Anche quest’anno il Comune di Milano ha deciso di celebrare così, «a metà», il Giorno del ricordo. «Una cerimonia carbonara» la chiama Tarticchio, mentre spiega la sua intenzione di non essere presente quella mattina. «Per noi è un giorno sacro, una cerimonia carbonara è inutile», dice al Giornale. “Palazzo Marino parla di restrizioni ineludibili legate alla pandemia, per un evento in programma il 10, giorno precedente allo smantellamento di molte misure”. Tutto molto pretestuoso: «Siamo molto amareggiati, dispiaciuti – dice Romano Cramer segretario del Movimento Istria Fiume Dalmazia al Giornale -. Noi siamo ligi alle regole, ma non comprendiamo queste restrizioni. Esprimiamo il nostro disappunto, ci dispiace che non si possa dire una parola, che non possa neanche intervenire il sacerdote con due parole di conforto ai familiari delle vittime».

Carla Cace: dal negazionismo al giustificazionismo

C’è una morale triste da trarre da tutto ciò: ”A tanti anni di distanza dall’istituzione della legge del giorno del Ricordo non si può più parlare di negazionismo: perché in realtà nessuno nega il fenomeno delle foibe e dell’esodo. Ma i rischi sono quelli del riduzionismo e del giustificazionismo che avanzano in maniera serpeggiante ma preoccupante”. E’ la morale che trae la presidente dell’Associazione nazionale dalmata, Carla Cace.  ”Già lo scorso anno abbiamo fatto una contro-lista con tutti i punti del libro di Gobetti che erano assolutamente indecorosi”, ricorda con l’Adnkronos. “Quindi abbiamo fatto un contro fact checking che abbiamo fatto circolare per il 10 febbraio”. “Il problema è che tra le giovani generazioni solo uno studente su cinque sa rispondere correttamente alla domanda che cosa sono le foibe. E queste iniziative continuano a far circolare la disinformazione”.

Un docufilm dell’Associazione nazionale dalmata

A questo proposito la presidente dell’associazione nazionale dalmata annuncia: ”il 10 febbraio lanceremo il trailer di un cortometraggio: un docufilm di 15 minuti che daremo gratuitamente a tutte le scuole d’Italia. Affinché tutti gli insegnanti possano avere uno strumento da cui partire e su cui costruire un dibattito. Spesso ci è capitato che insegnanti o associazioni o gente che voleva approfondire questo argomento ci dicesse ‘non abbiamo del materiale che ci supporti”’. ”Abbiamo realizzato questo docufilm, tra l’altro sottotitolato in inglese, che diffonderemo anche a livello internazionale: tanto più che il 10 febbraio sarà lanciato anche al consolato italiano di New York – spiega – Ricordiamoci che dopo questi drammi migliaia e migliaia di esuli decisero di partire alla volta dell’America e dell’Australia, emigrarono scioccati. Ed è importante riunire anche questa comunità di cui poco si parla. Anche perché a ormai 80 anni di distanza la tragedia delle foibe va inserita correttamente tra i genocidi e tra i crimini contro l’umanità dei totalitarismi del ‘900”.

COME NELLA CASA DEGLI SPECCHI. La memoria vive di rifrazioni e continue distorsioni prospettiche. GURI SCHWARZ su Il Domani il 25 gennaio 2022.

Dall’inizio della pandemia abbiamo assistito, in Italia e all’estero, al moltiplicarsi di analogie banalizzanti tra la Shoah e il nostro presente. Merita però interrogarsi sul significato di quelle tentazioni analogiche.

Quando è cosa viva, la memoria si nutre di analogie, di metafore e di allegorie, di accostamenti spesso azzardati, di connessioni multidirezionali e di ibridazioni della più diversa specie.

Evocare la persecuzione degli ebrei è oggi forse il modo più semplice ed efficace per alludere a una condizione di oppressione. Quando si stimola l’inconscio collettivo con temi sovraccarichi di potenza emotiva, gli esiti sono imprevedibili.

GURI SCHWARZ. Professore associato di Storia contemporanea all'Università di Genova. Nel 2010 ha cofondato la rivista online open access Quest. È co-editor della serie di libri Routledge Studies in the Modern History of Italy. 

IL MANTENIMENTO DELL’UMANITÀ. Non solo Resistenza armata: l’opposizione ebraica durante la Shoah. DANIELE SUSINI, storico, su Il Domani il 24 gennaio 2022.

La resistenza degli ebrei durante la Shoah, per certi aspetti è un tema eretico, perché va contro il paradigma vittimale a cui ancora oggi sottoponiamo gli ebrei.

È stato soprattutto il grande storico israeliano Yehuda Bauer a rileggere il paradigma di cosa è stata la resistenza ebraica e chi sono stati i resistenti ebrei. Per Bauer il concetto di Resistenza, in una condizione come quella della Shoah, non poteva essere relegato negli angusti confini della Resistenza armata.

Bauer fa rientrare nelle forme di Resistenza anche i gesti di solidarietà tra ebrei, come pure le attività socio-assistenziali finalizzate a contrastare inedia e abbandono, finanche l’autoaiuto per sfuggire alla morte. 

DANIELE SUSINI, storico. Direttore del Museo Linea Gotica Orientale di Montescudo Monte Colombo. È autore di La resistenza ebraica in Europa - Storie e percorsi, Donzelli Editore.

Sulla colpa collettiva siamo ancora alla preistoria. Giornata della Memoria, siamo ancora tutti coinvolti nell’orrore della shoah. Massimo Donini su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Lo Yad Vashem, il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, costituisce per il visitatore un’esperienza che segna la vita, come pochi altri eventi solo raccontati, o filmati, sanno fare. Un altro luogo è il Museo della Pace di Hiroshima. Siamo sempre là, attorno a événements impensati che accaddero durante la seconda guerra mondiale. Esperienze originarie, che ci riportano alla nostra origine, “dentro”. Quei fatti furono in qualche misura pensati da qualcuno prima di essere attuati. Ma non è vero che ciò che si fa corrisponda a quanto si è immaginato prima che accadesse. La realizzazione ha spazi di autonomia nuovi, staccati dalle menti e dalle volontà primigenie.

La sua visione a posteriori è spesso sconcertante per gli stessi protagonisti, perché si capisce davvero solo dopo (“che cosa ho fatto?!”), e può non bastare la vita che resta per giungere alla sua piena comprensione o accettazione: perché capire significa soffrire e rivivere la verità dei fatti, la sola che costringe a vedere davvero, e a camminare nudi per la strada, come un corpo senza riparo. Ma significa anche suddividere le colpe. L’illusione dei giuristi, dei giudici, dei legislatori, della opinione pubblica è di formalizzare in schemi di valutazione i fatti della vita come se una colpa che si colloca nel pensiero e nella volontà di un singolo potesse davvero sopportare il peso di quanto è poi accaduto: questo scarto si fa ancora più evidente se sono in gioco condotte collettive, che dovrebbero chiamare in causa il tema della responsabilità di un gruppo, di un esercito, di una nazione e forse anche di una intera specie biologica.

Perché è di questo che dobbiamo parlare oggi. Di una responsabilità che va oltre quelle individuali, politiche, giuridiche o nazionali.

Qual è la nostra colpa verso gli ebrei? Questa la domanda diretta. L’esperienza del sentirsi colpevoli è un fatto culturale. Se ne può fare volentieri a meno, anche dopo una sentenza definitiva. Decisivo, per la nostra riflessione sulla colpa collettiva per l’Olocausto, è che cosa resta del valore della legge senza i diritti. «Hitler ha imposto agli uomini nello stato della loro illibertà un nuovo imperativo categorico: organizzare il loro pensare e agire in modo che Auschwitz non si ripeta, non succeda niente di simile. Questo imperativo è tanto resistente alla sua fondazione quanto una volta la datità di quello kantiano. Trattarlo discorsivamente sarebbe un delitto […]. Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura […]. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini». In queste parole di Theodor W. Adorno (Negative Dialektik, tr. it. 1970, 330 s.) c’è la presa di coscienza di dover rispondere, e la risposta è atto di responsabilità.

Non è ancora l’ascrizione di una colpa collettiva, ma questo passaggio, che sarà compiuto per la colpa tedesca da Karl Jaspers, The Question of German Guilt (1946) e più in generale da Hannah Arendt, Collective Responsibility (1987), ci induce a una riflessione etica. Sono tutte voci ebraiche quelle ricordate, ma molte altre se ne potrebbero aggiungere. Nessun popolo ha subìto persecuzioni millenarie come il popolo ebraico. Chi volesse scorrere i volumi della Histoire de l’antisémitisme di Léon Poliakov ne avrebbe l’esperienza, più che la prova. L’Olocausto è coerente con una colpa internazionale di discriminazione dell’ebreo. Pur non costituendone una conseguenza “logica”, né prevedibile, è peraltro culturalmente preparato dalla storia, e da quella delle religioni in particolare. Che l’umanità dovesse essere salvata da se stessa, dopo Hiroshima e Nagasaki, appariva ancora qualcosa di meno grave, perché l’impiego di un’arma così letale rappresentava, in fondo, il prevedibile sviluppo della tecnologia militare; viceversa, che l’umanità dell’Europa più colta ed educata fosse così imbelle nel tutelare i diritti fondamentali, ma anzi capace di genocidi scientifici, apparve inusitato di fronte alla visione filmata dell’orrore pianificato: la macellazione di milioni di esseri umani deprivati di nome e identità.

Anche se l’Antico Testamento conosce il genocidio di annientamento, dal diluvio universale a quello degli Amaleciti, esso non concepisce mai le vittime come non persone da eliminare, ma come persone collettivamente punite. Non erano ancora crimini contro l’umanità in quanto tale, annientata per ragioni di diversità religiosa, etnica, razziale. Anzi l’ebreo nell’Europa della diaspora poteva sempre convertirsi e ritornare incluso. Invece, smarrita l’anima delle vittime, l’eredità tollerante dell’illuminismo e della sua laica legislazione non aveva impedito, ma anzi reso possibili questi eventi. La biopolitica del regime nazista ha così prodotto l’inumano che, realmente scoperto dopo Norimberga, sarà compreso nel suo disvalore solo nei decenni successivi. È stato come un big bang, un universo dei diritti in espansione, cominciato nel 1946, e ancora in fieri. Possiamo dunque riconoscere che l’Olocausto non fu un genocidio “ordinario”, un “genocidio-mezzo” per prevalere su un nemico, ma un “genocidio-fine”: il suo scopo era la soluzione finale per l’annullamento di una “razza”; non più conversione coatta o segregazione, ovvero ghetto o espulsione. Ora l’alternativa erano l’annientamento o, per casi eccettuati, la sterilizzazione.

Nasceva peraltro universale nell’idea. E, dopo la Shoah e la storia millenaria di pogrom e ghetti, non possiamo più credere nelle leggi o nei capi senza i diritti: i diritti come limite e fondamento dei pubblici poteri, oltre che linfa della società civile. L’inaugurazione, voluta nel 2005 dalle Nazioni Unite, della Giornata della Memoria per le vittime dell’Olocausto ha rappresentato un impulso importante alla presa di coscienza pubblica di un evento unico, non per il numero in sé dello sterminio, ma per l’ideologia dell’annientamento globale, anche se per necessità circoscritto all’Europa. L’Olocausto e la soluzione finale costringono a rileggere la Bibbia, generano il diritto penale internazionale, la bioetica, e più che fare “rinascere” il diritto naturale, sono la scaturigine di un interminabile processo di costruzione di diritti umani sovralegali attraverso gli Stati costituzionali. Un big bang, dunque, da cui si diparte il grande fiume dell’attenzione alle persone offese, i sommersi e i salvati, fino ai nostri giorni.

Il pensiero moderno ha peraltro avversato a lungo l’idea di una colpa collettiva, di “peccati sociali”, riconducendoli al conflitto tra ideologie e politiche, o a interessi economici, a lotte tra partiti e gruppi di potere, puntando a lungo sulla responsabilizzazione giuridica soprattutto degli individui, anche per i crimini di guerra e contro l’umanità. Eppure, ci sono colpe che in questo modo non trovano né riconoscimento, né visibilità. Vengono nascoste da altre categorie di pensiero. Sono responsabilità etico-politiche più che individuali. Sono dunque i “nazisti”, oppure i “fascisti”, che devono “rispondere”. Il che è vero, ma non basta. Perché le colpe collettive, non solo di carattere omissivo, superano il “politico”. La chiave di lettura delle responsabilità individuali e di quelle politiche degli anni ’30 e ’40 del Novecento non deve diventare un alibi per tutti: non c’è tutta la colpa in atti che non esauriscono la causazione di un evento. Perché se la causa non è colpa, quando la riflessione si arresta a una accusa individuale, ciò significa che la pretesa imputazione del singolo finisce per bloccare la ricerca eziologica degli altri fattori.

La giornata della Memoria invece ci interroga intorno alle origini di una persecuzione “senza umanità”, perché la sua matrice non è pura biopolitica, ma si trova nella storia di un bíos senza psyché, nella scomparsa della persona, che non comincia nel giudaismo, né si ritrova nell’Europa cristiana medievale e moderna, ma in quella del Novecento. Smarrita la colpa religiosa delle origini (il deicidio e il ripudio della vera fede), non resta che un pregiudizio razziale, che oltrepassa la berretta gialla dell’ebreo, la sua segregazione infinita. È una violenza non sacra, e travalica le esperienze collettive dei capri espiatori di René Girard; è stato detto da Hans Jonas (Der Gottesbegriff nach Auschwitz, 1987) che l’assenza di ogni intervento soprannaturale regnava nei campi; certo è che quell’assenza nella mente dei nazisti rese possibile il loro disegno. Il fatto che le stesse vittime siano poi a loro volta rimaste coinvolte nella persecuzione palestinese fa parte del più vasto destino-paradosso di una colpa della specie.

Questa colpa non esige processi penali, che ovviamente possono riguardare solo fatti e soggetti determinati, ma ci sottrae alla tentazione di celebrarli con distacco tecnico e vera terzietà, perché anche il giudice dell’Olocausto dell’orrore porta il peso di una compartecipazione. Quando Hannah Arendt, nel libro su Eichmann a Gerusalemme (1964), gettò luci e ombre sul collaborazionismo della dirigenza ebraica europea nella gestione dei lager, conobbe l’ostracismo in patria e il suo scritto divenne tabù in Israele. Ma la giornata della Memoria, senza livellare le diverse colpe, non salva nessuno dalla corresponsabilità. Massimo Donini

L’antisemitismo è un’emergenza sociale del nostro presente. GADI LUZZATTO VOGHERA Il Domani il 20 Gennaio 2022.

Negli ultimi anni l’antisemitismo ha assunto un ruolo sempre più rilevante nel dibattito pubblico, ma non è facilmente identificabile nei suoi tratti salienti.

In special modo in concomitanza con il giorno della memoria, è urgente chiarire quale sia stato il rapporto fra l’ideologia antisemita e le dinamiche politiche, economiche e militari che hanno permesso il funzionamento della macchina dello sterminio organizzata dal nazismo e attuata con la collaborazione di molti altri soggetti.

E, d’altra parte, è necessario interrogarsi su quali siano i meccanismi presenti nella società contemporanea che alimentano e sostengono l’antisemitismo nel nostro presente. 

GADI LUZZATTO VOGHERA. Storico dell'ebraismo e dell'età contemporanea. Dal 2016 direttore della Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano.

Cosa resterà della memoria dell’orrore senza i testimoni? VALERIO DE CESARIS, Rettore Università per Stranieri di Perugia, su Il Domani il 27 Gennaio 2021.

Oggi l’imperativo della tradizione ebraica “Zakhòr” (“ricorda!”), ha acquistato un valore universale, in riferimento alla Shoah. Tanto che nel 2005 l’Onu ha istituito il Giorno della memoria, da celebrarsi ogni 27 gennaio.

Gli interrogativi che il Giorno della memoria pone sono molti. Come ricordare, quando la generazione dei testimoni si sta esaurendo?

Auschwitz è una pietra d’inciampo nella coscienza della civile Europa. È un nome incancellabile. Dimenticarlo, significherebbe tradire il ricordo delle vittime del genocidio, ma anche abbassare la guardia di fronte al razzismo e all’antisemitismo.

Settantasei anni sono trascorsi da quando, nella gelida mattina del 27 gennaio 1945, i soldati dell’Armata Rossa varcarono i cancelli di Auschwitz e si trovarono di fronte l’orrore del lager nazista. I sovietici liberarono circa 7000 prigionieri ancora in vita. Videro le macerie dei forni crematori, fatti saltare in aria dai tedeschi nel tentativo disperato di occultare le prove del genocidio. Si addentrarono tra i sentieri e gli edifici di quel luogo di morte, in cui in breve tempo erano state uccise oltre un milione di persone, dopo la “soluzione finale” decisa da Hitler contro gli ebrei.

Oggi l’imperativo della tradizione ebraica “Zakhòr” (“ricorda!”), ha acquistato un valore universale, in riferimento alla Shoah. Tanto che nel 2005 l’Onu ha istituito il Giorno della memoria, da celebrarsi ogni 27 gennaio. Da allora, si sono moltiplicate le iniziative culturali e pedagogiche, come il treno della memoria, i viaggi delle scuole ad Auschwitz. Visitare quel lugubre angolo d’Europa, in una sorta di pellegrinaggio civile, è necessario.

Assistiamo però al paradosso di una memoria istituzionalizzata e celebrata con solennità che non riesce ad arginare l’antisemitismo, che anzi aumenta, dilaga nel web ed esplode non di rado in atti di violenza contro gli ebrei, in molti paesi.

SE QUESTO È UN UOMO

Per questo gli interrogativi che il Giorno della memoria pone sono molti. Come ricordare, quando la generazione dei testimoni si sta esaurendo? Chi raccoglierà l’eredità di quegli ex deportati, che attraverso il doloroso racconto delle persecuzioni subite hanno mostrato l’abisso in cui l’umanità sprofonda quando si scatenano gli odi più oscuri? Come trasmettere la coscienza storica a un mondo affetto da presentismo, schiacciato sull’oggi, privo di visioni per il futuro e incapace di trarre lezioni dal passato?

C’è anche, come una pagina nascosta della Storia, la vicenda dei rom, ai quali la coscienza europea non ha mai riconosciuto di essere stati vittime della persecuzione, sebbene nei lager nazisti ne siano stati uccisi centinaia di migliaia, forse mezzo milione. Il loro è un genocidio dimenticato. Sempre colpevoli, i rom, agli occhi degli italiani e degli europei. Sono un popolo considerato ancora oggi “abusivo”, intruso. L’Europa del secondo Novecento si è interrogata sulla violenza scaturita dall’antisemitismo, mentre ha continuato a ignorare l’antigitanismo.

Auschwitz è una pietra d’inciampo nella coscienza della civile Europa. È un nome incancellabile. Dimenticarlo, significherebbe tradire il ricordo delle vittime del genocidio, ma anche abbassare la guardia di fronte al razzismo e all’antisemitismo, spettri che incombono minacciosi anche sul nostro tempo. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Gerusalemme”, recita un salmo della Bibbia. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Auschwitz”, dovremmo anche dire.

Ogni memoria, anche quella forte della Shoah, va alimentata dalla cultura e dalla conoscenza storica, altrimenti sbiadisce e diventa mera retorica. Per ricordare davvero, occorre avere senso storico e comprendere i rischi che la dimenticanza del passato pone nel nostro tempo. Non si tratta di fare analogie improbabili tra il passato e il presente, ma di trarre dal passato qualche lezione.

Alcuni giorni fa è circolata sui social la fotografia di un uomo nudo, inginocchiato sulla neve, con lo sguardo a terra, visibilmente disperato. Un migrante intrappolato in un campo in Bosnia, lungo quella rotta balcanica che è diventata un attraversamento dell’inferno per chi spera di raggiungere l’Europa. All’immagine molti hanno associato la celebre poesia di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo…”.

Auschwitz è il simbolo della privazione dell’umanità. Continuare a farne memoria ha soprattutto il senso di condannare e di combattere ogni privazione di umanità nel tempo in cui viviamo. 

VALERIO DE CESARIS, Rettore Università per Stranieri di Perugia. È professore associato di Storia contemporanea (M-STO/04) all’Università per Stranieri di Perugia. Nella sua attività di ricerca, si è occupato inizialmente di storia del giornalismo cattolico.

Nonostante la sofferenza patita, la speranza domina l’abominio. ALBERTO CAVAGLION su Il Domani il 18 Gennaio 2022.

La scrittura del testimone del caos parte da una premessa distruttiva, l’elemento negativo sembrerebbe prevalere, ma assai prima di Auschwitz abbiamo appreso che l’apocalisse non è mai irredimibile.  

Un’antologia scolastica di questi testi, scritti al ritrarsi della lava, sarebbe auspicabile. Sarebbe più utile di un frettoloso, rituale viaggio di istruzione ad Auschwitz. 

La desolazione prodotta dalla pandemia rende prossimi a noi i filosofi del ciononostante, gli antichi e i moderni. Ascoltare le loro voci aiuterebbe a reagire contro le cerimonie stanche e ripetitive che spesso accompagnano il giorno della memoria. 

ALBERTO CAVAGLION. Storico e docente italiano. Laureatosi in lettere e filosofia all'Università di Torino nel 1982, fu dal 1982 al 1984 borsista dell'Istituto italiano per gli studi storici e della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Studioso dell'ebraismo, insegna all'Università di Firenze. È membro del comitato di redazione de "L'indice dei libri del mese" e dal 2012 del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Ha curato edizioni commentate delle lettere di Felice Momigliano a Giuseppe Prezzolini (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1984) e a Benedetto Croce ("Nuova Antologia", n. 2156, ottobre-dicembre 1985, pp. 209–226) e di Se questo è un uomo di Primo Levi (Torino: Einaudi, 2000; n. ed. 2012); l'edizione italiana del Dizionario dell'olocausto (Torino, Einaudi, 2004), gli Scritti novecenteschi di Piero Treves (con Sandro Gerbi, Bologna, Il mulino, 2006), e gli Scritti civili di Massimo Mila (Milano, Il saggiatore, 2011).

Nella legge sul giorno della memoria manca la responsabilità dei fascisti. MICHELE SARFATTI su Il Domani il 15 Gennaio 2022.

Dal luglio 2000 la legge sul Giorno della memoria invita gli italiani a ricordare, ogni 27 gennaio, la Shoah e le «leggi razziali», i deportati politici, i militari internati, coloro che si opposero allo sterminio a rischio della vita.

La legge del 27 gennaio ha una singolare lacuna: il suo titolo e il suo testo menzionano i «campi nazisti», ma non contengono i vocaboli fascismo, fascisti.

Concerne l’insieme della Shoah, la persecuzione antiebraica avvenuta in Italia, tutti i perseguitati italiani, i soccorritori. Né essa, né altre leggi della nostra Repubblica hanno per oggetto la violenza omicida italiana fascista nelle terre colonizzate o occupate e le sue vittime. 

MICHELE SARFATTI. Storico. Studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel Ventesimo secolo. Dal 2002 al 2016 direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC, Milano. Componente del Comitato scientifico e d’onore della Fondazione Museo della Shoah, Roma. Tra le sue ultime pubblicazioni: Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, 2018; Il cielo sereno e l’ombra della Shoah. Otto stereotipi sulla persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, Viella, 2020.

Il dovere di studiare e conoscere le vite dei deportati politici. MASSIMO CASTOLDI su Il Domani il 17 Gennaio 2022.

Gianfranco Maris intuiva già allora i rischi impliciti in una politica della memoria limitata alla pur necessaria narrazione delle vittime, a partire da quando divengono tali, cioè da quando, dopo l’arresto, sono inermi nelle mani dell’oppressore.

L’interesse prioritario per la condizione di vittima assoluta, propria della Shoah, ha fatto sì che nella percezione collettiva tutti i deportati fossero assimilati tra loro.

Anche e soprattutto per questo è importante parlare oggi con maggiore impegno di deportazione politica, ovvero della deportazione di chi si è opposto, di chi ha detto no. Parlare di deportazione politica vuol dire ricostruire la storia di una cultura di opposizione. 

MASSIMO CASTOLDI. Filologo e critico letterario, docente di Filologia italiana all'Università di Pavia. Si è occupato di memorialistica della Resistenza e delle deportazioni, collaborando con la Fondazione Memoria della Deportazione, che ha diretto fino al 2017. Tra le numerose pubblicazioni in ambito letterario e linguistico, ha recentemente pubblicato per Donzelli editore Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti (2018), con il quale ha vinto il Premio The Bridge, e Piazzale Loreto. Milano, l'eccidio e il «contrappasso» (2020).

Tre proposte politiche per rendere più efficace la memoria della Shoah. JOSHUA EVANGELISTA su Il Domani il 27 gennaio 2021. 

Ricordare l’Olocausto ci ha insegnato che di fronte al male estremo si può scegliere. Oggi, vent’anni dopo la legge che ha istituito il Giorno della Memoria, dobbiamo constatare che questo percorso sta mostrando alcune criticità.

La critica, portata avanti dalla Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti attraverso una Carta della memoria, è che quel “mai più” sia nel tempo diventato una formula rituale e retorica e, soprattutto, senza alcun progetto per il futuro.

Oggi la Fondazione verrà ascoltata dalla Commissione esteri della Camera e condividerà tre proposte concrete che possono avvicinare maggiormente il nostro Paese alla prevenzione di nuovi genocidi.

In occasione del 27 gennaio, quando in tutto il paese si ricorda lo sterminio degli ebrei, è importante riflettere sull’efficacia di questa ricorrenza alla luce delle sfide del nostro tempo. Scriveva lo storico Yehuda Bauer che la Shoah è stato un genocidio senza precedenti, che si proponeva di eliminare gli ebrei non solo in un territorio, ma in ogni luogo della terra in quanto elementi corrosivi di tutta l’umanità. La sua memoria ha permesso ad altri popoli, come ad esempio agli armeni e i ruandesi, di rivendicare sulla scena pubblica il diritto al riconoscimento delle proprie sofferenze e, soprattutto, il diritto alla giustizia.

Allo stesso tempo, a livello educativo la riflessione sull’Olocausto è stata fondamentale per far capire che i genocidi non sono stati una catastrofe extra-storica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani, in un campo di battaglia dove c’erano carnefici, complici, giusti, spettatori indifferenti e resistenti. In poche parole, questa memoria ci ha insegnato che di fronte al male estremo si può scegliere, perché nulla è scontato e determinato a priori.

Oggi, venti anni dopo la legge n. 211 del 20 luglio 2000 che ha istituito il "Giorno della Memoria”, dobbiamo constatare che questo percorso sta mostrando alcune criticità che, se non affrontate alla radice, rischiano di limitarne la funzione pedagogica e di mostrare una profonda inadeguatezza rispetto alla possibilità di prevenire nuovi genocidi e, quindi, di rendere effettivo il “mai più”.

La critica, fatta da molti studiosi e portata avanti dalla Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti attraverso una Carta della memoria che è stata sottoscritta da storici, filosofi, politici ed esperti di prevenzione dei genocidi, è che quel “mai più” sia nel tempo diventato una formula rituale e retorica e, soprattutto, senza alcun progetto per il futuro. In altre parole, è come si ignorasse il fine ultimo della memoria.

In quest’ottica, come ha scritto la semiologa Valentina Pisanty ne I guardiani della memoria (Bompiani, 2020), sembra che «l’assolvimento del dovere della memoria sia di per sé garanzia di un futuro libero da ogni ingiustizia paragonabile a quella patita dagli ebrei durante gli anni del nazifascismo». La domanda da porsi è: basta ricordare per tutelarsi contro la possibilità che ciò che è accaduto capiti di nuovo?

La parola genocidio è stata coniata dal giurista ebreo Raphael Lemkin nel 1942 per indicare la volontà di distruzione di una collettività etnica, religiosa o sociale. Lemkin la considerava una minaccia che riguardava l’umanità intera, poiché la distruzione di qualsiasi minoranza annientava non solo chi veniva colpito, ma impoveriva la ricchezza della pluralità umana. Nel dopoguerra Lemkin lavorò strenuamente per la promulgazione di leggi internazionali che proibissero il genocidio, raggiungendo questo obiettivo nel 1951, con l’entrata in vigore della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. C’è un aspetto importante della Convenzione: vi si afferma che devono essere puniti non solo gli atti di genocidio, ma anche l’incitamento diretto e pubblico a commetterli.

Dal ’48 ad oggi, secondo le stime di Genocide Watch, si sono susseguiti più di 55 genocidi con oltre 70 milioni di vittime. Allo stesso tempo sono nati i Tribunali penali internazionali, si è affermato il principio di intervento umanitario e si ragiona intorno all’Early warning system, un sistema di allerta qualora si creano i presupposti per un genocidio.

La memoria della Shoah, oggi, ha senso se politici e cittadini che il 27 gennaio pronunciano “mai più” si impegnano concretamente per contrastare l’odio contemporaneo. Ricordare la Shoah dovrebbe significare scavare a fondo sui meccanismi dell’antisemitismo e interrogarsi sulle complicità che lo hanno permesso, ma nello stesso ragionare sugli strumenti politici e culturali che possono impedire oggi un nuovo genocidio.

Oggi, 27 gennaio 2021, la Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti verrà ascoltata dalla Commissione esteri della Camera dei deputati a proposito di memoria e prevenzione di nuovi genocidi. In quell’occasione condividerà con i deputati tre proposte concrete che possono avvicinare maggiormente il nostro Paese alla prevenzione di nuovi genocidi.

In primis chiederà la nomina di un advisor italiano, all’interno del Parlamento, che lavori con il Consulente speciale dell’ONU e con l’Unione europea. Proporrà inoltre alla Commissione esteri di assumersi l’impegno di redigere ogni anno un rapporto in cui si presentano all’opinione pubblica lo stato internazionale  dei diritti umani nell’ottica di prevenzione di nuovi genocidi (del resto la Shoah ci ha insegnato che la mancanza di informazione è un presupposto basilare per la perpetrazione di crimini contro l’umanità). Infine suggerirà la creazione, anche in Italia, di una agenzia autonoma e indipendente sui diritti umani, che in collaborazione con la Corte penale internazionale possa indagare in modo permanente sullo stato dei diritti nel mondo e sui crimini contro l’umanità.

Sono azioni concrete che porterebbero l’Italia ad aderire a modelli già presenti in altri paesi del mondo e che l’Unione europea ci chiede da tempo. Del resto, fare memoria oggi non può prescindere dal guardare cosa succede ai rohingya in Bangladesh, nei campi di concentramento per uiguri nello Xinjiang, nello Yemen colpito da una guerra fratricida, alla minoranza yazida in Iraq, durante gli scontri nel Sahel. Così fare memoria oggi non può prescindere dal porre la massima attenzione verso i fondamentalismi, i nuovi megafoni dell’odio e quei conflitti che potrebbero scaturire nel futuro prossimo a causa dei cambiamenti climatici.

DAGONEWS il 22 gennaio 2022.

Le biografie di oltre 200 donne delle SS che prestano servizio nel campo di sterminio di Auschwitz e delle loro "feste dopo il lavoro" sono state pubblicate online nel tentativo di mostrare al mondo che non erano coinvolti solo gli uomini.

Intitolato "Donne che lavorano per le SS", il progetto del Museo statale di Auschwitz-Birkenau documenta la vita delle donne al servizio di Adolf Hitler.

Una di loro era Maria Mandl, un'alta guardia delle SS ad Auschwitz dall'ottobre 1942 all'ottobre 1944, e soprannominata "La Bestia" dai prigionieri.

Nata nel 1912, figlia di un calzolaio, iniziò a lavorare nel campo di concentramento nazista a Lichtenburg in Germania nel 1938 prima di essere trasferita al campo femminile di Ravensbruk, sempre in Germania. Nel 1942 fu mandata ad Auschwitz dove divenne famosa per il suo sadismo e per aver mandato "circa mezzo milione di donne e bambini a morire nelle camere a gas". 

Dopo il 1945, Mandl fuggì sulle montagne della Baviera meridionale, ma fu catturata e detenuta a

Dachau. Fu poi consegnata alla Polonia nel novembre 1946 e successivamente condannata a morte per impiccagione a 36 anni.

Ma, oltre all’orrore, le immagini mostrano anche come queste donne si divertissero con le guarie delle SS. Sylwia Wysinska del dipartimento dell'istruzione del Museo di Auschwitz racconta: «Alcune guardie delle SS che lavoravano nel campo trascorrevano il loro tempo libero incontrando gli uomini delle SS dopo il lavoro. Le visite notturne degli ufficiali delle SS devono essere state piuttosto rumorose visto che nel marzo 1943 il comandante proibì loro di entrare negli alloggi femminili. Ma questo non ha impedito alle donne di intrattenere stretti rapporti con gli uomini delle SS. Di conseguenza, dozzine di coppie si sono formate ad Auschwitz e alcune di loro si sono sposate». 

Una di loro era Luise Viktoria Rust. Nata il 14 gennaio 1915 a Varel in Bassa Sassonia, nel novembre 1940 iniziò a lavorare come guardia delle SS nel campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Nella sua autobiografia si legge: «Lavorò ad Auschwitz dall'aprile 1942 al gennaio 1945. In questo periodo, ha incontrato SS Rottenführer Heinz Schulz, che ha sposato nel luglio 1943. Durante i preparativi per il suo matrimonio, ha ordinato che il suo abito da sposa fosse confezionato nel laboratorio di sartoria del campo». 

Jena per “la Stampa” il 10 giugno 2022. . "Siamo ridotti così male che perfino per spiegare l'Olocausto c'è bisogno dell'influencer Chiara Ferragni" 

Da “Oggi” il 27 Ottobre 2022.

Gentile Senatrice Segre, ho letto che il segretario cittadino della Lega a Bologna, Cristiano Di Martino, ha sul braccio un tatuaggio d’ispirazione neofascista. Voglio esprimere la mia piena vicinanza a lei, che invece sul braccio porta il segno di Auschwitz. B.S. 

Risposta di Liliana Segre: 

È vero. Non ho mai voluto cancellare quel numero, 75190, che m’impressero sulla pelle a 13 anni cancellando il mio nome e la mia vita precedente. Non l’ho mai tolto perché non penso di essere io a dovermene vergognare, ma coloro che me lo imposero, e forse anche chi oggi nega o è indifferente a ciò che è stato o non lo rispetta. 

Confesso che non è stato facile convivere con quel numero. Quando sono tornata a Milano dopo il lager ero poco più che una ragazzina. Mi capitava di salire sul tram, con le maniche corte, e di sentirmi chiedere da qualche sconosciuto che cosa fosse. Risultava strano, perché all’epoca quasi nessuno aveva un tatuaggio, non si usava. Era difficile raccontare, spiegare di che cosa si trattasse in una situazione del genere, così cominciai a inventare che era il numero del telefono di casa, che non lo ricordavo e me l’ero segnato… Mentivo per difendermi.

Persino chi mi voleva bene e provava a starmi vicino non riusciva a capire e a comportarsi con delicatezza. Mio zio paterno Amedeo, scampato alla Shoah, aveva ripreso in mano la ditta di famiglia e io spesso lo andavo a trovare. 

Tuttavia non di rado, quando c’erano dei clienti, mi invitava a mostrare loro il mio numero, tra lo sbigottimento generale, mettendomi in grande imbarazzo e rinnovando ogni volta il mio dolore. Ricordo tra gli altri un signore che, di fronte a me, con scioccante superficialità, gli suggerì di comprarmi un braccialetto e coprire tutto.

Più avanti sarebbero arrivate le domande dei miei figli. Interrogativi candidi, naturali, di fronte ai quali però restavo spiazzata, non trovavo le parole. Una volta ero al parco con il mio primogenito Alberto, che avrà avuto sei anni. 

All’improvviso venne da me in lacrime perché un altro bambino gli aveva detto che io avevo “un marchio” e a lui era parsa una parola così brutta… Era piccolo, non poteva capire, e io non seppi consolarlo. Riuscii solo a dirgli che gli avrei spiegato tutto quando sarebbe diventato più grande. 

Nonostante questo, non volli mai togliere quel “marchio”. Altre sopravvissute reagirono diversamente e se lo fecero cancellare. Come la mia compagna Graziella. Anche se la sua non fu proprio una scelta, ma una specie di obbligo da parte del marito. 

Mi dispiacque per lei, non per la decisione in sé, ma per la modalità. Capii ancora una volta quanto fossi stata fortunata: mio marito mi aveva accolta interamente, con il mio numero e la mia storia. Anzi, quando mi conobbe per la prima volta sulla spiaggia di Pesaro, vide il mio tatuaggio e disse: «So cos’è». Era stato un internato militare in Germania, non c’era bisogno di spiegare altro. 

Mi fa un certo effetto oggi vedere tanti giovani che ricoprono la loro pelle di tatuaggi, anche i miei nipoti ne hanno alcuni. Tuttavia capisco che questo gesto abbia un valore del tutto diverso. Innanzitutto è una scelta libera, e forse è un modo di esprimere sentimenti, passioni, ricordi. Un’identità. 

Il contrario di quanto accadde a noi, ai quali il numero fu imposto sulla carne per cancellarla. Di recente ho avuto modo di ascoltare, in un incontro organizzato da Oggi, il ballerino e conduttore Stefano De Martino parlare dei suoi tatuaggi. Ha raccontato che da giovane ne ha fatti molti e che ora invece sta iniziando a toglierne alcuni perché rappresentano spesso una fossilizzazione su situazioni e modi di essere del passato oggi superati. Non sarebbe male se il segretario leghista di Bologna seguisse il suo esempio. 

Francesco Moscatelli per “la Stampa” il 10 giugno 2022.

«Io ho provato a essere una reietta e in un certo senso sono ancora vittima dell'odio dei leoni da tastiera, tanto che la mia carissima amica ministro Lamorgese circa tre anni fa mi ha imposto la scorta. A settembre compirò 92 anni. I miei carabinieri, che ormai fanno parte della mia famiglia, mi hanno detto che sono la più vecchia in Italia ad avere la scorta. Evidentemente qualcuno mi ritiene ancora pericolosa». 

Liliana Segre interviene al Memoriale della Shoah di Milano insieme al ministro dell'Interno Luciana Lamorgese e al capo della polizia Lamberto Giannini per il convegno dell'Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori del Viminale. Un luogo simbolico, sottolineano tutti gli ospiti, perché la persecuzione subita dagli ebrei è l'emblema di tutte le persecuzioni. La senatrice a vita, che poche ore prima ha ricevuto la visita di Chiara Ferragni, si concentra sull'importanza di sconfiggere le discriminazioni anche sui social e sulle nuove piattaforme virtuali. Sorride Liliana Segre, come sempre fa quando davanti a lei ci sono dei giovani a cui vuole trasmettere il suo amore per la vita, ma le sue parole sono dure, amare, difficili da mandare giù.

«Essere qui per me è sempre un momento personale di grande emozione perché il luogo riporta alla mia mente quello che ho vissuto: vedersi praticamente strappare tutto, strappare la vita - confida -. Quando questo luogo ha preso forma ci siamo messi d'accordo sul fatto che la parola scritta a caratteri cubitali all'ingresso fosse indifferenza. L'indifferenza ha tuttora una grandissima parte nel mondo di oggi perché è molto più facile voltarsi dall'altra parte: se una cosa non mi riguarda non mi preoccupo se qualcun altro è vittima di odio, violenza e forse anche di morte. Ogni volta che la vita mi ha dato occasione di combattere l'odio, visto che ne sono stata vittima in prima persona, io ci ho provato».

E vuole continuare a farlo in tutti i modi e con tutti gli strumenti possibili, come aveva spiegato già alcune settimane fa invitando proprio Chiara Ferragni a visitare il Memoriale: «Trascorrendo molto tempo con i miei nipoti ho capito che il mondo è cambiato. E siccome oltre che intelligente e con 27 milioni di follower, Chiara Ferragni si è già impegnata con il marito Fedez in iniziative civili e sociali, ho pensato fosse la persona giusta da coinvolgere». 

L'ha ribadito ieri, interpellata sul significato di questo incontro: «Bisogna capire che per i giovani il futuro è più importante del passato». La risposta della Ferragni è arrivata via Instagram con una foto scattata ieri mattina e una didascalia che preannuncia un suo impegno in prima persona (l'ipotesi è una visita insieme in autunno): «Dopo le nostre chiacchierate telefoniche, oggi ho avuto il piacere di conoscere di persona la senatrice Liliana Segre. La sua storia e la sua determinazione mi hanno molto colpito». Chissà se hanno colpito anche gli studenti dell'istituto tecnico «Oriani Mazzini» che ascoltano la senatrice a vita mentre il soffitto dell'auditorium «Nissim», che si trova proprio sotto le rotaie della stazione Centrale, trema per il passaggio dei treni ad alta velocità.

Un rumore in netto contrasto con il silenzio dei vagoni di legno, immobili sul vicino binario 21, che ottant' anni fa trasportarono migliaia di ebrei italiani nei campi di sterminio nazisti. Presente e passato. E un odio che sembra replicarsi come una pianta infestante. «Di manifestazioni di odio ne vediamo tante, non soltanto per il momento difficile che il nostro Paese, come altri, sta vivendo - conferma il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, spiegando che nel 2021 sono state 449 le segnalazioni giunte all'Osservatorio -. Questi episodi sono accomunati da una matrice di discriminazione verso chi è diverso per colore della pelle, religione, identità di genere e disabilità. Vedo gruppi di giovani che prendono di mira chi è diverso con grande cattiveria, e sul web con viltà, nascondendosi dietro una tastiera, e anche questo dà molto dolore». 

Anche il capo della polizia Lamberto Giannini sottolinea l'aumento dei reati d'odio sul web e invita a respingere «l'idea cospirazionista e del nemico: lo possono fare le forze di polizia ma anche la scuola e la cultura». 

Il nipote di Liliana Segre: «La traccia su mia nonna? L’ho iniziata ma non me la sono sentita». Greta Privitera il 23 giugno 2022.

F. era tra gli oltre cinquecentomila studenti ad affrontare la prima prova di maturità. Quando gli hanno consegnato le tracce ha scoperto che una era dedicata a sua nonna: «Non me lo sarei mai immaginato». 

F. si siede al suo banco, «silenzio», dicono i professori che poi consegnano le tracce. Traccia A) Pascoli, La via ferrata. A2) Verga, Nedda. Bozzetto siciliano. Traccia B1) Gherardo Colombo e Liliana Segre , La sola colpa di essere nati. F. strabuzza gli occhi. Chi? L-i-l-i-a-n-a S-e-g-r-e? «Mia nonna?». «Non l’avrei mai immaginato. Fino al secondo prima ero agitatissimo, appena ho letto il nome di nonna mi sono calmato. Per gli altri la signora Segre è una senatrice, per me è famiglia, è casa. In una situazione così sconosciuta mi sono sentito più sereno leggendo di lei», ci racconta F., che oggi affronta la seconda prova. 

Diciotto anni, studente di un liceo scientifico, F. è un maturando un po’ speciale, anche se vuole essere considerato un «maturando normale» e per questo ci richiede l’anonimato e nessun riferimento alla sua vita: «Ci tengo a essere visto per quello che sono, non con occhi diversi». 

È il nipote più piccolo della senatrice a vita, deportata ad Auschwitz nel 1944. Un saggio adolescente che dopo il liceo forse farà Economia, o forse Fisica, o forse Matematica. «Sono un po’ confuso», dice. Tutto si aspettava tranne di trovare il nome di sua nonna tra le tracce d’esame. «Con i compagni di classe avevamo fatto il toto-tracce. Pascoli lo abbiamo azzeccato, poi pensavamo a Svevo. Sull’attualità eravamo scettici: guerra in Ucraina? Abbiamo pensato al cambiamento climatico».

«La professoressa d’inglese si è avvicinata e mi ha detto: “Hai visto chi c’è?”. Eh, certo che ho visto, ho pensato io», racconta. 

Ok, che B1 sia, si dice in un primo momento. Inizia a scrivere, a rispondere alla prima domanda. Poi si ferma un attimo. «Mi sono immaginato agli orali. Davanti i professori della commissione. Li ho visualizzati leggere ad alta voce stralci del mio tema, e mi sono bloccato. Mentre scrivevo ho capito che avrei avuto un approccio troppo personale rispetto agli altri studenti, e allora ho cambiato in corsa». 

Ok, che B2 sia. Oliver Sacks, Musicofilia. «Un testo sulla musica e il suo potere. Non che io sia un appassionato. Ma non parlava di mia nonna». 

F. finisce il suo esame ed esce da scuola. Davanti al cancello, qualche compagno gli dice «ho fatto il tema su tua nonna, grande!». Scopre che molti hanno scelto la traccia B1, quella che lui ha preferito non fare.

Nonna Liliana è a Roma. Di solito F. le scrive un messaggio su Whatsapp, lei legge ma non risponde: «Credo preferisca le telefonate alle chat».

Appena arriva a casa la chiama al cellulare: «”Nonna, hai visto?” Lei, con tono serio: “Lo hai fatto?”. “No nonna, l’ho cominciato e poi ho cambiato”. “Bravo, F. Scelta giusta”». 

Nonna Liliana non gli spiega perché è meglio che lui abbia optato per un’altra traccia, ma lui lo sa già: «È preoccupata che la sua storia così drammatica influenzi le nostre vite. Il peso sulle spalle preferisce portarlo da sola».

Stefano Lorenzetto per “Oggi” il 3 giugno 2022.

Alberto Belli Paci ha la stessa intonazione di voce della madre. Il giorno in cui lo partorì, nel 1953, Liliana Segre scoppiò in lacrime. Le prime che versava dal 30 gennaio 1944, quando, tredicenne, fu deportata con il padre ad Auschwitz-Birkenau. 

Non era mai riuscita a piangere nel lager e neppure nei 40 giorni passati nel carcere di San Vittore, quinto raggio, l’ultima casa che ebbe in attesa del «trasporto» dalla stazione di Milano alla Polonia. Nella cella 202, di notte si svegliava di soprassalto e trovava il papà inginocchiato al suo fianco a chiederle perdono per averla messa al mondo.

In 605 furono rinchiusi sui carri bestiame. Sarebbero tornati in 20. Il primogenito della senatrice a vita porta lo stesso nome del nonno gasato nel campo di sterminio. Identica anche la fronte e l’attaccatura dei capelli. 

Sua mamma nella Shoah perse altri sei familiari: Olga e Giuseppe, i genitori del padre Alberto Segre, e quattro cugini, Rosa Spiegel con il figlio Felice e Rino Ravenna con il fratello Giulio. « Rino si suicidò gettandosi dall’ultimo piano del raggio mentre eravamo reclusi a San Vittore. Ricordo il suo corpo disarticolato sul pavimento: era il primo morto che vedevo in vita mia», mi raccontò Liliana Segre molti anni fa. Il calvario di Giulio si concluse invece a Fossoli: morì di stenti nel campo di concentramento presso Modena. 

Alberto Belli Paci dopo il liceo si era iscritto a Giurisprudenza. Sarebbe dovuto diventare avvocato come il padre Alfredo e come il fratello Luciano. Invece, al pari della sorella più piccola, Federica, ha preferito dedicarsi ai tessuti nella Segre & Schieppati, fondata nel 1897 dal bisnonno Giuseppe. Poi è stato responsabile estero in varie aziende di abbigliamento.

La moglie Francesca Riva, architetto paesaggista, è morta nel 2020. «La donna della mia vita. Siamo stati insieme 40 anni, gli ultimi cinque a combattere un tumore alle ossa. Ho smesso di girare il mondo, non l’ho lasciata sola neppure per un secondo: è la cosa di cui vado più orgoglioso». Il figlio Edoardo, 34 anni, lavora per una società statunitense. 

Ha mai visto piangere sua madre?

«Rarissimamente. L’ho fatta piangere qualche volta io, da bambino. Ero un pessimo scolaro, molto discolo. Un ribelle». 

Avete mai litigato?

«No. Capitava con mio padre. Ci ha lasciati nel 2008. Ha sacrificato la sua vita agli ideali. L’ho molto ammirato per questo. Aveva 10 anni più della mamma. Era stato allievo della Scuola navale Morosini a Venezia e dell’Accademia militare di Livorno. Fu catturato dai tedeschi in Grecia. 

Passò di lager in lager con gli Imi, internati militari italiani. Di fronte all’alternativa tra fame o adesione alla Repubblica sociale di Benito Mussolini, disse: “Ho giurato fedeltà al re”. E ordinò ai suoi uomini di non firmare. Trascorse la prigionia nelle celle di rigore. Ma non si piegò mai. Era valoroso, di una dirittura morale senza eguali». 

In che modo conobbe la futura moglie?

«I Belli Paci erano di Pesaro. La incontrò lì, in spiaggia. Vide il 75190 che i nazisti ad Auschwitz le avevano tatuato con l’inchiostro blu sull’avambraccio sinistro. “So che significa quel numero”, le sussurrò».

Nel dopoguerra, uno zio aiutò sua madre a cercare notizie del padre Alberto, mai ritornato da Auschwitz.

«Lei arrivò in Italia nell’agosto 1945: pesava 32 chili. Sua madre Lucia Foligno nel 1929 si era sposata, nel 1930 l’aveva data alla luce e nel 1931 era morta, consumata da un tumore 10 mesi dopo il parto, a soli 26 anni. 

Quello zio si chiamava Dario Foligno, sarebbe diventato vice avvocato generale dello Stato. Nel 1933 aveva letto il De civitate Dei e si era convertito al cattolicesimo, scegliendo di farsi battezzare con il nome del santo d’Ippona, Agostino.

Il 16 ottobre 1943 sfuggì al rastrellamento nel ghetto di Roma e trovò rifugio in Vaticano. Portò mia madre da Pio XII. Lei sperava che il Pontefice, essendo stato nunzio a Berlino, potesse aiutarla a rintracciare il papà. Nel Palazzo Apostolico si mise in ginocchio, ma papa Pacelli le disse: “Alzati! Sono io che dovrei stare inginocchiato davanti a te”».

In casa vostra eravate ebrei osservanti?

«No, nessuno dei Segre lo è mai stato. Con le leggi razziali del 1938, mamma fu esclusa dalla scuola pubblica di via Ruffini: la accolsero le suore Marcelline. Papà era cattolico. Lo sono anch’io, benché poco praticante. Ho studiato dai gesuiti, al liceo Leone XIII di Milano, e dai rosminiani a Domodossola. Noi figli siamo stati battezzati tutti e tre». 

A che età apprese che sua madre era sopravvissuta alla Shoah?

«A 13 anni. A raccontarmelo fu un suo cugino che io chiamavo zio Oscar. Era scampato rifugiandosi in Svizzera. Fin da piccolo, al mare, vedevo quel marchio sul braccio di mia madre e le chiedevo che cosa fosse. 

E lei mi dava sempre la medesima risposta: “È una cosa brutta fatta alla mamma da uomini cattivi”. Non diceva: “Che mi hanno fatto”. Proiettava quel dramma all’esterno di sé. Uno sdoppiamento della personalità. Io stesso ho dovuto affrontare parecchi anni di psicoterapia per uscirne». 

Quindi la sinagoga e le 613 mitzvòt, le regole dell’ebraismo, le sono estranee.

«È così. A 22 anni andai per un paio di mesi a raccogliere frutta in un kibbutz di Nir David, in Galilea. In realtà speravo di trovare le mie radici. Cercavo delle risposte che non ho trovato neppure in Israele». 

Per 45 anni sua madre tacque su Auschwitz. Perché questo silenzio?

«Giriamo la domanda: perché nel 1990 decise di non tacere più? Sentiva intorno a sé gente che parlava dell’Olocausto come di un incidente della storia, una delle tanti stragi. Andò nelle scuole a raccontare la verità. 

La aiutarono in questo percorso due amici carissimi, il cardinale Carlo Maria Martini e Nedo Fiano, un altro sopravvissuto. L’aspetto fantastico di mia madre è che lei non ha mai odiato. Mai! Invece io ho odiato i tedeschi con tutte le mie forze». 

Li odia ancora?

«Resto molto diffidente. Sono cresciuto con tate austriache e svizzero-tedesche. Non capivo perché la loro lingua mi desse tanto fastidio. Mamma mi obbligò a studiare il tedesco fin da bambino.

“Così potrai difenderti”, sosteneva. Quando ero export manager, a una cena in Germania, fui rimproverato da alcuni clienti che non sapevano nulla della mia tragedia familiare: “Lei non sorride mai. Perché?”. Risposi: il motivo è nel numero 75190. “Che significa?”, si stupirono. Spiegai. Scese il gelo, chinarono il capo. 

Il commensale più anziano mi chiese scusa davanti a tutti. Un altro mi prese in disparte alla fine del banchetto: “Ero carrista in Russia. Avevo l’ordine di andare sempre dritto. Non importava se davanti al carrarmato c’era una casa: dovevo passarci dentro. Mi vergogno tantissimo”».

Agghiacciante.

«Basta aver letto La banalità del male di Hannah Arendt per capire che quella per loro era la normalità. O Comandante ad Auschwitz di Rudolf Höss, che diresse la fabbrica dello sterminio. 

Per i nazisti era solo un problema organizzativo. Lager in tedesco significa magazzino. Ogni prigioniero era uno Stück, un pezzo. Tot pezzi entrati in magazzino, tot ridotti in cenere. A Höss spettava il compito di calcolare quanti tronchi servivano per bruciarli». 

È faticoso portare il nome del nonno?

« Lo è stato molto durante l’infanzia. Mi sentivo impegnato a somigliargli. Era un uomo che per mia madre incarnava la perfezione. Ma io non ero Alberto Segre, bensì un bimbo che non capiva, figlio unico fino a 6 anni. Mi sentivo inadeguato rispetto a lui.

Essere il primogenito non è solo un fatto di date: nel Dna conservi il passato di chi ti ha generato. A tavola facevo cadere un coltello? Mamma sussultava per lo spavento, papà mi dava una sberla. Pur affettuosissimi, nelle loro vite c’era sempre in agguato qualcosa d’imprevisto che li turbava». 

Non avete delle tombe su cui piangere.

«Abbiamo solo il Memoriale della Shoah al binario 21 di Milano Centrale. E le pietre d’inciampo che ricordano mio nonno Alberto e i miei bisnonni Giuseppe e Olga davanti alla casa dove abitavano, in corso Magenta 55. È quello il nostro cimitero». 

Credevo che fosse Auschwitz-Birkenau.

«Non ho mai avuto il coraggio di andarci. Idem mia madre. È arrivata a Praga, ma lì ha avvertito un odore che le ricordava la Polonia ed è dovuta ritornare indietro. Ha lo stesso rifiuto per i treni merci, il fuoco, le ciminiere, i cani lupo. Franco Vaccari, fondatore di Rondine Cittadella della pace, dove faccio volontariato, vuole accompagnarmi in questo doloroso pellegrinaggio». 

La vita da senatrice affatica sua madre?

«Sta bene, a dispetto dei suoi 91 anni. Abitiamo vicino, spesso la incontro per strada e resto sempre ammirato dal suo incedere. Sembra dire: “Eccomi, sono qua!”». 

È preoccupato per la sua incolumità?

«All’inizio sì. Correvo dalla polizia postale a denunciare ogni manata di fango che le tiravano addosso. Ora sono più sereno, perché ho capito che andrà avanti imperterrita. Ha una missione da compiere. 

Quando il ministro Luciana Lamorgese le ha imposto la scorta, non era per niente contenta, l’ha vissuta come una limitazione della propria libertà. Ora i quattro carabinieri sono diventati per lei quasi dei nipoti, fanno parte della famiglia. 

Compiango i parlamentari che non si alzarono in piedi quando a mia madre fu tributato un lungo applauso per la sua proposta d’istituire una commissione contro odio, razzismo e antisemitismo. Non sono degni di avere una collega così». 

Che cosa pensa dei negazionisti?

«Non sono degli imbecilli, ma degli odiatori seriali fascisti. Tendo a non considerarli». 

L’insegnamento più alto di sua madre?

«Mi ha educato a cercare sempre la giustizia, a essere sincero, a non mollare mai». 

La cosa più bella che ha udito su di lei?

«“Liliana Segre è un simbolo”. Questa parola mi piace moltissimo. In un mondo dove tutto si fa per soldi, lei devolve i diritti dei suoi libri all’Opera San Francesco per i poveri. Durante la marcia della morte verso altri lager, cominciata dopo l’evacuazione di Auschwitz, mangiava gli avanzi raccattati nei letamai. Mamma non sopporta che oggi qualcuno abbia ancora fame».

Mentana-Segre: la memoria rende liberi. Graziella Enna su gazzettadelsud.it il 20 Febbraio 2015.

ENRICO MENTANA-LILIANA SEGRE "LA MEMORIA RENDE LIBERI. LA VITA INTERROTTA DI UNA BAMBINA NELLA SHOAH" (RIZZOLI; PAG. 227: Euro 17,50)

    "E' questione di pochi anni e poi non ci saranno più testimoni della vita della shoah. E peraltro già oggi il loro racconto, la storia della loro esperienza nel girone infernale più raccapricciante della storia contemporanea, suscita una crescente indifferenza, come se fosse l'ennesima riproposizione di una vicenda già archiviata. E' quasi inevitabile che sia così, perchè la memoria (compreso il giorno dell'anno in cui essa viene ritualmente sollecitata) ormai si focalizza solo all'interno del perimetro di Auschwitz, il punto terminale della soluzione finale. E In questo modo la più spaventosa politica sistematica di persecuzione che il mondo abbia conosciuto perde il suo contesto, e diviene, una sorta di questione privata". Enrico Mentana, giornalista direttore e conduttore del TgLa7 raccoglie le memorie di una testimone d'eccezione Liliana Segre in un libro crudo e commovente, ripercorrendo l'infanzia di una donna coraggiosa: "Un conto è guardare e un conto è vedere, e io per troppi anni ho guardato senza voler vedere". "La mia era una famiglia di ebrei laici, come lo era la maggior parte delle famiglie di ebrei italiani: non ci attenevamo alla kasherrut, in casa nostra si mangiava di tutto, e non frequentavamo mai la sinagoga.

    Liliana ha otto anni quando, nel 1938, le leggi razziali fasciste si abbattono con violenza su di lei e sulla sua famiglia, è cresciuta con suo padre Alberto, sua madre era morta quando lei aveva pochi mesi per un tumore. Discriminata come "alunna di razza ebraica", viene espulsa da scuola e a poco a poco il suo mondo si sgretola: diventa "invisibile" agli occhi delle sue amiche, è costretta a nascondersi e a fuggire fino al drammatico arresto sul confine svizzero che aprirà a lei e al suo papà i cancelli di Auschwitz. "Arrivati a Birkenau, fummo separati, uomini e donne, e io nei miei tredici anni spauriti, non conoscendo nessuna lingua straniera, senza capire dove mi trovavo lascia per sempre la mano di mio papà". Dal lager ritornerà sola, ragazzina orfana tra le macerie di una Milano appena uscita dalla guerra, in un Paese che non ha nessuna voglia di ricordare il recente passato né di ascoltarla. Dopo trent'anni di silenzio, una drammatica depressione la costringe a fare i conti con la sua storia e la sua identità ebraica a lungo rimossa. "Scegliere di raccontare è stato come accogliere nella mia vita la delusione che avevo cercato di dimenticare di quella bambina di otto anni espulsa dal suo mondo. E con lei il mio essere ebrea". Enrico Mentana raccoglie le memorie di Liliana, una testimone d'eccezione in un libro crudo e commovente, ripercorrendo la sua infanzia, il rapporto con l'adorato papà Alberto, le persecuzioni razziali, il lager, la vita libera e la gioia ritrovata grazie all'amore del marito Alfredo e ai tre figli. ''Tornata da Auschwitz ho vissuto mezzo secolo senza raccontare quasi nulla della mia storia. Ho affrontato anni da disadattata, disperata di essere viva, sentendo che la banalità dell'esistenza non poteva accogliere l'enormità di quanto avevo subito''. Oggi sa che non è possibile ''non si può dimenticare di essere ebrei".

    Perchè, scrive Mentana "il ritorno di Liliana dall'inferno, come il ritorno di tutti gli altri scampati. E' una seconda condanna del mito degli Italiani 'bravi gente'. Semplicemente non si voleva sapere, e men che meno si voleva ricordare, come e da chi, era stato reso possibile tutto questo". La stessa capacità di enucleare con apparente distacco gli elementi indispensabili per capire la sequenza di fatti, ferocia, connivenze e casualità, sul piano inclinato di quella cacciata da scuola fino a Auschwitz e ritorno, che ha reso ancor più indispensabili le opere di Primo Levi. "Mai nessuno si è scusato con Liliana Segre. Parlare per lei è ancora duro, ascoltarla per voi è vitale".

Graziella Enna, nata nel 1969 a Oristano, laureata in lettere classiche presso l’Universita degli studi di Cagliari, insegnante di lettere.

Da lottavo.it il 19 Settembre 2018.  

La memoria rende liberi, il libro che Liliana Segre ha scritto insieme ad Enrico Mentana, è di quelli che richiedono una doppia lettura. Cosa necessaria per riflettere, proprio a partire dal titolo. Forse perché esso rappresenta, non solo la summa di una vita ma perché, in certa misura, si può arrivare a dire che la prigionia di Liliana Segre non è finita realmente. E se lo è ha cominciato ad esserlo nel momento in cui Liliana Segre ha aperto il suo cuore, dolorosamente rivivendo e condividendo, senza omissioni, la sua storia.

“Il 5 settembre 1938 ho smesso di essere una bambina come le altre”. Questo è l’incipit agghiacciante della narrazione, vedere la propria condizione di spensieratezza infantile mutata in quella di un essere fragile ed inconsapevole proiettato in un mondo disumano, incomprensibile, inspiegabile. Compagne della sua esistenza, fino a quel momento serena, divennero emarginazione, declassamento, divieti, restrizioni, perquisizioni, trasferimenti. Infine, l’estremo tentativo di salvezza fu riposto, dal padre di Liliana, nella fuga per varcare i confini italiani e raggiungere la Svizzera. Padre e figlia furono respinti, dopo aver varcato la frontiera, con pretesti infondati, subirono l’arresto al confine con tanto di verbale, schedatura, requisizione di valori e contanti, finché per loro si aprirono le porte del carcere. “Una donna mi strattonò violentemente […] sapeva che non ero una ladra nè un’assassina ma solo una bambina col fiocchetto nei capelli”. Tre detenzioni: Varese e Como prima, infine Milano per quaranta giorni, in un gelido dicembre e fino al 30 gennaio del 1944, giorno in cui una lunga colonna ammutolita e silente fu condotta al tristemente noto binario ventuno dove avvenne la trasformazione da esseri umani in “stucke”. “Il colpo più duro fu quando capimmo che i più zelanti fra i nostri aguzzini non erano i nazisti. Erano gli italiani”. Dopo sette giorni nei famigerati vagoni piombati, la discesa all’inferno. Stupore, disperazione, solitudine, violenza, annullamento, sono parole che scaturiscono da ogni riga e scatenano nella nostra coscienza turbini di emozioni impossibili da celare e reprimere. Paradossalmente, in questo processo di disumanizzazione, in cui l’unico istinto immediato che teneva attaccati alla vita era quello della ricerca di nutrimento, talvolta negli sguardi e in poche parole pronunciate di nascosto tra prigionieri, nascevano attimi di condivisione, fratellanza, quasi amore: ciò nell’anima pura della giovanissima Liliana, offrì un barlume, seppur tenue, di consolazione. E dopo il lager arrivò un’altra terribile prova per un corpo emaciato, sfinito e allo stremo delle forze: la marcia della morte dopo l’abbandono del lager. Sarebbe troppo lungo descrivere con minuzia le sofferenze ineffabili provate per il distacco dal padre, le atrocità della prigionia, il freddo, gli stenti, il lavoro estenuante in fabbrica, la marcia della morte, ognuno di noi sa cosa sia stato, chiunque si sia doviziosamente documentato sa già tutto, però c’è qualcosa che fa inorridire più di tutta questa parte, cioè il rientro a casa di Liliana.

Nel lager, le violenze perpetrate con le modalità più aberranti, le malvagità, l’orrore, tutte quante apparivano normali, connaturate all’essenza mostruosa e disumana del luogo, per dirla con la famosa espressione di Hannah Arendt vigeva la banalità del male. Cosa trovò Liliana al suo rientro in Italia? Soltanto indifferenza, convenzioni borghesi cui uniformarsi, che sembravano vanificare quel suo eroico istinto di sopravvivenza che l’aveva spinta a superare tante terrificanti prove fisiche e inaudite violenze psicologiche. Fu pervasa da un senso di inutilità, la quotidianità da libera cittadina si stava dimostrando vuota e priva di valori a cui ancorarsi: l’animo devastato, l’assenza di una spiritualità religiosa, la mancanza delle conoscenze che si acquisiscono con lo studio, la carenza di amore e di una casa che sostituisse la mera ospitalità cortese e formale degli zii. La premura più urgente dei suoi parenti non fu di conoscere le atroci sofferenze vissute, ma di sapere se fosse stata stuprata, preoccupazione volta a presentare la ragazza in società come rispettabile signorina, oppure di coprire quello strano tatuaggio, marchio disdicevole, con un braccialetto o rimproverarla di essere ingrassata, di amare la solitudine, di non imparare a diventare una donna di casa. Paradossalmente si sentiva sola ed emarginata proprio quando avrebbe dovuto/potuto sentirsi finalmente libera, addirittura costretta a compatire, pur di mostrarsi socievole, le afflizioni patite da altre persone, che, a causa della guerra, avevano subito ristrettezze, carenze alimentari o perdite materiali. Divenne sempre più difficile parlare della prigionia, nessuno voleva più ascoltare storie di guerra, tanto che alla fine Liliana s’impose il silenzio. La maggior parte delle persone desiderava solo dimenticare, divertirsi, ballare, organizzare feste, Liliana no, lei voleva riscattarsi dalle sue sofferenze, riempire quell’incolmabile abisso che si era creato in lei con lo studio, per riappropriarsi della propria esistenza per diventare giornalista. Studiò in maniera indefessa, grazie ai consigli delle suore Marcelline, presso cui già aveva studiato dopo l’emanazione delle leggi razziali, animata da un insopprimibile ardore che le consentì di recuperare le scuole medie, affrontare gli esami di quinta ginnasio da privatista per poter frequentare il liceo classico nel medesimo istituto della sua infanzia. L’inizio della sua liberazione vera avvenne solo quando lasciò la casa degli zii, andò a vivere con i nonni materni e, durante una vacanza al mare, conobbe il futuro marito, anch’egli reduce da una prigionia ma non in un lager. Riconobbe subito il tatuaggio col numero e capì che lei non era una ragazza come le altre perché sapeva cosa significasse quel segno indelebile. Finalmente Liliana riuscì ad aprirsi: “Cominciammo a parlare e non ci fermammo più, smettemmo solo qualche giorno prima che morisse”, sunto di un’unione improntata ad un dialogo profondo. Nonostante una vita serena, sentimentalmente felice, agiata, il lager era ancora lì a perseguitarla, sia nei segni lasciati nella salute fisica minata, nelle fobie nate da molti traumi vissuti, ma soprattutto in una grave depressione che si manifestò più tardi da cui gradualmente guarì. Forse, da quanto emerge da alcuni carteggi di cui parla, avvenuti tra lei e Primo Levi, fu la stessa avvilente tensione psichica che lo portò al suicidio, generata dall’incomprensione del mondo di fronte all’evidenza e dal senso di colpa per essere stato un salvato e non un sommerso. E fu proprio in questo frangente che in lei emerse una diversa consapevolezza: non aver fatto il proprio dovere di ricordare e di far conoscere a tutti la sua vita, che fece maturare in lei la volontà di iniziare una nuova missione. Dapprima collaborò con il Centro di documentazione ebraica di Milano, poi iniziò gli incontri nelle scuole per esporre la propria testimonianza: “Non ho mai esposto la mia storia per creare divisioni. Ho sempre parlato in modo semplice, con un linguaggio piano e pacato, senza mai predicare l’odio, mai. Non intendo trasmettere un messaggio negativo ai ragazzi: di odio, di vendetta, di disperazione assoluta, perché sono il contrario della vita. Quel che conta per me è far passare un messaggio d’amore e di speranza. E’ questa la mia missione e mi dispiace di non averla intrapresa prima”

Termino con un’altra sua frase scritta nel memoriale della Shoah di Milano presso il binario ventuno:

“Indifferenza: gli orrori di ieri, di oggi e di domani fioriscono all’ombra di quella parola”. 

Schindler's List, così venne terrorizzata una sopravvissuta all'Olocausto. Erika Pomella il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Schindler's List è uno dei film più rappresentativi della Shoah: il film di Spielberg fu così preciso nella ricostruzione di quel periodo da spaventare persino una delle sopravvissute all'Olocausto.

Schindler's List - La lista di Schindler è il film di Steven Spielberg che andrà in onda questa sera alle 20.33 su Iris per celebrare la Giornata della Memoria. La pellicola racconta la vera storia di Oskar Schindler, un uomo che riuscì a salvare centinaia di ebrei dai campi di concentramento.

Schindler's List, la trama

È il 1939 e la Germania ha appena invaso la Polonia, all'inizio della Seconda Guerra Mondiale. Gli ebrei, come avviene anche in altre parti d'Europa, vengono relegati nei ghetti e gli viene reso impossibile l'accesso alle attività commerciali. Intanto Oskar Schindler (Liam Neeson) decide di avviare una fabbrica per rifornire l'esercito tedesco. La sua abilità negli affari e le sue capacità relazionali gli fanno ottenere la protezione delle SS e la possibilità di vedere la sua azienda crescere, anche con l'aiuto del contabile ebreo Itzhak Stern (Ben Kingsley) che gli indicherà almeno mille ebrei da impieregare nella Deutsche Emaillewarenfabrik (DEF), salvandosi così dalla morte orribile che li attende nei campi di concentramento.

La situazione però degenera quando in città arriva l'ufficiale delle SS Amon Goeth (Ralph Fiennes), famoso per la sua crudeltà gratuita. L'ufficiale ha l'ordine di sgombrare il ghetto di Cracovia e di inviare gli abitanti nel campo di concentramento di Kraków-Płaszów. Goeth procede con una violenza e una cattiveria che lasciano Oskar interdetto e lo spingono ancora di più a cercare un modo per salvare i suoi operai, per impedire loro di morire nello stesso modo in cui ha visto altri perdere la vita.

Il terrore dei superstiti ebrei

Il film di Steven Spielberg - che l'anno prossimo celebrerà il trentennale - è una delle pellicole simbolo delle testimonianze della Shoah ed è una pellicola che celebra un vero e proprio eroe della Seconda Guerra Mondiale, un uomo che ha usato la sua influenza ma anche i suoi soldi per salvare da morte certa centinaia e centinaia di persone. Girato quasi interamente in bianco e nero, Schindler's List è un film che, sebbene facendo largo uso di toni drammatici ed emotivi, mira a raccontare una pagina nerissima della storia del Novecento e, per farlo, si concentra soprattutto sulla verosimiglianza dei suoi protagonisti. Non solo l'Oskar Schindler di Liam Neeson ma anche - e forse soprattutto - l'Amon Goeth portato sul grande schermo da Ralph Fiennes, diventato poi famoso al grande pubblico per aver interpretato Lord Voldemort nella saga di Harry Potter.

L'interpretazione dell'attore fu così precisa e verosimile che finì con lo spaventare una sopravvissuta dell'Olocausto. Come racconta il sito dell'Internet Movie Data Base Mila Pfefferberg, che sopravvisse agli orrori dei campi di concentramento, fece una visita sul set del film di Spielberg e venne presentata a Ralph Fiennes, vestito già come Amon Goeth. La somiglianza con il vero ufficiale delle SS era tale che la donna cominciò a tremare in modo incontrollato, come se la vecchia paura fosse tornata in superficie. Ripresasi dallo choc dell'incontro, la Pfefferberg raccontò anche un aneddoto macabro del suo incontro con il vero Goeth. Come viene ricostruito da Movieplayer.it la donna si trovava in fabbrica, dove stava costruendo una maniglia per una porta quando l'ufficiale delle SS le si avvicinò e le disse: "Se non lo fai bene, ti sparo in testa". La donna continuò il suo lavoro e riuscì a portarlo a termine senza commettere errori, sotto lo sguardo glaciale di Goeth. Questi, alla fine, uscì e solo allora la donna di rese conto di quanto avesse rischiato.

Erika Pomella. Nata a Roma, mi sono laureata in Saperi e Tecniche dello Spettacolo Cinematografico a La Sapienza. Dopo la laurea ho seguito un corso di specializzazione di montaggio e da allora scrivo di Cinema e Spettacolo per numerose testate. Ho collaborato con l’Ambasciata Francese in Italia per

La testimonianza. Il ricordo di Tullio Foà: “Mai dimenticherò il mio compagno di banco morto ad Auschwitz”. Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Gennaio 2022. 

«I miei occhi hanno visto ciò che nessuno dovrebbe mai vedere». Tullio Foà, ultimo ebreo napoletano testimone della presenza dei nazisti a Napoli, ripete spesso questa frase contenuta nella lettera che un preside polacco scampato a un campo di sterminio scrisse agli insegnanti di tutto il mondo. Tullio Foà ha voluto raccontare cosa hanno visto i suoi occhi in quegli anni tremendi, quando qualcuno si arrogò il diritto di decidere chi potesse vivere e chi no. Se eri ebreo, non c’era bisogno di chiederselo, non potevi. Oggi Foà ha 88 anni, ma i suoi ricordi sono limpidi, quei giorni nitidi e quelle sensazioni ancora vagano dentro di lui. Forse in cerca di una risposta.

Foà non varcò mai l’ingresso di un campo di concentramento, Napoli fu liberata prima che i nazisti lo deportassero, ma in quell’inferno perse il suo migliore amico, il suo compagno di banco “preferito” Dino Hasson. Foà ha vissuto il terrore, i soprusi e il dolore che un bimbo di cinque anni forse non può capire, ma sentire sì.

Ricorda il dolore e sente il dovere di doverlo raccontare, per non dimenticare. Signor Foà, cosa ricorda del momento nel quale l’ideologia folle dei nazisti divenne legge anche qui a Napoli?

«All’epoca dell’approvazione delle leggi razziali, nel 1938, ai bambini ebrei fu vietato di andare a scuola. Il governo fascista, però, dopo pochi giorni ebbe un leggero ripensamento riguardo alle scuole elementari: se in una città si fosse riusciti a formare una classe di dieci bimbi e bimbe di razza ebraica, questi sarebbero stati autorizzati a frequentare una scuola pubblica. Il problema è che io non avevo ancora compiuto sei anni, la prima elementare era composta da 9 alunni e così il direttore della scuola falsificò il mio certificato di nascita e sui documenti risultò che io avessi già sei anni. Iniziai così a frequentare la prima elementare. Andavo a scuola all’Istituto Luigi Vanvitelli del Vomero con i miei fratelli più grandi, io avevo cinque anni. Qualcosa non mi tornava. Tutti i bimbi entravano dal cancello principale, solo noi da quello secondario, un quarto d’ora prima degli altri e uscivamo un quarto d’ora dopo gli altri. A quel punto era chiaro che gli “anormali” eravamo noi. Potevamo andare al bagno solo dopo che tutti i bambini e le bambine “normali” erano tornati in classe; in palestra, però, non eravamo ammessi, per cui facevamo ginnastica fra i banchi: eravamo la classe speciale degli ebrei».

Quale sensazione le è rimasta addosso di quei momenti?

«Senz’altro la consapevolezza di essere diverso dagli altri. Ero solo un bambino e quindi i primi giorni non capivo bene cosa stesse succedendo intorno a me, ma dopo poco mi fu chiaro. Io ero diverso, non potevo parlare o giocare con gli altri bambini, frequentavo una classe speciale con regole speciali. Capivo che gli altri mi consideravano “strano”. Questa sensazione, a distanza di 83 anni, ancora vive dentro di me».

Cosa successe, invece, nella sua famiglia?

«Quando furono emanate le leggi razziali, mio padre – vice-direttore di banca – fu tra quelli che persero immediatamente il lavoro. Nel 1939 emigrò, quindi, ad Asmara, in Africa orientale, nell’unico paese dove le leggi razziali non erano in vigore. Io ero il minore di cinque fratelli. Il più grande, avendo completato il liceo, avrebbe voluto iscriversi all’università, ma non era consentito; emigrò negli Stati Uniti, dove mia madre aveva una sorella e due fratelli. Rividi entrambi solo nel 1947 e quando guardai negli occhi mio padre, mi resi conto di conoscerlo a stento. Il vuoto che ho sentito in quegli anni lo porto ancora dentro me».

Quegli anni le hanno portato via una persona cara?

«Sì. Fu il primo dolore della mia vita. Il mio compagno di banco, il mio “preferito” come dicevo io, un bambino greco Dino Hasson, fu rimandato in Grecia perché i nazisti gli tolsero la cittadinanza italiana. Arrivato nel suo Paese, fu subito deportato nel campo di concentramento di Auschwitz. Lo scoprimmo solo dopo. E solo dopo scoprimmo che in quel campo ci rimase dieci giorni, poi divenne una nuvola: fu ucciso nei forni crematori insieme con tutta la sua famiglia».

Ricorda le Quattro giornate di Napoli?

«Certo. Innanzitutto, fu un errore che nella storia di Napoli si è fatto spesso: quello di sottovalutare la rabbia e l’orgoglio dei napoletani. Così, l’operazione a sorpresa del sabato divenne una sorpresa per i nazisti, disorientati dalla furia popolare e dall’eroismo dei napoletani, con le “Quattro giornate”. In quattro giorni i napoletani cacciarono i tedeschi dalla città. Ricordo che eravamo chiusi in casa perché sentivamo gli spari incessanti e percepimmo l’agitazione dei tedeschi».

Parlare di un ricordo bello suona forse fuori luogo, ma lei ne ha uno?

«Sì. Il momento più commuovente e di gioia fu quando vidi arrivare gli americani che, ricordiamolo, entrarono senza combattere perché i partigiani avevano già liberato la città. Li vidi arrivare e gli lanciavo dei fiori, loro in cambio tiravano a noi bimbi caramelle e gomme da masticare che non avevamo mai mangiato. E poi ricordo con emozione quando finalmente entrai a scuola dal cancello principale, a testa alta e con dignità».

Lei incontra moltissimi studenti ogni anno, qual è la domanda che le viene rivolta più spesso?

«Mi chiedono sempre se ho voglia di vendicarmi».

Glielo chiedo anche io, c’è dentro lei il desiderio di vendicarsi?

«No. La vendetta non mi appartiene, la mia vendetta è poter raccontare quello che è successo».

Meditate che questo è stato.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Avvocati perseguitati e messi al bando: è dovere di noi giuristi ricordarli. Non è sufficiente onorare la memoria per pacificare un Paese e garantire a una comunità una visione condivisa di futuro, perché bisogna scavare e individuare le corresponsabilità che portarono all'orrore delle leggi razziali. Il Dubbio il 27 gennaio 2022.

Oggi, in tutto il mondo, si celebra la “giornata internazionale della commemorazione in memoria delle vittime della ferocia nazista”; lo ha voluto l’Assemblea generale delle Nazioni Unite con una risoluzione del 1 novembre 2005, scegliendo la data del 27 gennaio in ricordo di quel giorno del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz svelando al mondo intero l’orrore del genocidio nazifascista.

Al nostro Paese, il merito di avere, alcuni anni prima della risoluzione delle Nazioni Unite, istituito con legge dello Stato, nella stessa data, il “giorno della memoria”. La risoluzione dell’ONU del 2005 impegna tutti gli stati membri delle Nazioni Unite ad inculcare nelle generazioni future le “lezioni dell’olocausto”; un significato simbolico, una commemorazione pubblica delle vittime della Shoah e delle leggi razziali approvate sotto il fascismo, il ricordo collettivo degli uomini e delle donne, ebrei e non, che sono stati uccisi, deportati ed imprigionati, e di tutti coloro che si sono opposti alla ‘soluzione finale’ voluta dai nazisti, rischiando la vita e spesso perdendola.

Non è sufficiente onorare la memoria per pacificare un Paese e garantire a una comunità una visione condivisa di futuro, perché bisogna scavare, individuare le corresponsabilità – legali, morali e storiche – che portarono all’emanazione, all’esecuzione e all’applicazione delle leggi razziali; perché per un ministro della Giustizia che firmò quei provvedimenti, ci furono magistrati che perseguirono, Tribunali che condannarono e Consigli dell’Ordine che cancellarono dagli albi gli avvocati di razza ebraica; e quasi tutta la cultura giuridica italiana che sostenne, con il silenzio, quell’ignominia.

Riprendendo una riflessione pubblica di Andrea Mascherin, “possiamo davvero dirci sicuri che la cultura che generò quell’inferno non sia in essere anche nella nostra società sotto le mentite spoglie della mancanza di solidarietà, della primazia della logica del profitto su quella del diritto, del linguaggio dell’odio sui giornali e sui social, dell’indifferenza nei confronti degli emarginati, del rifiuto preconcetto al confronto con chi è diverso da noi ?”. È una domanda che dobbiamo porci, individualmente come cittadini e come avvocati, collettivamente come comunità di giuristi, coltivando, con la memoria,  il dovere di non dimenticare.

Sergio Paparo, presidente Associazione InsieMe, past presidente Ordine degli avvocati di Firenze

Libia, il crimine fascista rimosso: gli orribili campi in cui morivano i civili. ANTONIO SCURATI su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2022. 

La prefazione di Antonio Scurati al poema «Il mio solo tormento» (Fandango) in uscita il 24 gennaio, opera dell’arabo Rajab Abuhweish vittima della repressione italiana 

«La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentramento». Con questa frase, nel 1930, Emilio De Bono, ministro delle Colonie dell’Italia fascista, comunica a Pietro Badoglio, governatore delle colonie libiche, che per piegare la resistenza dei guerriglieri senussiti guidati da Omar al-Mukhtàr, eroe della Resistenza della Cirenaica all’invasore italiano, si sarebbe dovuto procedere a una delle più grandi deportazioni di massa della storia del colonialismo europeo. I due sono ben consapevoli della gravità della misura e mettono in conto, esplicitandolo, che il provvedimento avrebbe portato alla decimazione dell’intera popolazione della regione. Il 20 di giugno del 1930, Pietro Badoglio, l’uomo al quale l’Italia si affiderà per la propria rinascita tredici anni dopo, scrive, infatti a Graziani: «Qual è la linea da seguire? Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra le formazioni ribelli e le popolazioni sottomesse. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguire sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». L’uccisione di un intero popolo veniva quindi considerata ciò che oggi chiameremmo «danno collaterale». Benito Mussolini, capo del governo e Duce del fascismo era pienamente informato del tragico progetto e lo approvava pienamente.

Quando si parla di campi di concentramento, il nostro immaginario ci riporta subito al filo spinato di Auschwitz-Birkenau e alla tragedia della persecuzione degli ebrei e dell’Olocausto. In pochi sanno o fingono di non sapere che ben prima dell’orrore nazista a costruire dei luoghi di concentrazione e sterminio furono proprio gli italiani fascisti nelle colonie di quello che era chiamato pomposamente l’impero italiano.

Il sistema dei campi in Cirenaica costituì un salto di qualità nelle politiche di repressione attuate dal regime fascista. Nei primi anni Trenta, nelle 15 istituzioni concentrazionarie della colonia libica, vennero deportate più di 100.000 persone. Alcune di queste morirono prima di raggiungere i campi, sfinite dalle estenuanti marce che potevano superare le centinaia di chilometri, ma la maggior parte, circa 50.000 morì proprio a opera del sistema detentivo, uccisa dall’inedia, dal tifo petecchiale, dalla dissenteria, dalla malaria, dallo scorbuto e varie setticemie, per non parlare delle sevizie quotidiane e le esecuzioni esemplari, smentendo vistosamente i piani sanitari e le precise norme dell’amministrazione coloniale.

L’internamento coloniale è stato un grande laboratorio d’oltremare per l’applicazione di pratiche repressive e violenza razzista che avrebbe poi trovato anche uno sbocco legislativo nella penisola. Per dirla con le parole della storica Silvana Patriarca: «Il colonialismo prima e il razzismo fascista poi servirono ad affermare la bianchezza degli italiani mostrandola incarnata nel potere e nel privilegio che gli italiani detenevano, o aspiravano a detenere, nelle colonie rispetto ai non europei».

Quello che si configura, a distanza di quasi un secolo, come un vero e proprio genocidio non ha mai costituito oggetto di dibattito su chi siamo stati nel nostro passato. Dovremmo avere l’onestà di addossarci quella responsabilità e non dimenticare che gli italiani sono stati anche fascisti, razzisti e colonialisti.

Mi sembra indispensabile scardinare il nostro modo di vederci come vittime della Storia o continuare a perpetuare il mito autoassolutorio degli «italiani brava gente». È indispensabile non soltanto perché ci consentirebbe di chiudere i conti con il passato ma anche, e soprattutto, perché illuminerebbe il nostro presente. C’è, infatti, un rapporto direttamente proporzionale tra la pervicace rimozione del nostro ruolo di carnefici nella storia coloniale e la nostra attuale predisposizione a continuare a pensarci come vittime dei nuovi fenomeni migratori. Non vogliamo sapere e accettare di esser stati carnefici perché rimaniamo avvinghiati alla posizione simbolica della vittima anche riguardo al dramma delle attuali migrazioni di popoli dall’Africa e dal Medio Oriente verso le spiagge delle nostre vacanze. Riconoscerci come attori della violenza nel recente passato coloniale scardinerebbe anche l’attuale, comoda, autoassolutoria e fasulla identificazione simbolica con la posizione della vittima ogniqualvolta un telegiornale riferisce di naufraghi alla deriva nei pressi delle nostre coste. Anche allora, tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi come vittime, come la parte offesa, dolente. Tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi nella stessa posizione dei nostri nonni, costretti dalla miseria (e da politiche sciagurate) ad abbandonare la propria terra con una valigia di cartone e la morte del cuore. In questo modo, possiamo continuare a ignorare che i dannati dell’emigrazione non siamo noi ma «loro», gli «altri», i disperati che vorremmo «ributtare» a mare.

Che l’Italia e in misura ancora maggiore gli italiani, abbiano una questione irrisolta con il proprio colonialismo è cosa risaputa, ma che si continui a eludere la necessità di riaprire quella pagina di storia è diventato insostenibile sul piano delle nostre responsabilità storiche riguardo al presente. E anche su quello della nostra identità. Sapere si esser stati colonialisti, fascisti, invasori e razzisti in un recente passato, ci aiuterà a capire chi siamo oggi, chi e cosa vogliamo e possiamo essere domani.

Ben venga quindi la traduzione in italiano del Canto di El-Agheila, testimonianza umana e politica di una storia universale di resistenza, che ci costringe a una riflessione non più procrastinabile sul passato violento e coloniale del nostro Paese.

Nel testo che pubblichiamo in questa pagina Antonio Scurati cita il libro di Silvana Patriarca Il colore della Repubblica (Einaudi): un testo che racconta la vicenda dei «figli della guerra», nati dalle relazioni tra donne italiane e militari alleati non bianchi, che dopo il conflitto furono spesso oggetto di comportamenti razzisti da parte dell’ambiente circostante. A partire da questa vicenda poco indagata e considerando anche l’eredità del colonialismo italiano, l’autrice – docente di Storia europea presso la Fordham University di New York – riflette sul modo in cui il nostro Paese si è autorappresentato. «Finché gli italiani bianchi – scrive Silvana Patriarca – non abbandoneranno la concezione etnorazziale dell’identità nazionale, coloro che non sono conformi alla “norma somatica” continueranno a subire qualche forma di emarginazione, discriminazione, esclusione». 

·        Dio, Patria, Famiglia.

Le radici romane della Costituzione. Valditara racconta la battaglia alla Costituente per difendere la famiglia. Stefano Zurlo il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.

Due visioni del mondo che si scontrano. La tradizione occidentale che poggia sulle spalle antiche duemila anni di Roma e l'ideologia comunista che arriva, tornante dopo tornante, dalle riflessioni di Hegel. Due interpretazioni della realtà che si confrontano nel 1947 nei lavori della Costituente: si parte da Cicerone, ma si arriva all'articolo 29 della Carta fondamentale dell'Italia repubblicana, quello che definisce la famiglia. Di qua Camillo Corsanego, e con lui Giorgio La Pira, di là Nilde Iotti. Settantacinque anni dopo, Giuseppe Valditara, da pochi giorni ministro dell'istruzione e, se ci riuscirà, del merito ricostruisce quelle battaglie e quelle discussioni in un libro denso e affascinante: Alle Radici romane della Costituzione (pagg. 224, euro 22,80) appena pubblicato da Guerini E Associati.

Corsanego mette le mani avanti: «La famiglia preesiste allo Stato, il quale non crea, ma ne riconosce e regola i diritti innati e inalienabili». Ecco, dunque la formulazione proposta dell'articolo: «Lo Stato riconosce la famiglia come la unità naturale e fondamentale della società, con i suoi diritti originari inalienabili e imprescrittibili concernenti la sua costituzione, la sua finalità e la sua difesa».

«Se la famiglia è un organismo naturale - spiega La Pira nella seduta pomeridiana dell'Assemblea dell'11 marzo 1947 - allora è evidente che la Costituzione, veste del corpo sociale, deve parlare della famiglia. Quando infatti si dice organismo naturale traducendo quel termine tecnico latino che è la societas naturalis, si vuole intendere un organismo di diritto naturale... E lo Stato deve fare una una sola cosa: riconoscere questi diritti connaturati all'uomo e proteggerli».

É quel che accade poi con la stesura definitiva dell'articolo 29: «Dalla tradizione romana - annota Valditara - deriva dunque la definizione della famiglia come società naturale, societas naturalis; da Cicerone proviene la concezione della famiglia come fondamento della repubblica, seminarium rei publicae. Questa è la linea vincente, poi però in quell'aula viene introdotto un testo alternativo che accartoccia l'eredità classica e cristiana, virando verso l'utopia sovietica: «Lo Stato - scandisce Nilde Iotti, compagna di Palmiro Togliatti e futura presidente della Camera - riconosce e tutela la famiglia, quale fondamento della prosperità materiale e morale dei cittadini della Nazione».

«Nella proposta comunista - commenta Valditara, qui professore di diritto romano - la famiglia non appare come una societas naturalis bensì come semplice fondamento della prosperità della Nazione. Non vi è alcun richiamo alla concezione romana così come presupposta da La Pira. Nulla si dice del suo carattere originario, ci si limita a registrarne la funzionalità al benessere nazionale».

Insomma, c'è anche Cicerone dietro l'articolo 29 e tanti passaggi della Costituzione, ma avrebbe potuto esserci Stalin, sia pure in una versione temperata. E Togliatti si prende una mezza rivincita quando si affronta il tema incandescente della libertà, fissata all'articolo 125 della Carta sovietica. Qui La Pira, figura complessa e articolata, subisce come Giuseppe Dossetti le suggestioni che arrivano da Botteghe Oscure. per la Pira infatti la libertà deve essere esercitata «in armonia con le esigenze del bene comune». Qualcosa che apparente il suo pensiero a quello del segretario comunista che ancora la libertà «al continuo incremento della solidarietà sociale».

Così La Pira butta alle ortiche la classicità e sposa l'idea del Pci.

È l'illusione del paradiso in terra che porta dritti all'inferno.

La vera storia (non fascista) di Dio, patria e famiglia. Le idee contestate come reazionarie sono "figlie" del rivoluzionario risorgimentale. Alessandro Gnocchi il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.

Sembra impossibile ma la campagna elettorale ogni giorno sprofonda nel passato. Dal fascismo è stato un attimo ripiombare nel Risorgimento, probabilmente a insaputa dei leader politici. L'allarme per il ritorno del fascismo non ha preoccupato nessuno a parte qualche opinionista seriale da Twitter o Facebook. Ma boia chi molla! E la sinistra non molla, anzi rilancia. Adesso se la prende con la triade Dio, patria e famiglia, valori retrivi, che nascondono, a scelta: il ritorno del patriarcato, il no alle famiglie omosessuali, la difesa delle frontiere con il coltello tra i denti, la rinascita di un bigottismo che porterà alla negazione dell'aborto, per fare un esempio. Accadrebbe questo se vincesse il centrodestra? Ne dubitiamo. Senz'altro attribuire «Dio, Patria e Famiglia» al fascismo significa fare un regalo immeritato al fascismo stesso, abboccando, decine di anni, dopo alla propaganda del regime.

Dio, Patria e Famiglia sono i valori al centro dei Doveri dell'uomo (1860) di Giuseppe Mazzini, uno dei testi chiave del Risorgimento. Il titolo, implicitamente polemico, segna la distanza dei rivoluzionari italiani da quelli francesi. Questi ultimi ponevano l'accento sui diritti dell'uomo come occasione di libertà individuale. Mazzini non è contrario ai diritti. Tutt'altro. Ritiene però che insistere solo sui diritti conduca a una società materialista, infelice, egoista, poco coesa. Prima dei diritti ci sono i doveri, sintetizzati nei valori di Dio, patria e famiglia.

Dio ci ha creati liberi. Per questo il tiranno teme la religione e si impone con profana violenza. La religione trasmette il sistema di idee alla base di una corretta convivenza. Mazzini: «Voi dovete adorar Dio per sottrarvi all'arbitrio e alla prepotenza degli uomini». Mazzini scrisse queste parole, per altro, rimanendo acerrimo nemico del potere temporale del Papa.

Anche la Patria è uno scudo contro l'oppressione: «Non v'illudete a compiere, se prima non conquistate una Patria, la vostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale: dove non v'è Patria, non è Patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l'egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba». La Patria, insomma, è il regno della Legge uguale per tutti. Ma dove nasce questo regno? Dio pose confini naturali e innate tendenze nei popoli. La guerra ha introdotto divisioni arbitrarie che non possono durare nel tempo.

La Famiglia è la Patria del cuore. La sua missione è l'educazione dei cittadini. Ma ora trascriviamo un passo per chi ha usato, storpiandole, le parole di Mazzini: «Amate, rispettate la donna. Non cercate in essa solamente un conforto, ma una forza, una ispirazione, un raddoppiamento delle vostre facoltà intellettuali e morali». Vi sembra poco? Allora aggiungiamo questo passaggio rivolto ai maschietti: «Cancellate dalla vostra mente ogni idea di superiorità: non ne avete alcuna. Un lungo pregiudizio ha creato, con una educazione diseguale e una perenne oppressione di leggi, quell'apparente inferiorità intellettuale dalla quale oggi argomentano per mantenere l'oppressione».

Enrico Letta, segretario del Partito democratico, ha appena finito di dire in televisione che lo slogan «Dio, Patria e Famiglia» si riassume in una sola parola: «patriarcato». È l'esatto opposto, a leggere Mazzini.

Giuseppe Prezzolini, nel Manifesto dei conservatori (1972), «corresse» Dio in Religione e aggiunse un altro pilastro: la Proprietà privata. «Gli elementi naturali della società sono per un Vero Conservatore la proprietà privata, la famiglia, la patria e la religione». La «correzione» dipende dal fatto che, in Italia, il cattolicesimo è stato un ostacolo alla unità. Quindi Prezzolini aveva in mente una sorta di religione civile: «La religione ha certamente un grande valore politico. Può tenere insieme dei popoli, come si vede in Polonia». Alla Patria, il progressista contrappone una generica umanità; al posto della Religione coltiva il materialismo; alla famiglia riserva solo contestazione. Anche Prezzolini fu in aperto scontro con la propria famiglia. Poi si accorse che la famiglia è il luogo dove si tramandano «il compimento dei propri doveri, l'onestà personale, la capacità di giudizio non partigiano, il mantenimento della parola data, la specchiatezza dei costumi, la coerenza dell'azione con il pensiero, la modestia nella vita sociale». L'educazione, insomma. In quanto alla proprietà privata, essa è il motore dell'azione individuale e deve essere intoccabile. I conservatori incoraggiano i piccoli imprenditori e il risparmio famigliare. I progressisti vorrebbero invece collettivismo, grosse aziende con le quali venire a patti, assistenza statale obbligatoria per trasformare il cittadino in suddito.

Abbiamo citato due dei mille autori impegnati a tessere le lodi di Dio, Patria e Famiglia. Si potrebbero aggiungere molti classici del liberalismo, a partire dalla Democrazia in America (1835-1840) di Alexis de Tocqueville. Fermiamoci qua. Non vogliamo però dare l'impressione di aggirare un problema. Il fascismo, grazie a Giovanni Gentile, ha dato una spolverata a Dio, Patria e Famiglia, truccando le carte a favore dello Stato, detentore di ogni diritto. Con quale esito? Non resta che prendere in mano qualche libro di storia. Ad esempio, Il fascismo e i partiti italiani. Testimonianze del 1921-1923 (Cappelli, 1966) a cura di Renzo De Felice. È un'antologia dove figurano scritti di Arturo Labriola, Dino Grandi, Guido De Ruggiero tra gli altri. Possiamo misurare quanto fosse già ampia, sul nascere, la distanza tra realtà e propaganda. Mussolini aveva un passato anticlericale, i Patti Lateranensi erano uno strumento politico. La Famiglia, beh, nonostante i solidi affetti, Mussolini non poteva essere un testimonial credibile. In quanto alla Patria, nel libro di De Felice si nota che la parola sarà impronunciabile per decenni proprio a causa di Mussolini. Il Fascismo ha voluto identificarsi nello Stato e nella Patria, trascinandoli con sé nella vergogna.

Infine, vorremmo chiedere ai Letta: credete sul serio che ci sia in giro qualche sostenitore di Dio, Patria Famiglia? Sono tre idee che hanno perso. Dio è morto di materialismo acuto, basta fare un salto in Chiesa per ammirare la desolazione, la Patria ha ceduto il posto alla globalizzazione, la famiglia è costantemente sotto accusa. Su tutto si può ragionare, discutere, mediare. Dio, Patria e Famiglia forse avranno bisogno di una cura rivitalizzante. Ma la sinistra davvero non vede niente di buono in questi valori antichi?

Roberto Saviano: “Dio, Patria e famiglia non sono valori, sono un crimine”. Giampiero Casoni l'01/09/2022 su Notizie.it.

Il tweet di Saviano sul caso Venezi: “Dio, Patria e famiglia è slogan in uso prima del fascismo, diventa sintesi della visione di Mussolini" 

Per Roberto Saviano “Dio, Patria e famiglia non sono valori, sono un crimine”. Lo scrittore si inserisce nel dibattito sui temi “fondanti” della destra e dà la sua opinione con un post social a cui correda le foto di Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.

L’autore di Gomorra ha contestualizzato il suo giudizio ed ha spiegato con un post comunque molto duro: “Dio, patria e famiglia, slogan in uso prima del fascismo, diventa sintesi della visione di Mussolini”.

Saviano contro “Dio, Patria e famiglia”

“Dio come unica verità, Patria come confine da difendere, Famiglia come monopolio dell’affetto”. Poi spiega: “Dio, Patria e famiglia, così declinati, non sono valori, sono un crimine”. E nella foto pubblicata su Twitter ci sono tre immagini-icona del centrodestra in lizza per le elezioni del 25 settembre: Matteo Salvini con un rosario in mano, Giorgia Meloni su un palco con il Tricolore e Silvio Berlusconi insieme alla compagna Marta Fascina.

Il caso Venezi e l’opinione dello scrittore

Il dibattito era nato dopo che la direttrice d’orchestra Beatrice Venezi si era pubblicamente richiamata a quei temi ed aveva espresso un’opinione affatto sfavorevole al loro valore. Libero spiega che “secondo Saviano la Venezi e il centrodestra si richiamano evidentemente al fascismo”.

Valentina Nappi: "Dio, patria, famiglia? Col cu***": la vergogna, valanga di insulti. Libero Quotidiano il 02 settembre 2022

Valentina Nappi si iscrive al partito anti-Meloni. Adesso la pornostar mette nel mirino la leader di Fratelli d'Italia. E lo fa a modo suo con un tweet che ha fatto parecchio discutere. Sul suo profilo è apparsa questa frase: ""Dio, Patria, Famiglia" ma sono tutti divorziati, evasori fiscali e cattolici con il c... degli altri".

L'attacco è diretto e nemmeno tanto velato. Infatti la Nappi attacca senza se e senza ma i tre valori su cui si basa la campagna elettorale della Meloni che più di una volta ha spiegato di essere una donna cattolica, una mamma e soprattutto di essere italiana. Ma a quanto pare l'uscita della Nappi non è stata apprezzata dai suoi follower che l'hanno presa di mira insultandola. Evitiamo di riportare qui le frasi apparse sotto il tweet della Nappi per rispetto verso i nostri lettori. Ma di certo va sottolineato che la sinistra si sta mobilitando anche nel mondo delle pornostar per mettere in cattiva luce il centrodestra e la Meloni in questo periodo elettorale che porta dritti dritti alle elezioni del 25 settembre. Insomma la campagna si fa sempre più accesa e non sono esclusi ancora colpi di scena e altri attacchi (gratuiti) ai leader moderati. 

Mazzini, pensiero e azione: Dio, Patria, Famiglia. Di Francesco Borgonovo il 10 Marzo 2022 su Culturaidentità.it

Da quanto tempo siamo costretti ad ascoltare le intemerate progressiste contro il patriarcato? Come sempre, dei fenomeni si parla quando ormai sono passati. E infatti oggi la nostra società non è affatto patriarcale bensì grande materna, che tende a ridurre gli adulti a bambinoni persi in un gigantesco negozio di giocattoli. Non è un caso che oggi prevalga il vittimismo infantile e si dia assoluta priorità ai diritti invece che ai doveri. Mancano padri che diano l’esempio, che fissino regole e allo stesso tempo insegnino la libertà. Di questi padri non hanno bisogno soltanto i singoli individui, ma i popoli nel loro complesso. La Patria – che di per sé, in quanto terra, è madre – necessita di figure maschili che generino figli virtuosi. Purtroppo, però, questi padri tendiamo a cancellarli, dimenticarli o comunque ne pervertiamo la lezione.

Ecco perché, oggi più che mai, sarebbe il caso di riscoprire alcuni di loro, a partire da quel grande ispiratore dei patrioti italiani che fu Giuseppe Mazzini (nato a Genova nel 1805, morto a Pisa nel 1872). Fu esattamente 200 anni fa, nel 1821, osservando dalla Liguria il fallimento dei moti piemontesi, che Mazzini iniziò a convincersi della necessità di lottare per la Patria, con ogni mezzo necessario. Dieci anni dopo, egli avrebbe fondato la Giovine Italia, che sarebbe stata d’esempio per tutti i successivi movimenti rivoluzionari europei, socialisti o nazionalisti (o entrambi) che fossero. Troppo spesso tendiamo a consegnare alla polvere e ai sussidiari la figura austera di Mazzini e ci perdiamo così la rovente attualità del suo pensiero, che ancora oggi continua a essere conteso fra destra e sinistra. Gli autori radical, ovviamente, tendono a calcare la mano sull’aspetto «sovversivo» dell’austero genovese; a destra invece si insiste di più (e probabilmente a ragione) sull’afflato patriottico. In realtà, Mazzini era lontanissimo dal comunismo. Come notò Giano Accame nello splendido Socialismo tricolore, egli «aveva lavorato, in concreto, più dei suoi contestatori per la promozione di società operaie».

Tuttavia nei Pensieri sulla democrazia in Europa, Mazzini già intuiva dove sarebbe sfociato il pensiero comunista: «Tirannide. Essa vive nelle radici del comunismo e ne invade tutte le formole. […] L’uomo, nell’ordinamento dei comunisti, diventa una cifra». Il pensiero mazziniano, che riconosce l’esistenza delle classi ma le invita a collaborare, si fonda – pensate un po’ – sulla trinità più pericolosa che oggi si possa evocare: Dio, Patria e Famiglia. Nel formidabile I doveri dell’uomo (1860), si spiega che la famiglia va difesa a tutti i costi, respingendo «ogni assalto che potesse venirle mosso da incauti che, irritati nel vederla sovente nido d’egoismo e di spirito di casta, credono che il rimedio al male sia nel sopprimerla».

Per Mazzini, la famiglia è «la patria del core». Essa è il luogo in cui si perpetua la tradizione proprio perché «la Famiglia ha in sé un elemento di bene raro a trovarsi altrove, la durata. Gli affetti in essa vi si estendono intorno lenti, inavvertiti, ma tenaci e durevoli, siccome l’ellera intorno alla pianta». Tale durata della famiglia la rende il fondamento della Nazione, la prima cellula di una comunità più ampia. Mazzini, il cui riferimento a Dio è costante praticamente in tutte le opere, vedeva appunto la famiglia come la culla dell’educazione. Ed è attraverso l’educazione che si possono formare gli italiani di domani: «Chi non amerà la famiglia che assumendosi parte dell’educazione del mondo e riguardandosi come germe e primo nucleo della Nazione, mormorerà al fanciullo, tra il bacio materno e la carezza del padre, il primo insegnamento del cittadino?». Padre e madre, ben distinti nelle loro funzioni, sono dunque i primi educatori dei cittadini. Mazzini, dal canto suo, si trova molto a suo agio nel ruolo paterno, di genitore di una nazione intera. Non è un caso che egli preferisca appunto concentrarsi sui doveri invece che sui diritti di cui tutti straparlano e di cui oggi regolarmente si abusa.

Già nel suo più celebre scritto, Mazzini aveva intravisto dove avrebbe condotto l’eccessiva insistenza sui diritti e sulle libertà individuali: «Ciascun uomo prese cura dei propri diritti e del miglioramento della propria condizione senza cercare di provvedere all’altrui; e quando i propri diritti si trovarono in urto con quelli degli altri, fu guerra. […] In questa guerra continua, gli uomini s’educarono all’egoismo, e all’avidità dei beni materiali esclusivamente. La libertà di credenza ruppe ogni comunione di fede. La libertà di educazione generò l’anarchia morale». Non è esattamente quello che sta accadendo sotto i nostri occhi, con le minoranze (sessuali, etniche e religiose) che si combattono sul «mercato dei diritti» in cerca di riconoscimento? Egli non stava forse descrivendo l’antagonismo di massa che caratterizza la società dell’apparente benessere? «Gli uomini» scriveva «senza vincolo comune, senza unità di credenza religiosa e di scopo, chiamati a godere e non altro, tentarono ognuno la propria vita, non badando se camminando su quella non calpestassero le teste de’ loro fratelli, fratelli di nome e nemici di fatto. A questo siamo oggi, grazie alla teoria dei diritti».

Ecco allora che ai diritti Mazzini antepone i doveri. La sua è una ascetica dell’uomo d’azione, un votarsi interamente – per gratitudine verso i genitori, e dunque verso la patria – al sacrificio di sé. Ed è questo moto dell’animo che ora, più di tutto, ci manca.

·        Le Leggi Razziali.

Storia d'Italia. Il manifesto del Duce che aprì le porte alla persecuzione degli ebrei. Roberto Festorazzi lunedì 9 luglio 2018 su Avvenire.

Il 15 luglio 1938 il regime fascista pubblicò il documento di discriminazione razziale da cui nacquero le leggi antisemite

I dieci punti del Manifesto in difesa della razza.

Il 15 luglio 1938, ottant’anni fa, la pubblicazione del “Manifesto della razza” inaugurò in Italia l’antisemitismo di Stato. Allineandosi alla Germania, Mussolini scelse di adottare provvedimenti di discriminazione razziale, che aprirono le porte alla futura persecuzione. Prima di tutto, occorre domandarsi: il Duce era personalmente nemico degli ebrei?

La lunga e pacifica coabitazione, nei primi anni del regime, tra fascisti e comunità israelitica nazionale, nonché la circostanza – tutt’altro che priva di significato anche politico – che il dittatore fu per anni succubo della sua amante e consigliera Margherita Sarfatti, di origini giudaiche, ha indotto taluni a ritenere che le leggi introdotte nel 1938 fossero più dettate da esigenze di realpolitik (in sostanza, per compiacere Hitler), che non ispirate a intimi convincimenti personali.

In realtà, Mussolini condivideva gli stereotipi, largamente circolanti in tutte le società occidentali dell’epoca, sulla pericolosità degli ebrei, in quanto tali, e il suo animo era ricoperto da una fitta vernice di pregiudizio razziale, in senso lato. Le cause remote dell’acuirsi del contrasto tra ebrei italiani e fascismo debbono farsi risalire addirittura alla fine degli anni Venti. Fu proprio la Sarfatti, a quell’epoca, a individuare nei circoli sionisti presenti nella Penisola un focolaio di antifascismo e una sorgente di incomprensione. Il suo ragionamento era molto semplice, e certo condiviso dal Duce: i sostenitori, in Italia, della costruzione dello Stato di Israele privilegiavano le ragioni della propria causa “nazionale”, rispetto alla lealtà verso la Patria fascista. Dunque, si trattava di “rinnegati”. Nonostante una tale reciproca diffidenza, se non una vera e propria ostilità, tra gli esponenti sionisti e il regime, covasse sotto la cenere, fino alla metà degli anni Trenta i rapporti tra il dittatore e la comunità israelitica furono, almeno ufficialmente, corretti.

Ma, già nel 1933-34, l’antisemitismo, dentro la stampa e il Partito nazionale fascista, cessò di rappresentare una posizione marginale, limitata a pochi forsennati, come Giovanni Preziosi, direttore del mensile “La vita italiana”. Cominciarono a profilarsi i fautori di una campagna di sistematica aggressione nei riguardi della componente ebraica della società italiana. I più agguerriti esponenti di questa corrente erano Telesio Interlandi, direttore del quotidiano romano “Il Tevere”, e Roberto Farinacci, capofila dell’intransigentismo nonché fondatore e proprietario del suo organo di stampa, “Il Regime Fascista”.

Farinacci, dalle colonne del giornale, nel maggio del 1933, dopo aver reiterato violente accuse contro l’internazionale e la finanza ebraica, giunse ad auspicare l’introduzione in Italia di un “numero chiuso” per gli israeliti. Mussolini, da parte sua, mentre da un lato condannava ancora ufficialmente le teorie hitleriane sulla superiorità della “razza ariana”, dall’altro tollerava questi attacchi. Ma, in breve tempo, non si sarebbe più limitato ad osservarli: ne avrebbe incoraggiato l’intensificazione e l’estensione. Probabilmente, ragioni di prudenza, sulle prime, gli consigliarono di circoscrivere il “tiro” e di autorizzare soltanto Farinacci, Interlandi, Preziosi e pochi altri estremisti, a condurre in proprio la campagna antisemita a mezzo stampa.

La posizione di Mussolini cominciò ad evolversi soltanto nella seconda metà del 1936, quando iniziò a vedere nella politica sanzionista decretata dalla Lega di Ginevra contro l’avventura italiana in Etiopia, l’espressione irriducibilmente ostile dell’internazionale ebraica. Una sorta di “spectre”, che aveva una quinta colonna, tra gli ebrei antifascisti presenti in Italia, o tra gli esuli, come Carlo Rosselli, assassinato, insieme al fratello Nello, in Francia, nel giugno del 1937. Si registrò in tal modo l’ulteriore acuirsi dei toni con cui Farinacci, dal “Regime Fascista”, non si limitò più a dirigere il fuoco contro i sionisti italiani, ma, più in generale, contro tutti gli ebrei che vivevano nella Penisola. Il 12 settembre 1936, un articolo di fondo non firmato, e dunque attribuibile al ras di Cremona, dal titolo “Una tremenda requisitoria”, prese lo spunto da un discorso pronunciato, al congresso nazionalsocialista di Norimberga, da Joseph Goebbels, il ministro della Propaganda di Hitler. Questi aveva denunciato come nella Francia del Fronte Popolare e nella Spagna sconvolta dalla guerra civile, tutti i capi del “sovversivismo” fossero ebrei. Farinacci andò dunque all’affondo: «Dobbiamo confessare che in Italia gli ebrei, che sono un’infima minoranza, se hanno brigato in mille modi per accaparrarsi posti nella finanza, nella economia e nella scuola, non hanno svolto opera di resistenza alla nostra marcia rivoluzionaria. Ma essi tengono purtroppo un atteggiamento passivo che può suscitare qualche sospetto. Perché non dimostrano in modo tangibile il proposito di dividere la loro responsabilità da tutti gli ebrei del mondo, che mirano ad un solo scopo: al trionfo dell’internazionale ebraica? Perché non sono ancora insorti contro i loro correligionari, autori di stragi, distruttori di chiese, seminatori di odî, sterminatori audaci e malvagi di cristiani?».

Già nel corso del 1937, Mussolini decise di attuare il “giro di vite”, con l’emanazione di una legislazione razzista. In tal modo, sulla stampa di regime, si assistette a un crescendo di invettive, e agli emuli italiani di Goebbels fu concesso di dilagare, a briglia sciolta, nella rappresentazione mostrificata del “nemico” per eccellenza. Si introdusse la distinzione tra gli “italiani ebrei” (ossia i lealisti con accertati meriti patriottici, in cima ai quali vi erano gli iscritti al partito) e gli “ebrei italiani”, vale a dire i sionisti e gli antifascisti. In seno alla comunità israelitica venne seminata discordia. Da un lato vi erano le organizzazioni ufficiali che raccoglievano la pluralità di anime e di correnti del giudaismo nazionale. Dall’altra il regime incoraggiò la nascita del filofascista Cire (Comitato degli italiani di religione ebraica), che si prestò a divenire strumento di disarticolazione della comunità. Il Cire chiese infatti di abolire, non solo la stampa israelitica ma anche di sciogliere la Face (Federazione delle associazioni culturali ebraiche) e l’Adei, che raggruppava la componente femminile. Era iniziata la corsa verso il baratro.

Il discorso di Trieste. Archivio Storico Luce Timeline, di redazione su archivioluce.com il 18 Settembre 2019.

Il documento che presentiamo era in un rullo di cui si erano perse le tracce in Archivio. Facente parte di un più lungo documentario che raccontava la visita di Mussolini in Friuli e Veneto nel settembre del 1938, questo rullo è stato recuperato presso un privato dall'Archivio Nazionale del Cinema della Resistenza di Torino e successivamente restaurato in collaborazione con il Luce.

Sebbene ne girassero alcune copie online il documento non era molto conosciuto, nonostante sia il primo, e unico, nel quale sentiamo Mussolini annunciare esplicitamente che per mantenere il "prestigio dell’impero" serve "una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime" per concludere: "L’ebraismo mondiale è stato durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del fascismo".

Come ha scritto Antonella Pagliarulo in un articolo comparso nel 2015 "La storia di questo ritrovamento è anche l’enigma della sua “perdita/assenza” nei rulli di pellicola girati dall’Istituto Luce; un enigma che rilancia ancora una volta l’interrogativo sull’assenza del “discorso sulla razza” (battaglia ideologica antisemita, legislazione statale) da tutti documenti audiovisivi realizzati dall’Istituto Luce".

Il Duce, accompagnato da un gruppo di personalità del partito fascista, osserva un plastico che gli viene illustrato da un dirigente dei cantieri navali San Marco

Se cerchiamo Leggi razziali in archivio ci vengono rimandati solo due servizi: un cinegiornale Incom del 1958 che ricorda le drammatiche giornate delle deportazioni di ebrei italiani in seguito ai provvedimenti legislativi del 1938, e un servizio fotografico del 1942 intitolato Ebrei al lavoro lungo l'argine del Tevere.

Ci sono anche un paio di foto in un servizo del 1941 in cui durante un comizio a Piazza Mazzini a Roma compaiono cartelli esplicitamente antisemiti.

Questo non significa che il razzismo fosse stato fino a quel momento avulso dalla politica fascista. Come ricorda lo storico Enzo Collotti in un intervento del 1998, in occasione del sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali: "la spinta a una politica della razza nel fascismo italiano fu connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale; che esaltava l’espansionismo italiano attraverso la concezione tardo-coloniale delle colonie come colonie di popolamento, ossia sede di trasferimento e di nuovo insediamento dell’eccedenza demografica dell’Italia e simbolo di superiorità della civiltà e della razza italiane".

Anche verso gli ebrei le leggi del 1938 non furono un fulmine a ciel sereno; c'erano stati anni di preparazione, a partire dal 1929, quando, con la firma del Concordato, era stato "accordato al culto israelitico lo statuto di semplice culto ammesso preludendo al nuovo statuto delle Comunità del 1931, era stata intaccata la piena parificazione degli ebrei italiani al resto dei cittadini italiani".

In definitiva sembra quasi che il regime volesse lasciare questo aspetto della propaganda alla carta stampata. Non a caso il 5 agosto 1938, diretta da Telesio Interlandi, usciva la rivista La Difesa della Razza e il Correire della Sera il 6 agosto usciva a 9 colonne con il titolo La difesa della razza in Italia, La Stampa invece il 5 settembre, sempre a 9 colonne annunciava: Il Consiglio dei Ministri delibera l'esclusione dalle scuole di tutti gli insegnanti ed alunni nati da genitori di razza ebraica.

18 settembre, a Trieste Mussolini gridò: “L’ebraismo è il nemico irreconciliabile”. ILARIA ROMEO su strisciarossa.it.

“L’ebraismo mondiale è stato, durante sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo”. Così Benito Mussolini preannunciava a Trieste, in piazza Unità d’Italia, il 18 settembre 1938, l’imminente promulgazione delle norme razziali sul territorio italiano (il Regio decreto sui Provvedimenti per la difesa della razza italiana è del 17 novembre 1938).

“Nei riguardi della politica interna, il problema di scottante attualità è quello razziale – afferma in quel tristemente noto discorso il duce – Anche in questo campo noi adotteremo le soluzioni necessarie. Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni, sono dei poveri deficienti, ai quali non sappiamo se dirigere il nostro disprezzo o la nostra pietà. Il perché sono abituati ai lunghi sonni poltroni. E’ in relazione con la conquista dell’Impero, poiché la storia ci insegna che gli imperi si conquistano con le armi ma si tengono con il prestigio, occorre una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime”.

Per essere più chiaro Mussolini specifica: “Il problema ebraico è dunque un aspetto di questo fenomeno. La nostra posizione è stata determinata da questa incontestabilità dei fatti. L’ebraismo mondiale è stato, durante i sedici anni, malgrado la nostra politica, un nemico irreconciliabile del Fascismo. In Italia la nostra politica ha determinato, negli elementi semiti, quella che si può oggi chiamare, si poteva chiamare, una corsa vera e propria all’arrembaggio. Tuttavia, gli ebrei di cittadinanza italiana, i quali abbiano indiscutibilmente meriti militari e civili nei confronti dell’Italia e del Regime, troveranno comprensione e giustizia. In quanto agli altri, seguirà una politica di separazione. Alla fine, il mondo dovrà forse stupirsi, più della nostra generosità che del nostro rigore, a meno che, i nemici di altre frontiere e quelli dell’interno e sopratutto i loro improvvisati e inattesi amici, che da troppe cattedre li difendono, non ci costringano a mutare radicalmente cammino”.

Il capo del fascismo, toccando le corde della retorica, concludeva: “Dopo quanto vi ho detto io vi domando: c’è uno solo fra voi di sangue e di anima italiana che possa per un solo istante dubitare dell’avvenire della vostra città unita sotto il simbolo del Littorio, che vuol dire audacia, tenacia, espansione e potenza? Non abbiate qualche volta l’impressione che Roma, perché distante, sia lontana. No, Roma è qui. È qui sul vostro Colle e sul vostro Mare; è qui nei secoli che furono e in quelli che saranno; qui, con le sue leggi, con le sue armi, e col suo Re”.

In piazza dell’Unità ci sono 150 mila persone, camicie nere, fazzoletti e applausi. E’ «il primo atto antisemita mediatico del regime», spiega lo storico Marcello Pezzetti, il segno che le cose precipitano. Mussolini fa allestire un palco enorme su cui campeggia la scritta DUX sotto il balconcino dal quale arringa la folla oceanica e osannante.

Il Duce all’Italia e all’Europa. Parola di giustizia e fierezza romana, titola il «Corriere della Sera» del giorno successivo. L’editoriale di prima pagina è firmato da Aldo Valori: “Quanto alle soluzioni che sono allo studio – vi si legge – esse saranno improntate a un senso di giustizia che non può stupire chi sappia – ed era facile immaginarlo – che Mussolini se ne interessa personalmente. Si tratta d’altronde di una questione di principio che ha un contenuto squisitamente nazionale e politico, il fascismo si è prefisso di risolverla”.

“Trieste è con Te. La sua anima è temprata alla Storia. Crede nel Tuo pensiero che diventa azione, nella Tua parola…”, così su «Il Piccolo» del 18 settembre 1938 – prima pagina – scriveva Chino Alessi accanto ad una enorme immagine di Mussolini in divisa bianca.

Le immagini dell’adunata di Trieste saranno diffuse dall’Istituto Luce che provvederà a raccontare nei cinegiornali e nei documentari realizzati le “conquiste” del fascismo e le adunate del Duce in tutta Italia.

E’ noto che il passaggio cruciale sui prossimi provvedimenti razziali fu espunto dai cinegiornali, probabilmente per non irritare ulteriormente la Santa Sede: il documentario in possesso dell’archivio Luce sul discorso di Trieste appartiene ad un lungometraggio sul viaggio del Duce in Veneto girato dal 18 al 26 settembre 1938, privo dei 18 minuti essenziali che invece appartengono ad una copia positiva recuperata alla fine degli anni Settanta dall’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza.

Scriveva in proposito cinque anni fa, in occasione del 75° anniversario dell’annuncio, Anna Foa su «Avvenire»: “L’annuncio di Mussolini a Trieste non coglieva di sorpresa gli ebrei, che avevano visto scatenarsi la tempesta già da alcune settimane e che erano bombardati da almeno un anno da una crescente propaganda antisemita. Nel luglio era apparso il “Manifesto della razza”, firmato da un gruppo di scienziati e ispirato direttamente da Mussolini, in cui si teorizzava, con non poca confusione, l’appartenenza degli italiani a una pura razza italiana a cui gli ebrei non appartenevano. I giornali, le istituzioni, il mondo culturale non mostrarono nessuna opposizione alla svolta razzista e antisemita di Mussolini – aggiungeva Foa – che non mancava del resto di avere dietro di sé una lunga preparazione. A Trieste, l’annuncio dei provvedimenti fu accolto da grida di giubilo dell’immensa folla radunata a ricevere il Duce”

La scelta di Trieste richiede però qualche parola di commento. Nel suo discorso, Mussolini legava strettamente l’adozione di una politica razziale allo sviluppo di una politica imperiale da parte del fascismo. Il viaggio di Mussolini a Trieste era solo la prima tappa di un percorso intrapreso con grande clamore propagandistico dal Duce nelle zone della Prima guerra mondiale, viste naturalmente in un’ottica fortemente nazionalista. Forte era del resto l’adesione al nazionalismo fascista di Trieste, un’infausta trasformazione dell’antico spirito irredentista della città prima che divenisse italiana. Irredentisti erano stati in particolare gli ebrei di Trieste, un irredentismo che aveva facilitato in molti di loro l’adesione al fascismo, come del resto era avvenuto nel resto d’Italia, quando gli ebrei avevano visto nel fascismo l’esito naturale del nazionalismo.

Ora la politica razziale di Mussolini li tagliava fuori da ogni appartenenza nazionale, legando strettamente il nazionalismo fascista al razzismo antisemita. In questo senso, la scelta di Trieste non era casuale, dotata com’era di una forte carica simbolica.

Inoltre il Duce parlava in una città, Trieste, in cui la presenza ebraica era forte, radicata e ricca di cultura. Una città di confine, che era stata un ponte verso la Mitteleuropa. Ma era anche, più concretamente, il porto da cui partivano, fin dai primi anni del secolo, le navi cariche di ebrei dell’Est in fuga dai pogrom e dalle persecuzioni verso la terra d’Israele. La città che era per questo chiamata la Porta di Sion. E anche questo era ben presente nella mente di Mussolini quando il 18 settembre 1938 lanciò proprio da Trieste le leggi della vergogna”.

Italia 1938: il saccheggio legalizzato dei fascisti ai danni degli ebrei. GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2022. 

La storica Ilaria Pavan ha indagato per il Mulino le conseguenze economiche della campagna antisemita. Anche dopo la guerra la restituzione dei beni fu complicata.

Due paia di calze usate, un bidè, una maglia di lana fuori uso, un paio di ciabatte usate, un paio di pattini a rotelle, una cinghia per pantaloni rotta, una forma per pasticcini, una caffettiera in alluminio, un cappottino per bambino...» La «Gazzetta Ufficiale», ai tempi delle leggi razziali e delle requisizioni dei beni agli ebrei, arrivò ad annotare tutto. E proprio quell’agghiacciante solerzia burocratica, parallela a quella dei pediatri complici di Josef Mengele, toglie il fiato. Lo zelo amorale di quelle mezzemaniche sparse negli uffici pubblici e l’immonda indifferenza di troppi cittadini che non volevano vedere. O si spingevano talora a chiedere perfino una quota del bottino come un certo signor A. M. di Siena che arrivò a scrivere al responsabile provinciale: «Mi risulta (...) che vi sarebbero liberi alcuni appartamenti di proprietà o comunque occupati da ebrei recentemente e giustamente deportati. Domando all’Eccellenza Vostra di assegnarmi uno dei suddetti alloggi, di cinque o sei ambienti…». Un verme. Aggiungeva: «Possibilmente a muri vuoti». Senza il fastidio di smaltire le povere cose lasciate lì da chi era stato smistato ai campi di sterminio.

La storica Ilaria Pavan (La Spezia, 1971) è docente di Storia contemporanea alla Normale 

Il libro in uscita per il Mulino Le conseguenze economiche delle leggi razziali di Ilaria Pavan, docente di Storia contemporanea alla Normale, spazza via una volta per tutte, ammesso ce ne fosse bisogno, l’immagine di un regime e un Paese costretti a accettare «riluttanti» il razzismo antiebraico perché «forzati dall’alleato nazista». Non andò così. Non solo in Europa «l’esperienza italiana fu per lunghezza seconda solo a quella nazista» tanto che le persecuzioni dall’estate del 1938 all’autunno del 1943 furono «interamente e unicamente volute e gestite dalle autorità fasciste». Ma «da parte dell’apparato statale, tanto centrale che locale, non sembrò manifestarsi alcun cedimento nell’applicazione solerte e rigorosa della legislazione antiebraica» e «centinaia di carte e documenti esaminati non riportano nessuna voce, neppure sommessa, di dissenso o solo di dubbio o esitazione». Unico imbarazzo, forse, la meschineria di certi sequestri che evidentemente si aggiungevano alla requisizione di case, negozi e arredamenti: «Un bocchino d’ambra, tre penne stilografiche, un astuccio vuoto, un portacipria, un taccuino...»; «Un colino per té, una caffettiera in alluminio, una zuccheriera di bachelite, una tovaglia in cattivo stato»... Segno indelebile della miseria morale di chi sequestrava e arraffava. Primi tra tutti, ovvio, i gerarchi fascisti.

«Già nel dicembre 1938 — scrive Ilaria Pavan — i rapporti di polizia parlano infatti del “manifesto vampirismo praticato da esponenti del Partito che si varrebbero della loro qualità per fare i propri interessi” e di come “continuasse a correre la voce che moltissimi ariani, gerarchi del Pnf in primo luogo, abuserebbero del momento di disorientamento dell’elemento ebraico colpito dai provvedimenti del governo per fare i loro affari, magari accumulandovi quelli degli stessi ebrei”».

A quanto ammontarono complessivamente i patrimoni in case, terreni, imprese, negozi, depositi bancari, azioni e proprietà varie rubati agli israeliti? Quasi impossibile, da quantificare. Troppi morti, troppi sopravvissuti emigrati senza voler più aver niente a che fare con la vecchia patria che le aveva traditi, troppi eredi sovrastati dalle difficoltà burocratiche e troppi altri che non avevano manco l’idea di essere eredi. Certo è che, dopo le infamie delle leggi razziali e le complicità nella Shoah, l’Italia non si riscattò neppure nel dopoguerra.

Scrive nelle Cinque storie ferraresi Giorgio Bassani: «Quando, nell’agosto del 1945, Geo Josz ricomparve a Ferrara, unico superstite dei centottantatré membri della Comunità israelitica che i tedeschi avevano deportato in Germania (…) nessuno in città da principio lo riconobbe. (…) Dopo tanto tempo, dopo tante sofferenze toccate un po’ a tutti, e senza distinzione di fede politica, di censo, di religione, di razza, costui, proprio adesso, che cosa voleva? Che cosa pretendeva?». Del resto in Italia, accusa Pavan, «la restituzione dei beni non avvenne mai d’ufficio ma dietro precise domande degli interessati, in mancanza delle quali non ci fu organismo pubblico, istituto bancario o compagnia assicuratrice che restituì di sua iniziativa quanto era stato sequestrato dalle autorità nazifasciste negli anni precedenti». Perfino istituti come il Credito italiano o la Bnl arrivarono a «trincerarsi dietro il segreto bancario» e una relazione del commissario dell’Egeli (Ente di gestione e liquidazione immobiliare) del 1950 mise «in evidenza la presenza di beni non rivendicati rimasti depositati presso le banche e l’intenzione di queste ultime di attendere lo scadere dei termini di prescrizione per incamerarli».

Di tutto fecero, le stesse autorità dell’Italia nata dalla Resistenza e dall’antifascismo, per non restituire quanto era stato sottratto alla minoranza perseguitata. Pesò, su tutto, «il principio della cosiddetta “buona fede” dei compratori dei beni ebraici». Fissato già alla fine del 1944 dal ministro della Giustizia del governo Bonomi, Umberto Tupini, osservando che quella restituzione «avrebbe sconvolto “un principio basilare tradizionale, accolto in tutti i moderni ordinamenti giuridici”, il fatto, cioè, che l’acquisto in buona fede “sanasse qualsiasi vizio”». Un principio, contesta Pavan, «radicalmente opposto a quelli contenuti nella legislazione emanata in altri Paesi europei a favore degli ex perseguitati razziali». Come poteva dimostrare, un sopravvissuto tornato da Auschwitz con pochi cenci addosso, la «cattiva fede» di chi si era preso tutto ciò che aveva, se era stata la stessa legge allora in vigore a consentirglielo o addirittura a spingerlo?

Finì com’era scritto che finisse: quanti cercarono d’avere giustizia furono nella maggioranza dei casi inevitabilmente sconfitti. Bianca Pesaro non riuscì a riavere la rivendita di sali e tabacchi toltale nel ‘39 perché era già stata data ad altri cui non poteva più essere tolta «senza un giustificato motivo». Testuale. Il ministero delle Finanze rispose a numerosi commercianti che contestavano la richiesta di pagare tasse per gli anni in cui erano nei chiusi lager o nascosti nelle cantine di amici «sostenendo che “da qualunque luogo il cittadino ebreo poteva spedire l’importo delle tasse da pagare”» e che «l’assenza a causa delle persecuzioni nazifasciste non era giudicata sufficiente “a giustificare un ritardo nella denuncia della cessazione di attività”». Per non dire della Prefettura di Verona che alla comunità israelita scaligera sopravvissuta all’Olocausto chiese «oltre 90.000 lire a copertura delle spese effettuate per la gestione dei beni sequestrati agli ebrei veronesi, spese comprendenti persino la quota per il mantenimento del campo di internamento per ebrei istituito dopo il giugno 1940 in una delle fortezze della città». Avevano avuto «vitto e alloggio» nelle galere razziali? Pagassero…

Umberto Gentiloni per “la Repubblica” il 13 gennaio 2022.

«Rimetto al Duce le proposte dello Stato Maggiore Germanico che von Rintelen ha sottoposte rientrando da Berlino. Nel pomeriggio sono ricevuto dal Duce a Villa Torlonia. Il Duce conferma decisamente la sua visione delle necessità di intervento a fianco della Germania», un passo del Diario di Rodolfo Graziani alla data del 13 aprile 1940, mostra la marcia di avvicinamento che porta l'Italia fascista nella tempesta del secondo conflitto mondiale. Le agende del capo di Stato Maggiore del Regio Esercito presentano note scarne, spesso confuse e ripetitive. 

Di recente sono emerse quelle che mancavano, conservate presso gli archivi statunitensi di College Park (NARA). Una storia nella storia che si carica di interrogativi. Pochi giorni dopo l'ingresso degli Alleati nella capitale, nel giugno 1944, l'archivio di Graziani viene restituito al governo italiano.

Ma si tratta di una parziale restituzione: le agende relative al 1940 e al 1941 restano in mano americana, separate dal resto della documentazione archivistica, forse per essere esaminate con maggiori attenzioni. Rimangono così distinte dal fondo originario, fino alla recente indagine condotta da Mauro Canali che le ha prese in mano, curate e introdotte per inserirle pienamente nelle fonti relative alla conduzione della guerra e alle dinamiche di scontro e confronto interno al regime (due volumi: M. Canali, Dalle Alpi al deserto libico ; R. Graziani, Diari 1940-1941 , a cura di M. Canali, Nuova Argos, Gnosis, 2021). 

Il Diario di un protagonista è una fonte preziosa, le testimonianze in diretta sulla Seconda guerra mondiale di figure che abbiano servito con dedizione il regime fascista non sono molte. Lo stesso De Felice evidenziava come fosse lacunoso e incerto il panorama della documentazione riconducibile alla partecipazione italiana al conflitto. 

Le agende di Graziani, «quelle americane» (dal 1 gennaio 1940 al 23 aprile 1941) rafforzano alcune ipotesi interpretative e ne propongono contestualmente di nuove. Il carattere spigoloso e rancoroso dell'autore viene confermato e rafforzato: il principale bersaglio è Badoglio, ma lo sguardo verso gli uomini che circondano Mussolini sembra ispirato da gelosie e invidie continue.

Il punto di divergenza più forte richiama lo schema generale di conduzione del conflitto, un dato qualificante e significativo del biennio. Mussolini e Badoglio si muovono nell'ottica di una guerra parallela, da condurre a fianco della Germania nazista contro i suoi stessi nemici, ma da una posizione autonoma e originale. Graziani, al contrario, spinge per una piena collaborazione bellica con i tedeschi, fino a preparare un piano del conflitto che avrebbe inquadrato diverse divisioni italiane sotto il comando tedesco. Un'affinità politica, ideologica e militare che diventa una vera e propria ossessione nelle pagine di un Diario che evidenzia lo scontro ai vertici militari mentre si avvicina l'ora dell'ingresso in guerra. 

«La Germania non ci chiede di intervenire subito in guerra. Vuole però chiarire il nostro atteggiamento in modo definitivo ed avere la certezza che non interverremo contro di essa», il testo di un memorandum allegato alla prima agenda chiarisce così alcuni punti rimasti in sospeso: «von Ribbentrop ha prospettato, in cambio della nostra garanzia di non intervento contro la Germania, la stipulazione di un trattato di commercio con la Russia, la quale, in cambio si obbligherebbe a non intervenire nei Balcani riservando a noi l'influenza su di essi».

 Questioni che Graziani annota spingendo per l'intervento contro Francia e Inghilterra il prima possibile. Un incontro con Mussolini (il 19 marzo 1940) sembra sciogliere ogni residuo dubbio: «Sono ricevuto in udienza dal Duce dopo il suo ritorno dal Brennero. Il Duce fissa le linee definitive fondamentali politiche: 1) da escludere che l'Italia possa rimanere non belligerante fino all'ultimo. 2) da escludere che l'Italia possa mai marciare a fianco dei franco-inglesi. 3) da tenere per fermo che noi faremo guerra parallela alla Germania. 4) scelta del momento assolutamente riservata a noi».

Su questo ultimo aspetto emerge in filigrana il noto opportunismo di Mussolini: raccogliere il massimo con il minimo coinvolgimento e rischio. Come chiusura dell'incontro Graziani annota: «Considerare la eventualità che, a seguito di gravi colpi inferti dalla Germania alla Francia, si produca per noi il momento favorevole per intervenire a completare il successo e renderlo definitivo».

Al di là dello scorrere degli eventi sullo sfondo delle confessioni consegnate alle pagine di un Diario, emergono le miserie e le debolezze degli uomini, esaltati dagli orizzonti di conquista del regime: «Dal 10 maggio al 17 giugno (quando Graziani scrive queste righe), in 38 giorni tutto è liquidato. 

Sarà memorabile nella Storia»; o sorpresi e delusi dalle scelte del capo dopo le disfatte nei deserti libici: «Mi giunge a casa (24 marzo 1941) la lettera del Duce colla quale sono esonerato dagli incarichi ricoperti, in contraddizione con quanto Egli non a mia richiesta e senza affatto piatire, aveva deciso».

·        Al tempo del Fascismo.

I buonisti e il vizio di riscrivere la storia: lo schiaffo alla marina italiana. Annunciata la lavorazione di un film sulla figura del comandate Todaro, ma la produzione: "Ispirati dal governo gialloverde". Ecco perché invece la storia del sommergibile Cappellini va riscoperta senza il politicamente corretto. Francesco Colafemmina l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Quando un appassionato di storia navale apprende che a Taranto è in lavorazione un film dedicato all’eroico comandante Todaro e al suo sommergibile Cappellini, riprodotto appositamente per le riprese, non possono non luccicargli gli occhi. Tuttavia, gli s’insinua subito un dubbio: possibile che un eroe italiano della Seconda Guerra Mondiale, uno che combatté la guerra voluta da Mussolini e passò alla famigerata X Mas, possa essere esaltato in una pellicola cinematografica contemporanea?

Leggendo la “nota di regia” in calce alla presentazione del film balza però agli occhi questa frase: "L’essere umano davvero forte è quello capace di tendere la mano al debole”. Ma è papa Francesco o il comandante Todaro? Di qui il sospetto: vuoi vedere allora che il film sul Cappellini sarà l’ennesima occasione per farci un predicozzo sull’accoglienza dei migranti? Quando poi leggiamo che la sceneggiatura del film è di Sergio Veronesi, che ne ha tratto anche un libro di prossima pubblicazione, e racconta di essersi ispirato ai primi mesi del governo gialloverde del 2018, il sospetto si fa certezza.

Nell’attesa di vedere il film di Edoardo De Angelis, che in ogni caso si preannuncia avvincente, ricostruiamo qualche punto fermo della vicenda da cui prende ispirazione. L’Italia entra in guerra nel ’40 con la quinta Marina del mondo per numero di unità e loro dimensione. Senza radar, e senza un adeguato coordinamento con l’Aeronautica, senza flottiglie di aerosiluranti, ma con tanto coraggio e tanto patriottismo.

Siamo nell’ottobre del 1940 quando il comandante del sommergibile Cappellini, Salvatore Todaro, affonda un cargo belga, il Kabalo, al largo delle Canarie. E rinnova un gesto già compiuto dal sommergibile Malaspina del comandante Leoni il 12 agosto di quello stesso anno con la petroliera britannica British Fame: rimorchia verso il primo porto sicuro le lance con i naufraghi della nave mercantile affondata. Ciò che rende unico ed eroico il caso del Cappellini è che durante il rimorchio di una delle due scialuppe del Kabalo con a bordo 26 uomini, il fasciame della scialuppa si ruppe e il comandante Todaro decise di imbarcare i naufraghi e di navigare per quattro giorni verso l’isola di Santa Maria delle Azzorre (paese neutrale) dove furono sbarcati. Nonostante il soccorso dei naufraghi l’affondamento del Kabalo sarà tra le cause della dichiarazione di guerra all’Italia del governo belga in esilio.

La vicenda di Todaro non fu isolata. Certo, la sua umanità pose a rischio affondamento il sommergibile con tutti i suoi uomini, ma rientrava nel codice d’onore della Marina. Una umanità corroborata forse anche da quanto rivelerà Junio Valerio Borghese, il comandante della X Mas, nella quale Todaro entrò nel 1942. Il principe nero lo definirà, infatti: “Singolarmente iniziato nei problemi teosofici”. Un uomo di profonda spiritualità, dunque, che trovò la morte a bordo di un mezzo della Mas il 14 dicembre di quello stesso 1942. Ma anche dotato dello straordinario spirito di sacrificio caratteristico dei grandi comandanti di sommergibili durante la guerra, eternati nello splendido "Sopra di noi l’Oceano di Antonino Trizzino" (Longanesi, 1962). Basti pensare all’altrettanto eroico Carlo Fecia di Cossato, al comando del suo Tazzoli, morto suicida nel 1944, dopo “la resa ignominiosa della Marina”.

Queste figure, ma anche le memorie di vita marinara a bordo dei sommergibili italiani pubblicate a ridosso della guerra (penso a "Un sommergibile non è rientrato alla base" di Antonio Maronari), descrivono un mondo estremamente distante dalle manipolazioni ideologiche contemporanee. Un mondo fatto di valori e codici di condotta che rendono antistorica l’operazione di trasformazione di questi “pirati samaritani” in icone di una sorta di pietas italica pro-migranti.

Quegli uomini non sognavano un mondo senza confini, identità, nazioni. Senza armi e senza guerra. Sono morti, al contrario, per una Nazione, per difendere valori e confini, per ideali che oggi riterremmo superflui o retrogradi. O sono morti, come Carlo Fecia di Cossato, in nome di una “rivolta contro la bassezza dell’ora”. L’auspicio è che, al di là dei revisionismi, il film sul comandante Todaro, possa aiutare gli italiani a riappropriarsi di una storia di eroismi – militari oltre che umanitari – ampiamente rimossi. E restituire alla Nazione quegli uomini nella loro autenticità, e nelle loro apparenti contraddizioni. Senza servirsene per sbandierare concetti ideologici che non avrebbero mai condiviso.

Nel ‘43 raid tedesco sul porto di Bari. Colpita nave Usa carica di iprite: è strage. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Dicembre 2022

«La Gazzetta del Mezzogiorno» del 3 dicembre 1943 riporta in prima pagina la notizia dell’offensiva aerea alleata in atto in Olanda e nel Belgio. Non si legge neanche una parola, però, su quanto avvenuto la sera prima a Bari. Siamo nel pieno del secondo conflitto mondiale. L’Italia, tre mesi prima, ha siglato l’Armistizio con gli anglo-americani: il vecchio alleato, la Germania, è adesso il nostro nuovo nemico. L’obiettivo dei tedeschi è distruggere le strutture logistiche più importanti per gli Alleati sul fronte adriatico: tra queste c’è il porto di Bari, principale base dei rifornimenti dell’VIII Armata britannica, impegnata nei Balcani e in Grecia, che le truppe naziste in ritirata hanno già tentato di sabotare, ma invano, il 9 settembre 1943.

La difesa del porto di Bari da parte delle truppe comandate dal generale Bellomo ha costituito un enorme vantaggio per gli Alleati. Nel capoluogo pugliese arrivano convogli di navi mercantili inglesi, americane, norvegesi, danesi, cariche di materiale bellico pericoloso e di attrezzature logistico-sanitarie. La sera del 2 dicembre, però, il porto e la città sono, incautamente, perfettamente illuminate: la disattenzione inglese e la violazione delle norme dell’oscuramento hanno conseguenze disastrose.

Alle 19.30 un raid tedesco, dopo aver colpito diverse zone della città, si concentra sul porto e provoca l’affondamento di circa 20 navi alleate. Eisenhower descriverà quella del 2 dicembre ‘43, a Bari, come la più grave perdita inflitta da un attacco aereo all’esercito americano, nell’intera campagna del Mediterraneo e in Europa. Le bombe, dunque, colpiscono anche il borgo antico e il quartiere murattiano: vengono distrutte un gruppo di case a ridosso della Caserma Regina Elena, sulla via di Santa Chiara, ed alcune abitazioni vicino alla Cattedrale. Si conteranno, alla fine, circa 180 vittime civili. Ma ancora non basta, perché ciò che accade quella sera a Bari non è un semplice bombardamento.

Una delle navi colpite, la «John Harvey», trasporta armi di ogni tipo e bombe contenenti un gas letale: l’iprite. L’utilizzo di armi chimiche è vietato: pertanto, il tentativo americano di tenere nascosta la presenza del «mustard gas», aggrava il bilancio del disastro, provocando centinaia di morti nelle truppe alleate. Molti soldati muoiono dopo il raid perché inconsapevolmente esposti all’iprite: il personale sanitario, non allertato, non può offrire tempestive cure per le contaminazioni. La censura alleata non solo impedisce la diffusione della notizia ma ostacola l’adeguato soccorso dei feriti e aggrava il bilancio delle perdite di militari e civili.

L’antesignano dell’ambientalismo? Fu Arnaldo Mussolini. Emanuele Beluffi su culturaidentità.it il 26 Novembre 2022

​Cinabro Edizioni pubblica gli scritti di un​ mite e appassionato studioso che sembrano un monito per l’ecologismo di oggi

​Lo dicevamo anche noi di CulturaIdentità nel nostro Manifesto delle Città Identitarie: “Gli abitanti hanno costruito da tempo un’alleanza tra l’agricoltura e il territorio che favorisce la conservazione del paesaggio e la biodiversità. In questo contesto l’agricoltore diventa custode della terra”. Queste le nostre parole, di ora come allora. E di cui ci piace avvertire la risonanza anche in quel Ministero “del nuovo immaginario italiano” che abbiamo voluto identificare nel Ministero della Cultura​. E, perché no,​ nel  Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste​: è vero che l’Italia, potenza industriale, fa parte del G7, ma è anche vero che il nostro Paese vanta una forte tradizione legata alla sfera agraria e ambientale, al punto da occasionare quello che sopra dicevamo essere l’ “immaginario” culturale di una nazione. O una weltanschauung, una visione del mondo, come lo era quella agraria e ambientale di Arnaldo Mussolini (Dovia di Predappio, 11 gennaio 1885-Milano, 21 dicembre 1931), direttore del Popolo d’Italia dal novembre del ’22 agli ultimi giorni di una vita terminata a soli 46 anni per un attacco cardiaco​ e spesa ​per una rinascita agricola e forestale dell’Italia.

Cinabro Edizioni, insieme al gruppo abruzzese di Coscienza e Dovere, ci fa oggi scoprire (o ri-scoprire) l’impegno di uno studioso e docente di agraria​, mite e​ dalla spiccata sensibilità ecologica, con cui animò anche riviste  e approfondimenti  di carattere agrario e forestale. Il bosco e l’aratro. Raccolti di scritti di carattere forestale e agrario, di Arnaldo Mussolini, è il libro appena uscito nella collana Paideia di Cinabro Edizioni (216 pagine, 20€, a cura di Coscienza e Dovere, con prefazione di Remo Grandori e introduzione di Diego Giorgi), che comprende gli articoli sul rilancio dell’agricoltura e la salvaguardia della terra pubblicati sulle pagine del Popolo d’Italia da Arnaldo Mussolini, fautore di un “culto dell’albero”​, con cui intendeva un’educazione civile e di rispetto verso gli alberi​ ​e un’attenzione per il problema forestale straordinariamente attuali, se pensiamo alle storture dell’ecologismo ideologico di oggi: un lascito giornalistico e culturale che rischiava di restare nei cassetti più riposti della memoria collettiva.

Il Duce in lotta con i romanzi rosa. Mura, scrittrice dimenticata, nel libro di Marcello Sorgi. ALDO CAZZULLO su Il Corriere della Sera il 29 Novembre 2022

 Il giornalista nel suo nuovo libro (Marsilio) segue le tracce di Maria Assunta Volpi Nannipieri, censurata dal regime, nonostante fosse l’autrice più famosa dell’Italia fascista nel genere leggero

Maria Assunta Volpi Nannipieri, in arte Mura (1892-1940)

Lei, Silvia, è una giovane e ricca vedova. Lui, Sambadù, è un ingegnere nato in Senegal ma formatosi in Italia: parla perfettamente la nostra lingua, si è fatto strada, ha un ruolo dirigenziale in una grande azienda di costruzioni. Lei e lui si amano, si sposano, hanno un figlio. Ma alla lunga si rivelano troppo diversi, lei in particolare non regge la radice africana che riemerge in lui, arriva a interrogarsi sull’opportunità del meticciato, dell’incrocio tra etnie di cui ha il frutto sotto gli occhi, il figlio. E alla fine la coppia si lascia.

La copertina del libro di Marcello Sorgi «Mura. La scrittrice che sfidò Mussolini» (Marsilio, pp. 160, euro 17)

Letta oggi, sembrerebbe la trama di un romanzo intriso di pregiudizio. Fin dal titolo: Sambadù, amore negro. E fin dalla copertina, che raffigura un nero nudo, quasi caricaturale, che danza avvinto a una donna bianca, bionda, fasciata da un abito chiaro.

Eppure quel romanzo, nell’Italia di Mussolini, fu considerato troppo avanzato. Progressista. Inquietante. Pericoloso. Perché le razze non si potevano mescolare. Peggio ancora se era una bianca a sposare e fare un figlio con un nero. Il Duce lesse il libro. Lo fece leggere al cognato ed erede Galeazzo Ciano. E ordinò che sparisse dalla circolazione. Anche se l’autrice era — come scrive Marcello Sorgi — la più famosa scrittrice rosa dell’Italia fascista. Anzi, a maggior ragione.

Oggi di Maria Assunta Volpi Nannipieri, in arte Mura, si sono perse le tracce. La cancel culture ante litteram imposta dal fascismo ha prevalso. È una delle tante «vittorie della memoria» del Duce e del suo regime, di cui un numero incredibilmente alto di italiani non ha affatto una memoria negativa. Anche per questo è prezioso il nuovo libro di Marcello Sorgi, Mura. La scrittrice che sfidò Mussolini, pubblicato da Marsilio, che ha messo in copertina proprio quel disegno che oggi uno sguardo ideologico considererebbe troppo «di destra», e gli sguardi ideologici e censori dell’epoca considerarono troppo «di sinistra». Così Mura fu censurata e cancellata con la stessa logica con cui si censurò Faccetta nera. Una canzone che oggi suona insopportabilmente paternalista; ma che alle orecchie del Duce invitava in qualche modo all’integrazione — «Faccetta nera, sarai romana…» —, mentre nelle terre di conquista lui aveva voluto e imposto l’apartheid.

L’autore è uno scienziato della politica e del potere, che da tempo si concede ogni anno una licenza. Con la stessa tecnica curiosa e meticolosa con cui racconta il Palazzo sulla «Stampa» — che ha diretto negli ultimi anni dell’avvocato Agnelli —, Marcello Sorgi ha narrato storie molto diverse che hanno per epicentro la sua terra, la più letteraria d’Italia: la Sicilia. E il suo nume tutelare è un amico e cliente del padre avvocato, Nino Sorgi: Leonardo Sciascia, che lui stesso portò a scrivere sulla «Stampa», al tempo della direzione di Gaetano Scardocchia. Ovviamente, anche in Mura si affacciano sia la Sicilia, sia Sciascia. Ma la scena si apre altrove.

Siamo in Libia, all’inizio del 1940. La guerra già infuria in Europa, e tra poco scoppierà anche qui, nel deserto, con l’improvvido attacco dell’Italia fascista all’impero britannico, che costerà subito la vita a Italo Balbo e poi a migliaia di nostri soldati, dalla rotta di El Alamein alla resa di Tunisi. Mura ha lo stesso soprannome della contessa russa Maria Nicolaevna Tarnovska, la protagonista di Circe, il romanzo — tratto da una storia vera — di Annie Vivanti, la musa di Carducci. Mura è in Africa per scrivere il suo prossimo libro. Rivedrà un suo antico amante: Alessandro Chiavolini. L’ha conosciuto al «Popolo d’Italia», il giornale del Duce. Insieme hanno scritto libri di favole per bambini.

Chiavolini non ha il suo stesso talento; ma è un uomo, quindi può fare carriera. Mussolini l’ha voluto al suo fianco nell’avventura politica, come segretario a Palazzo Venezia; e Mura, anziché trarre profitto da quell’insperato colpo di fortuna, l’ha lasciato, perché si sentiva trascurata. Nel 1934 Chiavolini è caduto in disgrazia, ed è stato liquidato con una gigantesca tenuta in Libia. Poi è tornato al potere, richiamato a Roma da Mussolini come ministro, ma la tenuta è rimasta, il legame con la Libia pure. E lì Mura andrà incontro a quell’antico amore, e a una fine precoce.

Sorgi a questo punto ovviamente riavvolge il nastro, riportandoci alle origini, sul lago di Varese, che si chiamava lago di Gavirate, e facendoci rivivere le vicende che hanno messo sottosopra l’Italia un secolo fa.

La scrittrice diverrà popolarissima per i romanzi e per la rubrica delle Lettere su «Novella», la rivista più seguita dalle donne, cui risponde con uno stile asciutto che Sorgi paragona a quello di Susanna Agnelli su «Oggi». Mura morirà giovane, a quarantotto anni, in circostanze misteriose, ma forse fin troppo chiare. A un tratto, in effetti, il libro diventa un giallo. E i gialli non si raccontano; si leggono.

"L'impresa di Fiume fu un evento mondiale. E Lenin copiò la Lega dei popoli oppressi". Nel suo dettagliatissimo libro sulla presa della città guidata da Gabriele d'Annunzio lo storico ne evidenzia la dimensione internazionale. "Un'azione che fece scuola". Alessandro Gnocchi il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

È appena uscito D'Annunzio diplomatico e l'impresa di Fiume (Rubbettino, pagg. 940, euro 45) dello storico Eugenio Di Rienzo. Un volume imponente, con ampio utilizzo di fonti trascurate o inedite, sulla dimensione internazionale dell'impresa dannunziana, iniziata con la Marcia su Ronchi nella notte tra l'11 e il 12 settembre 1919, proseguita con la occupazione di Fiume, città negata all'Italia dai trattati di pace, finita con il Natale di sangue del 1920, quando i legionari furono costretti ad abbandonare la città assediata dall'esercito regolare italiano. Il Trattato di Rapallo, appena firmato, aveva stabilito che Fiume sarebbe rimasta città libera. D'Annunzio non poteva restare senza causare all'Italia un problema diplomatico con gli Alleati.

Professor Di Rienzo, al di là della propaganda dannunziana, quali forze si mossero per favorire l'impresa?

«Prima di tutto l'esercito. L'occupazione è iniziata da reparti scelti assolutamente fedeli alla corona. Poi arrivano i volontari, gli idealisti e gli avventurieri. La marina in teoria avrebbe dovuto effettuare un blocco navale. Ma era un blocco assai permeabile. Tra i finanziatori, troviamo grandi nomi e grandi banche: Fiume era ancora considerata un porto di importanza strategica per il commercio».

Questo significa che la politica sottobanco vedeva di buon occhio l'Impresa?

«Si può certamente ipotizzare che Fiume sia stata anche una guerra per procura. Il governo era estraneo, però poteva trattare da una posizione di forza grazie all'Impresa. Di fatto si discuteva di un territorio già occupato da forze italiane».

D'Annunzio era politicamente meno isolato di quanto potesse sembrare?

«Esiste una lettera di Sforza in cui si prefigura a D'Annunzio un finale positivo della vicenda. Fiume resta città-Stato sotto la guida di D'Annunzio. Ma per giungere a questo traguardo, D'Annunzio deve iniziare a smobilitare i suoi legionari».

Non accettò. Perché?

«Pensò a un tranello. Una volta smobilitati i legionari, l'esercito regolare avrebbe potuto deporlo con un colpo di mano. E comunque il suo scopo era l'annessione di Fiume all'Italia».

Lo cacciarono a cannonate.

«Il Trattato di Rapallo era considerato un buon accordo. La libera città di Fiume restava come cuscinetto tra l'Italia e la Jugoslavia. In molti pensavano che alla fine sarebbe tornata in mano italiana. Cosa che accadde».

Che problemi c'erano con la Jugoslavia?

«Minacciava il confine orientale. Era espansionista. Durante la prima guerra mondiale esistevano progetti jugoslavi che fissavano il confine all'Isonzo. Il governo italiano era preoccupato».

Siamo arrivati alla dimensione internazionale dell'occupazione di Fiume.

«Innanzi tutto fece subito scuola. Episodi analoghi, ovvero città di frontiera contese, avvennero un po' dappertutto: Austria, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Carinzia, Stiria, Slesia. Il caso più clamoroso avvenne in Polonia: nell'ottobre del 1920 il maresciallo Josef Pidulski ordinò a una intera Divisione di... ammutinarsi e occupare Vilnius, evitando così il coinvolgimento diretto del governo di Varsavia. Questi scontri di frontiera dipendevano dal fatto che i confini, dopo la guerra, erano stati tracciati con riga e squadra, senza tener conto dei popoli. Vi fu una guerra dopo la guerra, per così dire. Fiume non fu l'unico focolaio».

Intanto in Italia?

«La crisi delle istituzioni procedeva a grandi passi. L'organismo statale si era già disgregato in settori che procedevano molto spesso in autonomia. Regio Esercito, Regia Marina e relativi servizi d'informazione. Ministero dell'Interno con i suoi bureaux preposti agli affari riservati. La divisione era anche in seno all'esecutivo e alla casa regnante. D'Annuzio si era infilato in un gioco complesso. Paradossalmente forse mise d'accordo tutti: chi lo sosteneva sul serio e chi intendeva sfruttarlo fino a quando fosse risultato utile».

Cos'era la Lega dei popoli oppressi?

«Fu una grande intuizione. D'Annunzio intendeva coalizzare tutti i popoli oppressi dal colonialismo delle grandi potenze o sovvertitrici dell'assetto mondiale disegnato a Versailles».

Chi ne faceva parte?

«Irlandesi, Turchi, Egiziani, Catalani, negri degli Stati Uniti, Indiani, Cinesi. Ma anche tutte le nazionalità balcaniche che ora gemono e languon sotto il bastone del brutale serbo. E poi la Russia bolscevica e altri ancora».

Quali sono gli aspetti più interessanti?

«Di sicuro lo sguardo rivolto a Oriente. La Lega fu svuotata di significato da Lenin, che non a caso passava per essere un ammiratore di D'Annunzio. Lenin organizzò, nel settembre 1920, a Baku, il Congresso dei popoli dell'Oriente. In buona parte, i delegati provenivano dagli Stati sui quali puntava anche D'Annunzio».

Spesso si insiste sul fascino esercitato a Fiume dalla rivoluzione bolscevica. Ha senso?

«Fino a un certo punto. D'Annunzio era chiaramente contrario al comunismo. I bolscevichi potevano essere alleati per un tratto di strada, quello rivoluzionario. Ma è vero che molti legionari, anche in ruoli strategici, erano attratti dal caos in Russia e vagheggiavano orde barbariche pronte a rovesciare l'ordine borghese anche in Italia. Bisogna tenere conto che la Rivoluzione sovietica era appena cominciata. Le informazioni non erano moltissime e non si sapeva come sarebbe andata a finire. Ci furono contatti che non sfociarono mai in una alleanza».

I comunisti italiani come si posero?

«Il più ricettivo fu Antonio Gramsci. C'è anche il fatto del mancato incontro tra Gramsci e D'Annunzio. Gramsci voleva stipulare un patto per fare la rivoluzione assieme e impedire l'ascesa del fascismo. Siamo nel 1921. L'incontro fu fermato da Palmiro Togliatti. Ma tutto questo perde d'importanza dopo la Marcia su Roma e il sostanziale ritiro di D'Annunzio nella prigione dorata del Vittoriale».

Le potenze vincitrici presero sul serio la minaccia dannunziana?

«Sì. I documenti del Foreign Office di Londra seguono passo dopo passo l'occupazione, ne analizzano la nascita e le connivenze. Ma soprattutto, dopo il progetto della Lega dei popoli oppressi, schedano il movimento fiumano come uno dei più pericolosi movimenti rivoluzionari attivi fuori e dentro i confini dell'Impero britannico. Fiume è citata in tutti i rapporti sulle situazioni rivoluzionarie e pericolose per l'Impero».

D'Annunzio era un abile politico?

«Più abile di quanto si dica. Basta vedere come seppe mediare fra destra e sinistra fiumana. In quanto alla Costituzione, la Carta del Carnaro, come tutte le grandi carte rimase lettera morta. A Fiume comandava D'Annunzio».

Che rapporto c'è tra l'Impresa e il fascismo?

«L'Impresa non può essere rubricata alla voce Fascismo. A Fiume c'era gente di ogni tipo, inclusi i fascisti o i futuri fascisti. Ma c'erano gli eredi dell'interventismo risorgimentale, del liberalismo nazionale, del sindacalismo rivoluzionario, dell'anarco-sindacalismo e dell'irredenitsmo democratico. La Carta del Carnaro piacque anche a molti futuri antifascisti, a partire da Alceste De Ambris, che la scrisse. Mussolini fu contrario all'Impresa per motivi più che comprensibili: temeva che D'Annunzio diventasse suo rivale e facesse la rivoluzione italiana prima di lui. Fece buon viso a cattivo gioco, ma al momento decisivo si tirò indietro liquidando in modo sprezzante De Ambris, che aveva fatto da ambasciatore».

Perché allora il Fascismo celebrò Fiume?

«Si appropriò della memoria dell'evento e ne saccheggiò i simboli, la liturgia, le parole d'ordine, i metodi della propaganda e in primo luogo del rito populista del discorso dal balcone. Ma anche di alcuni tratti della politica estera di D'Annunzio: espansionismo mediterraneo, rivolta dei popoli colonizzati dall'imperialismo britannico, guerra per procura contro Grecia e Jugoslavia, l'alleanza con i popoli vinti della Grande Guerra».

Le verità sulla liberazione del Duce a Campo Imperatore. Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Renzo de Felice ebbe a dire che, di tutto il periodo riguardante la detenzione di Mussolini da parte dei badogliani, l’episodio della sua liberazione sul Gran Sasso, il 12 settembre 1943, è quello più difficile da ricostruire. Sia la propaganda nazista che antifascista hanno confuso fatti, ruoli e documenti sull’Operazione “Eiche” (Quercia) sulla quale, oggi, l’omonimo libro dello studioso Massimo Lucioli fa finalmente chiarezza anche da un punto di vista aeronautico. L’autore, infatti, oltre ad avere già all’attivo saggi storici di successo, ("La ciociara e le altre"; "1945, Germania anno 0"; "Endakmpf"; "Monterotondo 9-9-1943"); è stato il capo-pilota della flotta antincendio dei Canadair: come tale possiede quella competenza necessaria per ricostruire le fasi tecniche dell’operazione. 

D. Comandante, da cosa è dipeso l’affastellarsi di varie e improbabili versioni dell’Operazione?

R. “Le pubblicazioni degli ultimi trent'anni sono impostate solo sulla «criminalizzazione» del capitano Otto Skorzeny. Dalle testimonianze dei reduci degli anni '50/'60 e '90, sono invece emersi dettagli che fanno capire come si svolse realmente l'operazione “Eiche”, a cominciare da chi la pianificò, il maggiore dei paracadutisti tedeschi Harald Mors, con il capitano pilota Gerhadt Langguth. Rilievi in loco mi hanno permesso di identificare in modo sicuro le posizioni degli alianti al suolo e del velivolo, un Fieseler Storch, che portò a Pratica di Mare Mussolini e Skorzeny atterrando praticamente senza carburante”.

D. Lei ha gettato una luce anche sul presunto tentato suicidio del Duce…

R. “Secondo le testimonianze di due guardie, quando Mussolini apprese che l’armistizio contemplava la sua consegna agli angloamericani, avrebbe tentato il suicidio tagliandosi le vene nella notte del 12. Nelle foto della liberazione, 11 ore dopo, si vede, invece, un suo normale uso delle mani e i polsi liberi da qualsiasi bendaggio. Una falsa notizia per screditarlo, così come quella della sua “immancabile” relazione amorosa con la cameriera dell'Hotel di Campo Imperatore”.

D. Come mai le guardie non reagirono e, anzi, si fecero fotografare insieme al Duce e ai Fallschirmjäger?

R. “Gli ordini di Badoglio erano chiarissimi: se i tedeschi avessero cercato di liberare Mussolini, questi doveva essere ucciso. Tuttavia, dopo l'8 settembre, con la fuga del Re, del governo e dei vertici dell'esercito, i guardiani compresero che erano stati lasciati in balia degli eventi, con rischi troppo alti per se stessi”.

D. Anche da parte tedesca, tuttavia, si sono compiute delle manipolazioni propagandistiche, per esempio sul ruolo di Skorzeny.

R. “La propaganda tedesca aveva bisogno di successi per risollevare il morale del popolo e delle forze armate, provato dai rovesci militari susseguitisi dalla fine del 1942.

Skorzeny, nell'azione, fu favorito da una serie di circostanze fortuite e non fece alcun accordo sottobanco con ufficiali della Luftwaffe, come è stato ventilato. La sua scorrettezza emerge dopo l'azione, approfittando della grancassa propagandistica operata dal ministero della propaganda del Reich, e prosegue nel dopoguerra, quando il nostro personaggio continuerà ad intestarsi puerilmente i meriti dell'intera operazione”.

D. “Eiche” segnò un nuovo tipo di impiego dei paracadutisti….

R. “Fu introdotta per i paracadutisti la tecnica dell'incursione fulminea dal cielo contro un singolo obbiettivo, anticipando di molto la dottrina d'impiego per le forze speciali di tutto il mondo.

Il successo fu dovuto al lavoro di squadra e all’eccellente professionalità dei piloti degli alianti DFS-230  che, nove su dieci, riuscirono ad atterrare in sicurezza vicino all'albergo, nonostante le condizioni meteo-orografiche: un'operazione difficilmente ripetibile persino oggi”.

D. Di quell’atterraggio si sono trovati anche dei cimeli…

R. “Pezzi di uno degli alianti danneggiati nell’atterraggio sono stati trovati nel 2009: la maniglia del tettuccio, pezzi di controventatura alare e dei comandi. Il piastrino metallico, probabilmente da zaino, appartenuto all'Oberleutnant Jörg von Berlepsch fu rinvenuto dai ricercatori Fabio Pacifici e Luigi di Stefano nel 2012 vicino al lago di Nemi, dove il Lehr Bataillon stazionò in accampamento”.

D. Nel libro si accenna anche alla storia di un abuso subito da Rachele Mussolini…

R. “L’ispettore di Polizia Saverio Polito, già cospiratore del 25 luglio e fiduciario di Badoglio, fu incaricato nell’agosto ‘43, di accompagnare Rachele a Rocca delle Caminate. Durante il  viaggio, il Polito ebbe atteggiamenti oltraggiosi verso la donna tanto che venne arrestato e condannato dal Tribunale di Bergamo il 20 marzo 1945 a 24 anni  per “atti di libidine violenta e congiunzione carnale commessa con abuso della qualità di pubblico ufficiale”. Nel dopoguerra, Polito tornò in libertà con l'aureola di fervente antifascista e divenne questore di Roma. Nel ‘56 chiese e ottenne dal Tribunale di Forlì l'annullamento del processo di Bergamo. L’ufficiale dei Carabinieri Antonio Pelaghi che avrebbe potuto testimoniare contro di lui era morto nel ‘43, e Rachele Mussolini, ormai anziana, aveva altro di cui occuparsi”.

Istruzioni per decolonizzare la poco eroica guerra di Libia. Pugnali, barelle, fotografie. Per ricordare massacri e deportazioni. Bologna dedica una mostra al breve e inglorioso conflitto contro i turchi. Che fu la prova generale dell’imperialismo contro l’”Africa italiana”. Dalla newsletter de L’Espresso sulla galassia culturale arabo-islamica. Angiola Codacci-Pisanelli su L’Espresso il 17 Novembre 2022.

Un paio di sandali da bambino e un falcetto da contadino usato come arma micidiale contro i militari italiani. Una barella macchiata di sangue e pugnali branditi dai seguaci del Mahdi contro le truppe inglesi. Le guerre di oltre un secolo fa tornano d’attualità nelle vetrine del Museo civico del Risorgimento a Bologna. La mostra, “Libia 1911-1912. Colonialismo e collezionismo” si propone di raccontare il rapporto tra guerra, ricordi personali, oggetti d’epoca e immagini della propaganda. E lo fa offrendo al visitatore dell’esposizione, che chiuderà il 10 dicembre, anche tavole rotonde, conferenze, pagine dedicate sul sito “Storia e memoria di Bologna”, e ogni sabato una visita guidata in compagnia del curatore, Luca Villa, storico specializzato nello studio del collezionismo di provenienza extraeuropea. Lo abbiamo intervistato per analizzare insieme le varie sfaccettature di un’esposizione che apre una nuova finestra su un dibattito mondiale di cui L’Espresso e la newsletter Arabopolis si sono già occupati, la decolonizzazione dell’immaginario e delle raccolte museali.

Com’è nata questa mostra?

«È nata intorno a un tentativo di valorizzare la collezione di Carlo Mazzetti, un bolognese interessante quanto misterioso che ha abitato in Egitto per circa cinquant’anni nell'Ottocento e ha donato le sue collezioni alla città natale. Cercando oggetti che potessero avere una certa attinenza con i materiali donati da Mazzetti mi sono imbattuto nella collezione della Croce Rossa. Sono materiali peculiari perché avrebbero dovuto rappresentare il nucleo più importante per la fondazione di un museo coloniale a Bologna, che poi non è mai stato aperto. Ma curiosamente questo museo avrebbe dovuto avere sede proprio nel palazzo che oggi ospita la mostra: casa Carducci, dove al piano terra c’è il Museo del Risorgimento».

Il focus della mostra è una guerra dimenticata, quella tra Italia e Turchia nel 1911 e 1912. Un anno e mezzo, durante i quali si incontra tutta una serie di atteggiamenti coloniali che torneranno poi in tutta l'avventura coloniale italiana e non solo in quella italiana. Ma raccontare questa guerra attraverso le collezioni della Croce Rossa significa darne un’immagine ben diversa da quella eroica diffusa dal governo dell’epoca…

«Questa è stata la prima idea che mi ha guidato nel curare la mostra, e il direttore del museo, Otello Sangiorgi, è stato subito d’accordo. I pannelli esplicativi lo spiegano chiaramente. L'idea, appunto, è quella di raccontare una guerra in cui i soldati erano stati inviati in Libia con la convinzione di essere i liberatori dei libici: la guerra sarebbe durata pochissimo, sarebbe stata facile e i libici sarebbero stati dalla parte degli italiani. Nelle lettere dei soldati raccolte da Salvatore Bono (“Morire per questi deserti. Lettere di soldati italiani dal fronte libico 1911-1912”, edizioni Abramo n.d.r.) si vede chiaramente che l’entusiasmo dei primi giorni sparisce man mano che ci si rende conto che i libici non solo non aiutano gli italiani ma anzi sono in prima linea nel combattere contro di loro. In una vetrina, una barella sporca del sangue di un soldato è esposta accanto agli shrapnel, ai proiettili degli obici».

E ci sono anche reperti archeologici. Nel catalogo delle edizioni Pàtron si spiega bene come l’archeologia sia stata un grimaldello del colonialismo italiano, anche perché si sottolineavano le radici romane per giustificare la conquista come un ritorno di un impero che aveva solo subito una eclissi. Da dove vengono quei reperti?

«È una vetrina che accosta reperti archeologici prelevati a Rodi e una bandiera sequestrata nel Mar Rosso per raccontare la complessità di quella guerra. Che vede l'Italia impegnata su più fronti, nel Mare Mediterraneo, nell’Egeo, nel Mar Rosso: si cercava di distrarre la Turchia dalla Libia attaccando su più fronti. Anche per questo gli storici la considerano una sorta di prova generale della prima guerra mondiale. In realtà è una guerra che toglie agli italiani la prospettiva di arrivare in Africa da conquistatori, perché si concluse con un trattato di pace che garantì solo la parte costiera della Libia, lasciando alla Turchia la giurisdizione completa sul resto del Paese e lasciando comunque loro la giurisdizione religiosa. Fu un compromesso che naturalmente fu venduto all'opinione pubblica italiana come un grande successo, anche perché nel frattempo c’era stata la sconfitta di Dogali: la penetrazione italiana in Eritrea era costellata di disastri, quindi ci si rivendeva il successo in Libia».

La guerra in Libia portò anche alla deportazione di cittadini nelle isole minori italiane, fino a Ponza: anche questo è un episodio dimenticato.

«In mostra ci sono due filmati importanti della Cineteca. In uno olandese si vede Tripoli come era prima della guerra. Un altro realizzato da una troupe italiana mostra manovre militari e si conclude con l’immagini di alcuni deportati. Nel catalogo c’è un saggio di Cristiana Fiamingo sulle deportazioni. Ed è curioso che alcune delle isole in cui vennero deportati i libici per stroncare la loro resistenza sono le stesse in cui oggi approdano migranti che arrivano proprio dalla Libia. Penso che sia uno spunto per riflettere su quelle che sono le lontane conseguenze del colonialismo».

In una bella graphic novel, “Antonio”, in cui Michèle Standjofski ricostruisce l’avventurosa vita del nonno italiano, si parla della guerra italo turca come quella in cui l’Italia ha stabilito un triste primato: è stato il primo Paese a fare bombardamenti aerei .

«Quello però è successo in Eritrea. In Libia abbiamo bombardato dal mare, con gli obici, che fecero danni grossissimi. In Libia c’erano squadroni di aerei ma si limitavano a rilevamenti dall’alto».

Dell’altra fonte della mostra, la collezione Mazzetti, mi ha colpito molto che abbia fatto delle donazioni. I collezionisti europei erano soliti vendere gli oggetti che avevano trovato in Africa. Negli stessi anni, a Bologna, Giuseppe Ferlini, il famigerato avventuriero che distrusse le piramidi di Meroe, in Sudan, per recuperare più rapidamente i tesori che potevano esserci nascosti, cercava con successo di rivendere tutto quello che aveva riportato ai musei di Bologna e di Berlino…

«Carlo Mazzetti è una figura che rimane un po’ avvolta nel mistero. L’Egitto non era una colonia italiana ma era abitata da moltissimi italiani, a un certo punto l’italiano divenne una sorta di lingua franca, il servizio postale fu messo in messo in piedi da un italiano, anch'egli bolognese, fra l'altro: quindi su quell’epoca ci sono molti articoli, molte fonti. Mazzetti però non compare quasi mai, viene nominato solo in una riga qua e là: come quando si dice che è stato lui ad accompagnare il grande egittologo Ernesto Schiaparelli per la prima volta alla necropoli di Bubasti. Mazzetti conosceva bene la necropoli, provengono da lì diversi oggetti che ha regalato alla città e anche alcuni teschi che, come usava all’epoca, spedì al professor Luigi Calori, che insegnava anatomia all'Università di Bologna. Quei crani sono ancora esposti lungo i corridoi dell'Università. Il motivo per cui si può immaginare, con una buona approssimazione, che Mazzetti fece queste donazioni è legato all'idea di aiutare la sua città d’origine ad elevarsi culturalmente. E c’era forse anche la volontà di farsi ricordare, visto che lui non è tornato a casa per cinquant'anni».

Quante donazioni fece?

«Mazzetti donò la prima raccolta nel 1864, qualche anno prima della fondazione del museo civico, che è del 1871. Nelle lettere che accompagnano le sue donazioni, che furono almeno quattro, si nota un fervore diciamo patriottico. Una lettera particolare è quella che in accompagna oggetti recuperati durante il conflitto anglo-mahdista, che vide le truppe inglese vincere a fatica contro l’esercito di egiziani riunito dal Mahdi. Mazzetti riporta un articolo di un giornale locale egiziano che lui traduce dall’inglese aggiungendo un commento personale su questi africani che sono riusciti a resistere e per lungo tempo a soverchiare gli inglesi che avevano armi moderne e un esercito ben organizzato. "E hanno resistito con le lance, con i pugnali, con le spade che vi sto mandando”, scrive, mostrando quindi grande ammirazione per gli egiziani. Mazzetti mandò anche dei reperti archeologici che venivano dalla Libia, da Leptis Magna, ma sono andati smarriti nei depositi del museo Civico: dalle descrizioni è impossibile capire a quali reperti fa riferimento».

Che pubblico avete visto finora alla mostra? Studenti, nostalgici, semplici curiosi?

«Finora nelle visite ho incontrato alcuni italiani di Libia, cioè persone che al massimo in Africa ci sono nate, ma che la conoscono dai racconti di famiglia e dai ricordi dei genitori. I visitatori più giovani sono studenti che hanno corsi su quel periodo storico, e poi persone di età media con interessi culturali più ampi. Comunque la risposta del pubblico è superiore alle attese. Del resto è una mostra che dà occasione di ripensare a temi di un dibattito importante in corso in tutto il mondo – come decolonizzare i musei, l’immaginario, il racconto storico. Ma anche di fare i conti con memorie personali e famigliari, magari anche ingombranti. Per esempio, alla fine di una visita si è presentato un signore che con aria molto decisa mi ha detto che voleva donare al museo una medaglia commemorativa di quella guerra, con tanto di diploma che ne certificava l’autenticità. Noi abbiamo risposto che eravamo felici del dono ma che andava fatto in un certo modo, registrato dalla biblioteca. Ma lui ha risposto bruscamente: “Non avete capito: se non la prendete voi io la butto”. E allora ovviamente l'abbiamo presa».

Storia d'assalto. I primi italiani di Russia: la Legione Redenta in Siberia. Da prigionieri austro-ungarici in Russia a combattenti italiani in Siberia: la storia dimenticata della Legione Redenta della Grande Guerra e del maggiore Cosma Manera. Andrea Muratore il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.

Un punto nell'immensa distesa della Cina, la concessione di Tientsin. Una guerra in via di conclusione, il primo conflitto mondiale. Un impero defunto, l'Austria-Ungheria. Una potenza vincitrice pronta a completare l'unità nazionale, l'Italia. L'erede di un altro impero, la Russia, prossimo a cadere in preda alla guerra civile. Un coraggioso maggiore dei Carabinieri Reali, Cosma Manera.

L'anno è il 1918 e il contesto è quello del conflitto civile tra russi bolscevichi e rivoluzionari liberali. In questo teatro andò in scena l'epopea dimenticata della Legione Redenta italiana, costituita dalla concessione italiana della città di Tientsin, occupata a inizio Novecento dopo la Rivolta dei Boxer e formata da ex prigionieri di guerra trentini, friulani e giuliani catturati in Russia e in Est Europa mentre combattevano per le armate imperial-regie.

In nome della concessione italiana in Cina, dal 1916 Manera era impegnato a far uscire dalle prigioni di guerra russe i militari catturati nelle file austro-ungariche desiderose di ripresentarsi nel conflitto come sudditi di Roma. L'opera della missione fu così attiva e concreta da consentire che il 24 settembre 1916 un primo contingente di prigionieri del campo di Kirsanoff (33 ufficiali e 1665 uomini di truppa) ebbe l'occasione di imbarcarsi ad Arcangelo diretto verso l'Inghilterra. Annotò sull'argomento il tenente colonnello austriaco, irredento italiano, Emesto De Varda, alla vigilia della partenza: "Siamo entrati in Russia come prigionieri austriaci ed ora abbandoniamo questa terra come cittadini italiani". La destinazione, dopo un lungo periplo, era la Cina. Gradualmente fu costruita un'unità di diecimila uomini che trovò il suo battesimo del fuoco nel pieno dell'intervento dell'Intesa nella Guerra civile russa.

Dopo un lungo periodo di addestramento in Cina, ricorda Storia Politica Informazione, il 1918 portò al fronte quella che oramai era la Legione Redenta di Manera, desideroso di mantenere in operatività gli uomini ancora abili alle armi tra quelli sottratti alla prigionia russa. Dopo aver contribuito a far uscire un manipolo di prigionieri via Siberia fino a Tientsin, ricorda The Vision, a metà 1917 "Manera comunica che gli irredenti sono stati trasformati in esercito: un battaglione multiculturale di austriaci, croati, trentini, veneti e serbi chiamato Legione Redenta di Siberia, ufficialmente al servizio dell’Italia, ma in realtà disposto a dare la vita solo per quell’ufficiale che ormai chiamano papà". Dopo il trattato di Brest-Litovsk (luglio 1918), Manera partecipò allo sbarco interalleato nella penisola di Kola, pianificato per impedire ai tedeschi di impadronirsi del materiale bellico abbandonato dopo la rivoluzione comunista, un blitz ad alta pericolosità in cui ebbe un ruolo anche un contingente di militari "redenti".

In seguito, in un caso emblematico di promuoveatur ut amoveatur, Manera passò il comando al colonnello Gustavo Fassini-Camossi, comandante del Corpo di spedizione in Estremo Oriente partito da Napoli a luglio e "tra il 13 ed il 21 ottobre, i soldati italiani e la Legione Redenta - i cosiddetti Battaglioni Neri - partirono per Harbin, capitale della Manciuria e snodo cruciale della Transiberiana".

Muovendosi tra Omsk, Krasnojarsk e Irkutsk e arrivando fino alla città manciuriana di Harbin, per un anno e mezzo i militari italiani avrebbero contribuito alla scoordinata ma complessa operazione di messa sotto pressione dei bolscevichi, avendo il campo base nella città di Vladivostok dove 1.400 uomini soggiornavano stabilmente a fianco di 70mila giapponesi e 5mila americani, con a fianco un migliaio tra britannici e francesi, per "mostrare bandiera" nell'unica operazione congiunta dell'Intesa al gran completo condotta alla fine della Grande Guerra.

La missione della Legione era, essenzialmente, mantenere attive le comunicazioni sulla Ferrovia Transiberiana al fine di permettere ai rifornimenti di affluire apertamente ai "bianchi" antibolscevichi. Dalmati, fiumani, cittadini di Spalato e di Ragusa combattevano fianco a fianco con contadini trentini dall'italiano stentato, ladini e abitanti delle montagne dell'Adamello e del Lago di Garda, riscoprendosi figli di uno stesso Paese di cui erano diventati servitori prima di poter godere dei pieni diritti dei cittadini. Una storia di coraggio a lungo dimenticata: l'epopea della Legione Redenta si trascinò fino all'inizio del 1920 tra combattimenti sporadici, incursioni bolsceviche e una lotta durissima contro il freddo della Siberia e si concluse con la ritirata dalle posizioni su Vladivostok e dintorni a seguito dell'insostenibilità dei costi dell'operazione e del fallimento generale della strategia anti-bolscevica. "

"Si può affermare con piena sicurezza che oggi sotto ogni punto di vista, la Legione redenti è la più bella unità militare del luogo" dichiarò dalla città dell'Estremo Oriente l'uomo chiamato da Tokyo, ove era addetto militare, per organizzare il rimpatrio dei "maledetti" d'Oriente chiamati a allungare la propria guerra per plasmarsi come italiani: ça va sans dire, il maggiore Cosma Manera. "Le autorità militari non hanno parole per elogiarne le qualità militari, mentre i cittadini sono entusiasti del contegno dei suoi uomini, educato e corretto". La missione più remota, oscura e strategicamente ininfluente della storia militare del Regio Esercito finì per essere una delle più alte avventure umane che lo riguardarono: la storia di una Legione Redenta di nuovi cittadini italiani che seppero prendere parte alla storia del Paese ottenendo per meriti di servizio di diventare cittadini di una nazione libera dopo esser stati sudditi di un impero morente.

Quegli italiani atipici che rifiutarono di mettersi l'etichetta. Giampiero Mughini ripercorre la prima metà del XX secolo. Che spiega la seconda e oltre...Stenio Solinas il 3 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il cuore del nuovo libro di Giampiero Mughini, "I rompicazzi del Novecento" (Marsilio, pagg. 266, euro 19) è nelle pagine che, attraverso i percorsi individuali di Giovanni Ansaldo, Giaime Pintor e Giuseppe Prezzolini, raccontano cosa sia stata la prima metà del nostro Novecento. Del primo diremo per il momento che fu il più brillante giornalista antifascista sino al delitto Matteotti, arrestato e spedito al confino poco dopo, ma un decennio più tardi direttore di Il Telegrafo di proprietà della famiglia Ciano, nonché uomo di fiducia di Galeazzo Ciano. Del secondo, che fu tra i più brillanti giovani intellettuali che uscivano dai Guf e dai Littoriali del Regime, e morto nel novembre del 1943 a soli ventiquattro anni, dilaniato da una mina mentre cercava di raggiungere le linee alleate nel Sud Italia. Quanto al terzo, fu il più straordinario agitatore culturale di quell'inizio secolo, fondatore e direttore di Leonardo e della Voce, scopritore di Mussolini e però, durante il fascismo, esule volontario prima in Francia e poi negli Stati Uniti.

Utilizzando queste tre biografie esemplari, incrociandole e mettendole a contatto e a confronto con figure coeve quanto presenti nei loro percorsi umani e intellettuali, Gobetti e Salvemini, per esempio, ma anche Amendola e Gramsci, Croce e Bottai, Mughini ricostruisce da par suo una parte della storia d'Italia nota agli storici e a chi si occupa di storia delle idee, ma sconosciuta ai più e messa in disparte e/o colpevolmente travisata oppure riscritta dalle élites ideologico-politiche che dal Secondo dopoguerra si sono succedute, con i risultati che oggi abbiamo sotto gli occhi, ovvero un Paese senza: senza memoria, senza coscienza nazionale e però con una gigantesca coda di paglia atta a coprire il buco nero del fascismo. Ci torneremo su, ma restiamo ancora per un po' sul libro.

Come scrive Mughini, riprendendo una citazione malapartiana, La Voce fu «la serra calda del fascismo e dell'antifascismo» e basta vedere i nomi dei suoi collaboratori per rendersene conto: alcuni li abbiamo già citati, ma bisogna aggiungere Augusto Monti e Jahier, Soffici e Papini, Arangio Ruiz e Lombardo Radice... Soprattutto, fu l'espressione di un sentimento contrario alla cosiddetta italietta giolittiana e liberale: è di Salvemini del resto la definizione di Giovanni Giolitti come «ministro della malavita», e l'interventismo che porta l'Italia nella Grande guerra travolgendo il neutralismo, appunto, giolittiano, è trasversale e ha nel nazionalista Amendola come nel fino ad allora socialista Mussolini due dei suoi punti di forza. Anche Prezzolini è interventista, nonché nazionalista, anche se il suo nazionalismo ha una forte impronta morale, di rieducazione civile e etica di un popolo. Ciò che però gli sfugge, ed è curioso per un cultore di Machiavelli e del realismo hegeliano quale egli era, è che spesso le nazioni si formano dal di fuori, non dal di dentro: l'Inghilterra elisabettiana che dà il via alla sua traiettoria imperiale non era meno ignorante, rozza e sbracata di quell'Italia arrivata un paio di secoli dopo all'indipendenza, e i suoi Drake, Raleigh, Morgan prima di diventare baronetti erano stati pirati...

La stessa cecità in fondo Prezzolini la mostra nel suo delineare una «società degli apoti» proprio all'indomani del fascismo al potere e di cui però prevede, con estrema lucidità, che sarebbe durato almeno vent'anni. L'apotismo gli varrà la sensata obiezione dell'amico-avversario Piero Gobetti, che lo paragonerà a una «compagnia dei suicidi», intellettualmente parlando. Non è un caso se entrambi si vedranno costretti ad andarsene dall'Italia. E però anche Gobetti era stato uno spregiatore del giolittismo e la sua «rivoluzione liberale» era più influenzata dai soviet della Rivoluzione d'ottobre e dalla classe operaia che dal sistema parlamentare.

Il fascismo, in realtà, è un'avventura, un qualcosa di nuovo e di radicalmente diverso rispetto al passato ottocentesco e risorgimentale, e avventurieri, nel bene come nel male, sono chi ne fa parte. Questa riflessione la fa Ansaldo che fra Prezzolini e Gobetti è stato con quest'ultimo nella sua battaglia antifascista, ma lo è stato cavalcando «una apologia del liberalismo di origine protestante e di modello inglese» che era «tutta roba appiccicata. Ero liberale, democratico e filosocialista, così come ero turco». Come nota Mughini, è raro trovare spiegata meglio «una radicale revisione ideale di tutto un periodo cruciale della propria storia politica, ma soprattutto intellettuale». Ma questa revisione è anche legata al fatto che nel decennio che segue il suo passaggio da «antifascista riluttante» a giornalista di fiducia del genero del Duce, Ansaldo ha fatto a tempo a frequentare i «pedagoghi» e gli «educatori» dell'antifascismo, nonché la loro pubblicistica di fuoriusciti, che sia di impronta comunista, azionista, socialista o squisitamente liberale e si è reso conto che non c'è alcun contatto con la realtà del Paese, con quello che succede, con il tipo di società che si sta costruendo. Hanno tutti la testa rivolta a un passato idealizzato o a un futuro inverificabile. «Si voglia o non si voglia, Mussolini è stato un grande avventuriero. La nostra superiorità di fascisti è quella di aver osservato questa avventura da vicino. La grande inferiorità degli antifascisti è quella di averne sentito soltanto parlare da lontano». Proprio perché l'ha osservata da vicino, Ansaldo sa benissimo che è esistito un consenso e un'adesione, una complicità, un calcolo e un tornaconto. Dire che la guerra l'ha combattuta e persa il fascismo, aggiunge, e che invece l'Italia e gli italiani l'hanno vinta è un falso storico, nonché una forma di gesuitismo con cui salvarsi l'anima, ma dannarsi quanto al carattere nazionale.

Giaime Pintor, infine. È per età un puro prodotto del fascismo. Ha uno zio generale, a 18 anni va con lui in Libia a conoscere Italo Balbo, nel gennaio del '43 fa parte di una missione militare italiana a Vichy, è stato l'anno prima al convegno degli scrittori a Weimar voluto da Goebbels, sarebbe voluto andare come ufficiale di collegamento dell'esercito tedesco sul fronte orientale, e intanto legge, scrive, traduce, ha le sue storie sentimentali. Non c'è nulla nella sua breve esistenza di quel manicheismo, di quel o bianco o nero così caro a una pubblicistica antifascista a posteriori, ovvero di quell'atteggiamento intellettuale che, come scrive con la sua consueta verve Mughini, si fa un vanto «dello spaccare con un'ascia la mela in due parti distinte e separate. Da un lato la fetta che costituisce il Bene, dall'altra quella che costituisce il Male».

Dal libro di Mughini emerge insomma che non sono le etichette ideologiche quelle che ci dovrebbero interessare, «ma le persone per come sono e fanno» e che il ventennio fascista è strettamente intrecciato con le scelte, i tormenti, gli eroismi e i tradimenti, le contraddizioni di un Paese che prima ci crede e si illude, poi fa finta di crederci, poi si oppone e cerca di tirarsene fuori oppure si intestardisce a restarvi dentro, per tanti motivi, nobili e ignobili. Se non se ne prende atto, il risultato è quella avvilente gazzarra di qualche settimana fa intorno alla maglietta con il motto della X Mas indossata da un comico nelle prove di uno show televisivo, e dove la vergogna non sta in chi l'ha indossata, ma nell'élite intellettuale e politica che, avendo per un cinquantennio e passa negato ogni legittimità a una guerra perché quella era la guerra del fascismo e non dell'Italia, ha scientemente nascosto e insieme negato che la X Mas fosse stata fino al 25 luglio in cui il fascismo cadde la punta di diamante della nostra Marina militare. Essendo eroi «fascisti» non erano eroi italiani. Tutto qui.

Ps Mesi fa, in tempi non sospetti dunque, è uscito in Italia, pubblicato da Rizzoli, L'italiano di Arturo Pérez-Reverte. Nella copertina dell'edizione spagnola c'è l'immagine di uno di quegli uomini rana della Seconda guerra mondiale, con un sottomarino sullo sfondo, i marò della X Mas, appunto, protagonisti di missioni belliche pericolose e spesso mortali che gli valsero la stima e l'ammirazione degli avversari. L'edizione italiana mette invece in copertina un giovane uomo seduto e ritratto di profilo e, al suo fianco, ma in primo piano e di spalle, una ragazza mora che guarda il mare sullo sfondo. Il sottotitolo di quella originale diceva Una historia de amor, mar y guerra. Da noi il sottotitolo è scomparso e di primo acchito, guardando l'immagine, uno pensa ai poveri ma belli dei film di Dino Risi in gita a Ostia. Ci siamo capiti e, come avrebbe detto un mio amico napoletano, «ca ne parlamme a fa'»...

Giampiero Mughini per Dagospia il 17 novembre 2022.

Caro Dago, c’è che in Italia - e dunque nelle nostre case, nelle nostre famiglie, nei nostri album dei ricordi - sono caterve i segni i simboli le tracce le evocazioni i manufatti d’arte i poster le foto che marcano il fatto che in Italia è esistito per vent’anni e oltre un regime politico dittatoriale che ha nome fascismo. E come potrebbe essere altrimenti? Altro che una maglietta indossata da un noto attore mentre sgambettava in una saletta da ballo. 

Finché non ho toccato i vent’anni e ho cominciato a comprare pagandoli ratealmente il ben di dio dei libri Einaudi, la traccia del fascismo con cui avevo più confidenza era la foto di un Benito Mussolini giovane che mio padre teneva alle spalle della sua scrivania da lavoro. Lui era stato fascista negli anni tra le due guerre e lo era stato ardentemente.

Quando con lui e mia madre vivevamo nella Firenze dell’agosto 1944 dove stavano per irrompere le forze alleate (quelle che davvero “liberarono” l’Italia, non certo le pur eroiche formazioni partigiane) mio padre si allontanò da casa per qualche giorno, perché non è detto che se lo avessero trovato avrebbero indossato i guanti bianchi. Durante la sua assenza venne a casa nostra un drappello partigiano che voleva piazzare una mitragliatrice da una delle finestre di casa. Alla fine rinunciarono. 

Quella foto di Mussolini la guardavo sempre quando andavo da mio padre, che era separato da mia madre. Fosse stata un vintage l’avrei contesa ai miei fratelli quando mio padre è morto. Era una foto che testimoniava che cosa aveva rappresentato quell’uomo per una generazione, quell’uomo che fa da simbolo delle tragedie della storia italiana del Novecento.

E siccome io a quel tempo vivevo con mia madre in casa dei nonni materni, anche il nonno Pietro teneva delle immagini dietro la sua scrivania. Erano dei calchi in gesso che raffiguravano il pantheon comunista, dato che mio nonno era comunista fin dal 1940 e io ho qui sul tavolo la sua tessera di iscritto al Pci. In bella fila erano i ritratti di Marx Engels Lenin Gramsci Stalin. Dopo il XX Congresso il nonno scalzò via il ritratto di Stalin, e ne rimase la macchia sul muro. Io quattordicenne ricordo, mentre pranzavamo, le aspre discussioni tra mia madre e mio nonno se i russi avessero fatto bene a scaraventare i loro carri armati sulla Budapest del 1956. Più tardi mia madre divenne a sua volta comunista tutta d’un pezzo, e quando ebbe tra le mani il mio “Compagni addio” del 1987 non ce la fece ad andare oltre le prime pagine perché quel libro troppo disturbava le sue convinzioni politiche.

Sì, tutte le case e tutte le famiglie italiane traboccano di segnali che alludono alla storia del fascismo e dunque dell’antifascismo. Vedo che Ignazio La Russa viene trattato poco amicalmente perché conserva un qualche busto di Benito Mussolini. Ebbene, e se il busto fosse quello meraviglioso scolpito dal grande Adolfo Wildt, voi che ne direste e come lo commentereste? Perché di questo si tratta, che il fascismo è stata così tanta parte della nostra storia che molti dei nostri grandi artisti ne hanno fatto l’apologia, a cominciare dai futuristi, il drappello forse il più geniale di tutte le avanguardie italiana del Novecento.

Non che il fascistissimo Mario Sironi fosse stato un futurista, ma uno dei più grandi pittori italiani del Novecento senza alcun dubbio. Ebbene io ho - e lo tengo come sacro da quanto è bello - un suo disegno preparatorio di quella Mostra romana del 1932 sul decennale della Rivoluzione fascista che passa per essere stata indimenticabile. Quel disegno di Sironi lo avevo visto da una gallerista romana mia amica, solo che un suo cliente l’aveva già comprato. Poi accadde che la moglie del cliente non la volesse in casa quell’opera talmente marchiata da un credo politico, e a quel punto io mi precipitai per acquistarla. Adesso troneggia all’ingresso del mio Muggenheim e vorrei ben vedere che qualcuno su Facebook mi pungesse al riguardo. 

Sì, perché le discussioni su quel che è stata l’Italia durante i vent’anni e passa del dominio fascista non sono argomenti da Facebook. Persino la storia e l’identità drammaticissima del corpo militare che ha nome X Mas non sono un argomento da Facebook.

Meglio ancora. Nessuno di quegli argomenti è degno di essere trattato come se la guerra civile tra italiani fosse ancora in corso. La guerra civile è la tragedia più grande di un Paese, quella in cui gli uni e gli altri se le danno di santa ragione. Quando trent’anni fa me ne facevo un dovere di incontrare e discutere lealmente con gli intellettuali appartenenti alla destra, a uno di loro che era stato un ufficiale repubblichino ma che io rispettavo, Enzo Erra, dissi pubblicamente che “avevano avuto torto marcio” nello schierarsi dalla parte dei tedeschi. Ciò che non ledeva in nulla, lo ripeto, il rispetto che portavo a Erra e agli altri come lui, il mio vecchio amico Giano Accame tanto per fare un nome. Un rispetto che mi potevo permettere, e che tutti avremmo potuto permetterci, perché la guerra civile era finita da quarant’anni. Potevamo ragionare confrontarci raccontare ciascuno la propria esperienza. Grazie a Dio, potevamo farlo. Ho l’orgoglio di essere stato uno dei primissimi in Italia a farlo.

Cos’era la X Mas e qual è il significato di Memento audere semper. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

Due le fasi della flottiglia. La prima in cui i mezzi italiani portarono a segno incursioni contro le basi britanniche del Mediterraneo. E la seconda in cui Borghese decise, dopo l’armistizio, di schierarsi contro gli Alleati e al fianco dei nazifascisti

La X flottiglia Mas è passata alla storia come unità combattente della Repubblica sociale italiana, responsabile di violente rappresaglie ed esaltata negli ambienti neofascisti: per questo la maglietta celebrativa indossata da Enrico Montesano ha suscitato diffusa riprovazione. Ma la vicenda di questa unità dei mezzi d’assalto della Marina italiana è per la verità più complessa, non si esaurisce nella scelta del comandante Junio Valerio Borghese di continuare la guerra, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, contro gli angloamericani e al fianco dei nazisti.

Innanzitutto il motto latino sul retro della maglietta di Montesano, Memento audere semper («Ricordati di osare sempre»), corrispondente alla sigla Mas, nasce in una fase storica precedente alla Rsi e allo stesso fascismo. Lo coniò il poeta Gabriele d’Annunzio nel 1918, durante la Prima guerra mondiale, in seguito alla cosiddetta «beffa di Buccari», l’incursione di Motoscafi armati siluranti (l’acronimo Mas significa anche questo) in una baia dove si trovavano all’ancora navi della flotta austro-ungarica. Poi bisogna considerare che la X Mas era in origine un’unità della Regia Marina e che non tutti i suoi appartenenti aderirono alla Rsi. La stessa denominazione di X fu assunta solo nel marzo 1941, in ricordo della Decima legione prediletta da Giulio Cesare: in precedenza era la I flottiglia Mas.

Insomma la storia della X Mas va divisa in due fasi. La prima vide i mezzi d’assalto italiani compiere audacissime incursioni nelle basi britanniche del Mediterraneo – Suda (Creta), Gibilterra, Malta, Alessandria – ottenendo in alcuni casi significativi successi. L’episodio più importante fu quello di Alessandria, quando gli incursori della X Mas, nel dicembre 1941 entrarono nel porto egiziano sui loro siluri a lenta corsa, i cosiddetti «maiali» e affondarono una petroliera e due corazzate nemiche. Nel maggio 1943 il comando della X Mas fu affidato a Borghese, nato nel 1906, che si era distinto per le azioni compiute dal suo sommergibile Sciré. E pochi mesi dopo si pose il problema di scegliere che fare dopo la conclusione dell’armistizio. Una parte degli incursori rimase fedele al re e andò a costituire un’unita chiamata Mariassalto, che combatté al fianco degli Alleati contro i tedeschi. Ad essa si unirono anche alcuni militari della X Mas che erano stati fatti prigionieri dai britannici dopo aver compiuto l’impresa di Alessandria.

A La Spezia invece, dove c’era la base principale della flottiglia, Borghese manifestò la sua intenzione di proseguire la guerra insieme ai tedeschi. E la X Mas, che mantenne la sua denominazione, venne impiegata come unità terrestre contro gli Alleati, per esempio sul fronte di Anzio e Nettuno, ma soprattutto nella repressione della guerriglia partigiana. Questo secondo impegno vide i fanti di marina al comando di Borghese commettere anche crimini di guerra, di cui è testimonianza la famosa e macabra immagine di un giovane impiccato con al collo un cartello con la scritta «Aveva tentato con le armi di colpire la Decima». Dopo la guerra Borghese fu processato, ma se la cavò con una condanna lieve e venne subito scarcerato. Fu anche per un breve periodo presidente onorario del Movimento sociale italiano. Nel 1968 creò una sua organizzazione di estrema destra, il Fronte nazionale, alla guida della quale tentò un colpo di Stato immediatamente abortito, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970. Si rifugiò poi nella Spagna franchista, dove morì in circostanze poco chiare il 26 agosto 1974.

X Mas: cos’è e che cosa significa ‘Memento audere semper’. Redazione Cultura su La Repubblica il 14 Novembre 2022.

Il simbolo e il motto della formazione militare che fu uno dei simboli della Repubblica Sociale è ancora oggi utilizzato durante le manifestazioni della destra e su magliette e gadget. Ecco perché

Nel marzo del 1941 fu denominato X flottiglia MAS il reparto dei mezzi d’assalto della Marina italiana. All'inizio era formata da poche centinaia di soldati impegnati in missioni di alto rischio. Il motto dannunziano memento audere semper fu utilizzato appunto per creare la sigla MAS, ed è tuttora utilizzato dalle formazioni politiche di estrema destra nelle bandiere e nei gadget, come la maglietta utilizzata da Enrico Montesano a Ballando con le stelle. Nel maggio 1943 il comando della Decima MAS fu assunto da Junio Valerio Borghese (1906-1974).

Dopo l’8 settembre, con la proclamazione da parte del generale Badoglio dell'armistizio con con gli Alleati, Borghese ne fece una formazione militare autonoma che continuasse a combattere al fianco del Terzo Reich, stipulando un patto esclusivo con la Wehrmacht, prima della nascita della RSI. In questa fase, fu impegnata soprattutto nella lotta contro i partigiani.

A La Spezia, sede del comando della Decima, affluirono migliaia di giovani volontari e si costituì il Reggimento San Marco, formato dai battaglioni NP (Nuotatori Paracadutisti), Maestrale (poi Barbarigo) e Lupo. Dopo aver combattuto a Nettuno e Anzio per arginare lo sbarco alleato, la Decima Mas, divenuta Divisione di fanteria di marina, operò con i tedeschi contro le formazioni partigiane del Piemonte, partecipando a rastrellamenti e rappresaglie sanguinose contro i partigiani. La Decima fu anche presente sul fronte dell'Istria e del Carso contro i partigiani di Tito. Nell'inverno del 1944 i battaglioni Lupo e NP furono schierati lungo gli argini del Senio in Romagna.

Marcello Veneziani per “La Verità” il 15 novembre 2022.

Ieri, la mia pagina Facebook è stata oscurata perché ho commentato criticamente il linciaggio e la defenestrazione di Enrico Montesano dalla Rai per la sua maglietta e le sue scritte «fasciste». 

Ripeterò qui cosa ho scritto, perché non ho nulla di cui pentirmi. Non sarebbe mai accaduto in altra epoca della mia vita; poi dite che non stiamo perdendo la libertà. Ma quando si fermerà questa caccia al fascista - verosimile, presunto, immaginario - con relativa espulsione da ogni consesso umano e pubblico disprezzo per crimini virtuali contro l'umanità? Quando finirà questa gara di influencer e politicanti, maneggioni e delatori, a chi per primo denuncia alla pubblica autorità chi si è sporcato di nero? 

Se il branco di ignoranti, arroganti, intolleranti che ha censurato Enrico Montesano per la sua maglietta oscena sapesse che il motto «Memento audere semper», ricordati di osare sempre, stampato sul retro della sua maglietta, non è fascista ma fu coniato da Gabriele D'Annunzio nella Prima guerra mondiale e ricorda la beffa di Buccari del 1918 contro l'impero austrungarico, con protagonisti lo stesso D'Annunzio e la medaglia d'oro Luigi Rizzo...

Invece, dopo averlo selvaggiamente attaccato, cacciano Montesano dalla Rai spiegando: «Inammissibile che un concorrente indossi una maglietta con un motto che rievoca una delle pagine più buie della nostra storia». 

Ma quel motto evoca D'Annunzio, gli eroi e le loro imprese, e la Prima guerra mondiale... Poi la Decima Mas ne continuò la tradizione militare nella Seconda guerra mondiale, si distinse per azioni eroiche. Vi dicono nulla soldati esemplari ammirati per le loro imprese e il loro stile cavalleresco anche dai nemici, come Luigi Durand de la Penne e Teseo Tesei, due medaglie d'oro e molti altri? 

No, non vi dicono nulla, purtroppo. Non sapete nulla, non volete sapere nulla ma ciò non vi impedisce di giudicare tutto e tutti, anzi ne è la premessa indispensabile Dopo l'8 settembre, quando l'Italia si spaccò in due, la Decima Mas prestò servizio a nord nella Repubblica sociale con il principe Junio Valerio Borghese, il Comandante, e a sud nel regno d'Italia, a fianco dell'esercito sabaudo di Badoglio. Ma restarono in ambo i fronti dei soldati leali, al servizio della patria.

Non si può continuare all'infinito questo giochino infame, questa acchiapparella con finale espulsione, gogna e vituperio per tutti coloro che cadono nelle grinfie del politically correct, scivolano su una parola, un indumento, un mezzo gesto. Pensate, per cambiare genere ma non intolleranza, alla brutta fine di Memo Remigi. Più di mezzo secolo di musica e di notorietà legata esclusivamente alle canzoni, bruciato a 84 anni per una pur deprecabile mezza pacca ai glutei di una donna.

 D'ora in poi Remigi non sarà più il cantautore che conoscevano tramite il suo repertorio romantico, ma resterà «quello della pacca», magari con l'epiteto aggiuntivo di vecchio porco sessista. Così Montesano, più di cinquant' anni di brillante carriera di comico, d'attore e di teatro, buttata via dall'infamia indescrivibile di una maglietta. Sarebbe bastato criticarla, considerarla kitsch, magari, fuori luogo ma senza invocare i soliti Demoni nazisti e il solito Angelo Sterminatore Ma lui, peraltro, è recidivo, fu già linciato come no vax e no green pass.

Come sono lontani i tempi in cui Montesano era europarlamentare e consigliere comunale del Partito democratico della Sinistra e veniva ammirato e chiamato dappertutto, portato in un palmo di mano dai giornali de sinistra che si gloriavano di lui e che oggi lo insultano e lo disprezzano Ma non è di casi personali che vorrei parlare. È del caso Italia, questa decrepita in ostaggio del fascismo e dei suoi aguzzini. 

Non può fare un passo, neanche un passo di danza, che scatta la censura al risorgente partito fascista. A proposito, vorrei far notare che perfino la legge Scelba e la norma transitoria della Costituzione (sono passati quasi settant' anni), condannavano la ricostruzione del disciolto partito fascista, ovvero punivano i tentativi politici di rifare il fascismo. Non si preoccupavano minimamente delle chincaglierie nostalgiche, della paccottiglia di regime e neanche delle opinioni storiche divergenti sul passato ventennio. Ma il clima si fa irrespirabile man mano che si allontana la storia.

Un paradosso contronatura. Per dirvene un'altra che mi riguarda personalmente, il 28 ottobre scorso ho rinunciato a partecipare a un convegno di studi sulla marcia su Roma nei pressi di Predappio, per evitare di trovarmi qualche camicia nera in sala e così confondermi col folclore fascista in voga nella giornata. Contemporaneamente, un convegno di un istituto antifascista che mi aveva invitato come correlatore, è riuscito, spostando in extremis il convegno, a mettermi in condizione di rinunciare all'evento, e prima ancora che comunicassi la mia rinunzia avevano data per certa la mia défaillance. Capite? Non si può parlare di fascismo né in un contesto antifascista né in un contesto non antifascista, per motivi diversi ma alla fine convergenti.

Per quel che mi riguarda, il fascismo non rientra più nei miei interessi di studio ormai da diversi anni. Ma penso con fastidio che oggi col fascismo ridotto a puro fenomeno criminale, non potrebbero più scrivere di fascismo né storici seri come Renzo De Felice né filosofi non certo fascisti come Augusto Del Noce, e nemmeno giornalisti e divulgatori come Indro Montanelli e Giorgio Bocca, Arrigo Petacco, Giampaolo Pansa e Oreste Del Buono. Tanto per citare firme di varia estrazione. Bisogna solo allinearsi, indignarsi e inveire. Quando riusciremo a dire semplicemente e perentoriamente basta a questo carnevale fascista-antifascista permanente e alle polizie repressive, a colpi di cancellazioni, algoritmi, espulsioni e sentenze?

Se l'Anpi ha paura di parlare del sangue versato ad El Alamein. Matteo Carnieletto il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Gli eredi dei partigiani se la prendono con un convegno sulla battaglia di El Alamein. Ma dimenticano la lezione di Ciampi e Napolitano

Lo confesso: solo oggi ho scoperto che la prossima domenica alle 16.30, presso l'ex convento Annunciata in via Pontida 22 ad Abbiategrasso, modererò un incontro "nero". Un po' fascista, insomma. Pensavo di dover parlare solo della battaglia di El Alamein dove i soldati italiani - bersaglieri, carristi e paracadutisti - si segnalarono per il loro valore.

Del resto, le stesse parole pronunciate dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 25 ottobre del 2008, mi avevano tranquillizzato: "Furono combattimenti - qui attorno ad El Alamein - tra i più duri e tormentati della Seconda guerra mondiale, in un continuo alternarsi delle sorti tra gli opposti schieramenti. E il nostro rispetto, la nostra riconoscenza sono tanto più grandi quanto più ricordiamo, sforzandoci di ripercorrerle, le condizioni in cui i combattenti furono chiamati a operare, le sofferenze e i sacrifici che essi doverono affrontare, fino al rischio estremo e quotidiano della vita. Rendiamo dunque omaggio alle alte virtù morali e alle straordinarie doti di coraggio di cui decine e decine di migliaia di uomini diedero qui incontestabile prova. Tutti furono guidati dal sentimento nazionale e dall'amor di patria, per diverse e non comparabili che fossero le ragioni invocate dai governi che si contrapponevano su tutti i fronti del Secondo conflitto mondiale".

Che, tradotto, significa: poco importa che il Duce, Benito Mussolini, avesse mandato quei ragazzi a farsi massacrare dal piombo degli inglesi, dalle mosche e dall'artiglieria in quella tormentata fetta di terra africana. Quello che conta è come quei soldati si comportarono: con onore. Poco più avanti, dopo aver giustamente bacchettato fascismo e nazismo, Napolitano ricorda Paolo Caccia Dominioni che, al termine del conflitto si mise a cercare le salme dei caduti sia dell'una sia dell'altra parte. Prima però combattè come partigiano contro i tedeschi. Ma non solo. L'alpino disegnò le raffigurazioni per un libro - I ragazzi della Folgore - scritto dal colonnello Alberto Bechi Luserna, straordinaria figuria di ufficiale ammazzato, il 10 settembre 1943, da alcuni paracadutisti che volevano combattere al fianco dei nazisti. Due esempi, ma se ne potrebbero fare molti altri, che dimostrano che chi combattè ad El Alamein aveva idee e valori diversi rispetto a chi aveva voluto quella guerra.

Anche il presidente Carlo Azeglio Ciampi, nel 2002, usò parole chiare e commoventi per ricordare questa battaglia: "Qui a El Alamein, ogni duna, ogni metro di deserto furono aspramente contesi. Vicino a noi, un'altura che a malapena si nota, quota 33, divenne una montagna conquistata, difesa, vinta e persa. Vi combatteste con eroismo, con l'onore delle armi. Tra i memoriali, al km. 111, una lapide italiana ricorda 'mancò la fortuna, non il valore'. A nessuno mancò il valore. In migliaia caddero in quelle tre battaglie. Tanti compagni d'armi, tanti amici della mia gioventù non sono tornati. Oggi siamo qui, fraternamente uniti, a rendere onore a tutti i caduti di El Alamein: con commozione, con animo riconoscente".

Ma questo non basta. L'Anpi di Abbiategrasso oggi scrive: "Appreso della manifestazione per l’80° anniversario della battaglia di El Alamein organizzata c/o un oratorio di Abbiategrasso e con il patrocinio dell’Amministrazione comunale, trova fuori luogo la celebrazione di un evento ed una battaglia che hanno portato reparti dell’esercito italiano di allora a combattere in una guerra atta ad uccidere e farsi uccidere per difendere i regimi fascisti e nazisti che intanto, in Europa, stavano procedendo al genocidio del popolo ebraico". E ancora: "Una manifestazione ospitata da un oratorio, che dovrebbe essere luogo di condivisione di valori etici e non di esaltazione di una battaglia dove da alleati e assoggettati ad Hitler, i soldati italiani sono stati massacrati". E infine: "Pur condividendo la necessità della memoria di tanti italiani morti ingiustamente, con l’ombra della guerra e della minaccia atomica che si stendono sull’Europa non è il momento di retoriche sull’eroismo, ma della ricerca di urgenti strade di pace". Sui social c'è chi si spinge anche oltre, dicendo che "Abbiategrasso si colora di nero" e tirando in ballo il nuovo governo: "Inutile dire che la peggiore delle ripercussioni delle elezioni è e sarà la più preoccupante, il sentirsi liberi tutti di certi miserabili, amministratori locali tronfi del bagnetto elettorale, che già sapevamo quale fosse il loro rispetto del patrimonio democratico quando nei consigli comunali alzavano i bracci (sic) tesi alla votazione, senza mai ricevendicarlo, ma gli veniva 'duro' a sentirsi ancora balilla".

Il 20 ottobre scorso, Corrado Augias, certamente non sospettabile di amicizie fasciste, ha scritto un articolo su Repubblica in cui riconosceva le virtù di chi combattè in quella battaglia e gli errori/orrori del fascismo.

Polemiche strumentali a parte, rimandiamo l'Anpi a settembre e consigliamo un bel ripasso di storia. A cominciare dal discorso di Napolitano, che si conclude con queste parole: "Onore a tutti i combattenti e i caduti di El Alamein! Viva la fratellanza nella pace tra i popoli europei e con il popolo egiziano!".

I paracadutisti italiani su El Alamein. Il lancio spettacolare a 80 anni dalla battaglia. Nell'anniversario della battaglia, i paracadutisti italiani si lanciano su Quota 105. Fausto Biloslavo il 24 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

"Venti minuti al lancio" e i paracadutisti italiani si preparano a mantenere una promessa fatta ai Leoni della Folgore. Ottanta anni dopo la battaglia di El Alamein, il C 130 H egiziano lancia su quota 105, nel deserto intriso dal sangue della resistenza sotto il bombardamento di 800 cannoni inglesi, i 42 parà giunti dall’Italia.

Un sogno realizzato da Walter Amatobene, fondatore del giornale elettronico congedatifolgore.com, che è diventato realtà lo scorso giovedì, alla vigila dell’anniversario di El Alamein, epopea della Folgore. Nelle stesse ore alla festa della brigata a Pisa, il basco amaranto Giancarlo Petronio, del centro di addestramento paracadutismo, ricordava con il suo stand un’altra lotta, impari e personale con una malattia crudele.

Perché unire il lancio nel deserto, che rende onore a tutti i Leoni della Folgore alla battaglia per la vita di un singolo militare? La risposta è semplice: coraggio, lealtà, sacrificio, cameratismo sono i valori comuni della grande storia di El Alamein e della piccola storia di Giancarlo Petronio.

“Nel mondo esistono persone che combattono contro un nemico invisibile, talvolta mortale - ha scritto il parà colpito dal male - Combattono per la propria pelle (e per i propri cari). E battaglia dopo battaglia si fanno strada lungo la linea nemica affrontando un avversario sconosciuto”. 

Il 23 ottobre 1942, nella grande battaglia della Storia, i Leoni della Folgore hanno combattuto contro forze impari con la stessa forza e determinazione per la loro pelle, per tornare a casa, ma soprattutto per l’Italia. I paracadutisti giunti dall’Italia si sono lanciati proprio su quota 105 e sulle alture dell’Himeimat, dove nel 1942 l’assalto di 160 mezzi corazzati della 7° divisione britannica fu respinto rendendo leggendario questo angolo di deserto.

“Due paracadutisti sono atterrati sulla cima di una delle colline, il cui ricordo figura in tutti i diari dei Leoni ed i libri di storia sulla battaglia”, spiega Amatobene. Il lancio è stato organizzato in collaborazione con la Federazione di paracadutismo egiziana controllata dai militari, che hanno messo a disposizione una base, l’aereo e il materiale.

Due istruttori egiziani hanno chiesto “l’onore (testuali parole) di portare in volo anche la bandiera italiana”, racconta Amatobene. Sul campo sono state consegnate le “ali” egiziani del brevetto senza stella per i lanci vincolati ai paracadustisti italiani. Il progetto El Alamein è stato ispirato da Emilio Camozzi, paracadutista telegrafista del Raggruppamento Ruspoli, uno degli ultimi Leoni andato avanti.

Il ricordo del sacrificio non può che scorrere parallelo, dopo 80 anni, al dovere di solidarietà dei paracadutisti. Giancarlo Petronio, miltare del Centro di addestramento di Pisa, è stato colpito dalla malattia nel marzo del 2020, in piena pandemia. Dopo i primi sintomi di stanchezza e perdita di equilibro viene sottoposto ad una Tac d’urgenza, che evidenzia numerosi lesioni cerebrali.

La biopsia realizzata con un trapano che gli fora il cranio non lascia scampo: tumore al cervello. Per i medici di Pisa è “inestinguibile”. “Ero depresso, smarrito e arrabbiato allo stesso tempo”, racconta Petronio che ha due figli di 7 e 10 anni. I bombardamenti di chemio e radioterapia sono una via crucis e in Italia non esistono farmaci efficaci.

Dopo mesi di ricerche e consulti medici si sottopone in Spagna a immunoterapie, che costano un’occhio della testa. Una prima raccolta fondi gli permette di coprire le spese, ma adesso c’è bisogno di un ulteriore gesto di solidarietà. I risultati sono più che confortanti e Petronio sottolinea che “non posso e non devo arrendermi alla malattia, ma combatterla con tutte le armi a disposizione. E per farlo ho bisogno dell'aiuto di tutti voi”. Forza, coraggio, cameratismo come ad El Alamein.

Storia d'assalto. L'affondamento del Galilea, penne di Alpini perse nel mare. Nel 1942 un piroscafo italiano adattato a nave ospedale venne silurato da un sottomarino britannico. A bordo si trovavano migliaia di alpini, uomini che non avevano mai visto il mare, e vi trovarono la morte. Davide Bartoccini il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Silenzioso e letale, il pirata di Albione taglia le profondità del Mediterraneo come un predatore vorace. Il Proteus, la divinità dalle mille forme cantata da Omero, il 29 marzo del 1942 ne possiede e mantiene una sola: quella di metallo bagnato che forma lo scafo di un sommergibile inglese classe Parthian in caccia all’imbocco dell’Adriatico. Sono bravi i corsari inglesi; la guerra è incominciata da due anni, e loro, che hanno imparato a farla alla maniera poco cavalleresca dei lupi tedeschi, hanno già ottenuto un lauto bottino di morte e vittoria.

Là da Poseidonia, dalle isole già tiepide nelle Cicladi, un piroscafo non più bianco e splendente di viaggi spensierati è salpato nella grigia livrea imposta dalla guerra, per riportare a casa piume di montagna. Sono gli alpini della Battaglione Gemona della gloriosa Julia; partiti per "spezzare" le reni alla Grecia a dorso di mulo – “Muso duro e bareta fracà” come solo loro avrebbero saputo fare; ora imbarcati nella loro Odissea per fare ritorno a casa. Il Galilea, nave passeggeri della Adriatica Società di Navigazione varata come Pilsa, adesso nave ospedale che porta soldati, vanta 8,040 tonnellate, due eliche che la spingono a una velocità di tredici nodi e mezzo via Lutraki, fino a Corinto, verso Bari. Con la Crispi e la Viminale, i piroscafi Piemonte, Ardenza e Italia; il cacciatorpediniere Sebenico con la torpediniere San Martino, Castelfidardo, Mosto e Bassini per scorta. Tutti diretti in Italia in convoglio. E di lì, il suo carico d’anime sarà destinato a partire per la Russia. 

Il convoglio è in rotta, protetto dai caccia e dagli aerosiluranti della Regia Aeronautica di giorno, abbandonato a se stesso, alla fortuna e all’incoscienza di notte. La guerra sottomarina nell’Atlantico ha già reso noto il rischio che corrono i mercantili e le navi da trasporto che spostano intere divisioni o rifornimenti oltremare, lì, dove i siluri colpiscono senza lasciare scampo. Gli inglesi lo sanno bene: lo hanno scoperto a loro spese; lo sanno i tedeschi, che quella guerra l’hanno inventata, e lo sappiano anche noi italiani, con i nostri Adua come lo Scirè. È un errore compiere grandi spostamenti di truppe in mare infestato di sottomarini come il Mediterraneo, con Malta ancora in mano a Sua Maestà, e Gibilterra pronta ad aprire le colonne d’Ercole a quei sottomarini pieni di corsari che non vedono l’ora di sventolare il "Jolly Roger" e festeggiare una nuova vittoria. 

A bordo del Galilea, ammassati tra i saloni della prima e della seconda classe, sparsi sui i vari ponti, gli alpini fumano sigarette e giocano a carte, si raccontano cosa faranno appena tornati in Italia, chi li aspetta; pensano a chi non è tornato, a chi ha trovato la morte in Jugoslavia e a chi è rimasto in Grecia, nell’Epiro; disperso o ucciso sulle montagne dagli sbandati di quell’esercito così inferiore eppure così duro da spezzare nei reni. S’intonano cori, i cori di sempre.. "Il testamento del Capitano", "Sul cappello", e così via. Si beve grappa, si scruta l’orizzonte che s’avvicina lentamente di giorno e non si scorge più di notte. Si soffre il mare. Che la notte tra il 28 e il 29 marzo è mosso, e gente di montagna chi l’aveva mai visto così.

Sotto quel mare in burrasca del Canale d’Otranto che apre le porte all’Adriatico, un singolo predatore è teso in agguato. Sono le 23.45. Segnali dalla superficie, eliche di un convoglio in avvicinamento. Il tenente di vascello Phillip Steward Francis, al comando dell’HMS Proteus poggia l’occhio al periscopio: navi nemiche a proravia. Avvicinamento silenzioso, quota siluri. Allagare i tubi, e fuori.. Il siluro corre sulla nave che al è capitata al centro della croce di collimazione.. corre sott’acqua. Sopra le onde, invece, ancora si canta. Colpisce il lato sinistro dello scafo. Provoca uno squarcio di 6 metri sotto il ponte di comando. La nave imbarca immediatamente tonnellate d’acqua, s’inclina di 15 gradi e il mare in tempesta fa il resto. Sulla nave ospedale Galilea non ci sono abbastanza lance di salvataggio e giubbotti salvagente; chi può si lancia in mare e affoga nell’oscurità. Le piume scompaiono nella burrasca. Muoiono in oltre seicento. Ventuno sono ufficiali, diciotto sottufficiali, 612 alpini di truppa, tutti sotto il comando del capitano D’Alessandro.

Dei 1.275 uomini imbarcati sulla Galilea, solo 284 riescono a mettersi in salvo. Molti affondano ancora vivi con la nave. Il resto del convoglio di disperde, la la torpediniera Mosto interviene e lancia delle bombe di profondità. Ma i corsari la fanno franca, di li a pochi giorni faranno rotta verso il Bosforo con una tacca in più da esibire: è una guerra orrenda e vile, la guerra sottomarina. Alle 3:50 del mattino del 29 marzo, sulle coordinate 04.93 N 20.05 il Galilea scompare per sempre inabissandosi per sempre. La notizia del disastro, telegrafata solo il giorno dopo a seguito si disperate ricerche di superstiti e altri tafferugli con il naviglio nemico, raggiunge le alte montagne e spezza il cuore al Friuli: la Gemona non esiste più. Ciò le vale la medaglia al Valor Militare d’appuntare sull’insegna di reggimento che altri porteranno. Continuando ad onorare il motto Mai daur gemona!

«In piedi scrivo male, non so se ci rivedremo». La lettera di Virginia dopo la retata al Ghetto di Roma. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 15 Ottobre 2022.

I coniugi Passigli vennero arrestati il 16 ottobre 1943. Lo scritto, straziante, reso pubblico per la prima volta dal Cdec, Fondazione Centro di documentazione ebraica. 

Carissimi, sono realmente calma per quanto veda la situazione di tutti più tragica di quello che credono gli altri. Noi abbiamo poco da perdere... Scrivo male perché sono ritta. Ci rivedremo? Iddio solo lo sa». È il 17 ottobre 1943. Virginia Passigli nata Coen, 64 anni, ebrea fiorentina, è stata arrestata dai nazisti occupanti di Roma insieme con il marito Guido Passigli, 68 anni. Per i tempi sono due anziani già avanti con l’età. Li hanno presi durante il rastrellamento del 16 ottobre non nell’Antico Ghetto, teatro centrale della deportazione, ma in via Mecenate 79, casa del figlio Mario, sposato con Cesarina Chiara, cattolica. I due appartengono alla buona e agiata borghesia fiorentina. Sono colti. Capiscono subito e affidano a un paio di fogli strappati da chissà quale agenda le loro ultime e consapevoli volontà. Uno scritto straziante che il Cdec, Fondazione Centro di documentazione ebraica, ha reso pubblico per la prima volta con le immagini (visibili da oggi sul sito Cdec). Nessuno saprà mai chi ha raccolto e spedito la busta, unica testimonianza scritta uscita dal centro temporaneo di detenzione. Commenta Liliana Picciotto, storica della Fondazione: «Un reperto atroce. Virginia deve scrivere “ritta”, cioè in piedi, perché non può nemmeno sedersi. Un contesto tragico, inumano, già al di fuori dell’ordine naturale delle cose».

I coniugi Passigli sono a Roma appena da due giorni, reduci dalla tragedia della morte dell’altro figlio Raffaello, Lellino, scomparso il 5 settembre. Finiscono, come tutti gli ebrei rastrellati, nel Collegio militare di Palazzo Salviati in via della Lungara. In base alle disposizioni naziste, vengono liberati sia il figlio Mario che la nuora Cesarina Chiara con le figlie Giovanna e Claudia. Come spiega Liliana Picciotto, lo raccontò proprio al Cdec Arminio Wachsberger, ebreo fiumano bilingue poi sopravvissuto ad Auschwitz, che tradusse in quelle tragiche ore dal tedesco in italiano le disposizioni impartite dal capitano nazista Theodor Dannecker: gli ebrei coniugati a non ebrei andavano rilasciati così come gli ebrei figli di matrimonio misto. Altri rilasciati furono i non ebrei catturati per errore.

Dunque i Passigli riescono a scrivere e a indirizzare i fogli proprio a Cesarina Chiara. Sulla busta c’è scritto che «Guido è come sempre l’anima della comitiva, siamo già affiatati con persone simpatiche». Questo per sviare censure e controlli. In realtà nel biglietto Guido chiede lucidamente di far avere il proprio testamento all’avvocato Funaro. Pensa anche alla nuora Albana Mondolfi, vedova di Lellino: «Se si risposerà, come è facile, cosa più che giusta, che si attenga a quanto desiderava Lellino in merito alla casa e che cerchi di unirsi a una persona che dia garanzia di voler bene e interessarsi del bimbo, di dare a lei felicità e di non innamorarsi dei suoi soldi».

I due partiranno dalla stazione Tiburtina alle 19 del 18 ottobre col treno della morte, arriveranno ad Auschwitz e lì moriranno. I fogli, racconta Liliana Picciotto, furono custoditi dagli eredi e viaggiarono tra Roma, New York, Israele, poi di nuovo Roma e infine Milano al Cdec. Li affidò Guidobaldo Passigli, figlio di Lellino, scomparso nel marzo 2022 a 83 anni, ex presidente della Comunità ebraica fiorentina, co-fondatore della casa editrice Giuntina per la quale scrisse nel 2021 un libro di memorie familiari intitolato «La comitiva», citando la riga scritta da suo nonno sulla busta. Guidobaldo ebbe un fratellastro, Daniel Vogelmann, nato dal secondo matrimonio di sua madre Albana con Schulim Vogelmann, sopravvissuto alla Shoah. Guidobaldo e Daniel fondarono insieme la Giuntina. Una famiglia solida e allargata: come aveva sperato Guido Passigli.

Fascismo: nuovi libri che raccontano uno dei capitoli più bui della storia italiana. Nadia Corvino il 16.09.2022 su illibraio.it. 

Il fascismo è un capitolo della storia italiana che ancora oggi non smette di ripercuotersi sul presente e di ripresentarsi nel dibattito politico. Inevitabile quindi che gli scrittori continuino a occuparsene, sia attraverso saggi storici e giornalistici, sia attraverso romanzi che affrontano il tema. Ecco quindi alcune pubblicazioni recenti che, con approcci diversi, si soffermano su questo fenomeno, indagandolo con uno sguardo critico e contemporaneo. Affinché l’odio e l’ignoranza che hanno portato all’instaurarsi di tale totalitarismo non minino di nuovo la nostra democrazia e libertà

Il fascismo è un capitolo della storia italiana che ancora oggi non smette di ripercuotersi sul presente e di ripresentarsi nel dibattito politico. Inevitabile quindi che scrittori, storici e giornalisti continuino a occuparsene sia attraverso saggi, sia attraverso romanzi che affrontano il tema.

Al 28 ottobre di quest’anno, inoltre, sarà passato un secolo esatto dalla marcia su Roma, che fu decisiva nel posare le fondamenta della dittatura fascista che si sarebbe instaurata da lì a poco. Questo evento contribuisce quindi alla voglia di interrogarsi sul rapporto della società odierna con questo fenomeno, e a rendere ancora più attuale la riflessione sulle sue ramificazioni sul presente.

Vediamo quindi alcune recenti pubblicazioni che, con approcci diversi e tramite spunti differenti tra loro, si soffermano sul tema, indagandolo con uno sguardo contemporaneo e critico; un percorso di lettura questo, che non solo ricorda l’estensione degli orrori della dittatura fascista (oggi a volte dimenticata), ma che celebra anche le libertà di stampa e di lettura, restituiteci dalla democrazia.

M. Gli ultimi giorni dell’Europa, Antonio Scurati

Pensiamo per esempio al lavoro storico-letterario di Antonio Scurati, da alcuni anni è impegnato in un’opera di racconto del fascismo attraverso la figura di Benito Mussolini, iniziata con il romanzo-bestseller M. Il figlio del secolo (vincitore del Premio Strega 2018), ora giunta al terzo capitolo con il libro M. Gli ultimi giorni dell’Europa (Bompiani). Focalizzato sui tre anni che vanno dal ’38 al ’40, quest’ultimo volume racconta il radicale cambiamento dell’Italia negli anni dell’alleanza con la Germania nazista, delle leggi razziali, e dell’entrata del paese in guerra.

Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano, Mirella Serri

Il dibattito contemporaneo sul fascismo è costellato di luoghi comuni e falsi storici, che si diffondono con facilità anche grazie ai social network: tra i falsi miti legati alla figura di Mussolini e al periodo fascista, c’è quello che sostiene che egli si sia speso per il miglioramento della condizione femminile. Una tesi contraddetta sia dalla sua politica che dalla sua biografia: lo racconta nel dettaglio Mirella Serri, docente di letteratura e giornalismo alla Sapienza di Roma, nel saggio Mussolini ha fatto tanto per le donne! (Longanesi), che anzi evidenzia come in questo periodo storico si siano solidificate le radici della cultura maschilista nel nostro paese.

Mussolini il capobanda. Perché dobbiamo vergognarci del fascismo, Aldo Cazzullo

Confutabile è anche la retorica che vede la figura di Mussolini come quella di un governante traviato dall’alleanza con Hitler. Lo spiega il giornalista Aldo Cazzullo nel saggio Mussolini il capobanda. Perché dobbiamo vergognarci del fascismo (Mondadori), in cui si dedica a una ricostruzione delle violenze, le ingiustizie, l’accanimento sugli oppositori e i crimini che hanno caratterizzato la presa di potere fascista; metterle in fila infatti permette di capire come le idee più violente del fascismo degli ultimi anni fossero già evidenti fin dalle sue origini.

Il continente bianco, Andrea Tarabbia

Torniamo a un racconto in forma di romanzo con Il continente bianco (Bollati Boringhieri) di Andrea Tarabbia, (vincitore del Premio Campiello 2019 con l’opera Madrigale senza suono). Ispirandosi al libro L’odore del sangue, di Goffredo Parise, Tarabbia racconta la storia di una donna di estrazione borghese, Silvia, che si innamora di Marcello, un giovane carismatico parte di un gruppo di neofascisti. A raccontare la vicenda troviamo però un narratore esterno, che come Silvia, non riesce a resistere al magnetismo di Marcello, anche lui pericolosamente affascinato da un mondo che si impone sugli altri tramite violenza e potere. Qui l’intervista all’autore.

Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita, Marco Mondini

Anche Marco Mondini, professore di History of conflicts e Storia contemporanea nell’università di Padova, si sofferma sul consenso ottenuto dal fascismo nel saggio Roma 1922. Il fascismo e la guerra mai finita (il Mulino), in cui spiega perché per capire questo fenomeno bisogna necessariamente considerare le sue origini in un’Italia e un’Europa che non riesce a emanciparsi dagli strascichi della Grande Guerra. Il fascino per il militarismo, la voglia di rivalsa, il clima di odio e di violenza del periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale infatti finiscono inevitabilmente per contribuire al successo del fascismo e alla costituzione del regime dittatoriale.

La Germania sì che ha fatto i conti col nazismo, Tommaso Speccher

A popolare le discussioni sul tema non mancano poi i paragoni impropri tra la storia italiana e quella di altri paesi, come per esempio la Germania: su uno in particolare si sofferma Tommaso Speccher, scrittore e divulgatore storico, nel saggio La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo, pubblicato all’interno della collana Fact Checking di Laterza, in cui ogni libro si dedica a inquadrare luoghi comuni sulla storia che riemergono ciclicamente nell’opinione pubblica. In questo caso l’idea, appunto, che il popolo tedesco abbia fin da subito saputo come affrontare il suo passato, elaborandolo e superandolo culturalmente sin dal dopoguerra.

Nero di Londra, Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella

E di nuovo sull’estero si sofferma l’inchiesta Nero di Londra (Chiarelettere), redatta da Mario José Cereghino, esperto di archivi anglosassoni e dal giornalista Giovanni Fasanella, che rifacendosi in particolare a documenti conservati nella Biblioteca dell’Università di Cambridge indagano sui rapporti tra i servizi militari britannici e l’ascesa del fascismo in Italia. Da questi emerge la centralità del tenente colonnello Sir Samuel Hoare, che, impegnato nell’obiettivo di garantire gli interessi britannici all’estero, decide di adoperarsi per influenzare gli sviluppi della politica italiana del ‘900.

Sinossi. NEL CENTENARIO DELLA MARCIA SU ROMA, UN’INCHIESTA DIROMPENTE PER L’UNICITÀ DOCUMENTALE E LA FORZA DELLE RIVELAZIONI SUL SOSTEGNO DELL’INTELLIGENCE E DEI CONSERVATORI DEL REGNO UNITO A BENITO MUSSOLINI

“The Project”: è questo il nome che i servizi militari britannici danno al loro piano segretissimo per il controllo totale dell’Italia a partire dall’autunno 1917, subito dopo la catastrofe di Caporetto. L’artefice di quel progetto eversivo è il tenente colonnello Sir Samuel Hoare, il capo del Directorate of Military Intelligence (Dmi) nel nostro Paese. La sua è una missione al limite dell’impossibile: impedire che l’Italia esca dalla guerra contro gli imperi centrali e, al contempo, porre le premesse di un sistema occulto basato su gruppi di potere trasversali fedeli alla Corona dei Windsor, garantendo così gli interessi vitali dell’Impero britannico nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente. Con l’assenso di Londra, dunque, Sir Hoare crea l’archetipo di un movimento politico e paramilitare che sfocia ben presto nei Fasci italiani di combattimento guidati da Benito Mussolini. È il prototipo della “strategia della tensione” come modello terroristico. Finanziato dal Secret Service sin dall’inizio del 1918 con il nome in codice di “The Count”, il futuro duce conquista il potere nell’ottobre 1922 e instaura un regime autoritario di massa che influenzerà lo scenario internazionale nel corso del Novecento. 

Grazie alle carte dell’archivio personale di Sir Samuel Hoare – declassificate nel 2001 e conservate nella biblioteca dell’Università di Cambridge, in Inghilterra –, Cereghino e Fasanella ricostruiscono in Nero di Londra una storia che, a cent’anni dalla Marcia su Roma, evidenzia per la prima volta le connessioni segrete tra Mussolini e i servizi d’intelligence di sua maestà, e le gravi responsabilità dell’establishment conservatore del Regno Unito.

Casa Editrice: Chiarelettere

Pagine: 256

Data di uscita: 04-10-2022

RECENSIONI DI LIBRI. Nero di Londra. Da Caporetto alla marcia su Roma: come l’intelligence militare britannica creò il fascista Mussolini di Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino

Chiarelettere, 2022 – Inedite rivelazioni, nel saggio storico investigativo di un giornalista e di un saggista esperto di archivi anglosassoni e americani. Felice Laudadio il 16-10-2022 su sololibri.net.

Nero di Londra. Da Caporetto alla marcia su Roma: come l’intelligence militare britannica creò il fascista Mussolini

Autore: Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino

Genere: Romanzi e saggi storici

Categoria: Saggistica

Casa editrice: Chiarelettere

Anno di pubblicazione: 2022

Dietro le quinte di Mussolini, dalla Grande Guerra al governo ed oltre il 28 ottobre 1922: le certezze rilevate nelle carte segrete britanniche spazzano la spessa patina di chiacchiere fiorite per un secolo, fake news, leggende metropolitane.

La tigna di un bravo giornalista investigativo, Giovanni Fasanella (1954, San Fele di Potenza, ha lavorato all’Unità e Panorama), unita al mestiere di un esperto di archivi anglosassoni, Mario José Cereghino (Buenos Aires, 1959), e la desecretazione oltremanica di documenti riservatissimi hanno consentito di realizzare i contenuti senza precedenti di un saggio che fa luce su questioni finora poco e mal-trattate, a parte pettegolezzi e depistaggi anche internazionali.

Dal 4 ottobre è disponibile nelle librerie fisiche e online Nero di Londra. Da Caporetto alla marcia su Roma: come l’intelligence militare britannica creò il fascista Mussolini (Milano, 2022, 256 pagine), nella collana “Principioattivo” delle edizioni Chiarelettere.

Uno sguardo perfino di sfuggita all’indice riesce a sollevare la più forte curiosità, negli specialisti e negli appassionati di storia con qualche rudimento sul periodo specifico. Il lavoro è diretto a loro. “Soldi inglesi al Fascio e a Mussolini: ’Pompare questa gente’”. “Nitti e gli anarchici”. “Il doppio colpo di stato, prima Nitti poi Mussolini”. “La borsa di Matteotti”. “Dove sono i documenti di Matteotti?”. Solo alcuni dei titoli più stuzzicanti dei capitoli del libro.

Di Mussolini e gli inglesi tanto si è detto, poco si è accertato di attendibile e storico, fino al momento in cui studiosi, giornalisti e semplici cultori della materia hanno avuto la possibilità di accedere a carte tenute a lungo sotto chiave. “Un privilegio di cui non godiamo ancora in Italia”, riflettono gli autori.

Nel mare agitato di voci e teorie sui rapporti tra il futuro Duce e i servizi segreti d’Albione è sempre mancata la verità. Sarà perchè non si è cercata abbastanza, aggiungono, ricostruendo la lunga indagine documentale che dai National Archives di Kew Gardens, Londra, li ha portati nell’università di Cambridge e nella biblioteca che custodisce il fondo archivistico privato di sir Samuel Hoare, altissimo funzionario dei servizi militari inglesi, di fede politica conservatrice. Un super agente che nel 1917 venne inviato a Roma, dopo una missione nella Russia zarista agitata dai rivoluzionari.

Sulla base dell’esperienza comunque acquisita, sir Hoare era incaricato di fare il possibile perché l’Italia vacillante dopo Caporetto non finisse nel caos sociopolitico e non firmasse una pace separata con Berlino e Vienna, abbandonando la Triplice Intesa franco-britannica e scoprendo il fianco della Francia meridionale alle armate austrotedesche.

Per Londra, il timore si estendeva agli interessi nell’intero Mediterraneo e al futuro come potenza coloniale, prevedibilmente destabilizzati se il bel Paese si fosse sottratto al conflitto. La guerra avrebbe preso una piega negativa, c’era poco da pensare diversamente.

Il compito di sir Hoare era talmente delicato che potè godere di budget illimitati. Agì stabilendo innanzitutto una salda centrale operativa a Roma, in via delle Quattro Fontane, dove organizzò la Special Intelligence Section e da dove controllava una rete di agenti in tutto il Paese. Attivò apparati di propaganda occulta britannica con base negli antichi palazzi del nobilato romano nell’area tra il Campidoglio e il Ghetto, i quartieri Regola, Parione, Pigna. Si trattava, in specie, della famiglia anglofila dei Caetani e suoi aventi causa, ben introdotta in Vaticano. Il casato, che vantava nel proprio passato papa Bonifacio VIII, aveva dalla sua anche il sostegno offerto apertamente alla causa unitaria risorgimentale. Dialogava con la Chiesa e con la Corona.

Come linea d’azione, l’agente di Londra puntò a disarticolare il partito filo tedesco (maggioritario nella classe dirigente italiana prima del passaggio dalla Triplice Alleanza all’Entente Cordiale, alla vigilia del conflitto). Individuò, inoltre, come strumento per la propria causa un inedito movimento ipernazionalista e antisovversivo: i neonati Fasci di combattimento, animati da un ex socialista romagnolo di Predappio, capace e carismatico, bravo giornalista e reduce di guerra.

Fasanella e Cereghino parlano di vera e propria invenzione del fascista Benito Mussolini e di spinta occulta alla sua ascesa al potere. Argomenti quanto mai delicati, quanto il sostegno al consolidamento del regime, quasi travolto dall’ondata emotiva sollevata dall’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti, nell’estate 1924.

È chiaro che questo appoggio di un apparato d’intelligence britannico “al nascente Duce” e al fascismo è tanto intrigante per gli appassionati quanto imbarazzante per la Gran Bretagna, visto il ruolo d’incubatore del partito e dell’uomo della dittatura svolto dai futuri nemici dell’alleato Hitler nell’Asse e colonna delle democrazie a metà Novecento.

Come in un giallo, non riveliamo altro ai lettori di Giovanni Fasanella (1954, San Fele di Potenza, ha lavorato a L’Unità e Panorama) e di Mario José Cereghino (Buenos Aires 1959, saggista ed esperto di archivi anglosassoni).

Di certo di questo libro si parlerà ancora a lungo.

“Londra appoggiò Marcia su Roma di Mussolini”. File Uk: “legami spie con il fascismo”. Niccolò Magnani il 05.10.2022 su ilsussidiario.net. I file desecretati che rivelano l’appoggio della Gran Bretagna agli albori del fascismo: Delitto Matteotti, Marcia su Roma, tutti i legami tra Uk e Benito Mussolini. La “profezia” di Orwell

“UK APPOGGIÒ MARCIA SU ROMA FASCISTA”: GLI INCREDIBILI FILE UK DESECRETATI

Il 28 ottobre 1922 nella Marcia su Roma il futuro Duce Benito Mussolini (che non partecipò direttamente alla mobilitazione delle sue forze fasciste, ndr) venne in qualche modo sostenuto se non proprio appoggiato segretamente dalla Gran Bretagna. Questa incredibile teoria (anche se non nuovissima, vista la bibliografia sul presunto carteggio Mussolini-Churchill) viene rivelata dagli file desecretati e “scoperti” dagli studiosi Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel loro ultimo saggio “Nero di Londra. Da Caporetto alla Marcia su Roma: come l’intelligence militare britannica creò il fascista Mussolini”. Con il probabile assenso-consenso della Corona inglese e del Governo dei Tories, negli Anni Venti-Trenta del Novecento il capo del Directorate of Military Intelligence – gli 007 militari inglesi – Sir Samuel Hoare ebbe modo di creare le basi per un sostegno segreto alle manovre iniziali del fascismo in Italia.

«Fin dalla Prima Guerra mondiale – spiega Fasanella all’Adnkronos – i servizi militari britannici danno vita a un piano segretissimo, chiamato ‘The Project’, per il controllo totale dell’Italia a partire dall’autunno del 1917, subito dopo la catastrofe di Caporetto»: fu proprio Sir Hoare ad organizzare tale segreto sostegno, con forte responsabilità dei Tory e della stessa Corona dei Windsor. La missione individuata dai file desecretati nel 2001 e conservati nella biblioteca dell’Università di Cambridge in Inghilterra è di quelle praticamente “impossibili”: «impedire che l’Italia esca dalla guerra contro gli imperi centrali – ricorda l’autore Cereghino – e, al contempo, porre le premesse di un sistema occulto, basato su gruppi di potere trasversali, fedeli alla Corona dei Windsor, garantendo così gli interessi vitali dell’Impero britannico nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente». Con l’assenso di Londra, ricordano ancora gli autori italiani, Sir Hoare di fatto «crea l’archetipo di un movimento politico e paramilitare che sfocia ben presto nei Fasci italiani di combattimento, guidati da Benito Mussolini. È il prototipo della ‘strategia della tensione’ come modello terroristico”. Finanziato dal Secret Service, sin dall’inizio del 1918, con il nome in codice di “The Count”, (Il conteggio ndr) il futuro duce conquista il potere nell’ottobre 1922 e instaura un regime autoritario di massa che influenzerà lo scenario internazionale nel corso del Novecento».

Mise, foto di Mussolini: Bersani "togliete mia"/ La Russa "Facciamo cancel culture?"

LEGAMI UK CON IL FASCISMO? LA PROFEZIA DI ORWELL SI AVVERA

Se tali carte riportano l’effettiva verità storica di quanto avvenuto, vi sono da registrare numerose connessioni segrete tra Mussolini e i servizi d’intelligence di Sua Maestà, con coinvolgimenti presunti nel Delitto Matteotti, nella Marcia su Roma per l’appunto e nell’ascesa del fascismo in Italia fino alle soglie della Seconda Guerra Mondiale, quando poi l’Inghilterra si schierò continuamente contro il nazifascismo di Hitler e del Duce. Una vicenda, si può ben intendere, ampiamente imbarazzante per Londra e per la narrazione che vedeva il Regno Unito come «unico, inflessibile baluardo contro il nazifascismo e le potenze dell’Asse», raccontano ancora Cereghino e Fasanella. Dai tipici tratti della spy story internazionale vi è la vicenda della borsa di Giacomo Matteotti, giornalista socialista ucciso in circostanze mai del tutto chiarite durante l’ascesa del Fascismo in Italia: è sparita e mai stata ritrovata la sua borsa che conteneva documenti ancora irreperibili.

ELEZIONI 2022/ Così gli italiani possono salvare una "repubblica" che non è mai nata

Secondo gli autori di “Nero di Londra”, «E’ innegabile che quelle carte siano ancora custodite negli archivi segreti della Naval Intelligence Division di Londra e in quelli del Federal Bureau of Investigation e del Dipartimento di Stato a Washington. La loro scomparsa in seguito al sequestro Matteotti consente a Mussolini di costruire il suo regime ventennale e ai conservatori inglesi di occultare le loro responsabilità». Anche per questa ragione, concludono gli studiosi dei file desecretati da anni sui presunti rapporti tra Gran Bretagna e fascismo, si potrebbe definitivamente compiere la “profezia” del grande scrittore George Orwell, pronunciata sulla rivista laburista “Tribune” nel 1943, ben due anni prima dell’omicidio di Benito Mussolini e della fine della Seconda Guerra Mondiale. Nella ‘piece’ “The Trial of Mussolini”, l’autore di “1984” augurava «a Churchill e ai politici conservatori del sua cerchia (e dunque anche a Sir Samuel Hoare) che il dittatore italiano tiri rapidamente le cuoia, magari per mano degli stessi italiani», spiega Fasanella. Il surreale processo messo in scena da Orwell al Duce fascista intende svelare gli scheletri nell’armadio degli inglesi: «quali sono gli aspetti del regime interno mussoliniano passibili eventualmente di “giudizio” da parte di un qualsivoglia organismo popolare del Regno Unito? Non vi è infatti alcuna furfanteria commessa da Mussolini tra il 1922 e il 1940 che non sia stata oltremodo glorificata dalle medesime persone che propongono adesso di portarlo alla sbarra», osserva Orwell. Il geniale scrittore inglese metteva alla sbarra gli stessi inglesi per aver appoggiato fin dall’inizio il fascismo, sbagliando in toto i calcoli politici e sociali che ne conseguirono. Secondo gli autori di “Nero di Londra”, «se il duce fosse stato incarcerato in attesa di giudizio, si sarebbe trasformato in un ‘eroe’ molto più difficile da sconfiggere. Una profezia quella di Orwell che si sarebbe avverata fatalmente due anni più tardi (il 28 aprile del 1945 ndr) sulle rive del Lago di Como». 

NERO DI LONDRA-DA CAPORETTO ALLA MARCIA SU ROMA: COME L’INTELLIGENCE MILITARE BRITANNICA CREO’ IL FASCISTA MUSSOLINI”, di Mario J. Cereghino e Giovanni Fasanella.  Da nuovogiornalenazionale.com il 21 settembre 2022.

Anticipiamo alcuni brani del libro basato sugli archivi declassificati dell’Intelligence militare britannica conservati nell’università di Cambridge dal titolo “NERO DI LONDRA-DA CAPORETTO ALLA MARCIA SU ROMA: COME L’INTELLIGENCE MILITARE BRITANNICA CREO’ IL FASCISTA MUSSOLINI”, di Mario J. Cereghino e Giovanni Fasanella. 

Per l'intanto…

MUSSOLINI E GLI INGLESI. LE ACCUSE DI GEORGE ORWELL AI CONSERVATORI BRITANNICI E LA SUA PROFEZIA SULLA FINE DI BENITO MUSSOLINI

“GUILTY MEN”, COLPEVOLI

Maggio 1940. In Francia, le truppe alleate sono state travolte in poche settimane dalle armate di Hitler. La sera del 31 di quello stesso mese, a Londra, tre giovani giornalisti si incontrano nella sede del quotidiano “Evening Standard”, nella centralissima Fleet Street. Sono convinti che si debba fare qualcosa per «galvanizzare l’opinione pubblica» e aiutarla a capire quanto siano stati «incompetenti e moralmente indifendibili» i governi conservatori degli anni precedenti. Ma che cosa? Uno di loro ha «l’idea di scrivere un instant book» per spiegare agli inglesi come le strategie dell’appeasement nei confronti di Hitler e Mussolini abbiano trascinato la Gran Bretagna sull’orlo della catastrofe. Esce così il libro “Guilty Men”, i colpevoli, un atto d’accusa al vetriolo contro l’establishment dei Tories. Il successo è sensazionale e coglie tutti di sorpresa: 220mila copie vendute in pochi mesi. Tra i colpevoli additati al pubblico ludibrio, c’è anche Samuel Hoare, il capo dell’Intelligence militare in Italia subito dopo Caporetto, accusato di aver sostenuto a lungo il regime fascista e di aver flirtato con i nazisti.

Il libro è firmato con uno pseudonimo, “Cato”, dietro il quale si celano tre brillanti giornalisti: Michael Foot, Frank Owen e Peter Howard. Il primo è di idee laburiste, il secondo è liberale e il terzo è un conservatore.

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“THE TRIAL OF MUSSOLINI”, PROCESSO A MUSSOLINI

A Roma, nel pomeriggio del 25 luglio 1943, dopo essere stato sfiduciato dal Gran Consiglio del Fascismo, Mussolini viene arrestato per ordine di Vittorio Emanuele III.

A Londra, il celebre reporter Michael Foot ha subito l’idea di scrivere un secondo instant book. Viene pubblicato poche settimane dopo con il titolo “The Trial of Mussolini”, processo a Mussolini, e questa volta è firmato con lo pseudonimo “Cassius”. L’autore immagina che Mussolini finisca alla sbarra «a Londra, nel 1944 o nel 1945», con l’accusa di essere stato un despota spietato e di essersi macchiato di orrendi crimini per un ventennio e oltre. Ma l’establishment conservatore britannico è certamente «colpevole» di aver a lungo «supportato» il Duce. E con il pretesto di un processo, “Cassus”-Foot punta risolutamente il dito contro le ambiguità dell’ultraventennale «politica estera britannica» nei confronti dell’Italia.

In quell’assise fittizia allestita da Foot, scorrono così i principali esponenti della classe dirigente conservatrice al governo, a cominciare dal solito Samuel Hoare, accusato di aver brigato per «mantenere Mussolini al potere», a qualunque costo. Il libro bissa il successo di “Guilty Men”: 150 mila copie vendute in poche settimane.

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“CHI SONO I CRIMINALI DI GUERRA?”

LA PROFEZIA DI ORWELL

“The Trial of Mussolini” viene recensito da un gigante della letteratura del Novecento, George Orwell, sulle pagine del quotidiano laburista “Tribune”, il 22 ottobre 1943. Il lungo articolo s’intitola «Who are the War Criminals?», chi sono i criminali di guerra?

Orwell si domanda «quali crimini» abbia effettivamente «commesso» Mussolini, posto naturalmente che gli si possano attribuire dei «misfatti». Nell’ambito della «politica di potenza», dal momento che non esistono «leggi» di alcun genere, non esistono neppure i «crimini», spiega. Usa un paradosso per arrivare al bersaglio. E lancia la sua provocazione: quali sono gli «aspetti» del «regime interno» mussoliniano passibili eventualmente di «giudizio» da parte di un qualsivoglia «organismo popolare» del Regno Unito? Non vi è infatti «alcuna furfanteria commessa da Mussolini tra il 1922 e il 1940 che non sia stata oltremodo glorificata dalle medesime persone che propongono adesso di portarlo alla sbarra», osserva Orwell. Insomma, insiste, com’è possibile che un’azione, in passato giudicata «lodevole» dall’establishment conservatore britannico, diventi ora «deprecabile» e per giunta «all’improvviso»?

Nel corso del surreale processo sceneggiato da “Cassius”, evidenzia Orwell, a Mussolini viene consentito di chiamare a testimoniare diverse personalità inglesi «sia vive che morte». Carte alla mano, l’ex Duce riesce così a «dimostrare» dinanzi alla Corte che, «sin dagli esordi» del suo regime, i «leader d’opinione britannici» lo avevano «incoraggiato a fare tutto quello che ha fatto». Insomma, afferma il grande scrittore, «il governo britannico e i suoi portavoce ufficiali» hanno sempre «appoggiato» Mussolini «nella buona e nella cattiva sorte». Di conseguenza, «risulta decisamente improbabile che i conservatori britannici» decidano ora di processarlo nel mondo reale, giacché «non vi è nulla di cui possano incolparlo, se non della dichiarazione di guerra del 1940».

Nell’opera di “Cassius”, rileva Orwell, Mussolini ammette di essere «colpevole dell’unico misfatto che conta», ossia il «crimine del fallimento». L’ex Duce arriva inoltre a concedere ai suoi «avversari» inglesi il «diritto di assassinarlo». Ma insiste sul fatto che non hanno alcun diritto di «incolparlo» dei molti delitti che gli vengono addebitati. Perché la «condotta» dell’establishment conservatore è sempre stata «simile» alla sua. La «condanna morale» da parte degli inglesi, afferma Mussolini dinanzi alla Corte, è dunque «assolutamente ipocrita».

A questo punto, Orwell torna a chiedersi se un processo a Mussolini potrebbe mai svolgersi «nella vita reale». È «improbabile», scrive, poiché l’ex Duce è «un ottimo capro espiatorio» finchè rimane «a piede libero». Ma si trasformerebbe in un «pericolo» se gli Alleati lo mettessero in «galera». E nel caso in cui alla fine fosse giustiziato, Orwell ricorda che i «tiranni messi a morte da un’autorità straniera» finiscono inevitabilmente per diventare «martiri e leggende». Come nel caso di Napoleone, morto a Sant’Elena prigioniero degli inglesi, nel 1821.

«Per quanto mi riguarda», afferma lo scrittore, «non vorrei» che Mussolini e Hitler fossero «messi a morte», a meno che la morte non fosse loro inflitta «in tutta fretta e con modalità non spettacolari». Insomma, se i tedeschi e gli italiani optassero per una «corte marziale» o un «plotone d’esecuzione», sarebbe legittimo «lasciarli fare». O ancor meglio: potrebbero lasciar «scappare» in Svizzera i due dittatori, con in mano «una valigia piena di titoli al portatore». Quello che conta, insiste Orwell, è che non vi sia «martirio alcuno», nessun affaire «tipo Sant’Elena». Soprattutto, che non si allestisca «alcun processo solenne e ipocrita ai criminali di guerra». Trascorso un po’ di tempo, infatti, gli «imputati» finirebbero per essere illuminati da una «luce romantica», capace in breve di trasformarli «da canaglie a eroi».

In buona sostanza, augura a Churchill e ai leader politici conservatori (e, dunque, anche a Sir Samuel Hoare) che il dittatore italiano tiri rapidamente le cuoia, magari per mano degli italiani stessi. Perché se fosse mai catturato e rinchiuso in galera in attesa di essere giudicato dalle potenze vincitrici, Mussolini si trasformerebbe automaticamente in un «pericolo» letale per Sir Winston e il suo cerchio magico. Tappargli subito la bocca, lascia intendere Orwell con macabra ironia, è quindi nell’interesse dell’establishment del Regno Unito.

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È una profezia, quella di Orwell, che si avvera fatalmente sulle rive del Lago di Como nemmeno due anni dopo, alla fine di aprile del 1945: il Duce giustiziato dai partigiani italiani, e le borse piene di documenti, che aveva con sé al momento della cattura, scomparse nel nulla. Insieme alla memoria documentale dell’idillio tra Roma e Londra durante il Ventennio.

Che cosa avrebbe potuto dire di tanto imbarazzante, Mussolini, sui suoi rapporti con i conservatori britannici? 

Il libro sarà disponibile dal 4 ottobre...

I fascisti preparano la marcia su Roma. Nel ‘22 la difficile trattativa con Giolitti. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Ottobre 2022

È il 19 ottobre 1922: «Giolitti tratta coi fascisti per la costituzione del futuro Ministero» titola il «Corriere delle Puglie». Il Governo Facta è in crisi: non è la prima volta che accade dall’inizio del suo mandato. Il braccio destro di Giolitti era diventato capo del governo nel febbraio 1922, dopo la caduta del ministero Bonomi.

A luglio, dopo le difficili giornate degli assalti fascisti e delle occupazioni dei municipi in tutto il Paese e il conseguente sciopero generale indetto dai socialisti, Facta è stato costretto alle dimissioni. Riesce poco dopo a ottenere la fiducia per un nuovo governo, che appare fin da subito, tuttavia, ancora più precario del precedente.

Mentre lo squadrismo fascista non accenna a interrompersi e Mussolini minaccia continuamente una «marcia su Roma», rientra in campo, pertanto, Giovanni Giolitti. Sul fronte opposto vi sono grandi novità. All’inizio del mese di ottobre si è svolto, infatti, il XIX Congresso del Psi, che ha sancito definitivamente la scissione tra «massimalisti» e «riformisti», guidati da Turati: è nato, così, il Partito socialista unitario italiano, di cui è eletto segretario Giacomo Matteotti. Di questa rivoluzione all’interno del Partito si discute in seconda pagina sul «Corriere» nella lunga intervista ad Arturo Vella, deputato socialista di origini siciliane, eletto alla Camera nel 1919 nel collegio di Bari. Vella ha subìto, proprio nel capoluogo pugliese, nel corso della violenta campagna elettorale per il voto del maggio 1921, l’aggressione delle squadracce guidate da Giuseppe Caradonna, capo del fascio di Cerignola e uno dei maggiori esponenti del fascismo agrario pugliese.

Sul Psui così si esprime Vella: «L’aggruppamento politico che si va ora a formare attorno a Filippo Turati e che comprende uomini di alta rettitudine e di non comune preparazione, inizierà una nuova era nella politica italiana e tenterà il ripristino di un periodo di libertà e l’inizio di una democrazia ampiamente sociale». E sul fascismo: «Io non temo il fascismo come fenomeno storico: a parte gli eccessi di violenza da tutti ormai deplorati, e che indubbiamente cesseranno non appena Mussolini sarà al Governo (senza ahimè essere dittatore!), il fascismo in sostanza ancora un programma non ha e non riesce a definirsi».

Mentre sulla stampa, però, il capo del fascismo si mostra disponibile a trattare per l’assegnazione di alcuni ministeri (alla sua richiesta di sei «portafogli», Giolitti sembra disposto a concedere soltanto due) inizia a prender piede l’idea di far scoppiare una crisi extraparlamentare e di prendere il potere con la forza. Iniziano i preparativi della marcia su Roma.

La marcia che aprì le porte al fascismo. Quando Mussolini ordinò di prendere Roma per evitare la difesa di Giolitti. David Romoli su Il Riformista il 19 Ottobre 2022 

La decisione finale sulla marcia viene presa nel pomeriggio del 16 ottobre. Alle 15, nella sala del direttivo del Partito fascista presso la redazione del Popolo d’Italia, si riuniscono 9 persone. Con Mussolini e Bianchi ci sono i tre comandanti della Milizia, Balbo, De Bono e De Vecchi. C’è Attilio Teruzzi, vicesegretario del Pnf e sono stati convocati due generali in pensione Gustavo Fara e Sante Ceccherini. L’ultimo invitato, Ulisse Igliori, capitano, mutilato di guerra e capo della Milizia romana, arriva in ritardo, a riunione già conclusa.

Nei giorni precedenti Mussolini e Bianchi hanno intensificato i contatti con tutti i leader liberali in competizione tra loro, tutti decisi a incanalare il fascismo in un ordinato corso costituzionale ma anche a sfruttarlo a proprio vantaggio. Bianchi ha incontrato per tre volte in pochi giorni il primo ministro Facta. Gli ha fatto balenare l’ipotesi che possa tornare a guidare il nuovo governo. Lo ha lusingato in un’intervista, dopo il primo colloquio: «Ha avuto, lui solo, il merito di aver saputo evitare l’urto tra le forze fasciste e le forze dello Stato». Mussolini intensifica i rapporti con il prefetto di Milano, Lusignoli, l’“ambasciatore” di Giolitti e naturalmente giura che i fascisti sono disposti a collaborare solo con l’anziano piemontese, “autorevole ed esperto”: in cambio di quattro ministeri fondamentali tra cui Esteri e Guerra. Parlando con il nazionalista Federzoni, il duce candida invece Vittorio Emanuele Orlando, “bella figura di italiano con cui si potrebbe lavorare volentieri”. Anche con Salandra, l’uomo su cui puntano “i fascisti antimarcia”, Mussolini finge di tenere le porte aperte.

Lui e Bianchi recitano il più classico gioco delle parti: il vicesegretario fa il duro, quello che non si accontenta e alza continuamente la posta chiedendo più ministeri, Mussolini è la colomba, ragionevole e apparentemente disposto ad accontentarsi di poco. La tattica di Mussolini e Bianchi non serve solo a ingannare gli uomini dell’Italia liberale per paralizzarli a impedir loro di organizzare la reazione all’attacco fascista. Il doppio tavolo è essenziale nella strategia di Mussolini. I capi fascisti sanno di non poter prendere Roma con la Milizia e sanno anche che l’esercito, pur simpatizzando con loro, obbedirebbe al re in caso di conflitto frontale. L’insurrezione mira a occupare le principali città del nord e a minacciare la Capitale per far pesare la situazione d’emergenza sulla trattativa stessa. Tra i leader liberali non ce n’è uno che consideri l’eventualità di un governo senza i fascisti e la paura di una resurrezione del “bolscevismo” ne condiziona ogni scelta.

Non si tratta dunque di arrivare al governo, obiettivo che sarebbe facilissimo cogliere senza mobilitare le camicie nere, ma di alzare il prezzo e dare un segnale inequivocabile di rottura drastica con il passato. Forte di queste considerazioni, Mussolini si rivolge agli uomini che ha convocato a Milano, nel pomeriggio del 16 ottobre. Il vertice comincia male. De Bono e De Vecchi si inalberano per la presenza dei due generali, minacciano di andarsene. Mussolini li ferma ma De Bono nel primo intervento torna a protestare per la presenza di figure estranee alla Milizia. Mussolini lo convince sottolineando l’utilità di avere “generali in divisa alla testa degli insorti”. De Bono si convince ma a quel punto sono gli “intrusi” stessi che chiedono di lasciare il vertice ed è proprio De Bono a pregarli di restare.

Superato l’incidente Mussolini va dritto al punto: «Cercano di soffocare il nostro movimento. Giolitti crede di poterci offrire due portafogli ma per noi ce ne vogliono 6 o nulla. Bisogna mettere in azione le masse, creare la crisi extraparlamentare. Bisogna impedire a Giolitti di andare al governo. Come ha fatto sparare su d’Annunzio farebbe sparare sui fascisti». Il duce illustra poi il piano d’azione, che dovrebbe scattare il 21 ottobre ma la data resta incerta. Conclude perentorio: «Credo che tutti saranno d’accordo. In caso contrario vi prevengo che attacco ugualmente». Invece l’accordo non c’è. De Bono, De Vecchi e i due generali ripetono che la milizia non è pronta. Ci vogliono almeno altri 40 giorni, forse anche qualche mese. Gli risponde per primo Balbo: «Ritengo pericolosissimo ogni indugio. Le manovre dei vecchi partiti si fanno più serrate. Meglio tentare oggi, anche se la preparazione non è completa, piuttosto che domani quando sarà completa anche la preparazione degli avversari».

Bianchi è dello stesso parere e soprattutto decide in questo senso Mussolini, trascinando i dissenzienti: «È inutile attendere il perfezionamento delle forze, che non si può ottenere». La marcia è decisa. La data invece no. Forse le obiezioni dei generali hanno fatto presa. Comunque Mussolini lascia la questione aperta: «Non si può decidere se l’insurrezione debba essere immediata ma ritengo che si debba e si possa iniziarla subito qualora l’occasione si presenti». In ogni caso dopo la grande adunata fascista convocata a Napoli per il 24 ottobre. Non è stabilito, in realtà, neppure l’obiettivo dell’insurrezione. Il 16 ottobre Mussolini ancora non considera la conquista della presidenza del Consiglio irrinunciabile. La marcia rientra nella logica propria degli uomini d’azione, da Napoleone a Lenin: “On s’engage et puis on voit”.

La decisione di sorvolare sulla data del colpo non deve trarre in inganno. Mussolini sa di dover agire subito. Appena conclusa la riunione sbotta sintetizzandone gli esiti con il fidatissimo Cesare Rossi: «Bisogna bruciare le tappe. Non la volevano capire ma ho puntato i piedi. Dicono che mancano i bottoni alle uose, capisci? Si credono di dover organizzare una parata d’onore! Non capiscono che se lasciamo passare questo momento favorevole per noi è finita». Più di ogni altro esito Mussolini teme il ritorno al governo di Giolitti e ha ragione perché tutto sembra spingere in quella direzione. Il 17 ottobre una delegazione di industriali al massimo livello incontra Lusignoli e chiede senza perifrasi l’intervento di Giolitti.

Il prefetto riporta i loro desiderata all’interessato: «Gli industriali dichiarano che sono favorevolissimi a un ritorno di Vostra Eccellenza al potere. Sono disposti a tutti i sacrifici». Anche Facta insiste perché Giolitti si muova subito: «Provvedere è urgentissimo e un uomo come te a tutto può provvedere», telegrafa. Nella stessa giornata il grande sociologo Vilfredo Pareto, sostenitore strenuo del fascismo, scrive all’amico economista Maffeo Pantaleoni: «Quel volpone di Giolitti sta preparando la disfatta del fascismo: se i fascisti si lasciano addomesticare sono finiti». All’insurrezione, comunque, continua a non credere nessuno anche se alcune indicazioni che smentiscono l’opinione comune arrivano.

Un rapporto del capo dell’Ufficio informazioni riservate dell’esercito Vigevani, datato 17 ottobre, dice, citando una fonte non identificata, che «l’ on. Mussolini non vuole discutere la partecipazione a un governo Giolitti. Vede il crollo del fascismo se perdura la situazione politica attuale, perciò parla della necessità assoluta del fascismo di uscirne con un grande atto». Nella stessa giornata il primo aiutante di campo del re, il generale Cittadini, spedisce a Facta un telegramma cifrato a nome del sovrano: «Notizie danno conferma circa un colpo di mano che con l’aiuto di circoli d’affari svizzeri verrebbe tentato prossimamente su Roma». È probabilmente sulla base di queste informazione che il ministro della Guerra Marcello Soleri, uno dei ministri più ostili al fascismo, decide di approntare subito la difesa della Capitale. David Romoli

La marcia che aprì le porte al fascismo. Marcia su Roma: il ruolo di Perrone Compagni, Iglieri e Bottai. David Romoli su Il Riformista il 21 Ottobre 2022 

Chi sono gli uomini che dovranno guidare materialmente l’assalto a Roma mentre i quadrumviri resteranno asserragliati a Perugia e Mussolini, a Milano, tratterà con i capi liberali? Nel vertice di Firenze del 20 e 21 ottobre, tanto importante per l’organizzazione della marcia che in seguito Mussolini, mentendo, dichiarerà di essere stato anche lui presente, bisogna indicare i capi delle tre colonne che dovrebbero marciare.

La colonna di Santa Marinella sarà al comando di Dino Perrone Compagni, quarantenne, marchese squattrinato, massone, degradato in guerra da tenente a soldato semplice per debiti di gioco non saldati è il capo dello squadrismo toscano. Brutale e violento, ma non abbastanza per i duri come il futuro rapitore di Matteotti Amerigo Dumini che lo detestano e faranno circolare la notizia sulla disonorevole carriera militare, è abituato a rivolgersi direttamente alle amministrazioni locali socialiste per ordinarne lo scioglimento pena l’attacco alla città o al paese di turno. Spedisce missive come quella fatta pervenire al sindaco di Roccastrada: «Facendomi interprete dei vostri amministrati vi consiglio a dare, entro domenica, le dimissioni, assumendovi voi, in caso contrario, ogni responsabilità di cose e persone. Se ricorrerete alle autorità per questo mio pio, gentile ed umano consiglio, il termine suddetto vi sarà ridotto».

Delle doti militari di Perrone Compagni però i quadrumviri sono i primi a non fidarsi. Così gli affiancano Sante Ceccherini, che ha sì quasi sessant’anni però la guerra la sa fare davvero. Anche lui massone, campione olimpionico di scherma, pluridecorato sia nella guerra italo-turca del 1911-12 che nella Guerra mondiale: la cattura di 1600 prigionieri che lo ha reso noto come “l’eroe di San Michele”. Ceccherini è stato legionario con D’Annunzio a Fiume poi, appena congedato, è passato al fascismo ed è lui, molto più del marchese degradato, che dovrebbe assumere il comando in caso di battaglia. Comandante della colonna di Monterotondo sarà Ulisse Iglieri, capo indiscusso dello squadrismo romano. Toscano e futuro cofondatore della squadra di calcio della Roma, Igliori, a 27 anni, è un eroe di guerra mutilato del braccio sinistro, fatto prigioniero e detenuto per 10 mesi dagli austriaci a Mauthausen, da cui è uscito tubercoloso, poi a Fiume con D’Annunzio come comandante della sua guardia, “La Disperata”.

Un anno esatto prima della marcia, Igliori avrebbe dovuto sfidarsi a duello con Mussolini. Il duce aveva infatti sfidato il giornalista socialista Francesco Ciccotti Scozzese, soffiando così il diritto di infilzarlo all’eroe di guerra, che aveva a propria volta sfidato il giornalista. Il duello tra Mussolini e Ciccotti si svolse davvero il 28 ottobre 1921: il cronista abbandonò al quattordicesimo assalto per crisi cardiaca. Su quello tra il duce e il capo dello squadrismo romano, pur ampiamente pubblicizzato dalla stampa, i due fascisti scelsero invece di soprassedere. Igliori è tra i fascisti più rigidi e duri. Aveva rifiutato la candidatura nelle liste del Blocco nazionale di Giolitti per non mischiarsi con giolittiani e liberale e resterà uno dei ras più violenti e temuti della Capitale anche dopo la presa del potere, considerato responsabile del pestaggio che porterà alla morte Giovanni Amendola.

Al mutilato e massone Igliori i quadrumviri affiancano l’altro generale fresco di adesione al fascismo, Gustavo Fara. Distintosi in Eritrea, Libia e nella guerra mondiale, Fara si è avvicinato al fascismo solo dopo il congedo, nel maggio 1922, e in settembre si è presentato al soldato che era stato ai suoi ordini nell’11° Reggimento Benito Mussolini. Per guidare la colonna di Tivoli viene scelto Giuseppe Bottai, destinato a una brillante carriera politica nel ventennio. A 27 anni Bottai è stato volontario nella guerra, ufficiale degli Arditi, decorato. È un intellettuale, futurista, fondatore del giornale degli Arditi Le Fiamme, caporedattore del Popolo d’Italia a Roma ma anche uno degli squadristi più attivi e determinati.

Molto popolare tra i fascisti romani era stato eletto nelle elezioni del 1921 con 100mila preferenze senza però entrare davvero in Parlamento: l’elezione non era stata convalidata perché era troppo giovane. Bottai è stato uno dei pochi ras favorevoli al Patto di pacificazione del 1921 e dopo la marcia sosterrà la necessità di abbandonare lo squadrismo provocando le ire del duro Farinacci che lo espellerà dal Pnf. A salvare Bottai, futuro governatore di Roma e Addis Abeba, ministro delle Corporazioni e dell’Educazione, sarà Mussolini con un messaggio a Farinacci in cui definisce l’espulso “interventista, intervenuto, fascista della primissima ora, squadrista del 10-20-21-22, comandante di una colonna che combattè duramente alle porte di Roma nell’ottobre ‘22” per concludere chiudendo d’autorità la vicenda: «Considero attacco Bottai come rivolto a me Benito Mussolini».

I quadrumviri, a Firenze, provvedono anche a dividere l’Italia in 12 zone, affidate a diversi proconsoli. Le prime due, che comprendono Liguria, Piemonte e buona parte della Lombardia sono assegnate al capitano Cesare Forni, uno dei capi più violenti dello squadrismo agrario. La terza zona, con l’Alto Adige e una parte del Veneto è messa agli ordini di Italo Bresciani, ex anarchico, poi sindacalista rivoluzionario, sansepolcrista e redattore del Popolo d’Italia. Finirà in disgrazia e in conflitto con il nascente regime dopo la marcia, salvo poi venir “reintegrato” dopo la crisi seguita al delitto Matteotti. Il resto del Veneto e la Venezia Giulia, la quarta zona, sono affidati al maggiore e deputato Giovanni Giuriati, 44 anni, volontario e decorato in guerra, capo di gabinetto di D’Annunzio a Fiume, in seguito più volte ministro e per un anno, dal 1930 al 1931, segretario del Pnf.

L’Emilia-Romagna, quinta zona, va al vicesegretario del partito Attilio Teruzzi, che in una recente biografia la storica italo-americana Victoria De Grazia ha definito sin dal titolo Il perfetto fascista, massone, ufficiale nella grande guerra, in seguito sottosegretario e ministro. Nel 1945 fu annunciata la sua fucilazione come gerarca di Salò, ma i partigiani avevano in realtà ucciso un giornalista tedesco somigliante. Il vero Teruzzi fu condannato a 30 anni di prigione, ne scontò 5 e morì appena 20 giorni dopo la scarcerazione. Roma e tutta l’area fino a Perugia erano in mano a Igliori. La Toscana a Perrone Compagni, del resto già noto come “il granduca di Toscana”. Marche e Abruzzi andarono a Bottai.

La nona zona comprendeva Campania e Puglia e il proconsole designato era il capo squadrista di Napoli Aurelio Padovani, come al solito massone e pluridecorato. Finirà in disgrazia pochi mesi dopo la marcia, bollato da Mussolini come «il fascista più indisciplinato d’Italia, in contatto con elementi equivoci, responsabile di un ammutinamento che ci ha coperti di ridicolo». Puglia e Calabria furono assegnate a Giuseppe Caradonna, capo dello squadrismo pugliese, uno dei più feroci avversari del patto di pacificazione e padre del futuro dirigente del Msi Giulio. Per la zona 11, Sicilia, fu indicato il futuro segretario del Pnf Achille Starace, fucilato nel 1945. La Sardegna rimase vacante. Erano questi gli uomini che, alla vigilia della grande adunata fascista di Napoli, si preparavano a guidare l’insurrezione.

David Romoli

Filosofia della violenza. Il metodo di Giorgio Dell’Arti per spiegare la presa di potere di Mussolini. Giorgio Dell'Arti su L'Inkiesta il 25 Ottobre 2022.

Con un curioso modello narrativo di intervista a se stesso, nel suo ultimo libro “La marcia su Roma” il giornalista prova a ricostruire le origini del Ventennio fascista in Italia

Il lettore non si sconcerti troppo: il personaggio che fa le domande sono io, che fingo di non saper nulla. E il personaggio che fornisce le risposte sono sempre io, che fingo di saper tutto. Cioè, ho scritto questo libro in forma di dialogo, e non c’è una ragione particolare se non quella che scriver dialoghi mi piace, e anche questo testo, come altri in precedenza, m’è venuto fuori così. D’altra parte – si parva licet– chiamo a mia difesa l’inventore di questo stile di racconto, vale a dire Platone. E di ciò basti.

[…]

«Le porte del teatro si sono aperte alle 8. Alle 9 l’immensa sala era già gremita in ogni ordine di posti da una folla elegante nella quale si notavano molte signore della migliore società cittadina. Gli alfieri con i gagliardetti sono schierati sul palcoscenico in rappresentanza delle legioni fasciste. Deputati e personalità fasciste indossano tutti la camicia e il fez nero. Poco prima delle 10 un trombettiere suona tre volte l’attenti. I fascisti si irrigidiscono, i gagliardetti sono levati in aria e agitati.

Gli spettatori si alzano in piedi, punti dalla curiosità: si crede difatti che i tre squilli preannuncino l’arrivo di Mussolini. Invece si è voluta fare una semplice prova: il trombettiere suona il riposo e il teatro è di nuovo tutto un brusio di commenti. Poco dopo, gli squilli sono ripetuti e questa è la volta buona. Mussolini indossa la camicia nera e reca sulle maniche i distintivi del grado, simili a quelli di generale d’esercito. Egli attraversa il palcoscenico fra uno scroscio di applausi e si avanza alla ribalta.

Tutto il teatro sorge in piedi, dai palchi e dalla platea molti sventolano cappelli e fazzoletti. Appena gli applausi cessano, una fanfara intona le note dell’inno fascista, e gli squadristi fanno coro. Quindi di nuovo uno squillo. Il silenzio si ristabilisce e Sansanelli, della direzione del partito, saluta a nome del fascio i convenuti da ogni parte d’Italia. Un altro segnale d’attenti. Mussolini, in mezzo a un silenzio completo, incomincia il suo discorso».

Che cos’è?

Il Corriere della Sera. […]

Ma la polizia… i carabinieri… le guardie regie…?

Ad aprile e a maggio del 1921 Giolitti, presidente del consiglio, aveva inviato parecchi ordini tassativi ai prefetti, perché garantissero uno svolgimento ordinato della campagna elettorale. I prefetti avevano risposto troppe volte che dar seguito a quegli ordini era impossibile, dato che la forza pubblica era connivente con i fascisti. Anche i magistrati mandavano spesso liberi gli assassini, e quando li condannavano i fascisti aspettavano i giudici sotto casa per pestarli.

Ha citato una campagna elettorale che Giolitti voleva si svolgesse regolarmente. Di che campagna elettorale si tratta?

Quella per le elezioni del maggio 1921.

Di queste elezioni non abbiamo parlato.

La camera era ingovernabile e il re la sciolse. Mussolini, che s’era arruffianato in mille modi con Giolitti, gli chiese di far blocco con i fascisti e andare alle elezioni insieme. Giolitti pensava, come sempre, che si trattasse di far entrare nel sistema i fascisti, e poi di addomesticarli. Il solito sistema che aveva funzionato con i cattolici e spaccato i socialisti. Accettò, e in questo modo entrarono alla camera trentacinque camicie nere. Tra questi anche Mussolini, il quale ebbe un risultato trionfale, specie se paragonato ai duemilacinquecento voti che aveva preso nel 1919: 197.620 voti a Milano, 173.243 a Bologna.

Quindi la violenza sul territorio pagava. […]

Mussolini, avendo il partito a disposizione, sarà pure stato in grado di “dare la linea”. Ma la violenza non l’aveva fermata.

Anzi la teorizzava. Intanto, sia Il Popolo d’Italia che Il Fascio davano conto, senza nasconder nulla, degli eccidi compiuti dai camerati. Ne fornivano una lettura politica. Per esempio, Il Fascio del 19 marzo 1921 scriveva: «Insegnare agli avversari come si lotta e come si muore e, soprattutto, ricordare ai fascisti d’Italia che oggi una tregua d’armi, quando non fosse una enorme sciocchezza, sarebbe una grave colpa».

E quello del 30 aprile:

«Ovunque i fascisti invadono le sedi delle Associazioni bolsceviche, sequestrandone bandiere rosse o nere, espongono il tricolore ai municipi rossi, tengono conferenze e comizi […] I bolscevichi paesani sono letteralmente sbigottiti e terrorizzati e assistono passivamente al crollo del loro edificio […] La parte sana della popolazione, ch’è la grandissima maggioranza, accoglie i fascisti come liberatori e si risveglia e si rianima, come se uscisse da un incubo pauroso».

Quanto a Mussolini, aveva elaborato una filosofia della violenza:

«La violenza non è immorale. La violenza è qualche volta morale. Noi contestiamo a tutti i nostri nemici il diritto di lamentarsi della nostra violenza, perché paragonata a quelle che si commisero negli anni infausti del ’19 e del ’20 e paragonata a quella dei bolscevichi di Russia, dove sono state giustiziate due milioni di persone, e dove altri due milioni di individui giacciono in carcere, la nostra violenza è un gioco da fanciulli.

D’altra parte la nostra violenza è risolutiva, perché alla fine del luglio e di agosto in quarantotto ore di violenza sistematica e guerriera abbiamo ottenuto quello che non avremmo ottenuto in quarantotto anni di prediche e di propaganda. Quindi, quando la nostra violenza è risolutiva di una situazione cancrenosa, è moralissima, sacrosanta e necessaria» (Udine, 20 settembre 1922). […]

Ma possibile che i socialisti… Zitti e buoni, senza reagire mai, a parte qualche episodio, qualche agguato…

Quell’agosto – agosto 1922 – i socialisti tentarono di rovesciare in modo definitivo la situazione, proclamando uno sciopero generale che Turati definì «legalitario». Il professor Scurati ha definito questa mossa «il giocatore che si gioca tutto sull’ultima carta, pronto poi, in caso di sconfitta, a farsi saltare le cervella».

Saputo dello sciopero, il primo di agosto il segretario del Partito nazionale fascista – il calabrese tubercolotico Michele Bianchi, gran testa politica – diffuse un ultimatum: «Diamo quarantotto ore di tempo allo stato perché dia prova della sua autorità in confronto di tutti i suoi dipendenti e di coloro che attentano all’esistenza della nazione. Trascorso questo termine, il fascismo rivendicherà piena libertà di azione e si sostituirà allo stato che avrà dato ancora una volta prova della sua impotenza». 

Da La marcia su Roma, Giorgio Dell‘Arti, La nave di Teseo, 256 pagine, 10 euro

 «La Marcia su Roma fu prova muscolare, ideologica e spettacolare». Egidio Lorito su Panorama il 27 Ottobre 2022.

Lo storico Raffaele Romanelli ripercorre una delle vicende più importanti della vicenda contemporanea italiana. A cento anni esatti e in concomitanza con l'insediamento del Governo Meloni 

Raffaele Romanelli, storico della Sapienza di Roma, ripercorre una delle vicende più importanti della nostra storia contemporanea, evidenziando come «la Marcia su Roma rimane una prova di forza connotata da un vistoso elemento spettacolare, molto ben giocato perché coronato da successo». Proprio nella ricorrenza dei cent’anni della “Marcia su Roma” , Romanelli ha sottolineato come essa «non fu peraltro qualcosa di improvvisato, anche perché poteva contare su due illustri antecedenti, come la dannunziana “Impresa di Fiume” (1919- 1920) e la garibaldina “Spedizione dei Mille” del maggio 1860».

Panorama.it ha incontrato lo storico per cercare di dissipare cento anni di incrostazioni storiche e di fare luce sul vero significato di quell’azione dimostrativa. Professore, siamo alla vigilia di uno degli eventi centrali della nostra storia contemporanea: proprio nell’ottobre del 1922 iniziò il ventennio fascista… «Sì, iniziò, almeno simbolicamente. Perché ricordiamoci che il 29 ottobre Benito Mussolini ricevette l’incarico di formare un governo, che il 16 novembre le Camere votarono la fiducia, e che fino al giugno del 1924 quel governo godette di una robusta maggioranza parlamentare, questione da non sottovalutare discutendo di regime fascista. Comunque, è vero, il 28 ottobre del 1922 è una data importante per gli italiani, come mostra il profluvio di pubblicazioni che l’accompagna». Tra il 1920 e il 1922 un crescendo esponenziale di violenze e di illegalità in tutto il Paese anticipò quella dimostrazione di forza. Lo scopo era di militarizzare la lotta politica in Italia? «La marcia su Roma si caratterizzò per la violenza, come atto di forza, con la concentrazione su Roma, ma anche nelle varie città attraversate, dove gli squadristi, raramente ostacolati, presero posizione davanti alle prefetture, ai commissariati di polizia, alle stazioni e intrapresero trattative con le autorità: lasciando pure qualche morto per le strade. Una violenza diffusa che ha consentito di celebrare la “marcia” come “rivoluzione”: in realtà la violenza era segno dei tempi, perché si era appena usciti da una guerra sanguinosa e la familiarità con le armi era diffusa». Altre sfumature? «Non va dimenticato quanto fosse infuocato, all’epoca, lo scontro di classe. Alle spalle rimaneva il “biennio rosso” 1919-‘20, un’agitazione socialista gonfia di parole rivoluzionarie e di atti cruenti. Si bruciavano bandiere, si insultavano le divise. Da parte fascista le spedizioni punitive incendiavano le case del popolo. Gli omicidi e le violenze fisiche in genere erano all’ordine del giorno».

In realtà la “marcia” vera e propria era stata anticipata a mezzo stampa… «Precisamente da un articolo pubblicato il 6 agosto sulle pagine de “L’Avanti” , dal titolo “Il fascismo alla conquista della Capitale”. Si trattò di una prova muscolare, perché il fascismo stava attraversando un periodo di grande difficoltà: “rischiava di perdere” , disse lo stesso Mussolini». La “marcia su Roma” rappresentò una sorta di gioco politico d’azzardo, allora? «Gli atti di forza acquistano consistenza e rimangono nella storia se hanno successo. Così è stato per la “marcia” , della quale, lo ripeto, non va misconosciuta la componente violenta, soprattutto nelle città di provincia, ma che è ben poca cosa rispetto alla violenza che non ha avuto successo, come è avvenuto in tutti i cicli rivoluzionari dei socialisti massimalisti: e poi anche, in età repubblicana, nel fiume di sangue del terrorismo. E come tutte le prove di forza, ad un certo momento “rischiano di perdere”». Atto di forza dal valore ideologico ben scolpito. Con autorevoli precedenti… «Dunque, sì: una prova di forza connotata da un vistoso elemento spettacolare, molto ben giocato perché coronato da successo. Pensiamo che quell’iniziativa rimase incerta sino alla vigilia (il 28 sera Mussolini era a teatro a Milano, non lontano dal confine svizzero), ma che non fu peraltro qualcosa di improvvisato. Aveva un antecedente incisivo nella dannunziana marcia su Fiume (che costituiva un precedente anche nell’insubordinazione di reparti dell’esercito…). Per non dire del risorgimentale “mito della spedizione”: in fondo, l’11 maggio 1860 un manipolo d’uomini, con Garibaldi al comando, era sbarcato presso Marsala dopo essersi imbarcato alcuni giorni prima a Quarto, nei pressi di Genova. Garibaldi aveva osato e aveva vinto». Marciare su Roma riservava un gusto del tutto particolare… «Come non notare questa sottile sfumatura. Per i fascisti Roma era “il nostro simbolo, il nostro mito” , come aveva detto Mussolini. E ancora si pensi alla pregnanza di una “marcia su Roma” , iniziata sulle rive del Piave, come aveva detto di nuovo Mussolini a settembre, e diretta verso il luogo della politica imbelle, verso i governanti corrotti, una spedizione che del resto si è ripetuta (senza armi) nella storia repubblicana, quando dalla Padania ci si è mossi contro Roma ladrona, simbolo della mafia romana...». All’indomani il re Vittorio Emanuele III conferì a Mussolini l’incarico di formare un nuovo governo, legalizzando così la sua ascesa al potere e normalizzando un vero atto di forza contro le istituzioni dello Stato. «Questo è infatti il punto: la mancata firma dello stato d’assedio presentatogli da Facta, capo del governo. Noi non sappiamo come sarebbero andate le cose se quel decreto fosse stato firmato: certamente lì per lì le bande fasciste sarebbero state facilmente fermate. Ma poi?». La storia - lei lo sa bene - non si fa con i “se” o i “ma”. Ma in questo caso qualche domanda è più che legittima. «Il cedimento del Re, che segnò la monarchia fino all’indecoroso comportamento del 1943, fu il culmine di un tracollo che veniva da più lontano, rappresentò il marasma parlamentare, l’incapacità delle classi dirigenti di governare il paese, la vasta connivenza degli apparati dello Stato con le squadre, l’impotenza dei socialisti, il favore del ceto politico liberale -ancora nel primo pomeriggio del 28 ottobre, Salandra proponeva a Mussolini l’ingresso nel governo». La Storia gioca brutti scherzi: l’anniversario cade in coincidenza con la formazione del nuovo governo. Cent’anni dopo esatti… «Inutile dire che per la gioia degli editori, che da tempo hanno preparato molte opere sul 1922, l’interesse è accentuato dalla singolare coincidenza che fa cadere l’anniversario in un momento in cui il governo della Repubblica antifascista è retto da una leader e un da partito che del fascismo sono lontani eredi». Similitudini? «Non c’è dubbio, in effetti, che molte inclinazioni politiche della destra attuale, come il nazionalismo, la xenofobia, il maschilismo, o il familismo, possano giovarsi dei riferimenti ai regimi fascisti del primo Novecento, che del resto sono vivi nelle memorie e nelle tradizioni familiari di alcuni, e che i Fratelli d’Italia hanno evitato di cancellare. Basti pensare al gusto, ai modi, e alla biografia stessa del presidente del Senato appena eletto. Ma si tratta appunto di gusti e di modi che possono, è vero, incoraggiare qualche gesto sconsiderato di qualche teppista o gruppetto radicale, ma non intaccano la democrazia». E’ passato un secolo, comunque… «Ciò detto, d’altra parte, insistere sul carattere “fascista” , o filofascista, di Giorgia Meloni e dei suoi rischia di nascondere le vocazioni autentiche e le scelte della nuova maggioranza, che poco hanno a che fare col fascismo del secolo scorso e molto con altre tendenze attuali, come l’antieuropeismo, la vicinanza alle democrazie illiberale dell’Est o le ferite inferte ai diritti individuali». *** Raffaele Romanelli, classe 1942, già ordinario di storia contemporanea presso la Sapienza Università di Roma. Laureato nello stesso ateneo romano nel 1966, ha insegnato in diverse università, tra le quali l’Istituto Universitario Europeo di Firenze. Già presidente della Società Italiana per lo studio della storia contemporanea (SissCo), di cui è stato fondatore, per più di venti anni è stato nella direzione della rivista “Quaderni storici”. Dal 2010 al 2020 ha diretto il Dizionario biografico degli italiani curato dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana. Nelle mani del popolo. Le fragili fondamenta della politica moderna (Donzelli, 2021) è la sua pubblicazione più recente: ha in corso di stampa presso Laterza L’Italia e la sua Costituzione. Una storia.

Quella «calma» violenza fascista. Così il «Corriere» sulla Marcia su Roma. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Ottobre 2022.

«Calme occupazioni di città settentrionali e meridionali»: suona quasi come un ossimoro il titolo con cui il «Corriere delle Puglie» del 29 ottobre 1922 dà notizia della marcia su Roma e degli assalti violenti agli edifici pubblici che le camicie nere, su ordine di Mussolini e dei quadrumviri, hanno compiuto in tutto il Paese. Il Consiglio dei Ministri guidato da Luigi Facta, che solo due giorni prima ha rassegnato le dimissioni al Re, ha proclamato lo stato d’assedio in tutte le province del Regno. Sul «Corriere» si riporta il proclama governativo: «Manifestazioni sediziose avvengono in alcune province d’Italia, coordinate al fine di ostacolare il normale funzionamento dei poteri dello Stato e tali da gettare il Paese nel più grave turbamento. Il Governo, fino a quando era possibile, ha tentato tutte le vie della conciliazione nella speranza di ricondurre la concordia degli animi e di assicurare la tranquilla soluzione della crisi. Di fronte ai tentativi insurrezionali, esso dimissionario, ha il dovere di mantenere con tutti i mezzi, ed a qualunque costo l’ordine pubblico». Le cose, invece, andranno diversamente. Anche Foggia è occupata dagli squadristi: i cronisti del «Corriere» incontrano l’onorevole Giuseppe Caradonna, capo dello squadrismo agrario pugliese, mentre guida 150 camicie nere - nonché alcuni Carabinieri «senz’altro passati al Fascio» - e si mette alla testa del corteo che sfila per la città, preceduto da cartelli con le scritte «Viva il Re, Viva Mussolini, Viva Caradonna». Nel capoluogo dauno si sono concentrate, in realtà, le legioni pugliesi che tornavano dalla grande adunata fascista tenutasi a Napoli il 24 ottobre: dopo colloqui con il prefetto e alcuni scontri con alcuni reparti dell’esercito, l’on. Caradonna ha assunto il comando della città. Un’analoga situazione si è verificata a Brindisi, dove non si sono verificati gravi incidenti, e in molte altre città della regione. A Bari le due sedi delle Camere del Lavoro sono state occupate militarmente, ma la sera del 28 ottobre in città si è potuta persino svolgere l’inaugurazione del Cinema Umberto, nell’omonima piazza, a cui hanno partecipato autorità civili e militari e il Consiglio comunale quasi al completo. Nel pomeriggio, intanto, si è diffusa l’assurda notizia: l’ordine dello stato d’assedio è stato revocato. Vittorio Emanuele III si è rifiutato di firmare il decreto: è solo la prima delle decisioni scellerate assunte dal sovrano nel corso di un ventennio, la prima di una serie di azioni complici e colpevoli che spianano la strada al disegno del futuro duce. Il re è già sotto il ricatto di Mussolini, a cui il giorno dopo affiderà l’incarico di formare un nuovo governo.

Le camicie nere verso la Capitale. Il racconto della Marcia di cent’anni fa. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Ottobre 2022

«Calmo concentramento di camicie nere intorno a Roma», «tranquillità in tutta Italia», si legge sul Corriere delle Puglie del 28 ottobre 1922: un’ossessiva insistenza sulla quiete sembra quasi rivelare che, in realtà, la situazione sta diventando sempre più tesa in tutta Italia. Dopo giorni di esitazione la decisione è stata presa: il capo del governo Luigi Facta, entrato in carica nel febbraio 1922, si è dimesso. «Il Consiglio dei Ministri di questa sera è stato molto importante non solo per la deliberazione di rassegnare le dimissioni all’arrivo del Re, ma anche per le misure adottate allo scopo di tutelare l’ordine pubblico. Già da cinque giorni, in base ad istruzioni precise inviate dalle supreme autorità centrali, erano stati ordinati preventivamente i passaggi all’autorità militare dei poteri dei Prefetti».

I fascisti non perdono tempo, la mobilitazione deve irrevocabilmente iniziare. Da diverso tempo pianificano di prendere il potere con la forza: l’idea di un’azione sediziosa di reparti armati che marciano verso la capitale per abbattere il governo in carica, in realtà, era nata nell’ambiente dannunziano al tempo dell’impresa di Fiume. La dislocazione delle forze fasciste e la concentrazione nella capitale si rende necessaria, inoltre, a causa della minore presenza di squadristi a Roma rispetto ad altre zone del centro-nord: il piano prevede, dunque, l’assunzione del comando da parte dei quadrumviri e l’occupazione degli edifici pubblici delle principali città: una volta resa concreta la minaccia, sarebbe stato inviato un ultimatum a Facta per la cessione dei poteri. Azioni analoghe, in scala minore, erano state già intraprese nell’estate del 1922 in occasione delle occupazioni di diversi municipi. Mussolini teme, però, che l’intervento dell’esercito possa vanificare ogni sforzo: per questo ha messo in atto una complessa manovra strategica volta a rassicurare il Re e a ottenere che gli alti gradi dell’esercito rinuncino a reagire alla marcia dei fascisti.

«Al Ministero degli Interni è giunta oggi la notizia della partenza di due treni dalla stazione di Pisa, carichi di fascisti diretti a Roma», si legge sul Corriere. In effetti, nella serata del 26 ottobre dalla città toscana si è dato il via alle operazioni. Mussolini, da Napoli, dove qualche giorno prima ha presenziato ad una grande adunata, che è servita come prova generale e come diversivo per il più grande progetto, è tornato a Milano: al sicuro e abbastanza vicino al confine svizzero, segue con impazienza lo sviluppo degli eventi. È il 28 ottobre 1922: per vent’anni si sovrapporrà un nuovo calendario che avrà come punto di partenza proprio questa data. È iniziata l’era fascista.

Cento anni fa la Marcia su Roma: cosa accadde il 28 ottobre 1922. Il 28 ottobre di cento anni fa le colonne fasciste si fermarono alle porte di Roma. Si apriva così la ventennale parabola mussoliniana. Marco Valle il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Il 28 ottobre di cento anni fa le colonne fasciste si fermarono alle porte di Roma in attesa del loro duce che, due giorni dopo, le raggiunse viaggiando in vagone letto. Dopo aver conferito con Vittorio Emanuele III - “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto” - il 30 ottobre Benito Mussolini, nuovo presidente del Consiglio, presentava il suo governo, comprendente solo tre fascisti. Una sorta di “matrimonio di convenienza” tra l’establishment e un fascismo - visti i rapporti di forza e l’iniziale impreparazione “governista” dei suoi quadri - obbligatoriamente pragmatico e inclusivo. Un compromesso esiziale che si prolungherà ambiguamente, tra accelerazioni movimentiste e resistenze conservatrici, sino al redde rationem del 25 luglio 1943.

Si apriva così la ventennale parabola mussoliniana, una pagina di storia contradditoria e ancora lacerante che ricorda le pitture di Caravaggio e Rembrandt, un continuo contrasto tra luci e ombre. Tinte forti, cupe rischiarate da improvvisi bagliori. Su quell’esperienza, drammaticamente e definitivamente conclusasi il 28 aprile 1945 sul lago di Como, gli storici, risalendone le cause e gli sviluppi - Renzo De Felice in primis - hanno dato da tempo il loro giudizio inequivocabile.

Si trattò di un fenomeno originale e irripetibile che ci riporta al 1919, quando all’indomani della vittoria, l’intero edificio post-risorgimentale monarchico e liberale, scosso dal “biennio rosso” e la parallela ascesa del movimento fascista, iniziò a traballare pericolosamente. Un sisma politico (e generazionale) alimentato dalla rabbia di importanti spezzoni del proletariato operaio e contadino, affascinati dai richiami della rivoluzione leninista, e dall’opposto rancore (e dalle molte speranze) di milioni di reduci. Il “partito del fronte”. I veterani dell’Isonzo e del Grappa, del Col Moschin e di Premuda. Non solo una massa d’uomini ma, come ben individuato da De Felice, "una parte della società italiana sino allora restata in disparte. E questa parte, mobilitata per la guerra, esclusa dal potere effettivo, dalla partecipazione, tese, attraverso il fascismo, a rivendicare, ad acquistare una sua funzione".

Il conflitto, dunque, come breccia alle dinamiche dei ceti medi emergenti, quelle tante articolazioni di una piccola borghesia sino allora schiacciata tra proletariato e notabilato, che dall’immane scontro di masse, tecnica e materiali aveva tratto un’identità forte e cercava una funzione politica rivoluzionaria. Sullo sfondo la “cultura della crisi”: Nietzsche, Bergson, Sorel, Pareto, Gentile, D’Annunzio, Costamagna, Pirandello e poi il Futurismo con Marinetti, il sindacalismo rivoluzionario con Corridoni.

Fu questa l’intuizione di Mussolini, l’ex agitatore massimalista romagnolo che, attraverso l’interventismo e la trincea, seppe trasformare in soli due incredibili anni un manipolo di stravaganti irregolari - gli uomini di piazza San Sepolcro: futuristi, repubblicani, sindacalisti, ex arditi, artisti, avventurieri, qualche massone - in una forza politica innovativa e capace, in quell’ottobre 1922, d’imporsi alla vecchia classe dirigente e alla monarchia sabauda, timorosi di un “salto nel buio”.

Come largamente indagato da De Felice, l’avvento e il consolidarsi del fascismo fu un processo complesso e contradditorio e di certo non riassumibile in quella “autobiografia della nazione” delineata da Piero Gobetti. L’esperienza mussoliniana fu tutt’altro che “una normalizzazione di masse quietistiche” o un mero “fatto d’ordinaria amministrazione” e il regime non si consumò, nonostante le pressioni passatiste, su orizzonti conservatori e/o reazionari.

Riprendendo la lezione defeliciana, si può tranquillamente sostenere che in Italia, nell’arco di un ventennio, sviluppò un tentativo di modernizzazione autoritaria - fonte d’ispirazione anche per le sinistre non marxiste europee e per il New Deal statunitense - ritmata da un’inedita mobilitazione e partecipazione delle masse. A cui è doveroso aggiungere, come fece il Maestro reatino: "Che ciò sia stato realizzato in forme demagogiche è un’altra questione: il principio è quello della partecipazione attiva, non dell’esclusione. Questo è uno degli elementi, diciamo così rivoluzionari. Un altro elemento rivoluzionario e che il fascismo italiano - anche qui si può dire demagogicamente, ma è un altro discorso - si pone un compito, quello di trasformare la società in una direzione che non era mai stata né realizzata".

Cent'anni dopo, con buona pace di quella stramba corte mediatica - quei personaggi che De Felice definiva i “professionisti dell’antifascismo senza fascismo” - che continua a evocare con toni apodittici lo spettro del defunto regime, rimane sul tavolo - e non è cosa da poco - un’ipotesi di studio su una “terza via” tra liberismo e marxismo, prima trionfante e poi incenerita da una sconfitta disastrosa. Un fenomeno storico articolato e tragico da indagare con scientificità e serenità. Senza paraocchi, schematismi e isterismi. Il tempo finalmente è giunto.

La marcia cha aprì le porte al fascismo. Cento anni fa la marcia su Roma: quando il Re Vittorio Emanuele ebbe paura di Mussolini. David Romoli su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Piove. Diluvia su decine di migliaia di camicie nere che, male armate e senza viveri sguazzano nel fango a decine di km da Roma. La pioggia si abbatte su Perugia dove i quadrumviri che dovrebbero guidare la marcia fascista su Roma faticano anche solo a incontrarsi tra loro. Grandi e De Vecchi si decidono a raggiungere la città solo a tarda notte ma nel frattempo Italo Balbo è corso a Firenze dove l’insurrezione minaccia il capo dell’esercito Armando Diaz in persona. A Roma piove e fa freddo, tanto che nella sua stanza all’Hotel Londres il presidente del consiglio Facta si è addormentato coprendosi con i pantaloni e la giacca. Lo trovano così i sottosegretari Rossini e Beneduce quando alle 3 di notte si decidono a svegliarlo.

Nella ore precedenti il ministero degli Interni è stato bombardato da telefonate e telegrammi che registrano l’inizio dell’insurrezione in moltissime città: prefetture e uffici telegrafici occupati, concentramenti di fascisti armati, spesso casi di fraternizzazione tra insorti ed esercito. A Milano Cesare Rossi e Aldo Finzi si sono presentati minacciosi nelle redazioni dei maggiori giornali avvertendoli di non provare a ostacolare gli eventi. Qualcuno si piega, qualcuno no. Al Viminale solo il capo di gabinetto del ministro degli Interni Efrem Ferraris è rimasto di guardia ed è lui il primo a rendersi conto di quel che sta succedendo nel Paese: “Assistevo nella notte, nel silenzio delle grandi sale, allo sfaldarsi dell’autorità e dei poteri dello Stato”.

Svegliato di soprassalto Facta si sposta al ministero della Guerra, convoca il generale Pugliese e poi, per le 5 al Viminale, il consiglio dei ministri. Sbotta in stretto dialetto piemontese: “Se a voelo avnì a devo portame via a toch”, se vogliono venire devono portarmi via a pezzi. Il parere del governo è unanime: fermare i fascisti alle porte di Roma non basta. Bisogna proclamare lo stato d’assedio. Anche Riccio, l’uomo di Salandra, è furibondo: «Mussolini si è fatto prendere la mano. Ci vuole lo stato d’assedio». Alla riunione presenzia anche l’aiutante di campo di Vittorio Emanuele, il generale Cittadini e dice senza mezzi termini che il re vuole lo stato d’assedio. Dopo meno di un’ora di riunione, il Consiglio si pronuncia all’unanimità per proporre al re, a cui spetta l’ultima parola, la proclamazione dello stato d’assedio.

Il bando preparato da Pugliese vieta, a partire dalle 12, le riunioni pubbliche oltre cinque persone, revoca tutte le licenze di portare armi e stabilisce la chiusura di tutti i negozi di armi, proibisce la circolazione delle automobili private e dei mezzi pubblici, sospende tutti gli spettacoli, fissa per le 21 l’obbligo di chiusura per tutti i negozi. Alle 7.50 la notizia dello stato d’assedio da mezzogiorno viene comunicata a tutti i prefetti e comandanti militari. A Roma reparti dell’esercito presidiano i palazzi del potere circondati dai cavalli di frisia, le truppe bloccano ponti e punti d’accesso alla città. Il ministro ordina l’occupazione delle sedi fasciste e l’arresto dei capi del fascismo a Roma e chiede al prefetto Lusignoli di prepararsi a fare lo stesso a Milano. Alle 8, mentre vengono bloccate le linee ferroviarie intorno a Roma, sull’agenzia di stampa Stefani viene data la notizia dello stato d’assedio.

Mezz’ora dopo i muri di Roma sono tappezzati dai manifesti con il proclama mentre scattano la censura sul telegrafo e l’interruzione di tutte le linee telefoniche. Al re viene consigliato di spostarsi al più presto, per sicurezza, dalla residenza privata di Villa Savoia al meglio difeso Quirinale. La notizia battuta dall’agenzia Stefani precipita nel caos i quadrumviri che, senza telefoni, arroccati a Perugia da dove spostarsi in treno è quasi impossibile, non riescono a comunicare con le colonne che dovrebbero “scattare su Roma” e che, a loro volta, non riescono a mettersi in contatto tra loro. Flagellati dalla pioggia, senza ordini né coordinamento, affamati, i fascisti invece di marciare restano per ore bloccati a decine di km da una Roma irraggiungibile e presidiata dall’esercito.

Alle 9 però il re non ha ancora convocato Facta per firmare lo stato d’assedio. Il primo ministro si presenta senza invito a Villa Savoia, con la voluminosa busta gialla contenente il proclama sullo stato d’assedio. Il re non firma. Prima rimprovera a Facta la decisione di affiggere i manifesti prima del suo ordine, poi taglia corto: “Non firmo un decreto che non approvo”. Quindi licenzia Facta con un commiato che suona come una sentenza: “Occorre che uno di noi si sacrifichi”. Non c’è bisogno di specificare che il sacrificato sarà Facta, costretto alla più umiliante fra le retromarce. Alle 12 il ministro Taddei comunica a prefetti e comandanti che le disposizioni sullo stato d’assedio non devono più essere applicate. Poco dopo un secondo telegramma cancella l’ordine di arrestare i capi fascisti. Alle 13 l’agenzia Stefani annuncia il contrordine. Trafelati, gli uomini della polizia si affannano per strappare o coprire tutti i manifesti col proclama. La città, che si era svegliata in una situazione da guerra civile, festeggia. I fascisti sentono di avere la partita in mano e con i nazionalisti manifestano entusiasti di fronte al Quirinale.

Sul perché tra le 5 e le 9 del mattino del 28 ottobre il re abbia cambiato idea sullo stato d’assedio non vi è alcuna certezza ma solo ipotesi, ognuna parzialmente avvalorata dalle pochissime frasi che Vittorio Emanuele si lascerà sfuggire nei decenni successivi. Probabilmente alla scelta concorsero diverse ragioni. Il re lamenterà in seguito di essere stato “lasciato solo” da un governo che, dopo aver sottovalutato sino all’ultimo la minaccia, si presentava dimissionario. Certamente temeva la guerra civile, probabilmente sopravvalutando la forza della Milizia ma anche perché i comandanti della Marina Thaon di Revel e dell’esercito Armando Diaz erano stati tutt’altro che traquillizzanti: «L’esercito sarà fedele però sarebbe meglio non metterlo alla prova», aveva avvertito Diaz. Probabilmente il sovrano temeva che una crisi avrebbe potuto portare alla sua sostituzione con il cugino Emanuele Filiberto, duca d’Aosta, sostenuto dai fascisti, e pesavano anche le simpatie per Mussolini della regina madre. Infine è certo che il re considerasse ancora possibile chiudere la crisi senza affidare l’incarico a Mussolini ma con quella partecipazione dei fascisti al governo alla quale puntavano da settimane tutti i leader liberali.

Proprio perché ancora non ritiene necessario nominare il duce presidente del consiglio il re, trasferitosi al Quirinale, avvia nella stessa mattinata le consultazioni. Così riparte il valzer delle trame. Facta esorta Giolitti a precipitarsi a Roma. L’anziano leader accampa un raffreddore, poi si convince ma le linee ferroviarie sono interrotte a causa del maltempo e deve rinunciare. Il re punta su Salandra, a cui assegnerà l’incarico alle 18. Convocato dall’aiutante di campo Cittadini a nome di Vittorio Emanuele, De Vecchi, con Grandi, riparte per Roma. Non prima di aver firmato con gli altri quadrumviri una solenne dichiarazione che non lascia alternative alla nomina del duce e che disattenderà appena rientrato nella capitale.

Al Quirinale De Vecchi viene ricevuto dal sovrano in persona che gli chiede se i fascisti sono pronti a sostenere il governo Salandra. Ma De Vecchi non può impegnarsi senza l’assenso di Mussolini e Mussolini, nonostante pressioni iniziate ancora prima che fosse cancellato lo stato d’assedio, non ha alcuna intenzione né di dare il via libera a Salandra né di farsi vedere a Roma, nonostante la richiesta dello stesso re. Prova a convincerlo Federzoni: il duce glissa. Ritenta il deputato nazionalista e futuro ministro della Giustizia Alfredo Rocco, che guida una delegazione di politici e industriali nella redazione del Popolo d’Italia: Mussolini risponde che “non è più tempo di governi Salandra o Orlando” e anzi consegna a Rocco la lista dei ministri che intende nominare nel suo governo, perché la notifichi a Roma. Torna alla carica nel pomeriggio Cittadini.

Il capo del fascismo rifiuta: “Non posso muovermi da Milano se non ho l’incarico ufficioso di formare il governo”. Insistono De Vecchi, Grandi e Ciano. Il capo li gela: «Non valeva la pena di fare una rivoluzione per una soluzione Salandra-Mussolini.» A tarda notte De Vecchi, Grandi e Ciano tentano l’ultima carta: un telegramma per dire che a volere il governo Salandra è il re. Mussolini risponde con un altro telegramma: «Fate pure. Io non parteciperò mai a un simile ministero. Mussolini». David Romoli

La ricostruzione autoassolutoria del nostro passato. Ecco perché il fascismo non ci fa più orrore. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

1. Ricorre domani, 28 ottobre 2022, il centenario della Marcia su Roma. Vedremo se e come Meloni ricorderà l’evento aurorale del regime mussoliniano, data d’inizio per il calendario dell’Era fascista. In tal caso, ascolteremo le sue parole con la dovuta attenzione perché non saranno più quelle di Giorgia (donna, madre, italiana, cristiana), ma della Presidente del Consiglio che, con il suo dire, impegna la Nazione cui è alla guida. Nell’attesa, l’avvio di questa XIX legislatura ha già mostrato alcuni sbalorditivi testacoda tra presente e passato.

Il primo, il 16 ottobre scorso, nella ricorrenza del rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma poi avviati nei campi di sterminio, avvenuto nel 1943. La nota di ferma condanna diffusa dalla leader di Fratelli d’Italia ha suscitato reazioni contrastanti: dall’apprezzamento per le «parole particolarmente impegnative» di messa all’indice del nazifascismo (Fiamma Nirenstein), al vigile consenso per le «frasi ineccepibili» da valutare senza preconcetti (Lia Levi), fino allo scetticismo dichiarato per il ricorso, giudicato strumentale, a «parole vuote per legittimarsi» (Edith Bruck).

Il secondo testacoda si è consumato con l’avvicendamento sul seggio più alto di Palazzo Madama tra la senatrice Liliana Segre e il neo-presidente Ignazio Benito La Russa. Non è stato un semplice scambiarsi di posto: ascoltato dalla prima un discorso autenticamente antifascista, l’Assemblea ha poi eletto alla presidenza il secondo, fascista «convinto e non pentito, erede orgoglioso del solo partito della prima Repubblica escluso dall’arco costituzionale» (David Romoli, il Riformista, 6 ottobre). E così – come ha scritto il Direttore di questo giornale – «dopo 80 anni un fascista arriva al vertice dello Stato e ne diventa il numero due». Lawful but awful: lecito ma terribile.

Dunque, la matrice post-fascista di un partito e la biografia neo-fascista di un politico sono aspetti oramai irrilevanti. Come erba falciata, scompaiono dal campo politico-istituzionale. Inutile lagnarsi o indignarsi. Semmai, serve capire il paradosso di un Paese senza memoria eppure prigioniero di un passato che ritorna attraverso i suoi epigoni, votati da 7.300.000 italiani: tutti fascisti?

2. L’odierno lasciapassare politico ed elettorale, in realtà, è il frutto maturo di una ricomposizione autoassolutoria del nostro passato. A dispetto del lavoro non reticente degli storici – oggi accessibile a tutti anche in forma letteraria, grazie alla quadrilogia di Antonio Scurati – la nostra resta una memoria edulcorata e patteggiata. La si vede, in controluce, finanche in una legge simbolica come la n. 211 del 2000, istitutiva del Giorno della Memoria.

Infatti, abbiamo scelto di saldarlo al 27 gennaio 1945 (quando vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz) e non al 16 ottobre 1943, che pure era la data suggerita nella mozione 1-00092 (primo firmatario l’on. Furio Colombo) che diede impulso al relativo dibattito parlamentare. C’è un significativo slittamento di senso tra queste due date: se quella scartata chiamava in causa la diretta responsabilità del fascismo nella Shoah, la data prescelta ne diluisce la correità all’interno di una tragedia (non più nazionale, ma) continentale. Non è una coincidenza. Anche il titolo della legge è ugualmente reticente: il Giorno della Memoria è istituito «in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici nei campi nazisti». Una denominazione dove le complicità italiane restano in ombra, soverchiate dalle colpe del partito nazionalsocialista tedesco: infatti, anche nel testo legislativo non ricorrono mai né il sostantivo «fascismo» né l’aggettivo «fascista». Omissione compiuta.

Del resto, all’enfasi legislativa sulla memoria della Shoah non ha mai corrisposto un’adeguata legislazione riparatoria e risarcitoria per le vittime delle leggi razziali (cioè razziste) del 1938, oggetto da sempre di interpretazioni burocraticamente restrittive (cfr. ord. n. 231/1996 della Corte costituzionale). Così come le correità personali nell’applicazione di quelle stesse leggi non hanno precluso sontuosi cursus honorum, fino alla Consulta: i giudici costituzionali Gaetano Azzariti (che ne sarà presidente), Giuseppe Lampis e Antonio Manca erano stati membri del Tribunale della Razza; il giudice Luigi Oggioni era stato procuratore generale della RSI.

3. La giuridificazione della nostra memoria storica, per sovrappiù, sembra un’altalena che oscilla da una sponda (politica) all’altra, alla ricerca di «un improbabile equilibro bipartisan» (Daniela Bifulco, Negare l’evidenza, Franco Angeli, 2012). Così, per comando legislativo, dopo aver istituito il Giorno della Memoria (n. 211 del 2000) e ripristinato il 2 giugno quale Festa della Repubblica (n. 336 del 2000), abbiamo poi moltiplicato le giornate commemorative: in ricordo delle vittime delle foibe (n. 92 del 2004), del crollo del muro di Berlino (n. 24 del 2005), dei Giusti dell’Umanità (n. 212 del 2017).

Ma il cantiere della memoria bipartisan è sempre aperto, come dimostrano i disegni di legge – proposti nelle scorse legislature – miranti a cerchiare nuove date sul calendario civile della nazione: 19 febbraio (Giornata in ricordo delle vittime africane durante l’occupazione coloniale italiana); 13 aprile (Giornata a ricordo dei crimini commessi dai regimi comunisti); 18 aprile (Giornata della democrazia italiana); 10 giugno (Giornata della memoria delle vittime del fascismo); 24 agosto (Giorno del ricordo delle vittime cadute nei gulag sovietici); 8 settembre (Giornata della rinascita della Patria); 9 settembre (Giornata del riscatto nazionale); 20 settembre (Giornata della laicità e a ricordo del completamento dell’Unità d’Italia); 24 settembre (Giornata del ricordo in memoria dell’eccidio di Cefalonia); 9 novembre (Giornata della memoria delle vittime del comunismo). Buon ultimo è il 17 marzo (proclamazione del Regno d’Italia), ipotecato dal presidente La Russa con il suo discorso d’insediamento.

4. Questa macedonia di rimembranze non concorre a fondare quel «patto tra le generazioni, tra memoria e futuro», invocato dalla senatrice Segre quando – riferendosi al 25 aprile, 1 maggio e 2 giugno – invitava a vivere il nostro calendario civile «con autentico spirito repubblicano». Al contrario, ne è d’ostacolo. Infatti, come un cappotto usato, l’eccesso di memoria legislativa si rovescia nel suo contrario perché «non si dimentica per cancellazione, ma per sovrapposizione, non producendo assenza, ma moltiplicando le presenze» (Umberto Eco docet). Memoria e oblio si contendono lo stesso spazio e il surplus dell’una esige sempre la compensazione ad opera dell’altro.

Se poi l’inflazione memoriale è dovuta ad un esercizio di equilibrismo bipartisan, il comando normativo si rivela anche un modo per ricordare male. Induce, infatti, all’artificiosa assimilazione e al livellamento banalizzante, perché i troppi eventi ricordati vengono collocati tutti sull’identico piano. L’oblio storiografico, infine, trova il suo più grande alleato nello scorrere del tempo. Opporsi ad esso «appare come la più tragica delle cause perse» (Alessandro Piperno, Contro la memoria, Fandango, 2012), tanto più se la combattiamo con le armi sbagliate della memoria legislativa e della commemorazione istituzionalizzata che – alla lunga – muta in ingannevole e stanca routine. Ecco perché, «paradossalmente, la celebrazione della memoria può significarne la sconfitta» (Javier Cercas, L’impostore, Guanda, 2015).

5. Riassumendo. L’illusoria pretesa di colmare l’assenza di una memoria storica collettiva attraverso la giuridificazione del ricordo rivela un esito opposto: l’italiano conosce poco la propria storia e la rammenta in modo accondiscendente. Invece di ricostruire il presente alla luce del passato, ha preferito ricostruire il passato in funzione del presente. Astemi di storia vera, ma ebbri di memoria addomesticata, abbiamo così trasformato il fascismo in un ologramma. Decontestualizzato e disincarnato, è un sembiante che nulla ha più a che fare con il suo tragico originale. Grazie a questo abracadabra, abbiamo potuto guardarci allo specchio e autoassolverci: «Italiani, brava gente».

E così, oggi, rivendicare le proprie origini “fasciste” è segno di apprezzata coerenza; votare un partito post-fascista è un’opzione come un’altra; fare i conti con l’eredità del “fascismo” è operazione a saldo di meri gesti simbolici e contrite parole. Servirebbe ben altro, invece. Solo tenendolo ben piantato nella storia, il fascismo può essere realmente compreso: cioè – come rivela l’etimo verbale – «preso con sé». E il comprendere è fatto non per conoscere o per giustificare, ma per prendere posizione contro quanto accaduto, qui e non altrove.

6. Prendere posizione contro il fascismo è esattamente quanto prescrive la Costituzione repubblicana. Per loro natura, infatti, le carte costituzionali sono come un segnalibro nelle storie nazionali che separa un “prima” da un “dopo”. Così anche la nostra, laddove esprime l’antitesi radicale – storicamente fondata – tra il nuovo ordinamento repubblicano e il fascismo.

Lo fa vietando «la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» (XII disp. fin.), incapsulando così l’unico limite ideologico alla libertà di associazione. Lo ribadisce – nei suoi artt. 18 e 49 – mettendo al bando l’uso della violenza nella lotta politica, memore del militarismo fascista che «accompagna fin dall’inizio la costruzione di un partito che diventa stato» (Marcello Flores-Giovanni Gozzini, Perché il fascismo è nato in Italia, Laterza, 2022, che ne quantificano, con precisione, il relativo carico di violenza). A giudicare dal presente, alla Repubblica antifascista è subentrata una Nazione blasè, dimentica delle storie di ieri solo perché «i nuovi capi hanno facce serene/e cravatte intonate alla camicia». Un vuoto di memoria, tanto imbarazzante quanto temerario. Andrea Pugiotto

Marcia su Roma, dopo 100 anni che cos’è il nuovo fascismo: è sia a destra che a sinistra. Piero Sansonetti su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Esattamente 100 anni fa, sabato 28 ottobre 1922, i fascisti marciavano su Roma. Mussolini insieme ai famosi quattro quadrumviri Italo Balbo, De Vecchi, De Bono e il segretario del partito Bianchi, marciarono su Roma. Il re Vittorio Emanuele III di Savoia, anziché firmare lo stato di assedio e respingere l’attacco fascista chiamò Mussolini e lo incaricò di formare il nuovo governo. Il partito fascista aveva partecipato alle elezioni politiche sia nel 1919 – venendo sconfitto clamorosamente – sia nel 1921, dove presero circa il 7% in alleanza con i giolittiani.

Il re decise di dare l’incarico al capo dei fascisti che aveva 35 deputati in Parlamento e che riuscì a formare il governo perché una gran parte dei liberali, dei popolari e anche dei socialdemocratici, si allearono con Mussolini e fu formato il primo governo. Poi nel 1924 si rivotò con una nuova legge elettorale, furono elezioni drammaticissime perché le violenze fasciste resero impossibile la campagna elettorale, ci furono anche molti brogli e Mussolini trionfò, prese più del 60% dei voti. Ci fu poi il famoso discorso alla Camera di Giacomo Matteotti che era il capo del Psi che denunciò i brogli e dopo quel discorso fu rapito e ucciso dalle squadre fasciste.

Fu l’unico momento in cui il fascismo tremò, si pensò anche che Mussolini cadesse, i liberali e i socialisti si ritirarono sull’Aventino, uscirono dal Parlamento guidati da Giovanni Amendola. E invece Mussolini entrò alla Camera, fece un famoso discorso nel quale rivendicò l’omicidio di Matteotti e disse: “Se il fascismo è un’associazione a delinquere io sono il capo di questa associazione e potrei trasformare questo parlamento in un bivacco per i miei manipoli”. L’azzardo funzionò, Mussolini vinse e poi il fascismo non si fermò più, non si è mai più votato. Ci furono delle elezioni pochi anni dopo ma con una sola lista.

Poi è successo quello che sapete, nel 1925 le leggi speciali, nel 1926 fu arrestato Gramsci e tutti gli altri capi dell’opposizione scapparono all’estero, poi le leggi razziali, la guerra devastante e poi l’olocausto. Nel 1945 grazie ai partigiani e all’esercito angloamericano è finito tutto. Sono passati 100 anni da quella pagina nerissima della storia Italiana.

Io chiedo: Oggi c’è ancora il rischio del fascismo? E rispondo No e Si. No di quel fascismo no, per tanti motivi. Perché l’Europa ha fatto un clamoroso salto di civiltà, in quella metà del ‘900 l’Europa ha toccato il punto più basso di tutta la Storia e poi negli anni successivi si è sviluppata clamorosamente grazie anche alla spinta di alcune grandi ideologie: quella liberale, quella socialista, soprattutto dopo Bad Godesberg che portò il marxismo alla democrazia, quella cristiana, quella democristiana. Un grande salto di civiltà e quindi quel rischio lì non c’è più. Il fascismo violento, mussoliniano, le leggi razziali, l’antisemitismo. No, non c’è più quel rischio.

Però è fortissimo il rischio di un nuovo fascismo che io vedo, e che cos’è? È l’intolleranza, l’illiberalità, il forcaiolismo, il giustizialismo che è fortissimo sia a destra che a sinistra. È forte a destra, non c’è niente da fare. In Giorgia Meloni – che sostanzialmente è una politica democratica – sono fortissime le pulsioni fasciste. Pensate come usa la parola ‘Nazione’. Perché deve usare la parola ‘Nazione’ se in Italia si è sempre utilizzata la parola ‘Paese’ se in America si dice ‘Country’ e non ‘Nation’? perché Nazione è quella parola dalla quale nasce il Nazionalismo, l’embrione del Fascismo. E a lei piace. A lei piace dire merito, famiglia, patria, Dio. Piace perché è il richiamo a quel tipo di tradizione. E poi piace dire ‘più carceri’ perché c’è un fondo di ideologia illiberale, antigarantista, giustizialista, che è fortissimo nella destra: sia in quella di Fratelli d’Italia sia nella Lega. Certo non in Forza Italia che è un partito liberale vero e quindi garantista.

Un altro tipo di cultura giustizialista sta dall’altra parte, fondamentalmente nei cinquestelle che sono il partito che più ricorda – seppur incoltamente – il dannunzianesimo e una certa spinta di tipo fascista nel senso di spinta autoritaria, spinta illiberale, la necessità di mettere le genti in prigione, di aumentare il numero delle prigioni, di aumentare le manette, le pene, di abolire la prescrizione, abolire le indulgenze, di mettere il carcere duro. L’avete sentito per caso Scarpinato? Ha fatto un discorso che, senza offendere nessuno, era un discorso dove i germi del fascismo erano fortissimi. La sua idea è che la politica deve essere il pezzo degli eletti non si sa da chi, prescelti non si sa da chi. Quelli puri, quelli buoni, quelli che difendono la legalità. Gli altri fuori, la democrazia non è per tutti. E dietro a Scarpinato c’era anche un pezzo di Pd che ha applaudito.

Vedete, questa è la questione vera. Io credo ancora nell’antifascismo come lotta per la libertà, per il garantismo, per l’accoglienza, per l’uguaglianza. Ma ci sono gli antifascisti in Italia? Si, forse ci sono ma sono pochissimi. Per questo il rischio di un fascismo moderno è ancora vivissimo. 

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'anniversario del putsch di Mussolini. Il fascismo è ancora un pericolo: quali sono i rischi per il nostro Paese. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Ottobre 2022

Cent’anni fa ci fu la marcia su Roma. Il 28 ottobre del 1922. Era sabato. La marcia fu guidata da Benito Mussolini, capo di un piccolo partito, cioè il partito fascista, che alle elezioni dell’anno precedente aveva eletto 35 deputati su 535. Il partito di Mussolini era entrato in parlamento grazie all’alleanza con i liberali di Giolitti. La marcia avvenne dopo mesi di violenze, delitti, uccisioni di militanti antifascisti, roghi nelle prefetture, nelle camere del lavoro, nelle sedi socialiste.

Il re, in quel tragico giorno di autunno, cedette al panico e invece di firmare lo stato d’assedio che gli era stato chiesto dal primo ministro chiamò Mussolini e gli consegnò l’incarico di formare il nuovo governo. Come mai Mussolini, che controllava circa il 7 per cento del Parlamento, riuscì ad avere l’incarico dal re e poi la fiducia dalla Camera? Perché molti settori liberali, e anche in parte popolari, si convinsero che la cosa migliore da fare fosse piegarsi. Serviva a spegnere l’incendio. Non sapevano chi era Mussolini? Non conoscevano il torrente di violenze e delitti che avevano preceduto la marcia su Roma? Sapevano, conoscevano.

In politica molti hanno doti e molti hanno difetti. Il difetto più comune è la vigliaccheria. Da quel giorno, e per molti anni, l’Italia non fu più uno stato di diritto. Si tornò a votare con pluralità di liste solo una volta, nel 1924, ma furono elezioni sfregiate da una campagna elettorale nella quale la violenza fascista dominò tutto, e poi il voto fu inquinato dai brogli. Il successo di Mussolini fu clamoroso, prese più del 60 per cento dei voti. Il capo dei socialisti, Giacomo Matteotti, pronunciò un furioso discorso in parlamento per denunciare violenze e imbrogli. Qualche giorno dopo una squadraccia fascista lo aspettò sul Lungotevere, vicino a piazzale Flaminio, mentre usciva di casa e si dirigeva alla Camera, lo rapì poi lo uccise e gettò il suo corpo in un bosco. Mussolini fu travolto dallo scandalo. Il regime per almeno sei mesi rischiò di cadere.

Poi, il 3 gennaio del 1925 Mussolini andò in parlamento, rivendicò il delitto, minacciò di trasformare la Camera in un bivacco dei suoi manipoli. Rischiò e vinse. L’anno dopo varò leggi speciali, mise fuorilegge i partiti, ne fece arrestare i capi. Fu imprigionato anche Antonio Gramsci, sebbene fosse deputato e protetto dall’immunità. Sturzo, il capo dei popolari, Turati, il mito socialista, i fratelli Rosselli, Togliatti e moltissimi altri si rifugiarono all’estero. In Francia e in Russia. La democrazia tornò in Italia solo vent’anni più tardi, dopo una guerra terribile e dopo l’olocausto degli ebrei al quale il governo italiano partecipò. Tornò grazie alla guerra partigiana e alle armate americane e britanniche (ma anche di altri paesi, per esempio del Marocco francese, i cui soldati furono decisivi ed eroici nello sfondare le linee tedesche e prendere Cassino).

Cent’anni. Sono passati cent’anni dalla marcia su Roma. Non ci sono più, da almeno una decina d’anni, persone viventi che se ne ricordino. Oggi la domanda è questa: esiste ancora l’ombra, il rischio, la minaccia del fascismo? Io rispondo di no e di sì. Di quel fascismo, quello squadrista e assassino, no. L’ombra è svanita e non tornerà. La civiltà europea, che a metà del secolo scorso toccò il punto più basso rispetto a ogni civiltà precedente, è cresciuta enormemente in questi ottanta anni. Spinta dalla forza portentosa di ideologie e culture che si richiamavano – e ancora si richiamano, credo – al liberalismo, al socialismo, al cristianesimo democratico. C’è stata Bad Godesberg, che è il luogo fisico e dello spirito nel quale il marxismo europeo ha compiuto la scelta democratica. Non solo il socialismo tedesco. C’è stato il Concilio Vaticano II, che ci ha portato fino al “socialismo” montiniano e poi agli sviluppi clamorosi del bergoglismo.

C’è stata la grande modernizzazione e americanizzazione della cultura e del pensiero liberale, che oggi non è più figlia di Giolitti, ma della sua robusta fronda antifascista, amendoliana o radicale che dal fascismo era stata sbaragliata. E poi c’è l’Europa. Mettetela come vi pare con l’Europa, criticatela – e fate bene – disprezzatela anche, se volete – e forse fate bene – ma è una muraglia contro le dittature. Invalicabile. Poi però rispondo anche sì. Il fascismo, come ordine di pensiero, non è affatto morto. È vasto. Attraversa il popolo e i partiti. Entra nei vicoli delle città e dei paesi e si insinua dentro i luoghi del potere. Nel governo, nel sottogoverno, nell’opposizione e nella sotto-opposizione. Parlo del fascino intriso di intolleranza, di odio, di illiberalità, di repressione, di culto della punizione, di giustizialismo, di sospettissimo, di presunta eticità che oggi ha preso il sopravvento nello spirito pubblico.

Certamente questo fascismo nella destra è molto forte. Ed è di natura tradizionale. Lo si sente aleggiare nelle stesse parole di Giorgia Meloni, nel suo vocabolario. Merito, famiglia, patria, nazione. Avete notato o no che Giorgia Meloni ha abolito la parola “paese” e l’ha sostituita con la parola “nazione”? Nel linguaggio politico italiano – democristiano, socialista, comunista, liberale, repubblicano – dal 1945 ad oggi si è sempre usata la parola “paese” per indicare l’Italia. Perché? Perché la parola nazione contiene l’idea di nazionalismo, e il nazionalismo è una malattia dalla quale la politica italiana nata dopo la fine del fascismo era vaccinata. La politologia conosceva come un assioma il fatto che il nazionalismo è l’embrione del fascismo e dell’autoritarismo. Del resto neanche in America (che pure il fascismo non lo ha vissuto) non si usa la parola Nation. Si dice Country, cioè terra, paese. Da qualche giorno invece Giorgia Meloni sta imponendo la parola nazione a tutti. Lei usa solo quella parola. Altri la stanno imitando. Ha fatto questa scelta per caso? No, Giorgia Meloni è una politica navigatissima e anche sofisticata, nonostante il romanesco.

Sta cambiando il vocabolario, e imponendo il suo, per ragioni strettamente ideologiche. Meloni non è fascista ma pensa di avere bisogno di un continuo ammiccamento, di uno sguardo all’indietro, di un po’ di nostalgia. È il cemento della sua politica. È ideologia? Si, è l’ideologia vecchia vecchia, quella senza ideali. O con ideali inservibili: patria, nazione, famiglia, decoro, merito. E dietro questi ideali si nasconde la tipica intolleranza della destra. Punizione, giustizia, carceri, 41 bis, severità. Poi certo – e questa, è vero, è una garanzia per tutti – c’è l’ambiguità, la giravolta. Perciò sceglie Nordio alla giustizia, cioè l’opposto esatto del fascismo.

E qui si arriva all’altro pezzo del fascismo, che a volte amoreggia e spesso invece si scontra col fascismo di destra. Il grillismo, per capirci. Che ha sostituito tutte le ideologie precedenti col qualunquismo e il giustizialismo. Ha moltissimi punti in comuni con il vecchio fascismo, escluso, evidentemente, l’aspetto più truce del fascismo, cioè la violenza. Il grillismo è pacifico. Odia ma non picchia. Avete sentito Scarpinato l’altro giorno alla Camera? Ha detto più o meno questo: usando la legalità non ho ottenuto niente, non sono riuscito a portare nemmeno un grammo di valore alla battaglia contro la mafia. Allora ci provo col sospetto, con la politica, con la mia idea che certi partiti, che odio, vanno esclusi dal consesso civile.

Leggete bene il discorso di Scarpinato perché l’essenza del fascismo moderno è proprio lì. In quel pensiero, anche in quella idealità, in quel desiderio di purificazione, incoltamente dannunziano. La cosa che mi preoccupa di più è che quando ha parlato Scarpinato, un pezzo di Pd l’ha applaudito. Che vuol dire? Che l’antifascismo, nel senso vero e moderno del termine – tolleranza, garantismo, inclusione, accoglienza, indulgenza, uguaglianza – è diventato uno schieramento esilissimo. Anche un pezzo di sinistra è stata travolta dal nuovo fascismo. Scusate se uso termini forti, ma se non li usi è inutile, Non si capisce. Io dico solo questo. Cent’anni dopo la marcia su Roma il rischio di un nuovo fascismo è grandissimo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo. Storia della marcia su Roma, l’ultimo baluardo di Mussolini fu Salandra. David Romoli su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

Nella tarda nottata tra il 28 e il 29 ottobre, anche dopo l’ultimo tassativo rifiuto di sostenere un suo governo da parte di Mussolini, Salandra non si arrende anche se ormai l’intero establishment italiano si è piegato. Inviano telegrammi al presidente incaricato, chiedendogli di passare la mano a favore del duce, industriali del calibro di Olivetti e la Confederazione dell’Agricoltura. Persino il direttore del Corriere della Sera Luigi Albertini, che pure nei suoi editoriali era stato molto critico nei confronti del fascismo, non vede più alternative e raccomanda di “dare l’incarico a Mussolini o mandare tutto alla malora”.

Salandra non si arrende. Assicura a De Vecchi la nomina a ministro della Marina poi chiede senza perifrasi: «E se facessi un governo senza fascisti?». Il quadrumviro antimarcia stavolta è tassativo: «Ci avrebbe contro». La stessa cosa De Vecchi ripete al re che ammonisce: «State commettendo un gravissimo errore». De Vecchi probabilmente concorda, ammette di pensarla come Salandra però, dice: «Mussolini rifiuta. In questo momento, quindi, non c’è altra soluzione che una presidenza Mussolini». Forse il presidente incaricato sarebbe per provarci comunque ma il re lo impedisce: «Sono costretto a ingoiare grandi rospi». Alle 9 della mattina Salandra rimette l’incarico. Vittorio Emanuele annuncia a De Vecchi l’intenzione di incaricare Benito Mussolini.

L’annuncio della vittoria al duce lo danno Grandi e Gaetano Polverelli, giornalista del Popolo d’Italia e uno dei ras dello squadrismo romano: “Devi venire subito a Roma per l’incarico”. Il duce non si fida: “Ho bisogno assoluto di avere un telegramma di Cittadini. Appena arriva partirò in aereo”. Il telegramma arriva: “Sua Maestà il re la prega di recarsi subito a Roma desiderando offrirle l’incarico di formare il Ministero”. Mussolini però non parte in aereo e neppure accetta il treno speciale organizzato da Lusignoli con partenza alle 15 del 28 ottobre. Si occupa dell’edizione straordinaria del Popolo d’Italia che annuncia trionfale la vittoria e parte in vagone letto alle 20.30 con Rossi e Aldo Finzi. Il treno arriverà alle 10.50, perché il duce si ferma per salutare i suoi squadristi e, a Civitavecchia, per passarli in rassegna. Alla stazione lo accolgono il prefetto, il questore, Polverelli, Acerbo e i quadrumviri tranne De Vecchi. Di lì Mussolini si sposta per una breve sosta all’Hotel Savoia e alle 11.45, in camicia nera, è di fronte al re, al Quirinale, invece in uniforme militare. «Chiedo perdono ma sono reduce dalla battaglia», si scusa il duce per la inadeguata tenuta che il sovrano non manca di segnalare.

A Roma e in tutta Italia la violenza degli squadristi si concentra soprattutto soprattutto contro i giornali colpevoli di non aver sostenuto la marcia. Molte redazioni vengono devastate e bruciate. Per alcune testate, tra cui il Corriere della Sera, le camicie nere ordinano la sospensione delle pubblicazioni. Alle 19 Mussolini torna dal re con la lista dei ministri e dei sottosegretari, stavolta vestito secondo il protocollo ma con indumenti rimediati un po’ ovunque: i pantaloni a righe glieli presta Finzi, il frac Cesare Rossi, il portiere dell’Hotel Savoia rimedia i gemelli e il cilindro è quello dimenticato in albergo da un cliente. Il duce tiene per sé l’interim di Esteri e Interni. Per il resto ci sono tre ministri fascisti, vari ministri dei partiti in coalizione tra cui Federzoni alle Colonie, i vertici militari, Diaz e Thaon di Revel, alla Guerra e alla Marina. Il fiore all’occhiello è il filosofo Giovanni Gentile all’Istruzione. Il giorno dopo le colonne entrano a Roma per una sfilata, guidata da Mussolini solo nei primi 10 minuti, che sfila per sei ore, con le camicie nere affiancate da quelle azzurre dei nazionalisti. Al Verano la colonna di Bottai viene accolta con lanci di mattoni, pietre e una bomba a mano. Bottai ordina la retromarcia poi un’azione di rastrellamento che costa 13 vittime, ma rappresaglie, assalti e omicidi proseguono fino a sera.

Mussolini aveva raggiunto una vittoria totale, che sarebbe stata sancita alla Camera il 16 novembre nel suo primo discorso da capo del governo: «Potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco per i miei manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto». Il “primo tempo” si sarebbe concluso il 3 gennaio 1925, al termine della crisi seguita all’uccisione di Giacomo Matteotti, con un altro discorso, quello che segnò l’inizio della dittatura.

La sorprendente vittoria dei fascisti nell’ottobre 1922 fu dovuta all’abilità politica di Mussolini, alla sua capacità di ingannare nonostante la loro esperienza tutti i leader liberali ma anche e soprattutto alla maestria nel giocare sul tavolo della politica e su quello dell’insurrezione. Senza l’insurrezione non sarebbe stata neppure immaginabile la capitolazione completa del re e l’insurrezione poteva essere stroncata anche senza ricorrere allo stato d’assedio, con le disposizioni già in vigore: l’ordine di sparare se necessario e di arrestare i capi fascisti in caso di resistenza.

Ma quegli ordini furono applicati solo in rarissimi casi perché nei gangli dello Stato, a partire dal prefetto di Milano Lusignoli, e nell’esercito simpatie e complicità con il fascismo erano già dilagate. L’insurrezione fu fermata con i mezzi adeguati solo in pochissime città. Si affermò invece quasi senza incontrare resistenza nella maggior parte delle piazze e dilagò dopo la revoca dello stato d’assedio annunciato il 28 ottobre. Quando la sera del 28 ottobre il ministro della Guerra diramò la direttiva in base alla quale bisognava “usare mezzi pacifici e persuasivi” evitando spargimenti di sangue la vittoria di Mussolini era già completa. Vittoria sullo Stato liberale, ma anche sui ras che fino a quel momento ne avevano limitato l’onnipotenza anche all’interno del fascismo, come avevano dimostrato ignorando il patto di pacificazione firmato con i socialisti da Mussolini nel 1921.

Il colpo magistrale era riuscito grazie a una strategia tanto articolata da lasciare in seguito a lungo gli storici indecisi e divisi sulla risposta alla domanda chiave: la marcia su Roma c’era in realtà stata o no? La risposta migliore la diede probabilmente Bottai, che del regime fu la mente più lucida: «La marcia su Roma, prima di essere un proposito concreto, fu una formula propagandistica. Era la formula unitaria che Mussolini opponeva ai particolarismo dello squadrismo e allo sgomento della democrazia liberale». Una formula propagandistica che arrivava però dopo che in estate le squadre di Mussolini avevano conquistato il territorio con il ferro e il fuoco e che poteva funzionare solo grazie all’effettiva insurrezione nelle città del nord e del centro. Vittorio Emanuele consegnò il Paese al capo dei fascisti probabilmente perché convinto che fosse il male minore e che comunque sarebbe durato poco. Invece durò vent’anni. David Romoli

100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo. Storia della marcia su Roma: così Mussolini prese la città dopo la caduta del governo Facta. David Romoli su Il Riformista il 26 Ottobre 2022 

Il re si corica presto e si alza all’alba. Il telegramma di Facta che lo esorta a tornare nella Capitale, spedito poco dopo la mezzanotte, lo legge solo alle 6 della mattina del 27 ottobre, mentre si prepara per la caccia. Esita solo un attimo, poi ordina di organizzare la partenza e telegrafa a Facta: “Giungerò Roma ore 20. Pregola avvertire personalità interessate”. Nella notte sul ministero degli Interni erano diluviati telegrammi e telefonate dalle prefetture di molte città, tutti di contenuto identico: i fascisti si stanno radunando, si preparano ad attaccare.

Non significa che si interrompano trame e trattative. De Vecchi e Grandi, cioè uno dei quadrumviri e il capo di stato maggiore dell’insurrezione, non hanno ancora raggiunto Perugia, dove si è installato all’Hotel Bristol lo stato maggiore della marcia che dovrebbe partire il giorno seguente. Bianchi cerca inutilmente di contattare De Vecchi, poi, prima di partire anche lui per Perugia, gli lascia in albergo un biglietto perentorio: “Entro domattina, sabato, dovresti far di tutto per essere a Perugia”. È da quel biglietto che il quadrumviro antimarcia e Grandi capiscono di essere stati giocati da Bianchi, con la promessa non mantenuta di rinviare di 24 ore l’azione. Sempre che a opporsi al rinvio non sia stato Mussolini in persona. I due non possono esserne certi, comunque non si arrendono.

De Vecchi rilascia un’intervista, che uscirà solo il giorno dopo, per difendere una posizione opposta a quella di Bianchi e Balbo, per cui l’incarico a Mussolini è irrinunciabile: “In un primo tempo la soluzione Mussolini si può differire. Mi sembra che l’on. Salandra e l’on. Orlando potrebbero essere benissimo i capi di un ministero con la nostra partecipazione”. Quindi i due, alle 11, tornano da Salandra, poi Grandi viene ricevuto anche da Orlando. Tutti sanno che Giolitti sta trattando con Mussolini ma il duce, nelle stesse ore telefona anche a Salandra. Respinge la sua richiesta di spostarsi subito a Roma ma gli fa sapere, attraverso Costanzo Ciano, che le condizioni dei fascisti per sostenere un governo guidato dallo stesso Salandra o da Orlando sono cinque ministeri fascisti, tra cui Interni e Guerra, e nuove elezioni.

A mezzogiorno del 27 ottobre, vigilia della marcia, la situazione è dunque questa. Sul fronte militare le forze in campo si stanno radunando e contando. Quanti siano i fascisti pronti a marciare è incerto ma sono probabilmente tra i 30 e i 40mila: 10mila tra Santa Marinella e Civitavecchia, agli ordini di Perrone Compagni, 12mila con Igliori e 3mila col generale Fara a Monterotondo, un numero incerto, tra i 2500 e gli 8mila agli ordini di Bottai a Tivoli. A Roma il generale Pugliese chiama a raccolta i generali di brigata e delle forze di polizia. Verificano di poter contare su 30mila uomini ben armati, a differenza dei fascisti, ai quali si aggiungerebbero 10mila “camicie azzurre”, le squadre nazionaliste fedeli al re. Sul piano politico Bianchi e Balbo spingono per l’intransigenza, indisponibili a soluzioni di compromesso che non vedano Mussolini presidente del consiglio, mentre De Vecchi e Grandi tirano in direzione opposta e il duce si tiene in equilibrio. Sostiene la necessità di passare subito all’azione ma allo stesso tempo tratta con tutti: con Facta e Giolitti, con Salandra e Orlando.

A far precipitare la situazione sono forse i fascisti che radunati in varie città dovrebbero attendere il 28 per occupare gli edifici pubblici invece spesso anticipano i tempi. A Firenze i fascisti sono in fermento già dalla mattina presto. A Pisa, poco dopo mezzogiorno le camicie nere interrompono molte linee telegrafiche e telefoniche, occupano gli uffici postali e provinciali. Dalle prefetture continuano ad arrivare rapporti sempre più allarmati e allarmanti ma l’incidente più grave si verificherà nel pomeriggio a Cremona. Alle 18 infatti Farinacci ordina di avviare subito l’insurrezione, cercando di occupare questura e prefettura. Il prefetto cede i poteri al comandante del presidio militare che sgombra una parte della prefettura mentre gli insorti si asserragliano al pianterreno. Nei paesi vicini i fascisti occupano le caserme ma in un caso i carabinieri reagiscono e uccidono tre assalitori. Bianchi, messo al corrente degli scontri in corso ordina di fermarsi a Farinacci che non obbedisce e risponde alla Giulio Cesare: “Il dado è tratto”. La battaglia continuerà fino a tarda serata, con i fascisti che cercheranno di assaltare il piano alto della prefettura con scale di corda e lanciandosi in macchina contro le truppe. Negli scontri della notte cadranno altri 4 fascisti e il prefetto sotto assedio chiederà aiuto a Roma: “Forza inadeguata bisogni”.

Nel pomeriggio, alle 16.50, Facta riunisce di nuovo il governo e ripropone le dimissioni ma anche stavolta le conclusioni sono un compromesso: il passo finale è sospeso ma il mandato dei ministri resta a piena disposizione del presidente del consiglio che si impegna quanto prima a “rimettere nelle mani del sovrano la responsabilità di provvedere alle pericolose emergenze del momento”. Al ministero degli Interni sono riuniti ministro, prefetto, questore, capo della sicurezza e il generale Pugliese, dopo un po’ arriva anche Facta, “agitatissimo e sudato”. Pugliese garantisce che le forze armate resteranno fedeli ma pretende e ottiene un ordine scritto del ministro che lo autorizza a fermare i treni che trasportano i fascisti verso Roma e, se necessario, a sparare sugli insorti. Alle 19 Facta, senza aspettare l’arrivo del re, annuncia alle agenzie di stampa la decisione del governo di presentare le dimissioni.

Il re non apprezza. Quando Facta va a prenderlo alla stazione, alle20.05, si apparta con il presidente del Consiglio e lo redarguisce: “Roma deve essere difesa. Faccia il suo dovere e mantenga l’ordine pubblico”. Sul decisivo colloquio esistono diverse versioni. La più credibile è quella dell’aiutante di campo del sovrano, il generale Cittadini, secondo cui Vittorio Emanuele avrebbe concluso dicendo al primo ministro: “Mi proponga con il consenso totale dei ministri i provvedimenti che crede debbano essere messi in effetto; vedrò io poi – giacché non conosco i dettagli della gravissima situazione che lei mi descrive – cosa si deve fare”.

Prima di seguire il sovrano a villa Savoia, Facta cerca di raggiungere Mussolini attraverso il prefetto Lusignoli ma il duce non si fa a trovare. Passerà di nuovo la serata a teatro, come il giorno prima, ma stavolta invece che con l’amante Margherita Sarfatti con la moglie Rachele e la figlia Edda, a vedere Il cigno, di Ferenc Molnar. È qui che un giovane redattore del Popolo d’Italia lo avverte degli scontri di Cremona. Il duce lascia il teatro in anticipo, alla fine del terzo atto. Dalla redazione del Popolo  d’Italia chiama Farinacci che conferma, “Ci sono stati tre martiri fascisti”. “Allora non resta che continuare”, conclude Mussolini.

Non è noto nei dettagli neppure il colloquio tra Facta e il re a villa Savoia, intorno alle 21. Di certo il presidente del Consiglio rassegna ufficialmente le già annunciate dimissioni e suggerisce di incaricare Giolitti ma il re si riserva di deliberare il giorno seguente. È molto probabile che i due discutano anche l’eventualità di proclamare lo stato d’assedio, proposto da Facta con un assenso del re che però consiglia di rinviarlo per vedere prima “il volgere degli eventi”. Poi, nonostante la “gravissima situazione”, Facta, come del resto i ministri e lo stesso re, se ne va a dormire nella sua stanza all’Hotel Londres. David Romoli

Ecco cos'è il fascismo, quello vero. A cento anni dalla Marcia su Roma. Lo storico Beniamino Di Martino: un "capitolo del socialismo e della mortificazione dell'individuo". Francesco Perfetti il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La riflessione sulla natura del fascismo è coeva al fenomeno stesso. Già a partire dall'inizio degli anni Venti, per esempio, un gruppo di politici e di intellettuali di formazione diversa da Guido Bergamo a Cesare Degli Occhi, da Dino Grandi a Mario Missiroli e via dicendo si interrogarono, sotto la guida di Rodolfo Mondolfo, sulle caratteristiche del movimento fascista giungendo, quasi tutti, alla conclusione che il «nuovo» fascismo, quello agrario emiliano-romagnolo esploso alla fine del 1920, era molto diverso da quello del biennio precedente ricollegabile alla Grande guerra e, più esattamente, all'interventismo rivoluzionario. Questo «nuovo» fascismo, ormai divenuto partito politico, era, per costoro, un prodotto della reazione borghese al cosiddetto «biennio rosso».

Con l'andar del tempo la discussione sul significato del fascismo andò sviluppandosi e precisandosi, ma anche caratterizzandosi, in linea con le posizioni culturali e ideologiche degli autori. Nel volume su Le interpretazioni del fascismo, che ne tentò una prima ragionata e organica rassegna, Renzo De Felice esaminò le interpretazioni classiche (liberale, radicale e marxista), quella cosiddetta «transpolitica» nelle declinazioni di Augusto Del Noce ed Ernst Nolte, quella del fascismo come totalitarismo, quelle sociologiche e politologiche e via dicendo. Fece notare, però, come nessuno di questi discorsi interpretati fosse in grado di spiegare il fenomeno fascista in maniera del tutto esaustiva. Per lui l'unico modo di giungere a una piena conoscenza del fascismo e quindi anche a una sua interpretazione era quello di scriverne la storia, seguirne passo passo gli sviluppi, cercar di capire come ragionassero davvero fascisti e avversari.

Malgrado il fatto che il volume di De Felice risalga alla fine degli anni Sessanta e abbia vistose carenze per esempio la mancanza assoluta di attenzione agli scritti dei pensatori liberali della cosiddetta «scuola austriaca» pur tuttavia esso rappresenta ancora oggi un punto di riferimento per ogni discorso sui caratteri del fascismo. De Felice, poi, come è noto, nella celebre Intervista sul fascismo rilasciata a Michael A. Ledeen qualche anno dopo, individuò alcuni elementi utili per qualificare, dal punto di vista interpretativo, il fenomeno fascista.

Accennò alla distinzione tra fascismo movimento e fascismo regime e riconobbe l'esistenza nel fascismo di una componente rivoluzionaria di sinistra riconducibile per un verso al sindacalismo rivoluzionario che ebbe notevole influenza su Mussolini e, per altro verso, agli sviluppi di una tradizione di pensiero che, partendo da direzioni proprie dell'illuminismo e di Rousseau perveniva ai lidi di quel «radicalismo di sinistra» che, secondo lo storico polacco israeliano Jacob Talmon avevo un diretto progenitore nella cosiddetta «democrazia totalitaria», una democrazia di massa, plebiscitaria, nata all'epoca del Terrore durante la Rivoluzione francese.

De Felice presentava, quindi, il fascismo come una espressione dei ceti medi emergenti, ovvero di quella piccola borghesia che, essendo ormai diventata un fatto sociale, aspirava a una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica del paese, non riconoscendo più alla classe politica tradizionale né la capacità né la legittimità di governare. Infine, individuava profonde differenze fra nazional-socialismo e fascismo tanto per quel che riguardava il loro rapporto con il passato quanto per quel che concerneva il rapporto fra partito e Stato. Quest'ultimo punto era essenziale perché mentre il fascismo avrebbe puntato sulla depoliticizzazione del partito e ne avrebbe così segnato la subordinazione alle strutture statuali, il nazional-socialismo, fondandosi sulla preminenza del partito sullo Stato, avrebbe realizzato un regime totalitario nel senso proprio del termine.

Il problema interpretativo del fascismo è quello centrale del nuovo, denso e importante libro di Beniamino Di Martino, Stretto nel fascio. Nazi-fascismo contro l'individuo (Monolateral, pagg. 424, euro 20), che non soltanto discute con ricchezza di argomentazioni e con finezza dialettica le più importanti posizioni interpretative, ma aggiunge molti nuovi elementi alla discussione. La prima cosa che colpisce l'attenzione del lettore è, per esempio, lo spazio dedicato ai discorsi proprio del mondo liberale che, come ho accennato, De Felice, troppo appiattito su una concezione crociana e neo-idealistica del liberalismo, aveva del tutto ignorato. Le posizioni di Ludwig von Mises espresse nel suo Socialismo, quelle di Friedrich von Hayek contenute nel bellissimo La via della schiavitù, ma anche, vorrei aggiungere, certe splendide pagine di Wilhelm Röpke sulla crisi tedesca e sulla Germania nazional-socialista, contribuiscono a chiarire meglio la natura del fascismo.

L'autore di questo corposo volume, don Beniamino Di Martino, lontano da pregiudizi ideologici e grande conoscitore del pensiero liberale e liberista, attraverso la sua analisi giunge alla conclusione che fascismo e nazional-socialismo sono fenomeni che si traducono in regimi anti-individualisti e di tipo collettivistico, fondati su un centralismo statalista esasperato e su una visione anti-capitalista dei rapporti economici. Si tratta di una conclusione che implica conseguenze, dal punto di vista epistemologico, ben precise e inequivocabili. Innanzitutto, essa mette in luce il carattere ideologico del fascismo e del nazional-socialismo, i quali, prima di tradursi in partiti organizzati e in strutture di regime, sono, appunto, ideologie politiche la cui connotazione è, soprattutto e fondamentalmente, anti-individualistica. Lo stesso termine «fascio» e la stessa retorica dell'«unità» il «marciare uniti» sono in proposito indicativi. Poi, questa conclusione finisce non solo per avallare la tesi di De Felice sulla permanenza di caratteri di sinistra nel fascismo movimento ma per ampliarla fino a comprendervi il fascismo regime e lo stesso nazional-socialismo, che non appare affatto come un regime reazionario o di destra.

In altre parole, per Di Martino, fascismo e nazional-socialismo partecipano della stessa natura che è, oggi si direbbe, di sinistra: essi sono, per così dire, piaccia o non piaccia, un «capitolo del socialismo». Per questo, l'autore si sente legittimato a usare quella espressione, nazi-fascismo che Renzo De Felice non amava e non usava perché, alla fin fine, essa spiega il fatto che entrambi questi movimenti al di là delle apparenze partecipano di quella «spinta verso l'utopia» che li porta a voler trasformare la realtà a costo di mortificare l'individuo, limitare la libertà, comprimere o eliminare la proprietà.

Naturalmente questo tipo di discorso implica tutta una serie di altre conseguenze che l'autore non esita ad affrontare: il rapporto del nazi-fascismo con il comunismo, il suo carattere totalitario e/o autoritario, la sua relazione con la modernità e in particolare con il fenomeno della «secolarizzazione» così ben analizzato da un grande filosofo cattolico, Augusto Del Noce. Le conclusioni di Di Martino anche quando su punti specifici, per chi è cresciuto alla scuola di De Felice, non appaiono del tutto condivisibili, come per esempio quelle sul totalitarismo sono sempre stimolanti e confermano che siamo di fronte a un volume di grande importanza storiografica.

Giolitti invita i fascisti a seguire la legalità. Il discorso dell’ex presidente del Consiglio. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Ottobre 2022

È il 24 ottobre 1922, il giorno della grande adunata organizzata dai fascisti a Napoli. Sul Corriere delle Puglie in prima pagina, però, c’è Giovanni Giolitti, il politico che incarna lo Stato liberale, tornato nell’agone politico per trovare una soluzione alla crisi del governo Facta.

L’ex presidente del Consiglio ha pronunciato a Cuneo un importante discorso durante il quale ha invitato i fascisti ad entrare nella legalità. Dopo venti mesi di azioni squadristiche e di corrispondenti reazioni dei socialisti, culminate nelle offensive di luglio e agosto e nello sciopero generale, il Paese è stremato dalle violenze. Ecco le parole di Giolitti riportate sul «Corriere»: «In mezzo alle lotte aspre in alcune parti d’Italia, pacifiche inoltre, un nuovo partito si affaccia alla vita politica italiana. Esso deve prendere quel posto al quale il numero dei suoi aderenti gli dà diritto, ma nelle vie legali, le sole che possono dare vera e durevole autorità ad un partito nell’orbita costituzionale; le sole per le quali si può attuare la parte fondamentale del programma di quel partito, il rialzare cioè l’autorità dello Stato per la salvezza, la grandezza e la prosperità della Patria. Per le vie legali con la ferma convinzione che non tarderà a ristabilire la pace sociale in tutta l’Italia. Più grave assai è il pericolo che incombe sulla nostra Patria per le condizioni della pubblica economia». Anche Mussolini ormai si è convinto che non è più il momento di presentare il fascismo come forza «antistato»: esso deve non solo farsi accettare dallo Stato, ma diventare esso stesso Stato. La conquista del potere è una priorità, da raggiungere in qualsiasi modo: essa non può avvenire, però, come semplice avvicendamento di governo, ma deve costituire una rottura della prassi politica tradizionale. Si prevede, intanto, una «calma e ordinata adunanza di venticinquemila camicie nere a Napoli», si legge sul «Corriere»: «Bari, in occasione della partenze delle squadre fasciste per il grande convegno di Napoli, sembrò trasformata improvvisamente in un campo di concentramento di forze militari».

Il giorno prima, infatti, le squadre pugliesi, guidate dell’on. Giuseppe Caradonna, si sono messe in viaggio per il capoluogo campano: «Sin dalle prime ore del mattino, i giovani squadristi in camicia nera e gli ex combattenti con le decorazioni di guerra, percorrevano le vie della città, fermandosi poi davanti la sede del Fascio, preparandosi e ricevendo ordini per la partenza»: come era prevedibile, non sono mancati scontri tra fascisti e «sovversivi», a suon di sassate e colpi di rivoltella. Il clima è teso: mancano ormai pochissimi giorni alla marcia su Roma.

I cento anni della notte più nera. Il 28 ottobre 1922 la Marcia su Roma e l'avvento del fascismo: la sconfitta del movimento operaio e il crollo dello Stato liberale in Italia. FRANCESCO SOVERINA su Il Quotidiano del Sud il 23 Ottobre 2022.

PER UN apparente paradosso il Partito Liberale si costituisce, in quanto moderno partito politico, solo l’8 ottobre 1922, appena venti giorni prima della Marcia su Roma, che decreta la fine dell’epoca dell’Italia unitaria a guida liberale. Quelle lontane vicende, che proiettano ancora la loro ombra sul presente, sono l’esito di una crisi che, nel primo dopoguerra, vede l’Europa alle prese con i sommovimenti tellurici causati dalla Grande guerra e dalla Rivoluzione d’ottobre. Esattamente cent’anni fa il fascismo – la ‘creatura’ di Benito Mussolini – si insedia al governo, rimanendovi per più di un ventennio e lasciando tracce durature nel corpo della società italiana. Ascende allora al potere, per la prima volta in Europa occidentale, un inedito «partito-milizia» di estrema destra, che si caratterizza per un’identità costruita su una serie di negazioni: dall’antiparlamentarismo all’antisocialismo e all’anticomunismo. «Movimento anti-tutto», che rappresenta la più compiuta estrinsecazione dell’antipolitica, il fascismo si presenta – al suo esordio – come movimento antiideologico e, in quanto tale, proclama il primato dell’azione, in nome anche del ripudio della democrazia come sistema di composizione permanente dei conflitti.

Artefice della «militarizzazione della politica», il fascismo fa dell’uso generalizzato della violenza il suo tratto distintivo. Amalgama riuscito di mentalità piccolo-borghese, populismo demagogico e interessi capitalistici, non solo fornisce ai ceti dominanti la truppa d’assalto contro le organizzazioni proletarie e le istituzioni rappresentative, ma soprattutto quel partito di massa che essi non avevano mai avuto e tanto più necessario in una fase storica in cui l’accendersi delle tensioni sociali e l’affermazione dei partiti popolari avevano reso ai loro occhi del tutto inaffidabili gli strumenti di mediazione adoperati dal ceto dirigente liberale.

L’originalità del fascismo, che abbinerà la repressione del «nemico interno» con l’espansionismo verso l’esterno, sta nell’essere entrato in sintonia con uno degli aspetti caratterizzanti l’intero cammino del Novecento, la massificazione della società; nell’aver dato vita ad un regime reazionario basato sul rapporto diretto capo-masse. Non a caso il fascismo è figlio dell’età iniziata con la Grande guerra, contraddistinta dalle dimensioni di massa assunte dallo scontro politico e sociale.

Dietro al duce, il condottiero carismatico circondato da un alone mistico-religioso, gran parte della piccola borghesia si sente protagonista della storia. Si illude, indossando la camicia nera, di realizzare la sua rivoluzione. Priva di una propria organizzazione sindacale e politica, si mette alla testa di un movimento per tutelare la sua condizione sociale, insidiata dalla crisi economica postbellica e dall’avanzata del proletariato. Le sue posizioni ben presto combaciano con l’obiettivo di tacitare l’antagonista di classe, a cui mirano il capitalismo agrario della Val Padana e gli imprenditori maggiormente colpiti dalle difficoltà della macchina produttiva.

All’inizio della sua avventura politica il movimento fondato a Milano, il 23 marzo 1919, da Benito Mussolini raccoglie, sulla base di un programma che mescola l’ultranazionalismo con rivendicazioni avanzate, ex-combattenti, futuristi, transfughi del socialismo, anarco-sindacalisti. È espressione delle inquietudini e aspirazioni di taluni strati della piccola borghesia urbana, che sui campi di battaglia e nel fango delle trincee hanno interiorizzato la forza dirompente dell’uso incondizionato della violenza.

Ne danno prova immediatamente con la devastazione dell’«Avanti» il 15 aprile 1919, provocando il ferimento di 39 persone e la morte di un soldato e tre socialisti. Un cruento episodio prontamente rivendicato dal tribuno di Predappio quale «primo atto della guerra civile». Il fascismo rimane una formazione politica ininfluente sino a quando – con l’assalto a Palazzo d’Accursio, in occasione dell’insediamento della giunta comunale socialista di Bologna (21 novembre 1920) – non mette le sue energie al servizio della reazione. Diviene, a cavallo tra il `20 e il `21, il braccio armato dei proprietari terrieri della Val Padana. In questa fase il fascismo è essenzialmente squadrismo, «illegalismo autorizzato» (Gaetano Salvemini). 

Comandate dai cosiddetti ras, tra cui Italo Balbo, Leandro Arpinati, Roberto Farinacci, le spedizioni delle camicie nere prendono di mira sedi sindacali e di partito, circoli del dopolavoro e cooperative. Spostandosi da una località all’altra a bordo di camion, munite di manganelli e olio di ricino, di fucili e rivoltelle, ma talvolta anche di mitragliatrici e bombe a mano, terrorizzano, umiliano, bastonano, feriscono e uccidono, spesso con la connivenza di esercito, polizia e magistratura, migliaia di militanti e dirigenti della sinistra sindacale e politica, nonché delle leghe bianche (circa 4.000 i morti). Insanguinano la campagna elettorale per le votazioni del 15 maggio 1921 (170 vittime e decine di feriti), in virtù delle quali entrano alla Camera 35 fascisti, tra cui gli organizzatori e i responsabili di eccidi e rappresaglie. Si tratta di «una svolta politica e di civiltà senza più ritorno», di una data storicamente rilevante, ancor prima della fatidica Marcia su Roma (Fabio Fabbri).

Le “squadracce” sono composte, in gran parte, da figli di ex mezzadri e di modesti fittavoli, divenuti proprio in quegli anni, grazie anche all’inflazione che azzera i debiti, piccoli proprietari e perciò decisamente ostili alla «socializzazione della terra» propugnata dalle leghe rosse. Nelle zone rurali lo squadrismo trova adepti e sostenitori nel ceto medio dei borghi e dei campi, tra i contadini arricchiti, gli artigiani un po’ più agiati, i bottegai e i professionisti di provincia. Il fascismo agrario, incarnazione del partito della guerra civile, è sì il più strutturato, ma non avrebbe potuto chiudere la partita a suo favore, se Mussolini non avesse stabilito un «compromesso autoritario» con gli altri centri di potere, che lo disarcioneranno più di vent’anni dopo, nel 1943, per salvare il salvabile dall’imminente catastrofe bellica. Tra il `21 e il ´22 il duce è abilissimo nel rassicurare Vaticano e Corona e, una volta a capo del governo, nell’esaudire le richieste più importanti per la borghesia industriale: l’abolizione della nominatività dei titoli e della progressività dell’imposta di successione e la messa in mora definitiva di ogni intenzione di tassare parte dei sovrapprofitti di guerra.

Se lo squadrismo prende corpo nei punti alti dello sviluppo capitalistico italiano, esso è pressoché assente nelle aree arretrate del Mezzogiorno, dove il fascismo penetra grazie al trasformismo del notabilato locale che, cambiando casacca, riesce a mantenere intatto il proprio dominio sul resto della società. Tuttavia, la Campania e la Puglia costituiscono un’eccezione. Nella prima, specialmente nel Napoletano, dove l’industria è più diffusa e il movimento operaio è più robusto, le spedizioni punitive degli squadristi si fanno, nel 1921, meno sporadiche e più massicce e sistematiche. Si pensi innanzitutto ai «fatti di piazza Spartaco» del gennaio di quell’anno a Castellammare di Stabia, che lasciano sul terreno molti feriti, 6 morti e portano allo scioglimento dell’amministrazione socialista, o al micidiale colpo inferto all’altro caposaldo rosso della provincia, Torre Annunziata, che viene piegato da un manipolo fascista guidato da alcuni squadristi, tra cui Aurelio Padovani. Numero uno del fascismo partenopeo, ex capitano, repubblicano, massone, con un folto seguito personale, Padovani entrerà in contrasto con i vertici del Partito Nazionale Fascista (Pnf), da cui sarà espulso nel 1923 e morirà, trentasettenne, nel 1926 in un incidente a lungo rimasto oscuro. Nelle zone rurali della Campania, invece, le vecchie classi dirigenti trovano la loro sponda politica nei nazionalisti capeggiati dall’on. Paolo Greco.

In Puglia, terra di braccianti e di aziende capitalistiche agrarie, i conflitti sociali e politici percorrono la regione da un capo all’altro. Le prime squadre assoldate dagli agrari sono formate da mazzieri, mercenari armati di mazze da caprai. Poi le camicie nere si riconoscono in Giuseppe Caradonna. Ex capitano anche lui, sa «mettere in linea» una mobilissima cavalleria per terrorizzare con le sue efferate scorribande i salariati agricoli e i contadini pugliesi. Durissima la contrapposizione con Giuseppe Di Vittorio, il giovane leader dei “cafoni” di quelle contrade, bagnate dal sangue dello stillicidio di ferimenti e assassini avvenuti con la complicità o sotto lo sguardo compiaciuto delle forze dell’ordine. L’ultima impresa della cavalleria di Caradonna è l’occupazione di Foggia il 29 ottobre 1922. Pure in Calabria, dove i contadini hanno preso una certa coscienza dei propri diritti per impulso delle leghe bianche (con il sacerdote Carlo De Cardona) e dei movimenti di sinistra (con Pietro Mancini e Fausto Gullo), si verificano numerosi episodi di sangue.

Come ha narrato Mario La Cava, in un appassionante, quanto dimenticato romanzo storico del 1974, a Casignana, in provincia di Reggio Calabria, all’incirca un mese prima della Marcia su Roma carabinieri e fascisti commettono un eccidio ai danni dei contadini, rei di aver occupato – sull’onda dell’eco della Rivoluzione d’ottobre – le terre del maggiorente locale, don Luigi Nicota.

«I fatti di Casignana» accadono nell’anno dell’intensificarsi delle violenze fasciste, del fallimento dello «sciopero generale legalitario» (1° agosto), la «Caporetto del socialismo», emblema dell’indebolimento complessivo della sinistra, afflitta da insanabili fratture, che si traducono in laceranti divisioni e scissioni, mentre il mondo liberale coltiva ancora la speranza di poter «costituzionalizzare» un movimento che è servito a sventare il pericolo rosso.

È in questo clima che si arriva alla Marcia su Roma, preceduta di qualche giorno dall’adunata a Napoli di migliaia di camicie nere. L’esercito privato dei manipoli fascisti confluirà il 28 ottobre 1922 sulla Capitale, per dare poi una severa lezione a chi aveva provato a resistere (13 morti tra gli operai del quartiere di San Lorenzo). Il re non firmerà lo stato d’assedio e Mussolini – a cose fatte – può giungere in vagone – letto da Milano, dove aveva ricevuto l’investitura degli ambienti industriali. Il 31 ottobre, a conclusione di rapidissime trattative, il capo del fascismo forma il suo primo governo. Ne fanno parte 5 fascisti – Mussolini tiene per sé la presidenza, i ministeri dell’Interno e degli Esteri – 3 indipendenti, un nazionalista, 2 demosociali, un liberale di destra, un demoliberale e 2 popolari. È la tappa iniziale di un percorso più che ventennale, con il quale gli italiani – o meglio una parte di essi – non si sono misurati fino in fondo. Hanno preferito far propria l’immagine edulcorata, fuorviante, autoassolutoria della loro «autobiografia», veicolata dall’anti-antifascismo, che ha trovato negli ultimi decenni una potente cassa di risonanza nell’universo mass-mediatico.

Il ricorrente eppur ineludibile discorso sul consenso goduto dal fascismo ha finito per mettere quantomeno in secondo piano i misfatti di un regime che ha soppresso le libertà civili, politiche, sociali e si è macchiato di gravi crimini in patria e fuori dei confini nazionali, con la riconquista brutale della Libia, con l’uso dei gas in Etiopia e l’occupazione dei Balcani. È ora più che mai necessario fare i conti, senza alcuna reticenza, con gli stereotipi e le immagini di un passato che continua a riverberarsi sul nostro presente.

Mussolini mise in scacco il Parlamento a colpi di parole, non di veri manipoli. Come spiega Dell'Arti la vera presa del potere avvenne proprio cent'anni fa. Matteo Sacchi su Il Giornale il 16 Novembre 2022.

È il sedici novembre del 1922, esattamente cent'anni fa. La marcia su Roma è stata da poco archiviata. Una fortunosa dimostrazione di forza da parte dei fascisti, ma una dimostrazione tutt'altro che definitiva. Basti pensare al fatto che ancora il 30 ottobre il Re Vittorio Emanuele III offre l'opportunità di formare un nuovo governo ad Antonio Salandra. Che rifiuta. Solo allora arriva il turno di Benito Mussolini che alle 15, esattamente cento anni fa, entra alla Camera. Indossa una redingote, calzoni neri e ghette bianche. All'occhiello dell'abito il distintivo dei mutilati in guerra, arrotolato in mano il manoscritto del discorso.

Quello che non ha finito di mettere in chiaro la Marcia lo metterà in chiaro lui da lì a pochi minuti. Con un discorso tenuto come sempre con maestria naviga sul sottile crinale tra la blandizie e la minaccia, tra la retorica istrionica e il rischio calcolato di fare un passo falso. Passerà alla storia come «il discorso del bivacco» ed è uno dei colpi più riusciti del futuro Duce, che della Marcia per molti versi è stato il grande assente. Ecco perché un libro, ben scritto e con piglio dialogico/divulgativo, come La marcia su Roma (La nave di Teseo, pagg. 256, 10 euro) del giornalista Giorgio Dell'Arti chiude la narrazione dei fatti del 1922 proprio con quel discorso.

Mussolini, in un'aula gremita, parte subito con quello che, scacchisticamente, potremmo chiamare un geniale attacco di scoperta. «Signori, quello che io compio oggi, in questa Aula, è un atto di formale deferenza verso di voi e per il quale non vi chiedo nessun attestato di speciale riconoscenza». I deputati sono da subito ridotti a «signori», come se passassero di lì per sbaglio, eppure la frase, come si auto-dichiara è almeno «di formale deferenza». Non dà così a nessuno il tempo di organizzare una risposta efficace mentre parte un'accelerazione di concetti che in breve chiarisce le cose. Prima si parla dei diritti della rivoluzione - e che la Marcia non lo fosse davvero era un evidenza che non poteva sfuggire a Benito - per poi giungere a una chiara minaccia che era il cuore del discorso: «Mi sono rifiutato di stravincere, e potevo stravincere. Mi sono imposto dei limiti. Mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non ci abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto punto, decisi a tutto e quasi misticamente pronti a un mio ordine, io potevo... Potevo fare di questa aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di fascisti. Potevo: ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto».

In poche righe Mussolini riesce a far coincidere se stesso con la presunta forza fascista - che sin lì dipendeva ampiamente dai quadrumviri più che da lui - e a esautorare il Parlamento riducendo la sua esistenza a una sua concessione. Atto che per altro relega lontanissimi sullo sfondo i poteri istituzionali dello Stato, a partire dal Re. Il cui unico merito diventa, nel discorso, di aver evitato la guerra civile non intervenendo. Del resto i suoi sarebbero stati tentativi «inutilmente reazionari». Sostanzialmente il Parlamento incassò tutto, magari rumoreggiando, ma incassò. Giolitti, amarissimo, gelò tutti: «Questa Camera ha il Governo che si merita». Soltanto Filippo Turati, il giorno dopo, riuscì ad articolare una risposta dura e coraggiosa. «Abolite il Parlamento, anche se lo lasciate sussistere, come uno scenario dipinto, per il vostro comodo. Gli chiedete di svenarsi. Vi obbedirà».

Aveva tragicamente ragione.

Centenario della marcia cha aprì le porte al fascismo. La lista dei ministri di Mussolini prima della marcia su Roma. David Romoli su Il Riformista il 22 Ottobre 2022 

L’evento del giorno a Roma, a meno di una settimana dalla marcia destinata a cambiare la storia d’Italia, è la rappresentazione al Palatino della Fedra di Gabriele d’Annunzio, domenica 22 ottobre. È un evento non solo culturale e mondano ma anche politico. Il giorno prima l’Associazione mutilati di guerra ha ufficializzato la decisione di fare del 4 novembre, data della vittoria nella guerra, festa nazionale. Le celebrazioni, per la prima volta, si svolgeranno di fronte all’Altare della Patria. Ci saranno tutte le autorità, migliaia di bandiere, decine e forse centinaia di migliaia di persone. L’oratore designato è il Vate.

E’ l’occasione, inizialmente prevista per il 7 novembre, per disinnescare la mina Mussolini con un grande appello all’unità nazionale lanciato dal solo uomo ancora più popolare di Mussolini anche a destra. I manifesti già tappezzano la città. Manca solo la disponibilità del poeta. La rappresentazione del Palatino è l’occasione perfetta per blandirlo. L’esercito mette a disposizione 21 purosangue bianchi. Facta e Soleri sono presenti con una folla di autorità di ogni tipo. Quando entra l’autore il pubblico scatta in piedi per salutarlo con un tonante “Per d’Annunzio eja eja eja. Alalà”. Lui ricambia con un poco lusinghiero: “Di Roma non vedo che la cloaca” e Il Popolo d’Italia sceglie proprio questa giornata per annunciare l’accordo tra Mussolini e D’Annunzio sulla Federazione del Mare, in seguito al quale d’Annunzio ordina ai suoi legionari di smobilitare. Ma ancora non respinge l’invito per il 4 novembre e anzi quando parte, il 23 ottobre, saluta Facta con un “Ci rivedremo a Roma” che suona quasi come assenso.

Alla vigilia della grande adunata fascista di Napoli fissata per il 24 ottobre è a tutti chiaro che la crisi è arrivata al suo punto di svolta. Non potrà che risolversi, in un modo o nell’altro, nel giro di qualche giorno, una decina al massimo, ma i liberali ritengono di avere ancora la situazione abbastanza sotto controllo. Facta, dopo aver deciso di non vietare la manifestazione di Napoli, telegrafa al re, che si trova nella residenza di San Rossore, assicurando che “non avverrà nulla di importante riunione fascista Napoli salvo imprevedibili incidenti”. In ogni caso, puntualizza, “autorità militari danno ferma assicurazione che è impossibile penetrazione in Roma”. Ma nel complesso ritiene che la situazione politica si sia “rischiarata” e sia imminente una “pronta soluzione”.

Facta scrive anche a Giolitti, con toni ben più allarmati ma pur sempre ottimisti. Il suo governo è “ormai morto”, i fascisti “vedono arrivare la loro parte discendente e faranno qualunque pazzia ove non si trovi il modo di prenderli”, la situazione “è urgentissima”. Però “è impossibile che quando in Italia c’è un uomo come te non si trovi una via d’uscita”. L’allarme insomma serve soprattutto a incalzare Giolitti che a Cavour, in occasione del suo festeggiatissimo ottantesimo compleanno al quale un costernato Facta non può presenziare, riceve il ministro popolare delle Finanze Bertone, Camillo Corradini, il prefetto Lusignoli, il direttore del Sera di Milano e nazionalista Armando Zanetti.

L’anziano leader li informa di aver offerto a Mussolini 3 ministeri e il diritto di indicare un ministro degli Esteri non fascista ma gradito al fascismo. In cambio vuole però che Mussolini entri nel governo come ministro senza portafoglio. Di fronte alle tergiversazioni del duce, che evita di rispondere, Giolitti fa capire di essere quasi spazientito e di stare pensando a un governo senza i fascisti. Giolitti sbotta anche contro Facta: “Faccia il suo dovere e si dimetta”. I fascisti antimarcia sono a loro volta attivissimi, brigano a Roma per un governo Salandra. Dino Grandi va a trovare il grande sociologo Vilfredo Pareto, a Losanna, sperando nel suo aiuto per fermare Mussolini. Pareto lo gela: “Mussolini è sulla via giusta. Fa bene a tirare diritto minacciando cose grosse. Ella è in errore. Vi è un tempo per essere legalitari e un tempo per essere rivoluzionari”. Poco dopo farà pervenire al duce un consiglio perentorio: “Dite a Mussolini: ora o mai più”.

Ormai la marcia è decisa, anche se la data non è ancora fissata: “Subito dopo il convegno di Napoli”, stabilisce Mussolini in un incontro a tre a Milano con Bianchi e Rossi nel quale si parla anche di come armarsi, individuando i depositi dell’esercito disarmando i piccoli distaccamenti lungo la strada, e di quale atteggiamento tenere nei confronti dell’esercito, massima simpatia e fare il possibile per evitare lo scontro ma senza ritirarsi perché su Roma bisogna marciare a ogni costo. Lui, il duce, però non marcerà. Resterà a Milano sia per continuare il gioco sui due tavoli, quello dell’insurrezione e quello della trattativa, sia per evitare di restare invischiato nelle trame che stanno tessendo nella Capitale i fascisti antimarcia: De Bono, De Vecchi, Grandi, Ciano. Sino all’ultimo però l’obiettivo della marcia resta imprecisato: Mussolini si lascia aperta ogni strada. la lista dei ministri è già pronta. E si fonda sulla idea di coalizione: dentro i popolari, i liberali e anche qualche socialdemocratico.

Il capo del fascismo tratta per ingannare e sviare i liberali ma anche per avere pronta una soluzione di mediazione. Così lancia all’improvviso una proposta studiata per confondere le acque: convocazione delle Camere senza aspettare il 7 novembre e nuove elezioni subito. Il senso della proposta lo illustra Balbo nel suo Diario: “Si gioca a rimpiattino. Con questa lusinga faremo di loro quel che vogliamo. Siamo nati ieri ma siamo più intelligenti di loro”. Mentre in vagone letto viaggia verso Napoli per la grande adunata, Mussolini fa sosta a Roma e incontra proprio Salandra. Un colloquio nel quale, almeno secondo l’unica ricostruzione disponibile, quella dello stesso Salandra, non si parla di chi dovrà presiedere il prossimo governo ma solo delle condizioni dei fascisti per farne parte: dimissioni immediate di Facta e cinque ministeri per il Pnf ma senza la partecipazione diretta di Mussolini all’esecutivo. Vuole le mani libere per gestire le squadre.

Il duce continua a ingannare tutti. Usa Salandra per ostacolare quello che considera il pericolo maggiore, Giolitti. Ma non ha alcuna intenzione di arrivare davvero a una soluzione pacifica rinunciando all’insurrezione. Risalito sul treno dopo il colloquio con Salandra e molto soddisfatto per l’esito dello stesso, si rivolge caustico a Cesare Rossi: “Persistono a illudersi che la soluzione possa trovarsi a Roma e non vedono che è a Milano che bisogna cercarla. Chi ha provocato la crisi? Il fascismo. È al fascismo che spetta il governo”.

I ministri della marcia

Capo del governo: Benito Mussolini (PNF)

Esteri: Benito Mussolini (PNF)

Interni: Benito Mussolini (PNF)

Lavori pubblici: Gabriello Carnazza (Soacial Democratico)

Lavoro: Stefano Cavazzoni (Partito Popolare)

Tesoro: Vincenzo Tangorra (Partito Popolare)

Agricoltura: Giuseppe De Capitani (PLI)

Industria: Teofilo Rossi (PLI)

Giustizia: Alfredo Rocco (PNF)

Guerra: Armando Diaz (Vincitore prima guerra mondiale)

Marina: Paolo Thaon Di Revel (Ammiraglio)

Istruzione: Giovanni Gentile (Filosofo)

Colonie: Luigi Federzoni (ANI)

Finanze: Alberto De Stefani (PNF)

Poste: Giovanni Colonna (Social Democratico)

Economia Nazionale: Orso Maria CorBino (PLI)

Comunicazioni: Costanzo Ciano (PNF) 

David Romoli

100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo. Così Mussolini ingannò i liberali: seducendo la Regina e facendo finta di trattare. David Romoli su Il Riformista il 20 Ottobre 2022 

Alla minaccia di insurrezione credono in pochissimi, ma il ministro della Guerra Soleri non vuole comunque farsi trovare impreparato se i fascisti decidessero davvero di marciare su Roma: il 19 ottobre convoca il generale Emanuele Pugliese. Ebreo, nazionalista, monarchico, pluridecorato, Pugliese è uomo d’azione. In guerra è passato in 26 mesi da capitano a generale guadagnandosi il grado sul campo: ferito tre volte, inclusa una ferita multipla al viso subìta durante l’attacco a una trincea.

Sulla fedeltà di Pugliese il ministro non nutre dubbi e il generale, a sua volta, è pronto a mettere la mano sul fuoco per quanto riguarda quella delle truppe. Che l’esercito simpatizzi per i fascisti è un fatto, e del resto non ci sono dichiarazioni o comizi senza che i capi fascisti esaltino l’esercito. Ma se si dovesse arrivare allo scontro armato Pugliese garantisce che ufficiali e soldati non esiterebbero. Soleri chiede ragguagli sulla situazione militare. Roma non è una delle città del Nord conquistate d’impeto dagli squadristi. Oltre alle Guardie regie, ai Carabinieri e alle Guardie di finanza ci sono 28.400 soldati ben armati più 7500 reclute. Sono di stanza a Roma i battaglioni di alpini, fedelissimi alla monarchia. In caso di scontro armato non ci sarebbero dubbi su una rovinosa sconfitta dei fascisti. Il problema però è che per il re, per Facta e dunque anche per il ministro lo scontro armato va evitato a tutti i costi.

Vittorio Emanuele minaccia addirittura di abdicare ove si arrivasse al bagno di sangue. Proprio per mettere a punto un piano per difendere Roma senza una battaglia Soleri ha convocato Pugliese. Sul che fare il generale ha le idee chiare: bisogna impedire che gli squadristi arrivino a Roma e per questo vanno bloccate, oltre alle strade, soprattutto le linee ferroviarie, essendo i treni il mezzo principale che gli squadristi adopereranno per raggiungere Roma. Pugliese indica le tre stazioni nevralgiche vicino Roma da chiudere per bloccare eventuali insorti: Sezze Romano a sud, Orte e Civitavecchia a nord. Anche i fascisti, nelle stesse ore, mettono a punto il loro piano di battaglia. Il 19 ottobre i tre capi della Milizia e il vicesegretario Teruzzi si incontrano a Bordighera.

Quando Mussolini illuse Giolitti facendogli credere di fare un governo insieme

Quando partirà l’insurrezione il comando, almeno formalmente, passerà nelle loro mani mentre Mussolini, a Milano, si occuperà di proseguire la trattativa. Sede del comando sarà Perugia mentre a Foligno si raduneranno le forze di riserva, guidate dal generale Zamboni. Il piano prevede il concentramento di tre diverse colonne fasciste a Santa Marinella, Monterotondo e Tivoli, da dove dovrebbero convergere su Roma. Già che si trovano a Bordighera, i monarchici De Bono e De Vecchi si recano in visita dalla regina madre, che sanno essere simpatizzante del fascismo. Li introduce il conte Belgioso, che De Bono definisce “un fascistone”. La regina però è anche più estrema: «L’augusta Donna è più fascista di noi! Ci ha trattenuto tre quarti d’ora interessandosi profondamente al nostro movimento e mostrandosi entusiasta dei nostri regolamenti». Al momento del congedo i due capi della Milizia si rivolgono alla regina Margherita definendola “la stella del nostro mattino”. La moglie di Umberto I gradisce e restituisce la cortesia: «Io sono sempre per le cose grandi e buone». Tra la regina e il duca d’Aosta il fascismo dispone di entrature potenti a palazzo.

Il giorno dopo i tre comandanti si spostano a Firenze dove, con Michele Bianchi, sono chiamati a rapporto tutti i comandanti delle legioni. Bisogna organizzare l’adunata del 24 a Napoli ma soprattutto l’insurrezione. Il progetto prevede prima di tutto l’occupazione degli edifici pubblici nelle principali città, poi il concentramento intorno a Roma, nei tre centri già stabiliti più Perugia e Volturno. L’obiettivo è entrare a Roma e occupare “a ogni costo” i ministeri. Se respinti, comunque, i fascisti dovrebbero riunirsi in Umbria, protetti dalle riserve ammassate a Foligno, e costituire un governo con sede nella Val Padana. Ma mentre le squadre si preparano all’insurrezione, senza che una data precisa sia ancora stata definita, Mussolini e Bianchi continuano a trattare e i politici di lungo corso e decennale esperienza, i “volponi”, cadono tutti nella trappola. Michele Bianchi riassumerà così le cose, a marcia consumata: «Mentre si organizzavano le squadre fasciste si conducevano diplomaticamente le trattative con i fiduciari di Giolitti. Ci furono molti colloqui a Milano col prefetto Lusignoli e a Roma con l’onorevole Camillo Corradini. Egli riservava, bontà sua, a Benito Mussolini il posto di ministro senza portafoglio! Io pensavo alla marcia su Roma che Mussolini preparava e tiravo le cose in lungo senza arrivare volutamente a combinazioni di sorta».

Ci cade Giolitti, il più astuto, e ci cade anche Nitti, che punta sulla spaccatura del fascismo: «Noi dobbiamo utilizzare tutte le forze per accogliere del fascismo la forza ideale che è stata la causa del suo sviluppo. Dobbiamo utilizzarlo incanalandolo nelle forme legalitarie delle nostre istituzioni. Ogni ritardo può essere dannoso». Balbo affida il giudizio su questo discorso al suo Diario: «Pure Nitti ha virato di bordo col suo ultimo discorso. Anche se il vecchio filibustiere ha poco da sperare dal fascismo. Ovvero, sì, può sperare in un buon tratto di corda intorno al collo». Se i liberali non capiscono niente di quel che sta succedendo, i comunisti sono altrettanto accecati: un po’ dalla logica del “tanto peggio, tanto meglio” e un po’, anzi molto, dallo scontro violentissimo e dottrinario contro la sinistra riformista. «È necessario che la borghesia diventi vieppiù reazionaria, chiarendo così al proletariato la sua vera vocazione», scrive Gramsci sull’Ordine nuovo. Sullo stesso giornale Togliatti è anche più definitivo. Parla di un “tiranno bieco con un solo aspetto e un triplice nome. Si chiamerà Turati, don Sturzo e Mussolini”.

In una situazione come questa la sola possibilità di fermare il fascismo è nelle mani dell’esercito, che peraltro non è affatto antifascista, e dunque del re, al quale comunque l’esercito obbedirebbe. Nel governo ci sono ministri come Soleri e come il ministro degli Interni Paolino Taddei pronti a stroncare l’insurrezione. Taddei fa proprio il progetto del generale Pugliese. Convoca un vertice con lo stesso generale, il capo della polizia Graziosi e il vicedirettore generale delle Ferrovie Alberti. Organizza il blocco degli snodi ferroviari che dovrebbero portare gli squadristi a Roma. Invia una circolare ai prefetti ordinando di tenersi pronti, se dovesse cominciare l’insurrezione, “a occupare le Case del Fascio e arrestare i capi fascisti con qualunque mezzo”. Ma è una reazione al colpo di mano di Mussolini che può scattare solo con l’accordo del Sovrano. David Romoli

100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo. Così Mussolini neutralizzò D’Annunzio e si preparò alla marcia su Roma.  David Romoli su Il Riformista il 12 Ottobre 2022 

Marcia su Roma? “Panzane stupide e inconcepibili. È verissimo che noi abbiamo parlato e parliamo di una marcia su Roma ma si tratta di una marcia del tutto spirituale, vorrei dire legalitaria”: sul Corriere della Sera del 6 ottobre il segretario del Pnf Michele Bianchi smentiva così le voci di una imminente insurrezione fascista. In realtà il più strenuo sostenitore, con Italo Balbo, dell’insurrezione, a inizio ottobre non ancora decisa, era proprio lui.

Il presidente del consiglio Facta gli credette. Il giorno dopo inviò al re un telegramma sdrammatizzante: “Parmi che situazione si presenti meno preoccupante”. In ogni caso il presidente comunicava al sovrano di aver ricevuto ampie garanzie dai vertici militari, da Diaz e Badoglio: “Assicurano che esercito malgrado innegabili simpatie verso fascisti faranno loro dovere difendere Roma”. La sottovalutazione di una possibile insurrezione delle camicie nere resterà tale sino all’ultimo, sino alla notte fatale tra il 27 e il 28 ottobre, con poche eccezioni come il ministro degli Interni Taddei e quello delle Colonie Amendola. Non solo Facta e tutti i principali esponenti dell’Italia liberale, ma anche i socialisti e i comunisti, considereranno la minaccia della marcia solo come uno strumento adoperato da Mussolini per strappare ministeri in un futuro governo destinato a “costituzionalizzare” e addomesticare il fascismo.

La partita per chi avrebbe dovuto presiedere quel governo la giocarono tutti i vecchi leader liberali, Giolitti, Nitti, Orlando, Salandra, che si definiva “fascista onorario”. Forse lo stesso Facta ebbe qualche tentazione personale, anche se in quelle settimane lavorò soprattutto per Giolitti. L’abilità di Mussolini fu intrecciare continuamente i due piani su cui si muoveva, quello dello squadrismo insurrezionale e quello della trattativa politica, senza mai far capire quale fosse davvero il suo gioco, che del resto, almeno nella prima decina di ottobre, non aveva ancora stabilito quale fosse neppure lui.

Per Cesare Rossi, allora il più stretto collaboratore del duce, la decisione della marcia Mussolini la prese tra il 6 e il 10 ottobre, sulla base di considerazioni destinate a rivelarsi lucide. Con l’antifascismo sbaragliato, esercito e guardia regia in ampia misura conniventi, Facta che “non sparerà su di noi anche se Taddei ha qualche velleità autoritaria”, i monarchici “rassicurati” dalla conversione del duce ex repubblicano, i parlamentari che “pensano soltanto a mettersi bene con noi”, Mussolini vedeva solo pochi “punti neri della situazione”: Parma, dove gli squadristi erano stati fermati dalla risposta armata degli Arditi del Popolo, il re, d’Annunzio e soprattutto gli squadristi. “I fascisti mi danno più pensiero di tutti. Sono sorti feudi personali e oligarchie di zona che bisognerà domare al fine supremo. Il sovrano è una figura enigmatica, ma ci sono molle intorno a lui che faremo funzionare”, confessò a Rossi. Per intervenire sul re contava sulla regina madre e sul duca d’Aosta, le cui simpatie per il fascismo erano note e nel caso della regina anche estreme.

Il problema principale però era D’Annunzio. Mussolini lo considerava “un inconcludente” che sarebbe stato facile manovrare. La popolarità del Vate, anche tra le stesse camicie nere era però immensa ed era proprio su di lui che i leader liberali contavano per frenare l’onda fascista. Il primo a pensare a D’Annunzio era stato Francesco Saverio Nitti, presidente del consiglio dal giugno 1919 al giugno 1920. D’Annunzio da Fiume lo aveva insultato e ridicolizzato, lo aveva ribattezzato “Cagoja”. Messo da parte l’orgoglio Nitti gli aveva scritto in agosto e il poeta, a sorpresa, aveva risposto. Un fedelissimo del Vate aveva incontrato “Cagoja”, era stato ipotizzato un percorso per arrivare a nuove elezioni e poi a un governo di unità nazionale. L’incontro tra Nitti e D’Annunzio era fissato per il 15 agosto ma pochi giorni prima il poeta precipitò da una finestra del Vittoriale, probabilmente in un boccaccesco tentativo di sedurre la sorella della sua amante Luisa Baccara. D’Annunzio era così stato fuori gioco per settimane: Nitti aveva dovuto ripiegare sulla ricerca di un contatto diretto con Mussolini.

In ottobre il “Comandante” e poeta era ancora al centro di trame, incontri, manovre. Facta puntava sulla sua presenza e sul discorso che avrebbe dovuto pronunciare a Roma il 4 novembre per le celebrazioni del Milite Ignoto, tre giorni prima della riapertura del Parlamento fissata per il 7. In quel discorso, presumibilmente di fronte a centinaia di migliaia di persone, D’Annunzio avrebbe dovuto esortare all’unità nazionale aprendo così la strada a quel governo presieduto da Giolitti e con i fascisti al suo interno che era l’obiettivo di Facta. A spingere D’Annunzio non erano solo i volponi liberali. Alceste De Ambris, ex sindacalista rivoluzionario, estensore della Carta del Carnaro, il progetto sociale della “Libera città di Fiume”, e con lui i legionari fiumani, dai quali il fascismo aveva preso tutto dalla coreografia e nulla dalla visione politica rivoluzionaria, premevano sul Vate perché si schierasse apertamente contro Mussolini. Era pronto per l’uscita a metà del mese il loro giornale, La Patria del Popolo, radicalmente antifascista.

Mussolini sapeva che D’Annunzio poteva costituire un ostacolo insormontabile. L’11 ottobre si presentò così al Vittoriale, per sondare le intenzioni del Vate: “Non vi chiedo di schierarvi con noi ma sono sicuro che non vi metterete contro questi meravigliosi giovani”. La replica dell’Immaginifico è sibillina e ambigua. Il duce lasciò Gardone senza aver raggiunto l’obiettivo. Della mediazione diplomatica si incaricò Costanzo Ciano, eroe di guerra, l’uomo della “beffa di Buccari” del febbraio 1918, quando tre motosiluranti avevano effettuato un’incursione beffarda contro la flotta austro-ungarica nella baia di Buccari. Tra gli incursori c’era anche D’Annunzio.

Ciano, fascista molto vicino ai nazionalisti e ai monarchici, riuscì a tessere la tela di un accordo. A Genova la Federazione dei Lavoratori del Mare guidata da un ex legionario dannunziano, Giuliano Giulietti, era impegnata in uno scontro durissimo con gli armatori ma anche con il sindacato fascista, la Corporazione del Mare. A sorpresa Mussolini, D’Annunzio e Giulietti firmano un protocollo d’intesa che salvò il sindacato dannunziano, scatenò le ire degli armatori, provocò un diluvio di proteste da parte dei sindacalisti in camicia nera. Mussolini, convinto di aver neutralizzato d’Annunzio, non fece una piega. Si fece negare quando gli armatori furibondi lo cercarono a Milano. Cestinò senza un commento le proteste della Corporazione del Mare.

La speranza di disinnescare la minaccia eversiva del fascismo grazie al futuro discorso di D’Annunzio sarebbe sopravvissuta ancora per qualche giorno ma Mussolini era ora certo di aver imbrigliato il Comandante. Il principale rischio era adesso che Facta forzasse la mano presentando le dimissioni anche a Parlamento chiuso e aprendo così la strada al ministero Giolitti che, tra tutte le ipotesi in campo che il duce fingeva di sostenere, era quella più temuta. Il 13 ottobre, in effetti, il ministro della Guerra Soleri era corso a Cavour per portare all’anziano statista piemontese un messaggio di Facta che lo esortava a rompere gli indugi. L’esito, comunicato subito per telefono al presidente del consiglio, sembrava positivo: “Tutto bene: lo zio ha già scritto a matita la lista dei ministri”.

Su questa base, il giorno stesso, Facta aveva proposto al governo di rassegnare le dimissioni nelle mani del re ma la proposta era stata respinta dai ministri. Due giorni dopo, in un colloquio chiesto da Bianchi, Facta assicurò al segretario del Pnf che non ci sarebbero state dimissioni e crisi extraparlamentare prima della riapertura del Parlamento, il 7 novembre. Per cogliere “l’attimo fuggente” impadronendosi dello Stato prima di vedere le loro fortune dissolversi come era successo ai socialisti due anni prima, i fascisti avevano a disposizione due o tre settimane. David Romoli

In ricordo di Norma Cossetto stuprata dai partigiani comunisti. Guido Igliori su Cukturaidentita.it il 4 Ottobre 2022

Era l’estate del 1943 e stava raccogliendo il materiale per la sua tesi di Laurea, intitolata L’Istria Rossa, che avrebbe discusso di lì a poco all’Universtà di Padova: lei era Norma Cossetto, insegnate precaria e studentessa, nata 17 maggio del 1920 a Santa Domenica di Visinada in Istria. Ma quel lavoro accademico non vide mai la luce: il 26 settembre di quell’anno un gruppo di partigiani comunisti titini la sequestrò e la portò nell’ex caserma dei Carabinieri di Visignano con l’obbligo di aderire al Movimento Popolare di Liberazione. Lei si rifiutò e per quel rifiuto iniziò l’inferno che la portò a una morte atroce: il giorno dopo la presero di nuovo e la portarono via. Non sarebbe più tornata a casa: diciassette aguzzini, partigiani comunisti, la legarono ad un tavolo, ripetutamente la violentarono, le recisero i seni e proseguirono con sevizie abominevoli e innominabili che finirono solo nella notte tra il 4 e 5 ottobre quando, insieme ad altri prigionieri, Norma Cossetto venne condotta con la forza fino a Villa Suriani e ancora viva gettata in una foiba. Aveva solo 23 anni.

Come dice Edoardo Sylos Labini direttore e fondatore di CulturaIdentità, questa è una pagina di inaudita violenza rimasta vergognosamente nascosta per troppi anni in molti libri di storia. Ed è per questo che con CulturaIdentità e il Comitato 10 Febbraio Norma Cossetto verrà ricordata i prossimi 4 e 5 ottobre in oltre 200 città italiane con una rosa rossa presso i monumenti simbolo della Grande Guerra, delle foibe e della violenza contro le donne. Un messaggio, quello di Norma Cossetto, di drammatica attualità, afferma Labini, non solo per il carattere ignominioso della violenza esercitata contro una donna per motivazioni politiche: si pensi alle manifestazioni di questi giorni delle donne in Iran contro la repressione e a favore della libertà, quella stessa libertà che Norma Cossetto difese fino all’estremo sacrificio. La violenza contro le donne va combattuta ogni giorno: ricordatela con noi con una rosa rossa in tutte le città italiane.

Il razzismo dello spirito del filosofo Julius Evola tra «Passato e Presente». Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Ottobre 2022

Giulio Cesare Andrea Evola, che in seguito si farà chiamare Julius, nasce a Roma il 19 maggio 1898 da una famiglia aristocratica e cattolica di lontane origini spagnole. Un personaggio raccontato da Paolo Mieli e dalla professoressa Alessandra Tarquini a Passato e Presente, in onda oggi alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia.

Evola è un pittore, un poeta, un filosofo, un saggista e tutte le sue attività concorrono alla definizione di un pensiero controverso. Si occupò di arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, in una sintesi che rappresenta una mescolanza singolare (anche se non necessariamente originale) di diverse scuole e tradizioni di pensiero, che includono l’Idealismo tedesco, le dottrine orientali, il tradizionalismo integrale e, in ruolo preminente, la Weltanschauung della Konservative Revolution, con cui Evola ebbe una profonda identificazione anche personale. Massimo assertore della tradizione che contrappone alla degenerazione del mondo moderno, è fautore di una società aristocratica basata sul principio della gerarchia, sulla differenza tra gli uomini, antidemocratico, anticomunista, antiborghese, fascista, per alcuni più a destra del fascismo stesso. Nucleo fondamentale delle sue concezioni teoriche è il razzismo dello spirito, dell’anima, della cultura, che si aggiunge a quello biologico professato dal nazionalsocialismo. Nel secondo dopoguerra le sue opere vengono riscoperte in particolare dai giovani appartenenti alla destra radicale che si ispirano alle sue tesi e lo erigono a loro principale maestro. Evola è morto a Roma l’11 giugno 1974.

Il silenzio delle armi. La sindrome 1939 dell’Europa e il possibile allargamento della guerra di Putin. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 5 ottobre 2022.

Il governo italiano che sta per nascere e le Cancellerie degli Stati Ue hanno messo in conto la prospettiva di un aggravamento del conflitto in Ucraina? Bisogna prendere sul serio le sue minacce all’Occidente, preparandosi al peggio.

«Con mia sorpresa, Sindrome 1933 ha avuto un lettore particolarmente appassionato. Continua a citarlo, come esempio di come siano pericolosi e populismi, e di come anche una democrazia consolidata possa sbandare per via elettorale. È Papa Francesco. La prima volta l’aveva menzionato ricevendo nell’ottobre 2020 il premier socialista spagnolo Pedro Sanchez. Mancavano poche settimane alle elezioni americane in cui, persa la Casa bianca nelle urne, Donald Trump avrebbe tentato di riprendersela con l’assalto al Congresso. Ha continuato imperterrito in diverse occasioni successive». 

Chi scrive è Siegmund Ginzberg in un lungo articolo su Il Foglio dal titolo ’’La trappola del 1923’’ nel quale ricorda come le responsabilità dei partiti di allora, dai liberali ai socialisti massimalisti, consentirono, con la complicità della Corona e dei padroni del vapore, a Benito Mussolini di prendere il potere da posizioni di minoranza alla Camera dei Deputati. Poi – ecco la ’’trappola del 1923’’ – quegli stessi partiti non si opposero alla legge Acerbo che premiava in modo esagerato (due terzi dei seggi) la formazione che avesse ottenuto un quarto dei voti espressi. 

Il paradosso fu che quella legge elettorale non scattò perché Mussolini – sia pure con i brogli e le violenze – ottenne dalle urne i due terzi dei suffragi. 

Ginzberg è solito rievocare storie passate individuando dei percorsi, delle trame e delle azioni (o delle omissioni) che trovano riferimenti e similitudini con vicende dei nostri tempi. Così in ’’Sindrome 1933’’ (Feltrinelli) la puntuale descrizione degli eventi della resistibile ascesa di Adolf Hitler lasciava leggere tra le righe le preoccupazioni derivanti dall’esito delle elezioni politiche del 2018 e dalla maggioranza e del governo che ne erano derivati. 

Ginzberg ha avuto l’intelligenza di non scrivere un saggio intitolato ’’Sindrome 1922’’, ma si vede chiaramente che la legge Acerbo è un pretesto e che nella trappola, in cui erano cadute le classi dirigenti, era stata scavata l’anno prima. 

Come ricorda Ginzberg: «Siamo stati noi a dare la vittoria al fascismo»: scriveva il leader socialista Filippo Turati alla sua compagna Anna Kuliscioff. La stessa constatazione potrebbe essere fatta anche oggi per quanto riguarda la vittoria del centrodestra a guida Giorgia Meloni. Ma non avrebbe senso chiamare in causa un neofascismo evocato tante volte a sproposito da non suscitare più alcun timore come se fosse il lupo della favola. 

Confesso che se avessi le capacità e la cultura di Siegmund mi cimenterei (glielo anche suggerito) con un’altra sindrome: quella del 1939. Ha ragione Francesco Cundari: la guerra in Ucraina è come una spada di Brenno sul piatto delle possibili alleanze tra le opposizioni al governo di destra-centro. 

A mio avviso c’è un aspetto più generale (da cui la sindrome 1939): l’Europa è in una condizione  di belligeranza con la Federazione Russa da 24 febbraio scorso. È una strana guerra che per ora si combatte  con altri mezzi. Anche nei primi mesi che precedettero la Seconda guerra mondiale si usò questa definizione, perché dopo l’aggressione nazista (e sovietica) della Polonia, il 1° settembre 1939 alla dichiarazione di guerra di Francia e Regno Unito alla Germania seguirono diversi mesi di silenzio delle armi, fino alla primavera inoltrata del 1940.

In Europa e in Italia non viene presa in considerazione l’ipotesi che nel conflitto in corso avvenga un salto di qualità. Lo stesso Putin ha dichiarato che la minaccia di usare delle bombe atomiche tattiche «non è un bluff». La Nato ha risposto tracciando delle linee rosse invalicabili da parte della Russia (anche se non è chiaro per ora quali sarebbero le gravi conseguenze annunciate da Joe Biden e dalla Alleanza atlantica). 

Putin – con la guerra del gas – sta portando avanti un’offensiva che rischia di mettere in gravissima difficoltà il nostro sistema economico, tanto che non può non essere ritenuto equiparabile a un atto di ostilità. 

Il governo italiano che sta per nascere, le Cancellerie europee hanno messo in conto la prospettiva di un aggravamento e di un allargamento del conflitto? Quando Putin afferma che la sua non è una guerra all’Ucraina, ma all’Occidente a nessuno viene in mente che dica sul serio? Mettiamo pure tutte le risorse disponibili sul caro bollette; ma nessuno pensa alla difesa e alla sicurezza nazionale? 

L’interesse dell’Italia caro ai nuovi patrioti, la salvaguardia dei confini non passano anche dalla capacità di affrontare pericoli ben più gravi dello sbarco sulle nostre coste delle carrette del mare che vanno alla deriva nel Mediterraneo insieme agli incrociatori russi? 

Poi nel giro di un paio di anni lo scenario internazionale potrebbe cambiare completamente. Quando Joe Biden dice ai suoi sostenitori «Avete visto che cosa è successo in Italia?», non si preoccupa di un possibile neo fascismo di casa nostra, ma di un fascismo che cova negli Stati Uniti, se il trumpismo dovesse riemergere. 

L’8 novembre Biden rischia di perdere la maggioranza al Congresso come preludio di una sconfitta alle elezioni presidenziali. Così l’Europa si troverebbe schiacciata tra due fuochi: l’alleato americano che riaccende lo storico filone dell’isolazionismo e la Russia che ne pretende e ne ottiene la resa economica per strappare anche quella politica. A quel punto sulla valorosa Ucraina si proietterebbe l’ombra malefica dell’Afghanistan.

Claudio Siniscalchi per “Libero quotidiano” il 4 ottobre 2022.

Mussolini amico degli inglesi? Una scemenza sesquipedale! Sostenerlo davanti ad un professore di storia garantisce una bocciatura senza appello. Un Cazzullo qualsiasi salterebbe sulla sedia. Ebbene, reggetevi forte. Comprate il nuovo libro di Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella Nero di Londra. Da Caporetto alla marcia su Roma: come l'intelligence militare britannica creò il fascista Mussolini (Chiarelettere, 250 pagine, 18 euro) e iniziate a leggerlo. Nel 1917 l'Italia è ad un passo dal collasso. La sconfitta di Caporetto potrebbe piegare i difensori del cambio di casacca (da alleati degli Imperi centrali a neutrali a nemici) e spingerli alla resa.

Giovanni Giolitti è stato battuto, imprevedibilmente, dalla forza dirompente della piazza, dall'entusiasmo infiammato scatenato da Gabriele d'Annunzio. Il Vate, Giolitti lo ha cacciato da Fiume a cannonate. E lui si è vendicato cacciandolo da Roma. Il «vecchio Palamidone», l'odiato «mestatore di Dronero», potrebbe tornare in sella, alla guida del «partito tedesco», sostenuto da molti e potenti industriali. 

La resa dell'Italia muterebbe, con grande probabilità, l'esito della Grande Guerra. Gli inglesi sono spaventati a morte da questa possibilità. La diplomazia, quella ufficiale, quella che si muove dietro le quinte e i servizi di sicurezza militari, allungano i loro tentacoli. Si danno molto da fare. Trovano in Benito Mussolini, un tempo socialista massimalista e pacifista, trasformatosi nella voce dell'interventismo, che dalle colonne de «Il popolo d'Italia» martella invitando al combattimento, una sponda fondamentale.

Da questo preciso istante nasce l'amore - un tempo noto a tutti, poi sempre più celato e, infine, rinnegato e con sapienza nascosto - tra gli inglesi e Mussolini. E l'amore non è né occasionale né frutto di interessi reciproci. È amore vero. La leggenda del disprezzo inglese per Mussolini e per il fascismo è, appunto, una leggenda. La Marcia su Roma dovrebbe inorridire gli inglesi. La salutano favorevolmente. Il delitto dell'onorevole socialista Giacomo Matteotti dovrebbe portare ai ferri corti i rapporti tra i due paesi. La guerra d'Etiopia all'apparenza è una contrapposizione netta tra l'Inghilterra liberale e l'Italia illiberale. La guerra di Spagna una lotta epocale tra antifascismo a fascismo. L'alleanza con la Germania di Hitler una rottura insanabile e una concerta minaccia.

REALISMO Gli inglesi, in ogni occasione, contano su Mussolini, fino all'entrata in guerra (e anche oltre). Sperano nel suo realismo. In fondo, dalle origini della sua scalata al potere, lo hanno sempre appoggiato. Quando non hanno potuto farlo, per divergenti e inconciliabili posizioni, hanno mantenuto canali riservati di dialogo.

È noto - anche se minimizzato per non urtare le narrazioni di convenienza - che il fascismo abbia ottenuto larga fiducia nel mondo anglosassone. Non limitate, come si vorrebbe, al movimento delle camicie nere britanniche di Oswald Mosley, tanto rumoroso quanto innocuo.

La figura di Mussolini suscitava grande attrattiva. Era giovane, innanzitutto. La perfetta reincarnazione di Cesare, dallo sguardo magnetico e in possesso di retorica e gestualità prorompenti.

Il giornalista inglese Percival Phillips nel 1922 in un suo libro (nel titolo contrappone il Drago Rosso alle camicie nere) manifesta con estrema chiarezza il proprio punto di vista: il fascismo era paragonabile alla «guerra santa» per la conquista della libertà. I fascisti avevano evitato all'Italia il «terrore rosso» bolscevico. 

La prima biografia di Mussolini scritta in inglese, nel 1923, è opera dell'antropologa londinese Gertrude Godden. Un ritratto entusiasta. Mussolini ha avviato un processo di «rigenerazione nazionale» sfociato in una «nuova democrazia». Pertanto, il fascismo deve intendersi la pietra sulla quale si edificherà il rinnovato corso europeo. L'Italia stava soffocando, stretta al collo da miseria, discordia, corruzione, oltreché dalle mani al collo di Lenin. Il fascismo però è riuscito a divincolarsi, grazie all'azione dei combattenti, ristabilendo nel paese ordine e legalità. Il propagandista del «fascismo universale» è un inglese, James Strachey Barnes.

Da protestante e liberale Barnes si converte prima al cattolicesimo e poi al fascismo (Oaks ha pubblicato di recente il suo Io amo l'Italia. Memorie di un giornalista inglese e fascista), diventandone il principale propagandista internazionale. Il saggio di Cereghino e Fasanella si legge d'un fiato, come un romanzo avvincente. È basato su una documentazione d'archivio di tutto rispetto, per nulla animato da malumori antifascisti. Mala sua importanza non è legata soltanto agli avvenimenti presi in esame. La presa di potere di Mussolini. Per logica conseguenza riapre la questione della fine del capo del fascismo. 

La «pista inglese», rilanciata da Renzo De Felice poco prima della sua scomparsa, si basa sull'assunto che la permanenza in vita di Mussolini poteva rivelarsi imbarazzante. Per gli inglesi. Gli americani volevano processarlo. Gli inglesi farlo sparire. Senza macchiarsi le mani di sangue, lasciando il lavoro sporco ai connazionali del Duce. Scomparendo quest' ultimo non rimanevano testimoni credibili, e carte compromettenti, del breve interludio d'amore (non poi così breve!) tra il «figlio del fabbro» e la «perfida Albione». Chi arrivò per primo?

L’Italia alla ricerca di un «posto al sole». Il Duce annuncia la guerra in Etiopia. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Ottobre 2022.

«Con l’Etiopia abbiamo pazientato 40 anni. Ora basta!» con queste parole Mussolini, durante il tredicesimo anno dell’era fascista, annuncia l’inizio della guerra in Etiopia. È il 3 ottobre 1935 e «La Gazzetta del Mezzogiorno» riporta integralmente lo storico discorso del duce, pronunciato dal balcone di Palazzo Venezia: il duce insiste su tutti i luoghi comuni cari ai nazionalisti e ai fascisti, in particolar modo sulla volontà di riscattare la disfatta di Adua del 1896 e soprattutto la «vittoria mutilata» della prima guerra mondiale.

Facendo proprie le mire espansionistiche che avevano già caratterizzato la politica dello stato liberale, Mussolini proclama la necessità dell’impero: utilizza, dunque, alcuni scontri avvenuti ai confini dei possedimenti italiani in Somalia e in Eritrea come pretesto per aggredire l’Abissinia.

«Venti milioni di italiani hanno partecipato all’adunata in un’atmosfera di ardente patriottismo», si legge sul quotidiano.

Anche a Bari un’enorme folla si è raccolta in corso Vittorio Emanuele II – immortalata in una spettacolare foto dello Studio Ficarelli – per ascoltare l’atteso annuncio dalla voce del duce, diffusa dagli altoparlanti: «l’umanità barese stipata fino all’inverosimile risponde con echi tonanti al grido della folla della Capitale».

L’aggressione è accompagnata da una propaganda martellante che insiste sul bisogno dell’Italia di conquistare un «posto al sole» per dare terra e lavoro ai disoccupati e allo stesso tempo affrancare le popolazioni africane dallo stato di schiavitù cui sono costrette.

In realtà le truppe guidate da Graziani e Badoglio si daranno a violenze inaudite contro gli Etiopi per portare a termine il disegno imperialista di Mussolini.

La Società delle Nazioni, l’organizzazione internazionale creata dopo la Prima guerra mondiale per garantire il mantenimento della pace, condanna l’Italia al pagamento di «inique sanzioni», così definite da Mussolini stesso, per aver aggredito uno stato membro.

Le restrizioni economiche costringeranno l’Italia a cercare metodi alternativi per finanziare la campagna militare: il 18 dicembre 1935 gli italiani saranno «invitati» dal regime a donare la propria fede nuziale e altri oggetti d’oro alla Patria. La «missione civilizzatrice», come sarà propagandata dal regime, si concluderà il 5 maggio 1936 con la conquista di Addis Abeba: l’Etiopia, insieme alla Somalia italiana e all’Eritrea costituirà l’Africa orientale italiana, parte integrante dell’impero proclamato dal duce.

L’annuncio sulla «Gazzetta» del 2 ottobre ‘43. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Ottobre 2022

«Napoli liberata» titola trionfante «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 2 ottobre 1943. «Le truppe alleate sono entrate in Napoli alle otto di stamane. Il grosso delle forze tedesche, composto di circa 5 divisioni, si è ritirato verso nord. Numerose formazioni di retroguardia, alcune delle quali composte di truppe scelte, sono state annientate. I danni causati dai tedeschi alla città di Napoli sono assai ingenti. Negli ultimi giorni però i loro sforzi sono stati considerevolmente intralciati dalla risoluta opposizione dei napoletani». L’occupazione nazista del capoluogo campano termina grazie all’insurrezione popolare che ha luogo tra il 28 settembre e il 1° ottobre 1943: passeranno alla Storia come le gloriose «quattro giornate di Napoli».

Poco dopo la diffusione della notizia dell’armistizio, il 12 settembre 1943 il colonnello tedesco Walter Scholl ha occupato il capoluogo campano e ha emesso un bando con cui impone il coprifuoco e lo stato d’assedio: il primo crimine commesso dalla Wehrmacht è la fucilazione di ​​un giovane marinaio sulla scalinata dell’Università Federico II, a cui i napoletani sono costretti ad assistere e ad applaudire.

I tedeschi sanno che l’arrivo degli Alleati è imminente: pertanto, si danno alla distruzione sistematica di tutte le fabbriche, le infrastrutture portuali e i servizi strategici della città. La popolazione è stremata dai tre anni di guerra, dai bombardamenti, ma trova ugualmente la forza di reagire. Spontaneamente i napoletani, infatti, organizzano la rivolta: raccolgono armi e munizioni, abbandonate dai soldati italiani all’indomani dell’armistizio, e subito iniziano gli scontri. Il 28 settembre 1943 parte la decisiva insurrezione: uomini e donne si impossessano del deposito di armi a Castel Sant’Elmo e combattono aspramente contro l’esercito tedesco. Il giorno dopo i partigiani del Vomero assaltano lo stadio del Littorio, dove i tedeschi si sono asserragliati portando con loro 47 ostaggi. Il 1° ottobre, i tedeschi sono messi alle strette: costretti a trattare la resa, riprendono la ritirata verso nord.

Napoli è la prima città in Europa che riesce a liberarsi da sola dall’occupazione nazista: gli anglo-americani, dunque, fanno ingresso il 1° ottobre in una città priva di tedeschi.

«Con la conquista di Napoli, le forze alleate controllano uno dei più importanti porti d’Italia e una base di operazioni della massima importanza sulla costa tirrenica», si legge sulla «Gazzetta». Si tratta del primo capitolo vittorioso della lotta di Liberazione in Italia, per il quale Napoli otterrà la medaglia d’oro al valor militare.

 Strage nei campi sentenza storica. Nell’ottobre 1922 verdetto in Assise a Bari. Annabella De Robertis su La Gazzetta del mezzogiorno l'01 Ottobre 2022

Dell’esito della guerra greco-turca, della crisi del Consiglio comunale di Bari e della definizione di fascismo si legge sul «Corriere delle Puglie» del 1° ottobre 1922.

Il giurista Giuseppe Alberto Pugliese prova a dare una sua lettura del movimento che si è fatto partito e che diverrà, a breve, forza di governo: «Per esaminarlo è bene spogliare la mente dei vecchi concetti e delle antiche parole aristocrazia, democrazia, destra, sinistra. Il fascismo è cosa radicalmente nuova per la sua formazione, per i suoi intendimenti e tendenze, per il suo capo, per i suoi componenti, per la sua massa».

Non si spegne, inoltre, l’eco per la sentenza finale del processo per la strage di Marzagaglia, emessa dalla Corte d’Assise di Bari. Il 1° luglio 1920, in una contrada tra Gioia e Castellaneta, alcune decine di braccianti, impegnati nella pulitura della vigna presso la masseria della famiglia Girardi, furono a fine giornata colpiti da fucilate provenienti dall’interno della struttura. Il bilancio finale fu di sei morti tra i contadini: Pasquale Capotorto, Vito Falcone, Vincenzo Milano, Rocco Montenegro, Rocco Orfino e l’ultimo, Vitantonio Resta, di soli 16 anni. Ad aprire il fuoco erano stati alcuni proprietari e mezzadri del paese: si scatenò, così, una reazione violenta tra la popolazione, in cui morirono altre tre persone ritenute legate agli esecutori dell’eccidio.

Il processo, apertosi nel maggio 1922, si è concluso il 31 agosto ‘22 con l’assoluzione di tutti gli agrari dall’accusa dei sei omicidi per legittima difesa. Due braccianti, invece, sono stati condannati a 7 e 5 anni di carcere per l’assassinio dei tre proprietari terrieri. «L’atto di clemenza dei giudici significa anche atto di pacificazione - si legge sul “Corriere” –. Le ire che si acuirono tra le due classi sociali, fra proprietari e contadini, sono state superate dal verdetto dei giurati, sono state smussate da una sentenza inappellabile e insindacabile, ispirata al perdono. I giorni luttuosi del 1° e 2 luglio 1920 passeranno alla Storia. Ma passato il turbine che travolse il quotidiano ritmo della vita gioiese, le ire vennero sedate e il compianto divenne solenne per i caduti e colpiti. E la pace ritorni, dunque, nella bella cittadina; abbia la sua consacrazione col verdetto, che volle dire alle parti in contesa, rappresentanti due classi sociali: non più rancori, né odi, d’ora innanzi siate fratelli!».

Meno di un mese dopo, invece, con la violenta presa del potere da parte del fascismo si inaugurerà una lunga stagione di conflitti sociali, di autoritarismo, di repressione, di guerra. Tutto, fuorché la pace.

100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo. Marcia su Roma, così Mussolini arrivò in treno nella capitale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 6 Ottobre 2022 

Quando lavoravo alla Stampa una sera Gianni Agnelli mi invitò a cena nella sua magnifica casa romana sul Quirinale. Tralascio la vista onirica della città e gli arredi, ma non il quadro dipinto su entrambe le superfici della tela, montato a lama di coltello e che attraversava l’aria del grande salotto. L’autore era il futurista Giacomo Balla che su un verso aveva fotografato una gara automobilistica e sull’altro la Marcia su Roma, colta nel momento stravaccato delle cartacce e della stanchezza dei gitanti.

Quella marcia fu un grande rally al quale Mussolini si aggiunse ai manipoli e ai gerarchi arrivando da Milano in treno letto. Di foto e filmati ce ne sono a migliaia ma quel quadro coglieva la stanchezza per una vittoria annunciata e incassata senza colpo ferire. Da allora sono passati cento anni ed eccoci qui in mezzo a tutti i revival e gli editori che non se ne lasciano scappare una, figuriamoci il momento iniziale del governo di Mussolini molto prima che si trasformasse in dittatura. Fioccano libri ed articoli, proviamo a fioccare anche noi parlando di fatti che sono ancora appesi nell’aria come il quadro di Balla. Essendo nato nel 1940 non ricordo quasi nulla del fascismo salvo il centurione Sorgonà che durante la guerra scoprì per colpa mia un deposito di patate illegali sotto il letto di mia nonna: se ne prese quante ne poté portar via e la mia esperienza del fascismo finì lì.

Poi cominciò l’esperienza tramandata. Per prima, la versione ufficiale, semplificata ad uso delle scuole medie secondo cui, dopo la Grande Guerra, fame e disoccupazione provocarono tumulti e paura specialmente nelle reazionarie anime dei possidenti agrari terrorizzati all’idea che in Italia si instaurasse una dittatura come quella di Lenin. Del resto, i socialisti cantavano per strada “E noi farem come la Russia, e noi farem come Lenin”. Mia madre che era nata nel 1912 e dunque aveva dieci anni ed era una acuta osservatrice dalla terrazza di via Parione dietro piazza Navona mi raccontava quanto lei e suo fratello si divertissero a seguire i tafferugli, con qualche revolverata e molte bastonature fra nazionalisti in camicia azzurra, socialisti in camicia rossa e fascisti in camicia nera. Folclore a parte, era un società militarizzata che usciva dalla più feroce guerra militare di tutti i tempi e si ritrova in ogni canzone, comizio, dichiarazione una voglia di regolamento di conti e di guerra civile.

Non ho fatto altro, si può dire, che studiare come potevo il fascismo e le versioni sul fascismo dal dopoguerra in poi. E mi incuriosiva la personalità di questo Mussolini che prima di fare il duce e il dittatore era stato per molti anni un cospiratore e un estremista di sinistra che faceva stendere le lavoratrici sui binari delle tradotte che portavano i soldati in Libia e gli occhi allucinati da pazzo, la pistola sul tavolo, quando viveva da profugo a Trento controllato dalla Imperial Regia polizia austriaca mentre complottava con i socialisti rivoluzionari come Cesare Battisti e si vedeva con dei sudditi di Vienna come Alcide De Gasperi che. quando poteva, lo evitava. E poi gli anni a Ginevra nello stesso albergo di Lenin che in seguito giurò di non averlo mai incontrato mentre Mussolini fino alle ultime ore della sua vita si vantava di essere sempre stato “uno di loro, erano tutti miei figli e fratelli”. E diceva di fare il tifo perché in Italia arrivasse “l’Armata rossa e non gli americani”.

Faceva ancora il gradasso pochi giorni prima di morire conversando con un giornalista americano che gli chiese, dopo la disfatta, perché avesse inventato il fascismo. La risposta di Mussolini fu sfacciata ma paradossale perché conteneva un frammento di verità: «Non l’ho inventato io, ma gli italiani. Io l’ho soltanto organizzato e dato agli italiani quel che volevano. Se fossi nato in Inghilterra sarei probabilmente il leader laburista». Non era neanche vero: non aveva inventato neppure la camicia nera e l’uniforme che era quella usata dai reparti speciali detti “arditi”. Lo stilista inconsapevole era stato un certo maggiore Bossi cui avevano affidato i nuovi corpi speciali che erano la novità della Grande Guerra: avevano cominciato i tedeschi con le Sturmtruppen, i Commandos inglesi e così via per vestire le unità d’assalto, ma i magazzini erano vuoti e bisognava contentarsi dei calzoni e gli stivali avanzati dalla cavalleria, il fez dei bersaglieri e la camicia nera notturna.

Un altro pezzo forte della retorica fascista era il famoso “coltello fra i denti” che passò in lingua a significare il colmo dell’esasperazione che precede l’azione e che gli arditi serravano con le mandibole mentre attraversavano i fiumi. Mussolini aveva raccattato materiali di magazzino e seguitò a farlo saccheggiando le coreografie di D’Annunzio, dal saluto romano al grido greco inventato “eja eja alalà” per avere una specie di “Hip hip hooray”. Di suo, ci aveva messo l’abolizione del “lei” in odio della borghesia. Tornando alla versione concordata e semplificata per quel che accadde un secolo fa, fu convenuto che il fascismo era l’opera di un solo mascalzone fiancheggiato dagli sbandati usciti dalla guerra, al soldo degli agrari e dei padroni del vapore minacciati da comunisti e socialisti, sicché fu trovata la soluzione di prezzolare le bande fasciste che rimettessero le cose a posto.

La Marcia su Roma rappresentò una prova di forza teatrale perché ormai il capo dello Stato, il piccolo re detto dai soldati “sciaboletta”, si era convinto a dare l’incarico all’uomo forte, all’uomo nero in ghette e cilindro. E benché avesse potuto dar ordine ai regi carabinieri di fermare l’orda con la forza, non lo fece ma anzi gli dette l’incarico costituzionale di formare un governo di coalizione. Soltanto dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti e due anni di astensione dei deputati antifascisti riuniti nella sala dell’Aventino, il governo di Mussolini diventò dittatura dichiarata. La fine è nota, anche se prima di arrivare alla fine accaddero moltissimi eventi che oggi sembrano surreali. Tra questi, l’opposizione militare a Hitler durante il primo tentativo di occupare l’Austria. Mussolini pronunciò un discorso contro Hitler di inaudita violenza chiamandolo barbaro e razzista, e spostò alcune divisioni corazzate sul Brennero.

Ma la storia di questo mese di ottobre che cade cento anni dopo quello della Marcia su Roma è una storia dei nostri giorni certamente collegata all’altra attualità che è la vittoria di Giorgia Meloni e con tutte le reazioni e combinazioni connesse. Questa circostanza produce sicuramente delle distorsioni nella lettura della storia e del fascismo in particolare. Devo dire che quando ho scritto un ritratto di Giorgia Meloni, ho imparato molto dal New York Times che, pur essendo per natura editoriale molto sospettoso di questa leader italiana di destra, ha usato un tono non eccitato e dagli articoli del giornale americano ho imparato che le radici ideologiche di Giorgia non stanno nella paccottiglia nostalgica del regime fascista ma nei romanzi di Tolkien, da Hobbit al Signore degli Anelli.

Ma anche con l’ingresso in scena dei personaggi della Terra di Mezzo, la grande tragicommedia del fascismo italiano non si semplifica ma richiede attenzione. Quando ho proposto questo articolo avevo (ed ho) in mente di dare notizia dei libri di due giornalisti che conosco bene: Aldo Cazzullo con il suo Mussolini il capobanda ed Ezio Mauro con L’anno del fascismo, 1922 cronache della marcia su Roma. Libri che si aggiungono alla sterminata letteratura sulla dittatura fascista e sulla relazione tra quella dittatura e la politica italiana di un secolo fa e di oggi. Ho ripreso in mano anche i volumi preziosissimi di Roberto Vivarelli sulla Storia delle origini del fascismo- L’Italia dalla Grande Guerra alla Marcia su Roma.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

100 anni fa la marcia cha aprì le porte al fascismo. Quando Mussolini illuse Giolitti facendogli credere di fare un governo insieme. David Romoli su Il Riformista il 7 Ottobre 2022 

Per il suo esilio re Costantino di Grecia, costretto dall’esercito ad abdicare a favore del figlio, ha scelto l’Italia. Sbarca in Sicilia, con moglie e figli, il 5 ottobre e i giornali danno alla notizia massimo risalto. È possibile che la sorte del sovrano greco susciti comprensibili inquietudini in Vittorio Emanuele III, re di un Paese travolto da una crisi che ha già eroso quasi del tutto la credibilità e l’autorità dello Stato.

Quanto quell’autorità sia ormai con le spalle al muro lo prova una vicenda clamorosa che il governo non riesce ad affrontare e che in effetti evita di affrontare. A metà settembre Mussolini ha incaricato tre dei futuri quadrumviri che guideranno la marcia su Roma di riscrivere il regolamento della milizia fascista. Con il ras Italo Balbo ci sono il generale Emilio De Bono, unico ultracinquantenne, che Mussolini ha scelto per darsi una patina di rispettabilità ufficiale, e Cesare Maria Devecchi, leader dell’ala monarchica e legalitaria del fascismo torinese, definito dallo sprezzante d’Annunzio “teschio baffuto, nullità tonante”. La milizia esiste già da mesi ed è già organizzata come un esercito.

La principale modifica introdotta dal nuovo regolamento è l’abolizione della elettività dei capi, che d’ora in poi verranno nominati seguendo la scala gerarchica. Clamorosa non è la modifica in sé: è il fatto che il 3 ottobre Il Popolo pubblichi il nuovo regolamento, sancendo così ufficialmente l’esistenza in Italia di due forze armate, quella dello Stato e quella del fascismo. Mussolini è perfettamente consapevole della gravità della mossa, che nega il principio del monopolio della violenza da parte dello Stato e così facendo mina la base stessa della sua esistenza. La sua è una sfida portata al massimo livello ma calcolata.

Nella stessa direzione del Popolo, a Milano, lo dice chiaramente a Cesare Rossi, segretario del fascio di Milano e uno dei suoi collaboratori più stretti: “Se in Italia ci fosse un governo degno di tal nome dovrebbe mandare oggi stesso i carabinieri ad arrestarci e a occupare le nostre sedi. Non è concepibile una organizzazione armata in uno Stato che ha il suo esercito e la sua polizia. Ma in Italia lo Stato non c’è”. I fatti danno ragione al duce. Il giorno stesso della pubblicazione del regolamento, il capo di gabinetto del ministero degli Interni porta una copia del Popolo al ministro Taddei: “Se dopo questa sfida il governo non fa niente, si copre di ridicolo”. Taddei replica mostrandogli la lettera di dimissioni già scritta: “Se il consiglio dei ministri non approva le misure che proporrò per uscire da questa situazione umiliante me ne vado”.

Ma il cdm, dove siedono anche ministri che fiancheggiano il fascismo come il titolare dei Lavori pubblici Vincenzo Riccio, decide invece di non fare niente e anche Taddei, su pressione e preghiere del presidente Facta, si rimangia le dimissioni. Per il fascismo è l’ennesima vittoria schiacciante. La carta su cui punta il presidente del Consiglio è l’uomo politico italiano più importante negli ultimi trent’anni, che lo stesso Facta considera suo maestro e leader. È Giovanni Giolitti, 80 anni tondi, cinque volte presidente del Consiglio. Il suo ultimo governo, in carica dal 15 giugno 1920 al 4 luglio 1921, ha affrontato due crisi enormi: l’occupazione operaia delle fabbriche nel settembre 1920 e lo sgombro da Fiume da parte dei legionari di Gabriele d’Annunzio che ne avevano assunto il controllo nel settembre 1919. Aveva risolto entrambe ma con metodi opposti: rifiutando di far intervenire l’esercito, nonostante le pressioni degli industriali, contro gli operai, cannoneggiando Fiume sino alle resa definitiva di d’Annunzio tra il natale e il capodanno 1920.

Giolitti aveva portato i fascisti in Parlamento, nei suoi Blocchi, nelle elezioni del 1921. Dopo la crisi del suo governo e del successivo esecutivo Bonomi era stato lui a premere per la nomina del suo fedelissimo. Il piemontese Luigi Facta, che si definiva “un giolittiano dalla personalità sbiadita”, aveva accettato malvolentieri e solo dopo grandi insistenze del re: “Lo faccia per i miei figli”. Aveva perso un figlio in guerra, detestava Roma al punto da parlarne con la moglie come “dell’esilio”, più volte ministro non aveva grandi ambizioni. Mussolini ne parlava con sarcasmo: “Non posso che nutrire sincero rispetto per il padre che ha dato un figlio alla guerra. Ma mi viene voglia di tirare i baffi al presidente perché sono baffi classici, sono baffi da gendarme francese, da notaio di provincia, da furiere di alloggiamento”. Anche più drastico Balbo: “L’Italia governata dai baffi di Facta? Non ci crede nessuno, nemmeno lui”.

Il 5 ottobre il primo ministro arriva a Torino, accompagnato dal prefetto di Milano e senatore a vita Alfredo Lusignoli, un altro giolittiano di ferro che si incarica di tenere i rapporti tra Mussolini, Facta e Giolitti. Sceso malvolentieri da Cavour li aspetta in un albergo Giolitti in persona. Il messaggio di Facta è secco: “Sei l’unico che può rimettere le cose a posto”. Lusignoli aggiunge che Mussolini sarebbe disposto a entrare in un governo presieduto da lui. Giolitti è sibillino. Concede che potrebbe anche tornare a Roma ma senza essere lui a far cadere il governo. La sua strategia è ancora quella di “costituzionalizzare” il fascismo. Agli autorevoli ospiti spiega che un governo senza fascisti, “un governo Sturzo, Turati, Treves”, dovrebbe o affrontare militarmente i fascisti e precipitare il Paese nella guerra civile oppure non farlo, mantenersi cauto, ed essere rovesciato dai fascisti. Insomma, Mussolini deve entrare nel governo. Facta e Lusignoli sono più che possibilisti. Il prefetto assicura che il duce “ha avuto alte espressioni di elogio” per l’anziano statista. Giolitti lascia la situazione in sospeso. Non accetta ma neppure esclude la possibilità di tornare al governo. Aspetta di vedere che piega prenderanno le cose.

I due giolittiani non mentono. Credono davvero che Mussolini accetterebbe di far parte di un governo Giolitti. In realtà sono caduti nella trappola del duce, che li inganna e considera un governo Giolitti il massimo pericolo. Quel che pensa davvero lo dirà qualche giorno dopo a Cesare Rossi: “Se torna al governo Giolitti siamo fottuti. A Fiume ha fatto cannoneggiare d’Annunzio. Sa dare ai prefetti la sensazione dell’ordine”. Ma quando Rossi chiede se bisogna interrompere i contatti con Lusignoli, Mussolini risponde: “No, perché?”. Far credere a Giolitti di essere pronto ad appoggiarlo fa parte del suo gioco, della sua trappola.

Nella fase finale della partita, Mussolini illude tutti, fa credere a ciascuno dei principali uomini politici del passato, da Orlando a Salandra, da Nitti a Giolitti, di essere disponibile a governare con lui. Ma lo fa solo per tenersi aperte tutte le porte ove non riuscisse a cogliere l’obiettivo di essere nominato lui primo ministro ed evitare comunque di averli contro nel momento in cui si giocherà tutto. Un testimone dell’epoca, il giornalista antifascista Giuseppe Donati, ricorderà in seguito così quel momento: “A tutti Mussolini lasciava credere di essere disposto ad accodarsi umilmente al loro carro, prometteva persino di assumersi il compito, per gli altri spaventoso, di sparare sui fascisti in caso di bisogno; sicché la sua partecipazione diretta al governo pareva inevitabile e necessaria. La marcia su Roma ha poi dimostrato come Mussolini volesse e sapesse giocarli”. David Romoli

I Ras piegarono il duce e imposero la soluzione violenta. Così nacque la marcia su Roma, a dispetto di Mussolini. David Romoli su Il Riformista il 30 Settembre 2022 

Il 30 ottobre di 100 anni fa, all’inizio dell’ultimo mese di vita della democrazia italiana anteguerra, ottobre 1922, la battaglia decisiva era già stata combattuta e il fascismo la aveva vinta. Da mesi l’offensiva squadrista aveva travolto una città dopo l’altra nel centro nord dell’Italia, mentre a sud lo squadrismo era circoscritto in poche aree, essenzialmente Napoli e Bari.

A nord invece quella che non era più una guerra civile ma una violenza unilaterale incontrastata impazzava: a luglio la “la colonna di fuoco” di Italo Balbo aveva occupato per giorni Cremona e attraversato in armi tutta la Romagna: “Siamo passati da Rimini, Santarcangelo, Cesena, per tutte le città tra la Provincia di Forlì e la Provincia di Ravenna, distruggendo tutte le case rosse e le sedi di organizzazioni socialiste e comuniste. È stata una notte terribile. Il nostro passaggio era segnato da alte colonne di fuoco e di fumo”, annota nel suo diario Balbo. In Piemonte le squadre di De Vecchi avevano occupato per giorni Novara costringendo alle dimissioni l’amministrazione.

Contro la dilagante e incontrastata violenza dello squadrismo l’Alleanza del Lavoro, che riuniva tutti i sindacati di sinistra, aveva deciso in una riunione segreta del 29 luglio di proclamare all’inizio di agosto uno sciopero generale, ufficialmente a tempo indeterminato ma che avrebbe dovuto concludersi dopo una settimana, il 7 agosto. Gli scioperanti avrebbero dovuto astenersi da ogni manifestazione passibile di degenerare in violenza: per questo lo sciopero fu definito “legalitario”. Proclamato il 31 luglio, lo sciopero risolse con una soluzione debolissima la crisi di governo che si era aperta il 20 luglio con le dimissioni del governo Facta, in carica dal 26 febbraio. In 10 giorni si erano susseguiti invano 5 tentativi di dar vita a un nuovo esecutivo. Incalzato dallo sciopero, il primo agosto il re rinviò alle Camere Facta, che stavolta ottenne la fiducia.

La decisione di stroncare lo sciopero sostituendosi allo Stato – dunque di arrivare allo scontro finale che avrebbe sancito la vittoria del fascismo – non la prese Benito Mussolini. Il futuro duce, al contrario, la subì senza esserne affatto convinto. Fu il segretario del partito Michele Bianchi, vero artefice dell’offensiva che si sarebbe conclusa con la nomina di Mussolini a primo ministro nel giro di tre mesi, a decidere di consegnare al governo, nelle persone del primo ministro Facta e del ministro degli Interni Taddei, un ultimatum che imponeva di mettere fine allo sciopero entro 48 ore, trascorse le quali sarebbero state le squadre fasciste a occuparsene “sostituendosi allo Stato che avrà dimostrato una volta di più la sua impotenza”. Con una circolare segreta, che però Bianchi mostrò ai vertici del governo, alle squadre era già stato ordinato di occupare i capoluoghi di provincia e i nodi stradali, tenendosi pronti all’azione. Senza aspettare la scadenza dell’ultimatum i fascisti sostituirono comunque i lavoratori in sciopero, spesso con scontri a fuoco che fecero 12 vittime tra gli antifascisti e 8 tra le camice nere.

Il 2 agosto l’Alleanza si arrese e ordinò la sospensione dello sciopero per le 12 del giorno seguente. Pur avendo vinto, Bianchi ordinò lo stesso una violentissima rappresaglia con l’invasione di numerose città e l’imposizione delle dimissioni delle amministrazioni di sinistra. Cooperative e circoli non solo della sinistra ma anche del Partito popolare di don Sturzo incendiate. Gli Arditi del Popolo riuscirono a respingere l’assalto degli squadristi solo a Parma, guidati da Guido Picelli, e nella città vecchia di Bari. A Milano i fascisti occuparono palazzo Marino e convinsero D’Annunzio, di passaggio in città, ad arringare la folla dal balcone. Il poeta guerriero non nominò mai il fascismo, invitò anzi alla riconciliazione nazionale, ma il successo propagandistico, data l’enorme popolarità dell’oratore, fu clamoroso. I fascisti conclusero l’occupazione della città bruciando la sede del quotidiano socialista Avanti!.

Lo sciopero legalitario fu per la democrazia un disastro irrecuperabile. “E’ stata la nostra Caporetto. Usciamo clamorosamente battuti. I fascisti sono oggi padroni del campo”, scriveva già il 13 agosto Turati, e Michele Bianchi, sul fronte opposto confermava: “La vittoria nostra è stata quello che è stata. Strepitosa, assoluta, superiore a tutte le previsioni”. Quella vittoria totale non dipese però solo dalla mobilitazione fascista ma anche e soprattutto dalla resa dello Stato nei giorni seguenti. Il governo considerò l’ipotesi dello stato d’assedio. Non si decise sulla base delle tre considerazioni che avrebbero poi condizionato anche la reazione, anzi l’assenza di reazione, alla marcia su Roma: il timore di scatenare la guerra civile, la convinzione che il fascismo potesse e dovesse essere addomesticato inserendolo in un governo, ma soprattutto il terrore, che campeggia in tutti i dispacci e le comunicazioni di quei giorni, di ridare fiato al “bolscevismo” sconfitto.

Per la seconda volta in un anno Mussolini era stato trascinato in direzione diversa e persino opposta da quella che aveva in mente. L’offensiva squadrista era iniziata alla fine del 1920, al termine del biennio rosso, con gli attacchi a Bologna, poi a Ferrara e di lì nel Veneto, in Umbria e in Toscana. Finanziate in buona parte dagli agrari, le squadre avevano attaccato ovunque per tutta la prima metà del 1921 e il fascismo aveva visto i ranghi ingrossarsi fulmineamente. Tra ottobre e novembre 1920 gli iscritti ai Fasci erano 1.065. Alla fine del maggio 1921 erano 187.588. Un anno dopo sarebbero arrivati a 322.310 con 100mila nuove iscrizioni solo negli ultimi due mesi. Nelle elezioni del maggio ‘21 i fascisti, che si presentavano all’interno dei Blocchi nazionali di Giolitti, avevano portato in Parlamento 35 candidati e Mussolini aveva lavato l’onta dei miseri 5mila voti raccolti sul suo nome nel ‘19, raccogliendo stavolta 197.670 voti a Milano e 173.343 a Bologna.

Però, stroncati i rossi, i finanziatori e i fiancheggiatori del fascismo, gli agrari e gli industriali, la grande stampa, le stesse forze dell’ordine abituate a chiudere gli occhi sulle violenze delle camice nere, si stavano raffreddando, iniziavano a considerare i fascisti una minaccia per l’ordine. In questa situazione Mussolini decise di firmare un “patto di pacificazione” con i socialisti impegnandosi a smobilitare la sua milizia. “Noi pensiamo che la guerriglia civile si avvia all’epilogo”, scrisse il 2 luglio 1921 e nel suo primo discorso alla Camera, qualche settimana dopo: “Siamo disposti a disarmare, se voi disarmate”. Il patto fu siglato il 2 agosto: i ras non lo accettarono. Smentirono Mussolini. Convocarono una grande manifestazione squadrista a Bologna, il 16 agosto, che era di fatto contro Mussolini, tanto che campeggiava uno striscione sprezzante: “Chi ha tradito tradirà”, alludendo alla passata militanza socialista del gran capo. “Il fascismo può fare a meno di me ma anche io posso fare a meno del fascismo”, replicò Mussolini e si dimise dal Comitato centrale.

La realtà era opposta: il duce non poteva fare a meno degli squadristi, gli squadristi non potevano fare a meno del duce. I principali ras, Farinacci e Balbo, si improvvisarono pontieri, assicurarono che la manifestazione di Bologna era stata contro il patto e non contro Mussolini. Sconfitto, il duce centellinò la resa. Il 23 agosto propose di trasformare i fasci in partito politico ma senza più rinunciare alla milizia. Seguirono mesi di discussione, nel corso dei quali l’offensiva squadrista ripartì più violenta di prima. Il 15 novembre Mussolini dichiarò il patto, in realtà mai nato, “morto e sepolto”.

Nell’estate del 1922 era evidente che la sola prospettiva per il fascismo, nonostante la forza che lo aveva reso politicamente il primo partito e militarmente padrone del territorio, era diventare Stato oppure sgonfiarsi nel giro di poco tempo. Per farcela doveva però scegliere tra la via legale della vittoria elettorale e quella insurrezionale. Il dilemma rimase irrisolto anche dopo la vittoria schiacciante della sciopero legalitario. Mussolini parlava di marcia su Roma ma specificando sempre che intendeva una marcia e una conquista spirituali non materiali, allo stesso tempo però l’opzione insurrezionale restava in campo. All’inizio di ottobre, Mussolini non aveva ancora fatto la sua scelta.

David Romoli

L’Italia accoglie le truppe alleate. I primi reparti sono già sulle coste pugliesi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Settembre 2022.

«L’Italia accoglie e saluta con cuore fraterno i suoi potenti amici e liberatori Inglesi e Americani» si legge in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 26 settembre 1943. «L’irresistibile valore dell’VIII Armata e della V Armata spezza le disperate resistenze tedesche». Sono trascorsi quasi venti giorni dall’annuncio dell’armistizio siglato dall’Italia con gli Anglo-americani dopo più di tre anni di guerra: poche ore dopo la diffusione della notizia via radio, i primi reparti degli Alleati già sono sbarcati sulle coste pugliesi, mentre l’esercito tedesco comincia la sua violenta ritirata verso nord.

«Nell’Italia meridionale i tedeschi devono far fronte ad una opposizione sempre crescente dietro le loro linee. A Napoli i tedeschi vengono presi a sassate dagli italiani, mentre quelli che posseggono armi da fuoco sparano dalle finestre» si legge sulla «Gazzetta». «L’VIII Armata, dopo avere occupato Matera ed Altamura, procede oltre nella sua avanzata rastrellando i residui gruppi di tedeschi abbandonati lungo il cammino dalle forze nemiche in ritirata. Con gli altri successi ottenuti nella medesima zona, il fronte anglo-americano nell’Italia meridionale va rettificandosi e migliorando. L’VIII Armata avanza ora verso il nord lungo la costa adriatica incontrando lieve opposizione ed è giunta oggi nei pressi di Molfetta».

Sulla «Gazzetta» ricompare il palinsesto dei programmi radiofonici: gli impianti della sede Eiar di Bari sono stati strenuamente difesi il 9 settembre 1943 dalla devastazione dell’esercito tedesco. Il giorno dopo gli antifascisti Michele Cifarelli, Giuseppe Bartolo, Michele D’Erasmo, Beniamino D’Amato, con il sostegno dell’ex direttore Damascelli e dei tecnici, sono riusciti a mandare in onda i primi notiziari dalla storica sede di via Putignani 247. Rinasce, così, Radio Bari. Partono subito programmi di commento politico e di intrattenimento musicale. Con l’arrivo a Bari dei soldati britannici, termina la totale autonomia della radio: l’organismo delegato alla supervisione delle forme di informazione, lo Psychological Warfare Branch, occupa le strutture di Radio Bari. Prosegue, nonostante il controllo degli Alleati e del governo Badoglio, la leggendaria stagione della “prima voce dell’Italia libera”, che darà impulso al processo di riorganizzazione della vita culturale, rieducherà alla libertà d’espressione un’opinione pubblica ormai disorientata dopo vent’anni di dittatura e, con i messaggi di “Italia combatte”, contribuirà persino alla lotta di liberazione nazionale.

Paolo Cappello, il socialista ucciso dai fascisti 98 anni fa a Cosenza. Il 21 settembre del 1924 il muratore della Massa morì in seguito a un'aggressione fascista. Tra pressioni politiche e amnistie il delitto restò impunito. DAVIDE SCAGLIONE su Il Quotidiano del Sud il 21 Settembre 2022.

Pochi mesi dopo l’omicidio di Giacomo Matteotti la violenza fascista mieteva un’altra vittima. Il muratore socialista Paolo Cappello spirava infatti nell’ospedale di Cosenza il 21 settembre del 1924 dopo sei giorni di agonia. Un colpo di rivoltella esploso dai fascisti lo centrò in pieno petto. Il delitto ebbe un’eccezionale carica emotiva in tutta la Calabria.

LA VITA DI PAOLO CAPPELLO

Cappello nacque a Pedace nel 1890 da genitori ignoti e venne affidato alla famiglia Larosa. Crebbe nel popolare rione della Massa dove gli esordi nel XX secolo furono anni molto difficili. Di indole piuttosto “irrequieta” Cappello ebbe diversi problemi con la giustizia per piccoli reati che lo condurranno anche al forzato soggiorno nel carcere di Colle Triglio. Poi venne l’impegno politico che rappresentò un vero e proprio riscatto sociale. In un primo momento simpatizzò per le idee repubblicane ma prima dello scoppio della Grande Guerra divenne socialista ed entrò a far parte del comitato direttivo della sezione socialista cosentina.

«Non vi fu piccola lotta cosentina, economica o politica, che non lo rinvenne nella prima linea sempre pronto a sguainar l’anima dritta là dove la lotta per il pane e per l’Idea», ricorderà Pietro Mancini sulle colonne de “La Parola Socialista”. Il 17 marzo del 1924 Cappello venne arrestato insieme ad altri compagni con l’accusa di aver ferito al volto il fascista Giuseppe Carbone ma la Corte di Cassazione li assolse per mancanza di prove. Pietro Mancini, avvocato di Cappello, commentò così il processo e il pesante clima che si respirava in città: «La calunnia si era spuntata contro la giustizia e di più contro le prove. I fascisti erano rimasti delusi ed amari. Si segnarono a dito quell’assoluzione. Paolo Cappello non si spaventò delle minacce della Disperata».

CAMICIE NERE E GAROFANI INSANGUINATI

Anche a Cosenza la contrapposizione tra fascisti da una parte e socialisti, comunisti e popolari dall’altra era sempre più cruenta. La guerra aveva fatto scuola di violenza e le camicie nere agitavano lo spettro del bolscevismo per fare proseliti e legittimare le loro “spedizioni”. I partiti antifascisti di certo non porgevano l’altra guancia, reagivano come potevano intuendo però di non essere tutelati dalle istituzioni in una lotta che appariva sempre più impari.

Le provocazioni e le risse erano ormai all’ordine del giorno. Accadde così che la sera del 14 settembre lo squadrista Francesco Bartoli strappò il tradizionale garofano rosso dalla giacca del socialista Francesco Mauro. In tutta risposta lo stesso Bartoli fu preso a bastonate da Achille Mauro, fratello di Francesco. Antonio Zupi e le altre camicie nere bramavano vendetta per le vergate inferte al loro camerata e aggredirono sul ponte di San Francesco un gruppo di socialisti.

L’AGGUATO A COLPI DI PISTOLA

Questa volta però purtroppo non ci si limitò a una scazzottata. Furono esplosi anche dei colpi d’arma da fuoco, uno di questi colpì Paolo Cappello. Trascinatosi grondante di sangue sul corso principale, il ferito venne raccolto e portato a braccia in ospedale. Prima di morire rivelò che a premere il grilletto contro di lui fu Antonio Zupi. Quest’ultimo venne immediatamente arrestato e tradotto in carcere.

IL PROCESSO AD ANTONIO ZUPI

Il processo si tenne a Castrovillari e si svolse in un clima di forte tensione politica. Le squadracce di Cassano allo Ionio e Spezzano Albanese presenziarono alle varie udienze processuali parteggiando ovviamente per Zupi. Il centurione venne alla fine assolto e portato in trionfo dalla folla di fascisti radunatosi nella città del Pollino. Pietro Mancini e Fausto Gullo, difensori della parte lesa, furono invece costretti a barricarsi in casa del presidente del Tribunale per sfuggire alla violenza squadrista.

Il 16 marzo del 1945 la Corte di Cassazione dichiarò «l’inconsistenza giuridica della sentenza di assoluzione emessa il 10 novembre del 1925 dalla Corte d’Assise di Castrovillari nei confronti degli imputati».

Ma, come ricordò Pietro Mancini: «Venne l’amnistia Togliatti e gli imputati ne chiesero l’applicazione, che fu loro concessa», (per ulteriori dettagli si rimanda al libro del giornalista e storico Matteo Dalena “Quel garofano spezzato. Paolo Cappello, muratore antifascista”).

DIECIMILA PERSONE AI FUNERALI

Ai funerali, in cui furono vietati per motivi d’ordine pubblico fiori, bandiere e discorsi, parteciparono diecimila persone come riportato nell’articolo “Diecimila persone ai funerali del compagno Paolino Cappello” apparso sul quotidiano socialista ”L’Avanti” il 25 settembre 1924.

Dopo la caduta del fascismo il sindaco Francesco Vaccaro intitolò all’operaio socialista la vecchia piazza “Littorio”. A Cappello nel 2016, è stata inoltre intitolata la sezione provinciale cosentina dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia.

Estratto dall'articolo di Daria Galateria per “la Repubblica” il 20 settembre 2022.

Mussolini e le femministe: è l'argomento, fecondo di utili riflessioni e a tratti anche dilettevole, dell'ultimo saggio di Mirella Serri, la storica di fortunati e informatissimi saggi su momenti puntuali della nostra storia recente, specie del Ventennio. Il titolo è ironico - Mussolini ha fatto tanto per le donne! (Longanesi, pp. 270); ma il sottotitolo apre un problema più vasto, "Le radici fasciste del maschilismo italiano". 

Gli stereotipi di genere elaborati nel Ventennio - duri a morire - hanno poi segnato gli anni della nascita della Repubblica, protraendosi fino a noi? 

Il saggio si apre, a sorpresa, il 14 novembre 1947, quando i Padri Costituenti iniziano a discutere sul Titolo IV, "La magistratura". Giovanni Leone argomenta che le donne debbano «stare lontano dalle più alte magistrature, dove occorre resistere all'eccesso di apporti sentimentali»; solo gli uomini hanno «l'equilibrio e la preparazione» per tali funzioni: «così emotive», le donne potrebbero essere utili semmai nel Tribunale dei minorenni.

Il repubblicano Giovanni Conti, oppositore di Mussolini dal 1922, giudica imprudente accettare le donne in magistratura «per la loro subordinazione fisiologica ci sia consentito il dirlo, in certi periodi sono assolutamente intrattabili». […] 

Eppure il movimento femminista negli anni Dieci del secolo scorso era attivo e forte; Mussolini ne ha incrociato, sfruttato, tradito e perseguitato molte esponenti. Il 2 dicembre 1912, direttore dell'Avanti!, Mussolini, «con un cappotto proletario col bavero rialzato» è ricevuto da Anna Kuliscioff, medica delle febbri puerperali e "Zarina del socialismo", nella sua elegante casa milanese a piazza Duomo.

Mussolini intende giustificarsi per aver allontanato dalle colonne del giornale un protetto della Kuliscioff e del suo compagno Turati: il giornalista ebreo Claudio Treves. 

Ma le parla invece del suo nome: lo hanno chiamato Amilcare, per ricordare Cipriani, leader della Comune di Parigi, e poi Benito, in ricordo di Benito Juarez, indio messicano che aveva combattuto nel 1860 contro gli invasori francesi; e per terzo nome ha Andrea, in onore di Andrea Costa. 

L'anarchico Andrea Costa era stato amante della Kuliscioff, e padre di sua figlia: Mussolini fa insomma alla Kuliscioff «buonissima impressione», anche se rileva: «non l'è mica per niente un socialista». Per strada, Mussolini incrocia l'avvocato Sarfatti, e sua moglie Margherita, che escono da un aperitivo al Caffè Savini e vanno, anche loro, dalla Kuliscioff.

Margherita, geniale critica d'arte e elegante salottiera di Milano, ha ottenuto dalla "Zarina" una collaborazione all'Avanti! - ma la ha irritata con un articolo su Duilio Cambellotti che le è sembrato poco impegnato. 

Margherita invita subito il direttore a uno dei suoi mercoledì - lui comperò un abito apposito coi revers di raso, e affrontò, coi suoi occhi "spiritati" e le ghette, palazzo Serbelloni, dove la padrona di casa in velluto nero chiacchierava intensamente con Umberto Boccioni, "zazzeruto come un mugik"; verso mezzanotte arrivò chiassoso Marinetti coi suoi futuristi - Margherita combinò un più quieto appuntamento all'Avanti!. 

Da lì si avviò, col tempo, una relazione di lungo e storico corso - intanto il posto di Treves era stato affidato dal direttore a un'amante, la minuta Angelica Balabanoff, sedicesima figlia di abbienti ucraini ebrei - «traditore e puttano» lo definirà lei, all'epoca dei rivolgimenti ideologici del "Mascellone".

Così, tra grande e minuta storia, la Serri ricostruisce la vicenda sentimentale di Mussolini, dalle amanti della giovinezza - malmenate, morse, accoltellate, sfruttate, forzate, rinchiuse in manicomio - e le anarchiche come Leda Rafanelli, Bianca Ceccato. 

Sono decine di vivissimi ritratti, incrociati con la prima vicenda politica - i voltafaccia, dall'interventismo alle posizioni del Popolo d'Italia: «Le donne fasciste non devono occuparsi di politica e di azioni la cui energia meglio si attaglia ai maschi»; l'allontanamento dalle pubbliche amministrazioni delle donne reclutate durante la guerra, il limite alle assunzioni femminili posto al dieci per cento, e altre più perniciose iniziative; scorre intanto nel ricchissimo testo la storia dell'associazionismo femminista e le sue martiri.

Il maschilismo in Italia è una piaga patriarcale; ma, chiede dunque la Serri, quanto è stato rafforzato dal Ventennio?

Maria Berlinguer per “La Stampa” il 22 settembre 2022.

Le donne devono stare alla larga «dalle più alte magistrature, dove occorre resistere e reagire all'eccesso di apporti sentimentali, dove occorre distillare il massimo di tecnicità». È il costituente Giovanni Leone a teorizzare che le donne non possono fare le magistrate perché hanno le mestruazioni. E tra i padri costituenti e i politici di allora non è l'unico a pensarla così. 

Il repubblicano Conti gli dà manforte aggiungendo che in quei giorni sono intrattabili. Nervose, isteriche. Stereotipi e luoghi comuni che vengono da lontano e affondano le radici nel ventennio fascista. È lì che dobbiamo cercare le radici del maschilismo di Stato. 

Lo racconta Mirella Serri che ieri ha presentato a Roma Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano con Paolo Mieli e Simona Colarizi. Il 28 ottobre Mussolini capeggiò una doppia marcia: quella per la presa del potere e per l'abbattimento delle democrazie e quella contro le donne.

Il saggio di Mirella Serri è un affascinate e lungo viaggio nel maschilismo italiano che getta la sua ombra nera fino ai nostri giorni, nei femminicidi e nel linguaggio violento di Facebook. «È la Grande Guerra a mutare le condizioni delle donne: signore e signorine, impiegate e lavoratrici dell'industria offrono un importante apporto al mondo del lavoro e sembrano essere pronte a conquistarsi il diritto al voto ambito da decenni - scrive Serri -.

Occupato lo scranno di presidente del Consiglio, Mussolini scatena la controffensiva nei confronti delle donne. 

È determinato nella volontà di costruire stereotipi che contrastino il femminismo. Ecco, poco dopo il suo insediamento, la cacciata delle donne dalla pubblica amministrazione (assunte durante la guerra, vengono licenziate in massa), ed ecco il dimezzamento dei salari femminili».

L'intervento mussoliniano ha uno scopo prioritario: dare una prova di forza, elaborare una simbologia alternativa a quella democratica e femminista: l'occupazione maschile, sostiene il neo dittatore, è un fattore indispensabile alla costruzione di una solida identità. L'occupazione femminile, invece è deleteria: «fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche morali contrarie al parto». 

Parole del duce che potrebbe pronunciare il premier ungherese Orban, che solo due giorni fa ha detto che le donne devono studiare meno perché altrimenti non si occupano della casa e della famiglia. A dare linfa alle teorie di Mussolini è un libro, Sesso e carattere di Otto Weininger, che ha teorizzato la riduzione in subalternità, per mano di uno Stato forte, delle donne e degli ebrei. 

La donna, dice, toglie dignità all'uomo con la sua presenza, lo indebolisce. «Mussolini capisce benissimo il nuovo peso sociale delle donne e ne ha paura» racconta Serri, spiegando che quando tre anni fa ha deciso di scrivere questo libro l'ascesa di Giorgia Meloni non era all'orizzonte.

Mussolini è un grande amatore non solo quando ha il potere ma anche quando è un uomo poverissimo: le donne lo aiutano moltissimo. Lo amano non ricambiate. Spesso lo mantengono, come Margherita Sarfatti che finanzia la marcia su Roma. 

Benito è un violento. Da ragazzino per un diverbio con la giovane fidanzata le pianta un coltello nella mano. Picchia spesso e volentieri Claretta ed è molto manesco anche con Sarfatti. Come dice la sorella Edvige, opera nei confronti delle donne con molta brutalità. Lui percepisce le donne come un sostegno e come nemiche. Dice: «io non posso controllare la Bestia che è dentro di me». Così definisce il suo sesso, nel senso che quando le donne gli chiedono di non tradirle lui risponde: io sono troppo «sessuato» per non farlo.

Il libro scorre su due binari paralleli. Da una parte la storia di Mussolini, dall'altra quella dei suoi antagonisti che sono Anna Kuliscioff e Filippo Turati. Quando Mussolini viene nominato nel 1912 direttore dell'Avanti, li caccia. 

Il duce il voto alle donne non vuole darlo, dice che le donne sono orinatoi. I fascisti, mentre scendono su Roma per la marcia, trattano con grande violenza le antifasciste che si oppongono. Tra loro Ferola Fedolfi di Imola, che pagherà il suo impegno con la vita, e che non è neanche ricordata sul sito dell'Anpi. «Quando una dittatura va al potere la prima cosa che fa è schiacciare le donne perché sono l'anello debole della catena e un regime può dimostrare la sua autorevolezza cavandosela con poco».

La prima riforma di Mussolini è quella della scuola. «A dicembre del 1922 e gennaio del '23 lancia la riforma Gentile con una scuola solo per le donne. Le ragazze possono studiare canto, danza, lingue, pittura ma il corso non ha nessuno sbocco lavorativo». Nel '42 addirittura il governo fa un elenco dei lavori che possono fare le donne: fioriste, commesse, impiegate di serie B. E con il Codice Rocco rafforza il delitto d'onore.

Lettera a la Repubblica l'11 settembre 2022.

Caro Merlo, piaceva anche a noi italiani Queen Elizabeth forse perché una monarchia come quella inglese l'avremmo voluta, ma non siamo riusciti ad averla. In fondo, nel referendum del 1946, a votare monarchia fu più del 47 per cento degli italiani. Persino Alcide De Gasperi, dicono. Elena Mosca - Biella  

La risposta di Francesco Merlo

Quella di De Gasperi è una leggenda che, più volte smentita dalla figlia, è comunque inverosimile. Non aveva infatti alcuna simpatia per i Savoia. Formatosi e laureatosi in Austria, il solo trono che De Gasperi avrebbe potuto rimpiangere sarebbe stato, semmai, quello di Vienna. Come lui, votarono repubblica molti monarchici delusi dai Savoia. Ma, al contrario, votarono monarchia tutti quei liberali che, con Benedetto Croce, erano convinti che l'istituto monarchico avrebbe offerto maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. 

Votò monarchia Enrico De Nicola, l'avvocato liberale che fu eletto capo provvisorio dello Stato dall'assemblea costituente. Molti clericali e molti cattolici moderati votarono monarchia per paura del comunismo e anche quei partigiani che con i comunisti si sentivano a disagio come Beppe Fenoglio. Eugenio Scalfari, che nel 1946 aveva 22 anni, votò monarchia: "perché ero liberale e crociano". Anche Luigi Einaudi. E Montanelli: "E chi ha fatto l'Italia se non i Savoia coi loro piccoli e antiquati, ma seri eserciti?". 

E Oscar Luigi Scalfaro: "La bella figura di Vittorio Emmanuele II e l'eroica pagina risorgimentale non si potevano spegnere in noi". Lo stesso fece Gianni Agnelli che aveva 25 anni: "Nel giugno del 1946 non ero più ufficiale ma un giuramento vale sempre. Ricordo che sulla linea gotica i partigiani ci dicevano sempre: ah voi siete gli ufficiali badogliani. E noi: no, siamo soldati al servizio di sua maestà". Le più grandi repubbliche d'Europa, dalla Germania alla Francia, sono fiere d'avere avuto dei re. E c'è una certa bellezza nell'inattualità della monarchia persino per noi italiani che, figli convinti della repubblica, abbiamo solo il ballo del Gattopardo e guardiamo smarriti il mito, il sogno dei civilissimi paesi che amiamo come un valore che ci è stato negato. 

Tra le dinastie europee, quella italiana infatti è la più imbarazzante E gli ultimi eredi, Emanuele Filiberto e i suoi genitori, hanno persino peggiorato la già goffa tradizione di una famiglia che da più di 160 anni lavora contro se stessa. I Savoia, per citare Paul Valery, non hanno mai coniugato stile e nobiltà. E c'è quell'orrendo tradimento, con la fuga da Brindisi. La monarchia italiana non fu sconfitta nel giugno del '46, ma l'8 settembre del 1943.

Quella tragica fine del generale Bellomo. Difese Bari, ma fu giustiziato dagli inglesi.  La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 settembre 2022.

«Le ultime ore del generale Bellomo»: il 16 settembre 1945 su «La Gazzetta del Mezzogiorno» si racconta la tragica e paradossale fine dell’artefice della difesa del porto di Bari del 9 settembre 1943.

Meno di due anni dopo la sua eroica impresa – uno dei primi episodi di Resistenza armata contro l’esercito tedesco in ritirata – il generale Bellomo fu giustiziato dai britannici: fu l’unico ufficiale italiano a subire una condanna da parte degli Alleati. Era stato accusato di aver ucciso, nel 1941, nel campo di Torre Tresca, alle porte di Bari, un ufficiale britannico, il capitano Playne, e di averne ferito un altro, il tenente Cooke: entrambi i prigionieri avevano tentato poco prima la fuga.

«La sera del 10 settembre i familiari del gen. Bellomo giungevano all’isola di Nisida per dare l’ultimo saluto al condannato, che vi era stato trasferito il giorno prima. Lo trovarono di animo sereno e fiero e furono essi a ricevere da lui quel conforto con cui sempre li aveva sostenuti nella lunga e dolorosa tragedia , durata ben diciannove mesi», si legge sulla «Gazzetta».

Bellomo – un militare “vecchio stampo” e un antifascista di solida fede monarchica – era stato arrestato a Bari il 28 gennaio 1944: quel giorno si apriva, nel Teatro Piccinni, il primo Congresso dei Comitati di liberazione nazionale, l’assemblea dei rappresentanti dei partiti antifascisti che si erano appena ricostituiti dopo la caduta del regime. Era stato denunciato da un agente segreto britannico, una donna di origini italiane: il Generale, complice il suo estremo rigore morale, durante la sua lunga carriera militare si era circondato di parecchi nemici. Tra questi vi erano sicuramente quegli ufficiali che aveva denunciato per non aver reagito all’attacco tedesco del 9 settembre. Non erano ancora stati messi sotto processo i crimini nazisti a Norimberga, quando Bellomo fu giudicato nel 1945 – a guerra appena conclusa – dal Tribunale militare inglese. Il processo, insediatosi a Bari, si aprì nel caldissimo luglio 1945: le cronache raccontano del dignitoso contegno con cui il Generale accolse la sentenza che lo condannava a morte per fucilazione. Furono alcuni cittadini baresi, invece, a reagire con accorati appelli rivolti ad Alexander, comandante in capo delle forze alleate nel Mediterraneo, e con lettere al Pontefice: il generale, dal canto suo, si rifiutò fino all’ultimo di chiedere la grazia e fu fucilato nel settembre 1945 a Nisida.

«Le sue ultime parole furono per benedire i suoi cari; poi, raccogliendo tutta la vigoria del suo animo come in una estrema offerta di ciò che fu l’aspirazione di tutta la sua vita, gridò “Viva l’Italia!”».

L’armistizio, il re e i massacri in Puglia. Quel 12 settembre del 1943: resa e morti. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022

«Per il supremo bene della Patria che è stato sempre il mio primo pensiero e lo scopo della mia vita e nell’intento di evitare più gravi sofferenze e maggiori sacrifici, ho autorizzato la richiesta di armistizio». Sono queste le prime parole del re Vittorio Emanuele III pubblicate su La Gazzetta del Mezzogiorno del 12 settembre 1943.

Quattro giorni prima è stata finalmente diffusa la notizia della cessazione delle ostilità con gli Alleati anglo-americani: la resa del Regno d’Italia è stata firmata a Cassibile il 3 settembre. «Per la salvezza della Capitale e per potere pienamente assolvere ai miei doveri di Re, col Governo e con le alte autorità militari mi sono trasferito in altro punto del sacro e libero suolo nazionale». La mattina del 9 settembre il capo del Governo Badoglio e la famiglia reale sono, infatti, fuggiti da Roma, lasciandola in balìa dell’inevitabile occupazione tedesca: alcuni reparti decidono spontaneamente di combattere per un estremo, ma inutile, tentativo di difesa della capitale.

Mentre a Brindisi, con l’arrivo del re e di Badoglio, si costituisce il Regno del Sud, simultaneamente inizia la ritirata dell’esercito nazista dalla Puglia. Violenta è la reazione contro i loro ex alleati: i tedeschi si macchiano in quelle ore di azioni criminali contro i soldati sbandati e la popolazione civile a Spinazzola, in località Murgetta Rossi, ad Altamura e Gravina, a Bitetto e in moltre altre località della regione.

A Barletta, i militari del presidio locale guidati dal colonnello Francesco Grasso, erano riusciti a respingere i primi tentativi di attacco da parte dei tedeschi: quel 12 settembre 1943, però, alcuni reparti della Wehrmacht riescono ad occupare il Castello, sede del presidio militare, il porto e altri luoghi strategici. Poche ore dopo nel cuore della città, sulla facciata laterale del Palazzo delle Poste, i soldati tedeschi massacrano dieci vigili urbani e due operai comunali, colpevoli solamente di indossare una divisa. Nel corso dell’occupazione si danno ad altre azioni violente e a rappresaglie: il col. Grasso è deportato in Germania, insieme ad altri ufficiali e soldati, e il 16 settembre alcuni militari sparano deliberatamente sulla folla, composta in gran parte da donne e bambini, nei pressi di un treno da cui si stava scaricando farina. Alla città di Barletta, «splendido esempio di nobile spirito di sacrificio ed amor patrio», è stata conferita nel 1998 la medaglia d’oro al merito civile e nel 2003 la medaglia d’oro al valor militare «per essersi opposta alle agguerrite unità tedesche e aver inflitto loro notevoli perdite».

7 settembre 1943. Quando è nata la Resistenza: il 10 settembre 1943 salvarono l’onore perduto dell’Italia. David Romoli su Il Riformista il 10 Settembre 2022 

Quando, dopo una lunga trafila di rimpalli e scaricabarile, gli ufficiali americani Maxwell Taylor e William Gardiner riuscirono a parlare direttamente col capo del governo italiano Pietro Badoglio, nella notte del 7 settembre, rimasero di stucco. Erano stati inviati direttamente dal capo delle Forze armate alleate Eisenhower, avevano raggiunto travestiti la Capitale per mettere a punto i dettagli del Piano Giant-2. Nell’agenda di Eisenhower, il giorno seguente Badoglio avrebbe dovuto annunciare l’armistizio e il 9 settembre gli alleati sarebbero sbarcati a Salerno. Era prevista la difesa di Roma da parte dell’esercito italiano, che sopravanzava per numero le truppe tedesche nella misura di 3 a 1, al quale si sarebbe aggiunta una divisione americana paracadutata. Il Giant-2 prevedeva il lancio della divisione su quattro aeroporti intorno a Roma: Cerveteri, Furbara, Centocelle e Guidonia.

Si può immaginare lo sbigottimento dei due ufficiali quando Badoglio, buttato letteralmente giù dal letto e non senza fatica alle 2 del mattino, rispose candidamente che le truppe italiane non avrebbero potuto resistere ai tedeschi più di 6 ore e anzi dettò un radiogramma per chiedere la sospensione di Giant-2 e il rinvio dell’annuncio dell’armistizio. Eisenhower, su tutte le furie, cassò la seconda richiesta ma fu costretto ad accettare la prima. Badoglio e i vertici militari non avevano fatto niente per preparare la difesa della Capitale. Inviare i paracadutisti avrebbe voluto dire mandarli al massacro. Se avesse assistito a quella surreale scena, il feldmaresciallo Kesselring, acquartierato a Frascati, sarebbe stato non meno stupito dei due americani. La Wehrmacht considerava Roma persa. I piani per l’occupazione dell’Italia settentrionale prevedevano a quel punto di attestare la prima linea a nord di Roma. Persino Hitler e Goebbels si erano rassegnati. Il dottore e maestro della propaganda nazista, nei suoi diari, pur lamentando il dolore per dover cedere Roma, cercava di riconsolarsi facendo di necessità virtù e spiegando a se stesso che occupare la città eterna avrebbe voluto dire restare con i fianchi troppo esposti. Sin dalla mattina del 9 Kesselring cercò qualcuno con cui trattare senza trovarlo per ore. Il re e Badoglio, con 20 dignitari al seguito, erano scappati all’alba. Quasi nelle stesse ore, alle 5.15, il generale Roatta ordinava di spostare le difese all’altezza di Tivoli abbandonando la Capitale. A Roma non c’era nessuno con cui il feldmaresciallo potesse trattare anche se il maresciallo Caviglia, autonominatosi “supplente del capo del governo ”in quanto più alto in grado tra i militari rimasti nella città, diramò un comunicato radio per assicurare che “la città è tranquilla e si sta trattando con le autorità tedesche”.

Di tranquillo, a Roma, in quel momento non c’era niente. Persino San Pietro aveva serrato per la prima volta le porte della basilica e le guardie svizzere avevano sostituito le picche con le armi da fuoco. La paura di una irruzione tedesca contro quella che Hitler aveva definito “una banda di porci” era diffusa e non infondata. Nella città la battaglia era iniziata già alle 22 dell’8 settembre. Paracadutisti e granatieri di Sardegna avevano aperto il fuoco sui tedeschi che cercavano di passare il ponte della Magliana per occupare Ostiense. La mattina del 9 la sola cosa che infuriava più della battaglia era il caos. Correvano voci di ogni tipo. Molti pensavano che i colpi di cannone indicassero che gli Alleati erano alle porte. La gente affollava strade e ristoranti, qualcuno sparava con le armi che era riuscito a recuperare, molti assistevano da finestre e balconi. Il generale Carboni, comandante del corpo motocorazzato a difesa di Roma, annunciò che avrebbe armato i civili e lo fece davvero, ma con poche armi e fucili di mezzo secolo prima. Il futuro partigiano e attentatore di via Rasella Sasà Bentivegna riuscì ad armarsi solo di un coltellaccio. La sua futura compagna nell’azione di via Rasella Carla Capponi, una delle non poche donne che parteciparono alla difesa, neppure quello. In compenso estrasse da sola e si portò via a spalla da un blindato un militare ferito: in quella giornata di sangue i feriti venivano finiti sul posto dai tedeschi.

Alcune migliaia di persone tra cui Sandro Pertini, il sindacalista Bruno Buozzi, Emilio Lussu, Giuliano Vassalli, Adriano Ossicini accorsero per spalleggiare paracadutisti e granatieri a Porta San Paolo. La battaglia infuriò per due giorni intorno alla Piramide di Caio Cestio, all’imbocco di via Marmorata. Di fronte alla basilica di San Paolo era stato allestito un ospedale da campo, ma scontri e granate piovvero anche su piazza di Spagna, sulle vie del centro, sulla città, traversata dalle autoblindo degli uni e degli altri senza che neppure i militari al loro interno capissero bene cosa stava succedendo. Non era una battaglia ordinata e da manuale. “E’ come nella pellicola di Stalingrado”, commentava Guttuso dopo aver combattuto intorno alla Piramide. “Si respirava un’aria di quarantotto, di Repubblica romana, borghesi armati e animosi, operai, artisti, studenti, mischiati a soldati di gran cuore”, racconterà in seguito lo scrittore Paolo Monelli. Nelle strade all’inizio regnava l’ottimismo, i tedeschi erano descritti come in fuga o prigionieri, gli stessi soldati che, senza nessuno a guidarli, accorrevano verso l’epicentro degli scontri si mostravano sicuri. Ma Monelli, nel suo straordinario libro-reportage scritto nel 1945 Roma 1943, enumera i segnali di senso opposto. I ministeri erano vuoti, nessuno rispondeva ai telefoni, nelle caserme e a palazzo Chigi, allora sede del ministero degli Esteri, si bruciavano in tutta fretta carte e archivi.

La battaglia proseguì sino al pomeriggio del 10 settembre con sparatorie e lanci di bombe e granate un po’ ovunque. Alle 16 la resa fu firmata dal tenente colonnello Giaccone e dal capo di Stato maggiore di Kesselring. Gruppi di granatieri e civili scelsero di opporre un’estrema resistenza, ancora per qualche ora, a porta San Giovanni, adoperando autobus come barricate. L’ultimo scontro fu in piazza dei Cinquecento, dove i tedeschi e i fascisti che avevano combattuto al loro fianco sin dall’inizio avevano occupato l’Hotel Continental. Gruppi di giovani spararono e lanciarono bombe verso l’albergo, venendo falciati dalle mitragliatrici piazzate alle finestre. Furono le ultime vittime di una battaglia costata in tre giorni 1.167 morti tra cui 638 Granatieri di Sardegna, la formazione militare che aveva sostenuto da sola con i paracadutisti lo scontro, e 183 civili incluse 27donne. Alla vigilia della battaglia Kesselring aveva chiesto all’italianista delle SS, Dolmann, se si dovesse temere un’insurrezione degli abitanti della città. “I romani non amano né alzarsi al mattino né sollevarsi contro il nemico”, era stata la sprezzante risposta. La battaglia di Porta San Paolo, combattuta da militari senza comandanti a fianco di comunisti, socialisti, democristiani, azionisti dimostrò che non era davvero sempre questa la realtà. Per questo accese la miccia della Resistenza. David Romoli 

L’incontro diplomatico che cambierà la Storia. Nel 1938 la questione dei «Sudeti». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Settembre 2022

«Monaco, imbandierata a festa come nelle più grandi occasioni, ha ricevuto il Duce con un entusiasmo e un giubilo di vibrante passione che resteranno indimenticabili nella storia»: su La Gazzetta del Mezzogiorno del 30 settembre 1938 leggiamo la cronaca dell’incontro diplomatico che cambierà per sempre la Storia d’Europa.

Il primo ministro britannico Chamberlain è riuscito a riunire a Monaco di Baviera i capi di governo francese, tedesco e italiano per discutere di una questione spinosa, che rischia di sconvolgere l’equilibrio internazionale. Nel marzo dello stesso anno, Adolf Hitler ha portato a compimento l’annessione dell’Austria: a questa aggressione le nazioni europee non hanno reagito, portando avanti la cosiddetta politica di appeasement. Subito dopo, però, il cancelliere tedesco ha sollevato la questione dei Sudeti, una popolazione di lingua tedesca che occupa una regione della Cecoslovacchia, di cui Hitler rivendica con forza l’appartenenza alla Germania.

Per tentare di trovare un accordo ed evitare, così, la guerra, si organizza un incontro a quattro, senza i rappresentanti cecoslovacchi, nella Führerhaus di Monaco.

«Entrati in una sala attigua al salone principale dell’appartamento del Führer, alle ore 12,45 hanno incominciato i lavori. Alle conversazioni prendono parte il Duce e il Conte Ciano, il Führer e il ministro degli Esteri von Ribbentrop, il Primo ministro inglese Chamberlain e Sir Orazio Wilson, il presidente del Consiglio francese Daladier e il Segretario generale al Quai d’Orsay Leger», si legge sulla Gazzetta.

Mussolini rivendica l’esito dell’incontro come un successo personale: svolge, infatti, il ruolo di mediatore tra le parti e convince Chamberlain e Daladier ad accettare il compromesso da lui proposto, in realtà già concordato con Hitler: l’annessione della regione dei Sudeti al Reich.

«Entusiastica eco nel mondo del generoso intervento del duce – si legge sulla Gazzetta – Mussolini è divenuto la figura centrale negli sforzi dell’Europa per impedire la guerra».

L’opera di pacificazione è enfatizzata e sfruttata da Mussolini a proprio vantaggio: si tratta in realtà di una pace precaria e molto fragile. L’accordo vero e proprio, che verrà firmato il 1° ottobre, e di cui si riportano integralmente i punti sull’ultima pagina della Gazzetta, salva formalmente la sovranità della Cecoslovacchia: tuttavia l’aver accettato lo smembramento del paese consentirà ad Hitler di procedere successivamente all’occupazione totale. Nel marzo 1939 verrà, infatti, occupata Praga.

Hitler a Roma e il doppio gioco di Mussolini, l'anticipazione del nuovo libro di Antonio Scurati. Antonio Scurati su La Repubblica il 12 settembre 2022

Adolf Hitler e Benito Mussolini insieme a Venezia nel 1934 

Pubblichiamo un brano di "M. Gli ultimi giorni dell'Europa" nel quale lo scrittore prosegue la sua narrazione del fascismo

La folla è monoteista. Nessuno lo sa meglio di lui. Quando un uomo riduce un popolo a una massa di succubi, quelli non potranno che adorare il suo corpo. Adorarlo o massacrarlo.

Lui l'ha imparato a sue spese pochi mesi prima, il 28 settembre del millenovecentotrentasette, quando la sua visita di Stato alla Germania nazista si è conclusa nell'apoteosi berlinese allo stadio olimpico. 

Incipit di “M. Gli ultimi giorni dell’Europa”, di Antonio Scurati (ed. Bompiani), pubblicato da “La Stampa” il 14 settembre 2022.   

Li uccido e salvo milioni di vite oppure non li uccido e salvo la mia?

Questo il menu del secolo. Morire, essere ammazzati, scannati, scuoiati, farciti per il banchetto degli dei pestilenziali, quella è un'ovvietà. Uccidere, però, è ben altra cosa. Uccidere o non uccidere, il dilemma è tutto qui. 

L'attesa è stata lunga, spossante, settimane di fantasticherie e impotenza.

Lui è soltanto un professore - un archeologo, uno studioso di arte antica, bassorilievi romani e sarcofagi etruschi - che l'ottusità di burocrati ministeriali ha catapultato dalla sua cattedra dell'Università di Pisa sulla ribalta della storia. E per far cosa, poi? La guida turistica ai carnefici in visita di Stato.

Per settimane si è tormentato. Foderarsi di esplosivo (ma chi glielo dava l'esplosivo)? Affidarsi alla vibrazione sicura delle armi da taglio (ma chi glielo dava il coraggio di squarciare una gola)? Indicare a un complice il punto esatto in cui l'auto presidenziale avrebbe, su sua indicazione, rallentato e abbassato i finestrini per ammirare un palazzo o un panorama? Ma complici non ne aveva. 

Ha perfino fatto le prove, il professore. È uscito di casa a orari improbabili per scoprire se era sorvegliato. Nulla. Si è mostrato in pubblico con notori antifascisti, persino a piazza Venezia e nelle trattorie vicine, per accertare l'eventuale controllo di polizia. Niente di niente. Tutto sarebbe stato possibile. Possibile e inverosimile. Ora, però, la vigilia è finita. 

Tre convogli speciali provenienti dalla Germania sono entrati in orario nella stazione di Roma Ostiense, costruita apposta per ricevere con massima pompa i barbari calati dal Nord di fronte alla Porta San Paolo. È una stazione grandiosa, magniloquente, monumentale, una stazione di carta pesta. 

Ci vorranno anni prima che sia pronta per ricevere il traffico passeggeri ma questo non importa, importa che lo scenario sia allestito, che i lampioni, gli alberi, le traversine siano piegati sotto la massa di bandiere, orifiamme, fasci littori e croci uncinate.

Eccolo il condottiero, la "guida" (niente affatto turistica). Il suo piede è il primo a saggiare il predellino. Atteso da un re, dai dignitari della sua corte, da un dittatore, dai gerarchi del suo Partito, da principi e da ministri, da generali dell'esercito, della marina, dell'aeronautica, da mogli e concubine, dal corteo dei vivi e dei morti; salutato con gioia dalle Reichsfrauen, le mogli dei pezzi grossi del Terzo impero germanico, affacciate ai finestrini; scortato da un nugolo di SS armate di pugnale, il Cancelliere risale la banchina ferroviaria verso la città eterna.

A prima vista, per quanto ci si sforzi, non si riesce a trovarlo repulsivo. Composto, ordinato, quasi modesto. Quasi servile, anche. Una personalità di aspetto subordinato: qualcosa come un controllore del tram. 

Le mani guantate di grigio, incrociate sul ventre con il pollice all'altezza del cinturone, un po' curvo di dorso, piegato in avanti, l'occhio vago e acquoso, sospeso in una sorta di atonia. Insomma, Adolf Hitler non ha il physique du rôle del tiranno da assassinare.

Riguardo all'altro, invece, il professore non avrebbe dubbi.

A Ranuccio Bianchi Bandinelli Benito Mussolini appare odioso, grottesco e bruttissimo. Gli pare cammini come un burattino, con curve e mosse oblique del capo, che vorrebbero mitigare la sua mole massiccia ma sono soltanto goffe e sinistre. Il suo viso turgido, lo sguardo lucido, la pelle grassa, il sorriso forzato sono, secondo il professore, al costante servizio di un'incessante commedia puerile.

Lo studioso di belle arti, gran borghese con sangue aristocratico, esteta raffinato con velleità di redentore, non prova repulsione per il Führer del nazismo ma non esiterebbe a uccidere il Duce del fascismo, e soltanto perché questi ha la presenza antipatica di certi boriosi agenti di campagna che sanno di essere i più abili sul mercato del bestiame. 

Non esiterebbe se fosse l'uomo delle sue fantasticherie ma, essendo quello che è, il professor Bianchi Bandinelli esita. Esita perché per lui l'antifascismo è una manifestazione spontanea di talune vaghezze morali, un'espressione del suo gusto estetico, una questione di aristocrazia, di nobiltà, di stile, ma niente di più. 

Esita perché lui è l'antifascista generico. Senza una precisa direttiva politica, senza un programma, senza un destino. Fino a oggi, la sua dissidenza si è limitata a disertare le cerimonie d'inaugurazione dell'anno accademico, a deridere i colleghi che vi tenevano discorsi encomiastici, al sarcasmo e alla sprezzatura.

Non è con questo armamentario che si fa la Storia. La Storia la fanno gli altri, i commedianti puerili, i burattini sgraziati, le mani guantate di grigio con i pollici incrociati all'altezza del cinturone. 

E, poi, che diamine è questa Storia? Si lascia condurre per mano come un ragazzino, la Storia? Può bastare il clangore di un'esplosione, il sibilo di una coltellata a deviarne il corso? Non dubita il professore che Adolf Hitler e Benito Mussolini, i suoi due allievi d'occasione, precipiteranno presto il mondo in un'altra guerra mondiale, ma si chiede: la loro scomparsa improvvisa e violenta, la eviterebbe? 

Se la guerra è storicamente necessaria, vale la pena di sacrificarsi solo per rimandarla di qualche mese? E se anche lui si sacrificasse, i popoli che sottrarrebbe al macello, gliene sarebbero grati o troverebbero solo parole di compianto per le sue vittime?

Troppe domande. Hitler e Mussolini, sospinti dal loro codazzo, si sono già mossi verso l'uscita della stazione. Il professore, risucchiato nel centro gravitazionale del loro magnetismo, dimentica di colpo ogni sua tenebrosa macchinazione.

Avendo scelto da molto tempo di prendere posto tra gli spettatori anziché tra gli attori, resta in lui soltanto la curiosità di poter veder da vicino. Quella curiosità, e l'orrore della creatura al pensiero della propria distruzione.

Le ferite della Storia nel nuovo libro di Paolo Mieli. Roberto Esposito su La Repubblica il 13 settembre 2022 

Gli eventi del passato ci riguardano direttamente. È la lezione del nuovo saggio dello storico, intitolato "Le ferite

Se la storia fosse un grande corpo, a parlarci di più non sarebbero nervi e giunture, ma piaghe e ferite. Perché nonostante gli anestetici che adoperiamo – vale a dire le rimozioni del passato meno edificante – quelle ferite non si rimarginano. Continuano a sanguinare quanto più allontaniamo lo sguardo da esse, quanto meno affrontiamo quanto continuano a dirci. 

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 24 settembre 2022.

A memoria non ricordiamo un caso in cui un libro di saggistica sul fascismo e un libro di narrativa sullo stesso tema siano stati allo stesso tempo ai vertici delle rispettive classifiche. Miracoli anche dell'allarme sulle presunte minacce nere che ha contribuito a far sì che due testi appena editi, M. Gli ultimi giorni dell'Europa (Bompiani) di Antonio Scurati, terzo volume della trilogia sul Duce, e Mussolini il capobanda. Perché dobbiamo vergognarci del fascismo (Mondadori) di Aldo Cazzullo, diventassero subito dei bestseller.

Stando ai dati fornitici dalla Nielsen, società top nelle ricerche di mercato, il romanzo di Scurati - che in copertina evoca il nazismo, coi colori rosso, bianco e nero della bandiera nazionalsocialista - ha venduto in una settimana 15mila copie. 

In pratica più del bestsellerista per antonomasia, il giallista americano Stephen King, che con la sua ultima fatica, Fairy Tale (Sperling & Kupfer), nella prima settimana dall'uscita ha venduto circa 10.350 copie. Le camicie nere tirano più del giallo... Ma anche il saggio di Cazzullo, che demitizza la figura del Duce connotando la sua storia politica come una somma di nefandezze, vola in testa alle classifiche, con 7.440 copie vendute nella prima settimana dall'uscita. E stacca di molto altri saggi di grandi firme o volti ultrapop, sempre d'area sinistra, come Andrea Scanzi (il suo Guida per elettori incazzati, Rizzoli, ha piazzato circa 2.850 copie in una settimana), Corrado Augias (col suo La fine di Roma, Einaudi, ne ha vendute 1.830 nei primi sette giorni) o Michele Santoro (Non nel mio nome, Marsilio, si ferma a 675 copie la prima settimana). 

Perfino Mario Desiati, col suo Spatriati (Einaudi), nei primi sette giorni dall'uscita nell'aprile 2021 si è fregiato di sole 735 copie vendute; e pure nelle settimane dopo la vittoria del Premio Strega, nel luglio 2022, si attestava comunque sotto la quota raggiunta da Scurati (circa 12mila copie a settimana. Questa cifra, come le altre, risulta dall'elaborazione delle percentuali forniteci da Nielsen).  

È partito bene anche L'ombra lunga del fascismo di Alessandro Campi e Sergio Rizzo (Solferino) trai libri più venduti nella sezione Partiti politici su Amazon.

Le ottime performance dei libri sul fascismo non sono legate solo a questo contesto politico, ma da qualche anno rappresentano una costante. Basti guardare ad alcuni precedenti illustri: lo stesso Scurati, col suo primo libro sul Duce, M. Il figlio del secolo, del settembre 2018, si è consacrato vendendo oltre 300mila copie; Bruno Vespa - già di suo eccezionale bestsellerista - non a caso ha dedicato gli ultimi suoi tre libri a Mussolini: e l'ultimo di questi, Perché Mussolini rovinò l'Italia (e come Draghi la sta risanando) Rai Libri, ha venduto circa 78.500 copie. Può vantare lo stesso effetto M Francesco Filippi che, con Mussolini ha fatto anche cose buone (Bollati Boringhieri), ha toccato le 72mila copie vendute. 

Un termine di paragone interessante è quello coi libri sul comunismo. I saggi che trattano di Pci ed esibiscono bandiere rosse e falce e martello in copertina vanno disastrosamente peggio rispetto alle pubblicazioni sul Duce, anche se scritti da autori molto noti. Addirittura, in alcuni casi, il rapporto di copie vendute tra un libro sul comunismo e uno sul fascismo è di uno a 100. Prendiamo come esempio un paio di libri usciti nel gennaio 2021, in coincidenza coi 100 anni dalla fondazione del Pci: Il nostro Pci. 1921-1991 (Rizzoli) di Fabrizio Rondolino ha venduto circa 5.400 copie, Dalla rivoluzione alla democrazia (Donzelli) di Piero Fassino 1.500. E anche un testo di Marcello Sorgi e Mario Pendinelli, Quando c'erano i comunisti (Marsilio), nell'edizione tascabile pubblicata nell'aprile 2022 per Feltrinelli, si è fermato a 300 copie vendute. 

Qual è il fattore che consente ai volumi sul Ventennio di andare così forte? Oltre alla notorietà di chi li scrive, ancor meglio se di sinistra, c'è lo stratagemma "ne parlo male per vendere meglio": più si dissacra qualcosa, definendola pericolosa e proibita, più la si rende attraente.

Così non si fa breccia in un lettorato di fascisti, ma si crea l'effetto fascinazione. Non è un caso che tutti i suddetti autori, pur dicendo peste e corna del fascismo, ne usino la simbologia in copertina a fini commerciali: vedi Scurati con la sua gigantesca M, Cazzullo con l'immagine del profilo del busto del Duce, Filippi con il braccio teso davanti a un altro busto del Duce. Evocare il fantasma del fascismo risorgente, da parte dell'intellighenzia rossa, non fa perdere voti alla Meloni ma aiuta gli autori di sinistra a vendere. E questa, in fondo, è una rivincita per Mussolini: vincere, e vinceremo, nelle classifiche di vendita.

Aldo Cazzullo, il nuovo saggio. La verità più nera sul ventennio fascista. Roberto Esposito su La Repubblica il 15 Ottobre 2022 

L'autore si sofferma su episodi noti e meno noti per demistificare la retorica di "un regime all'acqua di rose"

In fondo così male non è stato. Certo, qualche libertà è andata soppressa, i giornali sono stati chiusi, ci è scappato qualche morto, ma alla fine, rispetto alle altre dittature, si è trattato di un regime all’acqua di rosa, approvato dalla stragrande maggioranza degli italiani. E poi l’ordine è stato ristabilito, le paludi bonificate, nuovi quartieri edificati. L’errore finale dell’alleanza con Hitler non può cancellare quanto di positivo è stato fatto dal fascismo nel ventennio. Sono, questi, pezzi di una leggenda autoassolutoria, legittimata da certa storiografia, alla quale il libro di Aldo Cazzullo, Mussolini il capobanda (Mondadori) assesta un colpo memorabile.

La violenza, per l’autore, non è stata lo strumento temporaneo per andare al potere, poi messa da parte quando questo è stato raggiunto, ma l’anima nera di un regime criminale che ha trovato in Mussolini il primo mandante e l’utilizzatore finale. Come lui stesso riconobbe, al ritrovamento del cadavere di Matteotti, quando se ne assunse in pieno la responsabilità morale e politica. Cazzullo percorre il ventennio fascista, fermandosi su episodi noti e meno noti, dagli amori turbolenti del duce alle aggressioni fisiche contro tutti gli oppositori, ai crimini di guerra in Africa, Spagna, Jugoslavia, fino alle vergognose pagine delle campagne di Francia, Grecia e Russia, terminate nel disastro. Lo fa con la vivacità del narratore, ma anche con la documentazione dello storico. Pur senza entrare direttamente nel dibattito storiografico, la prospettiva di fondo risulta con nettezza. 

Il fascismo non è stato una versione autoritaria dello Stato liberale giolittiano. E neanche soltanto la reazione della piccola borghesia alla paura del bolscevismo. Certo, questa inizialmente ha giocato un ruolo. Ma l’interpretazione di classe del fascismo, sostenuta dalla storiografia marxista, resta parziale, se si perde il rapporto intrinseco con la guerra. Generato alla fine della Prima guerra mondiale, di cui incorporò simbologie ed efferatezze, il fascismo trascinò l’Italia nella seconda, dopo essersi riprodotto in versioni diverse in Europa. La guerra finale non fu un incidente di percorso, ma l’esito inevitabile di una concezione che fin dall’inizio individuò nella violenza la levatrice della storia. 

Diversamente da come qualcuno ritiene, il fascismo ha poco a che fare con il conservatorismo. Non per nulla i più grandi conservatori del secolo scorso, da Churchill a de Gaulle, lo combatterono all’ultimo sangue. Esso è stato piuttosto un movimento rivoluzionario di tipo regressivo, orientato alla mobilitazione delle masse uscite stremate dal conflitto mondiale. Il suo fu un nazionalismo antiliberale, animato da una potente carica distruttiva che si risolse in autodistruzione del Paese quando la disfatta militare si aggiunse a quella civile e morale. Dietro la facciata del ristabilimento dell’ordine, il fascismo espresse una potenza mortifera, venata di anarchismo, come ben colse Pasolini in Salò-Sade. «Pronti a uccidere, pronti a morire», era un motto molto gradito a Mussolini, ricorda Cazzullo, in un intreccio perverso di masochismo e sadismo. Avendo accettato di sottomettersi al duce, le squadracce fasciste reclamavano il premio sadico di infierire sugli altri. 

Mussolini prese il potere con la violenza e lo mantenne con la forza, facendo migliaia di vittime. 40 mila morti in Libia, uso di gas asfissianti in Etiopia, bombe sulle città spagnole, eccidi di massa in Jugoslavia. I soldati italiani mandati a morire, con insipienza e cinismo, in Grecia e Russia. È vero. Fino alla guerra il fascismo ebbe un consenso vasto, ma non totale, come si volle far credere. Altrimenti perché arrestare, bastonare o ammazzare Matteotti, Gobetti, don Minzoni, Amendola, i fratelli Rosselli, Sturzo, De Gasperi, Gramsci? Perché devastare interi quartieri di Roma, Bologna, Torino? Certo, i nazisti hanno fatto di peggio.

Sono arrivati al genocidio, massacrando milioni di uomini inermi. Ma i fascisti li hanno scelti come alleati e, in una certa misura, imitati, aggredendo gli inermi, seminando il terrore, rastrellando gli ebrei. L’ideologia razzista non fu, come in Germania, al primo posto, ma leggi razziali furono promulgate. Fu posta una tassa sul celibato per stimolare una natalità all’altezza della nazione guerriera, mentre le donne erano ridotte al ruolo di “fattrici” di figli, se non di «orinatoio di carne» (Papini). Mentre il delitto d’onore era rispettato e gli stupri tollerati. Per non parlare di esperimenti tossici sulle popolazioni durante la bonifica delle paludi. È vero, conclude Cazzullo, il fascismo è finito. E in quelle forme non tornerà, dal momento che la storia non si ripete. Ma non per questo – anzi proprio perché non possa ripetersi – dobbiamo dimenticare cosa veramente è stato.

"Mussolini il capobanda" di Aldo Cazzullo (Mondadori pagg. 360, euro 19)

Il Duce resuscita per far paura ai lettori-elettori. Arrivare davanti alla vetrina di una libreria è come entrare nella macchina del tempo e finire in pieno Ventennio. Alessandro Gnocchi il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

Tra le frasi fatte, negli ultimi anni spicca la seguente: il centrodestra punta sulle paure dell'elettorato per generare consenso: la paura del diverso, dell'immigrato, della crisi economica. Altra frase fatta: il centrodestra propone soluzioni semplici a problemi complessi. Scrittori, artisti ed editori ce l'hanno spiegato in mille modi. Però, entrando in libreria, si capisce subito che le frasi fatte appena citate vanno bene anche per il mondo degli intellettuali. Basta sostituire «il centrodestra» con «gli scrittori» e ridurre le paure a una sola: il fascismo. Arrivare davanti alla vetrina di una libreria è come entrare nella macchina del tempo e finire in pieno Ventennio. Un elegante «logo» mussoliniano contraddistingue il romanzo di Antonio Scurati M. Gli ultimi giorni dell'Europa. Il resto della copertina sfoggia un assortimento di colori (rosso, nero e bianco) che rimanda al nazismo. In realtà, ciò che davvero preoccupa è la premessa del libro griffato Mussolini: «Eppure questo romanzo è aderente in ogni suo dettaglio a fatti storici ampiamente documentati (al netto di pochi, lievi, consapevoli anacronismi e di molti probabili errori)». Insomma, siamo di fronte a un romanzo «aderente» in ogni «dettaglio» ai fatti ma forse anche al suo contrario, a causa dei «molti probabili errori». Torniamo alla vetrina. Accanto al romanzo di Scurati c'è una pila di Mussolini. Il capobanda di Aldo Cazzullo. Sottotitolo: Perché dovremmo vergognarci del fascismo. C'è da chiedersi: a parte qualche emarginato, c'è qualcuno che si vanta del fascismo? E con chi poi? Infine l'occhio cade su una fila di volumi mascelluti. Ebbene sì, l'editoria ha resuscitato il Duce in persona: quei tomi sono gli Scritti e discorsi di Benito Mussolini. Che ansia.

Entriamo in libreria ed è un trionfo di fasci littori: Il collasso di una democrazia, Roma 1922, L'epurazione mancata, La natura del Duce, Mussolini ha fatto tanto per le donne! Le radici fasciste del maschilismo italiano, L'ombra lunga del fascismo, Nero di Londra, Continente Bianco, La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo e si potrebbe continuare ma non vogliamo passare dall'ansia alla disperazione. Naturalmente, alcuni di questi libri sono interessanti, ne abbiamo scritto, e di altri ancora scriveremo. La maggior parte è completamente inutile se non dannosa (semplifica un problema complesso...) ma ci sono le elezioni in fortunata coincidenza con il centenario della Marcia su Roma e nessun editore democratico ha voluto farsi trovare impreparato, anche a costo di buttare via la preziosa carta.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 23 settembre 2022.

Ottobre 1922, ottobre 2022: cento anni dalla marcia su Roma e dalla fascismo al potere. Aldo Cazzullo, giornalista affamato di cronaca e appassionato di Storia, senza spaventarsi della bibliografia che da un secolo si accumula sul tema, prova a ri-raccontare ai lettori-elettori cosa furono quei vent' anni di Regime.

Che non passano mai. E lo fa, in modo duro e senza sconti, nel saggio Mussolini il capobanda (Mondadori). 

Cent' anni fa è la premessa l'Italia «cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato». Cosa fu il fascismo e chi era Mussolini?

«Il fascismo è qualcosa che nasce con la violenza e muore, ma non del tutto, con la violenza. E Mussolini è un uomo che prende il potere con la forza, che elimina gli oppositori e che in Parlamento dichiara Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!. È una provocazione, certo. 

Ma l'uso del linguaggio delinquenziale è insito nel fascismo. Quando il conte Carlo Sforza, dopo la nomina di Mussolini a primo Ministro, si dimette da ambasciatore a Parigi, viene convocato a Roma. Il Duce gli chiede di ripensarci, e lo minaccia: Io potrei farLa mettere al muro con dodici pallottole. Questo è il suo linguaggio e la violenza è l'essenza del fascismo». 

Sottotitolo del libro: «Perché dovremmo vergognarci del fascismo». Risposta?

«Perché la banda di Mussolini prima della marcia su Roma ha già bastonato, ucciso, umiliato centinaia di persone. Nel '38 Mussolini ha già eliminato i suoi principali oppositori, fra cui Matteotti, Amendola, i fratelli Rosselli, Don Minzoni, Gobetti... Perché fa sterminare gli etiopi col gas. Fa bombardare le città della Spagna nella guerra civile. Perché si allea con Hitler, perché impone le leggi razziali. Perché parla di guerra per vent' anni senza prepararla, e manda gli alpini in Russia senza neanche le calzature adatte, 80mila morti, migliaia di congelati: un crimine contro il nostro stesso popolo...».

Però non si può neanche ridurre il fascismo a un romanzo criminale. Nel Ventennio ci fu una fioritura delle arti straordinaria, leggi esemplari, conquiste nella fisica, la riforma della Scuola...

«Un regime si giudica dagli esiti. E l'esito fu un regime. Mussolini dichiarò guerra alla Gran Bretagna, l'Urss e gli Usa. Il risultato fu un Paese distrutto e sconfitto nonostante l'eroismo dei suoi soldati. Le bonifiche e un bel quartiere come l'Eur non valgono niente di fronte alle macerie lasciate dal fascismo». 

Molti non la pensano così.

«Il problema è che abbiamo un'idea distorta, consolatoria e auto assolutoria di quell'epoca. Infatti pochi ormai si definiscono fascisti, poi ci sono tanti antifascisti, ma la maggioranza degli italiani non ha un'idea negativa del Duce». 

Perché?

ALDO CAZZULLO

«Perché è più difficile fare i conti con la memoria nazionale quando coinvolge le nostre famiglie. Molti hanno avuto un padre o un nonno fascista anche dopo l'8 settembre.

Chi è cresciuto sotto Mussolini era convinto che il fascismo fosse l'Italia, che le due cose coincidessero. E scelse l'Italia. Una scelta che si può comprendere, ma non giustificare.

Si deve accettare che ci fu una parte giusta e una sbagliata e dalla parte sbagliata ci furono anche persone nobili e da quella giusta anche persone meschine ma le due parti non possono essere confuse. Poi, certo: così come non si può fare alcuno sconto al nazifascismo, non si deve aver paura a raccontare le pagine nere della resistenza, che ci furono».

E la memoria condivisa?

«Non credo alla memoria condivisa. Credo ai valori condivisi. E l'antifascismo, come l'anticomunismo, dovrebbe essere un valore condiviso da tutti, non da una sola parte». 

Cosa deve fare la destra in Italia per liberarsi dall'ombra del fascismo?

«Fare quello che ha sempre fatto la destra conservatrice e liberale, l'alveo in cui è nato il Giornale di Montanelli: conservare la tradizione, che in Italia ha ancora un grande futuro; e fare un grande investimento sulla libertà. 

Liberare l'Italia dal fisco, dalla burocrazia, dai lacci che impediscono il lavoro e di arricchirsi legittimamente, perché la ricchezza in sé non è un male. Se la destra si batterà per difendere tradizione e libertà, si mettersi alle spalle il retaggio fascista». 

Il fascismo per la destra è un problema, ma per certa sinistra un'ossessione.

«Il problema è l'antifascismo invece che diventare un patrimonio di tutta la nazione lo è diventato solo di una fazione. Ma l'antifascismo non può essere monopolio della sinistra.

Il fascismo fu sconfitto da uomini di destra come Churchill e De Gaulle. 

E in Italia fu combattuto non solo da comunisti, socialisti o azionisti; ma da liberali come Amendola e Croce, da cattolici come don Minzoni e Frassati, monarchici o i 600mila militari internati che si rifiutarono di combattere coi nazifascisti». 

C'è un rischio di ritorno del fascismo?

«No, assolutamente. Ma alcune idee del fascismo - nazionalismo estremo, xenofobia, razzismo - non sono morte. E tocca ai conservatori e ai liberali, per primi, combatterle».

La vergogna del fascismo: il nuovo saggio di Aldo Cazzullo. ALDO CAZZULLO su Il Corriere della Sera l'11 Settembre 2022 

Il Duce fu spietato già prima del 1938. Fece persino rinchiudere in manicomio il figlio e la donna da cui lo aveva avuto. Ma non è vero che tutti gli italiani lo sostenevano. In libreria il 13 settembre un saggio (Mondadori) a cento anni dalla marcia su Roma 

Cent’anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l’aveva messo al mondo.

Oggi in Italia ci sono gli estimatori di Mussolini: pochi, ma non pochissimi. Troppi. Poi ci sono gli antifascisti convinti: molti, ma non moltissimi. E poi c’è la maggioranza. Che crede, o a cui piace credere, in una storia immaginaria, consolatoria, autoassolutoria.

La storia più o meno è questa: fino al 1938 Benito Mussolini le aveva azzeccate tutte; e tutti gli italiani erano fascisti. Certo, il Duce aveva avuto la mano pesante con gli oppositori; ma insomma quando ci vuole ci vuole; in fondo non ha ammazzato nessuno, o quasi. Amante delle arti e delle donne, bonificatore di paludi, demolitore di anticaglie e costruttore di nuovi quartieri: un capo pieno di virtù. Peccato solo la sbandata per Hitler, le leggi razziali, la guerra fatta per raccogliere «qualche migliaia di morti» ed essere ammessi al tavolo della pace. Peccato, davvero.

In realtà, non è andata così. E non solo perché i tedeschi avrebbero fatto volentieri a meno del nostro ingresso in guerra: sapevano di doverci sostenere su ogni fronte, come poi hanno fatto — dall’Africa alla Grecia — perdendo tempo, risorse e uomini preziosi. E non solo perché la frase sulle «migliaia di morti» tradisce una volgarità d’animo e un cinismo rivoltanti.

La guerra non fu un incidente di percorso o un errore tattico. La guerra era insita nel fascismo e nella testa di Mussolini fin dal primo giorno. Il fascismo nasce con la guerra e muore (purtroppo non del tutto) con la guerra. L’idea della violenza come levatrice della storia, della guerra come modo di imporre una nazione su un’altra, e una razza sull’altra, accompagna il fascismo dalla sua nascita alla sua morte (apparente). Il germe del fascismo è già negli spaventosi massacri della Prima guerra mondiale — «trincerocrazia!» ringhia il Duce —, e nei torbidi dei primi anni del dopoguerra, segnati dagli scioperi rossi e dalla durissima reazione nera.

Mussolini prende il potere con la violenza, a prezzo di centinaia di vittime, e lo mantiene con la forza. Commette crimini contro altri popoli: reprime la rivolta della Libia chiudendo donne e bambini nei campi di concentramento (40 mila morti); fa sterminare gli etiopi con il gas; fa bombardare paesi inermi in Spagna; poi ordina le sciagurate aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia, regolarmente terminate con disastrose sconfitte; non per colpa dei nostri soldati, ma dell’impreparazione, dell’insipienza, della miseria morale del regime che a parole aveva preparato la guerra per vent’anni, e poi aveva mandato centinaia di migliaia di italiani a congelare e a morire senza indumenti adatti, armi, viveri, financo scarpe. Anche questo è stato un crimine del Duce. Contro il suo stesso popolo.

Non solo. Nel 1938, lo «statista» Mussolini e i suoi uomini avevano già provocato la morte di tutti i principali esponenti dell’opposizione: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola — aggredito cento contro uno —, Carlo e Nello Rosselli. Avevano bastonato un prete, don Luigi Sturzo. Avevano aggredito un santo, Piergiorgio Frassati. Avevano incarcerato uno statista vero, Alcide De Gasperi. Nessuno di loro era comunista. Anche se tra le vittime va ovviamente ricordato Antonio Gramsci, che si spense in clinica dopo tredici anni passati nelle carceri del regime, senza aver mai commesso un gesto violento, senza alcuna colpa che non fossero le sue idee.

Poi, certo, il fascismo non spuntò dal nulla. Lo stesso Gobetti lo definì «l’autobiografia della nazione». Seppe approfittare con spregiudicatezza del clima di paura creato dal «biennio rosso», seguito al trauma della Grande Guerra e alla rivoluzione bolscevica in Russia. Molti liberali e molti cattolici si illusero di poterlo usare contro la sinistra, senza rendersi conto del mostro che avevano contribuito a rafforzare.

Certo, il fascismo ebbe anche consenso, in particolare negli anni segnati dalla conquista dell’Etiopia. Ma c’è un altro mito da sfatare. Non è vero che gli italiani sono stati tutti fascisti. È solo un’altra sciocchezza autoassolutoria.

È sempre difficile misurare il grado di consenso a una dittatura; quando non hai alternative, quando non voti se non per finta, quando devi prendere la tessera del partito per lavorare, quando devi fare attenzione a non parlare male del dittatore se no ti aspettano sotto casa e ti sfasciano la testa, ti umiliano davanti ai tuoi figli, ti tolgono casa, libertà, lavoro. Organizzare un’opposizione era quasi impossibile, pena il carcere, il confino, l’esilio. Anche per questo il numero degli antifascisti militanti fu ovviamente ridotto, pur se prezioso e significativo.

Ma se gli italiani fossero davvero stati tutti fascisti, che motivo c’era di mantenere una polizia politica e i tribunali speciali? Che ragione c’era di imporre un clima plumbeo e soffocante, di perseguitare gli omosessuali o chiunque venisse percepito come «diverso», di costringere gli italiani al rituale un po’ retorico un po’ ridicolo del sabato fascista? Senza dimenticare quel che subirono le donne, considerate «fattrici» e sottomesse agli uomini: non tutti ricordano che alle italiane fu di fatto proibito di lavorare fuori casa, rendersi indipendenti, decidere del proprio destino.

La bonifica dell’Agro Pontino — iniziata prima del regime e terminata dopo —, la costruzione di qualche bella casa dell’architetto Terragni, ripagano gli italiani della vita agra che è stata loro imposta per oltre vent’anni, compresi tre anni di guerra mondiale e due di guerra civile? Per dirla con lo scrittore Carlo Fruttero: «I fascisti erano brutti. Tutti neri come corvi, i fez, i teschi, i manganelli, i pugnali, le brutalità. Orrendi». Neanche Carlo Fruttero era comunista, anzi. Era torinese, però; e a Torino la vendetta fascista fu particolarmente crudele.

Dopo la marcia su Roma, dopo aver preso il potere, gli squadristi sistemarono i conti con i quartieri e con le città che avevano loro resistito. Per prima cosa assaltarono San Lorenzo, presero i popolani che avevano tentato di fermarli e li scaraventarono giù dal balcone di casa: ci furono morti, decine di lavoratori rimasero paralizzati, con la spina dorsale spezzata. Poi devastarono i quartieri popolari di Torino, uccisero quattordici operai, forse più, legarono il segretario della Camera del Lavoro a un camion e lo trascinarono per le strade. Scene da Far West. Da delinquenti in senso tecnico. Il tutto sapendo di avere le spalle coperte dal regime che avevano instaurato. Si può immaginare qualcosa di più vigliacco, di più odioso? Purtroppo, si può.

La razzia del ghetto di Roma fu opera dei nazisti. Ma ad andare a prendere gli ebrei di Venezia casa per casa — i bambini all’asilo, i vecchi negli istituti — furono fascisti italiani. Era la notte tra il 5 e il 6 dicembre 1943. Oltre trecento non sono mai tornati dai campi di sterminio, dove morirono più di ottomila ebrei italiani.

Del resto, fu lo stesso Mussolini a dirlo, in Parlamento: «Se il fascismo non è stato altro che una banda a delinquere, io sono il capo di questa banda a delinquere». Certo, lo diceva provocatoriamente. Ma come delinquenti si erano comportati i fascisti, fin dagli esordi. E come tali si comporteranno, con il coltello dalla parte del manico, fino al 25 aprile 1945.

«Capobanda» fu definito Mussolini dopo il delitto Matteotti dal socialista Filippo Turati, che lo conosceva bene. «Capobanda» lo definì vent’anni dopo il gerarca Giuseppe Bottai, che lo conosceva benissimo.

Si sente dire: i nazisti erano peggio. È vero. I nazisti erano una banda di criminali. Si riproponevano apertamente di eliminare il popolo ebraico, di sopprimere zingari e omosessuali, di uccidere i bambini down; e quando andarono al potere lo fecero. I pochi neonazisti, i tanti filofascisti, i tantissimi italiani che del nazifascismo hanno un’opinione indulgente non hanno forse mai sentito parlare di von Galen, che denunciò la strage dei bambini «non sani» che il regime stava perpetrando nella stessa Germania, e rischiò di finire impiccato. Von Galen non era comunista. Si chiamava Clemens August Ioseph Pius Emanuel, era figlio del conte Ferdinand Heribert Ludwig von Galen e di una contessa. Di mestiere faceva il vescovo di Muenster, e la denuncia la fece dal pulpito della meravigliosa cattedrale romanico-gotica. La reazione dei nazisti fu furiosa, qualcuno invocò la forca. Fu Goebbels a far notare che impiccare un vescovo non era una buona idea. (E comunque, quando Sophia Scholl e altri studenti cattolici dell’università di Monaco furono sorpresi a distribuire volantini antinazisti, vennero arrestati, torturati e decapitati). Il caso — ma forse non il caso — volle che tra i più accaniti resistenti alla barbarie nazista ci fosse un generale francese, Charles de Gaulle. La persona che amava di più al mondo, sua figlia Anne, era affetta dalla sindrome di Down. Morì a vent’anni, tra le braccia dei genitori. Allora de Gaulle e la moglie Yvonne fondarono un istituto dove venissero accolti e seguiti i bambini che i nazisti sopprimevano. È utile ricordarlo; perché la scelta tra il nazifascismo e la democrazia non è una scelta tra destra e sinistra, ma tra civiltà e barbarie.

Con quei criminali tedeschi, e con il loro capo, i delinquenti italiani si allearono. Mussolini e i suoi accoliti copiarono da loro le odiose leggi contro gli ebrei (dopo aver già introdotto leggi razziste in Africa). Seguirono i nazisti in una serie di guerre di aggressione, condotte con l’eliminazione fisica dei prigionieri, dalla Jugoslavia alla Russia, e con la caccia sistematica agli ebrei, compresi i bambini e i neonati (ma a volte difesi dai nostri soldati, ad esempio in Francia). E rimasero loro fedeli sino all’ultimo giorno, quando l’Italia e la Germania erano diventati campi di battaglia, cosparsi da centinaia di migliaia di morti innocenti.

Purtroppo, noi italiani ci siamo autoassolti da tutto questo. Dall’avere inventato un’idea — il fascismo — esportata in tutto il mondo, che ovunque sia andata al potere, anche dopo la Seconda guerra mondiale, ha significato carcere, polizia politica, soppressione degli oppositori, razzismo, xenofobia, predominio dell’uomo sulla donna.

Per dimenticarlo, per far finta che non sia andata così, ci siamo inventati una storia a nostra misura. Ci siamo immaginati un Duce lungimirante, virile, onesto, severo ma giusto, seduttore ma buon padre di famiglia, duro ma generoso. Uno «con due palle così».

È tempo di raccontare, e dimostrare, che Benito Mussolini era diverso dall’idea che ce ne siamo fatti. Che del fascismo noi italiani dovremmo vergognarci. Ma che per fortuna non tutti gli italiani sono stati fascisti. E che l’antifascismo non è «una cosa di sinistra»; è una cosa di tutti, è un valore in cui ogni italiano dovrebbe riconoscersi.

Lo spettacolo e le presentazioni

In «Mussolini il capobanda» (Mondadori) Aldo Cazzullo smonta le narrazioni autoassolutorie sul fascismo, a partire da quella che fino al 1938 Mussolini le aveva azzeccate quasi tutte e che «tutti gli italiani erano fascisti». Ripercorre tra l’altro i delitti delle camicie nere e le vendette dopo la presa del potere; e ricorda che la guerra «non fu un incidente di percorso». Dal libro è tratto uno spettacolo teatrale con Moni Ovadia, Giovanna Famulari e Aldo Cazzullo: «Il Duce delinquente». Dopo l’esordio ai festival di Ravenna e Camogli, sarà il 24 ottobre al Carcano di Milano, il 25 ad Alba, il 26 a Castenedolo, il 27 in Salaborsa a Bologna, il 28 al Teatro India di Roma, il 31 al Carignano di Torino, il 1° novembre a Verbania, il 5 novembre al Teatro di Corte di Palazzo Reale a Napoli, e poi a Firenze, Città di Castello, Ferrara, Madrid. Il libro sarà presentato il 18 settembre a Pordenonelegge, il 24 settembre a Brescia a Librixia, il 15 ottobre al festival Duemilalibri di Gallarate, il 27 ottobre a Correggio e il 13 novembre al Forum Monzani di Modena.

Estratto di “Mussolini il capobanda”, di Aldo Cazzullo (ed. Mondadori), pubblicato dal “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.

Cent' anni fa, in questi stessi giorni, la nostra patria cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato e cattivo. Un uomo capace di tutto; persino di far chiudere e morire in manicomio il proprio figlio, e la donna che l'aveva messo al mondo. 

Oggi in Italia ci sono gli estimatori di Mussolini: pochi, ma non pochissimi. Troppi. Poi ci sono gli antifascisti convinti: molti, ma non moltissimi. E poi c'è la maggioranza. Che crede, o a cui piace credere, in una storia immaginaria, consolatoria, autoassolutoria. 

La storia più o meno è questa: fino al 1938 Benito Mussolini le aveva azzeccate tutte; e tutti gli italiani erano fascisti. Certo, il Duce aveva avuto la mano pesante con gli oppositori; ma insomma quando ci vuole ci vuole; in fondo non ha ammazzato nessuno, o quasi. Amante delle arti e delle donne, bonificatore di paludi, demolitore di anticaglie e costruttore di nuovi quartieri: un capo pieno di virtù. Peccato solo la sbandata per Hitler, le leggi razziali, la guerra fatta per raccogliere «qualche migliaia di morti» ed essere ammessi al tavolo della pace.

Peccato, davvero. In realtà, non è andata così. E non solo perché i tedeschi avrebbero fatto volentieri a meno del nostro ingresso in guerra: sapevano di doverci sostenere su ogni fronte, come poi hanno fatto - dall'Africa alla Grecia - perdendo tempo, risorse e uomini preziosi. E non solo perché la frase sulle «migliaia di morti» tradisce una volgarità d'animo e un cinismo rivoltanti. 

La guerra non fu un incidente di percorso o un errore tattico. La guerra era insita nel fascismo e nella testa di Mussolini fin dal primo giorno. Il fascismo nasce con la guerra e muore (purtroppo non del tutto) con la guerra.

L'idea della violenza come levatrice della storia, della guerra come modo di imporre una nazione su un'altra, e una razza sull'altra, accompagna il fascismo dalla sua nascita alla sua morte (apparente). Il germe del fascismo è già negli spaventosi massacri della Prima guerra mondiale - «trincerocrazia!» ringhia il Duce -, e nei torbidi dei primi anni del dopoguerra, segnati dagli scioperi rossi e dalla durissima reazione nera.

Mussolini prende il potere con la violenza, a prezzo di centinaia di vittime, e lo mantiene con la forza. Commette crimini contro altri popoli: reprime la rivolta della Libia chiudendo donne e bambini nei campi di concentramento (40 mila morti); fa sterminare gli etiopi con il gas; fa bombardare paesi inermi in Spagna; poi ordina le sciagurate aggressioni alla Francia, alla Grecia, alla Russia, regolarmente terminate con disastrose sconfitte; non per colpa dei nostri soldati, ma dell'impreparazione, dell'insipienza, della miseria morale del regime che a parole aveva preparato la guerra per vent' anni, e poi aveva mandato centinaia di migliaia di italiani a congelare e a morire senza indumenti adatti, armi, viveri, financo scarpe. Anche questo è stato un crimine del Duce. Contro il suo stesso popolo.

Non solo. 

Nel 1938, lo «statista» Mussolini e i suoi uomini avevano già provocato la morte di tutti i principali esponenti dell'opposizione: Giacomo Matteotti, Piero Gobetti, don Giovanni Minzoni, Giovanni Amendola - aggredito cento contro uno -, Carlo e Nello Rosselli. Avevano bastonato un prete, don Luigi Sturzo. 

Avevano aggredito un santo, Piergiorgio Frassati. Avevano incarcerato uno statista vero, Alcide De Gasperi. Nessuno di loro era comunista. Anche se tra le vittime va ovviamente ricordato Antonio Gramsci, che si spense in clinica dopo tredici anni passati nelle carceri del regime, senza aver mai commesso un gesto violento, senza alcuna colpa che non fossero le sue idee.

Poi, certo, il fascismo non spuntò dal nulla. Lo stesso Gobetti lo definì «l'autobiografia della nazione». Seppe approfittare con spregiudicatezza del clima di paura creato dal «biennio rosso», seguito al trauma della Grande Guerra e alla rivoluzione bolscevica in Russia. 

Molti liberali e molti cattolici si illusero di poterlo usare contro la sinistra, senza rendersi conto del mostro che avevano contribuito a rafforzare. 

Certo, il fascismo ebbe anche consenso, in particolare negli anni segnati dalla conquista dell'Etiopia. Ma c'è un altro mito da sfatare. Non è vero che gli italiani sono stati tutti fascisti. È solo un'altra sciocchezza autoassolutoria.

È sempre difficile misurare il grado di consenso a una dittatura; quando non hai alternative, quando non voti se non per finta, quando devi prendere la tessera del partito per lavorare, quando devi fare attenzione a non parlare male del dittatore se no ti aspettano sotto casa e ti sfasciano la testa, ti umiliano davanti ai tuoi figli, ti tolgono casa, libertà, lavoro. Organizzare un'opposizione era quasi impossibile, pena il carcere, il confino, l'esilio. Anche per questo il numero degli antifascisti militanti fu ovviamente ridotto, pur se prezioso e significativo. 

Ma se gli italiani fossero davvero stati tutti fascisti, che motivo c'era di mantenere una polizia politica e i tribunali speciali? Che ragione c'era di imporre un clima plumbeo e soffocante, di perseguitare gli omosessuali o chiunque venisse percepito come «diverso», di costringere gli italiani al rituale un po' retorico un po' ridicolo del sabato fascista? Senza dimenticare quel che subirono le donne, considerate «fattrici» e sottomesse agli uomini: non tutti ricordano che alle italiane fu di fatto proibito di lavorare fuori casa, rendersi indipendenti, decidere del proprio destino.

La bonifica dell'Agro Pontino - iniziata prima del regime e terminata dopo -, la costruzione di qualche bella casa dell'architetto Terragni, ripagano gli italiani della vita agra che è stata loro imposta per oltre vent' anni, compresi tre anni di guerra mondiale e due di guerra civile? Per dirla con lo scrittore Carlo Fruttero: «I fascisti erano brutti. Tutti neri come corvi, i fez, i teschi, i manganelli, i pugnali, le brutalità. Orrendi». Neanche Carlo Fruttero era comunista, anzi. Era torinese, però; e a Torino la vendetta fascista fu particolarmente crudele. 

Dopo la marcia su Roma, dopo aver preso il potere, gli squadristi sistemarono i conti con i quartieri e con le città che avevano loro resistito. Per prima cosa assaltarono San Lorenzo, presero i popolani che avevano tentato di fermarli e li scaraventarono giù dal balcone di casa: ci furono morti, decine di lavoratori rimasero paralizzati, con la spina dorsale spezzata.

Poi devastarono i quartieri popolari di Torino, uccisero quattordici operai, forse più, legarono il segretario della Camera del Lavoro a un camion e lo trascinarono per le strade. Scene da Far West. Da delinquenti in senso tecnico. Il tutto sapendo di avere le spalle coperte dal regime che avevano instaurato. Si può immaginare qualcosa di più vigliacco, di più odioso? Purtroppo, si può. 

La razzia del ghetto di Roma fu opera dei nazisti. Ma ad andare a prendere gli ebrei di Venezia casa per casa - i bambini all'asilo, i vecchi negli istituti - furono fascisti italiani. Era la notte tra il 5 e il 6 dicembre 1943. Oltre trecento non sono mai tornati dai campi di sterminio, dove morirono più di ottomila ebrei italiani.

Del resto, fu lo stesso Mussolini a dirlo, in Parlamento: «Se il fascismo non è stato altro che una banda a delinquere, io sono il capo di questa banda a delinquere». Certo, lo diceva provocatoriamente. Ma come delinquenti si erano comportati i fascisti, fin dagli esordi. E come tali si comporteranno, con il coltello dalla parte del manico, fino al 25 aprile 1945. 

«Capobanda» fu definito Mussolini dopo il delitto Matteotti dal socialista Filippo Turati, che lo conosceva bene. «Capobanda» lo definì vent' anni dopo il gerarca Giuseppe Bottai, che lo conosceva benissimo. 

Si sente dire: i nazisti erano peggio. È vero. I nazisti erano una banda di criminali. Si riproponevano apertamente di eliminare il popolo ebraico, di sopprimere zingari e omosessuali, di uccidere i bambini down; e quando andarono al potere lo fecero. I pochi neonazisti, i tanti filofascisti, i tantissimi italiani che del nazifascismo hanno un'opinione indulgente non hanno forse mai sentito parlare di von Galen, che denunciò la strage dei bambini «non sani» che il regime stava perpetrando nella stessa Germania, e rischiò di finire impiccato.

Von Galen non era comunista. Si chiamava Clemens August Ioseph Pius Emanuel, era figlio del conte Ferdinand Heribert Ludwig von Galen e di una contessa. Di mestiere faceva il vescovo di Muenster, e la denuncia la fece dal pulpito della meravigliosa cattedrale romanico-gotica. La reazione dei nazisti fu furiosa, qualcuno invocò la forca. 

Fu Goebbels a far notare che impiccare un vescovo non era una buona idea. (E comunque, quando Sophia Scholl e altri studenti cattolici dell'università di Monaco furono sorpresi a distribuire volantini antinazisti, vennero arrestati, torturati e decapitati). Il caso - ma forse non il caso - volle che tra i più accaniti resistenti alla barbarie nazista ci fosse un generale francese, Charles de Gaulle.

La persona che amava di più al mondo, sua figlia Anne, era affetta dalla sindrome di Down. Morì a vent' anni, tra le braccia dei genitori. Allora de Gaulle e la moglie Yvonne fondarono un istituto dove venissero accolti e seguiti i bambini che i nazisti sopprimevano. È utile ricordarlo; perché la scelta tra il nazifascismo e la democrazia non è una scelta tra destra e sinistra, ma tra civiltà e barbarie.

Con quei criminali tedeschi, e con il loro capo, i delinquenti italiani si allearono. Mussolini e i suoi accoliti copiarono da loro le odiose leggi contro gli ebrei (dopo aver già introdotto leggi razziste in Africa). Seguirono i nazisti in una serie di guerre di aggressione, condotte con l'eliminazione fisica dei prigionieri, dalla Jugoslavia alla Russia, e con la caccia sistematica agli ebrei, compresi i bambini e i neonati (ma a volte difesi dai nostri soldati, ad esempio in Francia). E rimasero loro fedeli sino all'ultimo giorno, quando l'Italia e la Germania erano diventati campi di battaglia, cosparsi da centinaia di migliaia di morti innocenti.

Purtroppo, noi italiani ci siamo autoassolti da tutto questo. Dall'avere inventato un'idea - il fascismo - esportata in tutto il mondo, che ovunque sia andata al potere, anche dopo la Seconda guerra mondiale, ha significato carcere, polizia politica, soppressione degli oppositori, razzismo, xenofobia, predominio dell'uomo sulla donna. 

Per dimenticarlo, per far finta che non sia andata così, ci siamo inventati una storia a nostra misura. Ci siamo immaginati un Duce lungimirante, virile, onesto, severo ma giusto, seduttore ma buon padre di famiglia, duro ma generoso. Uno «con due palle così».

È tempo di raccontare, e dimostrare, che Benito Mussolini era diverso dall'idea che ce ne siamo fatti. Che del fascismo noi italiani dovremmo vergognarci. Ma che per fortuna non tutti gli italiani sono stati fascisti. E che l'antifascismo non è «una cosa di sinistra»; è una cosa di tutti, è un valore in cui ogni italiano dovrebbe riconoscersi.

Quelle parole di disprezzo di Churchill per Mussolini. Risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022

Caro Aldo,

come lei ben sa, nel 1927 Churchill dichiarò: «Se io fossi italiano sarei stato con voi (fascisti) fin dal principio. Il vostro movimento ha reso un servigio al mondo intero». Croce votò la fiducia, in senato, al governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti. Per non parlare di Einaudi. Forse la storia è più complicata di quanto noi immaginiamo.

Giuseppe Bedeschi

Caro Giuseppe,

Le persone cambiano idea. Per un conservatore britannico, un leader di estrema destra italiano che negli anni Venti avesse messo fuori gioco socialisti e comunisti, e ordinato di pagare sino all’ultimo centesimo i debiti di guerra a Londra, non era poi così male. Ma senta cosa dice Winston Churchill ai Comuni, dopo che i tedeschi sono entrati ad Atene, all’inizio del 1941: «Con uno speciale proclama il dittatore italiano si è congratulato con l’esercito in Albania per gli allori gloriosi che ha conquistato con la sua vittoria sui greci. Questo è senz’altro il record mondiale nel campo del ridicolo e dello spregevole. Questo sciacallo frustrato, Mussolini, che per salvare la sua pelle ha reso l’Italia uno Stato vassallo dell’Impero di Hitler, viene a far capriole al fianco della tigre tedesca con latrati non solo di appetito — il che si potrebbe comprendere — ma anche di trionfo. Sono sicuro che ci sono milioni e milioni di persone nell’Impero britannico come negli Stati Uniti che troveranno una nuova ragione di vita nell’assicurarsi che, quando giungeremo alla resa dei conti finale, questo assurdo impostore sarà abbandonato alla giustizia pubblica e al disprezzo universale». Non mi pare una dichiarazione di stima. Certo, Mussolini si era messo contro Churchill dichiarando guerra all’impero britannico e in seguito, già che c’era, all’Unione sovietica e agli Stati Uniti d’America. Che statista lungimirante. Quanto a Benedetto Croce, è vero che inizialmente pensò che Mussolini potesse imprimere una svolta d’ordine al Paese sconfiggendo le sinistre, ma il primo maggio 1925 pubblicò il Manifesto degli intellettuali antifascisti: un gesto di coraggio, dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti. Non mi stancherò di ripetere che essere antifascisti non significa essere di sinistra. Non era di sinistra un eroe della Resistenza come il colonnello Montezemolo, trucidato — con altri militari e in particolare tredici carabinieri — alle Ardeatine. Non erano di sinistra la gran parte degli internati militari in Germania, di cui non si parla mai: anche la loro fu Resistenza. Non era di sinistra il generale Raffaele Cadorna, capo militare della Resistenza, figlio di Luigi comandante delle forze armate nella Grande Guerra, nipote di Raffaele che prese Roma alla testa dei suoi bersaglieri. Non era di sinistra Edgardo Sogno. Proprio lui mi raccontò il suo esame di laurea: mezza commissione era in camicia nera; l’altra metà era in camicia bianca e cravatta. Luigi Einaudi era in camicia bianca.

Francesca D'angelo per “Libero quotidiano” il 12 settembre 2022. 

Aldo Cazzullo, devo farle i miei complimenti per il tempismo.

«Perché?». 

Mercoledì debutta su La7 con il programma storico Una giornata particolare e la puntata in onda appena prima delle elezioni è dedicata alla Marcia su Roma...

«Non è colpa mia se le elezioni cadono proprio nel centenario della Marcia! (ride, ndr)». 

Mi sembra che la sua sia una proposta che parta, sì, dalla Storia, ma per riflettere sull'attualità e capire meglio il presente. O sbaglio?

«È così. Cerco di raccontare storie che ci riguardino. È vero che parliamo di Mussolini, Napoleone o Galileo, concentrandoci su alcune giornate particolari che hanno segnato la loro storia, ma se oggi noi siamo quello che siamo è proprio perché ci sono stati questi fatti e questi personaggi». 

L'approfondimento storico è un tema che attira ancora gli italiani?

«Sì, soprattutto quando coincide con le storie delle nostre famiglie. Me ne sono accorto quando ho scritto il libro sulla Prima Guerra Mondiale: molti hanno avuto il nonno o il bisnonno che hanno vissuto la guerra». 

Al Duce è dedicato anche il suo nuovo libro "Mussolini il capobanda", in uscita domani (Mondadori Editore). Come mai tutta questa passione per l'argomento?

«Il fatto è che ci sono alcuni equivoci da sfatare. Per esempio, è invalsa l'idea che Mussolini le avesse azzeccate quasi tutte, fino al 1938, e che poi semplicemente sia incappato nella guerra e nelle leggi razziali. Non è così: la guerra è insita nel fascismo e prima del '38 Mussolini aveva già provocato la morte di diversi oppositori, come Matteotti, Gramsci, Gobetti, Carlo Nello Rosselli, Giovanni Amendola, don Minzoni... e di loro solo uno era comunista».

Sta dicendo che l'antifascismo non è appannaggio esclusivo della sinistra? «Precisamente. Essere antifascisti non vuol dire essere comunisti: è un valore comune a tutti, così come l'anticomunismo. Il nazifascismo fu sconfitto infatti da uomini di destra, come Winston Churchill e Charles de Gaulle, e molti capi della resistenza erano liberali, monarchici, cattolici... 

Per non parlare degli internati italiani in Germania che preferirono il lager piuttosto che combattere per Hitler. Tra loro c'era Giovanni Guareschi, che certo non è comunista».

Eppure è invalsa tutta un'altra idea: perché?

«C'è una sorta di auto assoluzione: prevale un (errato) giudizio consolatorio su Mussolini, per cui "in fondo le aveva azzeccate tutte fino al 38". Inoltre c'è stata un'appropriazione della memoria da parte della sinistra nel dopoguerra. Così, oggi, l'Italia è l'unico Paese dove la parola destra è sinonimo di fascismo, mentre per esempio in Inghilterra e in Francia vuol dire essere liberali». 

Sempre nel libro scrive: "Meloni e Salvini non sono fascisti, ma sono anti-antifascisti". Esattamente, qual è la differenza?

«Be', c'è eccome! In Italia i fascisti sono pochi, anche se non pochissimi. Gli antifascisti sono tanti, anche se non tantissimi. E poi c'è appunto una maggioranza che ha un'idea consolatoria di Mussolini, come le dicevo prima. 

Questo per dire che il passato non torna mai e la storia non si ripete nello stesso modo. Per essere ancora più chiaro, il 25 settembre non si vota tra fascismo e antifascismo». 

Quindi?

«Quindi né Meloni né Salvini hanno fatto mai professione di anti-fascismo. Il loro discorso semmai è: andiamo oltre, superiamo e consegniamo il fascismo alla storia. Secondo me invece la memoria storica resta importante: non può risolversi tutto con un "volemose bene"». 

Secondo lei, il 25 settembre, tra i due litiganti (Pd e FI), potrebbe essere che a godere sia il terzo... polo?

«No, non credo. Anzi, la vittoria della destra potrebbe essere molto più larga e netta di quello che dicono i sondaggi».

Riusciremo mai a non essere un popolo diviso tra Guelfi e Ghibellini?

«Più che altro siamo un popolo che crede poco nella democrazia rappresentativa: fatichiamo a concepire che chi è al potere non faccia innanzitutto i propri interessi. Poi, certo, c'è stata l'epoca dei partiti di massa ma io, francamente, non ho nostalgia della Prima Repubblica».

Com' è possibile?

«I partiti controllavano tutto: banche, imprese pubbliche. Oggi invece hanno meno potere e meno competenze». 

Soprattutto la seconda, direi.

«Non posso contraddirla, tant' è vero che puntualmente ci affidiamo a dei tecnici: prima Monti, poi Draghi, con la differenza che il primo doveva tagliare, il secondo aveva soldi da investire. Approfitto per aggiungere che con il Pnrr si sarebbe già dovuto realizzare almeno una grande opera pubblica, per esempio la Napoli-Bari o il ponte sullo stretto». 

Il ponte sullo stretto di Messina rientra tra i miracoli, Aldo...

«Noi chiamiamo miracolo economico quello che altrove si chiama sviluppo».

In Una giornata particolare parlerà anche di san Francesco d'Assisi. Scuoterà qualche vertice in Vaticano? 

«No. Tra l'altro continuo a pensare che il cristianesimo sia un valore molto importante. Lo stesso prete resta una figura che abita ancora le nostre vite». 

Cosa ne pensa di Papa Francesco?

«Onestamente mi ha un po' deluso. Per esempio sulla questione Ucraina avrei preferito se avesse preso una posizione più netta: per come la vedo io, Putin è un criminale, che non merita alcun tentativo di giustificazione». 

Sbaglio o c'è stata un'"eclissi politica" dei cattolici?

«Be', dopo 40 annidi governo delle DC, direi che una pausa può starci... Battuta a parte, la Chiesa è ancora una realtà viva e socialmente importante: il cattolicesimo è ancora la giovinezza d'Italia, non una materia per decrepiti. Il problema è che in generale i giovani, credenti e non, snobbano la politica».

Nell'autunno 2020, lei ha dichiarato: "Gli italiani hanno reagito bene alla pandemia, siamo un popolo straordinario". Ora, con il senno del poi, vuole avvalersi del diritto di rettifica?

«No, no: confermo tutto. Siamo stati strepitosi: penso al personale medico, ma anche ai cassieri che hanno lavorato in pieno lockdown, ai nonni che hanno rischiato la salute tenendo i propri nipoti a casa, alle forze dell'ordine che non si sono mai fermate. Poi, certo, sono stati commessi degli errori ma paradossalmente noi italiani siamo stati più ligi alle regole di altri Paesi, anglosassoni in primis». 

Che ricordo ha del Cazzullo agli esordi del giornalismo?

«Sono sempre stato una persona curiosa, che ama parlare con le persone. Oggi come allora sono felice perché faccio un mestiere che coincide con la vita». 

Un'ultima cosa: ma voi del Corriere ci state copiando? No, perché prima Alessandro Gassman e compagnia si arrabbiavano solo per i nostri titoli...

«Nei titoli bisogna osare... (ride, ndr)»

"L'antifascismo è diventato una fazione. Ma la libertà è il patrimonio della destra". Luigi Mascheroni il 22 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il giornalista: "Mussolini è stato un capobanda, la violenza è la vera essenza del regime. Gli italiani però hanno un'idea distorta di lui"

Ottobre 1922, ottobre 2022: cento anni dalla marcia su Roma e dalla fascismo al potere. Aldo Cazzullo, giornalista affamato di cronaca e appassionato di Storia, senza spaventarsi della bibliografia che da un secolo si accumula sul tema, prova a ri-raccontare ai lettori-elettori cosa furono quei vent'anni di Regime. Che non passano mai. E lo fa, in modo duro e senza sconti, nel saggio Mussolini il capobanda (Mondadori).

Cent'anni fa è la premessa l'Italia «cadeva nelle mani di una banda di delinquenti, guidata da un uomo spietato». Cosa fu il fascismo e chi era Mussolini?

«Il fascismo è qualcosa che nasce con la violenza e muore, ma non del tutto, con la violenza. E Mussolini è un uomo che prende il potere con la forza, che elimina gli oppositori e che in Parlamento dichiara Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!. È una provocazione, certo. Ma l'uso del linguaggio delinquenziale è insito nel fascismo. Quando il conte Carlo Sforza, dopo la nomina di Mussolini a primo Ministro, si dimette da ambasciatore a Parigi, viene convocato a Roma. Il Duce gli chiede di ripensarci, e lo minaccia: Io potrei farLa mettere al muro con dodici pallottole. Questo è il suo linguaggio e la violenza è l'essenza del fascismo».

Sottotitolo del libro: «Perché dovremmo vergognarci del fascismo». Risposta?

«Perché la banda di Mussolini prima della marcia su Roma ha già bastonato, ucciso, umiliato centinaia di persone. Nel '38 Mussolini ha già eliminato i suoi principali oppositori, fra cui Matteotti, Amendola, i fratelli Rosselli, Don Minzoni, Gobetti... Perché fa sterminare gli etiopi col gas. Fa bombardare le città della Spagna nella guerra civile. Perché si allea con Hitler, perché impone le leggi razziali. Perché parla di guerra per vent'anni senza prepararla, e manda gli alpini in Russia senza neanche le calzature adatte, 80mila morti, migliaia di congelati: un crimine contro il nostro stesso popolo...».

Però non si può neanche ridurre il fascismo a un romanzo criminale. Nel Ventennio ci fu una fioritura delle arti straordinaria, leggi esemplari, conquiste nella fisica, la riforma della Scuola...

«Un regime si giudica dagli esiti. E l'esito fu un regime. Mussolini dichiarò guerra alla Gran Bretagna, l'Urss e gli Usa. Il risultato fu un Paese distrutto e sconfitto nonostante l'eroismo dei suoi soldati. Le bonifiche e un bel quartiere come l'Eur non valgono niente di fronte alle macerie lasciate dal fascismo».

Molti non la pensano così.

«Il problema è che abbiamo un'idea distorta, consolatoria e auto assolutoria di quell'epoca. Infatti pochi ormai si definiscono fascisti, poi ci sono tanti antifascisti, ma la maggioranza degli italiani non ha un'idea negativa del Duce».

Perché?

«Perché è più difficile fare i conti con la memoria nazionale quando coinvolge le nostre famiglie. Molti hanno avuto un padre o un nonno fascista anche dopo l'8 settembre. Chi è cresciuto sotto Mussolini era convinto che il fascismo fosse l'Italia, che le due cose coincidessero. E scelse l'Italia. Una scelta che si può comprendere, ma non giustificare. Si deve accettare che ci fu una parte giusta e una sbagliata e dalla parte sbagliata ci furono anche persone nobili e da quella giusta anche persone meschine ma le due parti non possono essere confuse. Poi, certo: così come non si può fare alcuno sconto al nazifascismo, non si deve aver paura a raccontare le pagine nere della resistenza, che ci furono».

E la memoria condivisa?

«Non credo alla memoria condivisa. Credo ai valori condivisi. E l'antifascismo, come l'anticomunismo, dovrebbe essere un valore condiviso da tutti, non da una sola parte».

Cosa deve fare la destra in Italia per liberarsi dall'ombra del fascismo?

«Fare quello che ha sempre fatto la destra conservatrice e liberale, l'alveo in cui è nato il Giornale di Montanelli: conservare la tradizione, che in Italia ha ancora un grande futuro; e fare un grande investimento sulla libertà. Liberare l'Italia dal fisco, dalla burocrazia, dai lacci che impediscono il lavoro e di arricchirsi legittimamente, perché la ricchezza in sé non è un male. Se la destra si batterà per difendere tradizione e libertà, si mettersi alle spalle il retaggio fascista».

Il fascismo per la destra è un problema, ma per certa sinistra un'ossessione.

«Il problema è l'antifascismo invece che diventare un patrimonio di tutta la nazione lo è diventato solo di una fazione. Ma l'antifascismo non può essere monopolio della sinistra. Il fascismo fu sconfitto da uomini di destra come Churchill e De Gaulle. E in Italia fu combattuto non solo da comunisti, socialisti o azionisti; ma da liberali come Amendola e Croce, da cattolici come don Minzoni e Frassati, monarchici o i 600mila militari internati che si rifiutarono di combattere coi nazifascisti».

C'è un rischio di ritorno del fascismo?

«No, assolutamente. Ma alcune idee del fascismo - nazionalismo estremo, xenofobia, razzismo - non sono morte. E tocca ai conservatori e ai liberali, per primi, combatterle».

Giampiero Mughini per Dagospia il 10 settembre 2022.

Caro Dago, mi vengono i brividi al pensiero di una delle famiglie italiane che covano il ricordo in un loro congiunto morto nel mentre quel giugno 1940 il nostro esercito stava cercando di affondare il coltello nella schiena dei nostri cugini francesi che erano stati annichiliti dalla guerra-lampo dei nazi. 

Vittorio Foa me lo aveva raccontato quando, lui recluso da anni in una cella di Regina Coeli, gli arrivarono gli ululati di piacere della folla italiana che s’era radunata ai piedi del balcone di Palazzo Venezia da dove Benito Mussolini annunciò che stavamo entrando in guerra contro la Francia.

Nel suo recentissimo Mussolini il capobanda (Mondadori, 2022) Aldo Cazzullo lo ricorda alla maniera sua come andarono le cose. Con un rapporto di forze a noi favorevole nella proporzione di cinque a uno, i nostri soldati non avanzarono di un metro. 

Quando si trattò di firmare l’armistizio, i francesi non ne volevano sapere di firmarlo nei confronti dell’Italia, di cui dicevano che non era stata neppure in grado di entrare in guerra contro di loro. 

In quella farsa di attacco alle spalle di una nazione vinta, scrive Cazzullo, i nostri soldati morti furono 631 oltre a 616 dispersi. In tutto e per tutto i francesi perdettero 37 uomini. 

L’ho detto, penso alle famiglie di quegli oltre 1200 italiani morti nel tentativo di umiliare ulteriormente la nazione più delle altre nostra cugina, quella la cui lingua e la cui letteratura avevano fatto da incunabolo della nostra cultura novecentesca.

A partire dal 1938, e dunque del momento in cui Mussolini serra a doppio filo il suo destino politico a quello della Germania nazi, si fa giorno dopo giorno più immane la tragedia del fascismo italiano e del suo Duce. 

Tragedia militare, politica, morale. Durante l’estate del 1940 i nostri piloti, che negli anni Trenta s’erano fatti valere quali i migliori del mondo, vorrebbero affiancare gli aerei nazi nel dare addosso all’Inghilterra nella battaglia che cambierà il corso della Seconda guerra mondiale: solo che i nostri aerei erano inadatti a volare nelle condizioni climatiche proprie dei cieli inglesi.

Dopo la vergogna del colpo alle spalle dei francesi, andiamo invano all’assalto dei greci e delle loro fortificazioni. Nel Mar Mediterraneo le nostre corazzate vengono affondate a Taranto degli inglesi senza colpo ferire. Quando c’è da affrontare croati e sloveni sul nostro confine orientale, le truppe italiane ci vanno di mano pesantissima quanto a fucilazioni e rappresaglie. E’ una sequela di sconfitte e di umiliazioni che marchieranno per sempre il comune sentire della nostra gente. E comunque sta per arrivare in libreria il terzo dei poderosi volumi  nei quali Antonio Scurati ha raccontato l’itinerario del fascismo mussoliniano, il volume per l’appunto dedicato ai due fatali anni 1938-1940. 

A dire il vero la storia del fascismo italiano si divide in tre parti ben distinte tra loro: l’avvento vittorioso e la successiva stabilizzazione del regime fino ai primi anni Trenta, i due anni in cui si consolida la letale alleanza con Adolf Hitler, i rovesci militari a catinelle della Seconda guerra mondiale nonché i due anni in cui italiani andarono addosso ad altri italiani con una furia non esente da libidine.

E questo fino al 2 maggio 1945, quando innanzi al muretto di Dongo gli ultimi uomini di rilievo (o supposti tali) del fascismo cadono sotto il fuoco del plotone partigiano. Fine, il fascismo italiano quel giorno è andato morto e sepolto. Usare nelle contese politico/partitiche dell’oggi il temine “fascismo” è da imbecilli. 

Non è certo sotto il portone romano del palazzo dove Casa Pound aveva la sua sede che viene come bissata la temperie del 1919-1922, degli anni in cui Benito Mussolini partì da un’elezione in cui s’era guadagnato poco più di 2000 voti per poi vincere e stravincere sino a diventare il padrone assoluto del nostro Paese.

Ecco, e qui comincia il mio dissidio dal libro di Aldo. Dal fatto che il ruolo del Duce in quei pochi anni talmente decisivi non può essere astretto a quello di un “capobanda”, di un gangster a capo di altri gangster come e più di lui feroci. 

La cruciale domanda su quali siano stati i tanti perché della sua stravittoria politica resta insoddisfatta dal racconto pur così incalzante del suo libro. Feroci, ferocissimi, gente che andava dieci contro uno a sfracassare sindacalisti e rivali politici, assassini di professione quali Amerigo Dùmini e tanti altri, esperti di nient’altro che non dell’uso del manganello e dell’olio di ricino, i fascisti italiani del 1919-1922 furono soltanto questo? 

O non è che ebbero contro avversari che non erano d’accordo su nulla, che si azzannavano gli uni con gli altri, che all’indomani del martirio di Giacomo Matteotti non seppero fare altro che rifugiarsi sull’Aventino? Sì o no è quest’ultima la ragione del trionfo di Mussolini dopo il 3 gennaio 1925, dopo quel suo impudente discorso in Parlamento in cui dice che sì è lui il capo di quell’accozzaglia di delinquenti e allora?

Quali erano le ragioni dell’adesione al fascismo di uomini che un manganello non lo avevano mai visto in vita loro, il filosofo Giovanni Gentile o l’organizzatore di cultura Filippo Tommaso Marinetti, il pittore Mario Sironi o l’architetto Luigi Moretti, il giornalista Leo Longanesi o lo scrittore Luigi Pirandello? A dire quel che è stato davvero il fascismo italiano nei suoi anni trionfanti sì o no questi nomi contano quanto e più di quello di Dùmini? E senza dire che la notte del 25 luglio 1943 furono dei fascisti italiani, e a rischio della loro vita, a buttar giù un dittatore tanto imbolsito quanto ebbro dei suoi stratosferici insuccessi.

Mussolini ci perseguita: il passato che persiste fra palazzi, targhe e dipinti: il libro di Rizzo e Campi. GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 12 settembre 2022. 

«Questo Comune/ è consacrato/ al cuore immacolato di Maria». Se la cavò così, nel primo dopoguerra quando i democristiani distribuivano volantini tipo «Pensa, ragazza mia/ al tuo sogno d’amor/ combatti la follia/ del bieco agitator», un municipio veneto deciso a stare alla larga dalle risse postbelliche. Prese la vecchia targa fascista piena zeppa di roboante retorica mussoliniana, rasò la lastra in marmo e si affidò alla Madonna Pellegrina.

Altri andarono oltre. Come a Pianura, Napoli, dove una lastra in marmo del 1936 contro le sanzioni della Società delle Nazioni (c’era il profilo dell’Etiopia e la scritta «Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’Impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque colle sue armi...») fu semplicemente ribaltata. Per ospitare sul retro, ora faccia a vista, una dedica alle Quattro Giornate di Napoli: «Il 29 settembre 1943/ caddero in Pianura/ baciati dalla gloria/ del popolo insorto contro/ la barbarie nazi fascista/ Colimoro Pasquale/ Mele Evangelista/ Vaccaro Antonio/ Mangiapia Fedele/ Longobardi Giuseppina/ Di Nardo Teresa/ Ai barbari oppressori/ eterno odio/ Ai martiri del popolo/ eterna gloria/ Pianura 1-10-1944». Scelta via via coperta dalla polvere del tempo ma destinata molti anni dopo, nel 2015, a sollevare una selva di polemiche a scoppio ritardato.

È l’Italia «double face, dublefàs per dirla in volgare. Su un lato è fascista, su quello opposto è antifascista», scrivono nel saggio L’ombra lunga del fascismo. Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini il politologo, docente a Perugia e studioso del pensiero di destra Alessandro Campi e il giornalista e scrittore Sergio Rizzo, per anni al «Corriere», autore di libri di successo tra cui Potere assoluto. I cento magistrati che comandano in Italia.

Un’Italia che non piace, per quanto vengano da percorsi politici e professionali diversi, a tutti e due. Un’Italia che ha sempre «accuratamente evitato di fare i conti con quel frammento di storia decisiva» che fu il Ventennio «lasciando tuttavia che continuasse ad avvelenare la politica e i rapporti sociali di uno dei più grandi Paesi liberi dell’Occidente, fondatore dell’Unione Europea. Con rigurgiti che si fanno sempre più inquietanti e che oggi alimentano le pulsioni sovraniste e populiste».

Dicono tutto, ad esempio, «le due lapidi collocate una sopra l’altra sul medesimo muro della sua casa a Grazzano, paese di seicento anime nel Monferrato. Dice la targa più in alto: “Qui nacque/ Pietro Badoglio/ Maresciallo d’Italia/ Eroe del Sabotino/ Primo viceré d’Etiopia/ Intrepido portò alla vittoria/ Le falangi armate/ dell’Italia nostra/ In quella guerra d’Africa/ Che diede/ a Roma/ l’Impero/ I Grazzanesi 24 maggio 1936». Dice la seconda più in basso: “In questa casa/ Nacque il 28-9-1871 e morì il 1-11-1956/ Pietro Badoglio/ Maresciallo d’Italia/ Capo del governo in tragica ora/ Assicurò la continuità costituzionale/ Attuò la cobelligeranza dell’Italia/ Fra le libere nazioni contro l’oppressione nazista/ Nel cinquantenario degli storici avvenimenti/ I Grazzanesi ricordano con gratitudine/ Il grande concittadino...” Un esempio da manuale di cerchiobottismo».

Esempio seguito, del resto, in centinaia di casi sparsi per l’Italia che Campi e Rizzo elencano spesso con ribrezzo. Come nel caso del nome dell’aeroporto di Comiso conteso per anni tra chi proponeva Pio La Torre e chi (i vertici dell’Aeronautica) il generale Vincenzo Magliocco, tra i «responsabili materiali degli eccidi etiopici col gas», chiuso con un compromesso: il nome dello scalo alla vittima della mafia, quello della via principale al generale. Il tutto quasi vent’anni dopo che il generale Domenico Corcione, ministro della difesa del governo Dini, aveva ammesso ufficialmente le responsabilità italiane nell’impiego di «bombe d’aereo e proiettili d’artiglieria caricati ad iprite ed arsine». Impiego «noto a Badoglio» e ovviamente a quel Rodolfo Graziani (ricordate almeno il massacro di tutti i monaci e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos?) cui sarebbe stato intestato il parco giochi per bambini di Filettino, rimasto tale nel 2017 («Si è sempre chiamato così, non ci vedo niente di male», disse il sindaco rivendicando di essere «di sinistra») dopo un restauro da 285 mila euro. Ambiguità inaccettabili.

Del resto cosa disse nel 1993 la nipote Alessandra? «Per togliere le tracce dell’operato di Mussolini bisognerebbe radere al suolo l’Italia». Aveva ragione. Ma in che senso? Per la grandiosità delle sue gesta, come insistono a ribadire i neofascisti più rissosi, o per la prepotenza con cui il duce volle marchiare il «suo» ventennio? L’immensa M sviluppata dalla Casa del Fascio di Asti, oggi sede dell’Agenzia delle Entrate. La gigantesca scritta Dux costruita piantando nel 1939 migliaia di pini sul fianco desolato del monte Giano tra Lazio e Abruzzo, non solo mai cancellata ma restaurata nel 2018 dai militanti di CasaPound. Lo spropositato profilo montuoso al Passo del Furlo, nelle Marche, che il comune di Fermignano deliberò nel 1935 di cambiare (in America erano al lavoro per il famoso monte Rushmore) perché assumesse le maschie sembianze del dittatore, profilo che non piacque a «Lui» perché pareva dormire.

E via così. L’immenso fascio littorio riemerso nel luglio 2021 dal restauro del mercato coperto di Perugia. Lo smisurato affresco, coperto per decenni nel salone d’onore del Coni, che domina il palco dove si svolgono tutte le cerimonie sportive ufficiali, anche coi maggiori ospiti internazionali, «senza un cartello che spieghi di cosa si tratta, quando e in quale contesto è stata realizzata, ma soprattutto perché è ancora lì». «Cancellare o conservare?», si chiedono gli autori, «Oppure conservare spiegando? Il problema è che quel dilemma non soltanto non è stato risolto, ma nemmeno mai affrontato in modo serio e organico». Certo, talora son possibili «ritocchi» come nel caso di un affresco all’Università per stranieri di Perugia del futurista Gerardo Dottori, La luce dell’antica madre, dove spiccava tra i costruttori dell’antica Roma, come Enea e Romolo un robusto operaio dalla testa lucida e dalla mascella volitiva che sposta blocchi di pietra: che fare a guerra finita? Tira e molla, se ne occupa lo stesso pittore, cambiando faccia al Duce ora biondo e riccioluto.

Ancora più interessante, forse, la statua di bronzo di due metri e mezzo all’Eur dal titolo Il Genio del fascismo. Un atleta nudo che fa il saluto romano. Che fare? Idea: nel 1953, come racconterà Fabio Isman, gli coprono le mani con due «cesti», quelle specie di guanti in cuoio usati dai pugili nell’antica Roma.

Ma dove ogni ritocco è impossibile? Il dibattito è ancora in corso. Anzi, in tema di cancel culture, è più vivo che mai. Forse la soluzione migliore, secondo il politologo e lo scrittore, sarebbe quella di Bolzano dove lo smoderato bassorilievo col Duce a cavallo (trentadue metri per cinque!) sbattuto in faccia ai sudtirolesi sul Palazzo delle Finanze in piazza Tribunale è ancora al suo posto. Ma una scritta al neon impossibile da non vedere riporta in tre lingue una frase di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire». E sono stati davvero troppi gli italiani, scienziati e magistrati, letterati e ingegneri, giornalisti e burocrati, come dimostra L’ombra lunga del fascismo, che si adagiarono nell’obbedienza spesso servile a Mussolini per poi addomesticare il loro passato come fosse stato soltanto

Pessoa, fascista "fingitore" e vero conservatore. I suoi scritti su Mussolini e i partiti di destra rivelano posizioni antitotalitarie ma nazionalistiche. Davide Brullo il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il 22 novembre 1926 il Sol pubblica un'intervista, «interamente ideata da Fernando Pessoa», all'enigmatico Giovanni B. Angioletti, «uno dei più grandi nemici delle teorie e della pratica del regime fascista... ben noto collaboratore del Mercure de France... una delle intelligenze più lucide e preziose che avessimo mai conosciuto». L'occasione dell'intervista è la visita, a Lisbona, per l'inaugurazione di una Casa del Fascio, del deputato fascista Ezio Maria Gray. Benché non possa essere eletto nell'Olimpo degli eteronimi di Pessoa, Giovanni B. Angioletti figura tra gli esseri effimeri, gli spettri di un attimo: don Fernando ne ha attinto l'identità vampiro di vite altrui dall'autentico Giovanni Battista Angioletti (1896-1961): giornalista di talento, direttore de L'Italia letteraria e fondatore de L'Approdo, la sua fama da romanziere è ormai sfiorita, eppure per quel che valgono i premi vinse un Bagutta (nel '27, con Il giorno del giudizio), uno Strega (nel '49, con La memoria), un Viareggio (nel '60, con I grandi ospiti). Collaboratore in Rai, guida dell'Istituto italiano di cultura a Praga, l'autentico Angioletti non era esule, non ha mai collaborato con il Mercure de France, non è mai stato in Portogallo, se non come turista. L'Angioletti intervistato da Pessoa che, di fatto, intervista se stesso afferma che Mussolini è «tanto geniale quanto paranoico», che «l'Italia unificata... è stata uno sbaglio», che «le violenze del fascismo non hanno una grande importanza: uguali violenze, o quasi uguali, hanno praticato i suoi avversari; uguali violenze, se non maggiori, praticherebbero da domani, se il Destino soffiasse su di loro quell'illusione chiamata potere». Secondo l'anomalo antifascista, il fascismo è fenomeno transitorio, voluttuoso e vago: «il mondo è retto da forze speciali, molto speciali», un gruppo di 300 plutocrati che governerebbe occultamente il pianeta.

Mussolini, d'altronde, andava di moda. La dottrina del fascismo fu pubblicato first authorized translation in UK per la Hogarth Press dei coniugi Woolf, la casa editrice in cui Virginia si era autoprodotta Orlando e Le onde e aveva stampato La terra desolata di Eliot.

Pessoa seguiva le sorti del fascismo dal 1923: gli era insopportabile quel movimento «somigliante per un lato al bolscevismo e per l'altro allo spirito sindacalista», «mera brutalità partitica», greve «bolscevismo centripeto». Agli occhi di Pessoa, ossessionato dall'occulto, alchimista di ombre, monarchico e massone, il fascismo come i gemelli diversi: nazismo e comunismo massificava l'idiozia («Soviet, comunismo, fascismo, nazionalsocialismo tutto questo è lo stesso evento, il predominio della specie, cioè dei bassi istinti, che sono di tutti, contro l'intelligenza, che è solo dell'individuo»). «Fautore di un nazionalismo mistico», Pessoa era «tutto per l'individuo»: i moti di massa lo irritavano, la democrazia gli sembrava insulsa. In un frammento del 1934, il sommo fingitore scopre la regola aurea: «La democrazia, quale mezzo di conquista del potere, è un mezzo per campare». L'anno dopo, tentò una difesa della dittatura, «giustificata dalle circostanze, allorquando in un Paese lo stato di anarchia, governativa o sociale, è tale da rendere impossibile la vita della legalità».

Il libro di Ferdinando Pessoa Sul fascismo, la dittatura militare e Salazar (Quodlibet, pagg. 378, euro 24) - che raccoglie testi editi e inediti, prose, articoli, appunti sul fascismo italiano, la dittatura militare in Portogallo (1926-33) e l'Estado Novo creato da António de Oliveira Salazar nel 1933 - è bello, curioso, furbo, dacché il fascismo è materia elettorale intramontabile. Il libro riprende la pubblicazione curata da José Barreto nel 2015, ideologica: il florilegio di testi di Pessoa è collezionato per dimostrare che non si può «far figurare Pessoa come un prefascista o un protofascista», per smontare «la fascistizzazione postuma del pensiero di Fernando Pessoa». Più interessante dei giudizi su Mussolini e Hitler («Mussolini e Hitler si attengono all'assoluta banalità delle loro idee», «Nessuno può negare che Mussolini, Hitler, Salazar sono caratteri squilibrati»), comunque, è la visione politica di Pessoa: elitista («Abbiamo assistito alla rivolta dell'idea di uguaglianza contro quella di libertà. Non ci sarebbe stato nessun male in ciò se non fosse che è sulla libertà che le civiltà si basano, ma la libertà produce e stimola la diseguaglianza»), esoterica (è pubblicato, tra l'altro, l'articolo del 4 febbraio 1935 in cui Pessoa difende la Massoneria e le «associazioni segrete» da un progetto di legge che tentava di annientarle), immaginifica («il desiderio di cose impossibili è la forza motrice del mondo»).

Si indignò quando il Regno d'Italia invase l'Abissinia; capì, più profondamente, che «tutti i popoli imperialisti, nel fare schiavi gli altri, fanno schiavi anche se stessi». Equiparava l'azione «dello zio Mussolini» a quella «dell'abate Lenin»: entrambi miravano a minimizzare l'individuo. All'opposto, il suo programma politico, diciamo così, mirava a «insegnare a ogni uomo a pensare con la sua testa e a vivere attraverso la sua esistenza». Diffidava dell'impalcatura statale, difendeva le identità nazionali: oggi le nazioni sono inique e anonime gli Stati ci strozzano. Preferiva «il liberalismo, che non è altro che il rispetto per l'individualità degli altri», connotato come «Nazionalismo Liberale» (moto spontaneo, non strutturato in partito, che «riconosce due, e soltanto due, realtà sociali: l'Individuo, realtà vitale, e la Nazione, realtà ambientale, poiché essa è, in sintesi spirituale, l'ambiente in cui l'Individuo vive»); a volte si diceva «Conservatore di stile inglese... e assolutamente anti-reazionario».

In fondo, l'opera di Pessoa non è che la cronaca di un regno autarchico, in cui convivono, come principi ereditari, un parterre di eteronimi, il monarchico Ricardo Reis e il borghese antiborghese Álvaro de Campos, l'apolitico Alberto Caeiro, il paranoico António Mora e l'apolide antifascista Giovanni B. Angioletti. Il resto, il mondo, è gioco barbaro, per bari, la primavera dei primati: si disintegra corazzati di poesia, stigma e stiletto del puro individualista.

Azionista, repubblicano dimenticato nel dopoguerra. Il compagno Pacciardi, il nostro De Gaulle osannato in guerra e archiviato da Dc e socialisti. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Settembre 2022 

Aveva un grande corpo, l’espressione severa: forte, lungo e vecchio, vestito con un abito scuro a doppio petto, fu così che lo vidi la prima e l’unica volta deceduto nella sua casa romana di Vigna Clara il 14 aprile del 1991. Ero al telefono con Giorgio La Malfa che lesse un messaggio e disse: «È morto Pacciardi. Io vado a trovarlo. Mi accompagni?». Abitava in una palazzina dietro via Ronciglione, una zona ancora abitata più da pecore che da esseri umani. Davanti alla morte, specialmente di uno sconosciuto benché personaggio storico, non sa mai che faccia fare e così mi misi a scannerizzarlo con gli occhi come se dalla mia ispezione potesse emergere da quel corpo una rivelazione della sua storia.

Il nome di Randolfo Pacciardi dirà ormai poco a chi ha meno di cinquant’anni, perché da tempo si è spento sia il livore, che l’ammirazione, nei suoi confronti. Morì a 92 anni nel 1991, quasi dimenticato. Era stato un presidenzialista e vedeva molto volentieri se stesso in quel ruolo per il quale si sentiva con molta ambizione predestinato. Era uno di quei toscanacci più simili a Malaparte che agli intellettuali: figlio di un ferroviere originario di Castagneto Carducci, con un’istruzione piuttosto modesta alle scuole tecniche di Montepulciano, fece appena tempo a prendere il diploma che era già militare al corso allievi ufficiali perché apparteneva a quel genere di persone alla Lussu che consideravano la guerra un’occasione e fu decorato anche dagli inglesi con la Military Cross. Poi scese personalmente in guerra armata col primo fascismo e nel 1924 organizzò una sua “marcia su Roma” con 2000 ex combattenti, fra cui Peppino e Sante Garibaldi.

Diventò presto la primula rossa della polizia fascista e passò molto tempo a fuggire sui tetti di Roma prima di accogliere la proposta della vedova di Cesare Battisti che lo invitava a Trento. Fece base a Lugano, mitica patria degli anarchici in fuga (“Addio Lugano bella, oh dolce terra pia, cacciati senza tregua gli anarchici van via”). Da lì cominciò a lavorare come un cospiratore e un ufficiale esperto di cose militari. I suoi compagni organizzavano attentati contro Mussolini e voli pirata sopra Milano e il compito che si era messo in testa era molto simile a quello che in Francia avrebbe svolto il giovane colonnello e specialista di carri armati Charles de Gaulle in Francia. Detestava i comunisti quanto i fascisti accusando entrambi di costituire una sola famiglia politica nemica dell’Italia democratica e repubblicana. Al congresso di Parigi del 1933 batté la sinistra di Ferdinando Schiavetti che voleva introdurre il socialismo comune obiettivo finale dell’Italia liberata dal fascismo e fu eletto segretario. In questo modo si consumò una rottura anche con i comunisti che avevano sperato in una alleanza di tipo frontista con lui e con i socialisti di Pietro Nenni esule in Francia.

I fascisti riuscirono a imporre al governo federale elvetico l’espulsione di tutti gli antifascisti da Lugano con gli anarchici. Nel gennaio del 1933 Adolf Hitler vinse le elezioni in Germania e diventò legalmente il Cancelliere del Reich. La nuova situazione era sempre più esplosiva e tutti nel fronte antifascista auspicavano il ricorso alle armi, un obiettivo che diventò possibile con l’inizio della guerra civile spagnola quando la Repubblica fu aggredita da un corpo di spedizione coloniale guidato dal generale Francisco Franco. Pacciardi nel giro di tre anni, nel 1936, diventò uno dei capi militari della battaglia di Madrid e insieme a Carlo Rosselli schierò sul fronte di Guadalajara le Brigate Garibaldi che si scontrarono direttamente con il corpo di spedizione fascista mandato da Mussolini. La brigata Garibaldi (combattevano anche anche Peppino e Sante Garibaldi) sbaragliò il corpo di spedizione fascista che si arrese e i cui componenti furono rimessi in libertà e rispediti in Italia dopo un umiliante pubblico interrogatorio in cui furono rivelate molte atrocità commesse dai fascisti. A Roma quella sconfitta fu presa malissimo e Mussolini chiese a suo genero e ministro degli Esteri, Galeazzo Ciano, di liquidare Carlo Rosselli e Pacciardi. Ciano eseguì la missione arrivando a un accordo con la “Cagoule” una organizzazione militare di destra che si impegnò ad esaudire i desideri di Roma. Pochi ricordano, che fra i giovanotti di mano della Cagoule c’era anche il giovane Francois Mitterrand che molti decenni dopo diventò il leader socialista e uno dei più amati presidenti francesi.

Ma non c’erano solo i successi degli italiani di Giustizia e Libertà, fondata da Carlo Rosselli che fu ucciso in un agguato di tiratori scelti appostati lungo la strada che stava percorrendo col fratello. I comunisti avevano a Madrid come emissario di Stalin il famoso e temuto “Ercoli” nome di battaglia di Palmiro Togliatti, cittadino sovietico e vicesegretario del Comintern. Nel maggio del 1937 a Barcellona si svolse un regolamento armato dei conti fra comunisti e antifascisti non controllati da Mosca e quasi tutti gli anarchici. Togliatti fu poi chiamato a Mosca per firmare le condanne a morte di tutti i dirigenti comunisti polacchi accusati di essere fascisti. Pacciardi dopo la sconfitta della Repubblica si nascose con la moglie in Francia dove restò fin quando Parigi fu occupata dai tedeschi in una fase della guerra in cui i comunisti di tutto il mondo, fedeli alle direttive di Stalin alleato di Hitler, davano la caccia a tutti gli antifascisti anticomunisti e quello fu veramente il momento della rottura irreversibile fra i repubblicani, le brigate Garibaldi di Giustizia e Libertà e i comunisti.

Pacciardi riuscì a riparare negli Stati Uniti dove rimase fino alla fine della guerra, quando poté tornare nella patria liberata. In America costituì una brigata di volontari italiani che combattè al fianco degli americani dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbour. Quando tornò in Italia grazie agli americani organizzò subito le fila del nuovo Pri tenendolo fuori dal Comitato di Liberazione Nazionale che secondo Pacciardi si era macchiato di un’infamia imperdonabile: aver trattato con il re. La sua intransigenza non cessò neppure quando in Italia, su imput del presidente americano John Kennedy, fu varata la formula quasi rivoluzionaria del Centro-Sinistra con i socialisti – come diceva lo stesso Nenni – “nella stanza dei bottoni”. Pacciardi non voleva sentir parlare di centro-sinistra e non si fidava di Pietro Nenni che aveva ricevuto (e più tardi restituito) il “Premio Stalin per la pace”.

E poi il presidenzialismo: l’impresa di De Gaulle nel 1958, quando fu richiamato a Parigi da tutti i partiti per scrivere una nuova Costituzione ed occupare l’Eliseo come capo della Francia, lo portò a formulare il desiderio proibito: fare in Italia come la Francia: e chi meglio di lui poteva rappresentare l’Italia che resiste, che combatte, vince e non intende aprire ai comunisti? La sua storia di impeccabile antifascista, di repubblicano ma anche di deciso anticomunista diventò d’impaccio dopo una prima fase della sua vita politica in Italia durante la quale fu ministro della Difesa. Era un uomo di sinistra, non c’è dubbio. Di quella sinistra antifascista e inflessibile che lo portò al grado di comandante durante la guerra civile spagnola, cui parteciparono quasi tutti i futuri leader dei partiti, ma era uno di quei patrioti di frontiera, condannato alla “damnatio memoriae”, la morte per oblìo, perché apparteneva a una tradizione interventista. A buttarlo fuori dal partito, alla fine della sua vita fu il ferreo Ugo La Malfa, uno degli artefici e promotori della creazione del centrosinistra in Italia.

Il motivo politicamente formale era che Pacciardi non poteva mettere il bastone fra le ruote di un’alleanza con la Dc e i socialisti di Nenni che era il cardine della nuova strategia atlantica. Ma Pacciardi fu sommerso da una violentissima campagna di stampa e televisiva in cui specialmente i democristiani lo accusavano di mire golpiste. I comunisti lo avversavano per ovvi motivi di schieramento storico, ma mai quanto i democristiani che avevano reagito malissimo quando in Francia la quarta Repubblica era crollata. La Democrazia Cristiana aveva fondato la sua potenza e la sua capacità di imporre la sua volontà grazie a un patto interno non scritto: il partito cattolico non aveva alcuna difficoltà ad ospitare uomini di estrema sinistra e di estrema destra, populisti come Fanfani e sindacalisti come Donat Cattin. Ma la formula democristiana, regolata dal famoso “Manuale Cencelli” consisteva in un continuo e periodico avvicendamento di governi democristiani, con presidente del Consiglio democristiano e la capacità di mandare al Quirinale un democristiano. L’impressione che l’Italia avesse una istituzione fragile che la costringeva a subire continui cambi di governo, era sbagliata: l’avvicendamento democristiano prevedeva rotazioni calcolate da una grande ruota a ingranaggi perfettamente oliata. Nella Dc era solo necessario contare e contarsi, il manuale delle proporzioni faceva il resto.

Il pessimo esempio offerto dalla Francia con la consegna dei poteri partitici ad un solo uomo onnipotente fece scatenare nella Democrazia Cristiana una campagna ferocissima contro chiunque in Italia avesse manifestato tentazioni e tendenze simili. I comunisti erano d’accordo perché si sentivano tranquilli e dall’avvento di De Gaulle in Italia fu scatenata una vera caccia al presidenzialista che era (ed è) vissuto come un ostacolo e anzi un impedimento ad una politica nazionale fondata sulla competenza e un indubbio leaderismo (come accade del resto con formule diverse in quasi tutte le liberaldemocrazie) e dunque condannata a priori come una forma di fascismo mascherato, e comunque di assalto modernista al sistema collaudato e ben oliato degli ingranaggi del manuale Cencelli. Pacciardi aveva sdegnosamente rifiutato il modello democristiano e morì dimenticato e vituperato come un attentatore della Costituzione.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La storia. La resistenza e la trincea di Alfredo Reichlin, spari e poesia: “Lo vedi che tramonto?” Piero Sansonetti su Il Riformista l'11 Settembre 2022 

Alfredo Reichlin aveva appena compiuto 18 anni. Allora si cominciava presto a fare politica. Quella mattina insieme al suo amico Arminio Savioli, ragazzetto come lui, prese il fucile nell’armeria segreta che era nascosta nel negozio di biciclette di Collalti, a via del Pellegrino, e si diresse verso la Piramide, dove esercito e partigiani avevano deciso di tentare una disperata resistenza ai tedeschi che avanzavano dalla via Ostiense.

Erano le sette di sera e Alfredo e Arminio stavano accucciati dietro a una trincea improvvisata e sparavano, sparavano all’impazzata sui carrarmati dei nazisti. A un certo punto Alfredo si accorse che Arminio non sparava più, e sentì un tuffo al cuore. Immaginò che l’avessero colpito. Si girò verso di lui e lo vide col fucile in mano che guardava lontano. Non sembrava ferito.

Gli chiese cosa fosse successo. Arminio, ispiratissimo, lo guardò e gli rispose: Ma lo vedi che tramonto? Erano così i ragazzi della resistenza. Armi, lotta, coraggio , idee e poesia. Questo episodio me lo ha raccontato Reichlin tanti anni fa, quando lui era il direttore dell’Unità e Arminio una delle firme più prestigiose del giornale. Reichlin adorava Arminio.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

«Fermate quel piroscafo». Il caso della nave fascista boicottata dai marittimi inglesi che poteva cambiare la storia. Alla vigilia della marcia su Roma, nel 1922, uomini del Pnf si impossessarono del piroscafo Accame e fecero rotta su Cardiff. Il sindacato britannico gli impedì lo sbarco per protesta contro i raid degli squadristi. Ma poi il governo decise la marcia indietro. Alfio Bernabei su L'Espresso il 5 Settembre 2022.

Due mesi prima della marcia su Roma, nel 1922, Mussolini si trovò davanti a un ostacolo imprevisto con il rischio di inciampare e trovarsi in imbarazzo davanti al mondo intero. Dovette temere una battuta d’arresto ai propri piani per avvicinarsi al governo e reagì con furia. L’ostacolo si manifestò a più di mille chilometri di distanza - la prima protesta contro il fascismo al di fuori dei confini italiani e di riverbero internazionale.

Scurati: «Mussolini con Hitler, l’orrore dentro una lacrima». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 26 Agosto 2022 

Nel terzo volume di «M», Antonio Scurati racconta il Duce che porta l’Italia in un abisso morale e bellico al seguito del Führer. «Era divorato dalla paura, dalla furbizia e dall’auto-inganno» 

Il vertice al Brennero tra Adolf Hitler e Benito Mussolini, era il 18 marzo 1940, il loro quinto incontro (foto Heinrich Hoffmann/Ullstein Bild/Getty images)

In un racconto fantastico o del terrore, se un individuo incontra il suo doppio, nasce un conflitto nel quale soccombe. I tedeschi lo chiamano Doppelgänger, il russo Dostoevskij l’ha raccontato ne Il sosia. Nel caso di Mussolini e di Hitler, con il loro specchiarsi e diabolico manipolarsi, il terrore si fa Storia. E a soccombere saranno milioni di persone. L’incontro tra i due dittatori è il cuore del terzo volume di «M», la saga di Antonio Scurati dedicata a Mussolini e all’Italia fascista. Se nel primo M si raccontava l’ascesa di Mussolini e in M2 gli anni del regime, in M3 si va dalla visita del Führer in Italia nel 1938 fino alla nostra entrata in guerra nel 1940, a conclusione di un’intesa militare e ideologica suggellata dalle leggi razziali.

Come il Duce condurrà l’Italia in questo abisso è raccontato con un uso spietato delle fonti e una fantasia romanzesca chirurgica, senza anestesia, per evitare falsi alibi: siamo stati noi, come ricorda l’autore nell’avvertenza, i «feroci, dementi cani della guerra» al fianco di Hitler. Un vero romanzo storico è sempre attuale e politico, ma questa volta il racconto parla al presente in maniera clamorosa. Non tanto per la coincidenza della probabile vittoria della destra in Italia, che eccita inevitabilmente un antifascismo di retroguardia, quanto per la crisi europea causata dall’invasione russa dell’Ucraina. Il volume, con filologia eloquente, si chiama Gli ultimi giorni dell’Europa.

«QUANDO I DUE DITTATORI SI SALUTANO A FIRENZE HITLER SI COMMUOVE, MUSSOLINI RESTA CINICO E POI FARÀ DEL SARCASMO»

Il titolo è un epitaffio per l’Europa del Novecento e un monito per l’Europa di oggi. Quando ha deciso di adottarlo?

«Doveva chiamarsi Il libro dell’infamia, e per infamia non intendo solo le leggi razziali, ma il fascismo come miscela maleodorante di furbizia, calcolo e paura. Poi ho riletto le memorie dell’allora ministro degli Esteri della Romania, che hanno questo titolo, e mi sono reso conto che fotografa meglio l’argomento: una fine, che non è compimento, ma estinzione, della civiltà europea, per colpa del nazifascismo. La cronaca di questi giorni, la guerra russa in Ucraina, ci parla di una nuova minaccia di estinzione: non significa che scompariremo tutti, ma che ciò in cui abbiamo creduto e sperato potrebbe sparire dal nostro orizzonte».

Quali parallelismi più la colpiscono?

«Il primo è l’ideologia imperialista di potenza e di dominio su altri popoli considerati sacrificabili, destinati ad uno stato permanente di minorità, Paesi satellite, vassalli. Accomuna la visione di Putin a quella di Hitler. Poi la retorica ufficiale con cui si giustifica il ricorso alle armi, è identica: invadere per difendere una minoranza. Hitler lo fece per quella germanofona dei Sudeti in Cecoslovacchia... Putin lo fa per territori dell’Ucraina dove c’è una componente russofona che lui proclama essere perseguitata o addirittura sterminata, a dispetto di ogni evidenza. Anche le dichiarazioni di Hitler, che riporto nel romanzo, erano smentite dalla realtà. Poi colpisce l’iterazione dello schema: Austria, Sudeti e Danzica per Hitler, Cecenia, poi Crimea, Georgia, Ucraina per Putin... Anche la violenza distruttrice di civili e città accomuna nazismo e putinismo, è terrorismo militare di Stato. Infine, vedo una simmetria forte nella sgomenta passività di certe democrazie liberali europee».

Lo spirito di Monaco, l’illusione di ammansire Hitler sacrificando alcuni Stati.

«Monaco è il momento in cui la figura di Mussolini sembra ergersi come architetto della pace».

Poi il Duce si schiera con la belva, l’aggressore. Sperava di trarne un facile vantaggio.

«Sapeva della totale impreparazione militare dell’Italia, della mancanza di risorse economiche, finanziarie e materiali, e della refrattarietà degli italiani ad andare in guerra a fianco dei tedeschi, aveva visto il volto demoniaco del nazismo... ma tutto questo veniva azzerato dall’illusione di poter manovrare politicamente Hitler: un pensiero sciagurato, patetico e grottesco. E poi, una volta legatosi a Hitler, si illudeva di essere alla guida di un Paese guerriero, di una nazione in armi. È sconvolgente scoprire quanto Mussolini fosse al tempo stesso lucidamente consapevole dell’abisso e ottenebrato da un macroscopico auto-inganno». 

La sua politica sembra viziata dalla continua sopravvalutazione delle sue abilità personali.

«Si sente uno statista che gioca a scacchi, su più tavoli, con la Germania da una parte e con l’Inghilterra dall’altra, facendo affidamento sulla sua furbizia, una forma di intelligenza che si chiama scaltrezza e che spinta oltre la soglia critica è la più pericolosa forma di stupidità. Ma chiariamo un punto: l’entrata in guerra, per molti, è il momento in cui inizia la caduta di Mussolini, come se fosse un errore di calcolo: gli indulgenti dicono che si è smarrito, che lui era anche altro... No, è l’esito ultimo ma ineludibile di un vizio d’origine del fascismo che non è mai stato altro che questo. E sentirsi furbi è un vizio atavico italiano».

Se provassimo a riassumere l’essenza del fascismo in una parola, quale sarebbe?

«Direi la paura. Il fascismo è stato, è, pauroso. Mentre la rivoluzione promette il sol dell’avvenire, la speranza, lui scopre che c’è una passione politica più potente, ed è la paura. Non la speranza della rivoluzione ma la paura della rivoluzione. Fin dalle origini lui punta tutto sulle paure del bolscevico, dell’invasione, e governava con la paura, la violenza. Faceva paura e campava sulla paura. Ma Mussolini entra in guerra al fianco di Hitler anche perché teme di averlo contro, la paura lo divora. La forza della paura è un’altra analogia forte con il presente e le nuove destre, in Italia e in Europa, in quella occidentale soprattutto, che distinguo da quella orientale da quando c’è stata l’invasione russa. Dobbiamo scegliere se resistere o cedere alla seduzione del dittatore, la potenza bellicista, il totalitarismo, se cedere al timore di metterci contro qualcuno che vive delle nostre paure».

Se dovesse individuare un momento chiave, un dettaglio simbolico del rapporto tra Hitler e Mussolini, quale indicherebbe?

«La prima visita di Stato di Hitler in Italia nel 1938. Lui è sceso per tirare Mussolini a sé, perché all’epoca la Germania era senza alleati e le democrazie liberali cercavano di tenere l’Italia fuori dalla guerra o addirittura di portarla dalla propria parte. È un momento di profondo mimetismo per cui uno si convince della propria identità e ideologia guardando l’altro al proprio fianco. Per Hitler è anche l’occasione di coronare i sogni di pittore mancato, è la prima volta che visita i musei e le gallerie d’Italia, e il culmine è a Firenze. Ecco, penso al congedo dei due, sulla banchina della stazione. C’è un dettaglio, ampiamente testimoniato: dopo le frasi di rito, le promesse di amicizia tra i popoli, Hitler si commuove, ha le lacrime agli occhi, mentre Mussolini resta ancorato al suo cinismo, infatti poi farà con i presenti un commento sarcastico».

«LA COMMOZIONE DI HITLER RIVELA UNA VULNERABILITÀ SOLO APPARENTE. IN REALTÀ IN QUELLE LACRIME DI COMMOZIONE SI SPALANCANO GLI ABISSI DELLA SUA SCONFINATA VOLONTÀ DI POTENZA E CAPACITÀ DI DISTRUZIONE. IN QUELLA LACRIMA CI SONO GIÀ I CAMPI DI STERMINIO, L’ORRORE» 

Cosa c’è in quella lacrima? Da dove viene?

«Con questa effusione Hitler apparentemente manifesta un trasporto verso l’amico, l’alleato, il maestro; aveva un’autentica venerazione per Mussolini, e ne darà molte prove durante la guerra, soccorrendoci in Grecia e nei Balcani. Ma al fondo c’è la passione per l’infinito affermarsi della propria individualità di potenza, in quel momento Hitler sente che il sogno di grandezza pangermanista si sta realizzando tramite Mussolini e l’alleanza con l’Italia. L’allievo attira a sé il maestro e il maestro, che pure vede l’abisso, lo segue verso l’apocalisse, un’apocalisse scatenata, in fondo, da noi che ci schieriamo con Hitler».

La scena sembra smentire i luoghi comuni sui popoli: emotivo il latino, freddo il germanico.

«Rivela l’indole individuale. Mussolini dovrebbe essere il sentimentale perché italiano e in realtà rimane sempre l’uomo capace di recitare ogni sentimento perché non ne prova nessuno, mentre Hitler, il nordico, viene preso da uno dei suoi slanci di emozione tardo-romantica, quella tensione verso l’infinito e l’assoluto che spinge, elimina ogni freno. Invece la maschera di Mussolini, da cinica commedia politica, è freno di sé stesso, e ha a che fare con il particolare, non con l’assoluto, con l’infinito, di fronte al quale soccombe, perché la commozione di Hitler rivela una vulnerabilità solo apparente. In realtà in quelle lacrime di commozione si spalancano gli abissi della sua sconfinata volontà di potenza e capacità di distruzione. In quella lacrima ci sono già i campi di sterminio, l’orrore».

Nel libro vediamo Mussolini farsi vaso, per bieco opportunismo, dell’ideologia antisemita nazista. Il vuoto tattico è qui al suo peggio.

«L’Italia non era antisemita, l’Italia di Mussolini diventa antisemita per calcolo meschino. Voleva rinsaldare l’alleanza con il nazismo. E come spesso accade ai convertiti insinceri ha un eccesso di zelo, da integralista: le leggi razziali, nell’autunno del ‘38, sono le più dure che esistano in Europa, persino più dure di quelle della Germania nazista».

«LE LEGGI RAZZIALI FURONO ADOTTATE PER RINSALDARE L’ALLEANZA, CON L’ECCESSO DI ZELO E L’INTEGRALISMO DEI CONVERTITI INSINCERI»

Tra gli ebrei vittime di queste leggi, nel libro ha molto spazio Renzo Ravenna: podestà di Ferrara. Fino all’ultimo, si ostina a credere che il fascismo non perseguiterà gli ebrei.

«M è la storia dei carnefici e non principalmente delle vittime, ma c’è sempre almeno una vittima che le riassume. In questo caso ho scelto il podestà fascista di Ferrara, Renzo Ravenna, grande amico di Italo Balbo e ottimo amministratore. Fino all’ultimo si illude, si auto-inganna che la persecuzione non avrà corso. Si sbagliava. Lui cadrà in disgrazia, il figlio emigra, molti familiari verranno condotti allo sterminio. Ho messo in scena gli ebrei fascisti ben sapendo che non tutti gli ebrei erano stati fascisti, ma molti lo sono stati fino all’ultimo».

Anche Margherita Sarfatti, ebrea, deve fuggire.

«Oltre che una complice del regime, Sarfatti è stata la consigliera del primo Mussolini. Noi la vediamo nella sua fase crepuscolare anche perché il suo posto è stato preso da Claretta Petacci, la giovane amante di Mussolini, adorante, quasi una groupie, mentre Margherita Sarfatti era una donna matura, che poteva essergli intellettualmente superiore. Il passaggio di consegne è segno di una progressiva solitudine del dittatore e anche della sua precoce senescenza».

Lei descrive le briciole di compassione di alcuni italiani non ebrei verso gli italiani ebrei, con una riflessione sull’auto-inganno: ci si può sentire più umani quando si empatizza con una persona perseguitata, ma in realtà si tratta di un effetto della riduzione di umanità che la vittima ha patito.

«Si dice che la legislazione razziale fu l’altro momento in cui Mussolini perse il polso del popolo e non si rese conto che molti italiani non la capirono, che provarono compassione verso i concittadini ebrei. Questo è vero, in parte. Ma se così tanti non condivisero le leggi e provarono pietà per i compagni di scuola dei propri figli, dei colleghi di lavoro, dei concittadini ebrei, quanti agirono di conseguenza? La risposta è spaventosa. Sì, in tanti magari inorridirono e deprecarono in silenzio, e gettarono briciole di solidarietà, ci fu pure chi manifestò attivamente, ma sostanzialmente la maggior parte restò passiva e inerte. Qualcosa di simile può succedere oggi con i migranti, il popolo ucraino o chiunque sia costretto a occupare il posto della vittima. Noi proviamo spesso un breve turbamento, ma poi restiamo inerti. Le emozioni ci fanno sentire assolti, ma sono effimere».

«NON MI PIACE LA COMICITÀ APPLICATA AI DITTATORI E AI CRIMINI, CHAPLIN INCLUSO. SAREI STATO FELICE DI FERMARE BENIGNI»

Mi ha colpito la fine di Angelo Fortunato Formìggini, un intellettuale ebreo, editore di testi comici, che si getta dalla torre della Ghirlandina a Modena. Di fronte alla tragedia la comicità si suicida. Non è possibile riderne.

«Premetto di non condividere quanti dicono che si debba arretrare di fronte alla rappresentazione dell’ineffabile, del male assoluto, qui Hitler. Ammetto però una mia idiosincrasia verso la comicità applicata ai dittatori e ai loro crimini. Per me anche Il grande dittatore di Chaplin, nonostante l’evidente genialità, ha avuto conseguenze nefaste: rappresentare Mussolini come personaggio comico o buffo, per esempio, ha dato luogo a un grande equivoco in ambienti anglo-americani riguardo il Duce e il fascismo, che sono stati sottovalutati».

Non crede alle virtù salvifiche dell’ironia?

«Non fermi i dittatori, i carri armati o le camere a gas con l’ironia! Prendo a prestito una frase di Godard che indicò come suo grande rimpianto non aver potuto impedire a Spielberg di realizzare Schindler’s List. Ecco, direi che se avessi potuto impedire a Roberto Benigni di girare La vita è bella l’avrei fatto e sarei stato felice».

Giampiero Mughini per Dagospia il 26 agosto 2022.

In campagna elettorale si sono fatti numerosi sui nostri giornali i riferimenti a quanto siano ridicoli coloro che a tutt’oggi si manifestano in Italia come neofascisti, gente che magari mette assieme quattro ciondoli a farne una sorta di museo dedicato al ventennio e al Duce, museo che loro portano bellamente in giro. Meglio ancora se qualcuna di queste macchiette fa parte della truppa di Giorgia Meloni. 

Gli articoli di cui ho detto si ergono allora a far da monito contro la sua più che probabile vittoria politica, e serve a niente ricordare per la millesima volta che il fascismo italiano ha chiuso il suo destino il 2 maggio 1945 quando i mitra crepitarono contro gli uomini in piedi innanzi al muretto di Dongo, e fra quegli uomini c’era uno dei fondatori del Partito comunista d’Italia. Fine del fascismo. Morto e sepolto. 77 anni fa.

Laddove indicare al pubblico ludibrio odierni pagliacci e pagliacciate non ci aiuta certo a capirlo quel dannato ventennio, una tragedia drammaticamente seria che è rimasta come impressa sulla carne della nostra storia recente. Dobbiamo fare i conti con il fatto che il fascismo è stato purtroppo un’opzione politica tra quelle possibili nell’Europa martoriata dai quattro anni di massacri che era durata la Prima guerra mondiale. Per niente affatto il fascismo è stato una opzione contro la cultura, il mero trionfo di un’accozzaglia di delinquenti che seppero usare a meraviglia manganello e olio di ricino, e bensì una delle possibilità anche culturali offerte al terrificante garbuglio rappresentato dalla scena europea di quegli anni.

E tanto per dire di alcuni dei protagonisti dell’avventura vincente del fascismo, Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Mario Sironi, Giuseppe Terragni, Margherita Sarfatti furono o non furono fra i protagonisti della cultura italiana del Novecento? Ecco, la Sarfatti (nata nel 1880, morta nel 1961), l’intellettuale ebrea ma anche l’amante di Benito Mussolini che ha un posto di rilievo nelle vicende artistiche italiane degli anni Venti e alla quale ha appena dedicato un libro (“Novecento”, Altaforte edizioni) Claudio Siniscalchi, uno che sa mettere assieme lo spessore della ricerca universitaria e il cipiglio scalpitante dell’intellettuale militante.

Non ne sai nulla degli uomini e delle vicende dell’arte italiana negli anni Venti se al centro di quelle vicende non ci metti il salotto milanese dove la Sarfatti accoglieva il fior fiore degli artisti italiani del momento. A Sasso di Asiago ho montato i gradini del cippo in memoria di Roberto Sarfatti, il figlio non ancora diciottenne di Margherita caduto da volontario della Prima guerra mondiale, il cippo che Giuseppe Terragni realizzò nel 1935 su commissione della madre.

Ebbene è lei, Margherita, che sollecitata da Giuseppe Prezzolini pubblica nel 1925 una biografia del Duce che ha per titolo “Dux”, dal titolo del volto in bronzo di Mussolini che Rodolfo Wildt aveva scolpito nel 1923 in occasione del primo anniversario della Marcia su Roma. In uno dei suoi libri Prezzolini racconta che aveva mandato a Mussolini le bozze del libro, sulle quali il Duce apportò minime correzioni. Una delle quali riguardava un riferimento velenosetto che la Sarfatti aveva fatto di Angelica Balabanoff, un’altra delle amanti del primo Mussolini, di cui la Sarfatti scriveva che aveva le ”gambe storte”. Un particolare che Mussolini cassò pur nel conservare il riferimento al suo rapporto con la Balabanoff.

Nel suo libro Prezzolini si maledice per non averle conservate quelle bozze e relative correzioni, da cui avrebbe ricavato fior di quattrini se le avesse messe all’asta. In Italia il libro della Sarfatti arrivò a vendere in Italia un milione e 500mila copie. Vendute a 5 dollari la copia, e cioè tre volte il costo dell’edizione italiana, in America di copie ne vendetta la bellezza di 500mila. E’ molto semplice. In quel torno ai anni a cavallo tra i due decenni, il Duce era uno dei leader politici più apprezzati al mondo, e non solo da Winston Churchill.

Anche questa una cosa con cui fare i conti, a meno di non essere dei babbei che la storia se la immaginano come vorrebbero che fosse stata e non come è stata veramente. Tra parentesi il llibro della Sarfatti non lho mai letto. Appartengo a una generazione che la biografia di Mussolini l’ha studiata nei sette o sette tomoni che le ha dedicato Renzo De Felice e adesso nei due tomi di Antonio Scurati, di cui ho già prenotato il terzo che esce a giorni, quello dedicato ai due anni 1938-1940 in cui tutto della politica di Mussolini va a picco. Solo che anche lì non sono pagliacciate e bensì il punto di approdo di una tragedia.

Ps. Dimenticavo. Nel 1938, all’avvento delle leggi razziali, il libro dell’ebrea Sarfatti (che nel frattempo se n’era andata negli Usa) venne ritirato dalla circolazione. 

Quei quadrumviri «ribelli» condotti dal Duce all'oblio. I protagonisti, cent'anni fa, nella presa del potere furono presto messi da parte. Ecco come e perché. Matteo Sacchi l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'immagine canonica che congela quel finale di ottobre 1922 è il dipinto di Giacomo Balla intitolato proprio Marcia su Roma. Il quadro, più che raffigurare la prova di forza verso la capitale, blocca sulla tela, come un fermo immagine televisivo, la sfilata che si tenne il 30 ottobre 1922, in seguito alla nomina di Benito Mussolini a capo del governo. Iperrealista nella tecnica, tracciato a un decennio dagli eventi, nella precisione del dettaglio raffigura i pesi e le forze politiche del 1922, che a quel tempo erano ormai completamente stravolti. Mussolini domina la scena con aria spiritata e messianica, la sua aura istrionica è ben più forte che nelle foto scattate nel '22, dove si coglie più che altro la sua tensione. Eppure ancora non oscura i quattro uomini che gli stanno ai lati: Michele Bianchi, Emilio De Bono, Cesare Maria De Vecchi e Italo Balbo.

Ma quando Balla realizzò la tela questi quattro protagonisti erano stati tutti messi su binari morti del complesso sistema di regime. Un'emarginazione impossibile da prevedere, al momento della conquista del potere. Perché sia accaduto non è difficile spiegare. Fu una delle tante manovre perfettamente riuscite di Mussolini nella perpetrazione del suo potere personale. Impegnato a costruire il proprio mito, capì che era indispensabile che fosse lui ad apparire l'unico stratega della conquista della capitale, il vero organizzatore della Marcia. Da allora i quattro gerarchi, con la limitata eccezione di Balbo (ben studiato da Giordano Bruno Guerri) sono finiti sullo sfondo della vicenda, anche a causa di una storiografia molto centrata sul Duce, più che sul fascismo in generale.

Ora Mauro Canali e Clemente Volpini mettono sotto la lente di ingrandimento, complice il centenario, i quadrumviri in Gli uomini della Marcia su Roma (Mondadori, pagg. 230, euro 22). Ne esce un racconto che mette in luce le plurime anime del fascismo delle origini, il fatto che, per molti versi, Mussolini fosse un princeps inter pares. Insomma il volume, pensato in modo divulgativo, è un bello strumento per avvicinare la complessità magmatica che generò il Ventennio.

Michele Bianchi, nel quadro di Balla avanza tenendo sotto braccio un fascio sfuso di fogli, quasi stesse portando in parata il lavoro d'ufficio. È il quadrumviro che condivide con Mussolini il percorso nel socialismo e nel sindacalismo più duro e puro. È per molti versi il rivoluzionario di professione del gruppo. Propaganda, stampa, questioni sindacali, la trasformazione del movimento in partito. Se Mussolini è il volto mutevole e istrionico del fascismo, Bianchi sarà quello che si occuperà di indirizzare il partito. E nel momento dell'oscillazione tra destra e sinistra del fascismo delle origini sarà il primo ad avere le idee chiare: «Bisogna avere il coraggio di dire che se le conquiste economiche del proletariato non saranno affondate nel granito di una prosperità industriale e commerciale, esse non potranno che essere effimere». Non voleva che il fascismo diventasse «un'assemblea di demagoghi». Ce n'era abbastanza perché Mussolini, molto più tattico e propenso a una propaganda piglia tutto, lo considerasse spigoloso e poco furbo, confinandolo ai margini con incarichi ministeriali. Morì nel 1929.

Di tutt'altra pasta Cesare Maria De Vecchi, coriaceo ex ufficiale e profondamente monarchico. Senza di lui sarebbe stato impossibile il successo del fascismo in Piemonte. Ma anche in questo caso il rapporto con Mussolini fu decisamente burrascoso. Il capitano De Vecchi è volitivo e colto, chiaramente reazionario. Mussolini per tener conto dei suoi malumori è costretto a manovre repentine, anche perché De Vecchi a Torino riceve 43mila e 624 preferenze, alle elezioni del maggio 1921. Quando, qualche giorno dopo, Mussolini in un'intervista afferma che il fascismo è tendenzialmente repubblicano e che snobberà la seduta reale, De Vecchi va giù durissimo: «Se Mussolini è pazzo da legare... sta a voi decidere di farlo rinchiudere in manicomio». Si arriva a un accordo dopo due giorni di discussioni al consiglio nazionale di Milano. Ma quando De Vecchi torna a Torino qualcuno prova a piantargli addosso due colpi di rivoltella... Dopo la Marcia venne blandito con incarichi e governatorati.

E se De Vecchi fu la garanzia dei monarchici il generale De Bono è stato il quadrumviro di garanzia dei militari. Spesso descritto come un vecchio onusto di medaglie ma non particolarmente brillante, il tirchissimo e ipocondriaco pluridecorato era in realtà una mente fine e tatticamente lucida. Appoggiò il fascismo e gli affari sui residuati bellici, cercò una grande occasione e la trovò. Venne poi fagocitato dal regime inciampando anche, come capo della polizia, negli strascichi del delitto Matteotti. Ne uscì ridimensionato e impegnato sul fronte coloniale. Il 25 luglio 1943 si convinse di avere un'altra occasione per ottenere il centro del palcoscenico, come nel 1922. Ne ottenne un plotone di esecuzione a Verona. Pare che dopo essere stato condannato a morte dai giudici fascisti abbia commentato: «Mi fregate di poco, ho settantotto anni».

E poi Balbo, di cui Canali e Volpini evidenziano soprattutto le caratteristiche di organizzatore militare. Vicino agli agrari, disposto a sporcarsi le mani arrivando tranquillamente sino all'omicidio, il futuro trasvolatore, tra il 1921 e il 1922 controlla molto più il braccio armato del fascismo di quanto faccia Mussolini. È probabilmente il più carismatico dei quattro. Sarà in effetti il più temuto dal Duce. Fatto noto sino ad alimentare leggende sulla volontarietà del fuoco amico che ha abbattuto il suo aeroplano a Tobruch, il 28 giugno 1940. Eppure il conflitto tra i due poteva avere un solo vincitore. Per usare le parole di Bottai, Balbo amava Mussolini «d'un amore furioso e stizzito». E nella stizza lo accusava di piccineria e di meschina furberia, una furberia di seconda mano. Eppure, chiosa ancora Bottai, «ci cascava lui, proprio lui, più d'ogni altro: che gli bastava un gesto, una parola, una moina del Capo, per andare in visibilio o per marciare alla più rischiosa impresa».

Balbo e gli altri marciarono, e poi furono messi ai margini. Quando Mussolini andò al Quirinale con in tasca la lista dei ministri non vi era traccia dei quadrumviri. Ma i risultati tragici del loro marciare durano per un ventennio.

Da Weimar alla crisi italiana. I rischi di un sistema semipresidenziale e il cedimento del centro che sdoganò il fascismo. Michele Prospero su Il Riformista il 4 Agosto 2022.

Nelle sue considerazioni sul ruolo stabilizzatore che nelle democrazie moderne ricopre il centro (inteso, più che come un partito distinto dagli altri, come un largo atteggiamento pro-sistema costituzionale delle principali culture politiche), Angelo Panebianco inserisce anche un riferimento storiografico che non pare del tutto persuasivo e ha incidenza anche nel dibattito sulle dinamiche politiche di oggi. Sul Corriere scrive che “quando il centro si svuota, perché il grosso degli elettori fugge verso le estreme, la democrazia è a rischio. Dall’Italia prima del fascismo a Weimar, al Cile di Allende, è lungo l’elenco di casi in cui lo svuotamento del centro ha decretato la morte della democrazia”. Per la Germania questa asserzione ha degli elementi di validità: l’ascesa elettorale dei nazisti fu in effetti sensazionale, anche se la quota di voti ottenuta non sarebbe bastata alla costruzione del “doppio Stato” se non si fosse aggiunto anche un cedimento di settori residuali del centro.

Rispetto al crepuscolo di Weimar, va precisato che “l’ascesa di Hitler al cancellierato non avvenne – come spesso si è ripetuto – sulla base di una coalizione maggioritaria: il governo da lui costituito era un governo minoritario” (F. Gaeta, Democrazia e totalitarismi, Bologna, 1982, p. 352). Il centro che evapora non è una astratta dimensione spaziale, il sostrato del processo è nella crisi sociale che produce 6 milioni di disoccupati, con oltre 23 milioni di tedeschi che vivevano a stento solo grazie a un piccolo sostegno reddituale pubblico.

È evidente che nel novembre del 1932 “con 100 comunisti e 196 nazisti in un parlamento di 584 membri, i partiti radicali avevano l’opportunità di bloccare tutto il lavoro legislativo” (H. Holborn, A History of Modern Germany, London, 1969). Ma, per spingere sino al crollo della repubblica, oltre alla paralisi determinata dalle maggioranze negative, anche le possibili “maggioranze leali” fecero di tutto per dissolvere il sistema politico. La coalizione costituzionale, che agli esordi della repubblica aveva il 76% dei voti, si era sgretolata, la Spd dal 38% del 1920 era precipitata al 21% e l’ingovernabilità aveva eroso la repubblica.

Diversa è la genesi della caduta del regime liberale in Italia. Nell’ascesa del fascismo non si rintraccia alcuna fuga elettorale verso le estreme con conseguente svuotamento del centro. I pieni poteri all’uomo nuovo vennero concessi non per effetto del voto (che regalò ai fasci appena 37 seggi), ma per la slealtà dei signori dello Statuto.

Si trattò per questo, come è stato scritto nei Quaderni, di un episodio di sovversivismo dall’alto. Le classi dirigenti liberali e monarchiche si convinsero a sdoganare il partito armato fondato dal “popolano impetuoso” (definizione di Giolitti) per costituzionalizzarlo, senza alcun esito se non la distruzione dell’ordinamento costituzionale (già all’epoca questo fenomeno fu spiegato molto bene da Ernesto Rossi – “i padroni del vapore” – e da Salvemini – “la congiura militare”).

Giolitti se la prese con “la maledetta legge elettorale”, ma la proporzionale non lo obbligava di certo ad ospitare nel suo Blocco nazionale un partito totalitario e violento (sotto il piombo fascista, e nella sostanziale impunità, caddero 3000 socialcomunisti nel solo 1921-22). Con la benedizione della slealtà del centro politico-istituzionale, della cultura (Pareto suggerì al duce: “ora o mai più”), un partito armato, che ricorreva al terrore, entrò a far parte della coalizione elettorale di Giolitti. Malgrado la violenza, il terrore (persino nel giorno delle votazioni si contarono 40 morti e 70 feriti gravi), i social-comunisti e i popolari (in corsa solitaria in segno di disobbedienza al Vaticano e trattati con il pugno di ferro sebbene esprimessero diversi ministri nell’ultimo governo giolittiano) persero pochissimi seggi.

Giolitti sosteneva che le polveri da sparo contro i rossi erano “soltanto fuochi d’artificio” e “i fascisti sono i nostri Black and Tans”. Erano milizie nere che però uccidevano in modo incontrollato e al potere (politico, economico e mediatico) piacevano perché, come disse Mussolini dopo l’ascesa al governo con la concessione dei pieni poteri, il primo obiettivo era quello di “abolire lo Stato collettivista” del dopoguerra.

Non il dimagrimento del centro dinanzi alla espansione dell’estrema destra ma la cecità del centro sleale distrusse il regime liberale. “Accettando i fascisti come alleati, Giolitti commise il più grave errore di tutta la sua lunga carriera. Nel 1921 lo stato liberale era ancora abbastanza forte per resistere; ma Giolitti era vecchio e attaccato alle sue illusioni. Ben presto sarebbe stato troppo tardi per poter far altro che arrendersi” (C. Seton-Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, Vol. II, Laterza).

Ci sono insidie anche oggi per la tenuta dell’ordinamento? La combinazione di cedimento del centro pro-sistema e mobilitazione dal basso (sovranismo e populismo) lancia una forte incognita. Secondo Panebianco dopo la crisi di sistema del 2018 una fugace ricomposizione del centro si ebbe con la larga coalizione a sostegno del governo Draghi. L’effetto stabilizzatore e centripeto del momento Draghi, che portava al reciproco riconoscimento degli attori, è stato però interrotto quando Lega e Forza Italia hanno staccato la spina, accodandosi, in un accordo subalterno, al solo partito che ha rifiutato la confluenza centripeta per una gestione condivisa della fase emergenziale.

Più che di pericolo fascista in un senso tradizionale (anche se l’editoriale del primo agosto del “Corriere della sera” inneggiava incredibilmente, con la penna di Galli della Loggia, all’ideologia nera degli anni Trenta: “Dio, patria e famiglia sono valori dalla nobile storia”), esiste il problema sollevato con forza da Rino Formica: l’assalto alla Costituzione repubblicana con robuste torsioni di sapore antiparlamentare e plebiscitario.

Quando Meloni lancia la campagna elettorale con l’idea-forza del presidenzialismo non lo fa certo per partecipare ad un concorso sui modelli costituzionali comparati. Recupera questo tema (di per sé il presidenzialismo, naturalmente, non è incompatibile con la procedura e i valori della democrazia) per rompere le compatibilità istituzionali della vecchia Repubblica, disegnata nella seconda parte della Carta nelle forme del sistema rappresentativo-parlamentare.

Un fattore di crisi, già a Weimar, si rivelò proprio il semipresidenzialismo, che oggi attira gli pseudo-partiti italiani per i suoi presunti effetti terapeutici. Lungi dall’essere un custode della Costituzione, il capo dello Stato weimariano unto dalle schede operò come un attore profondamente sleale. In condizioni come quelle attuali, descritte anche da Panebianco come attraversate da forti radicalizzazioni partigiane che svuotano il centro pro-sistema costituzionale, ricorrere all’elezione diretta del capo monocratico è come affidare al conte Dracula la risoluzione dei problemi acuti di anemia.

Non basta certo l’asse atlantico che unisce Pd e FdI a sostituire un arco costituzionale evaporato (il “centro” della Repubblica) e ad operare come una solida coalizione dominante in grado di sorreggere gli istituti di un moderno Stato costituzionale di diritto. Le preoccupazioni di Juan Linz sull’impatto negativo degli innesti presidenziali entro regimi vulnerabili (persino la costituzione democratica più antica del mondo è stata ferita dall’assedio al parlamento sotto lo sguardo compiaciuto di un presidente dai capelli arancioni) sono confermate dalle prolungate difficoltà sistemiche della Quinta Repubblica.

Sebbene lo stampino semipresidenziale piaccia a molte forze anche oltre il perimetro della destra radicale (lo invoca da tempo, ad esempio, Veltroni), esso, congiunto all’autonomia differenziata promessa alla Lega, è incompatibile con le riforme incrementali che si possono adottare restando nel solco dell’articolo 138. Il sistema dei poteri della Repubblica è certo suscettibile di revisione, ma il presidenzialismo non si configura, nelle ambizioni revansciste della destra, come una riforma parziale. Esso appare, piuttosto, come l’atto fondativo di una nuova Repubblica.

Solo un’assemblea costituente potrebbe varare una così grande riforma (presidenzialismo e autonomia), e però il potere costituente, lo dichiarava già Kant, è un diritto alla rivoluzione che giace al di fuori dei poteri della costituzione. È un fatto, una rottura (“uno sfascio”, dice Panebianco), non una riforma. Una formale Seconda Repubblica è il sogno antico di una destra radicale che, non a caso, conserva la fiamma tricolore come simbolo di una legittimazione storico-identitaria che affonda le proprie radici in una esperienza valoriale diversa da quella della Costituzione democratica. Il “centro” come area della lealtà costituzionale non può che guardare con allarme a una normale consultazione elettorale tramutata in processo costituente. Michele Prospero

Estratto dell'articolo di Massimo Novelli per “il Fatto quotidiano” il 28 luglio 2022.

Un peccato di gioventù, ossia una "stentorea dichiarazione di fede fascista" a 25 anni, è alla base del giudizio drastico che Norberto Bobbio espresse negli anni 70 sulla "inesistenza di una cultura fascista"? 

Tutto ebbe origine da una lettera inviata a Mussolini nel 1935, venuta alla luce solo nel 1992 su Panorama. Ora lo storico Giovanni De Luna, nell'introduzione al saggio di Bobbio Trent' anni di storia della cultura a Torino (1920- 1950), riedito da Aragno, rilegge e cerca d'interpretare ciò che il filosofo sostenne nel '77 nel libro, ma che aveva accennato nel '72.

(...)

Sostenere, 40 anni dopo, l'inesistenza di una cultura fascista, dice De Luna, può anche sembrare un "mantello assolutorio" sulle "compromissioni di moltissimi intellettuali" col regime, che dopo l'8 settembre '43 cambiarono bandiera. 

Ma non è questo il caso del filosofo: forse fu "l'ansia di rimuovere quel gesto che non si era mai perdonato ad aver influito sull'enfasi posta nella demolizione della cultura fascista e sul suo dare rilievo a personaggi della galassia antifascista scevri da ogni compromesso", come Gobetti e Ginzburg.

Barnes, il giornalista che trovava il fascismo affascinante e "british". Frequentò a lungo Mussolini e cercò di dimostrare che fascismo e cattolicesimo erano conciliabili. Inglese ma con l'accento toscano fu l'uomo che cercò di rendere il Duce "da esportazione". Francesco Perfetti su Il Giornale il 28 Luglio 2022.

Mussolini lo incontrò per la prima volta nel 1924 dopo il delitto Matteotti all'epoca della secessione aventiniana in occasione di un banchetto offerto ai giornalisti stranieri. Stringendo loro la mano, uno ad uno, prima di sedersi per il pranzo, fu sorpreso dalla voce di un giovane che lo apostrofò dicendogli: «Buongiorno Eccellenza» in un italiano privo di inflessioni straniere e caratterizzato invece da uno spiccato accento toscano. Incuriosito, gli chiese se fosse italiano e per quali testate lavorasse. Il giovane, comprensibilmente inorgoglito per l'attenzione del Capo del governo, rispose di essere un inglese, di rappresentare il Financial Times e di essere stato educato in Italia, a Firenze.

Quel giornalista poco più che trentenne, dall'aspetto spavaldo ed esuberante, che in seguito il grande diplomatico britannico Harold Nicolson avrebbe definito un personaggio stendhaliano, si chiamava James Strachey Barnes (1890-1955) e sarebbe diventato poi, fascista convinto, uno dei teorici dell'«universalità» del fascismo e uno dei protagonisti delle iniziative per la promozione delle idee fasciste all'estero.

Quello del 1924 fu il primo di una serie di colloqui che Barnes ebbe con il Duce e che costituiscono la prima parte del volume Io amo l'Italia. Memorie di un giornalista inglese e fascista (Oaks editrice, pagg. X-354, euro 28) apparso originariamente in Italia nel 1939 e riproposto da Luca Gallesi il quale vi ha premesso una bella introduzione che richiama l'attenzione su un personaggio emblematico di una certa intellettualità inglese, in gran parte convertita al cattolicesimo, sensibile a quello che uno storico britannico contemporaneo, Alastair Hamilton, ha definito The Appeal of Fascism. Che Mussolini nutrisse simpatia per Barnes lo dimostrano non soltanto questi colloqui svoltisi fra il 1924 e il 1936, ma anche la ricca (e in gran parte inesplorata) documentazione conservata nell'Archivio Centrale dello Stato e, soprattutto, il fatto che egli volle scrivere una premessa tutt'altro che di occasione al volume su Gli aspetti universali del fascismo del 1928. Il Duce, abbandonando l'idea che il fascismo non fosse «merce d'esportazione», faceva notare in quella prefazione come Barnes fosse riuscito a identificarne e illustrarne «gli aspetti universali» e precisava: «Questi aspetti esistono. Il fascismo è fenomeno prettamente italiano nella sua estrinsecazione storica, ma i suoi postulati dottrinari sono di carattere universale. Il fascismo pone e risolve dei problemi che sono comuni a molti popoli, e precisamente a tutti i popoli che hanno vissuto e sono stanchi dei regimi demoliberali e delle menzogne convenzionali annesse». Per la verità lo scrittore inglese aveva chiesto a Mussolini di leggere le bozze del libro che si proponeva di sostenere l'esistenza di «aspetti universali» del fascismo e di mostrare come questo non fosse incompatibile con il cattolicesimo. Evidentemente Mussolini, alla vigilia dei Patti Lateranensi, dovette ritenere utili e funzionali ai suoi disegni politici le posizioni di Barnes tanto che si offrì come prefatore del volume.

Barnes si era convertito al cattolicesimo nel 1914 entrando a far parte di una schiera di intellettuali cattolici che avrebbe annoverato scrittori illustri come Hilaire Belloc e Gilbert Keith Chesterton, il poeta Thomas Stearns Eliot ed Evelin Waugh, lo storico Christopher Dawson e via dicendo. Rampollo di una nobile famiglia inglese, era nato in India dove il padre era amministratore coloniale, ma, rimasto orfano di madre a due anni, era stato affidato ai nonni materni che vivevano in Toscana e si era subito inamorato dell'Italia. Rientrato in Inghilterra per compiere, come tanti giovani aristocratici o di buona famiglia, gli studi classici in una ottica liberale e in vista della carriera diplomatica, si era laureato a Cambridge, aveva preso parte alla Grande guerra come ufficiale di aviazione e, all'indomani del conflitto, aveva cominciato a lavorare nel Foreign Office. Conobbe e frequentò grandi personaggi dell'epoca, da Bertrand Russell a John Maynard Keynes, da Henry James a Gabriele D'Annunzio. Fu delegato britannico alla Conferenza della pace di Parigi dove entrò in contatto con Woodrow Wilson, Lloyd George, A. J. Balfour e T. E. Lawrence. Tuttavia l'amore e la nostalgia per il Bel Paese lo spinsero nel 1919 a tornare in Italia dove, praticamente, si stabilì lavorando come corrispondente ed inviato per giornali, riviste e agenzie di stampa inglesi.

Il suo cattolicesimo era profondamente ortodosso: come osserva Gallesi, egli vedeva nella Chiesa cattolica un baluardo contro «gli errori della modernità» e si ricollegava a un «ricco filone inglese di critica all'industrialismo» secondo una direttrice che, partendo da William Blake, giungeva fino a William Morris passando per Thomas Carlyle, John Ruskin e i Preraffaelliti.

Del fascismo fu sostenitore dagli inizi. Oltre al ricordato volume su Gli aspetti universali del fascismo, scrisse un saggio dal titolo Fascism (1931) rivolto soprattutto al pubblico inglese. Non è un caso che fra i suoi estimatori vi fosse Thomas Stearns Eliot, il grande poeta simpatizzante di Maurras e delle tesi dell'Action Française, il quale ne recensì benevolmente i lavori sulla rivista The Criterion. La visione che Barnes aveva del fascismo era quella di un movimento politico che esprimeva una «rivolta contro il pensiero materialista e individualista degli ultimi secoli» e auspicava un sistema politico fondato sulla difesa di valori e istituti tradizionali, sullo spirito di solidarietà sociale, sulla meritocrazia. La stima e l'amicizia di Mussolini gli valsero la nomina, su suggerimento del diplomatico Luigi Villari, a segretario generale del Centre Internazional d'Études sur le Fascisme (CINEF), un organismo con sede a Ginevra finanziato dall'Istituto Fascista di Cultura con il compito di catalogare qualunque testo venisse scritto in tutto il mondo sul fascismo: una iniziativa in linea con l'abbandono da parte del Duce dell'idea della non esportabilità del fascismo fuori dei confini nazionali.

Quando Mussolini decise di conquistare l'Abissinia, Barnes, ancora cittadino inglese, fu inviato come corrispondente di guerra, ma le sue cronache vennero considerate troppo filofasciste dai connazionali. Vale la pena di rammentare, per inciso, che simpatia per la causa italiana fu, all'epoca, manifestata da un altro illustre corrispondente di guerra, lo scrittore Evelin Waugh. Come racconta in questo libro di memorie che contiene fra l'altro pagine positive sul generale Rodolfo Graziani e troppo minimizzanti sull'uso dei gas da parte italiana Barnes ebbe occasione di rivedere Marinetti conosciuto nel 1918 sul fronte italiano. Lo trovò ancora, malgrado la nomina ad accademico d'Italia, «giovane di spirito e bollente di entusiasmi come sempre». E rimase colpito dalla definizione che il poeta gli dette dell'impresa Africana: «Questa è una guerra futurista in un Paese futurista. Le strade sono costruite davanti e non solo dietro gli eserciti avanzanti; gli abitanti si uniscono agli invasori invece di fuggirli; I fiumi hanno più acqua man mano che ci si avvicina alle fonti; I soldati cantano canzoni d'amore alle donne del nemico. E guardi il paesaggio! Ci può essere nulla di più futurista? Dio fu un artista futurista quando fece l'Abissinia».

Durante la Seconda guerra mondiale, Barnes collaborò con la radio italiana per contrastare la propaganda di Radio Londra, aderì alla Repubblica Sociale ed ebbe ancora incontri con Mussolini: l'ultimo il 10 aprile 1945. Gli inglesi lo bollarono come traditore, lo inserirono nella lista di collaborazionisti e spie e gli dettero la caccia. Solo con l'inizio della Guerra Fredda persero interesse alla sua figura ed egli, ottenuta finalmente la tanto agognata cittadinanza italiana, potè finalmente riapparire in pubblico e stabilirsi definitivamente a Roma. Francesco Perfetti

LA FESTA A CASA DEI FRATELLI CERVI. L’eutanasia del fascismo nell’attesa della liberazione. DANIELE SUSINI, storico,  su Il Domani il 25 luglio 2022

Ormai da alcuni anni la data del 25 luglio 1943 - data in cui è stato deposto Mussolini ed è di fatto terminato il ventennio fascista – è diventata una ricorrenza diffusa in tutt’Italia grazie alle celebrazioni che si tengono nella casa dei fratelli Cervi.

Il 25 luglio è una data importante, perché in una cronologia che sembra scontata ma senza questa data non ci sarebbe stato l’8 settembre, l’Armistizio con gli Alleati, e quindi anche il 25 aprile; almeno nelle forme con cui ci sono effettivamente state

Una ricostruzione degli avvenimenti che portarono gli stessi fascisti e monarchici ad allontanare Mussolini.

Ormai da alcuni anni la data del 25 luglio 1943 - data in cui è stato deposto Mussolini ed è di fatto terminato il ventennio fascista – è diventata una ricorrenza diffusa in tutt’Italia grazie alle celebrazioni che si tengono nella casa dei fratelli Cervi.

La famiglia dei sette martiri, appena appresa la notizia, ha voluto a modo loro festeggiare la fine della dittatura mussoliniana, organizzando per tutta la comunità di Campegine un momento conviviale per celebrare l’evento con una pastasciuttata.

L’IMPORTANZA DEL 25 LUGLIO

Il 25 luglio è una data importante, perché in una cronologia che sembra scontata ma senza questa data non ci sarebbe stato l’8 settembre, l’Armistizio con gli Alleati, e quindi anche il 25 aprile; almeno nelle forme con cui ci sono effettivamente state.

Ricordarsi del 25 luglio serve a non dimenticare che i primi che allontanarono e arrestarono Mussolini, - attestandone il fallimento - non furono gli antifascisti, ma gli stessi fascisti e i monarchici, infatti quel giorno convergerono, anche se in maniera separata e differente, le istanze di entrambi questi gruppi.

L’agonia del regime venne certificata dalle sconfitte militari contro gli Alleati che risalivano già all’ottobre del 1942 con la cocente sconfitta di El Alamein in nord Africa, e proseguita fino alla presa di Pantelleria 11 giungo 1943, e resa tangibile agli italiani tra il 9 e il 10 luglio quando gli Alleati sbarcarono sulle coste sud orientali della Sicilia.

L’Italia e Mussolini stavano perdendo la guerra, tutte le parti in causa, real casa, gerarchie fasciste e militari, nonché l’opinione pubblica non sosteneva più la guerra e sopratutto stava venendo meno la fiducia nel duce.

Quelle 24 ore che andarono dalle 17:00 del 24 alle 17:30 del 25 luglio, furono scandite da due eventi: il principale, anche nella durata temporale di 10 ore avvenuto a cavallo tra il 24 e il 25, la seduta del Gran Consiglio del fascismo il cui voto favorevole all’ordine del giorno Grandi, da nome di Dino Grandi all’epoca Presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni,  che di fatto sfiduciò il leader del movimento fascista.

Il secondo, avvenuto nel pomeriggio del 25, l’incontro tra il Re, Vittorio Emanuele III e Mussolini che terminò con la destituzione da capo del Governo e l’arresto di quest’ultimo.

Purtroppo della riunione del Gran Consiglio, come dell’incontro con il Re, non rimane nessun resoconto ufficiale, il duce stesso non ha voluto stenografi che prendessero nota della riunione, tutto quello che sappiamo è dato dalle testimonianze dei presenti, che tra loro hanno anche notevoli discordanze, frutto soprattutto delle posizioni che i singoli dovevano affermare o difendere.

Quello che molti storici ritengono probabile è che i fascisti non erano a conoscenza dei piani dei monarchici e dei militari e viceversa i monarchici non avevano consapevolezza delle perplessità dei fascisti nei confronti dell’operato del duce.

Queste due istanze si unirono nel momento in cui il Re prese coscienza di quello che era avvento durante la seduta del Gran Consiglio che, è bene ricordarlo, non era un organo decisionale, ma solo consultivo in materia politica.

Il Re, che era già propenso a liberarsi di Mussolini, non esitò e prese la palla al balzo, sostituendo il Capo del Governo con il fedele Pietro Badoglio.

Non è quindi possibile sapere con certezza come andarono quelle 10 ore di seduta, quello che è sicuro è l’esito, anche se rimane un punto centrale da capire: se i votanti avessero chiaro o comunque intuissero, che quel voto significava la fine del fascismo e di Mussolini. Il grande storico del fascismo Emilio Gentile, conclude se sue riflessioni sul 25 luglio, scrivendo di “eutanasia del duce”.

Infatti lo stesso riportando le numerose dichiarazioni fatte dai testimoni, sostiene che lo stesso Mussolini, aveva le carte in regola per poter sovvertire l’esito per nulla scontato di quell’incontro.

Aveva sia motivazioni politiche: il fatto che era disposto a cedere la responsabilità militare al Re, che voleva cambiare alcune persone ai posti di comando e non ultimo poteva vantare di essere l’unica persona in grado ottenere qualcosa da Hitler.

Ma oltre a queste “carte” politiche aveva anche una possibile strategia per uscire dalle secche dell’Odg Grandi, ovvero appoggiare l’altro Odg, quello proposto dal Segretario del partito fascista, Carlo Scorza, e unendoli cercare di tenere insieme le varie volontà su una posizione di compromesso.

Fu Mussolini stesso a mettere ai voti l’Odg Grandi, questo fu visto come una sorta di accettazione delle posizioni più critiche verso di lui, anche perché il duce conosceva fin dal 22 luglio il contenuto di quel documento e quindi la messa ai voti interpretata come un benestare verso la richiesta di riconsegnare al re “l'effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare, dell'aria”.

LE MOSSE DEL RE 

Quello che molti di loro non sospettavano furono i passi successivi del Re. La stragrande maggioranza dei 28 partecipanti al consiglio voleva un passo indietro di Mussolini dal punto di vista militare, perché potesse rimettere al centro del suo operato unicamente l’azione politica.

Ma questo non avvenne: dopo l’arresto di Mussolini e la salita al governo di Badoglio, iniziò il tracollo del fascismo. Il nuovo governo badogliano nella sua prima riunione del 27 luglio 1943 emanò una serie di provvedimenti che evidenziavano un forte cambio di passo.

In breve tempo il primo governo Badoglio decretò lo scioglimento del Partito Nazionale Fascista e di tutte le organizzazioni collegate; la Milizia Volontaria veniva integrata nel Regio Esercito e veniva soppresso il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato.

Fu inoltre vietata la ricostituzione dei partiti politici per tutta la durata della guerra. Tramite la circolare Roatta, dal nome dell’allora Capo di Stato Maggiore dell’esercito italiano, furono vietate tutte le manifestazioni e si faceva assoluto divieto ai cittadini di portare distintivi, di esporre bandiere e di riunirsi in pubblico in più di tre persone.

La circolare recita, in un brutale passaggio: “Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine… si proceda in formazione di combattimento e si faccia fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria senza preavviso di sorta, come se si procedesse contro truppe nemiche.”

La popolazione apprese la notizia in maniera inaspettata, secondo la definizione dello storico e partigiano Paolo Spriano visse una “breve vacanza di libertà” dopo tanti anni di censura.

La fine del fascismo fu accolta nelle città principali e anche nelle province con manifestazioni di gioia e cortei spontanei, fondamentalmente non violente che si accanirono con i simboli del regime e non contro i suoi rappresentanti.

LE MANIFESTAZIONI 

Il sentimento comune e diffuso tra la gente fu quello che il 25 luglio rappresentasse la fine della guerra per una Nazione divisa e stremata. Si cantava inneggiando al ritorno della pace, il tricolore sventolato era solo quello dei Savoia non più quello con il fascio littorio.

Le manifestazioni, in realtà, durarono un tempo molto breve, la repressione del governo badogliano non ci mise molto ad attivarsi in maniera energica: un centinaio furono i morti nella penisola, eppure fu sufficiente a far capire agli alleati che aria tirasse in Italia, e che tipo di risposta ci sarebbe stata in caso della nomina di un governo antifascista.

Mentre da parte fascista le reazioni sono minime, pressoché inesistenti, non vi furono reazioni violente o armate a quello che è successo, sia perché anche loro colte di sorpresa, sia perché anche buona parte dei militi volevano la fine delle guerra.

In conclusione, ritornando all’immagine iniziale della pastasciuttata di Casa Cervi, quello che mi preme sottolineare è la differenza tra quello che è avvenuto dopo il luglio 1943 e quello che è avvenuto dopo il 25 aprile 1945 e quanto fu forte la cesura provocata dalla Repubblica di Salò.

Se il 25 luglio è stata semplicemente festeggiato, il 25 aprile provocò una serie di vendette e ripercussioni determinate dalla violenza dei repubblichini e dalla loro volontà di continuare, antistoricamente, a guidare il Paese e a combattere a fianco ad Hitler.

DANIELE SUSINI, storico. Direttore del Museo Linea Gotica Orientale di Montescudo Monte Colombo. È autore di La resistenza ebraica in Europa - Storie e percorsi, Donzelli Editore.

FINE DEL FASCISMO. Quei giorni della fine del fascismo oscurati da troppe cortine di fumo. MIRCO CARRATTIERI, storico, su Il Domani il 23 luglio 2022

La vera liberazione è arrivata dopo il 25 aprile 1945, ma il 25 luglio merita di entrare tra le date simbolo della memoria collettiva dell’Italia.

È la giornata in cui è stato arrestato Mussolini per ordine del re Vittorio Emanuele III ed è stato sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio.

Nel corso degli anni, di fronte a questo cumulo di memorie, la storiografia ha fatto fatica a districarsi e a indagare adeguatamente la questione. 

MIRCO CARRATTIERI, storico. Nato a Reggio Emilia nel 1974, dottore di ricerca in storia contemporanea presso l'Università di Bologna, collabora con l'Università di Modena e Reggio Emilia. È stato borsista della Fondazione Salvatorelli di Marsciano, della Fondazione Gorrieri di Modena, della Fondazione Basso di Roma. È direttore generale dell'istituto nazionale Ferruccio Parri.

Cade Mussolini, governa Badoglio. Fu il primo passo verso l’Armistizio del ‘43. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Luglio 2022.

È il 26 luglio 1943. In seguito alla caduta di Mussolini dopo vent’anni di regime, «La Gazzetta del Mezzogiorno» non interrompe le pubblicazioni, diversamente da molte altre testate nazionali. «Il Sovrano assume il comando delle Forze armate e affida a Badoglio il governo con pieni poteri», si legge in prima pagina sul quotidiano.

L’esito della seduta del Gran Consiglio del Fascismo, iniziata alle 17 di sabato 24 luglio, è stato diffuso la sera prima alle 22.50 attraverso la radio. «Sua Maestà il Re e Imperatore Vittorio Emanuele III ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, presentate da Sua Eccellenza il cavaliere Benito Mussolini e ha nominato Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, Sua Eccellenza il cavaliere Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio».

La radio, per vent’anni al servizio del Duce, ha annunciato al Paese la sua caduta; la «Gazzetta» riporta integralmente il comunicato con i proclami del re e del nuovo Capo del Governo, il maresciallo Badoglio. Pietro Pupino Carbonelli, giornalista tarantino diventato direttore della «Gazzetta» alla morte di Raffaele Gorjux nel giugno 1943, firma il suo ultimo editoriale, dal titolo «Viva l’Italia!», ancora in linea con l’ormai caduto regime.

«Mussolini con la sua irrevocabile decisione, che profondamente commuove il nostro cuore di Italiani, ha voluto dire al Paese che, quando sono in giuoco la vita e i supremi interessi della Nazione, non ci possono essere questioni di uomini o di partiti, di pregiudiziali ideologiche, anche se consacrate da lunghi anni di passione e dal sangue di una schiera innumerevoli di martiri e di eroi».

Il popolo, però, la pensa diversamente: in tutto il Paese la gente scende in piazza per celebrare la caduta del Duce, invade le sedi rionali fasciste, distrugge i simboli del regime. Solo a Roma 13 sedi del Partito Nazionale Fascista vengono devastate tra la notte di domenica e il lunedì mattina. Ma «la guerra continua»: è questo che si apprende dai proclami e che spegne gli entusiasmi di una popolazione stremata da tre anni di conflitto. Inizierà, a breve, la trama diplomatica che porterà in 45 giorni all’armistizio con gli Alleati. Intanto, Mussolini è arrestato, Badoglio scioglie il Partito fascista, il Gran Consiglio e il Tribunale Speciale, e decreta lo stato d’assedio, con coprifuoco dal tramonto all’alba, su tutto il territorio nazionale. Neanche durante il regime sono state prese misure così drastiche: per mantenere l’ordine, l’esercito è schierato nelle città in assetto di guerra.

Mussolini arrestato, governano i militari. Ma gli antifascisti a Bari restano in carcere. Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Luglio 2022.

Un breve profilo biografico del nuovo capo del Governo e la lista dei Ministri occupano la prima pagina de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 27 luglio 1943. Due giorni prima, il Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del regime, ha votato la sfiducia nei confronti di Mussolini: costretto alle dimissioni, il Duce è stato tratto in arresto. Al suo posto, il Re ha nominato il maresciallo Badoglio, il quale dichiara che la guerra deve necessariamente continuare e, per ciò che riguarda il fronte interno, subito precisa: «Sono vietati assembramenti e la forza pubblica ha ordini di disperderli inevitabilmente». Il “Manifesto dello stato d’assedio e di coprifuoco”, noto come Circolare Roatta, costringe tutte le città d’Italia a vivere in un clima di estrema tensione. Sulla «Gazzetta» si riporta anche l’Ordinanza n. 6 del IX Corpo d’Armata di Bari, con cui si stabilisce che la direzione della tutela dell’ordine pubblico è assunta dall’autorità militare. I provvedimenti impongono, in sintesi, il coprifuoco dal tramonto all’alba, il divieto di riunione in pubblico e di manifestazioni. Inoltre, le truppe e gli altri agenti della forza pubblica sono autorizzati a utilizzare le armi per imporre tali ordini. In Puglia ancora non si è assistito alle grandi manifestazioni di piazza, esplose invece nei principali centri del Paese. Trascorsi alcuni giorni dalla caduta del regime, la maggior parte degli antifascisti locali è ancora nel carcere di Bari di viale 28 ottobre (l’attuale corso De Gasperi) e la loro liberazione non è stata ancora confermata. Solo pochi funzionari chiedono la rimozione delle immagini di Mussolini dalle aule del Tribunale e da altri uffici pubblici. Tuttavia, una delegazione guidata dal prof. Fabrizio Canfora e dal giornalista della «Gazzetta» Luigi De Secly – già noti per la loro attività antifascista e per questo sorvegliati dall’Ovra – si reca dal prefetto di Bari, Viola, per chiedere l’autorizzazione a manifestare e la rimozione dalla direzione della«Gazzetta» di Pietro Pupino Carbonelli, fedele al regime: il giorno prima egli ha firmato sul suo giornale ben due articoli in difesa di Mussolini e ha definito la marcia su Roma una “gloria italiana”. Pupino Carbonelli, poche ore dopo, abbandona il giornale e la città.

Dopo l’incontro, Viola trasmette a Roma una nota con cui demanda al Ministero della Cultura Popolare e al Ministero dell’Interno la decisione definitiva per la nomina di Luigi De Secly a direttore della «Gazzetta». Nell’attesa di superiori disposizioni, è il comm. Nicola Pascazio a prendere in mano la situazione: in qualità di vice-direttore del quotidiano, ne assume la guida e indica il salentino De Secly come redattore capo responsabile.

Quell’agosto bollente di cento anni fa. Sciopero, impazza lo squadrismo fascista. Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno l'01 Agosto 2022.

«Sciopero generale e mobilitazione fascista» si legge in prima pagina sul «Corriere delle Puglie» del 1° agosto 1922. Mentre finalmente è risolta la crisi di governo, che ha dominato le pagine del quotidiano nei giorni precedenti, con l’affidamento del Ministero di nuovo all’on. Luigi Facta, liberale vicinissimo a Giolitti, desta enorme preoccupazione la manifestazione che sta per svolgersi in tutto il Paese.

«Il socialismo italiano, gettandosi a capofitto nel cul di sacco dell’assurda crisi ministeriale provocata in combutta con l’estremismo migliolino, va assaporando da qualche settimana i frutti tossici della sua conclamata impotenza a fronteggiare il fascismo irrompente nelle città e nelle campagne d’Italia. E come il masnadiero, per opportunismo e per paura, si fece frate, così il nostro socialismo da romantico e repubblicano che era nel ‘98 , da antinazionale che era durante la guerra e da rivoluzionario e massimalista che era in tempi più recenti, si è fatto legalitario e proclama lo sciopero generale per la difesa dello Stato e dell’ordine costituito. E così si scatenerà la tormenta, che non sappiamo dove trascinerà il nostro povero Paese, terra di esperimenti e di espedienti di mediocrazie opache e rivali». Chiara, dunque, la posizione del quotidiano in merito all’iniziativa intrapresa dall’Alleanza del Lavoro, la neonata unione delle organizzazioni sindacali e dei partiti di sinistra di cui si era fatto promotore il Sindacato ferrovieri italiani, per protestare contro la gravissima ondata di violenza squadrista che sta imperversando nel Paese. Il programma dell’Alleanza prevede il ripristino completo delle libertà politiche e sindacali, la difesa delle 8 ore di lavoro, il mantenimento o la riconquista dei livelli salariali e normativi già acquisiti e minacciati dai fascisti.

Il culmine di questa escalation è stata, nel luglio ‘22, l’occupazione fascista di Ravenna, durante la quale numerose sedi sindacali e cooperative sono state distrutte e nove persone hanno perso la vita.

Lo sciopero si annuncia a tempo indeterminato: «I lavoratori di tutte le categorie, a mezzanotte di lunedì 31 luglio dovranno immediatamente abbandonare il lavoro. L’ordine di ripresa sarà loro comunicato per il tramite dei fiduciari delle organizzazioni responsabili», recita il proclama del Comitato segreto d’azione dell’Alleanza del Lavoro. Bari è una delle poche città in Italia in cui si registra una notevole adesione sin dal primo giorno: quasi ovunque l’operazione fallisce perché i fascisti – sostenuti dalle forze di polizia – intervengono armati. Inizia con degli scontri violentissimi il caldo agosto di cento anni fa.

Monza, 122 anni fa ucciso re Umberto. La notizia sul «Corriere» 48 ore dopo. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Luglio 2022.

«L’assassinio di re Umberto» titola in prima pagina il «Corriere delle Puglie» di centoventidueanni fa. Il fatto epocale è avvenuto due giorni prima, ma la notizia appare sul quotidiano solo il 31 luglio 1900. «È la catastrofe di una tragedia, la quale ha per scena il teatro della vita. L’umanità è colpita al cuore, e la causa della libertà e della difesa sociale offre in olocausto un’altra vittima. E quale vittima! Mai come in questo momento, gli italiani sentono il bisogno d’invocare tutte le virtù di popolo eletto, per superare la crisi di quest’ora suprema. Il piombo omicida che ha colpito il cuore di Umberto non può uccidere né un principio, né il destino di un popolo. L’Italia, stretta sempre intorno a casa Savoia, dal lutto della patria saprà trarre nuova grande ispirazione per ritemprare la fede nei plebisciti e nel patto che stringe di affetti e d’interessi la dinastia ed il paese», si legge sul «Corriere».

Nato nel 1844, salito al trono il 9 gennaio 1878 col nome di Umberto I – e non Umberto IV, come la tradizione dinastica avrebbe richiesto – proprio per sottolineare il nuovo carattere nazionale della dinastia Savoia, il 29 luglio 1900 il Re si è recato a Monza, accogliendo l’invito del Comitato del Concorso provinciale ginnastico. Alle 22.30, finita la premiazione, mentre il sovrano esce dalla palestra in carrozza scoperta, quattro colpi di rivoltella, senza incontrare alcuna resistenza, vengono sparati da un individuo, immediatamente arrestato e sottratto al linciaggio della folla. Tre proiettili colpiscono Umberto I al collo e al petto: trasportato in ospedale, muore dopo pochi minuti.

L’attentatore è presto identificato: si tratta di Gaetano Bresci, un operaio tessile legato agli ambienti anarchici. Emigrato in America dopo aver scontato alcuni anni di confino a Lampedusa, era tornato in Italia: i tumulti del 1898 – durante i quali le truppe comandate dal generale Bava Beccaris uccisero a Milano decine di manifestanti –fecero maturare in lui il disegno del regicidio.

Spettacolari i funerali del Sovrano celebrati l’8 agosto a Monza, su disegno della consorte Margherita. Le formazioni di sinistra saranno messe sotto accusa e nascerà il mito del “re buono”. Gaetano Bresci, condannato all’ergastolo, sarà trovato morto in cella un anno dopo: la versione ufficiale lo dichiarerà suicida tramite impiccagione. Quel 31 luglio sul «Corriere delle Puglie» per il lutto nazionale si riportano le espressioni di cordoglio delle Istituzioni locali e si raccolgono le impressioni della popolazione. «Hanno assassinato Umberto, ma non ucciso il Re. Gloria eterna al martire: evviva il re!».

Crisi di governo avanza il fascismo. Cento anni fa l’«estate bollente» del Paese. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Luglio 2022.

Cento anni fa, come oggi, l’Italia assiste all’ennesima crisi di governo. Alla politica interna è interamente dedicata l’edizione del 30 luglio 1922 del “Corriere delle Puglie”.

La situazione è quasi senza controllo: le violenze squadriste sono all’ordine del giorno in tutta Italia. Nel febbraio si è costituita l’Alleanza del Lavoro, un’unione delle organizzazioni sindacali legate ai partiti di sinistra, nata per costituire un fronte compatto contro il fascismo.

Ma il Governo retto da Luigi Facta, liberale vicinissimo a Giolitti, non riesce a imporsi contro gli scontri continui che infiammano il Paese, rivelandosi del tutto incapace a contrastare la violenza fascista, non solo sul piano militare ma persino su quello istituzionale.

In Puglia ha destato scalpore l’occupazione avvenuta il 3 luglio 1922 del municipio di Andria per mano dei «mazzieri» fascisti, ma il culmine si è raggiunto con la presa di Bologna, Ferrara e Cremona.

Per Facta le responsabilità sono da imputare a quei funzionari e magistrati che non hanno seguito le sue istruzioni.

Così, il Parlamento lo costringe, dopo soli cinque mesi di governo, alle dimissioni: compatti hanno votato la sfiducia popolari, socialisti, social-riformisti, comunisti, repubblicani e fascisti.

Sul “Corriere delle Puglie” si avverte quanto questa crisi abbia colto impreparate le forze politiche, incapaci di dare concretezza a qualsiasi ipotesi di governo: «La crisi ministeriale, che nelle generose intenzioni dei suoi assertori e promotori, doveva avere un rapido e benefico svolgimento, accenna, invece, per il fantasmagorico succedersi di ordini del giorno dei gruppi parlamentari, a complicarsi sempre di più. E nell’imminenza del solleone, non deve sorridere ad alcuno la probabilità di una crisi lunga e tormentata, come quella dello scorso febbraio».

L’incarico è stato affidato prima ad Orlando, poi a Bonomi, poi di nuovo a Orlando.

Il leader socialista Turati, si legge sul quotidiano pugliese, si è recato a colloquio dal Re Vittorio Emanuele III e ha indicato i nomi di Orlando e di Nitti. C’è chi teme che una chiara caratterizzazione antifascista del governo possa spingere ancor più il fascismo alla violenza; altri si illudono che possa rientrare nei ranghi della legalità.

Alla fine, proprio il 30 luglio, Vittorio Emanuele III conferisce il mandato per costituire il governo di nuovo a Facta, che accetta per senso di responsabilità: il timore di un colpo di Stato fascista si fa sempre più concreto.

Bari, il giorno dopo la strage fascista. Sulla «Gazzetta» il necrologio di una vittima. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Luglio 2022.

Su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 29 luglio 1943 appare il necrologio di Angelo Lovecchio: la sua morte, a 48 anni, è annunciata dalla moglie e dai tre figli. Si tratta di una delle vittime della strage consumatasi in una strada centralissima della città di Bari il 28 luglio: per il momento i caduti sono dodici, ma nei giorni seguenti il bilancio si farà ancora più tragico. A perdere la vita per le conseguenze della sparatoria avvenuta in via Niccolò dell’Arca, all’altezza della sede del Partito Fascista, saranno in totale venti persone, «colpevoli» di essere scese in strada per festeggiare la caduta del fascismo.

Manca, però, nel necrologio e sulle pagine dell’intera edizione della “Gazzetta”, qualsiasi accenno esplicito al violento episodio. Luigi De Secly, il redattore capo responsabile del quotidiano, mentre lavorava alla nuova edizione del giornale, è stato arrestato. Insieme a Fabrizio Canfora, Domenico Loizzi, Carlo Colella, Franco Sorrentino, Ugo Santalucia, De Secly è individuato come possibile responsabile della manifestazione culminata nella strage.

Sono ore complesse: disposizioni nazionali e locali hanno impedito qualsiasi tipo di assembramento. L’annuncio dell’imminente scarcerazione dei detenuti politici e le parole entusiasmanti di De Secly pubblicati sulla “Gazzetta” del giorno prima hanno infiammato gli animi: la reazione è stata spontanea. Alcuni giovani sono scesi per strada: tra di loro anche «una numerosa schiera di monelli, dell’età dai dieci ai quindici anni», si legge in un resoconto delle forze dell’ordine, e i grandi antifascisti della città, o almeno quei pochi non arrestati dal regime. Hanno percorso le strade principali della città, inermi, sventolando bandiere e inneggiando alla libertà. La meta era proprio il carcere di viale 28 Ottobre. Il corteo – di circa duecento persone – si è imbattuto in un cordone di militari schierato davanti al palazzo del Pnf: alcuni tentano di interloquire con i soldati, chiedono la rimozione delle insegne fasciste, ma seguono provocazioni, urla, minacce. La tensione è alle stelle. All’improvviso, gli spari dal basso e dall’alto, dalle finestre della sede fascista. I manifestanti, senza scampo, vengono colpiti: Graziano Fiore è uno dei primi a cadere. Suo padre Tommaso, il celebre antifascista, è liberato dal carcere solo nel primo pomeriggio: corre al Pronto Soccorso dell’Università e scopre il corpo martoriato di suo figlio. L’esercito e i Vigili del Fuoco hanno ricevuto l’ordine di lavar via in fretta il sangue che macchia il selciato di via Niccolò dell’Arca. Nelle ore successive alla strage e nei giorni seguenti si tenta di tenere il più possibile nascosto l’eccidio: una violenza inaudita, che rivela tutto il carattere repressivo e autoritario della nuova fase monarchico-badogliana, in totale continuità con il regime appena caduto.

Libertà, scarcerati i primi antifascisti. Così la «Gazzetta» salutò la nuova era. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Luglio 2022

«Sì, viva la libertà; la libertà che ci ha dato la vita, la libertà che ci ha fatti crescere e diventare Popolo, Nazione, Stato; [...] la libertà che è il perno del nostro pensiero, della nostra opera, di ogni civile progresso. Questa libertà è stata per venti anni conculcata, manomessa, annientata. [...] Oggi noi riprendiamo le fila interrotte dalla procella, riprendiamo il cammino. La Gazzetta del Mezzogiorno da oggi inizia la sua nuova vita. Essa allontana da sé chi ancora tenta di pescare nel torbido, chi ancora ieri, noncurante delle sorti della patria, biascicava stolide sentenze e ancora più stolide condanne. E questa nuova vita, che è quella della libertà, noi percorreremo sino in fondo, nella certezza di trovare il bene smarrito».

Così il 28 luglio 1943 Luigi De Secly, appena nominato redattore capo responsabile, segna il cambio di passo de «La Gazzetta del Mezzogiorno» con un memorabile editoriale dal titolo eloquente «Viva la libertà». Tre giorni prima, il Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del regime, ha votato la sfiducia nei confronti di Mussolini: costretto alle dimissioni, il Duce è stato tratto in arresto. Il re ha nominato il maresciallo Badoglio a capo del Governo.

Il nuovo direttore Nicola Pascazio – succeduto a Pietro Pupino Carbonelli, troppo compromesso con il regime – decide di pubblicare sulla stessa pagina anche l’editoriale «Respiro» di Alberto Bergamini, comparso il giorno precedente su «Il Giornale d’Italia»: «L’Italia ha finalmente la sua rivoluzione: rivoluzione di libertà che restaura anche per noi finalmente i grandi valori della libertà occidentale». In fondo alla prima pagina c’è una piccola notizia: da Roma è stata disposta la scarcerazione di un gruppo nutrito di antifascisti detenuti a Bari. Tra essi ci sono: Guido De Ruggiero, Guido Calogero, Tommaso Fiore, Michele Cifarelli, Giulio Butticci «e molti valorosi e intelligenti giovani studenti», si legge sulla «Gazzetta».

Questo annuncio e le parole di speranza riportate sul più importante giornale locale infiammano gli animi: a Bari inizia ad esserci fermento, ansia di libertà. La cosiddetta “Circolare Roatta” e un’ordinanza locale hanno impedito fino ad ora ogni tipo di manifestazione pubblica. Quel 28 luglio 1943, però, alcune persone scendono finalmente per strada, ignorando i divieti imposti: si ritroveranno in più di duecento, perlopiù ragazzi e anche bambini, per andare incontro ai prigionieri politici che sarebbero stati scarcerati. All’altezza della sede del Partito nazionale fascista – in via Niccolò dell’Arca – un reparto dell’esercito, insieme ad altri militari e individui armati nascosti nel palazzo, apre il fuoco contro il corteo inerme e pacifico. Il bilancio definitivo della strage sarà di venti morti e circa settanta feriti: finisce così, nel sangue, quel primo giorno di libertà dopo vent’anni di regime autoritario e repressivo.

La doppia verità sulla fine del Duce. Tra il 24 e il 25 luglio del ‘43 ok all’odg Grandi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Luglio 2022.

È il 25 luglio 1943. In prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno», come ogni giorno da tre anni, si dà conto dell’andamento della guerra. «Le unità italiane e tedesche impegnate in aspra lotta in Sicilia»: la realtà dei fatti è notevolmente edulcorata. L’Italia sta vivendo una fase estremamente critica. Dal 10 giugno 1940 l’esercito ha collezionato quasi soltanto sconfitte, in particolar modo nei Balcani, in Nord Africa, in Russia. Da poche settimane gli anglo-americani sono sbarcati in Sicilia e hanno iniziato a risalire la penisola: l’esercito italiano non ha potuto organizzare una vera e propria difesa, la popolazione locale ha accolto gli Alleati come liberatori.

È questo, in fondo, il risultato inevitabile, dopo aver costretto una popolazione stremata da vent’anni di regime e un esercito impreparato ad affrontare una guerra al fianco di Hitler. Anche il fronte interno sta crollando: gli italiani sono stremati dai bombardamenti, dalla fame, dalle privazioni. Le tecniche della propaganda fascista non reggono più di fronte all’evidenza dell’imminente sconfitta: l’andamento disastroso dei combattimenti sta sottraendo al Duce e al fascismo intero buona parte dell’appoggio popolare sui cui fino ad allora aveva potuto contare.

Non si legge ancora – né sulla «Gazzetta», né sulle altre testate nazionali – la notizia più importante: il giorno prima, dopo alcuni anni di inattività, si è riunito il Gran Consiglio del fascismo, massimo organo del Partito.

Dino Grandi, uno dei gerarchi più influenti, che si è progressivamente allontanato dalle posizioni di Mussolini, ha presentato un ordine del giorno in cui si chiede di togliere la fiducia al Duce.

Mentre a Roma si sta decretando la fine del regime durato vent’anni, sulla «Gazzetta» in ultima pagina si seguono ancora con grande scrupolo le veline dell’agenzia di stampa (o meglio, di propaganda) Stefani che intimano di dare visibilità alle «provvidenze volute da Mussolini a favore di tutte le categorie di lavoratori».

Nella notte tra il 24 e il 25 luglio l’ordine del giorno Grandi ottiene la maggioranza: passa con 19 voti contro 8 (1 astenuto). I poteri tornano nelle mani del re, anche lui convinto della necessità di rimuovere Mussolini dalla guida del governo per risolvere la drammatica crisi del Paese. È la fine di un regime durato vent’anni, ma la notizia clamorosa arriverà in Puglia e Basilicata soltanto nel pomeriggio, troppo tardi comunque per comparire nell’edizione del 25 luglio 1943 de «La Gazzetta del Mezzogiorno».

Così Volt cercò di essere la dinamo del fascismo. Francesco Perfetti il 13 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il suo vero nome era Vincenzo Vani Ciotti. Un saggio riscopre la sua energia culturale.

All'inizio del 1925, all'indomani della svolta autoritaria di Mussolini, la rivista Critica Fascista, fondata e diretta da Giuseppe Bottai, pubblicò un articolo di uno scrittore, il conte Vincenzo Fani Ciotti (1888-1927), noto con lo pseudonimo Volt. Quell'articolo era intitolato Le cinque anime del fascismo e si proponeva di tracciare una mappatura ideologica del movimento mostrando come in esso coesistessero posizioni diverse e, almeno in apparenza, antitetiche: all'estrema sinistra Suckert (Malaparte) e i repubblicani nazionali, al centro-sinistra i sindacalisti rivoluzionari (da Edmondo Rossoni a Sergio Panunzio fino ad Angelo Oliviero Olivetti), al centro-destra gli ex nazionalisti e i seguaci di Bottai, all'estrema destra il gruppo raccolto attorno al quotidiano L'Impero, di Mario Carli ed Emilio Settimelli e, infine, in posizione più defilata, gli ultimi epigoni del cosiddetto «revisionismo». Per quanto si trattasse di una schematizzazione assai, forse troppo, rigida è pur sempre significativo che si fosse fatto un tentativo di cogliere, tanto sotto il profilo culturale quanto sotto il profilo politico, quella «eterogeneità» del fascismo a fatica riconosciuta dalla storiografia solo dopo gli studi di Renzo De Felice.

L'autore dell'articolo, Vincenzo Fani Ciotti, apparteneva a una importante famiglia nobile del viterbese ed era, all'epoca, già molto noto come scrittore politico e come polemista. Nell'anno precedente, il 1924, aveva pubblicato, per esempio, un volumetto intitolato Programma della destra fascista che, inserendosi nel dibattito allora in corso sulla natura del fascismo, offriva una suggestiva ricostruzione degli ultimi decenni di storia nazionale sottolineando la sostanziale affinità tra nazionalismo, in apparenza «conservatore e reazionario», e fascismo, in apparenza a sua volta, «rivoluzionario e progressista».

Al nazionalismo Fani Ciotti aveva aderito ben presto, all'epoca della guerra di Libia, anche se la sua iniziale militanza politica, conseguenza probabilmente dell'ambiente familiare e degli studi compiuti presso le scuole dei padri gesuiti, si era sviluppata all'ombra della Lega democratico nazionale di Romolo Murri. Poi le cose erano gradualmente cambiate: Fani Ciotti il quale, pure, sul periodico del movimento democratico cristiano di Murri, aveva criticato il nazionalismo come «un intruglio di imperialismo annacquato, di irredentismo dottrinario, di chauvinismo alla francese, di liberismo economico e di socialismo di stato» sostenne che non si sarebbero dovuti tacciare di «reazionarismo» i nazionalisti perché questi avevano tuttavia reagito alla «democrazia fiaccamente umanitaria e pacifista, internazionalista e antimilitarista in nome della forza e della energia di quel sempre vivo organismo che è la nazione». Parole, quelle di Fani Ciotti, ben rivelatrici della forza di penetrazione e della attrattività delle tesi di Enrico Corradini in vasti ambienti politico-sociali del tempo, a cominciare da quelli della piccola e media borghesia e della aristocrazia provinciale.

Genesi e sviluppi del pensiero politico di questo scrittore politico, originale e atipico nel panorama intellettuale del tempo, sono ricostruiti in dettaglio in un pregevole lavoro scritto da un giovane studioso di storia del pensiero politico, Alessandro Della Casa: La dinamo e il fascio. Volt l'ideologo del futurismo reazionario (Edizioni Sette Città, pagg. 240, euro 13). Il saggio, ad oggi il più ampio e articolato lavoro su questo singolare esponente della destra fascista, è frutto di puntigliosa ricerca archivistica, nonché di esegesi dell'attività pubblicista di Fani Ciotti e di approfondita conoscenza della letteratura storiografica sul periodo fascista e sul futurismo.

Fani Ciotti iniziò nel 1911 la sua collaborazione a L'idea nazionale e, vicino al pensiero di Enrico Corradini, presentò il nazionalismo come un movimento di opposizione a tutte le tendenze frutto del «pregiudizio ugualitario» di matrice «giacobina». Il casuale incontro nel 1916 sulla spiaggia di Viareggio col fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti segnò per lui una svolta. Il fascino della «Caffeina d'Europa» e quello dell'avanguardia lo conquistarono, lo spinsero persino a cimentarsi in uno romanzo ucronico, antesignano della science fiction italiana, La fine del mondo (1916) e lo portarono ad adottare quello pseudonimo, Volt, con il quale sarebbe diventato famoso, di sapore futurista e marinettiano usato per la prima volta nel volume Archi voltaici. Parole in libertà e sintesi teatrali (1916).

Entrato a far parte della pattuglia di intellettuali monarchici integralisti raccolti attorno allo scrittore Giuseppe Brunati, al settimanale Il Principe e al quotidiano L'Impero,di Carli e Settimelli, divenne uno dei teorici del «fascismo monarchico» sostenendo la necessità di tornare al costituzionalismo albertino nella direzione indicata a suo tempo da Sidney Sonnino in un celebre articolo del 1897 intitolato Torniamo allo Statuto. In altre parole, Volt si proponeva di «conciliare il fascismo, ancora tendenzialmente repubblicano, con la Monarchia» mettendo in dubbio la legittimità del cosiddetto «governo di gabinetto» e proponendo tout court il ritorno «alla lettera e allo spirito» dello Statuto Albertino perché, a suo parere, «la carta fondamentale del regno» tracciava «le linee di un governo costituzionale, sì, ma non parlamentare». Per lui nazionalismo e fascismo presentati, l'uno, come «conservatore e reazionario» e l'altro come «rivoluzionario e progressista» erano in realtà movimenti complementari destinati a incontrarsi e a portare avanti una rivoluzione che rappresentava «ideologicamente l'antitesi della rivoluzione francese». In un certo senso il futurismo rappresentava il trait-d'union fra i due movimenti.

Riferendosi ai giornali monarchici, pieni di intellettuali provenienti dalle schiere futuriste sui quali Volt andava pubblicando i suoi articoli teorici riguardanti soprattutto l'organizzazione dello Stato, Antonio Gramsci osservò poco prima della marcia su Roma che il futurismo aveva «perduto interamente i suoi tratti caratteristici» cioè sostanzialmente la dimensione rivoluzionaria e la spinta fortemente innovativa. Per lui, in altri termini, il futurismo stava acquisendo una vera e propria dimensione reazionaria.

Non è un caso, probabilmente, che proprio Volt, sulle pagine di L'impero, il 24 novembre 1923, coniasse l'espressione «futurismo reazionario» partendo dalla negazione della antitesi fra tradizione e progresso, fra reazione e rivoluzione. Della Casa, dopo aver ripercorso tutte le tappe di formazione e definizione del pensiero politico di Volt e aver sottolineato le polemiche dello stesso con Giovanni Gentile e Curzio Malaparte, si sofferma nel suo bel libro su quella che definisce «operazione futurismo reazionario». Essa consisteva nel tentativo sia «di revisionare il futurismo» attraverso l'innesto in esso di quel «carattere di antimodernismo moderno» individuato nel fascismo sia, al tempo stesso, di mostrare come «la commistione di istanze di rinnovamento e di restaurazione al futurismo (o almeno al marinettismo) fosse congenita». Tale «progetto» implicava il rigetto delle interpretazioni storico-politiche sostenenti l'incompatibilità tra futurismo e fascismo, ma, al tempo stesso, operava il recupero, in nome di una «classicità futurista» di talune importanti e significative espressioni dell'arte del Novecento nel contesto e nel clima del cosiddetto «ritorno all'ordine». Che l'«operazione futurismo reazionario» abbia avuto, o non abbia avuto, quel successo e quel seguito che Volt si augurava è altro discorso. Comunque sia, essa testimonia del fatto che nel fascismo, proprio come aveva scritto Volt, coesistevano più anime, talora persino apparentemente inconciliabili.

In Sicilia scontro totale: gli Alleati avanzano, il fascismo è alle corde. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il

13 Luglio 2022.

«Lotta aspra e senza posa in Sicilia»: è questo il titolo che «La Gazzetta del Mezzogiorno» sceglie, nonostante le precise direttive imposte dall’agenzia Stefani a riguardo, non potendo ridimensionare l’entità dei combattimenti che si stanno svolgendo in queste ore nell’isola. Pochi giorni prima gli Alleati hanno sferrato il decisivo attacco: dopo l’arrivo dei primi paracadutisti, gli sbarchi sono avvenuti sulle coste sud orientali della Sicilia. All’alba del 10 luglio, gli americani della 45ª divisione di Fanteria della 7ª armata, comandata dal generale George Patton, sono approdati tra Punta Zafaglione e Punta Braccetto: contemporaneamente la 1ª e la 3ª Divisione hanno occupato il tratto di spiaggia tra Gela e Licata. L’8ª armata britannica, guidata dal generale Montgomery, si attesta sulla fascia costiera tra Capo Passero, Siracusa e Augusta, lungo una zona di circa 50 chilometri. L’esercito italiano non riesce a opporre una resistenza adeguata contro la potenza degli eserciti americani, inglesi e canadesi.

Così recita il bollettino trasmesso dal quartier generale delle Forze Armate, come ogni giorno in prima pagina sul quotidiano: «In Sicilia la lotta è continuata aspra e senza posa nella giornata di ieri, durante la quale il nemico ha tentato invano di aumentare la modesta profondità delle zone litoranee occupate. Le truppe italiane e germaniche, passate decisamente al contrattacco, hanno battuto in più punti le unità avversarie, obbligandole in un settore a ripiegare. Lo spirito combattivo dei reparti italiani e tedeschi è elevatissimo; il contegno della popolazione dell’isola e quello dei fieri soldati siciliani, che appartengono in gran numero alle nostre unità, superiore ad ogni elogio».

In realtà, l’esercito italiano non ha potuto organizzare una vera e propria difesa: la popolazione locale accoglie inglesi e americani come liberatori, le forze armate in molti casi cedono senza neanche combattere. È questo, in fondo, il risultato inevitabile, dopo aver costretto una popolazione stremata da vent’anni di regime e un esercito impreparato ad affrontare una guerra al fianco di Hitler.

Le tecniche della propaganda fascista non reggono più di fronte all’evidenza dell’imminente sconfitta: il fronte interno è crollato e poco si può fare per risollevare le sorti di un conflitto che fin dall’inizio aveva poche speranze di riuscita. Mancano pochi giorni e anche Mussolini dovrà fare i conti con questa realtà: l’andamento disastroso dei combattimenti sta sottraendo al Duce e al fascismo intero buona parte dell’appoggio popolare sui cui fino ad allora aveva potuto contare.

Scontri tra fascisti e antifascisti a Bari. Nel giugno 1922 tanti episodi di violenza. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Giugno 2022

Nuovi incidenti tra fascisti e antagonisti infiammano la vita quotidiana di Bari e dell’intera regione nel giugno 1922. Ne parla il «Corriere delle Puglie» del 30 giugno. «Nei pressi di via Piccinni passava un gruppo di fascisti e tra questi e alcuni muratori si è accesso un diverbio. Sono stati lanciati dei sassi e sono stati esplosi diversi colpi di rivoltella, che hanno naturalmente determinato un gran panico tra i passanti. Poco dopo sorgeva un altro incidente tra i fascisti ed il presidente dell’Associazione dei combattenti, avv. Barcellona, il quale era accorso sul posto perché i muratori erano ex combattenti. Accorreva il funzionario di Pubblica Sicurezza con agenti e regie guardie con cordoni veniva sbarrata via Marchese di Montrone, dove trovasi la sede del Fascio».

Fortunatamente lo scontro non ha avuto conseguenze, ma la situazione è esplosiva: «Dopo gli incidenti dei giorni scorsi, dopo l’aggressione subita dal giovane fascista l’altra sera e dopo le revolverate del pomeriggio di ieri, è necessario, anzi è imperiosamente necessario, che le autorità di P. S. facciano tutto il possibile per porre un freno a questa folle – e non sapremmo chiamarla altrimenti – ventata di violenza, che, un po’ per volta, si vuole far scatenare sulla nostra città», commenta il cronista.

Il giorno prima, infatti, un uomo di 28 anni, mentre rincasava in pieno centro città intorno alle 23, ha raccontato di essere stato fermato da uno sconosciuto sbucato da un vicolo che, «dopo avergli detto “Tu sei fascista!”, gli vibrava due colpi di arma bianca, pare pugnale, all’omero e al collo».

Il «Corriere» riporta, in calce a questa cronaca, il comunicato di un gruppo di fascisti baresi, che sembrano dissociarsi da questa deriva violenta. Riunitisi per discutere degli eccessivi «agguati e provocazione da parte di organizzazioni rosse», hanno inviato un esposto alla Direzione nazionale del Pnf per denunciare «la poca serietà della locale Sezione e se ne domanda l’immediato scioglimento per una più solida riorganizzazione».

Si chiede, infine, di inviare «un voto di biasimo a quei fascisti (arrivisti!) che fin’ora hanno fatto monopolio per proprio uso, dell’organizzazione, ma dimostrando assoluta inettitudine!».

Conclude il giornalista del «Corriere»: «È d’uopo agire, affinché domani non possa essere troppo tardi. Perché con questi incidenti, che quotidianamente si ripetono e con questi pericolosi sistemi di rappresaglie, si andrebbe decisamente verso il “fattaccio”». Le violenze squadriste, invece, continueranno a imperversare in quell’estate «calda» di cento anni fa.

Quel tragico «Vincere» e Bari ascolta in piazza il Duce. La Gazzetta del Mezzogiorno di un secolo fa. Così il 10 giugno 1940 Mussolini, nel diciannovesimo anno dell’era fascista, pronunciando il celeberrimo discorso da Palazzo Venezia. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Giugno 2022.

«Combattenti di terra, di mare e dell’aria! Camicie nere della rivoluzione e delle legioni! Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania! Ascoltate! L’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria. L’ora delle decisioni irrevocabili…». Così il 10 giugno 1940 Benito Mussolini, nel diciannovesimo anno dell’era fascista, pronunciando il celeberrimo discorso dal balcone di Palazzo Venezia, dichiara guerra a Francia e Inghilterra. Il «Corriere delle Puglie», naturalmente, riporta in prima pagina la notizia che stravolgerà per sempre la storia del nostro Paese.

L’orazione è integralmente trascritta nell’articolo di fondo: il grassetto dei caratteri tipografici ricalca i passaggi più importanti, quelli che Mussolini stesso aveva enfatizzato con l’uso teatrale della voce, delle pause, del linguaggio del corpo. Da mesi il duce si interroga sull’opportunità di entrare in guerra al fianco della Germania, che nel settembre 1939 ha invaso la Polonia, dando definitivamente avvio al conflitto. Il leader fascista è ben consapevole della reale opinione degli italiani in merito alla possibilità di combattere, nonostante la propaganda insista sulle manifestazioni di entusiasmo delle folle al momento del definitivo annuncio: soprattutto, Mussolini è a conoscenza della profonda impreparazione militare del paese. Tuttavia, alla fine, decide: «Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano».

Il «Corriere delle Puglie» descrive la grande adunata nel «foro dell’impero fascista» a Roma, ma anche in Puglia moltissime persone si sono riunite per ascoltare dagli altoparlanti disposti nelle piazze. «Bari, tutta presente in piazza dell’Impero, ha unito il suo cuore vibrante al cuore della Patria in armi, che guarda con ferma certezza il suo nuovo e più grande destino sorgere radioso sull’estremo orizzonte mediterraneo. La decisione ha trovato tutti pronti, tutti i cuori saldi e sereni dell’immutabile dedizione alla Patria e al Condottiero. L’annunzio del supremo cimento è stato accolto da Bari con cosciente serenità di cuore e piena consapevolezza del sacrificio». La foto spettacolare - realizzata dallo studio Michele Ficarelli - ritrae «la folla assiepata» in quella che, a dispetto dei tragici eventi proprio lì annunciati, con orgoglio oggi chiamiamo piazza Libertà.

Il fascismo ora dilaga: da Andria a Bari Puglia a ferro e fuoco. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l11 Luglio 2022.

«Se non sono molestati, non fanno male a nessuno»: su «La Gazzetta del Mezzogiorno» di cento anni fa, così il giornalista E. A. Morgigno si esprime a proposito dell’atteggiamento «mansueto» degli squadristi pugliesi. «La grande adunata fascista ad Andria»: è questa la notizia principale di cronaca locale dell’11 luglio 1922.

Il delegato regionale del Partito fascista, l’onorevole Giuseppe Caradonna, di Cerignola, ha emanato l’ordine di mobilitazione: il comando generale delle squadre d’azione è stato assunto dal marchese Dino Perrone Compagni. Nella città del Nord Barese sono accorsi giovani da tutta la Regione: «Reputiamo di un seicento uomini la forza fascista accentrata. Giovani dai lineamenti bronzei, dalle fattezze maschie, dai gesti irrequieti e risoluti. Tutti in camicia nera, delle quali molte contrassegnate dai distintivi delle ferite di guerra e dai nastrini guadagnati sul campo dell’onore. Diversi portano le mostrine. Ognuno è armato di bastone e di coraggio, qualcuno porta il caratteristico fez nero e molti invece sono sprovvisti».

Quello che si presenta ad Andria è uno spettacolo nuovo: il 3 luglio, infatti, «mazzieri» fascisti avevano occupato il municipio. Erano state ore tragiche, raccontate nei dettagli sulla «Gazzetta» del giorno dopo: «Andria non è una città come le altre, ha una tradizione di lotta che non si può troncare in un momento. Ha un’organizzazione proletaria potente, che rappresenta per il partito socialista una forza non indifferente. La lotta, che si svolge oggi, non è un piccolo episodio di violenza ma assume un carattere eminentemente nazionale». Non era stato troppo difficile per i fascisti, molti dei quali provenienti da Bari, accedere al Palazzo di Città, distruggere quadri e documenti e issare la bandiera tricolore: l’amministrazione socialista era stata definitivamente rovesciata.

Negli scontri era morto il contadino fascista Nicola Petruzzelli. Il protagonista dell’azione Achille Starace, originario di Gallipoli, aveva pertanto organizzato in tutto il territorio spedizioni punitive contro i braccianti in sciopero.

Perciò, si legge sulla «Gazzetta» dell’11 luglio 1922, «il popolo animato dalla curiosità accorre a vedere la nuova milizia e rimane attonito di fronte ad essi».

L’onorevole Caradonna inveisce contro «l’annidamento parassitario e vorace delle cricche dall’etichetta rossa» e il toscano Compagni elogia l’eroismo dei fascisti locali.

Poche settimane più tardi gli stessi squadristi tenteranno di assaltare la Camera del lavoro di Bari: sono mesi di fuoco quelli dell’estate di cento anni fa in Puglia.

Guerra in Russia, propaganda e divieti. E al «Petruzzelli» Renato Rascel in scena. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Luglio 2022

A tutta pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 7 luglio 1941, in prima ovviamente, appare la notizia: «I tedeschi assaltano la linea Stalin. I prigionieri sovietici saliti a 300mila. 18 treni e 500 autocarri russi annientati in un solo settore. 281 apparecchi rossi distrutti in una giornata».

Cosa sia effettivamente questa Linea Stalin si tenta di spiegare, con estrema difficoltà, nel breve articolo che segue: «Su questa Linea Stalin non si hanno notizie precise, come del resto su tutta la preparazione militare russa. I russi hanno costruito qualcosa di intermedio tra la Linea Maginot e la Linea Sigfrido. Infatti nella sua facciata esterna ricorderebbe la Linea Maginot, mentre avrebbe preso dalla Sigfrido l’elemento profondità: essa sarebbe infatti profonda cento chilometri. Teoricamente la Linea Stalin dovrebbe tagliare verticalmente l’intera Russia dal mar Bianco al mar Nero, ad occidente di Leningrado e di Mosca, passando per Smolensk e per Kiev».

Nelle pagine interne del giornale, tra gli editoriali e la cronaca locale, evidenti riquadri con caratteri in grassetto, collocati qua e là tra gli articoli, recitano: «Durante questa guerra gigantesco dovere fondamentale di ogni cittadino è: TACERE», nonché «Qualunque cittadino, di fronte a un chiacchierone o ad un propagatore di notizie interessanti la guerra, ha il dovere di intervenire consegnandolo all’autorità», oppure «Anche colui che credi tuo amico può essere una spia. TACI».

Propaganda e fake news, nonché strategie di guerra psicologica si alternano sulle pagine di tutti i quotidiani da quando, nel giugno 1940, l’Italia ha aderito al conflitto al fianco dell’esercito nazista. La priorità è mantenere saldo il fronte interno e neutralizzare i delatori.

In tempo di guerra, però, non si rinuncia al teatro: nelle pagine interne di cronaca cittadina leggiamo che a Bari, al Teatro Petruzzelli, alle ore 14.30 avrà luogo l’addio della «Compagnia Rascele» con l’applauditissima rivista «Quando non piove più. 15 quadri di Letico e Cotone», che prevede addirittura 30 artisti sulla scena.

La Compagnia di rivista è quella di Renato Rascel: grande attore e show-man, «Renatino», come verrà chiamato affettuosamente dal pubblico per la sua statura, era stato costretto dal fascismo ad italianizzare il suo cognome, considerato poco italico per la sillaba tronca, in Rascele.

A lungo calcherà le scene teatrali, cinematografiche e televisive italiane dopo la guerra, riprendendo però con orgoglio il suo vero cognome.

L’illusione fascista di invadere la Russia. Luglio ‘41, gli italiani al seguito dei tedeschi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Luglio 2022

Un titolo occupa la prima pagina de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 6 luglio 1941: «Il Dnieper raggiunto dai tedeschi», con il sottotitolo «Il crollo russo». L’esordio è ancora più chiaro e perentorio: «Immensi problemi si aprono con il crollo russo a cominciare da quello dell’unità della Russia».

L’editoriale, firmato da Michele Viterbo, dando per scontati non solo il tracollo militare sovietico ma anche l’imminente disfacimento politico della Russia, ritiene che, a cominciare da Pietro il Grande in poi, lo sforzo era stato sempre quello di «europeizzare la steppa sterminata e salvaguardarne l’unità»: «la centralizzazione zarista e la centralizzazione bolscevica non hanno civilizzato ma hanno soltanto oppresso le popolazioni, non riuscendo a soffocare le loro aspirazioni di autonomia più ardenti di prima».

Secondo Viterbo l’opera del «caucasico Stalin è volta verso l’orientalizzazione dell’umanità, essendo egli il simbolo della grandezza asiatica, della crudeltà asiatica, della potenza asiatica che vuol lanciarsi addosso all’Europa». Ma nell’analisi di Viterbo c’è di più, un acrobatico scatto a favore dell’Italia, quasi fossero state le nostre forze militari e non la Wehrmacht a compiere l’impresa.

Il 21 giugno 1941, infatti, Hitler ha dato avvio all’operazione Barbarossa, sferrando un violento attacco alla Russia: egli è convinto di chiudere la questione al massimo in cinque settimane. Mussolini decide di essere al fianco dell’alleato tedesco per condividere le conquiste annunciate: per questo costituisce, proprio nel luglio del 1941, il Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir).

Il podestà Viterbo condivide la visione del duce. A suo parere, infatti, lo sfondamento sul Dniepr è frutto della lunga lotta contro il comunismo, cui gli italiani hanno dato un contributo fondamentale in Spagna: «I legionari italiani che per due anni tennero fronte alle orde rosse, armate e finanziate dai banchieri inglesi e americani ma che erano sotto il diretto controllo di Mosca sono pertanto gli anticipatori dell’odierna crociata antibolscevica. Nessuno potrà mai dimenticare questa luminosa pagina di storia scritta dagli italiani. Oggi finalmente – chiude così il suo articolo Viterbo – l‘URSS crolla. Con un nuovo capolavoro di tecnica e di strategia i Tedeschi accerchiano l’esercito russo. E l’Italia è come sempre in linea contro Mosca».

Come è noto, le cose andranno diversamente: nel dicembre 1942 l’Armata italiana subirà proprio sul fronte russo una delle più gravi sconfitte della storia. Più di 640mila soldati verranno fatti prigionieri dai Russi e drammatico sarà il ritorno in patria dei pochi superstiti.

Benedetto Gentile, storia di una famiglia e del '900. Francesco Perfetti il 10 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il figlio di Giovanni visse la rottura fra il padre e Croce. E fu diplomatico a Londra con Grandi.

Quintogenito del padre dell'attualismo, Benedetto Gentile (1908 - 1998) venne battezzato con il nome di Croce in onore del filosofo, al quale allora padre Giovanni era legatissimo. Dovette soffrire molto, Benedetto, della rottura del sodalizio fra il padre e Croce, iniziata sommessamente su La Voce prezzoliniana con una «discussione fra amici» e trasformatosi, soprattutto da parte dello stesso Croce, in una frattura che non ammetteva possibilità di conciliazione. E che ebbe un epilogo quasi farsesco, con l'opposizione di Croce e dei suoi eredi alla pubblicazione, malgrado le sollecitazioni di amici comuni come Ugo Spirito e Raffaele Mattioli, del carteggio fra i due pensatori, ritenuto, a ragione, importantissimo per la storia della filosofia italiana (e non solo) del Novecento. Soltanto da poco, dopo una faticosa mediazione, è stato possibile vederlo finalmente in edizione critica, e non più sotto forma di epistolari distinti.

Quale fosse il vero motivo del dissidio è poco chiaro, al di là della spiegazione tutta politica che ne è stata data. Proprio Benedetto Gentile, in un libro delizioso, Ricordi e affetti (Le Lettere, pagg. 174, euro 16), oggi opportunamente ripubblicato (uscì nell'88), si è posto la domanda e ha scritto: «Non credo al dissenso politico unica matrice di rotture così violente e durevoli. Né credo a un moralismo di sapore quasi manicheo, da parte di Croce che vede in Gentile dopo il '25-'26 quasi l'incarnazione dell'errore e del male, tanto meno penso che un semplice, se pur grave e profondo dissenso ideologico possa da solo assumere toni così aspri e un odio - altra parola non saprei trovare - che dura oltre la morte».

Al tempo in cui l'amicizia fra i due era ancora salda, Croce frequentava la casa di Gentile e Benedetto lo rammenta con un pizzico di nostalgia, «seduto in poltrona, con una gamba ripiegata sotto l'altra, fumando una quantità di sigarette senza aspirarne il fumo, tenendole per un capo con un curioso reggi sigarette a forma di piccola pinza» e mentre discorreva «tenendo ininterrottamente il filo della conversazione, che era quasi un monologo, in cui varie curiosità si susseguivano ad aneddoti eruditi». Improvvisamente questa amicizia così stretta si trasformò, da parte di Croce, in una ostilità tanto aspra da rasentare il ridicolo. Come quando, richiestogli un parere dal ministro della Pubblica Istruzione sulla consistenza della biblioteca gentiliana, Croce disse di non potersi esprimere, sostenendo di non conoscerne gli «sviluppi a prescindere dagli omaggi degli editori al gerarca fascista» e aggiunse che, quando lo aveva conosciuto, Gentile, allora giovane professore, era tanto oberato dal peso di una famiglia numerosa da essere inadatto a formarsi una biblioteca importante.

È incomprensibile tale ostilità quando si rifletta sul fatto che Gentile, pur interrottisi i rapporti con Croce, non ammetteva che nel salotto di casa, lui presente, si usassero toni offensivi nei riguardi dell'amico di un tempo. Verrebbe da pensare che alla base del contrasto vi fosse, da parte di Croce, insuperabile maestro negli studi filologici e letterari oltre che storici, quasi una sorta di «gelosia» per il giovane allievo creatore di un sistema filosofico, l'«attualismo», che portava alle conseguenze logiche più coerenti la filosofia idealistica. Ma è una mia supposizione.

All'assassinio del padre - Croce lo commentò ribadendo che la rottura con l'antico «collaboratore» fu dovuta al «suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo» - Benedetto Gentile dedica alcune belle pagine nelle quali, dopo aver discusso taluni tentativi di ricostruzione di quell'episodio, conclude che fatti come quelli «possono difficilmente farsi risalire soltanto a precise responsabilità, più o memo documentabili, di particolari mandanti». E aggiunge amaramente che, «nel segreto della propria coscienza» finirono, probabilmente, per sentirsi responsabili dell'assassinio anche «molti, tutti più o meno amici devoti dei tempi migliori». Come del resto, vale la pena di sottolinearlo, i più recenti studi sull'argomento hanno dimostrato.

Importante per la comprensione anche umana della figura del padre e per la precisazione dei suoi rapporti con Croce, il volume di Benedetto Gentile, scritto probabilmente in origine più per sé e per i familiari che per un più vasto pubblico, ha però ben altri motivi di interesse. Esso offre uno spaccato suggestivo della cultura italiana del primo Novecento attraverso il ricordo degli incontri con tante personalità, letterati o scrittori o politici che ebbero la ventura di frequentare Giovanni Gentile o di collaborare con lui, da Delio Cantimori a Ugo Spirito, da Gioacchino Volpe a Corrado Alvaro, da Riccardo Bacchelli a Giuseppe Tucci e via dicendo. Per non dire, ovviamente, di Camillo Pellizzi e Massimo Bontempelli, Leo Longanesi e Mino Maccari, conosciuti in quel di Forte dei Marmi.

Appassionato cultore di arte e letteratura - come ben dimostrò il fatto che nel secondo dopoguerra egli decise di occuparsi di editoria e, in particolare, di opere enciclopediche -, Benedetto Gentile fu anche un diplomatico di professione. Si trovò a lavorare per il proprio Paese in alcune sedi particolarmente significative dal punto di vista politico come Ginevra, Londra. Lisbona, Basilea. Nella capitale inglese, per esempio, fu alle dipendenze di «un uomo di indubitabile fascino». Il ritratto di Dino Grandi, scritto in punta di penna, è eccezionale: «il suo passato, i suoi modi decisi, le sue arti sottili nell'affrontare problemi e circostanze, un certo piglio che l'esperienza aveva reso estremamente autorevole, facevano di lui, nell'ambito dell'ambasciata, quasi una sorta di nume ascoso, al cui comportamento e alle cui direttive i suoi collaboratori si adeguavano con devota fedeltà». Grandi sapeva navigare bene nelle acque agitate e perigliose della politica internazionale all'indomani della guerra di Spagna: «il suo problema è stato sempre quello di affermare e sottolineare la peculiarità del proprio atteggiamento, conferendogli una posizione di equidistanza tra una sostanziale e comunque affermata ortodossia e una trasparente disponibilità, se pure velata di ambiguità, a soluzioni e situazioni diverse da quelle ufficiali». Sono parole che, lette in controluce, spiegano sia la particolare posizione di Grandi all'interno del fascismo, sia la logica del suo operare a livello di politica estera secondo lo spirito di quella che egli stesso volle teorizzare come «politica del peso determinante» dell'Italia nel consesso internazionale.

Molti altri sono i diplomatici illustri - da Renato Prunas a Egidio Ortona, a Renato Bova Scoppa e via dicendo - che fanno capolino nelle pagine del libro e vengono ritratti con rapidi ma efficaci cenni. Non poche sono, inoltre, le notazioni storicamente rilevanti come, per esempio, quelle riguardanti il ruolo di Lisbona, divenuta nell'ultimo scorcio del conflitto mondiale centro di intrighi, commerci, spionaggio, diplomazia segreta e trattative riservate. La capitale portoghese era infatti «uno dei pochi punti di contatto tra gli opposti schieramenti, un punto d'incrocio e in un certo modo anche di scambio» dove convergevano «le linee marittime e aeree che potevano gettare dei ponti verso i territori oltremare, verso i lontani continenti» e dove si ritrovavano, in una specie di «passaggio obbligato», «le missioni diplomatiche che dovevano essere rimpatriate man mano che il conflitto si allargava ad aree lontane».

Il volume di Benedetto Gentile non è propriamente un saggio storico-letterario né un libro di memorialistica nel senso tradizionale del termine. Ha un affascinante andamento rapsodico con un succedersi di quadri e di episodi, quasi un caleidoscopio sul mondo culturale e politico della prima metà del Novecento italiano. Ma, proprio per questa sua caratteristica, oltre che per l'eleganza coinvolgente della scrittura, è un'opera da leggere. E sulla quale riflettere.

Fascisti a Bologna è la prova generale della «rivoluzione». «Ieri sera arrivarono le prime squadre dei fasci ferraresi in pieno assetto militare e quelle e si accamparono all’aperto». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 giugno 2022.

È il 1° giugno 1922. Il «Corriere delle Puglie» annuncia in prima pagina: «Oltre diecimila fascisti occupano Bologna».

Già alcuni giorni prima, il 26 maggio, fascisti e nazionalisti hanno messo in scena, nel capoluogo emiliano, una accesa manifestazione contro il prefetto Mori, accusato di favorire i partiti sovversivi: in quell’occasione si sono verificati scontri con le forze dell’ordine e due sedi socialiste sono state danneggiate. La Federazione provinciale del PNF (Partito nazionale fascista) di Bologna ha dato avvio, così, ad una grande concentrazione di fascisti in armi, capeggiata dai dirigenti nazionali, tra cui Dino Grandi, Italo Balbo e Leandro Arpinati. ​​Il centro di Bologna è occupato da squadre provenienti da vari paesi della provincia, da Modena, Venezia e, la più consistente, da Ferrara.

La cronaca riportata sul «Corriere»: «Ieri sera arrivarono le prime squadre dei fasci ferraresi in pieno assetto militare e quelle e si accamparono all’aperto. La loggia del Pavaglione e del Palazzo del Podestà sembravano tante camerate. Ad un’ora era suonato il silenzio. Squadre di ronda. Massima disciplina. La sveglia è stata suonata alle ore 7. I fascisti ferraresi sono raccolti intorno al loro comandante Balbo, in cui essi hanno tanta fiducia. Pochissimo si sa di quanto è avvenuto nei paesi della provincia. Le comunicazioni telegrafiche e telefoniche sono interrotte quasi da per tutto e nella zona del basso bolognese è mancata questa notte anche la luce». Le strade che conducono a Bologna sono sbarrate e la circolazione dei mezzi è bloccata: questo facilita, pertanto, l’entrata in città e l’inquadramento delle numerose forze squadriste, che le autorità dal canto loro, si scrive sul quotidiano, avrebbero potuto impedire.

Per il cronista non c’è dubbio: il movimento si sviluppa secondo un piano prestabilito anche nei minimi particolari e trova le forze ufficiali impreparate. I fascisti assediano palazzo d’Accursio e lanciano bombe contro la Prefettura, la Questura e la Camera del Lavoro: il giorno dopo il potere sarà trasferito all’autorità militare e, in cambio dell’allontanamento del Prefetto, i violenti accetteranno di porre fine alla dimostrazione. Mussolini si congratulerà con le camicie nere e Balbo definirà l’occupazione di Bologna la «prova generale della Rivoluzione»: mancano cinque mesi alla marcia su Roma. Il governo, in questo clima di tensioni mai verificatosi prima nel Paese, minaccia il ritiro dei permessi d’armi ad ogni ordine di cittadini

Maggio del 1924 rissa alla Camera. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Maggio 2022.

«Una seduta di violentissimi incidenti alla Camera»: è il 31 maggio 1924 e La Gazzetta di Puglia riporta quasi integralmente la discussione in Parlamento del giorno prima. Nell’aprile si sono tenute le elezioni, le ultime prima della definitiva instaurazione del regime dittatoriale. Dopo una campagna elettorale segnata dalle violenze dei fascisti, la Lista Nazionale, guidata da Benito Mussolini, nella quale si sono candidati anche esponenti liberali e alcuni cattolici conservatori, ha ottenuto quasi il 65% dei voti e i tre quarti dei seggi parlamentari.

La giunta delle elezioni propone la convalida in blocco degli eletti della maggioranza. Alla riapertura della Camera, il 30 maggio 1924, il segretario del Partito socialista unitario Giacomo Matteotti non perde tempo e chiede, invece, che il risultato non venga ritenuto legittimo: le elezioni si sono svolte in un clima di tensione, irregolarità e violenze squadriste nei confronti dei candidati dell’opposizione. Ecco le coraggiose parole del socialista di Fratta Polesine riportate sulla Gazzetta: «L’elezione, secondo noi, è essenzialmente non valida! [...] Nessuno si è trovato libero, perchè ciascun cittadino sapeva a priori che se anche avesse osato affermare a maggioranza il contrario, c’era una forza a disposizione del Governo che avrebbe annullato il suo voto e il suo responso. [...] Perfino i giornali hanno riprodotto gli episodi di elettori percossi perché volevano esercitare liberamente il loro mandato!».

Il suo discorso è continuamente interrotto dalle urla provenienti dai settori della maggioranza: «Mi limito a poche cose, potrei accennare a tutte le violenze compiute a Napoli ai danni dell’on. Amendola. A Melfi è stata impedita la raccolta delle firme con la violenza. In Puglia fu bastonato perfino un notaio». Il fascista barese Di Crollalanza risponde: «È falso! In Puglia le elezioni si sono svolte nella maggiore calma e con piena libertà».

Dopo le accuse di Matteotti, volano insulti e minacce da un banco all’altro della Camera e, infine, scoppia un’accesa rissa in cui sono coinvolti il generale Bencivenga, Amendola, Lussu, Vella e i fascisti, di cui non vengono riportati i nomi. Secondo una testimonianza, uscendo quel giorno dalla Camera, Matteotti avrebbe detto ai suoi compagni: «Ora preparatevi a fare la mia commemorazione».

Il 10 giugno successivo sarà, infatti, aggredito e rapito da sicari fascisti e il suo cadavere sarà ritrovato due mesi più tardi ​​in una fossa scavata in una fitta boscaglia poco fuori Roma, lungo la via Flaminia.

Giugno 1924, il rapimento e poi la fine. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Giugno 2022.

«L’energica opera del Governo per assicurare alla giustizia gli autori dell’assassinio di Matteotti» titola in prima pagina La Gazzetta di Puglia del 15 giugno 1924. Giacomo Matteotti, leader del Partito socialista unitario, è scomparso da alcuni giorni. La notizia comincia a circolare l’11 giugno, quando la moglie dell’onorevole di Fratta Polesine si reca a Montecitorio per chiedere ansiosamente notizie del marito, che non fa ritorno a casa dal giorno precedente.

Mentre i più si dicono fiduciosi sulla sorte di Matteotti – sicuramente partito all’estero per qualche motivazione politica, come era solito fare – un uomo si reca nella redazione del Giornale d’Italia per raccontare la scena di cui è stato testimone: si è trattato certamente di un rapimento.

Il 10 giugno 1924 Matteotti esce di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio. Mentre percorre il lungotevere Arnaldo da Brescia, un’auto si ferma ad aspettarlo. A bordo ci sono cinque persone, che in seguito saranno identificate come membri della polizia politica di Mussolini. Due di loro si gettano addosso al deputato, il quale inizia a divincolarsi: un terzo uomo lo colpisce per stordirlo. Caricato il corpo in auto, i sicari ripartono a tutta velocità.

Mussolini, a capo del governo da circa un anno e mezzo, dichiara a più riprese di essere sconvolto dalla notizia e di aver ordinato la mobilitazione di tutte le forze di polizia.

«Se vi è qualcuno che abbia diritto ad essere addolorato ed esasperato sono proprio io. Se si tratta di deplorare il nefando delitto, di procedere nella ricerca dei colpevoli e di tutte le responsabilità, io sono qui ad assicurare che ciò sarà fatto. Giustizia sarà fatta. Di più non si può chiedere. Se si vuole la giustizia sommaria si chieda chiaramente e sarà fatta», sono le parole del duce riportate sulla Gazzetta.

Il delitto è stato compiuto – lo si ammette anche sulle pagine del quotidiano – pochi giorni dopo la denuncia, compiuta da Matteotti alla Camera, dei brogli e delle violenze commesse dai fascisti in occasione delle elezioni svoltesi nell’aprile precedente.

Il 27 giugno, in forma di protesta al regime, le opposizioni politiche si ritireranno sull’Aventino, rifiutandosi di riprendere i lavori della Camera senza il ripristino delle libertà democratiche da parte di un nuovo governo. Il cadavere di Matteotti sarà ritrovato solo due mesi dopo, il 16 agosto 1924, ​​in una fossa scavata in una fitta boscaglia poco fuori Roma, lungo la via Flaminia.

La morte dei Rosselli e la falsa pista anarchica e comunista. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Giugno 2022.  

«Idue Rosselli vittime di una vendetta anarchico-comunista»: si intitola così un trafiletto in seconda pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 16 giugno 1937.

Nei giorni precedenti, la notizia dell’assassinio di Carlo e Nello Rosselli, avvenuta a Bagnoles-de-l’Orne il 9 giugno, è stata così annunciata: «Un evaso da Lipari misteriosamente ucciso con un fratello a Parigi». La morte del padre del socialismo liberale e di uno dei più promettenti storici del Risorgimento, che per noi diventeranno il simbolo dell’opposizione politica al regime fascista, è presentata come un marginale fatto di cronaca.

Carlo e Nello Rosselli sono nati rispettivamente nel 1899 e nel 1900, in una famiglia di religione ebraica e solide tradizioni patriottiche: crescono a Firenze con la madre, Amelia Pincherle Moravia, e il fratello Aldo. Frequentano ambienti socialisti e democratici ed entrano in contatto con Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Piero Calamandrei. Nel 1924 Carlo si iscrive al Partito socialista Unitario e fonda, l’anno successivo, il bollettino politico «Non mollare», dalle cui pagine accusa apertamente Mussolini dell’omicidio di Matteotti.

Inizia, così, la persecuzione da parte della polizia politica fascista. Carlo è costretto alla fuga; fonda, assieme a Pietro Nenni, il settimanale «Il quarto Stato». Nel dicembre del 1926, insieme ad altri compagni di partito, organizza la fuga in Francia di Filippo Turati, anziano leader dei socialisti riformisti italiani. Arrestato e processato, Rosselli viene condannato a cinque anni di confino a Lipari: riesce, però, a fuggire dall’isola e si rifugia a Parigi, dove poco tempo dopo dà vita al movimento «Giustizia e libertà». Nel giugno del ‘37 si incontra con Nello a Bagnoles-de-l’Orne, una località termale in Normandia: qui entrambi vengono misteriosamente assassinati.

Questa la versione ufficiale che compare su tutti i giornali italiani, compresa la «Gazzetta»: i due fratelli sarebbero stati nel mirino di un gruppo anarchico di Barcellona, per motivazioni legate all’impegno di Carlo nella guerra civile spagnola. Egli ha combattuto, infatti, in difesa della repubblica, diventando il comandante della colonna italiana. La realtà è ben diversa: si è trattato di un agguato organizzato dai servizi fascisti.

Nel 1945 si aprirà finalmente il processo per la morte dei Rosselli: gli esecutori dell’assassinio saranno individuati, sebbene mai precisamente identificati, tra i membri della Cagoule, un’organizzazione di estrema destra francese.

Il progetto di golpe contro Mussolini al Castello di Racconigi. Alberto Chiara su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2022.

Il 28 settembre 1938 l’esercito e la dinastia erano pronte a disarcionare il Duce. I dettagli vennero rifiniti nella località piemontese. Poi Badoglio fermò tutto. Lo racconta Regolo nel volume «Maria José, regina indomita» 

Sette punti fondamentali più dieci misure esecutive, da adottare appena le manette fossero scattate ai polsi di Benito Mussolini. Nel settembre 1938 l’Italia era pronta a disarcionare il Duce. Il golpe venne messo a punto nel Castello di Racconigi, in provincia di Cuneo. Quando avrebbe dovuto diventare operativo, come e con quali protagonisti lo svela Luciano Regolo, 55 anni, giornalista con un passato torinese, esperto di teste coronate, attuale condirettore di Famiglia Cristiana.

Nel suo ultimo libro, Maria José, regina indomita (Edizioni Ares), dedica un intero capitolo al colpo di stato, abortito all’ultimo, sulla base di testimonianze e di documenti inediti raccolti anche grazie alla storica Donatella Bolech Cecchi. «C’era una preparazione remota che gettava radici nell’aspra e sotterranea conflittualità tra Corona e fascismo, acuita dalla crescente aggressività di Berlino», spiega Regolo. Che precisa: «Le cose subirono un’improvvisa accelerazione il 24 settembre 1938, giorno in cui la Germania mandò un ultimatum alla Cecoslovacchia per l’immediato sgombero del territorio dei Sudeti. Venne organizzata una riunione coperta dal massimo riserbo per definire gli ultimi dettagli».

Dei risultati di quell’incontro Regolo pubblica un’ampia sintesi basandosi su materiale custodito al Foreign Office di Londra, il ministero degli Esteri del Regno Unito. In particolare c’è un rapporto dattiloscritto, classificato come «most secret» (segretissimo), datato 27 novembre 1939 e firmato da sir Miles Lampson, ambasciatore britannico al Cairo. Domenica 25 settembre 1938, a Racconigi, al meeting, si legge nella nota, presero parte, tra gli altri, il maresciallo Pietro Badoglio, allora Capo di Stato maggiore generale, e un «avvocato di Milano», leader dell’opposizione clandestina al regime fascista, la cui identità resta ancora incerta. Di Casa Savoia era attivamente coinvolta Maria Josè.

Il principe Umberto, fisicamente al Castello, per non compromettersi troppo decise di giocare con i bambini (all’epoca ai principi di Piemonte erano nati solo due dei 4 figli, Maria Pia e Vittorio Emanuele). 

Del re Vittorio Emanuele III la famiglia e l’entourage conoscevano l’avversione alla tracotanza fascista, ma la sua capacità a non far trasparire emozioni e sentimenti rendeva difficile, se non impossibile, stabilire cosa pensasse davvero. Il rapporto custodito a Londra, e pubblicato da Regolo, sintetizza così ore e ore di discussione.

Appena arrestato Mussolini, il re avrebbe abdicato subito; il principe ereditario avrebbe rinunciato ai diritti sul trono; il figlio di due anni (Vittorio Emanuele IV) sarebbe stato proclamato re; la principessa ereditaria sarebbe stata proclamata reggente durante la minore età del nuovo re: Badoglio avrebbe assunto temporaneamente i pieni poteri per mantenere l’ordine in tutto il Paese che sarebbe stato messo sotto la legge marziale; un nuovo governo si sarebbe costituito; tutto questo sarebbe stato imposto dalla forza dell’esercito.

Il programma del nuovo Governo si sarebbe dovuto sviluppare secondo le seguenti linee guida: scioglimento del Partito e del Parlamento Fascista; Mussolini e altri membri della sua famiglia sarebbero stati catturati e portati davanti a un tribunale penale per essere giudicati al pari di comuni ladri per aver distolto a scopi personali ingenti somme dal Tesoro dello Stato; legge d’indennità per tutti gli altri fascisti che avrebbero ufficialmente abbandonato il loro partito entro 24 ore e cessato ogni attività politica; dissoluzione della Milizia Fascista (Camicie nere) e l’immediata incorporazione nel Regio Esercito; tutti i miliziani che avrebbero rifiutato di assumere il proprio ruolo nel Regio Esercito entro sei ore sarebbero stati ritenuti ribelli; azioni militari contro costoro; ritorno alla Costituzione e alla Legge Fondamentale che garantisce la libertà a tutti i cittadini; importanti riduzioni delle tasse e numerose riforme sociali, economiche e morali; immediato ritiro delle truppe italiane dalla Spagna; alleanza con Inghilterra e Francia in caso di attacco della Germania alla Cecoslovacchia.

La guerra sembrava prossima. E i congiurati volevano far di tutto per evitare all’Italia un bagno di sangue. «Il 26 settembre il Principe Umberto formalizzò la sua rinuncia alla corona», puntualizza Luciano Regolo. «Il golpe vero e proprio, si convenne, avrebbe dovuto scattare alle 3 del mattino del 28 settembre». Il 27 settembre, la svolta.

«Al Castello di Racconigi, arrivò la notizia che nei giorni seguenti Mussolini avrebbe ordinato la mobilitazione generale immediatamente dopo la Germania e che il re si sarebbe rifiutato di firmarla, abdicando subito. Il maresciallo Badoglio impose un rinvio del colpo di stato che avrebbe dovuto cominciare a quel punto alle 3 del mattino del 29 settembre. Inutili le insistenze di Maria Josè e degli esponenti politici».

Il 28 settembre però Hitler annunciò, per il giorno seguente, a Monaco, un meeting con i premier di Gran Bretagna, Francia e Italia. Mussolini aveva già lasciato Roma con un treno speciale diretto in Germania. «Il conflitto pareva evitato; la pace, salva», conclude Regolo. «Il golpe venne archiviato. I congiurati lasciarono Racconigi dopo aver bruciato i documenti più compromettenti. Come si sa, tempo due anni scarsi e l’Italia fu inghiottita dalla Seconda guerra mondiale».

Così il Duce perse la guerra prima di averla iniziata. Matteo Sacchi il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

A "èStoria" Gianni Oliva e Marco Mondini parleranno della politica militare (disastrosa) del Fascismo.  

«Otto milioni di baionette», «libro e moschetto, fascista perfetto»: la retorica del fascismo sulla militarizzazione della Nazione italiana - una sorta di vera Italia fondata sulla resistenza sul Piave e sulla vittoria di Vittorio Veneto - è stata una delle componenti del Ventennio più studiate dagli storici. E caratterizzò i discorsi mussoliniani sin dalle origini, prima della Marcia su Roma di cui quest'anno ricorre il centenario. Eppure dopo anni passati al potere e dopo una politica muscolare, portata avanti in Etiopia, e nella Guerra di Spagna, il regime si presentò completamente impreparato al Secondo conflitto mondiale. Sono alcuni dei temi di cui si discuterà ad èStoria (27-29 maggio) - il festival di quest'anno ha come filo rosso «fascismi» - durante l'incontro dedicato a «L'apparato militare del Fascismo» che si terrà domenica a Gorizia con Marco Mondini e Gianni Oliva. Abbiamo intervistato in anteprima i relatori per capire questa contraddizione che ha portato l'Italia verso il disastro militare.

Ci spiega Marco Mondini, che insegna History of conflicts e Storia contemporanea all'Università di Padova, che l'origine della sconfitta italiana è radicata già nei primi passi del movimento fascista. «Il fascismo si pone da subito come un partito milizia. In contrapposizione con l'Italia delle fragilità parlamentari, delle sconfitte coloniali. Porta avanti una lotta all'antimito dell'Italia imbelle. Quindi una volta al potere i fascisti investirono moltissimo sull'educazione e sulla propaganda per la creazione di un italiano nuovo. Ma non funzionò davvero, fu innanzi tutto un fallimento pedagogico. Gli studenti nel 1915 risposero subito alla chiamata alle armi. Ma nel 1940 gli universitari di Roma protestarono per la sospensione dei rinvii per motivi di studio. Se a questo aggiungiamo che mancava una strategia operativa e che dal subitaneo bombardamento del porto di Genova ad opera dei francesi risultò chiaro come stavano le cose...».

Sullo stesso tema Gianni Oliva, autore tra gli altri saggi di La guerra fascista. Dalla vigilia all'armistizio, l'Italia nel secondo conflitto mondiale (Mondadori) chiosa: «Le forze armate garantirono al Regime tutto quello che serviva per la propaganda, tutto il supporto che il Duce voleva, su questo ci sono state sempre, ovviamente, però ne ottennero una sostanziale non ingerenza nelle loro scelte... E dei generali sganciati dalla politica spesso si muovono su percorsi che poco hanno a che fare con l'efficienza bellica. Faccio un esempio. Negli anni Trenta si ragionò moltissimo in Europa e non solo su come aumentare la mobilità delle truppe. In Italia si decise di occuparsi del tema facendo passare le divisioni da ternarie (su tre reggimenti) a binarie (su due reggimenti) ma la mobilità è data da quanti mezzi di trasporto hai... Però di sicuro con più divisioni più piccole aumentavano, di un terzo, i posti da generale di divisione».

Esisteva poi, spiega Mondini, una mancanza di visione strategica: «L'Italia nel 1940 entra in guerra male armata ma soprattutto senza idee e senza coordinamento, manca anche quello che si possa considerare un vero e proprio alto comando. C'è una sorta di diarchia Badoglio/Mussolini i cui effetti si videro ad esempio nella campagna di Grecia. Badoglio era il simbolo di una gerontocrazia militare. Attorno a Mussolini c'era invece molto dilettantismo. Basta pensare a Galeazzo Ciano e alla gestione dell'Albania e appunto della campagna di Grecia. Ma i problemi di pianificazione andavano anche oltre. Mancò completamente la capacità di mobilitare l'apparato industriale. Il governo liberale italiano nella Prima guerra mondiale, un governo molto rispettoso della proprietà privata, riuscì a far convergere gran parte delle imprese italiane verso lo sforzo bellico, le militarizzò. Col fascismo non accadde nulla di simile. Anche la macchina bellica nazista all'inizio del conflitto aveva grossi limiti, ma l'industria tedesca si piegò immediatamente alle esigenze del regime. In Italia non accadde nulla di simile».

Secondo Oliva: «Siamo entrati in guerra con 22mila automezzi di 11 marche diverse che è come dire che mancava qualsiasi idea di logistica. La guerra d'Etiopia aveva svuotato gli arsenali ed era stata uno sforzo enorme. Aggiungiamoci che si era sempre pensato ad una guerra difensiva. Mussolini ha giocato sul bluff e l'ha pagata carissima. La marina ad esempio non aveva mai pensato di dover operare contro la flotta inglese. Men che meno si è tentato di occupare subito i porti delle colonie francesi, che avrebbero consentito di rifornire molto meglio le forze italiane in Africa. Si è andati verso Nizza e la Savoia per questione di immagine. Mussolini era un abilissimo comunicatore ma non in grado di gestire scelte strategiche. Una delle poche mosse sensate invece, ovvero cercare di bloccare il canale di Suez fu affidata a un generale, Graziani, che veniva dalla vecchia guerra coloniale e non aveva idea della guerra di movimento. Fece cento chilometri mentre gli inglesi gli sfuggivano e poi si mise ad aspettare il genio per allungare la Via Balbia».

Responsabilità gravi del regime dovute anche ad una completa acquiescenza dei militari che, dopo la guerra, molti cercarono di far passare per un'altra cosa. «C'era un vuoto di cultura militare in Italia, non avevano capito la nuova guerra globale - ci dice Mondini - Dopo l'8 settembre molti generali dichiararono di essere stati quanto meno a-fascisti... Di aver protestato. Ma non lo fece davvero nessuno, o lo fecero a bassa voce o troppo tardi. A partire da Badoglio. Nessuno lasciò la poltrona».

Basta con le bugie sul colonialismo italiano in Africa! Di Emanuele Beluffi il 4 Maggio 2022 su Cultutaidentita.it.

Alberto Alpozzi è un fotografo-giornalista freelance specializzato in reportage in aree di crisi e fotografia per l’architettura. E’ stato in Afghanistan come fotografo embedded per documentare la missione Isaf, in Kosovo al seguito della K-FOR, in Libano e sulla nave Zeffiro della Marina Militare Italiana nell’ambito della missione Atalanta per l’antipirateria e ha fatto parte, unico italiano, della troupe tedesca della Bilderfest per la realizzazione del documentario Ustica. Tragedia nei cieli. Ha scritto il libro di ricerca storica Il faro di Mussolini. L’Opera coloniale più controversa e il sogno dell’Impero nella Somalia Italiana. 1889-1941 e insegna Fotografia al Politecnico di Torino, oltre ad aver tenuto vari corsi sull’argomento presso altri istituti fra cui l’Ufficio Comunicazione della Regione Militare Nord e istituzioni come la Marina Militare. Insomma, Alberto Alpozzi è un ricercatore, visivo e storico, che sa il fatto suo.

Eclettica Edizioni ha appena pubblicato Bugie coloniali 2. Il colonialismo italiano tra cancel culture, censure e falsi miti (Collana Secolo Breve, 2022, 187 pagine, 17 euro, secondo capitolo di una precedente opera sull’argomento) ed è un libro che tutti dovrebbero leggere, perché molti ne avrebbero bisogno, sia coloro che pensano di sapere già (cioè la vulgata storica unica), sia coloro che non ne sanno nulla (cioè quelli che si basano sulla vulgata storica unica).

Renzo De Felice diceva che «la storia si scrive cercando di capire le ragioni del tempo. Se no, si fa moralismo»: con questa citazione nell’introduzione al saggio di Alpozzi siamo già in medias res, perché sull’argomento colonialismo occorrerebbe fare chiarezza una vota per tutte. Già, “chiarezza”…dici facile, quando la guerra si combatte prima sui giornali (dice niente l’argomento di cronaca NATO/Russia/Ucraina?) e le informazioni sugli scenari bellici o sono scarse o sono filtrate dalle rispettive propagande.

Niente di nuovo sotto il sole: se non che, quando vai a toccare certi argomenti storici e osi fare il mestiere dello storico e del giornalista (cioè dubitare, verificare, controllare) rischi il bavaglio o il ruolo del reietto. Perché, come scrive l’autore, “La Storia non si basa più sulla ricerca, sulle fonti, sugli archivi, sull’analisi critica e comparativa ma è divenuta banale marketing tesa a diffondere preconcetti consolidati dai pregiudizi […]. La Storia è stata trasformata in pettegolezzo oltre ogni decenza e serietà pur di completare un’opera integrale di denigrazione che non trova eguali in nessuna altra nazione”.

Alpozzi non usa a caso il termine “marketing” applicato alla ricerca e alla divulgazione storica, perché dimostra, dati alla mano, come sul colonialismo italiano in Africa, i cittadini e i lettori siano ormai da decenni abituati ad associare, come il cane di Pavlov, immagini di malessere, infelicità, brutture, vuoto, a un determinato periodo storico, dipinto con parole truculente votata all’immaginifico dell’ultraviolenza, cioè occupazione, invasione, aggressione, violenza, massacri, sfruttamento, razzismo. Come un film horror, il lettore-cittadino ha uno schema mentale autoindotto dall’Ufficio Sinistri (questa è sottile!) per leggere e interpretare un fatto storico, nello specifico il colonialismo italiano in Africa appunto. Ma qual è la vera verità?

Ebbene, fonti alla mano, lo sapete che non è stato affatto il fascismo ad inventare le guerre e il razzismo? Che il cosiddetto “destino africano” lo inventano Crispi, Cavour, Bixio nell’800? Che gli italiani non hanno affatto schiavizzato i somali e che anzi attraverso leggi, interventi e controlli lo Stato vigilava affinché non vi fossero abusi e le leggi emanate venissero applicate? E che l’Italia fascista in Somalia ha proceduto con l’alfabetizzazione della popolazione e la costruzione di infrastrutture, costruito ospedali e luoghi di culto per tutte le confessioni religiose, cose che nessuno prima ha fatto? Altro che schiavitù inventata dai fascisti, altro che razzismo: come scrive l’Autore, “è sufficiente non essere totalmente a digiuno di basilari nozioni storiche per sapere come in Africa la tratta degli schiavi fosse il commercio più lucrativo che ci fosse e che per secoli aveva scoraggiato qualunque altra forma di commercio”.

Alla base del colonialismo italiano in Africa, al contrario, c’è un pensiero filosofico e umanistico preconizzato da pensatori in Europa come il giurista (nato e vissuto nell’800, giova specificare) Rudolph von Jhering, alla cui base è l’idea di una solidale cooperazione di forze tutte armonicamente convergenti al benessere collettivo, sia dei colonizzatori che degli indigeni. Scrive infatti Alpozzi: “Esistono ancora oggi profonde divergenze sulla legittimità o meno del colonialismo. Ma questa incongruenza deriva da una domanda anacronistica (e tendenziosa) che non tiene per nulla conto del concetto di civiltà e della sua esatta determinazione nell’epoca delle colonizzazioni. Tuttavia ancora c’è chi si ostina a giudicare e moraleggiare con l’attuale visione del mondo eventi e azioni delle quali non si conosce, o si fa finta di non conoscere, le motivazioni culturali, sociali ed economiche in seno alla quali maturò il loro svolgersi”.

Infatti la reductio ad hitlerum di idee che si discostano dal pensiero unico è la norma, oggi come allora. Dar di “fascista” e “razzista” è la reazione che tende a mettere la mordacchia a chiunque si ponga delle domande o presenti dubbi, con l’obiettivo di mantenere il lettore/cittadino nell’ignoranza, perché “le menti istruite non si possono controllare”.

Un problema che dalle parole passa ai fatti e non solo: si ripercuote anche sulle immagini. E nel libro di Eclettica, di foto, ce ne sono tante (88 per la precisione), compresa quella di copertina, una foto colorizzata che raffigura la prima adunata delle Truppe Coloniali per il Primo Annuale dell’Impero, con i Meharisti che sfilano davanti al Vittoriano di Piazza Venezia il 9 Maggio 1937: sì, perché la cancel culture di oggi, la censura dei social (mai nella storia dell’umanità, ad esempio, è accaduto che un gruppo editoriale decidesse di togliere per sempre la parola a un Presidente degli Stati Uniti, come hanno fatto con Trump) e di giornali e tv si trasforma nell’autodafè involontario di tutti noi, cioè nell’autocensura preventiva che ci fa dubitare se mettere o no quella foto, se usare o no quella parola, se indagare o no su quel fatto storico per capire se è davvero andata come ce la raccontano. Come suggerisce l’Autore del libro, questa situazione “è la figlia illegittima di un preoccupante programma, non troppo occulto, del controllo dei pensieri delle persone”.

Chiudono il volume un’interessante sezione sulla grafia e i significati dei termini coloniali (ad esempio, si dice ascaro o ascari? E il termine indigeno è veramente dispregiativo o non lo è affatto? [spoileriamo: non lo è affatto e mai lo fu]) e una sezione conclusiva su quel pogrom dimenticato della Libia, un drammatico evento che nessuno ricorda, o vuole ricordare, quando il 4 novembre 1945 i musulmani (a proposito, si dirà musulmani o mussulmani? Lo chiarisce la succitata sezione sulla grafia e i significati dei termini coloniali) attaccarono gli ebrei di Libia, che fino a quel momento avevano convissuto pacificamente per secoli con gli arabi. Anche sotto l’Italia.

Maria Antonietta Avanzo, la Baronessa sempre su di giri. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud il 25 aprile 2022.  

Forse il giorno che offrì le tuberose in pasto a Cheli e questa ne morì per l’indigestione o probabilmente per la difficoltà di metabolizzarle, la “baronessa” Avanzo salì velocemente in macchina e sprintò via dalla casa di Gabriele D’Annunzio con il quale “corrispondeva” e si vuole che sia stata una delle poche donne a non cedergli né concedersi.

Cheli era la tartaruga preferita dal Vate: gliene aveva fatto omaggio la marchesa Luisa Casati, l’estrosa nobildonna che passeggiava nuda sotto la pelliccia, con i pavoni al guinzaglio e un servitore con torcia vicino perché la illuminasse nelle notti nelle calli di Venezia dove era andata a vivere a Palazzo Venier che oggi è il Museo Guggenheim. Il Vate ne ordinò una scultura che partisse dal carapace di Cheli, (lo scultore e incisore Renato Brozzi, divenuto anche orafo personale del poeta, ne fece nel 1928 una tartaruga gigantesca che fu chiamata la “Meravigliosa Cheli”), la mise al posto d’onore in una sala da pranzo che chiamò la “sala della Cheli”, forse un monito subliminale a se stesso e agli ospiti che non peccassero d’ingordigia. Ne fece riprodurre anche piccoli ninnoli, uno dei quali donò al pilota Tazio Nuvolari, accompagnato da un biglietto autografo sul quale aveva vergato “all’uomo più veloce del mondo, l’animale più lento del mondo”.

La “Baronessa” tale non era per discendenza ma così veniva chiamata per l’eleganza nel vestire (pure al volante delle sue auto da competizione indossava cappelli a larga tesa) e per la ricchezza che le era venuta dal patrimonio terriero dei genitori, i Bellan di Contarina, come si chiamava a quei tempi d’inizio Novecento il territorio che oggi è il comune di Porto Viro nel Polesine, cioè sul delta del Po, cui aveva aggiunto quella di un altro proprietario terriero nel delta, Eustachio Avanzo, sposandolo.

I RITRATTI DI PIERO MEI

Se le mancava il titolo, non le mancavano, però, né l’ardimento che probabilmente affascinò D’Annunzio che la definì “Nerissima Nerissa, corritrice demoniaca”, né la velocità: Maria Antonietta, era questo il suo nome regale ma di una regalità piuttosto negativa e sfortunata, correva in automobile. Il che, a inizio Novecento, era del tutto inusuale per una donna (lo è ancora a inizio Duemila) e le donò un’aura femminista in tempi pionieristici dell’uguaglianza. Le donò anche la possibilità di filarsela a tutta velocità quando combinò il guaio delle tuberose e della tartaruga.

Guai ne aveva già combinati: a 13 anni si era infilata nel garage di famiglia, s’era messa al volante dell’auto di papà, un triciclo a motore di fabbricazione francese, un De Dion-Bouton, era uscita e, ancora maldestra alla guida, aveva investito il sindaco di Contarina, fortunatamente illeso.

Il ricco papà sistemò la faccenda e incoraggiò la passione motoristica della ragazza che, nel 1928, corse la Mille Miglia, la gara automobilistica su strada che era alla sua seconda edizione e che proponeva ai concorrenti un itinerario di 1600 chilometri circa, mille miglia appunto, che prevedeva la partenza e l’arrivo a Brescia e la discesa e risalita per l’Italia con vertice meridionale a Roma.

Maria Antonietta Avanzo era la prima donna a parteciparvi: lo fece su di una Chrysler 72, avendo come copilota Manuel de Teffè, barone brasiliano di grandi parentele e spirito artistico (il padre ambasciatore aveva in casa un Rembrandt, la zia, prima donna caricaturista al mondo, era anche divenuta First Lady a Rio che era allora capitale del Brasile). La “baronessa” e il barone non ebbero molta fortuna in gara: a Perugia la Chrysler li abbandonò e furono costretti al ritiro, il che mandò su tutte le furie Maria Antonietta perché nei resoconti stampa della corsa non era neppure citata.

Con la Mille Miglia, del resto, la pilota italiana non ebbe mai molto feeling: vi partecipò ancora nel 1929 su di una Alfa Romeo con Carlo Bruno, nel 1931 su di una Bugatti con Carlo Castelbarco e, per la quarta e ultima volta ancora su di un’Alfa Romeo, vettura ufficiale della Scuderia Ferrari, in coppia con Francesco Severi. Non ultimò mai le previste mille miglia, sempre costretta al ritiro. Era stata anche invitata a partecipare ai test pre-gara per la 500 miglia di Indianapolis: andò, ma non trovandosi bene con le macchine americane, non riuscì a qualificarsi e svanì così un’altra “prima volta” al femminile, che poi avvenne, con Janet Guithrie, nel 1977: ai box non trovò servizi igienici femminili!

Erano, questi delle Mille Miglia di Maria Antonietta Avanzo, anni d’una seconda carriera automobilistica della “Baronessa”, che a metà degli Anni Venti aveva preso i suoi due figli e, abbandonato Eustachio, era andata a vivere in Australia, portando scompiglio nella “buona società” di Sydney. Era una pilota conosciuta: nel 1919, trentenne, aveva partecipato con una vettura Spa, dono coniugale, a un Giro del Lazio, vincitrice della propria classe e terza assoluta; nel 1920 fu anche la prima donna al volante nella Targa Florio su di una Buick: l’aveva preceduta nella presenza nella corsa siciliana la francese Madame Le Blon (1906) che però era stata in gara solo come navigatore e meccanico del marito pilota che si era classificato sesto.

In quell’anno la Avanzo partecipò, con una Packard, a un chilometro lanciato in Danimarca, sull’isola di Fano: vinse la prima manche, ma durante la seconda la vettura prese fuoco; Maria Antonietta condusse la vettura a mare, spense il fuoco e si salvò a nuoto, il che piacque molto a Enzo Ferrari. Un buon piazzamento (terza) fu ottenuto dalla Avanzo in un circuito sul Garda, dove seguì da vicino al terzo posto il secondo arrivato, che era proprio Tazio Nuvolari.

Dopo le Mille Miglia di fine Anni Ruggenti, la “Baronessa” rallentò l’attività di pilota, pure se, cinquantenne, nel 1939 prese parte a una Tobruk-Tripoli, gara che era stata organizzata nella colonia italiana a fini propagandistici ed anche per sostituire la Mille Miglia sospesa dall’anno prima per un incidente avvenuto a Bologna, con una vettura finita sul pubblico, 10 morti e 23 feriti, tra le vittime 7 bambini. In Libia la Avanzo si classificò sesta.

Scoppiò la guerra e Maria Antonietta Avanzo si arruolò come crocerossina e prese il volante di ambulanze e camion. La passione per il volante non la abbandonò mai: nel 1956, a 67 anni, salì da sola in macchina ed andò al confine fra l’Austria e l’Ungheria per aiutare nell’accoglienza dei magiari che fuggivano davanti all’invasione dei blindati dell’Armata Rossa. Una piccola cosa per lei, che aveva ospitato in casa perseguitati ebrei durante la guerra ed aveva preso parte alla liberazione di Luchino Visconti quando il conte regista era stato catturato dalla banda Koch. Del resto con il cinema aveva ottimi rapporti: Roberto Rossellini era figlio di sua sorella Elettra e Maria Antonietta Avanzo lavorò con lui organizzando la produzione di “Stromboli”, il film che il regista girò con Ingrid Bergman subito dopo lo “scandalo”, mentre sull’isola di fronte Anna Magnani, la compagna abbandonata da Rossellini per l’attrice svedese, girava un suo film intitolato “Vulcano” ed a chi le chiedeva un commento sull’amore dirimpettaio rispondeva “Stro…mboli”, frenando vistosamente la voce dopo la “o”.

Violenze, bande e improvvisazione: l’ultimo capitolo fascista di Salò. AMEDEO OSTI GUERRAZZI su Il Domani il 16 aprile 2022.

Tra il settembre del 1943 e l’inizio di maggio 1945, centinaia di migliaia di italiani combatterono agli ordini di Mussolini una feroce guerra civile, causando migliaia di morti tra comuni cittadini e partigiani, e collaborando all’arresto e alla deportazione di qualunque chi si opponesse o non rientrasse nei canoni della “legalità” del nuovo stato fascista.

La rinascita del fascismo fu assolutamente caotica. Nell’autunno del 1943 il governo della Rsi esisteva solo sulla carta. Nelle città, invece, i fascisti erano tornati al potere, grazie all’aiuto tedesco, riaprendo le sedi e formando corpi armati autonomi.

La Rsi non fu, e non volle mai essere, uno “scudo” nei confronti della vendetta tedesca, non portò mai gli italiani a riscattare l’onore militare violato dall’armistizio, fu il tentativo di un regime moribondo di mantenere il proprio potere, attraverso una violenza selvaggia

Tra il settembre del 1943 e l’inizio di maggio 1945, centinaia di migliaia di italiani combatterono agli ordini di Mussolini una feroce guerra civile, causando migliaia di morti tra comuni cittadini e partigiani, e collaborando all’arresto e alla deportazione di antifascisti, renitenti alla leva, operai, ebrei e qualunque altra categoria di persone che si opponesse o non rientrasse nei canoni della “legalità” del nuovo stato fascista.

Non furono pochi, inoltre, i fascisti che pagarono con la vita questa loro ostinazione nel voler difendere un regime, e un uomo, chiaramente destinati alla sconfitta.

LA NASCITA DELLA RSI

La memoria di quest’ultima fase del fascismo ha spaccato la società italiana, che ancora oggi è profondamente divisa sul giudizio da dare alle ultime camicie nere.

La repubblica creata da Mussolini nel settembre 1943 (la Repubblica sociale italiana, Rsi), fu, come dicono i neo fascisti, una “repubblica necessaria”? Fu cioè uno “scudo” per limitare l’ira dei nazisti sdegnati dal “tradimento” dell’armistizio? Fu un ultimo tentativo di salvare l’“onore” del paese ferito, anch’esso, dal cambiamento di fronte dell’Italia monarchica guidata dal maresciallo Pietro Badoglio, come vogliono molti nostalgici del ventennio fascista? Oppure fu soltanto una marionetta nelle mani dei nazisti, un ultimo conato di pochi disperati condannati dalla società italiana e dalla storia, secondo l’interpretazione degli antifascisti?

 L’8 settembre, come è noto, venne reso noto l’armistizio, i tedeschi invasero il paese e Mussolini, liberato poche ore dopo dai nazisti, venne rimesso al potere da Hitler.

La rinascita del fascismo fu assolutamente caotica. Nell’autunno del 1943 il governo della Rsi esisteva solo sulla carta. Nelle città, invece, i fascisti erano tornati al potere, grazie all’aiuto tedesco, riaprendo le sedi e formando corpi armati autonomi.

Solo il 14 novembre il partito (che aveva preso il nome di Partito fascista repubblicano, Pfr), si riunì a Verona, per la sua prima assemblea nazionale. Dopo una confusa discussione, venne approvata una “Carta”, in quattordici punti, basata su un confuso programma “sociale” (da qui il nome della Repubblica), e sull’antisemitismo.

L’INIZIO DELLA GUERRA CIVILE

Soldati e lavoratori italiani applaudono alla notizia che l'Italia ha dichiarato guerra alla Germania, 24 ottobre 1943. (AP Photo/Bill Allen)

L’assemblea veronese venne interrotta dall’annuncio della morte di Igino Ghisellini, segretario federale del partito a Ferrara, i cui responsabili non furono mai trovati. La reazione dei fascisti fu immediata e brutale. Undici persone, il 15 novembre, furono fucilate e i cadaveri esposti davanti al Castello Estense.

La strage di Ferrara, pur non essendo la prima, viene comunemente indicata dagli storici come l’inizio della guerra civile. La violenza indiscriminata contro degli innocenti, l’inserimento nella lista delle vittime di due ebrei scelti in quanto tali, l’esposizione dei cadaveri, sono gli elementi che si ritroveranno in tutta la storia della Repubblica sociale italiana.

Già dai primi passi, dunque, la Rsi è contrassegnata dalla violenza e dall’odio. Odio nei confronti dei “traditori”, cioè tutti coloro che si rifiutavano di seguire il fascismo, che le camicie nere identificavano con la patria.

Già dal primo discorso tenuto a Monaco di Baviera subito dopo la sua liberazione, Mussolini aveva parlato di vendetta e di ritorno al combattimento. Ma vendetta contro chi? E contro chi combattere?

BANDE, LEGIONI E POLIZIE 

Il caos delle prime settimane aveva portato alla ricostituzione delle federazioni, alla cui testa si erano posti personaggi di secondo o terzo piano del passato regime, ex squadristi che, finita la guerra civile del 1921-1922, non avevano avuto quel ruolo e quel riconoscimento che ritenevano spettasse loro di diritto, oppure criminali comuni ed ex spie della polizia politica fascista.

Gente dal passato violento e spesso burrascoso, che adesso trovavano nella neonata repubblica l’occasione per carpire un po’ di potere e, soprattutto, sfogare la rabbia e la frustrazione accumulate in vent’anni.

A questi improvvisati dirigenti si unirono ragazzi, a volte giovanissimi, imbottiti di ideologia, nati e cresciuti all’ombra del fascio littorio e impazienti di “fare qualcosa” per la patria in pericolo. Fu questa la base di massa del fascismo repubblicano, che andò a riempire i ranghi delle innumerevoli “bande”, “legioni” e “polizie federali” più o meno improvvisate, che scatenarono la guerra civile. Alcuni di loro, addirittura, si arruolarono nelle Ss, andando a formare una Brigata italiana del “corpo nero”.

LA RENITENZA ALLA LEVA

Il ministro della difesa, il maresciallo Rodolfo Graziani, il generale fascista che aveva commesso alcuni tra i più atroci crimini di guerra dell’Italia fascista in Africa, tentò vanamente di organizzare un esercito “apolitico” che tornasse a combattere al fronte contro gli angloamericani. I risultati furono deludenti.

Le prime reclute furono racimolate tra i soldati internati dai tedeschi l’otto settembre. Poi, una serie di bandi di leva avrebbero dovuto riportare gli italiani al combattimento, ma la risposta a essi fu inequivocabile. Il tasso di renitenza, e poi di diserzione, fu altissimo. Graziani fu in grado di organizzare appena quattro divisioni di fanteria, raccogliticce e male armate che, a parte poche centinaia di uomini, non affrontarono gli Alleati sulla linea Gotica, ma vennero impiegate contro i partigiani.

IL RIFIUTO DEGLI OPERAI

Anche i tentativi di ottenere un minimo di consenso da parte della classe lavoratrice, attraverso i progetti di “socializzazione” delle fabbriche, secondo i dettami della Carta di Verona, si rivelarono un fallimento. Gli operai, dopo venti anni di feroce dittatura di classe, non ne volevano più sapere né di Mussolini, né del suo fascismo “sociale”. I grandi scioperi del marzo 1944 dimostrarono, al di là di ogni dubbio, da che parte stavano gli operai.

Il rifiuto da parte dei lavoratori di seguire i progetti sociali del fascismo, la renitenza endemica alla leva, la Resistenza partigiana, furono tutti elementi che dimostrarono ai fascisti che gli “italiani”, in generale, non erano più degni del fascismo.

Il risultato fu, a partire dall’estate del 1944, l’inasprimento della violenza fascista. Le operazioni contro i partigiani diventarono sempre più violente, le stragi contro i civili sempre più frequenti, le deportazioni di antifascisti, lavoratori ed ebrei sempre più numerose.

UNA GUERRA CONTRO LA POPOLAZIONE

In breve, la guerra civile non fu, come scritto da autorevoli storici, un fatto limitato ai partigiani e ai fascisti, ma coinvolse (volente o nolente) l’intera popolazione italiana, considerata dalle camicie nere come “traditrice” e indegna di far parte del “Nuovo ordine europeo”, sognato da Hitler e appoggiato da Mussolini.

Non si trattava quindi di “patriottismo”, ma di una “guerra tra l’Europa”, cioè i fascisti e i nazisti, e l’Antieuropa slava, bolscevica, giudea e anglosassone. La fine ingloriosa del duce, fucilato a Giulino di Mezzegra il 28 aprile 1945, dopo essere stato scoperto e arrestato sulla via della fuga in Svizzera, concluse nel sangue una storia che del sangue aveva fatto la sua caratteristica principale.

COSA FU LA RSI?

La Rsi non fu, e non volle mai essere, uno “scudo” nei confronti della vendetta tedesca, non portò mai gli italiani a riscattare l’onore militare violato dall’armistizio, fu il tentativo di un regime moribondo di mantenere il proprio potere, attraverso una violenza selvaggia le cui conseguenze non sono ancora del tutto estinte.

L’eredità avvelenata della Repubblica sociale e del neofascismo ha segnato le violenze del dopoguerra, giungendo all’apice con la “stagione delle stragi” (si pensi a piazza della Loggia o piazza Fontana), e con la strage di Bologna. L’odio verso la democrazia ha continuato a nutrire il neofascismo che ha continuato, come unica strategia, quella di colpire gli italiani.

AMEDEO OSTI GUERRAZZI. ​​​​​​Storico, svolge attività di ricerca presso la Fondazione Museo della Shoah di Roma e collabora con l’Istituto storico germanico di Roma. Nei suoi studi si occupa di storia del fascismo, dedicando particolare attenzione alle forme assunte dalla persecuzione antiebraica, ai campi di concentramento attivi sul territorio italiano, alle strategie di repressione messe in atto durante l’occupazione della Slovenia e alle vicende della Repubblica sociale italiana.

I luoghi di memoria, da simboli della comunità a monumenti del trauma. ELENA PIRAZZOLI su Il Domani il 16 aprile 2022

Dalla sua formulazione a oggi, il concetto di “luogo di memoria” ha vissuto una rilevante trasformazione di significato, nata dall’uso e dalle esigenze del presente. Quello che era un paradigma storiografico ha preso corpo tangibile – ed esperibile – nell’uso pubblico, mettendo il luce il profondo legame tra la memoria di eventi violenti e il luogo dove sono accaduti.

Sono, ad esempio, luoghi della memoria italiani la marcia su Roma, la guerra di Spagna, le leggi razziali, Predappio, Mussolini, Matteotti, il 10 giugno (1940, l’entrata in guerra dell’Italia), la guerra di Grecia, la ritirata di Russia, il 25 luglio (1943, la caduta del fascismo e la deposizione del duce), l’8 settembre (1943, giorno della comunicazione pubblica dell’armistizio firmato dal governo Badoglio), la Repubblica sociale italiana, la Resistenza, Piazzale Loreto.

Luoghi del trauma, prima che della memoria: la loro trasformazione in monumenti ha tempistiche e modalità differenti, legate anche alla progressiva presa di coscienza di cosa vi era avvenuto. Una consapevolezza spesso arrivata solo dopo una lunga e complicata stagione processuale, giunta fino a oggi.

ELENA PIRAZZOLI. Ricercatrice indipendente, collabora con l’Università di Colonia, la Fondazione Villa Emma di Nonantola, la Scuola di Pace di Monte Sole, il Museo Ebraico di Bologna, Home Movies – Archivio Nazionale del Film di Famiglia e la compagnia teatrale Archivio Zeta. Tra le sue pubblicazioni, la monografia A partire da ciò che resta. Forme memoriali dal 1945 alle macerie del Muro di Berlino, Diabasis, Reggio Emilia 2010 e la curatela di Teatro di Marte. Il Cimitero militare germanico del passo della Futa, Archiviozeta, Firenzuola (FI) 2019.

Il 6 marzo del 1933 Hitler vince le elezioni, Canosa progetta il ponte.

Il 6 marzo 1922 «Il Corriere delle Puglie», antenato de «La Gazzetta del Mezzogiorno», non va in stampa, come ogni lunedì. Scopriamo, così, quel che accadde oggi, nel 1933. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Marzo 2022.

Il 6 marzo 1922 «Il Corriere delle Puglie», antenato de «La Gazzetta del Mezzogiorno», non va in stampa, come ogni lunedì. Scopriamo, così, quel che accadde oggi, nel 1933.

Grande vittoria dei nazional-socialisti nelle elezioni al Reichstag

Di storica importanza è la notizia che oggi «La Gazzetta del Mezzogiorno» riporta in prima pagina: la vittoria schiacciante dei nazional-socialisti alle elezioni svoltesi in Germania. Hitler, cancelliere del Reich, è stato confermato con circa il 44% delle preferenze: «Il numero dei voti ottenuto dai nazional socialisti è raddoppiato nell’alta e bassa Baviera e nel Wurtemberg in confronto alle elezioni del novembre 1932».

Come si era giunti a questo? In seguito alla sconfitta nella Grande guerra, in Germania si erano progressivamente affermati i partiti nazionalisti e di ultradestra. La sera dell’8 novembre 1923 Adolf Hitler, leader di una formazione politica nata tre anni prima, convinto di poter sfruttare il diffuso malcontento, mise in atto un colpo di stato in Baviera. Fallita l’operazione, fu arrestato e condannato a cinque anni di carcere per alto tradimento: scontò solo nove mesi, durante i quali scrive il suo manifesto politico, il Mein Kampf. Dieci anni dopo riuscì a farsi nominare Cancelliere del Reich e diede inizio alla repressione delle opposizioni, riuscendo ad attribuire ai comunisti la responsabilità dell’incendio del Reichstag del 27 febbraio 1933.

Il grande successo elettorale – di cui anche la «Gazzetta», così come le testate di tutto il mondo, dà notizia – porterà il führer a sospendere ogni garanzia democratica e a instaurare un regime totalitario.

La storia del Novecento non sarà più la stessa a partire da quel 6 marzo 1933. 

Progetto per un ponte sull’Ofanto presso Canosa

Sulla «Gazzetta» è presentato il progetto di un ponte in cemento armato ad otto campate da costruirsi a Canosa, sul fiume Ofanto. Esso dovrebbe sorgere a circa 300 m dal ponte romano, che nel marzo 1933 è ancora carrabile e teatro di continui disordini e incidenti a causa del «tumultuoso traffico stradale». La nuova infrastruttura potrà finalmente migliorare le comunicazioni tra la provincia barese e la Capitanata, ma soprattutto consentirà di preservare il ponte a cinque archi, di età traianea, adesso dichiarato monumento nazionale: «La rivalutazione e la conservazione del nostro ricco patrimonio archeologico è tra i maggiori obiettivi del governo fascista», leggiamo sul «Corriere». Il recupero del mito della Roma antica e imperiale, lo sappiamo, è funzionale al rafforzamento della dittatura di Mussolini.

Quel 1922 «d’oro» per il Petruzzelli. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Marzo 2022.

Da cinque giorni si è riaccesa la questione fiumana: il governo guidato dal leader del movimento autonomista Riccardo Zanella è stato violentemente rovesciato con un atto di forza da ex-legionari e fascisti. L’intenzione dei rivoluzionari sembra essere quella di ripercorrere la celebre impresa di D’Annunzio e procedere all’annessione diretta all’Italia della città di Fiume. Tuttavia sulla prima pagina del «Corriere delle Puglie» del 7 marzo 1922 si mette in luce un grosso ostacolo: il governo rivoluzionario ha assunto i pieni poteri a Fiume ma non può essere riconosciuto da Roma, non essendo stato legalmente eletto. Occorrerà, dunque, che il popolo si esprima democraticamente: solo così si potrà instaurare un dialogo istituzionale tra le parti.

Al Teatro Petruzzelli è giunta all’ultimo appuntamento di Carnevale la stagione di opere liriche, dirette dal maestro Edoardo Vitale. Con una programmazione eccezionale, dal «Boris Godunov» all’«Andrea Chénier», il politeama barese si è ormai assestato ad un livello degno dei maggiori teatri del Paese: «Il pubblico nostro ha la religione del teatro, sente per istinto che il teatro è l’indice di civiltà di un popolo e ha bisogno della sua stagione lirica ogni anno», sono le parole del giornalista del «Corriere delle Puglie». Il critico musicale, tuttavia, fa il suo mestiere e non risparmia piccole critiche alla cura, a suo parere non sempre impeccabile, dei costumi di scena. L’ultima dell’«Andrea Chénier» è stata, ad ogni modo, un grande successo: ovazioni e lunghi applausi per il Maestro Vitale, il tenore Bernardo De Muro e il soprano Mary Roggero.

Nel Teatro Apollo del capoluogo salentino si è svolto un convegno dedicato alla discussione sulle nuove imposte sul vino. Importanti sono i nomi dei partecipanti, provenienti dall’intera regione adriatica: l’on. Tamborrino, sindaco di Maglie, il socialista on. Felice Assennato, il prof. De Viti De Marco.

Il celebre economista salentino ha dominato il dibattito, mettendo in luce i gravi danni che una tassazione ulteriore avrebbe sicuramente portato all’economia regionale e non solo. De Viti De Marco, docente di scienza delle finanze a Macerata e Pavia, nel 1931 rifiuterà di giurare fedeltà al regime fascista e, per questo, dovrà rinunciare alla sua cattedra a Roma. Si ritirerà, così, a vita privata ma non smetterà di dedicare i suoi studi alla difesa degli interessi del Mezzogiorno.

Dal «disordine» di Fiume al profilo di Mazzini firmato da Delfino Pesce. Due pagine di storia pubblicate sul "Corriere delle Puglie". Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Marzo 2022.

I provvedimenti del Governo italiano per ristabilire l’ordine a Fiume - Con il Trattato di Rapallo del 1920 la città di Fiume era diventata Stato libero e indipendente, retto da un governo presieduto dal leader del movimento autonomista Riccardo Zanella. Nel marzo 1922 repubblicani, fascisti ed ex-legionari con un’azione di forza hanno costretto alle dimissioni il governo autonomo. «Il Corriere delle Puglie» del 5 marzo 1922 pubblica in prima pagina i comunicati del Comitato di difesa nazionale, che ha assunto i pieni poteri a Fiume e intende procedere all’annessione definitiva all’Italia. Mussolini, che già aveva appoggiato D’Annunzio nella sua epocale impresa del 1919, ha naturalmente invitato i fascisti a sostenere la causa. Da Roma il capo del governo, Luigi Facta, ha nominato l’on. Castelli ministro plenipotenziario del governo italiano a Fiume: si attendono ulteriori provvedimenti. 

Giuseppe Mazzini - L’elzeviro in terza pagina è firmato da Piero Delfino Pesce. Il «Corriere delle Puglie» ha affidato all’intellettuale repubblicano di Mola un ritratto in quattro puntate di Giuseppe Mazzini, in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte. Nato nel 1874, Pesce era stato allievo di Giovanni Bovio a Napoli, aveva fondato la rivista d’arte «Aspasia» e si era distinto in diverse battaglie civili nel ruolo di consigliere provinciale del mandamento di Mola di Bari. L’apporto più grande allo sviluppo della coscienza democratica nel Mezzogiorno lo diede, però, con la creazione della casa editrice e poi del settimanale «Humanitas», in cui trovavano spazio voci diverse del panorama intellettuale nazionale. «Fiero oppositore del fascismo», come lo definì Tommaso Fiore, fu arrestato nel 1922 e continuò costantemente ad essere perseguitato dal regime, tanto da essere costretto a chiudere l’esperienza di «Humanitas».

Dopo anni di forzata inattività, si dedicò ininterrottamente alla scrittura per il teatro fino alla sua morte, avvenuta nel 1939.

Nel primo dei quattro articoli commissionati dal «Corriere», Pesce, analizzando la concezione morale nel pensiero mazziniano, conclude: «dopo cinquant’anni dalla sua morte l'umanità torna a Mazzini reverente e desiderosa: non paia strano che volgono a lui uomini di tutte le fedi religiose e politiche».

Assedio a Fiume: cade il governo. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Marzo 2022.

A Fiume i zanelliani assediati alzano bandiera bianca. La questione di Fiume continua ad essere al centro dell’attenzione. Nella notte del 2 marzo 1922, circa duecento tra fascisti e legionari, attaccato il Palazzo del governo, hanno proclamato l’annessione della città libera all'Italia. Il governo di Riccardo Zanella, leader del movimento autonomista, è definitivamente rovesciato. «Il Corriere delle Puglie» riporta la notizia che Zanella sarebbe stato tratto in arresto dai Carabinieri fiumani.

Sono giunte in redazione lettere di protesta da parte di alcuni padri in merito ad ingiustizie patite dalle proprie figlie. Costoro, allieve della “scuola normale”, sarebbero costrette dalla propria insegnante di ginnastica a mandare a memoria un numero eccessivo di regole, contenute in un grosso volume «noioso e antipatico come un libro di scienze astratte». La professoressa sembra aver dimenticato che «l’insegnamento della ginnastica debba servire a ridare il beneficio dell’aria aperta e del moto salutare ai corpi delle discenti rinchiuse in aule anguste e affollate», si lamentano i genitori. «Il Corriere» dà spazio alla polemica e afferma la necessità di riformare i programmi delle “scuole normali”. Questo tipo di scuola fu istituito, per formare maestri e maestre, dalla legge Casati nel 1859: si trattava di un corso triennale di studi, cui si poteva accedere, superando un esame di ammissione, a 15 anni per le donne e a 16 per gli uomini. Con la riforma Gentile del 1923 la scuola normale fu sostituita dall’istituto magistrale, della durata di 7 anni.

Si è rischiata una tragedia a Bari, in via Marchese di Montrone, dove ha sede il Partito nazionale fascista. Mentre alcuni esponenti erano in attesa dell’on. Caradonna, dalla terrazza dell’albergo Cavour sono caduti alcuni calcinacci. I fascisti, «giovani sempre baldi e pronti a reagire» riporta con una certa ironia il cronista del «Corriere», hanno creduto che si volesse attentare alle loro vite. Subito, si adoperano per organizzare una spedizione punitiva contro ignoti. Per il trambusto dalla Questura è accorso il vicecommissario Maiorana, accompagnato da alcuni agenti: con il suo intervento egli è riuscito a dimostrare ai reattivi componenti del fascio che la caduta era da imputare non a misteriosi attentatori, ma allo stato di degrado del palazzo. «E dopo tali assicurazioni, la calma ritornò negli animi dei fascisti»

Assalto fascista a Fiume e nel Barese imperversa la «banda di Carbonara». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Marzo 2022.

Il 3 marzo 1922 la situazione politica italiana, con l’insediamento del governo Facta e il superamento di alcune crisi iniziali, sembra essersi stabilizzata. In prima pagina sul «Corriere delle Puglie», compare, però, una notizia importante, per comprendere la quale occorre fare un passo indietro.

Al termine della Prima guerra mondiale, l’Italia, in contrasto con il Patto di Londra che l’aveva assegnata alla Croazia, aveva manifestato la volontà di annettere la città di Fiume. Il Consiglio nazionale fiumano aveva proclamato l’annessione ma alla Conferenza di pace di Parigi era stato deliberato lo scioglimento del Consiglio e della Legione dei volontari fiumani.

Era iniziata, dunque, nel settembre 1919, l’occupazione da parte di alcuni militari ribelli, guidati dal poeta-vate Gabriele D’Annunzio, che si era assicurato anche il sostegno di Benito Mussolini. Nel 1920 il trattato di Rapallo, però, dichiarò Fiume «Stato libero e indipendente» e, dopo duri scontri, D’Annunzio era stato costretto ad arrendersi.

Il nuovo governo fiumano, guidato dal leader del movimento autonomista Riccardo Zanella, tuttavia, era costantemente sotto la minaccia di nuovi attacchi da parte di legionari fascisti. Il 2 marzo 1922, infatti, sono proprio i fascisti ad assalire il Palazzo del Governo: secondo alcune fonti riportate dal «Corriere delle Puglie», Zanella avrebbe abbandonato la città.

La banda ladresca di CarbonaraUn «romanzesco inseguimento» si è svolto il 2 marzo 1922 tra gli agenti di pubblica sicurezza e un gruppo di ladri, che si era fatto notare per una serie di furti avvenuti nelle buie campagne del territorio di Carbonara.

In quella zona i malintenzionati a lungo avevano potuto agire indisturbati, favoriti dallo stato delle strade e dall’oscurità, che rendevano difficile la sorveglianza da parte delle forze dell’ordine. Nel 1922 Carbonara è ancora un Comune autonomo, dotato di sindaco, consiglio e giunta municipali. Nel 1928, però, con decreto reale sarà aggregata al municipio di Bari, che darà vita alla frazione di Carbonara-Ceglie. Dopo vari tentativi riacquisterà l’autonomia da Ceglie del Campo, ma nel 1970 Carbonara sarà ridimensionata a livello di quartiere.

La «banda di Carbonara», di cui leggiamo sul «Corriere delle Puglie» del 3 marzo 1922, avrebbe continuato ancora a lungo le proprie malefatte: alla fine solo uno dei numerosi componenti, accusato di aver rubato tre mule da una stalla, è catturato dagli agenti di pubblica sicurezza.

Nel ‘44 la Puglia cuore della libertà. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Febbraio 2022.

BARI - l 20 febbraio 1922 «Il Corriere delle Puglie», antenato de «La Gazzetta del Mezzogiorno», non va in stampa, come ogni lunedì. Scopriamo, così, quel che accadde oggi, 20 febbraio, nel 1944. I PROVVEDIMENTI DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI -Nel febbraio 1944 a capo del Governo è il maresciallo Pietro Badoglio. A lui il Re ha affidato la guida del Paese dopo la caduta del regime di Mussolini. Vittorio Emanuele III considerava Badoglio l’uomo giusto per uscire dal fascismo senza dare troppo spazio alle forze antifasciste, il cui troppo veloce ritorno nello spazio po- litico avrebbe potuto essere pericoloso per la monarchia. Dopo la firma dell’armistizio con gli Alleati anglo-americani, Badoglio e la famiglia reale sono fuggiti da Roma: il 10 settembre si sono rifugiati a Brindisi, dove si è costituito il Regno del Sud. Negli stessi giorni gli Alleati sbarcavano a Taranto e poi nel resto della regione. È la Puglia, quindi, nel febbraio ‘22, il centro dell’Italia liberata: sulla prima pagina del «Corriere» si riportano alcune decisioni del Consiglio appena insediatosi, dopo la promozione dei sottosegretari al ruolo di Ministri del Regno del Sud. L’ESEMPIO DI BARI -Il trafiletto, sempre in prima pagina, riporta con orgoglio le parole pronunciate da Candidus, il leggendario commentatore di Ra- dio Londra, cioè l’insieme dei programmi radiofonici trasmessi dall’inglese BBC e indirizzati alle popolazioni europee continentali. «Candidus - si scrive sul Corriere – in - dica radio Bari e la stampa di Bari come esempi di libertà e di democrazia in atto. L’una e l’altra, infatti, possono accusare il re di fascismo e i singoli rappresentanti di tutti i partiti, dal liberale al comunista, possono esprime- re le loro idee. Infatti, mentre nell’Italia centro-settentrionale e negli altri Paesi occupati dai nazifascisti ancora si applicano i metodi dei regimi dittatoriali, Bari vive un dopoguerra anticipato ed è ormai il centro editoriale dell’Europa libera. Dopo vent’anni di silenzio, nel capoluogo si stampano le testate legate ai diversi partiti che si stanno ricostituendo in questi mesi. Ma non solo: in via Putignani ha sede la redazione di Radio Bari, ai cui microfoni parlano politici di ogni schiera- mento e si sostiene la lotta armata in atto nel Centro-Nord e nell’area balcanica, diffondendo messaggi in codice e informazioni strategiche. Il 28 e 29 gennaio 1944, inoltre, nel Teatro Piccinni si è tenuto il I Congresso dei Comitati di liberazione nazionale, la prima riunione di tutti i partiti antifascisti, cui hanno partecipato anche Benedetto Croce e il conte Sforza. Da questa parte il nuovo mondo che sorge, dall’altra il vecchio mondo che muore, conclude «Il Corriere delle Puglie»

Alessandro Gnocchi per "il Giornale" il 6 marzo 2022.

Inutile parlare di memoria condivisa. Tempo sprecato. Una parte di italiani minoritaria, ma influente nel mondo della cultura, si rifiuta di accettare alcune verità comprovate. (…) Un ruolo fondamentale nella divulgazione, ma spesso anche nella scoperta, di questi fatti è stato ricoperto da Giampaolo Pansa, un maestro di giornalismo, un tipo che andava, non solo metaforicamente, dove i colleghi non volevano o non sapevano andare. Inutile elencare le inchieste, le interviste e gli scoop. 

Era anche un uomo prodigo di consigli con i giornalisti più giovani. Pansa e «la Grisendi» cioè la moglie Adele, erano una coppia formidabile. Giustamente tocca proprio «alla Grisendi» l'introduzione al libro di Giampaolo Pansa, Non è storia senza i vinti. La memoria negata della guerra civile (Rizzoli). Un volume prezioso e intelligente. L'antologia di pagine di Pansa è accompagnata da una parte di articoli e recensioni suscitate dal Sangue dei vinti e dai successivi titoli.

L'aggressione, non soltanto a parole, che dovette subire Pansa è indecorosa. Per che cosa poi? Per aver raccontato i venti mesi terribili della Guerra civile restituendo voce agli sconfitti. Non era una novità in assoluto ma questa volta la storia degli eccidi partigiani arrivava da un famoso e rispettato uomo di sinistra quale era Pansa; e lo stile accattivante, lontano dal «professorese», conferiva una forza micidiale alle storie. Il sangue dei vinti fu un bestseller e aprì un confronto sui grandi media. Fu dunque un salutare risveglio per le sonnolente coscienze italiane. 

A Pansa ne furono dette di tutti i colori. Fu definito dilettante, falsario, copione e infine gli fu rivolta l'accusa delle accuse, quella che serve a buttare fuori dal dibattito pubblico chi non si conforma alla vulgata: fascista. (…)

Tra i primi ad accorgersi della novità «scandalosa» del romanzo I figli dell'Aquila, che scoperchiava le storie dei repubblicani fedeli a Mussolini, ci fu Edmondo Berselli: «e per molti (...) parlare di guerra civile comporta ancora una intonazione inaccettabile, l'infrazione rispetto a una ortodossia, al monumento resistenziale, tragico ed eroico, che "fonda" la Repubblica». Pansa riteneva che anche le storie dei vinti dovessero far parte del patrimonio comune: altrimenti la Repubblica avrebbe mostrato le sue fragili radici. Nel volume si alternano voci pro e contro, segnaliamo le puntuali recensioni di Pierluigi Battista, le interviste a Marco Tarchi e Giano Accame, le interviste a Pansa (da leggere quella firmata da Pietrangelo Buttafuoco) e gli interventi, tra gli altri, di Francesco Cossiga e Francesco Perfetti.

Da "Libero quotidiano" il 6 marzo 2022.  

Per gentile concessione dell'editore Rizzoli pubblichiamo un estratto del libro di Giampaolo Pansa «Non è storia senza i vinti» (si tratta di un articolo pubblicato su Libero l'8 febbraio 2014) in libreria da oggi.

Per vent' anni, dal 1922 al 1943, tutti gli italiani sono stati fascisti, hanno adorato Benito Mussolini, gli hanno obbedito e si sono fatti accoppare per lui. Fino alla notte del 25 luglio, quando un gruppo di gerarchi, e non un'insurrezione popolare, mandò a gambe all'aria il Duce. Nel mio piccolo, sono stato anch' io un fascista, essendo venuto al mondo il 1° ottobre 1935, in pieno regime mussoliniano. Il giorno successivo alla mia nascita, la sera del 2 ottobre, dal balcone di palazzo Venezia, il Duce annunciò all'Italia di aver dichiarato guerra all'Etiopia.

Per volere di Benito, il discorso venne trasmesso in tutto il Paese, nelle piazze dove milioni di persone stavano in religiosa attesa del suo verbo. Tra i tantissimi raccolti nella piazza principale della nostra città, piazza del Cavallo, doveva esserci anche mio padre Ernesto, operaio delle Poste con la mansione di guardafili del telegrafo. E in quanto dipendente statale precettato per l'adunata in onore dell'attacco al maledetto Negus, al secolo Hailé Selassié. Però mio padre in piazza non ci andò. Gli era appena nato un figlio, il primo, e questo evento gli sembrava un motivo più che valido per restare accanto alla moglie, mia madre Giovanna.

LA NASCITA Il giorno successivo, era il 3 ottobre, due della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale si presentarono in casa nostra e chiesero a Ernesto perché mai non fosse andato anche lui in piazza ad ascoltare il Duce. 

Mio padre spiegò che gli era appena nato un figlio. «Maschio o femmina?» domandarono i militi. «Maschio» rispose Ernesto. E i militi, una coppia di bonaccioni in divisa e camicia nera, si congratularono: «Ottimo! Anche lui diventerà un soldato della Patria fascista». A vestire la divisa di soldato del Duce non feci in tempo perché il regime cadde molto prima. In compenso, il 1° ottobre 1941, giorno del mio sesto compleanno, divenni un Figlio della Lupa. Era il gradino iniziale della scala inventata per la gioventù del regime. A sette anni, in seconda elementare, si restava sempre Figli della Lupa. A otto si diventava Balilla. Si chiamava «Balilla» anche il giornaletto che leggevo, una specie di concorrente del «Corrierino dei piccoli». Lì avevo imparato chi erano i nemici dell'Italia. Re Giorgetto d'Inghilterra. Il ministro Ciurcillone. Rusveltaccio Trottapiano, presidente americano, che ubbidisce alla signora, la terribile Eleonora.

Ma i più pericolosi erano i russi che si ammazzavano tra di loro. Il terribile Stalino, l'Orco rosso del Cremlino, dice urlando come un pazzo alle guardie del palazzo: i compagni qui segnati siano tutti fucilati! Nell'estate del 1943, conclusa la seconda elementare, i miei genitori decisero di mandarmi alla colonia montana delle Regie Poste di Alessandria. Era un luogo triste, nascosto fra alture basse vicine a Biella, dove pioveva sempre. Le giornate si aprivano con l'alza bandiera e la preghiera del Balilla, recitata a turno da uno dei ragazzini: «Signore, benedici il Duce nostro nella grande fatica che Egli compie. E poiché l'hai donato all'Italia, fallo vivere a lungo per la Patria e fa' che tutti siano degni di lui...». Ogni mattina, dopo il caffellatte, cominciava l'ora di dottrina fascista. Ed era l'unica vera attrazione della giornata. Il merito andava all'insegnante: una ragazzona maestosa, un trionfo di capelli rossi e un seno stupefacente, figlia del capostazione della nostra città.

E per tenerci a bada, escogitava ogni giorno una preghiera per il Duce. A me ne toccò una che recitava: «Gioventù italiana di tutte le scuole, prega che la Patria non manchi al suo radioso avvenire. Chiedi a Iddio che il ventesimo secolo veda Roma centro della civiltà latina, dominatrice del Mediterraneo, faro di luce per le genti del mondo».

Un mese dopo, era la fine del luglio 1943, tutto sembrò sparire con la caduta del Duce. In piazza si videro molte manifestazioni di giubilo, ma la maggior parte della gente se ne restò a casa. La guerra iniziata nel 1940, e i tanti ragazzi morti su troppi fronti, stavano allontanando dal fascismo un numero sempre più grande di italiani. Ma nessuno aveva il coraggio di riconoscere di essere stato un fascista senza pentimento. E di aver sostenuto con entusiasmo un regime che adesso ci aveva portato al disastro. Il nostro fascismo esistenziale lo si constatò sino in fondo in due momenti terribili che confermarono la natura crudele della dittatura di Mussolini.

LE LEGGI RAZZIALI Il primo, nel 1938, fu il varo delle leggi razziali contro gli ebrei. Il secondo l'inizio delle deportazioni nei campi di sterminio nazisti di migliaia di israeliti, quando l'Italia del Centro e del Nord stava sotto la Repubblica sociale, un regime sostenuto dai tedeschi. 

Nella mia piccola città, gli ebrei perseguitati e poi uccisi nelle camere a gas li conoscevamo tutti. Erano nostri vicini di casa, insegnanti nelle nostre scuole, medici che ci avevano curato, clienti della modisteria di mia madre. Ma nessuno aprì bocca. Pochi li compatirono. Pochissimi gli offrirono un aiuto. Quando ci ripenso oggi, mi rendo conto di una verità terribile.

Pure in casa mia, dove ogni sera si discuteva di tutto, della guerra, del fascismo, di Mussolini e dei suoi gerarchi, della Repubblica sociale e dei tedeschi, nessuno disse anche una sola parola sulla fine di persone identiche a noi. E mi domando se, insieme al nostro fascismo mentale, dentro il cuore di ciascuno non si celasse il mostro dell'indifferenza disumana, della cattiveria, della ferocia. Per tutto questo mi sembra grottesco che nell'Italia del 2014 qualcuno chieda a qualcun altro: tuo padre era fascista, tuo nonno portava la camicia nera? La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo.

Giovanni De Luna per "La Stampa" il 15 febbraio 2022.

La fotografia, inedita, del boia italiano, incappucciato quasi a evocare il razzismo del Ku Klux Klan, è il volto più feroce della violenza scatenata dai fascisti in Etiopia: 250 mila furono i morti nei sette mesi di combattimenti tra il 1935 e il 1936 (4.500 furono le perdite italiane, non contando quelle degli ascari), ai quali bisogna aggiungere le circa 40 mila vittime della repressione contro i ribelli nei cinque anni successivi, fino al 1941 quando la sconfitta contro gli inglesi nella seconda guerra mondiale provocò la fine dell'effimero impero voluto da Benito Mussolini.

Negli stessi anni, l'Italia in territorio etiopico spese cifre ingenti (14 miliardi dell'epoca) in lavori pubblici, costruendo migliaia di chilometri di strade, compresa quella imperiale che collegava direttamente Addis Abeba a Mogadiscio. 

E un'altra fotografia - con gli italiani al lavoro per fare quelle strade - si affianca a quella del boia per ricordarci quest'opera che ebbe una sua grandiosità. "Italiani brava gente" da un lato; "italiani sfruttatori e razzisti" dall'altro. 

Nel dibattito pubblico sulle avventure del nostro colonialismo in Africa, questi stereotipi opposti rimbalzano in una sorta di ping pong che seppellisce il nostro passato novecentesco sotto una montagna di luoghi comuni.

Ora arriva un anniversario che non mancherà di rinfocolare le polemiche: tra il 19 e il 21 febbraio 1937, infatti, migliaia di etiopi (con donne e bambini fra loro, e le cifre variano a seconda delle fonti) furono uccisi dai fascisti italiani come spietata rappresaglia per l'attentato in cui era stato ferito il viceré Rodolfo Graziani. 

C'è chi ha suggerito di proclamare quella data "giornata della memoria delle vittime del colonialismo italiano", da aggiungere quindi alle altre giornate che già affollano di vittime la nostra memoria pubblica e provocando così l'ennesima polarizzazione tra i diversi schieramenti che si fronteggiano nella grande arena dell'uso pubblico della storia.

Più storia meno memoria è l'antidoto più efficace per questo tipo di veleni. E più storia vuol dire più documenti, più ricerche di archivio, più fonti che ci aiutino a conoscere meglio il nostro passato coloniale a partire dal "vissuto" degli italiani in Africa, un tema che si sta imponendo agli occhi degli storici e che vede emergere dagli album di famiglia fotografie, cimeli, diari, lettere che ci aiutano a capire un fenomeno ancora in larga misura inesplorato. 

Le foto citate all'inizio, per esempio, appartengono alla documentazione raccolta dall'associazione Il Sogno di Tsige, in collaborazione con l'Archivio audiovisivo canavesano, nell'ambito di un progetto nazionale avviato dal MOXA di Modena. 

Gran parte di questo materiale è ora confluito nell'Archivio dell'Istoreto e diventerà presto accessibile a tutti gli studiosi. Nelle circa cinquemila foto, che riguardano la sola Etiopia, c'è di tutto.

Ma soprattutto c'è uno sguardo dal basso, alternativo a quello ufficiale dell'Istituto Luce e del regime, che vede protagonisti civili, militari, coloni, uomini e donne tutti armati di macchina fotografica, raccoglitori di immagini spontanee nelle quali si vedono italiani che costruiscono ponti e strade, che impiccano e fucilano, che indugiano nei sogni erotici e razzisti legati alla bella abissina. 

Si vedono soprattutto le famiglie dei nostri coloni che coltivano giardini e campi, proponendo un modello di famiglia contadina solida e ben strutturata. Certo, l'Impero fascista durò pochissimo - solo cinque anni - e fu tutto nel segno della guerra, prima quella contro le truppe di Hailé Selassié, poi quella per la repressione dei ribelli e infine lo scontro con gli inglesi.

E lo sguardo dei militari - uomini soli, arrivati in Africa per uccidere o per farsi uccidere - è largamente prevalente anche in questo sguardo dal basso. Pure le scene di vita quotidiana mostrano una consuetudine con gli etiopi (magari ammantata di paternalismo, come nelle immagini dei bambini a cui viene insegnata la pulizia con acqua e sapone) che rinvia a un progetto di convivenza che si sottrae alla politica segregazionista e razzista delle autorità fasciste. 

Secondo dati riferiti all'ottobre 1939, gli italo etiopici erano ufficialmente 35.441, dei quali 30.232 maschi (85,3 per cento) e 5.209 femmine (14,7 per cento), in prevalenza militari e amministratori appena venuti dall'Italia, mentre erano 3.200 gli agricoltori arrivati in colonia.

Queste foto li rappresentano tutti. Per molti di loro, l'avventura africana finì prestissimo: nel 1941, dopo la sconfitta, grazie a un accordo con il governo britannico, mentre gli uomini validi restavano prigionieri, rinchiusi nei campi di concentramento o deportati in Sudafrica e in India, i feriti, le donne e i bambini venivano imbarcati sulle navi bianche (Saturnia, Vulcania, Caio Duilio e Giulio Cesare, dipinte di bianco con grandi croci rosse), che affrontarono il periplo dell'Africa, (fu vietato loro di passare attraverso il canale di Suez), in un viaggio di circa 50 giorni che li riportò in Italia (l'ultima nave attraccò nel porto di Taranto nell'agosto 1943).

In quel viaggio, gli italiani brava gente mischiarono le loro sofferenze dell'esilio, del lutto e dell'abbandono con quelle degli altri, (la mala gente), accomunati in unico doloroso rimpianto.

Sull'isola pioveva fuoco: ma i marò non si arresero. Davide Bartoccini il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Sull'isola fortezza di Cézembre, a largo di una Saint-Malò devastata dalle bombe, un centinaio di fanti di marina della San Marco resistettero all'assedio del'44: furono l'unica spina nel fianco degli alleati in Normandia.

Un piccolo monomotore da ricognizione americano, di quelli che gli alleati soprannominavano "Grasshopper" (cavalletta, ndr), dotato di lunghi drappi bianchi che pendono dalle ali in segno di "pace", sorvola un isolotto di appena 18 ettari di grandezza, e lancia piccoli volantini che invitano i suoi occupanti alla resa.

L'isola sul quale deve portare a termine la sua missione, l'isola fortezza è quella di Cézembre. Situata a largo di Saint-Malò, altra città fortezza che si affaccia sulla costa Bretone. Fortificato ai tempi del Re Sole da un certo marchese Le Prestre de Vauban (noto ingegnere militare del tempo, ndr), nel 1944 era stato ulteriormente fortificato quale avamposto costiero della rete di difese che comprendeva tutte le così dette "isole del canale" e che, fino a poco tempo prima, separava l’Europa di Hitler dalle armate Alleate che si preparavano a sbarcare in Normandia non appena fosse giunto l'ordine dei generali Ike Eisenhower e Monty Montgomery: il famoso Vallo Atlantico.

Ormai era estate inoltrata, l’Operazione Overlord – ossia l’invasione degli Alleati dell’Europa partendo dalla Normandia – procedeva con successo. Dopo essersi assicurati le teste di ponte nella penisola del Cotentin, le divisioni di fanteria insieme a quelle corazzate avanzavano lasciandosi alle spalle centinaia di chilometri quadrati di Francia ‘liberata’ lungo tutta la costa. Ovunque i tedeschi, che avevano finalmente mobilitato le panzer-division, venivano sopraffatti e sconfitti. Costretti alla resa o alla ritirata. Ovunque tranne che sull’isola fortezza di Cézembre: dove una guarnigione di forze dell'Asse composta da 650 uomini - tra i quali erano un centinaio fanti di marina italiani inquadrati nella 1ª Divisione Atlantica Fucilieri di Marina, figlia repubblichina del Battaglione San Marco, e 100 russi bianchi arruolati forzatamente sul fronte Orientale – resiste imperterrita.

Asserragliati nei bunker sotterranei e nei tunnel di cemento armato che si estendevamo per tutta la lunghezza dell’isola (750 metri, ndr). Dotati di pezzi di artiglieria di vario calibro, i nostri fanti di marina, per la maggior parte di stanza alla base navale Bordeaux, erano stati presi in consegna come prigionieri dopo l’armistizio dell’8 settembre -poiché esso faceva passare formalmente l’Italia e coloro che erano fedeli al Re dalla parte degli Alleati -, ma dopo essere definiti aderenti alla Repubblica Sociale Italiana istituita da Benito Mussolini a Salò, vennero liberati e inquadrati nelle forze di difesa costiera del Vallo. Rispondevano tutti ai comandi del capitano di corvetta Richard Seuss, comandante della Marine Artillerie Abteilung 608 della Kriegsmarine, la forza navale tedesca. Per tutta la durata di giugno e di luglio, ogni giorno, ogni notte, le batterie costiere dell’isola regolano attentamente il loro alzo e bersagliano quando e dove possono gli alleati: anche quando conquisteranno la città di Saint-Malò. Ricordandogli puntualmente che possono arrivare fino a Parigi, ma hanno ancora una spina conficcata nel fianco. Perché a quanto pare, quel fanatico del comandante Seuss non ha alcuna intenzione di arrendersi.

Patton comanda: scatenate la "Piogga di fuoco"

La situazione sull'isola, che misura appena 18 ettari, si giorno dopo giorno sempre più insostenibile. Mentre sul continente, per gli alleati che hanno conquistato la roccaforte di Saint-Malò, diventa motivo d'imbarazzo aver lasciato un avamposto nemico libero di aprire il fuoco giorno e notte sulle posizioni che si sono giù attestate. George Smith Patton, il generale d'acciaio degli Us Army che ha preso il comando delle operazioni nel settore e ha posto sotto assedio Saint-Malò, è deciso ad annientare a tutti i costi la resistenza sull’isola.

L'ordine è di offrire un ultima possibilità di consegnare le armi, e se rifiutata di dare inizio ad un bombardamento a tappeto che durerà ininterrottamente fino alla resa. Dovrà essere coinvolto ogni mezzo a disposizione. Così all'inizio d'agosto 1944 viene scatena una pioggia di fuoco di diverse settimane. Il cannoneggiamento viene affidato a cinque batterie di artiglieria attestate sulla costa, che scaraventano sull’isolotto ben 11.103 sabot di grosso calibro. Si dimostreranno poco risolutivi. Nessuno infatti ha penetrato le posizioni difensive scavata dai francesi e migliorare dai tedeschi che avevano saputo bene eseguire gli ordini del feldmaresciallo Erwin Rommel.

Per questo vengono chiamati all’ordine i pezzi da 381 millimetri della corazzata britannica HMS Warspite. La corazzata inglese lancia una serie di bordate, esponendosi al fuoco costiero. Alcuni bunker dell'isola vengono distrutti, ma a Cézembre non smettono di rispondere al fuoco. Le batteria quando possono lanciano le loro bordate, in aria, in mare e sulla terra. La guarnigione non cede. Non si arrende. Il 13 agosto, è la volta dell'Air Force. Sessantotto quadrimotori B-24, bombardieri pesanti, sorvolano a turni l'isolotto e sganciano 265 tonnellate di bombe. La situazione però non cambia. Come un animale ferito, non appena il fumo nelle bombe si dirada, da Cézembre sparano qualche colpo d'artiglieria come messaggio: "Siamo ancora qui".

L'ordine è "Nessuna resa"

Il capitano Seuss, comandante della guarnigione, un fanatico nazista che intende continuare a lottare ad ogni costo; ma i casi di ammutinamento con il passare dei giorni si moltiplicano. Qualcuno tenterà la fuggire a nuoto, qualcuno impiegando una lancia di salvataggio che però incontra le mine navali che non mancano a marcare il perimetro. Forse i coscritti sul fronte russo degli Ost-Bataillon non erano stati messi al corrente dei corridoi sicuri. Qualcun altro ancora viene messo agli arresti. Si calcolerà che in tre settimane l’isola di Cézembre venne colpita da 19.729 bombe aeree e circa 20 mila proiettili d’artiglieria. Nessun obiettivo militare, né in Vietnam né in Iraq vanterà lo stesso "trattamento".

La situazione sull'isola fortezza era diventata insostenibile. A riferirlo agli alleati sarà un cuoco riuscito a fuggire a nuoto, e tanto fortunato da raggiungere la costa che dista un paio una decina di miglia nautiche. Dichiarerà: "Solo il comandante tedesco e un pugno di suoi camerati impediscono la resa. Tutti gli altri non ce la fanno più. Stanno organizzando una rivolta".

Il 17 agosto, rivola o meno in corso, trentacinque cacciabombardieri P-38 ricevono l'ordine di bombardare l’isolotto con oltre sessanta barili di Napalm – emulsione altamente infiammabile che verrà largamente usata in Vietnam. La guarnigione di Seuss seppur ustionata e martoriata, affamata, tagliata fuori dalle linee di rifornimento e dal mondo intero, rimase imperterrita. Appena cessarono i bombardamenti, qualche bordata rivolta alla costa dimostrava che su Cézembre c'erano ancora. Il giorno seguente, una lancia con a bordo tre plenipotenziari viene inviata sull’isola a offrire nuovamente la resa. Lo scenario aveva dell'apocalittico. Sulla terra bruciata e crivellata, i crateri si estendono a perdita d’occhio. Un suolo lunare. Ma nonostante questo, il comandante Seuss diede udienza agli alleati solo per rifiutare per l'ennesima e ultima volta la resa. Cannoneggiamenti dalla costa e dal mare, e bombe dall’aria possono anche ricominciare.

Cade Parigi ma non Cézembre

Il 24 agosto cade Parigi, ma non Cézembre. Il guanto di sfida gettato da Seuss deve essere raccolto. Resistere ancore era impossibile. Al comando tedesco della Krigsmarine viene telegrafato: "Solo un cannone può essere ancora utilizzato (…) le scorte d’acqua possono durare non oltre dodici giorni". Non c'è disonore nella resa a queste condizioni. Solo follia omicida nel voler continuare a combattere una battaglia persa, che non ha alcuna valenza strategica.

Il 2 settembre, la 83esima divisione di fanteria americana che aveva pianificato un'operazione di sbarco sull'isola fortezza, inviava mezzi anfibi per conquistare l'ultimo bastione dell'Asse che aveva resistito per 88 giorni dal D-day. Al comando alleato erano decisi a mettere fine una volta per tutte alla resistenza degli irriducibili di Cézembre, ma non appena sbarcati, i G.I. trovarono la bandiera bianca issata dai 71 marò superstiti che erano posti a presidio il lato sud.

A Seuss, infuriato per l'accaduto, non rimase altro che rassegnarsi. La perdita di un terzo della sua guarnigione non può far altro suggere la scelta più assennata: contrattare una resa, seppure separata dagli italiani, chi sono arresi senza il suo permesso. Alcune ore dopo, sulla piccola spiaggia a sud dell’isolotto di Cézembre, 228 soldati tedeschi e 71 italiani si arresero agli Alleati. Imbarcati sulle lance che li riportano sul continente, i marò rimasero immortalati in alcune fotografie, erano sorridenti, finalmente sollevati dall'ordine di tenere a tutti i costi quella resistenza disperata. Seuss, insignito della croce di cavaliere con fronde di quercia in quello stesso giorno, invece, salutava per sempre la sua fortezza ideale. La sua guerra era persa.

Davide Bartoccini. Romano, classe '87, sono appassionato di storia fin dalla tenera età. Ma sebbene io viva nel passato, scrivo tutti giorni per ilGiornale.it e InsideOver, dove mi occupo di analisi militari, notizie dall’estero e pensieri politicamente scorretti. Ho collaborato con il Foglio e sto lavorando a un romanzo che credo sentirete nominare. 

La Marcia verso il fascismo raccontata giorno per giorno. Matteo Sacchi il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il "Diario 1922" di Balbo mostra il crollo delle istituzioni e il dilagare della violenza figlia della Grande guerra.  

L'Italia del 1922, è una polveriera. Infatti esplode. Al termine di una miccia a lenta corsa, innescata subito dopo la fine della Prima guerra mondiale, e che accelera le sue deflagrazioni, attraverso il biennio rosso e l'occupazione di Fiume, sino ad arrivare al botto finale che squassa le fondamenta dello Stato liberale: la Marcia su Roma di migliaia di camicie nere del 28 ottobre. Una serie di episodi, come la battaglia per Parma tra arditi del popolo e milizie fasciste, segna, costantemente, l'incapacità della forza pubblica di contenere le tendenze rivoluzionarie rosse e nere. In pochi, come il prefetto Mori, tenteranno di prendere il controllo delle piazze, finiranno trasferiti lontano dalle zone calde per le paure che attanagliano Monarchia e Governi (le crisi parlamentari si susseguono a ripetizione). A cent'anni da questo schianto delle istituzioni resta ancora difficile riuscire a cogliere, nel dettaglio, le crisi e lisi di un Paese che avrebbe dovuto essere vincitore ma si sentiva mutilato. In questo senso, per ricostruire una temperie, un clima, poche cose possono essere utili come le testimonianze dirette del periodo. Tra queste spicca Diario 1922. Le camicie nere alla conquista del potere di Italo Balbo, che sarà pubblicato nei prossimi giorni per i tipi della Leg, con la curatela e l'introduzione di Mimmo Franzinelli. 

Lo squadrismo ebbe in Italo Balbo (1896-1940), ex ufficiale degli alpini (guidò il Reparto Arditi del Battaglione Pieve di Cadore), un comandante intraprendente e volitivo che contribuì enormemente all'elaborazione tattica che consentì ai fascisti di imporsi, sul campo, agli altri partiti. Fidato luogotenente di Mussolini, venne incluso tra i quadrumviri per la Marcia su Roma. Ed è lui l'uomo che anima il colpo di mano, che non tentenna mai, che sbriciola le perplessità di De Bono e De Vecchi, molto più propensi a trovare un accomodamento con personalità liberali. Senza dubbio dal punto di vista strettamente militare il successo del movimento verso Roma appartiene a questo fascista vicino agli agrari, di radici mazziniane e fortemente antitedesco (tale resterà sino alla sua morte nel 1940). L'intuizione, invece, di come sfruttare politicamente al rialzo i progetti insurrezionali (le milizie fasciste restavano una forza apparente nonostante la brillantezza di Balbo) fu tutta di Mussolini. Insomma due personalità diverse, quelle dei due leader fascisti, che, inevitabilmente, dopo la normalizzazione che seguì la fase rivoluzionaria, finirono per confliggere. Balbo masticò amaro per la messa al bando della massoneria, il Duce mal sopportò i successi di Balbo - negli anni Trenta - come trasvolatore. Tanto da silurarlo dal ministero dell'Aeronautica, atto che Balbo, diplomaticamente, commentò così in una telefonata intercettata: «Quel farabutto ha voluto indorare la pillola... ma io sono capace di andare subito a rompergli il grugno!». 

Ma questo è il dopo. Viene utile per capire come mai, quando il Diario di Balbo venne edito nel 1932, Mussolini intervenne personalmente per far sparire alcuni passaggi scomodi. Non si tratta, ovviamente, di un testo neutro, lo rimarca con attenzione Franzinelli, mostrando come Balbo minimizzi le violenze fasciste e enfatizzi l'efficienza dell'apparato militare del partito ben oltre il veridico. Così come vengono espunti scontri interni che Balbo risolse a suo favore con cruda violenza. La corrente sociale del fascismo di Ferrara, che era il feudo di Balbo, venne spazzata via a colpi di mazza, ma nei diari le si dedicano poche righe.

La testimonianza del Diario resta però fondamentale per capire la dinamica che portò alla Marcia. In primo luogo mostrano quanto la Guerra, il trauma delle trincee, avesse creato una spaccatura insanabile. «Lottare, combattere, per ritornare al Paese di Giolitti, che faceva mercato di ogni ideale? No. Meglio negare tutto, distruggere tutto». Da questo punto di vista Balbo descrive chiaramente quanto la trincea si fosse trasformata in incubatrice di sogni sanguinari di palingenesi e, in questo, si sentissero più vicini ai bolscevichi che ai borghesi: «Molti a quell'epoca, anche generosissimi, piegarono verso il nichilismo comunista. Era il programma rivoluzionario già pronto... apparentemente più radicale: in lotta contro la borghesia e contro il socialismo». La svolta mussoliniana per lui non è considerabile di destra: «Mussolini deviò il corso degli avvenimenti... Quelle migliaia di reduci che non volevano fare la rivoluzione per morire, ma per vivere... videro uno sbocco». Con i rossi per Balbo ci si uccide ma quanto ai governativi il 27 gennaio del 1922 scrive: «Ma attenti! Preferiamo chi dice pane al pane e risponde con ferro a ferro». E ancora il 2 marzo: «Noi non abbiamo che un destino solo: svalutare nel ridicolo, fino all'assurdo lo Stato che ci governa... Ci divertiamo a confondere le idee nella testa dei santoni della democrazia». 

Nasce così una situazione in cui lo Stato viene lentamente trasformato nel pavido arbitro dello scontro che contrappone le milizie dei partiti. Arriveranno ad averne una persino i liberali che Balbo irride: «Anche i liberali vogliono allora mettersi nel novero dei fuorilegge? Queste camicie kaki sono proprio un frutto fuori stagione... A Bologna qualche squadrista si sta divertendo a spaventarle con uno starnuto». Diversa la battaglia per Parma (1-6 agosto 1922) con gli Arditi del popolo, dove a favore degli insorti si schiera anche Alceste de Ambris che a Fiume con D'Annunzio aveva sognato tutt'altra rivoluzione. Sarà l'ultimo vero scontro, a margine del poco riuscito sciopero legalitario, a far dubitare i fascisti di poter prendere il sopravvento. Balbo anche in quel caso è in prima linea e racconta la lotta casa per casa.

Dopo il percorso dei fascisti è in discesa, riescono sistematicamente a ingannare il governo Facta e i «vecchi parlamentari» sui loro piani: «Siamo nati ieri, ma siamo più intelligenti di loro». Questo mentre Mussolini metteva sotto minaccia la Monarchia: «Io penso che la Monarchia non ha alcun interesse ad osteggiare la rivoluzione fascista... Se lo facesse diventerebbe subito avversaria, e se diventasse avversaria è certo che noi non potremmo risparmiarla». E, invece, dopo che il Re non firmò lo stato d'assedio - si sarebbe per altro sentito rispondere dal generale Diaz che «l'esercito avrebbe certamente fatto il suo dovere, ma sarebbe stato bene non metterlo alla prova» - la Monarchia venne risparmiata. Anche molto dell'apparato statale, perché il passaggio da rivoluzione a conservazione fu eseguito da Mussolini con funambolismo bonapartista.

Del resto Mussolini lo aveva detto chiaro già il 6 ottobre come annota Balbo riportando le sue parole: «Programmi? Ma di programmi ce ne sono anche troppi. Il nostro programma è semplice, vogliamo governare l'Italia». Lo fece per un Ventennio con largo arbitrio e populismo. Il finale è noto.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco. 

Introduzione di Giordano Bruno Guerri a “L’ultimo legionario - Un diciottenne a Fiume", di Guido Pallotta (ed. Diarkos), pubblicata da “La Verità” il 16 gennaio 2021.

Nei ricordi di Giovanni Comisso - ragazzo a Fiume - si legge: «Tu devi sapere che sei giunto in una città pericolosa per i tuoi giovani anni», dicono alcuni ufficiali a un ragazzo appena arrivato, «qui si fa senza alcun ritegno tutto ciò che si vuole. Le forme di vita più basse e più elevate qui s' alternano non altrimenti che la luce e le tenebre». 

Un altro futuro scrittore, Marcello Gallian, diciassettenne di guardia all'Ufficio informazioni, avverte «un grande odore di perdizione. L'amavo come una donna, quella città, m' era di sensualità vera trovarmici dentro, ormai. Come stessi per farla grossa, importante: esaltato come un bellissimo assassino []. Ero un fuorilegge, impaziente, senza regola. Volevo far tutto io, una azione sconosciuta e grande, da farmi conoscere subito come eroe». 

Oltre ai giovani fuggiaschi e agli ufficialetti di complemento, affollano le caserme di Fiume reduci abbrutiti dalla trincea, agitatori politici, artistoidi, emissari di «pescicani», faccendieri e ricettatori. Il generale Sante Ceccherini, comandante delle truppe, definendoli «energumeni», sottolinea che «non tutti avevano gli identici sentimenti di onestà e di disciplina militare e morale».

È vero, a Fiume c'era di tutto, sognatori e delinquenti, avventurieri e mistici della patria, futuri antifascisti e futuri fascisti. C'era anche Guido Pallotta, che diventerà eroe della mistica fascista, poi eroe fascista, e infine semplicemente eroe cadendo in combattimento nel 1940: «La mistica fascista è fede e azione, dedizione assoluta ma nello stesso tempo consapevole». 

Pallotta, giovanissimo legionario fiumano, scriverà questo libro, rimasto finora inedito, nel 1923, poco dopo gli eventi, ma in una situazione completamente cambiata: D'Annunzio, sconfitto, si è ritirato a Gardone Riviera, dove si dedicherà quasi esclusivamente all'edificazione del Vittoriale; Mussolini, trionfante dopo la Marcia su Roma e prima del delitto Matteotti, si assesta al potere. In questo libro Pallotta è già fascista, e si vede fin troppo, ma è proprio questo il punto di maggiore interesse del volume: vedere dal vivo, quasi in contemporanea, come il regime avrebbe fatto dell'«Impresa» una propria impresa, prendendone tutto - riti, miti, modi - tranne lo spirito, che trasformò un colpo di mano nazionalista in una rivoluzione libertaria.

Mussolini - dopo avere giocato D'Annunzio con la propria maggiore abilità politica e avere preso accordi segreti con Giolitti - avrebbe saccheggiato tutto di quanto avvenuto a Fiume, tranne il suo documento più importante, l'avanzatissima Carta del Carnaro. Si capisce dunque, da queste pagine di Pallotta, come per molti Fiume abbia potuto essere, specialmente per chi non aveva avuto modo di combattere nella Grande guerra, un preludio al fascismo. 

«Incomincia, dopo questi nove mesi di travagli senza tregua, un nuovo periodo di lotta», dichiara D'Annunzio nel proclama ai legionari del 12 giugno 1920: «Siate pronti. Vigilanti, silenziosi, spietati, deliberati a tutto io vi voglio: moschetti forbiti, pugnali affilati, bombe manevoli». 

Che si preparino alle esercitazioni militari quotidiane, «i nostri giochi mattutini con il fuoco, le nostre gazzarre di scoppi, le nostre ondate carponi sotto il ventaglio crepitante delle mitragliatrici, i nostri duelli occhiuti con le bombe a mano, i nostri abbracci con la polvere». []Dopo sfiancanti riscaldamenti a corpo libero e di corsa, gli allievi vengono sottoposti a esercizi di crescente difficoltà, anche psicologica; il più celebre e folle è il passaggio al volo di una granata senza sicura. 

La granata è un simbolo degli arditi assieme al coltello, va padroneggiata, si deve sapere calcolare il raggio d'azione, sopportare il suo boato. Nella testa e nella penna di Gallian risuonano le grida degli istruttori: carponi, avanti. Passo passo. Pronti, via. Gettate le bombe. Uno strappo coi denti e il lancio. Se vi rimane in mano, è la morte, ché? non si scherza. Non fate i neonati, non vi divertite, son bombe vere, autentiche. Non sono bicchieri. Non sono scatoline di confetti. 

Gettate, gettate Che mi combini, ignorante, salame mio. Vuoi avere la testa portata via? Vuoi rimanere monco? Vediamo come riesci a rimaner monco. Proprio in un lancio di granate terminerà, 23 anni dopo, la vita di Pallotta. Con l'aggiunta del culto del Capo, Fiume sembra una fabbrica di eroi, secondo la mistica fascista. Ma, se il primo capo di gabinetto e principale collaboratore di D'Annunzio a Fiume fu Giovanni Giuriati, futuro segretario del Partito nazionale fascista, il secondo e più importante capo di gabinetto fu Alceste De Ambris, morto in esilio per antifascismo.

Allo stesso modo fu un uscocco - i «pirati» che D'Annunzio incaricava di rapinare le navi con un carico utile - Ettore Muti, altro futuro segretario del Pnf. Ma il suo capo, a Fiume, fu una figura oggi dimenticata, nonostante tutto, il ventitreenne aretino Mario Magri, conosciuto da tutti come «Capitano Magro». Conclusa l'impresa, Magri andrà a combattere per la libertà del Rif, regione del Marocco che lottava contro il dominio coloniale spagnolo: una rivolta senza speranza. Tra le montagne il Capitano Magro comandò l'artiglieria dei ribelli contro forze nemiche enormemente superiori, fino all'inevitabile resa. 

Tornato in Italia, non si rassegnò all'ascesa del fascismo, tentando in tutti i modi di convincere i legionari e il Vate a prendere una posizione netta contro Mussolini. […]Ettore Muti e Mario Magri, irriducibili avventurieri dalle molte vite, entrambi freddati da un colpo di pistola: un intreccio che dimostra da solo la molteplicità di storie, di idee, di possibili tragitti etici e politici nati dal caotico crogiolo della rivoluzione fiumana. Nei primi mesi del ritiro al Vittoriale, D'Annunzio indugiò, in parte per rassegnazione, in parte perché credeva che il potere mussoliniano sarebbe stato passeggero e che si sarebbe presentata la sua occasione. 

Il 2 novembre 1921 pubblicò su un giornale dei legionari, La Patria del Popolo, un messaggio per dire ai seguaci che «bisogna tollerare, secondare e dominare col pensiero puro, un governo esperimentale che differisca le elezioni al principio della primavera». Era un'illusione: l'esperimento fascista si sarebbe evoluto in autoritarismo, dove non c'era posto per altre associazioni e, soprattutto, per altri capi. D'Annunzio avrebbe dovuto rassegnarsi a essere relegato al rango di icona della patria. Molti erano convinti, invece, che il Poeta potesse costituire un pericolo per il fascismo. 

Ne era persuaso anche il generale Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma e ora capo della polizia, che nel dicembre 1922 invitò i prefetti a controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome, a partire dalla Federazione dei legionari. Nell'aprile 1923 la Federazione, alcuni sindacati e l'Associazione arditi d'Italia si corporarono nell'Unione spirituale dannunziana, che aveva l'obiettivo dichiarato di resistere al fascismo e di fondare una costituente sindacale ispirata alla Carta.

Una raffica di perquisizioni e di arresti, tra l'estate e l'autunno, fece naufragare il progetto. Il Vate aveva già abbandonato al loro destino tutte le associazioni che rimandavano a lui. Durante la crisi Matteotti, l'Unione spirituale dannunziana si unì all'opposizione dell'Aventino, e tra l'8 e il 10 settembre 1924 indisse a Milano un Consiglio nazionale. In pochi giorni i legionari trasformarono l'Unione spirituale in un'associazione clandestina, con depositi segreti, tessere anonime e una rete di cellule incaricate di sostenere le lotte operaie e tutte le forme di opposizione al regime.

Le «leggi fascistissime» del 1925, però, si abbatterono inesorabilmente anche sulla debole coalizione legionaria, di cui non abbiamo notizie certe se non nelle relazioni della polizia e nei rari opuscoli sequestrati durante le perquisizioni delle sedi. Tra novembre e dicembre 1925 l'Unione - ultima custode militante del fiumanesimo indipendente - fu travolta dalla repressione. Cinque anni dopo nascerà la Scuola di mistica fascista, odiosa a D'Annunzio.

Quel che resta della Marcia su Roma. Ezio Mauro su La Repubblica il 27 Ottobre 2022.

Cent’anni dopo quel 28 ottobre 1922 in cui Mussolini prese il potere, una esponente post-fascista guida il governo. È mancato un rendiconto che spieghi le colpe e le responsabilità dei vent’anni in cui perdemmo la libertà

A distanza di un secolo cosa resta della Marcia su Roma che portò il fascismo al potere, aprendo la strada a vent’anni di dittatura? Le fotografie del Duce in camicia nera alla testa delle colonne con i quadrumviri, la voce stentorea della propaganda nei filmati dell’istituto Luce, qualche “sciarpa littoria” consegnata agli squadristi che avevano partecipato all’insurrezione, e rimasta nel fondo del grande armadio italiano dove finisce tutto: quel che si cancella per opportunismo, quel che si dimentica perché troppo tempo è passato e quel che si conserva senza una ragione, semplicemente perché è mancato un rendiconto finale che spieghi le colpe e le responsabilità dell’anno del Signore 1922, quando perdemmo la libertà.

Cronache della marcia su Roma: il primo mese dell’ultimo anno di libertà. Ezio Mauro su La Repubblica il 10 Gennaio 2022.

Inizia il viaggio di Ezio Mauro nell’ora più buia che conduce alla dissoluzione dello Stato liberale e all’ascesa del partito fascista e del suo leader 

La musica arrivava a folate, ogni volta che si apriva la porta della società ginnastica "Sempre Avanti!", e per un po' sembrava rimanere sospesa tra il buio e il gelo della notte bolognese di Capodanno. Si bussava alla palestra del liceo Minghetti, concessa dal preside con l'unica preghiera di evitare incidenti: per questo si poteva entrare soltanto con uno speciale biglietto d'invito nominale, rilasciato dalla Lega Proletaria Mutilati, e vicino al buffet con lo spumante vigilava dalla poltrona l'agente di polizia Allegretti, mentre due guardie regie pattugliavano dalle 9 l'esterno, spiegando ai curiosi che era una festa privata di un'associazione di invalidi, con pesca di beneficienza per gli orfani di guerra.

Cronache della marcia su Roma: il manganello e l'aquila romana. Ezio Mauro su La Repubblica il 13 febbraio 2022.  

Prosegue il viaggio nel 1922, ultimo anno di libertà dell’Italia. Lo squadrismo ormai tiene in ostaggio il Paese condizionando l’azione politica di Mussolini. E mentre le forze liberal socialiste in Parlamento sono sempre più fragili il nuovo Papa, Pio XI, blocca i popolari.  In questo clima sovreccitato e confuso il Re affida l’incarico di governo a Luigi Facta, fedelissimo di Giolitti, nella cui maggioranza si affacciano i fascisti 

Come se il 1922 volesse regolare fin dall'inizio tutti i conti sospesi prima di inabissarsi nell'inferno, a febbraio la lama della ghigliottina taglia la testa di Henri Désiré Landru, condannato a morte per aver sedotto, ucciso e bruciato nel forno a legna della cucina dieci donne. Il sostituto procuratore generale Béguin lo sveglia alle 5,50 del mattino, informandolo che la domanda di grazia è stata respinta.

Cronache della marcia su Roma. Il duello tra il Duce e il Vate. Marzo 1922. Prosegue il viaggio nell’ultimo anno di libertà dell’Italia. Mussolini di fatto sconfessa Gabriele D’Annunzio, etichettandolo come “futuro giustiziere del fascismo” supportato dalla “plutocrazia antinazionale”. Mentre a Roma giura il governo Facta, le camicie nere continuano a seminare violenza. E la denuncia di Giacomo Matteotti, deputato socialista, resta inascoltata. Ezio Mauro su La Repubblica il 16 Marzo 2022.

Se ne vanno cantando, esaltati dall'impresa, passandosi di mano in mano la vecchia insegna del Lavoro che sollevano come un trofeo di guerra davanti ai passanti silenziosi della domenica sera, nel centro di Genova. È la targa del giornale dei portuali, nato nel 1903 da un'alleanza tra Leghe operaie, cooperative e Società di mutuo soccorso, un pezzo di storia della città.

Cronache della marcia su Roma: giugno 1922, la prova generale. Ezio Mauro su La Repubblica il 28 Giugno 2022.

Da Bologna a Torino gli squadristi con la violenza occupano le città mentre il tentativo collaborazionista dei socialisti abortisce. L’uomo nuovo è Italo Balbo, ras di Ferrara, che a soli 26 anni coltiva i germi dell’eversione e mobilita le forze fasciste. Eppure il Paese vive una sua pace apparente inseguendo la lotteria nazionale e i grandi transatlantici che salpano dai nostri porti per il mondo. Ed è così che Mussolini si prende l’Italia

Venivano avanti nella notte, col viso dipinto di nero. Tre squadre speciali che si erano staccate dai quattrocento uomini in marcia verso Bologna da Modena e Ferrara: adesso camminavano curvi, schermati dagli alberi e protetti dall'illuminazione spenta sulle strade, finché entrati nella frazione Caselle di Crevalcore arrivò l'ordine del silenzio assoluto, al momento di separarsi e attaccare gli obiettivi.

Da adnkronos.com il 18 giugno 2022.

Benito Mussolini nel 1939 incontrò Joseph Kennedy sr, il padre del futuro presidente Usa John Fitzgerald Kennedy, che allora era Ambasciatore nel Regno Unito in un'osteria nei pressi di Piazza Margana a Roma. 

Sul tavolo, secondo quanto ricostruito dall'Adnkronos, la questione del grano ma anche altri temi bilaterali. Un incontro che si inserisce in piena "battaglia del grano", la campagna lanciata da Mussolini nel 1925 per cercare di risolvere una situazione che pesava eccessivamente sulla bilancia commerciale italiana. 

La campagna lanciata dal regime fascista aveva, infatti, come obiettivo di perseguire l'autosufficienza produttiva di frumento. Nel 1924, il Regno d'Italia importava 22 milioni di quintali di frumento rispetto ad un consumo totale di 73,8 mln di quintali (la produzione era pari a 44,7 mln di quintali). Nel 1938, grazie alla campagna, l'Italia riuscì ad aumentare la produzione di frumento portandola a 81,838 mln di quintali e nel contempo a ridurre le importazioni portandole a 2,9 milioni di quintali per un consumo totale pari a 78,125 mln.

In quegli anni si registra anche il primato per la produzione di frumento per ettaro superando quella statunitense. Un successo, quindi, ma a scapito di altre colture che erano più redditizie. 

Negli anni successivi le importazioni, rispettivamente nel 1939 e nel 1940, risalirono a 6,4 mln di quintali (consumo di 80,7 mln, produzione 79,81 mln) e a 6,905 mln (consumo di 65,949 mln, produzione di 71,04 mln). Ed è proprio in quel periodo che si inserisce l'incontro a Roma tra Mussolini e Kennedy sr. 

L'Italia in quell'anno era impegnata in Etiopia e cercò l'assistenza statunitense dal punto di vista tecnologico: servivano macchine da movimento terra per costruire le strade nel paese africano ma anche aerei, come il famoso Boeing 307. Anche l'immigrazione verso gli Stati Uniti era un tema di forte interesse per l'Italia in quegli anni. L'introduzione, negli anni '20, delle quote di ingresso per l'Italia rappresentava un danno in quanto l'immigrazione favoriva il calo della disoccupazione e permetteva un trasferimento di soldi dagli Stati Uniti all'Italia grazie agli immigrati.

Secondo alcuni storici che citano gli appunti di lavoro del direttore centrale del Credito Italiano, Mario Alberti, infatti, Joseph Kennedy sarebbe stato già preso in considerazione nel 1923 tra i possibili investitori americani in Italia, al tempo in cui Mussolini era interessato a coinvolgere la finanza internazionale nei grandi programmi di modernizzazione della nazione. 

Joseph Kennedy, che è stato Ambasciatore nel Regno Unito tra il 1938 e il 1940, è un personaggio controverso. Convinto sostenitore del non interventismo degli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale, guardava con favore alla Germania. Probabilmente anche a causa delle sue origini irlandesi non guardò mai troppo con favore alla corona britannica. 

Cronache della marcia su Roma. Fiamme nere sull'Italia, luglio 1922. Ezio Mauro  su La Repubblica il 26 luglio 2022.

Il nuovo leader del partito fascista Roberto Farinacci (1892-1945) al lavoro nel suo ufficio. 

Il triangolo fascista disegnato dalle occupazioni di Ferrara, Bologna e Cremona, con il ras indiscusso Roberto Farinacci, evidenzia uno Stato a pezzi, incapace di controllare la violenza in ascesa. Nel vuoto politico, il Re chiede a Facta di formare un nuovo governo

La camicia nera di Roberto Farinacci spunta all'ingresso del municipio nei 29 gradi del primo pomeriggio, con l'umidità al 73 per cento e ogni tanto un soffio debole di vento da nordest. Caldo, e la città vuota nella pigrizia silenziosa della pausa per pranzo, come se non ci fosse niente da aspettarsi da quella giornata soffocata, con l'arcata dei portici del palazzo comunale che inquadra le strade deserte di Cremona nella solitudine del 3 luglio, lunedì.

Cronache della marcia su Roma. Agosto 1922, l'assalto a Palazzo Marino. Ezio Mauro su La Repubblica il 27 agosto 2022.  

Gli operai occupano le fabbriche contro la violenza delle camicie nere. Ma lo sciopero fallisce e Benito Mussolini lo definisce “una pagliacciata delle carogne e dei parassiti antinazionali”. E così nel vortice dello squadrismo finisce il municipio di Milano a guida socialista che viene assalto e espugnato dai fascisti. È l’ora in cui la forza soppianta la politica

Come nell’ultimo sussulto di un organismo malato, tutto si congiunge mentre tutto si disfa. Lo sciopero generale risveglia il fantasma della spallata bolscevica, la paura della borghesia che era ancora in agguato nonostante la promessa rivoluzionaria fosse palesemente scaduta, dopo l’occupazione delle fabbriche. Ma l’agitazione è il primo tentativo di rispondere in piazza alla violenza di strada delle camicie nere, proletariato contro squadrismo.  

Cronache della Marcia su Roma, settembre 1922. Il Duce rispose: "È la vigilia". Ezio Mauro su La Repubblica il 17 Settembre 2022.

Migliaia di camicie nere sono ormai indomabili. Mentre bruciano Case del lavoro e aggrediscono i socialisti, i grandi capitalisti del Nord sostengono economicamente il fascismo. Monarchia e governo attendono un consiglio del vecchio Giolitti che tace. Mussolini indugia ancora: non vuole rinunciare né al riconoscimento politico né alla rivoluzione. Poi, prende la sua decisione

L'ultimo esorcismo di Stato viaggiava in ritardo sul treno speciale diretto a Pinerolo e partito da Roma alle 17.55, con a bordo il presidente del Consiglio appena riconfermato, Luigi Facta. Quasi a fare da scorta al direttissimo, altri due treni correvano sulla stessa rotta, la sera di sabato 23 settembre 1922: trasportavano l'intero governo (meno i ministri Schanzer e Paratore), magistrati, sindaci, prefetti, generali, 400 deputati, 300 senatori, ambasciatori, il principe d'Aragona, l'ammiraglio Cagni, il governatore della Tripolitania conte Volpi, verso la città in festa attorno al banchetto d'onore allestito per celebrare i trent'anni di vita parlamentare del Capo del governo.

Cronache della Marcia su Roma, ottobre 1922: il destino fatale si compie. Ezio Mauro La Repubblica il 3 ottobre 2022.

Ottobre aveva provato a mentire, ma nonostante gli inganni proprio il decimo mese dell'anno fascista stava portando a compimento il destino del 1922 italiano, raccogliendo tutti i segnali sparsi in un Paese soggiogato, gli avvertimenti ignorati, le umiliazioni progressive di una democrazia inscheletrita, per giungere al saldo finale. Ma Mussolini è ancora indeciso, al bivio tra le due strade per la presa del potere, dubbioso tra una tattica parlamentare prudente e una politica di strada violenta.

Giovanni De Luna per “La Stampa” l'1 settembre 2022.

La coincidenza tra le elezioni politiche del 25 settembre e il centenario della «marcia su Roma», che cade il 28 ottobre, ha segnato molti dei libri dedicati all'anniversario dell'avvento del fascismo. La possibilità che il partito di Giorgia Meloni esca vittorioso dalle urne ha riproposto un dibattito che attraversa tutta la nostra storia repubblicana, incentrato sui caratteri originari dell'avventura mussoliniana e sulla probabilità di un loro ripresentarsi intatti sulla scena politica italiana. 

Questa sorta di tirannia del presente, che obbliga gli storici a confrontarsi più con le inquietudini del loro tempo che con lo studio del passato, segna anche l'ultimo libro di Federico Fornaro (Il collasso di una democrazia) che si conclude con una riflessione sull'oggi, partendo da un'analisi dei movimenti di destra che si sono affermati nei Paesi occidentali ed esprimendo una forte preoccupazione per il diffondersi sempre più marcato di forme di «democrazia illiberale».

Con il declino della democrazia rappresentativa - che appare «fredda e grigia agli occhi di cittadini disincantati»- il risorgere del nazionalismo («tra i principali responsabili dei drammi del Novecento») sollecita infatti tentazioni politiche ispirate al modello della Russia di Putin, con il ritorno a regimi autoritari di stampo neo-fascista. 

Ma il libro di Fornaro non si lascia schiacciare sul presente. Si tratta infatti di una storia complessiva degli eventi che tra il 1919 e il 1922 segnarono l'ascesa al potere di Mussolini, inserendo lo squadrismo nello scenario complessivo del dopoguerra e di quel surplus di violenza che il grande conflitto mondiale aveva inoculato nelle profondità della società italiana.

Scorrono nelle sue pagine le convulsioni dell'Italia liberale (tra il 1919 e il 1922 si avvicendarono sei governi, con una durata media di meno sette mesi), le conseguenze della legge elettorale con il passaggio dal maggioritario al proporzionale, le scelte degli avversari politici del fascismo, l'avvento dei «partiti di massa», il tramonto di un sistema politico che pure aveva condotto l'Italietta giolittiana ai successi del «decollo industriale» e a intercettare i fasti della belle époque.

Quello che Fornaro ci spiega è che Mussolini non avrebbe potuto vincere senza la complicità e l'inconsapevolezza delle forze che avrebbero dovuto contrastarlo. A cominciare dai partiti di sinistra, sospesi tra l'utopia rivoluzionaria («fare come la Russia») e il pragmatismo riformista, incapaci di scegliere, condannati a una paralisi che finì per precipitarli nel baratro della sconfitta. 

Quanto ai «popolari» di don Sturzo, la paura del bolscevismo e della rivoluzione operaia ebbe il medesimo effetto paralizzante: quasi che nessuno degli oppositori politici di Mussolini fosse in grado di rompere quella sorta di stupefazione che coglie le prede, quando il serpente si appresta a ingoiarle.

I liberali, poi, si aggrapparono a Mussolini, convinti che il loro ciclo storico fosse arrivato alla fine e che, abbracciando i vincitori, potessero salvare almeno il proprio ruolo e le proprie carriere; decretarono invece il funerale definitivo del liberalismo italiano: quando il fascismo finirà, nel 1945, i popolari risorgeranno nella Democrazia Cristiana, socialisti e comunisti si imporranno come protagonisti della Resistenza e della Ricostruzione, i liberali faranno solo una breve comparsa con il Pli di Malagodi nei governi centristi solidamente controllati dalla Dc. 

Nel libro c'è un'analisi puntuale anche della stratificazione sociale dell'Italia di inizio '900, con uno Stato liberale ormai incapace di mediare i conflitti che separavano gli operai dagli industriali, le campagne dalle città, con i contadini e i ceti medi che inseguivano un'autonomia politica mai sperimentata fino ad allora.

Quanto a Mussolini e al suo movimento, Fornaro non ha dubbi. La violenza fu lo strumento principale della vittoria fascista, con la complicità di quelle istituzioni che avrebbero dovuto garantire l'ordine e che accettarono invece con convinzione il disordine proposto dagli squadristi. 

C'è un documentario del 1923, A noi!, che sintetizza benissimo questa tesi. Fu realizzato a cura del Pnf, con riprese effettuate nei giorni della marcia su Roma, documentandone le varie fasi (l'adunata a Napoli, l'attesa alle porte di Roma, l'ingresso in città), fino alla sfilata in parata, il 30 ottobre 1922, in piazza del Quirinale. Scorrono così le immagini dell'Altare della Patria, di Mussolini con le ghette, del re sul balcone, con a fianco Paolo Thaon di Revel, ammiraglio, ministro della Guerra, e il generale Armando Diaz, il vincitore di Vittorio Veneto, il Duca della Vittoria.

A salutare gli squadristi c'era, insomma, l'Italia ufficiale, rappresentata dai suoi vertici politico-militari che applaudivano non a un fenomeno eversivo e rivoluzionario, ma a un movimento che sapevano avrebbe rinsaldato il loro potere piuttosto che destabilizzarlo. Nel 1923 il fascismo era ancora ansioso di legittimarsi come forza di governo, di acquistare una rispettabilità istituzionale in grado di far dimenticare al più presto le violenze squadristiche, rivendicando «un'Italia restaurata e non rivoluzionata».

Una didascalia del documentario, che indica «Benito Mussolini capo del governo di restaurazione», è oggi una sorta di monito: è al fascismo «perbene» che l'Italia del 1922 sacrificò per 20 lunghi anni la libertà e la democrazia.

Pitigrilli: la penna affilata di una spia al soldo dell’Ovra. Davide Bartoccini su Inside Over il 6 febbraio 2022.

Un personaggio scomparso dalla storia. Svanito nell’oblio che non di rado spetta a colui che è stato, ma le cui opere vengono costrette sullo scaffale del dimenticatoio, finché non se ne scriva o non se ne parli. Dino Segre, consegnatosi al secolo scorso con lo pseudonimo di Pitigrilli, oltre che romanziere, fu spia dalla penna affilata assoldata dall’OVRA: la polizia segreta, ma sarebbe meglio dire “politica”, dell’Italia fascista tra il 1930 e il 1943. Poi rimasta in auge nella Repubblica Sociale Italiana strenuamente tenuta dal Duce e dai suoi fedelissimi, fino al 1945.

La piovra e piccolo grigio

Se l’origine del nome inquietante della polizia politica del Duce non è mai stato oggetto di approfondite ricerche e adeguata documentazione venne considerato come acronimo di “Organizzazione di Vigilanza e Repressione dell’Antifascismo”. Ma anche solo come parola che aveva assonanza con “piovra”, il cui primo nucleo operativo fu formato a Milano nel 1927, dopo l’investimento della ragguardevole cifra di quaranta milioni di lire e l’indicazione di fornirle tutte caratteristiche tipiche di un’agenzia governativa segreta cui spettava il compito per l’appunto di vigilare e se necessario reprimere organizzazioni comuniste, sovversive e antifasciste.

L’origine dello pseudonimo Pitigrilli invece, nato a Torino il 5 maggio 1893 da padre israelitico e madre cattolica, viene raccontata dall’autore nelle sue biografie, e trae origine dalla curiosità per un cappotto di pelliccia indossato da sua madre. Alla domanda che teneva ad indagare a quale animale fosse costato la pelle, la madre gli rispose che era di “Petit-gris, di piccolo scoiattolo russo”. Per lui divenne Pitigrilli. Il nome che cercava. Lo pseudonimo perfetto con il quale si firmerà fino alla morte. Tranne quando inizierà a stilare quei rapporti segreti per la polizia politica del regime. Dove compariva il suo identificativo: agente numero 373.

Per l’OVRA, che è al corrente delle antipatie nutrite nei suoi confronti dal Duce e dal Partito Nazionale Fascista in generale, non era un problema fosse di padre israelita o se avesse la fama d’essere uno scrittore spregiudicato, autore di romanzi brillanti ma irriverenti, spesso a sfondo erotico, e per questo tacciati di pornografia. L’agente 373 era troppo ben inserito negli ambienti dell’intellighenzia che pianificava l’opposizione al regime e si fidava di lui – che pure era stato accusato d’essere un anti-italiano, oltre che un cocainomane e un omosessuale. Due di queste accuse si riveleranno avere un fondamento, l’ultima, a quel che ci è dato sapere, no.

Pitigrilli era soltanto un libertino ben inserito nell’alta società torinese che come piaceva ricordare a lui “se non parlava il piemontese parlava il francese”. E lo era, ben inserito, anche nella comunità ebraica a cui in parte apparteneva. Un animo complesso che s’innamorò – venendo contraccambiato – della sua primissima ispiratrice, la poetessa Amalia Guglielminetti e che in seguito si sposerà due volte, pur dichiarandosi in spesse occasioni inadatto alla vita da consorte e alle beghe coniugali che gli portarono comunque due eredi.

Avvicinato dalla piovra agli inizi degli anni ’30, dopo essere stato arrestato anche lui nel 1928 per aver “offeso la figura di Mussolini” a mezzo stampa, Pitigrilli divenne al contrario di quanto un grigio censore potesse immaginare, “talmente apprezzato” nel suo lavoro – descritto in più occasioni come una collezione di “tanti piccoli capolavori di sintesi psicologica” sugli uomini che doveva spiare -, da motivare un discreto esborso di denaro nei suoi confronti. L’OVRA arriverà a destinargli ogni mese assegni di ben cinquemila lire. Uno stipendio notevole, che sommato a diritti d’autore dei suoi romanzi sempre apprezzati dal grande pubblico, consentiva ad un mammifero di lusso come lui di condurre la vita dispendiosa e raffinata tra spionaggio, letteratura e giornalismo.

La missione dello “scoiattolo grigio”

L’uomo che scriveva romanzi scabrosi, irriverenti, allusivi, da una prosa pungente e non priva di un certo sarcasmo, redigeva pure, con la stessa macchina da scrivere, dossier destinati all’OVRA che avrebbe sguinzagliato i suoi cacciatori di antifascisti per fare piazza pulita dell’opposizione clandestina. Data la presenza di acute osservazioni, che spaziano dalle succitate analisi psicologiche degli individui che sorveglia in segreto, ad informazioni degne degli scoop giornalistici, Pitigrilli venne inviato a Parigi per prendere contatto con la mente del gruppo di Giustizia e Libertà. Una cerchia di intellettuali torinesi che gira intorno alla figura di Carlo Rosselli, ormai in esilio, del quale Pitigrilli sa guadagnarsi la fiducia.

Il gruppo, attivo a Torino, svolge attività illecite come la propaganda sovversiva e la formazione di adepti che dovranno formare le fila dell’antifascismo. L’agente 373 entrerà così a contatto con i sovversivi che avevano trovato un leader nel carismatico Leone Ginzburg, fondatore della casa editrice Einaudi, e fornisce all’OVRA tutte le informazioni per procedere all’arresto di Vittorio Foa (15 anni di reclusione, ndr), e di tutti gli altri “ex-allievi” del Liceo d’Azeglio: Norberto Bobbio, Massimo Mila, Giulio Einaudi. E al confino di Carlo Levi e Cesare Pavese. Oltre ovviamente a quello di Ginzburg. I fratelli Rosselli invece, verranno assassinati da alcuni estremisti appartenente all’organizzazione estremista della destra francese, la Cagoule, nel 1937. Probabilmente su commissione della stessa “piovra” che aveva ricevuto le informazioni dallo “scoiattolo grigio”.

Un israelita da defenestrare

Con il passare del tempo e l’avvicinamento del capo del Fascismo al problema della questione ebraica, i rapporti tra Pitigrilli e  l’OVRA cominciano ad incrinarsi. Nel 1939 la polizia segreta del regime invia a Parigi una spia con l’ordine di pedinare l’intellettuale che non “rende” più come dovrebbe. L’agente 373 non fornisce più informazioni degne di nota, nonostante il compenso che gli viene pagato. “È svogliato” e più interessato agli svaghi mondani che alla rigida sorveglianza di possibili reti antifasciste che si sono rifugiate oltralpe. La promulgazione delle leggi razziali e lo scoppio del conflitto che agiterà ulteriormente gli animi del PnF, finirà per spingere l’OVRA a liberarsi di quella spia israelita che scrive romanzi pornografici e articoli di giornali impudenti. La penna avvelenata che non si era mai risparmiata nel prendersi gioco di tutto e tutti.

Spogliato della protezione dell’OVRA, nel giugno nel 1940 sarà mandato addirittura al confino, a L’Aquila. Dovrà intervenire la sua amica Edvige Mussolini per “liberarlo”. Nel 1943, quando nell’Italia spaccata in due le cose minacciano di mettersi male, fugge in Svizzera. Ma la sua vita è ormai segnata da una stigmate indelebile, che verrà rivelata appena terminata la guerra. Già emarginato nel 1945 per i sospetti nutriti sul suo conto, nel 1946, in seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’elenco dei confidenti della polizia fascista, Dino Segre, in arte Pitigrilli, viene scoperto essere stato un collaboratore del regime accusato dei più infami crimini di guerra. A nulla servirà l’aiuto di un giovane Giulio Andretti, poiché la colpevolezza era “irrefutabile” secondo la Commissione che ne aveva esaminato il ricorso.

Ogni strada viene preclusa a quello scrittore polimorfo, che rischia di incappare in vendette e ritorsioni. Si trasferisce in Argentina, per fare ritorno a Parigi solo dopo la metà degli anni ’50. Per mantenersi, firmerà articoli con il nuovo pseudonimo di Flamel, allontanandosi molto dallo stile pungente e disinvolto che un tempo aveva spinto D’Annunzio a sfidarlo a duello dopo l’affondo sferrato sulla carta stampata ai danni del Vate. Per Pitigrilli il rispettare un’idea aveva sempre significato “rendersi complice di un’ipocrisia altrui”. L’anticonformismo della sua gioventù come il conformismo della sua maturità, potevano entrambe iscriversi dunque nell’ipocrisia suggerita dal momento. Da quel momento in poi abiterà a Parigi come l’aveva abitata in gioventù, con le pose del vecchio saggio redento e con il fardello dello scomodo passato sul quale, non è illegittimo pensarlo, si sarà a lungo interrogato. Morì nella sua città natale, tre giorni dopo il suo ottantaduesimo compleanno, nella casa a via Principe Amedeo. Era il 1975.

Se si sia mai pentito o perdonato per aver concesso i suoi servigi alle mefitiche idee del Fascismo liberticida e spione, non abbiamo prova certa. Di sicuro tradì la fiducia di molti, e da altrettanti venne tradito nella fiducia. Forse da vecchio saggio cattolico qual era diventato in un percorso di ipotizzabile redenzione, terminò con l’affidare la sua anima a quel genere di clemenza individuale che assurge non di rado confessione universale: “Con nessuno osiamo essere impudicamente bugiardi come con noi stessi”. Pitigrilli nel corso della sua vita mai osannata dai critici di bandiera, che oggi come un secolo fa hanno sempre saputo ostentare snobismo nei suoi confronti, dev’essersi senza dubbio mentito molte volte. Tutte le sue verità – tranne una – rimangono custodite per sempre nei suoi romanzi.

Tra Pearl Harbor e Salò. La strana alleanza tra l’Italia e il Giappone. Marco Valle su Inside Over il 17 dicembre 2021. L’ottantesimo anniversario dell’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 7 dicembre 1941 con lo scatenamento – casuale, indotto, voluto, provocato? –  della guerra del Pacifico poco o pochissimo ha arricchito la vastissima documentazione. Con qualche eccezione, come il solido lavoro di Tommaso de Brabant, giovane ma già promettente ricercatore, sul fitto quanto controverso intreccio politico-diplomatico tra Tokyo e Roma (e poi Salò). La lupa e il Sol Levante (Passaggio al bosco, Firenze) ripercorre con agile scrittura e ottime fonti l‘incontro/confronto tra due ambiziose medie potenze durante le tempeste del Novecento. Un rapporto, al netto delle retoriche propagandistiche (più italiane che nipponiche), sempre sferragliante sui binari della real politik, quel realismo politico in ogni epoca e tempo avvicina o distanzia gli Stati a seconda delle loro convenienze e interessi. Il dialogo italo-giapponese non fece eccezione. Ma andiamo per ordine. All’indomani dell’Unità, la pirocorvetta Magenta – impegnata nella prima circumnavigazione del globo della Regia marina (870 giorni, dall’autunno 1865 alla primavera 1868) – raggiunse il Giappone al comando del savoiardo Vittorio F. Arminjon. Attraccata l’unità nella baia di Yedo l’ufficiale, per l’occasione anche ministro plenipotenziario, stipulò il 25 agosto 1866 il primo trattato commerciale tra Italia e Giappone; nel corposo documento (23 articoli, 6 regolamenti commerciali, una convenzione addizionale) lo shogun Yoshinobu concedeva ai nostri connazionali il diritto di operare e risedere nei porti nipponici aperti al commercio estero e la possibilità  di acquistare bachi da seta (necessari all’industria serica lombarda e piemontese in crisi a causa di un’epidemia in Europa). Un buon affare oltre che una efficace dimostrazione di diplomazia e la prima di numerose missioni navali – in tutto 20 tra il 1870 e il 1896 – in Giappone e Corea. Un inizio promettente seguito da due importanti crociere del duca di Genova nel 1872 e nel 1879. Grazie anche alla presenza del principe di casa Savoia, come ricorda il professore Alessandro Mazzetti, si aprirono prospettive decisamente interessanti: “Gli scambi commerciali raggiunsero il valore di 2,5 milioni di dollari d’argento e l’Italia fu scelta come prima tappa europea della famosa missione militare del generale Oyama. Furono visitate le fabbriche d’armi di Napoli, Torino, La Spezia e qualche tempo dopo furono richiesti dal governo giapponese esperti e materiali per l’organizzazione dell’arsenale di Osaka, I telemetri scelti per le artiglierie nipponiche furono realizzati dalla Galileo di Firenze”. In più si cercò (e si ottenne) l’appoggio dei giapponesi per l’installazione di una stazione commerciale a Taiwan, prodromica ad un futuro insediamento coloniale. Ambizioni, progetti e affari che purtroppo evaporarono in breve tempo. L’Italia del tempo – un Paese ancora rurale, mal infrastrutturato e diretto da un ceto politico irrimediabilmente terragno e provinciale – non era pronta per avventure oltremare. Come si evince dai numeri, la stessa apertura nel 1869 del canale di Suez, porta liquida verso l’Asia e formidabile acceleratore economico globale, si era rivelata un’occasione perduta: i traffici italiani lungo l’idrovia rimasero a lungo irrilevanti: solo il 2,7 dei passaggi totali tra 1870 e il 1890. Un dato pesante, causato dall’arretratezza tecnologica della Marina mercantile ancora vincolata al legno e alla vela e nel primo decennio unitario, i piroscafi a vapore costituivano solo il 2 per cento della flotta e le navi in ferro non superavano le 25 unità. Molto ancora restava da fare per trasformare il patrio Stivale, riprendendo la bella immagine tratteggiata da Stefano Jacini, in un “grande ponte sorgente verso l’Oriente” e presto il Paese del Sol Levante si eclissò rapidamente dagli sguardi della nostra diplomazia, molto attenta a non turbare gli interessi delle potenze maggiori (Gran Bretagna in primis), e per gli italiani colti il Giappone rimase sino ai primi anni del Novecento un posto remoto e fascinoso, uno scenario quasi favolistico o poco più. Come sopra accennato, a “mostrar bandiera” in quei mari lontani s’incaricò la Regia marina. In perfetta solitudine. A risvegliare gli interessi politici e commerciali italiani fu la guerra russo-giapponese del 1905, un vero cambio di paradigma. Nel febbraio 1904 i giapponesi – “scordandosi”, come a Pearl Harbor nel ’41, la dichiarazione di guerra – attaccarono la flotta russa alla fonda a Port Arthur: in soli dieci minuti piccole siluranti immobilizzarono le principali unità della possente squadra del Pacifico consegnando così all’ammiraglio Togo il sea control dell’intero scacchiere. Il colpo finale arrivò il 27 maggio dell’anno seguente. In meno di 24 ore la flotta nipponica annientò la squadra di soccorso zarista giunta dal Baltico dopo otto mesi di navigazione. Fu Tshushima la grande battaglia navale che distrusse il mito dell’invincibilità russa e annunciò il tramonto della primazia europea nel Far East. Nuovo e inatteso protagonista della scena mondiale, il Giappone divenne presto troppo ingombrante per gli anglo-americani e un possibile interlocutore per tutte le medie potenze “revisioniste” dell’assetto tracciato a Versailles nel 1919. Tra queste l’Italia mussoliniana, che si avvalse dell’appoggio di Tokyo nelle varie conferenze per il disarmo navale; una sintonia che nel 1936 portò i due Paesi – insofferenti dell’ordine fissato a Versailles sui teatri che per loro contavano: il Mediterraneo per l’Italia, il Pacifico per il Giappone – a non firmare il Trattato di Londra scardinando così un altro punto chiave dell’ordine internazionale del tempo. In questo come in altri casi – e Tommaso De Brabant ben lo spiega nel suo denso lavoro – si trattò di convergenze provvisorie attuate nel segno del pragmatismo e non di un percorso lineare d’avvicinamento politico. L’intermittente politica asiatica di Roma privilegiò sempre l’India e i riferimenti del movimento indipendentista (Gandhi, Tagore, Bose) e in una lunga fase la Cina di Chiang Kai-shek mentre il robusto filo-nipponismo mussoliniano maturò, si vedano i lavori di Renzo De Felice, solo in un secondo, tragico momento. A partire dal 1936, rimossi i forti contrasti emersi durante la crisi d’Etiopia, le distanze tra i due governi si raccorciarono sino a stringersi formalmente con il patto Anti-Comintern del 1937 e la firma del patto Tripartito nel 1940.  Due passaggi, al netto dell’enfasi propagandistica, poco rilevanti in uno scenario mondiale ormai in vorticoso movimento. Infine, l’entrata in guerra dei giapponesi il 7 dicembre 1941 che agli occhi di un sempre più preoccupato Mussolini divenne una provvidenziale sponda politica prima per tentare di ridiscutere gli equilibri interni dell’Asse e poi, dopo l’evidente crisi sul fronte russo e l’intervento americano, l’unica strada per una soluzione politica del conflitto mondiale. E qui, riprendendo i lavori di Eugenio Di Rienzo e Emilio Gin, Franco Bandini e Piero Buscaroli, De Brabant ritrova il bandolo della matassa. Mentre il dittatore germanico si dispiaceva per il crollo anglosassone a Singapore, Mussolini comprese presto l’inutilità della “crociata antibolscevica” in Russia (avesse evitato di spedire sul Don i nostri soldati sarebbe stato meglio…) e tentò d’inserirsi  – come si evince dalle verifiche archivistiche di Di Rienzo e Gin – nella mediazione sotterranea tra Mosca e Berlino. Una situazione d’attesa. Hitler iniziò a rinviare la decisione in attesa di una vittoria decisiva per trattare da posizioni di forza. Il nodo centrale rimase il controllo dell’Ucraina – il granaio d’Oriente – e i pozzi del Caucaso. La tremenda battaglia di Kursk dell’agosto 1943 chiuse la questione. La parola tornò alle armi. La guerra era perduta, definitivamente. Ma ancora nel suo rifugio sul lago Mussolini continuò a guardare ad Oriente alla ricerca di una speranza. Qualsiasi speranza. Come nota l’autore, per mesi il “fantasma del Garda” continuò ad incontrare la delegazione nipponica in cerca di una soluzione. Qualsiasi soluzione. Nella nota del 26 marzo 1944 su Corrispondenza repubblicana, il capo del fascismo commentò con entusiasmo la notizia che le truppe dell’imperatore Hirohito avevano varcato, in una disperata offensiva, la frontiera indiana, entusiasmando gli indipendentisti anti britannici. “La politica del Giappone, e diciamo ‘politica’ nel senso più intelligente, registra un clamoroso successo, dovuto alla fiducia che il governo di Tokyo è riuscito a suscitare nelle popolazioni indiane […]  I confini sono stati superati. La ruota del destino corre. In questa guerra piena dell’imprevisto e dell’imprevedibile, si è aperta dopo quella del Pacifico, la fase indiana…”. Il 22 febbraio 1945 Mussolini ricevette il generale Shimuzu, l’ultimo rappresentante giapponese in Rsi, che lo rassicurò (o almeno sembra…) sulle sorti delle trattative con le potenze nemiche. L’ultima illusione, poi il silenzio.

L'intellettuale atipico. Chi era Nicola Chiaromonte, un incompreso di sinistra tra socialismo e libertà. Corrado Ocone su Il Riformista il 14 Gennaio 2022.  

Nicola Chiaromonte, lucano di Rapolla (vi era nato il 12 luglio 1905), è stato un intellettuale atipico, non facilmente classificabile. Eppure chiaro, cristallino, conseguente nel suo ragionare. E nella sua concezione del mondo e della vita, tempratasi fra gli eventi tragici di un secolo che lo avevano visto prima fuggire dall’Italia verso la Francia (1935) e poi dall’Europa verso l’America (1942).

E all’estero Chiaromonte, oltre a intrecciare relazioni con intellettuali di peso come Albert Camus o Hannah Arendt, ha conosciuto una fortuna che non si può dire abbia avuto in Patria, ove, col fascismo ma anche dopo, hanno avuto predominio ideologie forti, chiuse, spesso faziose e dogmatiche. Che poco avevano a che fare col suo razionalismo scettico e con il suo innato senso di “Giustizia e libertà”, i due ideali a cui faceva riferimento la formazione antifascista di Carlo Rosselli in cui militò, pur fra mille attriti ideologici e anche personali, legandosi soprattutto a un altro irregolare, il libertario Andrea Caffi, che considerò sempre il suo maestro. Era perciò doveroso che a Chiaromonte, alla sua statura umana e intellettuale, fosse finalmente dato riconoscimento con la ristampa, a cinquant’anni della morte (avvenuta a Roma il 18 gennaio 1972), delle sue opere in un magnifico Meridiano Mondadori curato da Raffaele Manica (pagine 1984, euro 80). Opere che sono per lo più raccolte di scritti o saggi su eventi politici, civili, di attualità culturale (Chiaromonte fu anche un fine critico teatrale). E che spesso si trovano infarcite di riflessioni filosofiche profonde, con una cifra che è sempre nobilmente “moralistica”, volta a difendere il singolo dai poteri grandi e piccoli che incontra nel suo cammino e dalle idee che tendono a farsi dogmatiche, assolute, e quindi pericolose.

Ed è in quest’ottica che si inserisce il suo socialismo umanistico e umanitario, libertario, molto simile ma non uguale a quello dell’amico Ignazio Silone, con il quale Chiaromonte dette vita, ritornato in Italia, a una delle più belle e ben fatte, e sicuramente la più internazionale, fra le riviste del secondo dopoguerra: Tempi presenti. Per Chiaromonte, in cui è pure forte l’impronta esistenzialistica, l’uomo non può vivere senza una fede. Se la fede nella Storia ha segnato l’uomo moderno, quella fede è miseramente crollata nel 1914, con lo scoppio della prima guerra mondiale. Non ci rimane allora che la ragione, ma quella di Chiaromonte è una ragione fondata anch’essa su di una fede e per questo non coincidente affatto con quella degli scienziati. «Se vuol mantenersi nei limiti della ragione e non sconfinare nel dogmatismo, nel fanatismo o nella pazzia, il razionalista – scrive in quel piccolo gioiello che è Credere e non credere (1971) – deve riconoscere che la sua certezza è da ultimo fondata sulla credenza». In effetti, la stessa “anima dell’impresa scientifica” è «messa in dubbio da tutto ciò che nel mondo non può essere espresso in termini di obbiettività misurabile, e non per questo è meno reale. Vale a dire una credenza».

Ciò che allontanava Chiaromonte, che era uomo di sinistra, dal comunismo e da certo socialismo, che pure avevano preso in carico (almeno in punta di teoria) le sofferenze dei deboli e degli oppressi, era la convinzione che ci si salva uno alla volta, non collettivamente. L’uomo però vive in una società, e “la verità della vita” consiste in null’altro che in quell’abbandono «all’immediatezza dei sentimenti da cui scaturisce quel tanto di felicità che la vita stessa può dare». Di qui la capacità che ha la grande letteratura di capire più a fondo della stessa filosofia quel nucleo esistenziale originario, con le sue mille torsioni e sfaccettature, che ci costituisce a accompagna. I nomi di Malraux, Pasternak, Tolstoj, degli stessi Camus e Silone, si rincorrono in queste pagine, copratogonisti di un romanzo di vita di cui Chiaromonte è al centro. In lui c’è sempre forte anche la consapevolezza della fitta rete di finzioni sociali in cui siamo avvolti.

Il nostro è Il tempo della malafede, come è intitolato un altro dei più noti saggi di Chiaromonte ora antologizzati. La malafede è qualcosa di più della menzogna ma anche qualcosa di meno: essa ci impone un continuo esame autocritico oltre che critico. Non c’è dubbio che un irrefrenabile bisogno di autenticità, forse irraggiungibile, pervada tutta l’opera di Chiaromonte. Una ricerca ossessiva della verità, ma anche la tragica consapevolezza che di troppa Verità si può anche morire. Anche e soprattutto in politica. Corrado Ocone

ALDO CAZZULLO per corriere.it il 14 gennaio 2022.

«Un incontro raro, di quelli che cambiano la vita. Da una parte un brillante giornalista, Telesio Interlandi, il direttore preferito da Mussolini, temuto dai più per le sue intransigenti campagne razziste, arrestato e misteriosamente scarcerato. 

Dall’altra uno stimato avvocato figlio d’arte, Enzo Paroli, socialista e antifascista: avrebbe tutti i requisiti per l’aureola che gli faciliterebbe l’ascesa nel nuovo ordine delle cose dopo la Liberazione, ma preferisce vivere sul filo del pericolo. Alterna sprazzi di vita normale nello studio legale a fughe d’amore clandestine con la sorella del peggior squadrista della zona. Ma il suo vero segreto sono le quotidiane incursioni nello scantinato che ha adibito a rifugio, salvando l’appestato numero uno del momento: il superlatitante Interlandi e la sua famiglia».

Che cosa spinge un antifascista a salvare la vita a uno dei personaggi più odiosi del regime? È una domanda che interroga l’animo umano, e non a caso ha ispirato libri importanti. Pare la trama di Soldati di Salamina di Javier Cercas, l’ultimo grande libro civile ad aver venduto milioni di copie in tutto il mondo, che racconta appunto come a guerra finita — e perduta — un repubblicano abbia risparmiato e protetto Rafael Sánchez Mazas, capo falangista (naturalmente stiamo parlando di un’altra guerra civile, quella spagnola).

Venendo in Italia, non si può non ricordare A via della Mercede c’era un razzista, il bellissimo libro che a Telesio Interlandi ha dedicato Giampiero Mughini. La storia del salvataggio di Interlandi per opera di Enzo Paroli la voleva raccontare Leonardo Sciascia; ma la malattia non gliene ha lasciato il tempo. Per fortuna un giornalista importante, Virman Cusenza, a lungo direttore del «Messaggero», ha avuto accesso al dossier in cui Sciascia aveva accumulato carte e appunti. E ha scritto — da italiano, e da siciliano — il libro che Sciascia aveva solo sognato. Il titolo è Giocatori d’azzardo. Storia di Enzo Paroli, l’antifascista che salvò il giornalista di Mussolini, Mondadori lo manda martedì 11 gennaio in libreria. 

Come tutte le grandi vicende, anche questa parla di noi. È uno spaccato di storia italiana negli anni cruciali della guerra civile. Un coraggioso avvocato, che nasce da un padre fondatore del Partito socialista e di cui condivide la fede antifascista, fino ad andare in galera al suo posto, decide di assumere la difesa di un noto direttore che ha orchestrato la propaganda antisemita del regime e, con i suoi giornali, ne è stato la falange più avanzata. 

Fino a risultare inviso perfino ai gerarchi. «Disponiamo oggi di qualche tassello di verità in più — scrive Cusenza — per capire che cosa può averlo convinto a nascondere il fuggiasco, addirittura in casa propria per otto mesi e mezzo (con moglie e figlio), per evitargli un processo con probabile sentenza di morte o una sventagliata di mitra per strada: al punto di correre personalmente il rischio di finire in galera, perdere la professione se non la stessa vita davanti a una più che possibile rappresaglia per mano di zelantissimi giustizieri del momento.

Difficile da capire, a distanza di oltre settant’anni, se ci atteniamo al comportamento più consueto tra gli uomini. E il tempo trascorso non fa che amplificare l’eccezionalità del gesto compiuto in quel contesto. Secondo Tolstoj, più aumenta la distanza temporale da un fatto più le azioni dei protagonisti appaiono dettate dalla necessità anziché dalla libera scelta. E invece in questo caso assistiamo al trionfo di un atto che ci appare, ancora oggi, del tutto libero e perciò fuori dal comune. 

Non solo il gesto compiuto dall’avvocato Enzo Paroli è complicato da capire, se non facendo uno sforzo di immedesimazione che ai più riesce arduo. Ma è anche eccezionale rispetto all’assai ricorrente “senso di giustizia” cavalcato opportunisticamente nel corso dei secoli. Si tratta di quel ribaltamento grazie al quale si compie un balzo che produce effetti miracolosi per chi se ne faccia protagonista. 

Soccorro il vincitore scaricando il vinto di ieri e assolvo così la mia coscienza, acquisendo meriti spendibili davanti alla comunità che me li riconosce volentieri, pur di liberarsi essa stessa da scomodi sensi di colpa. Che cosa c’è di meglio di questa scorciatoia per voltare comodamente e salvificamente pagina? Paroli sceglie la strada opposta: più impervia e niente affatto redditizia. Ed è per questa ragione che il suo gesto ne fa ancora oggi un uomo da sottrarre all’oblio».

Tutto questo ovviamente non cancella l’orrore dell’antisemitismo, e le responsabilità dei fascisti nella persecuzione degli ebrei. È utile anzi ricordare che, se la razzia del ghetto di Roma fu opera dei nazisti, furono purtroppo i fascisti italiani a dare la caccia agli ebrei veneziani, compresi i bambini dell’asilo e i vecchi degli ospizi. Né si può dire che Interlandi sia il Céline italiano; perché se Viaggio al termine della notte resta un grande libro, a dispetto delle idee odiose dell’autore, de «La difesa della razza» dal punto di vista letterario e giornalistico per fortuna non resta molto più di nulla. 

Quello che resta è semmai il gesto di umana pietà che riconcilia i nemici della guerra civile. Lo stesso spirito che si ritrova nell’ultima lettera del tenente Pedro Ferreira, condannato a morte della Resistenza, che ringrazia il tenente Barbetti per aver tentato di salvargli la vita. E anche nella lettera del capitano Balbis, uno degli eroi del Martinetto — il poligono di tiro dove vennero fucilati i capi della Resistenza piemontese —, che nel momento supremo si pone il tema della riconciliazione: «Possa il mio sangue servire per ricostruire l’unità italiana…». 

Il libro di Cusenza, costruito con il passo della grande inchiesta, è pieno di dettagli, notizie, curiosità, riflessioni, che è giusto lasciare al lettore. Questa conclusione invece va anticipata: «Chi fa del bene può dimenticare velocemente, come del resto chi fa del male, scegliendo o non scegliendo di assumersi una responsabilità, vedi il caso di Pilato. Ma chi riceve il bene, come il male, ha il dovere di ricordare. 

E Sciascia ricorda con lui, con Paroli, un gesto straordinario che scardina le comode linee divisorie che per tutto il dopoguerra, e anche oltre, consentiranno ai furbi teorici dei mondi opposti e inconciliabili, delle barricate e delle cortine di ferro, di erigere muri sotto i quali magari scavare gallerie. Per non ammettere mai, in pubblico, che con il presunto nemico segretamente poi si divideranno i frutti della conveniente separazione.

Un gesto solare di solidarietà, di quelli che nella Sicilia di Interlandi una volta dovevano essere comuni e frequenti, ha avuto origine invece tra le nebbie brumose del lago di Garda. Dove la cortina grigia e apparentemente uniforme confonde uomini e cose, e aiuta a scoprirne la somiglianza, l’affinità e, alla fine, la profonda comune identità che in esse si nasconde».

L'"affaire" Interlandi. L'avvocato antifascista che difese e salvò il giornalista del Duce. Luigi Mascheroni il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Riemerge un episodio eroico della guerra civile su cui Sciascia voleva scrivere un libro.

È nelle zone grigie che ci s'imbatte nelle storie più luminose. Ecco qui: da quell'appiccicosa zona grigia in cui si mossero milioni di italiani, in bilico tra fascismo, antifascismo, indifferenza e stanchezza, e che non ne volevano più sapere del conflitto e dei suoi strascichi, cercando solo di uscirne con il minimo dei danni il prima possibile, tra la fine del 1945 e l'inizio del '46, fra guerra civile, vendette e cinismo, spunta una vicenda esemplare di quello che fu l'Italia di quei mesi, rimasta a lungo a conoscenza di pochi, e non in tutti i particolari, ora svelata da un lavoro di ricerca storica merito dell'autore, Virman Cusenza - da manuale.

Un fatto che ha come protagonisti un avvocato celebre nella Brescia degli anni Trenta e Quaranta, e poi del tutto dimenticato. E uno dei più feroci giornalisti del regime, megafono della politica razziale di Mussolini, dalla fine delle guerra condannato alla damnatio memoriae. Il primo, che ne esce più eroico di quanto i suoi stessi amici abbiano a lungo sospettato, si chiama Enzo Paroli, socialista e antifascista, toga di grido nella città dell'epoca, professionista elegante, anticonformista e tombeur de femmes: fu ostinato amante della sorella di Ferruccio Sorlini, feroce squadrista della zona del Garda. Il secondo, che ora ci appare persino più umano di quanto tanta pubblicistica ci ha raccontato, si chiama Telesio Interlandi, uno dei giornalisti più fedeli di Mussolini, raffinato intellettuale e antisemita, agitatore della più violenta propaganda antiebraica del Ventennio.

E l'episodio di cui furono protagonisti - che tiene dentro senso del dovere, coraggio, azzardo, paura e un'idea superiore di giustizia - è un inconsueto e raro atto di pura generosità, senza richiesta né offerta di contropartita. Quello con cui Enzo Paroli prima accettò di difendere dall'accusa di collaborazionismo Telesio Interlandi, e poi lo tenne nascosto con moglie e figlio nello scantinato della sua casa bresciana, per otto mesi e mezzo, al riparo dalle retate della polizia e delle bande partigiane, salvandolo fino alla amnistia Togliatti del giugno 1946 - da un sicuro regolamento di conti. In quei giorni una raffica di mitra era il mezzo migliore per chiudere le faccende più semplici come le più ingarbugliate.

La storia di Enzo Paroli, morto nel '66, e al quale nessuno ha mai consegnato una medaglia al valore, e quella del superlatitante Telesio Interlandi, sopravvissuto a una giustizia che avrebbe potuto essere soltanto vendetta, è rimasta di fatto nascosta per oltre 40 anni nella cantina in cui convissero le due famiglie. Poi arrivò alle orecchie di Leonardo Sciascia, un uomo per il quale qualsiasi giustizia terrena non trattenuta dalla pietà è solo l'anticamera della vendetta. Lo scrittore siciliano, come siciliano era Interlandi, si incuriosì di quello straordinario gesto tanto paradossale quanto disinteressato: volle incontrare i parenti dell'avvocato, andò a Brescia per raccogliere appunti, mentre a Roma parlò col figlio di Interlandi. Sciascia - era il 1989 - aveva anche in mente il titolo del libro che voleva scrivere: Il razzista e l'antifascista. Ma la malattia non gliene diede il tempo. Anni dopo sarà Giampiero Mughini, altro siciliano, di Catania, a raccontare di Telesio Interlandi e di quella Roma artistica, furiosa e vitale: il suo libro A via della Mercede c'era un razzista (1997) cita anche i fatti di Brescia.

Ora, dopo un lungo studio della vicenda, la scoperta di documenti inediti, carte di archivio e nuove testimoniante, è Virman Cusenza, siciliano di Palermo e giornalista di lungo cursus honorum (firma del Giornale di Montanelli, poi direttore del Mattino e quindi del Messaggero), a ricostruire in ogni dettaglio il complicato affaire, calandolo - come era necessario fare nell'Italia del tempo, dove a dominare non era né il bianco né il nero, ma tutte le sfumature della meschinità, dei «canguri giganti» che saltarono l'8 settembre, dei minuscoli tornaconti, di nobili principi e di meschinità. È tutto qui dentro: Giocatori d'azzardo. Storia di Enzo Paroli, l'antifascista che salvò il giornalista di Mussolini (Mondadori). Definitivo.

Tutto inizia a Brescia, nel novembre 1945. L'avvocato Enzo Paroli, figlio di un principe del foro locale, impeccabile preparazione professionale e solida cultura socialista (e soprattutto uomo che non si lascia soggiogare dall'odio in quell'Italia confusa e ideologica) incontra nell'affollato carcere di Canton Mombello il detenuto Telesio Interlandi: penna brillantissima, amico personale del Duce, già direttore dello spregiudicato quotidiano Il Tevere e poi del settimanale Quadrivio sulle cui pagine scriveranno giovani e meno giovani che dopo la caduta del fascismo saranno personaggi di primo piano sia dell'antifascismo sia della resistenza: Cardarelli, Soldati, Pirandello, Corrado Alvaro, Antonello Trombadori, Brancati, e poi Ercole Patti, Corrado Sofia, e lo stesso Malaparte mentre è al confino a Ischia - e quindi dal '38 al '43 direttore del famigerato quindicinale La difesa della razza, pochissime copie stampate ma parole che pesano come pietre, punto di riferimento della politica razzista messa in atto dal fascismo. Interlandi è accusato di «collaborazionismo» con l'invasore nazista. È scappato da Roma sul Garda, sebbene non avrà alcuna carica nella Repubblica di Salò, anzi rifiuta persino la direzione del Corriere della Sera (per quanto non indietreggi di un passo rispetto alle sue idee razziste). Paroli da parte sua si rende conto di avere davanti un irriducibile pesantemente compromesso col fascismo, certo; ma prima di tutto una persona in pericolo di vita. Se lo avessero trovato i partigiani lo avrebbero giustiziato, forse anche con moglie e figlio. Con un colpo d'azzardo assume la difesa del giornalista. Approfitta di una mai chiarita quanto rocambolesca scarcerazione del prigioniero e decide di nasconderlo nella propria casa fino al giugno '46: oltre otto mesi, in cui, diversi in tutto, i due uomini sono costretti a vivere, parlare e aver paura fianco a fianco.

Archiviato il caso Interlandi vivrà libero e persino ricco, ma isolato, fino al 1965 restano una domanda e un insegnamento. La prima: cosa spinge un brillante avvocato a mettere a repentaglio la propria carriera per proteggere un vinto, uno sconfitto dalla Storia? (risposte: «pietas»? senso di umanità? anticonformismo?). Il secondo è che a salvare l'Italia del dopoguerra da una divisione ancora oggi non del tutto ricomposta, simboleggiata da due famiglie così diverse obbligate a convivere su due opposte barricate ideologiche, non poteva e non dove essere una giustizia tetragona e fanatica. Ma, forse, singoli atti di disinteressata tolleranza e solidarietà.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi, della sottile arte di copiare da Marziale al web" (Aragno, 2015); I libri non danno la felicità (tanto meno a chi non li legge) (Oligo, 2021).

·        Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.

Sarfatti, "l'americana" che spiegò il fascismo al Nuovo Mondo. Francesco Perfetti l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.

L'intellettuale ebrea amata dal Duce non seppe convincerlo a fidarsi degli Usa.

Non si sa con esattezza quando i due si incontrarono per la prima volta. Nel libro autobiografico My Fault, ancora inedito in Italia, Margherita Sarfatti (1880-1961) raccontò di aver sentito parlare per la prima volta di Benito Mussolini nell'ottobre 1911, ma non è da escludere che i due avessero avuto l'occasione di incontrarsi di sfuggita già nell'ottobre 1910 al congresso socialista di Milano. Comunque sia, è certo che, dopo che Mussolini ebbe assunto la direzione dell'Avanti!, Margherita, che vi collaborava da tempo, si recò da lui a far visita.

Era, sempre, lei, Margherita Grassini, discendente da una famiglia ebraica veneziana, la donna elegante e affascinante che, divenuta moglie dell'avvocato socialista Cesare Sarfatti, stupiva i compagni socialisti con la sua cultura artistica e il comportamento un po' snob ben diverso da quello di un'Anna Kuliscioff e di un Filippo Turati. Mussolini, invece, era cambiato: non più il bohémien sciatto e trasandato delle prime battaglie socialiste, la barba incolta e l'atteggiamento sprezzante nei confronti dei borghesi, ma un uomo di bell'aspetto, con i baffi, curato nell'abbigliamento, lo sguardo intenso e indagatore.

Quel primo incontro segnò il destino, professionale e personale, dei due. La Sarfatti continuò a scrivere su l'Avanti!, seguì Mussolini su Il Popolo d'Italia, ne divenne amante e musa ispiratrice risvegliandone l'interesse per i temi artistici e culturali. Ma, soprattutto, fu colei che, con il volume biografico Dux, pubblicato nel '26, gettò le premesse per la creazione del «mito di Mussolini» come dell'uomo venuto dal popolo, il «figlio del fabbro» e non già il «piccolo borghese» quale egli era in realtà. Mussolini ne fu entusiasta perché, come scrisse nella prefazione, il libro lo «proporziona nel tempo, nello spazio e negli eventi, senza ipertrofie malgrado l'amicizia e la comunità del lavoro e delle idee».

Per tutta la prima metà degli anni Venti Margherita Sarfatti fu la dominatrice assoluta del mondo artistico e culturale italiano: il suo salotto milanese divenne il punto di ritrovo dell'intellettualità del tempo. Un momento importante della sua biografia fu quello della fondazione del «Gruppo del Novecento», che comprendeva sette artisti, provenienti da esperienze diverse ma uniti dal desiderio di avviare un «ritorno all'ordine» dopo l'ubriacatura avanguardistica: Mario Sironi, Achille Funi, Leonardo Dudreville, Anselmo Bucci, Emilio Malerba, Pietro Marussig e Ubaldo Oppi. Il successo del «Gruppo del Novecento», prima, e, poi, del «Novecento Italiano», che ne fu la prosecuzione più o meno spuria, provocò un vivace dibattito sull'«arte fascista» e innescò feroci polemiche.

Il legame della Sarfatti con Mussolini il quale, pure, le aveva affidato la direzione della rivista Gerarchia cominciò ad affievolirsi o incrinarsi all'inizio degli anni Trenta non solo per il diminuito coinvolgimento sentimentale del dittatore nei confronti di Margherita ma anche per il fatto che, per un verso, lei era divenuta troppo potente e ingombrante e, per un altro verso, le polemiche artistico-politiche non gli apparivano funzionali né alla gestione del consenso né all'immagine che egli intendeva veicolare del regime. L'insofferenza di Mussolini nei confronti non solo della Sarfatti e dei suoi protetti è ben documentata da un suo sfogo del 1932 riportato da Ugo Ojetti: «A vederla in tutte queste commissioni si finisce per credere che viene nominata perché è la mia biografa E poi Novecento, Novecento. Queste orribili figure con questi manoni, questi piedoni, questi occhi fuori posto sono ridicole, fuori del buonsenso, fuori della tradizione, fuori dell'arte italiana. È ora di finirla».

La Sarfatti aveva del fascismo una visione che lo assimilava a un «nuovo ordine» cui, a suo parere, avrebbero dovuto conformarsi altri sistemi politici: in certo senso ella, si potrebbe affermare, aveva superato la fase secondo la quale il fascismo non era considerarsi «merce d'esportazione» ed era approdata, pur non parlandone esplicitamente, a quella concezione del «fascismo universale» fondato sull'idea dell'«uomo nuovo». Il viaggio che intraprese nella primavera del 1934 negli Stati Uniti, dove il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva lanciato il New Deal per contrastare gli effetti disastrosi della Grande Depressione, si inseriva forse nel disegno di propagandare il fascismo nel nuovo mondo.

A questo viaggio e al suo significato per la biografia della Sarfatti la cui popolarità e influenza erano all'epoca ormai in fase declinante tanto che aveva cessato la collaborazione a Il Popolo d'Italia e lasciato la direzione di Gerarchia, pur se certi suoi nemici, a cominciare da Ugo Ojetti, si lamentavano che Mussolini le consentisse ancora di essere «arbitra in tutto quel che tocca l'arte» Gianni Scipione Rossi ha dedicato un bel saggio, L'America di Margherita Sarfatti. L'ultima illusione (Rubbettino), che getta un fascio di luce su una vicenda poco nota ma che offre importanti spunti di riflessione.

Giunta negli Stati Uniti dopo una traversata a bordo del transatlantico Rex, la Sarfatti venne accolta come una star che, accompagnata e sponsorizzata da intellettuali come Giuseppe Prezzolini o da diplomatici come l'ambasciatore Augusto Rosso, si sforzava di spiegare agli americani e allo stesso Roosevelt, che la ricevette in visita privata, il fascismo e la nuova Italia. Al rientro in patria, si rese conto che Mussolini non voleva sentir neppure parlare degli Stati Uniti tanto che a certe sue osservazioni rispose che «in termini di cose reali», cioè per esempio di «potere militare» essi non erano affatto importanti. Nelle memorie, scritte in tarda età, la Sarfatti parlando di quell'incontro con Mussolini osservò che si era resa conto che «le parole di Hitler avevano già iniziato a influenzare il pensiero» del Duce.

Tre anni dopo quel viaggio, nel 1937, alla vigilia del suo espatrio dall'Italia per la legislazione razziale, Margherita Sarfatti pubblicò il volume L'America, ricerca della felicità con il quale, secondo Rossi, ella si illudeva «ancora di convincere Mussolini a un ripensamento della scelta filo-tedesca» anche se il suo giudizio su Roosevelt non era positivo al cento per cento perché il New Deal le appariva come una «brutta copia» del fascismo o, se si preferisce, come una sua imitazione incompiuta. Rossi che del volume ricostruisce le vicende editoriali fino al ritiro dal commercio disposto dal Minculpop nel 1938 sostiene che esso voleva essere non soltanto «il testamento politico e culturale di Margherita Sarfatti» ma anche «un estremo messaggio in bottiglia a Mussolini» pur nella consapevolezza di essere divenuta, lei, un «oracolo azzittito». Un messaggio che, purtroppo per l'Italia, il Duce non volle ascoltare. Francesco Perfetti 

L’ultima illusione. Il sogno di Margherita Sarfatti di far alleare l’Italia fascista all’America. Gianni Scipione Rossi su L'Inkiesta il 2 Dicembre 2021. Stregata dal fascino di Roosevelt, nel 1934 la donna tenta, in via personale, una missione per avvicinare Roma e Washington, nella speranza di sottrarre l’Italia dall’influenza tedesca. Ma nonostante i buoni rapporti con il presidente statunitense, il suo viaggio fu un fiasco. Al di là della finalità dichiarata a posteriori, il viaggio americano della Sarfatti – pur motivato da una profonda curiosità intellettuale – ne assunse anche una politica. Vuole sondare la possibilità che la simpatia di Roosevelt per il fascismo possa evolversi in un rapporto politico e sottrarre l’Italia alla paventata alleanza con la Germania. È essenzialmente una sua idea, non il frutto di un incarico affidatogli nel quadro di quella diplomazia “parallela” e sotterranea che pure era nelle corde del “capo”. In questo senso il viaggio fu fallimentare. La simpatia di Roosevelt si fermava di fronte al carattere dittatoriale del fascismo. Tuttavia la Sarfatti prova a svolgere in proprio una missione di “avvicinamento”. Grazie ai rapporti amicali stretti già in Italia con il cugino del presidente, Theodore Roosevelt junior, Margherita viene ricevuta alla Casa Bianca con tutti gli onori, nel pomeriggio del 15 aprile. Come hanno ricostruito i suoi biografi americani, «alle cinque […] Margherita fu fatta accomodare. Entrò in un salotto e fu accolta dal presidente, da Eleanor Roosevelt, dal figlio James e dalla moglie. L’ambasciatore americano a Roma, Breckinridge Long, aveva scritto al presidente che Margherita era probabilmente “la donna meglio informata d’Italia”, una donna che conosceva intimamente il pensiero di Mussolini. Roosevelt si era perciò preparato al compito». Ma «i commenti di Eleanor sull’Italia non furono dei più diplomatici. […] sembra che la first lady facesse una serie di commenti imbarazzanti sulla natura del fascismo e della dittatura mussoliniana. Margherita fu sollevata quando il presidente, con grande tatto, rettificò le affermazioni della moglie e portò il discorso su altre questioni». Essenzialmente sugli strumenti economici adottati per superare la depressione.

La Sarfatti subisce il fascino di Roosevelt. E lo ricorderà, vent’anni dopo, in Acqua passata, ma – come vedremo – senza particolare entusiasmo.

Il sorriso – scrive per ora − è l’arma della sua cordialità pensosa. Alla tavola da tè, nella sua ristretta cerchia famigliare, ebbi l’impressione di una forza “gentile”, quietamente disciplinata, molto duttile, pronta a piegarsi senza frangersi, come temprato d’acciaio. Meglio, come l’acqua, che pare il più docile, ed è il più incompressibile fra gli elementi. Maravigliosa quantità e qualità di cose egli sa; coltura di gentiluomo, non superficiale, ma non aggressiva come la incivile coltura del pedante. Le nozioni e le idee, che ebbi il piacere di sentigli esporre con signorilità confidenziale mi apparvero improntate all’originale buon senso di chi ha molto studiato, molto veduto e ancor più riflettuto.

Non per caso, «l’America adora il suo “F.D.”, anche come malato che vince la malattia a forza di pluck, intrepida eleganza». In Acqua passata ricorderà: «Uscii dal lungo colloquio alla Casa Bianca come da un euforico bagno di fiducia, di speranze, di fede, e, sì, anche di carità. Ogni volta che poi lo vidi, Franklin Delano Roosevelt rinnovò in me quel benefico sortilegio».

Nonostante questo – e forse per il fallimento della sua iniziativa – la Sarfatti non manca di evidenziare quelli che considera i limiti e gli errori del New Deal, peraltro spiegabili anche con la mentalità americana, che ne ha impedito un’evoluzione in senso dittatoriale. In fondo il New Deal le appare come una imitazione timida, troppo prudente, del fascismo.

Wilson per via della guerra; Franklin Roosevelt per via della crisi, accrebbero con l’autorità della loro persona i poteri dittatoriali della carica. Oggi più che mai – riconosce − il processo continua, con le severe misure di polizia e di legge criminale unitaria, attuate dal Presidente perché i delinquenti non sfuggano alla rete della giustizia attraverso le maglie larghe delle frontiere, tra polizie autonome. E si estende al campo del denaro, tabù sin qui inviolabile della democrazia, della plutocrazia e dell’industria libera, attraverso il New-Deal di Roosevelt. L’economia programmata e accentrata nella N.R.A., il National Recovery Act, potere nuovo, degno di molta considerazione, se non altro come esperimento, sembrò morto. Ma Roosevelt con dolce ostinazione, e le circostanze con ferrea tenacia, gli risusciteranno un altro volto.

D’altra parte, «non vi è dubbio che molta forza del carattere americano è dovuta al frontierismo». «L’America è progressiva, espansiva, mobile e persino instabile; ma, se pur muta modi e lato, mantiene sempre volontà, fede e ottimismo indomabile di procedere oltre, sempre più innanzi». Ma – rileva la Sarfatti − «oggi la frontiera non esiste più, l’ottimismo è in ribasso». Nonostante Roosevelt, i segnali della crisi sono evidenti.

da “L’America di Margherita Sarfatti. L’ultima illusione”, di Gianni Scipione Rossi, Rubbettino, 2021, pagine 88, euro 14 

LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! Alcune note Federico La Sala su lavocedifiore.org.

I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI. GRAMSCI: "UN RINATO SACRO ROMANO IMPERO" (1924). All’interno di uno straordinario articolo, scritto per celebrare Lenin (morto il 21 gennaio 1924), nella prima pagina dell’Ordine Nuovo del 1° marzo 1924, con il titolo “Capo” (ripreso, poi, nell’Unità del 6 novembre 1924 col titolo Lenin capo rivoluzionario), Antonio Gramsci - in contrapposizione - delinea con magistrale e storica lungimiranza i tratti essenziali del governo guidato dal “Duce”:   “Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti. Conosciamo quel viso (...) Abbiamo visto la settimana rossa del giugno 1914. Più di tre milioni di lavoratori erano in piazza, scesi all’appello di Benito Mussolini, che da un anno circa, dall’eccidio di Roccagorga, li aveva preparati alla grande giornata, con tutti i mezzi tribunizi e giornalistici a disposizione del «capo» del partito socialista di allora, di Benito Mussolini: dalla vignetta di Scalarini al grande processo alle Assise di Milano. Tre milioni di lavoratori erano scesi in piazza: mancò il «capo», che era Benito Mussolini. Mancò come «capo», non come individuo, perché raccontano che egli come individuo fosse coraggioso e a Milano sfidasse i cordoni e i moschetti dei carabinieri. Mancò come «capo», perché non era tale, perché, a sua stessa confessione, nel seno della direzione del partito socialista, non riusciva neanche ad avere ragione dei miserabili intrighi di Arturo Vella o di Angelica Balabanoff. Egli era allora, come oggi, il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti: non poteva essere il capo del proletariato; divenne il dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso terrore che essa sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno chiuso teso alla minaccia. (...) Benito Mussolini ha conquistato il governo e lo mantiene con la repressione più violenta e arbitraria. Egli non ha dovuto organizzare una classe, ma solo il personale di una amministrazione. Ha smontato qualche congegno dello Stato, più per vedere com’era fatto e impratichirsi del mestiere che per una necessità originaria. La sua dottrina è tutta nella maschera fisica, nel roteare degli occhi entro l’orbite, nel pugno chiuso sempre teso alla minaccia...Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo” (Antonio Gramsci, Sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 223-229)

STORIA E STORIOGRAFIA: DE FELICE (1966). Renzo De Felice, nel capitolo quinto del volume della biografia del “Duce”, dedicato a “Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925” (Einaudi, Torino, 1966), scrivendo delle “prime esperienze di governo” del Duce, riprende e ricorda questo “noto articolo” di Gramsci e, pur apprezzandone la “lucida intuizione (al fondo della quale si sente l’antico socialista che aveva visto in Mussolini l’uomo nuovo del socialismo italiano e ne era rimasto deluso): Mussolini non era un «capo»” e pur esprimendo la giusta persuasione che questo giudizio “merita a nostro avviso di essere attentamente vagliato” (p. 464), mostra di essere assolutamente dimentico della nota iniziale dell’analisi gramsciana (“Abbiamo in Italia il regime fascista, abbiamo a capo del fascismo Benito Mussolini, abbiamo una ideologia ufficiale in cui il «capo» è divinizzato, è dichiarato infallibile, è preconizzato organizzatore e ispiratore di un rinato Sacro Romano Impero. Vediamo stampati nei giornali, ogni giorno, decine e centinaia di telegrammi di omaggio delle vaste tribù locali al «capo». Vediamo le fotografie: la maschera più indurita di un viso che già abbiamo visto nei comizi socialisti”) e alla sua nota finale (“Roma non è nuova a questi scenari polverosi. Ha visto Romolo, ha visto Cesare Augusto e ha visto, al suo tramonto, Romolo Augustolo”)! E, assunta a tutto solo una parte (“Mussolini [...] il tipo concentrato del piccolo borghese italiano, rabbioso, feroce impasto di tutti i detriti lasciati sul suolo nazionale dai vari secoli di dominazione degli stranieri e dei preti”, p. 464) , così conclude:  “Detto questo ci pare ci si debba però guardare dall’accettare la tesi generale che sottende tutto l’articolo di Gramsci: che cioè Mussolini non fu un «capo» [...] Se si accettasse questa tesi generale si dovrebbe negare la qualità di vero «capo» non solo a Mussolini, ma - facciamo solo l’esempio più macroscopico - a Hitler, il che in sede storica sarebbe veramente un assurdo. La risposta alla domanda se Mussolini, come un qualsiasi altro uomo politico, sia stato o no un vero «capo» non può essere ricercata in banali formule e in facili sillogismi” (p. 464)!

DE FELICE (1975): IL MITO DELLA ROMANITA’ E L’AVVIO DI UNA “AUTOCRITICA”. Nel 1975, nell’intervista sul fascismo, De Felice (con alle spalle già gran parte della sua imponente costruzione biografica dedicata a Mussolini e al fascismo) ricorda che, nel 1961 (all’inizio del lavoro sistematico sulla figura del “Duce”), in occasione del lavoro per la “Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo” (Einaudi, 1961), ha avuto “la fortuna, più che altro sul piano della curiosità umana, di poter parlare a lungo - tutto un pomeriggio d’inverno - con Margherita Sarfatti, poco prima che morisse, in un appartamento d’albergo, in via Veneto a Roma”; e, al contempo, dichiara (e fa intendere in modo più che chiaro e forte) di non aver considerato a pieno o, meglio, di aver del tutto sottovalutato, relativamente al processo di conquista e di organizzazione del potere da parte di Mussolini, proprio il ruolo e la figura dell’autrice di “Dux”, la biografia ufficiale pubblicata con tale titolo nel 1926 (e già anticipata nel 1925, in una edizione londinese, con titolo “The life of Benito Mussolini”, con la prefazione dello stesso Mussolini):   “Da questa conversazione, attualmente, documentariamente, non ho cavato nulla. Mi è servita moltissimo, invece, per capire questa donna, per capire (...) il tipo di influenza che deve aver avuto per alcuni anni. Dopo quella conversazione mi sono chiesto, per esempio, quanto del mito della romanità fosse farina del sacco di Mussolini, e non invece piuttosto frutto dell’influenza della Sarfatti. Perché non ho mai conosciuto in vita mia una persona malata come lei di romanità” (Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di Michael Ledeen, Bari, Laterza, 1975, pp. 12-13).

MARGHERITA SARFATTI (1880-1961), RENZO DE FELICE (1929-1996), E "LUCIFERO". Nel 1993, nella “Prefazione” del loro lavoro “Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce” (Mondadori, Milano), 1993), dedicato "a Renzo De Felice", Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan così scrivono:   “Abbiamo cominciato a scrivere questo libro per tentare di risolvere un mistero. In un piovoso pomeriggio di febbraio 1984 Philip Cannistraro raccontò a Brian Sullivan che forse le lettere di Benito Mussolini alla sua amante e confidente Margherita Sarfatti erano negli Stati Uniti. A rivelarglielo era stato l’anno precedente a Roma Renzo De Felice, il noto storico del fascismo italiano. (...) Seguendo gli indizi che ci fornì il professor De Felice, cominciammo le ricerche (...) Mentre eravamo alla ricerca delle lettere scomparse, scoprimmo Margherita Sarfatti. Come molte donne, Margherita era stata volutamente cancellata dalla storia. Mussolini non solo tentò di negarne il ruolo nella creazione del fascismo, ma dopo l’alleanza con Hitler non tollerò più che l’opinione pubblica fosse a conoscenza che una donna - un’ebrea - aveva contribuito quanto lui a costruire il regime fascista. Negli ultimi anni della dittatura ne fece una “non persona”. Lei, per salvar se stessa e la famiglia, si prestò al gioco. La conseguenza fu che ancora prima di morire, Margherita Sarfatti sparì nel nulla. A quei pochi che la ricordavano non sembrava altro che la protagonista della più lunga storia d’amore di Mussolini” (pp. 3-4). E nei “Ringraziamenti”, alla fine, gli Autori ancora precisano con chiarezza e forza: “Il professor Renzo De Felice, il maggior studioso del fascismo italiano, ci ha non solo suggerito l’argomento, ma ci ha ripetutamente dimostrato la sua simpatia e generosità fornendoci documenti, fonti e indicazioni preziose, e aprendoci, con la sua estesa rete di contatti, le porte degli archivi pubblici e privati. Il nostro debito nei suoi confronti è enorme” (p. 643). Nel 1993, De Felice - evidentemente molto segnato dall’incontro del 1961 - in una intervista con Stefano Folli (“La bella Margherita guardò Lucifero. Lì c’era scritto il destino di Benito”, “Il Corriere della Sera”, 1° febbraio 1993), ritorna ancora sul tema e fornisce ulteriori elementi relativi al “sogno” sarfattiano, del “rinato Sacro Romano Impero” (Gramsci), e della «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma» (Mussolini, dal balcone di Palazzo Venezia, la sera del 9 maggio 1936):  “Di Mussolini non parlava quasi mai negli ultimi anni della sua vita... Mi disse: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio». Il significato autobiografico era evidente. Lei si identificava in Livia. Come dire: finché lui è rimasto con me, io sapevo tenerlo sulla retta via (...) Conservò sempre un particolare riserbo (...) Quando la conobbi era già molto vecchia. Non molto ieratica ma certo una bella donna. Consapevole del suo passato. (...) Le idee guida della sua vita si erano trasformate quasi in ossessioni. La principale era la romanità. Cioè il senso delle forme classiche come motivo dominante della civiltà artistica (...)".

MARGHERITA SARFATTI E "IL CULTO DEL LITTORIO". E non ultimo, sempre nel 1993, Emilio Gentile, allievo di De Felice, presso Laterza, pubblica “Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista”. In questo lavoro, e in particolare in tutto il capitolo intitolato “I templi della fede” (pp.197-228), l’attenzione al ruolo e al contributo di Margherita Sarfatti comincia a essere portata al livello dovuto e a dare i suoi frutti, ai fini di una nuova e più profonda comprensione di come e quanto, “fin dai primi anni del fascismo al potere” - come scrive Gentile (p. 240) -, la “euforia per la «nuova Era» sbrigliò” non solo “la fantasia monumentalistica degli architetti”, ma la fantasia degli uomini e delle donne della gran parte della società italiana e delle sue Istituzioni (e non solo laiche, ma anche religiose)!

STORIOGRAFIA. Nel 2003, nella scia del lavoro di Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan e di Emilio Gentile, viene pubblicata la biografia di Simona Urso, “Margherita Sarfatti. Dal mito del Dux al mito americano” (Venezia, Marsilio, 2003): un lavoro fondamentale, per ripensare la figura di una protagonista della storia italiana e per ricominciare a riscrivere una più “felice” biografia sia di Mussolini sia del fascismo! Nel 2015, Rachele Ferrario,nella sua biografia “Margherita Sarfatti” (Mondadori, 2015), pur focalizzando maggiormente l’attenzione sull’aspetto di “regina dell’arte nell’Italia fascista”, riprende l’intervista di Stefano Folli e, così, continua e commenta:   “De Felice, che aveva colto la sensibilità di raffinato storico dell’arte della Sarfatti, vicino agli intellettuali europei - Focillon, Warburg, Le Corbusier -, era rimasto colpito dal racconto che Margherita aveva accompagnato con un gesto simbolico: «La ricordo benissimo nel vano della finestra aperta. Mi fece avvicinare e alzò un braccio esile, con un ditino lungo e un po’ arcuato. Per la precisione non indicò la luna, ma una stella. E con un tono concitato e allusivo sibilò: “Lucifero...”. Si riferiva, credo, alla stella del destino, che determina le azioni e la fine degli uomini» “(pp. 182-183).

MITO E STORIA: "LA STELLA DEL DESTINO" (1993). Delio Cantimori, nella prefazione al primo volume del lavoro di De Felice (“Mussolini il rivoluzionario 1883-1920”, Einaudi, Torino 1965), a solo quattro anni dall’incontro del suo allievo e amico con Margherita Sarfatti, già accennando alla “fine della carriera personale e individuale di Benito Mussolini” e all’ultimo volume di un’opera “così importante e di così ampio respiro” (p. XI), sottolinea la difficoltà del lavoro dello storico, richiama “la saga dei Nibelungi nella traduzione cinematografica di Fritz Lang, o, se si vuole, alcune pagine del vecchio Rovani”, e così prosegue: “[...] Nel giro della saga nibelungica Benito Mussolini era stato trascinato, durante gli ultimi anni della sua presenza sulla scena storica e politica, dal concatenarsi di eventi da lui in qualche modo presentiti [...] -Trascinato, in fin dei conti, e non sa da chi, né come: un uomo che cerca, - per usare un’immagine di De Felice, - e cammina seguendo una sua stella, - per usare un’immagine che fu attribuita a Mussolini -: la stella lo trae, - non si sa dove [...] ed osserviamo come ad un protagonista si addica non solo questo presentarsi quale uomo trascinato da questo o da quel «Fato» o «Destino», ma anche quel carattere generico e «classico» delle sue intuizioni politiche a lunga scadenza: propone e impone la direzione generale, e spesso vede o intravvede quel che c’è da fare in una situazione storica e in una data prospettiva, ma si lascia trainare dalla sua stella, non si occupa direttamente delle possibilità ed eventualità particolari” (p. XII).

PROBLEMA: "LUCIFERO!". Prima che a Stefano Folli, nell’intervista del 1993, del lungo incontro del 1961 con Margherita Sarfatti, a Philip V. Cannistraro (in un colloquio del 6 ottobre 1985) Renzo De Felice aveva già così raccontato: “[...] verso la fine della conversazione Margherita si alzò dalla sedia e andò alla finestra, che inquadrava la luna piena sullo sfondo del cielo scuro. Tornando verso il suo ospite, gli posò una mano ossuta sulla spalla. «Venga, venga, professore,» lo pregò. Quando con De Felice raggiunse la finestra, Margherita lentamente alzò il braccio sottile e con il dito lungo e ricurvo indicò la stella della sera ed esclamò: «Lucifero!»" (cfr. Philip V. Cannistraro - Brian R. Sullivan, op.cit., p. 639). Con il suo tono sibilante o esclamativo, cosa Margherita Sarfatti avesse voluto indicare o significare con la evocazione di “Lucifero”, a De Felice non fu chiaro né quella fatidica sera, né nel 1985, e né nel 1993. Con il voler credere che ella si volesse riferire “alla stella del destino”, egli continuò a ingannare solo se stesso e - come era già avvenuto - il suo stesso maestro, Delio Cantimori! E, paradossalmente, finì col ripetere - nei confronti di Margherita Sarfatti - lo stesso gioco del «duce»!

«VENGA, VENGA, PROFESSORE»: LA “LEZIONE” DELLA SARFATTI. Dal resoconto del racconto (a e) di Cannistraro, si percepisce in modo chiaro quale sia stato il tono del colloquio: “Si incontrarono nelle stanze di Margherita all’Hotel Ambasciatori in una sera tetra, gelida, e parlarono per ore. Margherita non si offrì di mostrare documenti al giovane studioso, né gli fornì rivelazioni. Gli aprì però uno squarcio sulla propria influenza sulla politica culturale del fascismo parlando a lungo del classicismo, che negli anni del regime era stato per lei uno dei capisaldi della critica d’arte. Per definire, inoltre, il proprio ruolo accanto a Mussolini e le cause della sua caduta citò un episodio della storia romana: «Anche Augusto, dopo la morte di Livia, si avviò a diventare un Tiberio...» (op.cit., p. 639). Per De Felice, l’intervista concessa da Margherita, contrariamente a quanto forse all’inizio avrà pensato, alla fine si è risolta in una sorprendente lezione e, al contempo, in un vero e proprio trauma! Per lo storico che nel 1961 aveva già tutto impostato e “da poco cominciato lo studio sistematico di Mussolini e del regime fascista”, la “provocazione” della Sarfatti fu inaccoglibile - insopportabile! Nel 1965, infatti, fin dall’inizio del capitolo primo (“Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza”) del volume primo, con il titolo “Mussolini il rivoluzionario 1883-1920” (Einaudi, 1965), con una dichiarazione (carica di straordinaria “superficialità” e di “autoritario” sprezzo), nei confronti della Sarfatti e della sua biografia ( il “Dux” dell’edizione del 1932 alla 13 edizione - non del 1926, e senza alcun riferimento all’edizione inglese del 1925), così scrive (pp. 3-4): “I biografi di Mussolini, quelli che scrissero di lui dopo che egli era ormai divenuto il «duce» dell’Italia fascista, i Beltramelli [1923], le Sarfatti [1932], i De Begnac [1936], lo stesso Megaro [1947 (ed. inglese 1938)] - l’unico che per molti anni si sia posto di fronte alla figura di Mussolini non con l’animus dell’apologeta, ma neppure con quello del pamphlétaire, bensì con quello dello storico - hanno dato una grande importanza al fatto che egli sia nato e cresciuto in Romagna, alla sua «romagnolità»” (pp.3-4). Per De Felice, la reazione (o, meglio, la “negazione”) fu sì “naturale” (come se l’incontro non ci fosse mai stato, continuò “tranquillo” per la sua strada), ma noi, di "Lucifero!" - come della Romagna, di Mussolini, di Sarfatti, e dello stesso Fascismo - ovviamente, continuiamo a saper e a capire ancora ben poco!

L’ITALIA GIACOBINA, L’EFFETTO "LUCIFERO!" E “IL PREMIO NOBEL". All’incontro con Margherita Sarfatti, storica dell’arte, giornalista, scrittrice e intellettuale cosmopolita (e" ghostwriter del Duce", come hanno ben mostrato nel 1993 Cannistraro e Sullivan proprio sulle indicazioni di approfondimento dello stesso De Felice!), Renzo De Felice si era - per così dire! - preparato fin dall’inizio con il suo lavoro sul periodo della rivoluzione francese e dell’Italia giacobina, dalle tesi sulle "Correnti del pensiero politico nella prima repubblica romana" (1954), allo studio del "triennio giacobino in Italia (1796-1799)", alle ricerche "sugli illuminati e il misticismo rivoluzionario (1789-1800)", all’evangelismo giacobino e altri studi. Nel saggio sulla "Opinione pubblica, propaganda e giornalismo politico nel 1796-1799", De Felice così scrive: "Ai giacobini italiani - in gran parte intellettuali e per il lungo esulato avulsi dalla vita e dal processo economico nazionale - mancò, oltre all’adesione delle masse e alla capacità di procurarsele, soprattutto una vera autonomia politico-sociale dal resto della borghesia. la loro grande forza fu una forza del tutto spirituale, psicologico-morale: fu la fede nella Rivoluzione e nella sua forza di rigenerazione. Nella loro azione è, da questo punto di vista, riscontrabile un che di religioso che inizia veramente il Risorgimento e inizia Mazzini. La loro grande debolezza fu di rimanere egemonizzati dal gradualismo della borghesia italiana del tempo" (cfr.: "I giornali giacobini italiani", a c. di R. De Felice, Milano 1962, p. 50). Se è vero, come è vero, che alla fine del suo percorso, "da molto, tempo, andava palesando la sua insoddisfazione per l’interpretazione del fascismo che aveva dato fino ad allora", sicuramente - e contrariamente a quanto ipotizza Emilio Gentile (“Renzo De Felice. Lo storico e il personaggio”, Laterza, Bari 2003, p. 140) - "sarebbe tornato a studiare i «suoi» giacobini, come egli era solito ripetere con una certa civetteria", e avrebbe ripreso la sua strada in compagnia di Gramsci, proprio dal “Lucifero!” della Sarfatti (da tener presente: molto amica di Antonio Fogazzaro, convertita al cattolicesimo nel 1928), cioè, dal poeta dell’Inno a Satana, dal Carducci giacobino, a partire dalla nota sul racconto di Filippo Crispolti (giornalista, scrittore, e uomo politico, molto amico di Antonio Fogazzaro e cattolico favorevole alla collaborazione con il fascismo, in Parlamento fino agli ultimi anni della sua vita nel 1942 ): “Il premio Nobel. Filippo Crispolti ha raccontato in un numero del «Momento» del giugno 1928 (della prima quindicina) che quando nel 1906 si pensò in Svezia di conferire il premio Nobel a Giosuè Carducci, nacque il dubbio che un simile premio al cantore di Satana potesse suscitare scandalo tra i cattolici: chiesero informazioni al Crispolti che le dette per lettera e in un colloquio col ministro svedese a Roma, De Bildt. Le informazioni furono favorevoli. Così il premio Nobel al Carducci sarebbe stato dato da Filippo Crispolti” (“Quaderni del carcere”, Torino 1975, I, p. 79)! Nel capitolo dedicato al libro della Sarfatti, "Dux", nel loro lavoro, Cannistraro e Sullivan, con grande acume hanno colto il filo di questo nodo: "Già nel 1919, al momento della fondazione del primo fascio, Margherita aveva insistito sul valore ideologico e propagandistico che avrebbe avuto l’associazione del fascismo con Roma imperiale. Margherita vagheggiava un capo che imponesse alla civiltà moderna un nuovo genere di cultura, una cultura che poggiasse sulle virtù romane dell’ordine e della disciplina. La concezione che Margherita aveva di Roma non derivava tanto dallo studio approfondito dei classici, quanto dalla letteratura italiana del tardo Ottocento, in particolare dal poeta Giosue Carducci"; e, brillantemente, cercano di chiudere il cerchio: "Una quarantina d’anni dopo uno studioso italiano [Renzo De Felice], intervistando Margherita, rimase colpito nel constatare quanto fosse ancora malata di romanità"(op.cit., pp. 337-338). “Carducci giacobino”: "Decapitaro, Emmanuel Kant, Oddio,/ Massimiliano Robespierre, il re" ("Versaglia. Nel LXXIX anniversario della Repubblica Francese", sulla "Plebe" di Lodi, 2 novembre 1871). Un tema carico di (storia e) teoria, su cui ricollegandosi al lavoro già di Gramsci in dialogo con Croce, Edoardo Sanguineti (anch’egli poco prima di morire, nel 2007) ha cercato ("Cultura e realtà", Milano, 2010, pp. 111-122) di chiarire con la sua straordinaria e viva intelligenza il "nodo epocale filosofico e politico", proprio per neutralizzare l’“effetto Lucifero” e, finalmente, uscire dall’inferno! Coraggiosamente: ha cercato, ha lottato, ma non è riuscito a venir fuori dal labirinto. La questione è filologica, certamente - ma non è solo storica: è filosofica, teologica, e antropologica - e bisogna scavare ancora nella direzione indicata da Gramsci (e Marx, e Feuerbach, e Kant: a riguardo, cfr., in particolare, le note su "Heidegger, Kant, e la miseria della filosofia - oggi"). E proseguire nel lavoro di De Felice - e dello stesso Sanguineti. Ricominciando, ovviamente, da "capo" - da Kant e Gramsci, dalla critica dell’ideologia dell’uomo supremo e del superuomo di appendice! Federico La Sala

Margherita Sarfatti, la musa del Duce e del Fascismo. Di Gino Salvi 29 Aprile 2020 su storiaverita.org. Chi era Margherita Sarfatti (Venezia, 8 aprile 1880 – Cavallasca, 30 ottobre 1961)? Come mai la sua figura è così poco conosciuta dal grande pubblico? La risposta è che la Sarfatti è stata volutamente cancellata dalla storia. Nonostante che fosse stata non soltanto l’amante ma anche il consigliere politico più fidato di Benito Mussolini, quest’ultimo, dopo l’alleanza con Hitler, non tollerò più che l’opinione pubblica fosse a conoscenza che una donna – un’ebrea – avesse contribuito quanto lui a creare il Fascismo. Perciò, fu una questione d’opportunità politica, insieme agli orrori della seconda guerra mondiale, al desiderio di gran parte degli italiani di dimenticare il passato fascista, all’imbarazzo della famiglia Sarfatti per il coinvolgimento personale e politico di Margherita con Mussolini a far sì che la memoria di questa donna venisse definitivamente seppellita. Invece, indagando nella vita e nella vicenda personale della Sarfatti si scopre che aveva esercitato un’influenza profonda su Mussolini e che molte delle sue idee avevano modellato il nascente movimento fascista e la sua ideologia. Margherita Grassini era venuta alla luce in un palazzo del Quattrocento, posto in quella parte di Venezia chiamata il Ghetto Vecchio. Era la quarta e ultima figlia di Emma Levi e Amedeo Grassini, due ebrei ricchi e colti della buona società veneziana. Margherita nel corso della sua vita professionale intensa, densa di impegni, è stata una giornalista, un critico d’arte e scrisse oltre una ventina di libri e migliaia di articoli. I Grassini, rispettando le consuetudini della loro classe, cercarono in tutti i modi di proteggere la figlia dal mondo esterno. Non le era concesso giocare con gli altri bambini del vicinato, né uscire dal giardino senza essere accompagnata. Perciò, a Margherita questo giardino, pervaso dal profumo dei ciliegi in fiore e dall’umida fragranza del canale lungo le Fondamenta della Misericordia, apparve come il paradiso terrestre. Uno dei punti di riferimento più importanti nei primi anni di vita di Margherita fu suo padre, Amedeo, il fulcro della famiglia e colui che fissava i principi a cui la famiglia doveva ispirarsi: il conservatorismo politico, il senso di responsabilità, la fede nell’autorità e nella religione. Margherita sbocciò in una adolescente straordinariamente bella, con lunghi capelli biondo rame e profondi occhi grigio – verde. Però la sua nota dominante era l’intelligenza. Come diceva Margherita stessa era “sempre stata una studentessa ma non sono mai andata a scuola”. Infatti, i primi passi della sua formazione intellettuale, Margherita li fece con la madre, Emma. La madre e l’istitutrice svizzera le insegnarono a leggere, a scrivere, a far di conto e i primi rudimenti del francese, dell’inglese e del tedesco. Insieme all’istitutrice, che era una donna dolce e affettuosa, passeggiava lungo gli angusti vicoli del Vecchio Ghetto, vedeva le case operaie umide, cadenti, popolate da sciami di bambini sporchi e di madri sempre incinte e cominciò a rendersi conto che altri erano meno fortunati di lei. Margherita, sempre in compagnia dell’istitutrice, visitava le innumerevoli chiese e i numerosi musei, gli edifici pubblici che esibivano i capolavori voluttuosi di Giorgione e Tintoretto. Ancora anni e anni dopo, le fantasie scintillanti dei mosaici bizantini, i marmi dalle ricche venature e i tetti di ceramica dei palazzi erano ancora vivissimi nel ricordo di Margherita che, come notò più di un suo ammiratore, sceglieva gioielli e abiti che ne sottolineavano la pienezza del corpo, gli occhi e i capelli, quasi a imitare volutamente Tiziano. Ogni estate la famiglia partiva per Conegliano, dove Margherita trascorreva momenti preziosi con i nonni materni, Dolcetta e Giuseppe Levi. Dolcetta, “piccola e grassa, come una palla”, aveva una personalità forte e lasciò in Margherita un segno profondo. La sua morte fu la prima vera tragedia nella vita della nipote, Margherita. In agosto, i Grassini lasciavano Conegliano per Bagni della Porretta, una nota stazione termale sull’Appennino, dove il padre asmatico di Margherita faceva le cure. Gli amici più cari qui erano i Marconi, e il figlio Guglielmo fu preso da passione per lei. Margherita non dimenticò mai le calde sere estive passate insieme sui colli, mentre Marconi le insegnava a riconoscere le stelle. La loro amicizia durò a lungo, anche quando Marconi, con l’invenzione della radio, divenne famoso in tutto il mondo. Nel 1894, Amedeo Grassini, decise di abbandonare il Ghetto Vecchio per stabilirsi in una casa che rispecchiasse meglio il prestigio crescente di cui godeva la sua famiglia. La nuova residenza era Palazzo Bembo, un edificio gotico, imponente massiccio, che si affacciava sul Canal Grande. Quando Margherita compì quattordici anni, i genitori decisero d’assecondare la sua sete di conoscenza tre tutori privati: Pietro Orsi, Pompeo Molmenti e Antonio Fradeletto. Orsi le spiegò che il progresso sociale e intellettuale era lo specchio della storia di una nazione almeno quanto lo erano le guerre e la politica: una lezione che Margherita non dimenticherà mai. Molmenti, invece, fece accostare Margherita all’idea che la pittura e la scultura rafforzano i valori civici. Mentre Antonio Fradeletto, segretario generale della Biennale, trasmise a Margherita, con la quale instaurò un rapporto intenso e vivacissimo, l’idea che lo spirito di collaborazione della società tradizionale si era infranto sotto l’impatto degli interessi egoistici di classe e l’eccessivo culto dell’individualismo che caratterizzavano il capitalismo moderno. Influenzato da Schopenhauer e Nietzsche, Fradeletto predicava la necessità di una volontà nazionale collettiva che ispirasse tutti gli italiani a cooperare alla grandezza del proprio paese. Prendendo a modello l’antica Roma, Fradeletto convinse Margherita che ogni forma d’arte veramente creativa nasceva da una cultura unificata, nella quale credenze, costumi e aspirazioni non fossero lacerati da dissensi e conflitti. Fu ancora Fradeletto a farle conoscere le opere di John Ruskin e, particolarmente, “Le sette lampade dell’architettura” in cui sosteneva che nelle chiese, nei palazzi, nelle case era iscritto il carattere nazionale di un popolo. Margherita collego il pensiero di Ruskin con l’idea di unità sociale di Fradeletto e concluse che l’arte poteva riformare lo spirito, la morale e la politica di un popolo. Dopo aver scoperto, a quindici anni, grazie al suo primo vero corteggiatore, un professore socialista di Firenze,il Capitale di Marx e le opere dell’anarchico russo Kropotkin, Margherita sposò, con rito civile, il 29 maggio 1898, l’avvocato Cesare Sarfatti. La coppia arrivò a Milano il 15 ottobre 1902, con i due figli, Roberto, nato nel maggio del 1900 e Amedeo Giosuè Percy nato il 24 giugno 1902. Nella città più tecnologica d’Italia, come la definiva il poeta Filippo Tommaso Marinetti, Margherita (che veniva chiamata la “Vergine rossa”, come Louise Michel che, nel 1871, aveva capeggiato l’insurrezione della Comune di Parigi) collaborava sia con “L’Unione Femminile” (ossia il giornale della Lega femminista milanese) che, dagli inizi del 1908, con l’”Avanti” (cioè il giornale ufficiale del Partito socialista). Il 22 gennaio 1909, Margherita partorì Fiammetta, la figlia che aveva sempre desiderato e, nello stesso anno, lei e Cesare si trasferirono dal modesto appartamento di via Brera in uno più grande e più elegante in corso Venezia. Margherita incontrò Benito Mussolini nel 1912, probabilmente, durante una delle sue rare apparizioni nel salotto di Anna Kuliscioff, che era la decana delle donne socialiste. Durante la crescente polemica tra riformisti e rivoluzionari che stava lacerando il Partito socialista, Mussolini militava tra gli estremisti e, nonostante il culto della violenza e l’indifferenza per l’arte, tra lui e Margherita un’attrazione profonda. Ciò porterà Margherita, che fino a quel momento non aveva preso posizione nelle dispute tra i fautori del parlamentarismo e quelli della rivoluzione armata, ad essere uno dei collaboratori principali di “Utopia”, apparsa il 22 novembre 1913, e che voleva essere la nuova rivista del socialismo rivoluzionario italiano. Dopo la pubblicazione, il 18 ottobre 1914, dell’articolo “Dalla neutralità assoluta alla neutralità attiva ed operante”, che segnò il passaggio di Mussolini nelle file degli interventisti nella prima guerra mondiale, e la sua successiva fuoriuscita dal Partito socialista, Margherita sostenne Mussolini. Pur, però, senza rompere, finora, apertamente con il socialismo. Nonostante che la sterzata interventista di Mussolini fosse stata accolta dai socialisti al grido di “traditore” è giusto dire che essa era propria di una visione politica socialista. E’ chiaro che il socialismo nazionale e popolare che permeava la scelta di Mussolini non aveva niente a che vedere con il socialismo marxista, internazionalista  e materialista, ossia con l’anima egemone nel Partito socialista. E’ vero che l’anima “nazionale” del socialismo è un filone minoritario all’interno del socialismo stesso. Però, si tratta di un filone che ebbe un ruolo non secondario nella storia politica italiana. Infatti, dopo la rottura del sindacalismo rivoluzionario nel 1908, con la fuoriuscita di Mussolini, questo socialismo “nazionale” emergeva prepotentemente nella storia politica del nostro Paese. Non ho usato a caso il verbo “emergere”. Perché questo socialismo, animato dal senso della nazione, attraversò proprio come un fiume carsico il fascismo (nonostante la confluenza dei nazionalisti, nel 1923, e la normalizzazione successiva alle “leggi fascistissime”, dopo il 1926, ossia i due momenti – chiave che sancirono il passaggio dal fascismo – movimento al fascismo – regime e che tesero a spostarne l’asse in senso conservatore) per riemergere, vigorosamente, con la Repubblica Sociale Italiana, dal 1943 al 1945. Sintetizzato, nella parte riguardante la proprietà privata, l’economia, il lavoro e la casa, nel “Manifesto di Verona”, emanato il 14 novembre 1943, e nel decreto sulla socializzazione delle imprese, del 12 febbraio 1944. E non soltanto questo, visto che secondo questo socialismo “nazionale, la prima guerra mondiale avrebbe segnato il coronamento del Risorgimento. Infatti, Giovanni Gentile (per il quale il fascismo era “la più perfetta forma del liberalismo e della democrazia in conformità alla dottrina mazziniana”) rivendicava la continuità del fascismo con il Risorgimento. Il fascismo rivendicava del Risorgimento il respiro della memoria storica, il primato italiano, la missione di Roma, il socialismo tricolore di Carlo Pisacane, l’unità mazziniana di pensiero e azione e, soprattutto, la forte identità nazionale. Infatti, Mazzini non era marxista e, anzi, aveva sconfessato la Comune di Parigi. Alla fine di questa digressione, possiamo affermare tranquillamente che la scelta interventista, in Mussolini, fu assolutamente coerente (tenendo sempre conto del fatto che, nel nostro Paese, la nascita delle ideologie politiche è sempre avvenuta nel segno dell’eresia e della sintesi) con la sua weltanschauung socialista e nazionale. Come non sorprende la scelta, altrettanto consapevole e conseguente, di Roberto Sarfatti, l’irrequieto e ribelle figlio di Margherita e di Cesare, di arruolarsi, a luglio del 1917, nel 6° Alpini, e di andare in quell’inferno che era la guerra di trincea. Roberto Sarfatti morì, colpito da una pallottola in pieno viso, nelle prime ore del 28 gennaio 1918, durante l’attacco, lungo il versante orientale del col d’Echele, per espugnare Quota 1039.  Margherita, nell’autunno del 1918, anche a  causa sia dell’acuto dolore dovuto alla morte di suo figlio, sia della profonda depressione di Cesare, si innamorò, appassionatamente e totalmente, di Mussolini. Così nacque, tra Margherita e Mussolini, un sodalizio sentimentale, politico e culturale. Un sodalizio che era, certamente, d’amore ma, anche e soprattutto, di condivisione delle idee e degli ideali.  Un sodalizio che portò Margherita a contribuire alla creazione del fascismo. Un fascismo che fu una rivoluzione conservatrice, cioè un regime, come lo ha acutamente definito Marcello Veneziani, “di partecipazione allargata e di decisione accentrata”, in cui confluivano, nietzscheanamente, “rivoluzione dall’alto” e, proudhonianamente, “rivoluzione dal basso”, il cui mito fondante era la Nazione. Comunque il sodalizio (che era assai più complesso d’una pura e semplice relazione e conteneva oltre ad una complicità profonda anche molti elementi di rivalità e di risentimento, come si evince anche dall’episodio del concerto del violinista Prihoda, che è stato riportato da Philip Cannistraro e Brian Sullivan) tra Mussolini e Margherita venne scandito da momenti culminanti come quando lei divenne la direttrice editoriale della rivista “Gerarchia”; quando fondò con il gallerista Lino Pesaro e gli artisti Anselmo Bucci, Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Emilio Malerba, Pietro Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi, un gruppo artistico chiamato Novecento; quando scrisse una biografia di Mussolini, pubblicata in Italia, nel 1926, con il titolo “Dux”.  Dopo il 1932, per Margherita, arrivò il declino. Un declino che è stato dovuto sia alla fine del legame con Mussolini (e all’inizio di quello con Claretta Setacci), sia alle accuse di internazionalismo e bolscevismo che vennero scagliate da Roberto Farinacci contro il razionalismo del Novecento e, infine, alle leggi razziali. Dopo il declino, giunsero l’oblio, l’esilio e, il 30 ottobre 1961, la morte.

Bibliografia

“Margherita Sarfatti, l’altra donna del Duce”, Philip V. Cannistraro, Brian R. Sullivan, Mondatori, 1993.

“Margherita Sarfatti, dal mito del Dux al mito americano”, Simona Urso, Marsilio, 2003.

“Il fascismo nella sua epoca”, Ernst Nolte, Sugarco, 1993.

“La rivoluzione conservatrice in Italia”, Marcello Veneziani, Sugarco, 1987.

“La repubblica di Mussolini”, Giorgio Bocca, Mondatori, 1994.

“Né destra, né sinistra”, Zeev Sternhell, Baldini & Castaldi, 1997.

Una donna di potere nell’Italia fascista. Margherita Sarfatti. Anna Baldini su doppiozero.com il 28 ottobre 2018. Poco prima della fine del percorso espositivo della mostra dedicata a Margherita Sarfatti al Mart di Rovereto i curatori hanno esposto la gigantografia di una foto scattata alla Biennale di Venezia del 1930. Margherita Sarfatti è ritratta al centro dell’immagine, unica donna accanto a sei uomini. Di fotografie simili se ne trovano parecchie, sui tavoli documentari della mostra del MART come in quelli della mostra gemella al Museo del Novecento di Milano: foto di gruppo di comitati responsabili di mostre e manifestazioni culturali, ritratti istituzionali del sistema di gestione delle arti in Italia negli anni Venti e Trenta. Sarfatti vi appare regolarmente come la sola donna, e a ognuna di queste immagini si potrebbe accompagnare come didascalia una definizione tratta dall’incipit della biografia intellettuale che Simona Urso le ha dedicato: «l’unica donna, forse, cui nel periodo fascista fu permesso di avere peso politico e intellettuale pari a quello degli uomini». In effetti, solo cinque anni prima che fosse scattata quella fotografia alla Biennale, Sarfatti era stata la sola donna “parlante”, cioè invitata a tenere una relazione, al Convegno per le istituzioni fasciste di cultura di Bologna (29-30 marzo 1925): uno degli atti fondativi dell’organizzazione culturale fascista, dal quale sarebbe uscito il Manifesto di Gentile. In quel 1925 Sarfatti si trova all’apice del proprio potere culturale e politico. Le due mostre si occupano soprattutto del primo, dettagliando le fasi ascendente e discendente della sua influenza nel campo dell’arte, sia attraverso le opere degli artisti da lei fiancheggiati come critica e curatrice di mostre (oltre che come acquirente e mediatrice di acquisti per collezioni pubbliche e private), sia attraverso un ricchissimo apparato documentario proveniente dagli archivi di cui le due istituzioni sono depositarie (il Fondo Sarfatti, che insieme a una parte della sua biblioteca privata è conservato all’Archivio del ’900 del Mart, e il Fondo «Archivi del Novecento», conservato al Museo del Novecento di Milano). Sarfatti è la prima «critica d’arte donna» italiana (come recita la scheda informativa nella sala «Artisti allo specchio» della mostra del Mart): la ricostruzione dettagliata della sua traiettoria biografica è pertanto di estremo interesse, come lo sono tutte le vicende di rottura del “tetto di cristallo” che impedisce l’accesso al vertice delle gerarchie sociali ai dominati per genere, etnia o scarsità di capitali economici e culturali. E si tratta per di più di una donna che riesce a conquistarsi e a conservare potere per circa un decennio in un contesto all’apparenza ben poco favorevole: gli anni dell’ascesa e consolidamento del fascismo, un regime tutt’altro che disposto a concedere spazio alle donne al di fuori del loro ruolo tradizionale di vestali del focolare domestico. Quali sono le condizioni che permettono questa rottura del tetto di cristallo? Quali sono le “doti”, i “capitali” sociali che consentono a Sarfatti di occupare ruoli e posizioni ancora mai occupati da una donna? Innanzitutto, un notevole capitale economico e culturale: nata a Venezia da una ricca famiglia ebraica, i Grassini, in ottime relazioni con l’amministrazione e il patriarcato cittadini, Sarfatti riceve un’istruzione eccezionale per una ragazza della sua epoca. Grazie a una serie di governanti e istitutori privati (tra i quali il fondatore della Biennale di Venezia, Antonio Fredeletto) parla, legge e scrive inglese, francese e tedesco, e riceve una formazione letteraria, filosofica e artistica aggiornata ed estranea ai canoni e agli habitus mentali delle istituzioni scolastiche. Sposatasi diciottenne con un avvocato socialista, Cesare Sarfatti, di cui condivide la fede politica – anche se per entrambi si tratta di una scelta dettata più dall’ambizione che da un’effettiva condivisione dell’interpretazione marxista della società – si trasferisce nel 1902 a Milano, capitale del socialismo italiano, la città più pienamente moderna d’Italia, trampolino di lancio, di lì a pochi anni, del futurismo di Marinetti. Milano è la base su cui Sarfatti costruisce un capitale suo proprio, dopo quelli culturale ed economico ereditati dalla famiglia: un capitale di relazioni sociali che affonda le radici sia nel mondo dell’arte e della letteratura, sia nella politica – socialismo turatiano ed emancipazionismo femminile prima, socialismo mussoliniano, interventismo e fascismo poi. Al centro di questa rete di relazioni che da Turati Kuliscioff e Majno (presidente della Lega Femminile) si espande progressivamente a Notari (scrittore scandaloso ed editore intraprendente) Marinetti Boccioni e Mussolini, sta il salotto di Margherita, aperto ogni mercoledì dal 1909 in avanti: uno dei «più rinomati e frequentati» di Milano, secondo il giornalista Adolfo Franci, autore nel ’22 di un viaggio in Italia alla scoperta dei centri letterari e artistici della penisola. «La signora Sarfatti s’intende un po’ di tutto – le donne son terribili quando s’intendono di tutto –: pittura e scultura, critica e poesia. Possiede – dicono – una bella raccolta di quadri moderni, è valorosa scrittrice, delicata poetessa, traduttrice geniale e molte altre cose ancora. Per giunta ha tenuto a battesimo tutti i giovani promettenti. Nella sua casa ospitale si può sorseggiare una tazza di tè quasi caldo con crostini quasi imburrati e conoscere le più chiare personalità del mondo politico, letterario e artistico milanese» (A. Franci, Il servitore di piazza, Vallecchi, Firenze 1922, pp. 120-121). La descrizione di Franci, sotto il paternalismo e una punta di misoginia contro le intellettuali (e forse già di antisemitismo, nell’allusione alla tirchieria della padrona di casa), ci lascia intravedere il soft power dell’istituzione salotto, che all’inizio del ’900 già da più di due secoli è lo strumento con cui le donne della nobiltà e dell’alta borghesia – le dominate della classe dominante – si sono ricavate spazio e potere nel mondo delle arti, della cultura e della politica. Per Sarfatti, però, il salotto non è un punto d’arrivo ma di partenza, per accedere a posizioni intellettuali più moderne e istituzionalmente riconosciute: la critica d’arte e di letteratura sui quotidiani (dapprima su quelli più provinciali della sua città d’origine, poi su «L’Avanti!» e «Il Popolo d’Italia»); la cura di mostre, di cui firma l’introduzione ai cataloghi; la partecipazione a comitati organizzativi e giurie di premi d’arte in Italia e all’estero. Sarfatti incarna però soprattutto la figura moderna del critico d’arte che promuove e fiancheggia – e in larga misura crea – un movimento artistico: il «Novecento», dal 1926 «Novecento Italiano». Nel corso degli anni Dieci Sarfatti aveva avuto stretti contatti con i futuristi, pur manifestando una diffidenza per gli esiti più estremi delle avanguardie: in un articolo del 1913 aveva parlato, a proposito del cubismo, di un’arte destinata a rimanere senza pubblico in quanto «senza freni e senza misura nel desiderio incomposto del nuovo» (cit. in A. Negri, Margherita Sarfatti e Milano 1902-1923. Alcune osservazioni, nel catalogo unico delle due mostre). Negli anni dell’immediato dopoguerra, perciò, forte del capitale acquisito in relazioni sociali e legittimità intellettuale, e del capitale politico che le deriva dal legame amoroso e intellettuale con un Mussolini divenuto Presidente del Consiglio, Sarfatti si lancia nell’impresa di promuovere un proprio movimento artistico, legandolo al nome di sette pittori attivi a Milano – tra i quali il maggiore è, a suo parere, Mario Sironi – e inquadrandolo in quel “ritorno all’ordine” che caratterizza l’intero panorama artistico postbellico europeo. A contendere la primazia al Novecento di Sarfatti nel campo dell’arte, e, in particolare, nel campo dell’arte più prossima al nuovo potere politico, ci sono altri gruppi, altri movimenti – come quello, similmente orientato al “ritorno all’ordine”, ma non per questo meno antagonistico nei confronti di Novecento, radunato intorno alla rivista «Valori plastici» (1918-22) e che ha in Carrà il proprio leader; o i futuristi di Marinetti, forti anch’essi di un notevole capitale politico che deriva al movimento dall’interventismo, dai numerosi artisti caduti e feriti in guerra, dalla prossimità all’impresa fiumana e al sansepolcrismo; o infine i “toscani” supportati da riviste come «Il Selvaggio» e «L’Italiano» e raccolti intorno ad Ardengo Soffici, “rinsavito” dall’avanguardismo degli anni Dieci e fascista della prima ora. Il conflitto che negli anni Venti divampa per l’egemonia nel campo delle arti è ben inquadrato dai due biografi statunitensi di Sarfatti, Philip V. Cannistraro e Brian Sullivan: «Alla metà degli anni Venti Marinetti, Ojetti e Margherita erano i leader delle tre principali correnti artistiche del tempo, in competizione fra loro per affermarsi e conquistarsi il riconoscimento del Partito fascista. Quando il Novecento di Margherita cominciò ad assumere un’aura ufficiale, la seconda generazione di futuristi marinettiani si pone come una sorta di “opposizione di sinistra”, mentre Ojetti divenne il portatore dei classicisti accademici, ossia dell’“opposizione di destra”». Sebbene Mussolini partecipi, tenendo anche un discorso, alle prime due mostre di Novecento e Novecento Italiano nel 1923 e nel 1926, già alla Biennale di Venezia del 1924 Ojetti sottrae a Sarfatti uno dei sette pittori originari del gruppo, Ubaldo Oppi, che ottiene una propria sala personale con catalogo curato da Ojetti, mentre la sala dove espongono i «Sei pittori del Novecento» viene aspramente criticata, tanto che il gruppo finirà per sciogliersi nei mesi successivi. Sarfatti cambia allora strategia, allargando l’etichetta di «Novecento» (divenuto «Novecento Italiano») a comprendere un centinaio di artisti che espongono in due mostre alla Permanente di Milano nel 1926 e nel 1929 – tra questi, anche Carrà e Soffici, o altri pittori estranei al circuito sarfattiano come Casorati. Nel comitato d’onore di «Novecento italiano», oltre a Mussolini come Presidente, compaiono anche Marinetti e Ojetti, che, secondo Cannistraro e Sullivan, «avevano aderito al comitato, con riluttanza, per ragioni di opportunismo politico», mentre «Margherita li voleva nel suo gruppo per via di quella sua ambizione a diventare l’“impresario” indiscusso della cultura artistica italiana» (p. 345). La strategia non risulta però vincente. Per l’opposizione dei suoi rivali – tra cui sta acquistando potere il pittore Cipriano Efisio Oppo – Sarfatti non riesce a tenere a Roma, come avrebbe desiderato, la seconda mostra di «Novecento Italiano» del 1929; in quello stesso anno, Mussolini ripudia la connessione, suggerita a più riprese da Sarfatti, tra fascismo e Novecento. Mart, Sala «Da Dux a Acqua passata». Lettera di Mussolini a Margherita Sarfatti, Roma, 9 luglio 1929: «Gentile Signora, […] Questo vostro tentativo di far credere che la proiezione artistica del Fascismo sia il vostro ’900, è ormai inutile ed è un trucco!». Privata di legittimità in Italia, Sarfatti concentra le sue energie sull’organizzazione di mostre di arte italiana all’estero, ma non per questo cessano le campagne contro di lei, che fin al 1928-29, all’epoca dei primi rigurgiti di antisemitismo in concomitanza con i Patti Lateranensi, avevano cominciato a sottolinearne le origini ebraiche. Dopo la lettera di Mussolini del ’29, gli atti di ripudio e di esclusione si moltiplicano: nel 1932 non viene invitata all’inaugurazione della Mostra del Decennale della Rivoluzione fascista, le viene impedito di continuare a scrivere sul «Popolo d’Italia», le viene sottratto il controllo dell’organizzazione delle mostre di arte italiana all’estero; nel 1933 viene estromessa dal comitato organizzativo della Triennale di Milano; nel 1934 viene sostituita dal figlio di Mussolini Vito nella direzione di «Gerarchia», il mensile ufficiale del regime di cui era stata direttrice responsabile – ma in realtà vera direttrice –  fin dal 1922. Nel 1938 verranno le leggi razziali, che la spingeranno a lasciare l’Italia per Parigi e il Sudamerica, dove rimarrà fino al 1947. I germi della parabola discendente del potere culturale e politico di Sarfatti sono, quasi paradossalmente, contenuti nei presupposti che le avevano consentito di occupare posizioni di potere fin’allora impensabili per una donna. Come scrive Urso, Sarfatti «commette […] l’errore di non comprendere che in una società di massa il rituale va governato da istituzioni, non da singoli individui illuminati, sopravvalutando così il proprio ruolo» (Urso, cit., p. 14). Il percorso di Sarfatti, in altre parole, essendo costruito a partire da privilegi eccezionali, fondato su un indubbio merito personale ma estraneo ai percorsi legittimanti delle istituzioni scolastiche e culturali, era difficilmente compatibile con un contesto radicalmente mutato all’inizio degli anni Trenta, quando il sistema espositivo e del mercato d’arte italiano si struttura in una rigida gerarchia fondata sui Sindacati artistici e diretta da uno dei suoi nemici, Cipriano Efisio Oppo. È significativo che negli stessi anni in cui si svolge la parabola discendente di Sarfatti si avvii un altro percorso di “rottura del tetto di cristallo”, quello di Palma Bucarelli, di una generazione più giovane, prima direttrice donna di un museo italiano, la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. A differenza di quella di Sarfatti, la traiettoria di Bucarelli è completamente interna alle istituzioni: dopo una laurea regolarmente conseguita, Bucarelli entra come funzionario nella burocrazia statale delle arti grazie a un concorso pubblico. Proprio a Bucarelli toccherà il compito di liquidare ufficialmente il «Novecento», con la stesura della voce dedicata nell’Enciclopedia italiana (1934): «in breve perfino la parola Novecento divenne anacronistica per essere caduta nella spicciola moda commerciale, così che si ebbero i tappeti novecento, i caffè novecento, i mobili novecento». Ma quanto ha contato, nella perdita d’influenza di Sarfatti, la fine della sua relazione con il capo del governo Mussolini, che i biografi collocano tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta? Di questa relazione, cominciata poco prima o durante la prima guerra mondiale, di questo rapporto che costituisce uno degli elementi chiave del soft power di Sarfatti, ho appena accennato, seguendo, in questo, la linea adottata dai curatori delle due mostre, che ne parlano pochissimo: nella mostra milanese ne rende conto soltanto la cronologia posta all’inizio del percorso espositivo; in quella di Rovereto si parla di un «legame intimo» con Mussolini soltanto nella scheda informativa presente nella sala «Da Dux a Acqua passata». Benché finora abbia seguito i curatori delle due mostre, non sono convinta che il passar quasi sotto silenzio un elemento biografico così importante renda un buon servizio alla ricostruzione della figura storica e del ruolo culturale di Sarfatti. È vero che, come scrive un’altra delle sue biografe, Rachele Ferrario, in un intervento pubblicato in catalogo, «è tempo di rileggere la sua figura di intellettuale che inizia il suo proprio percorso ben prima di affiancarsi a Mussolini» (p. 34) – è importante, insomma, far uscire Sarfatti dal cono d’ombra di Mussolini. Ma è anche vero che sminuire l’importanza della relazione tra i due comporta il rischio di non mettere in giusto rilievo il fondamentale ruolo svolto da Sarfatti nella genesi del fascismo, la sua funzione di «assistente modesta ma appassionata del nostro capo», come afferma lei stessa in un’intervista all’NBC del 1934. L’influenza politica di Sarfatti su Mussolini è importante sia a livello ideologico, e questo fin dagli anni Dieci (già nel 1913 Sarfatti condivide con Mussolini l’impianto della rivista «Utopia»), sia nella costruzione della mitologia mussoliniana in Italia e all’estero con la redazione della biografia Dux (pubblicata a Londra nel 1925, in Italia da Mondadori nel 1926), la cura dell’ufficio stampa estera della presidenza del consiglio, la redazione come ghost writer degli articoli firmati da Mussolini per i periodici statunitensi di Hearst. Le stesse mostre all’estero sono da leggere all’interno di un programma di «colonialismo estetico» e di legittimazione fuori dai confini del regime mussoliniano. Ad annebbiare, nelle due mostre, la relazione amorosa tra Sarfatti e Mussolini, non è tanto, credo, la discrezione nei confronti di un gossip, quanto una difficoltà maggiore. È possibile portare all’attenzione del pubblico contemporaneo un personaggio così fondamentale nella storia delle arti e nella storia delle donne, e insieme così implicato con il regime fascista? È necessario nascondere l’eccezionale importanza di una donna nella genesi del fascismo, per poterne riproporre la figura ai visitatori di una mostra nel 2018? Le risposte a queste domande non sono facili – anche quando, come fa il direttore del Mart Gianfranco Maraniello nella sua pagina d’introduzione al catalogo, si affermi decisamente che «le istituzioni museali in Italia hanno oggi il compito di mettere in prospettiva tali eventi e, soprattutto, le opere che ne sono testimonianza e opportunità per non proseguire nella più frequentemente adottata censoria latenza che, forse, ha significato anche diffusa incapacità di elaborazione del trauma» (p. 19). Un’affermazione così netta è però preceduta da una premessa che sembra deresponsabilizzare la protagonista dei due percorsi espositivi: «Come una falena che ha corteggiato pericolosamente il fuoco, il rapporto al fascismo e la vicinanza a Benito Mussolini sono stati – per usare un suo stesso titolo – la “colpa” che le ha però garantito di esercitare i propri talenti e di rimanere al centro della scena politica e culturale del Paese in un’epoca dove difficilmente si è potuto distinguere una dimensione dall’altra». Sarfatti la falena, Mussolini il fuoco. Non siamo ancora pronti – e pronte – per pensare che il fuoco, sotto certi aspetti, abbia potuto anche essere lei? 

Per saperne di più

Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo, a cura di D. Ferrari, con la collaborazione di I. Cimonetti e Archivio del ‘900, Mart, Rovereto, 22 settembre 2018-24 febbraio 2019

Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci a Milano, Museo del Novecento, Milano, a cura di A.M. Montaldo, D. Giacon, con la collaborazione di A. Negri, 21 settembre 2018-24 febbraio 2019

Il Catalogo unico per le due mostre, a cura di D. Ferrari D. Giacon, A.M. Montaldo, con la collaborazione di A. Negri, è edito da Electa, Milano 2018

Simona Urso, Margherita Sarfatti: dal mito del «Dux» al mito americano, Marsilio, Venezia 2003

P.V. Cannistraro, B. Sullivan, Margherita Sarfatti. L’altra donna del duce, Mondadori, Milano 1993, p. 345

Margherita Sarfatti: una donna affascinante, colta e intelligente che “inventò” Mussolini.  Da best5.it. il 20 marzo 2021. Margherita Sarfatti non era un gerarca e nemmeno un uomo, ma senza questa donna affascinante, colta e intelligente, forse il provinciale Benito Mussolini non sarebbe mai riuscito a conquistare il potere, diventando per vent’anni il Duce degli italiani. Margherita era nata a Venezia l’8 aprile 1880, dalla ricca famiglia ebrea dei Grassini. Caduta nell’oblio per decenni, la sua figura di raffinata intellettuale è stata ripescata di recente. Se non si fosse compromessa con il fascismo, Margherita Sarfatti sarebbe stata probabilmente una delle donne più ammirate e importanti del XX secolo, forse addirittura un’icona del moderno femminismo. Rimase invece nell’immaginario collettivo come l’amante ebrea di Mussolini, doppiamente tradita per un’altra donna e un’altra ideologia. Ma chi era veramente Margherita Sarfatti, questa donna affascinante, colta e intelligente? Scopriamolo insieme.

1. L’incontro fatale con Mussolini. Margherita era nata a Venezia l’8 aprile 1880, dalla ricca famiglia ebrea dei Grassini. La sua infanzia e la sua adolescenza trascorsero in un clima sereno e culturalmente assai vivace. Nel 1898 sposò l’avvocato Cesare Sarfatti e nel 1902 la coppia decise di lasciare Venezia per Milano, dove giunse alla metà di ottobre. Qui i due iniziarono a frequentare assiduamente gli ambienti socialisti, incontrandosi con Filippo Turati e Anna Kuliscioff. Grazie a loro conobbero un’altra coppia di spicco nel panorama culturale milanese, l’avvocato Luigi Majno e la moglie Ersilia Bronzini, presidentessa della Lega femminista fondata nel 1888 dalla stessa Kuliscioff, con cui Margherita iniziò a collaborare attivamente. Nel 1908 i coniugi Sarfatti si trasferirono in un lussuoso appartamento di corso Venezia, dove Margherita aprì un salotto destinato ad accogliere in breve tempo i più bei nomi dell’arte italiana. Nel 1909 la coppia acquistò una residenza di campagna a Cavallasca, tra Como e la Svizzera, già appartenuta alla nobile famiglia degli Imbonati. Margherita la chiamò “Il Soldo”, facendone la casa di vacanza e una sorta di dépendance del suo salotto cittadino. Nel frattempo, il suo amore per l’arte si stava trasformando in professione: ormai scriveva regolarmente per l’«Avanti! della domenica», il supplemento settimanale del quotidiano socialista. Nello stesso periodo conobbe Umberto Boccioni, più giovane di lei di un paio d’anni, con il quale ebbe una fugace relazione. Ben presto il salotto milanese di Margherita divenne il centro del Futurismo italiano, nato nel 1909 e consolidatosi poi nel 1910. I pittori dell’avanguardia facevano la spola tra la casa dei Sarfatti e quella di Filippo Tommaso Marinetti, sempre in corso Venezia, e in quegli anni di straordinario fermento artistico Margherita entrò in contatto con i migliori intellettuali dell’epoca. Si arrivò così al 1912, l’anno fatale: a gennaio Anna Kuliscioff fondò il quindicinale «La difesa delle lavoratrici», e Margherita fece il suo ingresso nella redazione. In luglio, a Reggio Emilia si tenne in via straordinaria il XIII congresso socialista, motivato dalle divisioni che attraversavano il partito in seguito alla controversa Guerra di Libia, scoppiata nel settembre del 1911. Il congresso si concluse con la vittoria della corrente massimalista e l’espulsione dei riformisti, invocata a gran voce da un giovane socialista che si stava imponendo sulla scena italiana: Benito Mussolini, che a ottobre assunse la direzione dell’“Avanti!”. Il 1° dicembre s’insediò a Milano e Margherita, appartenente alla corrente turatiana riformista uscita perdente dal congresso, si presentò alla sede del giornale per dare le dimissioni. Benché il contesto non fosse ideale, tra i due nacque un’immediata simpatia, che non tardò a diventare una passione travolgente. La relazione, benché tempestosa, si sarebbe protratta per vent’anni, in un sodalizio sentimentale e politico che avrebbe impresso una svolta decisiva al destino di Mussolini e dell’Italia. Nel 1914, l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e della moglie Sofia a Sarajevo scatenò la Prima guerra mondiale, travolgendo con un drammatico effetto domino le potenze europee. L’Italia non entrò subito in guerra al fianco degli Imperi centrali, come prevedeva il patto della Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria; il Paese si spaccò tra neutralisti e interventisti, e Mussolini fu protagonista di un clamoroso cambio di casacca, passando dal neutralismo socialista all’interventismo sbandierato dai nazionalisti. Nel novembre di quell’anno Mussolini, lasciata la direzione dell’”Avanti!”, fondò un nuovo quotidiano, “Il popolo d’Italia”. Con lui, anche due donne: la sindacalista Maria Rygier e l’ormai inseparabile Margherita. Interventista convinta, la Sarfatti dovette toccare con mano la cruda realtà della guerra: nel gennaio del 1918 cadde il suo primogenito Roberto, di appena 18 anni. Il 15 dicembre 1917, sul “Popolo d’Italia” Mussolini aveva pubblicato un articolo intitolato Trincerocrazia, in cui sosteneva l’esistenza di una nuova aristocrazia, che «muove già i primi passi. Rivendica già la sua parte di mondo. Delinea già con sufficiente precisione i suoi tentativi di “presa di possesso” delle posizioni sociali. È un travaglio oscuro, intenso, di elaborazione, che ricorda quello della borghesia francese di prima dell’89... Questa enorme massa — cosciente di ciò che ha fatto — produrrà inevitabilmente degli spostamenti di equilibrio. Il rude e sanguinoso tirocinio delle trincee significherà qualche cosa. Vorrà dire più coraggio, più fede, più tenacia». E fu con coraggio, con fede e con tenacia che Margherita scelse di restare al fianco di Mussolini, negli anni decisivi del dopoguerra.

2. “O marci o muori”. Il 23 marzo 1919 era in piazza San Sepolcro, a Milano, alla fondazione dei Fasci di combattimento, e nell’ottobre del 1922 fu al Soldo che si decise la Marcia su Roma. Nei giorni precedenti, mentre gli squadristi di Balbo e Farinacci erano in agitazione, Mussolini si riservava ancora di decidere il da farsi. Tanto che il 26 ottobre, mentre le camicie nere si apprestavano a convergere sulla capitale, si recò al teatro Dal Verme, a Milano, per la prima del Lohengrin di Wagner. Fece lo stesso anche la sera dopo, presentandosi al teatro Manzoni, dove si rappresentava un dramma di Molnár, Il cigno. A metà del secondo atto Luigi Freddi, giovane redattore del “Popolo d’Italia”, lo avvisò che a Cremona gli squadristi, con un anticipo di qualche ora sui piani, avevano «occupato il telefono, il telegrafo, la posta, la prefettura e altre sedi governative», mentre già si registravano una decina di vittime. Alla sede del giornale si preparavano le barricate, mentre partivano gli autocarri con le copie del manifesto, pronto segretamente da giorni, che la mattina seguente sarebbe stato affisso in tutta Italia. Al Manzoni, quella sera, c’era anche Margherita, alla quale Mussolini si rivolse invitandola a rifugiarsi al Soldo in attesa degli eventi, per passare in Svizzera nel caso in cui l’impresa fosse fallita. Al Soldo i due ci andarono davvero e fu lì che Margherita, si dice, convinse Mussolini a rompere gli indugi: «O marci o muori, ma so che marcerai». Il 28 ottobre Roma fu invasa dalle camicie nere guidate dai quadrumviri Balbo, Bianchi, De Bono e De Vecchi. Mussolini aveva lasciato il Soldo all’alba per recarsi a Milano. La sera stessa, dopo essere stato a teatro con la moglie Rachele e la figlia Edda, tornò alla redazione del “Popolo d’Italia”, presidiata in armi, dove trovò Margherita, che gli consigliò di accettare l’offerta, avanzata dal ministro Antonio Salandra, di entrare nel governo. Mussolini, però, prese tempo, e nella tarda mattinata del 29 ricevette una telefonata del generale Cittadini, che a nome del re lo incaricava di procedere alla formazione di un nuovo governo. Accortamente, la Sarfatti gli suggerì di farsi mandare un telegramma, temendo che la telefonata potesse essere soltanto un trucco per attirarlo a Roma. Il telegramma arrivò nel giro di venti minuti, e in serata Mussolini partì per la capitale. Vi giunse il giorno seguente, e il 31 ottobre giurò, come capo del governo e insieme ai suoi ministri, davanti al re. Il “Popolo d’Italia” titolava: «Mussolini riconsacra l’Italia di Vittorio Veneto, creandole un governo degno dei suoi immancabili destini». Da quel momento, Margherita entrò a pieno titolo nell’entourage di Mussolini, impegnata a riempire il fascismo di contenuti culturali. Nella foto sotto, Sarfatti ospite al Kulturbund di Vienna, dove parla dello stile di vita del 20esimo sec. sotto Mussolini – tra il pubblico anche A. Mahler e F. Werfel.

3. La donna del duce. Nel marzo del 1923, per il quarto anniversario della fondazione dei Fasci di combattimento, organizzò la prima esposizione del gruppo Novecento, fondato nel 1922 e composto da pittori e scultori fra i più validi del periodo: Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi. Se la guerra non se li fosse portati via prematuramente, tra loro ci sarebbero stati anche Umberto Boccioni e Antonio Sant’Elia, caduti rispettivamente nell’agosto e nell’ottobre del 1916. La mostra si propose come modello esemplare di “arte fascista”, che dispiacque ad alcuni artisti: gli stessi che qualche anno dopo, quando Mussolini si sarà imposto saldamente alla guida del Paese, faranno carte false per aggregarsi al gruppo, attratti dai vantaggi materiali e morali garantiti dal regime. Il 1924 fu un anno durissimo: nonostante il dolore per la morte del marito Cesare, avvenuta a gennaio, Margherita riuscì a restare accanto a Mussolini, invischiato nel tragico scandalo del delitto Matteotti. Ma le cose stavano per cambiare radicalmente. Nel 1923 Giuseppe Prezzolini, il fondatore della rivista «La Voce», era stato invitato a tenere un corso estivo presso la Columbia University di New York. Di ritorno in Italia, disse alla Sarfatti che sarebbe stata una buona idea scrivere un lavoro in inglese per illustrare oltre oceano la figura del nuovo primo ministro italiano. Lei seguì il suo consiglio, e cominciò a scrivere la biografia di Mussolini. Il libro, intitolato semplicemente The Life of Benito Mussolini, “La vita di Benito Mussolini”, uscì in Inghilterra nel settembre del 1925. L’anno seguente venne pubblicato in Italia dalla Mondadori con il titolo, assai più dirompente, Dux. Fu un successo strepitoso: diciassette ristampe in Italia, traduzione in diciotto lingue (compreso il turco), 300 mila copie vendute in Giappone. Margherita Sarfatti divenne per tutti “la donna del Duce”, compagna, consigliera e ispiratrice dell’uomo che teneva in pugno le sorti della nazione. Nel 1928 si trasferì definitivamente a Roma, stabilendosi non lontano da Villa Torlonia, residenza ufficiale di Mussolini e della sua famiglia, ma la sua stagione di ninfa Egeria del fascismo stava ormai per terminare. Non era soltanto il rapporto tra Benito e Margherita a essere cambiato, ma il clima generale del regime, sempre più orientato verso una retorica “imperiale” che la Sarfatti non condivideva e dalla quale mise in guardia più volte Mussolini, inutilmente.

4. La Petacci e le leggi razziali. Nel 1932 fu lui a imprimere una brusca svolta alla loro relazione, allontanandola dal “Popolo d’Italia”. Margherita approdò al quotidiano torinese “La Stampa”, dove pubblicò il suo primo articolo il 23 marzo. Un mese dopo ebbe luogo il fatale incontro di Mussolini con Claretta Petacci, e la Sarfatti lentamente uscì sia dalla vita sentimentale del Duce sia da quella politica del Paese. Ormai Mussolini non aveva più bisogno di lei, né come amante né come partner politica. Anzi, il carattere forte e l’indipendenza di giudizio di Margherita ne facevano una potenziale avversaria, e il Duce non poteva certo permettersi di tenersi accanto chi avrebbe potuto rivoltarglisi contro. Contraria all’imperialismo colonialista e alla guerra d’Etiopia, Margherita si recò diverse volte negli Stati Uniti cercando invano di aprire un canale tra Roosevelt e Mussolini. Le “inique sanzioni” del 1935 segnarono l’ineluttabile avvicinamento del fascismo alla Germania hitleriana, sancito dal viaggio di Hitler in Italia del maggio 1936. Nel settembre del 1938, le leggi razziali varate dal fascismo, scopertosi antisemita, decretarono la disgrazia definitiva della Sarfatti, che a novembre lasciò l’Italia per stabilirsi a Parigi e nel 1939 si trasferì a Montevideo, in Paraguay, risparmiandosi gli orrori della guerra (e verosimilmente la tragica fine toccata invece alla Petacci). Rientrò in patria nel 1947, nel disinteresse generale. Nel 1955 pubblicò Acqua passata, un libro di memorie in cui prendeva in qualche modo le distanze dal lungo periodo trascorso al fianco di Mussolini. Morì a Cavallasca, dove si era ritirata, il 30 ottobre 1961. Caduta nell’oblio per decenni, la sua figura di raffinata intellettuale è stata ripescata di recente: se non si fosse compromessa con il fascismo, Margherita Sarfatti sarebbe stata probabilmente una delle donne più ammirate e importanti del XX secolo, forse addirittura un’icona del moderno femminismo. Rimase invece nell’immaginario collettivo come l’amante ebrea di Mussolini, doppiamente tradita per un’altra donna e un’altra ideologia. Dopo la disfatta del fascismo, Margherita Sarfatti negò di aver mai pronunciato la frase «O marci o muori: ma so che marcerai». In realtà l’aveva detta Marinetti e l’aveva ripresa D’Annunzio, ma non è improbabile che potesse averla ripetuta anche lei. Pur sostenendo, in seguito, di non aver mai ricoperto un ruolo centrale nella fatale decisione presa da Mussolini, non rinnegò mai le proprie scelte: «Già nel 1919, immediatamente dopo la Prima guerra mondiale, l’Italia si avviava alla dittatura. Di un tipo o di un altro ma sarebbe stata una dittatura. Noi italiani abbiamo combattuto disperatamente contro questa sorte, ma era una lotta impari in cui il destino ci riservava un pessimo mazzo di carte. Avevamo solo due scelte possibili: anarchia immediata e sanguinosa con tutti gli orrori della guerra civile o la nascita di un governo forte in grado di cogliere ogni opportunità di trasformarsi in dittatura. Ancora oggi non credo che la maggioranza delle persone avessero torto quando istintivamente scelsero la seconda possibilità».

5. Quando il socialismo faceva cultura. L’«Avanti! della domenica» fu il prestigioso supplemento settimanale al quotidiano socialista “Avanti!”, che uscì dal 1903 al 1907. Sotto la direzione dell’intraprendente Vittorio Piva, morto ad appena 32 anni proprio nel 1907, la rivista fu la testimonianza più vivace del dibattito tra le due anime del socialismo di inizio secolo, il riformismo e il massimalismo. Piva riuscì nell’intento, apparentemente impossibile, di far dialogare le due correnti dando vita a un’esperienza culturale straordinaria, alla quale parteciparono gli intellettuali più brillanti dell’epoca: alcune copertine, per esempio, erano firmate da Umberto Boccioni e Mario Sironi, che di lì a poco sarebbero diventati esponenti di spicco del Futurismo. Sulle pagine del supplemento, nato in antitesi alle testate “borghesi” «La Domenica del Corriere» e «La Tribuna illustrata», scrissero, insieme a Margherita Sarfatti, anche Edmondo De Amicis, Guelfo Civinini (che fu librettista per Giacomo Puccini), Goffredo Bellonci, Tommaso Monicelli (padre del futuro regista Mario) e Gabriele D’Annunzio. La prematura scomparsa di Piva segnò la fine del supplemento, che non uscì più. Fece una breve ricomparsa nel 1912 e fu poi rifondato nel 1998 come organo dei Socialisti Democratici Italiani (Sdi), cessando definitivamente le pubblicazioni nel 2006. La relazione tra Mussolini e la Sarfatti fu sempre appassionata, nel bene e nel male. Gelosissima, Margherita giunse al punto di far scontare a Benito le sue numerose infedeltà infliggendogli una cocente umiliazione. Era il 1919, e il maestro Arturo Toscanini aveva da poco scoperto un giovane violinista ceco dallo straordinario talento, Váša Píhoda. La Sarfatti non si lasciò sfuggire l’occasione di invitare il musicista nel suo salotto di corso Venezia, organizzando un’esibizione privata per pochi fortunati. Tra i convenuti, naturalmente, c’era anche Mussolini. La performance di Píhoda entusiasmò tutti, ma cessati gli applausi Margherita annunciò che quella sera anche un altro violinista si sarebbe esibito: Benito Mussolini. Il quale sapeva suonare il violino e conosceva bene anche la musica, se è vero, come testimonia la stessa Sarfatti, che in sua presenza aveva letto a impronta uno spartito di Vivaldi, ma certamente non poteva reggere il confronto con il talentuoso ceco. Mussolini si schermì, ma non ci fu niente da fare: dovette suonare anche lui, nell’imbarazzo generale, e subito dopo abbandonare in tutta fretta casa Sarfatti adducendo improbabili scuse. La vendetta di Margherita si era consumata.

Margherita S., la donna che creò Mussolini. Pierre-Henry Salfati LA 1, giovedì 11 maggio, su rsi.ch. Margherita Sarfatti, “l’altra donna del Duce” ha avuto un’influenza molto grande nei confronti di Benito Mussolini ma è stata quasi dimenticata dalla storia. Nata nel 1880 da una ricca e nota famiglia ebrea, crebbe a Venezia, in un palazzo del XV secolo sul Canal Grande, palazzo Bembo, a pochi passi dal vecchio ghetto. Suo padre le offre i migliori precettori di Venezia; Margherita si nutre di letteratura, di storia dell’arte e di filosofia, conosce Fogazzaro e Gabriele d’Annunzio ma sarà attirata da altre idee meno classiche e conformiste. Margherita si trasforma ben presto una socialista militante e diventa uno dei membri più influenti del partito. È una femminista ante-litteram e il suo salotto milanese, intorno agli anni venti, è frequentato da intellettuali, compositori e scrittori. Da quando conosce Mussolini, nel 1912, ne diventa l’amante e la sua più stretta collaboratrice. Nel 1918 è redattrice de Il popolo d’Italia, quotidiano fondato e diretto dal futuro dittatore e nel 1925 scrive una delle prime biografie agiografiche, intitolata DUX. Per Mussolini, Margherita è la sua ombra, il suo pigmalione, l’autrice dei suoi discorsi, il suo fantasma. Lei gli resta vicino per vent’anni, sacrifica la sua vita per lui, ma è abbastanza consapevole da fuggire dall’Italia prima di diventarne una vittima.

Il Lario e la musa di Benito Mussolini: la storia di Margherita Sarfatti. Marco Guggiari  il 10 Settembre 2019 su corrieredicomo.it. Benito Mussolini dovette principalmente a lei la decisiva legittimazione di leader nel capoluogo lombardo. Grazie a Margherita Sarfatti e al suo salotto borghese di corso Venezia, il capo del fascismo fu “svezzato” e reso accettabile alla Milano “bene”. I due divennero amanti nel 1913 e il loro rapporto, travolgente e burrascoso, costellato di reciproci tradimenti, proseguì anche quando il duce prese la guida del governo. Margherita è stata definita un’anticipatrice del fascismo, ma di un fascismo borghese nel quale lei vagheggiava una rivolta etica e individuale. Vi aderì speranzosa di creare uno stile nazionale nell’arte e nella letteratura, i campi dei suoi principali interessi. La vicenda privilegiata e drammatica di questa donna nata nel 1880 in uno splendido palazzo del Quattrocento nel Ghetto Vecchio di Venezia, si intreccia con il territorio comasco, dove visse a lungo, morì e dove riposano le sue spoglie. “Il Soldo”, la dimora di campagna di Cavallasca, acquistata nel 1909 assieme al marito, fu sempre il rifugio sicuro di Margherita Sarfatti, il luogo a lei più caro. «Senza lussi, ma comoda, grande e tranquilla»: così la padrona di casa amava definire quell’edificio rustico a due piani, con persiane verdi e l’esterno in stucco rosso. Piazzato in cima alla collina, godeva di una vista invidiabile. Era impreziosito da un giardino rigoglioso di fiori e alberi da frutta, con il pozzo ombreggiato da un lauro, mentre all’interno travi irregolari a vista sul soffitto e mobili che profumavano di legno davano all’ambiente un gradevole tocco di calore. Adriana Turconi, di Cavallasca, ricorda che il nonno, Pietro fu custode al “Soldo” e racconta che quando Margherita Sarfatti arrivò volle eliminare ogni recinzione, a parte il muretto che dava sulla strada provinciale: «Prima c’era filo spinato ovunque. Lei disse: “Non ho comprato una prigione”». Quando Pietro morì, nel 1953, Margherita scrisse una lettera di suo pugno alla moglie Lucia. Un passaggio dice: «Pietro è andato a raccogliere il premio di tutte le sue opere buone e virtuose». Maria, la mamma di Adriana Turconi, aiutò nella cucina della villa. A proposito dei soggiorni del duce, disse alla figlia: «Arrivava a bordo di un’Alfa scoperta. Quando era in visita ufficiale, davanti al cancello era schierata la milizia». Al Soldo fu progettata la marcia su Roma; qui Mussolini si ritirò quando sembrava che re Vittorio Emanuele III avrebbe firmato lo stato d’assedio. La scrittrice e critica d’arte, dal canto suo, trascorreva al “Soldo” le vacanze ogni anno, da luglio a ottobre, eccezion fatta per il periodo dell’esilio che durò dal 1938 al 1947. Qui ricevette grandi personalità. Tra i tanti, gli scrittori Luigi Pirandello e Riccardo Bacchelli e lo scultore Medardo Rosso. E dopo il suo definitivo rientro in Italia, visse ininterrottamente a Cavallasca fino all’ultimo giorno: il 29 ottobre 1961, quando spirò nel sonno nella casa «ch’era un piccolo tempio dell’arte – scrisse in un articolo non firmato “La Provincia”, diretta all’epoca da Luigi Pozzoli – le pareti adorne di quadri preziosi dei più illustri pittori, da Picasso a Matisse, a Ronalt, a Cocteau, a Sironi, a Carrà, a Chagalle, dove si raccoglievano scrittori insigni e personalità del mondo letterario; e Margherita Sarfatti teneva il filo della conversazione, amabile e animatrice, sui più vari temi e sui più impegnativi interrogativi della storia e dell’arte (…)». Lo stesso giornale pubblicò in terza pagina, il 31 ottobre 1961, l’ultimo scritto della scomparsa, inedito e consegnato alla scrittrice comasca Carla Porta Musa, che le aveva fatto visita poche ore prima dell’improvvisa dipartita. Titolo: «Ma sono scoperte?». Oggetto: l’humour nelle declinazioni tipiche e diverse di vari popoli. Quella capacità di sorridere che, secondo l’articolo, era ormai carente negli scrittori, tutti presi da un “io” straripante. Eccone lo stralcio conclusivo, coerentemente improntato proprio a humour: «(…) Aspetto che qualcuno rida di me e delle mie favolose scoperte, o perché false ed errate, o perché note ed arcinotissime. E quando qualcosa di ciò mi verrà dimostrato, mi divertirò e riderò io pure di gusto, grazie a quel senso di humour, che è forma di umiltà, o almeno di modestia. Frattanto, mi pavoneggio con le mie forse false penne di pavone». Margherita Sarfatti collaborò anche alla storica rivista “Como”, allora diretta da Carla Porta Musa, che ha più volte raccontato l’ultimo sereno incontro, in nulla presago di quanto sarebbe accaduto, preceduto da un’affettuosa e perentoria telefonata: «Ti aspetto domani. Domani, hai capito? Non mi tradire. Vieni. Parto lunedì e desidero salutarti». La regina del “Soldo”, ricorda la sua amica, aveva una voce fresca, che non lasciava prevedere di certo quel repentino passaggio, aveva una energia, un entusiasmo, una voglia di scrivere ancora molto intensa. «Domani parto – ribadì all’ospite – ma sono soddisfatta. Ho scritto tre articoli in questi ultimi giorni. E non credere che non abbia ancora molte cose da dire: continuerò a Roma». La conversazione scivolò sul matrimonio. «Muoio col pentimento di non essermi risposata – disse Margherita a Carla Porta Musa – Perché il compagno di tutt’i giorni e di tutte le ore è il marito. Naturalmente dev’essere una persona educata». La stessa Sarfatti, poco tempo prima, aveva confidato alla nipote Magalì: «Gli unici due uomini che ho amato sono stati tuo nonno e Mussolini». Porta Musa concluse così la cronaca di quel pomeriggio: «L’ultimo giorno Margherita Sarfatti aveva dunque scritto, conversato, letto, pagato tutt’i conti – com’era solita fare ogni anno da cinquant’anni – alla vigilia della partenza. Aveva aiutato a preparare le valigie, riposto nelle varie buste i soldi, i gioielli, le carte, i libri (…) Si era coricata verso mezzanotte; in ginocchio sul letto aveva come ogni sera detto le preghiere; si era fatta portare un tè di tiglio, poi aveva spento la luce. La mattina dopo quando la cameriera era entrata in camera per aprire le persiane, l’aveva chiamata. Come al solito, poi più insistentemente del solito. Si era avvicinata al letto. Margherita era morta. Portava sempre con sé, da moltissimi anni, raccolte in un grosso volume le opere di Dante che consultava incessantemente. (Sapeva e recitava Dante a memoria). Coincidenza strana: ad ogni suo dubbio, perplessità, curiosità, trovava sempre nella pagina che apriva a caso, la risposta o il consiglio o l’insegnamento adatti. Vi sono in quel volume – consumato dal tempo, ma soprattutto dall’uso – parecchie annotazioni di Margherita. Le prime risalgono al 1925. L’ultima è delle ore 0,50 dell’8 aprile 1961 (il giorno del suo ottantunesimo compleanno). L’ho ricopiata – la mano un po’ mi tremava – col consenso di Fiammetta (la figlia di Margherita, ndr.): “Sì come pomo maturo dispicca dal suo ramo. Aristotele dice senza tristezza è la morte che è nella vecchiezza. Chiaro dunque che non vedrò il prossimo venturo 8 aprile 1962. Ma grazie a Dio dice che non soffrirò. Amen e così sia”». Margherita era la quarta, ultima e viziatissima figlia di Amedeo Grassini ed Emma Levi, una coppia di ebrei della buona società veneziana. La famiglia era ricca e prediligeva la cultura. Dal Ghetto passò alla “Casa Bembo”, un palazzo gotico sul Canal Grande dove fu installato il primo ascensore della città lagunare. Amedeo Grassini era ingegnere e fondò il sistema di trasporto dei vaporetti a Venezia. L’ultimogenita era intelligente e vivace. Stimolata dall’ambiente in cui viveva, andava regolarmente a concerti e all’opera nel palco paterno della Fenice. Divorava romanzi. Incontrava le numerose persone colte e raffinate che andavano e venivano per casa. Nel suo libro autobiografico “Acqua passata” scriverà di essersi ispirata fin da bambina, non per curiosità, né per snobismo alla vocazione di «collezionista di celebrità». Ebbe un tutore, Antonio Fradeletto, critico teatrale e brillante conferenziere. Appena quindicenne, ma già bellissima, un professore di mezza età si innamorò di lei. Lo spasimante era socialista e aprì a Margherita un mondo affascinante di idee nuove. La giovane le fece proprie e ben presto, nella Venezia di fine secolo, fu ribattezzata la “vergine rossa”. Dopo uno spettacolo alla Fenice, l’incontro con l’avvocato Cesare Sarfatti, un lontano parente di idee repubblicane, fece scoccare la scintilla dell’amore. Amedeo Grassini si oppose duramente a quella frequentazione, ma quando Margherita compì diciotto anni dovette rassegnarsi alle nozze, che furono celebrate soltanto con rito civile. Cesare continuava a non essere gradito alla famiglia della sposa a causa delle sue attività socialiste, condivise da Margherita che si batteva anche per la causa femminista e iniziava a scrivere critiche d’arte su “l’Avanti” e su altri giornali. Nacquero i primi figli, Roberto (1900) e Amedeo (1902) e i Sarfatti lasciarono la splendida, ma “provinciale” Venezia per Milano, moderna capitale dei socialisti. Dapprima abitarono in un modesto appartamento di via Brera. poi si trasferirono in corso Venezia. Qui, nel 1909, Margherita ebbe Fiammetta, la figlia sempre desiderata. Si scontrò ripetutamente con Anna Kuliscioff, compagna di Filippo Turati e il socialismo stesso fatto persona, che non mancava di rinfacciare alla nuova arrivata i suoi soldi e il suo attaccamento alle comodità borghesi. La svolta decisiva, nella vita della Sarfatti, venne con la conquista della direzione de “l’Avanti” da parte di Benito Mussolini. Tra i due nacque immediatamente un feeling, che si tramutò ben presto in passione reciproca. Margherita, con il suo corpo giovane e grandi occhi luminosi, alta, bionda, era definita dallo scrittore Nino Podenzani «una bellezza trionfante». Non furono però solo anni di felicità. Il 28 gennaio 1918, Roberto, il figlio di Margherita, morì in guerra appena 17enne in cima al Col d’Echele, sull’altopiano di Asiago, trafitto da una pallottola austriaca. Nel 1935, dopo il ritrovamento del corpo, la mamma volle in sua memoria un monumento, che lei chiamerà “il caro segno”, disegnato dall’architetto razionalista comasco Giuseppe Terragni. Pur devastata dal dolore, colei che era ormai un critico d’arte tra i più importanti d’Italia, continuò il suo rapporto con l’astro nascente della politica. Lo seguì anche nell’avventura del fascismo. Convinta che la cultura fosse un cemento di coesione sociale, vi intravide la possibilità di realizzare un sogno: riportare la grandezza nell’arte italiana, creando uno stile nazionale. A riprova della predilezione per l’ambito artistico, tentò di aiutare giovani di talento. Affittò dall’industriale Carlo Ravasi una villa a Rovenna, sopra Cernobbio, e la mise a disposizione di coloro che erano un tempo appartenuti al movimento futurista. Vi lavorarono per mesi Achille Funi, Arturo Martini e altri. Ogni sera dal 1919 al 1922, dopo aver chiuso il “Popolo d’Italia” di cui era direttore, Benito Mussolini incontrava Margherita in corso Venezia, vicino a casa Sarfatti. Quando l’amante divenne capo del governo, la sua musa toccò il cielo con un dito: ne influenzò sempre più il giudizio, guidò l’esperienza della rivista di teoria politica “Gerarchia”, scrisse la biografia “Dux”, che sarà poi tradotta in diciannove lingue. Il libro, uscito per la prima volta nel 1925, fu ristampato fino al 1982 e rese celebre la Sarfatti anche all’estero. Animò la “I Mostra del Novecento italiano”. Organizzò le interviste del presidente del Consiglio con la stampa estera, firmò articoli lusinghieri sul suo conto per giornali americani ed europei, gli riferì regolarmente i commenti dei giornali milanesi sulle principali questioni. Un inviato americano, che accostò entrambi, osservò: «Lui si beava del proprio potere. Lei, riconosciuta dai suoi luogotenenti come l’ispiratrice, si crogiolava nel riflesso della sua gloria, soddisfatta al pensiero di essere stata di stimolo a un superuomo e convinta dentro di sé che lui fosse in parte una sua creatura». La coppia clandestina comunicava attraverso messaggi cifrati, privi di saluti e firme. Il primo incontro a Roma costrinse il capo del governo a sgattaiolare di nascosto nell’albergo di Margherita e ciò mise in allarme i servizi segreti. Di ritorno da un viaggio a Londra, dov’era stato ricevuto da re Giorgio V, Mussolini giunse in treno a Milano e si recò in auto al “Soldo”. Ma non furono soltanto rose e fiori. Gli impegni di Stato portarono il primo ministro a trascurare Margherita, che però doveva essere sempre a sua disposizione. «La delusione di lei e la possessività di lui – hanno chiosato gli studiosi Philip V. Cannistraro e Brian R. Sullivan – furono spesso motivi di furiosi litigi». Rabbia, rimorsi e rinnovati slanci amorosi si alternavano, rinnovandosi. Quando Mussolini si convinse a prendere una casa a Roma, i bisticci tra i due giungevano alle orecchie della servitù e proseguivano in francese anche in presenza di estranei. Il duce la tradì ripetutamente e, sia pure in minima parte, fu ricambiato con la stessa moneta da colei che, nel frattempo, era rimasta vedova: l’avvocato Cesare Sarfatti era morto di peritonite. Vennero gli anni più cupi. Le leggi razziali non risparmiarono Margherita, che nel 1938 passò in Svizzera dal valico di Pedrinate. A Chiasso prese il treno per Basilea e, da lì, per l’esilio parigino. Tornò in Italia nel 1947, poi andò in Sudamerica, prima del definitivo rientro. Margherita Sarfatti riposa per sua precisa volontà nel cimitero di Cavallasca. La ricordano una lapide e la maschera ricalcata da una scultura di Adolfo Wildt, allegoria della “Vittoria”, che guarda verso il “Soldo”. Il buen retiro fu aperto al pubblico per un giorno, domenica 18 settembre 2011, nell’anno del 50° della morte di Margherita. In una tesi di laurea sulla figura della defunta, Simona Urso scrive: «Attraversò gli anni del riformismo turatiano, l’interventismo e il fascismo, mantenendo viva la propria immagine di donna pubblica e di intellettuale. Fuse mondanità, intellettualismo e compromissione con il regime: fu esemplare perché raccolse in sé le virtù della donna di cultura non provinciale e i vizi della intellighentia di regime, di cui fu un deciso intellettuale organico».

Margherita Sarfatti, la regina dell’arte che ha vissuto all’ombra del fascismo per amore. Comunemente ricordata come l'amante di Mussolini, Margherita Sarfatti è stata in realtà molto di più. Da dilei.it il 7 Ottobre 2020. Ci sono donne che hanno lasciato il segno, pur restando apparentemente nella penombra degli uomini e delle storie di vita che hanno vissuto. È questo il caso di Margherita Sarfatti. Conosciuta per essere stata la compagna di Benito Mussolini, in realtà Margherita è stata molto altro. La prima donna in Europa a occuparsi di critica d’arte, a lei il merito di creare e pianificare una politica culturale nei confronti di un Paese che l’ha poi rinnegata. Una storia la sua, degna di essere raccontata, per tutta quella passione che ha segnato una vicenda umana non priva di contrasti e vicissitudini, prima fra tutte, quella storia d’amore travolgente avuta proprio con Mussolini. Margherita era una donna ricca ed elegante, dotata di una grande intelligenza e competenza, ma comunemente ricordata come l’amante ebrea di Mussolini. Nonostante le sue origini, infatti, negli anni ’10 la donna inizia questa relazione, contribuendo alla definizione delle politiche fasciste fino a quando, con la svolta delle leggi razziali, andò via dall’Italia. Una contraddizione che si ripercuote, inevitabilmente, anche nel suo ruolo nella società: combatte contro la discriminazione sessista scrivendo e finanziando periodici femminili, ma non rinuncia al lusso e ai privilegi della casta, complice quell’amore inspiegabile nei confronti dell’uomo guida, come lei stessa definiva il suo amante. Sposati entrambi, Mussolini e Margherita si conoscono a Milano condividendo le posizioni socialiste dalle quali poi si allontanano. Morto il marito nel 1924, il ruolo di Margherita accanto al Duce è più saldo che mai, nonostante gli alti e i bassi che caratterizzano la relazione. Benito mio, mio adorato. È la mattina del 1 gennaio 1923. Voglio scrivere questa data per la prima volta in un foglio diretto a te, come una consacrazione e una dedicatoria. Benito mio adorato. Sono, sarò, sempre, per sempre tutta, di più tua. Tua. Innamorata di quell’uomo e del suo carisma, Margherita partecipa attivamente alla fondazione del fascismo, oltre a sostenere economicamente e moralmente la propaganda. La Sarfatti, infatti, è autrice di Dux, la biografia mussoliniana con cui “il capo” viene presentato ai governi stranieri. Descrive il suo uomo come vitale e spregiudicato, aggressivo e folle, l’incarnazione dello spirito italico. Il libro di Margherita, negli Usa è un successo. Sono orgogliosa di te, questo; ma per quello che sei, non per quello che appari. Sono orgogliosa di te sino al fanatismo e sino alla pazzia, ma per il tuo valore intrinseco, non per il feticismo che di te ha la folla. Ma il rapporto con il suo amante entra in piena crisi, soprattutto a causa del clima antisemita che Mussolini accoglie, passando da un’iniziale tolleranza allo sposalizio col modello nazista. Così Margherita gli dice addio, per salvare la sua vita e quella dei suoi figli nati dal precedente matrimonio. Ritornerà in Italia solo alla fine della Seconda Guerra Mondiale per trascorrere gli ultimi anni della sua vita lontana dalle luci della ribalta a Cavallasca, vicino al lago di Como. Per essere ricordata “solo” come l’amante di Mussolini. Non siamo illogiche, al contrario siamo molto più logiche degli uomini. Andiamo dritte all’obiettivo, guidate dall’istinto che ci indica la strada più breve e sicura anche se non è la principale.

La donna che inventò Mussolini. Fabio Lambertucci su ponzaracconta.it l'11 settembre 2020. In un commento al mio articolo Libri e film sulle vicende erotico-sentimentali di Mussolini e Hitler mi è stata giustamente fatta notare l’assenza, nella rassegna, della fondamentale figura della celebre scrittrice e critica d’arte veneziana Margherita Grassini Sarfatti (1880-1961) che, com’è noto, fu a lungo amante di Benito Mussolini. Cercherò perciò di fare ammenda ricordando, tra i tanti, due lavori ben documentati del giornalista storico e grande esperto del Ventennio fascista, Roberto Festorazzi (Como 1966): la biografia del 2010 Margherita Sarfatti. La donna che inventò Mussolini (Angelo Colla editore, Vicenza) e un articolo molto interessante pubblicato su “L’Espresso” del 6 marzo 2014 intitolato “007 Missione Duce“. Festorazzi ha basato la sua biografia della Sarfatti su due clamorosi documenti da lui ritrovati. Il primo è My Fault, un memoriale autobiografico inedito, retrospettivo e autocritico della Sarfatti, scritto in inglese nel 1943-44, che restituisce l’esatta figura umana e psicologica di Mussolini, tolta dal piedistallo della mitologia e delle demonizzazioni assolute. Nel memoriale la Sarfatti rivelava clamorosamente che in gioventù Mussolini aveva contratto la sifilide ed era stato un consumatore, precoce e temporaneo, di cocaina. Il secondo documento è invece dello scrittore tedesco barone Werner von der Schulenburg (1881-1958), antinazista e corrispondente della Sarfatti dal 1926, e rivela, secondo l’autore, il ruolo svolto dalla Sarfatti, nella seconda metà del 1933, per cercare di favorire la successione a Hitler alla Cancelleria di Berlino.

Riporto quindi l’articolo di Festorazzi intitolato “007 Missione Duce” pubblicato su “L’Espresso” del 6 marzo 2014: “La cognata dell’inglese Chamberlain. E la Sarfatti ex amante di Mussolini. Alleate per convincerlo a placare Hitler, nel ’38. Lo svelano due lettere inedite”. Tra il dicembre del 1937 e il febbraio successivo, un’inviata speciale del premier inglese Neville Chamberlain (1869-1940), compì una missione in Italia allo scopo di spianare il terreno a un’intesa globale tra il governo fascista e quello di Londra. Questa rappresentante del primo ministro della Corona britannica, era nientemeno che sua cognata, ossia Lady Ivy Chamberlain (1878-1941), vedova del fratellastro Austen (1863-1937), che fu ministro degli Esteri dal 1925 al ’29, Premio Nobel per la Pace 1925 e grande amico di Benito Mussolini. Lady Chamberlain a Roma incontrò il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano (1903-1944), il Duce e i più influenti esponenti dell’establishment fascista. Fu grazie alla sua missione che Italia e Gran Bretagna siglarono gli Accordi di Pasqua (stipulati il 16 aprile 1938 appianavano i contrasti nelle politiche medio-orientali dei due Paesi e garantivano il libero accesso al Lago Tana e al Canale di Suez – N.d.A.). Pochi mesi più tardi, quando la pace fu sotto la minaccia della crisi cecoslovacca, Neville Chamberlain pensò di ripetere la felice esperienza, ricorrendo nuovamente alle arti diplomatiche della cognata. Questa volta la posta in gioco era molto più alta: raggiungere un accordo di concordanza europea con Hitler. Il retroscena della seconda missione italiana di Lady Chamberlain emerge per la prima volta da un carteggio conservato nel Fondo Sarfatti del Mart di Rovereto (cfr. breve video da YouTube in fondo all’articolo). Si tratta di due lettere inedite che la vedova di sir Austen inviò alla scrittrice ebrea Margherita Sarfatti, e che arricchiscono il repertorio di documentazione storica finora prodotto sull’intenso lavorìo diplomatico sotterraneo compiuto dall’Inghilterra durante la crisi dei Sudeti (*) esplosa sul finire dell’estate del 1938. La Sarfatti, che era stata a lungo l’amante del Duce, era una donna colta e di mentalità europea. Aveva promosso il movimento artistico del Novecento italiano, e frequentava il jet set internazionale. Nel 1934, fu ricevuta per un tè alla Casa Bianca dal presidente Roosevelt. Chamberlain – e queste nuove acquisizioni lo confermano – fu molto più astuto e spregiudicato di quanto si è finora creduto. Mentre sui giornali montava d’intensità il dramma cecoslovacco, lo statista britannico aveva bisogno di lanciare Mussolini, nel ruolo di mediatore, in una grande maratona diplomatica destinata a passare alla storia. Ne sortì la Conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1938 (*), che vide il Duce interporsi con successo tra Hitler, da una parte, e la Francia e il Regno Unito dall’altra. La pace fu salva, ma solo per pochi mesi, e al prezzo dello smembramento della Cecoslovacchia. Monaco aveva segnato la disfatta delle grandi potenze occidentali, che avevano accettato di piegarsi ai ricatti del Führer. Tanto che la conferenza del 1938 è divenuta, nel lessico contemporaneo, sinonimo della capitolazione delle democrazie nei confronti delle tirannidi.

I firmatari dell’accordo: da sinistra, Chamberlain, Daladier, Hitler e Mussolini; a destra, Ciano. In secondo piano, tra Hitler e Mussolini si nota Joachim von Ribbentrop, il ministro degli affari esteri tedesco.

A Monaco, Chamberlain, e il suo collega francese Edouard Daladier (1884-1970), non furono però deboli o codardi, come la più recente storiografia ha dimostrato, ma coscienti collaboratori del dittatore nazista. Da parte del primo ministro inglese, soprattutto, vi era la chiara volontà di pervenire a un accordo con il Reich, in chiave anticomunista. Pur di adottare il potenziale aggressivo di Hitler contro la Russia, i britannici erano disposti ad accettare una dominazione germanica che dilagasse nell’Europa centro-orientale: non solo in Austria e Cecoslovacchia, ma anche in Polonia e in Ucraina. Solo il patto nazi-sovietico dell’agosto 1939 ribaltò i giochi e le prospettive: la Gran Bretagna comprese che il Führer intendeva procurarsi una garanzia contro un attacco russo, mentre si preparava ad attaccare a occidente, e la guerra divenne a quel punto inevitabile. Nella tarda estate del ’38, per far ingoiare all’opinione pubblica democratica la spartizione che Chamberlain aveva sottoscritto segretamente con Hitler, bisognava salvare le forme. Ed ecco allora germinare nella mente dello statista conservatore il piano di una vasta collusione segreta con la Germania, di cui Monaco non rappresentò che un tassello. Lo scandaloso accordo anglo-tedesco fu consacrato da una dichiarazione solenne che impegnava le due nazioni a non aggredirsi.

Per poter pervenire a un tale risultato, il premier architettò la nuova missione di Lady Ivy in Italia. Se la cognata di Neville Chamberlain, giungendo a Roma, interpellò Donna Margherita, ciò significa che gli inglesi la ritenevano ancora capace di influire sul Duce. In realtà, in quel 1938, la Sarfatti era emarginata dal gioco politico. Mussolini non la riceveva più, e stava addirittura per intraprendere la via dell’esilio, a causa delle leggi razziali: espatrierà a Parigi nel novembre di quello stesso anno. Anche se non risultano documentati ulteriori passi condotti da Lady Chamberlain, durante il suo soggiorno romano, non si può affatto escludere che la rappresentante del primo ministro britannico possa aver incontrato alte personalità del regime, fino allo stesso Mussolini. E’ ragionevole pensare che sia andata così, perché l’incarico era della massima delicatezza: bisognava sondare la disponibilità del Duce a raccogliere un invito di Chamberlain a mediare nella controversia internazionale. La prima missiva di Lady Chamberlain, datata 17 settembre 1938, è precedente alla Conferenza di Monaco e contiene un riferimento ai voti augurali che la Sarfatti aveva formulato, in vista di una soluzione negoziata della crisi dei Sudeti. Segue un accenno agli incontri avvenuti, in Italia, tra le due donne, e un finale ottimista sull’esito: “Non vedo davvero l’ora che l’accordo tra le nostre due nazioni venga ratificato!”. Successiva a Monaco è invece la seconda lettera. Il documento, del 3 ottobre ’38, trabocca di compiacimento per il trionfo del Duce e del cognato, uniti nel compito di “salvare la pace in Europa”. Da questa corrispondenza traspaiono risvolti dell’amicizia tra le due figure femminili accomunate da un medesimo tratto distintivo: quello di essere patrone, nei rispettivi Paesi, del panorama artistico. Le due donne, probabilmente, si erano conosciute già in occasione delle visite di Austen Chamberlain a Mussolini a metà degli anni Venti. Lady Ivy aveva poi lanciato l’idea di una grande rassegna storica dell’arte italiana, che la Sarfatti inaugurò a Londra, nel gennaio del 1930. Otto anni dopo, quell’amicizia cementata dall’interesse comune per l’arte sembrò tornare utile alla Gran Bretagna, mentre già si stava accentuando la subalternità di Mussolini a Hitler: per ironia della storia, la seconda lettera della Lady all’amica ebrea è scritta proprio il giorno precedente (3 ottobre 1938) al discorso in cui il Duce a Trieste proclamò le leggi razziali. L’esposizione “Margherita Sarfatti. Il Novecento Italiano nel mondo” è frutto di un progetto unitario tra Mart e Museo del Novecento di Milano, con un unico catalogo edito da Electa. Le due mostre, autonome e complementari, permettono di analizzare la complessa personalità di Sarfatti, con un affondo sull’arte degli anni Venti a Milano e una prospettiva sul ruolo di Margherita ambasciatrice dell’arte Italiana nel mondo.

Note

(*) Conferenza e accordo di Monaco (settembre 1938). L’oggetto della conferenza, avvenuta circa un anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, fu la discussione delle rivendicazioni tedesche sulla regione dei Monti Sudeti, posta in territorio cecoslovacco, ma abitata prevalentemente da popolazione di etnia tedesca (i Tedeschi dei Sudeti), e si concluse con un accordo che portò all’annessione di vasti territori della Cecoslovacchia da parte dello stato tedesco.

Appendice del 14 settembre (cfr. Commento di Sandro Russo). Antonio Scurati racconta. Mussolini e le donne: Margherita Sarfatti. Storie tratte dagli studi per la scrittura di “M. Il figlio del secolo”: il romanzo di Antonio Scurati, la storia della Storia che ci ha resi quello che siamo. «È possibile pensare Mussolini senza fallire, e se qualcosa lo può, lo può la Letteratura».

·        Dopo il Fascismo.

Simonetta Fiori per “la Repubblica” il 22 novembre 2022.

Per svariati decenni larga parte degli italiani non se n'è accorta, o ne ha sottovalutato il significato simbolico. Ora una mappatura dell'Istituto nazionale Ferruccio Parri ci mette davanti agli occhi gli innumerevoli luoghi del fascismo con cui abbiamo finora convissuto, tra qualche imbarazzo e un più generale torpore civile. 

Strade, monumenti, lapidi, iscrizioni, scuole ed edifici pubblici che a cent' anni dalla marcia su Roma portano intatte le tracce del regime. Una ricognizione tardiva? Quella degli italiani è stata un'elaborazione lunga e controversa, costellata di tanto in tanto da polemiche locali o da più ampie baruffe nazionali, rinnovate anche di recente intorno al falso dilemma tra conservazione e cancellazione. 

Come se l'alternativa fosse soltanto tra mantenere intatti l'obelisco, l'arco, l'affresco incensante o distruggere senza pietà le vestigia del passato. Il merito di questa nuova preziosa indagine, ora raccolta nel volume di Viella I luoghi del fascismo. Memoria, politica, rimozione , sta proprio nella sua finalità civile e culturale: vedere come questa eredità sia stata preservata o ricostruita - in qualche caso anche rialimentata dalla destra postfascista - con l'intento di consegnarla definitivamente alla storia. 

"Storicizzare" e "risemantizzare" sono le parole usate da Giulia Albanese e Lucia Ceci, curatrici del progetto che ha coinvolto molti altri storici. Che cosa vuol dire concretamente in riferimento ai segni materiali del ventennio? Tra l'indifferenza e il piccone esiste una terza strada, che è quella di fornire gli strumenti per una lettura critica del passato. L'hanno fatto a Bolzano, nella piazza della Vittoria poi rinominata piazza della Pace. 

«L'Arco voluto da Mussolini rappresenta il più importante tentativo di riappropriazione democratica della memoria monumentale del fascismo», dice Albanese, autrice di importanti studi sulla Marcia su Roma. «Progettato negli anni Venti per celebrare la visione nazionalista e fascista della Grande Guerra, l'Arco è stato sempre vissuto dalla comunità germanofona come una proposta di italianità aggressiva. Oggi ospita un percorso espositivo sulle dittature fascista e nazista che impone un ragionamento a chiunque entri in contatto fisico con quel luogo». Un lavoro di storicizzazione che in Italia è rimasto abbastanza isolato. 

Basta andare sul sito www.luoghifascismo. it , che sarà presentato oggi all'Istituto Parri insieme al volume di Viella, per mettere a fuoco la diffusione capillare dell'eredità fascista nelle nostre città. Il sito è in costante aggiornamento, ciascuno può segnalare tracce della dittatura.

Ma già da ora si può vedere che strade, monumenti, lapidi sono uniformemente distribuiti nella penisola, con una predilezione del Sud per le origini del fascismo - molte le vie dedicate a Italo Balbo e Michele Bianchi e alla Marcia su Roma - e un generale encomio per le imprese coloniali e la grandezza dell'Impero, ancora evocato da vie, cinema e mappe marmoree. Nonostante la furia iconoclasta dopo la caduta del fascismo, resistono ovunque simboli e scritte propagandistiche che non fu facile rimuovere nel dopoguerra: lo testimoniano le lettere dei prefetti che si opponevano all'obliterazione dei fasci littori con ragioni di natura estetica.

Ed è raro leggervi accanto una spiegazione critica del passato, come quella proposta di recente a Palazzolo Acreide, un piccolo paese vicino a Siracusa. Di fianco alla stele che commemora le glorie imperiali in Etiopia, è comparsa una targa in vetro in cui si legge: «Il tentativo di giustificare la sottomissione di una nazione libera da parte del regime fascista è in contrasto con valori e diritti universali oggi sanciti dalla Costituzione ». Si può fare, non è difficile. 

A Roma l'opera di "risignificazione" appare opaca e contraddittoria, tanto da suscitare lo sdegno del New Yorker che cinque anni fa si chiedeva polemicamente: Why Are So Many Fascist Monuments Still Standing in Italy? L'articolo di Ruth Ben-Ghiat muoveva dal Palazzo della Civiltà all'Eur, il quartiere mussoliniano che fu portato a termine nel dopoguerra proprio da Marcello Piacentini, l'architetto del regime. Ma più in generale l'abbondanza di palazzi littori rimasti integri fino a oggi ha una ragione storica. All'indomani della Liberazione, in un Paese devastato, il nuovo governo democratico non poteva permettersi nuove distruzioni, così procedette al riutilizzo di edifici pubblici, scuole, uffici postali, case del fascio, stazioni, impianti sportivi, con un minimo intervento di scalpello e pennello.

 Non ci fu mai una vera defascistizzazione dello spazio pubblico. Tuttora la Cgil risiede in quello che fu il Palazzo della Confederazione fascista dei lavoratori dell'agricoltura, con i simboli marmorei del ventennio (proprio lo stesso edificio preso d'assalto dai neofascisti di Roberto Fiore). Nell'aula magna del Rettorato, alla Sapienza, gli studenti possono imbattersi nel fascio littorio dipinto da Mario Sironi nel murale, un tempo cancellato e qualche anno fa restituito alla sua versione originale. 

Così come nella sede del Comitato Olimpico Nazionale, al Foro Italico, incontri istituzionali si svolgono davanti a un gigantesco Mussolini ritratto da Luigi Montanarini mentre arringa la folla tra stendardi fascisti.

Ogni tanto esplode qualche polemica, condannata però a spegnersi senza alcun esito. L'obelisco con la scritta Mussolini Dux, sempre al Foro Italico, campeggia solitario e tronfio senza alcuna contestualizzazione: a chi vi passa davanti non viene spiegato che è il simbolo di una dittatura che perseguitò gli ebrei e condusse a morire in guerra centinaia di migliaia di italiani. E la "risemantizzazione" realizzata per le Olimpiadi del 1960 - un paio di date del calendario democratico incise nei due blocchi laterali - appare piuttosto oscura, in una sostanziale continuità con il passato. 

La questione della memoria fascista non si limita all'enorme patrimonio ereditato. Soprattutto dagli anni Novanta a oggi sono fiorite nuove iniziative che hanno tinto di nero le nostre città. E sempre più rivendicative appaiono le liturgie del neofascismo organizzate presso i sepolcri dei caduti di Salò.

È su questo passaggio che occorre prestare particolare attenzione: a una destra postfascista che celebra figure e simboli non solo del ventennio ma anche della Repubblica Sociale - le strade intitolate a Giorgio Almirante e Araldo di Crollalanza, il sacrario di Rodolfo Graziani voluto da Francesco Lollobrigida, ministro e cognato di Giorgia Meloni - corrisponde una sinistra distratta e sonnacchiosa, la stessa che liquida l'antifascismo come categoria novecentesca e magari finanzia a Roma il restauro della Casa della Gioventù italiana del Littorio ribattezzandola "WeGil": possibile che nessuno si sia interrogato su quella infelice appropriazione?

(2017, Regione Lazio di centrosinistra). Di distrazione in distrazione, sappiamo come è andata a finire.

Può esserci forse di conforto che non siamo gli unici in Europa. Se in Germania sono stati più bravi di noi con la trasformazione dei luoghi della persecuzione nazista in luoghi di documentazione storica - ma anche loro ci hanno messo un bel po' - la Spagna rispolvera gli eroi del franchismo e mantiene nell'incertezza il significato civile della Valle dei caduti, il faraonico mausoleo dedicato alla vittoria del Generalissimo. 

Non esiste un'eccezionalità italiana, dunque, ma resta il problema: la difficoltà di storicizzare i luoghi del fascismo è «un chiaro segnale delle oscillazioni del paese nei suoi riferimenti identitari», come dice Albanese. E non è certo irrilevante che oggi si sia insediato a Palazzo Chigi il governo più di destra che abbiamo mai avuto nella storia repubblicana. Nel rapporto con le tracce materiali del Ventennio si definisce anche l'identità del paese futuro. La ricerca dell'Istituto Parri e il volume di Viella stanno lì a ricordarcelo.

Quell'inversione in una notte. E l'Italia si svegliò antifascista. Nel suo ultimo libro, Vespa ripercorre le ore successive alla caduta di Mussolini: "I sostenitori si disciolsero nell'aria". Bruno Vespa il 5 Novembre 2022 su Il Giornale.

Esce oggi edito da Mondadori Rai Libri il libro di Bruno Vespa La grande tempesta. Mussolini, la guerra civile. Putin, il ricatto energetico. La Nazione di Giorgia Meloni, pagine 390, 21 Euro. Pubblichiamo un brano tratto dal primo capitolo («Da Villa Savoia al Gran Sasso»).

Proprietario dell'agenzia Stefani era Manlio Morgagni, fascista e amico di Mussolini dalla prima ora. All'inizio della storia aveva aiutato il Duce a ottenere finanziamenti dalla Francia e nel 1924 lui lo aveva ricompensato consentendogli di comprare l'agenzia di stampa che era stata fondata da Guglielmo Stefani ai tempi di Cavour. Quando Suster gli diede la notizia del cambio di governo, Morgagni gli chiese consiglio sul da farsi. L'altro gli suggerì di andarsene a dormire: si sarebbe deciso l'indomani. Dopo aver detto alla moglie di disfare i bagagli pronti per la villeggiatura, Morgagni raggiunse la camera da letto, si sdraiò e si uccise con un colpo di rivoltella alla testa. Lascio una straziante lettera d'addio a Mussolini: «Mio Duce! La mia vita era tua. Ti domando perdono se sparisco. Muoio col tuo nome sulle labbra e un'invocazione per la salvezza dell'Italia ». Morgagni fu l'unico suicida del 25 luglio. E il suo suicidio fu l'unico gesto di dignità alla caduta di un regime che, quella notte, sembro sciogliersi come se i vent'anni precedenti non fossero mai esistiti.

I primi a conoscere la notizia furono dunque i redattori della Stefani. «Non si nasconde la gioia» racconta Suster in Per una storia d'Italia del 1943. «Si dice che il Duce conduceva ormai il Paese fatalmente alla catastrofe e l'essersene liberati può forse offrire una possibilità di ripresa o di salvamento per l'Italia. Fra tutti però i più felici sono i carabinieri. Il brigadiere che li comanda sale egli stesso sulla seggiola per togliere da tutte le stanze i ritratti di Mussolini, affermando ch'egli aveva tentato d'inquinare la stessa Arma». Dopo la trasmissione dei comunicati alla radio, «subito la città e le strade sembrano percosse da un sussulto. Porte e finestre si spalancano. Un uomo in camicia da notte attraversa piazza di Spagna gridando come impazzito e agitando una bandiera tricolore. Ragazze, donne, soldati si precipitano fuori: tutti gridano, si abbracciano, corrono. Il brusio sale come una marea, lontana e minacciosa».

Suster descrive anche l'entusiasmo della Firenze letteraria, dove Manlio Cancogni andava a svegliare Vasco Pratolini e Romano Bilenchi, e persino i prudentissimi poeti Alessandro Parronchi e Mario Luzi «sentivano l'appello dell'ora», perché «era sottinteso, pareva, che in Italia tutto, fin dall'indomani, sarebbe cambiato». E pure Pietro Ingrao, 28 anni, membro del Partito comunista clandestino, nascosto a Milano fu svegliato di soprassalto, come ha ricordato nel suo libro di memorie Volevo la luna: «A Porta Venezia trovammo Milano illuminata, ebbra e in tumulto. Per la prima volta mi trovavo in una furia di popolo che urlava, sfasciava, esultava: alla caccia delle sedi fasciste, dei segnacoli del regime, a gridare lo scatenarsi della gioia e la voglia di vendicarsi». Divertente ed emblematica la testimonianza di un bambino, Dario Oitana, riportata nel maggio 2003 dal Foglio con il titolo Quel magico 26 luglio: «Dario, Dario, il Duce non c'è più, il Re l'ha mandato a spasso, ora c'è il Maresciallo Badoglio». Questa fu la sveglia di Dario il 26 luglio 1943. «Fui preso dal panico. E come se mi avessero detto: il sole non c'è più». E il saluto al Duce? E il braccino teso per il grido: «A noi!»? La zia, che fino a qualche giorno prima inneggiava ancora a Mussolini come al Salvatore della Patria, ora gli spiegava che era stato causa di ogni disastro, ma che il re e Badoglio li avrebbero salvati. «Come altri milioni di italiani feci una conversione a U, e da piccolo fascista diventai un convinto antifascista. Mi procurai un gessetto, scrissi alcune M e poi vi feci una croce sopra. Non potendo abbattere i busti, mi dovevo accontentare. Poi scrissi alcune B (Badoglio) precedute da un Viva. Mi recai nella piazza del paese, piena di uomini con baffi e cappello (era la divisa dei contadini), che si congratulavano per la notizia sorprendente ed entusiasmante. Anche loro erano diventati tutti antifascisti».

I fascisti si dissolsero nell'aria come se non fossero mai esistiti. Mentre venivano abbattuti i busti di Mussolini, milioni di mani toglievano dall'occhiello della giacca un distintivo (la «cimice») prima inseguito e poi a lungo ostentato. In quel momento erano tre gli uomini chiave del regime fascista: Carlo Scorza, segretario del partito; Enzo Galbiati, comandante della Milizia; Umberto Albini, sottosegretario al ministero dell'Interno (il ministro era Mussolini). Ad Ambrosio, che cercava Scorza, rispose il suo vice, Alessandro Tarabini: aveva avuto l'ordine di diramare fonogrammi per tranquillizzare le federazioni e li aveva firmati con il nome del segretario. Lo stesso Scorza, al generale dei carabinieri che era andato ad arrestarlo, chiese la libertà sulla parola e si disse disposto a collaborare. Il 27 luglio scrisse a Badoglio: «Dopo due giorni di silenzioso lavoro ritengo di poter considerare esaurito il compito di persuasione e disciplina tra i fascisti impostomi dalla mia coscienza, come sacro dovere di soldato, in seguito al cambiamento di governo».

Galbiati aveva a disposizione la divisione corazzata M (Mussolini), impegnata in esercitazioni a Campagnano, a pochi chilometri da Roma. Ricostituita nel maggio 1943 con nuovi reparti affiancati ai reduci dalla Russia, era stata dotata da Heinrich Himmler dei formidabili carri armati Panzer per la personale tutela del Duce. Per fortuna non si mosse, ma se avesse voluto reagire, Galbiati avrebbe potuto attaccare alcuni centri nevralgici (la sede dell'Eiar in via Asiago era presidiata soltanto da una ventina di carabinieri). E invece attese nel suo ufficio la visita del generale Quirino Armellini, suo successore, senza battere ciglio. («Io aspetto qui il mio successore» raccontò al giornalista fascista Bruno Spampanato. «Lui crederà che io lo accolga a bombe a mano e io gli offrirò queste» disse, indicando un pacchetto di caramelle che aveva già distribuito ai collaboratori presenti). Al console generale Alessandro Lusana, che comandava la divisione M e gli chiedeva ordini, rispose: «Nulla». E quando Lusana si rivolse al nuovo capo di Stato maggiore della Milizia, Armellini, si senti dire: «Continuate con le esercitazioni». Il fascio cucito sulle divise fu sostituito dalle stellette militari e la divisione M divento divisione Centauro. Senza colpo ferire.

Il terzo uomo era Albini, che aveva votato a favore dell'ordine del giorno Grandi. Subito dopo l'arresto del Duce, Castellano andò a trovarlo al Viminale accompagnato dal colonnello Luigi Marchesi, che avrebbe poi raccontato la scena a Sergio Zavoli, autore con Arrigo Petacco del libro Dal Gran Consiglio al Gran Sasso. «Si alzi in piedi e non faccia movimenti» gli ingiunse Castellano, sapendo che sotto le scrivanie dei gerarchi c'erano bottoni d'allarme attivabili con il ginocchio. «Mussolini è stato arrestato. Lei decida subito se collaborare o non collaborare». «Sono pronto a collaborare» rispose un pallidissimo Albini, che diramò subito alle prefetture le disposizioni d'ordine pubblico dettategli da Castellano.

In Italia non c’è rischio di fascismo ma è pieno di antifascisti…Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Ottobre 2022 

È curioso: non esiste più un fascismo sulla faccia della Terra, ma crescono si moltiplicano gli antifascisti. Specialmente in Italia. Essendo nato nel 1940, quando andai all’università era pieno di fascisti o meglio di neofascisti guidati dai vecchi fascisti come Caradonna e lo stesso Almirante che compariva nelle grandi fotografie degli assalti all’università La Sapienza di Roma e io i miei coetanei eravamo lì a prendere botte sia dalla polizia sia dai neofascisti. Il mondo intorno a noi era tutto fascista perché erano vivi tutti coloro che erano stati giovani sotto il fascismo, anche se molti poi erano diventati antifascisti militanti. C’era il fascismo in Spagna con il generalissimo Francisco Franco che faceva garrotare gli anarchici in piazza dal boia.

C’era il fascismo portoghese di Salazar e dei suoi feroci militari. Nel 1967 il colpo di Stato dei colonnelli installò un regime di fascismo militare ad Atene per cinque anni e noi combattevamo per l’eroe Alexandros Panagulis a rischio della pelle. Poi la giunta militare fascista di Buenos Aires e col colpo di Stato contro Salvador Allende l’aggiunta militare del generale Pinochet. Guardatevi intorno, tutto questo è sparito. È finito quello europeo. Gli americani hanno uno sfrenato orgoglio nazionale e cantano con la mano sul cuore e la lacrima sul ciglio il loro inno nazionale The Star-Spangled Banner. E quando vogliono indicare lo spazio del loro paese lo chiamano country e quando parlano del loro popolo dicono “our nation”. I Curdi, privi di una loro country, sono una nazione.

Eravamo d’accordo che i partigiani fossero patrioti, di sinistra o di destra come la medaglia d’oro Edgardo Sogno. Eravamo d’accordo che il tricolore fosse un oggetto collettivo come l’Union Jack degli inglesi: e i marsigliesi cantavano “Allons enfants de la Patrie”, In Russia non è mai esistita una Seconda Guerra Mondiale ma una Grande Guerra Patriottica. La sedia su cui siede la statua di Abraham Lincoln è tutta decorata di fasci littori perché erano l’emblema repubblicano adottato dalla Rivoluzione francese e da tutti i movimenti socialisti europei. Mai sentito parlare dei Fasci Siciliani?

E il brutto ceffo Benito Mussolini con le sue bande assassine al soldo degli agrari non era forse stato il darling di tutte le sinistre mondiali, il sindacalista ricercato da tutte le polizie, cacciato dal partito socialista perché come tutti i leader mondiali di sinistra voleva fare la guerra per arrivare alla rivoluzione? Con lui c’erano Palmiro Togliatti, Emilio Lussu, Pietro Nenni ancora repubblicano, tutti in prima linea con le migliaia di italiani ebrei che avevano combattuto per il Risorgimento. Quando arrivarono le infami leggi antisemite del 1938 gli italiani ebrei ebbero come prima reazione non la paura, ma il disprezzo nei confronti di un traditore.

Ma che soltanto le bande nere usassero la violenza armata e paramilitare contro inermi operai e contadini è metà della verità: basta sfogliare i tre volumi di Roberto Vivarelli sulla Storia delle origini del fascismo. L’uccisione, la violenza, le bande armate nazionaliste con la camicia blu, gli arditi del popolo con la camicia rossa, i fascisti con la camicia nera, più settori dell’esercito e della polizia disegnano un panorama lontanissimo dal cliché di un’Italia liberale in cui una banda di malfattori prese il potere. Mussolini era un giocatore spregiudicato e sanguinario tanto quanto Lenin, Trotskij e lo stesso Togliatti che metterà a morte a Mosca su ordine di Stalin i comunisti italiani rifugiati in Unione Sovietica. E gravissime furono le colpe di un Parlamento che anziché dare battaglia sul campo di battaglia si rifugiò nelle aule aventiniane, cosa riconosciuta assolutamente da tutti. Il fascismo è morto, stramorto, non c’è più un paese fascista, non c’è un partito fascista, non c’è un leader fascista che voglia instaurare il fascismo da nessuna parte del mondo.

Ma tutti vogliono cantare la loro Bella Ciao, benché si tratti di una canzone composta nel 1948 per essere presentata al Festival della gioventù comunista di Praga. Quando prese vita la CEE, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio, i comunisti erano violentemente contrarti e rievocavano lo spettro dello Zollverein tedesco. Non c’è mai stata in Italia una Bad Godesberg che, come in Germania, avesse fatto ammenda del comunismo per trasformarsi in socialdemocrazia. La parola “nazione” dovrebbe contenere come una matrioska il nazionalismo e quindi il fascismo e l’autoritarismo? Quest’idea fa a pugni con tutte le esperienze dei paesi floridi nelle istituzioni, a meno che per nazionalismo non si intenda l’idea idiota per cui il proprio paese vale più altri per il fatto che ci sei nato tu.

Ma il concetto di nazione come popolo unito da caratteristiche comuni, che vanno dalla lingua alle sue tradizioni, è un fatto incontestato in ogni paese del mondo. Putin pretende di legittimare l’invasione dell’Ucraina per difendere i nazionalismi delle minoranze. Il populismo fu inventato dall’Uomo Qualunque di Giannini e rappresentava il povero cristo spremuto da uno stato che lo vuole privare di ogni diritto. Questo è il retroterra di tutte le rivoluzioni, dalla francese alla sovietica, veri monumenti del populismo più becero, con le tricoteuses che facevano la calza accanto alla ghigliottina per il piacere di vedere la faccia dei decapitati.

Siamo sicuri che il problema dell’Italia da un punto di vista democratico non stia nel fatto che non esiste più – da quando è crollata l’Unione Sovietica – un partito in grado di crearsi le sue proprie radici identitarie e proporsi come interprete di tutti i lavoratori e di tutti coloro che chiedono giustizia sociale? Si avverte una libido di resistenza in chi non ha la più pallida idea di che cosa sia stato il fascismo perché non era nato.

Mio nonno Primo Balducci, redattore capo della Nuova antologia e socialista, fu assassinato nel 1921 e il suo assassino fu amnistiato dal fascismo. L’altro mio nonno, Vincenzo Guzzanti, antifascista storico fra i docenti del liceo Visconti e poi agente degli americani per la liberazione di Roma, fu arrestato e torturato a via Tasso. Io, senza farmene alcun vanto, ho preso un sacco di botte dai neofascisti negli anni ‘60 e ‘70 in cui oltre alle Brigate Rosse c’erano anche le Brigate Nere dei Nar. Tutto ciò è finito. Svegliamoci, signori: la guerra è finita. E se non lo fosse, saremmo noi a darvi l’allarme.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Trieste, quel tricolore sul campanile. «La Grande Mutilata» torna Italia nel 1954. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Ottobre 2022.

La foto del presidente della Repubblica Einaudi che consegna il tricolore al vicesindaco di Trieste campeggia in prima pagina su La Gazzetta del Mezzogiorno del 6 ottobre 1954. Il giorno precedente i governi di Italia, Regno Unito, Stati Uniti e Jugoslavia hanno firmato il Memorandum di Londra, con cui la città di Trieste è stata finalmente restituita all’Italia: «Il tricolore sventola dopo undici anni nuovamente nella città di San Giusto. È questo l’evento che fa esultare il cuore di tutti gli italiani», si legge sul quotidiano.

Con la Prima guerra mondiale l’Italia aveva annesso al proprio territorio non solo il capoluogo giuliano, ma anche l’Istria, Fiume e Zara. Alla fine del secondo conflitto mondiale, perduti questi territori, scoppia nuovamente la questione adriatica. Con i Trattati di pace del 1947 Gran Bretagna, USA, URSS e Francia istituiscono il Territorio libero di Trieste, che andava dalla fascia costiera istriana tra il fiume Timavo a nord ed il Quieto a sud, di fatto uno stato cuscinetto fra Italia e Jugoslavia che avrebbe dovuto essere garantito dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Il Territorio libero è diviso in due parti: la zona A, in cui è compresa Trieste, affidata all’amministrazione angloamericana; la zona B affidata a quella jugoslava.

Il memorandum di Londra, che entrerà in vigore il 26 ottobre 1954, prevede che nella zona A l’amministrazione militare anglo-americana venga sostituita dall’amministrazione italiana e nella zona B all’amministrazione militare subentri quella civile.

«Trieste, la “Grande Mutilata”, è tornata nel grembo della patria con un profondo sentimento di gioia contenuta ed ansiosa, così com’è quello di tutti gli italiani. E tale dovrebbe essere il sentimento di tutti i veri democratici di tutto il mondo, se è vero che democrazia vuol dire rispetto della libertà e della volontà dei popoli. La “Grande Mutilata” ci è, forse, ancora più cara per la sua inconcepibile e dolorosa mutilazione: essa lascia dietro e attorno a sè città e popolazioni, territori e tradizioni, volontà e speranze e amarezze roventi di gente fraterna, che alla madrepatria non può ricongiungersi», scrive Leonardo Azzarita.

Anche Bari ha accolto con grande esultanza la notizia: «Dinanzi ai negozi di radio, capannelli di cittadini hanno atteso le comunicazioni diramate nel corso della giornata, specialmente il commosso messaggio di Einaudi al popolo triestino. Stamane il ritorno di Trieste all’Italia sarà festeggiato ufficialmente con le vacanze nelle scuole; la città rinnoverà così i vincoli di secolare amicizia che unisce la sue genti al popolo della italianissima Trieste».

Se l’ANPI è l’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia, ed i partigiani non erano solo comunisti, chi ne fa parte quanti cazzo di anni hanno? Considerato che dovrebbero essere dei centenari, gli anni se li tengono molto bene. Se invece non sono Partigiani, ma solo gente di parte, che lo dicessero: siamo solo comunisti, che operano al di là della loro pertinenza storica.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 19 settembre 2022.

«Questo Comune/ è consacrato/ al cuore immacolato di Maria». Se la cavò così, nel primo dopoguerra quando i democristiani distribuivano volantini tipo «Pensa, ragazza mia/ al tuo sogno d'amor/ combatti la follia/ del bieco agitator», un municipio veneto deciso a stare alla larga dalle risse postbelliche. Prese la vecchia targa fascista piena zeppa di roboante retorica mussoliniana, rasò la lastra in marmo e si affidò alla Madonna Pellegrina. 

Altri andarono oltre. Come a Pianura, Napoli, dove una lastra in marmo del 1936 contro le sanzioni della Società delle Nazioni (c'era il profilo dell'Etiopia e la scritta «Il popolo italiano ha creato col suo sangue l'Impero. Lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque colle sue armi...») fu semplicemente ribaltata. Per ospitare sul retro, ora faccia a vista, una dedica alle Quattro Giornate di Napoli: «Il 29 settembre 1943/ caddero in Pianura/ baciati dalla gloria/ del popolo insorto contro/ la barbarie nazi fascista/ Colimoro Pasquale/ Mele Evangelista/ Vaccaro Antonio/ Mangiapia Fedele/ Longobardi Giuseppina/ Di Nardo Teresa/ Ai barbari oppressori/ eterno odio/ Ai martiri del popolo/ eterna gloria/ Pianura 1-10-1944». Scelta via via coperta dalla polvere del tempo ma destinata molti anni dopo, nel 2015, a sollevare una selva di polemiche a scoppio ritardato.

È l'Italia «double face, dublefàs per dirla in volgare. Su un lato è fascista, su quello opposto è antifascista», scrivono nel saggio L'ombra lunga del fascismo. Perché l'Italia è ancora ferma a Mussolini il politologo, docente a Perugia e studioso del pensiero di destra Alessandro Campi e il giornalista e scrittore Sergio Rizzo, per anni al «Corriere», autore di libri di successo tra cui Potere assoluto. I cento magistrati che comandano in Italia. 

Un'Italia che non piace, per quanto vengano da percorsi politici e professionali diversi, a tutti e due. Un'Italia che ha sempre «accuratamente evitato di fare i conti con quel frammento di storia decisiva» che fu il Ventennio «lasciando tuttavia che continuasse ad avvelenare la politica e i rapporti sociali di uno dei più grandi Paesi liberi dell'Occidente, fondatore dell'Unione Europea. Con rigurgiti che si fanno sempre più inquietanti e che oggi alimentano le pulsioni sovraniste e populiste».

Dicono tutto, ad esempio, «le due lapidi collocate una sopra l'altra sul medesimo muro della sua casa a Grazzano, paese di seicento anime nel Monferrato. Dice la targa più in alto: "Qui nacque/ Pietro Badoglio/ Maresciallo d'Italia/ Eroe del Sabotino/ Primo viceré d'Etiopia/ Intrepido portò alla vittoria/ Le falangi armate/ dell'Italia nostra/ In quella guerra d'Africa/ Che diede/ a Roma/ l'Impero/ I Grazzanesi 24 maggio 1936». 

Dice la seconda più in basso: "In questa casa/ Nacque il 28-9-1871 e morì il 1-11-1956/ Pietro Badoglio/ Maresciallo d'Italia/ Capo del governo in tragica ora/ Assicurò la continuità costituzionale/ Attuò la cobelligeranza dell'Italia/ Fra le libere nazioni contro l'oppressione nazista/ Nel cinquantenario degli storici avvenimenti/ I Grazzanesi ricordano con gratitudine/ Il grande concittadino..." Un esempio da manuale di cerchiobottismo».

Esempio seguito, del resto, in centinaia di casi sparsi per l'Italia che Campi e Rizzo elencano spesso con ribrezzo. Come nel caso del nome dell'aeroporto di Comiso conteso per anni tra chi proponeva Pio La Torre e chi (i vertici dell'Aeronautica) il generale Vincenzo Magliocco, tra i «responsabili materiali degli eccidi etiopici col gas», chiuso con un compromesso: il nome dello scalo alla vittima della mafia, quello della via principale al generale. 

Il tutto quasi vent' anni dopo che il generale Domenico Corcione, ministro della difesa del governo Dini, aveva ammesso ufficialmente le responsabilità italiane nell'impiego di «bombe d'aereo e proiettili d'artiglieria caricati ad iprite ed arsine». Impiego «noto a Badoglio» e ovviamente a quel Rodolfo Graziani (ricordate almeno il massacro di tutti i monaci e i diaconi cristiani etiopi di Debra Libanos?) cui sarebbe stato intestato il parco giochi per bambini di Filettino, rimasto tale nel 2017 («Si è sempre chiamato così, non ci vedo niente di male», disse il sindaco rivendicando di essere «di sinistra») dopo un restauro da 285 mila euro. Ambiguità inaccettabili. 

Del resto cosa disse nel 1993 la nipote Alessandra? «Per togliere le tracce dell'operato di Mussolini bisognerebbe radere al suolo l'Italia». Aveva ragione. Ma in che senso? Per la grandiosità delle sue gesta, come insistono a ribadire i neofascisti più rissosi, o per la prepotenza con cui il duce volle marchiare il «suo» ventennio?

L'immensa M sviluppata dalla Casa del Fascio di Asti, oggi sede dell'Agenzia delle Entrate. La gigantesca scritta Dux costruita piantando nel 1939 migliaia di pini sul fianco desolato del monte Giano tra Lazio e Abruzzo, non solo mai cancellata ma restaurata nel 2018 dai militanti di CasaPound. Lo spropositato profilo montuoso al Passo del Furlo, nelle Marche, che il comune di Fermignano deliberò nel 1935 di cambiare (in America erano al lavoro per il famoso monte Rushmore) perché assumesse le maschie sembianze del dittatore, profilo che non piacque a «Lui» perché pareva dormire.

E via così. L'immenso fascio littorio riemerso nel luglio 2021 dal restauro del mercato coperto di Perugia. Lo smisurato affresco, coperto per decenni nel salone d'onore del Coni, che domina il palco dove si svolgono tutte le cerimonie sportive ufficiali, anche coi maggiori ospiti internazionali, «senza un cartello che spieghi di cosa si tratta, quando e in quale contesto è stata realizzata, ma soprattutto perché è ancora lì». 

«Cancellare o conservare?», si chiedono gli autori, «Oppure conservare spiegando? Il problema è che quel dilemma non soltanto non è stato risolto, ma nemmeno mai affrontato in modo serio e organico». Certo, talora son possibili «ritocchi» come nel caso di un affresco all'Università per stranieri di Perugia del futurista Gerardo Dottori, La luce dell'antica madre , dove spiccava tra i costruttori dell'antica Roma, come Enea e Romolo un robusto operaio dalla testa lucida e dalla mascella volitiva che sposta blocchi di pietra: che fare a guerra finita? Tira e molla, se ne occupa lo stesso pittore, cambiando faccia al Duce ora biondo e riccioluto.

Ancora più interessante, forse, la statua di bronzo di due metri e mezzo all'Eur dal titolo Il Genio del fascismo. Un atleta nudo che fa il saluto romano. Che fare? Idea: nel 1953, come racconterà Fabio Isman, gli coprono le mani con due «cesti», quelle specie di guanti in cuoio usati dai pugili nell'antica Roma. Ma dove ogni ritocco è impossibile? Il dibattito è ancora in corso. Anzi, in tema di cancel culture, è più vivo che mai. 

Forse la soluzione migliore, secondo il politologo e lo scrittore, sarebbe quella di Bolzano dove lo smoderato bassorilievo col Duce a cavallo (trentadue metri per cinque!) sbattuto in faccia ai sudtirolesi sul Palazzo delle Finanze in piazza Tribunale è ancora al suo posto. Ma una scritta al neon impossibile da non vedere riporta in tre lingue una frase di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire».

E sono stati davvero troppi gli italiani, scienziati e magistrati, letterati e ingegneri, giornalisti e burocrati, come dimostra L'ombra lunga del fascismo, che si adagiarono nell'obbedienza spesso servile a Mussolini per poi addomesticare il loro passato come fosse stato soltanto una svista giovanile.

Armistizio, trattative e atti di eroismo. Il gen. Magli respinge i nazisti in Corsica. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Settembre 2022.

È l’8 settembre 1943. Su «La Gazzetta del Mezzogiorno» si legge il bollettino di guerra n.1200: «Nel corso della lenta e ordinata manovra di ripiegamento dalla zona costiera della Calabria meridionale vivaci combattimenti si svolgono tra le avanguardie nemiche e le retroguardie della difesa.

Una nave è stata silurata nelle acque della Sicilia da un nostro velivolo. Sul porto di Biserta numerose bombe venivano sganciate da apparecchi germanici. Quadrimotori avversari hanno attaccato il centro urbano di Napoli, causando ingenti danni, e località delle province di Napoli e di Salerno. Tre apparecchi sono stati abbattuti dalla caccia italo-tedesca. Un altro risulta distrutto dalle artiglierie di un convoglio».

I lettori della «Gazzetta» ancora non possono sapere che si tratta del penultimo bollettino della guerra combattuta al fianco dell’esercito nazista. Ancora poche ore, infatti, e il nostro nemico non sarà più lo stesso.

Il nostro è un Paese stremato da un conflitto che dura da più di tre anni, voluto da quel regime che è caduto il 25 luglio 1943: per decisione del maresciallo Badoglio, nuovo capo del Governo dopo le dimissioni e l’arresto di Mussolini, l’esercito italiano ha continuato a combattere.

Nel frattempo, però, Badoglio ha dato inizio alla trama diplomatica con gli Alleati anglo-americani, la cui richiesta è unica: resa incondizionata.

L’8 settembre sulla «Gazzetta» si legge ancora che il segretario di Stato americano, Cordell Hunt, non è disposto a considerare alcuno sforzo diplomatico da parte del Governo italiano per negoziare la pace, ma può accettare soltanto la resa italiana sul campo di battaglia.

In realtà, il 3 settembre 1943, il generale Castellano ha firmato in segreto, a Cassibile, in Sicilia, l’armistizio.

La notizia è resa pubblica soltanto cinque giorni dopo dal generale Eisenhower: gli italiani lo apprendono soltanto in serata. Alle 19.40 dell’8 settembre 1943, infatti, viene trasmesso dall’Eiar il proclama del maresciallo Badoglio con cui annuncia la resa del Regno d’Italia.

La notizia coglie tutti di sorpresa: nella maggior parte dei casi l’esercito si dimostra incapace di reagire alla prevedibile reazione tedesca. Una significativa eccezione è costituita dall’impresa del comandante delle truppe italiane in Corsica: il generale Magli, nonostante la mancanza di ordini dall’alto, riesce a respingere l’attacco dell’esercito nazista e, dopo un’aspra battaglia combattuta con il sostegno del corpo d’armata francese, costringe i nuovi nemici alla fuga.

Così la (in)giustizia fascista divenne giustizia repubblicana. Chi era ai vertici della magistratura sotto il regime restò al proprio posto dopo la sua caduta. Ecco perché. Giancristiano Desiderio il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

S'immagina che la Repubblica antifascista, nata dalla resistenza partigiana - in realtà, nata dall'intervento militare delle forze anglo-americane - nulla ebbe a che fare con il precedente regime autoritario del ventennio fascista. Naturalmente, s'immagina male. La storia, infatti, soprattutto la nostra storia nazionale, più simile a un arabesco che a una linea retta, come diceva bene Flaiano, non si lascia tagliare in due come una mela o dividere in modo netto in bene e in male e tende, invece, alle sfumature e alle zone grigie.

Si prenda, ad esempio, un caso significativo sul quale negli ultimi tempi gli storici, potendo finalmente accedere agli archivi, stanno facendo luce: la magistratura. Nel passaggio dal fascismo alla democrazia, molti giudici furono sottoposti all'esame o procedimento epurativo per capire se fossero adeguati o meno a servire le nuove istituzioni democratiche. A passare al vaglio dell'epurazione furono i magistrati più importanti d'Italia, i giudici maggiormente compromessi con il fascismo, coloro che prestarono servizio nel Tribunale speciale per la difesa dello Stato, nel Tribunale della razza, nella Repubblica di Salò. Risultato? Dopo essere passati indenni attraverso il processo epurativo, alcuni di questi magistrati erano poco tempo dopo al ministero, ai vertici della Corte di cassazione, alla presidenza delle Corti d'appello, tra i membri della Corte costituzionale. Possibile? Non solo è possibile ma è vero, ossia è la storia e in particolare la storia italiana che è caratterizzata da quella che Claudio Pavone, delineando le «origini della Repubblica italiana», chiamava, agli inizi degli anni Settanta, «continuità dello Stato». Oggi su questo punto specifico e cruciale del destino della magistratura a cavallo tra fascismo e democrazia ritornano Antonella Meniconi e Guido Neppi Modona che curano un volume collettaneo, ricco di documentazione e che fin dal titolo non lascia spazio né alla fantasia né alle interpretazioni: L'epurazione mancata. La magistratura tra fascismo e Repubblica (il Mulino, pagg. 344, euro 32).

Negli anni Novanta del secolo scorso, sulla rivista Clio, fu pubblicato il saggio del compianto Pietro Saraceno. L'epurazione mancata, dopo l'Introduzione dei curatori, si apre proprio con questo illuminante saggio così intitolato: I magistrati italiani tra fascismo e repubblica. Brevi considerazioni su un'epurazione necessaria ma impossibile. Un titolo, come si può capire, che si porta dietro una contraddizione che riflette - questo è il punto - la contraddizione della realtà italiana o la sua complessità o «il guazzabuglio della storia», per dirla con Manzoni e, insomma, l'arabesco su richiamato.

L'epurazione doveva essere sì necessaria, perché occorreva un cambio di rotta, di uomini, di idee, ma risultò alla fine impossibile, perché fu annunciata ma non attuata. In particolare, restando sul terreno specifico dell'epurazione dei magistrati compromessi con il fascismo, ci si accomodò con un compromesso per due ragioni: primo, perché mancavano già molti magistrati per ricoprire gli organici e se si fosse fatto ricorso ad una massiccia epurazione non ci sarebbero stati gli uomini per portare avanti la ordinaria amministrazione giudiziaria; secondo, perché proprio nel caso del procedimento epurativo della magistratura i giudici si trovarono ad essere contemporaneamente epuratori ed epurabili. Un vero e proprio cortocircuito che si riassume nella formula classica «chi epura chi?».

Infatti, se era necessario ricorrere ai magistrati per epurare in modo imparziale i quadri amministrativi statali, era obbligatorio epurare la stessa magistratura affinché fosse credibile e rispettabile. Ma ad epurare i magistrati furono gli stessi magistrati che divennero di fatto e di diritto i giudici di sé stessi: «L'epurazione della magistratura era quindi prioritaria - si legge nel saggio di Saraceno - ed il fallimento di questa operazione avrebbe portato facilmente al fallimento generale di tutto il processo di epurazione».

L'epurazione mancata si rivela essere l'epurazione impossibile. Un esempio: su 37 presidenti e procuratori generali della Corte di Cassazione e delle Corti d'Appello in carica al momento della Liberazione, soltanto 5 furono colpiti da provvedimenti di collocamento a riposo validi e non revocati. Come si può capire, si tratta di un risultato talmente minimo da essere nullo e che annullò la possibilità stessa di epurare alcunché. Il libro procede per settori - il Tribunale speciale, le leggi antiebraiche, i giudici della Rsi - e utilizzando l'accesso agli archivi prova a ricostruire in maniera analitica la storia dell'epurazione mancata magistrato dopo magistrato.

Il caso del giudice Carlo Alliney, che fu capo di gabinetto di quel fanatico antisemita di Giovanni Preziosi, è significativo: Alliney svolse - diremmo oggi - attività di «consulenza legislativa» per inasprire la legislazione antiebraica, ma dopo la fine della guerra non subì conseguenze e nel 1962 fu promosso consigliere di Cassazione e nel 1968 fu nominato presidente di Sezione della Corte di Appello di Milano. Questa è la nostra storia. Di tutti.

La favola del fascino immaginario del fascismo. Gli italiani che erano stati giovani durante il Ventennio, evitavano di parlare della guerra, ma rimpiangevano servizi sociali e welfare. Paolo Guzzanti il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Germogliano inaspettati filoni di nuovo dibattito sulla destra non per sapere che cosa pensi di fare Giorgia Meloni se conquisterà il campanello di Presidente del consiglio, ma per la solita storia del fascismo di cui quasi nessuno dei viventi ricorda granché. Io, che avrei anni sufficienti non ricordo nulla di memorabile del fascismo, ma molto degli italiani che erano stati giovani quando lo avevano attraversato. Tutti evitavano di parlare della guerra, ma tutti rimpiangevano i servizi sociali, il welfare che aveva procurato molti fan all'estero del sistema italiano. E poi il rimpianto dei contadini per le colonie estive per i figli, i treni popolari, una molto allusa ed ovvia libertà sessuale.

Fino ai miei trent'anni da giornalista socialista ho scazzottato come era d'uso con fascisti e fascistelli intorno e dentro l'università. Un paio di volte ci scappò il morto. La storia di cui parliamo è nata da un articolo di Corrado Augias su Repubblica e di cui ha ieri scritto Alessandro Gnocchi a commento di un intellettuale pacato e intelligente secondo cui essere fascisti a quell'epoca era qualcosa di simile a uno stato d'animo. Uno diceva secondo questa interpretazione come ti senti? E l'altro: un po' fascista. Sarà vero? Certo che no, però sono tempi in cui ci si contenta molto. Quando un paio di anni fa incontrai Eugenio Scalfari nella piccola libreria antiquaria di via di Piè di Marmo, mi chiese cosa stessi cercando. Risposi che stavo cercando alcuni libri sul 1943 per un mio studio storico. Gli si illuminarono gli occhi e battendo su col bastone sulle piastrelle della libreria gridò: «Il 1943! Un anno indimenticabile». E fu davvero un anno indimenticabile perché il 19 luglio gli americani bombardarono Roma, il re fece un complotto con i gerarchi dissidenti convocando il Gran Consiglio del fascismo che era un organo costituzionale inserito nello statuto albertino, per la sera del 24 luglio.

A tarda notte dopo ampio e approfondito dibattito, fu tenuta una regolare votazione parlamentare in cui Benito Mussolini - capo di un governo costituzionale che era cominciato con un incarico nel 1922 per mettere in piedi una coalizione e che soltanto dal 1926 con la crisi dell'omicidio Matteotti si trasformò in una dittatura a causa dell'abbandono per due anni di deputati e senatori dalle loro aule - fu messo in minoranza, spogliato del ruolo di duce. Fu preso a male parole dalla moglie Rachele quando tornò a casa e lei disse «va là ben sei proprio un gran testardo, il tuo amico Hitler con quattro dei suoi gli avrebbe sparato a tutti», cercò di rabbonirlo mentre si toglieva le scarpe dicendo «domani vado dal re e calmo tutte le acque». L'indomani quando andò dal re a villa Torlonia il piccolo monarca non gli fece aprir bocca e disse: «Ho già nominato il maresciallo Pietro Badoglio capo del governo». Mussolini si sedette in stato di choc e il re aggiunse: «Tutte le misure sono prese e un'ambulanza vi porterà al sicuro».

Il resto lo sappiamo: Mussolini fu fucilato due anni. Dopo qualche mese più tardi la bara fu trafugata sicché nacque la leggenda di un fuoco fatuo tricolore e che generò il simbolo della fiamma tricolore del Msi. Corrado Augias e alcuni arditi intellettuali dibattono ora su un nuovo tema troppo a lungo trascurato: se il fascismo, fosse stato, al di là della politica anche uno stato d'animo sintetizzato dalla battuta «Oggi mi sento un po' fascista». Tra quelle di casa mia, di emozioni ricordo quella di mio padre, ingegnere delle Ferrovie che quando Hitler venne a Roma con la capitale in ghingheri e piena di svastiche, ricevette dal gerarca l'ordine di salire sul treno di Hitler, copiare tutto per rifarne uno identico al Duce. Mio padre lo visitò, misurò e poi disse semplicemente: «Non si può fare una copia di questo treno in Italia». Un pugno lo stese a terra da dove mio padre spiegò i motivi per cui il treno tedesco non poteva essere riprodotto.

Eugenio Scalfari, quando ci incontrammo due anni fa in libreria proseguì: «Nel 1943 io non ero fascista». Si fermò guardandomi con una lunga pausa: «Io nel 1943 ero fascistissimo!». Quando dette alle stampe la sua autobiografia dettata a due colleghi, iniziò con una descrizione dei sentimenti di disarmante entusiasmo fascista, pur avendo l'età in cui Piero Gobetti fu ammazzato dai fascisti.

Ruggero Zangrandi nel suo «Lungo viaggio attraverso il fascismo» raccontò moltissime storie di giornalisti, scrittori e intellettuali fascisti fra satira e cinematografia come Fellini, tutti professionisti, pittori modernissimi della scuola romana e man mano tutta quella intellighenzia che passò al Partito comunista del geniale Palmiro Togliatti, oggi celebrato in piazze, strade e cavalcavia come un patriota; ma sarebbe utile ascoltare le parole che Togliatti pronunciò al sedicesimo Congresso del partito comunista del 1930: «É motivo di particolare orgoglio per me aver abbandonato la cittadinanza italiana per quella sovietica. Io non mi sento legato al d'Italia come alla patria ma mi considero cittadino del mondo, di quel mondo che noi vogliamo unito a Mosca agli ordini del compagno Stalin. È motivo di particolare orgoglio aver rinunciato alla cittadinanza italiana perché come italiano mi sentivo un miserabile mandolinista. Come cittadino sovietico sento di valere diecimila volta volte di più del migliore cittadino italiano».Chi liberò veramente l’Italia. Marcello Veneziani La Verità 25 aprile 2021

Si può celebrare in tanti modi la Liberazione dell’Italia nel 1945 ma ci sono dati, numeri e vite che non si possono smentire e che sono la base necessaria e oggettiva per dare una giusta dimensione storica all’evento. Dunque, per la Liberazione dell’Italia morirono nel nostro Paese circa 90mila soldati americani, sepolti in 42 cimiteri su suolo italiano, da Udine a Siracusa. Secondo i dati dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, furono 6882 i partigiani morti in combattimento.

Ricavo questi dati da una monumentale ricerca storica, in undici volumi raccolti in cofanetto, dedicata a La liberazione alleata d’Italia 1943-45 (Pensa ed.), basata sui Report of Operations di diversi reggimenti statunitensi, gli articoli del settimanale Yank dell’esercito americano e i reportage dell’Associated press. E naturalmente la ricerca storica vera e propria. Più un’ampia documentazione fotografica. L’autore è lo storico salentino Gianni Donno, già ordinario di Storia contemporanea, che ha analizzato i Reports of Operations in originale, mandatigli (a pagamento) da Golden Arrow Military Research, scannerizzati dall’originale custodito negli Archivi nel Pentagono. L’opera ha una doppia, autorevole prefazione di Piero Craveri e di Giampiero Berti e prende le mosse dallo sbarco di Salerno.

Secondo Donno, non certo di simpatie fasciste, il censimento dell’Anpi è “molto discutibile” ma già quei numeri ufficiali rendono le esatte proporzioni dei contributi. Facciamo la comparazione numerica: per ogni partigiano caduto in armi ci furono almeno 13 soldati americani caduti per liberare l’Italia. Senza considerare i dispersi americani che, insieme ai feriti, furono circa 200mila. E il conto risuona in modo ancora più stridente se si comparano i 120mila militari tedeschi caduti in Italia, soprattutto nelle grandi battaglie (Cassino, Anzio e Nettuno) contro gli Alleati e sepolti in gran parte in quattro cimiteri italiani.

Naturalmente, diverso è parlare di vittime italiane della guerra civile, fascisti e no, di cui esiste un’ampia documentazione, da Giorgio Pisanò a Giampaolo Pansa, per citare le ricerche più scomode e famose. Ma non sto parlando di fascismo e guerra civile, bensì di Liberazione d’Italia, ovvero di chi ha effettivamente liberato l’Italia dai tedeschi o se preferite dai “nazifascisti”.

Pur avendo un giudizio storico molto diverso dalla vulgata ufficiale e istituzionale, confesso una cosa: avrei voluto dire il contrario, che l’Italia fu liberata dalla Resistenza, dalla lotta di liberazione, dall’insurrezione popolare degli italiani contro l’invasore. Avrei preferito, da italiano, dire che furono loro a battere i tedeschi, fino a sgominarli, come suggerisce la narrazione ufficiale e permanente del nostro Paese. Ma non è così; e se non bastassero i giudizi storici, la conoscenza di eventi e battaglie, le sottaciute testimonianze della gente, bastano quei numeri, quella sproporzione così evidente di morti, di caduti sul campo per confermarlo. Furono gli alleati angloamericani, sul campo, a battere i tedeschi; senza considerare il ruolo decisivo che ebbero i bombardamenti aerei degli alleati sulle nostre città stremate e sulle popolazioni civili per piegare l’Italia e separarla dal nefasto alleato tedesco. Si può aggiungere che la liberazione d’Italia sarebbe avvenuta con ogni probabilità anche senza l’apporto dei partigiani; mentre l’inverso, dati alla mano, è impensabile. Dunque la Resistenza può conservare un forte significato sul piano simbolico e si possono narrare singoli episodi, imprese e protagonisti meritevoli di essere ricordati; ma sul piano storico non si può davvero sostenere, alla luce dei fatti e dei numeri, che fu la Resistenza a liberare l’Italia. Nella migliore delle ipotesi è mito di fondazione, pedagogia di massa, retorica di Stato. Il mito della resistenza di cui scrisse uno storico operaista di sinistra radicale come Romolo Gobbi.

Per essere precisi, la Liberazione non si concluse il 25 aprile a Milano come narra l’apologetica resistenziale, ma l’ultima, aspra battaglia tra alleati e tedeschi, sostiene Donno, si combatté nel comune di San Pietro in Cerro, nel piacentino, tra il 27 e 28 aprile. A San Pietro c’era anche il regista americano John Huston, inviato col grado di Capitano, a girare docufilm. Ma i filmati erano così duri che gli Alti comandi americani decisero di non diffonderli fra le truppe se non in versione edulcorata.

Sulle lapidi dei cimiteri di guerra disseminati tra Siracusa e Udine, censiti da Massimo Coltronari, ci sono nomi di soldati e ufficiali hawaiani, australiani, neozelandesi, perfino maori, indiani e nepalesi, francesi e marocchini, polacchi, greci, anche qualche italiano del Corpo italiano di liberazione, e poi brasiliani, belgi, militi della brigata ebraica; ma la stragrande maggioranza sono americani, caduti sul suolo italiano. Molti erano di origine italiana: si chiamavano Ferrante, Lovascio, Gualtieri, Rivera, Valvo, Pizzo, Mancuso, Capano, Quercio, Colantuonio, Barrolato, Barone…

“È stata e continua ad essere – dice Donno – una grande opera di mascheramento della “verità” quando non di falsificazione… i miei volumi hanno l’ambizione di rompere questa cortina di latta (che, ammaccata dappertutto, tuttora sopravvive nella discarica del tempo) facendo emergere dati e fatti oscurati ed ignorati”. Naturalmente possono divergere i giudizi tra chi considera gli alleati come benefattori e liberatori, chi come occupanti e nuovi invasori; chi avrebbe preferito che fossero stati i sovietici a liberarci; e chi si limita a considerarli combattenti, soldati in guerra e non eroi, soccorritori o invasori. La memorialistica sulla liberazione d’Italia minimizza e trascura l’apporto americano; invece, sottolinea Craveri, è evidente che furono loro i protagonisti della liberazione d’Italia. La verità, vi prego, sull’onore. MV, La Verità 25 aprile 2021

Gli italiani trucidati dal regime comunista. Marcello Veneziani 

C’era una volta l’emigrazione degli italiani nella Russia sovietica. Il comunismo inteso come regime non è mai andato al potere in Italia. In compenso ha mietuto più vittime italiane del “famigerato” regime fascista che pure ha dominato nel nostro Paese per oltre un ventennio. Centinaia di italiani emigrati in Crimea nell’Ottocento soprattutto dalla Puglia, e poi dal Veneto, a partire dagli Anni Venti del ‘900 furono perseguitati dal regime comunista, prima col sequestro delle proprietà e poi con le purghe staliniane. Molti di loro furono ingiustamente sospettati e accusati di attività controrivoluzionaria, furono processati e fucilati. Ottant’anni fa, il 29 gennaio del 1942 avvenne il rastrellamento di tutte le famiglie di origine italiana e il loro trasferimento nei Gulag del Kazakhstan, dove i circa 1500 deportati furono decimati dal freddo, dalla fame, dalle malattie e dai lavori forzati. L’odio ideologico si unì all’odio di classe e all’odio etnico. Tornata la Crimea nell’orbita russa, nel 2015 Putin riconobbe agli italiani di Crimea lo status di minoranza perseguitata e deportata; un traguardo importante per ristabilire la verità storica su queste deportazioni ignorate dai libri di storia e per avere accesso a un indennizzo.

A queste vittime innocenti del comunismo in Crimea si aggiungono le centinaia di italiani antifascisti e social-comunisti che scapparono dall’Italia fascista e cercarono rifugio nel paradiso sovietico; ma nella Russia di Stalin, col beneplacito di Togliatti, all’epoca residente a Mosca, furono deportati e poi scomparsi nei gulag perché sospettati di non essere non allineati al regime comunista. La stessa sorte capitò agli antifascisti, trozkisti e anarchici italiani trucidati in Spagna dai comunisti staliniani.

Se ci limitiamo a sommare queste tragedie, oltre quella più cospicua degli italiani, istriani e giuliano-dalmati, infoibati nel nord-ovest, abbiamo l’idea di cosa sia stato il comunismo anche per chi non era russo o dell’est. Uno pensa che la tragedia del comunismo abbia riguardato solo i popoli dell’est, non noi; e invece non è vero, chiunque ha toccato il comunismo ne ha scontato la ferocia. Questi sono italiani, emigrati, fuorusciti o perfino militanti antifascisti, che combattevano a fianco dei comunisti contro il franchismo. E non parliamo naturalmente del “sangue dei vinti” o del triangolo rosso, le migliaia di vittime che rientrano nella macabra contabilità della guerra civile nella cornice della seconda guerra mondiale.

E’ vero, le tragedie storiche vanno collocate nel loro tempo, vanno storicizzate e digerite. Ma vedendo l’abuso quotidiano di cerimonie celebrative, discorsi istituzionali, servizi televisivi e giornalistici e propagande di guerra, mi sembra giusto oltre che utile ricordare queste pagine infami che ci toccano da vicino. E che non siano state superate ma solo rimosse lo dimostra proprio l’omertà su questi eventi. Ma la rimozione del comunismo arriva al punto di attribuire a Putin non di essere sulla scia del comunismo, di Lenin e di Stalin ma di essere l’erede di Hitler che poteva c’entrare con gli Ucraini, ma non c’entra un benamato tubo con i russi. 

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IL CAMPO GIUSTO

Svincolata dalla storiografia ufficiale della resistenza è la sorte degli adolescenti uccisi dai partigiani comunisti.

Al dodicenne Giacomo Ghisi i partigiani avevano sterminato la famiglia. Accadde a Cadelbosco, nel Reggiano, il 15 giugno del ’44. Per vendicarsi si arruolò nella brigata nera.

Giuseppe Calandra aveva 14 anni ed era la mascotte della Brigata nera genovese. Fu ucciso l’8 settembre del ’44 a Cadeo, piccolo comune a un tiro di schioppo da Piacenza. Pubblico la sua foto nella bara, una sconvolgente fotografia. Anche il padre, Anselmo sarà ucciso. Dopo la liberazione, sotto tortura, il 13 maggio del ’45.

Il 3° reggimento bersaglieri dislocato in Liguria aveva due mascotte, una si chiamava Erminio Laura e aveva 12 anni, ucciso a pugnalate il 30 gennaio del ‘44. Quel giorno gli era stata uccisa anche la madre. Il padre era stato ucciso il 25 aprile del ’44. Non ho il nome dell’altra mascotte, ma ho il nome del boia, Giuseppe Gaminera di Imperia, il partigiano “Garibaldi”.

A Quagliazzo, in Piemonte il 3 maggio del ’45 fu uccisa un’altra mascotte dei bersaglieri, aveva 14 anni.

Le brigate partigiane comuniste non avevano mascotte, perché sarebbe state d’ostacolo nei loro “mordi e fuggi”. Quegli adolescenti che ebbero la sventura di scegliere la macchia fecero una brutta fine.

Umberto Merli aveva 10 anni e fu soppresso il 31 agosto del ’44 dal capo partigiano Ferdinando Boilini “Barbanera”. Fu ucciso perché non lo si poteva lasciare andare dopo tutto quello che sapeva.

Il tredicenne Umberto Ricci fu soppresso con un colpo di pistola alla nuca il 21 agosto del ’44 nella campagna di Lama di Palagano, dopo essere stato” “utilizzato” come staffetta. Si temeva potesse spifferare pericolose informazioni.

Nelle alture di Montefiorino un ragazzo caduto in sospetto fu legato a un albero e torturato a morte. Gli accesero ai piedi un falò perché confessasse. Rantolava impazzito dal dolore. Quando i partigiani videro che stava morendo gli ficcarono in bocca un tizzone ardente. Si chiamava Costantino Castelli ed era riuscito a raggiungere il bivacco partigiano perché voleva entrare nella resistenza: non fu creduto. Aveva 15 anni.

Mistero su quegli assassini; si sapevano solo i nomi di battaglia, “Bill” e “Tempesta”. Dopo massacranti ricerche ne scovai uno, Bill. Si chiamava Agide Caiumi, modenese nato nel ’23. Morì schiacciato nella sua “Ape” nel 2005, schiacciato da un camion contro il guard-rail nella tangenziale di Modena.

Tutta questa ferocia risulterà inutile se non appagante delle necessità criminali della canaglia comunista.

Aspre polemiche da partigiani e Pci. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Giugno 2022.

È il 23 giugno 1946. «La Gazzetta del Mezzogiorno» annuncia l’entrata in vigore della cosiddetta «Amnistia Togliatti»: si tratta del decreto presidenziale di amnistia e indulto per reati comuni, politici e militari avvenuti durante il periodo dell’occupazione nazifascista.

La legge - proposta e varata dal ministro di Grazia e Giustizia del primo governo De Gasperi, il comunista Palmiro Togliatti - comprende il condono della pena per i reati punibili fino a un massimo di 5 anni: si calcola, si legge sulla «Gazzetta», che solo a Roma cadranno nella sfera di applicazione del decreto 600 processi politici.

Si attende con ansia la relazione con cui il Guardasigilli fisserà precise norme interpretative, in particolare l’esclusione delle «persone rivestite di elevata responsabilità di comando civile o militare, ovvero che abbiano commesso atti di strage, sevizie particolarmente efferate, omicidi e saccheggi». Nelle intenzioni di Togliatti, dunque, i reati gravi e gravissimi non sarebbero da includere nel provvedimento. All’indomani della fine della guerra e della vittoria della Repubblica al referendum istituzionale, il suo scopo è quello di accelerare il processo di pacificazione nazionale, per evitare che l’epurazione nei confronti delle personalità compromesse col fascismo rallenti la ricostruzione materiale del Paese.

«Per raggiungere questo scopo, che appare ogni giorno più necessario e indispensabile, bisogna prima risolvere il formidabile problema dell’unità morale degli italiani», scrive Leonardo Azzarita sulla «Gazzetta». «Se non si risolve pienamente, urgentemente questo problema, è vano attendersi che la concordia civile e nazionale sia piena, operante e decisiva nei momenti solenni che l’attendono per metterla alla prova». Ad ogni modo, l’ex direttore del «Corriere delle Puglie» non condanna il provvedimento di amnistia: «Va lodato e con esso van lodati il Guardasigilli e il Governo», conclude Azzarita.

Tuttavia, nell’opinione pubblica si scatena un vivace dibattito. Aspre sono le polemiche che arrivano dall’associazionismo partigiano e dalla stessa base del Partito comunista: con l’amnistia verranno, infatti, scarcerati migliaia di fascisti che si sono resi responsabili anche di gravi crimini.

La mancata epurazione della magistratura, inoltre, produrrà un’estensione indiscriminata del provvedimento.

L’amnistia contribuirà, inevitabilmente, al processo, tutto italiano, di rimozione delle responsabilità e dei crimini dell’Italia fascista.

La «Gazzetta» del 2 giugno 1946: «Cari lettori, votate». La Gazzetta del Mezzogiorno del 2 giugno 1946. Il ricordo sul giornale del proclama del fresco Re Umberto II che provò a conquistare i cittadini per mantenere la monarchia. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Giugno 2022.

«Tutti alle urne»: così La Gazzetta del Mezzogiorno esorta i suoi lettori il 2 giugno 1946. Settantasei anni fa, in un Paese devastato dalla guerra e dalla miseria, ma con una forte esigenza di democrazia, circa 25 milioni di italiani hanno scelto la forma istituzionale e i componenti dell’Assemblea Costituente: si tratta delle prime elezioni dopo più di venti anni di regime fascista (tre mesi prima, nel marzo ‘46, in diversi comuni del Paese hanno avuto già luogo le amministrative).

La Gazzetta apre con il proclama del re Umberto II: dopo esser stato luogotenente del Regno per quasi due anni, con l’abdicazione del padre Vittorio Emanuele III, è salito ufficialmente al trono il 9 maggio 1946. Sovrano, dunque, solo da tre settimane, Umberto II compie un ultimo, disperato tentativo di conquistare voti a favore della monarchia. Propone, in caso di riconferma dell’istituto monarchico, un secondo referendum per contribuire alla pacificazione del Paese: «Allora molte passioni si saranno placate; molti che oggi sono perplessi avranno avuto il tempo per fare una scelta ponderata. Allora potranno partecipare alla consultazione tutti i cittadini italiani, anche quelli dei territori di frontiera, anche i prigionieri di guerra che ancora attendono di ritornare alle loro case», si legge sulla Gazzetta. Il dispaccio è stato diffuso dall’agenzia Ansa pochissime ore prima del voto, quando i pronostici sono ormai quasi del tutto favorevoli alla vittoria della repubblica. Contestatissimo, il proclama del re scatena le proteste di tutti i partiti della fazione repubblicana: la campagna elettorale è ufficialmente chiusa per disposizione del governo e, dunque, nessuno dovrebbe più esprimere indirizzi sul voto.

Il silenzio elettorale, invece, è ben rispettato dal quotidiano diretto da Luigi De Secly, che così scrive: «La “Gazzetta”, che non ha interessi di qualsiasi natura da tutelare, non vuole pesare nella bilancia con un suo particolare giudizio e non vuole farsi eco di qualsiasi tesi esclusivista, se non di questa: il rispetto della libertà, che è strettamente congiunta col rispetto dell’ordine pubblico, specialmente sul terreno elettorale». De Secly invita i suoi lettori a non rinunciare, per nessun motivo, al diritto di voto: «L’elettore rappresenta, nel momento in cui depone la scheda nell’urna, tutta l’Italia; è l’esempio vivente del metodo democratico che si realizza: il suo valore è incalcolabile perché quel voto determinerà l’avvenire del Paese nella vita interna e internazionale. Giammai bisognerà rinunciare ad esprimere la propria opinione: il fascismo, la dittatura, la guerra disastrosa sono stati il frutto di questa rinuncia».

Meridione monarchico, ma l’asse Taranto-Foggia sceglie la Repubblica. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 03 Giugno 2022.

Èil 3 giugno 1946: si diffondono i primi dati sulle elezioni per l’Assemblea Costituente e sul referendum istituzionale. Iniziato il giorno prima, il voto continuerà, nei Comuni più grandi, anche nella giornata del 3 fino a mezzogiorno. «La Gazzetta del Mezzogiorno» racconta: «Il giorno tanto atteso delle elezioni politiche e del referendum istituzionale è ieri finalmente giunto. Preparato da un mese di nutrita campagna elettorale, fatta di comizi, di trasmissioni radiofoniche, di scritte murali, di manifesti e di ogni altro mezzo che servisse a polarizzare l’attenzione dei cittadini sui programmi e sugli uomini della nostra vita politica, il 2 giugno è arrivato. Il bombardamento dei discorsi elettorali non mancava di produrre i suoi effetti, gettando nelle coscienze dei cittadini i germi della discussione appassionata, vivace, contrastante, ma sempre lieta di manifestarsi nel rinnovato clima della libertà democratica».

Una grande partecipazione popolare in quasi tutto il Paese: l’89% degli aventi diritto al voto esprimerà la propria preferenza. A Roma si è recata alle urne anche la Regina Maria José, consorte di Umberto II: «Discesa dall’automobile ad una certa distanza dalla sede della sezione dinanzi alla quale sostavano molti elettori, si è posta in coda alla fila, ma subito riconosciuta, le è stato fatto largo dalla folla che l’ha calorosamente applaudita. Entrata nella sala della votazione, la Sovrana ha accettato dal Presidente solo la scheda per le elezioni della Costituente, rifiutando quella del referendum», racconta sulla «Gazzetta» il corrispondente dalla capitale.

Anche in Puglia si è registrata una notevole affluenza ai seggi: «A Bari molti locali non si prestavano ieri allo scopo. Ne è derivato un intasamento ed un affollamento che hanno un po’ stancato l’attesa degli elettori». Le elezioni, ad ogni modo, si sono svolte quasi totalmente senza disordini: consistente sarà, nella regione, così come in tutto il Mezzogiorno, la prevalenza dei voti a favore della monarchia. Vi saranno, tuttavia, delle significative eccezioni. Le percentuali più alte a favore della Repubblica si registreranno nelle zone con una forte tradizione socialista: nella provincia di Taranto, per la sua componente operaia legata all’Arsenale militare marittimo e al Cantiere navale, ma soprattutto nelle campagne della Capitanata. Cerignola e Orsara di Puglia, comuni tradizionalmente legati alla storia delle lotte bracciantili, rispettivamente con il 60 e il 76% dei voti, contribuiranno fortemente alla definitiva vittoria della Repubblica nel nostro Paese.

Steve Della Casa per “La Stampa - TuttoLibri” il 9 maggio 2022.

Alberto Sordi è visibilmente spaventato, un soldato nazista gli sta puntando contro l’arma, lo minaccia di morte. Ma dietro il nazista spunta determinata Lea Massari, che sarà poi la sua compagna di vita, e colpisce il nazista con un ferro da stiro. 

Iniziano così le avventure di Silvio Magnozzi, il protagonista di Una vita difficile di Dino Risi (1961), una delle commedie più belle e significative sul dopoguerra italiano. Carla Gravina nel film di Luigi Comencini Tutti a casa (1960) è una bella ragazza, visibilmente impacciata, e porta con sé i libri di scuola. Sale su un traghetto in Romagna che deve portarla dall’altra parte del Po. 

Assieme a lei ci sono i soldati guidati da Alberto Sordi che dopo l’8 settembre sono sbandati e stanno cercando di tornare a casa, tra loro spicca Nino Castelnuovo. Ma su quella zattera c’è anche un soldato tedesco che parla un po’ di italiano e legge il nome Silvia Modena su uno dei libri della ragazza. 

Cerca di attaccare discorso con lei e a un certo punto si ricorda del suo ruolo e le chiede se Modena sia un cognome ebreo, dato che in Italia gli ebrei hanno spesso un cognome dove si evoca una città. La ragazza nega, e anche gli altri passeggeri negano di aver mai sentito che ci sia una città che si chiama Modena. Sembra tutto finito, ma scopriremo tragicamente che purtroppo non è così.

Sono due momenti di due film molto famosi, nei quali i toni di commedia si sposano al livello più alto con le note del dramma, con due grandi registi che raccontano il loro punto di vista sull’occupazione nazista dell’Italia dopo che il re e Badoglio si sono vigliaccamente messi al sicuro nella parte d’Italia già in mano agli alleati. 

Tutto è credibile: lo sono i toni, che rifuggono dalla retorica ma che non fanno sconti sulla crudeltà dei nazisti e dei loro alleati fascisti. Lo sono anche gli attori, sia quelli principali (Alberto Sordi, ancora una volta capace di raccontare le contraddizioni dell’italiano medio) sia quelli secondari, ivi compresi coloro che interpretano i nazisti. E, nel secondo caso, la credibilità ha origini ben precise.

In entrambi i film, infatti, il milite tedesco ha un nome e un cognome, Borante Domizlaff (in Una vita difficile lo si può leggere anche nei titoli di testa). Sembra un nome d’arte, ma non è così: chi si occupava di crimini di guerra lo conosceva molto bene, e da questo punto è partito Mario Tedeschini Lalli per il suo libro Nazisti a Cinecittà, uscito per Nutrimenti. 

Domizlaff, infatti, era un alto ufficiale delle SS che operava nel 1944 in quel di Roma, e che è stato tra coloro che spararono alla nuca uccidendoli gli ostaggi che furono portati alle Fosse Ardeatine. Per questo reato fu processato insieme al suo comandante Kappler nel dopo guerra, e fu assolto perchè il tribunale credette alla tesi secondo cui aveva solo eseguito un ordine al quale non poteva ribellarsi.

Sia Risi sia Comencini avevano idee non certo assimilabili al nazismo: come era possibile che avessero accolto nel loro film un nazista assassino di persone inermi? Come potevano ignorare quel nome che era comunque uscito abbondantemente sui giornali, all’epoca del processo? Oltretutto, come dimostra Tedeschini Lalli, non si trattava neanche di una persona che aveva manifestato pentimento e riconosciuto i propri errori, visto che nel 1977 quando Kappler evase da un carcere italiano il giorno di ferragosto fu proprio Domizlaff ad aiutarlo per una parte della latitanza. 

Il libro è la storia appassionata e documentatissima di un’indagine durata tanti anni, con l’autore che ricostruisce legami, nomi, relazioni con esponenti dell’estrema destra italiana, con alti prelati compromessi con il nazismo, con una sorta di «internazionale nera» che aiutò esplicitamente gli assassini nazisti nel secondo dopoguerra godendo di tante complicità, soprattutto da parte dei servizi segreti americani che nel frattempo si stavano organizzando contro il nuovo nemico, quello comunista. 

E, soprattutto, è l’ulteriore scoperta che Domizlaff non era un caso isolato. Anche Karl Hass, a sua volta ufficiale SS e assassino alle Fosse Ardeatine, collabora con registi che non possono certo essere accusati di collusioni con la destra eversiva come Luchino Visconti e Carlo Lizzani. 

E anche Hass ha avuto relazioni non marginali con i servizi segreti, e il suo nome è circolato anche in occasione delle bombe di piazza Fontana che sono il punto più intenso di relazione tra servizi segreti e neofascisti. Lo stesso Lizzani, in un intervento avvenuto al festival di Venezia nel 1995, ammette di averlo avuto nel suo film Il processo di Verona, un altro film antifascista che ha quindi nel suo cast un nazista autentico.

È lo stesso Tedeschini Lalli a mettere in guardia: non si tratta di un complotto, non è la prova di chissà quali trame o infiltrazioni. È solamente (solamente?) la prova che a guerra finita in Italia si è scelto di stendere un velo su tutta la vicenda dei nazisti in Italia: troppo pericoloso, troppo «eversivo»...

Attentato a Togliatti, il Paese in piazza. La prima pagina del 16 luglio del 1948 sulla «Gazzetta del Mezzogiorno». A Bari sospeso il Consiglio comunale: è la notizia del 16 luglio del 1948 sulla «Gazzetta del Mezzogiorno». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Luglio 2022.

«Il vile attentato contro Togliatti» è la notizia principale dell’edizione del 16 luglio 1948 de «La Gazzetta del Mezzogiorno». Due giorni prima, il leader del Partito comunista italiano – mentre usciva da Montecitorio, a Roma, insieme alla compagna Nilde Iotti – è stato gravemente ferito da tre colpi di pistola sparati da un giovane studente siciliano, Antonio Pallante. «Trovasi ora nella Questura centrale e precisamente in una stanza dell’ufficio politico. Egli ha subito già vari interrogatori, nel corso dei quali ha dichiarato di aver attentato alla vita di Togliatti non potendo tollerare ch’egli, italiano, partecipasse alle riunioni del Cominform ed anche perché lo riteneva responsabile delle uccisioni di italiani avvenute nel Nord dopo la Liberazione», si legge sul quotidiano.

Quelle che l’Italia sta vivendo sono settimane di crescente tensione: nell’aprile la Democrazia Cristiana ha trionfato alle elezioni, guadagnandosi il 48 percento dei consensi; il Fronte popolare, composto da comunisti e socialisti, ha raggiunto, invece, il 31 percento. Il Parlamento, inoltre, ha appena approvato, con il voto contrario del Pci, l’attuazione del Piano Marshall. «Il Presidente del Consiglio De Gasperi ha appreso la notizia dell’attentato mentre era intento al suo lavoro nel proprio Gabinetto al Viminale. Immediatamente egli si è diretto alla Camera per avere ulteriori informazioni e quindi, insieme con l’on Gronchi, si è recato al Policlinico e ha visitato il ferito». La notizia dell’attentato provoca violentissime agitazioni in tutta Italia. Nelle principali città industriali operai e militanti del Pci scendono in piazza scontrandosi con le forze dell’ordine. Anche a Bari è stato dichiarato sciopero generale: «In numerosi cantieri e stabilimenti nelle prime ore del pomeriggio il lavoro veniva interrotto, mentre una piccola folla che andava aumentando di numero si radunava davanti alla sede della Federazione provinciale del Pci. Nel tardo pomeriggio si formava un corteo che percorreva le principali vie cittadine, invitando i negozianti ad abbassare le saracinesche». In consiglio comunale il Sindaco di Bari, l’avvocato democristiano Vitantonio Di Cagno, ha condannato il vile gesto: su proposta dell’avv. Papalia, esponente del Partito socialista, tutti i consiglieri hanno unanimemente accettato di sospendere la seduta.

Operato d’urgenza, Togliatti si riprende presto dall’intervento: il 16 luglio la vittoria di Bartali ravviva lo spirito patriottico degli italiani. Giuseppe Di Vittorio decreta la fine dello sciopero generale: il pericolo di una guerra civile è, per il momento, scampato.

·        I Figli di Mussolini.

I figli di Mussolini, chi e quanti sono tra legittimi e illegittimi: da Edda a Virgilio un elenco incompleto. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.

Morta Elena Curti, l’ultima figlia (nota) di Benito Mussolini: ma il numero preciso degli eredi varia da sette a undici. E forse di più. 

La scomparsa a 99 anni di Elena Curti, ultima figlia di Benito Mussolini, ha richiamato l’attenzione sulla vita del Duce, con un matrimonio e parecchie relazioni, e sulla numerosa prole da lui messa al mondo. 

Oltre a Elena, nata nel 1922 dalla relazione con la sarta Angela Cucciati, moglie dello squadrista Bruno Curti, si contano infatti almeno altri sei figli, quasi certamente di più. 

La prima è Edda , nata nel 1910 dalla futura moglie di Mussolini Rachele Guidi (i due si uniranno civilmente nel 1915, con rito religioso nel 1925). Temperamento ribelle, molto simile al padre, Edda sposa nel 1930 a Roma Galeazzo Ciano, figlio dell’eroe di guerra Costanzo Ciano. La coppia ha tre figli e un ménage matrimoniale travagliato, con diversi tradimenti da una parte e dall’altra. Ciò non impedisce però a Galeazzo, nato nel 1903, di fare una carriera brillante, fino a diventare nel 1936 un giovanissimo ministro degli Esteri e ad essere considerato da molti il delfino del Duce. Poi però vengono i disastri della guerra. Ciano viene rimosso da ministro nel febbraio 1943 e nel luglio successivo vota contro Mussolini nel Gran Consiglio del fascismo, contribuendo a determinarne la caduta. Perciò sotto la repubblica di Salò è condannato a morte: una sentenza che viene eseguita a Verona nel gennaio 1944, nonostante i disperati tentativi compiuti da Edda, che in guerra ha fatto la crocerossina, per convincere il padre a risparmiarlo. Alla fine del conflitto la prima figlia di Mussolini si rifugia in Svizzera, poi finisce al confino per qualche tempo a Lipari, quindi viene amnistiata. Muore a Roma nel 1995. 

Nel 1915 al futuro Duce nasce il secondo figlio Benito Albino, partorito però dalla sua amante trentina Ida Dalser, titolare di un salone di bellezza. Mussolini riconosce il bambino, promette a Ida di sposarla, ma poi sceglie Rachele. Quando diventa potente, si libera dell’amante nel modo più cinico tanto che Ida finisce rinchiusa in manicomio e vi muore nel 1937. Benito Albino si arruola in marina, poi viene internato anche lui in un ospedale psichiatrico e muore nel 1942. Nasce nel 1916 il secondo figlio di Rachele, Vittorio. Giovane brillante e appassionato di cinema, si afferma in questo campo come produttore sotto l’egida del padre. Ma è anche un aviatore e partecipa alla guerra d’Etiopia, esperienza su cui scrive il libro «Voli sulle Ambe». Vittorio è al fianco del padre durante la Repubblica sociale italiana e dopo la guerra si rifugia in Argentina per tornare in patria solo nel 1967. Muore nel 1997. 

Aviatore come Vittorio è il terzo figlio avuto da Mussolini con la moglie. Si chiama Bruno ed è del 1918. Grande appassionato del volo, da ragazzo diventa il più giovane aviatore militare d’Italia. Oltre che in Etiopia, è volontario nella guerra di Spagna, durante la quale sfida l’americano Derek Dickinson in un duello aereo che fa scalpore, anche se qualcuno dubita che sia mai avvenuto. Di certo Bruno viene decorato più volte, partecipa a diversi voli agonistici e viene anche nominato presidente della Federazione pugilistica. Durante la Seconda guerra mondiale guida una squadriglia aerea e muore in un incidente di volo nei pressi di Pisa il 7 agosto 1941. A lui il padre dedica il libro «Parlo con Bruno».

Nato nel 1927, Romano Mussolini, quarto figlio del Duce e della moglie, si appassiona sin da giovane alla musica jazz, che pure il regime non vedeva affatto di buon occhio, e nel dopoguerra ha come pianista una carriera artistica di tutto rispetto. Sposa nel 1962 la prima moglie Maria Scicolone, sorella dell’attrice Sophia Loren, e ha due figlie, una delle quali, Alessandra, è ben nota per la sua attività sulla scena pubblica. Per lungo tempo Romano Mussolini evita di parlare del padre. Solo nel 2004, due anni prima di morire, pubblica un libro di memorie colmo di affetto per il dittatore, intitolato «Il Duce, mio padre».

Ultima figlia legittima di Mussolini è Anna Maria, nata nel 1929, che da bambina viene colpita da una grave forma di poliomielite virale, da cui sarà condizionata per tutta la vita. Nel dopoguerra diventa per un certo periodo conduttrice radiofonica, si sposa e ha due figlie. Un tumore la uccide nel 1968.

L’elenco però potrebbe continuare. Secondo Mimmo Franzinelli, autore del libro «Il Duce e le donne», Mussolini ebbe probabilmente figli anche dalla segretaria del «Popolo d’Italia» Bianca Ceccato (un bambino di nome Glauco), da Romilda Ruspi, da Ines De Spuches (un maschio, Benito, che si arruola a Salò e viene ucciso dai partigiani), da Alce de Fonseca Pallottelli (un altro ragazzo, Virgilio, anch’egli combattente della Rsi).

Mauro Suttora per huffingtonpost.it il 17 gennaio 2022.

È morta l’ultima figlia (naturale) di Mussolini. Elena Curti si è spenta a quasi cent’anni nella sua casa di Acquapendente (Viterbo): ha fatto in tempo ad arrivare al 2022, centenario della marcia su Roma, ma non al proprio compleanno del 19 ottobre, nove giorni prima dell’impresa fascista. 

Era figlia della bellissima Angela Cucciati, una sarta milanese con cui Mussolini ebbe un’avventura alla fine del 1921. Si conobbero perché la donna andò a chiedergli di far uscire di prigione il marito squadrista Bruno Curti. 

Elena Curti seppe dalla madre di essere una figlia segreta di Benito solo quando compì 18 anni. Mussolini la volle conoscere, e durante la Repubblica Sociale la riceveva ogni giovedì a Salò. Elena lavorava nella segreteria di Pavolini.

Claretta Petacci, l’amante del Duce, si insospettì: pensava che quella bella ragazza bionda fosse una sua ennesima avventura, e gli ordinò di allontanarla. Ma il 27 aprile 1945, durante la fuga di Dongo, c’era Elena e non Claretta accanto a Mussolini sulla autoblindo nella prima parte del viaggio. 

Poi, quando il duce fu invitato dai tedeschi a montare su un loro camion travestito da soldato, sopraggiunse Claretta, che seguiva la colonna dei gerarchi fascisti in auto col fratello Marcello, la cognata e i nipotini. 

Vide Elena e cominciò a inveire. Si calmò solo quando le spiegarono chi fosse veramente la ragazza. La scena è stata immortalata da Pasquale Squitieri nel suo film ‘Claretta’ (1984). 

Dopo cinque mesi di carcere Elena Curti fu liberata. Si sposò, emigrò in Spagna ed ebbe fortuna con un’azienda che produceva mobili. Una ventina d’anni fa tornò in Italia e scrisse le sue memorie: ‘Il chiodo a tre punte’ (2003).

Morta Elena Curti, la figlia segreta di Benito Mussolini aveva 99 anni: quella scenata di gelosia di Claretta Petacci. Libero Quotidiano il 17 gennaio 2022.

Addio a Elena Curti: aveva 99 anni ed era la figlia segreta di Benito Mussolini, nata una settimana prima della marcia su Roma. L'anziana se n'è andata nella sua casa di Acquapendente, in provincia di Viterbo, e secondo l'agenzia Adnkronos il funerale si terrà martedì 18 gennaio nella cattedrale del Santo Sepolcro. La figlia mai riconosciuta dal fondatore del Fascismo aveva vissuto per oltre 40 anni in Spagna e aveva fatto rientro in Italia soltanto nel 2000, stabilendosi nel paese dell'Alto Lazio. Nel 2008 era morto su marito, Dopo aver vissuto in Spagna per oltre 40 anni, intorno al 2000 la figlia mai riconosciuta dal dittatore fascista era rientrata in Italia e si era stabilita nel paese dell'alto Lazio.

Nel 2008 aveva perso il marito, Enrico Miranda, tenente dell'aviazione che proprio Mussolini decorò sul campo per l'eroismo dimostrato come primo pilota durante la battaglia di Pantelleria. Elena Curti era nata il 19 ottobre 1922 dalla sarta Angela Cucciati, moglie del capo fascista Bruno Curti, e seppe di essere figlia naturale del Duce soltanto a 20 anni. "Me lo confessò a bruciapelo mia madre una sera dopo cena - aveva raccontato -- Le chiesi se Mussolini ne fosse informato. 'Sì, certo, ma preferisce che per ora tu non lo sappia', rispose. Da quel giorno passai intere giornate a interrogarmi davanti allo specchio con le foto del Duce e di mio papà".

La madre di Elena, morta nel 1978, era diventata l'amante di Mussolini nel 1921, dopo averlo incontrato per sollecitare la liberazione del marito squadrista arrestato per una rissa con alcuni camerati. Il primo incontro tra Elena e il suo padre naturale avvenne nel 1927, in occasione della inaugurazione dell'Umanitaria, un'istituzione milanese di assistenza: "Mussolini passò tra due ali di folla festante - rivelò la donna in un'intervista - si fermò di colpo, guardò per un attimo mia mamma, poi chinò il capo verso di me, sorrise e mi accarezzò i capelli. Ebbi la sensazione d'essere prescelta". Nel 1941, a Palazzo Venezia a Roma, il primo incontro ufficiale, una frequentazione che divenne più frequente durante i 600 drammatici giorni della Repubblica di Salò. Quando il Duce, caduto in disgrazia, fu arrestato a Dongo il 27 aprile 1945, Elena era su uno degli autoblindi che scortavano i gerarchi in fuga e secondo alcuni resoconti dell'epoca l'amante "ufficiale" di Mussolini, Claretta Petacci, avrebbe chiesto spiegazioni su quella presenza femminile facendo anche una scenata. 

Mirella Serri per "la Stampa" il 18 gennaio 2022.

Mentre Mussolini era in fuga da Dongo gli erano al fianco due donne: Claretta Petacci, che lo seguiva in macchina con suo fratello Marcello, ed Elena Curti, la figlia naturale del Duce, che viaggiò con lui fin quasi al momento dell'arresto. Elena, prole amatissima dal dittatore ma mai da lui riconosciuta, si è spenta ieri a 99 anni nella sua casa di Acquapendente. Ha sempre rivendicato orgogliosamente il rapporto con il genitore e pure la sua estrema dedizione al regime. 

Aveva un legame molto stretto con il capo del fascismo, il quale la riteneva una ragazza assai brillante e, scherzosamente notava, che la fanciulla era connotata, come lui, da una mascella prominente. Nella sua abitazione in provincia di Viterbo Elena teneva in bella vista una foto che la ritraeva a Salò, a fianco del Duce, vestita da «giovane italiana». Riceveva volentieri i nostalgici e rievocava con loro le avventurose vicende della sua vita. La Curti era nata nel 1922, pochi giorni prima della marcia su Roma, il 19 ottobre. Era molto fascinosa, proprio come la mamma Angela Cucciati.

Boccoluta e prosperosa, Angela aveva conosciuto Mussolini in occasione di una sua visita per perorare la causa del marito, lo squadrista Bruno Curti, finito in carcere dopo una rissa con i camerati. Il capo del neonato Partito nazionale fascista otterrà un'immediata «ricompensa» per il favore concesso alla signora Curti. Con la donna non ebbe solo una relazione occasionale, bensì una storia destinata a durare. Angela era nata a Lodi, gestiva un atelier di moda a Milano ed era molto abile nel gestire e coltivare la sua liaison con il dittatore. Quando i suoi affari cominciarono a entrare in crisi, riuscì a farsi assegnare da Benito un consistente stipendio per il suo ruolo di «informatrice», ovvero di spia.

Della notevole paternità Elena non seppe nulla fino alla maggiore età. «Avevo già 20 anni. Che Mussolini era mio padre la mamma me lo confessò a bruciapelo, una sera dopo cena, racconta Elena nelle sue memorie, «Il chiodo a tre punte», pubblicate nel 2003. «Le chiesi se Mussolini ne fosse informato. "Sì, certo, ma preferisce che per ora tu non lo sappia", rispose. Da quel giorno passai intere giornate a interrogarmi davanti allo specchio con le foto del Duce e di colui che fino ad allora avevo considerato il mio papà». 

Elena fu ammessa per la prima volta al cospetto del suo vero padre nel 1929, all'inaugurazione dell'Umanitaria, un'istituzione milanese di assistenza: «Passava tra due ali di folla festante - rammenta ancora Elena -. Si fermò di colpo, guardò per un attimo mia mamma, poi chinò il capo verso di me, sorrise e mi accarezzò i capelli. Ebbi la sensazione d'essere prescelta».

Elena arrivò a Roma con la madre Angela, sollecitata al trasferimento proprio da Mussolini, il quale, come era solito fare con le sue amanti, acquistò per lei ed Elena un elegante appartamento ai Parioli. Oppresso dalle scenate di gelosia della Petacci, che non tollerava i suoi numerosi tradimenti, il despota cercava conforto fra le braccia di Angela. Quando la figlia ebbe bisogno di lavorare, la Curti cercò di convincere Benito a introdurre Elena, dotata di grande appeal, nel mondo del cinema. Il Duce si oppose fermamente. Mai avrebbe permesso che proprio sua figlia entrasse a far parte di un ambiente da lui giudicato «corrotto» e ricco di tentazioni, soprattutto per una giovane donna. 

Caduto il fascismo, la Curti seguì Mussolini a Salò. Fu destinata dal padre alla segreteria di Alessandro Pavolini, il più estremista tra i gerarchi della Repubblica sociale italiana, grande persecutore degli antifascisti.

E nella Rsi la fanciulla si mosse sulle orme della mamma: ricevette anche lei uno stipendio come informatrice. In un universo traboccante di rivalità, corruzione e spiate, era sorvegliata a vista e suscitavano gran sospetto i suoi abboccamenti con il padre, a cui tutti i giovedì pomeriggio riferiva le voci raccolte. Il dittatore, oltre ai cinque figli avuti da Rachele Guidi, ne ebbe molti altri da altre donne, come Romilda Ruspi e Alice Pallottelli che lo seguì a Salò. Benito si vantava di avere avuto alcune centinaia di amanti. Con molte delle sue partner mantenne relazioni parallele ma regolari e stabili nel tempo.

La Petacci era consapevole della numerosa prole del Duce, ma odiava più di tutti proprio Elena che pure non ne portava il cognome. A Salò Claretta non vedeva di buon occhio gli appuntamenti che il dittatore concedeva alla figlia nel suo studio, la chiamava «prostituta» e donna di malaffare. L'ultima lite che la Petacci ebbe con Benito fu proprio a causa di Elena. Il corteo delle macchine in fuga al seguito del Duce, il 25 aprile 1945, aveva abbandonato Milano, diretto verso la Svizzera. Durante una sosta Claretta sorprese Elena che conversava con il padre.

Cominciò a inveire e Mussolini le allungò uno schiaffo: la scena è stata immortalata da Pasquale Squitieri nel suo film «Claretta». La Curti era così devota a Mussolini che volle rimanere con lui fino all'ultimo. Desiderava essere l'«ufficiale di collegamento» che teneva i contatti con Pavolini, il quale aveva promesso di raggiungere la colonna del dittatore con un manipolo di uomini. Elena e Claretta furono fianco a fianco al momento della decisione che portò il leader fascista all'arresto e alla morte. 

Quando Mussolini fu invitato dai tedeschi a salire su un loro camion, travestito da soldato del Reich, Claretta caldeggiò il suggerimento. Elena poi venne arrestata dai partigiani. Un frate la sottrasse alla fucilazione. Rimase in galera cinque mesi. Sua madre testimoniò che era la figlia naturale di Mussolini, evitandole così una condanna per collaborazionismo.

Quando fu liberata, si sposò, emigrò in Spagna e poi tornò in Italia. A chi le chiedeva che ricordo avesse del padre come uomo, rispondeva: «Per vent' anni l'ho conosciuto per tramite di mia mamma che l'ha seguito nella sua ascesa Andava sempre a Roma a trovarlo, poi è subentrata quell'arpia della Petacci». Nonostante che pure Claretta abbia avuto una tragica fine, e anche a distanza di tanto tempo, Elena ha continuato a coltivare il mito del padre e l'antagonismo con la giovane amante. La Curti non era certo una testimone oggettiva della tragica dimensione della dittatura, comunque con lei se ne è andata l'ultima testimone.

·        Le Marocchinate.

Sessantamila donne stuprate: il lato buio della Liberazione. Violenze sistematiche da parte delle truppe aggregate durante l’avanzata degli Alleati, che consideravano il corpo delle donne come trofeo di guerra. Una pagina oscura dell’epopea della lotta al nazifascismo. Ma le "Marocchinate" sono ancora tabù. Erika Antonelli su La Repubblica il 17 Gennaio 2022.  

«Eravamo ficcati come li vermi sottoterra». Così racconta una testimone, descrivendo il tentativo suo e delle altre donne di sfuggire alla violenza dei “goumiers”, soldati di origine marocchina, senegalese, algerina o tunisina inquadrati nelle truppe francesi a fianco degli Alleati. Autori delle Marocchinate, migliaia di abusi nei confronti delle italiane (le stime parlano di 60 mila vittime), saccheggi, uccisioni.

Gli eroi dimenticati di Cassino. Vittorio Macioce, Sabato 18/05/2019, su Il Giornale. Le tracce della linea Gustav ci sono ancora, sulle montagne, lì dove finisce la tua valle. C'è sempre il fiume Rapido, che d'estate è un rivolo e d'inverno si gonfia e si arruffa, nervoso, ostile, cattivo, come un dio che spazza le ambizioni degli umani. Fu lui a frenare le truppe alleate del generale Clark, mentre le mitragliatrici tedesche facevano mattanza. Sono passati settantacinque anni dalla battaglia di Montecassino, le cicatrici (...)(...) segnano la città, come un corpo dilaniato e ricostruito da un chirurgo maldestro. Qui ci fu il fronte italiano della Seconda guerra mondiale, eppure Cassino è sempre un po' ai margini della mappa sacra della repubblica. Non è il Carso, non è il Piave, non è via Rasella o Piazzale Loreto, pochi raccontano il sangue di questi monti. Si ricorda con un certo fastidio anche quello che accadde dopo, nonostante Moravia e De Sica e il volto di Sophia Loren, gli stupri dei vincitori, le «marocchinate». Forse perché fu una guerra straniera sul suolo italiano e senza Resistenza, senza partigiani, senza rossi e neri. Cassino è il cimitero degli altri. Eccone uno. Lo vedi lungo la strada, dopo una curva, in un quartiere di Cassino non molto lontano dal casello dell'autostrada. Si chiama Folcara e ancora porta i segni di quella che un tempo era campagna. Poco più in là c'è l'università. Il cimitero del Commonwealth è qui e per trovarlo non basta un navigatore satellitare, devi chiedere e molti risponderanno: «Mai sentito». Oppure: «È qui da qualche parte». Quelli che lo conoscono non vivono qui. Vengono magari dalla periferia del Tamigi, dalla contea di Surrey, a sud di Londra o da Porirua, la città delle due maree, a venti chilometri da Wellington o da qualche sobborgo di Nuova Delhi. Le lapidi sono una fila bianca, come una brigata, divisa in quattro battaglioni. I morti sono 4.266, 284 non hanno più un nome, militi e ignoti: britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, indiani, sudafricani, pachistani, nepalesi e un soldato dell'Armata Rossa. Tutti sono sepolti all'ombra lontana, lassù, dell'abbazia, sventrata, stuprata, dissacrata e poi ricostruita, come se la storia si potesse rammendare, perché quel monte racchiude qualcosa di più delle pietre e del marmo. È lì che Benedetto ha scritto la sua regola, il suo «ora et labora», segnando l'inizio del monachesimo, la fuga e il ritorno nel mondo, la rete globale che illumina la civiltà occidentale nell'incertezza dell'età di mezzo. Tutto questo però non consola i morti e forse non interessa neppure più di tanto ai vivi.

L'ULTIMO REPORTAGE Quello che resta è un cognome su una tomba, la terza a sinistra, in prima fila. C'è scritto C. Bewley e non è un soldato. C sta per Cirillo. È un giornalista, corrispondente sul fronte di Cassino per il Kemsley Newspapers, quotidiano che nel 1959 viene assorbito dal Times. È morto il 18 maggio del 1944. Era l'ultimo giorno della lunga battaglia. Aveva 39 anni. Poche ore dopo i superstiti delle divisioni polacche Karpatia e Kresova fissano la bandiera bianca e rossa a strisce orizzontali sui ruderi dei Montecassino. È toccato a loro pagare con il sangue il prezzo della guerra, la libertà della Polonia, lì dove tutto era cominciato nel settembre del '39, con i cingolati di Hitler a schiacciare Varsavia. Il cimitero polacco è proprio sotto l'abbazia. Su una lapide ci sono queste parole: «Abbiamo dato le nostre anime a Dio, i nostri corpi all'Italia e i nostri cuori alla Polonia». È la sintesi di quei giorni di maggio. Il 15 febbraio la casa madre benedettina era stata rasa al suolo. Quando i polacchi il 16 maggio vanno all'assalto del monte per tre volte vengono respinti. A mezzogiorno hanno già perso il 20 per cento delle truppe. Di fronte hanno i paracadutisti tedeschi, duri, resistenti, si battono con fede cieca, spazzano il terreno con le mitragliatrici e i mortai. Vivono sottoterra ed emergono a gruppi per respingere gli attaccanti o morire. I loro cecchini colpiscono i polacchi come uccelli appollaiati sui rami. Il 17 gli uomini del Wadysaw Anders, che dopo la guerra si rifiuterà di tornare nella Polonia comunista e morirà esule a Londra, ripartono all'attacco della montagna. Aggrediscono la Cresta del fante, scalano la Testa del serpente. Si fanno scudo con i cadaveri dei compagni, sparano contro qualsiasi forma che assomigli anche vagamente all'elmetto di un parà. Quota 593 cade all'alba del 18. Il primo a mettere piede sulle macerie è un plotone di ulani del Primo Lancieri Podolski. Trovano un gruppo di tedeschi morenti abbandonati dai compagni. Il terreno è tappezzato di papaveri e di cadaveri. Sulle rovine di Montecassino scende il silenzio. Nel cielo di mezzogiorno i lancieri issano al vento la bandiera. Dopo sei mesi la battaglia di Cassino è finita, la strada per Roma è aperta.

È LA MORTE, È LA VITA Sta in piedi, fermo, in mezzo a un silenzio lieve, con le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Sulla pelle ha tatuaggi che raccontano la storia di famiglia. Il suo nome è Thomas Tekanapu Rawakata, nel mondo lo conoscono con l'acronimo di TJ. Perenara. È il mediano di mischia degli All Black, la nazionale neozelandese di rugby, ed è lui adesso il leader dell'Haka. Non è solo una danza di guerra. È il corpo che parla e ti dice chi sei. È mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua, occhi. TJ la sente battere dentro, ma questa volta la tiene a bada. Suo zio è sepolto qui. È il 17 febbraio del 1944. Sono le nove e mezza della sera e ovunque si sente il canto del ventottesimo battaglione Maori. «Ka mate, ka ora» (è la morte, è la vita). È il debutto dell'Haka sul suolo italiano. Poi verrà la marcia, contro le mitragliatrici tedesche, con la missione di arrivare oltre la linea, laggiù dove c'è la stazione ferroviaria. Chi non viene falciato si aggrappa alla vita con un corpo a corpo contro il nemico, in una notte senza luna dove non si riconoscono i vivi e i morti. Su 200 ne resteranno in piedi meno di settanta. Qui, nel cimitero del Commonwealth, c'è un pezzo di patria, il sangue della Nuova Zelanda. È nella battaglia di Montecassino che si sono riconosciuti come nazione, sacrificando la loro gioventù. Chiunque abbia qui, un nonno, un padre, un marito, un fratello, uno zio viene di tanto in tanto ad incontrarlo, perché tutti i neozelandesi, e soprattutto per i maori, il rapporto con i loro morti non è puro spirito. È carnale. È un abbraccio. Ai morti si fa visita, sempre, anche se sono dall'altra parte del mondo.

THE WALL Il muro per Roger Waters è il silenzio che ha inghiottito il padre. C'è una fotografia del 18 febbraio 1944. Il tenente dei fucilieri Reali Erich Fletcher Waters sorride accanto alla moglie e tiene in braccio il figlio di cinque mesi. È Roger. È l'unica fotografia che ha con il padre. Per anni e anni lo ha cercato, per capire dove è caduto, dove è sepolto. Qui a Cassino c'è il suo corpo, anche se è morto ad Aprilia, dopo lo sbarco di Anzio. Nel cimitero del Commonwealth la leggenda dei Pink Floyd torna ogni tanto a parlare con il padre che non ha conosciuto: «Voglio essere nella trincea della vita. Io non voglio essere al quartier generale, io non voglio essere seduto in un albergo da qualche parte a guardare il mondo che cambia, voglio cambiarlo io. Voglio essere impegnato. Probabilmente, in un modo che mio padre forse approverebbe».

Paola Zanuttini per “il Venerdì di Repubblica” il 19 dicembre 2021. «Cornuto, e come voleva vincere?». Turbatissimo, il venditore ambulante scappato fortunosamente dalla costa di Licata raccontava ai compaesani dell'entroterra l'apparizione delle navi alleate, così tante che il mare «non si vedeva più». E, quasi in trance, ripeteva: «Cornuto, e come voleva vincere?» anche quando si avvicinò il segretario del Fascio e gli fecero segno di tacere. Così, in La guerra spiegata al popolo, Leonardo Sciascia raccontava lo sbarco alleato in Sicilia del 10 luglio 1943 visto, appunto, da un popolano che dopo un ventennio poteva pubblicamente dare del cornuto a Mussolini. Con questa citazione Mario Avagliano e Marco Palmieri aprono Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (il Mulino, pp. 504, euro 26) corposissimo saggio che attinge dalle fonti ufficiali, ma anche dalle memorie più intime della corrispondenza privata e dei diari. Secondo la descrizione non proprio lusinghiera della Soldier' s Guide to Sicily, voluta dal generale Eisenhower per i militari americani - molti dei quali figli e nipoti di emigranti meridionali, quindi paisà, nel senso di compaesani - la Sicilia è «un buco infernale [...] abitato da gente troppo povera per andarsene o troppo ignorante per sapere che esistono posti migliori». Tanta finezza antropologica spegne rapidamente gli iniziali entusiasmi della popolazione invasa/liberata, stigmatizzati nel suo diario del 15 luglio da Roberto Suster, direttore dell'Agenzia di stampa Stefani: «Le cose in Sicilia vanno di male in peggio. I nostri non si battono, ma si arrendono. Il Paese è disgustato. I fascisti furibondi. Il mito del Duce è crollato. La molla patriottica sembra spezzata. Ognuno incomincia a vergognarsi di essere italiano, e di essere stato fascista». Ma già l'8 agosto 1943 il generale britannico Rennell denuncia un «sostanziale cambiamento nello spirito pubblico» dei siciliani, ormai consapevoli che lo sbarco degli Alleati non ha «significato il regno dell'abbondanza». Quindi, dismesso l'iniziale «atteggiamento di cani bastonati e di cuccioli scodinzolanti» sono subito passati a chiedere e pretendere. Gli inglesi, che hanno combattuto più a lungo gli italiani e non hanno con loro il legame dell'immigrazione, sono meno piacioni e ben visti degli americani ma, nonostante il tono sprezzante, qualche settimana dopo Rennell riconosce che malumore e lagnanze sono del tutto «giustificabili in quanto noi non abbiamo tenuto fede alla nostra propaganda». Nonostante il titolo del libro, su tredici capitoli solo il decimo si occupa di sciuscià, segnorine, stupri e spose di guerra. Nelle centinaia di pagine che lo precedono, i bombardamenti, gli espropri, i saccheggi, la miseria, la fame, le umiliazioni, e la fuga del re a Brindisi, le insipienze del governo Badoglio, la dipendenza materiale e psicologica dagli occupanti, la borsa nera, la complicità criminale fra paisà - locali e in uniforme americana - contribuiscono massicciamente alla disfatta morale e civile della popolazione, allestendo l'apoteosi dei piccoli lustrascarpe, della prostituzione di massa, delle marocchinate, dei matrimoni d'interesse, ma a volte anche d'amore, fra American boys e segnorine che vogliono scappare dalla miseria. E se i tedeschi in rotta si sono macchiati di eccidi e rappresaglie, anche gli alleati che distribuivano Camel e caramelle non sono sempre stati gioviali come sosteneva la propaganda. Una delle prime stragi si registra a Vittoria il 10 luglio, il giorno dello sbarco: una dozzina di civili, tra cui il podestà di Acate in fuga con la famiglia, allineati e falciati dai mitra. D'altra parte, il generale Patton aveva ammaestrato così le sue truppe: «Se si arrendono quando tu sei a due-trecento metri da loro, non badare alle mani alzate. Mira tra la terza e la quarta costola, poi spara. Si fottano, nessun prigioniero!». I soli cento giorni di occupazione tedesca della Campania hanno prodotto 1.406 morti in 499 episodi di violenza. Eroica nelle sue Quattro giornate, con l'arrivo degli Alleati Napoli diventa l'epicentro della scostumatezza. Se già nel giugno del 1943 il mercato nero in città assorbiva il 66,95 per cento della spesa alimentare, nel marzo del 1944 la quota aumenta all'86,25. Un soldato semplice americano guadagna l'equivalente di 6.000 am-lire al mese, mentre un prefetto come quello di Taranto solo 2.500. L'occupazione, arenata per mesi sulla linea Gustav, tra le foci del Garigliano e del Sangro, gonfia i prezzi, la piccola borghesia fa la fame, i lazzari si organizzano come hanno sempre fatto. Fruttuosissime le joint venture criminali fra militari e civili: quasi un terzo dei viveri che vengono scaricati a Napoli, sparisce già durante il tragitto dal porto ai depositi. E qui si innesta anche la questione dei «negri». Dopo anni di propaganda razzista del regime, ai benpensanti risulta intollerabile vederli a spasso con le italiche fanciulle. Ma i soldati di colore sono adibiti soprattutto ai servizi logistici, a contatto con generi alimentari e ogni altro bene, dai farmaci agli pneumatici, quindi a una famiglia affamata fa comodo fidanzare una figlia a uno di questi ragazzi, senza dar peso al colore della sua pelle. «Durante la guerra, la gente diceva: "Poi ci faremo pulire le scarpe dagli inglesi". Adesso siamo ridotti a chiedere l'elemosina ai negri», scrive la borghesissima Elena Canino nel suo diario. In altre famiglie si va più per le spicce: una dodicenne finisce in ospedale per le bastonate che gli ha dato il padre perché, prostituendosi, «non riesce a "guadagnare" più di 2000 lire al giorno, mentre la sorella quattordicenne ne guadagna da 4 a 5 mila. Ma essa, la dodicenne, non sa vincere la ripulsione di lasciarsi avvicinare dai negri». La paura e la morte si combattono con il sesso, i soldati lo sanno e si sfrenano senza ritegno. Molestano, stuprano, e uccidono anche. Soprattutto i marocchini dei reparti coloniali francesi, che considerano bottino di guerra le ragazze, ma violentano e massacrano anche uomini, preti, vecchi, nonne, bambini. I superiori fanno finta di non vedere, ma a Cancello, nel Casertano, cinque di loro vanno incontro a una terribile giustizia di popolo. Riporta il giovane ufficiale inglese Norman Lewis nel suo splendido Napoli '44: «Li hanno attirati offrendo loro delle donne, poi del cibo e del vino che conteneva un veleno paralizzante. Quando erano ancora pienamente in sé li hanno prima evirati, poi decapitati». A Roma i castigatori dei costumi ricorrono alle forbici. Da parrucchiere. Il 29 luglio 1944 appaiono sui muri della città dei manifestini dell'Unione Tosatori Romani. C'è scritto: «Abbiamo un programma unico: desideriamo con tutte le nostre forze tosare. Chi?... Non bianche pecorelle, ma le numerosissime gagafelle di nostra e vostra conoscenza, che gettano il discredito sulle donne italiane. Non siamo mossi da benché minima ostilità verso gli Alleati; il mal costume è di quelle venerelle idolatre solo di cioccolato e di sigarette esotiche». La colpa della decadenza morale è quindi delle donne che, se possono permettersela, ricorrono alla parrucca per evitare la tosatura. L'autorità costituita non sa bene come porsi rispetto a questi exploit moralizzatori dell'orgoglio virile. Da una parte auspica il ritorno all'ordine, anche sessuale, dall'altra teme di compromettere le relazioni con il comando alleato. E la moda dei tosatori si estende. Il 7 aprile 1945, con incerta proprietà di linguaggio, il capo della polizia di Napoli allerta il ministero degli Interni: «I militari della marina italiana persistono nell'arrecare disturbo ai militari alleati che si accompagnano con donne italiane nei cui confronti essi si abbandonano a deprecabili atti tra cui quello di tagliare la capigliatura delle donne». La guerra sta finendo, comincia il battibecco.

Marocchinate. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Con il termine marocchinate vengono generalmente definiti tutti gli episodi di violenza sessuale e violenza fisica di massa, ai danni di svariate migliaia di individui di tutte le età (ma soprattutto di donne) effettuati dai goumier francesi inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expéditionnaire français en Italie - CEF) durante la campagna d'Italia della seconda guerra mondiale. Questi episodi di violenza sfociavano a volte anche in esecuzioni coatte degli abitanti delle zone sottoposte a razzia e violenza, e raggiunsero l'apice durante i giorni immediatamente successivi l'operazione Diadem e lo sfondamento della linea Gustav da parte degli Alleati.

I Fatti.

Il 14 maggio 1944 i goumier del Corpo di spedizione francese in Italia, attraversando un terreno apparentemente insuperabile nei monti Aurunci, aggirarono le linee difensive tedesche nell'adiacente Valle del Liri, consentendo al XIII Corpo britannico di sfondare la linea Gustav e di avanzare fino alla successiva linea di difesa predisposta dalle truppe germaniche, la linea Adolf Hitler. In seguito a questa battaglia si ritiene che il generale Alphonse Juin abbia dato ai suoi soldati cinquanta ore di "libertà", durante le quali si verificarono i saccheggi dei paesi e le violenze sulla popolazione denominate appunto marocchinate.

A seguito delle violenze sessuali molte persone furono contagiate da sifilide, gonorrea e altre malattie a trasmissione sessuale, e solo l'uso della penicillina statunitense salvaguardò quelle zone da una vasta epidemia. Molte donne rimasero incinte e altrettante abortirono o ebbero aborti spontanei; benché non siano state fatte ricerche in merito, si ritiene che si verificarono diversi casi di suicidio tra le donne violentate, nonché molti casi di infanticidio della prole nata dallo stupro.

Per le migliaia di donne ingravidate, il solo orfanotrofio di Veroli, accoglieva dopo la guerra circa 400 bambini nati da quelle violenze sessuali.

Le testimonianze.

Il sindaco di Esperia (comune in provincia di Frosinone) affermò che nella sua città 700 donne su un totale di 2.500 abitanti furono stuprate, e alcune di esse, in seguito a ciò, morirono. Con l'avanzare degli Alleati lungo la penisola, eventi di questo tipo si verificarono altrove: nel Lazio settentrionale e nella Toscana meridionale.

Lo scrittore Norman Lewis, all'epoca ufficiale britannico sul fronte di Montecassino, narrò gli eventi:

«Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate... A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n'erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi. I marocchini di solito aggrediscono le donne in due - uno ha un rapporto normale, mentre l'altro la sodomizza.»

Diverse città laziali furono investite dalla furia dei goumier (truppe marocchine): si segnalano nella Provincia di Frosinone le cittadine di Esperia, Pontecorvo, Vallecorsa, Castro dei Volsci, Vallemaio, Sant'Apollinare, Ausonia, Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, San Giorgio a Liri, Coreno Ausonio, Morolo e Sgurgola, mentre nella Provincia di Latina si segnalano le cittadine di Lenola, Campodimele, Spigno Saturnia, Formia, Terracina, San Felice Circeo, Roccagorga, Priverno, Maenza e Sezze, in cui numerose ragazze e bambine furono ripetutamente violentate, talvolta anche alla presenza dei genitori.

Numerosi uomini che tentarono di difendere le proprie congiunte furono uccisi o violentati a loro volta. Il parroco di Esperia don Alberto Terrilli che cercò invano di salvare tre donne dalle violenze dei soldati, fu legato e sodomizzato tutta la notte, morendo due giorni dopo per le sevizie subite.

A Pico i soldati statunitensi del 351º reggimento fanteria (della 88ª divisione di fanteria, i cui membri erano soprannominati i "blue devils" per la loro ferocia in combattimento) giunsero mentre i goumier stavano compiendo le violenze, ma furono bloccati dal comandante francese del reparto, che disse loro che "erano qui per combattere i tedeschi e non i francesi".

In una relazione redatta il 28 maggio 1944 del capitano italiano Umberto Pittali viene detto che “ufficiali francesi lasciano ai marocchini una discreta libertà di azione” e “preferiscono ignorare” quanto accade. Secondo un testo

«Addirittura c’è tra loro chi non ha paura di parlare di vero e proprio “diritto di preda” per i reparti marocchini.»

Don Alfredo Salulini nel suo libro Le mie memorie del tempo di guerra (1992, Casamari, Tipolitografia dell'Abbazia), racconto autobiografico, cita un episodio di una giovane ragazza di appena 16 anni tenuta prigioniera in un casolare di campagna all'inizio di Vallecorsa e costretta a subire violenza carnale da un intero plotone di goumiers (anche soldati francesi che si nascondevano tra loro), morta dopo una settimana di violenze.

«A S. Andrea, i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 goumiers; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne. A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti, con 400 denunce presentate. Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella. Dopo la violenza di gruppo, verrà ammazzata. A Polleca si toccò l’apice della bestialità. Luciano Garibaldi scrive che dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Una testimonianza, da un verbale dell’epoca, descrive la loro modalità tipica: “I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa, colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre, da altri militari, veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi”»

Da alcuni documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, risulta che a Pico furono violentate 51 donne da 181 franco-africani e da 45 francesi bianchi. Questi crimini vennero minimizzati dalla Francia, sostenendo che erano state le donne italiane, in molti casi, a provocare i militari marocchini.

«2.-Comunque forti possono essere i nostri sentimenti nei riguardi di una Nazione che odiosamente tradì la Francia noi dobbiamo mantenere un’attitudine dignitosa.»

(Dal Memorandum del generale d’armata Juin, 24 maggio 1944)

Conseguenze.

Le reazioni delle autorità.

Il 18 giugno del 1944 papa Pio XII sollecitò Charles de Gaulle a prendere provvedimenti per questa situazione. Ne ricevette una risposta accorata e al tempo stesso irata nei confronti del generale Guillaume. Ancora, il cardinale francese Tisserant rivolse una lamentela al generale Juin, che rispose che "si era provveduto alla fucilazione di 15 militari, accusati di stupri, colti sul fatto, mentre altri 54, colpevoli di violenze varie e omicidi, erano stati condannati a diverse pene compresi i lavori forzati a vita". Entrò quindi in scena la magistratura francese, che fino al 1945 avviò 160 procedimenti giudiziari nei confronti di 360 individui. I reparti coloniali vennero alla fine ritirati e la 2ª divisione marocchina venne reimpiegata sul fronte tedesco, nella Foresta Nera e a Freudenstadt, nell'aprile del 1945, dove accaddero ancora episodi di stupri e rapine.

Il giallo del volantino.

Per quanto l'originale sia introvabile, si conosce la traduzione di un volantino in francese e arabo che sarebbe circolato tra i goumier: «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete»

(Traduzione dell'associazione nazionale vittime civili.)

La storia del volantino, tuttavia, potrebbe essere stata solo una storia messa in giro per far ricadere la colpa dell'intera vicenda sul generale Juin. Con l'accettazione dell'esistenza di questo volantino (della cui reale esistenza non esistono prove), infatti, si nega la possibilità che questo fenomeno abbia interessato mezza Italia.

Un'ulteriore prova che questo fenomeno non fosse circoscritto alle 50 ore di cui parlerebbe il volantino sarebbe la presenza di moduli prestampati per denunciare le violenze effettuate dai marocchini.

Anche se si nega l'esistenza del volantino, tuttavia, l'acquiescenza di comandanti ed ufficiali ed il carattere sistematico delle violenze hanno portato a definire l'idea di una libertà di azione concessa ai soldati nei confronti dei civili. Ai soldati marocchini, cioè, sarebbe stato concesso il diritto di preda.

Dati sulle violenze.

Una nota del 25 giugno del 1944 del comando generale dell'Arma dei Carabinieri dell'Italia liberata alla Presidenza del Consiglio, segnalerebbe nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo, e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno 1944, giorni della liberazione di Roma), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, 29 omicidi, e 517 furti.

Numerosi stupri si sono verificati anche nei comuni di Latina, Lenola, Campodimele, Fondi, Formia, Sabaudia, San Felice Circeo, Sezze, Cori, Norma, Roccagorga, Latina, Maenza, Prossedi, Spigno Saturnia, Frosinone, Ceccano, Giuliano di Roma, Vallecorsa, Castro dei Volsci, Villa Santo Stefano, Amaseno, Esperia, Supino, Pofi, Pratica, Pastena, Pico, Pontecorvo.

Le stime ammonterebbero a circa 3.100 casi, come riportato in una inchiesta italiana sottostimata per difetto fino ai dati probabilmente inverosimili delle 50.000 denunce presentate entro la fine del conflitto[21].

Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi (presidente dell'UDI) denunciò che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze[22] da parte delle truppe "Magrebine" del generale Alphonse Juin. Al convegno "Eroi e vittime del '44: una memoria rimossa" tenutasi a Castro dei Volsci il 15 ottobre 2011, il Presidente dell'Associazione Nazionale Vittime delle "Marocchinate" Emiliano Ciotti fa una stima dello stupro di massa: «Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono un minimo di 20.000 casi accertati di violenze, numero che comunque non rispecchia la verità; diversi referti medici dell'epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, sia per vergogna o pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal "Corpo di Spedizione Francese", che iniziò le proprie attività in Sicilia e le terminò alle porte di Firenze, possiamo affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, e ben 180.000 violenze carnali. I soldati magrebini mediamente stupravano in gruppi da 2 (due) o 3 (tre), ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 magrebini»

Episodi simili.

Queste violenze non vennero compiute solo in questa zona dell'Italia: il fenomeno sarebbe iniziato già dal luglio 1943 dopo lo sbarco alleato in Sicilia, proseguendo poi nel resto della penisola. Si sarebbe arrestato solo nell'ottobre del '44 alle porte di Firenze, quando il corpo di spedizione francese fu trasferito in Provenza.

In Sicilia, i goumier avrebbero avuto scontri molto accesi con la popolazione per questo motivo: si parla del ritrovamento di alcuni goumier uccisi con i genitali tagliati (secondo alcuni un chiaro segnale). La violenza era su donne e uomini, ma soprattutto su donne, per cui i siciliani, oltre a nascondere le donne in rifugi naturali o artificiali come grotte o pozzi, in diversi casi reagirono come a Capizzi, dove una quindicina di marocchini vennero uccisi con l'acquiescenza delle autorità militari alleate; in altri casi gli autori degli stupri vennero uccisi a roncolate o evirati, dilaniati e dati in pasto ai maiali.

«Dato il coinvolgimento di sottufficiali e ufficiali bianchi, alcuni dei quali italofoni in quanto corsi, non presenti nei reparti di truppa goumier, si può affermare che i violentatori si annidavano in tutte e quattro le divisioni del Cef. Forse anche per questo, gli ufficiali francesi non risposero ad alcuna sollecitazione da parte delle vittime e assistettero impassibili all’operato dei loro uomini. Come riportano le testimonianze, quando i civili si presentavano a denunciare le violenze, gli ufficiali si stringevano nelle spalle e li liquidavano con un sorrisetto”. Questo atteggiamento perdurò fino all’arrivo in Toscana del Cef. Qui ricominciarono le violenze a Siena, ad Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. Perfino membri della Resistenza dovettero subire gli abusi. Come testimonia il partigiano rosso Enzo Nizza: ”Ad Abbadia contammo ben sessanta vittime di truci violenze, avvenute sotto gli occhi dei loro familiari. Una delle vittime fu la compagna Lidia, la nostra staffetta. Anche il compagno Paolo, avvicinato con una scusa, fu poi violentato da sette marocchini. I comandi francesi, alle nostre proteste, risposero che era tradizione delle loro truppe coloniali ricevere un simile premio dopo una difficile battaglia”.»

(Da: La ciociara e le altre, (1998), Massimo Lucioli e Davide Sabatini)

Le truppe francesi presero parte all'invasione della Germania e alla Francia fu assegnata una zona di occupazione in Germania. Secondo Perry Biddiscombe, i francesi commisero "385 stupri nell'area di Costanza, 600 a Bruchsal e 500 a Freudenstadt". Commisero inoltre uno stupro di gruppo nel distretto di Höfingen, vicino Leonberg.

Anche nella Germania meridionale i goumier si abbandonarono a violenze e stupri di gruppo ai danni della popolazione. Secondo Norman Naimark, storico statunitense, le truppe marocchine integrate nell'esercito francese occupante dimostrarono comportamenti simili a quelli dell'Armata Rossa, specialmente durante l'occupazione del Baden e del Württemberg[27].

Il fenomeno nel cinema e nel teatro.

«Adesso lui mi stava sopra; e io mi dibattevo con le mani e con le gambe; e lui sempre mi teneva fissa la testa a terra contro il pavimento, tirandomi i capelli con una mano; e intanto sentivo che con l'altra andava alla veste e me la tirava su verso la pancia e poi andava tra le gambe; e tutto a un tratto gridai di nuovo, ma di dolore, perché lui mi aveva acchiappato per il pelo con la stessa forza con la quale mi tirava i capelli per tenermi ferma la testa» (Alberto Moravia, La ciociara)

Il film La ciociara, ispirato al romanzo omonimo di Alberto Moravia e diretto da Vittorio De Sica, culmina con la violenza da parte dei goumier sulle protagoniste, madre e figlia adolescente; la madre chiama i violentatori "turchi", in un disperato sfogo verso degli ufficiali francesi che si fingono scettici.

Nel 2013 è stata rappresentata la pièce teatrale "La Marocchinata" scritta e diretta da Stefania Catallo, basata sulla testimonianza di una vittima.

Il 13 giugno 2015 è andata in scena all'Opera di San Francisco l'opera Two women (La ciociara), tratta dal romanzo di Moravia e dalla sceneggiatura cinematografica di Luca Rossi, e musicata da Marco Tutino, su libretto dello stesso Tutino e di Fabio Ceresa. L'opera è stata poi ripresa, in prima europea, al Teatro lirico di Cagliari il 24 novembre 2017, ed anche ripetutamente teletrasmessa dalla RAI su Rai 5.

Ad agosto 2016 ha debuttato al Festival "Narrastorie - Il Festival del racconto di strada" lo spettacolo "Le Marocchinate", un monologo scritto da Simone Cristicchi e Ariele Vincenti ed interpretato da quest'ultimo.

Stupri liberatori in Italia. Discussione aperta da Artamano su it.cultura.storia.narkive.com

IL CASO DELLE DONNE ITALIANE STUPRATE DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE AL CENTRO DI NUOVE RICERCHE.

1. La ciociara e le altre di Giovanni De Luna 

Vennero a combattere in Italia da tutti gli angoli del mondo: americani, francesi, inglesi, tedeschi, neozelandesi, indiani, polacchi, senegalesi, marocchini, algerini, tunisini, nepalesi, ecc.. Per quasi due anni, dal luglio del 1943 al maggio 1945, subimmo una durissima legge del contrappasso: il fascismo che aveva inseguito i suoi deliri imperiali in terre lontane, portò la guerra sull'uscio delle nostre case, in un turbinio di stragi naziste (15 mila vittime civili), bombardamenti (65 mila vittime civili), rappresaglie, battaglie campali. Invasori, liberatori, occupanti, comunque si chiamassero, le truppe straniere guardarono all'Italia come a un paese vinto. E si comportarono di conseguenza. Si materializzò così l'incubo delle violenze e degli stupri, l'altra faccia della «guerra al femminile». Anni fa, un bel libro curato di Anna Bravo, (Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, 1991) ospitava un saggio di Ernesto Galli della Loggia che utilizzava quell'espressione per indicare nella seconda guerra mondiale una straordinaria occasione di protagonismo per le donne, chiamate a interpretare ruoli inediti (per esempio sul lavoro), a svolgere compiti difficili, con il peso sulle spalle della salvezza dei propri uomini e della sopravvivenza delle proprie famiglie. Il lato oscuro di questa visibilità fu l'ondata di violenza di cui furono vittime. Lo spiega bene un libro più recente (Donne guerra e politica, a cura di D.Gagliani, E. Guerra. L.Mariani e F.Tarozzi, Clueb, 2001): gli stupri diventano per gli eserciti vittoriosi l'occasione per l'esercizio di un potere anche simbolicamente straripante, in grado di espropriare gli sconfitti non solo della loro dimensione pubblica (il loro Stato, il loro territorio nazionale) ma anche di quella privata, penetrando nelle loro case, squarciandone gli interni domestici, spezzandone i legami di cittadinanza insieme a quelli familiari e parentali. Tra il 1943 e il 1945 sulle donne italiane si scatenarono violenze di tutti i tipi e su tutti i fronti: sulla «linea gotica», i tedeschi infierirono soprattutto nei dintorni di Marzabotto, quasi a voler reiterare la strage in altre forme (Dianella Gagliani, La guerra totale e civile: il contesto, la violenza e il nodo della politica ); sull'appennino ligure-piemontese, nel 1944, in sei mesi, si registraroono 262 casi di stupro ad opera dei «mongoli» (i disertori dell'Asia sovietica arruolati nell'esercito tedesco). Ma niente può eguagliare l'orrore che investì le «marocchinate»: è una brutta parola, ma allora la usavano tutti e si capiva subito di cosa si parlava. Nel 1960, Vittorio De Sica ne immortalò le sofferenze in un film che valse l'Oscar a Sofia Loren. La ciociara era tratto da un romanzo di Alberto Moravia. Paradossalmente, mentre il cinema e la letteratura trovarono subito i modi per raccontare le scene che si svolsero allora nelle terre in cui, a combattere i tedeschi, arrivarono le truppe delle colonie francesi (non solo marocchini, ma anche tunisini, algerini, ecc...), gli storici furono come bloccati, lasciando praticamente sguarnita di studi e ricerche quella pagina dolorosa della nostra storia. A rompere questo inquietante silenzio è ora un libro appena uscito in Francia e di prossima pubblicazione anche nella sua traduzione italiana: Jean-Christophe Notin, La campagne d'Italie. Les victoires oublièes de la France, 1943-1945, Perrin, 2002. In realtà, come si capisce immediatamente dal titolo, a Notin preme soprattutto indicare nella campagna d'Italia, «l'occasione per la Francia di provare agli Alleati, ma anche a se stessa, che continuava a essere una grande nazione». Grazie al loro impegno a Cassino, nei furibondi combattimenti che si accesero sulla «linea Gustav», i francesi riuscirono a riconquistare la stima degli angloamericani, facendo dimenticare l'ignavia della capitolazione del giugno del 1940, il collaborazionismo di Vichy, le ambiguità di Giraud e delle truppe rimaste nell'Africa del Nord. E alla fine vennero premiati: il trattato di pace del 1947 sancì una rettifica delle frontiere alpine con l'Italia che assegnò alla Francia uno spicchio di territorio pari a 709 chilometri quadrati. Pochi, ma come sottolinea Notin, anche l'unico ingrandimento territoriale conquistato in guerra dalla Francia in tutto il Novecento! I 130 mila francesi furono schierati sul fianco sinistro della V° Armata americana e subito scaraventati al fronte, nella fornace ardente di Cassino. E furono proprio i soldati agli ordini del generale Juin i primi a sfondare, il 13 maggio 1944, i capisaldi della linea Gustav. Poi, «la furia francese» (nel libro viene usato proprio questo termine) rotolò lungo la valle del

Liri, sconvolse il frusinate, proseguì verso Nord, verso Roma, verso la Toscana e lì si fermò. Nell'agosto del 1944, dopo lo sbarco alleato sulle coste della Provenza, le truppe di Juin furono richiamate in patria. Alle loro spalle lasciarono ben 7485 caduti ma anche una scia di lagrime. Per Notin i «marocchini» non si arruolarono per patriottismo ma per altre ragioni: la prospettiva di un salario sicuro, la possibilità di acquistare prestigio guerriero, la fedeltà ai loro clan. Non erano solo «marocchini» ma provenivano da tutte le popolazioni più povere del Maghreb, gente di montagna, analfabeti nei cui confronti gli ufficiali francesi dovevano essere di volta in volta padri, saggi consiglieri spirituali, capi tribù. Le loro figure intabarrate nei mantelli marrone (burnous), i pugnali alla cintura, le voci di sgozzamenti notturni, di orecchie e nasi mozzati ai nemici, alimentavano una fama da incubo ancestrale. Se dobbiamo credere a Notin, andavano all'attacco salmodiando la Chahada, («la Allah illah Allah! Mohammed Rassoul Allah!»), catturavano i tedeschi per rivenderli (500-600 franchi per un soldato semplice, il triplo per un ufficiale superiore) ai militari americani desiderosi di costruirsi una reputazione guerriera senza rischiare. La prima notizia di un loro stupro è dell'11 dicembre 1943; si tratta di 4 casi che coinvolgevano - secondo fonti americane - i soldati della 573° compagnia comandata da un sottotenente francese «che sembrava incapace di controllarli». Notin annota: «sono i primi echi di comportamenti reali, o più spesso immaginari, di cui saranno accusati i marocchini». Tanto immaginari però non dovevano essere se, già nel marzo 1944, De Gaulle, durante la sua prima visita al fronte italiano, parla di rimpatriare i goums ( o goumiers, come venivano chiamati) in Marocco e impegnarli solo per compiti di ordine pubblico. In quello stesso mese gli ufficiali francesi chiesero insistentemente di rafforzare il contingente di prostitue al seguito delle le truppe nordafricane: occorreva ingaggiare 300 marocchine e 150 algerine; ne arrivarono solo 171, marocchine. Dopo lo sfondamento della linea Gustav, la «furia francese» travolse soprattutto il paesino di Esperia, che aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier generale della 71° divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio oltre 600 donne furono violentate; identica sorte subirono anche numerosi uomini e lo stesso parroco del paese. Il 17 maggio, i soldati americani che passavano da Spigno sentirono le urla disperate delle donne violentate: al sergente Mc Cormick che chiedeva cosa fare, il sottotenente Buzick rispose: «credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa». Ma gli alleati erano sinceramente scandalizzati: un rapporto inglese parlava di donne e ragazze, adolescenti e fanciulli stuprati per strada, di prigionieri sodomizzati, di ufficiali evirati. Pio XII sollecitò (il 18 giugno) De Gaulle in questo senso, ricevendone una risposta accorata accompagnata da un'ira profonda che si riversò sul generale Guillaume, capo dei «marocchini». Si mosse la magistratura militare francese: fino al 1945 furono avviati 160 procedimenti giudiziari che riguardavano 360 individui; ci furono condanne a morte e ai lavori forzati. A queste cifre sicure occorre aggiungere il numero, sconosciuto, di quanti furono colti sul fatto e fucilati immediatamente (15 «marocchini» solo il 26 giugno). Si tratta comunque di alcune centinaia di casi. Le fonti italiane danno cifre molto diverse. Una ricerca in merito (Vania Chiurlotto, Donne come noi. Marocchinate, 1944-Bosniache, in DWF, n.17, 1993) parla di 60 mila donne stuprate. Un numero enorme, spaventoso. Fu proprio a Esperia che nacquero le prime voci sulla «carta bianca». Come premio per aver sfondato la linea Gustav, gli ufficiali francesi avrebbero concesso 24 ore in cui tutto era permesso. Notin smentisce con forza. Resta il fatto che la disposizione dei francesi nei nostri confronti non era delle migliori: nessuno aveva dimenticato la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940, il bombardamento di Blois senza necessità militari, i mitragliamenti delle colonne di rifugiati a sud della Loira. Però pur ammettendo una certa riluttanza delle autorità francesi nel punire le violenze, la disparità con le cifre di parte italiana resta enorme. I nostri dati si fondano sulle 60 mila richieste di indennizzo presentate dalle donne italiane. I francesi pagarono da un minimo di 30 mila a un massimo di 150 mila fino al 1 agosto 1947. Da quel momento a pagare fu lo Stato italiano, stornando i fondi dai 30 miliardi dovuti alla Francia per le riparazioni di guerra. Molti problemi nacquero dal fatto che le donne, oltre all'indennizzo, chiesero anche la pensione come vittime civili di guerra e che per legge i due benefici non erano cumulabili. Ne scaturì un groviglio

di questioni burocratiche, ritardi, lamentele. A organizzare le proteste furono soprattutto le comuniste dell'Udi. Nel 1951 un'affollatissima assemblea di donne in un cinema di Pontecorvo affrontò la questione delle marocchinate, provocando un infuocato dibattito parlamentare. Il Pci, in piena guerra fredda, si fece paladino del nostro onore nazionale; nel 1966, in un clima politico radicalmente diverso, toccò al monarchico Alfredo Covelli risollevare la questione dei 60 mila stupri. Nel 1993 su quegli eventi è tornato Tahar Ben Jelloun, (Gloria Chianese, Rappresaglie naziste, saccheggi e violenze alleate nel Sud, in Italia contemporanea, n.202, 1996). Ma, indipendentemente dalle ragioni dell'«uso pubblico della storia», in tutta quella vicenda restano interrogativi pesanti e angosciosi. Ammettere di essere stata stuprata è per una donna un'esperienza devastante. Eppure furono in 60 mila a farlo. La spiegazione di Notin è raggelante. Su quegli stupri furono messe in giro molte «voci» interessate: dalle autorità francesi in Marocco che volevano sollecitare un rapido rientro delle truppe a casa; dalla Santa Sede che ingigantiva le dimensioni del pericolo islamico; dai tedeschi per spaventare le popolazioni e per nascondere i propri massacri. Per il resto, la colpa fu in parte della rilassatezza dei costumi delle donne italiane, in parte delle abitudini tribali dei marocchini. Per parte nostra, solo una constatazione. Nei paesi colpiti spesso furono i sindaci a raccogliere le richieste di indennizzo e, nell'interesse della comunità, si arrivò a dichiarare la violenza anche quando non era stata subita. Il fatto è che la miseria travolse anche il pudore e le 60 mila marocchinate furono costrette a scegliere lo scandalo e la vergogna di uno stupro «falso» per ottenere i soldi «veri» che servivano alle loro famiglie e alla loro comunità. 

2. Le marocchinate. Alberto Moravia ci scrisse un libro e Vittorio De Sica ne ricavò un film, La Ciociara, con Sofia Loren, dove si mostra lo stupro delle due protagoniste, madre e figlia. Dopo più di cinquant'anni si torna a parlare di «marocchinate». Allora questa parola la usavano tutti e si capiva subito di cosa si parlava. Con questo brutto termine vengono indicate quelle donne, ma anche bambini di entrambi i sessi, uomini, religiosi e in qualche caso animali, vittime delle violenze dei soldati marocchini del Corps expeditionnaire francais (Cef), comandati dal generale Juin. Furono migliaia. Come afferma lo studioso belga Pierre Moreau: "Mai tali tragici avvenimenti sono stati menzionati dalla letteratura storica della seconda guerra mondiale, tanto in quella in lingua francese, quanto quella in lingua olandese ed inglese". Invece è dimostrato che non fu solo la popolazione degli Aurunci a subire le violenze durante le famose cinquanta ore di «premio» promesse da Juin alle truppe se avessero sfondato la linea di Cassino, ma che il fenomeno partì dal luglio '43 in Sicilia, attraversò il Lazio e la Toscana e terminò solo con il trasferimento del Cef in Provenza, nell'ottobre del '44. Un'altra fondamentale novità che la denuncia e gli studi apportano alla vulgata su questi fatti è che non furono solo i marocchini a macchiarsi di tali nefandezze, ma anche algerini, tunisini e senegalesi. Nonché «bianchi» francesi: ufficiali, sottufficiali e di truppa. E qualche italiano aggregato ai «liberatori». Quando gli eserciti anglo americani giunsero nel gennaio del 1944 di fronte alla linea Gustav, i loro comandanti certamente non pensarono che la celere avanzata verso Roma, si sarebbe trasformata in una logorante e sanguinosa guerra di posizione. Nei seguenti mesi invernali, infatti, il generale Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, si ostinò ad attaccare frontalmente le difese tedesche nel settore di Cassino riuscendo a perdere nell'arco di tre distinte battaglie, che comportarono anche la distruzione della storica abbazia, oltre 60.000 uomini. A fronte di questi evidenti insuccessi, nello studio tattico di quella che doveva essere la quarta ed ultima Battaglia per Cassino che portò all'occupazione angloamericana di Roma, il generale Alexander decise di tentare una manovra di aggiramento delle difese tedesche. L'attacco si doveva sviluppare attraverso i monti Aurunici, partendo da Castelforte via Ausonia, monte Petrella, Esperia. Obiettivo finale: il paese di Pontecorvo e la via Casilina. Si sarebbe ottenuto così l'Aggiramento dei difensori di Montecassino. A svolgere questo difficile e delicato compito furono chiamate le truppe del "Corps expeditionnaire Français" (C.E.F.) agli ordini del generale Alphonse Juin. Le forze del C.E.F. comprendevano 99.000 uomini per la maggior parte marocchini e algerini provenienti dalle colonie francesi. Completava l'organico una piccola aliquota di senegalesi. La caratteristica di queste truppe coloniali era l'eccellente addestramento nei combattimenti montani. «Vivere e battersi in montagna era qualcosa di naturale per questi soldati, e un terreno che altri avrebbero considerato un ostacolo era per i nordafricani un alleato». Questi uomini «selvaggi avvolti in luridi barracani, che per mesi, per impedire che compissero violenze sessuali ai danni delle popolazioni civili, erano stati sottoposti al coprifuoco, ed impediti ad uscire dai loro accampamenti recintati con filo spinato», erano denominati "goumiers", in quanto non erano inquadrati in formazioni regolari, ma organizzati in "goums", ossia gruppi composti da una settantina di uomini, molto spesso legati tra loro da vincoli di parentela. All'alba del giorno scelto per l'attacco, il 14 maggio 1944, il generale Juin inoltrò agli uomini della IIa divisione di fanteria (gen. Dody) e della IVa divisione da montagna (gen. Guillaume) il seguente proclama: «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all'ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete». Tale allucinante promessa venne purtroppo rispettata alla lettera. Nei giorni che seguirono la battaglia, terminata il 17 maggio con la caduta di Esperia, i 7.000 "goumiers" sopravvissuti (erano partiti all'attacco in 12.000) devastarono, rubarono, razziarono, uccisero, violentarono. Circa 3.500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni, vennero brutalmente stuprate. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui anche un prete, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Eperia, il quale morì due giorno dopo a causa delle sevizie riportate. Molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati. In una relazione degli anni '50, che alla luce di recenti ricerche riporta dei dati per difetto, testualmente si legge: «circa 2.000 donne oltraggiate, di cui il 20 per cento affette da sifilide, il 90 per cento da blenorragia; molti i figli nati dalle unioni forzose, Il 40 per cento degli uomini contagiati dalle mogli, oltre 800 assassinati perché accorsi a difendere l'onore delle loro madri, mogli, figlie. L'81 per cento dei fabbricati distrutto, il 90 per cento del bestiame sottratto; gioielli, abiti e denaro totalmente rubati». La prima notizia di un loro stupro è dell'11 dicembre 1943; si tratta di 4 casi che coinvolgevano - secondo fonti americane - i soldati della 573° compagnia comandata da un sottotente francese «che sembrava incapace di controllarli». Notin annota: «sono i primi echi di comportamenti reali, o più spesso immaginari, di cui saranno accusati i marocchini». Tanto immaginari però non dovevano essere se, già nel marzo 1944, De Gaulle, durante la sua prima visita al fronte italiano, parla di rimpatriare i goums (o goumiers, come venivano chiamati) in Marocco e impegnarli solo per compiti di ordine pubblico. In quello stesso mese gli ufficiali francesi chiesero insistentemente di rafforzare il contingente di prostitute al seguito delle le truppe nordafricane: occorreva ingaggiare 300 marocchine e 150 algerine; ne arrivarono solo 171, marocchine. Dopo lo sfondamento della linea Gustav, la «furia francese» travolse soprattutto il paesino di Esperia, che aveva come unica colpa quella di essere stato sede del quartier generale della 71° divisione tedesca. Tra il 15 e il 17 maggio oltre 600 donne furono violentate; identica sorte subirono anche numerosi uomini e lo stesso parroco del paese. Il 17 maggio, i soldati americani che passavano da Spigno sentirono le urla disperate delle donne violentate: al sergente Mc Cormick che chiedeva cosa fare, il sottotenente Buzick rispose: «credo che stiano facendo quello che gli italiani hanno fatto in Africa». Ma gli alleati erano sinceramente scandalizzati: un rapporto inglese parlava di donne e ragazze, adolescenti e fanciulli stuprati per strada, di prigionieri sodomizzati, di ufficiali evirati. Pio XII sollecitò (il 18 giugno) De Gaulle in questo senso, ricevendone una risposta accorata accompagnata da un'ira profonda che si riversò sul generale Guillaume, capo dei «marocchini». Si mosse la magistratura militare francese: fino al 1945 furono avviati 160 procedimenti giudiziari che riguardavano 360 individui; ci furono condanne a morte e ai lavori forzati. A queste cifre sicure occorre aggiungere il numero, sconosciuto, di quanti furono colti sul fatto e fucilati immediatamente (15 «marocchini» solo il 26 giugno). Si tratta comunque di alcune centinaia di casi. Le fonti italiane danno cifre molto diverse. Una ricerca in merito parla di 60 mila donne stuprate. Un numero enorme, spaventoso. In realtà la stima delle vittime non è chiara, ci si basa principalmente sulle richieste di indennizzo delle quali non si conosce la veridicità. Fu proprio a Esperia che nacquero le prime voci sulla «carta bianca». Resta il fatto che la disposizione dei francesi nei nostri confronti non era delle migliori: nessuno aveva dimenticato la pugnalata alle spalle del 10 giugno 1940, il bombardamento di Blois senza necessità militari, i mitragliamenti delle colonne di rifugiati a sud della Loira . Però pur ammettendo una certa riluttanza delle autorità francesi nel punire le violenze, la disparità con le cifre di parte italiana resta enorme. Questi dati si fondano sulle 60 mila richieste di indennizzo presentate dalle donne italiane. I francesi pagarono da un minimo di 30 mila a un massimo di 150 mila fino al 1 agosto 1947. Da quel momento a pagare fu lo Stato italiano, stornando i fondi dai 30 miliardi dovuti alla Francia per le riparazioni di guerra. Molti problemi nacquero dal fatto che le donne, oltre all'indennizzo, chiesero anche la pensione come vittime civili di guerra e che per legge i due benefici non erano cumulabili. Ne scaturì un groviglio di questioni burocratiche, ritardi, lamentele. A organizzare le proteste furono soprattutto le comuniste dell'Udi. Nel 1951 un'affollatissima assemblea di donne in un cinema di Pontecorvo affrontò la questione delle marocchinate, provocando un infuocato dibattito parlamentare. Ma, indipendentemente dalle ragioni dell'«uso pubblico della storia», in tutta quella vicenda restano interrogativi pesanti e angosciosi. Ammettere di essere stata stuprata è per una donna un'esperienza devastante. Eppure furono in 60 mila a farlo. La spiegazione di Notin è raggelante. Su quegli stupri furono messe in giro molte «voci». Nei paesi colpiti spesso furono i sindaci a raccogliere le richieste di indennizzo e, nell'interesse della comunità, si arrivò a dichiarare la violenza anche quando non era stata subita. Il fatto è che la miseria travolse anche il pudore e le 60 mila marocchinate furono costrette a scegliere lo scandalo e la vergogna di uno stupro «falso» per ottenere i soldi «veri» che servivano alle loro famiglie e alla loro comunità. Sin qui, dunque, la tragica cronaca dei fatti. Mentre precedentemente si individuò come unico e solo responsabile il Generare Juin, oggi si può senz'altro affermare che le maggiori responsabilità ricadono su ben altre persone, quali il generale De Gaulle diretto superiore di Juin ed il ministro degli affari economici del governo francese in esilio a Londra, André Diethelm, che nei giorni del terrore "goumiers" si trovavano in Ciociaria per la precisione ad Esperia. Non poterono quindi non vedere come si comportarono i loro coloniali! Altrettanto evidente, a chi guardi ai fatti con obiettività, è la responsabilità del Generare Harold Alexander, che sentitosi chiedere da Juin l'autorizzazione a mettere in pratica tale scellerato disegno, anziché farlo immediatamente arrestare, diede il suo consenso, limitandosi a contrattare il termine temporale dello scempio (50 ore) senza curarsi minimamente della sorte delle inermi popolazioni. «Per lui l'impresa dei goumiers significava soltanto aver fatto una breccia nelle difese tedesche, attraverso la quale far passare comodamente gli inglesi della 78a divisione, tenuta sinora di riserva». A fronte di quanto detto, si può certamente sostenere che non si trattò di azioni casuali e sporadiche, derivanti da una concezione ancestrale e tribale della guerra propria dei nordafricani, come qualcuno in passato ha affermato. Vista la presenza in quei luoghi del comandante del Comitato di Liberazione Nazionale francese (De Gaulle), di un ministro del governo francese (Diethelm), e visto il consenso di Alexander, anche se mancano prove documentali, non si può non esser legittimati a pensare che tale infame azione possa essere stata pianificata direttamente al tavolo dello stato maggiore alleato. Ancor più comprensibile è che le istituzioni repubblican-resistenziali abbiano relegato per 50 anni questi episodi in un angolo oscuro della storia, viste le evidenti e dirette responsabilità nei fatti sommariamente descritti. Non si deve dimenticare che il 13 ottobre del 1943 il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania, divenendo il cobelligerante degli angloamericani, e dunque corresponsabile delle azioni dello stato maggiore alleato. A riprova di quanto affermato, sta il fatto che, per quanto se ne sa, in merito a questi episodi mai fu sollevata una protesta da parte del governo di Unità Nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi, così come del resto nulla è stato fatto dai vari governi nei 50 anni successivi, per "loro" i fatti della Ciociaria non sono mai accaduti. A tanti anni di distanza questo crimine, così come tanti altri, le foibe, il massacro dei bimbi di Gorla, il lancio delle penne esplosive e delle bombe a farfalla, i delitti commessi dai partigiani, non possono essere taciuti solamente perché commessi dalla parte vincitrice.

3. I crimini degli alleati: la campagna d'Italia "43-"45.

I Francesi

Quando gli eserciti anglo americani giunsero nel gennaio del 1944 di fronte alla linea Gustav, i loro comandanti certamente non pensavano che la celere avanzata verso Roma, si sarebbe trasformata in una logorante e sanguinosa guerra di posizione. Nei seguenti mesi invernali infatti, il generale Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, si ostinò ad attaccare frontalmente le difese tedesche nel settore di Cassino riuscendo a perdere nell'arco di tre distinte battaglie, che comportarono la distruzione della storica abbazia, oltre 60.000 uomini. A fronte di questi evidenti insuccessi, nello studio tattico di quella che doveva essere la quarta ed ultima Battaglia per Cassino che portò all'occupazione angloamericana di Roma, il generale Alexander decise di tentare una manovra di aggiramento delle difese tedesche. L'attacco si doveva sviluppare attraverso i monti Aurunici, partendo da Castelforte via Ausonia, monte Petrella, Esperia. Obiettivo finale: il paese di Pontecorvo e la via Casilina. Si sarebbe ottenuto così l'aggiramento dei difensori di Montecassino. A svolgere questo difficile compito furono chiamate le truppe del " Corps expeditionnaire Francaise" ( C.E.F.) agli ordini del generale Alphonse Juin. Le forze del CEF comprendevano 99.000 uomini, per la maggior parte marocchini e algerini provenienti dalle colonie francesi. Completava l'organico una piccola aliquota di senegalesi. La caratteristica di queste truppe coloniali era l'eccellente addestramento nei combattimenti montani. " Vivere e battersi in montagna era qualcosa di naturale per questi "soldati, meglio sarebbe chiamarli criminali, e un terreno che altri avrebbero considerato un ostacolo era per i nordafricani un alleato". Questi uomini " selvaggi avvolti in luridi barracani, che per mesi, per impedire che compissero violenze sessuali ai danni delle popolazioni civili, erano stati sottoposti al coprifuoco, ed impediti ad uscire dai loro accampamenti recintati con filo spinato", erano denominati " goumiers", in quanto non erano inquadrati in formazioni regolari, ma organizzati in " goums", ossia gruppi composti da una settantina di uomini, molto spesso legati tra loro da vincoli di parentela. All'alba del giorno scelto per l'attacco, il 14 maggio 1944, il generale Juin inoltrò agli uomini della IIa divisione di fanteria- gen.Dody- e della IVa divisione da montagna-ge. Guillaume- il seguente proclama: Il Generale Juin..." Soldati!Questa non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all'ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per

cinquanta ore sarete padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete"" Tale allucinante promessa venne purtroppo rispettata alla lettera. Nei giorni che seguirono la battaglia, terminata il 17 maggio con la caduta di Esperia, i 7000 " goumiers" sopravvissuti -erano partiti all'attacco in 12.000-devastarono, rubarono, uccisero, violentarono. Circa 3500 donne, di età tra gli 8 e gli 85 anni, vennero brutalmente stuprate. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui anche un prete, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Esperia, il quale morì due giorni dopo a causa delle sevizie riportate. Molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati...In una relazione degli anni "50, che alla luce di recenti ricerche riporta dei dati per difetto, testualmente si legge: " circa 2000 donne oltraggiate, di cui il 20 % affette da sifilide, il 90% da blenorragia; molti i figli nati dalle unioni forzose-. Il 40% degli uomini contagiati dalle mogli, oltre 800 assassinati perché accorsi a difendere l'onore delle loro madri, mogli, figlie. L'81% dei fabbricati distrutto, il 90% del bestiame sottratto; gioielli,abiti e denaro totalmente rubati ". Sin qui dunque, la tragica cronaca dei fatti. Ma l'aspetto storicamente più significante, derivante da un lavoro di

ricerca le cui conclusioni saranno prossimamente pubblicate in un volume, è inerente l'attribuzione delle responsabilità di questa triste pagina della storia d'Italia. Infatti, se sino ad ora una storiografia artatamente miope ha individuato come unico e solo responsabile il Generale Juin, oggi si può senz'altro affermare che le maggiori responsabilità ricadano su ben altre persone, quali il Generale de Gaulle diretto superiore di Juin ed il ministro degli affari economici del governo francese in esilio a Londra, André Diethelm, che nei giorni del " terrore goummiers" si trovavano in Ciociara per la precisione ad Esperia. Non poterono quindi non vedere come si comportarono i loro " criminali coloniali". Altrettanto evidente, a chi guardi ai fatti con obiettività, è la responsabilità del Generale Alexander, che sentitosi chiedere da Juin l'autorizzazione a mettere in pratica lo scellerato disegno, anziché farlo immediatamente arrestare, diede il suo consenso, limitandosi a contrattare il termine temporale dello scempio (50 ore), senza curarsi della sorte delle inermi popolazioni. " Per lui l'impresa significava soltanto aver fatto breccia nelle difese tedesche, attraverso la quale far passare comodamente gli inglesi della 78a divisione, tenuta sinora di riserva". A fronte di quanto detto, si può certamente sostenere che non si trattò di azioni casuali e sporadiche, derivanti da una concezione ancestrale e tribale della guerra propria dei nordafricani, come qualcuno in passato ha affermato. Vista la presenza in quei luoghi del Comandante del Comitato di Liberazione Nazionale Francese, De Gaulle, di un ministro del governo francese, Diethelm, e visto il consenso di Alexander, anche se mancano prove documentali, non si può non essere legittimati a pensare che tale infame azione possa essere stata pianificata direttamente al tavolo dello stato maggiore alleato. Ancor più comprensibile è che le istituzioni repubblicane-resistenziali, abbiano relegato per 50 anni questi episodi in un angolo oscuro della storia, viste le evidenti e dirette responsabilità nei fatti descritti. Non si deve dimenticare che il 13 ottobre del 1943, il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania, divenendo il cobelligerante degli angloamericani, e dunque corresponsabile delle azioni dello stato maggiore alleato. A riprova di quanto affermato, sta il fatto che, per quanto se ne sa, in merito a questi episodi mai fu sollevata una protesta da parte dei governo di Unità Nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi, così come del resto nulla è stato fatto dai vari governi nei 50 anni successivi, per " loro " i fatti della Ciociaria non sono mai accaduti! A tanti anni di distanza riteniamo che questo crimine, così come tanti altri, le foibe, il massacro dei bimbi di Gorla, il lancio delle penne esplosive e delle bombe a farfalla, i delitti commessi dai partigiani, non possano essere taciuti solamente perché commessi dalla parte vincitrice. E' ora di riaffermare la Verità storica, che non può essere nascosta e negata al fine di servire l'interesse di pochi.

Massimo Lucioli-Rinascita 

Libri consigliati: La ciociara e le altre. Il corpo di spedizione francese In Italia "43-"44- Aut. Massimo Lucioli e Davide Sabatini -Ed,Settimo Sigillo-Euro  

4. CRIMINI DI GUERRA IN CIOCIARIA. ORO, VINO E DONNE PER I SOLDATI DI JUIN Nel complice silenzio del governo ciellenista del sud. Giorni di terrore nella Ciociaria conquistata e abbandonata alla violenza e al saccheggio dei "coloniali" nordafricani guidati da un generale francese. Quando gli eserciti anglo americani giunsero nel gennaio del 1944 di fronte alla linea Gustav, i loro comandanti certamente non pensarono che la celere avanzata verso Roma, si sarebbe trasformata in una logorante e sanguinosa guerra di posizione. Nei seguenti mesi invernali, infatti, il generale Harold Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, si ostinò ad attaccare frontalmente le difese tedesche nel settore di Cassino riuscendo a perdere nell'arco di tre distinte battaglie, che comportarono anche la distruzione della storica abbazia, oltre 60.000 uomini. A fronte di questi evidenti insuccessi, nello studio tattico di quella che doveva essere la quarta ed ultima Battaglia per Cassino che portò all'occupazione angloamericana di Roma, il generale Alexander decise di tentare una manovra di aggiramento delle difese tedesche. L'attacco si doveva sviluppare attraverso i monti Aurunici, partendo da Castelforte via Ausonia, monte Petrella, Esperia. Obiettivo finale: il paese di Pontecorvo e la via Casilina. Si sarebbe ottenuto così l'Aggiramento dei difensori di Montecassino. A svolgere questo difficile e delicato compito furono chiamate le truppe del "Corps expeditionnaire Français" (C.E.F.) agli ordini del generale Alphonse Juin. Principali località investite dalla violenza dei "goumiers" Con le frecce è indicata la direttrice principale dell'attacco del CEF. Le forze del C.E.F. comprendevano 99.000 uomini per la maggior parte marocchini e algerini provenienti dalle colonie francesi. Completava l'organico una piccola aliquota di senegalesi. La caratteristica di queste truppe coloniali era l'eccellente addestramento nei combattimenti montani. «Vivere e battersi in montagna era qualcosa di naturale per questi soldati, e un terreno che altri avrebbero considerato un ostacolo era per i nordafricani un alleato». Questi uomini «selvaggi avvolti in luridi barracani, che per mesi, per impedire che compissero violenze sessuali ai danni delle popolazioni civili, erano stati sottoposti al coprifuoco, ed impediti ad uscire dai loro accampamenti recintati con filo spinato», erano denominati "goumiers", in quanto non erano inquadrati in formazioni regolari, ma organizzati in "goums", ossia gruppi composti da una settantina di uomini, molto spesso legati tra loro da vincoli di parentela. All'alba del giorno scelto per l'attacco, il 14 maggio 1944, il generale Juin inoltrò agli uomini della IIa divisione di fanteria (gen. Dody) e della IVa divisione da montagna (gen. Guillaume) il seguente proclama: «Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c'è un vino tra i migliori del mondo, c'è dell'oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all'ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto e promesso mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete». Tale allucinante promessa venne purtroppo rispettata alla lettera. Nei giorni che seguirono la battaglia, terminata il 17 maggio con la caduta di Esperia, i 7.000 "goumiers" sopravvissuti (erano partiti all'attacco in 12.000) devastarono, rubarono, razziarono, uccisero, violentarono. Circa 3.500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni, vennero brutalmente stuprate. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui anche un prete, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Eperia, il quale morì due giorno dopo a causa delle sevizie riportate. Molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati.

Terrore e violenza 

In una relazione degli anni '50, che alla luce di recenti ricerche riporta dei dati per difetto, testualmente si legge: «circa 2.000 donne oltraggiate, di cui il 20 per cento affette da sifilide, il 90 per cento da blenorragia; molti i figli nati dalle unioni forzose -- Il 40 per cento degli uomini contagiati dalle mogli, oltre 800 assassinati perché accorsi a difendere l'onore delle loro madri, mogli, figlie. L'81 per cento dei fabbricati distrutto, il 90 per cento del bestiame sottratto; gioielli, abiti e denaro totalmente rubati». 

Sin qui, dunque, la tragica cronaca dei fatti.

Ma l'aspetto storicamente più significativo, derivante da un lavoro di ricerca le cui conclusioni saranno prossimamente pubblicate in un volume, è inerente l'attribuzione delle responsabilità di questa triste pagina della

storia d'Italia. Infatti, se sino ad ora una storiografia artatamente miope ha individuato come unico e solo responsabile il Generare Juin, oggi si può senz'altro affermare che le maggiori responsabilità ricadono su ben altre persone, quali il generale De Gaulle diretto superiore di Juin ed il ministro degli affari economici del governo francese in esilio a Londra, André Diethelm, che nei giorni del terrore "goumiers" si trovavano in Ciociaria per la precisione ad Esperia. Non poterono quindi non vedere come si comportarono i loro coloniali! Altrettanto evidente, a chi guardi ai fatti con obiettività, è la responsabilità del Generare Harold Alexander, che sentitosi chiedere da Juin l'autorizzazione a mettere in pratica tale scellerato disegno, anziché farlo immediatamente arrestare, diede il suo consenso, limitandosi a contrattare il termine temporale dello scempio (50 ore) senza curarsi minimamente della sorte delle inermi popolazioni. «Per lui l'impresa dei goumiers significava soltanto aver fatto una breccia nelle difese tedesche, attraverso la quale far passare comodamente gli inglesi della 78a divisione, tenuta sinora di riserva». A fronte di quanto detto, si può certamente sostenere che non si trattò di azioni casuali e sporadiche, derivanti da una concezione ancestrale e tribale della guerra propria dei nordafricani, come qualcuno in passato ha affermato. Vista la presenza in quei luoghi del comandante del Comitato di Liberazione Nazionale francese (De Gaulle), di un ministro del governo francese (Diethelm), e visto il consenso di Alexander, anche se mancano prove documentali, non si può non esser legittimati a pensare che tale infame azione possa essere stata pianificata direttamente al tavolo dello stato maggiore alleato.

Complicità di Badoglio 

Ancor più comprensibile è che le istituzioni repubblican-resistenziali abbiano relegato per 50 anni questi episodi in un angolo oscuro della storia, viste le evidenti e dirette responsabilità nei fatti sommariamente descritti. Non si deve dimenticare che il 13 ottobre del 1943 il governo Badoglio dichiarò guerra alla Germania, divenendo il cobelligerante degli angloamericani, e dunque corresponsabile delle azioni dello stato maggiore alleato. A riprova di quanto affermato, sta il fatto che, per quanto se ne sa, in merito a questi episodi mai fu sollevata una protesta da parte del governo di Unità Nazionale presieduto da Ivanoe Bonomi, così come del resto nulla è stato fatto dai vari governi nei 50 anni successivi, per "loro" i fatti della Ciociaria non sono mai accaduti. A tanti anni di distanza riteniamo che questo crimine, così come tanti altri, le foibe, il massacro dei bimbi di Gorla, il lancio delle penne esplosive e delle bombe a farfalla, i delitti commessi dai partigiani, non possano essere taciuti solamente perché commessi dalla parte vincitrice. E' ora di riaffermare la Verità storica, che non può più essere nascosta e negata al fine di servire l'interesse di pochi... 

Massimo Lucioli e Davide Sabatini, LA CIOCIARA E LE ALTRE. Il corpo di spedizione francese in Italia 1943-44. "Le marrocchinate in Italia: i responsabili, le vittime, i retroscena, la vera storia di una tragedia sconosciuta" pag 160. Lire 25.000 Edizioni Settimo Sigillo.

Uomini piccolo piccoli 2 - di Ilaria Romeo il 18 giugno 18 2020 su La CGIL nel novecento. Con il termine marocchinate vengono generalmente definiti tutti gli episodi di violenza sessuale e violenza fisica di massa, ai danni di svariate migliaia di individui di ambo i sessi e di tutte le età (ma soprattutto di donne) effettuati dai goumier francesi inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia (non solo marocchini, dai documenti conservati presso dell’Archivio Centrale dello Stato risulta che anche i francesi bianchi parteciparono alle violenze) durante la campagna d’Italia della seconda guerra mondiale. 

“Tutte le donne di Patrica, Pofi, Isoletta, Supino, e Morolo sono state violentate - scrive nel libro nel libro Napoli ’44 lo scrittore Norman Lewis, all’epoca ufficiale britannico sul fronte di Montecassino - A Lenola il 21 maggio hanno stuprato cinquanta donne, e siccome non ce n’erano abbastanza per tutti hanno violentato anche i bambini e i vecchi”. 

Una nota del 25 giugno del 1944 del comando generale dell’Arma dei Carabinieri dell’Italia liberata alla Presidenza del Consiglio, segnala nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica, Ceccano, Supino, Morolo e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno 1944, giorni della liberazione di Roma), 418 violenze sessuali, di cui 3 su uomini, 29 omicidi e 517 furti. “Numerosissime donne, ragazze e bambine […] - si legge - vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate e spesso devastate e incendiate”. 

I numeri delle vittime non sono certi, alcune fonti parlano di alcune migliaia, altre arrivano fino a 60 mila. 

Migliaia furono certamente le donne contagiate dalla sifilide e da altre malattie veneree, così come migliaia furono quelle che rimasero incinta (il solo orfanotrofio di Veroli, accoglieva, dopo la guerra, circa 400 bambini nati da quelle unioni forzose).  

Molte delle donne “marocchinate” saranno poi scansate dalla comunità a causa dei pregiudizi di allora, ripudiate dalle famiglie e a centinaia finiranno suicide. 

Nel 1952 la deputata del Pci Maria Maddalena Rossi presenterà un’interrogazione parlamentare sul tema. 

“La nostra interpellanza si riferisce - afferma la Rossi -  ad uno dei drammi più angosciosi, quello delle donne che subirono le violenze delle truppe marocchine della V armata, nel periodo tra l’aprile e il giugno del 1944, dopo la rottura del fronte del Garigliano, quando queste irruppero nella zona del cassinate. Non so se sia vero quello che si dice delle truppe marocchine, cioè che il contratto d’ingaggio di questi mercenari non escluda o addirittura lo consenta il diritto al saccheggio ed alla violenza (ndr reciterebbe un comunicato del quale è stata spesso messa in dubbio l’autenticità attribuito al generale Alphonse  Juin: “Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto è promesso e mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete”). Risulta invece che, dopo gli avvenimenti dolorosi cui ci riferiamo, comandanti ed ufficiali di queste truppe tentarono di correre ai ripari con alcuni casi di punizioni e soprattutto concedendo alle prime vittime qualche soccorso. Comunque, sia stato o meno tollerato, se non concesso, il fatto è che il saccheggio fu compiuto e le violenze ebbero luogo. Il primo paese del cassinate che le truppe marocchine incontrarono nell’aprile 1944 e la cui popolazione, di circa 600 abitanti, non fosse sfollata fu, se non erro, Esperia. I soldati fecero irruzione nelle case, depredarono, saccheggiarono, e le violenze innominabili furono compiute su uomini e donne. Perfino il parroco fu legato ad un albero e costretto ad assistere allo spettacolo. Poi anche di lui fu compiuto tale scempio che ne morì.

Del resto, a Vallecorsa, non furono risparmiate neppure le suore dell’ordine del Preziosissimo Sangue. A Castro dei Volsci dai registri del comune risultano 42 gli uomini e le donne morti in quei mesi terribili. Come e perché morirono quei 42 cittadini? Ecco alcune informazioni. Molinari Veglia, una ragazza di 17 anni, è violentata sotto gli occhi della madre e poi uccisa con una fucilata; siamo in contrada Monte Lupino, il 27 maggio 1944. Rossi Elisabetta, di circa 50 anni, è sgozzata dai marocchini perché tenta di difendere le sue due figlie, rispettivamente di 17 e 18 anni: la madre muore e le figlie sono violentate; ciò accade in contrada Farneta. Anche Margherita Molinari, di 55 anni, tenta di salvare la figlia Maria, che ne ha 21: è uccisa con cinque fucilate al ventre! Il bambino Serapiglia Remo, di cinque anni, innocente testimone dei delitti che intorno a lui si compiono, dà fastidio: perciò viene lanciato in aria e lasciato ricadere, così che morrà entro le 24 ore successive per le lesioni riportate. Pare che la madre non abbia ancora ricevuto la pensione; ha altri otto figli e il marito è disoccupato.

Ed ecco alcuni esempi di ciò che accadde a Pastena. La signora Anelli Elvira fu Giuseppe ha il braccio troncato da una scarica di mitra: essa morirà tubercolotica quattro anni dopo, ma certo le conseguenze della violenza subita nell’aprile del 1944 ne hanno affrettato la fine.

Antonini Giuseppe fu Francesco viene ucciso dai marocchini in contrada Santa Croce e nessuno sa dove sia stato sepolto, perché il cadavere è portato via immediatamente dai francesi. Giuseppe Faiola fu Marco è ucciso dai marocchini in contrada Cerviso. A Vallecorsa, Luigi Mauri fu Martino muore il 26 maggio 1944 in contrada Lisano nel tentativo di difendere l’onore della moglie Lauretti Assunta e delle sue quattro figliole. Ancora a Vallecorsa Antonbenedetto Augusto fu Cesare cade il 25 maggio 44, in contrada Visano per difendere l’onore della moglie Nardoni Margherita.

Cade anche Papa Vittorio di Alessandro il 25 maggio 1944, in contrada Santa Lucia, avendo osato difendere la moglie Di Girolamo Rosina di Augusto, ma prima di essere ucciso è egli stesso seviziato. Sacchetti Antonio fu Michele, Sacchetti Eugenio fu Michele, Sacchetti Eugenio fu Vincenzo, Sacchetti Gabriele di Agostino sono bastonati a sangue perché osano difendere l’onore delle rispettive mogli, sorelle, madri; alla fine si ribellano e un marocchino viene ucciso: quali rappresaglie vengano inflitte è facile immaginare.

Fatti analoghi a quelli che ho citato accadono a Pontecorvo, a Sant’Angelo, a San Giorgio a Liri, a Pignatara Intermagna, a Caccano: almeno in una trentina di paesi delle province di Frosinone e di Latina, percorse dalle truppe marocchine. Quante donne abbiano subito violenza da parte delle truppe marocchine nessuno sa con esattezza né forse si saprà mai.

Quello che noi possiamo però rilevare dai dati che sono a nostra conoscenza è che in maggioranza si tratta di donne vecchie, anzi vecchissime, come quelle di Agata Baris, nata nel 1882, e come molte altre, con cui ho avuto io stessa occasione di parlare, che oggi hanno 70-75 ed anche 80 anni. L’età avrebbe dovuto costituire una difesa per queste donne, o almeno così esse ritenevano. Infatti alcune non pensarono neppure di mettersi in salvo, anzi, convinte che sarebbero state rispettate, affrontarono esse stesse i marocchini per dar tempo alle giovani di nascondersi, di scappare, di rifugiarsi su, tra le montagne. Invece furono seviziate e violentate, come per esempio quella Emanuela Valente della borgata Santangelo, che oggi conta 70 anni, che ebbe i polsi fratturati.

Già nello sbarco in Sicilia le truppe marocchine al seguito degli Alleati si erano rese protagoniste di violenze sulle donne. Ma a Capizzi (Messina) la popolazione locale si vendicò ammazzando a roncolate, evirando e dando i pasto ai maiali i colpevoli, col benestare degli anglo-americani.

Il Vaticano chiese e ottenne che i Goumiers non entrassero a Roma. Non andò bene invece ai senesi, nella cui provincia i reparti maghrebini si resero di nuovo protagonisti di violenze dopo aver scacciato i nazisti verso nord.

Qui ricominciarono le violenze a Siena, ad Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. Perfino membri della Resistenza dovettero subire gli abusi. Come testimonia il partigiano rosso Enzo Nizza: “Ad Abbadia contammo ben sessanta vittime di truci violenze, avvenute sotto gli occhi dei loro familiari. Una delle vittime fu la compagna Lidia, la nostra staffetta. Anche il compagno Paolo, avvicinato con una scusa, fu poi violentato da sette marocchini. I comandi francesi, alle nostre proteste, risposero che era tradizione delle loro truppe coloniali ricevere un simile premio dopo una difficile battaglia”. 

Se il papa cerca di fermare in qualche modo il massacro (il papa, non tutta la gerarchia ecclesiastica. “Se le donne non si esponessero volontariamente non correrebbero alcun pericolo”, scriveva il cardinale Tisserand allo stesso Pontefice), tristemente silenziosi rimangono i vertici militari e politici francesi (si legge in una relazione del capitano italiano Umberto Pittali redatta il 28 maggio 1944: “Gli ufficiali francesi lasciano ai marocchini una discreta libertà di azione” e “preferiscono ignorare” quanto accade). 

“Adesso lui mi stava sopra; e io mi dibattevo con le mani e con le gambe; e lui sempre mi teneva fissa la testa a terra contro il pavimento, tirandomi i capelli con una mano, e intanto sentivo che con l'altra andava alla veste e me la tirava su verso la pancia e poi andava tra le gambe; e tutto a un tratto gridai di nuovo, ma di dolore, perché lui mi aveva acchiappato per il pelo con la stessa forza con la quale mi tirava i capelli per tenermi ferma la testa”, scriveva, tra i pochi, nel 1957 Alberto Moravia ne La Ciociara, un libro, bellissimo, da cui venne tratto anche un film. 

Per tanto, troppo tempo, delle marocchinate non si è parlato o lo si è fatto poco, a bassa voce, anche per il timore di favorire la propaganda fascista che ha ovviamente tentato di strumentalizzare quei terribili fatti.  Ma se comprendere è impossibile, conoscere è necessario. Anche oggi, soprattutto oggi.

“Marocchinate”, 1944: i bambini violentati, le sorelle crocefisse, il prete seviziato, la nonna stuprata da 300 soldati…Edoardo Greco il 17 Marzo 2017 su blitzquotidiano.it.     

Le chiamavano, senza nessun riguardo, “Marocchinate”: erano le donne vittime di violenze, stupri e omicidi nelle province di Frosinone e di Latina compiuti dalle truppe marocchine dell’esercito francese (cioè degli Alleati) dopo aver battuto i nazifascisti nel 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale.

Perché si parla in questi giorni delle marocchinate? Perché un regista di film “XXX”, Mario Salieri, ha deciso di fare una versione porno de “La Ciociara”, film di Vittorio De Sica con Sophia Loren tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia. Scatenando le proteste di una senatrice del Pd, Maria Spillabotte, del presidente dell’Associazione vittime delle marocchinate, Emiliano Ciotti, e del sindaco di Frosinone, Nicola Ottaviani.

“La Ciociara”, film e romanzo, è l’unico modo in cui finora l’orrenda storia delle “marocchinate” è arrivata al grande pubblico. Ma quei giorni di devastazione della primavera del 1944 sono per le popolazioni del Frusinate e del Pontino un incubo indelebile.

Protagonisti delle violenze furono 7 mila soldati marocchini, una divisione speciale del Cef (Corps expéditionnaire français en Italie). I Goums Maroucains, detti “Goumiers”, erano guerrieri berberi delle montagne dell’Atlante, capaci di muoversi con agilità nelle battaglie montane. Organizzati in goums, dall’arabo “qum” (banda, squadrone), reparti di circa 200-300 uomini spesso legati fra loro da vincoli di parentela.

In ogni reparto dei Goumiers un combattente su cinque era francese. Il loro comandante era il generale francese Augustin Guillaume, mentre a guidare l’intero Cef c’era il generale algerino Alphonse Juin.

Avevano sandali invece degli stivali, mantelli di lana con cappuccio (“bourms”) e turbante al posto della divisa; oltre a mitra e pistole, portavano tutti la “koumia”, il pugnale ricurvo col quale combattevano, decapitavano e mutilavano i nemici, collezionandone le orecchie.

Furono decisivi per la presa di Roma da parte degli alleati. Bloccati a Cassino, gli angloamericani decisero di appoggiare la proposta del generale Juin: aggirare la linea di difesa tedesca (la “Gustav”) passando per i monti Aurunci, sfruttando la destrezza e la ferocia in combattimento dei Goumiers. Ferocia nota ai tedeschi, i quali preferivano buttarsi dalle alture piuttosto che finire mutilati e massacrati dalle truppe marocchine.

Battuti i nazifascisti, i Goumiers ottennero in premio quello che nell’antico diritto internazionale di guerra era il “diritto di preda”: una licenza di stupro e saccheggio alle truppe che avevano vinto la battaglia. L’orrore come ricompensa. Riporta Andrea Cionci su La Stampa:

Ad Ausonia decine di donne furono violentate e uccise, e lo stesso capitò agli uomini che tentavano di difenderle. Dai verbali dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra risulta che anche “due bambini di sei e nove anni subirono violenza”. A S. Andrea, i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 goumiers; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne. A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti.

Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella. Dopo la violenza di gruppo, verrà ammazzata.

A Polleca si erano rifugiati circa diecimila sfollati, per lo più donne, vecchi e bambini in un campo provvisorio. Qui si toccò l’apice della bestialità. Luciano Garibaldi scrive che dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi.

Una testimonianza, da un verbale dell’epoca, descrive la loro modalità tipica: “I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa, colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre, da altri militari, veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi”.

I numeri delle vittime non sono certi, alcune fonti parlano di alcune migliaia, altre arrivano fino a 60 mila. Nel 1952 la deputata del Pci Maria Maddalena Rossi presentò un’interrogazione parlamentare sulle “marocchinate”. Dal dibattito venne fuori che il governo riteneva attendibile la cifra di 20 mila vittime di violenze.

E se le donne anziane non vennero risparmiate da percosse e abusi, alle giovani andò ancora peggio: vissero decenni con il marchio d’infamia della “marocchinata”, restarono incinte degli stupratori, morirono suicide o divorate dalle malattie veneree rese letali dalla povertà e dalle scarse condizioni d’igiene. L’onorevole Rossi cercò di portare in Parlamento anche il loro dramma:

“La nostra interpellanza si riferisce dunque ad uno dei drammi più angosciosi, quello delle donne che subirono le violenze delle truppe marocchine della V armata, nel periodo tra l’aprile e il giugno del 1944, dopo la rottura del fronte del Garigliano, quando queste irruppero nella zona del cassinate. Non so se sia vero quello che si dice delle truppe marocchine, cioè che il contratto d’ingaggio di questi mercenari non escluda o addirittura lo consenta il diritto al saccheggio ed alla violenza.

Risulta invece che, dopo gli avvenimenti dolorosi cui ci riferiamo, comandanti ed ufficiali di queste truppe tentarono di correre ai ripari con alcuni casi di punizioni e soprattutto concedendo alle prime vittime qualche soccorso. Comunque, sia stato o meno tollerato, se non concesso, il fatto è che il saccheggio fu compiuto e le violenze ebbero luogo.

Il primo paese del cassinate che le truppe marocchine incontrarono nell’aprile 1944 e la cui popolazione, di circa 600 abitanti, non fosse sfollata fu, se non erro, Esperia. I soldati fecero irruzione nelle case, depredarono, saccheggiarono, e le violenze innominabili furono compiute su uomini e donne. Perfino il parroco fu legato ad un albero e costretto ad assistere allo spettacolo. Poi anche di lui fu compiuto tale scempio che ne morì.

Del resto, a Vallecorsa, non furono risparmiate neppure le suore dell’ordine del Preziosissimo Sangue. A Castro dei Volsci dai registri del comune risultano 42 gli uomini e le donne morti in quei mesi terribili. Come e perché morirono quei 42 cittadini? Ecco alcune informazioni. Molinari Veglia, una ragazza di 17 anni, è violentata sotto gli occhi della madre e poi uccisa con una fucilata; siamo in contrada Monte Lupino, il 27 maggio 1944. Rossi Elisabetta, di circa 50 anni, è sgozzata dai marocchini perché tenta di difendere le sue due figlie, rispettivamente di 17 e 18 anni: la madre muore e le figlie sono violentate; ciò accade in contrada Farneta. Anche Margherita Molinari, di 55 anni, tenta di salvare la figlia Maria, che ne ha 21: è uccisa con cinque fucilate al ventre! Il bambino Serapiglia Remo, di cinque anni, innocente testimone dei delitti che intorno a lui si compiono, dà fastidio: perciò viene lanciato in aria e lasciato ricadere, così che morrà entro le 24 ore successive per le lesioni riportate. Pare che la madre non abbia ancora ricevuto la pensione; ha altri otto figli e il marito è disoccupato.

Ed ecco alcuni esempi di ciò che accadde a Pastena. La signora Anelli Elvira fu Giuseppe ha il braccio troncato da una scarica di mitra: essa morirà tubercolotica quattro anni dopo, ma certo le conseguenze della violenza subita nell’aprile del 1944 ne hanno affrettato la fine.

Antonini Giuseppe fu Francesco viene ucciso dai marocchini in contrada Santa Croce e nessuno sa dove sia stato sepolto, perché il cadavere è portato via immediatamente dai francesi. Giuseppe Faiola fu Marco è ucciso dai marocchini in contrada Cerviso. A Vallecorsa, Luigi Mauri fu Martino muore il 26 maggio 1944 in contrada Lisano nel tentativo di difendere l’onore della moglie Lauretti Assunta e delle sue quattro figliole. Ancora a Vallecorsa Antonbenedetto Augusto fu Cesare cade il 25 maggio 44, in contrada Visano per difendere l’onore della moglie Nardoni Margherita.

Cade anche Papa Vittorio di Alessandro il 25 maggio 1944, in contrada Santa Lucia, avendo osato difendere la moglie Di Girolamo Rosina di Augusto, ma prima di essere ucciso è egli stesso seviziato. Sacchetti Antonio fu Michele, Sacchetti Eugenio fu Michele, Sacchetti Eugenio fu Vincenzo, Sacchetti Gabriele di Agostino sono bastonati a sangue perché osano difendere l’onore delle rispettive mogli, sorelle, madri; alla fine si ribellano e un marocchino viene ucciso: quali rappresaglie vengano inflitte è facile immaginare.

Fatti analoghi a quelli che ho citato accadono a Pontecorvo, a Sant’Angelo, a San Giorgio a Liri, a Pignatara Intermagna, a Caccano: almeno in una trentina di paesi delle province di Frosinone e di Latina, percorse dalle truppe marocchine. Quante donne abbiano subito violenza da parte delle truppe marocchine nessuno sa con esattezza né forse si saprà mai.

Quello che noi possiamo però rilevare dai dati che sono a nostra conoscenza è che in maggioranza si tratta di donne vecchie, anzi vecchissime, come quelle di Agata Baris, nata nel 1882, e come molte altre, con cui ho avuto io stessa occasione di parlare, che oggi hanno 70-75 ed anche 80 anni. L’età avrebbe dovuto costituire una difesa per queste donne, o almeno così esse ritenevano. Infatti alcune non pensarono neppure di mettersi in salvo, anzi, convinte che sarebbero state rispettate, affrontarono esse stesse i marocchini per dar tempo alle giovani di nascondersi, di scappare, di rifugiarsi su, tra le montagne. Invece furono seviziate e violentate, come per esempio quella Emanuela Valente della borgata Santangelo, che oggi conta 70 anni, che ebbe i polsi fratturati.

Già nello sbarco in Sicilia le truppe marocchine al seguito degli Alleati si erano rese protagoniste di violenze sulle donne. Ma a Capizzi (Messina) la popolazione locale si vendicò ammazzando a roncolate, evirando e dando i pasto ai maiali i colpevoli, col benestare degli anglo-americani.

Il Vaticano chiese e ottenne che i Goumiers non entrassero a Roma. Non andò bene invece ai senesi, nella cui provincia i reparti maghrebini si resero di nuovo protagonisti di violenze dopo aver scacciato i nazisti verso nord.

Qui ricominciarono le violenze a Siena, ad Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. Perfino membri della Resistenza dovettero subire gli abusi. Come testimonia il partigiano rosso Enzo Nizza: “Ad Abbadia contammo ben sessanta vittime di truci violenze, avvenute sotto gli occhi dei loro familiari. Una delle vittime fu la compagna Lidia, la nostra staffetta. Anche il compagno Paolo, avvicinato con una scusa, fu poi violentato da sette marocchini. I comandi francesi, alle nostre proteste, risposero che era tradizione delle loro truppe coloniali ricevere un simile premio dopo una difficile battaglia”.

[…] Solo nell’imminenza del ritorno in Francia, alcuni dei violentatori furono puniti. Un partigiano della brigata rossa “Spartaco Lavagnini” ricorda: “Sei marocchini vennero fucilati sul posto perché avevano violentato una donna. Il capitano (francese n.d.r.) ebbe a dirmi: “Questa gente sa combattere benissimo, però meno ne riportiamo in Francia, meglio è”. Poco prima che i marocchini toccassero il suolo provenzale, i loro comandanti, quindi, avevano deciso di riportarli severamente all’ordine tanto che non si registrarono mai violenze ai danni di donne francesi. Una volta in Germania meridionale, invece, potranno dare nuovamente sfogo ai loro istinti sulle donne tedesche, come riportano alcuni recenti studi. Segno, quindi, che le efferatezze di queste truppe avrebbero potuto essere certamente controllate e disciplinate.

La verità nascosta delle “marocchinate”, saccheggi e stupri delle truppe francesi in mezza Italia.

L’episodio del remake porno del film di De Sica diventa l’occasione per parlare dopo 70 anni, documenti alla mano, dei diretti responsabili: tra cui lo stesso Charles De Gaulle. Andrea Cionci il 16 Marzo 2017 su La Stampa. Il fatto che un regista italiano di film porno abbia potuto girare una pellicola hard su una delle pagine più mostruose vissute dalla nostra popolazione civile durante la Seconda guerra mondiale, offre la caratura di quanto questi misfatti siano stati rimossi dalla coscienza morale collettiva. L’episodio del remake porno de La Ciociara di Vittorio De Sica, che ha suscitato un’interrogazione parlamentare e una lettera pubblica al premier Gentiloni, offre piuttosto l’occasione di raccontare, documenti alla mano, tutta la verità relegata per oltre settant’anni nei sotterranei della storia, indicando i numeri reali, i colpevoli e i personaggi di primissimo piano - tra cui lo stesso Charles De Gaulle - che ne furono i diretti responsabili. “Marocchinate”: con questo termine si sono tramandati gli stupri di gruppo, le uccisioni, i saccheggi e le violenze di ogni genere perpetrate dalle truppe coloniali francesi (Cef), aggregate agli Alleati, ai danni della popolazione italiana, dei prigionieri di guerra e perfino di alcuni partigiani comunisti. La storiografia tradizionale, le poche volte che ne ha trattato, ha circoscritto questi orrori a qualche centinaio di episodi verificatisi nell’arco di un paio giorni nella zona del frusinate. Le proporzioni, tra numeri e gravità dei fatti, furono di gran lunga superiori. E a breve – lo annunciamo in esclusiva - sarà aperto un procedimento penale internazionale, ai danni della Francia, per iniziativa di un avvocato romano.

1 Cos’era il CEF

Nel 1942, gli americani sbarcano ad Algeri e le truppe coloniali francesi del Nord Africa, fino ad allora agli ordini della repubblica filonazista di Vichy, si arrendono senza sparare un colpo. Il generale Charles De Gaulle, fuggito dalla Francia occupata dai tedeschi e capo del governo francese in esilio “Francia libera”, allora, attinge a questo personale militare per creare il Cef: Corp Expeditionnaire Français, costituito per il 60% da marocchini, algerini e senegalesi e per il restante da francesi europei, per un totale di 111.380 uomini ripartiti in quattro divisioni. Vi erano però dei reparti esclusivamente marocchini di goumiers (dall’arabo qaum) i cui soldati provenivano dalle montagne del Riff ed erano raggruppati in reparti detti “tabor” in cui sussistevano vincoli tribali o di parentela diretta. Erano in tutto 7.833, indossavano il caratteristico burnus arabo, vestivano una tunica di lana verde a bande verticali multicolori (djellaba) e sandali di corda. Erano equipaggiati non solo con le armi alleate (mitra Thompson cal. 45 mm e mitragliatrice Browning 12.7 mm) ma anche con il tipico pugnale ricurvo (koumia) con il quale, secondo una loro antica usanza, tagliavano le orecchie ai nemici uccisi per farne collane e ornamenti (in particolar modo i tedeschi ne fecero le spese). Il loro comandante era l’ambizioso generale Alphonse Juin, nato in Algeria che, da collaborazionista dei nazisti, era passato alle dipendenze di De Gaulle.

2 Primi impieghi, prime violenze

Gli stupri delle truppe marocchine cominciano già nel luglio ’43, con lo sbarco alleato in Sicilia. Gli 832 magrebini del 4° tabor aggregato agli americani che sbarcano a Licata, compiono saccheggi e violentano donne e bambini presso il paese di Capizzi, vicino Troina. Come riporta lo storico Michelangelo Ingrassia, i siciliani reagirono uccidendone alcuni con doppiette e forconi.

3 I marocchini aggirano Cassino risalendo i monti

Come noto, gli Alleati, risalendo l’Italia senza troppe difficoltà, si impantanarono a Cassino, sulla Linea Gustav, dove i tedeschi opponevano una tenacissima resistenza. Fu il generale Juin, sin dall’inizio, a proporre ai colleghi statunitensi Clark e Alexander l’aggiramento del caposaldo nemico. Dopo tre battaglie sanguinosissime e prive di risultato gli Alleati avallarono la proposta di Juin il quale aveva scoperto che il monte Petrella, a est di Cassino, era stato lasciato parzialmente sguarnito dai tedeschi. In quelle zone, solo le sue truppe marocchine di montagna avrebbero potuto farcela. Infatti, con l’operazione “Diadem” (l’ultimo assalto collettivo degli Alleati) i goumiers riuscirono a sfondare la Linea Gustav e, attraversando l’altipiano di Polleca, si lanciarono verso Pontecorvo.

Kesselring, comandante tedesco in Italia, per tamponare lo falla, inviò i suoi Panzegrenadieren insieme a reparti italiani della Rsi, (Gnr di Frosinone) i quali, dopo accaniti combattimenti, dovettero soccombere. E’ accertato che gli ultimi soldati tedeschi rimasti a Esperia si suicidarono gettandosi da un burrone per non finire decapitati come altri loro commilitoni catturati. Questo avveniva mentre i marocchini cominciavano a violentare moltitudini di donne, uomini e bambini sull’altopiano di Polleca.

4 La popolazione non comprende il pericolo

Sebbene siano conosciuti i manifesti della propaganda fascista (alcuni disegnati da Gino Boccasile) che mettevano generalmente in guardia la popolazione dalle truppe di colore alleate, il partigiano e storico ciociaro Bruno D’Epiro racconta che già prima della battaglia di Esperia un ricognitore tedesco aveva lanciato sui monti Aurunci volantini che incitavano la popolazione a fuggire dalle prevedibili violenze delle truppe nordafricane. Molti bambini furono evacuati dalla Guardia Nazionale Repubblicana e inviati nelle colonie di Rimini, ma la maggior parte della popolazione ciociara, stanca della guerra, si limitò ad aspettare, con rassegnato distacco, il passaggio dei liberatori. Scriveva Renzo De Felice che “l’8 settembre aveva fatto perdere agli italiani qualsiasi volontà di partecipare attivamente alle vicende belliche”. Alberto Moravia, all’epoca sfollato nel frusinate, ne “La Ciociara”, descrive bene questo sentimento di rassegnata apatia facendo dire alla protagonista: ”Per noi bisogna che qualcuno vinca sul serio, così la guerra finisce”.

5 Comincia l’inferno

Alla ritirata dei nazifascisti, vari paesi della Ciociaria vennero occupati dai franco-coloniali del Cef. Questo fu l’inizio di un assurdo calvario. Ad Ausonia decine di donne furono violentate e uccise, e lo stesso capitò agli uomini che tentavano di difenderle. Dai verbali dell’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra risulta che anche “due bambini di sei e nove anni subirono violenza”. A S. Andrea, i marocchini stuprarono 30 donne e due uomini; a Vallemaio due sorelle dovettero soddisfare un plotone di 200 goumiers; 300 di questi invece, abusarono di una sessantenne. A Esperia furono 700 le donne violate su una popolazione di 2.500 abitanti. Anche il parroco, don Alberto Terrilli, nel tentativo di difendere due ragazze, venne legato a un albero e stuprato per una notte intera. Morirà due anni dopo per le lacerazioni interne riportate. A Pico, una ragazza venne crocifissa con la sorella. Dopo la violenza di gruppo, verrà ammazzata. A Polleca si erano rifugiati circa diecimila sfollati, per lo più donne, vecchi e bambini in un campo provvisorio. Qui si toccò l’apice della bestialità. Luciano Garibaldi scrive che dai reparti marocchini del gen. Guillaume furono stuprate bambine e anziane; gli uomini che reagirono furono sodomizzati, uccisi a raffiche di mitra, evirati o impalati vivi. Una testimonianza, da un verbale dell’epoca, descrive la loro modalità tipica: “I soldati marocchini che avevano bussato alla porta e che non venne aperta, abbattuta la porta stessa, colpivano la Rocca con il calcio del moschetto alla testa facendola cadere a terra priva di sensi, quindi veniva trasportata di peso a circa 30 metri dalla casa e violentata mentre il padre, da altri militari, veniva trascinato, malmenato e legato a un albero. Gli astanti terrorizzati non potettero arrecare nessun aiuto alla ragazza e al genitore in quanto un soldato rimase di guardia con il moschetto puntato sugli stessi”. Riportiamo solo alcune di queste atrocità per fornire un’idea di massima.

Civili in Ciociaria

6 Malattie veneree, orfani e suicidi

I comuni coinvolti nel Lazio furono anche Pontecorvo, Campodimele, S. Oliva, Castro dei Volsci, Frosinone, Grottaferrata, Giuliano di Roma e Sabaudia. Migliaia furono le donne contagiate da sifilide, blenorragia e altre malattie veneree, e spesso contagiarono i loro legittimi mariti. Così come migliaia furono quelle ingravidate: il solo orfanotrofio di Veroli, accoglieva, dopo la guerra, circa 400 bambini nati da quelle unioni forzose. Molte delle donne “marocchinate” furono poi scansate dalla comunità, a causa dei pregiudizi di allora, ripudiate dalle famiglie e, a centinaia, finirono suicide o relegate ai margini della società. Una scia di sofferenze fisiche e psicologiche, quindi, che si trascinò per decenni. 

7 Colpevoli anche i soldati francesi bianchi

Non solo truppe di colore. Da documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, risulta che anche i francesi bianchi parteciparono alle violenze: a Pico furono, infatti, violentate 51 donne (di cui nove minorenni) da 181 franco-africani e da 45 francesi bianchi. Dato questo episodio e considerando che francesi europei costituivano il 40% di tutto il Cef, risulta limitativo addossare la responsabilità delle violenze ai soli goumiers marocchini. Anche gli americani sapevano di questi fatti: solo in un paio di casi tentarono debolmente di frenare i goumiers. Scrive Eric Morris in “La guerra inutile” che, ancora vicino a Pico, gli uomini di un battaglione del 351° fanteria americana provarono a fermare gli stupri, ma il loro comandante di compagnia intervenne e dichiarò che “erano lì per combattere i tedeschi, non i goumiers”.

8 I comandanti non intervengono, fino in Toscana

Massimo Lucioli, co-autore, insieme a Davide Sabatini, del primo completo studio sulle marocchinate “La ciociara e le altre” (1998), spiega: “Dato il coinvolgimento dei bianchi, non presenti nei reparti goumier, si può affermare che i violentatori si annidavano in tutte e quattro le divisioni del Cef. Forse anche per questo, gli ufficiali francesi non risposero ad alcuna sollecitazione da parte delle vittime e assistettero impassibili all’operato dei loro uomini. Come riportano le testimonianze, quando i civili si presentavano a denunciare le violenze, gli ufficiali si stringevano nelle spalle e li liquidavano con un sorrisetto”. Questo atteggiamento perdurò fino all’arrivo in Toscana del Cef. Qui ricominciarono le violenze a Siena, ad Abbadia S. Salvatore, Radicofani, Murlo, Strove, Poggibonsi, Elsa, S. Quirico d’Orcia, Colle Val d’Elsa. Perfino membri della Resistenza dovettero subire gli abusi. Come testimonia il partigiano rosso Enzo Nizza: ”Ad Abbadia contammo ben sessanta vittime di truci violenze, avvenute sotto gli occhi dei loro familiari. Una delle vittime fu la compagna Lidia, la nostra staffetta. Anche il compagno Paolo, avvicinato con una scusa, fu poi violentato da sette marocchini. I comandi francesi, alle nostre proteste, risposero che era tradizione delle loro truppe coloniali ricevere un simile premio dopo una difficile battaglia”.

9 50 ore? Il proclama di Juin

Infatti, un comunicato attribuito al generale Juin ai suoi uomini, recita: ““Soldati! Questa volta non è solo la libertà delle vostre terre che vi offro se vincerete questa battaglia. Alle spalle del nemico vi sono donne, case, c’è un vino tra i migliori del mondo, c’è dell’oro. Tutto ciò sarà vostro se vincerete. Dovrete uccidere i tedeschi fino all’ultimo uomo e passare ad ogni costo. Quello che vi ho detto è promesso e mantengo. Per cinquanta ore sarete i padroni assoluti di ciò che troverete al di là del nemico. Nessuno vi punirà per ciò che farete, nessuno vi chiederà conto di ciò che prenderete”. L’autenticità di questo proclama è stata spesso messa in dubbio, ma Juin, come si legge nei trattati giurisprudenziali dell’epoca, poteva riferirsi legittimamente a una antica norma del diritto internazionale di guerra che prevedeva il “diritto di preda bellica”, tra cui lo stupro. Tant’è che le vittime furono, in fretta e furia, dopo la guerra, risarcite con minimi compensi economici solo attraverso un procedimento amministrativo, invece che dopo un regolare processo penale. Gli indennizzi furono erogati prima dai francesi e poi dallo Stato italiano. Con ottime probabilità, il proclama di Juin è, quindi, da ritenersi autentico.

Secondo Lucioli, questo discorso fu poi diffuso ad arte per limitare nello spazio-tempo le violenze che, de facto, durarono ben più di 50 ore: dal luglio ’43 all’ottobre ’44 quando i franco-coloniali lasciarono l’Italia e si imbarcarono per la Provenza ancora occupata dai nazisti. Solo nell’imminenza del ritorno in Francia, alcuni dei violentatori furono puniti. Un partigiano della brigata rossa “Spartaco Lavagnini” ricorda: “Sei marocchini vennero fucilati sul posto perché avevano violentato una donna. Il capitano (francese n.d.r.) ebbe a dirmi: “Questa gente sa combattere benissimo, però meno ne riportiamo in Francia, meglio è”. Poco prima che i marocchini toccassero il suolo provenzale, i loro comandanti, quindi, avevano deciso di riportarli severamente all’ordine tanto che non si registrarono mai violenze ai danni di donne francesi. Una volta in Germania meridionale, invece, potranno dare nuovamente sfogo ai loro istinti sulle donne tedesche, come riportano alcuni recenti studi. Segno, quindi, che le efferatezze di queste truppe avrebbero potuto essere certamente controllate e disciplinate.

10 Le responsabilità di De Gaulle

Un fenomeno di queste dimensioni che si è protratto per dodici mesi, in mezza Italia, che ha interessato un numero elevatissimo di persone, non poteva essere sottaciuto o nascosto ai comandanti. “E’ evidente – continua Lucioli - che vi sono responsabilità a livello gerarchico-militare e politico mai indagate. Innanzitutto, i generali di divisione del CEF : Guillaume, Savez, de Monsabert, Brosset e Dody i quali, non solo non hanno impedito le violenze, ma le hanno incentivate: prima dell’attacco in Ciociaria, infatti, le truppe coloniali erano state tenute consegnate in recinti di filo spinato, lontano dai loro bordelli, evidentemente, per aumentarne l’aggressività. Ma il principale responsabile della barbarie è da ricercarsi, per un principio di responsabilità gerarchica, nel comandante in capo di Francia libera, Charles De Gaulle, che – è provato – durante il culmine delle violenze, si trovava, insieme al suo Ministro della Guerra André Diethelm, proprio a Polleca presso il casolare del barone Rosselli, eletto a quartier generale avanzato del Cef. Vi sono fotografie inoppugnabili e anche un suo discorso che tenne, in loco, in quei giorni. Le violenze accadevano, quindi, sotto ai suoi occhi”. Va anche ricordato che, quando alcuni marocchini a Roma violarono due donne e le gettarono poi da un treno in corsa, uccidendole, l’”Osservatore romano” e “Il Popolo” aprirono una accesa polemica, denunciando chiaramente le violenze che si verificavano ovunque i marocchini si fossero accampati. A questi rispose il giornale delle truppe francesi in Italia “La Patrie”, minimizzando l’accaduto. Ancora una volta, quindi, De Gaulle non poteva non sapere. Impossibile pensare, anche, che i comandanti alleati ignorassero quegli eventi.

11 I numeri delle vittime

Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate, fornisce i numeri di questo massacro: “Nella seduta notturna della Camera del 7 aprile 1952 la deputata del PCI Maria Maddalena Rossi denunció che solo nella provincia di Frosinone vi erano state 60.000 violenze da parte delle truppe del generale Juin. Dalle numerose documentazioni raccolte oggi possiamo affermare che ci furono 20.000 casi accertati di violenze, numero del tutto sottostimato; diversi referti medici dell’epoca riferirono che un terzo delle donne violentate, che si erano fatte medicare, sia per vergogna o per pudore, preferì non denunciare. Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, possiamo quindi affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, ognuna, quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre, ma abbiamo raccolto testimonianze di donne violentate anche da 100, 200 e 300 uomini. Oltre alle violenze carnali , vi furono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni”.

12 La rimozione storica

Nonostante le pubblicazioni del professor Bruno D’Epiro, cittadino di Esperia che fu il primo, a livello locale, a interessarsi in maniera organica a questi misfatti, a parte qualche articolo successivo e qualche raro documentario, la storiografia nazionale ha lasciato pressoché unicamente al film di Vittorio De Sica “La Ciociara”, il difficile ruolo di trasferire al grande pubblico qualcosa sulle marocchinate. Fino agli anni ’90, poi, come scriveva al sindaco di Esperia lo storico belga Pierre Moreau, nulla del genere era mai apparso sulla letteratura storica in lingua inglese, francese e olandese. La memoria di queste aberrazioni è, tuttavia, ancora una ferita aperta nei luoghi che furono colpiti. Nel 1985, a Esperia, fu organizzata una manifestazione di riconciliazione tra tutti i reduci della guerra. Solo i francesi non furono invitati, in quanto espressamente “non graditi”. Il cimitero di guerra di Venafro, che ospita i caduti del Cef, sovente, ancor oggi, vede la propria insegna marmorea imbrattata di vernice da mani ignote.

13 Il prossimo procedimento legale ai danni della Francia

L’avvocato romano Luciano Randazzo, già noto per aver fatto riaprire casi riguardanti le Foibe e l’esecuzione di Mussolini, dichiara: “Anni fa assistetti una povera signora che, durante la guerra, era stata “marocchinata” ed ebbi modo di conoscere da vicino quei drammi: era tutta povera gente. Nel 2003, una tv francese mi intervistò, valutando se si potesse intraprendere un’azione legale verso l’Associazione d’arma dei goumiers “Koumia”. Fino ad oggi, cosa ha fatto lo Stato italiano per chiedere i giusti risarcimenti ai francesi? Nulla. Ecco perché, a breve presenterò un ricorso presso il Tribunale Militare di Roma e presso la Corte internazionale, ai danni della Francia”.

La storia delle marocchinate non è ancora chiusa.

Il racconto. Marocchinate, la testimonianza vera e cruda di Anna: "La vera Cesira sono io". È la nostra “Sophia Loren” reale. Una delle vittime degli stupri di massa del Cef si racconta. Settantaquattro anni non bastano per dimenticare tanta violenza. Davide Caluppi,  Francesca Trapani l'01/08/2018 su ciociariaoggi.it. Raccontare una violenza carnale per una donna non è facile. Per tanti motivi: per pudore, troppe volte per vergogna, spesso perché non si sa come iniziare. Non ci sono violenze si serie A o B. Una violenza è tale sempre. Quella che riportiamo è la testimonianza, vera e cruda, della violenza e dell'onta subite da un'anziana donna ciociara, oggi ultra novantenne, che ha vissuto sulla sua pelle quell'orrore, che le ha lasciato un dolore profondo che neanche a distanza di 74 anni può essere sopito. E l'ha vissuto in un contesto ancor peggiore: in guerra. È la nostra "Sophia Loren" reale, non la Cesira protagonista del celebre romanzo di Alberto Moravia "La Ciociara" e dello straordinario film che seppe trarne Vittorio De Sica. Anna (nome di fantasia per il massimo riserbo dovuto) nel 1944 aveva circa venti anni. Viveva in un paese della provincia di Frosinone, ai piedi della montagna. In quel periodo sulle alture della Ciociaria la facevano da padrone le truppe di spedizione marocchine del Cef (Corps expéditionnaire francais) con la loro barbarie, distruggendo interi paesi, incendiando tutto quello che trovavano sulla loro strada, seminando morte, terrore e violenza. E orrendi stupri di massa. Alle donne violentate, in quel periodo veniva affibbiato un nome che era un marchio, un appellativo che non lasciava scampo: marocchinata, cioè stuprata dai marocchini. Il contesto storico, la guerra, la mentalità dell'epoca ha fatto il resto. Tanto era il pudore, la vergogna che molte di loro hanno tenuto dentro quel marchio d'infamia, tantissime sono impazzite, altre si sono suicidate. Molte hanno dato alla luce figli venuti da quelle violenze. E li hanno tenuti e cresciuti con amore.

Anna, per la prima volta in assoluto, racconta la sua storia. Una testimonianza molto importante perché davvero rara. La sua storia Anna è disposta a raccontarla alla Procura militare di Roma che, raccogliendo il sollecito dell'Associazione nazionale vittime delle marocchinate presieduta da Emiliano Ciotti, ha aperto un fascicolo su quei crimini per chiarire l'eventuale responsabilità oggettiva della Francia, ai cui ordini agivano le truppe del Cef. A raccogliere la confidenza di Anna è stata la ricercatrice Francesca Trapani, che da tempo collabora fattivamente con l'associazione del presidente Ciotti e che l'ha intervistata.

Poche domande e lunghe risposte, condite da qualche comprensibile «non ricordo». Ma solo sui dettagli, perché quel giorno in cui fu aggredita e umiliata da quei militari non potrà mai rimuoverlo dalla sua memoria e dal suo animo. Un giorno che l'ha segnata per tutta la sua esistenza e che, con emozione, ha accettato di raccontare. 

La testimonianza

«Adesso ti racconto il fatto. Lui era deciso che voleva sposarmi (quando dice lui Anna si riferisce al suo fidanzato dell'epoca, ndr), Lo diceva sempre questo. Lui era molto furbo, mi faceva dormire spesso con lui e mi diceva che dovevo fare sempre e solo quello che diceva. In quel periodo mi sono fatta tanti di quei pianti che non si può spiegare. Il mio fidanzato una volta mi disse che facevo la "poco di buono".

Mio padre, per prendere le mie difese, gli diceva che la violenza che avevo subìto era successa perché c'era la guerra. Mio padre ha assistito alla violenza senza poter fare nulla. Quando è successo l'episodio noi ci trovavamo nascosti in un ripostiglio, vicino le rocce. Questi marocchini si trovavano nella zona del "Macchione". Quando ci siamo diretti verso quella zona stava facendo giorno e ci hanno visto.

Era mia abitudine andare con mio padre, non andavo mai da sola. Papà in quel momento mi disse: "Tu non restare qui perché è pericoloso e non si sa quello che può accadere, tua madre non vuole venire".

Restammo con mio padre e le altre persone dentro questo ripostiglio, con mio padre però che si trovava all'ingresso. Ricordo bene che questi marocchini volevano ucciderlo, quando però hanno visto che si è messo a piangere lo hanno lasciato stare. I marocchini subito dopo sono entrati dentro dove eravamo noi ed hanno cominciato a fare il oro porci comodi, a violentarci.

Adesso, a tanti anni di distanza, non ricordo se eravamo ventuno o ventidue. Ci eravamo nascosti perché dalla direzione di Frosinone sentivamo sparare. E sapevamo bene che questi marocchini commettevano violenze e distruggevano tutto quello che trovavano. Vidi mio padre piangere e lo sentii che diceva: "Come si fa, come si fa…"

Tu quanti anni avevi in quel periodo?

«Avevo una ventina d'anni. A noi donne, ragazze, ci hanno violentate quasi tutte. Queste ragazze che ricordo si trovavano alle prime case appena si entra in paese. E poi è successo quello che è successo.

Cosa potevamo fare noi? Dopo che mi hanno violentata sono tornata a casa e mia madre non voleva che dicessi al mio fidanzato quello che era successo, visto che voleva sposarmi. Raccontai a mia madre della violenza subita e mi misi a piangere. Mia madre di rispose: "Se glielo dici io ti ammazzo, così non vi sposate più". Mia madre era una donna di polso, un soldato. Ricordo che a mio padre hanno dato fastidio le parole pronunciate da mia madre. Papà mi portava sempre con lui per farmi passare del tempo, così non piangevo. Dopo la violenza ricordo di questo peso dentro che non volevo tenere con me e non sapevo come fare. Era un peso enorme per una ragazza quella violenza subìta. Piangevo sempre».

Al tuo ragazzo glie lo hai detto della violenza?

«In quel periodo ero una ragazza semplice, ingenua. Alcune persone della zona avevano raccontato della violenza che avevamo subìto dai marocchini. Mia madre non sapeva tante cose, perché io mi confidavo con le altre ragazze con cui ci volevamo un gran bene. Di queste ragazze in vita non ce n'è rimasta più nessuna. Sono tutte morte. C'era una ragazza che non so bene se l'hanno violentata o meno o se fosse scappata dai marocchini. Spero che cose di questo genere non avvengano più, come spero che non ci sia mai più la guerra». 

Seconda guerra mondiale, spunta il dossier segreto dei reati commessi in Italia degli Alleati. Scoperta all’Archivio di Stato una relazione sui crimini commessi da truppe Usa, inglesi e canadesi. Dal settembre 1943 al dicembre 1944 ci furono 1.250 morti investiti dai mezzi militari e 342 omicidi. Alessandro Fulloni il 31 gennaio 2020 su Il Corriere della Sera. Immaginate un dossier sulla sicurezza in Italia reso noto — poniamo ieri — dal Viminale, uno di quelli che pubblicano i giornali corredandolo con puntuali numeri su delitti, incidenti stradali, grafici e statistiche. Ecco, a questo punto girate la lancetta dell’orologio all’indietro e fate scorrere il tempo — mescolando storia e cronaca — sino ai giorni attorno alla fine della guerra e poco dopo. Siamo (all’incirca) tra 8 settembre 1943, 25 aprile 1945 ma anche dopo il conflitto, fino al 2 giugno 1946 e pochi mesi successivi. Immaginate adesso la prima pagina di questo corposo dossier (che ne contiene almeno 2.000) titolata così: «Statistica incidenti e crimini commessi da truppe alleate». Nella parte alta del foglio la grossa dicitura: «Ministero della guerra». Poco sotto l’elenco di tutti coloro a cui la relazione è stata mandata: in primis la presidenza del Consiglio, poi il ministero degli Esteri, quello degli Interni e il comando generale dell’Arma dei carabinieri. E di seguito alcuni dati riepilogativi: quelli sugli «incidenti automobilistici» che hanno provocato 1.250 morti «tra il settembre 1943 e il dicembre 1944». E che diventano 3.047 in un altro focus esteso al giugno 1947.

«Dispregio per le norme di disciplina stradale». Sinistri «da imputarsi per la maggior parte al dispregio per le norme di disciplina stradale manifestato dai conduttori». E poi: «342 omicidi, risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da militari avvinazzati» dediti «a molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia nella pubblica strada, sia nelle abitazioni private». Quanto alla cifra su furti e rapine (6.489) «pur considerevole, è da ritenersi molto inferiore a quella reale per il fenomeno —spiegabilissimo — della mancata denuncia per il timore del peggio». Il corposo studio sui crimini commessi dalle truppe americane, inglesi, canadesi e francesi nella Penisola è stato ritrovato in questi giorni all’Archivio Storico di Stato dell’Eur, il maggiore presidio in cui viene conservata la nostra memoria. Autore della scoperta è Emiliano Ciotti, vigile del fuoco di professione e ricercatore storico per diletto. Assai scrupoloso e appassionato nei suoi studi, il pompiere, 47 anni, è anche il presidente dell’«Associazione nazionale vittime delle marocchinate». Un suo prozio, Anastasio Gigli, venne stuprato e ucciso dai goumiers — le truppe coloniali francesi composte da marocchini, tunisini, algerini e senegalesi — nel Basso Lazio. Anche per questo, da tempo, Ciotti si dedica alla ricostruzione delle violenze (parliamo, per intenderci, di quelle stesse narrate nel romanzo di Alberto Moravia «La ciociara» poi divenuto celeberrimo film con Sophia Loren) commesse tra il luglio 1943 (dopo lo sbarco in Sicilia) e l’inverno 1944, quando i coloniali vennero trasferiti nel fronte del Nord Europa a seguito delle fortissime proteste italiane indirizzate al comando alleato per quegli stupri di massa.

Carte provenienti dalle stazioni dell’Arma e dai commissariati. Del tutto casualmente il vigile, cercando all’Archivio la documentazione sulle atrocità dei soldati francesi , si è imbattuto nel dossier, più complessivo e inedito, sui crimini degli Alleati. Sono pagine e pagine provenienti dalle stazioni dell’Arma e dai commissariati. Minuziosi e dettagliati rapporti scritti a macchina da carabinieri e poliziotti che hanno raccolto — né più né meno come si farebbe oggi — le denunce straziate dei genitori di un bimbo calpestato dai cingoli di un tank guidato da un carrista ubriaco o dai familiari di una donna stuprata, e uccisa, dentro casa da militari senza nome. Colpiscono tante cose, in quei rapporti: intanto l’idea di un apparato di sicurezza, e se vogliamo di uno Stato, che in qualche modo, pur tra le macerie, dava l’idea di funzionare. Mentre infuriava la guerra, addirittura nei giorni del collasso dell’8 settembre, Arma e polizia erano lì ad ascoltare i cittadini, avviando indagini, per quanto possibile, e scontrandosi con l’indifferenza, se non l’irrisione, dei comandi alleati.

In «presa diretta» come in un film neorealista. Ma poi, soprattutto, ci sono i fatti raccontati: le frasi dattilografate a macchina fotografano l’Italia di allora, quasi in presa diretta come in un film neorealista. Vediamo alcuni rapporti. Uno a caso da Lucca: «18 marzo 1944, un camion alleato, guidato dal caporale americano G. L. Bouer, investì e uccise il motociclista Torcigliani Turiddu». Da Salerno, il giorno dopo: «Un autocarro alleato, non identificato, investì e uccise Musella Giuseppa». Ad Avellino un ufficiale dei Royal Marines inglesi «investe uccide Barletta Grazia». E via così sino ad arrivare al numero di 1.250 vittime in sedici mesi. Il confronto che ora proponiamo ha poco senso dato che strade e traffico allora erano completamente differenti da oggi. Però rendono l’idea: nel 2018 i pedoni morti in Italia sono stati 612. Vale a dire 51 al mese contro i 78 di allora (che diminuiscono a 66 nel conteggio esteso al giugno 1947).

Reati contro il patrimonio. Poi il capitolo dei «reati contro il patrimonio», sovente storielle minime che però raccontano i tempi: a Mondragone «il 15 marzo u.s. certo Riccio Pasquale denunziò all’Arma che il giorno precedente era stato rapinato da 5 individui, indossanti la divisa dell’esercito americano, di 5.600 lire e una bicicletta». Un’altra rapina a Perugia «dove tre individui indossanti le uniformi degli eserciti alleati penetrarono nell’abitazione di Pievaioli Guglielmo e lo rapinarono di 47.000 lire». Ruberie a tappeto vengono effettuate da «truppe canadesi e greche appartenenti all’Ottava armata tra Jesi e Cattolica, nella Marche».

«Atti spavaldi e malvagi». Un «rapporto segreto» rivela che dopo la fuga dei tedeschi dalla linea gotica «ogni casa fu visitata e tutti gli effetti dei civili sistematicamente asportati». «Nella maggior parte gli abitanti rimasero unicamente con i vestiti che in quel momento indossavano». Un convento fu saccheggiato e nulla valsero i «turni di guardia» degli sfollati che qui si erano rifugiati portando i loro averi. «Le popolazioni di Cattolica e Riccione, già vessate dai tedeschi, e che attendevano con ansia le truppe liberatrici, rimasero terrorizzate» da uccisioni «per pura brutalità» e i saccheggi contro cui a nulla valse il «tentativo di mettere un freno da parte del sindaco di Riccione» che parlava «un ottimo inglese». Chi all’epoca scrisse il riepilogo del rapporto nota che «molti dei conduttori investitori continuano per la loro strada senza portare alcun aiuto agli investiti». Per quanto riguarda il capitolo «omicidi, ferimenti, aggressioni e violenze» viene spiegato che «tali fatti non debbono essere considerati nella grandissima maggioranza come manifestazioni di malvolere delle truppe alleate verso di noi». No, sarebbe «la risultante di atti spavaldi e malvagi prodotti da iniziativa di militari avvinazzati; molestie alla popolazione civile, specialmente donne, sia in strada che in casa»; «provocazioni a militari italiani». «Molti omicidi sono stati commessi a danno di civili (spesso genitori, fratelli o mariti) per la resistenza fatta o la difesa da essi esercitata allo scopo di impedire violenze carnali».

Lo storico: «Certi fatti accadono anche in guerra». Ma l’insieme di questi dati cosa racconta? Secondo Gregory Alegi, storico e docente di «Storia delle Americhe» alla Luiss, «bisogna intanto contestualizzare, separare il dato storico dall’idea un po’ ingenua che certi fatti, dagli omicidi agli incidenti stradali, in guerra non accadano, come se dovessero essere sospesi. Invece ci sono, e ce li raccontano queste denunce raccolte presso carabinieri e polizia. La sensazione è che ci fosse un’idea di Stato, e che nello Stato ci fosse fiducia, indipendentemente dalla risposta data». E ancora: «Prese singolarmente, sono storie che dicono poco. Si rubano galline, maiali, stivali. Si fa a botte nei locali notturni dove interviene la Military Police che, talvolta, qualche soldato lo arresta. Cose di bassissimo livello mescolate a piccole e grandi tragedie individuali. Vicende che non sono dissimili dalle cronache notturne che si registrano al sabato sera in una grande città. Nell’insieme viene però fuori il ritratto dell’Italia di allora. Senza giustificare nessuno, ma cercando di comprendere». Ma gli incidenti stradali? «Sono la tipologia principale del dossier: per capirne la gravità bisognerebbe confrontarli con dati attuali, tenendo presente che a quel monitoraggio sfugge la parte d’Italia ancora occupata dai tedeschi». (Ciotti, nelle sue ricerche, ha messo le mani su quattro dossier — «ne sto ancora studiando i dati» — dal senso piuttosto simile. Oltre a quello dei «crimini commessi dagli alleati» e all’altro (di cui la stampa si è già occupata) degli stupri ad opera dei goumiers, ce ne sono altri due che focalizzano momenti e situazioni di cui ancora poco sappiamo: uno riguarda «i crimini commessi dai francesi ai danni dei deportati italiani nella stessa Francia» subito dopo la nostra «pugnalata alle spalle»; l’ultimo ha a che fare con «i crimini francesi commessi sui soldati italiani detenuti nei campi di prigionia nel Nord Africa». «La sintesi — spiega il pompiere-storico — è il tentativo di farsi sentire, da parte delle autorità italiane, durante le trattative di pace che seguirono la fine della guerra dimostrando che la Liberazione aveva avuto un corollario di conseguenze risultato pesantissimo per la popolazione». Domanda inevitabile: Ciotti, la sua non sarà una tesi revisionista? «È un’accusa che mi fanno spesso. Ma tutto quello che sostengo lo raccontano i documenti che trovo negli Archivi di Stato. Carte che stanno lì da decenni e che nessuno ha letto»)

"Così nel '44 i coloniali francesi stuprarono e uccisero mia madre davanti a me". La storia straziante della 90enne fiorentina che, ascoltata in "incidente probatorio" dalla Procura di Siena, ha raccontato le atrocità compiuto dai coloniali francesi nei confronti delle donne durante il passaggio della guerra in Toscana. Costanza Tosi, Venerdì 31/07/2020 su Il Giornale. Perché sia fatta giustizia non è mai troppo tardi. Deve averlo pensato Giselda Anselmi prima di sedersi, nel mese di febbraio, davanti alla pm Valentina Magnini per “l’incidente probatorio” in cui la donna, ormai novantenne ha raccontato quel che accadde nelle campagne di Radicofani, nel Senese, il 22 giugno del 1944. “È una scena che rivedo davanti a me tutti i giorni - ha confessato Giselda - quei due soldati che afferrano mia madre lungo la strada, lei che continua a tenere stretta la mia sorellina Elisabetta, un mese appena. Loro che provano a strappargliela, lei che resiste. Loro che le sparano. Una ferocia sconvolgente, solo per immobilizzarla. Poi la violenza, le urla. E il respiro di mamma che si affievolisce lentamente di notte sino a spegnersi del tutto al mattino. Quando mia madre Ottavia Fabbrizi morì stava ancora allattando la piccola”. L’atto che racchiude la terribile storia raccontata dall’anziana ora, è nelle mani della Procura militare di Roma che ha aperto un fascicolo. Chi fu a compiere quegli atti disumani, chi è che senza saperlo ha lasciato nella mente di Giselda il ricordo indelebile dell’ingiusta morte della madre? Questo non lo si è mai saputo e i responsabili della storia dell’orrore probabilmente non verranno mai individuati. É passato troppo tempo da quel giorno. Ma la testimonianza racconta dai pm che, con ogni probabilità potranno solamente procedere con la richiesta di archiviazione varrà per la memoria. Un giorno prima che la madre di Giselda morisse, il padre della donna Sebastiano aveva deciso di lasciare la cascina degli Anselmi. “Qui non possiamo più stare”, disse il padre quella triste mattina del 21 giugno 1944. Poi, decise di raggiungere a piedi la casa della madre. Una cannone aveva completamente distrutto la struttura agricola e da lì, inizia il racconto della storia di Giselda. Il padre “era un contadino di poche parole, un “ragazzo del ‘99” catturato dagli austriaci sul Piave, deportato in Germania e richiamato alle armi dopo il 1940”, spiega l’anziana. La famiglia che l’uomo era riuscito a tirare su era molto rumorosa, e quel giorno, tutti, marito, moglie, otto figli, si incamminarono. Durante il tragitto un forte rumore, una scarica di colpi di mitragliatrice e le grida. Due pastori erano stati uccisi dopo essersi opposti al furto delle pecore. Dopo poco la famiglia raggiunse un podere dove vi erano altri sfollati. “Si avvicinarono due soldati, avevano un carnato olivastro” racconta la donna ai pm. “Io in quel momento non avrei potuto dire di che nazionalità fossero, mai sentita la loro lingua”, ma una cosa è certa “non erano tedeschi. Quella mattina li avevamo incontrati per strada mentre si ritiravano; papà il tedesco lo conosceva bene per averlo imparato durante la prigionia. Gli dissero: Con tutte queste ragazze che ti porti dietro devi stare attento, gli alleati le stuprano…". I due uomini in divisa, armati, “cercarono di violentare le sorelle che papà nascose tra i cespugli”. Allora gli uomini insistettero in maniera violenta e decisi strattonarono e presero Ottavia che tenne stretta a sé l’ultima figlia, neonata. La piccola cadde a terra e la “mamma la riprese e poi venne gettata dietro un albero”. Due spari decisi e poi l’accoltellamento. “Sparì alla mia vista per un quarto d’ora”, spiega Giselda. Quando i due uomini se ne andarono mamma Ottavia rimase in silenzio e continuò ad allattare. Prima di morire, il mattino seguente. Nei giorni a seguire gli orrori si ripeterono. I soldati “continuarono a violentare altre donne sinché qualcuno li cacciò lanciandogli delle bombe a mano”.

Chi erano i "goumiers", i soldati che violentavano le donne. Nel racconto scioccante della donna si ripercorrono i momenti terribili del passaggio della guerra in Toscana. Ricordando in maniera tanto lucida quanto faticosa le violenze sulle donne “commesse dai goumiers”. “I soldati coloniali, arabi e africani, inquadrati nelle truppe francesi che combattevano con gli Alleati”, come spiegano gli avvocati di Giselda Anselmi, Luciano Randazzo e Paola Pantalone. “Per quel delitto allora non ci furono indagini, niente” , spiega la donna. Certa di pretendere “giustizia anche adesso, da vecchia. Lo pretendo per chi subì le stesse atrocità rimaste impunite in migliaia di casi tra Campania, Lazio, Abruzzo e Toscana”. Fatti disumani che oggi rimangono “un fenomeno poco conosciuto e sottovalutato”, ma che dovrebbe essere giudicato - spiega Marco De Paolis a Repubblica, il procuratore generale militare presso la Corte militare d’Appello di Roma che ha fatto luce sulle stragi naziste di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema - “secondo la legge di bandiera”. Si tratta delle violenze terribili commesse dai goumier tra 1943 e e il 1944. Le stesse “raccontate nel romanzo La Ciociara”, spiega De Paolis. Per lui, insomma, dovrebbe essere la giustizia francese a fare chiarezza sui reati commessi dai propri militari. E su questo sono d’accordo anche Randazzo e Pantalone. “La Francia celebra i goumier come eroi dedicando loro piazze e strade delle loro città - spiegano gli avvocati - mentre in Italia sono stati autori di ripetute violenze indicibili. Forse accanto a quelle celebrazioni dovrebbero essere ricordati anche le centinaia, se non migliaia, di stupri che i coloniali francesi commisero risalendo la Penisola assieme agli Alleati”. 

Il coraggio di Cristicchi: dopo le foibe, ecco lo spettacolo “Marocchinate”, scrive il 25/10/2016 Luca Cirimbilla su “L’Ultima ribattuta”. Da stasera al 30 ottobre al Teatro Lo Spazo andrà in scena le «Marocchinate», spettacolo teatrale scritto da Simone Cristicchi e Ariele Vincenti sulle atroci violenze subite dalle donne (e non solo) del basso Lazio da parte degli Alleati al termine della seconda guerra mondiale. Simone Cristicchi si conferma ancora una volta “artista” nel senso più nobile del termine, scegliendo di mettere in scena una rappresentazione coraggiosa e controcorrente. Quello delle marocchinate è uno dei tantissimi episodi che la storiografia ufficiale ha provato a nascondere in tutti i modi (un altro è stato il bombardamento di Gorla). Come è stato raccontato su L’ultima Ribattuta, nei giorni che seguirono la caduta di Esperia, avvenuta il 17 maggio 1943, 7000 goumiers marocchini devastarono, rubarono, razziarono, uccisero e violentarono circa 3500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui alcuni ragazzi e anche un sacerdote, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Esperia, che morì due giorni dopo a causa delle sevizie. E molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati. Tutto questo con la copertura dei vertici militari: infatti venne garantita l’impunita dal loro generale comandante, il francese Alphonse Juin. Nei mesi scorsi lo spettacolo sulle foibe di Cristicchi aveva suscitato la rabbia di chi non vuole che si parli dei massacri attuati da “Alleati” e “liberatori”. Tra le vittime delle foibe ad esempio ci furono persone la cui colpa era solo quella di essere italiane (tra gli infoibati per mano dei partigiani titini si contano anche numerosi partigiani “bianchi” della Osoppo). Cristicchi, dunque, sceglie di affrontare un’altra vergogna messa in atto da quelli che vengono considerati “liberatori”. «Aspettavamo ji salvatorià so’ arrivati ji diavoli» è quanto si sente ancora oggi tra i cittadini del basso Lazio. «È un’altra di quelle storie che se non sei di quelle parti non la conosci», ha osservato Cristicchi. Grazie a lui molte altre persone verranno a conoscenza di un simile dramma.

Foibe e Marocchinate, il teatro di Cristicchi fa infuriare la sinistra, scrive il 4/11/2016 Luca Cirimbilla su “L’Ultima ribattuta”. Prima Magazzino 18, oggi Marocchinate: le storie portate in scena da Simone Cristicchi non piacciono a una certa sinistra politica e culturale. Eppure la voglia di raccontare questi lati oscuri della Liberazione sono arrivati da uno, come Cristicchi, che si è sempre reputato di sinistra e che può addirittura vantare un nonno partigiano: “Devo dire – ha confessato a Libero – che gli incidenti accaduti con Magazzino 18 mi hanno portato anche a ripensare i miei riferimenti ideali”. Se da una parte, una sinistra antistorica che fomenta l’odio antifascista ha provato a boicottare lo spettacolo, dall’altra il riscontro a livello di pubblico non si è fatto attendere: “Le 200 repliche con le quali abbiamo portato Magazzino 18 in tutta Italia – per un totale di quasi 200 mila spettatori – sono un successo clamoroso per uno spettacolo di teatro civile”. L’ultimo spettacolo, il cantante lo ha scritto assieme ad Ariele Vincenti e affronta il dramma delle donne stuprate dai Goumiers, ovvero dai soldati marocchini e algerini inquadrati nell’esercito dei liberatori francesi sul finire della seconda guerra mondiale. Dopo Magazzino 18 che ha raccontato delle foibe e degli esuli istriani, dunque, Cristicchi ha voluto rappresentare un altro aspetto – meno conosciuto e per niente eroico – della Liberazione dal nazifascismo. Chi pensa che l’autore sia mosso solo dall’effetto da suscitare nel pubblico, si sbaglia: “Per me è semplicemente un atto necessario – ha spiegato Cristicchi – Avverto l’urgenza di doverlo raccontare”. Si mettano l’anima in pace, dunque, i dinosauri dell’Anpi e i loro nipotini: i partigiani e i loro epigoni – in risposta allo spettacolo Magazzino 18 – avevano pensato bene di ritirare la tessera di iscritto all’Anpi a Cristicchi. Peccato che fosse risultata scaduta da mesi.

8 marzo: nessuno ricorda le donne vittime delle “marocchinate”, scrive l'8/03/2016 Fabrizio Di Marta su “L’Ultima ribattuta”. Nel giorno della festa delle donne, sono ancora tante le vittime del sesso considerato “debole” dimenticate e lasciate morire senza giustizia. L’8 marzo non sono le mimose, non è esibizionismo, non è strumentalizzazione, non è moda. Dovrebbe essere semplicemente silenzio. E ricordo. Ad esempio di una delle pagine più buie della seconda guerra mondiale, che qualcuno si è “dimenticato” di inserire nelle pagine di storia: la dolorosa vicenda delle migliaia donne italiane uccise dalle truppe marocchine del contingente francese della V Armata Americana. Le cosiddette “marocchinate”. Un brutto termine usato per indicare quelle vittime che, durante la seconda guerra mondiale, in Italia, subirono la violenza degli stupri da parte dei “buoni”. A ricordare quelle donne non sono state le Istituzioni, perchè non è mai stata dedicata loro alcuna giornata della memoria o del ricordo. Ci ha pensato solo l’ex senatore Ferdinando Signorelli, che ha scritto una lettera, pubblicata su “Tuscia web”.

“La vergognosa inerzia dello Stato sulle marocchinate”, esordisce così Signorelli.

“E’ stata richiesta l’istituzione della memoria delle ‘marocchinate’ e la locuzione di ‘crimine contro l’umanità’, senza alcun risultato. Come pure sono stati interessati i vari governi per conoscere la sorte toccata alle 60mila pratiche presentate dalle donne violentate per l’accertamento finalizzato al loro riconoscimento di vittime civili di guerra, ma senza nessun apprezzabile riscontro da parte della burocrazia, nelle cui agghiaccianti voragini si sono lasciate spegnere le speranze di un riscatto”.

Ma cosa successe davvero quel giorno?

“Nei giorni che seguirono la caduta di Esperia, avvenuta il 17 maggio 1943, 7000 “goumiers” marocchini devastarono, rubarono, razziarono, uccisero e violentarono circa 3500 donne, di età compresa tra gli 8 e gli 85 anni. Vennero sodomizzati circa 800 uomini, tra cui alcuni ragazzi e anche un sacerdote, don Alberto Terrilli, parroco di Santa Maria di Esperia, che morì due giorni dopo a causa delle sevizie. E molti uomini che tentarono di proteggere le loro donne vennero impalati”.

In una relazione degli anni Cinquanta si legge poi che “su 2mila donne oltraggiate, il 20 per cento fu riscontrato affetto da sifilide, il 90 per cento da blenorragia; molti i figli nati dalle unioni forzose. Il 40 per cento degli uomini risultarono contagiati dalle mogli. Senza contare la distruzione dell’80 per cento dei fabbricati, la sottrazione di gioielli, abiti, denaro e del 90 per cento del bestiame”.

“E, cosa ancora più triste – conclude Signorelli- le truppe omicide furono fatte sfilare, come “marcia premiale” il 4 giugno 1944 a Roma, in via dei Fori Imperiali.

Marocchinate, scoperto il caso di Carmela V., stuprata e arsa viva. L’Anvm: “Sia fatta giustizia”. Il Secolo d'Italia martedì 17 dicembre 2019. Prima violentata e poi data alle fiamme. È il nuovo caso di violenza su una donna italiana da parte delle truppe coloniali francesi emerso grazie al lavoro dell’Associazione nazionale vittime delle marocchinate. Per la violenza, avvenuta a Cassino nel 1944, l’Anvm chiede ora l’intervento della magistratura per fare in modo che i colpevoli ancora in vita paghino per quell’abominio. ”Nella zona di Cassino non ci furono solo gesta eroiche legate alle famose battaglie. Abbiamo accertato che le truppe coloniali francesi si macchiarono di quattro stupri e in un caso la donna, dopo essere stata violentata, venne arsa viva dai suoi aguzzini”, ha spiegato Emiliano Ciotti, presidente nazionale dell’Anvm. A ricostruire questo nuovo caso sono stati ancora una volta i ricercatori storici dell’associazione, grazie a un particolare rinvenimento. Gli studiosi, infatti, hanno trovato nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma la lettera di un patronato, indirizzata all’Ambasciata francese e al ministero degli Esteri italiano. Nel documento si sollecita la concessione di un indennizzo a favore della figlia di tale Carmela V., fu Antonio, ”violentata e arsa viva dalle truppe marocchine di stanza a Monte Caira (Cassino)”. ”È un documento sconvolgente, che attesta una violenza terribile ai danni di una donna italiana, prima violentata e poi data alle fiamme. Durante le nostre ricerche abbiamo accertato numerosi casi di stupro, soprattutto in Sicilia, Campania, Lazio e Toscana. Ma questo è il caso più aberrante”, ha commentato Ciotti. “Credo che la magistratura debba avviare un’indagine. Gli autori – ha chiarito il presidente dell’Associazione nazionale vittime delle marocchinate – potrebbero essere ancora in vita e la legge italiana deve perseguirli”. “Serve la collaborazione delle autorità francesi, affinché aprano i loro archivi, se non agli studiosi italiani, almeno alla magistratura”, ha concluso Ciotti.

Marocchinate, stuprata e arsa viva dai liberatori: la terribile scoperta. La lettera ritrovata in un vecchio fascicolo dall'Associazione Vittime delle Marocchinate riporta a galla la storia di un'altra vittima innocente, stuprata e data alle fiamme nel 1944. Elena Barlozzari, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Stipato in uno degli scaffali più remoti dell’arichivo di Stato c’è un fascicolo logoro di anni. Lo strato di polvere che lo avvolge dimostra una triste verità: ciò che contiene non interessa a nessuno. Eppure lì dentro ci sono storie che aspettano solo di essere raccontate. Storie di esistenze interrotte, di crimini orrendi di cui si è persa memoria. Delitti brutali per cui nessuno ha pagato. Sul frontespizio si leggono tre parole che sono uno pugno nello stomaco al politicamente corretto: "Violenza delle truppe alleate". Qualcuno forse ha già sentito parlare dei goumier. Qualcuno probabilmente no. Si tratta delle truppe straniere, marocchine e algerine, inquadrate nell’esercito francese. Risalendo l’Italia per liberarla dal nazifascismo si lasciarono dietro sangue e orrore: 60mila stupri e più di mille omicidi. Ecco, nel fascicolo di cui parlavamo tutto questo è messo nero su bianco. Le centinaia di fogli dattiloscritti ricostruiscono i fatti e attribuiscono le responsabilità come solo i documenti ufficiali sanno fare. I maniera secca, diretta, inconfutabile. Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate, ci si è imbattuto nel corso delle sue ricerche. È stato lui a riaprire il vecchio fascicolo dimenticato. Sono mesi ormai che legge e rilegge quei documenti. Studia. Ricostruisce. Archivia. E ogni giorno emerge qualcosa di nuovo e terribile. L’ultima storia riportata alla luce è quella di Carmela. Di lei si sa poco e nulla. Non cosciamo il suo volto nè quanti anni avesse o che lavoro facesse. Ma sappiamo con certezza che era di Cassino, nel Frusinate, e che l’avanzata dei libertori per lei ha significato l’annientamento. Nel 1944 venne stuprata e arsa viva dalle truppe coloniali francesi. Le prove di questa barbarie sono contenute in una lettera scritta da Giulio Pastore, deputato e segretario generale delle Acli, il 6 agosto del 1948. La missiva, indirizzata all’ambasciata francese di Roma e al ministero degli Affari esteri italiano, è un sollecito al pagamento di un indennizzo alla figlia della vittima, Giuseppina. I risarcimenti corrisposti da Parigi alle vittime delle “marocchinate” si aggiravano attorno alle 15mila lire: 5mila di acconto e 10mila di saldo. La figlia di Carmela, come risulta dal documento, non aveva ricevuto nulla, nonostante quest’ultima avesse “a suo tempo prodotto alla Commissione francese a ciò preposta (con sede in Roma Hotel Plaza), documentata domanda intesa a ottenere un indennizzo”. Quel risarcimento, si legge ancora nella missiva, le spettava “per essere stata la di lei madre V. Carmela fu Antonio violentata e arsa viva dalle truppe marocchine di stanza a Monte Caira (Cassino)”. “È un documento sconvolgente – commenta Ciotti – che attesta una violenza terribile ai danni di una donna italiana, prima violentata e poi data alle fiamme. Durante le nostre ricerche abbiamo accertato numerosi casi di stupro, soprattutto in Sicilia, Campania, Lazio e Toscana, ma questo è il caso più aberrante”. “Credo che la magistratura debba avviare un’indagine, gli autori – conclude – potrebbero essere ancora in vita e vanno perseguiti dalla legge italiana. Serve la collaborazione delle autorità francesi, affinché aprano i loro archivi, se non agli studiosi italiani almeno alla magistratura”.

Marocchinate, i documenti choc: "I soldati italiani torturati dai francesi". Scoperti "documenti vergognosi" sulle torture subite dai nostri soldati nei campi di concentramento africani. Giovanna Stella, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Ritrovati i "dossier della vergogna". Una sintesi di oltre 1200 pagine della relazione che la presidenza del Consiglio dei Ministri italiano trasmise, nel 1945, alla commissione alleata di controllo. Pagine in cui si raccontano le atrocità commesse dalle truppe francesi contro i soldati italiani detenuti nei campi di prigionia africani. Oltre a numerosi fascicoli sulle atrocità commesse dalle truppe francesi contro la popolazione italiana, fascicoli che raccontano di stupri, violenze, omicidi che hanno interessato Campania, Lazio, Toscana, Sicilia, Sardegna, Molise e Puglia. Nei "dossier della vergogna" vengono svelate le torture ai danni dei prigionieri, "confermando ancor di più - sottolinea a il presidente nazionale dell'Anmv, l'Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate - come i francesi si siano accaniti contro il popolo italiano tutto, militari e civili inermi, per vendicare l'attacco alla Francia del giugno del 1940". Ciotti svela come l'Anmv abbia rinvenuto nell'Archivio Centrale dello Stato di Roma "dei voluminosi fascicoli che elencano una serie di innumerevoli atti criminali, compiuti contro i nostri soldati italiani prigionieri nei campi di concentramento francesi". "Stiamo preparando una ricca documentazione (l'Anvm dispone al momento di oltre 10mila pagine) da inviare alla Corte internazionale dei diritti dell'uomo", annuncia Ciotti. Una scoperta choc che arriva dopo un documento trovato solo qualche settimana fa. Nei documenti, infatti, si legge di come i prigionieri italiani venissero maltrattati e bastonati. Alcuni di loro venivano sepolti fino al collo e lasciati con la faccia al sole, senza acqua, per giornate intere. Altri, legati ad un palo, erano costretti a girarvi intorno per ore sotto il sole. Altri ancora, implotonati, dovevano restare immobili per ore con in spalla pesanti mattoni. Leggere queste parole mette i brividi. Ma non è finita. I malati dovevano farsi 12 chilometri sotto il sole cocente prima di andare in infermeria. Chi non sottostava a questi trattamenti veniva giustiziato con un colpo di pistola, altri bastonati fino alla morte. "I prigionieri - riporta l'Adnkronos - lasciati senza né cibo né acqua, venivano costretti ad arruolarsi nella legione straniera, ma anche quella era una forma diversa di prigionia e di maltrattamenti. Ecco da dove nasce il fenomeno della Marocchinate".

La verità sulle marocchinate: "Stupravano le donne perché odiavano l'Italia". Dall'archivio di Stato un documento rivela la ragione delle atrocità commesse dai soldati marocchini inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia: "Stuprano e uccidono per risentimento verso la nazione che odiosamente tradì la Francia". Cristina Verdi, Venerdì 01/11/2019, su Il Giornale. Il documento trovato nell’Archivio di Stato dal presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate, Emiliano Ciotti, getta nuove ombre sull’azione del Corpo di spedizione francese durante la campagna d’Italia. Gli abusi consumati dai goumier, i soldati marocchini inquadrati nell’esercito d’Oltralpe, vengono certificati dal generale Alphonse Juin, comandante del Corpo, che il 24 maggio 1944 sottoscrive un memorandum che ha come oggetto il “maltrattamento di popolazione civile". L’informativa diretta al Comando Alleato, che chiedeva spiegazioni su stupri e uccisioni di migliaia di civili, parla di “atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto”. Le vittime sono gli italiani, in particolare le donne, colpiti dai soldati marocchini, a detta del generale, per via dei "sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia”. Rabbia e senso di rivalsa contro un Paese, il nostro, che nelle stesse carte viene definito “conquistato”. L’orrore delle "marocchinate" che si consumarono nei paesi della Ciociaria durante la battaglia della Valle del Liri, spiega Ciotti all’agenzia di stampa Adnkronos, era dunque motivato dal “risentimento nazionale per la dichiarazione di guerra dell'Italia”. “Per la prima volta – fa notare lo studioso - si spiega perché le truppe francesi stupravano e uccidevano le donne italiane”. Il generale Juin, nel documento, cerca di spiegare agli Alleati il comportamento dei suoi soldati, pur biasimandolo. “Comunque forti possano essere i nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia - comunicava - noi dobbiamo mantenere un'attitudine dignitosa”. Altrimenti, avverte, la “considerazione” che “l'esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano” verrebbe meno. “Sarebbe facile cementare questa reputazione adottando una scorretta abitudine in un paese conquistato, verso un popolo che sta attualmente sperimentando tutti gli orrori della guerra e la cui responsabilità della sua amministrazione”, continua il generale, che chiede al comandante della divisione di prendere provvedimenti per “por termine a tutti quegli atti che vanno a detrimento della morale e della dignità del vincitore”. Una verità, quella che emerge dai documenti ufficiali, che sembra sconosciuta al presidente francese Emmanuel Macron, che lo scorso agosto a Saint-Raphael, in occasione del 75esimo anniversario dello sbarco alleato in Provenza, chiese davanti ai presidenti di Guinea e Costa d’Avorio di intitolare strade e piazze ai militari africani. Il capo dell’Eliseo li ha definiti “eroi” che "hanno fatto l'onore e la grandezza della Francia”. Per Ciotti, invece, nipote di uno dei ragazzi brutalmente uccisi nel ’44, sono solo “stupratori” e “assassini”. “Molti di loro – aggiunge - si macchiarono di crimini inauditi e violenze di ogni genere contro la popolazione civile”. L’appello, quindi, è al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e al premier Giuseppe Conte perché “intervengano nelle sedi istituzionali per riaffermare l'inopportunità dell'intitolazione di vie e piazze francesi a dei soldati che compirono delitti, razzie, stupri e omicidi e che ancora oggi sono ricordati con orrore dalle popolazioni che 75 anni fa subirono tali violenze”. “Invece di esaltare le gesta dei coloniali, il Presidente Macron chieda scusa all'Italia e alle vittime”, conclude Ciotti chiedendo rispetto per quell’Italia sfregiata che ancora aspetta verità e giustizia.

Uccise per aver detto no allo stupro: inchiesta sui «goumiers». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 da Corriere.it. Uccise davanti ai figli, mariti e familiari per essersi opposte allo stupro da parte di alcuni goumiers, i soldati coloniali (marocchini, tunisini, algerini e senegalesi) inquadrati nelle truppe francesi durante la Seconda guerra mondiale che combattevano con gli Alleati. E autori di centinaia, se non migliaia, di violenze nel periodo della Liberazione, dal 1943 sino al 1945. Sono due storie — uguali a quella narrata nel romanzo di Alberto Moravia «La ciociara» poi divenuto celeberrimo film con Sophia Loren) che emergono in questi giorni dagli Archivi di Stato e dalle aule giudiziarie. La prima viene da un documento del 30 maggio 1944 ritrovato dall’«Associazione nazionale vittime delle marocchinate». Si tratta del rapporto alla «Regia Pretura» in cui i carabinieri descrivono l’uccisione di una «ragazza nubile ventunenne» che viveva a Maenza, in provincia di Latina nel Basso Lazio. Pasqua Battisti — questo il nome della giovane, contenuto in un dossier trovato all’Archivio di Stato dell’Eur — si ribellò allo stupro da parte dei due marocchini. Che poile spararono due colpi di pistola, ammazzandola. Il rapporto dei carabinieri racconta che «noi militari avuta tale notizia ci siamo recati sul posto ed abbiamo potuto constatare veritiero quanto ci avevano riferito». Nel documento, perfettamente battuto a macchina, si legge che «i soldati suddetti si erano presentati nella località predetta con l’intenzione di portare con loro la giovane» che «essendosi rifiutata» veniva colpita da due colpi di pistola, esplosi davanti «ai genitori e altri familiari». Dopo averla uccisa i due goumiers si «allontanavano con le armi spianate minacciando coloro che si fossero avvicinati». Questa la conclusione: «Non si è potuto identificare i militari marocchini perché facenti parte delle truppe avanzanti verso Carpineto» e «anche perché il fatto si è saputo con tre giorni di ritardo». Del tutto analoga la storia di Ottavia Fabbrizzi, raccontata — nitidamente in ogni dettaglio — dalla figlia Giselda Anselmi, oggi novantunenne, che sarà ascoltata in incidente probatorio su decisione del Gip di Siena Alberto Lippini. Il giudice ha così voluto dare una seguito giudiziario alla vicenda avviata dopo una denuncia presentata ad aprile dai legali di Giselda Anselmi, avvocati Paola Pantalone e Luciano Randazzo. L’incidente probatorio servirà a cristallizzare la testimonianza - per preservarla a fini penali e se vogliamo anche storici — della figlia di Ottavia, in precarie condizioni di salute e che per questo vuole che i suoi ricordi non vadano perduti. Sia questa vicenda che quella di Maenza sono seguite dalla Procura militare. Non viene escluso — trapela da fonti giudiziarie — che venga chiesto all’«Associazione dei goumiers» francesi un elenco dei militari che combatterono in Italia. Raggelante, il racconto del femminicidio avvenuto a Radicofani, nel giugno 1944. «Camminavamo nella strada sottostante la villa sede del Comando quando alcuni soldati di colore, verosimilmente francesi, con le armi in pugno, ordinarono a mio padre di fermarsi e presero mia mamma di forza, ordinando a noi figli che cercavamo rifugio dietro nostro padre, di rimanere immobili dietro un ginestreto a lato della strada». «Mamma, che teneva in braccio la piccola Elisabetta — si legge ancora nella denuncia — nata un mese prima, si oppose e non volle lasciare» la piccola, ribellandosi al tentativo di violenza. I goumiers la «trascinarono dietro un cespuglio; e poiché lei continuava a opporsi poco dopo si udirono alcuni colpi di arma da fuoco, dei fendenti da arma da taglio e le urla disperate di nostro padre che invano aveva tentato di difenderla». I soldati a quel punto fuggirono. Nei giorni successivi «venimmo a sapere che in almeno tre occasioni sempre i medesimi soldati francesi avevano fatto diverse incursioni per sequestrare e violentare una giovane donna di circa 20 anni di Radicofani che si chiamava Gesuina». Il presidente dell’«Associazione azionale vittime delle marocchinate» è un vigile del fuoco di Latina di 47 anni. Un suo prozio, Anastasio Gigli, venne stuprato e ucciso dai goumiers, sempre a Maenza. Per questo Gigli, animato dalla passione per la storia, trascorre gran parte del suo tempo libero negli Archivi di Stato, cercando carte riguardanti le vittime dei coloniali francesi. Giorni fa ne ha trovato uno importantissimo, all’Eur: si tratta di un memorandum firmato da generale Alphonse Juin, comandante delle truppe coloniali francesi in Italia. Il documento è intitolato «Maltrattamento di popolazione civile». Juin mette nero su bianco l’arrivo di innumerevoli segnalazioni (trasmesse al Comando Alleato) di «atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto» ai danni degli italiani e ne individua la ragione in quelli che definisce i «nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia», l’Italia appunto, «paese conquistato». In particolare Juin scrive di essere «stato colpito dalle lamentele indirizzate dall’Autorità giudiziaria militare relative alle condotte di alcuni elementi francesi nei riguardi delle popolazioni civili italiane durante la recente avanzata. Sono stati commessi atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto contro le popolazioni che vivono nelle zone avanzate e che si lamentano amaramente presso le Autorità Alleate. Vi è certamente la possibilità di esagerare i fatti; che comunque fanno correre il rischio di discreditare un esercito composto in massima parte di truppe coloniali». Juin prosegue: «L’esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano la considerazione di tutti. Sarebbe facile cementare questa reputazione adottando una scorretta abitudine in un paese conquistato, verso un popolo che sta attualmente sperimentando tutti gli orrori della guerra e la cui responsabilità della sua amministrazione. Il Comandante Divisionale e il generale comandante dei Gaume — è l’esortazione dunque del generale — prendano pertanto i necessari provvedimenti indispensabili per por termine a tutti quegli atti che vanno a detrimento della morale e della dignità del vincitore». «La carta spiega per la prima volta — sostiene Ciotti — le ragioni degli stupri commessi dai goumiers: ovvero risentimento nazionale per la dichiarazione di guerra italiana». «Per il presidente Macron i goumiers hanno fatto — prosegue Ciotti — l’onore della Francia e per questo ha chiesto ai sindaci di intitolargli strade e piazze. Ma per gli italiani sono solo soldati colpevoli di crimini inauditi». Ciotti, nel corso delle sue ricerche ventennali, rivede all’insù le stime dei numeri sugli stupri: non le centinaia segnalati o denunciati nel 1944 nel Basso Lazio ma molti, molti di più, disseminati dalla Sicilia alla Toscana, le regioni in cui i goumiers si trovarono ad operare. Stupri che il più delle volte non venivano denunciati. «La donna che subiva violenze — spiega Ciotti che ha anche individuato almeno 20 femminicidi sconosciuti e rimasti senza colpevole — passava immediatamente dalla parte del torto, ripudiata dal marito, allontanata dalla famiglia, insultata da tutto il paese». Senza contare le conseguenze fisiche e psicologiche, destinate a segnare l’intera vita delle vittime: dopo le botte e gli stupri c’era anche il corollario della contrazione di gravi malattie veneree. E quegli aborti effettuati della «mammane» che spesso portavano alla morte. Quanto alle inchieste aperte dalle nostre procure, «il loro lavoro —conclude Ciotti — ha soprattutto un valore storico, un riconoscimento delle sofferenze patite per quelle atrocità. Ma non è escluso che molti degli autori di quegli stupri (ricordiamolo: crimini di guerra che non vanno in prescrizione, ndr) siano ancora vivi».

Marocchinate, la messa del Papa che fa infuriare tutti. Francesco Boezi il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. La Messa del Papa presso il cimitero militare francese scatena qualche polemica. E ora Fdi insiste sulla commissione d'inchiesta sulle "marocchinate". Fratelli d'Italia spinge sul piano politico affinché venga calendarizzata una commissione d'inchiesta sulle cosiddette marocchinate, ossia sulle violenze commesse dalle truppe coloniali dell'esercito francese durante la fase finale della seconda guerra mondiale. Il Basso Lazio è stato il tragico teatro di una pagina che, almeno sino a questo momento, non ha trovato molto spazio sui libri di storia e nel dibattito pubblico. L'occasione per insistere di nuovo su quella che il senatore Massimo Ruspandini ritiene una necessità, ossia l'istituzione di una commissione, è stata la Messa celebrata da papa Francesco presso il cimitero militare francese che ha sede a Roma. "Questa brava gente - ha fatto presente il Santo Padre Jorge Mario Bergoglio, recandosi presso il luogo citato - è morta in guerra, chiamata a difendere la patria, valori e ideali. E tante altre volte a difendere situazioni politiche tristi. Sono le vittime, le vittime della guerra che mangia i figli della patria", così come ripercorso dall'agenzia Nova. Frasi che non sono state recepite con condivisione da tutti. Le famiglie delle vittime delle marocchinate, infatti, hanno reagito alla scelta operata dal pontefice per la ricorrenza odierna, che riguarda tutti i defunti. Alcune dichiarazioni di persone che hanno avuto casi di "marocchinate" in famiglia sono balzate agli onori della cronaca riportata dall'Adnkronos: "Questa messa mi ha dato fastidio, almeno ci spieghino il motivo", ha fatto presente una donna. E poi un'altra parente di una vittima: "Il mio grande rammarico - ha sottolineato - è di non aver saputo prima delle marocchinate. Nonna ha sofferto tantissimo e non ne parlava mai. Io invece non mi stancherò mai di farlo, perché è giusto che si sappia". Insomma, il tema posto è anche questo: in quel cimitero sono seppelliti i Goumiers, che sono i responsabili di abusi ed omicidi passati in secondo piano, sotto il profilo storiografico. E il senatore Massimo Ruspandini incalza: "A quando - dichiara il parlamentare di Fdi - una Messa per le migliaia di vittime in tutta Italia dalle truppe coloniali francesi? Lo abbiamo ripetuto tante volte, troppe". Poi la specificazione: "Il fatto che nemmeno il Papa - ha proseguito il senatore - conosca la storia di migliaia di donne cristiane italiane stuprate dall'esercito coloniale francese - sostiene il meloniano - rende indispensabile l’individuazione di una commissione d'inchiesta per l'individuazione di una giornata per il ricordo delle vittime delle marocchinate come proposto da me e da Fratelli d'Italia in questi anni". Fdi punta dunque a due obiettivi: l'istituzione di una giornata ad hoc per le vittime delle marocchinate e la messa a punto di una commissione d'inchiesta che, stando all'opinione dei meloniani, dovrebbe finalmente rendere giustizia.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. Oggi vivo in Lombardia. Sono laureato in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali presso la Sapienza di Roma. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, mi occupo e scrivo soprattutto di Vaticano, ma tento spesso delle sortite sulle pagine di politica interna. Per InsideOver se

Stupri, omicidi e saccheggi dalle truppe greche. Le altre “marocchinate” sconosciute contro gli italiani.

Andrea Cionci Libero Quotidiano il 26 agosto 2021.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Non solo “marocchinate”: documenti appena ritrovati presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dell’Esercito – che abbiamo pubblicato in esclusiva pochi giorni fa su Libero (cartaceo) – dimostrano che, durante la Seconda Guerra mondiale, stupri, saccheggi, rapine, omicidi furono compiuti a danno di civili italiani oltre che dalle famigerate truppe coloniali francesi del Cef (Corp expeditionnaire français) al comando di de Gaulle, anche dai 3000 soldati greci che operarono in Emilia Romagna e transitarono in Umbria, Molise, Campania e Puglia. La 3ª Brigata da montagna greca era stata aggregata, dall’agosto ’44, alla 2ª Divisione neozelandese del generale Freyberg, all’interno dell’8ª Armata inglese. I greci parteciparono all’offensiva sulla Linea Gotica e rimasero in Italia per cinque mesi. I fatti sono documentati da un carteggio fra il Maresciallo d’Italia Giovanni Messe, Capo di Stato Maggiore Generale del Regno del Sud e il suo Segretario Generale degli Affari Esteri, Renato Prunas, insieme a centinaia di denunce ai Reali Carabinieri. Tuttavia, i reati, come avvenne per le marocchinate  (circa 60.000 crimini compiuti da 110.000 militari marocchini, senegalesi, francesi bianchi e algerini) furono molti di più rispetto a quelli denunciati – riferivano gli stessi Reali Carabinieri - dato che molti nostri civili non denunciavano le violenze carnali subite per paura o senso di vergogna. A trovare i documenti è stato un collaboratore dello studioso Massimo Lucioli, il primo ad aver scritto, insieme a Davide Sabatini, un libro sulle marocchinate, “La Ciociara e le altre” (1998). Più recentemente, Lucioli ha dimostrato con prove inoppugnabili (testimonianze di ufficiali francesi e fotografie) come il generale de Gaulle si trovasse, proprio in quei giorni, sull’altipiano di Polleca, che fu teatro delle più atroci violenze, e non poteva non sapere. Ecco, dunque, cosa scrive il 25 settembre ‘44 il Segretario Prunas a Messe: “Caro Maresciallo mi sono state riferite in questi ultimi giorni notizie tutt’altro che favorevoli circa il comportamento delle unità greche in azione le quali rivaleggerebbero con le recenti, dolorose gesta dei marocchini in fatto di rapine, stupri, saccheggi etc”. Risponde Messe il 2 ottobre: “Già qualche notizia mi era provenuta a riguardo, ma per il vero non molto precisa e la documentazione che finora ho potuto raccogliere a riguardo è ancora scarsa […] Tale problema forma oggetto della mia più vigile attenzione”. Così Messe il 4 ottobre scrive al Ministero dell’Interno facendosi inviare le denunce delle violenze, non solo per intervenire, ma anche perché “tale documentazione costituirà una inoppugnabile controprova da opporre ai tentativi di incriminare le nostre Forze Armate durante la guerra contro le Nazioni Unite”. Leggiamo, così, le tristi e dimenticate storie di Anita B. di Bellaria, che fu violentata in casa dei suoceri riportando lesioni al viso e al collo; di Nella P. che fu derubata di tutto, anello nuziale, biancheria, bovini e poi stuprata; di Cisborto Vittori che, a Riccione, fu mitragliato gratuitamente all’addome. A Gemmano, militari greci spacciatisi per “carabinieri” rapinano Guglielmo G. e ne violentano la moglie; nello stesso paese stuprano la moglie di Ugo B. davanti ai suoi occhi, minacciandolo con una pistola;  Ida T. subisce la stessa sorte da cinque greci; a Campomarino (CB) 1200 militari greci si accaniscono a fucilate contro i cittadini ferendo due civili, rapinando le case e tentando di assaltare la caserma dei CC;  a Spoleto, loc. Agro, tentano di violentare quattro  contadine; a Carbonara di Bari, in un negozio, accoltellano la moglie del proprietario; a La Barra (NA) militari greci aggrediscono senza alcun motivo , a colpi di bombe a mano, una casa, uccidono a pugnalate Lucia Cozzolini, ferendo cinque persone, e così via. Un altro documento fondamentale spiega come il Ministero della Guerra italiano  avesse inviato ben due lettere al Comando Alleato, il 27 ottobre e il 14 novembre ‘44. Il 10 dicembre, il colonnello Noakes dell’Alto Comando alleato risponde agli italiani scrivendo: “La questione è stata riferita al Comandante in Capo delle Forze Alleate in Italia (il generale inglese Alexander, che poco dopo sarà sostituito dall’americano Clark) il quale ha rilevato che, sebbene gli incidenti siano prospettati come fatti, in nessun caso si è data prova testimoniale che le azioni pretese siano state fatte da truppe alleate. Se il Governo italiano fornirà nomi di testimoni e di tutti gli altri particolari a sua disposizione, il Comandante in capo sarà pronto a disporre un’indagine approfondita”. Quindi, non è mai stata disposta un’indagine in tal senso ed ecco perché quei crimini sono rimasti dimenticati. “E’ stato storicamente interessante - commenta Massimo Lucioli – da parte delle commissioni parlamentari l’aver aperto il cosiddetto «Armadio della vergogna» (contenente circa 700 dossier sui crimini di guerra nazifascisti compiuti in Italia durante la Seconda guerra mondiale) ma ora si rende necessario andare a cercare nei nostri archivi come quello di Stato, quello dell’ufficio storico dell’Esercito e altri, dove sono sepolti migliaia di crimini commessi dalle forze angloamericane ancora tutti da studiare e da portare alla luce: le prove sono incontrovertibili, come nel caso dei greci, visto che la documentazione proviene dal Regno del Sud e non può essere certamente considerata «propaganda fascista»”. Ora, il prossimo studio di Lucioli, che ha appena pubblicato “1945 Germania anno zero” sui crimini alleati a danno di civili e prigionieri tedeschi, si occuperà di indagare quelli analoghi commessi in Italia dallo Sbarco in Sicilia, nel ’43, fino al termine delle operazioni militari nel 1945.

Marocchinate, la giunta rossa di Cassino celebra i criminali di guerra. FdI: “Indegni, dimettetevi”. Giovanni Pasero sabato 15 Maggio 2021 su Il Secolo d'Italia. La giunta rossa di Cassino ha incredibilmente reso omaggio ai Goumiers, i soldati francesi che hanno partecipato alla battaglia del 1944 per la presa di Cassino e Montecassino e che si sono resi protagonisti di indicibili episodi di violenza. Carnefici che hanno lasciato il marchio di “marocchinate” alle vittime ciociare. Tragedia che ha ispirato anche il film La Ciociara con Sophia Loren. “La foto della Rocca Janula illuminata di blu diventa la foto simbolo della vergogna. La vergogna del comune di Cassino che si piega e si inginocchia alla violenza, alla superficialità, alla menzogna”. Lo scrive su Facebook il senatore Massimo Ruspandini (Fdi). “La scelta dell’amministrazione di Cassino – prosegue il senatore di Fratelli d’Italia – diventa simbolo di orrore, di offesa per la nostra gente stuprata due volte. Ieri dai Franco marocchini, oggi da queste associazioni, da chi ha avuto la brillante idea di premiare, di riabilitare, di omaggiare il generale francese Juin, il macellaio che regaló 50 ore di impunità assoluta a queste bestie feroci. Il premio per i liberatori venuti dagli altipiani del Marocco e dell’Algeria era la nostra gente. I francesi, sempre feroci dalle nostre parti e non solo, concessero alle loro truppe coloniali, libertà di uccidere, di depredare, stuprare, umiliare, evirare, saccheggiare”. “Cari amministratori di Cassino – prosegue – questa terra ne ha viste tante. Il Sacro Monte ne è la prova. Da lì San Benedetto e la sua regola, pensava l’Europa, quella vera. Siete riusciti ad omaggiare l’episodio più triste e vergognoso qui accaduto. Il più vile, il più ignobile in tanti millenni. Proviamo imbarazzo e vergogna per questa sinistra indegna, che è riuscita con un solo colpo a danneggiare l’immagine di Cassino che diventa con questo episodio, maglia nera nella coscienza degli eredi dei paesi della nostra terra e non solo”. “Dovreste dimettervi – scrive Ruspandini – Dispiace usare questi toni. Ma la nostra gente, donne di tutte le età, dagli 11 agli 80 anni, uomini e ragazzi considerati “il premio” per aver sconfitto il nemico, il bottino di guerra su cui sfogare il loro istinto bestiale, non meritava tanto. Avete celebrato chi ha stuprato e commesso crimini contro italiani e italiane (non solo in Ciociaria) che meriterebbero di essere processati per quello che sono: crimini contro l’umanità”. “Continuerò ancora più forte la mia battaglia per il riconoscimento di questa tragedia al senato della Repubblica per non consentire alla sinistra peggiore di sempre di cancellare il ricordo della barbarie delle Marocchinate dell’esercito coloniale francese. Gli italiani non sono tutti come voi. Noi non dimentichiamo”, conclude.

Il procuratore militare capo De Paolis al Secolo: “Le marocchinate? Furono crimini di guerra”. Antonio Pannullo mercoledì 12 Febbraio 2020 su Il Secolo d'Italia. Marocchinate. E’ con questo neologismo che si definiscono in Italia le atrocità consumate dai maghrebini del Corpo di spedizione francese in Italia (Corps expéditionnaire français en Italie – CEF ) nella Primavera del 1944 in varie zone della Penisola, ma soprattutto in Ciociaria. Si chiamano anche goumiers, ma il termine in realtà indicherebbe solo i soldati marocchini, mentre le atrocità su migliaia di civili riguardarono anche soldati africani di altre nazionalità, sempre provenienti dalle colonie francesi. Civili italiani stuprati, uomini, donne e bambini, torturati e anche uccisi. Spesso le famiglie venivano derubate. Vae victis? Non proprio, si trattò piuttosto di “diritto di saccheggio” (e non solo) per le truppe alleate d’invasione.

Marocchinate, le responsabilità del generale Juin. Comandava queste truppe il generale Alphonse Juin, poi successivamente Maresciallo di Francia, che quel maggio 1944 consentì alle sue truppe ogni tipo di abuso. Le cifre sono impressionanti: migliaia di donne, uomini e bambini violentati, molti uccisi. Esiste una corposa pubblicistica su quelle efferatezze. Ma la cosa che stupisce è che il generale Juin non andò mai alla sbarra per questi crimini di guerra. Dopo le proteste, tra gli altri anche del Papa, la magistratura francese aprì 160 provvedimenti. I francesi ritirarono i goumiers e poi li reimpiegò contro i tedeschi in Germania, nel 1945. Dove avvennero altri stupri e devastazioni documentati. Non si è a conoscenza di alcuna condanna per questi reati. Il generale Juin morì invece da eroe, è sepolto all’Hotel des Invalides e una statua lo ricorda a Parigi, proprio – ironia della sorte – in place d’Italie. A Roma c’è un cosiddetto cimitero dei francesi dove sono sepolti alcuni maghrebini, e in Ciociaria c’è un piccolo monumento che ricorda il Corpo di spedizione francese in Italia. La popolazione locale, si presume ha più volte distrutto questo monumento. Ma è sempre là. Come è noto, dopo la guerra ci furono processi per crimini di guerra, ma mai nei confronti degli Alleati. A Motta Sant’Anastasia, in Sicilia, riposa ancora oggi Luz Long, il tedesco famoso per essere stato amico di Jesse Owens alle Olimpiadi del 1936, Long, insieme con altri commilitoni, fu falciato dalla mitragliatrice di un sergente americano dopo che si era arreso. Il sergente fu posto sotto processo ma poi di lui si persero le tracce. Sembra che abbia combattuto su altri fronti e poi sia morto in tarda età.

De Paolis: anch’io indagai sulle marocchinate. Ma c’è invece, in Italia, chi i criminali di guerra continua a processarli. E’ il procuratore generale della Corte d’Appello militare Marco De Paolis, che in diversi anni ha fatto condannare all’ergastolo decine di nazisti responsabili di eccidi ingiustificati in molte parti d’Italia, ma non solo. Gli abbiamo chiesto come mai la magistratura militare non si è mai interessata dei crimini di guerra degli Alleati.

Dottor De Paolis, come mai la magistratura militare italiana non si è mai occupata delle cosiddette marocchinate?

Questo non è del tutto esatto. “Difficile rispondere per me che sono “giovane” rispetto a quei fatti; occorrerebbe porre la domanda a chi c’era prima di me, nel dopoguerra. Tuttavia qualcosa è stato fatto da me recentemente, nel mio precedente incarico di procuratore militare di Roma. A seguito di un esposto di un’associazione di vittime delle marocchinate (Associazione nazionale vittime delle marocchinate, ndr), aprii un fascicolo; ma poi non fu possibile trovare i riscontri necessari e così non potemmo procedere, malgrado i nostri sforzi.”

Ma Lei definirebbe quanto successo nel maggio 1944 in Ciociaria e altrove crimine di guerra?

Assolutamente sì. Quanto accaduto è ingiustificabile e inoltre ricordo che si tratta di reati imperscrittibili. In presenza di altre segnalazioni siamo pronti a procedere.

Quindi si tratta di crimini di guerra analoghi a quelli dei nazisti?

Chiarisco meglio. Premettendo che si tratta di crimini di guerra gravissimi e imprescrittibili sui quali è doveroso procedere – per obbligo di legge e per obbligo morale – occorre fare attenzione a trattarli per quello che sono e a non confonderli (magari secondo una strumentalizzazione ideologica che tende a svalorizzare la pericolosità del nazismo e del fascismo e a negare o ridimensionare l’olocausto) con i crimini nazisti. Tutti i crimini vanno perseguiti e i responsabili condannati: però vanno inseriti nel contesto storico e vanno valutati nella loro potenzialità negativa. È ovvio che uno stupro seguìto da un omicidio è grave; ma non ha la stessa pericolosità e la stessa valenza negativa di un omicidio inquadrato, ad esempio, in una attività terroristica o della criminalità organizzata. I responsabili hanno evidentemente una pericolosità per la società ben diversa. Tanto è vero che anche il regime penitenziario per essi è diverso.

Che esito hanno avuto le condanne contro i nazisti?

Va detto che abbiamo potuto accertare i fatti precisamente perché i tedeschi documentavano tutto, mentre per i marocchini la cosa non è così facile. E poi i responsabili nazisti, quelli sopravvissuti, sono in Germania mentre i goumiers chissà dove sono. Per rispondere alla sua domanda, la Germania,sia quella Federale prima sia quella riunificata poi, non ha mai dato seguito alle nostre condanne. Inoltre sono stati bloccati anche i risarcimenti alle vittime.

Cioè i mandati di arresto europei dei tribunali militari non hanno avuto seguito?

Proprio così. Né Austria né Germania hanno eseguito gli oltre 50 ergastoli richiesti.

De Paolis non perde l’occasione di sottolineare che la magistratura militare procede celermente. Ma i suoi sforzi sono vanificati dalla resistenza della Germania che non dà seguito ai provvedimenti.

Ma in presenza di denunce e prove certe, sareste disposti a procedere anche contro i crimini degli alleati?

Ripeto, ovviamente sì. Quelli commessi dai goumiers sono autentici crimini di guerra. Ma in realtà, per tutti questi crimini, si sarebbe dovuto agire qualche decennio fa. Ora comincia a essere troppo tardi.

Pertini: “La guerra travolge tutto”. De Paolis ha ragione. Su molti crimini di guerra, come le foibe o le marocchinate, diciamo noi, è calata nel dopoguerra una spessa coltre di silenzio, si è preferito dimenticare o nascondere quello che accadde. Perché si sa, chi vince ha sempre ragione e chi perde sempre torto. Ci sia consentito concludere questa intervista citando le parole di Sandro Pertini, già presidente della Repubblica ma prima attivo capo partigiano. Lui disse, a chi gli contestava i crimini dei partigiani, che era accaduto, ma che “la guerra travolge tutto”. E’ vero, in guerra succedono delle cose inqualificabili da ogni punto di vista ma è la guerra. Però, se la guerra travolge tutto, ciò dovrebbe valere erga omnes. Perché i nazifascisti hanno subito processi e i partigiani e gli alleati no, per i crimini commessi? Ma questo non riguarda il dottor De Paolis, e la sua chiosa è fondamentale: si sarebbe dovuto pensarci prima.

“Marocchinate”, un documento esplosivo conferma i crimini francesi in Italia nel ’44. Eccolo. Redazione venerdì 1 Novembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Un nuovo documento sulle “marocchinate“: «Maltrattamento di popolazione civile». È l’oggetto del memorandum del 24 maggio 1944  firmato dal generale Alphonse Juin. Un documento che getta nuova luce sui crimini ai danni della popolazione italiana nel 1944 ad opera dell’esercito coloniale francese. Nel testo Juin mette nero su bianco (e comunica al Comando Alleato) l’arrivo di innumerevoli segnalazioni di «atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto» ai danni degli italiani. E ne individua la ratio in quelli che definisce i «nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia». L’Italia appunto, che il generale chiama «paese conquistato». L’eccezionale documento è stato trovato all’Archivio di Stato da Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle “Marocchinate”. Che da anni si occupa di tutelare i diritti delle donne ciociare stuprate dai goumier francesi inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia. Spulciando oltre 15mila fascicoli, Ciotti si è trovato di fronte a una carta «importantissima». Dice all’Adnkronos «che per la prima volta spiega perché le truppe francesi stupravano e uccidevano le donne italiane. In poche parole: risentimento nazionale per la dichiarazione di guerra dell’Italia».

Marocchinate: le “lamentele”. In particolare sulle marocchinate, nel memorandum il comandante del Corpo di spedizione francese in Italia Juin scrive di essere «stato colpito dalle lamentele a lui indirizzate dal A.M.G.. Relativo alle condotte di alcuni elementi francesi nei riguardi delle popolazioni civili italiane durante la recente avanzata. Sono stati commessi atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto contro le popolazioni che vivono nelle zone avanzate. E che si lamentano amaramente presso Autorità Alleate. Vi è certamente la possibilità di esagerare i fatti, comunque fanno correre il rischio di discreditare un esercito che è composto in massima parte di truppe coloniali».

Marocchinate, l’esercito francese sott’accusa. Dopo aver preso atto dei fatti, Juin ne spiega implicitamente le ragioni. «Comunque forti possano essere i nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia – scrive – noi dobbiamo mantenere un’attitudine dignitosa. L’esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano la considerazione di tutti. Sarebbe facile cementare questa reputazione adottando una scorretta abitudine in un paese conquistato. Verso un popolo che sta attualmente sperimentando tutti gli orrori della guerra e la cui responsabilità della sua amministrazione. Il Comandante Divisionale e il generale comandante dei Gaume – è l’esortazione del generale – prendano pertanto i necessari provvedimenti indispensabili per por termine a tutti quegli atti che vanno a detrimento della morale e della dignità del vincitore».

Crimini inauditi. «Questi soldati africani, inquadrati nell’esercito francese, si macchiarono di crimini inauditi – dichiara Ciotti, presidente dell’Anvm e nipote di un ragazzo che nel 1944 fu brutalmente assassinato dai coloniali francesi – in Francia possono definirli eroi, in Italia sono conosciuti come degli stupratori e degli assassini, poiché molti di loro si macchiarono di violenze di ogni genere contro la popolazione civile. Invece di esaltare le gesta dei coloniali, il presidente Macron chieda scusa all’Italia e alle vittime».

Le proteste contro Macron. Per questo l’associazione Anvm che da anni si batte per la verità sulle marocchinate (le vittime italiane delle truppe coloniali francesi) protesta contro Macron. Il presidente francese ha chiesto ai sindaci francesi di intitolare vie e piazze ai soldati africani ched parteciparono alla liberazione della Francia nel 1944. Questi militari, ha detto il presidente francese, «hanno fatto l’onore e la grandezza della Francia. I nomi e i volti di questi eroi africani devono far parte della nostra vita di cittadini liberi, perché senza di loro non lo saremmo».

La richiesta assurda. E poi ancora: «Faccio appello ai sindaci di Francia affinché facciano vivere con i nomi delle nostre strade, delle nostre piazze, dei nostri monumenti e delle nostre cerimonie la memoria di queste persone». Di fronte al presidente della Guinea Alpha Condé e a quello della Costa d’Avorio Alassane Ouattara, il capo dello stato francese ha reso omaggio ai «tiratori marocchini. Tunisini, algerini, ai senegalesi, soldati che provenivano da tutta l’Africa subsahariana».

Istituire la giornata delle vittime. Affermazioni contestate duramente, appunto, dall’associazione nazionale vittime delle marocchinate. «I soldati africani, provenienti principalmente da Tunisia, Marocco, Algeria e Senegal e in piccola parte da altre colonie francesi – continua Ciotti – erano inquadrati nel Corpo di Spedizione Francese in Italia. Le violenze contro gli inermi cittadini italiani, conosciute con il termine “marocchinate”, iniziarono con lo sbarco in Sicilia nel luglio del 1943. E proseguirono nel 1944 in Campania, Lazio e Toscana, raggiungendo l’apice in Ciociaria. Su richiesta dell’associazione molti consigli comunali italiani stanno deliberando affinché sia istituita una Giornata nazionale in ricordo delle vittime delle marocchinate».

L’appello. E ancora. «Per sollevare questo problema abbiamo atteso che si risolvesse la crisi di governo e fosse incaricato il nuovo Ministro degli Esteri», conclude Ciotti. «Ci rivolgiamo quindi al premier Giuseppe Conte e a Luigi Di Maio, affinché intervengano nelle sedi istituzionali per riaffermare l’inopportunità dell’intitolazione di vie e piazze francesi a dei soldati. Che, in Italia nel 1943-1944, compirono delitti, razzie, stupri e omicidi e che ancora oggi sono ricordati con orrore dalle popolazioni che 75 anni fa subirono tali violenze».

Marocchinate: gli Americani sapevano tutto. I documenti che lo provano. Emiliano Ciotti ha rinvenuto un rapporto di un ufficiale dei Reali Carabinieri. Andrea Cionci su Libero Quotidiano l'08 gennaio 2022.

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

“Me l’avete rovinata per sempre quella figlia, adesso è peggio che morta!” Così gridava, disperata, la Ciociara nell’omonimo film di De Sica a una jeep di ufficiali americani. E i “liberatori”, del tutto indifferenti, rispondevano “Pace, pace….”, sgommando via subito dopo e lasciando in una nuvola di polvere e di ignominia quelle due povere donne stuprate.

Se uno dei crimini più orrendi della Seconda Guerra mondiale è di responsabilità del CEF, Corps expéditionnaire français di de Gaulle, la più cinica indifferenza e connivenza con le “marocchinate” è da imputarsi agli americani che sapevano tutto e hanno lasciato fare, almeno finché conveniva.

Lo dimostra un documento rinvenuto pochi giorni fa presso l’Archivio storico dell’Esercito da Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Vittime delle Marocchinate. Un ufficiale dei Carabinieri Reali del nostro Contro Spionaggio fa rapporto al Comando Supremo della 5ª Armata Usa. Riferisce che a Vetralla, una donna violentata da un soldato marocchino del CEF chiese aiuto a un Military Police americano il quale, andato a chiedere conto al Comando francese, si sentì rispondere di non impicciarsi, in quanto “ognuno faceva la guerra a modo suo”. Così il comando militare Usa di Vetralla diede ordine di sparare ai marocchini violentatori, se colti in flagrante, e infatti ne fecero fuori sei.

Il documento è del 22 giugno 1944, quattro giorni dopo che vi era stata una aspra querelle fra l’Osservatore romano e il giornale militare del CEF La Patrie in merito a un orrendo episodio: sulla linea per Frosinone, alcuni militari marocchini avevano stuprato due italiane, le avevano poi gettate dal treno in corsa, uccidendole.

Il tardivo provvedimento disciplinare americano di Vetralla giunse solo a caldo della polemica uscita sulla stampa, e a livello locale. Invece, per le atroci violenze di massa che si erano verificate a maggio in Ciociaria, gli Americani sapevano tutto e non fecero nulla. Lo dimostra l’episodio del paese di Pico descritto dallo storico militare britannico Eric Morris in “La guerra inutile”: Gli uomini di un battaglione del 351° fanteria americana provarono a fermare gli stupri, ma il loro comandante di compagnia intervenne e dichiarò che “erano lì per combattere i tedeschi, non i goumiers”.   Quindi, Pico dimostra che gli Americani lasciarono fare tranquillamente i marocchini prima della presa di Roma (4-5 giugno 1944), perché erano utili per combattere i tedeschi.

Il nuovo documento dimostra che, subito dopo la conquista della Capitale, terminata ormai la loro utilità bellica, i marocchini ormai non servivano più e potevano essere presi a fucilate. Eppure, nonostante questa “presa di coscienza” una volta superata Roma, le violenze dei coloniali francesi ripresero tranquillamente, giungendo fino alla Toscana e poi ancora nelle Puglie fino al loro reimbarco per la Provenza, in agosto.

Da lì, questi soldati (ai quali Bergoglio ha dedicato la Messa per i defunti lo scorso 2 novembre QUI) sarebbero stati trasferiti nella Germania occupata dove avrebbero compiuto altre decine di migliaia di crimini analoghi sulla popolazione civile tedesca, episodi che sono stati documentati dal recente libro di Massimo Lucioli, già andato a ruba, “Germania 1945 anno zero”.  

Attenzione: adesso la narrativa mainstream farà passare il concetto per cui, stando a questo nuovo documento, “gli americani hanno tentato di fermare le marocchinate”. Nulla di più falso: Pico e Vetralla dimostrano che gli americani sapevano tutto e, dopo aver consentito ai coloniali di de Gaulle, (il quale anche lui era al corrente di ogni cosa in quanto presente sull’altipiano di Polleca nei giorni delle più efferate violenze QUI), hanno reagito tardivamente solo a Vetralla qualche giorno dopo che si era scomodato il Papa, Pio XII. Poi tutto riprese come prima.

Facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dal Cef, iniziate in Sicilia e terminate alle porte di Firenze, si può affermare con certezza che ci fu un minimo di 60.000 donne stuprate, ognuna, quasi sempre da più uomini. I soldati magrebini, ad esempio, mediamente violentavano in gruppi da due o tre. Sono state raccolte testimonianze di donne violentate da 100, 200 e 300 uomini. Oltre alle violenze carnali anche su uomini, bambini, perfino sacerdoti, (perfino un giovane partigiano) vi furono decine di migliaia di richieste per risarcimenti a danni materiali: furti, incendi, saccheggi e distruzioni. Senza parlare dello strascico di malattie veneree e figli indesiderati nati da queste unioni forzose.

I documenti non perdonano: se la retorica sulla “Resistenza” è stata già in buona parte rimessa in discussione, presto toccherà alla favola dei “buoni liberatori”.