Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
INDICE PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le aste dei cimeli giudiziari.
Le Brigate Rosse.
Il retroscena di un delitto. La pista dei servizi segreti domestici.
Il retroscena di un delitto. La pista della ‘Ndrangheta.
Il retroscena di un delitto. La pista palestinese.
Il retroscena di un delitto. La pista russa.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ricordando Andreotti.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Gli Amici di Craxi.
I Nemici di Craxi.
INDICE SECONDA PARTE
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Berlusconi e lo Sport.
Berlusconi e gli amici.
Berlusconi e la politica.
Berlusconi e la Giustizia.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.
Stato, Fascismo e lotte di classe: eran e son comunisti.
Al tempo del Nazismo.
L’Olocausto.
Dio, Patria, Famiglia.
Le Leggi Razziali.
Al tempo del Fascismo.
Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.
I Figli di Mussolini.
Le Marocchinate.
INDICE QUARTA PARTE
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Eredi di Mussolini.
GLI STATISTI
PRIMA PARTE
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 28 novembre 2022.
Luigi Zanda, lei è il figlio del capo della polizia negli anni Settanta. «Efisio Zanda. Era nato a Cagliari nel 1914, antifascista, amava la musica e il teatro, buon giocatore di bridge. È stato uno dei miei grandi maestri insieme a Francesco Cossiga e ad Eugenio Scalfari».
Scalfari?
«L'ho conosciuto nel 1976, subito dopo la nascita di Repubblica . Ero il portavoce di Cossiga e mi chiamò: "Lo sai vero che mi aveva promesso un'intervista? E invece l'ha data a Scardocchia del Corriere della Sera !" Non ne sapevo nulla, provai a difendermi. E Scalfari, alzando sempre più la voce: "Voi siete sardi, ma io sono calabrese". E mise giù».
Lei che cosa fece?
«Andai da Cossiga e lui, sollevando gli occhi dalle carte, disse soltanto: "Luigi, levami questo pensiero"».
Cioè?
«Voleva dire aggiusta la cosa. Richiamai Scalfari dopo qualche giorno. "Le Monde vuole intervistare Cossiga. Il tuo divieto vale anche per i giornali stranieri?". Si mise a ridere e diventammo molto amici. Ci vedevamo ogni domenica per quella che chiamavamo la cena dei cretini. Scalfari mi ha immerso nella vita».
Che ricordo ne ha?
«Aveva una memoria strepitosa. Faceva le interviste senza prendere un appunto».
Con Cossiga invece come andò?
«Lo conobbi nel 1974. Ero segretario della commissione governativa sulla crisi petrolifera, che aveva sede a Palazzo Chigi. Ci vedevamo lì. Io sono di Cagliari, lui di Sassari, ci unì la sarditudine».
Cossiga era complicato?
«Soffriva di depressione, di sbalzi d'umore, mi ha insegnato a guardare lontano e a cercare visioni larghe».
Lei oggi compie ottant'anni. Pesano?
«Per fortuna non mi pesano. Ho avuto una vita ricchissima».
Cosa ricorda dell'infanzia a Cagliari?
«Le elementari dalle suore. Se parlavi troppo ti appiccicavano due cerotti incrociati sulla bocca».
Cosa facevano i suoi?
«Papà era funzionario dello Stato, mamma insegnava filosofia. Sono il primo di cinque figli».
Famiglia borghese.
«Vivevamo nel rione Castello, in via Canelles. Non c'erano ancora i frigoriferi e mi mandavano a prendere le lastre di ghiaccio per tenere in fresco il cibo. Nel 1950 i miei vollero venire a Roma».
Perché?
«Per offrire un futuro ai figli. Mio padre lavorava al ministero degli Interni, poi con il presidente del Consiglio Antonio Segni. Trovammo casa ad Ostia, mamma si alzava ogni mattina alle 5 per raggiungere il liceo a Tivoli».
Perché tiene in casa i quadri di Lenin e della Rivoluzione d'ottobre?
«Mi piacciono le bandiere rosse, ma non sono mai stato comunista. Votavo per il Pri».
Cosa ricorda dei 55 giorni del sequestro Moro?
«La prima lettera di Moro a Cossiga. Doveva restare segreta, invece le Br la resero pubblica. Lì capii che sarebbe stata dura salvarlo: non volevano trattare».
Cossiga finì nel mirino per non avere impedito il sequestro.
«Era la sua ossessione. Gli vennero i capelli bianchi, la vitiligine alle mani. Quando entrai nella sua stanza la mattina de rapimento, il 16 marzo 1978, mi disse: "Luigi, sono politicamente morto"».
Perché sul caso Moro ha sempre sospettato un intervento sovietico?
«C'è un filo che lega l'attentato a Berlinguer a Sofia nel 1973, l'uccisione di Moro e l'attentato al Papa da parte di Ali Agca. Quella del Kgb è una scuola che produce i suoi effetti nefasti anche ora, come vediamo drammaticamente in Ucraina e non solo».
Le Brigate Rosse furono eterodirette?
«Non ci saprà mai davvero tutta la verità finché non saranno accessibili gli archivi delle grandi potenze: i tasselli che mancano non sono in Italia».
Lei seppe di Gradoli, ma perché pensò al paese e non alla via?
«Fu Umberto Cavina, il segretario di Benigno Zaccagnini a dirmi di Gradoli, un paese sulla Cassia. Presi l'appunto su un suo biglietto da visita che trovai sul suo tavolo e tornato al Viminale informai il capo della polizia».
I terroristi stavano in via Gradoli. Senza quell'errore Moro poteva essere salvato?
«Non possiamo dirlo. Ma l'informazione riguardava il paese di Gradoli. Per fortuna misi quell'appunto in cassaforte. Conservavo ogni cosa sotto chiave».
Cosa ha fatto prima di diventare parlamentare del Pd?
«Ho diretto l'Agenzia per il Giubileo, il Consorzio Venezia Nuova che ha progettato il Mose, Lottomatica, le Scuderie del Quirinale, la Quadriennale di Roma, amministratore del Gruppo Espresso e della Rai. Negli anni di Tangentopoli gestivo tanti soldi. Sono fiero di non essere mai stato sfiorato da un'inchiesta».
Qual è la lezione?
«Nelle aziende servono controlli rigidi interni, richiami a rigare dritto».
Lei è stato un potente?
«No. Non ho mai raccomandato nessuno».
Non ci credo.
«Ho difeso persone di valore».
Entra in politica grazie a Francesco Rutelli?
«Mi chiese di candidarmi per la Margherita al Senato. Era il giugno 2003, avevo già 59 anni. Rutelli è stato un grande sindaco di Roma».
Un'elezione senza avversari.
«Erano suppletive. La destra non riuscì a raccogliere le firme per proporre un proprio candidato e così mi trovai a gareggiare da solo».
Il sogno di ogni politico.
«Eletto col 100 per cento dei voti, ma con solo il sei per cento dei votanti, record negativo. Un gol a porta vuota».
Chi sono gli altri suoi amici in politica?
«Paolo Gentiloni, Dario Franceschini, Rino Formica, Gianni Cuperlo e Mario Draghi».
Come valuta la classe dirigente del Paese?
«C'è una regressione. Nel dopoguerra avevamo De Gasperi, Togliatti, Moro, Berlinguer, Mattei, Valletta, Paolo VI, Carli, Menichella, La Malfa. Fenomeni».
E oggi?
«Siamo passati da un pensiero politico profondo al culto della tattica e delle carriere. In troppi vogliono occupare una poltrona politica come in un'azienda privata. Ho visto scene di disperazione in chi non è stato rieletto: la politica come droga».
Ma la politica non è sempre stata così?
«Un tempo era anche pensiero, ideali, lotta».
Il Pd si salverà?
«Solo se saprà definire qual è la sua identità. Avrei eletto un segretario traghettatore fino al congresso».
Ha rimpianti?
«Per lungo tempo mi è dispiaciuto non avere avuto figli, ora non è più un problema».
Come festeggerà gli 80 anni?
«Con un viaggio in Italia».
«Cia, Kgb, Sismi, Sisde, mafia e P2… Che follia la dietrologia su Moro». «Nella Direzione strategica del 1978 avevamo deciso di prendere dei rapporti almeno a livello europeo, smettere di considerarci come un’isola». Il Dubbio il 24 novembre 2022
Un estratto del libro "Brigate Rosse, una storia italiana" di Rossana Rossanda, Mario Moretti, Carla Mosca *** «Dietrologia a parte voi aveste dei contatti internazionali. Quando cominciano?
Con il 1978. Nella Direzione strategica del 1978 avevamo deciso di prendere dei rapporti almeno a livello europeo, smettere di considerarci come un’isola. Non per cercare unificazioni, ognuno avrebbe fatto, se ne era capace, la sua propria rivoluzione – questa non è merce che si esporta. Ma se in Europa non cresceva un movimento simile al nostro, anche noi prima o poi ci saremmo spenti.
Prima del 1978 nessun collegamento?
Nella fase iniziale avevamo avuto alcuni incontri in Italia con compagni della Raf, ma fra la differenza delle posizioni e le esiguità delle nostre forze, non ebbero seguito.
Fummo cercati dopo il sequestro di Moro. Da tutti. La Raf, l’Eta, l’Olp, alcuni compagni francesi. I contatti li stabilimmo a Parigi.
Io. Lo decise l’organizzazione. Mi mossi dall’inverno del 1978 al 1981. Ma fu un compito al quale mi dedicai saltuariamente. Sapevo fin troppo bene qual era il nostro stato reale, grande capacità operativa, ma anche grandi difficoltà politiche. Con i rapporti internazionali non ne avremmo risolto neppure una.
Dove andavi?
Avanti e indietro da Parigi. Mi fermavo non più d’un giorno o due, come se facessi una riunione di un’altra colonna. Prendevo l’aereo la mattina presto a Roma e tornavo con un altro la sera a Milano. Se penso che ero fra i brigatisti più ricercati e passavo quattro volte in un giorno i controlli di frontiera, dev’essere vero che ero matto, come mi dissero una volta i palestinesi.
(…)
Si è parlato di vostri rapporti con l’Est, viaggi a Praga e simili. Anche se nulla è uscito dagli archivi russi e da quelli della Stasi. Che ne sai?
Non ci sono stati rapporti tra noi e l’Est europeo. Sono favole, e politicamente senza senso. Quale interesse poteva avere l’Urss a sostenere una polarità come la nostra? Tutto il loro appoggio andava al Pci. Questa scelta dei paesi comunisti l’avevamo misurata già al momento del sequestro Sossi.
Ma non c’è stato un filo con i bulgari? Il caso Scricciolo?
Non lo conosco con esattezza, ero già in galera. Ne so pochissimo, ma parlando con i compagni mi sono convinto che è una vicenda gonfiata, del tutto secondaria.
Insomma, niente servizi?
Sarebbe bello, eh?, se si potesse metter assieme tutto, Cia, Kgb, Sismi, Sisde, mafia, P2, eccetera per far rientrare tutti gli eventi di questi vent’anni nel grande complotto universale. Anche un movimento come il nostro sarebbe più tranquillizzante se lo si vedesse come manovra di forze oscure, simili a quelle che hanno manovrato le stragi, i servizi. Siamo invece condannati a distinguere le cose se vogliamo capirle e criticarle. La verità è che le Br non sono entrate in contatto con servizi segreti di qualunque tipo e nazionalità, né direttamente né di sponda. Questi sono i fatti e nessuno crede seriamente il contrario. Si può dire di noi di tutto, fuorché che siamo stati qualcosa di poco limpido.
Ma all’inizio non cercò di contattarvi il Mossad?
Ah, sì. Forse fu anche questo a metterci in guardia. Nel 1972 ci aveva fatto pervenire una specie di apprezzamento. Neppure gli rispondemmo per le rime, tanto era assurdo. Guardate, per farla breve, il solo rapporto politico reale che avemmo fu con l’Olp. I compagni palestinesi ci interessavano perché facevano un discorso simile al nostro.
Con quale parte dell’Olp?
L’Olp che ho conosciuto aveva diverse anime. Contattammo una parte di tendenza comunista, che guardava molto all’Europa. Per loro era importante che nei paesi dell’area mediterranea si creasse una forte opposizione, armata se possibile, per indebolire la morsa dell’imperialismo americano in Medio Oriente. Ci dissero: «Non vi chiediamo di fare delle operazioni per noi, è molto più significativo che siate voi a rafforzarvi».
Ma qualcosa per loro faceste, la famosa spedizione del "Papago"?
Escluse operazioni in comune, ci premeva offrirgli almeno una solidarietà. Gli demmo un piccolo appoggio per i documenti falsi, ci mettemmo ovviamente a disposizione per qualsiasi appoggio politico del quale avessero bisogno. L’Italia è un crocevia obbligato per qualsiasi cosa transiti dal Medio Oriente verso il Centronord, ed essi ci chiesero di trovar loro un deposito di armi da tenere come riserva, destinate ai movimenti di resistenza o di liberazione nazionale. In particolare quella volta sarebbero servite all’Ira, che le avrebbe richieste in un secondo tempo. Con l’Ira i contatti furono tenuti dai palestinesi, noi ci limitammo a metterci a disposizione.
E andaste a prendere le armi?
Sì. Via mare. L’Italia sembra proprio un molo sul Mediterraneo. Tanto perché non sembrasse che stavamo facendo un’opera di mera solidarietà – tipo, noi vi teniamo le armi e voi combattete – un piccolo quantitativo di armi era destinato a noi, degli Stern molto vecchi, dei mitra dismessi dalla polizia britannica che però funzionavano perfettamente. Ma si trattava d’uno scambio simbolico, a noi servivano armi piccole, quelle della guerriglia e non avevamo, come vi ho detto, alcuna difficoltà a procurarcele. Quel che ci interessava era il rapporto politico, di fraternità, fare qualcosa per l’Olp.
Quando è stato?
Nell’estate del ’ 79 e coincise, casualmente, con la necessità di stringere un rapporto con delle formazioni combattenti in Sardegna. La barca la trovò un compagno di Ancona, medico psichiatra in un ospedale, era uno skipper molto esperto nella vela. Con lui ci imbarcammo sul "Papago" Riccardo Dura, genovese, marittimo di mestiere che aveva navigato per mezzo mondo, e che sarebbe stato ucciso in via Fracchia, un compagno di Venezia del quale si supponeva avesse dimestichezza col mare e io, che col mare me la cavo sempre.».
Chi si mosse di più? Tramite la famosa Hyperion?
No, questa è una delle invenzioni che servono a dar corpo al fantasma del "grande vecchio". Con Simioni avevamo chiuso fin dal Cpm, non lo vedemmo più e apprendemmo dai giornali che era finito a Parigi. Avevamo in Francia dei compagni espatriati alcuni anni prima, che erano in grado di collegarci con tutti i movimenti rivoluzionari d’una certa consistenza. A Parigi c’erano più o meno tutti, e si arrivava attraverso canali riservati, ma non segretissimi. Avevamo un credito che ci consentiva di incontrare chi volevamo.
Dal Corriere della Sera il 10 novembre 2022.
«Non c'è alcun dubbio che Moro potesse essere salvato. C'è stata una volontà politica che ha prevalso, una confluenza di interessi nazionali e internazionali che hanno portato di fatto a scegliere l'opzione "Moro morto". Si è preferito non cercare davvero la sua prigione: è documentato».
Così Fabrizio Gifuni in un'intervista al settimanale Oggi (in edicola a partire da oggi) a pochi giorni dalla messa in onda su Rai 1 della serie di Marco Bellocchio Esterno Notte (su Rai 1 in prima serata il 14, 15 e 17 novembre).
L'attore interpreta Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, rapito a Roma il 16 marzo 1978 e ucciso dalle Brigate Rosse, dopo 55 giorni di prigionia. Nell'intervista Fabrizio Gifuni ragiona sulla figura di Moro e sulla responsabilità del mondo politico, del suo partito, la Dc, e di Giulio Andreotti. L'attore parla anche delle ombre che restano sul caso Moro.
«Mancano alcuni tasselli e gli unici che potrebbero riempirli sono le persone ancora viventi coinvolte nella vicenda. C'è stato un accordo, che semplifica e falsifica questa storia, tra alcuni uomini dello Stato di allora e le Br, su quale sarebbe stata la verità da trasmettere ai posteri». In copertina l'attrice Valeria Solarino che interpreta Lucia Bosè nella serie ("Bosé") sulla vita del figlio Miguel in onda su Paramount+.
DAGOREPORT il 14 novembre 2022.
“Moro vivo… Moro morto… Ma a chi sarebbe convenuto un Moro vivo?”, si domanda oggi su Dagospia Marco Giusti recensendo “Esterno notte” di Marco Bellocchio, miniserie in sei puntate su Rai Uno dedicata al rapimento Moro.
E si risponde: “Non certo alla DC e a Andreotti, né al PCI di Berlinguer, né ai servizi americani, che attraverso Cossiga conducono la loro strategia. Mentre Craxi è per trattare, intuendo che è quello che gli americani non vogliono. Certo che sarebbe convenuto alle BR. Che con Moro vivo magari non sarebbero state decapitate come accadrà neanche due anni dopo”.
Ben detto, Marco: “con Moro vivo magari non sarebbero state decapitate come accadrà neanche due anni dopo”. Da qui si deve partire per riaprire la botola dell’assassinio di Aldo Moro.
Per anni ho frequentato Francesco Cossiga, che intervenne frequentemente su Dagospia allorché non solo i giornali ma perfino le agenzie di stampa decisero che era un “pazzo con piccone” e non andava più pubblicato.
E ciò che ho imparato dal Gattosardo è che la politica non si esaurisce nella semplice lettura degli interessi nazionali. E’ geopolitica perché occorre mettere sempre in gioco il posto dell'Italia in Europa e nel mondo.
Il mistero della non trattativa e della morte di Aldo Moro sta tutto lì: geopolitica.
Il Bel Paese nell’anno 1978 non era un'oasi; non viveva in dorato isolamento; l’Italia aveva perso la seconda guerra mondiale, il patto di Yalta aveva sancito una separazione netta tra le zone di competenza di Occidente e Oriente, e a Berlino per saldare lo stato della Guerra Fredda l’Unione Sovietica tirò su un minaccioso muro. I governi delle nazioni sconfitte, Italia e Germania, non potevano illudersi di essere paesi sovrani senza pagare un prezzo salato. Le basi Nato erano a Ghedi, Aviano, Bagnoli, Sigonella, etc..
L’orribile rapimento di Moro vide il duello tra chi era favorevole a una trattativa con le Brigate Rosse (socialisti e molti democristiani) e chi si opponeva (comunisti di Berlinguer e il nascente partito di “Repubblica” con in testa Scalfari).
Fino al ’78 l’unico terrorismo era incarnato dal fronte palestinese di Arafat che in Italia godeva politicamente, ma anche economicamente, del supporto di Craxi e Andreotti. Cosa che irritava profondamente Washington (con l’assassinio di un cittadino statunitense ebreo sulla nave da crociera Achille Lauro e il conseguente fattaccio di Sigonella con il duro scontro tra Craxi e Reagan, il rapporto con gli Stati Uniti si trasformò in piena ostilità).
Veniamo al punto dolente. Sul anti-terrorismo all’italiana l’intelligence americana aveva idee dure e contrarie: non si colpisce una cellula delle Brigate Rosse ma si deve estirpare tutta la rete terroristica.
Intervenire in via Gradoli – dove erano asserragliati i brigatisti Moretti e Balzarani, come suggerito dal ‘’medium’’ di Prodi – avrebbe innescato secondo i cervelli dell’FBI una reazione funesta: quella di fortificare le altre cellule, infiammando ancor di più il terrorismo (le vittime delle Br, dal 1974 al 2003, sono state 84).
Occorreva dunque sacrificare la vita di Aldo Moro per non abbandonare l'Italia alla mercé delle Brigate Rosse.
All’epoca ministro degli Interni, Cossiga ricevette a Roma, volati da Washington, gli emissari dell’Fbi, tra cui il funzionario del Dipartimento di Stato Steve Pieczenik, sperimentato gestore di crisi internazionali nonché negoziatore di ostaggi, che imposero al governo italiano la "strategia della fermezza" e quindi presero in mano la gestione dell’operazione Moro che si concluse con la decapitazione delle Brigate Rosse due anni dopo.
(Il mitologico Pieczenik, vice sottosegretario di Henry Kissinger, Cyrus Vance, James Baker negli anni più delicati della Guerra Fredda, quando - ancora giovanissimo - ricopriva in giro per il mondo incarichi in stile "sono il signor Wolf, risolvo problemi", divenne il super-consulente americano che si vedeva costantemente al fianco di Francesco Cossiga, nei fatidici 55 giorni del rapimento Moro. Lo stesso Pieczenik, riporta "The Telegraph" dell'11 marzo 2008 ("L'inviato Usa ammette il ruolo nell'uccisione di Aldo Moro"), dichiarò che era necessario "sacrificare" Moro per la "stabilità" dell'Italia).
Il Gattosardo era dunque a conoscenza di tutto e, posto di fronte alla Ragion di Stato, dovette piegare la testa e lasciare al suo terribile destino il suo compagno di partito e maestro politico.
Annamaria Cossiga, in una struggente intervista sul “Corriere” del 2020, ha raccontato il dramma del padre: ‘’il suo dolore era visibilmente somatizzato: i capelli gli diventarono bianchi, la pelle macchiata dalla vitiligine. Si sentiva responsabile di quella morte. E sì, capitava che di notte si svegliasse dicendo: “L’ho ucciso io”.
Esterno Notte: la serie evento sui tragici giorni del rapimento di Aldo Moro. Francesco Canino su Panorama il 14 Novembre 2022
Lunedì 14, martedì 15 e giovedì 17 novembre su Rai 1 il progetto in sei puntate del regista Marco Bellocchio, con Fabrizio Gifuni, Esterno Notte: la serie evento sui tragici giorni del rapimento di Aldo Moro. Margherita Buy e Toni Servillo, che racconta una delle più drammatiche pagine della storia. E la famiglia Moro critica il progetto Roma 1978. L’anno tra i più drammatici e ingombranti per la storia del nostro Paese, tra violenze di piazza, gambizzazioni, scontri a fuoco, attentati. Il 1978 è soprattutto l’anno del rapimento e dell’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, da parte delle Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra: sta per insediarsi, per la prima volta in un paese occidentale, un governo sostenuto dal Partito Comunista (guidato da Enrico Berlinguer), in una storica alleanza con la Democrazia Cristiana, e Moro è il principale fautore di questo accordo. Proprio nel giorno dell’insediamento del Governo, il 16 marzo 1978, sulla strada che lo porta in Parlamento, Moro e gli uomini della sua scorta cadono in un agguato in via Fani a Roma. Ed è un inedito racconto dei tragici giorni del suo rapimento Esterno Notte, la serie evento di Rai1 diretta da Marco Bellocchio, che sperimenta per la prima volta la serialità e lo fa indagando la molteplicità dei punti di vista dei personaggi che di quella tragedia furono protagonisti e vittime. Il risultato è un prodotto straordinario, di grande impatto emotivo (e non solo), complice anche un super cast: oltre a Fabrizio Gifuni (nei panni di Moro), ci sono anche Margherita Buy (in quelli della moglie Eleonora Chiavarelli), Toni Servillo (Papa Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Daniela Marra (Adriana Faranda). Ecco tutto quello che c'è da sapere sulla serie in tre puntate in onda lunedì 14, martedì 17 e giovedì 17 novembre. Esterno Notte, la serie evento sul rapimento di Aldo Moro È la mattina del 16 marzo 1978 quando il presidente della Dc viene rapito e l’intera scorta sterminata: è un attacco diretto al cuore dello Stato e la sua prigionia durerà cinquantacinque giorni, scanditi dalle lettere di Moro e dai comunicati dei brigatisti. Cinquantacinque giorni di speranza, paura, trattative, fallimenti, buone e cattive azioni, al termine dei quali il suo cadavere verrà abbandonato in un’automobile in via Caetani, esattamente a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista Italiano. «Esterno Notte perché stavolta i protagonisti sono gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro: la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati. Protagonisti celebri, sempre in tv e sui giornali, ma anche sconosciuti», spiega il regista Marco Bellocchio, che ha voluto raccontare l'esterno di quei cinquantacinque giorni italiani stando fuori dalla prigione tranne che alla fine, all’epilogo tragico.
Così a parlare, a raccontarsi, a tacere sono quelle persone che «durante il sequestro, per cercare di salvarlo, per far finta di salvarlo, boicottando apertamente o segretamente ogni trattativa, fino al tragico grottesco delle sedute spiritiche e dei viaggi all’estero per consultare sensitivi che potessero dare delle informazioni utili sulla prigione». Il risultato è una serie in tre puntate che Le Monde ha definito «un'opera di una profondità e di un'ampiezza mozzafiato». A scriverla, oltre a Bellocchio, sono stati gli sceneggiatori Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino. La famiglia Moro contro la serie di Rai1 «O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». È uno sfogo duro e netto quello di Maria Fida Moro, la primogenita di Moro, convinta che la narrazione televisiva non possa rispecchiare la verità storica. L'ex senatrice già si era espressa a nome della famiglia contro il progetto durante le riprese e poi l'uscita nelle sale e alla vigilia della messa in onda su Rai1 rincara la dose: «Non pretendo che gli altri - che non hanno provato - capiscano, ma a dispetto dell'esperienza seguito a sperarci». Poi la stoccata finale, sempre affidata all'agenzia Agi: «È già vergognoso infischiarsene del dolore altrui ed è doppiamente vile usarlo per fare affari. Nel 1963 papà conclude così un discorso credo a Firenze: 'Lasciamo dunque che i morti seppelliscano i morti, noi siamo diversi, noi vogliamo essere diversi dagli stanchi e rari sostenitori di un mondo ormai superato'».
Aldo Moro, Presidente della DC, il primo partito d’Italia, è stato liberato dalla Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra che l’aveva rapito, ed ora scruta con occhi inclementi i suoi compagni di partito, riuniti al capezzale del suo letto di ospedale: Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e il segretario di partito Benigno Zaccagnini. In realtà Aldo Moro non è stato ancora rapito e sta invece lavorando per far nascere il primo governo di unità della storia repubblicana con l’appoggio esterno del PCI. Da un lato contiene i malumori espressi dai rappresentanti delle correnti del suo partito, dall’altro si adopera per ottenere la garanzia del voto di fiducia da parte del segretario del PCI Enrico Berlinguer. Il “compromesso storico” di cui Moro è primo promotore, però, suscita malumori ovunque: nei corridoi di Montecitorio, in piazza tra gli studenti universitari e in Vaticano, dove Papa Paolo VI esprime al Presidente della DC tutte le sue perplessità. Intanto Adriana Faranda, Bruno Seghetti e Raffaele Fiori, alcuni membri della “colonna romana” delle BR, rapiscono Moro il 16 marzo, giorno stesso della fiducia al IV governo Andreotti, dopo aver ucciso in via Fani i cinque uomini della sua scorta. Francesco Cossiga, neo ministro dell’Interno, presiede il Consiglio di guerra convocato in seguito al rapimento anche se i sensi di colpa per quanto accaduto sembrano sopraffarlo. Domenico Spinella, capo della Digos, vorrebbe coinvolgere i responsabili della sicurezza del PCI nelle indagini, dal momento che hanno uomini proprio in quegli ambienti che più fiancheggiano l’operato delle BR, ma i colonnelli del Consiglio si oppongono al loro coinvolgimento. Nel frattempo la brigatista Adriana Faranda viene riconosciuta da più testimoni come colei che avrebbe acquistato le finte divise da aviatore servite al commando di brigatisti per appostarsi senza dare nell’occhio. Nei controlli a tappeto che seguono gli agenti di Polizia arrivano fino al covo di via Gradoli dove si nascondono i brigatisti Mario Moretti e Barbara Balzerani, ma quando nessuno gli apre, invece che sfondare la porta desistono. Intanto la richiesta di Aldo Moro di avviare una trattativa segreta con le BR fatta pervenire privatamente a Cossiga viene vanificata dalla pubblicazione della lettera. Un consulente americano specializzato in rapimenti di ostaggi suggerisce al ministro dell’Interno di discreditare Moro così da rendere sue eventuali confessioni inattendibili e al contempo di fingere di aprire una trattativa con le BR per poi forzarli a una resa incondizionata. Quando il 15 aprile 1978 le Brigate Rosse condannano a morte Moro, lo esorta a sondare le reazioni dell’opinione pubblica nell’eventualità della sua morte: Cossiga fa pubblicare un falso comunicato delle BR in cui annunciano l’uccisione di Moro e l’occultamento del suo cadavere nel lago della Duchessa, in Abruzzo.
Il rapimento Moro con gli occhi di vittime e protagonisti. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Novembre 2022
Il racconto dei tragici giorni del rapimento di Aldo Moro, visti attraverso i molteplici punti di vista dei personaggi che di quella tragedia furono protagonisti e vittime: lo propone «Esterno Notte» di Marco Bellocchio che oggi, domani e giovedì in prima serata su Rai 1, torna su quelle drammatiche pagine della nostra storia con un nuovo originale sguardo. «Ho voluto stavolta farne una serie - dice il regista - per raccontare l’Esterno di quei 55 giorni italiani stando però fuori dalla prigione tranne che alla fine, all’epilogo tragico. “Esterno notte” perché stavolta i protagonisti sono gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro: la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati». Nel cast, Fabrizio Gifuni nel ruolo di Aldo Moro, Margherita Buy (Eleonora), Toni Servillo (Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Daniela Marra (Adriana Faranda).
Esaltato dalla stampa internazionale al Festival di Cannes, accolto con dieci minuti di applausi, «Esterno Notte» è stato definito «un dramma shakespeariano in sei atti» da Le Monde, «una grande serie che è anche grande cinema, senza dubbio uno degli eventi della nuova stagione» da Le Nouvel Observateur; mentre del regista, Liberation ha scritto: «Bellocchio trasforma il piombo in oro rivisitando un trauma nazionale grazie a una serie magistrale e feroce che somiglia soprattutto a un film fiume». «Esterno Notte» scritto da Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino, e diretto da Marco Bellocchio, è una serie Rai prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment, in collaborazione con Rai Fiction e coproduzione con Arte France.
La miniserie di Bellocchio. Esterno notte, perché senza il contesto politico l’uccisione di Moro è pura metafisica. David Romoli su Il Riformista il 18 Novembre 2022
È stupefacente come quasi tutte le innumerevoli ricostruzioni del delitto Moro astraggano dal contesto politico ed economico, nazionale e internazionale: limite a cui non sfugge del tutto neppure Esterno Notte di Bellocchio, che pure è uno dei tentativi più seri di ricostruire complessivamente quei 55 giorni. Il sequestro e l’uccisione del presidente della Dc appaiono come sospesi nel vuoto, oppure spiegati con una ricostruzione d’ordinanza, infondata e fiabesca: quella secondo cui il delitto mirava a impedire l’arrivo al governo del Pci berlingueriano. Manca sempre la percezione della drammaticità della situazione, il riflesso di una crisi che era la più grave nella storia della Repubblica anche prima della strage di via Fani e indipendentemente dalla tragedia dei 55 giorni. Eppure senza tener conto di quel contesto diventa impossibile spiegare le scelte che portarono al tragico epilogo della vicenda, se non affidandosi appunto a versioni da spy-story dozzinale.
La crisi che si snodò nel triennio 1976-79 e il cui esito fu deciso in larga parte dalla tragedia di Moro aveva tre aspetti diversi. Politicamente era conseguenza di una tornata elettorale, quella del 1976, dalla quale non erano emersi vincitori e vinti e che pertanto rendeva il Paese ingovernabile. Nelle democrazie, situazioni del genere sono sempre delicatissime. In Italia, recentemente, la stessa cosa si è verificata sia nel 2013 che nel 2018. Però azzardare paragoni tra la situazione attuale e quella di metà anni ‘70 sarebbe assurdo. Nei decenni della guerra fredda e della contrapposizione tra i due blocchi, l’assenza di un vincitore lasciava aperta come soluzione solo l’intesa fragile ed effimera tra partiti che ancora si guardavano reciprocamente come espressioni del blocco avversario, dunque come “belligeranti”. Il problema numero uno per i leader politici, sia alla vigilia che nei giorni del sequestro, era come uscire dallo stallo risolvendolo in una direzione o in quella opposta: con la vittoria del Pci, che certo avrebbe cercato di governare con la Dc ma in posizione di forza, o con quella della Dc. La paura che nuove elezioni anticipate registrassero quel sorpasso del Pci sulla Dc che era stato temutissimo alla vigilia del voto del 1976 condizionò le scelte del governo e della Dc in quella crisi politica di prima grandezza che fu il sequestro Moro.
La crisi era anche internazionale. Insediatasi alla Casa Bianca poco più di un anno prima, alla guida di un Paese smarrito dopo Watergate e dopo il disastro del Vietnam, l’amministrazione Carter adottava una dottrina opposta a quelle dell’amministrazione Nixon-Kissinger: la “non ingerenza”. Formula tanto suggestiva quanto indefinita. Nella guerra fredda una vera “non ingerenza” era impossibile. Si trattava quindi, più realisticamente, di dosare l’inevitabile ingerenza. Per gli Usa di Carter l’ipotesi di un governo italiano comunista o anche solo con la partecipazione dei comunisti era inaccettabile, nonostante le parziali rassicurazioni dell’ambasciatore in Italia Gardner. Anche un governo votato anche dai comunisti pur senza che ne farne parte era per la Casa Bianca un boccone quasi indigeribile. Infine la durissima crisi economica e sociale imponeva misure che avrebbero colpito soprattutto le fasce più povere e la classe operaia ma la forza dei sindacati, ancora immensa, rendeva impossibile procedere su quella strada senza il loro assenso. Per ottenere il quale il sostegno del Pci era imprescindibile.
La strage di via Fani piombò su questo rebus già quasi irresolubile. Il Pci non poteva che impugnare il vessillo della fermezza, perché aveva fondato la propria immagine vincente proprio sul presentarsi come il solo partito davvero dotato di senso dello Stato, serio e rigido al punto di chiedere sacrifici alla propria stessa base sociale in nome dell’interesse nazionale. Berlinguer avrebbe scelto la fermezza comunque ma a maggior ragione dopo che i sindacati avevano chiarito al premier Andreotti, il giorno stesso del sequestro, che dopo l’uccisione di cinque lavoratori in divisa non avrebbero accettato uno scambio per liberare il leader politico sequestrato. La Dc non poteva trattare perché in caso contrario il Pci avrebbe certamente provocato la crisi ed elezioni anticipate che, presentandosi come solo vero difensore della fermezza in difesa dello Stato, avrebbe probabilmente vinto.
Quella della fermezza fu una scelta politica, non etica o di principio. Fu dettata da una disposizione del quadro politico mai prima tanto delicata e dalla consapevolezza che dall’esito della vicenda di Moro sarebbe dipeso quello dello stallo creatosi nel 1976. Così come fu un calcolo politico che spinse il segretario del Psi Craxi a prendere posizione contro la fermezza per incunearsi in quell’accordo tra Dc e Pci che lo tagliava fuori ma che sapeva essere in realtà fragile. In una prima fase, la fermezza, cioè il sacrificio dell’ostaggio, rinsaldò quell’asse e suonò come una vittoria del Pci, principale alfiere di quella linea rigida. La politica di riforme nei mesi successivi all’uccisione di Moro confermò quella sensazione e fu quasi certamente più coraggiosa di quanto non sarebbe stata con il prudentissimo Aldo Moro vivo e al timone. Ma fu vittoria più apparente che reale. Cercando di spiegare le loro motivazioni all’ambasciatore americano sia Andreotti che Moro giustificarono la scelta di fare entrare il Pci nella maggioranza con la necessità di ottenere il semaforo verde dei sindacati per le politiche di rigore. Ma anche, e anzi soprattutto, con la la convinzione che proprio il sostegno a quelle politiche avrebbe fatto perdere al Pci milioni di voti, risolvendo così il pareggio del ‘76 a loro vantaggio. Profezia puntualmente avveratasi con le politiche del 1979.
È probabile che la visione di Moro fosse meno truffaldina e non si limitasse, come per il grosso del suo partito e per Andreotti stesso, a cercare di mettere in trappola il Pci. Moro mirava davvero ad assorbire nel sistema il Pci, disinnescandone le valenze innovative ma proprio per questo legittimandolo quale forza di governo, come aveva fatto con il Psi e come avrebbe proposto di fare, dal carcere del popolo di via Montalcini, persino con le Br. Ma sia le sue parole che il suo modus operandi indicano che si sarebbe dovuto trattare, nella sua visione, di un processo lungo e lento. Del resto, l’uomo era troppo consapevole dei rapporti di forza internazionali per non sapere che gli americani non avrebbero accettato passi ulteriori oltre quello che già avevano subìto molto malvolentieri e con immense resistenze, cioè la maggioranza allargata al Pci.
La fase cruciale che va dal 1976 al 1979 segnò anche l’inizio della fine per la prima Repubblica, perché a declinare fu il bipolarismo Dc-Pci che ne era stato la colonna vertebrale, sostituito da un gioco di potere tutto interno alla maggioranza di centrosinistra, in concreto alla Dc e a Bettino Craxi. Dire come si sarebbe conclusa quella fase di snodo senza le tragedie di via Fani e di via Caetani naturalmente è impossibile. Di fatto però fu la crisi tutta politica dei 55 giorni a deciderne l’esito e a condizionare di conseguenza l’intero percorso del decennio successivo, fino al tracollo della prima Repubblica all’inizio degli anni ‘90. Senza avere presenti la difficoltà e la drammaticità dell’intera fase nella quale intervenne la crisi Moro diventa impossibile mettere a fuoco le scelte politiche dei protagonisti. È una trappola nella quale cade anche Bellocchio e che lo porta a sottovalutare il ruolo invece determinante che ebbe il Pci nei 55 giorni, il vero limite della sua ricostruzione. David Romoli
Su Rai Uno un dramma in sei atti su Aldo Moro. Aldo Grasso / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022.
Su Rai Uno un dramma in sei atti su Aldo Moro, autore Marco Bellocchio, la serie di chiama “Esterno Notte” che richiama il film girato tanti anni fa da Bellocchio sempre su Moro, “Esterno Giorno”. Polemiche sulla ricostruzione storica dei fatti, ma il regista interroga le coscienze dei personaggi che vanno letti come se fossero dei fantasmi.
Vittorio Feltri inchioda la sinistra: "I morti che fingono di scordare". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 20 novembre 2022
Bellocchio, un asso del cinema, ha mandato in onda una serie televisiva dedicata alla tragedia di Aldo Moro. Indubbiamente un'opera importante che aiuta i più giovani, nel senso dei quaranta -cinquantenni, a capire cosa accadde in quegli anni tetri, i Settanta, durante i quali il Paese fu travolto dalle Brigate Rosse, un esercito formatosi sulle ceneri del cosiddetto Sessantotto. Anche in questo momento si agita lo spauracchio del fascismo, il peggiore dei mali che ancora oggi, secondo la sinistra, ammorba la vita nazionale. Mi sembra tuttavia chiaro che le camicie nere c'entrano con l'assassinio del presidente della Dc come i famosi cavoli a merenda.
L'autorevole leader politico fu sequestrato da uomini appartenenti al partito comunista armato, e poi abbattuto. Ma la pubblicistica progressista, mentre è ossessionata dal duce e dai suoi tardivi seguaci, tace sui misfatti dei signorini che brandivano, non solo la falce e martello, ma anche la P38.
Neanche una parola di biasimo. Ogni tre minuti i rossi rammentano l'attentato mortale in cui perì Matteotti, ma scordano l'agguato a Moro, durante il quale furono freddati addirittura cinque agenti della sua scorta, ammazzati così, tanto per gradire.
In conclusione: Matteotti, stando alla vulgata degli eredi dei comunisti è considerato un martire, invece Moro sarebbe morto di raffreddore. Questo dettaglio grida vendetta, ma fa anche ridere dato che la stupidità spesso si sposa con la comicità. Il socialista fu eliminato dagli amici di Mussolini oltre un secolo fa, mentre Moro fu sacrificato dai compagni nel 1978, quando io ero già padre di quattro figli e lavoravo al Corriere della Sera. Eppure in questa Italia sbilenca i fascisti sarebbero ancora una minaccia perla nostra debole democrazia, viceversa i comunisti o ex tali continuano ad essere applauditi e perfino votati.
Siamo nel grottesco. Tanto è vero che anche l'opinione pubblica viene influenzata da certe idee balzane, dominano l'ignoranza dei fatti e la smemoratezza. Alcuni giorni orsono i giornali hanno pubblicato la foto del manichino di Giorgia Meloni a testa in giù in una piazza, esattamente come accadde al dittatore nero dopo la fucilazione. Non si trattava di un episodio folkloristico bensì di un auspicio. Questa è la squallida realtà. I pericoli e il cattivo gusto provengono dalla sinistra, e la destra li subisce senza nemmeno il diritto di protestare.
Il morbo ideologico che "salva" le Br. Nel nuovo film di Marco Bellocchio sono tutti colpevoli. Tranne i veri assassini. Claudio Siniscalchi su Il Giornale il 24 Novembre 2022
Leonardo Sciascia nel 1978 decise di pubblicare un velenoso libretto sull'«affaire Moro». Da quel momento l'«affaire» si è trasformato nel più rappresentato fra i tanti misteri - veri, verosimili ma perlopiù immaginari - dell'Italia repubblicana. Cinque processi. Due commissioni parlamentari. Ricostruzioni storiche. Inchieste giornalistiche. Varie pellicole. Un'infinità di versioni dei fatti. La mattanza del 16 marzo 1978, oltre alla successiva prigionia e condanna a morte di Aldo Moro (e tutto quello che ne conseguì, di buono o cattivo) è diventato un «caso». Anzi, a essere precisi, come aveva intuito Sciascia, un «affaire».
L'ultima puntata della mitologia (non della storia) del rapimento e dell'uccisione del politico italiano più rappresentativo è andata in onda con la trasmissione su Raiuno di Esterno notte di Marco Bellocchio. Si tratta di un lungometraggio suddiviso in due parti, uscito dopo la presentazione nel maggio scorso al Festival di Cannes. Gli incassi non sono stati strepitosi (700mila euro complessivi). Al contrario della fanfara critico-mediatica, ricca di sviolinate spesso dai toni elegiaci. Sulle qualità formali del prodotto c'è poco da dire. Bellocchio - classe 1939 - è un regista di notevole mestiere. Anzi, col trascorrere del tempo il suo lavoro è sensibilmente migliorato. A metà carriera era volutamente sprofondato nel vuoto psicoanalitico. Per fortuna ha trovato la forza di tornare a galla. In precedenza, il regista aveva dedicato all'«affaire Moro» il lungometraggio Buongiorno, notte (2003), trovando ispirazione nella ricostruzione degli eventi operata dalla brigatista Anna Laura Braghetti. Ambientazione teatrale, claustrofobica come la prigionia. Opera tutto sommato ben realizzata, storicamente assai vaga. Con una grave caduta di stile, imperdonabile: la seduta nella quale si domanda allo «spirito di Bernardo» di indicare il nascondiglio, e quello c'azzecca: Gradoli! Nel finale viene suggerito il colpevole della morte di Moro: il partito dell'intransigenza, incarnato dai democristiani Giovanni Leone, Giulio Andreotti e Francesco Cossiga.
In Esterno notte la staticità della prigione è abbandonata, sostituita dalla movimentata agitazione dei palazzi della politica. Lo schema di fondo - la lettura storica degli avvenimenti - è che Moro sia stato ucciso per via del «compromesso storico». I democristiani contrari all'accordo si fregano le mani. Non cedendo alla trattativa, preparavano la trappola perfetta. Con una sola esca avrebbero contrastato efficacemente l'avanzata comunista e, al contempo, smantellato la galassia terrorista. Sul piano della ricostruzione storica tutto ciò regge? Nemmeno per sogno. Il «compromesso storico» con la morte di Moro non c'entra nulla. Non infastidiva gli americani. Né i sovietici. L'Italia era un Paese a «sovranità limitata». La «guerra fredda» l'aveva relegata nel blocco atlantico. E lì sarebbe rimasta. Come l'Ungheria e la Cecoslovacchia, sottoposte al controllo sovietico.
Al di là delle tante (troppe) interpretazioni contrastanti, senza dimenticare ovviamente le ombre, almeno su un punto si dovrebbe concordare. Moro venne ucciso dalle Brigate Rosse. Il brigatismo è il frutto avvelenato di quanti, dal 1968 in poi, si sono ritenuti depositari della tradizione marxista-leninista, ergendosi a guardia armata della classe operaia. Il partito di governo, senza ombra di dubbio sottovalutò il pericolo. Fece poco o nulla per contrastarlo sul nascere. Lo stesso errore venne commesso dall'opposizione comunista. Invece in Esterno notte la responsabilità della morte di Moro è imputata alla spregiudicatezza e al cinismo degli uomini politici di punta della Dc. La stessa versione si trova nella serie tv Romanzo criminale. I malavitosi romani riescono a sapere dove si trova il nascondiglio. I servizi segreti per ordini superiori non usano l'informazione. L'accostamento è imbarazzante. Ma Bellocchio fornisce la stessa versione dei fatti.
Bellocchio in gioventù contrasse il morbo ideologico della sinistra sessantottina. Lo riversò, anche in salsa cinese, nella sua opera. L'ha solo messo in soffitta per un po', inseguendo la spirale vorticosa della psiche e della sessualità. In vecchiaia il morbo è riemerso. Il regista, dopo l'eskimo, la giacca cinese, l'abito dello psicanalista spregiudicato, ha indossato i panni borghesi del pedagogo. Però di parte. In Esterno notte ridicolizza la figura di Paolo VI, impegnato a chiudere aiuto a Dio per salvare l'amico fraterno di gioventù (punendosi), e a condurre sottotraccia una «trattativa» con i rapitori, ammucchiando ingenti palate del necessario «sterco del demonio». Ma il vero artefice della «trattativa» per liberare Moro fu Bettino Craxi. Che naturalmente appare di sfuggita, perché Craxi è l'icona del male della sinistra italiana. I democristiani escono distrutti dalla rappresentazione; i comunisti invece sono messi al riparo dalla quasi totale assenza.
Il regista ha dichiarato che non voleva fare un film storico. Purtroppo, il suo è un film storico, e con la storia deve fare i conti. Ed è una storia fasulla. L'Italia monarchica e fascista andò in frantumi l'8 settembre 1943. Quella repubblicana rischiò di disintegrarsi dopo il 16 marzo 1978. Fortunatamente il sistema resse l'onda d'urto. Ma di questa storia, ormai largamente condivisa da quanti hanno cercato di studiare quegli anni senza pregiudizi o paraocchi ideologici, nell'opera di Bellocchio non vi è alcuna traccia. Nei film spesso si trova all'inizio una scritta: «riferimenti a fatti storici e a personaggi realmente esistiti, devono considerarsi puramente causali». Appunto!
Maurizio Caverzan per “La Verità” il 18 novembre 2022.
Tale padre tale figlio, anche Stefano Andreotti conserva una discreta ironia capace di sdrammatizzare le situazioni più scabrose. Nella serie Esterno notte trasmessa in questi giorni da Rai 1 suo padre Giulio è dipinto come l'anima nera della Democrazia cristiana, l'uomo che più perseguì la strategia della «fermezza» e addirittura ostacolò i tentativi di salvare Aldo Moro.
Eppure, il settantenne terzogenito dell'ex presidente del Consiglio democristiano morto nel 2013, conserva il distacco per sfoderare un particolare illuminante: «Ha presente nella fiction quando, la mattina dell'agguato in Via Fani, si vede Moro leggere La Repubblica?». Sì, certo.
«Quella mattina il vero titolo di Repubblica era: "Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro". Questo per dire la sciatteria o, peggio, la volontà di distorcere i fatti».
Mentre il pubblico si è mostrato tiepido, la critica ha curiosamente elogiato l'opera di Marco Bellocchio, a dispetto del fatto che la ricostruzione contenuta nei sei episodi, nonostante la consulenza storica di Miguel Gotor e giudiziaria di Giovanni Bianconi, o forse proprio a causa di queste, sia distante dalla verità.
Alla fine ha ceduto e ha visto Esterno notte, contrariamente a quanto aveva dichiarato dopo la presentazione al Festival di Cannes.
«Qualcuno mi ha convinto in modo educato a farlo».
Qual è stata la sua prima reazione?
«Mi è venuta subito in mente l'intervista che mio padre concesse al Giornale nel 2003, subito dopo l'uscita di Buongiorno, notte, il precedente film di Bellocchio. In quell'intervista si rammaricava che la produzione fosse della Rai.
E si lamentava che ci fossero grandi inesattezze nella ricostruzione degli eventi. In particolare, riguardo alla sua forte pressione su papa Paolo VI affinché nell'appello, che poi fece pubblicamente in Piazza San Pietro, aggiungesse la famosa frase per il rilascio dell'ostaggio "senza condizioni"».
Anche in questa serie il regista ripropone il biglietto fatto pervenire al Papa prima dell'appello.
«Nel film era su carta intestata della presidenza del Consiglio, nella serie questo dettaglio non è specificato, ma è chiaro che l'estensore è lo stesso. Quando certe circostanze sono accreditate una volta, poi vengono ripetute.
Anche altri hanno ripetuto l'assoluta falsità che mio padre avrebbe imbeccato Paolo VI. Nei suoi diari c'è la ricostruzione di quei giorni. C'è il memoriale scritto da monsignor Angelo Macchi, segretario particolare del Papa, che veniva quasi tutte le sere a casa nostra per un reciproco aggiornamento.
Quel memoriale credo non sia mai stato visto da nessuno, eppure racconta bene che il discorso di Montini è nato senza condizionamento alcuno. Fu scritto, riscritto e corretto prima di pronunciare la versione definitiva».
Condivide il pensiero di Maria Fida Moro quando dice che «o si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace»?
«Lo condivido appieno. Credo non sia giusto entrare nella sfera del dolore soprattutto della sua famiglia. Se si vuole parlare di Moro se ne parli come personaggio storico e non si approfitti di altre situazioni per entrare in casa loro in quel modo. Sono passati 45 anni: non ritengo giusta questa insistenza».
Come dimostra la lettura della lettera nella quale Moro ringrazia le Br per l'avvenuta liberazione che a un certo punto sembrava probabile, Bellocchio sembra abbracciare la tesi di Leonardo Sciascia per il quale alla Dc, al Pci e ai corpi dello Stato faceva comodo che Moro fosse lasciato morire.
«Bellocchio sposa la tesi che non è stato fatto nulla per liberarlo, anzi, si è remato contro. Perciò, si mostra l'episodio in cui il capo della Digos Domenico Spinella dice di non sfondare quello che era un covo dei terroristi.
Sono ricostruzioni decontestualizzate, che seguono dietrologie contenute in tante pubblicazioni o negli atti di commissioni politiche successive. Magari si poteva anche dare un'occhiata ai Diari degli anni di piombo relativi al periodo 1976-1979 pubblicati già allora. E che di recente abbiamo integrato con altre carte che, all'epoca, mio padre aveva preferito non divulgare. I Diari erano scritti giorno per giorno, mentre i fatti accadevano, non sono ricostruzioni a posteriori. Forse confrontarsi con questo materiale non era nelle corde degli autori della serie tv».
Miguel Gotor, storico e consulente del regista, dice che la «libertà artistica è un bene supremo».
«Concordo e per fortuna in Italia non è mai mancata. Ma credo che ci sia un'ambiguità: si fa una fiction con l'ambizione di una ricostruzione storica. Se questo è lo scopo ci si dovrebbe basare su dati sicuri effettivamente riscontrati».
Eppure la critica ufficiale elogia «il rigore di Bellocchio».
«Non so. Non ho ancora visto le ultime due puntate. Se tutto il negativo di quei giorni è ascrivibile alla Democrazia cristiana e ai suoi componenti mentre il Pci di Enrico Berlinguer e gli altri leader allineati sulle stesse posizioni sono sgravati di ogni responsabilità, non mi sembra un gran rigore».
Anche Eugenio Scalfari e Repubblica erano in prima linea nella scelta della fermezza.
«Esatto. Mi sono annotato un particolare divertente: nella scena del tragitto in auto verso Via Fani si vede Moro leggere Repubblica. Sa qual era il titolo del giornale del 16 marzo 1978? "Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro". Questo dice la sciatteria o peggio la mistificazione in atto».
Suo padre esce come la vera anima nera di quei giorni.
«Che si doveva fare meglio è evidente, ma l'apparato dello Stato e dei suoi corpi mostrò tutta la sua arretratezza. Uno dei passaggi più verosimili della fiction è quando Cossiga dialoga con il consulente statunitense che gli dice che mentre per gli americani dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse, per gli italiani ci sono sempre altre realtà, altri burattinai. Siamo malati di dietrologia.
Al di là dei processi subiti negli anni Novanta, il più grande dolore della vita politica di mio padre è stato che qualcuno ha insinuato non solo che non ha fatto nulla, ma addirittura che abbia ostacolato la possibilità di salvare Moro».
La fermezza era compatibile con percorsi di trattativa ufficiosi?
«Certo. Mio padre si era attivato con varie associazioni umanitarie e anche con Gheddafi, Tito, persino Fidel Castro. Soprattutto c'è stato il tentativo di pagare un riscatto di 10 miliardi di lire, non di 20 come si vede nella fiction.
È tutto scritto nei Diari. Un'altra differenza è che il Vaticano si tira indietro perché ritiene che sia una truffa. In realtà, l'ipotesi del riscatto resse fino all'ultimo ed era concordata con Berlinguer, tramite il suo segretario Tonino Tatò, e Franco Rodano, che era un cattolico nel Pci».
Eleonora Moro dice a Paolo VI che l'unico a non andarla a trovare è Andreotti.
«Mio padre era presidente del Consiglio, la sentiva spesso telefonicamente. Non si è mai voluto mostrare. Conosceva Moro dalla guerra e anche lei dal tempo della Fuci.
Moro aveva scelto mio padre come capo del governo della "non sfiducia" del 1976 e poi l'aveva nuovamente scelto per quello che giurava quella mattina con l'appoggio esterno del Pci. Che da una parte della famiglia ci sia stato risentimento lo capisco. Il rapporto con Maria Fida invece è sempre stato ottimo anche dopo la tragedia finale».
In casa parlavate di come comportarvi se al posto di Moro ci fosse stato suo padre?
«In quel periodo lo vedevamo molto poco. Ricordo benissimo che in più di un'occasione, anche alla presenza di monsignor Macchi, ci disse che se fosse accaduto qualcosa a lui dovevamo accettare la stessa linea scelta in quel momento dallo Stato. Mio padre è stato un obiettivo delle Br.
Alberto Franceschini ha raccontato di averlo pedinato e di averlo urtato una mattina quando scendeva dalla macchina per vedere la reazione della scorta».
Da Bellocchio al Divo di Paolo Sorrentino che risposta si dà a proposito del fatto che il cinema tratteggia suo padre sempre in una luce negativa?
«Si continua a coprire di fango una persona e il partito cui apparteneva. Non è solo il cinema a descriverlo così.
Per capire perché questo accade dobbiamo ricordarci di ciò che è accaduto in Italia all'inizio dei Novanta con la demonizzazione di tutti i rappresentanti dei partiti di governo, con l'incredibile eccezione dei perdenti della storia. Eppure, come dice Paolo Cirino Pomicino, gli sconfitti della storia sono proprio quelli che vogliono continuare a scriverla. A modo loro».
Anna Corazza per “La Stampa” il 15 novembre 2022.
La figlia di Aldo Moro, Maria Fida Moro, all'Agi ha rilasciato un durissimo sfogo contro Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio da ieri sera su Rai1. «È già vergognoso infischiarsene del dolore altrui ed è doppiamente vile usarlo per fare affari», ha detto. Citando le parole del padre pronunciate nel ‘63 forse a Firenze: «Lasciamo che i morti seppelliscano i morti, noi vogliamo essere diversi, noi vogliamo essere diversi dagli stanchi e rari sostenitori di un mondo oramai superato».
Abbiamo chiesto allo storico Miguel Gotor, che ha collaborato con Bellocchio e che è uno dei maggiori studiosi di quegli anni terribili della Repubblica, di commentare le parole di Maria Fida. E di contestualizzare la vicenda che più ha segnato l'Italia del dopo guerra.
Maria Fida dice che o siamo personaggi storici e allora si rispetta la storia, o siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace. Che risponde?
«Rispondo con le parole lapidarie con cui la famiglia Moro commentò a caldo l'omicidio del congiunto: "Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia". Provo un grande rispetto per la sua persona e per il dolore che ha vissuto insieme con il figlio Luca e ho apprezzato i libri che ha scritto sul padre, che abbiamo utilizzato, tra gli altri, come fonte del racconto. Ma certo questa vicenda non è una storia privata».
quel periodo. Accusa chi strumentalizza il dolore suo e di suo figlio per fare soldi. Ma il caso Moro è strettamente legato alla tragedia della sua famiglia, è possibile raccontare quegli anni censurando gli aspetti privati?
«Un film è per definizione un'opera di finzione o, come si dice ora, di fiction. Credo che la libertà artistica, che naturalmente è anche libertà di invenzione e di creazione, sia il bene supremo da tutelare. Un film che sceglie come argomento di partenza un fatto storico è equiparabile a un romanzo storico, un genere anfibio su cui esiste un dibattito plurisecolare che è incentrato sui rapporti tra verità storica, verosimiglianza e invenzione».
Che importanza ha invece far conoscere la storia di Moro? Bellocchio dice che questa volta non è un film ideologico. E merito della sua collaborazione alla sceneggiatura?
«Vorrei chiarire che non ho collaborato alla sceneggiatura ma sono stato consulente storico del film. È stata una esperienza molto interessante perché mi ha permesso di seguire da vicino il processo creativo di un maestro dell'arte cinematografica come Marco Bellocchio e assistere alle diverse fasi di scrittura di una squadra di sceneggiatori molto bravi. Posso dire che tutto il lavoro è stato improntato al massimo rispetto non solo della figura di Moro, ma di tutti i protagonisti di questa tragedia».
Quanto sarebbe stata diversa la storia politica italiana se Moro non fosse stato rapito e ucciso?
«Non saprei dirlo anche perché è la storia italiana con la sua complessità e stratificazione che ha ucciso Moro. È la storia non è una favola nella quale cambi il finale a piacimento, ha un nucleo necessitante che costituisce il suo fascino proprio perché è anche sempre storia di libertà. Sono le scelte degli uomini che vanno comprese nel contesto in cui scaturiscono. Se la storia è una scienza lo è del contesto e dei rapporti di forza».
Avete avuto contatti con gli altri figli del presidente?
«Con Agnese e Giovanni Moro ci sono stati scambi di messaggi e un incontro. Consideri che per quanto mi riguarda stiamo parlando di due persone alle quali mi lega un rapporto di stima e di amicizia».
Pensa che i ragazzi di oggi conoscano la storia di quegli anni?
«La storia non si conosce mai abbastanza. Se un film come questo può accendere un interesse di un giovane di oggi nell'approfondire le dinamiche che hanno portato al rapimento e alla morte di Moro leggendo un libro di storia ne sarei contento. Ma non dobbiamo confondere le lingue: un film è un film che va giudicato per ciò che è. E questa serie per la televisione in tre puntate di Bellocchio è un'opera originale e di grande valore che ha il merito di rivolgersi al pubblico in prima serata con un prodotto che obbliga a pensare. Nel panorama attuale non mi pare poco».
La miniserie che racconta il rapimento Moro. “Esterno notte” è un grande film, lo sguardo di Bellocchio resta unico. Angela Azzaro su Il Riformista il 16 Novembre 2022
Il primo motivo per cui non si può non stare dalla parte di Marco Bellocchio e del suo Esterno notte è che la puntata di lunedì (giovedì è prevista la terza e ultima messa in onda) è stata trasmessa in contemporanea al Grande fratello vip. Da una parte il grande cinema, i grandi attori, dall’altra il nulla assoluto, il vuoto che come un buco nero tutto assorbe lasciando lo spettatore privo di qualsiasi emozione. E nonostante la sfida impari, Bellocchio è riuscito a portare a casa uno share del 18.6% (per un pubblico di 3.307.000 spettatori) mentre il reality di Canale 5 ha totalizzato il 21.9%. Un risultato più che buono per una produzione che porta la Storia in prima serata: non le solite fiction stereotipate e fatte con il bilancino per soddisfare i gusti della famiglia che la sera guarda la tv (un po’ di teen, un po’ di amore, un po’ di suspense). Non è detto che Esterno notte riesca a tenere questi numeri, il primo giorno c’è stato l’effetto evento a fare da traino. Comunque vadano gli ascolti è un film d’autore, è un’opera che può non piacere ma a cui è impossibile non riconoscere la grandiosità dello sguardo, la capacità del regista di entrare nell’animo dei protagonisti, di avere una sua visione per quanto non sempre realistica o puntuale dal punto di vista storico.
Marco Bellocchio aveva già raccontato il rapimento Moro in Buongiorno, notte. Il rapporto con i rapitori, l’abbandono da parte dei suoi “amici” di partito, le sue lettere che diventano sempre più dure contro quella Dc da cui si sentiva tradito. Il regista ritorna sul luogo della Storia e questa volta va a sviscerare tutti gli aspetti. L’inizio è visionario. Moro è stato liberato e si trova in un letto d’ospedale: al suo capezzale accorrono Cossiga, Andreotti e Zaccagnini. Sogno, realtà, finzione? Una scena toccante, perché nella sua assurdità ti fa vedere i “se” e i “ma” della Storia: ti fa capire, emozionando, come poteva essere diverso, come tutto poteva andare in un altro modo. Ti fa vedere la speranza, ti fa toccare con mano la possibilità. L’occhio del regista, nelle prime due parti trasmesse lunedì, usa la cronaca per parlare di un dramma umano che va al di là. Forse per questo un incipit così spiazzante: si parla di Moro, ma non è Moro. Moro è morto, Moro è stato ucciso. I fatti assurgono a una dimensione da tragedia shakespeariana: il dramma sono gli esseri umani alle prese con la Ragion di Stato. Il dramma è il conflitto tra ragione e sentimento, tra politica e vita privata, tra grande Storia e destini personali. In queste fessure, in queste aporie dal punto di vista filologico si insinuano, attraverso il meccanismo di identificazione, le storie personali: chi il giorno del rapimento Moro era a scuola, chi faceva politica, chi lavorava in un giornale. Chi…
Eppure proprio questa mancanza di fedeltà che ha suscitato le reazioni più controverse. Sicuramente quella della famiglia di Moro. Durissimo il commento della figlia Maria Fida: «O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». «Mio figlio ed io viviamo, nascosti in bella vista, col citofono, campanello, e telefono spenti – ha spiegato – ma ogni giorno un’ondata di tsunami ci raggiunge ugualmente. Non pretendo che gli altri – che non hanno provato – capiscano, ma a dispetto dell’esperienza seguito a sperarci». Bellocchio che ha definito Esterno notte meno ideologico del precedente Buongiorno, notte, si è scusato, non pensava di arrecare così tanto, nuovo dolore. Speculare la reazione di chi invece contesta al film di fare una descrizione stereotipata dei rapitori e delle contestazioni di quegli anni. Il nostro collaboratore e amico Frank Cimini ha parlato nel suo profilo facebook di “democratura”, riferendosi alla decisione della Rai di mandare in onda questa serie, proprio ora. “Lo Stato – ha scritto Cimini – con questo film anche dopo tanti anni si autoassolve”. Un messaggio che secondo lui, e molti altri, intende veicolare un messaggio anche rispetto all’oggi, a quello che stiamo vivendo con il nuovo governo.
La critica sulla descrizione tranchant dei rapitori è condivisibile ma non al punto da bocciare il film, il cui cuore pulsante è un altro: entrare nell’animo dei personaggi, creare una tensione che pur partendo da Moro, dalla sua morte, ci arriva ancora oggi. Non un messaggio di destra, ma il solito Bellocchio che affronta temi scomodi – come il suicidio assistito o la Storia – con uno sguardo intimo, che tende a piegare l’ideologia al vissuto. E poi c’è un altro aspetto che di questa miniserie, presentata a Cannes 2022 con successo, non si può trascurare: la bravura degli attori. A partire da un Fabrizio Gifuni in forma straordinaria. È riuscito, senza essere pedissequo o gigionesco, a fare un ritratto incredibile di Moro. La sua ossessione per il lavaggio delle mani, il suo sguardo, la sua scaltrezza. La sua intelligenza politica. Non si racconta una Storia pacificata, ma una Storia ancora oggi conflittuale. La differenza è nell’inquadratura. Nella recitazione. Nel montaggio. Nella fotografia. Nel modo di raccontare l’essere umano, cioè noi. La differenza è il grande cinema.
Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica
Il sequestro del presidente della Dc. Il rapimento di Moro ha deviato la storia d’Italia: a destra o a sinistra? Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Novembre 2022
La mattina del 16 marzo, alle 9 e due minuti, le Brigate Rosse bloccarono le due auto con le quali Aldo Moro e la sua scorta stavano dirigendosi a Montecitorio. Una Fiat 130 e una Alfetta. Nessuna delle due era blindata. Fu un inferno di fuoco, durò esattamente tre minuti. I cinque uomini della scorta furono sterminati. Moro, illeso, fu trasferito a forza sulla Fiat 128 guidata da Mario Moretti, cioè dal capo delle Br. Poi fu spostato nel bagagliaio di un furgone e portato al covo nel quale restò prigioniero per 55 giorni, in via Montalcini, al Portuense.
Quel giorno fu deviata la storia d’Italia. A Montecitorio era prevista per le dieci la seduta della Camera chiamata a dare la fiducia al nuovo governo. Era un monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, che per la prima volta dal 1947 avrebbe ottenuto la fiducia dei comunisti. Il nuovo governo era frutto di un lunghissimo lavoro di mediazione condotto da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sul filo di equilibri difficilissimi. All’ultimo momento Moro, insieme ad Andreotti, aveva modificato la lista dei ministri, riducendo il numero dei tecnici orientati a sinistra ed aumentando il numero degli uomini più conservatori della Dc. Berlinguer si era infuriato e minacciava di non votare la fiducia. Alle 9 e 10 minuti la notizia del rapimento irruppe a Montecitorio. Berlinguer riunì la segreteria del partito e fu deciso di chiedere a Pietro Ingrao, che era il presidente della Camera, e a Fanfani, che era il presidente del Senato, di stringere i tempi del dibattito parlamentare e di votare la fiducia in serata. Berlinguer rinunciò a tutte le sue perplessità e diede ordine ai parlamentari di votare la fiducia. All’una di notte il governo era insediato.
E iniziò a muoversi su due binari. Il primo riguardava proprio il rapimento Moro, e Berlinguer, insieme al segretario della Dc, Zaccagnini (allievo e quasi fratello di Moro), e ai suoi vice (Galloni, Granelli, Bodrato e altri) stabilirono la linea della fermezza. Con le Br non si tratta. Craxi si dissociò. Anche nella Dc qualcuno si scostò dalla linea ufficiale. In particolare Fanfani e i suoi. Vinsero Berlinguer e Zaccagnini. La linea della fermezza fu affidata ad Andreotti e Cossiga che la applicarono con molto rigore. Il secondo binario sul quale si mosse il governo fu quello delle riforme. Anche su questo terreno il Pci prese la guida delle operazioni. In pochi mesi furono approvate alcune riforme importantissime. Prima di tutto l’introduzione dell’aborto (col voto contrario della Dc e cioè con l’opposizione del governo) poi la riforma sanitaria, che introduceva il diritto assoluto alla salute gratuita per tutti, poi la riforma psichiatrica, poi una clamorosa riforma degli affitti (di segno praticamente socialista) cioè l’equo canone, infine la riforma dei patti agrari, che riduceva i poteri dei proprietari di terra. Diciamo che si aprì la più grandiosa e feconda stagione riformista della storia della repubblica. Che si svolse sotto il tiro delle Brigate rosse e in pieno scorrere degli anni di piombo.
Una domanda che nessuno mai si è posto è questa: se Moro non fosse stato rapito, e se dunque la guida della maggioranza di unità nazionale fosse toccata a lui, e non a Berlinguer e Andreotti, si sarebbero realizzate le stesse riforme? Moro in realtà, alla guida della Dc – che dalla fine degli anni Cinquanta fino alla sua morte esercitò in alternanza con Amintore Fanfani – fu sempre un conservatore. Il primo periodo riformista del centrosinistra (con la riforma della scuola media e la nazionalizzazione dell’energia elettrica) avvenne sotto la direzione di Fanfani, non di Moro. Moro era grandioso nelle sue doti di mediazione ma anche nella sua capacità di aggirare gli ostacoli e rinviare i problemi. Era un politico-politico, convinto che per governare l’Italia si dovesse muovere poco mantenendo però sempre una grande apertura mentale. È probabile che un governo di unità nazionale guidato da Moro – e quindi coi comunisti e anche i socialisti in gabbia – avrebbe avuto una carica riformista molto ridotta.
Sarebbe interessante studiare anche questo aspetto, mai esplorato della politica e della storia italiana. Il terrorismo svolse – come si diceva allora – una funzione reazionaria, cioè – per reazione – spinse a destra l’Italia; o invece mise in mora la destra, aiutando oggettivamente una politica di riforme? Ci vorrà molto tempo per capirlo. Moro restò per 55 giorni nella prigione delle Br. Inviò centinaia di lettere polemiche verso tutto l’establishment. Si disse che in quel modo destabilizzò la politica italiana. Non è vero. Rafforzò l’asse tra Dc e Pci. Creando quella amalgama che in parte esiste ancora adesso è il nucleo forte del Pd.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Bellocchio e Gifuni: il fantasma di Moro in tv parla dell’Italia di oggi. L’elemento del grottesco e la dimensione del tragico coesistono nell’identità italiana. Straordinaria prova dell'attore che in «Esterno Notte» fa «rivivere» lo statista assassinato dalle Br con eloquio e gestualità misuratissimi ma esplosivi. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Novembre 2022.
L’elemento del grottesco e la dimensione del tragico coesistono nell’identità italiana, che Piero Gobetti definì «l’autobiografia di una nazione» identificandola con il fascismo. Ma quella autobiografia si nutre di altri capitoli nel corso del secondo Novecento, fra i quali senz’altro vi sono l’omicidio di Pier Paolo Pasolini nel 1975 e il caso Moro, cioè il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana, 16 marzo-9 maggio 1978. Le Brigate rosse perpetrano la strage di via Fani a Roma, in cui perdono la vita i cinque uomini della scorta, e sequestrano Aldo Moro sull’orlo del varo di un nuovo Governo Andreotti, un monocolore democristiano aperto al sostegno parlamentare del Partito comunista italiano. Moro ne era stato l’abile tessitore con l’intento di superare un sistema quasi paralizzato dalle forze contrapposte nella cornice della divisione geopolitica fra il blocco atlantico e l’impero sovietico, ben prima del crollo del Muro di Berlino nel 1989. Una determinazione morotea (sembra un ossimoro, eppure non lo è affatto) ad assorbire e contenere i conflitti che fu invisa a molti in Italia e all’estero, come adesso adombra anche la serie Esterno notte di Marco Bellocchio. Dopo la trionfale accoglienza all’ultimo Festival di Cannes e l’uscita primaverile in sala, la serie sta andando in onda con grande seguito su Raiuno (domani sera la terza e ultima parte).
Al pari di Pasolini, Moro è un fantasma ciclicamente pronto a inquietare e a interrogarci, come conferma un magnifico romanzo di Andrea Pomella, Il dio disarmato, da poco edito per i tipi di Einaudi. Ne è persuaso Fabrizio Gifuni che in teatro ha elaborato la fine di entrambi, il poeta e il politico, quali capri espiatori della nostra storia recente. L’attore nel film tv di Bellocchio fa letteralmente «rivivere» lo statista originario di Maglie (dov’era nato nel 1916), non certo in maniera mimetica nonostante l’impressionante somiglianza, e per certi versi «replicando» la prova in scena di Con il vostro irridente silenzio, una sua drammaturgia del memoriale e delle lettere dalla prigionia di Aldo Moro, diventata anche un libro edito da Feltrinelli. Moro è un leader isolato e incompreso, cui si vuole attribuire uno stato di alterazione o addirittura la pazzia da parte dei suoi colleghi di partito che, come i comunisti, si oppongono a qualsivoglia trattativa con i terroristi (diversa fu la posizione di Bettino Craxi e del Partito socialista). L’amarezza del protagonista e certi suoi sensi di colpa retrospettivi, insomma un autentico senso del tragico, si colgono grazie all’eloquio e alla gestualità misuratissimi eppure esplosivi dell’impareggiabile Gifuni, affiancato fra gli altri da Margherita Buy, ostinata e dolente Eleonora Moro, e da Toni Servillo negli abiti papali di Paolo VI.
Fa testo, per esempio, la confessione di Moro a un sacerdote poche ore prima della morte nel covo romano delle Brigate rosse. Un episodio di fantasia, che del resto è all’opera già nel prologo in cui Bellocchio mostra Moro liberato dai suoi carcerieri e in un letto di ospedale, deciso a dimettersi da ogni carica al cospetto degli amici-nemici Giulio Andreotti, Benigno Zaccagnini e Francesco Cossiga sul cui carattere «bipolare» e tormentatissimo la sceneggiatura è al contempo pietosa e impietosa (lo interpreta Fausto Russo Alesi).
Già nel 2003 Bellocchio aveva offerto una rilettura onirica della vicenda nel film Buongiorno, notte di cui questa serie è figlia. Una vena di irrealtà, struggente, era incarnata allora da Roberto Herlitzka nell’epilogo choc: il prigioniero libero in strada all’alba, sereno e smarrito... Moro come un politico dalla sostanza impolitica e talora quasi lirica (le sue «convergenze parallele» degne di un paradossale ermetismo alla Vittorio Bodini), un potente impotente dalla sostanza scespiriana. «Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». Amleto c’è sempre, anche nel dubitare straziante di Moro in Esterno notte, che non è cinema d’inchiesta, bensì indagine psicologica lungo il crinale di scelte cruciali che, cambiando la vita di un singolo, incidono sulla storia di tutti. È la cifra sempreverde dell’ottantatreenne Bellocchio, dal lontano esordio di I pugni in tasca a Nel nome del padre, fino a Vincere (il Mussolini «segreto») e Il traditore (il caso Buscetta): svelare le contraddizioni di un organismo sociale o politico è già sottrarsi alla sua tirannia. L’essenza della rivolta è un’assenza, la diserzione dal cinismo della realtà, il tradimento attuato o subito del proprio mondo.
Con la sua lingua tersa e talora lapidaria, pochi giorni prima di essere rapito, Moro ammonisce: «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere». Non diremmo sia poi mai nato e tuttora ci fa difetto, mentre prendeva piede il primato del grottesco di pari passo con il declino della politica e delle classi dirigenti. Ricordare Moro è parlare di oggi.
«Esterno notte», il rigore di Marco Bellocchio sul caso Moro. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022.
Dopo «Buongiorno notte», girato quasi vent’anni fa, il regista ha sentito il bisogno di tornare su quelle drammatiche pagine della nostra storia per entrare nelle coscienze di alcuni protagonisti
In più di un’occasione la tv italiana si è occupato dal caso Moro: con inchieste, con ricostruzioni storiche, con miniserie («Aldo Moro. Il presidente», regia di Gianluca Maria Tavarelli). Se Marco Bellocchio, dopo aver girato quasi vent’anni fa Buongiorno notte (un film sul rapimento ispirato al libro della brigatista Laura Braghetti), ha sentito il bisogno di tornare su quelle drammatiche pagine della nostra storia non è certo per scoprire la verità (qualcosa di definitivo è stato accertato: i socialisti e parte della Dc erano per la trattativa, il Pci di Berlinguer e il partito di Scalfari per la fermezza) ma per entrare, per quanto possibile, nelle coscienze di alcuni protagonisti. Esterno notte , infatti, è diviso in sei episodi che rappresentano altrettanti punti di vista: da Moro a Cossiga, da Paolo VI ai brigatisti, alla moglie di Moro Eleonora Chiavarelli (Rai1, una serie prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment, con Simone Gattoni per Kavac Film, in collaborazione con Rai Fiction e Arte France).
Una struttura di racconto che è piaciuta molto ai critici presenti al Festival di Cannes: un «dramma shakespeariano in sei atti». Ogni storia nasce dall’intrecciarsi di vari punti di vista, spesso non coincidenti: quello dell’autore, quello dei protagonisti, quelli di altri personaggi ancora. Ogni storia, popolata com’è dei fantasmi del potere (i protagonisti sono tutti fantasmi), non finisce di turbare per la sua complessità e per la sua attualità: una sorta di radiografia post mortem, che rivela pietà e follia insieme. Per questo, Bellocchio ha puntato tutto su una scrittura rigorosa, esasperata ma piena di sensibilità come non gli accadeva da tempo, su una recitazione scarna ma vivida (Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, per citare alcuni interpreti). Un dramma sulla violenza immobile delle istituzioni contro la violenza in movimento degli eversori.
Un "Esterno notte" molto controverso. Le prime quattro puntate sono state un successo. Ma non mancano le critiche. Pedro Armocida il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.
È la (mini)serie del momento. Tutti ne parlano anche perché a ospitare i sei episodi di Esterno notte di Marco Bellocchio su Aldo Moro, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni, è la rete ammiraglia della Rai. Le prime quattro puntate sono andate in onda lunedì e martedì scorso mentre le ultime due si vedranno oggi in prima serata su Rai 1. L'auditel ha registrato dei buoni risultati con 3,6 milioni di spettatori per il primo episodio e 2,9 per il secondo, con un share del 18,6 per cento. Lieve calo martedì con 3 milioni di spettatori e di conseguenza per il quarto con 2,5 milioni e uno share del 15,7 per cento.
«Sono molto contento e incoraggiato dagli ascolti perché dimostrano che c'è ancora un vasto pubblico appassionato alla grande Storia d'Italia», ha commentato il regista che ha compiuto 83 anni lo scorso 9 novembre. Mentre la direttrice di Rai Fiction, Maria Pia Ammirati, si è detta orgogliosa «di offrire alla grande platea generalista una serie che è un esperimento e un laboratorio del racconto seriale sostenuto dalla qualità autoriale di un Maestro». E tra il pubblico, seguendo un po' i social e analizzando i dati Auditel, pare si siano ritrovati anche molti giovani. Al riguardo Ludovica Rampoldi, che ha scritto la serie con lo stesso regista, Stefano Bises e Davide Serino e che all'epoca del sequestro Moro, nel 1978, non era ancora nata, spiega al Giornale un possibile motivo: «I terroristi che raccontiamo erano giovanissimi, quindi c'è una rappresentazione di una gioventù - incendiaria, piena d'odio e disposta a tutto - così diversa da quella di oggi che è forse uno degli aspetti che per un pubblico più giovane può suonare mostruoso, quindi talmente incredibile da volerlo scoprire».
Insomma, il servizio pubblico ha fatto il suo mestiere proponendo una serie di indiscusso valore, presentata lo scorso maggio al festival di Cannes e uscita nella sale, divisa in due appuntamenti da tre episodi ciascuno, con un buon riscontro di pubblico, vista anche la durata, e i favori della critica, non solo italiana: «Bellocchio trasforma il piombo in oro rivisitando un trauma nazionale grazie a una serie magistrale e feroce che somiglia soprattutto a un film fiume in sei atti», ha scritto il francese Libération.
Certo, premendo il tasto della ricostruzione del caso Moro, letto attraverso gli avvenimenti fuori dalla cosiddetta «prigione del popolo» dove le Brigate Rosse avevano rinchiuso il presidente della Dc, vent'anni dopo il film dello stesso Bellocchio Buongiorno, notte, tutto chiuso invece nel covo di via Montalcini a Roma, c'è chi storce il naso. La più autorevole voce dissonante è stata quella della figlia dello statista democristiano, Maria Fida Moro: «O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e ci si lascia in pace». Marco Bellocchio non ha risposto, come non fece a maggio a fronte della stessa posizione, «per non fare polemiche», anche se aveva tenuto a sottolineare di aver «rappresentato la famiglia non solo con il massimo del rispetto ma, direi, dell'affetto e dell'amore».
Sul versante politico si è espresso con severità Marco Taradash (+Europa) che su Twitter ha segnalato come fasulle le prime scene della serie perché portano a pensare che «a progettare rapimento e omicidio di Moro non furono i terroristi comunisti delle BR ma le potenze straniere (vedremo quali) che osteggiavano il compromesso storico». Mentre Mario Adinolfi, sullo stesso social, se la prende con Bellocchio perché «le Br sembrano ferrovieri gucciniani (gli eroi son tutti giovani e belli) e la Dc un covo che voleva la morte di Moro. Le Br erano criminali, la Dc il miglior governo della storia d'Italia». Sarà per questo che anche un ex democristiano come Gianfranco Rotondi ha sentenziato che «alla fine, la visione del film di Bellocchio rimane né con lo Stato, né con le Brigate rosse. Inquietante».
Agli spettatori l'ardua sentenza, anche se è utile segnalare quanto sia limitativo, come sempre, cercare una totale verosimiglianza in un'opera di finzione, pur diretta da un autore che ha le sue idee politiche ben precise e lo ha dimostrato nel ritratto di un Berlinguer un po' meschino.
Giovanni Berruti per lastampa.it il 15 novembre 2022.
«O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». È la primogenita di Aldo Moro, Maria Fida, a sfogarsi contro Esterno Notte, la nuova serie di Marco Bellocchio, da stasera in onda su Rai 1 (le altre due serate il 15 e il 17 novembre). Prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment, società del gruppo Fremantle, e Simone Gattoni per Kavac Film, in collaborazione con Rai Fiction e Arte France, al centro delle tre puntate il racconto dei cinquantacinque giorni del rapimento del Presidente della Dc, visti attraverso i molteplici punti di vista dei personaggi che di quella tragedia furono protagonisti e vittime.
Presentata allo scorso Festival di Cannes in una versione cinematografica in due parti, successivamente uscita nelle sale, protagonista delle tre puntate Fabrizio Gifuni, che torna a interpretare Moro dopo il film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, e il suo spettacolo teatrale, “Con il vostro irridente silenzio”. Nel cast anche Margherita Buy (la moglie, Eleonora), Toni Servillo (Papa Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci) e Daniela Marra (Adriana Faranda).
Non è la prima volta che la donna interviene pubblicamente sul progetto, avendolo precedentemente definito, prima in occasione delle riprese e successivamente dell’uscita nei cinema, definendolo «una narrazione che, a suo giudizio, non può rispecchiare la verità storica». «La settimana prima di Natale compirò 76 anni e dopo aver avuto l'infanzia, la giovinezza e l'età adulta rovinate dal malefico caso Moro immaginavo, stupidamente, di poter sedere su una panchina al sole, prendere un tè con delle amiche, leggere un bel libro – ha raccontato all’Agi la figlia di Moro - Ma non è per niente così, avrò avuto sette anni quando un pericolo oscuro e un dolore mostruoso si sono insinuati nella mia vita e non se ne sono più andati».
Un incubo che ancora oggi continua, a sua detta, a perseguitare la famiglia: «Mio figlio ed io viviamo, nascosti in bella vista, col citofono, campanello, e telefono spenti e ogni giorno un'ondata di tsunami ci raggiunge ugualmente. Non pretendo che gli altri, che non hanno provato, capiscano, ma a dispetto dell'esperienza seguito a sperarci», ha aggiunto, citando il figlio Luca, il nipote a cui Aldo Moro si rivolgeva nelle sue lettere scritte nel corso dei 55 giorni di prigionia. «È già vergognoso infischiarsene del dolore altrui ed è doppiamente vile usarlo per fare affari - conclude l'ex senatrice - Nel 1963 papà conclude così un discorso, credo a Firenze: “Lasciamo dunque che i morti seppelliscano i morti, noi siamo diversi, noi vogliamo essere diversi dagli stanchi e rari sostenitori di un mondo ormai superato”».
Nessuna replica da parte della Rai e del regista Bellocchio. L'estate scorsa, quest’ultimo spiegava: «Il film è molto meno ideologico di Buongiorno Notte perché è passato dell'altro tempo. Mi dispiace se c'è chi lo ha interpretato come se ci fosse un accanimento sui ricordi tragici di quegli anni».
In libreria "Una ferita italiana?" di Coen e Boni. Quell’attentato alla Sinagoga che resuscitò l’antisemitismo: le ombre sugli 007 e la nuova inchiesta. David Romoli su Il Riformista il 22 Novembre 2022
Il 9 ottobre di 40 anni fa un commando composto probabilmente da 5 terroristi palestinesi attaccò la Sinagoga di Roma, uccise un bambino di 2 anni, Stefano Gaj Taché, e ferì 37 persone. Uno solo dei terroristi fu individuato, arrestato in Grecia e dopo poco tempo liberato. I documenti rintracciati da Giordana Terracina e pubblicati su questo giornale confermano che l’attentato era del tutto prevedibile e che l’obiettivo era in testa alla lista di quelli segnalati come ad alto rischio. Ciò nonostante non solo non fu presa alcuna misura di sicurezza: il giorno dell’attentato la Sinagoga era completamente priva di protezione, senza neppure la macchina della polizia sempre presente quando, come quel sabato, si svolgevano funzioni religiose e il Tempio era pieno.
La procura di Roma ha riaperto ora l’inchiesta. Convegni e volumi ricordano quella data che fu una frattura e uno spartiacque nella storia della comunità ebraica della Capitale. Oggi verrà presentato a Roma il libro di Massimiliano Boni e Roberto Coen Una ferita italiana? (Salomone Belforte Editore, 2022, pp. 332, euro 30.00, prefazione di Alberto Cavaglion) che contestualizza la vicenda, ricapitola a volo d’uccello la storia della comunità romana, la più antica del mondo, e soprattutto riporta minuziosamente tutte le testimonianze e i ricordi di chi visse in prima persona quella giornata tragica. Proprio le testimonianze rendono il libro la più completa ricostruzione dell’attentato disponibile. Ma perché la Sinagoga, nonostante le informative, nonostante gli attentati compiuti in quelle settimane in altre città europee, fu lasciata priva di protezione? Cossiga ipotizzava una complicità omicida dello Stato italiano che in nome del lodo Moro, il patto segreto tra Stato italiano e organizzazioni palestinesi, consentiva attacchi contro obiettivi anche italiani se legati a Israele. L’ex presidente non era un pazzo né un ingenuo. Conosceva come pochi altri in Italia le dinamiche e le operazioni inconfessabili dei servizi segreti. Le sue denunce non possono essere prese alla leggera ma non costituiscono neppure una certezza.
È del tutto possibile, e per certi versi persino più inquietante, che la sottovalutazione del pericolo, o la scelta di ignorarlo, sia stata conseguenza non di una decisione fredda ma di un clima generale di ostilità nei confronti degli ebrei che, soprattutto a sinistra, toccò nei mesi dell’invasione israeliana del Libano, punte di conclamato antisemitismo mai raggiunte dalla fine della guerra e mai eguagliate in seguito, per quanto tutt’altro che scomparse. La parte più interessante del libro di Boni e Coen è proprio quella in cui ricostruiscono l’oscena temperie di quei mesi. Molte tra le principali penne del giornalismo democratico italiano si lanciarono spensieratamente nell’equiparazione tra Israele e nazismo. Alcuni dei più dotati e salaci disegnatori di satira pubblicarono vignette che non avrebbero sfigurato sull’ignobile Der Sturmer di Julius Streicher, il più volgare e violento tra i periodici nazisti antisemiti, attribuendo all’allora premier israeliano Begin il nasone adunco e le labbra carnose che connotavano “i giudei” nell’immaginario nazista. Per la prima e unica volta comparve in alcuni titoli la parola “ebrei” invece di israeliani. Agli ebrei italiani fu intimato di prendere le distanze da Israele. Come è noto poco prima dell’attentato, nel corso di una manifestazione dei sindacati, un gruppo di manifestanti aveva deposto una bara di fronte alla sede della comunità, vicinissima alla stessa Sinagoga.
Nel clima di esplicito antisemitismo che si era creato, l’eventualità di una “distrazione” delle forze dell’ordine senza bisogno di ordini precisi derivati dalle clausole del lodo Moro è certamente ipotizzabile. Sull’onda dell’invasione del Libano riaffiorarono sicuramente pulsioni antisemite latenti. Altrettanto certamente l’equiparazione tra Israele e Germania nazista ebbe una funzione autoassolutoria in un Paese che aveva varato pochi decenni prima le leggi razziali. La riapertura dell’indagine ha in realtà senso solo nell’ipotesi che la scelta di non proteggere gli ebrei fosse conseguente a un patto segreto stretto dallo Stato italiano. Altrimenti non servirebbe a nulla individuare, dopo quarant’anni, i componenti del commando ancora anonimi e neppure certificare le eventuali responsabilità dell’Olp, ufficialmente estraneo all’attentato attribuito all’ala dissidente di Abu Nidal. Ricostruire il clima in cui maturò la mancata protezione della Sinagoga invece è ancora oggi necessario, perché alcuni dei temi emersi allora, primo fra tutti la denuncia di nazismo rivolta contro le principali vittime del nazismo, non sono mai stati del tutto cancellati e costituiscono anzi ancora oggi la colonna vertebrale dell’antisemitismo di sinistra. David Romoli
La strage alla sinagoga di quaranta anni fa. Per non dimenticare il piccolo Stefano Tachè. La mattina del 9 ottobre 1982 un commando di 5 terroristi palestinesi attaccò la Sinagoga di Roma e aprì il fuoco uccidendo Stefano Tachè, un bambino di soli 2 anni. Guido Salvini su Il Dubbio il 10 ottobre 2022.
Oggi è Il 40 º anniversario di una vittima del terrorismo, un bambino di soli 2 anni, Stefano Tachè, ebreo e cittadino italiano. forse la più piccola vittima del terrorismo in Italia. Ma quasi nessuno lo ricorda. La mattina del 9 ottobre 1982 un commando di 5 terroristi palestinesi attaccò la Sinagoga di Roma gremita di fedeli e di molti bambini perchè era proprio l giorno dedicato alla loro benedizione. Aprì il fuoco con i mitra e lanciando bombe a mano. Stefano fu ucciso e con lui furono feriti i genitori e in modo gravissimo il fratellino Gadi di 4 anni, oltre ad altre decine di persone.
Nessuno degli assassini è stato mai condannato. L’unico di loro individuato è stato condannato in contumacia dal Tribunale di Roma ma era ormai da tempo riparato in Libia.
Sono ugualmente dimenticate, sparite dalla storia della città e del paese, le due stragi all’aeroporto di Fiumicino.
Quella del 17 dicembre 1973 e quella del 27 dicembre 1985 in cui furono complessivamente uccise 47 persone e più di 90 ferite. Una quindicina di passeggeri vi rimasero bruciati vivi, il finanziere Antonio Zara , che aveva coraggiosamente cercato di fermare i dirottatori fu abbattuto e un addetto al trasporto bagagli, Domenico Ippoliti, fu “giustiziato” con un colpo alla testa dei terroristi palestinesi sulla scaletta dell’aereo che era stato nel frattempo dirottato all’aeroporto di Atene. Per queste stragi e le loro vittime non c’è mai alcuna celebrazione, neppure nel giorno del ricordo delle Vittime del terrorismo.
Nel 2014 sono stati desecretati documenti da cui emerge che le autorità italiane sapevano che contro obiettivi ebraici era probabile un attentato ma avevano fatto poco o nulla per evitarlo. Infatti una informativa del Sisde, il Servizio di informazioni dell’epoca, sin dal 18 giugno 1972 aveva più volte avvisato tutte le autorità di Polizia, che, in base alle fonti che aveva raccolto, erano probabili attentati contro obiettivi israeliani o ebraici in Europa. E certamente un luogo simbolico come la Sinagoga di Roma, indicata esplicitamente come obiettivo in alcune informative, era tra i più esposti ad azioni del genere.
Le segnalazioni erano continuate fino ad una settimana prima dell’attacco ma non era accaduto nulla. Quella mattina di sabato 12 ottobre davanti alla Sinagoga non era presente nemmeno una macchina della Polizia. Anche nelle stragi del 1973 e del 1985 avverrà lo stesso. Anche in quel caso il rischio era già stato segnalato da fonti informative parecchi giorni prima ma l’allarme non era bastato a prevenire gli attentati.
Dopo la scoperta degli atti desecretati la Procura di Roma, a seguito di un esposto della comunità ebraica, ha aperto una nuova inchiesta, forse la storia di quella mattina di sangue del 9 ottobre 1982 potrà essere almeno in parte riscritta, anche se questo tentativo è solo la tardiva riparazione di un torto In danno della comunità ebraica di Roma.
L’attentato alla Sinagoga e le due stragi di Fiumicino non sono stati episodi eccezionali ma sono figlie della sudditanza e della logica del cd Lodo Moro, grazie al quale i terroristi palestinesi avevano libertà di transito in Italia e qualora fossero stati sorpresi nel nostro paese con armi ed esplosivi dovevano. come in effetti è avvenuto, essere subito scarcerati In questo modo, in obbedienza ad una ragion di Stato, si evitava anche di disturbare i padroni del petrolio, i paesi del Golfo Persico che sostenevano i palestinesi. L’unico limite richiesto era che non fossero colpiti obiettivi italiani: evidentemente la Sinagoga e gli aerei della compagnia El Al non erano ritenuti tali e farvi strage non era consideraa una violazione degli accordi segreti.
Nel 1982, come prima e dopo, i terroristi volevano colpire Israele e i suoi cittadini. Un paese che è stato d’assedio da quando è nato, accerchiato da nemici potenti, l’Iran soprattutto, e decine di volte più numerosi. Eppure è riuscito a sopravvivere e, pur tra molti errori e durezze, è l’unico paese del Medioriente in cui vi sia una democrazia effettiva come in Occidente, una stampa libera, in cui vi sia piena libertà religiosa, che ha dato anche al mondo grandi innovazioni scientifiche, in cui il livello di istruzione per tutti è alto e la cultura e l’arte prosperano. Forse per questo deve scomparire affogando nel mare delle dittature più o meno teocratiche che occupano quella parte del mondo. Giustamente per tutto questo e per la sua collocazione geografica Israele è stato chiamato l’ultimo paese dell’Occidente, perché chi vi abita è un cittadino e non un suddito.
Per molti anni Stefano Tachè non è stato nemmeno inserito nell’elenco delle le vittime del terrorismo nella giornata del 9 maggio a loro dedicata. Alla madre era stato risposto che non era una vittima italiana.
È stato solo il presidente Mattarella a ricordare, nel suo discorso di insediamento, che Stefano non era solo un bambino ebreo ma un cittadino italiano.
Anche noi non dimentichiamolo, era un “nostro” bambino.
Il lavoro di due ricercatori sull'attentato al ghetto. Attentato al ghetto ebraico di Roma, fu solo un colpevole errore? David Romoli su Il Riformista l'11 Ottobre 2022.
Ci sono voluti 40 anni e il lavoro tenace di due ricercatori, Gabriele Paradisi e Giordana Terracina, per squarciare la cortina di reticenze e omertà intorno all’attentato contro la Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982. Si celebravano lo Shabbat, il Bar Mitzvah di molti giovani ebrei e la fine della festività di Sukkot: la Sinagoga era piena. All’uscita cinque terroristi palestinesi aprirono il fuoco sulla folla. Uccisero un bambino, Stefano Gaj Taché, ferirono 40 persone. Fu il più grave attentato antisemita in Italia dalla fine della guerra.
A 26 anni dall’attacco l’ex presidente della Repubblica Cossiga, in un’intervista al giornale israeliano Yediot Aharonot, aveva mosso un’accusa terribile, fragorosa eppure ignorata da tutti: l’attentato era stato coperto, consentito e permesso dalle autorità italiane per l’accordo in base al quale i palestinesi, in cambio di una piena libertà di movimento anche nei trasporti di armi, si impegnavano a non colpire obiettivi italiani, a meno che collaborassero con il sionismo e con lo Stato di Israele. Una licenza di uccidere gli ebrei, secondo Cossiga. Di nubi su quella mattina tragica e sulle successive indagini ce ne sono e ce ne sono sempre stati molti. Ma l’elemento chiave per valutare il peso delle accuse dell’ex presidente, a conti fatti, è uno solo: quel giorno la Sinagoga era stata lasciata del tutto indifesa per un colpevole errore oppure appositamente? Nel clima di vero e proprio antisemitismo che si era diffuso dopo l’invasione del Libano parlare di attentato impossibile da prevedere sarebbe assurdo.
Appena pochi giorni prima un gruppo di partecipanti a una manifestazione sindacale aveva deposto una bara proprio di fronte alla Sinagoga di Roma. La tensione, la minaccia, il pericolo si avvertivano a pelle. Però neppure questo è sufficiente per autorizzare il sospetto di dolo. Per avvalorare quei dubbi, e di conseguenza il j’accuse di Cossiga, dovevano esserci documenti in grado di dimostrare che lo Stato e le forze dell’ordine erano al corrente della minaccia, che erano stati avvertiti più volte e da fonti affidabili ma scelsero di ignorare l’allarme. Quei documenti Terracina li ha rintracciati e questo giornale li ha pubblicati il 9 dicembre 2021: una serie impressionante di informative e report che, nelle settimane precedenti l’attacco, avvertivano della probabilità di attentati contro obiettivi ebraici in Italia intorno alla festività del Kippur, prima durante o poco dopo, e mettevano in testa alla lista delle sedi a rischio proprio la Sinagoga. È sulla base di questi documenti che la Procura di Roma può e deve muoversi nell’inchiesta sul 9 ottobre 1982 che si è infine decisa a riaprire.
Ma quella sanguinosa mattinata di quarant’anni fa non è un’eccezione. Il vero pericolo, oggi, è di indagare su quei fatti considerandola tale. Sarebbe un ennesimo depistaggio di fatto. L’attacco alla Sinagoga va inquadrato nella cornice complessiva dell’accordo tra Italia e organizzazioni palestinesi noto come lodo Moro e di cui a tutt’oggi, nonostante evidenze e testimonianze, lo Stato italiano nega l’esistenza.
Grazie ai documenti portati alla luce da Terracina, abbiamo ricostruito, il 21 e 22 dicembre 2021, gli intrecci fra le trattative allora in corso per definire il lodo e la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973, che provocò 34 morti e 15 feriti. Una strage a lungo “dimenticata”, mai celebrata, cancellata al punto che sino a pochi anni fa le vittime non comparivano neppure negli elenchi delle vittime di terrorismo in Italia. Quella documentazione dimostra che proprio l’accordo in gestazione spiega l’assenza di prevenzione e controlli che, nonostante anche in quel caso ci fossero stati precisi avvertimenti, permisero l’attacco e la strage.
Sul lodo Moro, proprio grazie alla reticenza e all’omertà dello Stato, ci sono ancora una confusione e molteplici ambiguità intollerabili a decenni di distanza dai fatti. In un articolo documentato della stessa Terracina, pubblicato il 2 giugno di quest’anno, abbiamo ricostruito la genesi del patto tra Italia e Olp in un contesto europeo. Senza dubbio, infatti, all’origine il lodo Moro non è stato una specificità italiana. A partire dalla Germania molti Stati europei avevano stretto accordi che garantivano libertà d’azione e scarcerazioni immediate ai terroristi palestinesi in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi di quei Paesi. Si trattava insomma davvero solo di una sorta di scudo, come lo descriveva lo stesso Moro nelle sue lettere dalla “prigione del popolo” di via Montalcini.
Ma l’Italia, a differenza degli altri Paesi europei, non si è fermata qui. L’accordo sempre più stretto con l’Olp è diventato negli anni ‘70 e soprattutto ‘80 una delle leve principali della nostra politica estera ed energetica, uno degli elementi forti sui quali basare la politica “filo-araba” impostata dallo Stato italiano in quei due decenni. Il 22 febbraio scorso abbiamo pubblicato i documenti che provano lo stringersi dei rapporti, anche in termini di finanziamento diretto, tra Italia e organizzazioni palestinesi. Il 14 luglio abbiamo ricostruito, pubblicando alcune carte segrete, una delle vicende più tragiche collegate all’accordo, il dirottamento dell’Achille Lauro nell’ottobre 1985, nel quale fu ucciso a freddo un passeggero ebreo, Leon Klinghoffer. Il dirottamento portò la tensione tra l’Italia, che proteggeva il capo dei dirottatori, e gli Usa, che volevano arrestarlo, a un passo dallo scontro armato a Sigonella, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985.
Il dirottamento della “Lauro” non è il solo episodio tragico sul quale proiettano un’ombra ancora densa il lodo Moro e la necessità per lo Stato italiano di difendere quel patto a ogni costo. È così per il rapimento da parte dei palestinesi dei giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo, nel settembre del 1980 a Beirut, mai più ritrovati. E in realtà mai cercati, dal momento che i servizi italiani si occuparono soprattutto di depistare e nascondere le responsabilità palestinesi. È così per la seconda strage di Fiumicino, quella che nel 1985 costò la vita ad altre 19 persone. È così, forse, anche per la strage di Bologna, la più grave nella storia repubblicana, per la quale sono stati condannati i terroristi neri dei Nar nonostante ormai innumerevoli indizi, scientemente trascurati, indichino invece una possibile matrice palestinese. Per questo la nuova inchiesta della Procura di Roma si troverà di fronte a un bivio: indagare davvero a tutto campo e senza pastoie oppure, ancora una volta, svicolare e proteggere i segreti del lodo Moro.
David Romoli
L'Italia all'ombra di Enrico Cuccia. Nel saggio All'ombra di Enrico Cuccia - Potere e capitalismo nel Novecento italiano Federico Bini tratteggia un affresco della stagione della Ricostruzione italiana e dei decenni successivi partendo dalla figura del dominus storico di Mediobanca. Andrea Muratore il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.
"Ciò che Cuccia vuole, Dio vuole": la frase passata alla storia di Leopoldo Pirelli ben inquadra la figura complessa e profonda di Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca nella storica stagione della ricostruzione, padre del "salotto buono" del capitalismo italiano, tra gli strateghi dello sviluppo nazionale. Correttezza, imparzialità, riservatezza: tre le caratteristiche della Mediobanca targata Cuccia che ne prese le redini dal "patriarca" Raffaele Mattioli, ne fu amministratore delegato e direttore generale dal 1949 al 1982 e presidente onorario dal 1988 alla morte, avvenuta nel 2000. Una stagione intesa che ha attraversato cicli politici e industriali, accompagnando tutti i protagonisti del sistema nazionale. Da Enrico Mattei a Raul Gardini, da Gianni Agnelli a Ugo La Malfa, da Guido Carli a Romano Prodi, molti dei volti più importanti dell'Italia della Ricostruzione e dei decenni successivi hanno avuto a vario titolo relazioni con Cuccia.
La profondità di un sistema di rapporti, interessi economici e visione strategica che si è trasmessa fino alla Mediobanca odierna è indagata da Federico Bini nel saggio "All'ombra di Enrico Cuccia - Potere e capitalismo nel Novecento italiano". Bini, collaboratore de IlGiornale.it e attento osservatore della storia e delle dinamiche di potere del sistema-Italia oltre che di quelle relazioni umane che Antoine de Saint-Exupery definiva "unica speranza di gioia", racconta l'Italia di Cuccia non solo parlando delle dinamiche che si aprivano all'ombra dello studio di Via dei Filodrammatici ma anche ricostruendo Mediobanca come perno di una rete di rapporti e relazioni che andavano oltre l'economia.
Il frutto di queste dinamiche fu la Milano del "quarto capitalismo", che univa l'industriosità lombarda alla capacità di veicolare capitali per la crescita delle imprese e del Paese grazie anche ai rapporti intessuti per tramite della Mediobanca di Cuccia. Milano, ricorda Bini, divenne "il simbolo dell’evoluzione economica del Paese, sia per quanto riguardava celebri nomi, sia lo sviluppo di una forte ma meno conosciuta borghesia industriale (medio-piccola)". Roma aveva la politica dei partiti, altre città le loro famiglie o gruppi imperanti (come la Fiat a Torino e Ferruzzi a Ravenna), Milano una grande dinamicità. E Cuccia vigilava governando alleanze e flussi di capitali. Sia nella "Milano industriale, delle ciminiere e dei fumi sulla città", quella dei Pirelli e dei Falck, sia su quella delle nuove famiglie emergenti della borghesia modernizzatrice. Una Milano in cui il Corriere della Sera della famiglia Crespi iniziò a dare voce crescente all'intellighenzia laica e progressista, mentre Indro Montanelli, uscendo da Via Solferino e fondando Il Giornale, indirizzò il suo interesse primario verso i liberali e i conservatori.
Cuccia fu il padre delle alleanze incrociate che permettevano equilibri gestionali nei maggiori gruppi industriali italiani. Bastogi, Montecatini, Fondiaria e Generali furono negli Anni Cinquanta i primi terreni di applicazione di un sistema di pesi e contrappesi per mezzo di partecipazioni e acquisizioni che, nota Bini, diedero a Mediobanca il "ruolo di banca d’affari (merchant bank) e di una holding delle partecipazioni azionarie", ma anche di salotto buono milanese, riferimento meneghino dell'assetto romano di potere e del "patto della X" che vedeva assegnati ai cattolici la preminenza politica e le banche di raccolta popolari e ai laici una minore rilevanza nelle istituzioni compensata da un dominio nel mondo finanziario delle banche d'affari. Un sistema, si sottolinea nel libro, di cui Cuccia fu attento guardiano soprattutto ai tempi della strumentalizzazione della finanza cattolica da parte di Roberto Calvi e, soprattutto, Michele Sindona.
Lo standing di Mediobanca, ricorda Bini, fu anche decisivo per la proiezione internazionale del Paese. Memore della lezione politica di Alcide De Gasperi sulla natura decisiva delle battaglie internazionali, Cuccia aprì il capitale a partecipazioni e ingressi esterni da parte di attori come Lazard e Lehmann Brothers, che negli Anni Cinquanta ottennero il 10% del capitale del gruppo, mentre la tedesca Berliner Handels-Gesellschaft divenne partner europeo.
Bini definisce il laico Cuccia, allievo del laico, socialista e visionario Mattioli, custode dell'eredità culturale di Piero Sraffa e Antonio Gramsci, interprete ideale della "proficua e straordinaria stagione del liberalismo degasperiano" che mirava alla crescita del Paese "senza mai dimenticare le battaglie sociali in sostegno degli ultimi e dei più bisognosi", preferendo lo sviluppo graduale, moderato e produttore di lavoro e progressi tangibili alle alchimie finanziarie. Anche dopo la quotazione in Borsa nel 1956 questo fu il mantra di Cuccia, uomo che però non mancò mai di ricevere un rispetto considerevole all'estero. Nel suo viaggio statunitense del 1965 il futuro presidente di Mediobanca Antonio Maccanico ebbe modo di apprezzare la considerazione che si aveva a Wall Street di Enrico Cuccia, che allora si teneva in Italia debitamente lontano dai grandi palcoscenici.
L'espansione economia internazionale del Paese fu, in questo contesto, a sua volta promossa dalla stessa Mediobanca, come Bini non manca di ricordare. Eni, Fiat, Olivetti Finmeccanica, Montecatini, Necchi, Pirelli furono solo alcuni dei più noti tra i partner in campo internazionale di Mediobanca che in particolare contribuì, a partire dagli Anni Cinquanta e Sessanta, a promuovere la conquista italiana dei nuovi mercati del continente africano. Come ha scritto il professor Giovanni Farese nel saggio Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa. 1944/1971“ e come Bini puntualmente sottolinea, si indicava in questo caso una rotta di sviluppo dell'immagine (oggi diremmo "brand") del Paese al di là delle vicende tecniche di finanza, mercati, imprese e commercio. Tutto questo con una finanza capace di valorizzare il fattore decisivo dell'economia: l'uomo e le sue relazioni. Coltivate con attenzione nell'Italia della Ricostruzione e dello sviluppo guidato da una Milano sempre più rampante. All'ombra, ovviamente, di Enrico Cuccia.
Dalle Br alla guerra fredda. Storia del decennio più lungo del secolo breve. Il saggio di Miguel Gotor mostra l'eccezionalità dell'Italia nel panorama mondiale di quel periodo. Ma oggi da noi tutti si dicono "atlantisti"...Stenio Solinas il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.
Generazione Settanta, di Miguel Gotor (Einaudi, pagg. 429, euro 34), ha per sottotitolo Storia del decennio più lungo del secolo breve, definizione felice a patto di non abusarne troppo. Ci sono state proiezioni novecentesche ben oltre il fatidico 1989 in cui cadde il muro di Berlino, e quanto ai cosiddetti Anni di piombo la loro eccezionalità temporale risulta incomprensibile se non si tiene conto dell'unicum rappresentato in Europa dal '68 italiano, una contestazione studentesca che si incrocia con un «autunno caldo» sociale e economico, sindacale e operaio e come una febbrile diarrea si ripete un decennio dopo rovesciata di segno e di senso.
Uno dei pregi del libro di Gotor sta del resto nel considerare quell'«eccezionalità» e, più in generale, l'eccezionalità dell'Italia in quanto tale, all'interno di una cornice internazionale di fatto legata ai blocchi occidentali-orientali scaturiti e sanciti dagli accordi bellici di Yalta, una linea di demarcazione o, se si vuole, di sfere di influenza, la cui possibile messa in discussione era foriera di fibrillazioni non solo continentali.
Per uno di quei curiosi paradossi della storia, l'atlantismo di cui oggi ogni forza politica nazionale si fa fieramente garante, fu proprio il «nemico principale» di quell'Italia progressista e di sinistra che vedeva nella cooptazione al governo del Partito comunista italiano il punto finale di un percorso politico inauguratosi all'incirca quindici anni prima, quando cioè era stata varata la politica dei governi di centrosinistra. E sempre per uno di quei curiosi paradossi della storia, i più «atlantisti» si dimostreranno di fatto le Brigate rosse con il sequestro prima e poi l'assassinio di Aldo Moro, pietra tombale messa su quel tentativo, ovvero sul «compromesso storico».
Poiché Gotor è un convinto sostenitore dell'«italianità» delle Br, e non del loro essere «eterodirette», lettura a suo dire «superficiale e, in fondo, tranquillizzante in quanto autoassolutoria», questo significa, allargando il campo a tutto ciò che concerne «il Partito armato», interrogare «dolorosamente la politica, la cultura e la società civile del nostro Paese». Per dirla in breve, il mito della lotta partigiana, dell'alterità del Pci rispetto alle altre forze politiche, troppo a lungo etichettate soltanto come reazionarie, clerico-fasciste e/o fasciste tout court, dell'alternativa teorica quanto rivoluzionaria rispetto al capitalismo e alla società borghese, gli si rovesciò paradossalmente contro a opera di chi ci aveva creduto.
Va altresì ricordato che fino alla scomparsa dell'Urss il Pci fu, come dire, a libro-paga del Cremlino, il famoso «oro di Mosca», e che il cosiddetto fattore K che ne interdiva l'ingresso nel governo nazionale, non per questo gli impediva un governo politico locale: regioni, provincie, comuni, eccetera. Era insomma di lotta e di governo, di opposizione, ma con forti rendite di potere. Un unicum, anche qui.
Gotor è uno storico che proviene dal mondo della sinistra, per quello che oggi può valere un'indicazione del genere. È stato senatore del Pd, è attualmente assessore alla Cultura del Comune di Roma, il cui sindaco, Roberto Gualtieri, è a sua volta esponente di quel partito. Essere nato nel 1971, lo mette al riparo dai rischi della memorialistica di tipo autobiografico. Non crede, per esempio, alla formula della «strage di Stato», nata all'inizio degli anni Settanta all'interno della sinistra extraparlamentare e che ha avuto, osserva, «un'importante funzione militante e mobilitante». Non ci crede perché «se la strage è di Stato alla fine nessuno è stato». E perché «ha impedito di approfondire gli aspri contrasti sviluppatisi in seno alla magistratura, alla polizia inquirente e persino nei servizi segreti, contrasti che in tanti ancora hanno interesse a rimuovere». Tuttavia, alla domanda di come gli apparati di sicurezza dello Stato, nonostante la loro rete di infiltrati nell'estrema destra «non riuscirono a prevenire le stragi del periodo 1969-1974 e a individuarne i responsabili dopo», risponde che i depistaggi, lungi dall'essere una «deviazione dell'attività dei servizi segreti, costituirono il risultato di un preciso mandato istituzionale», il che francamente e un po' volgarmente se non è zuppa è pan bagnato... Allo stesso modo, nello spiegare «la serie interminabile e capillare di azioni sovversive e armate di opposta matrice ideologica» e per un verso i due colpi di Stato «minacciati o abortiti» di Junio Valerio Borghese, nel 1970, e di Edgardo Sogno, nel 1974, li ascrive genericamente quanto cronologicamente «a quel tempo furioso» della Resistenza i cui i futuri «strateghi della tensione» «avevano poco più di vent'anni, e dunque, alla fine degli anni Sessanta ne avevano una cinquantina ed erano al culmine della loro energia umana e influenza professionale». Ora, se non altro cronologicamente, Borghese è classe 1906, e quindi era sessantaquattrenne e il Sogno golpista era un arzillo sessantenne...
Se si dovesse seguire la logica del cui prodest? si noterebbe che dalle elezioni del maggio 1968 a quelle del 1976, si ebbe un costante arretramento delle forze cosiddette moderate e un costante avanzamento di quelle cosiddette progressiste. All'inizio la Dc ha il 39,9 per cento dei voti e il Pci il 26,9, i socialisti unificati il 14,5, il Pli il 5,8, l'Msi il 4,4. Nel '72 la Dc scende al 38,7, il Pci sale al 27,1, il Psi è da solo al 9,6, il Msi va all'8,7 a danno del Pli. Nel '76 la Dc resta pressoché ferma, al 38,9, il Pci sale al 33,8, il Psi al 10,2, l'Msi scende al 6,1. Nelle amministrative del giugno 1975, inoltre, la Dc retrocede al 35,3 per cento, il Pci arriva al 33,4, il Psi al 12, l'Msi al 6,4. Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Umbria, Marche e Lazio vedranno il Pci avere la maggioranza relativa... L'impressione è insomma che gli ispiratori occulti della strategia della tensione, miranti o a un golpe militare in salsa greca o a un mantenimento dello status quo centrista non avessero le idee molto chiare su quale fosse la realtà del Paese. Uno degli equivoci di fondo sta probabilmente nel fatto che, praticamente esclusa dal perimetro di governo all'inizio degli anni Sessanta, la destra italiana si era rarefatta rendendo pressoché impossibile un'alternanza a suo favore. L'effimero successo missino del '72 era avvenuto dragando nel proprio campo, sostituendosi in pratica al Partito liberale che ancora nel '63 era al 7 per cento e nel '68, lo abbiamo visto, al 5,8, e comunque assolutamente ostile a ogni tipo di alleanza con il partito di Almirante. Ciò significava che era sempre e comunque la sola Dc a manifestarsi come un Giano bifronte, conservatore o progressista a seconda delle esigenze, e tuttavia ormai troppo sbilanciato su questa seconda faccia perché la prima potesse avere possibilità di successo. A ciò si aggiunge che gli altri giocatori «progressisti» della partita, socialisti e repubblicani, miravano a un più significativo spostamento a sinistra dell'asse politico del Paese. Non a caso sarà il leader repubblicano Ugo La Malfa a parlare di «ineluttabilità del compromesso storico», attirandosi l'ironia sferzante di Indro Montanelli: «C'è un pazzo che ha preso il posto dell'onorevole La Malfa»...
A tutto ciò si aggiunge un brodo di coltura intellettuale e sociale che Gotor illustra molto bene, ovvero «l'area di contiguità con la lotta armata», «il clima di complicità generazionale che indusse molti a far finta di nulla, a essere reticenti o addirittura solidali con chi la predicava». Da qui «omertose solidarietà e rapide sverniciature della memoria» che la dicono lunga anche sull'atmosfera umana e culturale di quel decennio.
Un altro dei pregi del libro di Gotor ricordati all'inizio, sta proprio nel cercare di dipanare il groviglio di interessi internazionali di cui l'Italia si trovò allora al centro: la Cia e i servizi segreti israeliani, il cosiddetto «lodo d'intelligence con l'Olp» per restare fuori dal terrorismo e dallo scontro in atto arabo-israeliano e le ripercussioni che esso provocò, la nostra politica mediterranea nei confronti della Libia e i contrasti con quella francese, le attività spionistiche dell'Urss e dei principali Paesi del blocco orientale, contrari per esempio a una presa del potere per via democratico-parlamentare del Pci berlingueriano strumentalmente revisionista e però a disagio nel suo dover rinnegare la propria matrice ideologica. Come scrive Gotor, ancora nel 1978, nel suo comizio di chiusura alla Festa dell'Unità, l'allora segretario comunista «tenne un discorso in cui affermò che i comunisti non rinnegavano il pensiero di Lenin e di Marx e neppure rinunciavano all'obiettivo di superare il capitalismo», il che mal si conciliava «con lo spirito di un governo di grande coalizione come quello della solidarietà nazionale».
Moro era stato ucciso nel maggio di quello stesso anno e Berlinguer si era improvvisamente reso conto di essere ormai anche lui su un binario morto, alla guida di un treno che aveva perso, come il suo referente oltre cortina, la sua «spinta propulsiva». Ancora un decennio e sarebbe venuto giù tutto.
Viaggio nel dolore (senza tempo) del rapimento Moro. Quanto durano le otto ore che precedono il proprio rapimento? Matteo Sacchi il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.
Quanto durano tre minuti? Tre minuti sono eterni sotto una pioggia di piombo, tra gomme che stridono, urla, sussulti, fiotti di sangue, ignari passanti che corrono a perdifiato.
Quanto durano le otto ore che precedono il proprio rapimento? Possono volare come un lampo sotto l'ombra di una sensazione maligna, di un sogno che non si afferra. Possono sembrare lunghe, frantumarsi in tantissimi piccoli episodi a cui solo a posteriori si potrà dare un senso, il peso del fatale e della precognizione. È questa frantumazione e ricomposizione del tempo, che caratterizza il romanzo di Andrea Pomella, Il dio disarmato (Einaudi, pagg. 236, euro 19,50), incentrato su quel buco nero nella storia del nostro Paese che è stato il rapimento di Aldo Moro. E come i buchi neri creano un orizzonte degli eventi, che distorce il continuum dell'universo, così la violenza dei brigatisti in via Fani ha prodotto una singolarità che ha distorto e modificato moltissime vite.
Pomella (che potreste ricordare per L'uomo che trema o per I colpevoli) in questo libro, che non vuole essere ricostruzione storica ma ricostruzione letteraria, racconta lo stesso episodio a ripetizione, con realismo traumatico e seriale, fino a mostrarne le più dolorose sfaccettature. Il risultato è un caleidoscopio del male, uno specchio che proprio in quanto infranto ci restituisce un'immagine mai vista prima di un fatto che chi ha attraversato quegli anni, seppur da bambino come lo scrivente, non potrà mai dimenticare.
Sia chiaro, la ricostruzione fatta da Pomella è sempre molto precisa, anzi, in certi passaggi semplicemente interpola la narrazione con le voci di allora. Che si tratti di articoli di giornale, o della telecronaca concitata e carica d'angoscia di Paolo Frajese, questi frammenti di pura cronaca si incastrano e fanno da collante con quello che la Storia non può ridare: le emozioni dei protagonisti. Quelle Pomella le ricrea con arte sottile, quasi fosse un medium che ridà voce a fantasmi risucchiati dal tempo.
Il risultato è un romanzo che picchia dritto allo stomaco, senza effetti speciali, semplicemente mettendo il lettore di fronte a schegge di vite incrinate. O alla normalità dei luoghi che visitati, ad anni di distanza dai fatti, sembrano non esserne nemmeno più sfiorati. Perché il rischio è anche che la nostra normalità cancelli la memoria di ciò che è stato.
Ed il pregio del libro di Pomella è soprattutto questo: mostrare non la banalità del male ma la normalità del male negli anni Settanta. Del romanzo rimangono soprattutto i piccoli gesti quotidiani, soprattutto di Moro e della sua famiglia, che messi di fianco alla tragedia creano un cortocircuito insolubile. Quello che, in modo meno letterario e più da storico, ha raccontato anche Sergio Luzzatto in Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa (Einaudi). Il fatto che proprio adesso in questo cortocircuito si torni a scavare da più parti è il segno che, anche per chi da quelle vicende è stato solo lambito, magari vedendole colare da uno schermo televisivo, è rimasta una ferita di forma non decifrabile.
Pavia, morto a 98 anni ex ministro Virginio Rognoni. Esponente della Dc è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Settembre 2022
È morto questa notte, nella sua casa di Pavia, Virginio Rognoni, uno dei politici italiani più conosciuti della seconda metà del Novecento. Rognoni, che aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto, si è spento nel sonno. Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo (dal 1978 al 1983) e, successivamente, di ministro della Giustizia e della Difesa. Dopo la fine dell’esperienza della DC, aveva aderito prima al Partito Popolare e poi al Pd. E’ stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006.
BIOGRAFIA DI VIRGINIO ROGNONI. Da cinquantamila.it la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti
• Corsico (Milano) 5 agosto 1924. Politico. Deputato dal 1968 al 1994 (Dc), fu ministro dell’Interno nell’Andreotti IV e V, Cossiga I e II, Forlani, Spadolini, Fanfani V (1978-1983), ministro di Grazia e giustizia nel Craxi II e Fanfani VI (1986-1987), della Difesa nell’Andreotti VI e VII (1991-1992). Dal luglio 2002 al luglio 2006 fu vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura.
• «Ex allievo del collegio Ghislieri di Pavia, Gingio per gli amici, è un esemplare pregiato di quella scuderia del Biancofiore che vinceva tutto nelle corse elettorali e nei Grand Prix elettrizzanti per Palazzo Chigi. Il 26 aprile 1945, a ventuno anni, teneva a Pavia il suo primo comizio ai giovani cattolici della Fuci. Le sue fortune ministeriali sono dipese in buona parte dalla grande forza contrattuale della sinistra di Base (prima “Cronache sociali” di Dossetti poi Marcora, De Mita, Misasi, Andreatta). Per tanti anni è stata questa la sua corrente di riferimento. Cioè fino all’estate del 1990. Quando Gingio, entrato un po’ nel cono d’ombra della sinistra dc, subentra alla Difesa a Mino Martinazzoli nel sesto governo Andreotti. Il Guardasigilli si dimette insieme ad altri tre ministri dc per protesta contro la legge Mammì sull’emittenza televisiva. Una rottura dolorosa.
“Mi sono iscritto alla Dc non ad una componente”, dichiarò piccato il ribelle nella quiete del suo buon ritiro di Punta Ala. Fece grande rumore una sua battuta maligna (“Bettino è già cotto!”) sul Craxi presidente del Consiglio, strappatagli “a tradimento” nel Transatlantico dal cronista politico dell’Espresso, il bravo Guido Quaranta. Insomma, per dirla con le parole di sua moglie Giancarla Landriscia, donna che affascinava per intelligenza, delicata bellezza e simpatia Sandro Pertini e gli inquilini dei Palazzi romani, la famiglia Rognoni “ha sempre mantenuto il senso delle proporzioni”.
Con il marito politico e ministro, Lady Giancarla ha diviso la responsabilità di una famiglia numerosa (quattro figli) e gli studi di Giurisprudenza. Lei a Pavia dedita all’istituto di Medicina legale a studiare i diritti alla salute; lui, professore di Istituzioni di diritto processuale, impegnato a Roma a guidare prima il dicastero dell’Interno negli anni di piombo (affronta e risolve il caso del rapimento del gen. Dozier) poi quello della Giustizia» (Fernando Proietti).
• Uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico, ultimato nel febbraio 2007. Presidente del Collegio dei garanti del Pd «La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori, alla comprensione della laicità della politica, al gioco della libertà e al dovere della giustizia. Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel Pd» [Cds 7/11/2009].
• Visto anche a teatro, a Milano, in uno spettacolo dedicato a Danilo Dolci: il regista Renato Sarti, riproponendo il processo all’intellettuale, gli fece pronunciare l’arringa di Piero Calamandrei sui principi della Costituzione (affidata in altre serate ad altri non-attori).
• Nell’autunno 2007 suscitò polemiche l’assegnazione, senza concorso, di un incarico di professore associato (Storia della lingua neogreca) alla figlia Cristina da parte dell’Università di Palermo. Disse di essere «indignato»: «Si sa bene che ci sono nicchie di privilegi nelle università, ma lei è sempre stata di una moralità radicale».
L'ultimo 'incarico' da vicepresidente del Csm. È morto Virginio Rognoni, storico esponente della DC: fu ministro degli Interni negli anni di piombo. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2022
Si è spento nel sonno all’età di 98 anni Virginio Rognoni. Esponenti di primo piano della Democrazia Cristiana, fu uno dei protagonisti della ‘Prima Repubblica’: aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto ed è morto questa notte nella sua casa di Pavia.
Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo, entrando al Viminale dopo le dimissioni di Francesco Cossiga a seguito dell’assassinio di Aldo Moro, fu nominato al suo posto e restando in carica dal 1978 al 1983. Successivamente fu ministro della Giustizia nel secondo governo Craxi e nel sesto governo Fanfani (dal 17 aprile 1987 al 29 luglio 1987) e ministro della Difesa nel sesto e settimo governo Andreotti (dal 26 luglio 1990 al 28 giugno 1992).
Da ministro dell’Interno è ricordato per aver affidato il coordinamento della lotta al terrorismo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e per esser stato promotore assieme al deputato del Pci Pio La Torre della prima legge desinata a colpire i beni gestiti dalla mafia, la legge Rognoni-La Torre.
Dopo la fine dell’esperienza della Democrazia Cristiana, spazzata via da Tangentopoli, ha aderito al Partito Popolare guidato da Mino Martinazzoli.
È stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006, ultima esperienza istituzionale. Dopo l’incarico a Palazzo dei Marescialli, Rognoni aderirà al Partito Democratico.
“Un grande amico e un punto di riferimento”, lo definisce Enrico Letta, che ha commentato su Twitter la scomparsa dell’ex ministro. Rognoni è stato “protagonista sempre in positivo di tante stagioni importanti della vita istituzionale del nostro Paese”, lo ricorda il segretario del Partito Democratico. Nel 2007 Rognoni è stato scelto come uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico.
M. Antonietta Calabrò per justout.it il 21 settembre 2022.
L’ intramontabile “Gingio”, grande vecchio della politica italiana. Non volle rispondere alla Commissione Moro II, dopo la desecretazione degli archivi. Di lui si può ben dire che è stato grande vecchio della politica italiana. Un potere solido, non ostentato, durevole, attraverso decenni e decenni della storia italiana e dei suoi momenti più drammatici. Morto il 20 settembre 2022 quasi centenario, essendo nato nel 1924. Un gran lombardo. Ancora in forma e attivo, sino alla fine. L’ultima apparizione pubblica, nella primavera del 2021 per la celebrazione dei 660 anni della fondazione della “sua” università, quella di Pavia, dove è stato professore.
Virginio Rognoni era ministro dell’Interno, quando il 9 ottobre 1982 un commando palestinese riferibile ad uno dei terroristi più temibili, fondatore del Consiglio rivoluzionario di al Fatah, Abu Nidal, mette a segno un attentato proprio nel centro di Roma. Davanti alla Sinagoga, a pochi passi dal Tevere. Nell’agguato muore un bambino di due anni, Stefano Gaj Talché, cittadino italiano di religione ebraica e altre 37 persone rimangono gravemente ferite.
Il fatto nuovo (riportato per primo da "Il Riformista” un anno fa) è che in base ai documenti ufficiali del Sisde (il servizio segreto per la sicurezza interna, ora AISI) desecretati in questi ultimi anni, un attentato era stato “segnalato” come altamente probabile in ben sedici “alert”, nei quali se ne riteneva possibile l'esecuzione in occasioni delle feste ebraiche. E il 9 ottobre ricorreva appunto "la festa dei bambini”.
Nonostante questo e nonostante le molte richieste della comunità ebraica di incrementare le misure di sicurezza, proprio quel giorno persino la singola camionetta che usualmente stazionava davanti al Tempio maggiore, quella mattina venne rimossa. Perché? Come mai il Viminale non dette seguito alle informative del Sisde? Cosa avrebbe potuto ancora dire Virginio Rognoni al riguardo? Quarant’anni fa ci furono forti polemiche per quella che apparì subito come una grave inefficienza del Ministero dell’Interno.
Ma i nuovi documenti e molti altri che sono ormai consultabili in base alla legge “Renzi” del 2014, hanno fatto sorgere nell’ultimo anno nuovi e pesanti interrogativi. Quelli che il fratello sopravvissuto della piccola vittima della Sinagoga ha raccolto in un libro che viene pubblicato a quarant'anni da quell'agguato. (Gadiel Taj Tache' "Il Silenzio che urla", settembre 2022)
Noi oggi, infatti, sappiamo con certezza che, a partire dal 1973, venne sottoscritto un patto tra i nostri servizi segreti e le fazioni terroristiche palestinesi in modo che l’Italia diventasse per esse un terreno di passaggio per il traffico d’armi. Con una sostanziale "non interferenza" italiana, se gli obbiettivi dei palestinesi in Italia fossero stati israeliani, ebrei o americani.
Come spiegò nel 2008 in una intervista Francesco Cossiga al quotidiano israeliano Yediot Aharonot: “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi”. E lo stesso capo dell’OLP Yasser Arafat nei suoi Diari (di cui il settimanale L’Espresso ha fatto un’anticipazione nel 2018), ha annotato, perentorio, in relazione a quegli anni: “L’Italia è una sponda palestinese nel Mediterraneo”.
Il mondo allora era diviso in due e Roma assomigliava a Berlino, a metà tra Est ed Ovest. La prova del patto con i palestinesi è in un telex del febbraio 1978, a noi noto solo dal 2015, quando esso è confluito negli atti a disposizione della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. In quel cablogramma da Beirut il colonnello Giovannone (preannunciando il rischio di una grossa azione terroristica in Europa) confermava la volontà del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) di tenere indenne l’Italia.
In realtà le cose andarono molto diversamente. Perché neppure un mese dopo Aldo Moro venne rapito ad opera delle Brigate Rosse, ma operarono sul campo terroristi tedeschi della Rote Armee Fraktion, gestiti dal servizio segreto della Germania orientale (Stasi), in stretto contatto con i gruppi terroristici palestinesi. E a Berlino Est aveva trovato rifugio sicuro lo stesso George Habbash, leader del Fronte per la liberazione della Palestina, proprio il “firmatario” palestinese del “patto” con l’Italia e il terrorista Wadi Haddad, coinvolto dal colonnello Giovannone nelle trattative per liberare Moro durante i 55 giorni.
Un “patto” la cui esistenza è stata confermata personalmente anche da un protagonista dell’epoca ancora in vita, Abu Sharif, soprannominato da Time magazine “il volto del terrore”, braccio destro di Arafat , nella sua audizione a Palazzo San Macuto del giugno 2017. La documentazione completa relativa a quell’accordo impropriamente denominato "Lodo Moro" (visto che in realtà fu voluto dall’allora presidente del Consiglio Andreotti anche se Andreotti ne ha sempre negato pubblicamente l’esistenza) è ancora tutelato dal segreto di Stato, rinnovato nell’estate del 2020 dal Governo Conte II.
Eppure, già quello che oggi sappiamo in base a decine di migliaia di atti desecretati e consegnati alla Commissione Moro che ha chiuso i suoi lavori nel 2018, e all’Archivio di Stato, è sufficiente per “ristrutturare" il campo della conoscenza della storia degli anni di piombo nel nostro Paese . E degli attentati organizzati in Italia dai palestinesi (compreso quello di Fiumicino del 1985 con 13 morti e 76 feriti). Del resto, l’Italia era diventata dall’inizio degli anni Settanta e fino al 1989, uno dei terreni principali su cui venne messa in atto la Guerra Fredda. E i terroristi palestinesi vi giocarono un forte ruolo.
Rognoni, esponente di lungo corso della sinistra Dc, eletto deputato a partire dal 1968 per sette legislature, nel 1976 divenne vicepresidente della Camera, fino a quando il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, nel 1978, lo chiamò a sostituire come ministro dell’Interno, Francesco Cossiga che si era dimesso subito dopo l’assassinio di Moro. “Gingio", per gli amici, rimase al Viminale per 5 anni, fino all’83, mentre si sono succeduti ben cinque governi (Andreotti, Cossiga, Forlani, Spadolini I e II, Fanfani).
Nell’82 ai tempi dell’attentato alla Sinagoga era presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, il primo premier filoatlantico e filoisraeliano, salito a Palazzo Chigi dopo l’esplosione dello scandalo P2. Spadolini fu anche l’unico politico presente ai funerali del bambino. I cinque anni di Rognoni al Viminale risultarono cruciali.
Rognoni era al Viminale il 1 ottobre del 1978 quando fu scoperto dagli uomini del generale Dalla Chiesa il covo brigatista di via Montenevoso, dove (sappiamo oggi) venne ritrovata la copia di documento delicatissimo relativo all’organizzazione della NATO, circostanza di cui Dalla Chiesa informò il Ministero dell’Interno, all’inizio del 1979. Rognoni era al Viminale quando, nella primavera del 1979, si concretizzò una veloce e concordata “consegna” alla polizia dei due br “dissociati” Valerio Morucci e Adriana Faranda che erano riparati in casa di Giuliana Conforto (figlia di Giorgio, “Dario", il più importante agente Kgb in Italia nel Dopoguerra, secondo il "dossier Mitrokhin") , appartamento in cui fu sequestrata una delle due armi che uccisero Moro, la mitraglietta Skorpion.
Rognoni era al Viminale quando Dalla Chiesa, capo dell’antiterrorismo, per oltre un anno si era messo alla ricerca dei documenti originali sull’organizzazione Gladio, scomparsi dalla cassaforte del Ministro della Difesa Ruffini, cui alludevano le copie ritrovate a via Montenevoso. Era al Viminale quando il generale, nel marzo 1980, eseguì il blitz di via Fracchia a Genova, dove venne ucciso Riccardo Dura, capo della colonna genovese e soprattutto, sappiamo oggi, venne recuperata una quantità imponente di documentazione. E tra essa quegli “originali”, che così riuscirono tornare al loro posto a palazzo Baracchini, qualche mese più tardi.
Rognoni era al Viminale quando il 4 maggio del 1982 venne stilato un cartellino segnaletico di Alessio Casimirri (l’unico br presente in via Fani e condannato a sei ergastoli, ma che a tutt’oggi non ha fatto un giorno di carcere, ancor oggi riparato nel Nicaragua governato dai sandinisti) dopo un "probabile" arresto di cui si è avuta traccia solo nel 2015. Rognoni era al Viminale, quando succedette a Rinaldo Ossola, nel 1982, come presidente dell’Associazione di amicizia italo- araba (carica che ha mantenuto per oltre un decennio). Incarico che non deve stupire visto che già dagli Anni Settanta, tra tutti gli esponenti della sinistra dc, “Gingio” era considerato il più filoarabo, sulla scia del suo mentore e maestro Luigi Granelli (che lui accompagnò in delegazione ad una Conferenza al Cairo di cui si ricordano interventi di fuoco di Granelli contro Israele).
Per tutti questi motivi, pochi anni fa i commissari della Commissione Moro II avrebbero voluto ascoltare l’ex responsabile del Viminale. Per sentire da lui cosa potesse rendere noto sulle novità emerse dagli archivi. Si sarebbero recati loro a Milano, in modo da evitare all’anziano politico una faticosa trasferta a Roma. Sono state scambiate mail su mail, ma alla fine Rognoni ha fatto in modo di far cadere la cosa.
Nel 2018, tuttavia, Rognoni ha trovato tempo e voglia per presentare un libro sui lavori della Commissione, scritta da Wladimiro Satta insieme all’unico parlamentare, Fabio Lavagno, che ha votato contro la Relazione finale dell’organismo parlamentare (approvato all’unanimità anche dall’Aula di Camera e Senato).
Evidentemente non si è trovato d’accordo con la ricostruzione del terrorismo italiano ed internazionale fatta dalla Commissione Moro II e con la sua principale conclusione. E cioè che la ricostruzione “ufficiale” della storia degli anni di piombo (quella nota fino alla recente apertura degli archivi) è stata il frutto di un negoziato tra istituzioni e le Br, per “confezionare” - grazie al cosiddetto Memoriale Morucci - “una verità di compromesso” che non alterasse equilibri internazionali troppo delicati, a cominciare da quelli con l’Est europeo e i palestinesi.
Tra l’estate del 1986 e quella successiva, 1987, un anno fondamentale - questo oggi lo sappiamo con certezza - per la stesura del Memoriale che viene attribuito a Valerio Morucci, Rognoni era Guardasigilli, cioè titolare del Ministero della Giustizia, che ha anche il controllo delle carceri.
“Gingio", sarà nuovamente ministro, nel luglio 1990, l’anno dopo della Caduta del Muro di Belino, con Andreotti presidente del Consiglio (per rimanervi fino al 28 giugno 1992). Nuovo ruolo, questa volta: ministro della Difesa.
Per andare al governo, ruppe con tutta la sinistra dc (i cui esponenti, compreso Sergio Mattarella, non erano d'accordo nell’impegnarsi nella formazione del nuovo esecutivo) e ruppe in modo clamoroso con Granelli che lo accusò pubblicamente di “essere un traditore”. Come responsabile della Difesa gestì (a partire da agosto) insieme al presidente Andreotti, il “disvelamento” della struttura della NATO che era stata creata alla fine della Seconda Guerra Mondiale per rendere operativa la resistenza nel caso di una eventuale invasione sovietica, la struttura Gladio-Stay Behind.
All’inizio di ottobre (1990), una nuova irruzione nel covo br di Via Montenevoso portò alla luce la parte “mancante" del Memoriale di Moro riguardante la Gladio. Ma secondo l’analisi filologica compiuta sulle varie versioni del Memoriale di Moro (se ne contano almeno quattro) e ai loro rimandi interni, da Francesco Maria Biscione (consulente della Commissione stragi e collaboratore dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana) mancherebbero però ancora all’appello il riferimento ai rapporti tra Andreotti e i servizi segreti e alle operazioni dei nostri servizi segreti in Libia.
Quello di ministro della Difesa è stato l’ultimo incarico governativo di Virginio Rognoni (anche se venne eletto dal 2002 al 2006, vicepresidente del Csm). Dopo che tanto tempo è passato dagli attentati e dalle stragi, oltre al Pnrr e alle riforme, il Paese ha bisogno di verità sulla sua Storia: dall’attentato alla Sinagoga al caso Moro. Perché un filo rosso li unisce: un filo rosso che emerge dai documenti ufficiali, non dalle dietrologie. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ne è consapevole e il 2 agosto 2021 (anniversario della strage alla stazione di Bologna del 1980) ha firmato una direttiva per un’ulteriore desecretazione di documenti.
Un uomo con un così lungo e prestigioso standing istituzionale, come Virginio Rognoni, non ha però sentito il bisogno di aggiungere nulla a quanto ha aveva detto in passato. Adesso porta vis con se' alcuni segreti della storia italiana.
La strage di via Fracchia e le torture: tante ombre sull’ex dc. Chi era Virginio Rognoni, a 98 anni se ne va il successore (più cattivo) di Cossiga. David Romoli su Il Riformista il 21 Settembre 2022
L’incontro con Virginio Rognoni, allora ministro degli Interni, scomparso ieri a 98 anni, lo racconterà anni dopo Marco Pannella. Erano entrambi a Montecitorio, di fronte al tabaccaio, e il leader radicale avvertì il ministro democristiano che la sera stessa, nel corso di una Tribuna autogestita con Emma Bonino, i radicali avrebbero mostrato in gigantografia le foto delle torture alle quali era stato sottoposto il brigatista rosso Cesare Di Lenardo. Pannella chiese anche all’importante esponente democristiano compianto oggi coralmente se fosse al corrente delle torture. Era il 1982. Lo Stato aveva già vinto la sua battaglia contro il terrorismo ma ancora non lo sapeva o non ne era sicuro. La risposta di Rognoni fu dunque gelida: «Questa è una guerra e il nostro dovere per difendere la legge e lo Stato, è coprire i nostri uomini».
La Tribuna andò regolarmente in onda. Tutti fecero finta di niente: erano moltissimi i bravi democratici che la pensavano come Virginio Rognoni, esponente di spicco della sinistra Dc molto vicino all’ex segretario Benigno Zaccagnini, dunque a Moro. Del resto quel “coprire” era probabilmente un eufemismo. Dopo il rapimento del generale Dozier, il 17 dicembre 1981, le pressioni di Washington sul ministero erano diventate martellanti. Uno dei principali dirigenti di polizia che lavoravano a tempo pieno sul sequestro racconterà trent’anni dopo, nel 2012, che il prefetto capo dell’intelligence del Viminale, prefetto De Francisci, convocò tutti e fu molto chiaro senza bisogno di fare nomi: «Ci dice che l’indagine è delicata, importante. Dobbiamo fare bella figura. Ci dà il via libera a usare le maniere forti. Indica verso l’alto, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte sarete coperti, faremo quadrato». Le torture non avevano aspettato l’ostaggio americano. La squadretta di torturatori detta “Quelli dell’Ave Maria” e guidata dal professor De Tormentis era attiva già dal 1978. Il sinistro, al funzionario Nicola Ciocia lo aveva dato direttamente il dirigente dell’Ucigos Improta, con in mente la Colonna infame di Manzoni. Che il ministro non fosse al corrente della pratica lo si dovrebbe escludere.
Forse il termine “coprire” è più adatto al comportamento del ministro dopo la strage di via Fracchia, il 28 marzo 1980. Quella notte i carabinieri del generale Dalla Chiesa irruppero nell’appartamento nel quale dormivano 4 brigatisti e li uccisero. Per rispondere al loro fuoco, dissero, ma ai giornalisti che per primi entrarono nell’appartamento fu invece chiaro, come affermerà molti decenni dopo Giorgio Bocca, che erano stati fucilati. I cronisti scelsero di coprire la mattanza e in tutta evidenza lo stesso fece il ministro. Nella leggenda popolare il ministro degli Interni a capo della guerra contro il terrorismo è stato Francesco Cossiga. Non è così. Quando Cossiga si dimise, dopo l’uccisione di Moro il 9 maggio 1978, il terrorismo era all’offensiva, lo Stato aveva subìto la sua più cocente sconfitta. Il compito di risollevare le sorti della battaglia adoperando il pugno di ferro se lo assunse Rognoni, un uomo discreto, gentile, universalmente lodato per la sua signorilità. Un democristiano diverso dalle star dell’epoca, che non mancavano di istrionismo, erano personaggi celebri, vistosi, conosciuti da tutti.
Rognoni no. Non si metteva in mostra. Era riservato, geloso della vita privata: un matrimonio durato 57 anni, fino alla morte della moglie Giancarla Landriscina conosciuta all’università, quattro figli, sei nipoti. A spingerlo ad accettare un incarico considerato allora ad alto rischio, succedendo a Cossiga, era stata proprio lei: «Hai scelto di fare politica: quel che segue lo devi accettare». Tuttavia fu proprio questo compassato signore a dare il via libera alle torture e a una guerra combattuta senza esclusione di colpi e senza pastoie legali. Nei guai il ministro ci finì una volta sola, nel 1980. Il primo grande pentito delle Br, Patrizio Peci, aveva parlato di un leader di Prima linea figlio di un ministro, Carlo Donat-Cattin. Cossiga, allora primo ministro, avvertì il padre, ne venne fuori uno scandalo coi fiocchi, Rognoni finì nel tritacarne ma ne uscì indenne. Lo Stato scelse di coprire, in questo caso non per meriti di guerra. La verità, tanto per cambiare, la raccontò Cossiga molti anni dopo. Disse che il primo reato lo aveva commesso il ministro, mettendo a parte dell’increscioso caso il segretario della Dc Piccoli. Decisero di informare insieme Cossiga. Fu proprio Rognoni, “gigante di coraggio”, a chiedere a Cossiga di informare lui Donat-Cattin, con il quale il titolare del Viminale “non andava d’accordo”.
Rognoni vinse la guerra con il terrorismo e perse quella con Cosa nostra. O forse non la combattè oppure non potè combatterla. Gli allarmi di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa, l’isolamento denunciato da quest’ultimo spedito a Palermo senza alcuna copertura da parte dello Stato rimasero lettera morta. Lo zu Totò chiuse la partita a colpi di kalashnikov. Nell’82 fu però lui a sostenere, firmare e far approvare la legge La Torre, nel frattempo assassinato, contro Cosa nostra. Dopo gli Interni Rognoni passò alla Giustizia, quindi alla Difesa. La tempesta dei primi anni 90, con la fine della Dc sembrava averlo spedito in pensione per sempre nel 1994, dopo 28 anni passati in Parlamento. Invece nel 2002 fu chiamato alla vicepresidenza del Csm, da dove fece muro contro ogni critica rivolta alla magistratura in perfetta consonanza con quella che era la linea del suo partito, La Margherita, e del partito di cui nel 2007 contribuì, con altri 11 saggi, a scrivere il “manifesto”: il Pd. Antifascista negli anni giovanili a Pavia anche se mai partigiano, giurista raffinato e colto, avvocato e docente, Virginio Rognoni è stato senza dubbio un democratico convinto e vicino all’anima più aperta e di sinistra dello scudocrociato. Ma è stato anche l’ultimo nella tradizione democristiana dei ministri degli Interni col pugno durissimo. David Romoli
Lettera di Antonello Piroso a Dagospia il 22 marzo 2022.
Caro Roberto, nell'articolo di Marco Revelli per La Stampa da voi ripreso -a parte l'inesattezza di collocare l'assassinio del giudice Mario Amato a Napoli (no: fu ucciso alla fermata dell'autobus vicino casa, a Roma)- c'è una ricostruzione sulla vicenda Cossiga-Donat Cattin che non tiene conto di quanto raccontato dallo stesso Cossiga nel suo libro "Italiani sono sempre gli altri".
Riassumo per punti:
1) Roberto Sandalo, "pentito" di Prima Linea, raccontò di aver incontrato Carlo Donat-Cattin, padre del terrorista Marco, per informarlo del destino del figlio (espatriato in Francia dopo diversi attentati, tra cui quello che era costato la vita al giudice Emilio Alessandrini);
2) il Pci di Enrico Berlinguer dedusse -è sempre Cossiga che parla- che se il figlio era scappato, era perchè era stato avvisato dal padre, a sua volta informato dal presidente del Consiglio, cioè dallo stesso Cossiga, in nome della colleganza democristiana (Donat-Cattin era all'epoca vicesegretario del partito e ministro del lavoro);
3) fu promossa una raccolta di firme per la messa in stato d'accusa di Cossiga, ma il Parlamento rigettò la richiesta del Pci;
4) ma chi aveva davvero messo in circolo la notizia? Cossiga da chi avrebbe saputo che Donat-Cattin junior era uno dei capi di Prima Linea? Dal ministro dell'interno Virginio Rognoni, altro Dc, che lo era andato a trovare con il segretario del partito, Flaminio Piccoli;
5) Rognoni invita Cossiga a dirglielo lui, a Donat-Cattin, della situazione del figlio, perchè "noi non andiamo d'accordo". Ma, aggiunge Cossiga, a me parve una scusa per non trovarsi coinvolto nella rivelazione di segreti di Stato;
6) Cossiga avverte Rognoni: guarda che sei già in fallo, e pure grave, perchè un conto è se tu, ministro, avvisavi solo me, presidente del consiglio; ma per il fatto di averne parlato anche con Piccoli, che è comunque un privato cittadino, hai già commesso un reato;
7) incontrando Cossiga a un successivo vertice per le nomine agli enti previdenziali, sarà Donat-Cattin a chiedere a Cossiga cosa sappia del figlio, e Cossiga gli dice cosa ha appreso delle rivelazioni di Sandalo e di quelle convergenti di Patrizio Peci, catturato dal generale Dalla Chiesa;
8) quando sta per salire in aereo per andare ai funerali del Maresciallo Tito con il cugino Berlinguer, Cossiga viene avvisato dal capo della polizia Coronas che nei confronti di Donat-Cattin jr, fino a quel momento ancora solo "sospettato", erano stati spiccati mandati di cattura;
9) e qui, commenta Cossiga, "commetto l'ingenuità più grande: metto al corrente Enrico della tragedia in corso, sottovalutando che è pur sempre segretario del Pci", che fa reagire il partito come detto;
10) il bello è che Tonino Tatò, portavoce di Berlinguer, aveva informato Luigi Zanda (sì, proprio lui, ai tempi portavoce di Cossiga) che secondo la segreteria del partito si trattava di una manovra di bassa lega politica. In effetti, il ministro dell'interno-ombra del Pci, Ugo Pecchioli, aveva difeso Cossiga, anche perchè aleggiava il sospetto che Sandalo fosse stato arrestato -non dai carabinieri di Dalla Chiesa- e rimesso in libertà come "agente provocatore", e Giancarlo Pajetta si era distinto con una riflessione che, conclude Cossiga, non ho mai dimenticato: "Io non so cosa Cossiga abbia veramente detto a Donat-Cattin, ma so che ha detto nè più nè meno di quanto avrebbe detto a ciascuno di noi qui dentro se avessimo un figlio nelle stesse condizioni".
Di tutto questo Cossiga, che intrattenne con me un cordialissimo rapporto, mi parlò in occasione della sua collaborazione televisiva con La7, quando -secondo una vulgata interessata- io sarei stato su una sua personale blacklist per aver individuato una sua fantomatica amante quando lavoravo a Panorama (circostanze entrambe false, ma questa è un'altra storia).
Il lavoro di Monica Galfrè. Il figlio terrorista, la storia di Marco Donat-Cattin che scosse la Repubblica. David Romoli su Il Riformista il 5 Maggio 2022.
Nella notte del 20 giugno 1988 un giovane uomo di 35 anni viene coinvolto di striscio in un tamponamento a catena sull’autostrada Milano-Venezia, all’altezza del casello Verona Sud. C’è un ferito, sua moglie sta provando a fermare le macchine in arrivo. L’uomo la affianca, segnala con lei l’incidente anche se il buio e la velocità delle auto rendono l’impresa rischiosa. Una Thema arriva sparata, li prende in pieno, uccide entrambi sul colpo. La vittima ha un nome noto: è Marco Donat-Cattin, ex militante di Prima linea, ex detenuto politico, considerato un pentito anche se è vero solo a metà. Il padre, Carlo Donat-Cattin, è uno dei principali leader della Dc, più volte ministro, in quel momento vicesegretario del partito.
Intorno a quella parentela e al sospetto che il potente padre, allertato addirittura dal presidente del consiglio Cossiga, avesse brigato per mettere in salvo il figlio era scoppiato nel 1980 uno dei più clamorosi scandali nella storia della Repubblica. Ricostruisce quella tempesta politica, e soprattutto la parabola tragica di Marco, il libro della storica Monica Galfré, edito da Einaudi, Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione: uno dei migliori nella foltissima bibliografia su quell’epoca storica, forse il migliore in assoluto. Per quanto attiene allo scandalo, ricostruito nella prima parte del libro, la vicenda ancora oggi non è accertata nei dettagli. All’origine c’è il brigatista Patrizio Peci, primo tra i grandi pentiti della lotta armata in Italia. Nella sua fluviale deposizione aveva detto di aver saputo da un dirigente di Prima linea, il principale gruppo armato dopo le Br, che tra i dirigenti di quell’organizzazione c’era il figlio di Donat-Cattin. Era il 2 aprile 1980: pochissimi giorni dopo la deposizione di Peci arrivò nelle mani di Cossiga che – secondo la testimonianza del pentito di Pl Roberto Sandalo – si premurò di avvertire l’amico Carlo perché facesse espatriare il figlio terrorista quanto prima.
I verbali degli interrogatori di Peci, depurati però della pagina in cui veniva citato Donat-Cattin, finirono nelle mani del giornalista del Messaggero Fabio Isman, consegnatigli da numero 2 del Sisde Silvano Russomanno: finirono entrambi in galera per violazione del segreto d’ufficio. Ci rimasero per mesi, poi il giornalista fu prosciolto, l’uomo dei servizi condannato. Sandalo, il militante di Pl che aveva parlato a Peci di Marco Donat-Cattin, fu arrestato il 29 aprile. Tra la deposizione di Peci e quell’arresto, Cossiga aveva certamente incontrato il vicesegretario della Dc nel suo studio privato e il potente Carlo aveva immediatamente contattato proprio Sandalo, che sapeva essere amico e compagno di suo figlio, secondo quest’ultimo per rintracciare e avvertire il figlio. “Roby il pazzo”, come lo chiamavano, si pentì subito. Il 3 maggio fece il nome di Marco Donat-Cattin, contro cui quattro giorni dopo fu spiccato un mandato di cattura ma il “comandante Alberto”, come da nome di battaglia, era già oltre confine. Fu arrestato a Parigi mesi dopo, il 20 dicembre. Che fosse stato messo in guardia dal padre o meno, la decisione di espatriare la aveva già presa. Non dipese dall’indiscrezione del presidente del consiglio.
Le deposizioni del pentito di Prima linea non si fermarono lì. Coinvolsero Cossiga, scatenando un uragano politico. Appena due anni prima, con lo stesso Cossiga inflessibile ministro degli Interni, la Dc aveva sacrificato il suo esponente più prestigioso, Aldo Moro, per non trattare con i terroristi. La fermezza era una professione di fede, un dogma, un obbligo morale prima che politico: trasgredire in nome della famiglia o dell’amicizia, degli affetti, sembrava letteralmente inconcepibile.
Sia Donat-Cattin che Cossiga smentirono. Solo 27 anni più tardi il Picconatore avrebbe ammesso e indicato la catena lungo la quale aveva viaggiato l’informazione: dal ministro degli Interni Rognoni al segretario della Dc Piccoli, i quali avevano poi messo al corrente Cossiga, affidando a lui lo sgraditissimo compito di mettere al corrente il più diretto interessato, Donat-Cattin padre.
La faccenda finì di fronte alla Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa, il “Tribunale dei ministri”. Seduta fiume: tesa, molto drammatica e tuttavia dall’esito predeterminato. La Commissione avrebbe dovuto decidere non sull’eventuale colpevolezza del premier ma solo sulla necessità o meno di procedere con ulteriori accertamenti. Discusse invece come se dovesse emettere un verdetto e assolse a furor di maggioranza. Il Pci raccolse le firme necessarie per ripetere il “processo” in luglio, di fronte alle Camere in seduta congiunta. Fu un momento tanto solenne quanto disertato: dopo cinque giorni di dibattito ad aula semivuota Cossiga ne uscì incolume. Donat-Cattin invece rassegnò le dimissioni e uscì di scena ma solo per qualche anno: nell’86 era di nuovo ministro.
Monica Galfrè ricostruisce non solo i passaggi di quella crisi ma soprattutto la temperie che rifletteva e veicolava: il dibattito sui media, gli intrecci tra calcolo politico, propaganda e avvio, per la prima volta, di una riflessione della società italiana su se stessa e sulla bufera che stava attraversando ormai da oltre 10 anni. Quella che emerge è la verità di un Paese che perla prima volta faceva i conti con il terrorismo, cioè con l’emergenza che lo ossessionava più di ogni altra, riconoscendone la natura “interna”, inscritta nella propria storia. Sino a quel momento i terroristi erano stati visti come alieni: gelidi, efficienti, feroci, nemici mortali, sempre e comunque “altro da sé”. Complice l’intreccio familiare reso fragoroso dalla notorietà e dal ruolo dei protagonisti, i terroristi, e con loro un’intera travagliata generazione, cominciavano a essere visti per quello che erano: non solo parte del Paese ma parte delle famiglie. In senso proprio qualche volta, ma in senso più lato sempre.
Anche da questo punto di vista il 1980 è un anno di svolta: il percorso successivo non sarebbe stato lineare, la “soluzione politica” invocata dai terroristi sconfitti sarebbe sempre rimasta una chimera. Però, senza dubbio, una volta sconfitto il terrorismo, l’Italia della prima Repubblica dimostrò una disponibilità alla clemenza e una volontà di superare l’emergenza marcata dalla consapevolezza di avere a che fare con i propri figli. Quei “figli”, Marco Donat-Cattin in qualche modo li rappresenta tutti. Ragazzo ribelle, padre a 17 anni, militante di Lotta continua, poi di Senza tregua e di lì in Prima linea, quando viene denunciato il “comandante Alberto” era già uscito da Pl, deluso da una deriva militarista che stava rendendo quell’organizzazione sempre più simile alle Brigate rosse e dunque sempre più lontana dalla “struttura armata di movimento” delle origini, di ispirazione opposta a quella brigatista. Se la “ritirata strategica” in Francia lo avrebbe condotto ad abbandonare la militanza armata o a puntare su un nuovo gruppo terrorista, come sembrava comunque intenzionato a fare, non è dato sapere. Di certo nel suo percorso individuale si rifletteva una crisi che non era interna solo alle organizzazioni armate. In quel 1980, che col senno di poi sappiamo aver segnato il tramonto del terrorismo e che si sarebbe concluso alla Fiat con la sconfitta di una ribellione operaia durata oltre 10 anni, si consumò anche la fine di una sorta di incanto collettivo, generazionale, degenerato in tragedia.
L’obiettivo di rendere la parabola di Marco Donat-Cattin esemplare è esplicitato da Monica Galfré sin dal sottotitolo del libro. Per farlo, l’autrice procede in senso inverso rispetto a quello usuale: spoglia Marco Donat-Cattin di ogni componente stereotipa, dal “terrorista” al “militante rivoluzionario”, cercando invece di rintracciarne l’individualità: una verità personale condivisa, pur se declinata da ciascuno a modo proprio, da molti altri giovani del suo tempo e del suo Paese. Da storica, l’autrice ha scelto di affidarsi essenzialmente alle deposizioni di Marco, considerandole comunque meno falsate, in virtù dell’immediatezza, dei ricordi e delle ricostruzioni a distanza di decenni.
Sono gli aspetti sempre dimenticati e messi da parte quelli che vengono qui indagati e scandagliati: il rapporto con la morte data e rischiata, molto più complesso di quanto le ricostruzioni storiche non siano in qui riuscite a restituire, centralissimo nella parabola di Marco Donat-Cattin, che uccise personalmente il giudice Emilio Alessandrini e dall’incubo di quella morte data con le proprie mani non si liberò mai; le relazioni sentimentali, che c’erano ed erano essenziali anche per i militanti della lotta armata; soprattutto il rapporto tra comunità e individui, quello più articolato, per molti e contrapposti versi essenziale nello spiegare sia la precipitazione negli inferi di una lotta armata vissuta spesso con disagio e lacerazioni interiori, sia la rottura che portò molti alla dissociazione, al pentimento o alla resa. Donat-Cattin appare come un “pentito a metà”, quasi un dissociato ante litteram: quando iniziò a collaborare, non facendo nomi ma ricostruendo l’intera genesi di Prima linea, la sua articolazione e i delitti compiuti, la dissociazione ancora non esisteva. Quando morì sull’autostrada, era uscito di galera da sei mesi, lavorava nel sociale per il recupero dei tossicodipendenti. La sua tragedia personale è una chiave per capire la storia d’Italia in un momento cruciale come non è ancora stato fatto. David Romoli
La Roma di piombo raccontata dai carabinieri che vinsero le Br. La storia della Sezione Speciale in cinque puntate. Per la prima volta, oltre a terroristi e studiosi, parlano le forze dell'ordine. Alessandro Gnocchi il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.
Di recente, Giorgia Meloni ha ricevuto minacce di morte da parte delle Brigate Rosse. I terroristi sono stati sconfitti ma ogni tanto rialzano il capo come accadde con le Nuove Brigate Rosse che uccisero Massimo D'Antona (1999) e Marco Biagi (2002) prima di essere sgominate dalle forze dell'ordine. Non è il caso di sottovalutare i messaggi criminali rivolti alla leader di Fratelli d'Italia. Le organizzazioni estremistiche traggono linfa dal malcontento sociale e dalla convinzione (insensata) di proseguire la Resistenza contro il fascismo. Proprio il fascismo evocato, a sproposito e con l'unico fine di allarmare, dalla propaganda elettorale più ignorante e dagli intellettuali meno seri ma più seriosi. A questo, dobbiamo aggiungere che l'autunno sarà gelido in casa, a causa della carenza di gas, e infuocato in strada, a causa della povertà. Brutti segnali che riportano alla memoria la notte della Repubblica dalla quale, tutto sommato, ci siamo svegliati da poco.
La storia delle Brigate Rosse è stata raccontata spesso (e anche bene) dal punto di vista dei carnefici, dei parenti delle vittime e degli storici. A queste voci possiamo aggiungere ora quelle delle forze dell'ordine impegnate sul campo a contrastare le cellule di terroristi. Per questo motivo, spicca la docu-serie Roma di piombo. Diario di una lotta in onda su Sky Documentaries, realizzata da Ballandi, ideata da Paolo Colangeli, scritta da Michele Cassiani con Egilde Verì e la regia di Francesco Di Giorgio. Sono cinque puntate, tre già andate in onda, comunque disponibili in streaming su Now e on demand.
Sotto la guida del generale Dalla Chiesa, un gruppo di carabinieri forma la Sezione Speciale Anticrimine di Roma, che ha il compito di combattere le organizzazioni sovversive ed eversive, e in particolare le Brigate Rosse. Gli uomini della Sezione neppure sembrano militari: si chiamano con nomi di battaglia, vestono casual, hanno la barba e i capelli lunghi. Insomma, non danno nell'occhio nei luoghi di ritrovo (università, piazzali delle fabbriche, locali) dove plausibilmente i brigatisti trovano le nuove reclute. All'inizio non c'è nulla nonostante i terroristi abbiano già rapito e ucciso Aldo Moro. Non c'è un archivio. Non è possibile incrociare rapidamente i dati con altre sezioni. La Sezione parte da zero. La frustrazione non tarda a presentare il suo conto. Infiltrarsi è impossibile (nessuno ha un passato credibile come rivoluzionario). Le Brigate Rosse agiscono con prudenza e intelligenza. Dice il comandante Domenico Petrillo, nome di battaglia Baffo: «Tantissime volte abbiamo subito le umiliazioni del fallimento, e ci siamo scoperti impotenti davanti agli attentati». Dalla Chiesa però insiste: è la strada giusta. La Sezione inizia a raccogliere e studiare sistematicamente volantini, delibere pubbliche, materiale di propaganda. Dalla mole di carte, esce qualche informazione preziosa sulla struttura dell'organizzazione terroristica. L'8 settembre 1978, a Patrica, viene assassinato il magistrato Fedele Calvosa, insieme alla sua scorta (Giuseppe Pagliei) e al suo autista (Luciano Rossi). Resta a terra anche un criminale, abbattuto dal fuoco amico. In tasca ha le chiavi di un'automobile. È la primissima crepa nell'organizzazione. I carabinieri raccontano come abbiano scovato la vettura (un colpo di genio investigativo) e come l'abbiano sorvegliata, alla stazione ferroviaria di Latina, fino all'arrivo di un altro criminale. Ma la vera voragine si apre dopo l'assassinio, a Genova, del sindacalista Guido Rossa, stimato da tutti e militante del Partito comunista. Un errore strategico clamoroso, che non a caso divide l'organizzazione (la colonna di Roma emette un comunicato per criticare l'azione).
Molti comunisti ortodossi, e il Pci stesso, non sono più disposti a coprire «i compagni che sbagliano». Eloquenti sono le parole degli operai a commento della morte di Rossa: «Aveva ragione lui» (sottinteso: a voler disgiungere la lotta di classe dalla lotta armata). Proprio la collaborazione di un militante del Partito comunista permetterà alla Sezione speciale di «decapitare» la colonna romana (rappresentata, nel documentario, da Francesco Piccioni).
Nel frattempo, però, le Brigate Rosse sono all'apice della forza militare. Il 3 maggio 1979, un commando di una dozzina di terroristi assalta l'edificio in piazza Nicosia a Roma in cui si trovavano gli uffici regionali per il Lazio della Democrazia cristiana. Una prova di forza impressionante. Non solo la posizione è centrale. Ma le vie di fuga sono limitate dal fatto di trovarsi in pratica sul Lungotevere. Le Brigate Rosse volevano danneggiare il palazzo con tre cariche esplosive ma le cose vanno subito storte a causa di una suora in fuga. Ci sarebbe da sorridere se non ne fosse uscito uno scontro a fuoco nel quale persero la vita il maresciallo Antonio Mea e l'appuntato Pierino Ollanu. Pasquale Pandoli, detto Kawasaki, è tra i primi ad arrivare sulla scena del delitto: «C'era sangue dappertutto. E l'odore del sangue non si dimentica. Mai».
'Ndrangheta stragista, tre nuovi verbali sugli attentati degli anni Novanta. Il Quotidiano del Sud il 12 Settembre 2022
I verbali di tre collaboratori di giustizia che hanno riferito delle riunioni avvenute tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta prima delle stragi continentali che hanno insanguinato il Paese all’inizio degli anni novanta andranno agli atti del processo «’Ndrangheta stragista» che vede imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli, condannati in primo grado all’ergastolo per l’agguato in cui morirono, il 18 gennaio 1994, i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.
Dopo che la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha ammesso nel fascicolo del processo il verbale riassuntivo dell’interrogatorio reso dal pentito Annunziato Romeo nel 1996, la notizia dei verbali degli altri tre collaboratori è stata annunciata in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. In particolare si tratterebbe di tre verbali trasmessi dalla Dda di Catanzaro su richiesta della Dda di Reggio e relativi alle dichiarazioni dei pentiti Gerardo D’Urzo, deceduto nel 2014, Marcello Fondacaro e Girolamo Bruzzese.
I tre – ha spiegato Lombardo in aula – «hanno riferito circostanze direttamente attinenti ai temi di questo processo spiegando nel dettaglio di avere appreso da appartenenti alla cosca Mancuso e di altre famiglie una serie di circostanze riferibili agli incontri effettuati tra Cosa nostra e ‘ndrangheta nel periodo immediatamente antecedente alle stragi continentali».
Nei verbali, che ancora non sono stati depositati, vengono anche citati «i protagonisti politici di quella stagione indicando nomi e circostanze che – ha concluso il procuratore aggiunto Lombardo – a mio modo di vedere meritano la massima attenzione».
Nella prossima udienza, fissata per il 3 ottobre, il magistrato illustrerà il contenuto dei verbali e di un’informativa della Dia di Reggio Calabria. Non lo ha fatto oggi perché proprio sulle dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia la Direzione nazionale antimafia ha convocato una riunione a Roma per il prossimo 15 settembre quando il gruppo “stragi”, composto dai pm di Reggio Calabria, Firenze, Caltanissetta e Palermo, deciderà cosa potrà essere depositato nel fascicolo del processo a Graviano e Filippone.
La donna delle stragi del 1993, la commissione antimafia ritrova due identikit dopo 29 anni. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 14 Settembre 2022.
Approvata la relazione finale del gruppo di lavoro che si è occupato dei misteri delle bombe e della trattativa. Il senatore Giarrusso: "Abbiamo elementi di prova per dire che quella sera, in via dei Georgofili, c’erano soggetti esterni a Cosa nostra"
Ventinove anni dopo, sono riemersi un testimone mai ascoltato e l'identikit di una misteriosa donna. Sono riemersi soprattutto tanti misteri attorno alla strage che la notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 devastò un'ala degli Uffizi, a Firenze, e uccise cinque persone. "Adesso, abbiamo elementi di prova per dire che quella sera c'erano soggetti esterni a Cosa nostra", dice il senatore Mario Giarrusso, che presiede il comitato sulle stragi mafiose e la trattativa della commissione parlamentare antimafia.
Stragisti, quando Cosa Nostra dichiarò guerra allo Stato. Dai Graviano a Messina Denaro. Dagli eccidi del 1992 e del 1993 al ricatto che i protagonisti sopravvissuti esercitano sulle istituzioni. Il nuovo libro di Lirio Abbate sulla stagione al tritolo decretata dai boss corleonesi. Francesco La Licata su L'Espresso il 26 aprile 2022
La storia che racconta Lirio Abbate parte da lontano, da una piccola, insignificante strada di un’ex borgata palermitana devastata dal cemento. Ma non si ferma lì, lascia lo spazio angusto di ciò che rimane della Conca d’Oro svenduta ai palazzinari per risalire piano piano al centro di Palermo e all’Isola tutta e, infine, al cuore del potere politico-finanziario del Paese.
Si comincia dall’anonima via Giuseppe Tranchina per raccontare la più brutale aggressione che uno Stato moderno abbia mai subito da un’organizzazione criminale in uno spazio di tempo relativamente (dal punto di vista storico) lungo ma breve per ciò che ha lasciato nella memoria e nella coscienza collettiva degli italiani.
Sono passati trent’anni da quando la mafia stragista ha tentato di colpire il cuore dello Stato, prima con la violenza delle bombe, poi tentando di corrompere la tenuta democratica delle istituzioni preposte all’azione di contrasto al crimine mafioso. Trent’anni di alti e bassi in questa battaglia dei buoni contro i cattivi, una guerra che sembra tutt’altro che conclusa ed ha visto protagoniste assolute alcune menti criminali in parte vinte dal peso della storia, in parte ancora in grado di nuocere.
Totò Riina, il padrino di Corleone, non c’è più. È morto nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma senza aver mai aperto bocca, se non per spargere gli ultimi veleni attraverso le «rivelazioni», la maggior parte false e manipolatrici, affidate al suo «compagno di socialità» durante lunghe passeggiate nel cortile del penitenziario. Resta in piedi il cognato, Leoluca Bagarella, che non ha mai rinnegato il giuramento fatto quando la mafia scoprì il «tradimento» delle forze politiche, secondo lui inadempienti per non essere riuscite a salvare Cosa Nostra dal colpo mortale inferto da Giovanni Falcone col suo maxiprocesso. «Non ci fermeremo - giurò - fino a quando ci sarà un solo corleonese vivo», e in effetti di danno sono riusciti a farne parecchio.
Ma ci sono altri coprotagonisti di questa storia nera, personaggi che del basso profilo mediatico hanno fatto una religione, riuscendo ad esercitare un ruolo primario nella strategia politico-criminale di Cosa Nostra, rimanendo spesso nell’ombra ed emergendo appena solo quando le contingenze lo hanno richiesto e specialmente dopo la cattura di Totò Riina, quando il capo cadde nella trappola dei carabinieri e gioco forza dovettero «assumersi le proprie responsabilità» i giovani leoni: Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, due menti diaboliche che non si sono arrese alla sconfitta e continuano a tramare, il primo dal carcere che non gli impedisce di dispiegare forza e intelligenza «politica», l’altro dalla sua non irresistibile latitanza forse frutto di compiacenti amicizie, che, ad una cattura che provocherebbe un pericoloso vuoto di potere mafioso sul territorio, preferiscono un quieto vivere controllato, secondo le vecchie e mai sopite regole della convivenza tra guardie e ladri.
Tutto questo, partendo da via Tranchina, racconta come in un thriller, Lirio Abbate nel suo “romanzo nero”: Stragisti. Da Giuseppe Graviano a Matteo Messina Denaro: uomini e donne delle bombe di mafia (300 pagine, Rizzoli), in uscita il 26 aprile.
Ma perché via Giuseppe Tranchina 22, quartiere San Lorenzo, Palermo? Quella era l’abitazione di un semisconosciuto mafioso, Salvatore Biondino, che guidava l’auto sulla quale viaggiava Totò Riina quando venne arrestato, il 15 gennaio 1993. I carabinieri del Ros, forse storditi dall’eccesso di adrenalina per avere messo le mani sul padrino, non diedero grande importanza all’anonimo autista del capo e non eseguirono neppure un’immediata perquisizione della sua abitazione. Errore grave, perché Biondino non era un signor nessuno, era il capo di uno dei mandamenti più «titolati» di Cosa Nostra, quello di San Lorenzo, appunto. E in casa, quella mattina, aveva riunito il gotha dei padrini di Cosa nostra, appunto gli Stragisti. E non solo, teneva soldi a palate e documenti che avrebbero potuto raccontare molto della Cosa Nostra dell’epoca.
Ma così non andò e non andò bene neppure col covo-villa di Riina che non fu perquisito per tempo, tanto da concedere ad alcuni «pulitori» il tempo di svuotare persino una cassaforte e affidare una corposa documentazione a Matteo Messina Denaro che, dunque, oggi deterrebbe la chiave dei segreti dello zio Totò e dei suoi soldi. Ecco, Abbate si chiede se di inadempienza colposa si trattò oppure di omissione colpevole. Fatto sta che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa, ben più favorevole allo Stato, se la via Tranchina avesse acceso un faro nelle indagini e soprattutto se gli investigatori avessero seguito Totò Riina diretto proprio a casa Bondino per una riunione della cupola convocata per pianificare omicidi e stragi. Pensate che colpo, catturare la cupola al completo, con Bagarella, Messina Denaro, i Graviano e tutto l’altare maggiore. Ma oltre ai boss, cosa c’era nell’abitazione di Biondino? Abbate lo fa dire ad un testimone oculare, oggi pentito importante che, ironia della sorte, si chiama come la stradina di San Lorenzo: Fabio Tranchina, un giovane cresciuto in un ambiente a rischio e ingoiato nel gorgo mafioso anche a causa di un matrimonio sbagliato ma mai sconfessato.
Fabio Tranchina ha fornito alla magistratura un ritratto completo degli stragisti, in particolare della famiglia mafiosa di Palermo che ha raccolto l’eredità lasciata da don Totò: i Graviano di Brancaccio, che rappresentano la mafia col pedigree. Mafia antica, mafia dei giardini e poi mafia moderna che però non dimentica le proprie origini, le regole, il senso dell’onore, la mai sazia sete di vendetta. Capostipite fu Michele, sposato con una donna appartenente ad una famiglia che Cosa nostra la esportò a Milano. Poi i tre figli maschi: Benedetto, Filippo e Giuseppe e la piccola, «a picciridda» Nunzia che comunque la pagnotta se l’è guadagnata pure lei imparando a gestire una montagna di soldi dopo la cattura dei fratelli maschi.
Il ruolo di erede di don Michele, ucciso all’insorgere della seconda guerra di mafia sarebbe dovuto andare a Benedetto, ma, dice Riina in carcere parlando con il «compagno di socialità», era considerato «scimunito». E tra Filippo e Giuseppe, quello più sveglio per Totò era proprio il secondo, capace di conquistarsi il rispetto della truppa con metodi «cristiani», capace di «farsi ubbidire» dando l’impressione di lasciare libertà di scelta. Una mente lucida e sempre in movimento, come si evince dal racconto di come sia riuscito a organizzare la strage di via D’Amelio (il giudice Borsellino e 5 agenti della scorta) e come Cosa Nostra abbia potuto ribattere colpo su colpo all’azione di contrasto dello Stato sempre in ossequio alla linea dura di Riina, idolatrato come un padre («semu tutti figghi di stu cristianu»), che «appariva con le spalle coperte», specialmente dopo l’assassinio dell’ex sindaco Dc di Palermo, Salvo Lima, ritenuto un traditore per non essere riuscito a «sabotare politicamente» il maxiprocesso di Falcone. Ecco, la vendetta: il motore che fa decollare la svolta stragista della mafia ma che, nel privato, muove anche le paranoie personali, come l’ossessione per la mancata punizione di Totuccio Contorno, ritenuto l’assassino di Graviano padre ma sfuggito ad un agguato e poi artefice (in società con Buscetta) della disfatta giudiziaria di Cosa nostra.
Il romanzo fila veloce, anche perché non cerca conferme giudiziarie. Abbate fa un racconto, sostenuto da episodi inediti e documenti nuovi, che non è destinato alle aule di giustizia, scrive una cronaca mettendo insieme spezzoni di verità disseminate tra migliaia di carte e verbali poco conosciuti al pubblico. Il risultato è impressionante perché spesso sono gli stessi protagonisti a rivelare brandelli di storia, uomini votati all’omertà che invece offrono chiavi di lettura. Il contributo di Tranchina è notevole, ma è lo stesso Graviano che, vinto dal suo delirio manipolatorio, racconta in presa diretta anche quando nega per confermare, come nella migliore tradizione dei mafiosi che inquinano i pozzi. Graviano lancia il sospetto che la cattura (furono presi lui, Filippo, e le rispettive compagne) al ristorante di Milano “Gigi il cacciatore” non fu casuale, insinua che l’episodio possa essere inserito nella ingarbugliatissima storia delle frequentazioni berlusconiane dei Graviano.
E come insinua? Semplicemente definendo la cattura un «arresto singolare e inaspettato», lasciando intendere, così, di aver avuto in passato coperture poi revocate. E Abbate qui svela come e da chi i Graviano sono stati traditi e venduti ai carabinieri nel gennaio 1994. Parla liberamente, Giuseppe. Ma con qualche piccola censura. Per esempio, non parla mai di Marcello Dell’Utri, il suo «paesano», il politico che Gaspare Spatuzza dice di aver avuto citato da Graviano quando lo ha incontrato alcune settimane prima dell’arresto al bar Doney di via Veneto a Roma e che avrebbe consentito al boss di poter dire, dopo quell’incontro, «ci siamo messi il Paese nelle mani». E accredita una verità di comodo, più consona all’etica mafiosa, quando parla della gravidanza della moglie avvenuta mentre era detenuto.
Molti pensavano all’inseminazione artificiale, ma lui dice di avere avuto un contatto fisico con la moglie, fatta entrare clandestinamente in carcere. Stessa operazione sarebbe stata fatta da Filippo, anch’egli divenuto padre da detenuto. I documenti citati nel libro e le fonti raccolte raccontano invece un’altra storia che ha alla base accordi mafiosi. La censura si fa totale quando l’argomento è l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito ucciso per fare ritrattare il padre. L’immaginario ha già attribuito ogni colpa ai Brusca e quindi Graviano cerca di tenersene alla larga. Una lettura istruttiva, il libro di Lirio Abbate, che mette a nudo uomini, meccanismi e regole di una comunità (Cosa Nostra) che non pare arrendersi alla sconfitta. Trent’anni di ricatti mafiosi e strategie criminali, sotto la guida di Graviano e Messina Denaro. L’ultima spiaggia dei Graviano sembra essere quella del tentativo di poter uscire dal carcere a dispetto delle condanne all’ergastolo. Per questo risulta molto seguita, in carcere, la vicenda politica legata alla riforma dell’ergastolo ostativo. E della dissociazione. E per questo Graviano ha già fatto conoscere il proprio pensiero scrivendo al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, la cui lettera è stata acquisita dai magistrati. Il manipolatore non demorde e ciò che racconta questo libro non è una fiction.
Montagna Longa: il contabile di Cosa nostra che si salvò dalla strage del Dc8. Il boss Vito Roberto Palazzolo doveva essere sul volo schiantatosi nel ’72 forse per un attentato. All’improvviso cambiò idea e chiese a un dipendente di prendere il suo posto. È l’ennesima ombra sulla tragedia irrisolta di cui si occupa la commissione antimafia. Enrico Bellavia su L'Espresso il 12 settembre 2022
La telefonata arrivò il venerdì mattina molto presto. Era il 5 maggio del 1972, il giorno della strage di Montagna Longa, la strage dimenticata.
Armando era a letto nella sua casa di Terrasini. Aveva tirato tardi la sera prima. Erano giornate convulse di campagna elettorale per le Politiche della domenica e lui, come da tradizione familiare, si dava da fare per sostenere quella galassia che fuori dal Pci ingaggiava battaglie a sinistra e provava a erodere il granitico consenso dei democristiani, gonfi dei voti portati in dote dai mammasantissima.
Ofelia, non aveva cuore di svegliare il figlio. E l’uomo al telefono dovette insistere, era urgente, c’era da pianificare un viaggio imprevisto e Armando avrebbe dovuto darsi una mossa per riuscire a partire in tempo. Di malavoglia, la donna andò in camera del figlio che, frastornato, trascinò i piedi in corridoio e prese la cornetta. La madre lo sentì solo annuire. Quando mise giù, annunciò che doveva andare a Roma con il primo volo utile, consegnare dei documenti importanti e riprendere un aereo per tornare la sera stessa: «Lui non se la sente, ha paura dell’aereo, devo andare io». Ofelia avrebbe ripassato per il resto dei suoi giorni la sequenza di quella mattina. Nessun dubbio, nessun sospetto, allora. Mai e poi mai, lei che era nipote del giornalista e scrittore Girolamo Ragusa Moleti, «ribelle dei ribelli», secondo la definizione di Benedetto Croce, vissuta in una famiglia nutrita a intransigenza e rigore, se ne starebbe stata in silenzio a subire. Per questo il suo cruccio era semmai quello di non aver capito. E il rovello acuiva il dolore della perdita.
L’uomo al telefono era Vito Roberto Palazzolo, da Terrasini, allora venticinquenne imprenditore e datore di lavoro di Armando. Nello spazio di due lustri si sarebbe guadagnato la fama mondiale di broker del riciclaggio del cartello siciliano della mafia. La vera mente finanziaria della scalata corleonese al vertice dell’organizzazione, il custode dei segreti di un’ascesa che i killer pianificavano versando fiumi di sangue sulle strade e lui plasmava con la forza dei numeri: miliardi e conti cifrati, tutto passava dalle sue mani di contabile tanto scrupoloso quanto interessato a ritagliarsi una fetta cospicua di quelle fortune.
In un mondo di pastori e contadini arricchiti, il cui orizzonte estero coincideva con le rotte d’approdo degli emigranti, Vito Roberto Palazzolo giocava con la geografia del denaro. Pronto a spostarsi lì dove era possibile appostarlo senza troppe complicazioni. Dall’Europa all’Africa all’Estremo Oriente, proprio come un vero uomo d’affari. Brillante spigliato e ricchissimo. Inseguito dalla nomea di imprendibile, abile a giocare a scacchi con i giudici a qualsiasi latitudine, prontissimo alla fuga e disinvolto nell’aprirsi vie d’uscita dove altri avrebbero visto solo strade sbarrate.
Poco dopo l’alba del 5 maggio 1972, quella sua telefonata spalancò una di quelle porte girevoli che per qualcuno sono la salvezza e per altri la condanna. E Armando che prese il posto di Vito Roberto Palazzolo in quel viaggio da Roma fu consegnato nel suo ultimo giorno a un destino forse non proprio casuale. Quella stessa sera a pochi minuti dall’atterraggio, l’aereo che avrebbe dovuto riportarlo a casa tagliò in fiamme l’abitato di fronte al golfo e finì su Montagna Longa, depositando su quel crinale, tra Carini e Cinisi, il suo carico di morte: 115 vittime, il primo e più grave disastro dell’aviazione civile italiana, superato in numero di morti solo dalla sciagura di Linate. Il più rimosso tra i capitoli oscuri della nostra storia recente. Concentrato di interrogativi che si inseguono da allora in una danza macabra contro la verità.
Incidente, secondo la sbrigativa versione ufficiale consacrata in una sentenza da liberi tutti nel 1984. Casualità: forse guasto, forse errore umano, soluzione pilatesca e indimostrata, comunque funzionale a smontare gli argomenti dei detrattori di uno scalo fortemente voluto in un sito inadeguato e a fugare altre ombre sinistre in un Paese che preferisce spedire i fatti nel confino delle supposizioni.
Strage deliberata nel quadro della strategia della tensione, sostengono in molti, di fronte a una magistratura riottosa a fare piena luce e a una mole di elementi che concludono verso la tesi dell’attentato. Ci riprova la commissione antimafia sul finire di questa legislatura, come raccontato da L’Espresso (numero 33 del 21 agosto). E lo fa riprendendo in mano la ricostruzione del vicequestore Giuseppe Peri che già cinque anni dopo, nel 1977, accreditò la pista dell’attentato dimostrativo di matrice mafiosa e neofascista: una bomba a bordo che doveva scoppiare ad aereo già atterrato e vuoto e che un ritardo trasformò in una carneficina, a quel punto impopolare da rivendicare.
Un rapporto insabbiato all’epoca e l’autore emarginato fino alla pensione.
Eppure alla tesi dell’attentato è giunta anche una perizia commissionata dai familiari delle vittime di Montagna Longa. L’ingegnere Rosario Ardito Marretta, a distanza di anni, nel 2017, ha confermato l’intuizione di Peri e collocato in una bocchetta dell’ala destra l’ordigno, concludendo per la bomba a bordo forse attivata da un radiocomando. La relazione di Marretta, snobbata dalla magistratura catanese che ha «cestinato» l’ennesima richiesta di riapertura delle indagini e ora pubblicata in lingua inglese, è già stata acquisita dalla commissione che si avvale della consulenza del magistrato di Milano Guido Salvini, tra i massimi esperti di terrorismo nero. L’audizione di Marretta dovrebbe essere il passo successivo.
Anche secondo Alberto Stefano Volo, neofascista e controverso testimone della stagione in cui esponenti di primo piano dell’eversione nera, a partire da Pierluigi Concutelli fecero base in Sicilia a ridosso dell’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), Montagna Longa fu una strage. Raccontò di averne avuto un vago sentore quando era in preparazione e di aver consigliato a una sua amica hostess destinata a quel volo di cambiare turno. Non fu prodigo di elementi ma quelli che offriva ascrivevano la strage agli stessi ambienti indicati da Peri.
Probabile che la voce dell’attentato in preparazione fosse arrivata anche ad altre orecchie, in quell’area di interessi convergenti frequentata da neofascisti e mafiosi, lì dove bombe e delitti erano strumenti per far politica, mezzi per dosare attraverso l’arma della paura, una certa idea di Paese funzionale agli affari in corso.
Armando Pappalardo aveva 26 anni. Anche lui era cresciuto a Terrasini, a due passi dall’aeroporto, ed era il secondo di quattro fratelli. Il padre lo aveva perso 12 anni prima, morto in un incidente stradale. Aveva continuato gli studi di geometra, poi si era iscritto a Matematica. La laurea era ormai alle porte ma intanto gli era toccato pure togliersi dai piedi l’impiccio della naia, nonostante commi e leggine gli riservassero una parziale esenzione. Aveva una fidanzatina con la quale flirtava da qualche mese. E un impiego, ottenuto mettendo a frutto il diploma.
Kartibubbo, a Campobello di Mazara, era a quel tempo poco più di un progetto avanzato, un cantiere per la costruzione di uno di quei cubi scagliati a sfregiare la costa in nome della pretesa vocazione turistica della Sicilia e per placare le smanie imprenditrici di una mafia gonfia di soldi che aveva fame di cemento e brama di aree edificabili.
Armando lavorava per la società costruttrice, una nebulosa di sigle, anche straniere, dietro le quali, ma sarebbe stato scoperto parecchio tempo dopo, c’era Cosa nostra.
E proprio con uno dei suoi pezzi più pregiati: Vito Roberto Palazzolo, basi in mezzo mondo e collegamenti al massimo livello, uomo di fiducia per gli investimenti personali di boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano.
Custode della cassaforte quando Mafia spa aveva il monopolio della droga sulla rotta Europa-America.
Quarant’anni e una montagna di fascicoli processuali dopo, Vito Roberto Palazzolo, scarcerato nel 2019, ha praticamente finito di scontare una condanna a 9 anni per mafia. In primo grado a infliggergliela era stato il tribunale di cui faceva parte Vittorio Alcamo, figlio di Ignazio, il magistrato che aveva spedito al soggiorno obbligato la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, morto su quello stesso volo di Montagna Longa.
La sentenza per mafia è la ragione che ha riportato in Italia Palazzolo dalla Thailandia dopo una precipitosa fuga da Città del Capo in direzione Hong Kong. Il Sudafrica lo ha protetto e coccolato garantendogli libertà e opportunità ma su tutte una sfacciata impunità, costruita mettendo a libro paga anche i più blasonati investigatori che dovevano perseguirlo, ma poi anche lì la rete di protezione si è sfaldata e il mafiomanager aveva preferito eclissarsi.
In passato ha schivato un’accusa di droga e il coinvolgimento in due omicidi di mafia. Ha dosato mezze ammissioni inevitabili, provando sempre a scrollarsi di dosso l’accusa di essere la longa manus economica della mafia, l’ha buttata in politica, provando ad allontanare i sospetti dall’imprenditore che gli avrebbe fatto da prestanome per Kartibubbo, tirando in ballo semmai amministratori corrotti per le autorizzazioni. Il villaggio, acquisito definitivamente dallo Stato, è oggi un esempio di gestione fruttuosa dei beni confiscati, soprattutto di fronte allo scandalo della lobby delle amministrazioni giudiziarie che hanno mandato in rovina aziende sventolando la bandiera di una legalità posticcia.
La storia di Vito Roberto Palazzolo che in Sudafrica ha costruito un impero, in gran parte ora in mano ai figli, ha molte zone d’ombra che ne hanno accresciuto la fama e la reputazione di potente. La paura di volare che il 5 maggio del 1972 lo spinse a chiedere ad Armando Pappalardo di sostituirlo deve averla superata. E di quel miracoloso scambio che gli ha risparmiato la vita non ha mai parlato. Chissà se tra le molte informazioni che costituiscono il suo capitale c’è qualcosa su quella telefonata. La commissione antimafia, se davvero ha intenzione di andare a fondo su quella strage dimenticata, potrebbe intanto chiedergli di rinfrescarsi la memoria.
MISTERI ITALIANI. Montagna Longa: l’Antimafia apre il dossier sulla strage aerea di 50 anni fa. Acquisita la relazione dell’esperto che per Montagna Longa accredita la tesi dell’attentato. Il sospetto di una bomba neofascista alla vigilia delle politiche del maggio 1972. Al caso lavora anche il giudice Guido Salvini. Le connessioni tra i “neri” e Cosa nostra ignorate dai magistrati. Enrico Bellavia su L'Espresso il 22 agosto 2022
Cinquant’anni e un unico rovello. Che la verità ufficiale fosse solo un frettoloso colpo di spugna per cancellare la memoria di una strage. Come spesso accade nel Paese che lascia infiniti conti aperti con la memoria, sono i dettagli a fare la differenza. Crepe nel muro che si vorrebbe granitico a difesa del non detto. E che con la caparbia tenacia di pochi e isolati resistenti, al contrario, si sbreccia, si incrina e potrebbe anche crollare, se solo si avesse la forza di fare i conti con il passato.
Montagna Longa, la strage senza nome in attesa di giustizia. Furono centoquindici le vittime nel disastro aereo di quel 5 maggio 1972. “Fu una bomba”, giura un esperto. E un libro rilancia la tesi del dossier Peri rimasto nei cassetti per 50 anni. Enrico Bellavia su L'Espresso il 7 febbraio 2022
Rimane lì, nel fondo buio dei misteri italiani. Nascosta nell’anfratto più oscuro della caverna nella quale volteggiano i fantasmi della Repubblica. La resa della giustizia che nelle tenebre l’ha ricacciata ha un termine inaccettabile per chi la verità l’aspetta da mezzo secolo: «Cestinare». Così, due anni fa la magistratura di Catania, la stessa che all’inizio di questa storia aveva celebrato un inutile processo senza colpevoli, ha dato l’ultimo colpo di spugna su una piaga che rimane aperta per 98 orfani e 50 vedove di quella tragedia.
Montagna Longa, il primo e più grave disastro aereo dell’aviazione civile italiana, prima di Linate. Centoquindici vittime, 108 passeggeri e 7 donne e uomini di equipaggio, sulla cresta di una montagna di 935 metri a cinque miglia dall’aeroporto di Punta Raisi, Cinisi, Palermo.
Tra poco saranno cinquant’anni da quel 5 maggio 1972. Venerdì, ore 22,24, il Dc 8 Antonio Pigafetta dell’Alitalia, anno di costruzione 1961, sigla I Diwb, volo AZ 112, in avvicinamento dopo un’ora e più di viaggio da Roma, manca l’atterraggio e rovescia un carico di vite innocenti sul crinale delle rocce che guardano l’abitato di Carini. Come nel più abusato dei copioni italiani, convenne a tutti attribuire la responsabilità ai piloti. L’errore umano, nient’affatto certo ma solo «verosimile», recita la sentenza del 1984, era il comodo tappeto sotto al quale nascondere, dubbi, interrogativi, sospetti. E così, anche dopo cinquant’anni, Montagna Longa rimane una strage, innominabile però come tale. Contro ogni evidenza logica e le tante, troppe, incongruenze, confinate da indagini carenti o inesistenti, nell’indistinto delle congetture.
Eppure, non sono ipotesi quelle dell’ingegnere Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’università di Palermo che nel 2017 dimostrò, elementi scientifici alla mano, che l’aereo era caduto per una bomba. «A bordo del velivolo durante il volo AZ 112 si è attuata una detonazione, esplodente prima e deflagrante dopo, che ha causato un’avaria irreversibile all’impiantistica di governo del velivolo causandone il collasso operativo e il conseguente disastro», scrisse.
Neanche allora, quando la corposa relazione di Marretta, ingaggiato dall’associazione dei familiari delle vittime, arrivò sulla scrivania della procura di Catania insieme con un’istanza che sollecitava nuove indagini, il pm si mise al lavoro. Anzi, giudicando che sarebbe stato difficile capire chi avesse messo la bomba a distanza di così tanti anni, non formulò neppure un’ipotesi di reato e rinunciò ad accertare se davvero di un ordigno si era trattato. Strano modo di procedere. Come dire: se non puoi trovare tutta la verità, evita di cercare ciò che puoi. Di illuminare con un fascio di luce anche solo un angolo di quell’antro.
Se a Pavia avessero fatto così, adesso penseremmo ancora che Enrico Mattei, il patron dell’Eni, non morì in un attentato ma fu vittima di incidente.
Nonostante tutto, sottotraccia, il rovello di quel che è stato cammina nella coscienza, spesso sorda, di un Paese per il resto indifferente. Così, proprio sulla strage dimenticata si è riaccesa l’attenzione. Merito di due pubblicazioni. Una è la relazione di Marretta, ora comparsa sotto forma del dossier scientifico sotto il titolo “Unconventional aeronautical investigatory methods. The Case of Alitalia Flight AZ 112” per Cambridge Scholars Publishing. L’altra è un libro che ripercorre la storia del decennio in grado di ipotecare ancora il futuro italiano. “Settanta” è il romanzo verità, «un lavoro di restauro della memoria», che Fabrizio Berruti, giornalista e autore televisivo, ha appena pubblicato per Round Robin. I Settanta sono gli anni del fango e dell’intreccio. Delle trame mafiose e del terrorismo nero. Dell’impasto che teneva attaccati i due poteri criminali al cemento delle mefitiche misture dell’Ufficio affari riservati del Viminale, quello di Federico Umberto D’Amato, il manovratore della tensione, l’architetto del terrore, utile a stabilizzare il Paese, consolidarne il baricentro centrista e scongiurare pericolose derive a sinistra.
E in quegli intrighi, Berruti si addentra, ricostruendo la vita, il lavoro e il destino di Giuseppe Peri, il vicequestore che consumò carriera e esistenza con un rapporto, anche questo dimenticato come il suo autore, ultimato nel 1977 e ripubblicato in fondo al volume.
La prima edizione la si doveva all’Istituto Gramsci con il volume “Anni difficili”, curato nel 2001 da Leone Zingales e Renato Azzinnari, mentre intorno alla strage, accanto alle ricostruzioni giornalistiche, poche, ci sono anche il romanzo “Sogni d’acqua” di Eduardo Rebulla, (Sellerio, 2009) e “L’ultimo volo per Punta Raisi”, di Francesco Terracina (Stampa Alternativa, 2012).
Come già aveva scritto l’agenzia internazionale di stampa Reuters all’indomani dello schianto, Peri, che aveva cominciato a indagare sul sequestro di Luigi Corleo, suocero dell’esattore siciliano Nino Salvo, accreditò l’ipotesi della bomba a bordo dell’aereo, piazzata dai terroristi neri in combutta con Cia e servizi: Stefano Delle Chiaie, er Caccola, che nel romanzo di Berruti diventa lo Scrondo e Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio, che in “Settanta” è il Comandante. Poi c’è Alberto. Che è Alberto Stefano Volo, controverso neofascista, che rivelò di essere stato preventivamente avvertito dai camerati della bomba e di aver salvato un’hostess con la quale aveva una relazione. Il nome di Volo, il preside nero, era ben noto al giudice Giovanni Falcone che da lui ricevette alcuni degli elementi che lo convinsero ad accreditare la pista nera per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, (6 gennaio 1980), il fratello del capo dello Stato. Il giudice Falcone coltivava Volo come fonte, senza mai assegnargli il bollo di attendibilità, e, prima di essere ucciso nel 1992, lavorava all’articolazione siciliana di Gladio, la struttura paramilitare anticomunista, eterodiretta dagli americani che fa capolino insieme alla mafia dietro la lunga stagione di sangue in Sicilia.
Se questo è il contesto in cui la strage di Montagna Longa si colloca, sul filo degli anni sono mille gli indizi trascurati. La magistratura portò a giudizio soltanto il direttore dell’aeroporto e alcuni tecnici dell’aviazione civile, accusati di non aver sostituito con un faro elettrico a terra il radiofaro di riferimento che giorni prima era stato trasferito. Una premessa funzionale alla teoria dell’errore umano, risolta con l’assoluzione di tutti in Cassazione. E così la sentenza liquidò anche le legittime invettive sulla sicurezza di un aeroporto collocato in un posto sconsigliabile, Cinisi, eppure utilissimo per i traffici delle famiglie criminali con addentellati nei palazzi del potere romano che regnavano incontrastate nel golfo di Castellammare. Punta Raisi era già l’hub della droga a fiumi che dalle raffinerie tra Palermo e Trapani prendeva il volo per gli States facendo ricchi i vaccari alla Tano Badalamenti che da un giorno all’altro si ritrovarono imprenditori.
Che Montagna Longa non fosse stato un incidente lo avevano ben chiaro i testimoni che avevano visto volare quell’aereo avvolto da bagliori che erano fiamme, prima di sparire dietro la montagna. Lo suggerivano i corpi dei passeggeri senza scarpe. Lo palesavano i reperti, come quella borsa che sembrava divelta da una forza che l’aveva squadernata dall’interno. Lo avrebbe potuto dire quel che restava dei corpi, se si avesse avuto voglia di interrogarli per rintracciare tracce di esplosivo. Lo avrebbe raccontato una investigazione attenta sul perché il nastro della scatola nera fosse strappato nel punto in cui avrebbe dovuto raccontare quel che era accaduto. E invece non fu fatto nulla. La commissione ministeriale, voluta dall’allora ministro dei Trasporti Oscar Luigi Scalfaro, fu nominata con decreto il 12 giugno ’72 e il 27 dello stesso mese aveva già concluso i propri lavori. Il generale Francesco Lino che la presiedeva, tuttavia, si lasciò uno spiraglio scrivendo di «una situazione particolare determinatasi all’interno della cabina di pilotaggio per l’intervento di persone estranee oppure di una avaria che possa avere distolto per quasi due primi l’equipaggio». Anche le perplessità dell’Anpac, l’associazione dei piloti civili, furono liquidate. Il curriculum esemplare del comandante Roberto Bartoli e quelli del vice Bruno Dini e del tecnico motorista, anche lui brevettato, Gioacchino Di Fiore, insozzati dall’infittirsi di calunnie sulla loro inadeguatezza.
L’ingegnere Marretta, al contrario, ha una spiegazione per ciascuno di quegli elementi.
L’ultima comunicazione di Bartoli riporta indietro l’orologio di 273 secondi prima delle 22,24, quando l’aereo lascia i 5mila piedi e annuncia la virata, che lo porterà di fronte alla testa della pista 25.
«Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5.000 e riporterà sottovento, virando a destra, per la 25 sinistra». Queste le sue parole alla radio. Poi il buio.
La bomba, a bassa intensità, «grande quanto un pacchetto di sigarette», era collocata verosimilmente vicino al bocchettone di rifornimento dell’ala destra. Lo scoppio destabilizzò l’aereo, costrinse il comandante a una disperata «manovra a semicardiode tridimensionale in discesa», scaricando il carburante che già fuoriusciva per lo scoppio, e tentare comunque l’atterraggio. Da qui le fiamme, i passeggeri scalzi e il perché solo metà del moncone più integro, quello di coda, è bruciato.
La manovra non riuscì. Ma, d’altra parte, sostiene Marretta, se l’aereo si fosse schiantato con tutto il proprio carico di cherosene sul crinale della montagna, avrebbe ridotto in cenere ogni cosa, lasciando tracce persistenti, di «vetrificazione silicea», del nulla che il calore impone alla terra. «Un effetto Napalm».
E la scatola nera? Non racconta nulla perché era stata manomessa ad arte. Sembrava funzionare e invece era inceppata. E le spie non segnalavano anomalie. Perché se si fosse rotta accidentalmente, allora il guasto sarebbe stato rilevato e avrebbe imposto il fermo dell’aereo.
La bomba, secondo il vicequestore Peri, era un attentato dimostrativo. Doveva scoppiare ad aereo fermo. Il ritardo con cui viaggiava, sosteneva il poliziotto, causò invece l’esplosione in volo.
Ma perché una bomba? Il 5 maggio del 1972 era l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni politiche. Abbastanza perché i mestatori che avrebbero punteggiato ogni snodo democratico con il tritolo, si mettessero all’opera. Siamo a un anno esatto dalla morte del procuratore di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971) e a un anno e mezzo dal golpe Borghese (notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970).
Su quell’aereo tornavano per votare molti siciliani che vivevano fuori per lavoro.
C’era il medico del bandito Giuliano, Letterio Maggiore, il regista Franco Indovina che con Francesco Rosi lavorava sulla fine di Mattei, Lidia Mondì Gagliardi, prima passeggera del volo inaugurale dell’aeroporto di Punta Raisi, nel 1960, il figlio dell’allenatore della Juventus Cestmir Vicpaleck che morirà proprio il 5 maggio di trent’anni dopo. E c’era Ignazio Alcamo, consigliere di corte d’Appello e presidente della sezione misure di prevenzione che pochi giorni prima aveva inflitto il soggiorno obbligato a Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca e moglie di Totò Riina. Proprio per la presenza di Alcamo, le indagini finirono a Catania. C’era anche Angela Fais, la giornalista de L’Ora e Paese Sera che sulle trame nere aveva a lungo lavorato raccogliendo gli sforzi di un collega, Giovanni Spampinato, corrispondente de L’Ora da Ragusa, poi ucciso proprio da un camerata il 27 ottobre dello stesso anno.
Se Montagna Longa agita ancora le coscienze di qualcuno nel sonno dei pm che da Palermo, a Caltanissetta e fino a Catania, hanno alzato bandiera bianca, lo si deve alla tenacia di Maria Eleonora Fais, la sorella di Angela. Fu lei a incaponirsi per rintracciare il rapporto Peri, incredibilmente mai preso in considerazione dai giudici di Montagna Longa. Lo chiese a Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala che rintracciò il numero di protocollo nel 1991. L’originale lo tirò fuori nel 1997 Antonio Silvio Sciuto, che sedeva nella stessa poltrona del magistrato ucciso in via D’Amelio nel 1992. Con il rapporto in mano e il racconto aggiornato di Volo, Maria Eleonora Fais, combattente orgogliosamente comunista, amica del segretario regionale del Pci Pio La Torre, chiese l’apertura di nuove indagini. A distanza di anni, con l’associazione che continua il suo impegno dopo la sua morte avvenuta nel 2016, rintracciò anche un video originale con le immagini della tragedia, un filmato che racconta molto delle conclusioni cui è poi giunto Marretta. E a Catania arrivò anche l’istanza del fratello di una delle vittime, Antonio Borzì, la cui figlia Erminia insieme allo storico Giuseppe Casarrubea e all’avvocato Ernesto Pino, in una foto rintracciò segni che sembravano di proiettile di grosso calibro in un’ala dell’aereo. Ipotizzavano che fossero partiti durante un’esercitazione aerea avvenuta quella notte: uno scenario simile a quello della strage di Ustica.
L’associazione dei familiari di Montagna Longa, con Ilde Scaglione e Ninni Valvo, orfani della strage, ha insistito ancora, forte della consulenza di Marretta e, prima ancora, della perizia medico legale di Livio Milone, dicendosi disposta alla riesumazione dei corpi. Ha tentato anche la carta della richiesta di avocazione dell’inchiesta alla procura generale sostenuta dall’avvocato Giovanni Di Benedetto, ma è stata rimbalzata ancora. Perché Montagna Longa da quella caverna dei misteri non deve uscire.
Di nuovo contro il terrorismo, nasce il mito degli uomini del generale. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI, su Il Domani il 10 settembre 2022
Sono invisibili. Si spostano su auto con targhe false, affittano appartamenti sotto falsa identità, lavorano in società con nomi falsi. Nasce il mito degli «uomini di dalla Chiesa». Colpiscono all’improvviso, irrompono nei covi brigatisti, arrestano, interrogano, strappano confessioni. C’è una parte dell’Italia che applaude e un’altra parte che grida contro l’«attentato alla Costituzione».
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Neanche un mese dopo, il 16 marzo, rapiscono il presidente della Dc Aldo Moro.
È un altro momento decisivo per l’Italia. I comunisti stanno per entrare nella maggioranza di governo, Moro è l’artefice della svolta politica, qualcuno vuole fermare il cambiamento con il più simbolico dei messaggi. Cinquantacinque giorni di dramma e di sospetti e poi il presidente è ritrovato cadavere nel bagagliaio di una Renault, nel centro di Roma, quasi a metà strada fra le sedi del Pci e della Dc. Sono le Brigate Rosse che ritornano.
Torna anche Carlo Alberto dalla Chiesa. A fine della primavera del 1978 viene ricostituito il suo Nucleo Speciale Antiterrorismo. L’incarico gli arriva da Giulio Andreotti.
Ha carta bianca. Deve rispondere solo al capo del governo e al ministro degli Interni Virginio Rognoni. Sceglie 150 uomini, i migliori.
Si rivolge a loro così: Da oggi nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa, io vi ordinerò dove andare e cosa fare. Il Paese è terrorizzato dai brigatisti. Da oggi saranno loro che devono cominciare ad avere paura di noi e dello Stato.
Sono invisibili. Si spostano su auto con targhe false, affittano appartamenti sotto falsa identità, lavorano in società con nomi falsi. Nasce il mito degli «uomini di dalla Chiesa». Colpiscono all’improvviso, irrompono nei covi brigatisti, arrestano, interrogano, strappano confessioni. C’è una parte dell’Italia che applaude e un’altra parte che grida contro l’«attentato alla Costituzione». La sfida di Carlo Alberto dalla Chiesa al terrorismo è all’ultimo sangue.
Serve lo Stato ma sono in molti a ritenerlo fuori dalle regole dello Stato. Gli chiedono un intervento «straordinario» per salvare le istituzioni ma poi gli danno del fascista. Il temperamento non lo aiuta. Al contrario alimenta diffidenze, invidie, risentimenti. Nell’Arma, nonostante migliaia di carabinieri lo considerino un «eroe», è tenuto alla larga quasi fosse un corpo estraneo. Diffidano di lui e delle sue milizie «private».
Lo Stato lo usa e lo scarica. Lo richiama un’altra volta e poi se ne sbarazza. E non è ancora finita.
Dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, continua la «guerra».
Uccidono altri giudici, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, operai che denunciano i terroristi in fabbrica.
I carabinieri di dalla Chiesa smembrano le «colonne» delle Br una per una. Arrestano Patrizio Peci – che poi si pentirà – e irrompono in via Fracchia, a Genova, dove trovano un deposito di armi e documenti. Nello scontro a fuoco, muoiono quattro brigatisti. Vittorie su vittorie che però si trascinano dietro sempre misteri, dubbi su quelli che ormai vengono riconosciuti come «eccessi».
Il generale è travolto da un ciclone.
A Genova scopre una trentina di fiancheggiatori – fra loro c’è anche un famoso docente di Lettere Antiche – ma la magistratura smonta la sua indagine. Il generale fa scalpore al 166° Anniversario dell’Arma con un discorso sull’«ingiustizia che assolve».
Non lo difende lo Stato che lo manda a combattere. E lo attaccano dall’altra parte. Lui è in mezzo, fedele alle istituzioni di un’Italia felpata, prudente, volubile.
Dentro si sente ancora il giovane capitano sceso in Sicilia trent’anni prima a combattere i mafiosi di Corleone. Con lo stesso sentimento, lo stesso ardore di quando dava la caccia agli assassini di Placido Rizzotto.
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Sospetti e ombre sul caso Moro, i dossier e i misteri di un covo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 settembre 2022
I magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli. Trovano gli elenchi della loggia P2. Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso»...
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982. È soprattutto un’operazione speciale nei covi brigatisti a segnare la storia degli anni del terrorismo e forse la stessa sorte di Carlo Alberto dalla Chiesa. È la scoperta di un nascondiglio, quello di via Monte Nevoso, a Milano.
Aldo Moro è stato ucciso da sei mesi quando un capitano dell’Antiterrorismo viene a sapere che il brigatista Lauro Azzolini è rifugiato lì, in via Monte Nevoso. Il 1° ottobre del 1978 i carabinieri lo fermano, nel covo c’è anche la nuova compagna di Curcio, Nadia Mantovani. Nell’appartamento trovano le lettere di Aldo Moro scritte durante la prigionia brigatista.
È il «memoriale» del presidente della Dc rapito dalle Br. Il generale consegna le carte al capo del governo, Giulio Andreotti, dal quale dipende direttamente per decreto. Tutte? Le consegna tutte?
È questo il sospetto che comincia a circolare in Italia: dalla Chiesa ha tenuto per sé alcune lettere, come arma di ricatto contro Andreotti e altri uomini politici italiani.
Allusioni che si rincorrono per anni, che raccontano di un dalla Chiesa intento a trafficare con i dossier, custodire segreti per uso estorsivo, a minacciare il tempio del potere italiano con le carte di Moro.
Qualcuno – il giornalista Mino Pecorelli – dice anche che i «memoriali» sono più di uno e che la vita del generale è in pericolo. Ma è Pecorelli che nel marzo 1979 muore ammazzato.
Che cosa è realmente avvenuto in via Monte Nevoso? Chi spande veleni intorno al cadavere di Aldo Moro?
Carlo Alberto dalla Chiesa, probabilmente, è a conoscenza di retroscena indicibili sul «caso Moro». I misteri del covo di via Monte Nevoso serviranno a qualcuno come movente o come alibi per liberarsi in futuro del generale.
Nel 1980 è a Milano, comandante della Divisione Pastrengo.
Gli «anni di piombo» stanno per finire. I brigatisti sono isolati nel Paese, la repressione è durissima, il generale ha quasi concluso il suo compito.
È sempre a Milano quando, all’inizio dell’anno successivo, i magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli.
Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso».
Dopo aver ceduto agli inviti di Franco Picchiotti, il suo ex vicecomandante, dalla Chiesa qualche mese dopo ha chiesto di non voler più entrare nella loggia. Ma la notizia del suo coinvolgimento nella P2 filtra subito, anche se non è nell’elenco, confuso con tutti gli altri.
Il generale è disperato. Lui in mezzo a quella teppa. Golpisti. Ladri di Stato. Amici dei mafiosi. È fuori di sé, si vergogna.
Convocato come testimone dai giudici milanesi racconta dell’incontro con Picchiotti del 1976, della sua curiosità verso quella loggia fin dai primi anni dell’Antiterrorismo – quando ha incrociato alcuni «neri» in contatto con la P2 –, del suo pentimento per essersi piegato alle pressioni dell’ex vicecomandante. Tutti i documenti sulla P2 vengono pubblicati il 7 maggio 1981.
Lo scandalo è enorme. Ricominciano gli attacchi contro dalla Chiesa anche se lui nella lista non compare.
I più duri arrivano ancora una volta dall’interno dell’Arma.
È il Comandante Generale, Umberto Cappuzzo, uno di quelli che non l’ha mai sopportato, a invitarlo «a farsi da parte».
Il governo fa quadrato intorno al generale. Alcuni uomini politici lo stimano, uno di loro è Bettino Craxi. Ma i suoi superiori si accaniscono, cercano di convincere il ministro della Difesa Lelio Lagorio e quello dell’Interno Virginio Rognoni. Vogliono cacciarlo dall’Arma. Non ci riescono. Alla fine del 1981 ne diventa vicecomandante. Come suo padre Romano nel 1955
DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI
Gianni Riotta per “la Repubblica” l'8 settembre 2022.
È ancora oggi possibile, fra premi letterari e festival del cinema, in Parlamento, nei giornali, centri studi e università, imbattersi in sussiegosi signori o distinte docenti che, impegnati al cellulare, non vi lasciano immaginare di esser stati, da giovani, killer, terroristi, complici di rapine, rapimenti, torture e stragi negli anni di piombo in Italia. Questa radicale amnesia, frutto delle intese fra leader politici del tempo, servizi segreti, interni e internazionali, militanti sbandati di destra e sinistra angoscia il formidabile saggio dello storico Miguel Gotor Generazione Settanta, Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982, Einaudi.
Nato nel 1971, alba della stagione che esamina, Gotor, già senatore e oggi assessore alla Cultura a Roma, è noto per i libri sul rapimento di Aldo Moro, che dimostrano come quella tragedia, a sua volta cancellata dalla coscienza nazionale per non scandalizzare i partner delle Brigate Rosse nell’establishment, abbia avvelenato il paese.
Generazione Settanta evoca altri fantasmi, lo scrittore alla moda indicato nel commando BR alla strage di Via Fani 1978, l’attore Volontè in barca con il latitante Scalzone, capo di Potere Operaio, “la fonte Como” infiltrata in Lotta Continua che una lettera anonima thriller, dall’Accademia dei Lincei, dirà a Gotor, nel 2021, di cercare a Napoli, l’ambigua rivendicazione dell’assassinio di Calabresi sulla rivista Quaderni Piacentini, con lo pseudonimo “Marcello Manconi”.
In un episodio, degno di un film del maestro noir Francesco Rosi, «l’8 agosto 1974 nell’inceneritore di Fiumicino, per ordine del ministro della Difesa Andreotti e alla presenza del generale Maletti (capo dei servizi segreti Sid, poi latitante in Sud Africa, ndr), bruciarono fino a tarda sera circa 128000 dossier raccolti dal Sid nei vent’anni precedenti: i fascicoli del generale De Lorenzo riguardanti uomini politici, prelati, imprenditori, avvocati, intellettuali e sindacalisti (le cosiddette «schedature del Sifar»), ma anche i documenti più imbarazzanti relativi al golpe Borghese. Un gran rogo purificatore («c’erano tutte le cosiddette malefatte del Sid. La nostra fu un’opera di depurazione. E di autotutela», ammise Maletti) che segnò — simbolicamente nella sua feroce praticità — uno spartiacque tra un prima e un dopo, e l’inizio di un’altra storia».
L’Italia è allora un paese contraddittorio, capace di passare dalle rovine della guerra nel 1945 alla Dolce Vita di Fellini 1960, con il boom economico. Ma il benessere è fragile, nel 1951 appena 140.000 studenti arrivavano all’Università, riserva delle famiglie bene, e se nel 1967 erano saliti a ben 3.400.000, i laureati aumentarono solo di 9000 unità, con le matricole disperse da baroni intrattabili e dal bisogno di lavorare.
La rabbia della “gioventù assurda”, come l’aveva definita nel 1960 lo studioso Paul Goodman, accomuna gli studenti in assemblea a Roma, Torino, Trento, Pisa, Palermo ai coetanei di Berkeley e Sorbona, in una protesta libertaria che guarda al filosofo Marcuse e al sociologo Wright Mills. Ma «tutte le promesse e tutte le speranze per un mondo d’amore», come cantavano Gianni Morandi e Joan Baez, avvizziscono quando membri di Potere Operaio di Piperno, sotto la spinta di Morucci e Fioroni, e di Lotta Continua di Sofri e De Luca confluiscono nel terrorismo con le BR di Curcio e Prima Linea di Segio.
La deriva tra l’Italia che sognava riforme e diritti civili e la nazione vassalla della Guerra Fredda che sprofonda nella paura data dal 12 dicembre 1969, giorno della strage di Milano coordinata fra neofascisti e intelligence, italiana e no.
Quello stesso giorno, ricorda amaro Gotor, il Senato aveva approvato, in prima lettura, lo Statuto dei Lavoratori, frutto delle lotte sindacali che finalmente assicurava agli operai garanzie in fabbrica.
Da lì il saggio segue, sgomento, il tentativo fallito del leader Dc Aldo Moro e del segretario comunista Enrico Berlinguer, affiancati dal repubblicano Ugo La Malfa, di un compromesso per sbloccare la nostra democrazia, con il Pci, finanziato dall’Urss e ostinato nel votare contro gli accordi valutari europei SME e sulla sicurezza, a non poter guidare un governo Nato.
La sorte di Moro, trucidato dalle BR con Cia, Kgb, Mossad, servizi francesi e arabi in regia, e la fine di Berlinguer nel 1984, dopo un attentato subito nel 1973 da parte dei sovietici in Bulgaria, accomunano i due politici in un’aura da martiri che rischia di offuscarne il vero valore storico. Gotor precisa: se per Moro il “compromesso” era tattico, fino a che il Pci non fosse diventato democratico, per poi passare a un’alternanza di tipo occidentale, per Berlinguer era storico, cattolici e comunisti uniti.
Stragi fasciste, odio Br, lobby massoniche P2, servizi impedirono quel percorso, fino ai massacri di Brescia e Italicus, 1974, Bologna e Ustica 1980. L’autore sembra scettico, invece, sul socialista Bettino Craxi, giudicandolo forse dagli esiti degli anni Novanta, mentre nel periodo esaminato il segretario Psi, dalla trattativa su Moro alla svolta del partito, svolse un ruolo autonomo, cui forse il Pci avrebbe dovuto offrire diversa attenzione.
Le due Italie, quella del progresso e quella della violenza, si affrontano irriducibili, con il commissario Calabresi, con il magistrato Alessandrini, con il giornalista Tobagi, con l’avvocato Ambrosoli, l’operaio Rossa e tanti altri a cadere per la Repubblica, mentre Gianni Agnelli e Luciano Lama varano accordi storici sulla scala mobile pur di allentare la tensione, imprenditori geniali tengono su l’economia con l’export, il diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, il voto a 18 anni, artisti come Eco e Calvino cambiano il paese.
Le legioni della violenza però, in tacito accordo con frange cattoliche, incluso l’ex presidente Cossiga, perseguono l’amnesia modello inceneritore, con Sofri e Curcio, reduci dagli anni di prigione, a predicare che «La verità dei fatti… non sia la verità» perché «Ci sono tante storie di questo Paese che vengono taciute, che non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio, come piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in un certo modo e che, per ventura della vita, nessuno può dire come sono veramente andate... C’è stata una sorta di complicità tra noi e i poteri che impedisce a noi e ai poteri di dire come è veramente andata». Se milioni di figli e nipoti non crederanno dunque alla Repubblica dei padri, al voto del 25 settembre, lo dovremo ancora a questa occhiuta omertà che Miguel Gotor, con passione etica, combatte.
L’archetipo dei misteri d’Italia: il caso Moro secondo Marcello Altamura. Gianluca Zanella l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.
L’Italia rappresenta senza dubbio un caso particolare, se messo al confronto quanto meno con i Paesi dell’Unione europea, ma probabilmente sarebbe in grado di giocarsela anche in un campionato mondiale, se ne esistesse uno dedicato ai misteri irrisolti. Senza andare a scavare troppo nel passato, pensiamo a stragi come quella di Portella della Ginestra, alle bombe di Piazza Fontana e della stazione di Bologna; pensiamo a omicidi come quello del giornalista Mino Pecorelli o del carabiniere Antonio Varisco; a disastri come quello di Ustica o a casi di cronaca nera come quello del Mostro di Firenze. Possiamo dirlo senza timore di smentita: l’Italia il mistero ce l’ha nel sangue. Esiste un lato oscuro insito nel nostro tessuto sociale, politico, nel nostro essere parte di una nazione che spesso, troppo spesso, ha difficoltà a fare i conti con se stessa. Ma se volessimo trovare l’archetipo di tutti i cold case nostrani, il crocevia che ha segnato un prima e un dopo nella nostra storia repubblicana, questo è certamente il caso Moro.
La vicenda che ha visto tragico protagonista lo statista democristiano Aldo Moro, dall’eccidio della sua scorta in via Mario Fani, a Roma, la mattina del 16 marzo 1978, fino al ritrovamento del suo corpo senza vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, sempre Roma, il 9 maggio dello stesso anno, dopo 55 giorni di rapimento, non ha un epigono se non forse l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy negli Usa. Nella vicenda Moro ci sono tutti gli ingredienti della spy story: terrorismo italiano e internazionale, killer misteriosi, servizi segreti più o meno deviati, consulenti ministeriali tra luci e ombre, massoneria, Vaticano, infiltrati, criminalità organizzata e chi più ne ha, più ne metta.
Insomma, la vicenda di quello che probabilmente sarebbe diventato il presidente della Repubblica e si è invece trasformato in un martire attira su di sé da quasi 45 anni la curiosità di chi non si accontenta della verità ufficiale, che vuole attribuire la responsabilità di tutto alle Brigate rosse (per loro stessa ammissione, peraltro). Tanti i giornalisti che hanno cercato di addentrarsi in un terreno ancora oggi scivoloso. Alcuni sono irrimediabilmente inciampati e si sono persi in uno dei tanti rivoli che non portano a nulla, girando su se stessi, vittime di una particolare sindrome che può colpire solamente il giornalista che ossessivamente si metta in testa di trovare una verità univoca e granitica; altri sono riusciti a tenersi in equilibrio, avendo compreso che in questa vicenda – come nella vita in generale – non esiste il bianco o il nero. Le sfumature sono infinite.
Tra quei giornalisti che non sono rimasti inghiottiti nel labirinto degli specchi del caso Moro c’è Marcello Altamura, napoletano, che da anni dedica il suo scrupoloso lavoro d’inchiesta alla ricerca non tanto di una verità definitiva, ma di quei pezzi del puzzle che possono consentire di osservare, a distanza di tanto tempo, un quadro finalmente sensato. Autore di due importanti libri d’inchiesta – La borsa di Moro e Il professore dei misteri – e al lavoro su un terzo libro che promette di far discutere, Altamura ha sempre avuto una particolare propensione per i misteri d’Italia: “La mia è forse l’ultima generazione che si sia occupata attivamente di politica, che abbia letto i giornali con continuità. E dico questo non per dare addosso ai giovani ma per sottolineare che erano tempi diversi. L’interesse per il lato oscuro della Repubblica nasce proprio dal desiderio di comprendere la realtà che mi circondava, spiegarmi l’evoluzione di quella società in cui mi apprestavo a calarmi. Dopo tanti anni posso dire che non c’è futuro se non si conosce il passato”.
Negli anni, Altamura ha affinato la sua tecnica giornalistica, distinguendosi non solo per il rigore con cui tratta gli argomenti cui si approccia, ma anche per l’intuito che lo porta a esplorare terreni particolarmente impervi. Gli abbiamo chiesto di spiegarci il suo metodo: “Anzitutto, bisogna studiare le carte, cioè gli atti giudiziari. Questo è un lavoro essenziale ma assai complesso. Prendiamo il caso Moro: non bisogna limitarsi a scandagliare gli atti dei relativi processi (e parliamo di milioni di pagine, trattandosi di ben cinque procedimenti) ma esaminare anche altri atti di procedimenti collegati. Ci sono poi gli atti delle commissioni d’inchiesta, che per quanto riguarda il caso Moro sono tre, due dedicate più la commissione Stragi. Inoltre è fondamentale consultare la stampa dell’epoca attraverso le collezioni dei quotidiani e dei settimanali, che all’epoca disponevano di buonissime fonti informative nelle forze dell’ordine e nella magistratura. Poi c’è il lavoro diretto con le interviste, con le fonti e con i testimoni, diretti e indiretti, che sono l’asse portante di una buona inchiesta”.
Tornando al caso Moro, ci siamo chiesti per quale motivo ancora oggi eserciti un fascino (certamente oscuro) su tante persone. Altamura ci ha dato il suo punto di vista: “È una vicenda chiave per capire anche il presente del nostro Paese. Un caso complesso, che a distanza di quasi 45 anni ha ancora troppi angoli oscuri, una vicenda che si presta a più piani di lettura, tutti logici ma nessuno, sinora, risolutivo. Da giornalista d’inchiesta, questo ha esercitato un fascino irresistibile su di me ma non mi sarei ‘specializzato’ in questa branca se non avessi scoperto, andando avanti in tanti anni di ricerca, gli innumerevoli ‘buchi’ nelle indagini giudiziarie, le molteplici contraddizioni nei processi, le centinaia di testimonianze preziosissime ignorate. In sintesi, posso dire che il caso Moro per me è una perenne sfida, una ‘palestra’ lavorativa costante”.
Restando sul tema, abbiamo chiesto ad Altamura di raccontarci un aneddoto particolarmente significativo occorsogli durante il suo lavoro d’inchiesta: “Tra i miei contatti nelle forze dell’ordine che all’epoca si erano occupate del caso, conobbi un poliziotto della scientifica che aveva partecipato ai rilievi fotografici in via Fani dopo la strage del 16 marzo 1978. Mi raccontò che conviveva da troppi anni con un peso e, dopo aver acquisito la sua fiducia, mi raccontò che, dopo la strage, durante i rilievi, non aveva fotografato una borsa appoggiata sul sedile accanto a quello dove sedeva il presidente Moro nella sua Fiat 130, e che un giovane capitano dei carabinieri, in seguito, l’aveva portata via. Di quella borsa, che scoprii essere la più importante delle cinque che lo statista aveva con sé quella mattina, quella da cui non si separava mai e che conteneva documenti importanti, non se n’era saputo più nulla. Quella testimonianza, oltre ad essere uno scoop giornalistico che alcuni anni dopo la pubblicazione del mio primo libro su via Fani, La borsa di Moro, persino il Tg1 riprese, mi colpì profondamente da un punto di vista umano”.
Ma non solo la borsa scomparsa. Marcello Altamura ha concentrato i suoi sforzi di ricerca in particolare su un personaggio decisamente misterioso, ufficialmente mai coinvolto nel caso Moro: Giovanni Senzani. Il libro Il professore dei misteri è infatti un unicum nel panorama dei lavori d’inchiesta sul caso Moro. Un lavoro che ha innescato una serie di conseguenze: “La soddisfazione più grande che ho avuto dal mio lavoro – ci racconta Altamura – è stata quando, nel marzo del 2021 la procura di Roma, che sta indagando ancora sull’omicidio Moro, prelevò, insieme ad altri Dna di ex brigatisti, anche quello del professor Giovanni Senzani, ex leader delle Br, cui nel 2019 ho dedicato l’unico libro attualmente esistente. La scelta della procura di Roma ha confermato la validità del mio lavoro, definito da Miguel Gotor, storico tra i maggiori esperti del caso Moro, ‘la prova definitiva della partecipazione di Giovanni Senzani’ alla vicenda dello statista. Un riconoscimento ancor più significativo se si considera che, da un punto di vista giudiziario, il professor Senzani è stato dichiarato estraneo dal punto di vista giudiziario al caso Moro”.
La domanda a questo punto viene spontanea: arriveremo mai a capire davvero cosa sia accaduto nel corso di quei 55 giorni che hanno segnato irrimediabilmente la storia d’Italia? “È una risposta difficile, forse impossibile, da dare. Di sicuro gli anni che passano non aiutano: i testimoni diretti muoiono o invecchiano, gli inquirenti che si sono avvicendati spesso sono digiuni di conoscenze. Un assurdo gioco dell’oca dove si riparte troppe volte dal via. Per fortuna, però, c’è il giornalismo d’inchiesta, che supporta il lavoro della magistratura. E che può contribuire ad accendere una luce sui troppi angoli ancora oscuri”.
"L'abbiamo bendato e portato nella prigione del popolo": così il prete confessò Moro. Il brigatista pentito Michele Galati ha raccontato al giudice Guido Salvini come nella primavera del 1978 le Br portarono un prete per l'ultima confessione del leader dc. Marcello Altamura il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.
Un sacerdote entrò nella ‘prigione del popolo’ per incontrare e confessare Aldo Moro durante i 55 giorni in cui fu prigioniero nel 1978 delle Brigate Rosse. Lo rivela il brigatista pentito Michele Galati durante una conversazione registrata con il giudice milanese Guido Salvini, che dopo aver indagato sulle stragi di Piazza Fontana e di Piazza Loggia, ha ricoperto l’incarico di consulente della Commissione parlamentare dedicata al rapimento e all’omicidio dello statista, organismo che ha cessato i suoi lavori nel 2018.
Nella conversazione col magistrato, che IlGiornale.it è in grado di svelare per la prima volta, Galati parlando della trattativa imbastita dal Vaticano per liberare Moro, indica in Don Antonello Mennini, nel 1978 viceparroco della chiesa di Santa Lucia a Roma, il sacerdote che incontrò lo statista
Galati – ... se lei vuole... Non lo dirò mai in Commissione... (Ride), però a lei glielo dico. Il prete è entrato, no?
Dott. Salvini – Mennini?
Galati – Eh sì.
Dott. Salvini – Anch’io son convinto che... Mennini...
Galati – No, no, no, io lo so di sicuro che lui è entrato, ha fatto la... la Comunione. So anche come è entrato.
Il brigatista, infatti, racconta anche le modalità dell’incontro: il sacerdote viene prelevato a Roma, bendato in maniera da non vedere né il percorso fatto né l’ubicazione della ‘prigione del popolo’. Una dinamica molto simile a quella rappresentata nel film Il caso Moro di Giuseppe Ferrara. Galati, inoltre, aggiunge un particolare rilevante: il religioso entrò nella ‘prigione del popolo’ attraverso un garage.
Galati – ... in quel periodo lì, era il 16 marzo... aprile... insomma, siamo lì. È entrato con solo... con gli occhiali scuri e... e i cerotti, sugli occhi. Cioè, l’hanno preso...
Dott. Salvini – Ah!
Galati – ... l’hanno messo...
Dott. Salvini – Cioè, non sapeva lui in che casa andava?
Galati – No. L’hanno preso da una parte a Roma, l’hanno messo... gli hanno messo i cerotti e gli occhialoni scuri, grossi, grossi. Però da fuori non vedevi che...sì, c’era ‘sto... ‘sto... ‘sto...
Dott. Salvini – Che era cieco.
Galati – (…) sono entrati dal garage la cosa, però anche se lo vedevano era un prete. Perché sennò non c’era altro...
Dott. Salvini – Ma...
Galati – Che lui lì, è stato lì... un quarto d’ora, dieci minuti, e poi, sempre con la stessa trafila, l’han portato via.
Galati, scomparso nel marzo 2019, svela a Salvini anche la fonte della sua informazione: “Me l’ha detto Valerio”, cioè Valerio Morucci, leader delle BR condannato per la partecipazione al sequestro Moro. Nel prosieguo della conversazione, Galati conferma che il sacerdote confessò lo statista, cosciente che la sua sorte era segnata
Dott. Salvini – E ha fatto la Co... eh... l’ultima...
Galati – Mh...
Dott. Salvini – No, una Comunione, senza...
Galati – No, non ha fatto la Comunione. L’ha confessato.
Dott. Salvini – Ah.
Galati – Non... non è vero che... gli ha dato i Sacramenti.
Dott. Salvini – Perché poteva ancora salvarsi.
Nella conversazione inedita, il brigatista pentito aggiunge un altro tassello importante: la visita del religioso nella prigione del popolo era un’operazione ‘segreta’, nel senso che i vertici delle BR, soprattutto il Comitato Esecutivo nazionale, non ne erano a conoscenza. Un altro particolare che spinge Galati a precisare che non avrebbe mai fatto questa rivelazione in sede ufficiale
Galati – L’ha confessato perché lui voleva confessarsi, e... No, no, non chiedeva i Sacramenti. Hanno fatto una cosa che non lo sapeva neanche l’esecutivo.
Dott. Salvini – Una cosa privata.
Galati – Questo glielo dico a lei, e dopo questo...
Dott. Salvini – Sì, sì, e basta. Non lo dirà in... in aula, certo.
L’indiscrezione che Moro avesse incontrato un prete e che quest’ultimo lo avesse anche confessato, circolava da anni. Se ne diceva convinto, per esempio, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro degli Interni durante la prigionia di Moro, che nel 2008 indicò proprio in Don Antonello Mennini il sacerdote che aveva confessato il presidente della DC: “Raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi invece non lo scoprimmo. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò Don Mennini”. Quest’ultimo, già Nunzio Apostolico della Santa Sede in Bulgaria, Gran Bretagna e Russia, ha però sempre seccamente smentito questa circostanza. “Purtroppo non ho avuto la possibilità di confessare Aldo Moro nei 55 giorni del sequestro - disse Don Mennini in audizione davanti alla Commissione Moro nel 2015 - nella coscienza dei miei doveri sacerdotali ne sarei stato molto contento. Di un’eventuale confessione non avrei potuto dire nulla, né sui contenuti né sulle circostanze temporali e logistiche, ma non avrei difficoltà alcuna ad ammettere di essere andato nel covo delle Br. È che non ci sono mai stato”.
Ma chi era Michele Galati? E quanto sono attendibili le sue dichiarazioni? Veronese, classe 1952, Galati è stato condannato per gli omicidi del direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, Sergio Gori e del commissario della Digos di Venezia, Alfredo Albanese, compiuti nel 1980. Nel 1982 la scelta di collaborare con i magistrati diventando, assieme a Patrizio Peci, uno dei primi pentiti delle Brigate Rosse, di cui è stato esponente apicale della colonna veneta.
Le sue rivelazioni, dettate all’allora giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni e ai carabinieri dell’Anticrimine di Padova, struttura legata al generale Dalla Chiesa, portano all’arresto di circa quaranta tra militanti e fiancheggiatori dell’organizzazione ma soprattutto squarciano per la prima volta il velo su due degli elementi più controversi della storia delle Brigate Rosse: il cosiddetto Superclan, il gruppo fondato da Corrado Simioni che si iscrisse dalle BR nei primi anni ’70, e soprattutto Hyperion, la scuola di lingua con sede principale a Parigi sospettata di essere una centrale del terrorismo internazionale ‘gestita’ dai servizi segreti di mezzo mondo. Non solo: Galati è stato il primo a parlare dello scambio di armi, avvenuto nel 1979 e gestito direttamente dal leader brigatista Mario Moretti, avvenuto tra le BR e l’OLP, l’organizzazione per la liberazione della Palestina.
Nei suoi innumerevoli verbali, Galati regala spesso rivelazioni importanti che sono state sistematicamente sottovalutate o addirittura ignorate. È il caso di un verbale ‘dimenticato’ dei primi anni ’80, in cui il brigatista veneto fornisce informazioni preziose sulla dinamica della strage di via Fani. Informazioni preziose ma, incredibilmente, sottovalutate o addirittura ignorate. Il 22 marzo 1983, davanti al giudice istruttore Rosario Priore, racconta di aver partecipato nel novembre del 1979 a una riunione organizzativa per una rapina all’Ospedale Civile di Venezia. Erano presenti, racconta Galati, ‘pezzi da 90’ delle BR come Mario Moretti e Nadia Ponti ma anche Livio Baistrocchi e Francesco Piccioni.
A proposito delle difficoltà che sarebbero potute sorgere nell’azione, con le quattro guardie giurate dell’ospedale che avrebbero potuto aprire il fuoco, Moretti si rivolse ad alcuni compagni, tra i quali Baistrocchi, dicendo: “Anche a via Fani uno ci era scappato ma quelli di riserva lo hanno steso”. Il riferimento è all’agente Raffaele Iozzino, che scese facendo fuoco dall’Alfetta di scorta di Moro, prima di essere falciato dal fuoco brigatista. Ma che cosa voleva dire Moretti quando parlava di membri “di riserva” del commando? E quei soggetti, evidentemente sino ad oggi non identificati, erano organici alle BR? O erano elementi esterni? E sono proprio “quelli di riserva” i due che un testimone della strage, l’ingegner Alessandro Marini, vede far fuoco sull’agente Raffaele Iozzino, uscito dall’Alfetta della scorta di Moro?
Michele Galati non ha partecipato all’azione di via Fani ma, per i suoi trascorsi e i suoi rapporti di vecchia data con figure di vertice dell’organizzazione, sapeva molte cose anche sull’azione del 16 marzo 1978. Particolari inediti come quello citato nella conversazione tra il brigatista pentito e il giudice Salvini, che IlGiornale.it può presentare in anteprima. Parlando della logistica dell’azione, il brigatista veneto accenna ad un covo “di appoggio”, sinora mai emerso, vicino via Fani. Un covo che sarebbe dovuto servire in caso di mancata riuscita del blitz
Galati – Secondo me invece c’era un covo alternativo, io lo so che c’era, in caso andasse male... eh... il trasporto da via Fani, però non mi risulta che fosse alla Balduina.
Dott. Salvini – Noi l’abbiamo individuato in quella zona lì. Lì vicino a via Fani, 300...
Galati – Sì, sì, lo so.
Dott. Salvini – ... 400 metri.
Galati – No, conosco la zona, è... ma più è vicino, meno è... probabile. No, ce n’era un altro, che era tenuto da...
Dott. Salvini – Cos’era, il negozio?
Galati – No, era una casa di... di un’altra... ragazza. Io ho fa... eh, mi viene in mente e glielo spiego (…) Eh... era una delle amanti di Mario.
Dott. Salvini – Le amanti di Mario.
Galati – Eh, Mario ce ne aveva parecchie, eh?, non... non si faceva scrupoli. Ehm... non me la ricordo più qual era, forse la Caterina... Non me lo ricordo. Ehm... era previsto che se tra via Fani e coso ci fosse stato qualche casino verso... via Montalcini, c’era un ricovero, una roba del genere, però temporaneo (…)
Secondo Galati, dunque, le BR avevano una casa ‘sicura’ che faceva capo a una donna vicina a Mario Moretti. Un altro dei punti oscuri di una vicenda che, dopo quasi 45 anni, riserva ancora molte sorprese.
Angelo Carotenuto Per il Venerdì- la Repubblica l'8 agosto 2022.
L’estate del 1982 passa per essere stata la più felice nelle vite di chi all'epoca aveva dai sedici anni in su. Gran parte del merito fu di un calciatore, un centravanti esile e ossuto, con un nome banale, Paolo Rossi. Reinventò la sua storia personale nel giro di sette giorni, segnò sei gol in tre partite contro Brasile, Polonia e Germania. Riscattò due anni di squalifica, portò la Nazionale a vincere il Mundial, riscrisse le cronache di un Paese. Fino al mese scorso le rievocazioni erano ovunque, tutte certe di ricordare un'Italia quarant' anni fa più pura e innocente, più candida, migliore. Diamine, erano più belle pure le canzoni: non ve la ricordate, forse, Celeste Nostalgia?
Solo che la nostalgia è celeste spesso per abuso. Mentre le pagine dei quotidiani raccontavano giorno per giorno la Caporetto del giornalismo sportivo, incapace di decifrare il misterioso valore di quella squadra, altri misteri si affollavano, più cupi, oggi rimossi.
Ce ne ricorda uno. Il sequestro Dozier - Un'operazione perfetta, docuserie in quattro puntate disponibile su Sky, prodotta da Dazzle, scritta da Davide Azzolini, Fulvio Bufi e Massimiliano Virgilio, diretta da Nicolangelo Gelormini. È la storia del rapimento da parte delle Br del generale americano, vicecomandante delle forze Nato nel Sud Europa, della sua liberazione nel gennaio 1982 e delle vicende giudiziarie successive: le accuse a un pezzo di Stato per i metodi violenti e le tecniche di tortura usate da chi condusse gli interrogatori dopo il blitz.
Mentre nelle nostre case si gridava gol, i magistrati di Padova scoperchiavano un universo parallelo in cui c'era un'altra squadra, quella dell'Ave Maria, guidata da un professor De Tormentiis, alias di un funzionario la cui identità sarà svelata molti anni dopo; c'erano un Vendicatore della Notte e brigatisti con bruciature sui genitali, sottoposti al waterboarding e false fucilazioni. «Il tema del lavoro» racconta Azzolini, «è dove si debba collocare la linea di confine tra quello che è lecito e quel che non si può fare nell'interesse della collettività. Fin dove può spingersi uno Stato? Chi se ne assume le responsabilità?».
La serie va oltre la vicenda stessa del generale Dozier. «Pensavo che non sarei sopravvissuto», dice lui nell'intervista. Pensava di finire come Aldo Moro, assassinato quattro anni prima, al termine dei 55 giorni di prigionia che seguirono la strage della scorta in via Fani. Moro è un'ombra in questa storia, come nell'estate '82.
Al processo in corso, la vedova Eleonora fece la prima apparizione pubblica per una deposizione, nel giorno in cui Sandro Pertini aveva ospiti al Quirinale i campioni del mondo. Li aveva riaccompagnati in Italia a bordo del suo aereo, giocando a scopone con Zoff, Causio e il c.t. Bearzot. Eravamo distratti dalla Coppa del mondo, mentre Eleonora Moro «invecchiata ma sorretta da una grande, grandissima, dignità» (l'Unità), confermò che il capo della scorta aveva trasmesso ai superiori la segnalazione con la targa di un'auto che li seguiva da tempo. Disse che gli agenti non erano addestrati, per questo avevano i mitra nel portabagagli, e dell'offerta di una macchina blindata da parte di Andreotti lei non sapeva niente, ne aveva letto sui giornali. Accennò in modo amaro che le era parso «esemplare del carattere e del modo di fare di Andreotti. Molte volte i magistrati sono venuti a chiederci cose. Noi rispondevamo. Loro non verbalizzavano». Le diedero delle lettere inedite. Ne fu stupita. Aggiunse che scorrerle sarebbe stato «superiore alla mia resistenza nervosa». Non guardò mai verso le gabbie dove erano prigionieri gli assassini di suo marito.
Pallone e politica. Di altri brigatisti si occupavano le cronache in quelle stesse settimane. Nel pomeriggio di Italia-Brasile, il 5 luglio, mentre si giocava il primo tempo della partita, il capo del governo Giovanni Spadolini era stato alla Camera per un'audizione drammatica e prudente al tempo stesso.
Nelle sue scarse ammissioni, aveva confermato che per liberare l'assessore regionale campano Ciro Cirillo dal sequestro dei terroristi, un pezzo dello Stato attraverso il Sismi e il Sisde era sceso a patti con la camorra napoletana di Raffaele Cutolo. Che ne parlasse mentre in città avevano ripreso a sparare, tre omicidi in un giorno, rendeva tutto più sordido. Il Pci uscì dall'aula furibondo, per «lo sdegno e l'inammissibile copertura di uno scandaloso affare di rapporti omertosi». Quattro giorni prima, Spadolini era volato a Barcellona per stare un po' con i ragazzi della Nazionale.
Si vantava in quel mese di portare fortuna.
Se li avessimo ammazzati Così, la serie su Dozier pone a chi vuole sentirsela porre la domanda se non ci sia stato un doppio registro: da un lato la liberazione a ogni costo del generale della Nato, con una taglia di due miliardi di lire, e l'indicibile trattativa con la malavita per un assessore locale; dall'altro la linea della fermezza per il presidente della Dc. A parità di sequestratori e di protagonisti in campo, la differenza nell'epilogo sta nel sequestrato.
Giuseppe Gargani, sottosegretario alla Giustizia dell'epoca, si domanda nel documentario come sarebbe stata la scena politica, se Moro fosse tornato, con quella nuova consapevolezza maturata durante la prigionia. Danilo Amore, caposquadra dei Nocs, sulle violenze di Stato dice: «Nella mentalità di un poliziotto, accetti l'idea della morte, non di essere arrestato, e poi con quelle motivazioni, per azioni commesse in nome di un bene superiore». Durante i giorni drammatici di Moro, l'interesse dello Stato trascurò una serie di indizi, comprese le segnalazioni di sedicenti medium.
Durante i giorni di Dozier, dicono i Nocs per smarcarsi dall'accusa delle torture, «se li avessimo ammazzati tutti, nessuno ci avrebbe detto nulla».
L'Italia dell'estate '82 è quella che col mistero flirta appena può. Roberto Calvi, banchiere dell'Ambrosiano, sparisce e viene trovato cadavere sotto un ponte del Tamigi, mentre la sua segretaria muore dopo aver lasciato un biglietto. Lo sfondo è quello della loggia P2 di Licio Gelli. Ancora tredici mesi e troveremo il Gran Maestro evaso dal carcere di Ginevra. L'Italia dell'estate '82 è quella che vede 400 mila persone in piazza per scioperare contro la decisione della Confindustria di abolire i patti sulla scala mobile. Quando il governo ipotizza di estendere il provvedimento alle aziende statali, il pentapartito vacilla. Lo salva la tripletta di Pablito al Brasile.
Il vertice per aprire la crisi slitta con i festeggiamenti post partita. Francesco De Gregori ha appena fatto uscire un nuovo disco dal titolo apocalittico: Titanic. Dove tra i molti incubi, Nino non deve aver paura di sbagliare un calcio di rigore.
È quasi un'estate da Garage Olimpo, il film di Marco Bechis sui metodi della dittatura argentina, che impastò torture e misteri alla gioia del Mundial anno 1978. «Per il nostro lavoro» spiega Azzolini, «avevamo un'idea chiara di racconto, con l'incognita ovviamente di quali sarebbero state le risposte dei protagonisti della vicenda, su entrambi i fronti. Anche a distanza di 40 anni, non era scontato che avrebbero accettato di parlare di vicende che, per tanti e per ragioni diverse, era meglio lasciare nei cassetti».
Sfila un pezzo di Stato che ammette il ricorso alla violenza e ammicca alla sua legittimità, in un Paese nel quale tuttora non riesce a passare una legge che preveda la presenza di un numero identificativo sulle divise e sui caschi degli agenti.
Quaranta estati più tardi, la Nazionale di calcio non andrà ai Mondiali, il Paese non ha un governo, la ferocia delle Br è stata sconfitta democraticamente, l'Italia ha dovuto affrontare dolori chiamati Cucchi, Rasman, Aldrovandi, Bolzaneto. «Sto bene» disse Dozier in italiano dopo la liberazione. Il punto è capire come sta l'Italia. Ma dite la verità: quanto eravamo felici.
Moro fu ucciso (solo) dalle Br, complottisti e terrapiattisti vari si rassegnino…Sul Fatto di Travaglio una ricostruzione del tutto fantasiosa del sequestro e omicidio Moro nella quale convergono servizi, complotti e fantasie varie. Andrea Colombo su Il Dubbio il 12 luglio 2022.
Una trentina d’anni fa, quando alcuni grandi processi di terrorismo erano ancora in corso, era un luogo comune ripetuto spesso che non si potesse lasciare alle sentenze il compito di scrivere la storia politica degli anni ’70. Dopo oltre tre decenni, con di mezzo tonnellate di pagine adeguate più alla spy-story di serie c che non alla ricostruzione storica, bisogna ammettere che quel luogo comune era fondamentalmente sbagliato. Gli atti giudiziari hanno i loro limiti ben chiari: le condizioni di costrizione nelle quali si svolsero gli interrogatori e le deposizioni, la naturale tendenza ad alleggerire la propria posizione da parte dei testimoni, pentiti o dissociati o anche irriducibili che fossero, l’ottica dei giudici che scrivevano le motivazioni delle sentenze, diversa da quella degli storici. Tuttavia, a paragone dell’alluvione di deliri in libertà che hanno poi confuso le acque sino a rendere impossibile distinguere l’acqua dal fango, quei verbali e quegli atti di tribunale aiutano a conoscere la verità degli anni ’70 molto più della immensa mole di volumi non inutili ma dannosi sfornata dai cacciatori di misteri.Va da sé che ciò è vero soprattutto per il delitto Moro.
Sarà prima o poi opportuno approfondire come e perché il sequestro, la detenzione e l’assassinio del presidente della Dc abbiano scatenato fantasie, liberato fantasmi, evocato ombre irreali puntualmente considerate più credibili della realtà nonostante la loro palese infondatezza. In un articolo comparso domenica sul Fatto quotidiano Stefania Limiti scrive come se nulla fosse che l’intera vicenda, «sparatoria, fuga in auto verso via Montalcini, l’angusta prigione, lo sparo nel garage e così via» sono solo «una finzione elaborata in una operazione dei servizi segreti, sponsorizzata da Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro». La prova sarebbe nelle conclusioni a cui è arrivata l’ultima delle tante commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Le quali per la verità non si scostano dalla “caciara” sollevata in questi anni senza alcun elemento probatorio solido a sostegno della solita logica, quella del “mi sa tanto” elevato a prova. E’ in realtà possibile che la verità giudiziaria sui 55 giorni sia incompleta, che qualche brigatista o fiancheggiatore sia sfuggito alle indagini, che il trasporto di Moro subito dopo il sequestro sia avvenuto in un garage e non all’aperto.
Ma la verità storica è invece fissata e chiara. Se gli oscuri burattinai immaginati dagli eredi di Ian Fleming avessero voluto Moro morto lo avrebbero fatto uccidere subito. Se i servizi segreti di qualche turpe potenza mondiale avessero manovrato le Br avrebbero anche fornito agli attentatori almeno armi moderne, invece di mitra arrugginiti che si incepparono tutti tranne uno in piena sparatoria. Se Giulio Andreotti avesse voluto l’esecuzione di Moro non avrebbe partecipato attivamente alla raccolta di 20 mld da offrire come riscatto, come invece fece al coperto del pontefice. Se il capo delle Br e plenipotenziario di fatto Mario Moretti avesse lavorato nell’ombra per conto di qualche burattinaio avrebbe eseguito la sentenza dopo la condanna, invece di rimandarla per 10 giorni e passa con tutti i rischi evidenti che ciò comportava. Non avrebbe fatto la lunghissima e pericolosissima telefonata del 29 aprile, che rappresentò il momento di massimo rischio per i brigatisti essendo molto elevata la possibilità di essere individuati e catturati o uccisi rimanendo tanto a lungo al telefono su una linea certamente sorvegliata. Se Mario Moretti non fosse chi dice di essere, inoltre, non sarebbe l’unico brigatista coinvolto nel sequestro ancora in carcere. L’idea di un complotto al quale partecipano Andreotti, Cossiga e Scalfaro, i vertici dei servizi segreti italiani e americani, i giudici Imposimato e Priore, Valerio Morucci e Adriana Faranda (confermati però da tutti i br con la sola eccezione di Alberto Franceschini) andrebbe definita col nome che merita: “terrapiattismo”. Come la convinzione che la terra sia piatta abbia avuto la meglio su tutti i dati di realtà, sulle indagini, sulle sentenze, sulla logica è il mistero del caso Moro. L’unico. L’intemerata pubblicata dal Fatto quotidiano era in realtà un attacco contro Marco Bellocchio, reo di non aver creduto, nel suo lungo film Esterno Notte, alla bizzarre ricostruzioni dei Ghostbusters. Attacchi e critiche sono sempre leciti. Evitare di condurli in modo sgangherato sarebbe tuttavia opportuno. «Possiamo sempre prendercela con la politica, che viene facile, ma registi, giornalisti, letterati? Diamo a tutti licenza artistica e dicano un po’ quel che vogliono?». Anche a mettere da parte il tono implicitamente ricattatorio, come si fa a definire «licenza artistica» la verità raggiunta coralmente dagli inquirenti (in decine di processi) e raccontata dagli imputati (tutti e sempre con l’eccezione unica di Franceschini) se non sulla base di un capovolgimento del più elementare senso comune?
Il film di Bellocchio non è in realtà esaustivo. E’ reticente su un elemento fondamentale del quadro: il ruolo del Pci, che impose di fatto la linea della fermezza minacciando in caso contrario una crisi di governo che la Dc non poteva in quel momento permettersi. Per tutto il resto è un film coraggioso, perché l’assurdità della situazione in Italia è che per dire quel che le sentenze stesse affermano ci vuole coraggio. Si rischia di incorrere nell’anatema di tutti quelli che «sanno senza aver le prove»: sono un esercito. Di sfuggita Esterno Notte è anche un film molto bello.
Controritratto di Moro il bizantino. Marcello Veneziani, 9 maggio 2021
Il 9 maggio del 1978 fu ritrovato il corpo di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault. In quel giorno tremendo anche l’Italia antidemocristiana che aveva quasi gioito per il rapimento di Moro, ammutolì sgomenta davanti a quel corpo senza vita. Non dirò dei misteri di via Fani e delle Brigate rosse né della dietrologia interna e internazionale sul suo assassinio, degna dei teoremi morotei. Moro fu la sfinge duttile e contorta della Dc, l’incarnazione di uno stile labirintico, una razza politica e una lingua assiro-politichese.
Il suo volto pallido e assorto, le sue labbra improntate a una smorfia di lieve e rattenuto disgusto, i suoi occhi perduti nei cieli levantini della Magna Grecia, la sua mano molle, la sua andatura lenta e la sua mitica frezza bianca che con gli anni si era allargata.
Ah, tu con quella frezza bianca, che stai combinando? Gli avrebbe detto una volta Padre Pio rimproverandogli l’apertura a sinistra, come già aveva fatto in una lettera il cardinale Siri. Su quelle parole del frate burbero e santo, nel collegio elettorale di Moro, la circoscrizione Bari-Foggia, puntò la sua campagna elettorale del’76, il sacerdote don Olindo Del Donno, prete dannunziano eletto deputato nel Msi, sospeso a divinis.
Moro firmò una stagione politica e forse antropologica del nostro Paese. Fu il leader più autorevole della Dc, dopo la disfatta di Fanfani al referendum sul divorzio. Di indole moderata e conservatrice, di provenienza cattolico-fascista, Moro promosse la stagione degli “equilibri più avanzati” e delle “convergenze parallele”, come diceva nel suo linguaggio degno del barocco leccese, ricco di ossimori levantini e paradossi babilonesi che sfidavano la logica e la geometria. Fu l’epoca bizantina della Dc. Per certi versi Moro fu la versione politica di Paolo VI.
Stratega più che statista, intellettuale di elevata cultura giuridico-filosofica, Moro fu il principe della Mediazione. I moderati non lo amavano per i cedimenti a sinistra, per i “patti conciliari”, come in un primo tempo fu chiamato il compromesso storico; ma anche per la sua politica estera ambigua, con le sue concessioni a Tito e a Gheddafi a danno degli italiani in Libia e nelle terre d’Istria e Dalmazia. Viceversa i progressisti lo stimavano ma ne diffidavano perché vedevano in lui il grande ammorbidente della sinistra. Un professore di latino e greco delle sue parti, ricordava che moros nelle zone griche del Salento vuol dire stolto.
A Moro rimproverarono di aver corrotto il linguaggio politico, come gli rinfacciarono Pasolini e Sciascia, usando un lessico involuto ed esoterico, paludato e impenetrabile, una specie di latinorum che escludeva la comprensione delle masse; di aver corrotto la sinistra socialista e poi comunista, consociandola al potere, così neutralizzando la sua carica civile e vitale; e di aver giustificato la corruzione politica attraverso il memorabile discorso sull’affare Lockheed circa i costi inevitabili della politica, i finanziamenti illeciti e la non processabilità della Dc.
Il potere democristiano subì un triplice processo: prima dagli intellettuali, a partire dal memorabile attacco di Pasolini alla Dc; poi dai brigatisti rossi, e infine dai magistrati. In principio fu il verbo, poi venne il mitra, infine Mani pulite.
Si dimenticava però che, a fianco del compromesso storico tra Dc e Pci, stava marciando dalla metà degli anni Settanta un altro compromesso tra comunisti e capitalisti, che culminò nel Patto dei produttori (auspici Amendola, Agnelli e La Malfa) e che dette vita a quella saldatura tra sinistra e potere economico perdurata negli anni (che trovò ne La repubblica uno dei suoi capisaldi politico-editoriali). E se Moro fu il teorico del costo illecito della politica, la corruzione politica era pratica diffusa ormai da anni, in casa Dc e non solo. E la straordinaria congiuntura internazionale, la pressione combinata di Stati Uniti e Urss sul nostro paese, costringeva alle acrobazie per barcamenarsi; quelle in cui Moro eccelleva.
I suoi estimatori dicevano che la sua strategia del compromesso storico, quella che lui chiamava la terza fase, era propedeutica a una democrazia bipolare dell’alternanza: prima legittimiamo il Pci, consociandolo gradualmente al governo, così gettiamo le basi per una democrazia compiuta fondata sull’alternanza.
In realtà Moro si era posto un altro problema: come conservare il potere alla Dc davanti all’onda lunga della sinistra, le turbolenze della piazza, le lotte sindacali, il terrorismo e l’incalzare di una società laica e libertaria, emersa col divorzio. L’unico modo per sopravvivere era venire a patti con l’avversario, cercando di sterilizzare le spinte antagoniste e rivoluzionarie, ma anche di imbrigliare le tensioni sociali e frenare le tentazioni permissive; considerando il Pci grande forza popolare e morale, alleata in questa battaglia contro il laicismo e l’individualismo della società radicale. Per altri versi era la strategia del pugile che quando rischia di soccombere sotto i colpi dell’avversario lo cinge in un abbraccio.
Moro non lasciò eredi: Andreotti proseguì la strategia consociativa ma al di fuori del disegno moroteo, pronto successivamente a varare un’alleanza di altro segno con il cosiddetto CAF, con Craxi; De Mita, anche lui come Moro, intellettuale della Magna Grecia dal linguaggio contorno, proseguì su altre vie il disegno politico bipolare, ma contrapposta a Craxi; e i morotei come il suo fidato Zaccagnini o il successore Martinazzoli, non avevano la sua statura politica. Così Moro si trovò nella solitudine mortale di un portabagagli, rigettato come un corpo estraneo, punito per la pretesa consociativa di narcotizzare i conflitti. L’onda di sangue del ‘900, in cui erano stati uccisi Umberto di Savoia e l’Italia umbertina, Mussolini e l’Italia fascista, travolse anche Moro e l’Italia morotea. MV, 9 maggio 2021
Il mistero di Moro e le trame a cui restò impiccato. Marcello Veneziani
È quasi impossibile spiegare a un ragazzo, a uno straniero, a un postero il caso Moro. Già difficile di suo era Moro, il suo linguaggio criptico e involuto, ricco di sfumature e allusioni. Difficile da comprendere fu la sua politica finale, che per taluni era un modo per portare i comunisti al governo, per altri era un modo per svuotarli, per logorarli. Forse per corromperli, come pensavano le Br. Difficile capire se il suo fine fosse portare a compimento la democrazia, superando il bipartitismo imperfetto e legittimando il Pci al governo, così creando la possibilità dell’alternanza; oppure se la strategia consociativa avesse come fine quello di protrarre, seppure in condominio, il potere democristiano, e ripetere coi comunisti quello che era stato già fatto con i socialisti.
Ma ancora più difficile è capire il rapimento e l’assassinio di Moro. Arduo districarsi sulla matrice del sequestro, anche se gli esecutori sono evidenti, i comunisti delle Brigate rosse. Si parlò di Kgb, Cia, Mossad, più i nostri servizi deviati, gli Usa e una fetta di Dc. E poi le voci che alcuni sapessero dove fosse realmente nascosto, qualcuno insinuò perfino di visite “politiche” durante la prigionia di Moro. E’ complicato spiegare che i suoi carnefici erano comunisti come quelli che Moro voleva al governo.
Impossibile da spiegare a chi non visse quel mondo è perché il suo partito, alcuni morotei, il Pci di Berlinguer con cui si stava consociando, ma anche il filo-occidentale partito repubblicano, furono per la fermezza, cioè lo mandarono a morire, non vollero trattare come invece avevano fatto in precedenza. Come vai a spiegare che la motivazione era che Moro fosse ormai ostaggio anche psicologico delle Br, pativa la sindrome di Stoccolma, era quasi passato dalla loro parte e svelava loro i segreti più scottanti del Deep state italiano e atlantico? Anche se fosse vero, la soluzione non era lasciarlo uccidere, semmai acciuffare quei brigatisti che avevano carpito i segreti scottanti del nostro potere. Come fai a spiegare ai posteri che a voler salvare la sua vita e a intavolare una trattativa erano i veri antagonisti del compromesso storico, a partire da Craxi? Impossibili da decifrare erano poi le sue lettere, i suoi messaggi occulti, a cui si sono dedicati perfino libri iniziatici sul significato enigmatico, anzi enigmistico, dei suoi segnali sotto traccia.
Il caso Moro, morta la vittima e presi i colpevoli, è rimasto irrisolto. Ma al suo posto fioriscono le narrazioni. Una di queste è il nuovo film di Marco Bellocchio, naturalmente de sinistra, un tempo anche estrema, che già aveva realizzato un film su Moro. La chiave del suo nuovo film, Esterno Notte, è manichea: Moro il martire, Andreotti il diavolo. Ora caricare sulle spalle curve di un sol uomo, seppur avvezzo a intrighi e trame come Andreotti, tutto il caso Moro, è storicamente infondato. Bisogna da un verso capire il pressing internazionale, americano soprattutto, e dall’altro ricordare che a condannare Moro alla morte fu anche il serafico Berlinguer, il mite Zaccagnini, il furente Pertini, che poi diventò Presidente della Repubblica. Bellocchio, naturalmente, se li dimentica, o li lascia ai margini. Facile demonizzare Belzebù, già noto per il suo mestiere di diavolo, e la leggenda supera di gran lunga la realtà. Cossiga appare correo, ma per Bellocchio lui era un po’ pazzo, bipolare, e non in senso politico, ciclotimico. Facile pure ridurre Moro all’apertura a sinistra, eludendo i dubbi, le sue strategie bizantine e la sua storia antica, non dico il suo filo-fascismo giovanile ma il suo moderatismo destrorso del primo dopoguerra.
Ma poi non si capisce perché il giorno del rapimento doveva essere votato in Parlamento un governo ispirato alla linea Moro, con l’apertura al Pci, guidato – ma guarda un po’ – proprio da Andreotti, voluto dallo stesso Moro.
Bellocchio ha sovrapposto la fiction alla realtà e dunque quando gli conviene può dire che è storia, altrimenti dirà che è pur sempre finzione cinematografica.
Un Moro romanzato, ma non falsificato, è in un libro recente che gli ha dedicato Marco Follini, Via Savoia (La Nave di Teseo) all’epoca giovane democristiano, poi diventato il vice-Premier di Berlusconi ma presto dissidente fino a lasciare la politica. Follini nel libro non nomina mai Moro e molti protagonisti di quel tempo, anche se il libro è dedicato a lui, e di riflesso a loro. E’ scritto bene, non è mai banale; bella, devo dirlo, anche la prefazione di Marco Damilano che definisce l’opera di Follini il primo romanzo storico sulla repubblica italiana (magari c’è qualche precedente). Il libro di Follini, forse involontariamente, disegna un Moro totus democristiano ma non statista. Il Moro di Follini è visitato con discrezione sul piano privato e personale; è visto tutto sul piano politico e di partito; emerge lo stratega democristiano di alto profilo ma non appare mai l’uomo di Stato. Eppure è così che di solito si descrive Moro, lo statista. Invece in Moro, lo sostengo da anni, ha prevalso la ragion politica di partito sulla ragion di Stato e infine la ragione personale su quella politica. Moro non lascia grandi eredità allo stato italiano, ma larghe e raffinate strategie politiche, si occupa più del sistema politico che degli italiani, non lascia grandi riforme ma grandi operazioni di Palazzo. Il personaggio che più gli si avvicina nel suo tempo non è un politico ma Paolo VI, un papa politico. Nel Moro di Follini si parla sempre di politica, di partito, di potere, ma mai di Stato, mai d’Italia. Non è un difetto del libro di Follini ma è il limite di Moro.
Sant’Agostino diceva che non è la pena ma la causa a fare i martiri. San Moro resta solo Tommaso Moro, che fu pure gran politico, cattolico e statista. Follini racconta che Aldo Moro aveva un ritratto di San Tommaso Moro su una parete del suo studio. Ma non erano parenti. La Verità (20 maggio 2022)
Caso Moro, in tv la verità sulle torture a Enrico Triaca. Frank Cimini su Il Riformista il 24 Giugno 2022
«Mi torturavano mentre firmavano trattati internazionali contro la tortura». C’è voluto quasi mezzo secolo perché Enrico Triaca arrestato nell’ambito delle indagini sul caso Moro potesse andare in tv a raccontare dove e come fu torturato al fine di estorcergli informazioni. Sul canale 122 di Sky sono andate in onda il 13 e il 20 giugno le due puntate (vedibili on demand) di un documentario sul sequestro del generale americano James Lee Dozier e su altri fatti di lotta armata a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.
All’epoca Enrico Triaca per aver denunciato le torture venne condannato per calunnia. Soltanto pochi anni fa con la revisione del processo è stato assolto. I torturatori, in testa il funzionario di polizia Nicola Ciocia, “il professor De Tormentis” l’hanno fatta franca per utilizzare il linguaggio di un famoso magistrato perché ovviamente era intervenuta la prescrizione. «Dalla questura dove c’era stato un interrogatorio molto blando mi portarono in una struttura che credo fosse una caserma, mi legarono a un tavolo e così iniziò il trattamento», sono le parole di Triaca che ricorda la tecnica solita in casi del genere del finto annegamento. Al “trattamento”, considerati gli scarsi “risultati” pose fine un superiore del professor De Tormentis che invece avrebbe voluto continuare.
Il documentario di Sky rende almeno in parte pan per focaccia a chi continua a raccontare la favola del “terrorismo sconfitto senza fare ricorso a leggi e pratiche eccezionali”. Una posizione ribadita in tempi recenti dall’ex ministro Minniti, il quale una certa responsabilità politica per quanto capitato ai migranti nei campi libici non può non averla. La vera tragedia è politica e riguarda il fatto che le torture ai migranti non hanno provocato cortei e proteste nelle piazze. Come del resto nulla sembra destinato a spostare il documentario di Sky sulle torture inflitte ai responsabili di fatti di lotta armata oltre quarant’anni fa. Se il nostro paese non ha tuttora una legge adeguata a sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale una ragione c’è. E si tratta ancora una volta di una ragion di Stato che neanche il documentario del canale 122 riuscirà a scalfire.
Alcuni condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar sono stati graziati in parte da Giorgio Napolitano e in parte da Sergio Mattarella. Insomma, torturare non è che sia proprio vietato. Speriamo che a chi oggi ha 20 anni o 30 e anche 40 sia utile la visione del documentario di Sky che comunque ha la grave lacuna di non aver contestualizzato storicamente i fatti, come accade sempre soprattutto in tv quando si parla di quella storia maledetta. Terminiamo con Triaca ricordando che l’anno scorso è stato tra quelli ai quali hanno preso il Dna perché la procura di Roma è sempre a caccia di improbabili complici e di misteri inesistenti. Frank Cimini
Roberto Faben per “La Verità” il 13 giugno 2022.
«Vorrei che nessuno parlasse di mio padre se non è in grado di farlo rispettosamente e dignitosamente e di non considerarlo una specie di vittima inconsapevole».
Maria Fida Moro, figlia primogenita di Aldo Moro, non assisterà alla proiezione del film di Marco Bellocchio Esterno notte. «Non lo vedrò mai, perché mi dà dolore, per noi è una tortura, e qui ci starebbe pure bene una parolaccia, ma mi limito a dire accidentaccio».
Ciononostante ha incaricato i suoi legali di visionare il lungometraggio per valutare «se si ponessero risvolti giuridici». «Preferirei il silenzio, perché il silenzio è più rispettoso della parola».
Cosa la ferisce di questo film?
«Io, in questa vita incasinata, non mi vorrei più rincrescere. Mi piacerebbe che mio padre non fosse rappresentato come un'entità apparsa sulla faccia della Terra il 16 marzo 1978 e scomparsa il 9 maggio di quell'anno.
Non si capirà mai niente delle ragioni profonde della sua morte se non ci si sofferma sulla sua vita. È bene considerare che la sua morte non è servita a fare un colpo di Stato, ma a mettere Italia ed Europa su un declivio che ci ha portato alla situazione in cui ci troviamo ora. Mi fa orrore solo l'idea che vita e morte di mio padre siano un business.
I vari registi che hanno ridotto il caso Moro a quei 55 giorni hanno sbagliato e in un certo senso finiscono per essere conniventi con una verità ufficiale che non è vera».
Questa verità ufficiale presenta molte crepe, come è trapelato dalle indagini di due commissioni d'inchiesta.
«La seconda Commissione, diretta da Giuseppe Fioroni, ha trovato circa l'80% della verità, ma ha secretato gli atti per 50 anni. Posso comprendere il diritto giuridico per farlo e le ragioni di politica anche internazionale. Ma che senso ha? È come indire un referendum sapendo che i risultati non saranno applicati».
Sul vostro sito Web, salviamoaldomoro.it, l'unico film che lei e suo figlio Luca riconoscete è Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli, del 2003, in cui aleggiano le ombre dei servizi segreti italiani già il giorno dell'eccidio di via Fani. Ci spiega perché?
«Perché Martinelli ha riconosciuto il concetto fondante del lavoro di Moro e ha raccontato mio padre con umanità. L'ipotesi, nel film, del Super 8 girato da un balcone di via Fani il 16 marzo, si è rivelata vera.
Il giudice Imposimato mi disse che una giornalista francese gliene aveva parlato e lui la invitò a consegnarlo a chi di dovere, ma poi è scomparso, così come le foto fatte dai palazzi di via Fani. Guardi, credo che gli italiani sappiano che Moro è stato una vittima sacrificale.
Lui faceva politica in quel modo trasfigurante, verso un'umanità amorevole e armonica. È il lavoro dei profeti e dei pacificatori, e per questo finiscono ammazzati, come Gesù. Basti pensare a Gandhi, due Kennedy, e tre Bhutto, Benazir, suo padre e suo fratello.
Mio padre li ha ringraziati, i brigatisti, li ha salutati, vorrei sapere chi ringrazia i suoi carcerieri. Moro è stato un padre divertente, un educatore, uno statista, uno stratega, un cristiano, un mistico.
Perché dobbiamo parlare solo dei 55 giorni, con relativa agonia? Lo comprende Bellocchio che, per noi, la sua arte, meglio il suo modo di narrare, ci dà dolore, è solo una tortura? Inoltre altri film su Moro contengono errori».
Ad esempio?
«Ad esempio nel film Il caso Moro, di Ferrara (1986, ndr). La mattina del sequestro, mia madre, infermiera della Croce Rossa in tempo di guerra, stava facendo catechismo nella chiesa di San Francesco e, dopo l'attentato, accompagnò un sacerdote in via Fani per l'estrema unzione delle vittime.
Dopo essersi accertata che le persone fossero decedute, lei s' inginocchiò per terra, a pregare tra i bossoli e il sangue. E invece Ferrara che fa? La manda in un bar a prendere un cognac L'avrò vista due volte nella vita, mia madre, entrare in un bar e certamente non per prendere un cognac».
Il fatto che la figura di Aldo Moro vada compresa nel suo spessore biografico e storico è sacrosanto. Tuttavia va fatta chiarezza su come andarono davvero le cose in quei 55 giorni e affinché gli italiani siano consapevoli sugli sconcertanti retroscena della vicenda.
«La morte di papà non è finita con la sua morte e la cattiva coscienza di tanti fa sì che il terror panico per le cose perpetrate li tenga sulla difensiva o si difendano attaccando. Quelli che l'hanno voluto morto, lo volevano cancellato. I brigatisti e tutti gli altri hanno profuso parole, ma noi no, noi non siamo stati ascoltati».
Longa manus dell'intelligence, membri dei comitati di crisi di Cossiga legati alla P2, Hyperion, formale scuola di lingue ma raccordo tra servizi segreti internazionali punto di riferimento del br Moretti, la farsa della seduta spiritica di Prodi, il falso comunicato n. 7 del lago della Duchessa commissionato dai servizi a Tony Chichiarelli, la finta ricerca di Moro, gli sconti di pena ai brigatisti. Pressoché un'intera classe politica corresponsabile, compreso il Pci. Ma la Repubblica perché secreta squarci di verità?
«Il giudici istruttori del primo processo Moro, Imposimato e Priore, durante una tavola rotonda in una televisione, hanno dichiarato che, nella vicenda Moro, erano coinvolti almeno 12 servizi segreti di altrettanti Paesi.
Non conosciamo tutta la verità. E il nodo non è nemmeno questo, ma il fatto che lo Stato usa un colpevole silenzio su tutto ciò che riguarda il vero andamento della vicenda Moro. Fanno parlare solo coloro che non sanno e mistificano e non hanno alcun afflato d'amore nei confronti di Moro».
Lei crede che si potrà giungere, un giorno, a un chiarimento su tutti gli aspetti oscuri della vicenda?
«Ciò è impossibile, ora. Ci vorranno, forse, 100 anni. C'è tanta, troppa gente coinvolta. Cossiga diceva che almeno 10.000 persone avevano a che fare con il caso Moro. In occasione del film di Valsecchi (Aldo Moro, Il presidente, 2008, ndr), la Camera invitò noi e i familiari della scorta di Moro, aggiungendo: "Sarebbe meglio se non veniste".
Noi, con Giovanni Ricci (figlio di Domenico Ricci, autista della vettura su cui si trovava Moro, ndr), facemmo un duro comunicato e nessuno ci andò. Per il 60° della Costituzione Italiana, a Firenze, invitarono tutti i familiari delle stragi, tranne la famiglia Moro che, guarda caso, oltre a essere una vittima del terrorismo, è stato un Costituente.
È come se il caso Moro non riguardasse i Moro e non sono io che sono una cretina, sono loro che non capiscono che tutto quello che riguarda il caso Moro mi dà dolore. L'Italia non ha fatto ciò che ha fatto la Germania dopo il nazismo. Dovrebbe assumersi almeno la responsabilità etica collettiva, anziché nascondersi dietro le Br e basta. Il delitto Moro è stato un delitto d'abbandono e da omissione di soccorso. Vogliono dire, almeno, che Moro è stato lasciato morire?».
Furono posti dubbi sull'equilibrio mentale di Moro, che faceva pervenire lettere dalla prigionia. Carlo Gaudio, in un libro, osserva che alcune sue frasi sono perfetti anagrammi dove avrebbe rivelato il luogo in cui era recluso.
«I principi giuridici che papà segnalava nelle lettere erano gli stessi che insegnava ai suoi studenti da sempre. Che quelle lettere fossero assolutamente lucide e autentiche l'ha sempre detto e scritto ad esempio anche Giuliano Vassalli (è stato ministro di Grazia e Giustizia e presidente della Corte Costituzionale, ndr), amico e collega di papà, che per questo ha pagato: non è diventato presidente della Repubblica. I pochi che si sono esposti durante il sequestro per salvare davvero Moro hanno pagato un prezzo altissimo».
Qualcuno degli amici di partito di suo padre le fu vicino dopo la tragedia?
«No. Ma Andreotti, notoriamente avversario politico di mio padre, fu l'unico del mondo democristiano a essere stato gentile con me e mio figlio, non una, ma decine di volte. Se gli avessi chiesto aiuto a tempo debito, avrei risolto tutti i problemi.
Ad esempio l'unico democristiano che si congratulò con me per la mia elezione al Senato, nella Dc, fu Andreotti».
Com' è possibile che il gruppo «P38» sia stato autorizzato a esibirsi in passamontagna in alcuni concerti, come quello organizzato il 1° maggio 2022 da un circolo Arci di Reggio Emilia, inneggiando alle Br e infierendo pesantemente sul dramma di Moro?
«Attraverso il mio avvocato, Angelo Andreatta, del foro di Venezia, li ho denunciati» (il legale specifica di aver depositato la querela presso la Procura di Reggio Emilia, con ipotesi di violazione art. 597 del Codice penale, «offesa alla memoria» e 414, «istigazione a delinquere e apologia di reato», ndr).
La sua lettera inviata a Bergoglio, nella quale ha chiesto di interrompere la causa di beatificazione in corso per suo padre, a suo avviso offesa da liti per motivi di business, ha avuto risposta? «Il Papa mi ha ricevuto assicurandomi che, finché c'è lui, nessuno approfitterà dell'agonia di mio padre». Pensa che suo padre e Giovanni Battista Montini, Paolo VI, stiano dialogando nell'Oltre? «Certo! Ma papà ora è in salvo, e questo solo conta».
La serie Sky Original. Il caso del sequestro di James Lee Dozier: il colpo di grazia alle Brigate Rosse e il misterioso professor De Tormentis. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2022.
Dopo soli tre anni dal sequestro Moro un altro caso scosse le istituzioni e gli apparati di sicurezza italiana. Era il 17 dicembre 1981 quando un gruppo di brigatisti fece irruzione nella casa veronese di James Lee Dozier. Il generale statunitense della NATO venne rapito, sequestrato per 42 giorni. A mettere fine alla prigionia un magistrale blitz nel covo padovano delle Brigate rosse.
Operazione che salvò la vita al generale americano, la faccia degli apparati di sicurezza, l’affidabilità delle autorità di un Paese ancora alle prese con la violenza degli anni di Piombo. Eppure il caso non era chiuso. Solo un capitolo era chiuso. Ed è sul seguito che la docu-serie Sky Original IL SEQUESTRO DOZIER – UN’OPERAZIONE PERFETTA indaga: un seguito controverso, che riguarda le garanzie di uno stato di diritto e la tenuta di una democrazia.
Dopo le pressioni del governo e del generale per evitare il tragico epilogo del sequestro Moro e il magistrale blitz di liberazione si apre un capitolo torbido della storia. Una squadra speciale della polizia di stato venne accusata di aver perpetrato atroci torture e violenze sui brigatisti, sotto diretto ordine delle istituzioni italiane. E il caso si riaprì. “Il confine tra vittime e carnefici si assottiglia”, preannuncia la docu-serie che indaga “un’epoca drammatica della storia italiana, in cui la distinzione tra lecito e proibito si confonde e la violenza non è più solo un’arma del terrorismo, ma pervade l’intero tessuto politico e sociale“.
Quattro puntante, a partire da lunedì 13 giugno: terroristi travestiti da idraulici, il misterioso e anonimo funzionario detto “Professor De Tormentis” per la sua specialità nell’estorcere informazioni con metodi “discutibili”, un blitz di liberazione perfetto, lo sgretolamento delle BR, le testimonianze che aprono uno squarcio inquietante, il magistrato Vittorio Borraccetti che decide di far luce sulla faccenda.
IL SEQUESTRO DOZIER – UN’OPERAZIONE PERFETTA è una nuova docu-serie Sky Original, in arrivo su Sky Documentaries da lunedì 13 giugno alle 21.15 e disponibile anche on demand e in streaming su NOW, che svela gli aspetti più inquietanti di quella che, a distanza di quarant’anni, resta una vicenda controversa. È stata realizzata da Dazzle, scritta da Davide Azzolini, Fulvio Bufi e Massimiliano Virgilio, con la regia di Nicolangelo Gelormini.
Andrea Galli per corriere.it il 7 giugno 2022.
«Un po’ mi annoio. Per fortuna non sono in camera da solo, con me c’è un colonnello della Marina, di Taranto». E che fate, di cosa parlate? «Niente, quello dorme sempre». Lui no. Lui mai. Lui è Lello Liguori, l’unico, originale e assoluto «re delle notti», definizione cui non servono aggiunte: guidò il mitico «Covo di Nord-Est» di Santa Margherita dove si esibirono i più grandi (da Sinatra a Stevie Wonder, da Chet Baker a Mina), mentre a Milano gestì «in contemporanea undici locali» e se ne capisce che, «dovendo stare dietro a tutti e dovendo correre attraverso la città, ecco, mi concedevo appena cinque minuti di riposo, ma in piedi, come i cavalli».
Adesso siamo sempre a Milano, domenica, afa amazzonica, periferia, una di quelle malate croniche fra degrado e abbandono e dolente umanità; l’ospizio perfino stona col contorno, ordinato e pulito com’è, tacendo della contagiosa gioia di vivere del personale in maggioranza femminile e sudamericano.
Ebbene, Liguori compie gli anni. Sono 87. Elegante e magro, bel portamento. Avevamo chiamato in mattinata domandando se si potesse incontrarlo; nel pretendere da noi l’orario esatto per ragioni di Covid, dalla reception dell’ospizio avevano risposto di no a un secondo interrogativo. Interrogativo fisiologico: non è che avrà altre visite e disturbiamo, insomma è una giornata speciale…
«Nessuno in agenda». Liguori arriva da quattro matrimoni che hanno generato undici figli: dunque, senza offendere e premesso che sono affari vostri: ma dove sono tutti e tutte? «In settimana delle figlie mi hanno portato una torta di cioccolato. Stia tranquillo: sì, non mi piace campare in ’sto posto; sì, i figli insistono, vorrebbero andassi a stare da loro, giuro...
Però non mi va di pesare, di trasformarli in badanti. Lasciamo perdere. Tanto prima o poi, sicuro, me ne vado. Ho il mio appartamento in piazzale Baracca, mi rifugerò là. Con la mia attuale fidanzata. Quarant’anni, brasiliana. Qualcuno dice che ho avuto mille relazioni sentimentali. Sbagliato: sono state cento. Senza vantarmi, ho praticamente fatto qualsiasi azione si possa fare in un’esistenza».
Dopodiché, di Beppe Grillo, che Liguori lanciò e del quale non condivide l’esperienza politica, il diretto interessato preferisce non parlare. L’annoiano il ricordo di epocali mosse rivoluzionarie tipo quando portò sul palco un gruppo di travestiti e il pubblico bigotto si scandalizzò, pur lasciando durare l’imbarazzo un attimo ché deflagrarono eccitazione e dipendenza, si sfasciarono matrimoni e sorsero appassionate storie di sesso dei travestiti con donne e dei travestiti con uomini. Annoiano Liguori anche le curiosità inerenti la trasversale e infinita rete di relazioni.
Per esempio, la mala milanese, che giocoforza (non è i balordi non si divertano, anzi) frequentò i suoi locali. Sicché, signor Lello, fra tutti chi? «Turatello». E com’era? «Retorico discutere delle sue malefatte eccetera eccetera. Era uno intelligente. Altro non c’è da aggiungere. L’intelligenza è il massimo dono. Se ce l’hai, il resto viene di conseguenza, o può benissimo anche non venire». Altri? «Vallanzasca gettò un sacco pieno di bombe dentro una bisca. Momenti difficili, senonché era un avvertimento, le bombe non esplosero». La bisca era sua? «Ma no. Ci stavo giocando a poker».
Del pokerista, quello vero, non da tastiera, Lello Liguori esibisce la morbida postura, la gestualità azzerata, il governo dell’attesa e dei tempi morti, la forza della memoria avendo egli in aggiunta la capacità di certi investigatori: immagazzina frammenti della conversazione come se non gli interessassero, per proporli a sorpresa e a distanza sondando la reazione dell’interlocutore.
Non ha arie da divo, pur se gli altri ospiti in parte lo venerano e in parte gli saettano contro occhiate invidiose. A proposito di certe mosse da sbirro: per sua ammissione, il signor Lello condivise lunghi momenti col commissario Ettore Filippi, gran poliziotto sottovalutato dai superiori, esperto di terrorismo. Inutile insistere: quali furono gli argomenti delle discussioni, non lo sapremo mai.
Amico di Liguori fu Bettino Craxi, che gli commissionò una mediazione per liberare Aldo Moro. Il signor Lello tentò con i terroristi detenuti nel carcere di Cuneo, senza successo. Eppure rimpianti non ne ha, inteso in senso generale. Dell’odierna Italia nulla gli frega, della Milano contemporanea men che meno. Molteplici editori l’hanno pregato di stendere un’autobiografia, promettendo cifre folli.
Invano. «Non è una roba di denaro. Il fatto è il seguente: se davvero, ma proprio davvero, io raccontassi soltanto una minima percentuale, scoppierebbero casini epocali a catena: conosco i segreti di tanti, molti, tutti. Quanto ai soldi, tengo un gruzzoletto, custodito dalla segreteria. Mi piace dare il denaro gratis».
Cioè regalarlo? «Non lo regalo: distribuisco senza pretendere restituzioni. I beneficiari si comprano merendine e sigarette, magari della birra, e sono felici. Io non ho bisogno di nulla. Se non di andarmene da ’sto posto».
Esterno notte, Marco Bellocchio nel corpo e nel cuore del caso Moro. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 18 Maggio 2022.
Presentata a Cannes la miniserie da oggi nelle sale italiane (e in autunno su Rai1). Che si concentra, anche grazie a un cast eccezionale, la dimensione intima, dunque tragica, di tutti i personaggi coinvolti. Con pagine tanto più efficaci quanto più libere e paradossali.
Il caso Moro come tuffo vertiginoso in una follia tutta italiana, con politici ma anche psichiatri, mitomani, veggenti, intercettazioni che non svelano nulla se non la profondità dello psicodramma vissuto da un intero paese (e in buona parte pilotato da governo, servizi segreti, televisione).
I 55 giorni di sequestro del presidente Dc, che stava per varare un governo sostenuto dal Partito Comunista, visti non tanto dai luoghi del Potere ma da quelli dell'intimità, in cui del Potere si avvertono gli effetti più remoti e pervasivi: case, cucine, sale da pranzo, camere da letto, perfino confessionali (momento geniale: la brigatista Adriana Faranda che becca il compagno Valerio Morucci a lamentarsi con un prete delle loro difficoltà di coppia).
Il dramma politico più devastante del dopoguerra scandagliato, ma in parte anche reinventato, in 6 episodi da 55 minuti che non illuminano chissà quali retroscena ma ci portano con crescente emozione nel corpo, nel cuore e talvolta nell'inconscio dei protagonisti.
Presentato in anteprima al Festival di Cannes, da oggi nelle sale italiane (subito i primi tre episodi, dal 9 giugno gli altri, in autunno su Rai1), “Esterno notte” arriva a quasi vent'anni dal film con cui Marco Bellocchio affrontò la prima volta il caso Moro, “Buongiorno, notte”, riprendendone in chiave ipotetica la trovata più “scandalosa” e paradossale, quella che vedeva il presidente Dc sopravvivere al rapimento. Ma approfitta della struttura da miniserie, della stringatezza del linguaggio tv e dell'eccellenza del cast, per cambiare ogni volta agilmente punto di vista.
Prologo e epilogo, più corali, sono dominati anche umanamente dalla figura di Moro (impressionante Fabrizio Gifuni, al culmine di un lungo lavoro anche teatrale sullo statista). I quattro episodi centrali invece esplorano altrettanti microcosmi. Ci sono i tormenti di Cossiga (Fausto Russo Alesi) e quelli di Paolo VI (Toni Servillo). Le lacerazioni vissute in casa Moro (con Margherita Buy nei panni della moglie del leader Dc) e quelle, non solo politiche ma sempre inevitabilmente anche personali, che dividono i brigatisti. Da un lato, maggioritaria, l'ala dei duri, che non vuole concedere nulla al nemico ed è decisa a eliminare l'ostaggio in ogni caso. Dall'altro chi, come Adriana Faranda (Daniela Marra), si pone problemi non solo umanitari ma politici. Perché condannare Moro al martirio facendo un favore proprio alla Dc, che lo abbandona, lo denigra e lo delegittima fin dal primo momento? E poi, siamo proprio sicuri che la fiammata di entusiasmo generata dal sequestro nelle frange più estreme dell'ultrasinistra sia un buon investimento (è il succo della bella scena in cui le BR discutono col “mediatore” Lanfranco Pace)?
La discussione potrebbe portare lontano, ma Bellocchio (con Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino alla sceneggiatura) non si avventura sul terreno scivoloso dei retroscena e dei manovratori occulti. Anche il contesto internazionale è sintetizzato nella figura di un consigliere “amerikano”, come si diceva allora, che la sa lunga ma in definitiva capisce poco d'Italia e di italiani. Mentre a emergere con forza in “Esterno notte” è la dimensione intima, dunque tragica, di tutti i personaggi coinvolti, dai protagonisti ai semplici comprimari. Con pagine tanto più efficaci quanto più libere e paradossali. Tanto che alla fine della maratona – sono 330 minuti - a restare in testa non sono tanto le scene più a effetto, la visione di Moro che trascina una croce, l'invettiva di Cossiga contro quella congrega di generali (“tutti massoni o ex-fascisti”) che non farà nulla per salvare il rapito, o le rapide sintesi del quadro politico (con una sola apparizione per Craxi e poco più per Berlinguer).
No, ad accompagnarci, anche a visione finita, è Moro che a tarda sera, solo, si fa l'uovo al tegamino in cucina; è Cossiga che prega la moglie di farlo dormire con lei; sono Faranda e Morucci travolti da raptus erotico (il che non impedisce a lei di portarsi la pistola in camera da letto); sono il ghiaccio e il fango, così simbolici, del Lago della Duchessa. Senza dimenticare la furibonda discussione in cui Faranda scopre che il suo compagno non crede alla rivoluzione, anzi è vocato alla sconfitta (“Hai ucciso cinque padri di famiglia e non ci credevi! Io per la causa ho lasciato mia figlia, ho abortito, e tu non ci credevi...”).
Difficile comunque credere che “Esterno notte” farà l'unanimità. Qualcuno magari, dopo la scomunica preventiva di Maria Fida Moro, accuserà Bellocchio di aver romanzato troppo, o di aver dato eccessiva dignità ai terroristi, o di aver semplificato il quadro politico. Ma la forza di questa miniserie così anomala sta proprio nella molteplicità dei punti di vista, nello sguardo quasi “psicopatologico” poggiato sui protagonisti, nella capacità di evocare un'intera epoca con tocchi anche bizzarri (accanto a poche doverose immagini di repertorio, e ad alcune citazioni cinematografiche, compare un immaginario film sul sequestro girato quasi in diretta). Lasciando sulle spalle di Moro e delle sue lettere, mai abbastanza lette e commentate, il peso dell'emozione più autentica. “Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali – scrive nell'ultima indirizzata a sua moglie – come ci si vedrà, dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”.
La lotta tra ragion di Stato e ragion di rivoluzione. Bellocchio ha capito la tragedia di Moro: “Esterno notte” dopo 44 anni prova a chiarire il mistero. David Romoli su Il Riformista il 20 Maggio 2022.
È un’impresa molto ambiziosa Esterno notte, il fluviale film in due parti sul sequestro Moro, realizzato da Marco Bellocchio e presentato a Cannes. In quasi sei ore, divise in due parti al cinema e in sei puntate nel serial tv, Bellocchio racconta non la tragedia del presidente sequestrato e dei suoi rapitori ma quella dell’intero Paese, della sua classe politica, della sua cultura mediatica. Dovrebbe essere l’aspetto saliente in ogni tentativo di ricostruzione storica di quei 55 giorni tragici e cruciali. Invece, nonostante le centinaia e forse migliaia di volumi usciti sul caso, i titoli dedicati a quello che successe allora nel Palazzo, nelle sedi politiche e istituzionali, nelle redazioni che indirizzavano l’opinione pubblica, si contano su una mano sola.
Quello di Bellocchio è un film e un bel film, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni, che restituisce un Moro perfetto, Margherita Buy, altrettanto brava nei panni di Eleonora Moro, Toni Servillo che presta le fattezze ai tormenti di Paolo VI, Fausto Russo Alessi sorprendente nel mettere in scena la figura forse più travagliata e lacerata tra tutti i politici, l’allora ministro degli Interni Cossiga. Ma è anche un grandioso quadro che propone per la prima volta al grande pubblico una visione storica di quella tragedia, di solito limitata all’affastellamento di misteri inesistenti e trame da spy-story sgangherata. Dietro le Br non c’era nessuno: non muovevano i fili burattinai incappucciati, non occupavano la cabina di regia emissari di Washington o Mosca, non c’erano “grandi vecchi” di sorta. Su questo punto chiave il film di Bellocchio è tassativo e impeccabile: basterebbe, dopo l’alluvione di ipotesi sempre più strampalate, a renderlo una pietra miliare. Chi fossero i rapitori di Moro, chi li muovesse, Bellocchio lo fa dire all’uomo di Washington, l’agente inviato dal presidente Carter per coadiuvare le indagini, Steve Pieczenick.
I suoi dialoghi con Cossiga non sono però parto della fantasia degli sceneggiatori (lo stesso Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino). Riassumono quanto raccontato dall’americano nel suo libro sulla vicenda mai tradotto in italiano: “Non c’è bisogno di cercare sempre un secondo e un terzo movente dietro il primo come siete abituati a fare voi italiani”. Le Br erano quel che dicevano di essere: un gruppo comunista rivoluzionario armato, non controllato da nessuno. Bellocchio sfata anche la leggenda nera per cui, a un certo punto, l’intero apparato statale avrebbe voluto Moro morto. Le reazioni dei leader politici nel film sono molto diverse. C’è un abisso tra la sofferenza di Cossiga, Zaccagnini o Paolo VI e il gelo arido di Andreotti. Ma nessuno, neppure il divo Giulio, si adopera perché la vicenda si concluda con l’esecuzione dell’ostaggio. Tutti, inclusi i comunisti, accettano di pagare un riscatto vertiginoso, 20 mld di lire, peraltro in buona parte raggranellato proprio da Andreotti, in cambio della vita di Moro. C’è tuttavia un confine, quello del “riconoscimento politico”, che nessuno nella Dc era disposto a superare in nome di una ragione di Stato che, non senza scatenare in alcuni sensi di colpa mai superati, fece premio su qualsiasi altra considerazione.
Bellocchio è preciso e affilato nel descrivere il conflitto anche interiore tra quella ragion di Stato e le ragioni umane del sentimento e degli affetti, contrapponendo da un lato la famiglia Moro al palazzo e dall’altro i dubbi di Adriana Faranda, brigatista dissidente, a quelli del capo Mario Moretti. È meno netto nel chiarire i contorni della partita politica giocata intorno alla cella di Aldo Moro e dunque gli elementi che sostanziarono quella “ragion di Stato”. Il veto del Pci, che minacciava la crisi di governo in caso di trattativa, fu determinante nell’imporre la fermezza a una Dc che temeva di sfidare le urne. Dopo la sostanziale parità registrata col voto del 1976, il Pci, presentandosi come solo e vero “partito della fermezza” , avrebbe infatti vinto le elezioni. La sola possibilità di negoziato era affidata a una trattiva segreta, come quella che aveva cercato di intavolare Moro con la lettera a Cossiga del 29 marzo. La lettera non avrebbe dovuto essere resa pubblica. Le Br scelsero invece, tradendo l’impegno assunto col prigioniero, di renderla nota. Persero così la sola possibilità di arrivare a un esito positivo del sequestro e Bellocchio rende giustamente decisivo nell’evolversi della tragedia quel passaggio.
Il lungo film è anche molto esplicito e onesto nell’illustrare come e perché la politica scelse di “delegittimare” l’ostaggio, le sue posizioni che invocavano la trattativa e le sue possibili rivelazioni, facendolo letteralmente passare per pazzo. Quasi tutti lo fecero, mostra Bellocchio, con sofferenza, sensi di colpa, tempeste interiori. Ma alla fine per tutti, incluso Paolo VI col discorso quasi dettato da Andreotti in cui chiedeva la “liberazione senza condizioni”, prevalse la ragion di Stato. Alla quale si contrappongono Eleonora Moro, in una sorta di ripetizione moderna e reale del conflitto tra Antigone e Creonte, e lo stesso Moro, nel colloquio finale con il suo confessore, don Mennini. Il regista ipotizza infatti che i carcerieri abbiano concesso al confessore di visitare l’ostaggio subito prima dell’esecuzione. È improbabile che le cose siano andate davvero così, anche se si tratta di una voce che circola da decenni. Ma qui si tratta in realtà quasi di una licenza poetica, che permette a Bellocchio di far parlare Moro e di fargli ammettere la sua “colpa”: quella, umanissima, di non voler morire.
Ai brigatisti il film dedica uno spazio limitato. Ne compaiono solo tre: Mario Moretti, Valerio Morucci e Adriana Faranda. Il primo incarna, sul fronte opposto della barricata, la stessa ottica che spinse lo Stato verso la fermezza, in nome di una “ragione rivoluzionaria” non diversa da quella “di Stato”. Tra gli altri due, i dissidenti che avrebbero voluto salvare Moro, soprattutto Adriana Faranda è in qualche misura speculare alla famiglia Moro. Il suo dissenso è motivato in parte dal ragionamento politico, dalla convinzione che la liberazione dell’ostaggio sarebbe stata per il sistema più destabilizzante della sua uccisione. Ma a fianco di quel calcolo c’è anche e soprattutto, fatto intuire più che dichiarato, un rifiuto della “ragione rivoluzionaria” che è la stella polare di Moretti come quella di Stato lo è di Andreotti. Si può non essere d’accordo su molti aspetti dell’opera di Bellocchio, ad esempio sulla sua convinzione che il compromesso storico voluto da Berlinguer e Moro fosse la strada giusta per rendere l’Italia una democrazia compiuta e più giusta. Ma il suo film resta la prima opera storicamente valida e rigorosa sulla principale tragedia politica della Repubblica italiana. David Romoli
LA SERIE DI BELLOCCHIO SU MORO. Bellocchio racconta Moro, l’uomo che «doveva morire». TERESA MARCHESI su Il Domani il 17 maggio 2022
Tecnicamente “serie”, ma opera cinematografica a tutti gli effetti, Esterno notte andrebbe goduto in sequenza. Cinque ore e mezzo non sono poche, ma è un privilegio.
I suoi effetti speciali sono semplicemente cervello e regia. A ottantadue anni sembra un talento ancora in crescita.
Ognuno, dal “figlio” Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) al “padre” Paolo VI (Toni Servillo), dai familiari trainati dalla fierezza di Eleonora Moro (Margherita Buy) ai brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci (Daniela Marra e Gabriel Montesi), vive a partire da quel 16 marzo una tragedia diversa.
JFK, di Oliver Stone, Z-L’Orgia del potere di Costa-Gavras, in parte Anni di piombo di Margarethe Von Trotta. Non sono poi tanti, nella storia del cinema, i film che hanno avuto l’ambizione e la capacità di mettere sotto processo una classe politica. Marco Bellocchio, consultato, aggiunge Il Divo di Paolo Sorrentino. Ma la sensibilità politica di Bellocchio, anche ma non solo per questioni anagrafiche, è molto diversa da quella di Sorrentino.
Esterno Notte è la prima avventura seriale di Marco Bellocchio che torna a misurarsi, quasi vent’anni dopo Buongiorno notte, con il trauma incancellabile del sequestro e della morte di Aldo Moro. È agli onori di Cannes 75, al secondo giorno di Festival, nella sezione Première. La prima parte in Italia è già in sala da oggi con Lucky Red, la seconda uscirà il 9 giugno. In autunno i sei episodi saranno trasmessi su Rai 1. E fa sorridere in prospettiva l’idea che sotto la sigla Rai Fiction, che figura nel team produttivo, vada in onda un prodotto così inconciliabile con gli standard cari alla tivù pubblica, per non dire delle private.
DA GODERE IN SEQUENZA
Tecnicamente “serie”, ma opera cinematografica a tutti gli effetti, Esterno notte andrebbe goduto in sequenza. Cinque ore e mezzo non sono poche, ma è un privilegio. E andrebbe goduto, da chi come me in quel 1978 era già adulto e pensante, facendo tabula rasa di memorie e retaggi ideologici.
La folgorante immersione umana di Fabrizio Gifuni nella ricostruzione artistica di Moro è un ausilio cruciale. Racconto emotivo, più che politico, secondo Stefano Bises – sceneggiatore insieme al regista, a Ludovica Rampoldi e a Davide Serino – è un film che scava di fatto nell’essenza profonda della politica, in «quell’evidente silenzio» di cui parlava il presidente della Dc in una delle sue ultime lettere al fedele Benigno Zaccagnini. Un silenzio che è diventato, nel corso degli anni e delle generazioni, rimozione collettiva di un intero paese. Le domande di Fabrizio Gifuni, che aveva lavorato per il teatro sulle carte di Moro, si sono intrecciate a quelle di Bellocchio: due magnifiche ossessioni in cortocircuito.
Rielaborato lungo due anni di riscrittura, il racconto di quei 55 giorni senza respiro segue uno schema di sperimentata efficacia narrativa: ogni episodio riparte da zero, proponendo i punti di vista degli uomini e delle donne più strettamente legati ai destini di un politico colpevole di aver guardato troppo avanti per i suoi tempi. In un’Italia lacerata dallo scontro politico tra gli ultimi fuochi delle utopie e il monolite del potere democristiano, con Moro impegnato nell’estrema battaglia interna per «includere quel 33 per cento di italiani che non hanno votato per noi», ognuno, dal “figlio” Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) al “padre” Paolo VI (Toni Servillo), dai familiari trainati dalla fierezza di Eleonora Moro (Margherita Buy) ai brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci (Daniela Marra e Gabriel Montesi), vive a partire da quel 16 marzo una tragedia diversa. Ma è proprio questo confronto a illuminare sui retroscena della linea della fermezza. Figura sbiadita per la rigidità degli argomenti, nella versione Bellocchio, Enrico Berlinguer non è un personaggio chiave. Lo è, ovviamente, Giulio Andreotti, incarnazione del Potere su cui Bellocchio si era già esercitato con sottile perfidia ne Il Traditore.
IL POTERE DEI SIMBOLI
Il sogno di Aldo Moro uscito vivo dalla prigionia, che era il finale di Buongiorno notte, qui si ripete all’inizio e alla fine del film. Ma nello sguardo che rivolge al trio schierato davanti al suo letto d’ospedale – Andreotti, Cossiga e Zaccagnini – c’è una condanna implacabile. È un miraggio a servizio di una domanda: cosa sarebbe accaduto nell’universo parallelo di un diverso epilogo?
«Mi dimetto dalla Dc, rinuncio a tutte le cariche»: Moro lo aveva scritto, in quei giorni. E in un altro indecifrabile passo ringraziava le Br «a cui devo la salvezza della vita e la restituzione della libertà». Non c’è immaginazione capace di partorire un thriller storico di questa portata, con la sua rete di trame, pressioni, speranze, false piste, incoscienza e follia. Ma l’immaginazione può materializzare incubi, sogni, sensi di colpa di chi ha scelto di chiudere gli occhi. C’è Macbeth dietro le ossessioni che il regista attribuisce a Cossiga. È un ministro dell’Interno che vede macchie sulle proprie mani, invisibili agli altri, paralizzato dagli occhi di Moro nel volantino Br: «Mi sta guardando».
È il potere, squisitamente cinematografico, dei simboli e delle allegorie. Logorato dalla malattia, Paolo VI, che morirà sei mesi dopo, prova in camera le croci che vorrebbe portare sulla Via Crucis, tutte troppo pesanti per le sue spalle. E sogna Moro che come Cristo la porta in sua vece, isolato dalla nomenklatura del suo partito. È il linguaggio dei sentimenti che dilata i fatti, la cronaca nuda, e trasforma lo spettatore non in giudice, ma in testimone.
Il tentativo di riscatto compiuto dal Vaticano non è un’idea astratta, ma una montagna di bigliettoni, concreta, tangibile. Sulla lettera ai brigatisti per implorare il rilascio senza condizioni né contropartite, come ha imposto Andreotti, il Papa suda, si inciampa, sono parole impossibili, senza senso. Ed Eleonora “Noretta” Moro, anima di una battaglia di pietas contro tutto e contro tutti, davanti a quella missiva reagisce: «Si è arreso anche lui!»
Appartiene alla cronaca la strategia di annullare il valore morale delle prime lettere scritte da Moro dichiarandolo pazzo, mentalmente demolito dai carcerieri. Ma è rivoltante il dialogo – tanto fittizio quanto credibile – in cui il “consulente Cia” inviato dagli Usa teorizza la necessità di screditare l’ostaggio. Non dispone dei mezzi pachidermici delle grandi produzioni seriali a stelle e strisce, Marco Bellocchio. Lo scarto tra i grandi interpreti e le prestazioni-lampo dei figuranti di sfondo a volte è stridente, perché non abbiamo il vivaio di talenti freschi dei sistemi competitivi. I suoi effetti speciali sono semplicemente cervello e regia. A ottantadue anni sembra un talento ancora in crescita.
LO SGUARDO SUI BRIGATISTI
Qualcuno noterà che nel corso del tempo lo sguardo dell’uomo sui brigatisti si è andato modificando. Sono figure su cui ha ragionato fin dai tempi di Diavolo in corpo, appartenendo a una generazione che di utopie politiche si è nutrita, a vent’anni, fino a farne un perno della propria esistenza. Protagonisti nel racconto di Buongiorno notte, qui i brigatisti, nella genesi del progetto, non erano contemplati, benché l’interesse per il percorso di Adriana Faranda avesse suggerito in passato al regista l’idea di un possibile film.
Ma c’è un versante del partito della trattativa con cui Bellocchio ha voluto spezzare il cieco fronte della lotta armata. C’è un ribollire di dubbi nella sua Faranda, non a caso una donna, non a caso una madre che ha sacrificato sua figlia. I suoi compagni sono sordi e grotteschi, monoliti senza domani. Lei, nei suoi incubi, vede scorrere cadaveri sulla corrente placida di un fiume. In un’opera intrisa di citazioni da schermo, Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah è la chiave per leggere la funerea Weltanschauung delle Br: non il fantasma della rivoluzione proletaria, ma morire da eroi dopo una bella strage.
Taccio volutamente della vera eroina del film, Eleonora Moro: è una sorpresa da non guastare, come l’impennata di scrittura e recitazione dell’episodio finale, come il lavoro emozionante di non-star, Paolo Pierobon, Fabrizio Contri, Gigio Alberti. Il tremendo spettacolo del Potere si è consumato. La morte ha fatto l’uovo, con un aiutino dai piani alti.
Come da esplicita richiesta dello statista, la famiglia rifiuterà i funerali di stato, che verranno celebrati comunque, il 13 maggio, senza feretro, senza il martire che non voleva essere martire. È la tragica farsa di un paese che celebra le proprie esequie. Quell’uomo, come Cristo, «doveva morire», scrive Bellocchio. Perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma nella mente degli italiani.
TERESA MARCHESI. Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
Bellocchio torna al caso Moro e lo fa sbarcare sulla Croisette. Stefano Giani il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.
In "Esterno notte" il regista rimette in scena la tragedia dello statista. Stavolta in una serie. E senza compromessi.
Hanno ammazzato Moro. Moro è vivo. E si dimette dalla Dc in rotta con ogni meccanismo del partito. Via Caetani. Baule di una Renault rossa. Il sacrificio è compiuto. Lo statista, accreditato a diventare presidente della Repubblica, di lì a qualche mese alla scadenza di Giovanni Leone, si trasforma invece nel martire di uno Stato che celebra i funerali di se stesso. Manca infatti il protagonista delle esequie. Il defunto.
Per lui, cerimonia in forma privata e passerella dei papaveroni politici fine anni Settanta senza Aldo Moro. L'artefice del compromesso storico. L'uomo per il quale un papa - Paolo VI - si era schierato apertamente. Il vicario di Cristo nel mondo, la quintessenza dell'ultraterreno, si era fatto inequivocabilmente terreno. Ma - come anni prima con Franco che supplicò per abolire la pena di morte - non venne ascoltato nemmeno dai brigatisti rossi ai quali chiese di liberare il presidente della Dc senza pretendere nulla in cambio.
Erano gli anni di piombo. Un sistema che vacillava. Marco Bellocchio, che nel 2003 li aveva raccontati in Buongiorno notte, torna sull'argomento con una serie tv in sei puntate di un'ora (protagonista Fabrizio Gifuni)che assaggerà la sala cinematografica dal 18 maggio con le prime tre parti e dal 9 giugno con le ultime tre. In autunno Esterno notte verrà programmato su Raiuno. Intanto arriva a Cannes per il credito di stima di cui gode il regista piacentino presso il direttore del Festival, Thierry Fremaux che un anno fa lo aveva premiato con la Palma d'oro alla carriera.
A gennaio, in una chiacchierata informale, era venuto a conoscenza del progetto di Bellocchio. Tempo quindici giorni, con un cartellone ancora tutto da definire, è arrivata la telefonata. «È il primo film che scelgo», diceva il francese. Ed è dai tempi de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana che un'opera così massiccia non sbarcava sulla Croisette. Stavolta il caso Moro, studiato come serie tv, trova un posto nella rassegna cinematografica più prestigiosa del mondo. E descrive l'esterno della notte più buia della Repubblica. Non più, quindi, un'esegesi degli eventi. Né un racconto degli accadimenti ma come è stato vissuto il sequestro e la condanna a morte dell'onorevole Aldo Moro. L'esterno, appunto.
Ne esce un quadro impietoso che non risparmia accuse brucianti, cui nessuno è esente. L'ambiguo Francesco Cossiga, ministro dell'Interno e pupillo del presidente Dc che non ha saputo proteggere dai rischi del terrorismo. Il cinico Giulio Andreotti, ritratto del male assoluto. Il gelido Benigno Zaccagnini, segretario Dc e icona di quegli squali che nuotano in parlamento e - tra la retorica di circostanza - lasciano morire un «amico». Il freddo e negativo Enrico Berlinguer. Il dolore dei familiari di Moro che cozza contro il muro di falsità della politica militante e lo zelo iconoclasta di una lotta armata che anch'essa firma la sua fine con i proiettili che spengono la vita dello statista.
Esterno notte è opera di grande corporeità perché, anche attraverso la fisicità, viene descritta la tragedia. Il divo Giulio cede alle convulsioni dopo la notizia dell'agguato di via Fani. Cossiga è divorato da una tensione che gli consuma la pelle. Il pontefice crolla progressivamente verso la china finale e morirà due mesi dopo il tragico rinvenimento della Renault rossa. Sangue sull'arte. La settima.
Il cinema evocato tra riferimenti ad Anima persa e Il mucchio selvaggio, titoli emblematici che rappresentano l'agnello sacrificale Moro e il terrorista Valerio Morucci in un dedalo di incroci che solo alla fine mostra i volti dolenti dei veri protagonisti. E colpiscono maggiormente proprio nell'anticlimax verso l'abisso con quel funerale senza defunto dove i veri cadaveri sono quelli delle «autorità», ignare di celebrare la morte di uno Stato di cui sono espressione mentre la stessa lotta armata firma la sua morte. Esterno di una notte senza fine.
“Esterno Notte”: Bellocchio torna sul caso Moro, ferita senza pace. Serena Nannelli il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il regista riesamina il sequestro Moro firmando, oltre che un j’accuse politico e umano, l’affresco degli idealismi infranti di un intero Paese.
Esterno notte di Marco Bellocchio, opera presentata il secondo giorno del Festival di Cannes in corso, è attualmente al cinema e ripercorre uno dei momenti più drammatici della storia della Repubblica Italiana: il sequestro Moro.
Allo stesso tema il regista aveva già dedicato nel 2003 il film “Buongiorno Notte”, ma se quasi vent’anni fa il fatto era inquadrato cinematograficamente dal punto di vista di una giovane terrorista coinvolta nel rapimento, oggi Bellocchio sposta la narrazione, come “annunciato” nel titolo, all’esterno di quel cubicolo in cui per 55 giorni Moro trascorse la prigionia, proponendo i medesimi eventi vissuti dalla prospettiva ora dal rapito, ora dai suoi colleghi e pseudo-amici, ora dalla famiglia, ora dai brigatisti. A ogni episodio o capitolo che dir si voglia, a seconda che si percepisca l’opera come miniserie o lungo film, scopriamo la reazione di chi pur non essendo fisicamente accanto a Moro è gioco forza sotto il giogo dello stesso dramma.
La dilatazione temporale in quasi sei ore di girato permette un approfondimento degli ideali, delle motivazioni profonde e delle fragilità di tutte le parti interessate.
Si va dalle stanze dei bottoni, in cui protagonista è soprattutto il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), a quelle vaticane di Papa Paolo VI (Toni Servillo), dalla dimensione domestica di Eleonora Moro (Margherita Buy) alle divisioni interne che nascono tra gli aguzzini.
L’incipit, dopo l’immaginifica sequenza in cui Moro appare liberato e grato alle Brigate Rosse per la clemenza (ma non siamo nel revisionismo storico alla Tarantino), si sofferma sulla genesi dell’astio trasversale per quest’uomo gentile e onesto: i tempi non erano maturi per la sua visione politica, l’ipotesi del compromesso storico tra DC e PCI agitava gli animi e creava nemici ovunque.
In “Esterno notte” la corte di politici pullula di personaggi faziosi o vili o ipocriti, con focus su un Cossiga disturbato e irrisolto al punto da venire poi definito “bipolare”. Lo vediamo vittima di psoriasi psicosomatica, nonché paralizzato da allucinazioni paranoiche. Il suo assurdo peregrinare tra intercettazioni telefoniche, consulenze e false speranze, regala piccoli scorci di assurdo, le sole parentesi ilari dell’intero racconto. Andreotti (Fabrizio Contri) è il ritratto dell’impenetrabilità ma bastano un paio di pennellate a definirne il pericoloso sposalizio tra essenza autoindulgente e rigidità bacchettona. Verso la fine della narrazione non si faranno sconti a quella che viene etichettata come laida ignavia, ma sarà durante l’unico momento di vera fiction, ossia la confessione di un condannato a morte che nella realtà nessuno ha udito ma il cui supposto contenuto deve aver pungolato a lungo molte coscienze.
In “Esterno Notte” sono molti gli uomini tutto sommato mediocri ma raffigurati in posizioni di potere (istituzionale o criminale che sia). Perfino di una figura di indubbia statura spirituale come papa Paolo VI si accentuano il senso di inadeguatezza, la confusione e l'umana indecisione. In alcuni è la mancanza di lungimiranza, in altri lo scarso coraggio, ma il risultato non cambia: ognuno ha le proprie colpe.
Bellocchio ben raffigura la genesi della tempesta perfetta. Moro è circondato da segnali in ogni dove, dalle scritte sui muri delle strade che percorre quotidianamente in auto agli onnipresenti slogan urlati nei cortei di piazza, fino alle incursioni di falsi studenti alle sue lezioni all’Università. Sono gli “Anni di Piombo”, quelli in cui il malcontento e la tensione sociale sfociano in una ribellione che diventa violenza multiforme.
La ricostruzione del gioco di corresponsabilità tra istituzioni e brigatisti rende evidente come i carnefici raramente indossino una sola casacca quando in gioco sono gli interessi di molti.
Bellocchio, al netto di qualche licenza poetica, ha grande lucidità nel descrivere quello che fu un vero attacco al cuore dello Stato. Tra trattative, fallimenti, depistaggi e certe teorie astruse, il tempo scorre scandito dalle lettere del rapito e dai comunicati dei brigatisti.
Se il coinvolgimento di Servillo, la cui bravura non si discute, pare non essere stata la scelta giusta (stavolta l’iconicità dell’attore inficia la credibilità del personaggio), la performance di Gifuni nei panni del riflessivo e pacato statista democristiano è invece qualcosa di memorabile.
L’interprete, che aveva già portato a teatro la lettura delle lettere scritte da Aldo Moro durante la prigionia, incarna lo sfortunato politico in maniera impressionante. Il tono placido eppure di straordinaria intensità con cui pronuncia parole misurate e piene di decoro, la voce così scrupolosamente simile e la presenza scenica enorme pur coniugata in piccoli gesti non hanno eguali se non, appunto, nel fu Moro. Anche quando non è fisicamente in scena, lo spettro del suo personaggio resta potente nel tormento emotivo di tanti.
La caratterizzazione meticolosa in "Esterno notte" non riguarda solo i personaggi ma anche il tessuto valoriale di anni in cui convivono una religiosità che ancora crede nel cilicio, una rabbia ideologica che non esita a farsi armata e sanguinaria e un’utopia politica destinata a restare vittima del proprio ottimismo. Sembra che nella via crucis di un uomo si rifletta quella di ogni forma di idealismo del tempo.
“Esterno notte” non è solo il solenne “De Profundis” di una persona, ma di un’epoca.
Bellocchio, offrendo una panoramica drammaturgica dell'Italia di ieri agli italiani di oggi, costringe a riflettere su un passato ancora vivo. Prendere coscienza di come alcuni accadimenti siano stati e restino una questione morale oltre che istituzionale, è un atto di civiltà.
La prima parte dell'opera è in sala, la seconda uscirà il 9 Giugno mentre l'insieme, in formato di mini-serie, andrà in onda in autunno sulla Rai.
Marco Giusti per Dagospia il 18 maggio 2022.
Cannes. Seconda giornata. Siete pronti per “Esterno notte”, serie di sei puntate, o se preferite film di sei ore o sei film di un’ora l’uno, dedicati al rapimento Moro e ai suoi principali protagonisti? Ve lo dico subito. E’ di gran lunga il miglior film italiano della stagione, imperdibile per chi ha vissuto quegli anni, perché Bellocchio conosce alla perfezione le storie e i personaggi che sta mettendo in scena, che solo in parte ha già ricostruito nel bellissimo “Buongiorno, notte” vent’anni fa, perché questo sembra proprio coprire quello che nel primo film non si vedeva, l’esterno del buio profondo della prigione di Moro, la notte profonda della nostra Repubblica.
E non si fanno sconti. “Io odio Giulio Andreotti”, dirà nella sua ultima apparizione Aldo Moro, ritenendo il Presidente del Consiglio e suo collega di partito il vero regista dell’intera vicenda e della sua morte.
E Francesco Cossiga? “Un ingrato… un bipolare… un ciclotimico”. E la Democrazia Cristiana, il suo partito? La Democrazia Cristiana la sbriga già nella prima, incredibile scena, dove vediamo tutti i nomi più potenti del suo partito che lo vanno a trovare “da vivo” dopo il rapimento delle BR. Qualcosa da cui scappare per sempre.
Come già accadde in “Buongiorno notte”, Bellocchio si prende il lusso di dipingere altri scenari possibili, solo se le BR lo avessero salvato, come ci dicevamo fra di noi allora. Moro vivo… Moro morto… Ma a chi sarebbe convenuto un Moro vivo?
Non certo alla DC e a Andreotti, né al PCI di Berlinguer, né ai servizi americani, che attraverso Cossiga conducono la loro strategia. Mentre Craxi è per trattare, intuendo che è quello che gli americani non vogliono. Certo che sarebbe convenuto alle BR. Che con Moro vivo magari non sarebbero state decapitate come accadrà neanche due anni dopo. Il meccanismo dei due diversi finali possibili del caso Moro serve a Bellocchio per spiegare politicamente la scelta-non scelta di Andreotti e soci e quella delle BR, che impongono la morte di Moro anche a chi, come Morucci e Faranda, lo vedevano come un terribile errore politico.
Ma cosa ci possiamo aspettare da un uomo della cultura di Mario Moretti, un perito elettronico?, si domanda il colto Cossiga, quattro lauree, cinque lingue parlate, una passione quasi delirante per le intercettazioni, per sentire la vita degli altri, per registrare qualsiasi cosa. Mentre a casa soffre perché la moglie continua a rifiutarlo e le mani si riempiono di impetigine. La serie è divisa in sei parti ben distinte, ognuna dedicata a un personaggio della storia. La prima parte spetta ovviamente a Aldo Moro, interpretato alla perfezione da Fabrizio Gifuni, più vicino al Volonté di “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara che al Roberto Herlitzka di “Buongiorno notte”, a pochi giorni dal rapimento mentre tesse il Compromesso Storico col PCI di Berlinguer per la prima volta in appoggio esterno al governo DC, cercando così di aprire il paese a un nuovo corso. Che non arriverà mai.
La seconda è dedicata a Francesco Cossiga, interpretato con giusta nevrotica complessità da Fausto Russo Alesi, al tempo Ministro dell’Interno, pupillo di Moro, quasi un figlio politico, che vede il rapimento come la sua stessa fine politica. La terza invece è dedicata alla figura di Paolo VI, interpretato con giusta solennità da Toni Servillo, un Pontefice già molto malato e sofferente che cerca di salvare come può l’amico fraterno punendosi con un cilicio quasi medievale e poi servendosi di un personaggio di mediazione, Don Curione, interpretato con grande umanità da Paolo Pierobon, che terminerà con la celebre lettera del Papa agli “uomini delle Brigate Rosse” per chiedere la liberazione di Moro.
La quarta, è dedicata alla figura di Adriana Faranda, interpreta da Daniela Marra, bravissima e credibilissima, che lascia la famiglia e la figlioletta per seguire la via della rivoluzione con Valerio Morucci, benissimo interpretato da Gabriel Montesi, che già fu un perfetto Cassano nella serie dedicata a Totti “Speravo de morì prima”. Attraverso la figura della Faranda, Bellocchio scava sull’evidente errore politico di Moretti e delle BR e ci riporta in maniera incredibilmente presente alla realtà di quei giorni. La quinta è dedicata a Nora, la moglie di Moro, interpretata con toni asciutti e profondi da Margherita Buy, nel momento più tragico della vicenda, quando cioè si accorge che il partito, la DC, non muoverà un dito per la salvezza del marito.
La sesta e ultima puntata deve concludere l’intera vicenda con la morte di Moro e la sua macabra messa in scena. Inutile dirvi per tutte le sei ore, malgrado una sceneggiatura complessa dove le storie dei singoli personaggi si intrecciano, Bellocchio tiene perfettamente in pugno il suo film e la sua costruzione non lineare, usando certi momenti ritornanti come puntelli per farci meglio capire la storia e i suoi tempi sfalsati.
E se possiamo preferire il bellissimo episodio del Papa e di Don Curione o quello ultrarealistico della coppia Morucci-Faranda o quello più originale dedicato a Cossiga, non mancano mai né le sorprese del meccanismo narrativo né quelle di pura messa in scena, la grande tavola di Roma che gronda sangue sotto gli occhi di Cossiga, Andreotti, interpretato da Fabrizio Contri, che quando sente del rapimento di Moro, si chiude in bagno e vomita, le scene di rivolta per le strade con gli slogan, il ritorno dei percorsi romani più tipici pieni di scritte d’epoca, la Via Crucis, l’uso dei repertori televisivi con Bruno Vespa e Emilio Fede.
Bellocchio non solo ingloba nella serie, sfruttandola, l’esperienza di “Buongiorno notte”, non solo ingloba gli altri film girati su Moro, dal grottesco di “Todo Modo” di Elio Petri al realismo non sofisticatissimo del “Caso Moro” di Ferrara, che pure aveva fior di attori, da Volonté a Margarita Lozano, ma tocca anche il nuovo grottesco sorrentiniano di “Il Divo” e di “The New Pope”, riuscendo sempre però a imporre un suo sguardo preciso, mai moralista, sulla storia, sui tempi, sulla follia della lotta armata, su quello che significò per tutti noi la morte di Roma. Una morte che porterà alla fine delle BR e alla nascita della Prima Repubblica, al CAF, a Bettino Craxi e Berlusconi e a Mani Pulite. “La politica ha un prezzo” si sente dire da Moro a Cossiga, senza pensare al prezzo che lui stesso sarà costretto a pagare per la politica del suo partito.
Se la figura di Andreotti rimane quella più ambigua e non sviluppata, magari ci ha pensato Sorrentino, si dirà, e quella di Cossiga è frutto di un continuo tormentarsi cattolico fra il bene del partito e la gratitudine al suo maestro, il Moro che viene fuori da questa serie è un Moro combattivo che è sceso in campo pronto a regolare i conti con un partito che ha dominato il paese e che forse un’apertura politica a sinistra avrebbe potuto migliorare. Solo un Paolo VI ormai vecchio e malato vede come precisa scelta politica per il bene del paese, quella di liberare Moro.
Grande racconto tragico che non so francamente come verrà accolto dal pubblico di Rai Uno in tv, “Esterno notte”, come il celebre programma di Sergio Zavoli, “La notte della Repubblica”, è un viaggio di grande intelligenza e conoscenza storica dentro il cuore profondo del paese, senza dover per questo fare rivelazioni sorprendenti o sposare qualche tesi. Bellocchio sa come non cadere nelle trappole del cinema politico, essendoci nato dentro. Ma quel che mette in scena, con la produzione di Lorenzo Mieli di The Apartment, con il montaggio di Francesca Calvelli, con la musica (una vera scoperta) di Fabio Massimo Capogrosso e la fotografia di Francesco Di Giacomo non è una lezione di storia, è una lezione di cinema. Fenomenale. Da oggi in sala la prima parte di tre ore. Tre puntate.
E Moretti disse: «Se lo Stato avesse ceduto noi avremmo vinto. I Servizi? Idiozie». La testimonianza dal libro: "Brigate rosse. Una storia italiana", di Mario Moretti, Carla Mosca Rossana Rossanda. Il Dubbio il 18 maggio 2022.
Pubblichiamo di seguito un estratto dal libro: “Brigate rosse. Una storia italiana”. Di Mario Moretti, Carla Mosca Rossana Rossanda.
Perché non prendeste in esame la possibilità di liberare unilateralmente Moro? Avrebbe rotto con la Dc, avrebbe messo in difficoltà il Pci.
Se si trattava di incrinare la scena politica, questo l’avrebbe modificata. Non si può giudicare col senno di vent’anni dopo. Nel 1978 la Dc era compatta sulle posizioni di Andreotti-Berlinguer, la spaccatura era fra Moro e tutti gli altri. Quanto sarebbe durata? Oggi sappiamo che i suoi amici al governo stavano occupandosi di come neutralizzarlo, farlo passare per matto. Avevano preso le loro brave precauzioni per ricondurre la pecorella all’ovile.
Adesso sei tu a paventare una sindrome di Stoccolma… Il Moro che ci hai descritto si sarebbe ribellato a farsi trattare con psicofarmaci. E non sarebbe rientrato docilmente all’ovile.
Se si fosse aperto un varco e l’avessimo liberato, come abbiamo fatto con altri, Moro sarebbe diventato presidente della Repubblica e la Dc non sarebbe stata demolita affatto.
Forse, se si fosse creato il varco nel fronte della fermezza. Ma stiamo prospettando l’ipotesi che lo liberaste unilateralmente, mentre tutta la scena politica gli aveva detto “no”. Fra l’altro nei movimenti c’era stata una simpatia al momento del sequestro, sembraste figure vendicatrici, i nuovi Robin Hood. Ma quando si parlò di esecuzione, tutti vi chiesero di fermarvi e lasciarlo libero.
Ah sì, è vero, verissimo. Quelli che hanno libertà di esprimersi dicono proprio questo. Immaginavano che si trattasse d’una partita, più o meno sportiva; se le stanno dando, ma poi suonerà il gong. Non è stato molto serio.
Sei ingeneroso. Avreste parlato al paese, lasciando Moro libero.
Il paese chiedeva molte cose, delle quali la liberazione di Moro non era certo la più pressante. La sinistra che non stava nello stato stava alla finestra. Liberare Moro con un atto unilaterale significava ammettere una parziale sconfitta o incassare un parziale successo – su questo si potrebbe discutere all’infinito. Ma per un’organizzazione di guerriglieri che avevano fatto un’operazione enorme, con un grandissimo impatto, lasciar libero Moro senza contropartita significava registrare un limite invalicabile della nostra strategia, ammettere che la guerriglia aveva un tetto che non avrebbe mai potuto sfondare. La guerriglia urbana, quella che avevamo definito nientemeno che la politica rivoluzionaria dell’epoca moderna, sarebbe apparsa sulla difensiva, e in fin dei conti lo stato invincibile. Era inaccettabile… non lo potete capire, non siete Brigate Rosse. Per questo, nonostante avessimo fatto di tutto per evitarla, all’unanimità decidemmo l’esecuzione. Dico all’unanimità perché due compagni che dissentono – Morucci e Faranda – non fanno un’eccezione, sono una eccentricità.
Non eravate in grado di far capire ai vostri militanti che un punto era stato segnato, una contraddizione aperta, e che liberando Moro rilanciavate sul piano politico?
Eravamo in grado di capire e far capire questo e altro. Ma non è il punto. Il punto è che qualsiasi cosa fosse successa dopo che avessimo lasciato libero Moro, liberarlo senza contropartita significava decretare la fine della lotta armata, ammettere che la lotta armata non può vincere. Una riflessione del genere, in quelle circostanze, nessuno poteva né proporla né accettarla, si sarebbe gridato al tradimento. Se mai, mi ostino a credere, una ridiscussione su noi stessi sarebbe stata favorita dalle circostanze opposte, quelle che la Dc e il Pci non vollero, o che non seppero cercare. Alla fermezza non potemmo rispondere che con uguale rigidità: “Non è una grande vittoria,” pensammo “ma almeno non è la sconfitta sicura”. Abbiamo processato la Dc, guadagnato grandi simpatie pur in quella tragedia e sotto quella cappa tremenda, e questo ci resta. Tanto è vero che saremmo andati avanti ancora quattro anni.
Il figlio di Andreotti: «Nel film di Bellocchio falsità su mio padre. Non andrò a vederlo». Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 18 maggio 2022.
Stefano Andreotti, 70 anni
«H o visto che il regista Marco Bellocchio si è pentito dopo cinquant’anni di essere stato tra i firmatari del documento famigerato contro il commissario Luigi Calabresi: proprio adesso che ci vuole fare un film. Poi parlano di cinismo di Andreotti... Spero che tra una ventina d’anni, studiando magari un po’ di carte, si penta anche dell’immagine falsata che mi dicono dia di mio padre Giulio nella sua ultima pellicola sul sequestro di Aldo Moro. Che non andrò a vedere». Stefano Andreotti, 70 anni, terzogenito dell’ex premier democristiano scomparso nel 2013, arrota il sarcasmo e la erre francese «ereditata dalla famiglia di mia madre Livia Danese insieme alla bassa statura, perché gli Andreotti invece sono altissimi: compreso mio figlio Giulio». Ma conferma soprattutto quanto sia siderale e irrisolvibile la distanza tra l’immagine cinematografica dell’emblema del potere democristiano nella cosiddetta Prima Repubblica, e quella che ne serba la famiglia.
Scusi, dottor Andreotti, ma ci sono stati film nei quali è stato accreditato perfino il bacio di suo padre al mafioso Totò Riina, nonostante le perplessità degli stessi magistrati. Ma non avete reagito.
«Allora non dicemmo nulla come famiglia perché era vivo mio padre. E mio padre non aveva bisogno di difensori. Ricordo che quando vide con Gian Luigi Rondi il film Il Divo in una saletta privata, disse: “È una vera mascalzonata”. Ma non ha mai reagito, mai querelato, e noi per rispetto nei suoi confronti lo abbiamo assecondato, pur non essendo sempre d’accordo».
Secondo lei suo padre non era cinico? Per un uomo di potere è quasi una dote, non un difetto. Non le fa velo l’affetto filiale?
«Guardi, premetto che non ho visto il film ma solo letto gli articoli in cui si fa riferimento a mio padre. Ma mi è bastato vedere altre opere di Bellocchio come quella sul mafioso pentito Tommaso Buscetta, che ha fatto apparire quasi come un eroe. Quanto al cinismo: la cosa intollerabile è che dipingano mio padre come se fosse responsabile dell’assassinio di Aldo Moro, insensibile ai tentativi di salvarlo. Di più, quasi d’ostacolo alle trattative. Questa è una profonda falsità politica e ingiustizia storica».
È un fatto che fosse presidente del Consiglio e il più esposto al no alla trattativa con le Brigate rosse.
«Ma per la trattativa non era quasi nessuno. Enrico Berlinguer e il Pci erano contrari, Giovanni Spadolini e il Pri, il futuro capo dello Stato Sandro Pertini e gran parte della Dc. La trattativa significava rilasciare dei terroristi in prigione. Era possibile dopo l’uccisione di cinque uomini della scorta di Moro? Quegli anni sono stati brutti, e quelli dopo, con i processi di Palermo e Perugia, furono addirittura più infamanti: babbo li visse come un Purgatorio in terra, ci diceva. Ma non poteva accettare di essere descritto come un ostacolo alla liberazione di Moro. È una mistificazione, come quella di raffigurare Moro come un politico che non apparteneva alla Dc».
Se fosse stato rapito lui, che cosa avrebbe fatto? E voi che avreste fatto?
«Ne abbiamo discusso molto, in quei mesi terribili e anche dopo. Ci disse: se succede a me, bisogna fare la stessa cosa. Lo Stato non può riconoscere un’organizzazione criminale e terroristica».
Sembra proprio che Andreotti e il caso Moro rimangano prigionieri della cronaca. Lei come se lo spiega?
«È un Paese con la memoria corta, nella quale continua la demonizzazione della Dc da parte di una sinistra sconfitta dalla storia insieme con l’Unione sovietica dalla quale di fatto dipendeva e alla quale era legata a doppio filo. E sulla contrapposizione tra Moro e il suo partito si dimentica che fu lui a dire in Parlamento: “Non ci faremo processare nelle piazze”. E sempre lui volle mio padre a Palazzo Chigi per guidare il governo con i comunisti nella maggioranza».
«Esterno notte», il caso Moro nella serie di Bellocchio presentata alla Croisette
Colpisce un po’ vedere emergere gli Andreotti come famiglia, e con questa voglia di riabilitare la figura paterna, dopo che per decenni con vostro padre vivo e potente sembravate non esistere.
«Era una scelta di mio padre, e condivisa da noi, di crescere il più possibile come una famiglia normale, facendo pesare il meno possibile un cognome ingombrante. E noi ne siamo stati ben felici».
Non si riconosce neanche nell’immagine un po’ tetra, misteriosa che alcuni film hanno trasmesso della vita privata della vostra famiglia? «Nemmeno un po’. La verità è che anche quella descrizione della nostra famiglia è stata data sulla base di pregiudizi, senza conoscere davvero nulla di noi. Mio padre era esattamente l’opposto di quanto si diceva. In famiglia era pieno di umorismo, di attenzioni, di vita. E, sembrerà strano ad alcuni, di gesti affettuosi».
Lei ne sembra molto orgoglioso.
«Non sembro, sono molto orgoglioso di lui. E voglio ricordare quanto fosse diverso da come lo raffigura la vulgata: colluso con la mafia, o così cinico da fare ammazzare Moro. Ricordo le serate con monsignor Pasquale Macchi, braccio destro di Paolo VI, a casa nostra in Corso vittorio Emanuele, a Roma, alla disperata ricerca di un canale per salvare Moro. Pensi che quando quel terribile 9 maggio del 1978 Francesco Cossiga chiamò mio padre per dirgli che era stato ritrovato, per qualche attimo sperò che lo avessero liberato e non ucciso. Era un uomo con la coscienza pulita, e lo dimostra la serenità con la quale ha affrontato la morte. Aveva una fede profonda in Dio, che io non ho così profonda».
I nipoti che ne pensano?
«Per loro è un mito. Un vero nonno, affettuoso e attento. Il loro è stato un rapporto forte, intenso, complice».
Non sta offrendo un’immagine troppo angelicata? Suo padre è stato un uomo di potere controverso, per alcuni spietato. Ed era famoso per le raccomandazioni. Lei ne ha goduto?
«Non scherziamo. Tutti noi quattro, due figlie e due figli, abbiamo fatto il nostro percorso lavorativo lontani dal potere e dalla politica. Racconto solo un episodio. Nel 1977, mio padre era presidente del Consiglio, un amico mi disse che assumevano alla Siemens, a Milano. Col cuore spezzato di un romano che ama Roma, andai al colloquio. Poi passai all’ufficio del lavoro perché a quel tempo serviva il nulla osta. Quando l’impiegato lesse il mio cognome, disse d’istinto: “Andreotti… Di certo non è figlio di quell’Andreotti, altrimenti non sarebbe qui a fare la fila come gli altri…”. E sono andato a fare l’impiegato a Milano».
Caro Bellocchio, la fermezza di Andreotti salvò il nostro Stato. La polemica sul nuovo film di Marco Bellocchio "Esterno notte", che sembra avallare la narrazione di un Andreotti cinico e spietato che quasi determinò la morte di Aldo Moro. Gianfranco Rotondi su Il Dubbio il 17 maggio 2022.
Non vedrò il film di Marco Bellocchio, fidandomi dell’intuito di Stefano Andreotti, che ha annunciato la decisione di non voler assistere alla proiezione di un film cucito su misura del luogo comune del cinismo andreottiano. In realtà il film di Bellocchio prosegue una ricerca del regista sul ‘caso Moro’, già culminata nella precedente opera intitolata ‘Buongiorno notte’. Già nel primo film la ricostruzione storica del caso Moro era alquanto approssimativa. Ma tant’è : la licenza cinematografica è come quella poetica, e ci può stare una libera reinterpretazione fantastica delle vicende.
Temo però che ‘Esterno notte’ – che completa con due lungometraggi una vera e propria trilogia morotea di Bellocchio – vada leggermente oltre la licenza poetica: dalle pellicole scaturisce una adesione quasi ideologica alla vulgata di un Andreotti cinico e indifferente alla sorte di Moro, freddo esecutore di un disegno superiore volto ad eliminare Moro dalla scena politica. Siamo quasi alle chiacchiere da bar Sport del tempo del sequestro, quando si sentivano manipolo di destra e sinistra cianciare che ‘a far fuori Moro ci hanno pensato i democristiani’.
Dalla tragedia di Moro ci separano quarantaquattro anni. Vi sono stati processi, indagini, inchieste. Giace nelle biblioteche e nelle emeroteche una florida produzione giornalistica e letteraria sul tema. Più di recente vi è stata una commissione di inchiesta molto ben condotta da un politico intelligente e non prevenuto come Beppe Fioroni. Sulla genesi del caso Moro non sappiamo molto di più di quarantaquattro anni fa. La sola scelta condivisibile di Bellocchio è la titolazione evocativa della notte: il sequestro Moro fu davvero la notte della repubblica, il mistero dei misteri di una stagione repubblicana solcata ciclicamente da eventi tragici. Il senso di impotenza di fronte a tale mistero non può tuttavia giustificare l’adesione a costruzioni retoriche spacciate per verità: un film condiziona il pubblico soprattutto giovanile, ed è un peccato di superbia raccontare la morte di Moro come l’esito di una strategia lucida e cinica dei suoi compagni di partito. Certo, è stata la vulgata di un tempo di cui conserviamo memoria: Cossiga veniva presentato come servo di poteri internazionali che avevano condannato Moro a morte, e Andreotti esecutore se non correo del disegno. Ma era una vulgata, appunto, da bar Sport, senza le pretese di solennità di un evento culturale come la produzione di un film.
La verità è che la Dc scelse la linea della fermezza nei confronti delle Brigate Rosse. Decise di non trattare, di non aderire agli scambi di prigionieri e di favori variamente proposti da una cospicua e variopinta costellazione di mediatori. Tutta la Dc decise di rischiare la vita di Moro, ma di non cedere alla apertura di una trattativa che avrebbe messolo Stato alla pari se non in ginocchio rispetto al terrorismo rosso. La Dc scelse lo Stato, la fermezza, declinó nell’ora più tragica il suo dna di forza garante dell’ordine costituzionale, e su questa linea ebbe anche la solidarietà del PCI. Questo è vero, ed è indubitabile che il partito democristiano mettesse in conto l’uccisione di Moro. Ma di qui a concludere che la Dc volesse la morte di Moro,o fosse indifferente al suo destino, ce ne passa.
Tutti i democristiani erano consapevoli di sfidare il demonio terroristico. Molti leader democristiani misero per iscritto che – in caso di loro rapimento – non si doveva tener conto di eventuali loro appelli alla trattativa, perché contrari al giudizio che esprimevano in condizioni di serenità e di libertà. Di fronte a queste decisioni così drammatiche, non si può speculare raccontando il cinismo invece dell’eroismo dei democristiani. Quanto ad Andreotti, il cinismo accompagnava la sua leggenda. In realtà era solo un uomo molto controllato nelle emozioni, come era tipico della generazione nata tra le due guerre, e attraversata da tutte le tragedie collettive del novecento. Lo stesso mal di testa di Andreotti, malessere stabile di cui hanno raccontato generazioni di cronisti, facilmente era solo il riflesso psicosomatico della fatica di controllare il turbinio delle emozioni di una vita vissuta oltre la frontiera del rischio personale. I diari di Andreotti oggi ci restituiscono un uomo molto diverso: delicato nelle relazioni personali, attento verso amici ed avversari, sollecito maggiormente verso i deboli e coloro che erano declinato da posizioni di potere. Ma a una certa area culturale questa verità non piace. Viene preferita la maschera algida di Andreotti da offrire al grande pubblico, perché nella storia la Dc deve rimanere così, nella postura più inquietante.
La verità è che certa ‘intellighenzia’ non vuol far sapere ai posteri che a uccidere Moro furono terroristi rossi, comunisti mai pentiti, marxisti- leninisti coerentemente legati alla prassi dell’eliminazione fisica dell’avversario. Possono aver avuto complici internazionali persino nella loro controparte ideologica, ma certamente gli assassini erano loro, ì terroristi rossi. Ma questo è brutto da pensare e da raccontare. Meglio nascondere tutto dietro il sorriso cinico del divo Giulio.
La serie tv al Festival di Cannes. “Esterno notte”, Bellocchio racconta Aldo Moro: “Un vero riformista che ha pagato per le sue idee”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 17 Maggio 2022.
Torna a pieno regime nelle sue date primaverili il 75esimo Festival di Cannes, ai nastri di partenza oggi 17 maggio fino al 28. L’edizione dello scorso anno era stata posta nelle retrovie di un luglio caldo e fin troppo turistico ma aveva riacceso, nella rassegna francese, la voglia di competere ancora ad alti livelli, soprattutto per reggere il confronto con la rivale, mai dichiarata tale, Mostra del Cinema di Venezia. Esce virtualmente dalle restrizioni della pandemia dunque e lo dichiara con il manifesto di quest’anno, una foto di scena di Jim Carrey in The Truman Show di Peter Weir, che lo ritrae nell’atto di uscire da quel mondo finto e fittizio di cui era schiavo.
Non ha paura di selezionare tutti i film francesi possibili, il delegato generale Thierry Fremaux e al contempo di azzardare due manovre acchiappa pubblico generalista: un omaggio a un gigante del cinema di intrattenimento, Tom Cruise, insieme all’anteprima di Top Gun: Maverick, sequel dell’epocale film del 1986 e la partnership con TikTok, come a salutare i tempi in cui era vietato farsi i selfie sul red carpet. Per onorare 75 anni di storia però, non devono mancare i capisaldi, gli habitué del cinema d’autore che garantiscono l’etichetta d’essai al Festival. Presenti quindi, esponenti di tutto rilievo delle cinematografie mondiali, a cominciare dal rumeno Cristian Mungiu, i francesissimi Arnaud Desplechin e Claire Denis, la nostra e loro Valeria Bruni Tedeschi, i sempreverdi Jean-Pierre e Luc Dardenne, Ruben Östlund già Palma d’oro per The Square e Hirokazu Kore-eda.
L’Italia che non manca mai in concorso a Cannes si fa sentire direttamente e indirettamente: il sempre veneziano Mario Martone approda con un film intimo e più napoletano che mai, Nostalgia con Pierfrancesco Favino mentre Luca Marinelli e Alessandro Borghi si ricongiungono dopo Non essere cattivo, diretti da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch in Le otto montagne. A confezionare il pacchetto perfetto, gli americani: James Gray con Armageddon Time, David Cronenberg e il suo Crimes of the Future e infine, il ritorno di Baz Luhrmann sulla croisette dopo The Great Gatsby con Elvis. Con la guerra in Ucraina, il Festival di Cannes ha scelto una posizione oppositiva nei confronti della Russia. In concorso c’è Kirill Serebrennikov da sempre dichiaratamente contro il governo di Putin ma, ai giornalisti russi, invece, Cannes quest’anno ha detto di no. Non potendo accertarsi della posizione tenuta da ogni singola testata, il festival ha scelto la via del tutti fuori. Intanto, c’è chi come Marco Bellocchio al Festival di Cannes non rinuncia. Premiato l’anno scorso con la Palma d’onore, il regista suggella ulteriormente questo patto di fedeltà al festival, presentando in anteprima mondiale la sua prima avventura seriale, Esterno Notte, in sala con Lucky Red in 2 parti: la prima dal 18 maggio, la seconda dal 9 giugno e in autunno su Rai 1 nell’originale formato seriale.
Il Maestro di Bobbio riprende i temi di Buongiorno Notte del 2003 per tornare sulla vicenda Aldo Moro, approfondirla, interiorizzarla e dedicare ad ogni interlocutore di quel fondamentale pezzo di storia italiana il giusto tempo, un episodio. 6 in totale, ognuno dedicato ad un personaggio, a partire dallo stesso Moro, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni, che già lo aveva “incontrato” nell’opera teatrale Con il vostro irridente silenzio. Imperdibili Toni Servillo nel ruolo di Paolo VI e un’inedita Margherita Buy nei panni della moglie di Moro, Eleonora. Perché tornare sul caso Aldo Moro? Incontrato a Roma con l’intero cast, prima della partenza per la Croisette, il maestro Bellocchio dichiara: «Mi devo fidare del mio istinto. Quando nel quarantennale della morte sono uscite un sacco di cose su Moro, è chiaro che mi è tornato un desiderio, rappresentare in modo diverso la vicenda». «Come possa interessare i giovani di oggi? – si interroga – non me lo sono minimamente posto ma mi sono fidato di quello che volevo fare».
È notizia di questi giorni che, a partire dalla figlia di Moro, Maria Fida, che ha parlato di “inutile fabbrica di dolore aggiuntivo e sconsiderato, molto simile alla tortura” Esterno notte non sia stata vista bene da tutti. Bellocchio se ne discosta: «Il film è molto meno ideologico di Buongiorno Notte perché è passato dell’altro tempo. Mi dispiace se c’è chi lo ha interpretato come se ci fosse un accanimento da avvoltoi sui ricordi tragici di quegli anni. Io non odio nessuno, sarà per l’età. Capisco il dolore di Maria Fida, però lei pensa che nessuno debba parlare più del papà e io non sono d’accordo. Tra altro, a livello di sceneggiatura abbiamo rappresentato la famiglia Moro con il massimo dell’affetto». Presentando il suo Moro in Esterno Notte, Fabrizio Gifuni spiega l’irridente silenzio del suo spettacolo: «Il silenzio riguarda noi e il perché quella storia così radicata nell’immaginario collettivo sia stata rimossa. Probabilmente oggi ci sembra un po’ meno lontana di quanto non sembrasse qualche anno fa. La vicenda Moro non sarebbe comprensibile se levata dal contesto internazionale. Quello che si è fatto per Moro non è stato fatto per nessun altro né prima né dopo. È stato un uomo che si è spinto oltre quello che il perimetro della storia gli consentiva, era in anticipo rispetto a quello che sarà sotto gli occhi di tutti negli anni ‘90».
Concorda con le parole di Gifuni Marco Bellocchio mentre cerca di rispondere sul confronto tra la politica di ieri con quella di oggi: «Il modo di gestire la politica è cambiato ma non è che quelli che la fanno oggi siano gente infima. Magari tra 30 anni si parlerà bene di Di Maio ed altri. Certamente, noi che avevamo 20 anni all’epoca, vivevamo nella politica anche se le utopie politiche stavano tramontando. Attenzione però, Moro era un vero riformista le cose che lui ha osato fare, le ha pagate con la vita». Celebrano tutti Marco Bellocchio, Toni Servillo sintetizza la potenza del suo cinema: «L’opera di Bellocchio ci affranca dalla testimonianza e permette allo spettatore di fare un’avventura conoscitiva. Ci mette nella condizione di riflettere su fatti realmente accaduti con autonomia di pensiero». Chiara Nicoletti
Agostino Gramigna per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2022.
Non capita spesso che l'autore di un libro parli della sua opera con una negazione: «Questo libro non doveva uscire. Non doveva vedere la luce». Eppure il lavoro è durato oltre dieci anni, la ricerca è stata certosina, basata su decine di migliaia di pagine di atti giudiziari e trascinata da fiumi di parole scambiate con protagonisti che a diverso grado sono entrati in una storia densa di fatti palesi e di molte ombre. Ma allora di che sostanza è fatto un libro che non sarebbe dovuto esistere?
In questo caso ha un nome. Giangiacomo Feltrinelli. Ferruccio Pinotti, scrittore di numerosi libri d'inchiesta e giornalista del Corriere della Sera è l'autore che ha speso dieci anni a ricostruire la vita del ricco editore, controversa e affascinante, terminata sotto un traliccio di Segrate, mentre cercava di piazzare una bomba esplosa (forse) per un errore.
Nel suo libro su Feltrinelli (Untold, La vera storia di Giangiacomo Feltrinelli, Round Robin Editore, 812 pagine), Pinotti ha lavorato sulle decine di migliaia di pagine di atti giudiziari scannerizzati dal Tribunale di Milano che riguardano l'editore da quando, poco più che ventenne, iniziò a frequentare il Pci e i gruppi di estrema sinistra, sino alla morte sotto il traliccio di Segrate.
Questi atti sono un patrimonio che apre squarci nuovi, integrato dalla consultazione di archivi esteri e da interviste esclusive: dal generale Maletti («Lo ha ucciso il Mossad») a Sibilla Melega, ultima moglie dell'editore; dal fondatore delle Br Alberto Franceschini fino a Franco Freda; da magistrati come Viola, Bevere, Mastelloni a esperti di intelligence.
Le domande erano e restano tante: qual era il progetto politico di Feltrinelli? Il suo crescente impegno rivoluzionario preludeva ad una dedizione totale alla lotta armata?
Se è così, chi erano davvero i suoi compagni di viaggio? Si limitavano ai militanti del suo gruppo, i Gap, e ad alcuni esponenti di Lavoro Illegale, di Potere Operaio e delle nascenti Brigate Rosse? Oppure comprendevano scenari più ampi, dai palestinesi alle Raf?
Resta irrisolta, infine, la domanda più grande, quella che concerne la sua morte. Feltrinelli è saltato in aria per un banale errore nella messa a punto dell'esplosivo con cui voleva divellere un traliccio.
Ma se al contrario si è trattato di una abile messinscena, chi voleva la sua morte? L'inchiesta Untold segue una chiave di lettura inedita, quella internazionale, che fa di Feltrinelli una figura nuova. E che conferma che non era un rivoluzionario ingenuo e impreparato. Era un intellettuale che rifletteva sui temi dell'ineguaglianza, della povertà, della lotta operaia, dell'economia internazionale e dei movimenti di liberazione nazionali. Pinotti indaga sui lati oscuri di Feltrinelli. Ma scrive: «Su tante cose è lecito sollevare dubbi, ma non su una: l'idealismo e la buona fede di Feltrinelli».
La democrazia di Aldo Moro e Peppino Impastato. Quel 9 maggio 1978 44 anni dopo. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 9 maggio 2022.
Da anni nella ricorrenza del 9 maggio, sui social soprattutto, si ricordano assieme lo statista Aldo Moro e l’attivista Peppino Impastato. Due meridionali, il primo pugliese, il secondo siciliano, morti nello stesso giorno in circostanze e contesti molto diversi.
Aldo Moro ucciso in una R4 rossa come il colore delle Brigate che in maniera simbolica lo depositano in via Caetani tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure a simboleggiare quel Compromesso storico tra Dc e Pci, partiti che con fermezza non avevano voluto trattare per liberare l’illustre e scomodo prigioniero.
Tutti i media del mondo trasmettono quell’immagine realizzata da una tv privata romana arrivata per prima su quel luogo della Capitale.
Peppino, invece, viene trovato con le carni smembrate su un binario di ferrovia vicino alla sua Cinisi, alle porte di Palermo. La prima versione dei carabinieri, che reggerà per tempo, è che l’attivista che denunciava su Radio Out il parente capomafia don Tano Badalamenti era saltato con una bomba da lui preparata mentre compiva un attentato.
Il giorno dopo una breve di cronaca tra le pagine dei giornali interamente e giustamente dedicate alla morte di Moro.
Per molti storici quel giorno morì la Prima Repubblica. Moro era l’emblema e la coscienza critica della Democrazia Cristiana, il partito-Stato italiano che includeva sindacalisti e Confindustria, destra dorotea e sinistra di Base, cattolici del dissenso e oltranzisti vaticani.
Moro era l’uomo delle svolte storiche. Parla per 9 ore al Congresso di Napoli per aprire al centrosinistra e viene assediato dalle vicende del Piano Solo.
Con convergenze parallele astruse ma nodali apre al Pci. Sarà l’agnello sacrificale di una storia terribile che gli uomini delle Brigate Rosse non seppero gestire liberando il prigioniero.
Moro, lucido nella prigione del popolo, comprende che lo hanno lasciato solo a morire. Non vuole nessuno del suo partito ai funerali chiesti solo in forma privata. Quelli di Stato sono celebrati contro la sua volontà.
Moro vivo sarebbe stato un enorme problema per il cuore dello Stato, che continuò a battere in forma infartuata per quel trauma che porterà Cossiga alla depressione perenne e la Dc ad una delle sue più terribili maledizioni con il fantasma di Moro che ancora compare come il padre di Amleto sul teatro della politica.
E anche su Aldo Moro sarà un film, “Buongiorno notte” di Marco Bellocchio, a regalare al nostro immaginario il prigioniero libero che esce per Roma a dare una svolta che in molti impedirono. E ora lo stesso regista porta a Cannes il seguito. “Esterno notte”, miniserie Rai in sei puntate che prima potremo vedere al cinema con l’interpretazione di Gifuni su quello che accade fuori dal covo brigatista in quei terribili giorni.
Moro e Impastato cercavano democrazia. Quella cattolica e quella proletaria. Due chiese diverse con uguali martiri. Ricordiamoli con le loro idee evitando le confusioni.
Moro: un frate e un generale potevano liberarlo…Di Emanuele Beluffi su Culturaidentita.it il 10 Maggio 2022.
Il 9 maggio 1978 di 44 anni fa il corpo del Presidente della DC Aldo Moro venne rinvenuto nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, geograficamente a metà strada fra via delle Botteghe Oscure sede del PCI e Piazza del Gesù sede della DC. Una foto iconica quanto la Renault 4 rossa, che compare sulla copertina di un libro recente scritto da uno che sa, il cosiddetto “Airone 1”, alias Antonio Cornacchia, del Nucleo Investigativo Carabinieri: fu lui ad aprire per primo il bagagliaio della Renault 4 in via Caetani, trovando il corpo di Aldo Moro.
Il sequestro Moro è uno dei cosiddetti “misteri” italiani, su cui molto si è scritto e altrettanto si è detto: inutile analizzare qui la vicenda, che ha innumerevoli addentellati con altrettanti misteri italiani come la morte del giornalista Mino Pecorelli (altra vicenda di cui il generale Antonio Cornacchia è stato testimone storico) e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (tanto per citare un paio di spunti). Né vogliamo sviscerare il dilemma intorno alla presenza di un agente dei servizi segreti la mattina dell’agguato e alla questione se il commando fosse veramente composto soltanto da brigatisti o anche da “Brigate di servizio” per citare Sciascia: basti solo accennare a un prodotto di cultura, il film del regista ostracizzato dai benpensanti Renzo Martinelli, Piazza delle Cinque Lune, che nella finzione cinematografica ha detto forse molte verità.
O forse no. Forse, per citare Francesco Cossiga, “dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse”: nessun coinvolgimento dei Servizi, né nazionali né internazionali, né deviati né affrancati. Anche se, come scrisse il generale Antonio Cornacchia, i servizi segreti sono per forza deviati, altrimenti non sarebbero segreti. Ma il generale confermò che sulla scena del sequestro si sarebbe mossa anche quell’organizzazione supersegreta detta Noto Servizio, o Anello, un esponente del quale sarebbe stato quel frate francescano di Milano, Enrico Zucca, lo stesso che nel 1946 avrebbe nascosto nel capoluogo lombardo la salma di Mussolini, che si sarebbe dato da fare per liberare il Presidente della DC. “Airone 1” parla di un suo viaggio, la sera del 6 maggio 1978, in compagnia di Padre Zucca e di don Cesare Curioni verso Castel Gandolfo: “Alle 7.30 del 6 sera vedo il segretario del Papa rispondere al telefono, convinto, forse, sia il segnale per la conclusione delle trattative e la consegna del cofanetto pieno di soldi, ma quando depone la cornetta, pallido in volto, ci informa che tutto è andato a monte”…
Con lo statista democristiano (così molti lo chiamavano e non è il caso di discettare intorno alla fondatezza della definizione) vennero assassinati i 5 agenti della scorta, morti sul colpo (uno di loro spirerà poche ore dopo), 5 eroi entrati nella Storia ma non sempre adeguatamente ricordati dalla pubblicistica e dall’informazione:
Francesco Zizzi Vice-brigadiere della polizia (Medaglia d’Oro al Valor Civile il16 febbraio 1979). Nato a Fasano nel 1948. Entrato nella Pubblica Sicurezza nel 1972, quattro anni dopo vince il concorso per la scuola allievi sottufficiali di Nettuno. Vive presso la caserma Cimarra di via Panisperna. Conseguiti i gradi di sottufficiale progetta le nozze con la fidanzata Valeria. E’ nominato al servizio di scorta dell’onorevole Moro come capo equipaggio. Muore a 30 anni.
Raffaele Iozzino Guardia di Polizia (Medaglia d’Oro al Valor Civile il 16 febbraio 1979). Nato a Casola (Na) nel 1953. Si arruola in Pubblica Sicurezza nel 1971, frequenta la scuola di Alessandria ed è successivamente aggregato al Viminale e quindi comandato permanentemente al servizio di scorta dell’On. Moro. Muore a 24 anni.
Giulio Rivera Guardia di Polizia (Medaglia d’Oro al Valor Civile il 16 febbraio 1979). Nato a Guglionesi (Cb), nel 1954. Si arruola nella Pubblica Sicurezza nel 1974. Muore a 24 anni, crivellato da 8 proiettili delle Br.
Domenico Ricci Nato a Staffolo, Ancona, nel 1934, morto in via Fani il 16 marzo 1978. Nel 1954 si arruola nell’Arma dei Carabinieri e inizia il corso presso la Scuola allievi carabinieri di Torino. Nel 1957 viene assegnato alla scorta di Moro, allora ministro della Giustizia. Nel 1966 si sposa dopo 10 anni di fidanzamento. Ha due figli. Muore a 44 anni.
Oreste Leonardi Nato a Torino nel 1926. Istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro militare di paracadutismo di Viterbo, è stato per 15 anni la guardia del corpo di Moro. Aveva una moglie, Ileana Lattanzi, e due figli, Sandro e Cinzia. Muore a 52 anni.
Sacrificare il leader della DC ha condizionato la vita politica italiana. “Il Partito Socialista voleva salvare Moro, ma non fu ascoltato”, la rivelazione di Gennaro Acquaviva. Gennaro Acquaviva su Il Riformista il 9 Maggio 2022.
E’ molto probabile che le dosi massicce di asfissiante banalità che sempre più circondano, spesso incupendola, tanta parte della nostra vicenda politica ci regaleranno, anche in occasione della ricorrenza – potremmo dire sulle ceneri – dei quarantaquattro anni trascorsi dal maggio 1978, quelli della tragedia di Aldo Moro, un supplemento di opinionismo e di banalità. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro e visibile per tutti – i vecchi che lo vissero ed i giovani che vogliono rifletterci sopra – che quei 55 giorni, per come furono preparati, gestiti e poi conclusi, rappresentarono un passaggio che rimane decisivo nel farci arrivare al nostro difficile presente: che è poi quello dell’impotenza proclamata, ben rappresentata dalle vicende politiche di questi ultimi anni.
Tanto per fare qualche esempio: a voler essere seri dovremmo mettere in rilievo il fatto che, almeno oggi, occorrerebbe dover dare ragione a chi, in ogni caso, allora fu proclamato “reprobo”. Come dovremmo almeno cercare di rinnegare, e far rinnegare, il sentimentalismo – chiamiamolo così – della generazione sessantottina che era allora molto presente nei media, che è tuttora ben viva e presente, ed anche ben messa, demograficamente e culturalmente. Infine, almeno dal mio punto di vista: ci sarebbe ancora da ricordare la rilevanza di una grossa questione storica rappresentata da quella che fu allora una fallita velleità di protagonismo comunista, propria di quegli anni, un protagonismo che finì con il mettere paura ai protagonisti stessi.
E’ per noi comunque necessario tornare almeno a ricordare la forza e soprattutto la serietà della posizione allora assunta dai socialisti, caratterizzata da una disinteressata spinta umana e solidale, desiderosa comunque di non lasciare andare inevitabilmente le cose per un verso che sembrava obbligato. Dal punto di vista politico, naturalmente, Craxi, guardando anche al suo futuro, voleva dalla vicenda uscirne vivo e perciò continuò a ricercare una soluzione capace di non fargli rompere irrimediabilmente i rapporti con la Democrazia Cristiana. E forse questo fu il suo limite decisivo. Allora, comunque, tutti noi fummo guidati e sostenuti da questa sua serenità coraggiosa e determinata. Ricordo ancora oggi con nostalgia lo stato della nostra difficilissima condizione, umana e politica, spessissimo soli e minacciati, che però ci favorì indubbiamente, per il futuro, nella nostra crescita comunitaria.
Lasciati soli e circondati da un clima oppressivo e demagogico, i socialisti scoprirono infatti, allora, nuovamente se stessi. E, forse, per la prima volta, impararono ad amare sul serio questo loro giovane leader, che li guidava imperterrito e che sembrava in grado di capire tutto: ma che, forse, anche per questo, era inevitabilmente destinato alla sconfitta. Oggi possiamo riconoscere che la sconfitta collettiva di quindici anni dopo forse non ci sarebbe stata e che comunque avrebbe assunto caratteristiche e modi inevitabilmente diversi e forse contrapposti. Con Moro vivo, attivo ed autorevole protagonista della ricostruzione della politica e della democrazia, il decennio decisivo che allora si apriva sarebbe stato profondamente diverso. Gennaro Acquaviva
«I miei archivi in mano alla polizia della Storia e al complottismo…». Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi storico e ricercatore, è accusato di diffondere documenti riservati della Commissione Moro II: se le perizie hanno smontato la tesi dei Pm perché il materiale delle sue ricerche rimane sotto sequestro? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 9 giugno 2022.
Sono passati 12 mesi da quando la procura di Roma gli ha sequestrato archivi cartacei, computer, telefoni, tablet, pieni di email, foto, video in larga parte materiale privato di nessuna rilevanza che giace ancora nelle mani degli inquirenti. Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi apprezzato storico e ricercatore, avrebbe diffuso documenti riservati della Commissione Moro II allo scopo di favorire, non si sa in che modo, dei latitanti. Le indagini non hanno confermato nessuna delle accuse, al contrario le perizie dei file hanno escluso che si trattasse di materiale sottoposto a segreto, ma Persichetti non ha ancora avuto indietro i suoi file. Convincendosi che lo scopo del sequestro non sia accertare le accuse, ma ostacolare con ogni mezzo il suo lavoro storiografico sugli anni di piombo, la sua lotta incessante contro le dietrologie, contro le ricostruzioni fantasy e i complottismo sul sequestro Moro puntualmente smentite dai fatti ma che continuano a titillare ampi settori della politica, della magistratura e degli apparati di sicurezza dello Stato. Tesi ben illustrate nel suo ultimo, documentatissimo libro, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, pubblicato da Derive e Approdi. «La polizia della Storia non è soltanto una metafora suggestiva, ma un fatto concreto: in Italia ci sono poliziotti che indagano in carne e ossa sugli archivi, che presidiano la memoria e decidono su cosa si possa o no fare della ricerca, è assurdo!».
Perché questo accanimento?
Credo che questo sia tutto un pretesto, il vero problema è che vogliono il mio archivio e tenerselo il più tempo possibile per bloccarmi e intralciare il mio lavoro di ricerca, magari nell’idea non restituirmelo mai più per neutralizzarmi del tutto. Non vedo altra ragione: dopo un anno sono crollate tutte le accuse, la perizia, ripeto, ha stabilito che non c’è nulla di rilevante, il teorema come si capiva fin dall’inizio, era del tutto infondato.
Cosa sosteneva il “teorema”?
Che io avessi trasmesso ad altre persone del materiale riservato della Commissione Moro II, in particolare la bozza della prima relazione annuale che non è un atto riservato nemmeno per i criteri interni della Commissione, ma un documento politico destinato ad essere pubblico che deve essere votato ed emendato. Siamo nel campo di interpretazioni infondate. La bozza è stata utilizzata come espediente per cercare nel mio archivio documenti davvero riservati ma non li hanno trovati perché semplicemente non ci sono, non li ho mai avuti e non ne ho accesso.
Quale sarebbe stata la finalità?
Siamo nel cuore del teorema : mi hanno accusato di favoreggiamento, ossia avrei svolto una sorta di attività di intelligence, appropriandomi di atti riservati e avrei condiviso il materiale con due latitanti, allo scopo di favorire la loro latitanza. Stiamo parlando di persone latitanti da oltre trent’anni, dai tempi in cui ero minorenne, peraltro uno di loro, Alvaro Lojacono ha già scontato la sua pena, mentre con l’altro, Alessio Casimirri non ho mai avuto contatti, non ci ho mai parlato. E infatti non è stata agomentata nei miei confronti nessuna ipotesi accusatoria, ma solo un generico favoreggiamento. La cosa surreale è che tutto nasce dalle “recensioni” della polizia di prevenzione (l’ex Ucigos n.d.r) che ha letto le bozze del mio libro, trovandole sospette.
In che senso “recensioni”?
Secondo funzionari della polizia di prevenzione, che svolgono sia attività di intelligence che di polizia giudiziaria nelle mie carte ci sarebbero tesi che non corrispondono agli esiti processuali. Inoltre sostengono che nelle mie mail sarebbero citati episodi e fatti che poi non ho inserito nel libro e questo giustificherebbe il presunto favoreggiamento. È ridicolo.
A quali fatti si riferiscono?
Alla via di fuga del commando brigatista che ha sequestrato Moro e al secondo furgone, che avrebbe dovuto entrare in scena nel caso le cose fossero andate male e di cui si occupò Lojacono, ma che non fu mai utilizzato. Se io scopro dei dettagli che non erano emersi nei processi ma lo faccio senza avere elementi tali da riempire una pagina di storia, a causa di testimonianze incongruenti e contrasti di memoria, è mia responsabilità di ricercatore non pubblicarli, è una questione di serietà. E stiamo parlando di un aspetto del tutto secondario di cui nessuno si è mai interessato fino ad ora. Coinvolgermi in questa vicenda fa parte della narrazione dietrologica sul caso Moro che circola da almeno trent’anni senza mai trovare riscontri nella realtà.
È molto difficile fare lavoro storiografico in queste condizioni?
Il problema principale è che c’è una sovrapposizione tra l’indagine della procura e le vecchie e mai dimostrate tesi dietrologiche e cospirazioniste sull’affaire Moro, trovo questo aspetto sconcertante. Soprattutto da quando, con le direttive Prodi e Renzi, sono stati resi pubblici gli archivi, un tempo monopolio della magistratura e dei consulenti delle commissioni, tutti personaggi littizzati. È finita l’epoca in cui i documenti venivano citati a rovescio o a metà o con le sequenze sbagliate, oggi i ricercatori possono verificare tutto e questo ha prodotto un nuovo lavoro storiografico che smonta le narrazioni costruite fino ad oggi e questo fatto evidentemente dà fastidio. Al punto da creare il cortocircuito di cui parlavo.
E sembra ancora più difficile farlo sugli anni di piombo, ancora oggi un campo minato.
Se oggi qualcuno compie un lavoro di ricerca e di memorialistica sul ventennio fascista viene considerato uno storico, se invece lo fai sugli anni 70, sul terrorismo, si parla di attività di propaganda se non addirittura peggio. Ho sentito persino l’incredibile definizione di “banda armata storiografica”.
C’è però anche un elemento personale, che riguarda la biografia dell’autore.
Certo, questo ahimé è un aspetto centrale: in sostanza non mi viene riconosciuto il fatto di aver scontato la pena e il diritto di poter svolgere ricerca storica su quegli anni. La conseguenza è che i miei studi non vengono considerati come una libera e disinteressata attività intellettuale, ma sarebbero un’ambigua opera di proselitismo, di favoreggiamento, di mantenimento di non si sa quali legami e quali vincoli associativi. Non avendo argomenti e non potendomi contestare sul merito subisco un attacco e una delegittimazione totale del mio lavoro di storico e della mia stessa persona. Non dovrei essere io a dirlo, ma trovo incredibile che in Italia non si parli di questa vicenda, di questa censura odiosa, del fatto che la polizia sequestri impunemente degli archivi e, pur non trovandoci dentro nulla, continui a tenerli sotto sequestro.
"La polizia della storia". Le dietrologie sull’omicidio Moro, Persichetti racconta la sua storia processuale in “La polizia della storia”. Frank Cimini su Il Riformista l'1 Maggio 2022.
La polizia della storia è il titolo di 281 pagine, editore Derive Approdi, 20 euro, in libreria dal 5 maggio con cui Paolo Persichetti racconta il suo caso che la dice lunga sulla qualità della nostra democrazia, dalla Prima Repubblica fino ai giorni nostri. Come se non fossero passati ben 44 anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro, il fatto intorno al quale ruotano le parole del ricercatore che ormai quasi un anno fa subì i sigilli al suo archivio, il più pericoloso del mondo. E non ha ancora riavuto dall’8 giugno del 2021 “il maltolto” dove era compresa pure la certificazione medica di Sirio il figlio diversamente abile.
Paolo Persichetti combatte da anni la battaglia contro la dietrologia spiegando che il fenomeno non riguarda solo il passato ma il presente e il futuro di questo paese. Persichetti è coinvolto in una vicenda giudiziaria dove il capo di incolpazione ha subito cinque modifiche e visto l’eliminazione del reato più grave, l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo attraverso la violazione del segreto di carte della commissione parlamentare sul caso Moro che segrete non erano. L’inchiesta è coordinata dal pm Romano Eugenio Albamonte lo stesso che ha chiesto e ottenuto di prendere il Dna dei brigatisti condannati per via Fani e altre persone nell’ambito di una caccia a complici ulteriori veicolando il sospetto che servizi segreti nazionali e esteri avessero avuto un ruolo nella vicenda con cui la Prima Repubblica cominciò a morire.
“L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile diventa il nuovo modo di giustificare una contronarrazione che si pretende autonoma libera e indipendente dai ‘poteri’ – scrive l’autore – È sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni, uno schema cognitivo che riporta ai tempi dell’Inquisizione…. L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraverso le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.
Va ricordato che la dietrologia non è un fenomeno solo italiano. Basti pensare a quanto accaduto intorno all’11 settembre. Ma il nostro è per molti aspetti un paese almeno un po’ particolare perché il capo dei dietrologi sta al Quirinale fa pure il presidente del Csm che quasi ogni 16 marzo e 9 maggio insiste: “Bisogna cercare la verità”. Come se cinque processi non avessero accertato anche dalle deposizioni di “dissociati” e “pentiti” che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse. “Esiste in questo paese un organismo che si chiama polizia di prevenzione il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica se non addirittura per prevenirla segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi” scrive nella prefazione Donatella Di Cesare aggiungendo di “una gendarmeria della memoria che assenza una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero, da una parte i buoni dall’altra i cattivi”.
“Il tratto di strada che il 16 marzo del 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del nord insieme a dei giovani romani dare l’assalto al convoglio di auto che trasportavano l’onorevole Moro non trova pace. Questo fatto storico non è accettato ancora dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili che nei decenni si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro” chiosa l’autore. E per questa ragione domenica 22 febbraio 2015 la zona fu sottoposta a scansione laser dalla polizia scientifica. I nuovi rilievi fecero emergere l’assenza di novità. In via Fani agirono le Brigate Rosse. Solo loro. Ma dirlo, riaffermarlo, ribadirlo è pericoloso. In pratica come dimostra la vicenda di Paolo Persichetti un reato. Frank Cimini
Gli anagrammi nascosti nelle lettere di Moro. Michele Ainis su La Repubblica il 26 Aprile 2022.
La teoria di Carlo Gaudio in un libro
Cadono i 44 anni dal rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. E dopo tutto questo tempo, i lati oscuri prevalgono su quelli che siamo riusciti a illuminare. Succede, d'altronde, anche per altre pagine nere della nostra storia, prima e dopo la stagione delle stragi: in Italia la verità è un segreto di Stato. Ma le 86 lettere che Moro scrisse nei 54 giorni della sua prigionia rimangono, forse, il più misterioso dei misteri che girano attorno alla vicenda. Era davvero lui, quell'uomo? Scriveva sotto dettatura dei suoi sequestratori? Aveva smarrito la propria integrità mentale, precipitando - si disse fin dai primi giorni - nella sindrome di Stoccolma? Ma se invece Moro era in sensi, sapeva dove si trovasse? E ha cercato di trasmettere all'esterno l'indicazione di quel luogo?
Questa pioggia di domande è rimasta, fin qui, senza risposta. Specialmente l'ultima, che proverebbe l'estrema lucidità di Moro. Sciascia intuì un messaggio cifrato in quelle lettere, senza però riuscire a dimostralo: giacché il suo stile - disse - "per l'attenzione che sapeva dedicare alle parole, per l'uso anche tortuoso che sapeva farne", era il più adatto a "nascondere (pirandellianamente) tra le parole le cose". Del resto Moro, soffrendo d'insonnia, di notte frequentava l'enigmistica, i rebus, gli anagrammi. Eppure nessuno seppe - o volle - decrittare le sue lettere.
A risolvere il puzzle provvede adesso un libro di Carlo Gaudio, L'urlo di Moro (Rubbettino). Sennonché lui non è un campione di quiz televisivi, è un medico, e d'ottima carriera. Dirige il dipartimento di Scienze cardiovascolari alla Sapienza, ha firmato oltre 400 pubblicazioni. Ma è pure autore di un pamphlet filosofico (La zattera, 2018), d'un paio di volumi sul cinema, di biografie. Dunque Gaudio è un eclettico, categoria un tempo celebrata, oggi guardata in gran sospetto. Se vai da un ortopedico per un dolore alle ginocchia, potresti ottenerne in cambio uno sguardo esterrefatto: "Il ginocchio? Ma io sono uno specialista della caviglia!". Lo specialismo, ecco la malattia del nostro tempo. Come diceva Flaiano, oggi anche il cretino è specializzato. E allora come si permettono i medici di giocare con la storia?
Il gioco di Carlo Gaudio, però, ci dona una rivelazione: Moro conosceva l'indirizzo della sua prigione - l'appartamento di via Montalcini al numero 8, interno 1 - e cercò di divulgarlo. Ne è prova l'inciso più celebre di tutto il suo epistolario, contenuto in una lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo 1978: "Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato". Suona così, difatti, l'anagramma della frase: "E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto".
D'altronde non è l'unica prova; con un'analisi lessicale parola per parola, Gaudio ne mostra varie altre. Per esempio nella lettera alla moglie Eleonora (5 aprile), dove Moro scrive: "Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire", e dove si nasconde, di nuovo, un anagramma: "O forse che io dovevo essere chiuso prigione di via Montalcini". Mentre più volte raccomanda di leggere "con la dovuta attenzione" i suoi messaggi, di "vederli bene". Le frasi in codice di Moro sono sempre in prima persona, vengono introdotte da un "Io" che a sua volta assume valore segnaletico. Succede soprattutto nelle prime nove lettere, le più importanti, anche perché vi s'esprime subito una linea strategica (la trattativa per lo scambio di prigionieri); poi rinuncia, capisce che i suoi indizi non vengono raccolti. Ma non rinuncia mai a rivendicare la propria lucidità, lamentandosi perché "sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio" (lettera alla Democrazia cristiana, 27 aprile).
È l'"Io" di Moro, dunque, che torna a visitarci attraverso la ricerca imbastita da Carlo Gaudio. Ed è esattamente questo l'intento programmatico dell'autore: "la restituzione di Moro a Moro", contro l'espropriazione della sua personalità operata dai politici del tempo, contro la rimozione del suo lascito praticata dai politici di oggi.
Dagospia il 12 aprile 2022. Estratto del libro “Delitto Moro - Carte nascoste” in uscita per Kaos Edizioni pubblicato da il "Fatto quotidiano".
La destra reazionaria indirizzò ad Aldo Moro un minaccioso avvertimento pubblico nel novembre del 1966 (...). Un periodico della compagnia di varietà "Il Bagaglino", fondata l'anno prima da ambienti vicini alla destra neofascista romana, pubblicò l'articolo intitolato "Dio salvi il Presidente", sottotitolo: "Quindici uomini vegliano sulla vita dell'onorevole Moro. Ma sarebbero sufficienti a difenderlo contro un Oswald italiano?".
Lee Oswald era il killer di John Kennedy. (...) Lo scritto era ricco di sibilline evocazioni di morte per attentato e comprendeva la menzione di via Mario Fani: È al sicuro la vita del Presidente Moro? (...) Questo servizio giornalistico si prefigge appunto lo scopo di cooperare alla vigilanza.
La casa - Gli uomini di Moro sono quindici (...) si muovono alle dirette dipendenze di un questore, il dottor Giulio Saetta (...). Sono reclutati tra il fior fiore della Pubblica sicurezza e dei Carabinieri. La loro base è l'abitazione stessa del Presidente del Consiglio (...) Almeno quattro volte per settimana l'ispettore generale Saetta partecipa direttamente al servizio del Presidente. (...) Il servizio consiste soprattutto nella vigilanza della casa del Presidente e nella scorta durante gli spostamenti.
La casa dell'on. le Moro si trova in via del Forte Trionfale, al numero 79. (...) La scelta dell'abitazione appare appropriata. Precedentemente, infatti , la famiglia del Presidente abitava in una strada affollata a ridosso del frequentatissimo viale Libia. Un luogo zeppo di palazzoni, che sembrava fatto apposta per gli attentati alla Oswald. Bene ha fatto il Presidente a cambiare. (...) Le dolenti note cominciano, invece, quando dalla casa si passa alla strada. (...) Il Presidente Moro, da quell'uomo ordinato e metodico che è, ha una giornata rigorosamente organizzata. (...)
Si configura così uno "schema-tipo" di movimenti che sembra fatto apposta per essere sfruttato da eventuali attentatori. (...) L'on. Moro lascia la sua abitazione alle 8.30 in punto. Prende posto insieme alla consorte su una "Flaminia" blu ministeriale o su un'"Alfa 2600" dello stesso colore. Questa delle 8.30 è l'ipotesi che configureremo nello "schema A".
Tracceremo poi uno "schema B" per i giorni in cui, come spesso avviene, il Presidente Moro si muove di casa mezz' ora più tardi , alle 9.
Schema A - Il Presidente e sua moglie salgono sull'automobile ministeriale. La macchina viene preceduta da una "Giulia" bianca e seguita da un'altra "Giulia" blu. Sulla prima, che funge da staffetta-battistrada, prendono posto quattro carabinieri. Sull'altra, che chiude la marcia, salgono tre agenti di Pubblica sicurezza, di cui uno autista, e il funzionario di servizio (il questore Saetta o il commissario comandato). L'on. Moro con la consorte siede nel sedile posteriore della macchina centrale dalla parte sinistra.
Alle 8.31 la piccola autocolonna si mette in moto, percorre tutta la via del Forte Trionfale, a quell'ora quasi sgombra, e arriva all'incrocio con via Trionfale (...). All'incrocio il corteo deve necessariamente fermarsi (...) Una volta imboccata la via Trionfale, le tre automobili, sempre nell'ordine anzidetto, la percorrono per circa 600 metri fino alla piazza di Monte Gaudio. Qui girano a sinistra e si portano sullo spiazzo in cui sorge la parrocchia di San Francesco a Monte Mario (...) In chiesa l'on. Moro prende posto al terz' ultimo banco della fila di destra.
Un agente si pone alle sue spalle, un altro resta sulla porta, un terzo occupa l'ultimo banco della fila di sinistra. Gli altri si fermano all'esterno e vigilano l'ingresso al tempio e le adiacenze. (...) La chiesa, benché piccola, è abbastanza frequentata, perciò alle 8.52, al momento della Comunione, si verifica un piccolo assembramento fra i fedeli, che in fila affollano il corridoio per accostarsi all'altare e ricevere il sacramento.
L'on. Moro, come un qualsiasi comunicando, è tra gli altri, gomito a gomito fra gente sconosciuta, abbandonato dalla scorta, alla mercé di chi gli sta attorno. (...) (Dopo la Chiesa) l'autocolonna, sempre con la "Giulia" bianca in testa, riprende la marcia. (...) Il Presidente fa ritorno a casa.
Alle 9.05 le tre automobili sono di nuovo davanti al numero 79 di via del Forte Trionfale. Come mai? Semplice: i coniugi Moro sono digiuni, per via della Comunione; tornano a casa per fare colazione. Il "breakfast" dura esattamente quindici minuti. Alle 9.20 il Presidente è di nuovo fuori, questa volta senza la moglie, che resta a casa mentre lui si dirige velocemente a Palazzo Chigi. (...)
Schema B - Lo "schema B" differisce dal precedente solo perché entra in funzione nei giorni in cui invece di uscire alle 8.30 l'on. Moro esce di casa alle 9. In questi casi il corteo si dirige sempre per la via Trionfale, arriva alla chiesa di San Francesco, ma non si ferma, prosegue ancora un po', quindi svolta a sinistra per via Mario Fani e poi per via della Camilluccia, fino ad arrivare alla Chiesa di Santa Chiara ai Due Pini, la chiesa-bene dei "vigna clarini".
Questo velenoso cocktail di "notizie riservate" (...) era firmato dal giornalista Pier Francesco Pingitore, caporedattore del settimanale di destra Lo Specchio, nonché autore di teatro e cabaret. Cinque anni prima di firmare l'articolo spionistico su Aldo Moro, il Pingitore era stato attenzionato dal Sifar, su disposizione del colonnello Giovanni Allavena comandante del Centro di controspionaggio di Roma, come sospetto seguace dell'organizzazione paramilitare terroristica francese Oas-Organisation armée secrète. (...)
L’incrocio di via Fani e la memoria di Aldo Moro. Quarantaquattro anni fa, l’Italia viveva collettivamente la crisi politica più grave della sua giovane storia repubblicana. Liborio Conca su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.
Da poco trentenne, in questi giorni di marzo, quarantaquattro anni fa, la repubblica italiana viveva collettivamente la crisi politica più grave della sua ancora giovane storia. D’altro canto, un uomo solo era precipitato all’improvviso in un tunnel dal quale non avrebbe più rivisto la luce. Il 16 marzo 1978 un commando di brigatisti rossi aveva sequestrato il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, assassinando i cinque membri della scorta. Dalla cosiddetta prigione del popolo in via Montalcini, alla Portuense, un alloggio nascosto nell’infinito intrico metropolitano di Roma, iniziarono a fioccare lettere, biglietti e messaggi del prigioniero. A nulla valsero i tentativi, più o meno convinti, di ottenerne la liberazione: le Brigate rosse uccisero infine Moro, assumendosi l’intera responsabilità dell’omicidio. Mi è capitato, sì, di passare all’incrocio tra via Fani e via Stresa, esattamente come è capitato in tutti questi anni a migliaia di persone, nel trafficato quartiere della Camilluccia, quadrante Nord della città.
Una lapide ricorda cosa è successo, i nomi dei caduti Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Ancora più spesso mi è capitato di passare nella centralissima via Michelangelo Caetani, alle spalle di largo di Torre Argentina, nelle vicinanze del ghetto ebraico: lì, in una «Renault 4» rossa, venne abbandonato il cadavere di Moro, ostentando la posizione equidistante tra la sede del Pci in via delle Botteghe Oscure e quella della Dc, a piazza del Gesù.
Anche qui, una lapide, con l’effigie del volto in bassorilievo di Moro, di fronte al bellissimo Palazzo Mattei di Giove, dove hanno sede il Centro studi americani e la Biblioteca di storia contemporanea. Fu il professor Franco Tritto, assistente e collaboratore storico di Moro, a prendere la telefonata del brigatista Valerio Morucci che annunciava «l’esecuzione della sentenza», dando le indicazioni su dove fosse il corpo dello statista. Pugliese come il suo mentore, per Tritto fu un dolore indicibile.
La registrazione della telefonata mostra ancora oggi la voce che si rompe in un pianto. «Non avrei mai immaginato, neppure per un solo istante, che la primavera da me prediletta […] sarebbe divenuta, nel momento più bello della mia vita, la stagione del dolore e della sofferenza», scrisse dopo. Molte targhe, diverse intitolazioni, tantissime vie in tutta Italia sono state dedicate a Moro: un tributo, certamente, e forse, chissà, qualcosa che somiglia a una forma di richiesta di perdono per il sacrificio. Nella natia Maglie, una statua è stata posta nella piazzetta adiacente alla casa di famiglia. L’Università di Bari, dove si era laureato negli anni Trenta e dove insegnò a lungo, porta dal 2008 il suo nome; così come il piazzale d’ingresso dell’altra grande università dove ha insegnato, La Sapienza di Roma. Ci era arrivato nel 1963, proprio da Bari, nello stesso anno in cui formò il suo primo governo. Sulla macchina insanguinata in via Fani giacevano le tesi dei suoi studenti.
Durante il sequestro fu deciso di far passare l’immagine di un Aldo Moro sotto il completo giogo dei propri aguzzini, privo di controllo, addirittura pazzo; vennero scomodate perizie grafologiche, sedute di psicanalisi a distanza, esperti strateghi. Da qualche anno Fabrizio Gifuni porta a teatro un’intensa e bellissima lettura dei messaggi che Moro scrisse in via Montalcini. Ma chiunque abbia letto l’epistolario dalla prigione, o il cosiddetto memoriale – la trascrizione degli «interrogatori» a cui Moro fu sottoposto dai suoi carcerieri – può capire come la «follia» di Moro non fosse vera ieri, e non è ancor più vera oggi. «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo», scrisse in uno degli ultimi biglietti indirizzati alla moglie Eleonora. Non ci fu luce, e resta solo l’immagine onirica che ci ha regalato Marco Bellocchio alla fine del film Buongiorno, notte, l’uomo liberato dal carcere, in un’alba grigia e piovosa, fuori dal covo di via Montalcini, sotto le note di Shine on you Crazy Diamond.
Via Fani: 44 anni fa la strage della scorta di Aldo Moro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2022.
Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse
Roma, ore 9 del 16 marzo 1978. In via Mario Fani, l’auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta, furono bloccate all’incrocio con via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I terroristi aprirono immediatamente il fuoco, e in pochi secondi uccisero i cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro, lo statista della Democrazia Cristiana poi ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Alle 9.03 una telefonata anonima al 113 informava di una sparatoria con numerosi colpi di arma da fuoco esplosi in via Fani.
Sul luogo della strage furono trovati, dentro un’Alfa Romeo Alfetta, il cadavere della guardia di pubblica sicurezza Giulio Rivera e il corpo agonizzante del vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi; nella Fiat 130, su cui viaggiava Moro e che precedeva l’Alfetta, i cadaveri dell’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci e del maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi; a terra, vicino all’auto, la guardia di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino.
Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse. I 3 giovani poliziotti, il 16 febbraio del 1979 furono insigniti della Medaglia d’oro al Valor civile, e i loro nomi sono incisi anche nelle piccole lapidi del Sacrario presente alla Scuola superiore di Polizia.
Durante la cerimonia, un picchetto interforze, composto da personale della Polizia di Stato, dell’ Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, ha reso omaggio al vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, alle guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, al maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi e all’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci.
Sul luogo dell’eccidio sono state deposte delle corone d’alloro da parte del Presidente della Repubblica, degli altri organi costituzionali dello Stato e delle Autorità locali. Anche il capo della Polizia Lamberto Giannini e il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi, presenti alla cerimonia, hanno deposto due corone in ricordo dei poliziotti e dei carabinieri uccisi nell’attentato terroristico. Redazione CdG 1947
E' ancora caccia ai fantasmi. Caso Moro, dopo 44 anni la giustizia cerca altri 4 o 5 colpevoli cui dare ergastoli…Paolo Persichetti su Il Riformista il 17 Marzo 2022.
Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della sua scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma.
Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.
Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimondo Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.
Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all’attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta una forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro.
Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti, solo perché nel mese di aprile 1978 avevano preso parte a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo ed erano fuggiti con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte della controrivoluzione. Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo.
La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche, non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa. Paolo Persichetti
Il pensiero e il gesto. Aldo Moro, lo statista nel suo labirinto. Mario Lavia su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
Con “Via Savoia” (La nave di Teseo), Marco Follini fa un ritratto personale e psicologico del leader democristiano, in una biografia che ripercorre le idee e indaga i motivi della diffidenza del partito nei suoi confronti.
Un po’ come Stendhal, che non cita che una sola volta la Certosa di Parma nel suo capolavoro omonimo, addirittura in “Via Savoia” (La nave di Teseo, da ieri in libreria) il protagonista non è citato mai. È “lui” la persona importante di cui si narra e non c’è bisogno di nominarlo perché questo libro di Marco Follini non è un né una biografia politica né un saggio storico ma, appunto, un racconto drammatico e, se ben si intende l’espressione, romantico.
“Lui” è ovviamente Aldo Moro, ce lo dice subito la fotografia in copertina che lo ferma in una delle sue passeggiate solitarie, le braccia dietro la schiena, un poco incurvato nel doppiopetto scuro nei viali della Farnesina (se ci si consente un lontano ricordo, noi da bambini che andavamo lì a giocare lo vedemmo più di una volta proprio in quei viali, il ministero degli Esteri era a due passi).
A via Savoia invece aveva il suo sobrio ufficio privato, lontano dai palazzi del potere, in una zona tranquilla non lontana da Villa Borghese, dove si rintanava come in un «guscio» – così lo definisce Follini – dove poter lavorare ma soprattutto immaginare quel famoso «dopodomani» evocato nel celebre, magnifico suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana.
Questo è un libro diverso da tutti quelli di politica. Anche, va detto incidentalmente, perché è scritto con uno stile personale molto prezioso e altrettanto sofferto (le idee dell’autore sono ovviamente dentro la cosmogonia morotea). Ma non solo per questo. “Via Savoia” restituisce non solo il pensiero di Moro ma i suoi presupposti morali e umani, persino psicologici. Illumina i nessi profondi e forse mai così bene scandagliati tra il cervello del presidente democristiano e la sua azione.
Ma di più, tra le sue caratteristiche psicofisiche e l’agire politico, perché alla fine la politica è cosa di individui, nasce dalla loro pelle, si sviluppa nei gesti, nella voce, negli sguardi, e dunque ecco la famosa flemma tutta meridionale di Moro che accompagna il suo movimento lento verso nuovi orizzonti, come se nella pressione bassa di cui soffriva fosse la chiave di una vicenda politica rallentata, lunga tre decenni tra alti e bassi, altari e polveri, discorsi fatti e cancellati, successi e incomprensioni. È quel “labirinto” che Moro dovette percorrere senza peraltro poterne trovare l’uscita, come si sa.
Ecco: in queste pagine c’è l’uomo Moro, con le sue debolezze e la sua intelligenza degli avvenimenti, come si intitolava una raccolta di suoi interventi. «Tutto gli appariva sempre molto precario, quasi sul punto di potersi rompere da un momento all’altro. E il cammino politico procedeva per forza di cose in quel modo circospetto su cui non si finisce mai di fantasticare»: da questa sensazione permanente di precarietà scaturisce in Moro l’attitudine a guardare avanti per “aggiustare” cioè che si sta per rompere, e forse in questo sforzo continuo – azzardiamo – si intrecciano il senso cristiano dell’ascesa e un certo incedere illuministico della Storia.
La quale – Follini lo sottolinea più volte – non tralascia certo le meschinità e le brutture con le quali uno statista così intelligente dovette convivere e in un certo senso persino contribuire a non recidere in nome di un equilibrio inteso come ragione superiore. Ecco il compromesso, talvolta i silenzi. La politica di sempre eppure così lontana da quella di oggi: «La sua leadership insisteva a esprimersi così per accenni, silenzi, prudenze, omissioni, all’occorrenza rinvii. Ma era sempre tutto troppo implicito. Mai un gesto forte, mai un appello al Paese, mai uno strappo rispetto a procedure avvolte in una coltre di nebbia». Era il Moro che non si capiva, o si capiva dopo. Non era “popolare” eppure alle elezioni ogni volta aveva un consenso larghissimo.
L’autore, giovanissimo testimone dell’ultima fase della vita della Dc, prova a squarciare il velo sul complicatissimo rapporto con il suo partito che «lo assecondava e contemporaneamente diffidava di lui. E i nuovi equilibri politici e di governo a cui cercava di mettere mano, se portavano armonia – un tentativo di armonia – da una parte, seminavano controversie e anche qualche veleno dall’altra».
Moro fu amato da un pezzo della Democrazia Cristiana e odiato da un altro pezzo. Accadde anche agli altri cavalli di razza, Fanfani, Andreotti, un po’ anche a De Mita. La lotta politica interna al proprio partito è terribile. Ma certo Moro ebbe nemici “pesanti”, nell’establishment economico, in America, nella Chiesa. E il dubbio che alla fine della storia odî, rancori e vendette si siano in qualche modo aggrumati all’ombra del «pugno di assassini», come Luciano Lama definì le Brigate Rosse il pomeriggio del 16 marzo a piazza San Giovanni, è un dubbio che resta. Nessuno saprà mai dire con esattezza a chi giovò la sua morte.
Annota Follini: «Ancora una volta si affacciava una corale diffidenza nei suoi riguardi. E se prima era risultata insopportabile la sua supremazia di pensiero, ora quella supremazia poteva facilmente venire capovolta fino a scivolare verso la rappresentazione caricaturale di un uomo tremebondo, dominato dalla paura e forse addirittura incline a una forma di vigliaccheria». La “linea della fermezza” – non cedere al ricatto dei terroristi – contemplava anche questo.
E dunque, nella stanzetta del covo brigatista, disperato e solo come nessun uomo politico nella storia è mai stato, «il potere dovette essergli apparso per quello che aveva sempre sospettato. Come una sorta di inutilità».
Contarono, alla fine, gli affetti e solo quelli. Non c’era altro, non il suo partito, non i comunisti, non il Parlamento, addirittura neppure il grande amico Montini. Così finì la tragedia, giusto 44 anni fa, e la vita di un uomo così difficile da accostare, ieri e ancor di più oggi che tanto tempo è passato.
Giovanni Bianconi per corriere.it il 16 marzo 2022.
«Nel periodo antecedente alla strage di via Fani non risulta che il Sismi abbia mai raccolto elementi che potessero far in qualche modo prevedere l’insorgere della vicenda Moro, sia sotto il profilo dell’acquisizione di informazioni su possibili e dirette azioni terroristiche e sia dal punto di vista dell’esistenza di semplici minacce od avvertimenti nei confronti del parlamentare».
Comincia così la relazione del Servizio segreto militare (Sismi), predisposta nel 1979 per la prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, desecretata solo pochi giorni fa dalla Commissione per la biblioteca e archivio storico del Senato, presieduta dal senatore del Pd Gianni Marilotti.
Il documento «riservato» fa parte delle 130.000 pagine di atti prodotti dai servizi segreti considerati ancora «top secret» e ora declassificati in base alle direttive dei presidenti del Consiglio Prodi, Renzi e Draghi, con le quali si è deciso di anticipare la “liberazione” di documenti che riguardano dodici episodi – fra stragi, attentati e vicende ancora misteriose – che hanno segnato in modo particolare la storia d’Italia.
Uno di questi è certamente l’assalto di via Fani del 16 marzo 1978, compiuto dalle Brigate rosse, nel quale furono uccisi i cinque agenti di scorta al presidente della Democrazia cristiana – Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi – e venne rapito Aldo Moro.
Il Sismi, istituto da pochi mesi, aveva ereditato le strutture del vecchio Sid (Servizio informazioni difesa) che, si scoprirà in seguito, aveva avuto un ruolo nei depistaggi di alcune stragi neofasciste degli anni precedenti, come quella di Brescia del 28 maggio 1974; ma sulle mire del terrorismo rosso nei confronti dello statista democristiano ammette di non sapere nulla. Almeno ufficialmente.
Il documento inviato alla commissione d’inchiesta elenca una serie di informazioni che, rivalutate dopo, potevano forse fornire qualche indicazione, o almeno destare qualche allarme, ma sul momento non avevano avuto seguito. Né avevano destato particolare interesse.
«A posteriori», il Sismi ritiene comunque di segnalare che «in relazione alla possibilità che in concomitanza con l’apertura del processo di Torino, fissato per il 3 marzo 1978 a carico di Curcio e altri terroristi, le Brigate Rosse effettuassero atti di terrorismo in Italia o all’estero con il concorso di elementi stranieri come la banda Baader Meinhof o l’Armata rossa giapponese o gruppi estremisti palestinesi o arabi, o altre cellule internazionali, il 15 febbraio 1978 il Servizio aveva provveduto ad allertare tutta la propria rete informativa nazionale e internazionale e i servizi collegati».
Ne venne fuori l’informazione, di cui già s’è saputo qualche anno fa, «acquisita da un appartenente all’organizzazione palestinese Fplp guidata da George Habbash, secondo cui sarebbe stata possibile nel prossimo futuro un’azione terroristica di notevole portata».
Il Sismi si premura di precisare che «l’informazione, pur se generica veniva, subito trasmessa al Sisde (il servizio segreto civile, anch’esso neonato, ndr) ai servizi collegati e a tutti gli organi periferici del servizio», senza che venissero però acquisiti ulteriori elementi utili. Né è dato sapere, a 44 anni di distanza, se la segnalazione giunta dalla Palestina avesse a che fare con l’agguato di via Fani.
Nella relazione del Sismi si riferisce anche che «nella prima decade di marzo 1978 sul periodico di informativa e satira politica “Il Male”, ideologicamente attestato su posizioni extraparlamentari di sinistra, veniva pubblicato un articolo su Moro che alla luce delle successive esperienze sembra anticipare circostanze stranamente aderenti a quanto poi si è realmente verificato.
In proposito, non appena un organo periferico del Servizio comunicava di avere acquisito la notizia (20 marzo 1978) venivano effettuate appropriate segnalazioni al Sisde al comando generale dell’arma e al capo della polizia e disposti particolari accertamenti sui responsabili della pubblicazione senza peraltro acquisire elementi suscettibili di ulteriori sviluppi».
A parte le informazioni recepite in edicola, il rapporto del Sismi è un lungo elenco delle segnalazioni più strane, quasi tutte inverosimili o senza alcuna possibilità di sviluppo concreto, e comunque scollegate da ciò che negli anni successivi s’è scoperto a proposito del sequestro Moro.
Quanto alle «minacce o avvertimenti» ricevuti dal leader democristiano nei mesi precedenti al sequestro, il Sismi comunica di non essere «mai giunto a conoscenza di alcun particolare».
Tuttavia segnala un episodio: «Il 9 ottobre 1978, al termine di un’attività di raccolta di elementi informativi riguardanti i soggiorni della famiglia Moro a Predazzo, fonte confidenziale predisponeva un appunto riepilogativo nel quale si accennava al fatto che l’anno precedente il defunto maresciallo Leonardi, conversando con una persona del luogo, avrebbe detto di avere appreso da imprecisati studenti universitari, discepoli di Moro, che qualcuno ne controllava spostamenti ed orari.
Il parlamentare, reso edotto di ciò, avrebbe cominciato periodicamente a cambiare le sue abitudini. Nel corso di tali confidenze il maresciallo Leonardi avrebbe mostrato una pistola a tamburo di grosso calibro asserendo di essere pronto a tutto… Si concludeva soggiungendo che nulla era stato possibile acclarare circa gli studenti universitari che avevano messo l’avviso il maresciallo Leonardi, ma che essi erano tuttavia di Roma».
Lo stesso caposcorta di Moro avrebbe anche riferito l’episodio sospetto di due motociclisti armati che, un mese prima dell’attentato, avevano affiancato l’auto del presidente della Dc; circostanza anch’essa nota da tempo, rimasta senza spiegazione giacché nessun brigatista l’ha mai messa in relazione con i preparativi dell’azione da parte dell’organizzazione.
Il Sismi riferisce, in ogni caso, che «il maresciallo Leonardi dopo tale fatto avrebbe chiesto senza precisare a quale organo di avere un’altra auto di scorta, in rinforzo, ed una vettura blindata per il parlamentare».
Ma auto blindate in via Fani, la mattina del 16 marzo di 44 anni fa, non ce n’erano. Il lavoro di desecretazione avviato dalla commissione della biblioteca del Senato, grazie al quale è oggi possibile leggere questo documento del Sismi, è solo all’inizio: «Passati i cinquant’anni dall’evento – ha spiegato il presidente Marilotti – le carte classificate possono essere coperte solo dal segreto di Stato, il resto lo renderemo fruibile».
Anni di piombo: «Mio padre carabiniere fu ucciso dalle Br, ma non so ancora chi gli sparò». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2022.
Giovanni D’Alfonso, appuntato, fu colpito nello scontro a fuoco durante il quale morì anche la terrorista Mara Cagol. Non si è mai scoperto chi ha premuto il grilletto perché un uomo riuscì a sfuggire. Il figlio: «Lo vidi in un letto d’ospedale mentre era in agonia». La Procura ha riaperto il caso 46 anni dopo.
Bruno D’Alfonso il 5 giugno 1976, primo anniversario dell’agguato al padre, mentre riceve la Medaglia d’argento al Valor Militare a lui destinata.
Non sapeva nulla di lacrime e sofferenza. Poi a dieci anni ha conosciuto entrambe. Era il 5 giugno 1975, un giorno d’estate, «un maledetto giorno». Bruno D’Alfonso viveva a Mosciano Sant’Angelo, nel Teramano. Il padre Giovanni era appuntato dei carabinieri e lavorava al Nord. La moglie Rachele era rimasta al paese con la figlia maggiore Cinzia, 16 anni, Bruno e la sorellina Sonia di due anni e mezzo. Nel maggio del ‘75 Giovanni venne trasferito ad Acqui Terme, nell’Alessandrino. «Presto avremmo dovuto raggiungerlo. Aveva già trovato una casa che accogliesse tutta la famiglia. E un lavoro come sarta per mia mamma». Ma arrivò quel «maledetto giorno», quando Giovanni D’Alfonso, 45 anni, venne ucciso in un conflitto a fuoco con le Brigate Rosse alla Cascina Spiotta, ad Arzello. Il caseggiato arroccato su un poggio era la prigione in cui il commando, dopo il rapimento, aveva nascosto Vittorio Vallarino Gancia, il re dello spumante. Nella sparatoria perse la vita anche Margherita «Mara» Cogol, 30 anni, minuta e combattiva, moglie di Renato Curcio e capo della colonna torinese delle Br. Altri carabinieri rimasero feriti: il tenente Umberto Rocca (oggi generale), il maresciallo Rosario Cattafi e l’appuntato Pietro Barberis. Uno dei carcerieri di Gancia riuscì a fuggire. Fu il battesimo di sangue delle Brigate Rosse. Sono passati 46 anni e non si è mai saputo chi fosse quel terrorista scampato alla giustizia. È un uomo libero e Bruno vuole conoscere il suo nome: «Lo devo a mio padre, a me stesso, alla mia famiglia».
Il silenzio
A novembre l’avvocato Sergio Favretto ha depositato in Procura, a Torino, un articolato esposto frutto di un lavoro di ricerca negli archivi di Stato, nelle segrete dei tribunali e tra i documenti della commissione Moro. In trenta pagine si mettono in luce le discrasie delle testimonianze raccolte, le anomalie negli atti. Ma soprattutto si fanno i nomi di chi sa e continua a tacere: a cominciare da Curcio, custode anche della relazione sui fatti della Spiotta redatta dal brigatista scappato. Lo scritto venne ritrovato il 18 gennaio 1976 nel covo di via Moderno a Milano, quando finì la latitanza di Curcio e della nuova compagna Nadia Mantovani. Altri personaggi che proteggerebbero l’identità di «mister x» sono ancora in vita: Mario Moretti, Alberto Franceschini, Lauro Azzolini e Massimo Maraschi. Quest’ultimo ebbe un ruolo nel rapimento: è l’unico a essere stato condannato per l’omicidio dell’appuntato e il sequestro Gancia. All’esposto fa da cornice il libro Brigate Rosse. L’invisibile. Edito da Falsopiano, è stato scritto dai giornalisti Simona Folegnani e Berardo Lupacchini: racconta analiticamente i fatti suffragati da un’inedita documentazione.
Immagini in tv
La cronaca di «quel maledetto giorno» sono le immagini in bianco e nero che scorrono su un televisore. Bruno sta ancora finendo di mangiare, quando una voce fuori campo racconta di una sparatoria tra carabinieri e terroristi. Un militare è gravemente ferito, si chiama Rodolfo D’Alfonso. «Quando sentii il mio cognome ebbi un sussulto e corsi da mamma. Il nome del carabiniere ferito era sbagliato e così pensai che non fosse mio padre. Forse volli solo illudermi e uscii a giocare». Nel pomeriggio, quando rientra, c’è una processione di persone che si allunga all’interno del condominio in cui abita. «Corsi da mamma, l’abbracciai. Lei piangeva disperata. Papà era in coma». In fretta, Rachele e la figlia maggiore partono per Acqui Terme. Il giorno dopo anche Bruno arriverà in città con lo zio Gabriele. «L’ultima immagine di mio padre è quella di un uomo steso in un letto d’ospedale. Lasciai quella stanza sussurrando “ciao papà, spero di rivederti presto. Sei il mio eroe”. Non l’ho più rivisto».
Esplosione, proiettili e fuga
Il giorno di dolore della famiglia D’Alfonso è la narrazione di un conflitto a fuoco pieno di punti oscuri. Il 5 giugno è la Festa dell’Arma. Giovanni D’Alfonso avrebbe dovuto rientrare al paese, invece viene trattenuto ad Acqui Terme. Ventiquattr’ore prima l’industriale vinicolo Vallarino Gancia era stato rapito poco dopo essere uscito da Villa Camillina, a Canelli. Quello stesso giorno, il 4 giugno, Maraschi, 22 anni, al volante di una 124 verde rimase coinvolto in un incidente con una 500. Il giovane provò a chiudere in fretta la pratica del sinistro, si offrì di pagare i danni in contanti. Ma qualcosa non quadrava e gli automobilisti chiamarono i carabinieri. Il giovane venne arrestato fuori da Villa Camellina: aveva una beretta 7.65 con il colpo in canna. In caserma si dichiarò «prigioniero politico». Nel frattempo, erano iniziate le ricerche dell’imprenditore. La mattina del 5 giugno, alle 10.30, il tenente Rocca insieme con D’Alfonso, Cattafi e Barberis sono impegnati in una perlustrazione che è quasi routine. I militari arrivano alla Spiotta a bordo di una Fiat 127. Sotto il porticato ci sono due vetture: una 127 rossa e una 128 bianca. Dietro a una finestra s’intravede per pochi istanti una figura.
Esplosione, proiettili e fuga
«Uscite», ordinano i militari. Barberis risale sull’auto di servizio e si sposta dietro la cascina per chiamare i rinforzi. Un uomo compare sulla porta: uno strano luccichio tra le sue mani annuncia il lancio e l’esplosione di una bomba, una Srcm in dotazione all’esercito italiano. D’Alfonso viene travolto dall’ordigno e dai proiettili: uno gli perforerà il cranio, un altro il polmone. Cattafi riesce a mettersi al riparo, il tenente Rocca perderà il braccio sinistro e un occhio. I brigatisti, un uomo e una donna, sparano e approfittano di quel fuoco incrociato per salire a bordo delle due auto e darsi alla fuga. Ma trovano Barberis a sbarrare la strada. Le vetture finiscono nella boscaglia. Un uomo scappa tra la vegetazione. La donna si accascia a terra, è Mara Cagol. Morirà pochi minuti dopo: nell’autopsia verrà scritto che è stata colpita da tre proiettili. Vallarino Gancia è chiuso in un tugurio, illeso. Il fuggitivo è l’uomo che ora Bruno D’Alfonso vuole stanare. Nei verbali racchiusi nei fascicoli d’inchiesta dell’epoca c’è la descrizione di Cattafi: «Sui 30-35 anni, senza baffi, alto circa un metro e 70, corporatura longilinea, capelli castani con una riga a sinistra, viso ovale, zigomo marcato, senza alcuna inflessione dialettale». Il maresciallo era certo di poterlo riconoscere, ma nessun identikit o riconoscimento fotografico sarebbe oggi presente agli atti. All’interno della cascina viene sequestrato un arsenale, che nel ‘91 verrà distrutto.
Tante versioni
«Quando sono entrato nell’Arma ho cominciato a raccogliere notizie discordanti su quei fatti» racconta Bruno, che ha seguito le orme del padre ed è diventato maresciallo. «Nel ‘95, all’inaugurazione della scuola di Arzello intitolata a mio padre, percepii malumori tra gli ex colleghi. Barberis mi raccontò una versione. Poi nei sentii altre. Nessuno mi ha mai detto la verità». Dieci anni più tardi, Bruno decide di indagare: «L’inchiesta sulla sparatoria è piena di lacune e vuoti. L’impressione è che nessuno avesse interesse a far emergere quel nome». Ora la Procura ha riaperto il caso, acquisito il materiale dell’epoca e sentito alcuni testimoni. S’indaga, ma la strada è in salita. Anche se i sospetti si concentrassero su qualcuno, i reperti dell’epoca sono stati distrutti e le comparazioni scientifiche non sono possibili. Non può raccontare nulla neanche la cascina Spiotta, ancora oggi adagiata in cima alla collina tra i dolci paesaggi attraversati dal torrente Erro. Nel 1985 è finita all’asta ed è stata restaurata. Non vi è più traccia della sua storia passata. Ma talvolta, nell’anniversario della sparatoria, compare un mazzo di rose.
"Non era in via Fani". Quella "teoria" su Aldo Moro. Gianluca Zanella il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.
44 anni fa Aldo Moro veniva rapito e la sua scorta trucidata. Tra le diverse teorie che aleggiano sul caso più intricato della storia italiana, c'è chi sostiene convintamente che lo statista non fosse in via Fani la mattina dell'eccidio.
“[...] Esiste la storia ed esiste la fantasia. Quando la storia non combacia con le proprie scelte ideologiche, si esercita la fantasia. E si ha quella specifica forma di storia che si chiama dietrologia. [...] Moro è stato ucciso dalle Brigate rosse e le Brigate rosse sono un fatto tutto italiano e, come dice giustamente quella gran signora di Rossana Rossanda, nel suo bel libro “ritratto di famiglia”, è una cosa tutta interna alla sinistra italiana e alla storia della Resistenza. Io conosco tutti quelli che hanno rapito, hanno custodito, non ho conosciuto quello che ha ucciso Aldo Moro [...]. Loro si limitano [...] a confermare le cose che sono accertate dalla giustizia. Non negano mai. Però non denunciano mai nessuno. Per esempio non hanno mai fatto il nome – e mai lo faranno – dei due motociclisti che esaminarono la zona e poi fecero da staffetta”.
A trent’anni dal rapimento di Aldo Moro e dall’eccidio della sua scorta in via Fani, Roma, il 16 marzo del 2008 sono queste le parole di Francesco Cossiga intervistato da Roberto Arditti per Il Tempo. Un incipit quanto mai adatto per l’articolo che state leggendo e che, sicuramente, avrebbe fatto storcere il naso al picconatore che, stando a chi l’ha conosciuto bene, si portò dietro fino all’ultimo dei suoi giorni il dolore (e forse il rimorso?) per l’uccisione del politico e statista rapito e sequestrato per 55 giorni, prima che il suo corpo venisse ritrovato rannicchiato e crivellato di colpi nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, sempre Roma, la mattina del 9 maggio 1978.
Quest’anno di anni ne saranno passati 44 e a risentire queste parole viene da farsi più di una domanda, ma non è questa la sede.
Testimonianze dirette, processi, commissioni d’inchiesta, libri, un memoriale (quello di Valerio Morucci), perizie balistiche non hanno fatto chiarezza su come siano andate esattamente le cose in via Fani, quando a perdere la vita furono cinque servitori dello Stato: Oreste Leonardi, maresciallo dei carabinieri e responsabile della sicurezza di Aldo Moro; Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri e autista del politico pugliese; i poliziotti Giulio Rivera, Francesco Zizzi e Raffaele Iozzino. Trucidati. I primi due – Leonardi e Ricci – da un fuoco preciso, quasi millimetrico, che spense le loro vite come si spegne una luce pigiando l’interruttore. I restanti tre, che seguivano con un’Alfetta di scorta la Fiat 130 su cui viaggiava Moro, investiti da un muro di proiettili (quasi 100). Colpi sparati da chi e da dove, non è dato sapersi con certezza. Come nulla in questa vicenda.
Proprio concentrandosi sull’agguato - che il leader di Potere Operaio Franco Piperno definì di “geometrica potenza” – nel corso degli anni sono fioccate molte teorie. Tra chi è sicuro che a portare a termine l’agguato siano stati i Berretti verdi americani; tra chi giura che a sparare furono i terroristi rossi della Raf tedesca; tra chi porta avanti la tesi di un super gruppo di fuoco guidato da Carlos lo Sciacallo e chi si azzarda a scomodare anche Goldrake e i Cavalieri dello Zodiaco. E c’è anche chi sostiene convintamente che Aldo Moro non fosse presente in macchina quella mattina. Proprio così.
Sono in molti a non ritenere possibile che Moro – seduto nella Fiat 130 – possa essere rimasto illeso sotto quella grandine di piombo abbattutasi sulla sua scorta. Sono in molti, anche, a sostenere questa teoria basandosi sul fatto che dalla prigione del popolo, nell’arco dei 55 giorni di prigionia, Aldo Moro non abbia scritto una riga in memoria dei suoi uomini massacrati, quasi fosse all’oscuro di quanto accaduto. Su questo punto, si può porre immediatamente un’obiezione: non tutte le lettere vennero consegnate dai brigatisti ai rispettivi destinatari. C’è dunque la possibilità che Moro avesse scritto rivolgendosi alle famiglie delle vittime (in particolare alla moglie di Leonardi, con cui era legato anche da un’amicizia di vecchia data). Sempre sul punto, vale la pena riportate quanto sostenuto da Miguel Gotor – grande esperto del caso Moro e attuale assessore alla Cultura del Comune di Roma – che nel corso della trasmissione web Dark Side – storia segreta d’Italia, in occasione del 16 marzo 2021, ha detto che un accenno alla scorta c’è e si trova in una lettera alla moglie mai recapitata, ritrovata nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano, solamente nell’ottobre 1990.
La lettera in questione (ritrovata in fotocopia) fu scritta il 26 marzo 1978 (lo si evince da alcuni riferimenti alla domenica di Pasqua, che cadeva proprio quel giorno). Moro scrive: “Per quanto mi riguarda non ho previsioni né progetti, ma fido in Dio che in vicende sempre tanto difficili non mi ha mai abbandonato. Intuisco che altri siano nel dolore. Intuisco ma non voglio spingermi oltre sulla via della disperazione”. Secondo Gotor, sarebbe questo il riferimento – ovviamente implicito – alla scorta massacrata.
“Al di là del fatto che c’è questo riferimento testuale”, ha sostenuto lo storico e curatore di una fondamentale edizione del memoriale Moro, “io credo che la risposta [alla questione dell’assenza di riferimenti chiari alla sorte dei suoi uomini, ndr] sia sul piano logico sufficientemente stringente: se Moro avesse fatto un riferimento esplicito agli uomini della scorta morti, ecco che avrebbe posto un vero e proprio macigno sulla questione della trattativa, del negoziato segreto che lo coinvolse e coinvolse anche Paolo VI. Io credo sia questa la ragione. Una ragione squisitamente strategica”.
Ma al di là del riferimento agli uomini della scorta, c’è un altro elemento sul quale puntano coloro che sostengono la “non” presenza di Moro in via Fani: quello balistico e più in generale squisitamente tecnico/operativo. La verità giudiziaria di via Fani – che non necessariamente combacia con la verità storica - si fonda sostanzialmente sul memoriale Morucci, redatto nel 1986 e sulla cui attendibilità o meno non è questa la sede per soffermarsi.
In questo memoriale si parla di un’azione condotta da circa 11 brigatisti che, con armi obsolete – dei veri e propri residuati bellici – spararono su delle auto in progressivo rallentamento, dunque su un bersaglio mobile, colpendo un po’ dappertutto (dei colpi hanno raggiunto il secondo piano del palazzo di fronte cui si è tenuta la sparatoria). Stando alla versione riportata dal memoriale e dalle testimonianze degli stessi brigatisti rilasciate negli anni, quasi tutti i partecipanti all’agguato ebbero problemi con le armi, che s’incepparono. Insomma, più che un agguato di “geometrica potenza” quello trasmesso dalla vulgata ufficiale sembra un Circo Barnum. Letale, ma pur sempre un circo.
Naturale, allora, prestare il fianco a interpretazioni diverse della vicenda, magari in netto contrasto con quella ufficiale. Ma quando queste interpretazioni vengono argomentate e quando l’interlocutore che le propina non è esattamente l’ultimo arrivato, allora la curiosità cresce e, al di là di come la si pensi, può valer la pena ascoltare e cercare di fare una riflessione per quanto possibile scevra da preconcetti. Nello specifico, sono state diverse le persone con cui abbiamo parlato. Nessuna di loro – per svariate ragioni - ha voluto metterci la faccia. Una sì.
“Ci tengo a precisarlo – ha esordito la prima volta – non ho mai fatto parte dei servizi segreti o informativi che dir si voglia, né italiani, né stranieri”. Incontriamo l’ex generale di Divisione dell’Arma del Genio Piero Laporta – in congedo dal 2010 – in un’area aperta, priva di traffico, della Capitale. Fa freddo, tira un vento di tramontana che non fa sconti, ma l’incontro avviene al centro di un prato privo di ripari. I telefoni in macchina, come richiesto alla nostra prima telefonata.
“Lavoro sul caso Moro, e nello specifico sull’agguato di via Fani, da vent’anni. Da quando ho smesso di credere alle volgari bugie che sono state dette nel corso del tempo”.
Il generale Laporta, durante i nostri vari incontri, tutti avvenuti con modalità simili al primo, ci illustra il suo lavoro poderoso, un lavoro propedeutico alla stesura di un libro che – sostiene lui – promette non solo di far discutere, ma “di ribaltare il lavoro fatto in questi 44 anni da processi, commissioni e perizie”.
Aldo Moro – secondo lui – non era in macchina quella mattina: “Vi furono una serie di preparativi, che partirono da almeno cinque anni prima dei fatti e si esplicitarono fino a mezz’ora prima dell’agguato”. Laporta si riferisce in particolare alla notizia trasmessa da Radio Città Futura il 16 marzo, poco dopo le 8 del mattino, mentre Moro era ancora a casa in attesa della scorta, di un possibile rapimento dello statista. Un episodio controverso, ben ricostruito dal giornalista Marcello Altamura in un libro, La borsa di Moro, oggi fuori commercio.
“È probabile che proprio a seguito di questo messaggio radiofonico - ci spiega il generale esplicitando la sua teoria - qualcuno si sia presentato a casa di Moro mentre arrivava la sua scorta. Questo qualcuno potrebbe aver convinto Leonardi, che non era certo uno sprovveduto, della necessità di prevenire un eventuale rapimento prendendo in custodia Moro e facendo comunque sfilare le macchine di scorta lungo il tragitto stabilito quella mattina, magari con l’accordo di ritrovarsi da un’altra parte. A quel punto, i cinque agenti della scorta erano testimoni scomodi. Dovevano morire”.
A questo, Piero Laporta aggiunge una serie di minuziose considerazioni pratiche e balistiche, ma dal suo punto di vista, la prova principe che Moro non si trovasse nella Fiat 130 quando questa venne investita di piombo, sta nelle parole dello stesso rapito. E qui dobbiamo fermarci.
L’ex generale sostiene di avere tra le mani degli elementi assolutamente inediti e assolutamente sconvolgenti. Noi de IlGiornale.it questi elementi abbiamo avuto la possibilità di vederli. Non sta a noi valutarne l’attendibilità, non ne abbiamo la capacità e nemmeno la presunzione, ma senza dubbio si tratta di materiale interessante. Abbiamo promesso al generale di non parlarne fin quando non avrà terminato di lavorare al suo libro, ma ci siamo assicurati l’anteprima quando sarà il momento di divulgarli, nell’assoluta certezza che si alzerà un polverone o che verrà steso un velo di silenzio.
“Vedete – conclude Laporta nel nostro ultimo incontro – la commedia di via Fani non poteva essere portata a termine se non ci fosse stata la regìa concordata di cinque attori fondamentali”. Anche chi siano questi attori secondo il generale, ve lo sveleremo a tempo debito.
Quello che in conclusione possiamo dire è che, al di là delle intime convinzioni, al di là di qualsiasi polemica – giusta o strumentale che sia -, resta il ricordo, e il dolore sempre vivo, per cinque vite stroncate. Perché l’unica certezza del caso Moro sono loro, gli uomini della sua scorta. Morti senza saperne il perché, lasciando famiglie distrutte che solo con enormi sforzi hanno trovato la forza di rialzarsi. La nostra vicinanza va a loro.
Via Fani: 44 anni fa la strage della scorta di Aldo Moro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2022.
Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse
Roma, ore 9 del 16 marzo 1978. In via Mario Fani, l’auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta, furono bloccate all’incrocio con via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I terroristi aprirono immediatamente il fuoco, e in pochi secondi uccisero i cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro, lo statista della Democrazia Cristiana poi ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Alle 9.03 una telefonata anonima al 113 informava di una sparatoria con numerosi colpi di arma da fuoco esplosi in via Fani.
Sul luogo della strage furono trovati, dentro un’Alfa Romeo Alfetta, il cadavere della guardia di pubblica sicurezza Giulio Rivera e il corpo agonizzante del vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi; nella Fiat 130, su cui viaggiava Moro e che precedeva l’Alfetta, i cadaveri dell’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci e del maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi; a terra, vicino all’auto, la guardia di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino.
Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse. I 3 giovani poliziotti, il 16 febbraio del 1979 furono insigniti della Medaglia d’oro al Valor civile, e i loro nomi sono incisi anche nelle piccole lapidi del Sacrario presente alla Scuola superiore di Polizia.
Durante la cerimonia, un picchetto interforze, composto da personale della Polizia di Stato, dell’ Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, ha reso omaggio al vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, alle guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, al maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi e all’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci.
Sul luogo dell’eccidio sono state deposte delle corone d’alloro da parte del Presidente della Repubblica, degli altri organi costituzionali dello Stato e delle Autorità locali. Anche il capo della Polizia Lamberto Giannini e il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi, presenti alla cerimonia, hanno deposto due corone in ricordo dei poliziotti e dei carabinieri uccisi nell’attentato terroristico. Redazione CdG 1947
· Le aste dei cimeli giudiziari.
VOLANTINO CHE RIVENDICA IL RAPIMENTO DI ALDO MORO VENDUTO ALL’ASTA PER 32.760 EURO. Da lastampa.it il 27 gennaio 2022.
È stata venduta all'asta per 32.760 euro una copia a ciclostile del volantino originale con il quale le Brigate Rosse annunciarono il rapimento dello statista democristiano Aldo Moro e l'uccisione della sua scorta in via Fani il 16 marzo 1978.
Il lotto numero 43 del catalogo «Autografi & Memorabilia» è stato aggiudicato oggi pomeriggio durante la vendita organizzata dalla casa d'aste Bertolami Fine Arts di Roma, che nelle scorse settimane era stata preceduta da numerose polemiche.
Stimato da Bertolami 1.500 euro, il volantino è partito in asta oggi da una base di 13.000 euro, cifra massima raggiunta dalle pre-offerte su Internet. Dopo una serie di continui rilanci, il prezzo del martello si è fermato a 32.760 euro (diritti d'asta compresi) e il volantino del gruppo terroristico è stato aggiudicato ad un collezionista privato collegato al telefono, che ha chiesto di restare anonimo.
Il volantino (misura cm 33x22), con 80 righe di testo scritte su entrambe le pagine, fu distribuito all'indomani del rapimento dello statista democristiano: si tratta di una delle numerose copie che furono distribuite dai militanti del gruppo terroristico in quel marzo di 44 anni fa.
Il volantino con intestazione Brigate Rosse e la stella a cinque punte all'interno di un cerchio, inizia recitando: «Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana...». E si chiude con la data 16/3/78 e la firma «Per il Comunismo Brigate Rosse».
In seguito alle polemiche politiche sollevate dall'annuncio della vendita, si è mossa la Direzione generale archivi del ministero della Cultura, guidato da Dario Franceschini, che ha disposto una verifica sul ciclostile del Comunicato n.1 delle Brigate Rosse al fine di verificarne la peculiarità e l'interesse.
Nel fascicolo «Moro uno» della Corte di Assise di Roma, studiato e digitalizzato dalla stessa Direzione generale archivi nell'ambito del Progetto Moro, risultano già presenti infatti 41 esemplari ciclostilati originali del Comunicato n. 1. Gli ispettori ministeriali hanno verificato che si tratta di una delle tante copie ciclostilate. Anche la Digos della questura di Roma ha svolto indagini per conto della Procura.
Non è la prima volta che documenti degli anni di Piombo vanno all'asta. Il 29 marzo 2012 la casa d'aste Bolaffi di Torino nella sua sede di Milano mise in vendita 17 volantini e comunicati ciclostilati delle Brigate Rosse, risalenti al periodo 1974-1978, fra i quali anche il comunicato numero 6 del 15 aprile 1978, tristemente noto perché annunciava la condanna a morte di Aldo Moro: «L'interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato... – si legge nel testo dei terroristi –. Stendere una cappa di terrore controrivoluzionario sull'intera società è l'unico sistema con cui questo Stato, questo regime Dc sorretto dall'infame complicità dei partiti cosiddetti di sinistra vorrebbe soffocare ed allontanare lo spettro di un giudizio storico che il proletariato ha già decretato... Per quel che ci riguarda il processo ad Aldo Moro finisce qui... Aldo Moro è colpevole e viene condannato a morte».
Il lotto di 17 volantini, che erano tra quelli distribuiti dai fiancheggiatori delle Br davanti alle fabbriche, partito da una base di 1.500 euro raggiunse i 17mila euro: fu acquistato dalla Fondazione Biblioteca di via Senato a Milano, ideata e presieduta dall'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri.
DAGOREPORT il 5 gennaio 2022. Come prevedibile, dopo il lancio Ansa e il melenso servizio sul Tg2 delle 20,30 di ieri sera i rilanci per aggiudicarsi in pre-asta il volantino n.1 del 16 marzo 1978 con il quale le BR annunciavano di aver sequestrato Aldo Moro per processarlo si sono susseguiti. Circa una ventina in una notta per un’asta fissata per il 18 gennaio dalla Casa d’incanti romana Bertolami. Nonostante il servizio del Tg2 avesse omesso il nome della Casa d’aste - riteniamo per più o meno convinto desiderio di non alimentare i rilanci - chi partecipa alle aste ci ha messo meno di un minuto a scovare sui data base internazionali dove il pezzo era messo all’incanto e a fare la propria offerta.
E, nonostante il servizio stigmatizzasse in maniera un po’ demagogica il possibile acquisto (con frasi, parafrasiamo, del tipo: ci immaginiamo come si faccia ad appendere nel salotto un simile testo…), i feticisti dei documenti – che valgono in quanto tali – si sono tuffati a pesce. E quel che fa specie osservare è che il lotto successivo, una lettera di Garibaldi, sia ancora a zero offerte. Le Br schizzano e Garibaldi resta ancorato a Quarto. Sic transit gloria mundi…
Ma c’è un’osservazione più interessante non affrontata: come fa a esser finito all’asta quel volantino n.1, che non è una copia da carta-carbone? Moro fu sequestrato il 16 marzo 1978, che è anche la data che riporta il volantino. Che, però, non viene subito ritrovato. Il 18 marzo, sul “Corriere della Sera”, Vittorio Feltri scrive che non ci sono ancora volantini.
Il volantino viene, però, trovato proprio quel giorno: infatti il “Corsera” del 19 lo annuncia in prima pagina e pubblica l’intero testo a pagina 2. Il volantino finisce all’attenzione della polizia, che lo affida a un esperto per capire con quale macchina da scrivere è stato stilato. Il giorno dopo, infatti, il 20 marzo, un lungo articolo discetta che per la prima volta gli inquirenti hanno notato che le BR hanno usato una sofisticata macchina da scrivere IBM da 15mila lire con testina rotante ecc.
A questo punto il documento deve essere per forza entrato nel fascicolo di indagine e trovarsi oggi nell’Archivio del Tribunale di Roma in attesa di essere versato, un tempo dopo 70 anni, nell’Archivio Centrale dello Stato o, comunque, in un Archivio di Stato a disposizione di eventuali studiosi. Quindi c’è stata una manina che, da qualche parte, l’ha sfilato. Da dove viene il volantino battuto da Bertolami? Non dovrebbe essere lì…
"Vergognoso mettere all'asta il volantino Br del caso Moro". Chiara Giannini il 6 Gennaio 2022 su Il Giornale. Politici e vittime del terrorismo sdegnati dalla vendita. "A che titolo un atto giudiziario è diventato privato?" Da dove proviene quel comunicato delle Brigate Rosse risalente a 44 anni fa messo all'asta online dalla Bertolami Fine Art, ma soprattutto come è possibile che possa essere venduto un reperto che costituisce corpo del reato? Dopo l'uscita della notizia la Direzione generale archivi del ministero della Cultura guidato da Dario Franceschini ha disposto una verifica sul ciclostile del «Comunicato n.1» delle Brigate Rosse, con cui l'organizzazione terroristica rivendicava il rapimento di Aldo Moro e l'uccisione della scorta.
«Nel fascicolo della Corte di Assise di Roma - specificano dal ministero - , studiato e digitalizzato dalla stessa DG Archivi, risultano già presenti infatti 41 esemplari ciclostilati originali del comunicato che sono l'esito di consegne da parte dei destinatari alla questura oppure di sequestri. Alcuni risultano incompleti». L'avvocato Valter Biscotti, che da anni segue legalmente le famiglie della scorta di Moro, ritiene «insolito e incredibile quanto accaduto». «I casi sono due - spiega - : o quel comunicato proviene da una delle redazioni a cui fu fatto recapitare, oppure durante la digitalizzazione qualche furbetto si è impossessato di una delle copie. Di qualunque ipotesi si tratti, è ignobile fare mercimonio di atto che riguarda fatti di terrorismo in cui hanno perso la vita delle persone».
Le reazioni politiche non hanno tardato ad arrivare. Cinzia Pellegrino (FdI), coordinatore nazionale del dipartimento tutela vittime, auspica che «la magistratura possa presto dare risposte sulla vicenda», mentre il senatore del Pd Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, si chiede: «Com'è potuto accadere? Sono state violate delle leggi? Di sicuro si è violato un principio di decenza e di umanità». Il senatore Maurizio Gasparri (FI), annuncia che sul «fatto di assoluta gravità» saranno chiesti «chiarimenti in Parlamento. La nostra storia e le tragedie che l'hanno caratterizzata meritano un approccio diverso». Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, uno degli agenti morti in via Fani, chiarisce: «Sarebbe stato più giusto conservare il volantino come fosse una reliquia; venderlo all'asta è un po' una presa in giro». Il dem Enrico Borghi annuncia che col collega Filippo Sensi farà «un atto sindacale ispettivo parlamentare». Giuseppe Fioroni, già presidente della Commissione Moro, tiene invece a dire: «Mi colpisce come tutto questo sia potuto accadere e mi auguro che le autorità preposte facciano i loro doverosi accertamenti». Per la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni mettere all'asta quel volantino «è una vergogna. La testimonianza del sequestro dell'allora presidente del Consiglio, Aldo Moro, e il drammatico massacro degli uomini della sua scorta non può e non deve essere venduto al miglior offerente».
Giovanni Berardi, presidente dell'Associazione europea vittime del terrorismo e figlio del maresciallo Rosario Berardi, ucciso dalle Br il 10 marzo 1978 a Torino, parla di «ennesimo affronto ed ennesima offesa alla memoria delle vittime del terrorismo», mentre il giornalista Mario Calbresi, figlio di una delle vittime degli anni di piombo, specifica che quelle «pagine che grondano sangue devono piuttosto stare in una Casa della memoria».
La casa d'aste ieri si è affrettata a commentare: «I collezionisti di documenti storici non sono speculatori, né volgari voyeur. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia».
Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza del barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.
Chiara Baldi per la Stampa il 6 gennaio 2022. Potrebbe essere il quarantaduesimo comunicato numero uno delle Brigate Rosse per la rivendicazione del sequestro di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo del 1978. Ma se quello messo all'asta dalla Bertolami Fine Art sarà effettivamente il quarantaduesimo l - stabilirà solo la verifica disposta dal ministero della Cultura: le altre 41 copie ciclostilate sono già nelle mani dello Stato, essendo agli atti del processo «Moro Uno» nel fascicolo della Corte di Assise di Roma, ma - come spiega il dicastero - «alcuni documenti risultano incompleti e non tutti sono nello stesso stato di conservazione».
A fugare i dubbi per ora ci pensa l'ex Br e uno dei massimi esperti del caso Moro, Paolo Persichetti, secondo cui quello finito in vendita «non è uno dei nove comunicati originali stampati con la famosa Ibm a testina rotante in light italic fatti ritrovare a Roma il 18 marzo 1978, bensì un testo ciclostilato di cui esistono centinaia di copie».
Certo è che l'asta che sarà battuta il 18 gennaio ha già raggiunto cifre da capogiro: partita da una base di 600 euro, con una quotazione tra i 1300 e i 1700 euro, al momento viaggia sui 7 mila con oltre 30 offerenti. Per Ilaria Moroni, direttrice dell'Archivio Flamigni, centro di documentazione specializzato nello studio del terrorismo, si tratta di «morbosità che si manifesta soprattutto quando c'è di mezzo il caso di Moro e di opportunismo da parte di chi possiede il documento e pensa di farci dei soldi. Sarebbe molto più corretto se questi preziosi documenti venissero donati agli archivi dello Stato, così da poter portare avanti una memoria storica di cui, peraltro, nel nostro Paese c'è una grande cultura».
Concorda Roberto Della Rocca, presidente dell'Associazione Italiana Nazionale Vittime del Terrorismo, che si dice «stupito della decisione di mettere all'asta un documento di questo tipo», anche se ricorda che in passato è già accaduto. «Avrei preferito che - spiega - trattandosi di documentazione storica finisse nelle mani di un ente statale». Chi difende, invece, i collezionisti è Giuseppe Bertolami, amministratore unico della Bertolami Fine Art: «Non sono speculatori né volgari voyeur. Sono, anzi, appassionati di storia, persone che la studiano e la rispettano e che, talvolta, grazie alle loro piccole scoperte, contribuiscono anche a ricostruirla. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia, una testimonianza dolorosa e preziosa della memoria della nostra comunità».
Sulla vicenda, intanto, in Parlamento arriverà una interrogazione presentata dal senatore dem Dario Parrini, che è anche presidente della commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama.
«È assurdo che finisca all'asta come un qualunque oggetto d'epoca il volantino originale con cui le Brigate Rosse rivendicarono con un linguaggio barbaro e delirante il rapimento di Aldo Moro e l'assassinio in via Fani di cinque agenti della sua scorta. Com' è potuto accadere? Sono state violate delle leggi? Di sicuro si è violato un principio di decenza e di umanità».
PAOLO COLONNELLO per la Stampa il 6 gennaio 2022. La rivendicazione del sequestro Moro derubricato a «memorabilia» e messo all'asta per un prezzo che ormai viaggia sui 7 mila euro, non può lasciare indifferente chi, come Mario Calabresi, degli anni di piombo è vittima e testimone: «Forse qualcuno ha perso la memoria di quell'orrore».
Non è invece destino che persino certi fatti di sangue divengano a un certo punto souvenir della Storia?
«Ma quella è l'attribuzione di un massacro, non è un "memorabilia" come il biglietto di un concerto o un disegno di Fellini. Non può essere un oggetto di collezionismo che può avere elementi di passione. Questo foglio messo all'asta è la rivendicazione dell'assassinio degli agenti della scorta di Moro e del suo sequestro. L'idea che ci sia qualcuno che ha conservato quel documento e che pensa di trarne profitto, io la trovo francamente abbastanza riprovevole».
Eppure non è la prima volta che succede
«Infatti c'è un precedente: già la casa d'aste Bolaffi aveva messo in vendita diversi documenti del brigatismo nel 2012: si trattava di volantini che si aggiudicò... Indovina chi? Marcello Dell'Utri. Erano 17 documenti delle Br, tra cui il comunicato numero 6, quello che annunciava la condanna a morte di Aldo Moro. Ne scaturì proprio una polemica su "La Stampa" e io sostenni che era inopportuno».
Come adesso?
«Sì, non ho cambiato idea. Credo che questi documenti deliranti non dovrebbero essere oggetti di lucro. L'ho già detto: sono documenti che grondano sangue e il foglio messo all'asta adesso è la rivendicazione di un pluriomicidio».
Eppure si collezionano anche armi, abiti, manoscritti di mostri della Storia
«La passione del collezionista in questo caso diventa morbosità: perché dovrei avere il culto di un documento che rivendica un massacro? Ci sono luoghi deputati per questo genere di cose: gli archivi storici».
Uno dei personaggi più gettonati in Italia in questo senso è Mussolini. Dovrebbe valere lo stesso?
«Faccio questo esempio: l'ultimo documento di Mussolini è un foglio scritto di suo pugno dove racconta che venne trattato bene dai partigiani che lo arrestarono. Quel documento non si trova a casa di qualche fanatico ma, giustamente, negli archivi dell'Istituto Parri di Milano».
C'è poi la questione economica del valore di certi documenti...
«Che un documento come la rivendicazione di un omicidio abbia un valore economico, che dunque qualcuno faccia dei soldi vendendolo, mi fa abbastanza schifo. Tanto che sono tentato di comprarlo io e consegnarlo a chi certamente ne saprebbe fare buon uso, come Mario Milani, il presidente della Casa della Memoria di Brescia, testimone della strage di piazza della Loggia. L'idea che invece finisca nella casa privata di qualcuno, che poi magari lo rivenderà, rendendolo semplicemente un oggetto commerciale, mi sembra inquietante così come il fatto che qualcuno possa farne ad esempio un oggetto di culto. Sarebbe interessante, per esempio, sapere cosa poi ne ha fatto Dell'Utri dei volantini che acquistò...».
Di sicuro da noi certe ferite non si riescono mai a chiudere: dal fascismo al terrorismo, alla corruzione, la polemica è infinita... «È vero, questo perché da noi la storia è spesso utilizzata come un manganello da picchiare in testa agli avversari. Detto questo, sono convinto che siano davvero pochi quelli che al mondo riescono a fare i conti col passato, negli Usa ancora si rinfacciano la guerra di secessione. Gli unici forse sono i tedeschi: l'hanno fatta talmente grossa e devastante che per andare avanti hanno dovuto ripartire da zero».
C'è comunque da considerare che tutt' ora il sequestro Moro non ha chiarito tutti i suoi aspetti, c'è ancora un'inchiesta aperta.
«A maggior ragione non possiamo ritenere completamente storicizzato quel periodo, è una pagina che ha ancora delle ferite aperte, zone grigie, omissioni. La casa d'aste avrebbe fatto una gran bella figura a ritirare quel documento e consegnarlo a un archivio storico. Oppure a dichiarare che i documenti che grondano sangue non si mettono all'asta».
Volantino Br su Moro all'asta, ecco tutto quello che c'è da sapere. Sul caso Moro è ancora aperta una ferita di una nazione. Si continui la ricerca storica seria che ha bisogno dei documenti originali per essere ben compresa. L’isteria e le urla servono solo alla propaganda di parte. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 07 gennaio 2022.
Sta creando polemiche sterili, prese di posizione da Inquisizione, denunce penali, accertamenti ministeriali il fatto che la casa d’aste Bertolami Fine arts di Roma abbia messo in vendita una copia del volantino originale con il quale le Brigate Rosse rivendicarono l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta.
Le polemiche, tra l’altro, hanno fatto da detonatore alla promozione dell’asta, infatti l’Adn Kronos, informa che già 34 richieste di acquisto sono giunte, facendo arrivare il rialzo dell’offerta a 8.000 euro, e molte altre ne arriveranno. Il fronte della polemica da destra a sinistra ritiene politicamente scorretto che ci sia un’asta su un materiale storico che ha un suo interesse.
I collezionisti di questi reperti, di ogni provenienza storica, contribuiscono spesso a ricostruire gli avvenimenti, e non si comprende la ragione dello scandalo. In pochi hanno infatti riportato la dichiarazione dell’amministratore della casa d’asta, Giuseppe Bertolami, che a riguardo della vicenda ha detto: «I collezionisti di documenti storici non sono speculatori, né volgari voyeur. Sono al contrario degli appassionati di storia, persone che la storia la studiano e la rispettano e che, talvolta, grazie alle loro piccole scoperte, contribuiscono anche a ricostruirla. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia, una testimonianza dolorosa quanto preziosa della memoria della nostra comunità».
Sono molti, infatti, che ricercano e custodiscono documenti originali della Guerra di Spagna, della lotta armata italiana, del fascismo nei personali archivi o in collezioni tematiche e generaliste. Né è la prima volta che si vendono volantini delle Br. Nel 2012, per esempio, da Bolaffi, Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo e non certo sospettabile di simpatie eversive di sinistra, acquistò 17 volantini e documenti delle Brigate Rosse risalenti al periodo 1974-1978 che ritengo siano ancora custoditi alla Fondazione Biblioteca di Milano. Molti altri sono conservati in centri di documentazione e in archivi privati di cultori di materia e studiosi degli anni Settanta.
Il coro d’indignazione forse vorrebbe distruggere il materiale storico alla base della ricerca e dello studio? E se la politica cerca spazio non si comprende invece l’intervento di autorevoli giornalisti come Mario Calabresi che su Twitter ha dettato la linea: “Queste pagine grondano sangue, non possono essere comprate o vendute, diventare oggetto di collezione. L’unico luogo dove possono stare è nelle Case della Memoria a ricordarci la barbaria che fu il terrorismo”. Che il terrorismo italiano sia stato bocciato dalla Storia è una consapevolezza anche della maggior parte anche di chi ne fece parte, stabilire come e dove deve essere archiviata è un altro discorso. Forse Calabresi vuole impedire a suoi colleghi o storici di acquisire un documento?
Facciamo chiarezza sul volantino messo all’asta
Per tornare alla questione del volantino messo all’asta facciamo chiarezza sul documento. Il volantino che è stato messo all’asta, non è quello originale dei nove dattiloscritti battuti a macchina dalla celebre Ibm che usarono i brigatisti.
Fa parte di quelli diffusi dall’organizzazione per la sua propaganda clandestina, come faceva la Resistenza ai tempi del nazifascismo, e di cui da conto nel suo blog Paolo Persichetti, ex aderente alle Br e che da tempo si occupa di ricerca storica sull’argomento. Persichetti basa la sua documentazione su un rapporto della Questura di Roma, che il 29 aprile 1978 riporta numeri e zone di rinvenimento di quelli sequestrati. Molti andarono a singoli cittadini. Il volantino battuto all’asta fa parte di quella diffusione. Una parte fu sequestrata dalla Digos.
Sul caso Moro è ancora aperta una ferita di una nazione. Si continui la ricerca storica seria che ha bisogno dei documenti originali per essere ben compresa. L’isteria e le urla servono solo alla propaganda di parte.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'8 gennaio 2022. Vi sorprendete e indignate perché un volantino delle Brigate Rosse circola online, viene messo all'asta e riceve offerte di acquisto fino a 7.000 euro? Da destra a sinistra blaterate che è uno scandalo, che la memoria non può trasformarsi in merce, che così si banalizza la storia e si offendono le vittime? E così chiedete di restituire quell'oggetto ai musei, al patrimonio culturale della Nazione, di rimetterlo alla sacrosanta custodia dello Stato?
Siete sicuri che funzioni così, che documenti e reperti, cimeli e testimonianze debbano diventare per forza oggetti di esposizione e studio in pubbliche gallerie e biblioteche e non possano essere proprietà di singoli cittadini? Che ne sarebbe allora delle miriadi di archivi e fondi privati, su cui si regge grossa parte della ricerca storiografica? Che ne sarebbe di quel mercato di pezzi di antiquariato illustre che alimenta da secoli la curiosità dei collezionisti?
Il fatto che ciò avvenga è la migliore conferma che la storia siamo noi, come direbbe De Gregori, che il passato non è esclusiva di pochi ma appartiene a tutti, anche a chi ne conserva, tramanda o commercia dei frammenti: no, la storia non si può irrigidire solo in un museo o in un archivio di Stato, non è immobile e fissa, ma spesso sfugge ai documenti ufficiali e al controllo istituzionale, e perciò è viva e vera.
Chissà quante pagine del passato (si pensi alle foibe) sarebbero rimaste strappate, se non ci si fosse affidati alla memorialistica personale, alla documentazione privata... E il fatto che quegli oggetti oggi circolino online è solo un segno dei tempi, la dimostrazione che anche grazie alla tecnologia l'interesse per il passato non si limita ad ambienti accademici ma si fa pop.
E infatti si tratta di un fenomeno più diffuso di quanto si immagini. Basta dare una sbirciata su eBay, uno dei siti più noti di e-commerce, per accorgersene: qua l'attrazione per i cimeli del passato è bipartisan, spazia dai neri ai rossi.
Di Mussolini e del fascismo, assieme a tanta paccottiglia e feticci kitsch, è possibile trovare testimonianze preziose, come quel manifesto originale del plebiscito del 1934 con tanto di «Sì» in bella vista, acquistabile a 1.500 euro; o la copia autentica de La Gazzetta del Popolo del 10 maggio 1936, il giorno successivo alla proclamazione dell'Impero (1.099 euro); così come di valore sono un testo autografo del Duce su un documento della Rsi, venduto a 899 euro, e una lettera autografa di Mussolini a Matilde Serao, disponibile a 1.970 euro.
Per ciò che riguarda Hitler, se non riuscite a trovare una copia originale del "Mein Kampf", come quella strapagata in un'asta a Monaco nel 2019, potete dirottare su un manifesto anni '30 che riporta una dichiarazione di odio contro la Francia tratta dallo stesso libro e venduta a 1.500 euro.
Se invece avete nostalgie comuniste e cercate tracce autentiche di Stalin, potete procurarvi il suo autografo alla cifra non esattamente modica di 3.000 euro; c'è pure la prima edizione americana del "Libretto Rosso" di Mao, acquistabile a 7.524 dollari, o la sua statua enorme di bronzo, viene 12mila euro; in caso siate fan di Che Guevara, eccovi la sua foto originale scattata da Korda e venduta a 1.900 euro, purtroppo non pagabili in comode rate.
Per Marx avete doppia scelta: comprare la firma autografa, sganciando 6.000 euro, o accontentarvi della prima edizione americana del "Manifesto del Partito Comunista", vostro a soli 668 euro. Se invece avete vocazioni letterarie, affidatevi a cimeli eccellenti come il testo "Guerra sola igiene del mondo" di Marinetti, edizione del 1915 con dedica, venduta a 890 euro, ola raccolta di "Opere" di Giacomo Leopardi, pubblicata nel 1845 da Le Monnier e acquistabile a 1.800 euro.
Fidatevi, non farete un torto alla storia e alla memoria patria se oserete acquistarli. Dimostrerete piuttosto di avere sensibilità per la cultura e di non spendere tutti i vostri soldi in macchine, champagne e mignotte.
(ANSA il 27 ottobre 2022) Svolta nelle indagini sul conflitto a fuoco in cui morirono la brigatista Margherita 'Mara' Cagol e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso. Quarantasette anni dopo il conflitto a fuoco avvenuto nell'Alessandrino in occasione della liberazione dell'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, sono stati interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br.
Gli accertamenti dei carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi, ormai quasi cinquant'anni fa, partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate Rosse.
L'attività investigativa fa seguito agli accertamenti scientifici cui sono stati sottoposti, con le più moderne tecniche, i reperti sequestrati all'epoca della sparatoria. Nel corso degli anni si sono fatte varie ipotesi sulla identità del brigatista che riuscì a fuggire. A far riaprire le indagini è stato l'esposto presentato, con il tramite di un avvocato, da Bruno d'Alfonso, anche lui carabiniere, figlio dell'appuntato morto nella sparatoria del 5 giugno 1975. "E' una questione di giustizia e di verità storica.
Anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni", ha detto d'Alfonso dopo aver presentato l'esposto. Le indagini sono affidate ai carabinieri del ROS e coordinate dai magistrati del pool sul terrorismo della Procura di Torino e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.
Br, si riapre la caccia al terrorista che riuscì a dileguarsi dopo lo scontro a fuoco in cui morìrono Mara Cagol e un carabiniere. Accertamenti dei Ris di Parma sui reperti sequestrati all'epoca della sparatoria che portò alla liberazione dell'imprenditore sequestrato Vittorio Vallarino Gancia. interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. La Repubblica il 27 Ottobre 2022.
Svolta nelle indagini sul conflitto a fuoco in cui morirono la brigatista Margherita 'Mara' Cagol e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso. Quarantasette anni dopo il conflitto a fuoco avvenuto nell'Alessandrino in occasione della liberazione dell'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, sono stati interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. Gli accertamenti dei carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi, ormai quasi cinquant'anni fa, partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate Rosse.
L'attività investigativa fa seguito agli accertamenti scientifici cui sono stati sottoposti, con le più moderne tecniche, i reperti sequestrati all'epoca della sparatoria. Nel corso degli anni si sono fatte varie ipotesi sulla identità del brigatista che riuscì a fuggire. A far riaprire le indagini è stato l'esposto presentato, con il tramite di un avvocato, da Bruno d'Alfonso, anche lui carabiniere, figlio dell'appuntato morto nella sparatoria del 5 giugno 1975. "E' una questione di giustizia e di verità storica. Anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni", ha detto d'Alfonso dopo aver presentato l'esposto.
Le indagini sono affidate ai carabinieri del ROS e coordinate dai magistrati del pool sul terrorismo della Procura di Torino e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.
La morte di Mara Cagol e del carabiniere nel ‘75: un cold case delle Br riaperto da un’impronta. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.
Si cerca il terrorista che scappò: c’è un’ipotesi sulla sua identità. Analisi sulla macchina da scrivere utilizzata dal fuggitivo per una relazione sui fatti
L’irruzione dei carabinieri, il 5 giugno 1975, nel covo delle Br a Spiotta di Arzello (Alessandria): nella sparatoria morirono Mara Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso
È uno dei capitoli incompleti della storia delle Brigate rosse; uno dei primi, scritto 47 anni fa: la sparatoria alla cascina Spiotta, in provincia di Alessandria, in cui furono uccisi l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e Margherita «Mara» Cagol, che con il marito Renato Curcio aveva fondato le Br. Il tenente Umberto Rocca perse un braccio e un occhio, il maresciallo Rosario Cattafi rimase ferito, l’appuntato Pietro Barberis ne uscì illeso mentre un secondo brigatista riuscì a scappare. La sua identità è sempre rimasta sconosciuta, ma adesso una nuova indagine coordinata dalla Procura di Torino e dalla Procura nazionale antiterrorismo, con l’appoggio dei carabinieri del Ros, ipotizzano un nome: quello di un ex dirigente delle Br arrestato qualche anno dopo, condannato per altri omicidi e ferimenti firmati con la stella a cinque punte chiusa nel cerchio e oggi libero dopo aver scontato le pene accumulate.
L’impronta
È una «pista» emersa da nuovi elementi, non ancora sufficienti ad attribuirgli con certezza la partecipazione a quel conflitto a fuoco. C’è però una traccia: un’impronta digitale rilevata all’epoca nella cascina-covo che — riesaminata con le nuove tecniche a disposizione — è risultata compatibile con quella dell’ex br archiviata al momento della sua cattura. Per essere sicuri che appartenga a lui si tenterà l’esame del Dna, che con le nuove tecniche a disposizione del Ris di Parma si potrebbe estrarre dal vecchio reperto. Tuttavia pure l’eventuale attribuzione dell’impronta nel covo sarebbe un indizio ma non una prova del coinvolgimento nella sparatoria.
Sentito Patrizio Peci
Nel frattempo gli inquirenti procedono con gli strumenti più tradizionali, e sono tornati a interrogare alcuni ex brigatisti; tra questi il proto-pentito Patrizio Peci, che però non sarebbe stato in grado di fornire elementi utili per via della «compartimentazione» all’epoca vigente dentro l’organizzazione; una regola secondo la quale i compagni venivano informati su operazioni e fatti a cui non avevano partecipato solo se serviva ai compiti assegnati loro.
Gli interrogatori e l’inchiesta
Si sta dunque provando a riempire le parti mancanti di una pagina di storia del terrorismo italiano con gli strumenti dell’indagine penale, una via che inevitabilmente suscita reticenze tra ex militanti (soprattutto se non pentiti né dissociati) che invece sanno ciò che accadde quel giorno e finora hanno sempre taciuto. Riaprire fascicoli giudiziari che possono portare a nuove incriminazioni (in questo caso per omicidio) per fatti così indietro nel tempo, non è considerata una strada percorribile dai protagonisti della lotta armata di allora. Il corso della giustizia però ha altre regole, e l’inchiesta è stata riaperta sulla base di un esposto presentato un anno fa dal figlio del carabiniere ucciso, Bruno D’Alfonso, anche lui un passato nell’Arma, assistito dall’avvocato Sergio Favretto. In una ventina di pagine più allegati, D’Alfonso e il suo legale hanno ricostruito tutto quanto accertato nel 1975 dai carabinieri di Acqui Terme e Torino intervenuti dopo la sparatoria, confluito nel processo a carico di un brigatista arrestato il giorno prima, Massimo Maraschi, accusato di sequestro di persona.
Il rapimento di Vallarino Gancia
Alla cascina Spiotta, infatti, Cagol e il suo complice tenevano in ostaggio il «re delle bollicine» Vallarino Gancia, rapito il 4 giugno per ottenere un riscatto che rimpinguasse le casse dell’organizzazione. Lo stesso giorno Maraschi fu arrestato in seguito a un incidente stradale, e si dichiarò prigioniero politico. Nelle perlustrazioni dell’indomani, una pattuglia dei carabinieri giunse alla Spiotta, e notate le macchine parcheggiate bussò alla porta. I brigatisti risposero a colpi di pistola, mitraglietta e bombe a mano, uccidendo e ferendo i carabinieri e innescando la sparatoria in cui perse la vita la donna.
La «relazione interna»
Il brigatista che sfuggì al fuoco dei carabinieri riuscì a scappare tra campi e boscaglia, e riagganciati i compagni scrisse una sorta di «relazione interna» trovata nel covo milanese di via Maderno in cui a gennaio ‘76 fu arrestato Renato Curcio. Lì c’è una versione dei fatti che accredita la versione di una «esecuzione» di Mara Cagol, sempre smentita dai carabinieri superstiti. Uno dei quali, Rocca, ha anche detto di aver successivamente riconosciuto e identificato il fuggitivo, indicandone anche la provenienza da un marcato accento emiliano; ma senza la conferma dell’altro collega che l’aveva visto in faccia, l’appuntato Barberis morto nel 2003, la sua testimonianza non portò a nulla. Tra i reperti ora all’esame del Ris ci sono pure la macchina da scrivere trovata in via Maderno, con cui verosimilmente fu scritta la relazione del fuggitivo, e l’originale del documento, alla ricerca di altre tracce. Ma si tratta di accertamenti ancor più complicati rispetto a quelli sull’impronta digitale. «A noi interessa una piena ricostruzione dei fatti — spiega l’avvocato Favretto — che all’epoca non fu possibile perché le indagini furono inspiegabilmente chiuse in tutta fretta».
Si riapre il caso sull'uccisione di Mara Cagol. Caccia a un altro brigatista. Il Tempo il 27 ottobre 2022
La Procura di Torino ha riaperto le indagini sulla morte di Mara Cagol e dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, rimasti uccisi in un conflitto a fuoco in provincia di Alessandria durante la liberazione dell’imprenditore Vittorino Gancia, nel 1975. L’inchiesta, affidata all’aggiunto Emilio Gatti, ha portato a individuare alcuni reperti, che sono stati analizzati dai carabinieri del Ris di Parma, tra cui un’impronta digitale e tracce di Dna. Nelle scorse settimane, a quanto si apprende, sono anche stati sentiti alcuni testimoni, tra cui alcuni ex appartenenti alle Brigate Rosse.
Le indagini sulla morte di Mara Cagol, moglie di Renato Curcio e cofondatrice delle Br, e dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, sono state riaperte un anno fa, dopo che Bruno D’Alfonso, figlio del militare ucciso, ha presentato un esposto alla Procura di Torino, chiedendo di riesaminare l’episodio alla luce delle conoscenze maturate negli anni sul mondo delle Brigate Rosse e alla luce delle nuove tecniche forensi.
In particolare, i carabinieri del Ris di Parma guidato dal colonnello Giampietro Lago, hanno esaminato i reperti raccolti all’epoca dei fatti utilizzando le attuali tecniche di indagine, analizzando Dna, reperti balistici e altro materiale ritrovato nel casolare di Melazzo, in provincia di Alessandria, dove il 5 giugno 1975 era stato individuato e liberato l’imprenditore Vittorino Gancia, sequestrato dalle Br il giorno prima. L’obiettivo è accertare chi fosse il brigatista che era insieme a Mara Cagol e che quel giorno è riuscito a sfuggire all’arresto.
L’ipotesi di Bruno D’Alfonso, è che, a sapere qualcosa di quello che è accaduto siano «i vertici delle Br dell’epoca, come Mario Moretti, Lauro Azzolini, Roberto Bonisoli o la stessa Nadia Mantovani», che abitava con Renato Curcio nel covo di via Maderno a Milano, dove il 18 gennaio 1976 è stato trovato un dattiloscritto redatto dal brigatista che era di guardia durante la liberazione di Gancia ed è riuscito a sfuggire alla cattura. «Rileggendo le sentenze e gli atti, vedendo quello che è stato fatto e che non è stato fatto nel corso delle indagini - ha detto Bruno D’Alfonso - ho notato diverse anomalie. Di fatto, dopo che è stato trovato il dattiloscritto a 7 mesi dalla sparatoria in cui è morto mio padre, l’indagine non è stata più approfondita. Ci si è solo preoccupati di accusare Massimo Maraschi, arrestato il giorno prima del conflitto. A lui sono state addossate tutte le responsabilità ed è stato condannato per omicidio». Delle indagini si occupano i carabinieri del Ros.
"L'altro Br con la Cagol era Azzolini". Riaperta l'indagine sulla morte della terrorista. Parla l'ufficiale che intervenne dopo il blitz. Luca Fazzo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.
«Arrivai alla Cascina Spiotta poche decine di minuti dopo il conflitto a fuoco. Mara Cagol era stesa al suolo, nell'erba, già morta. La situazione era terribile, c'erano i due colleghi feriti in modo gravissimo. Dell'altro brigatista che era con lei non c'era più traccia, era riuscito a dileguarsi nella boscaglia. Iniziammo da subito a cercare di dargli un nome, da alcune tracce all'inizio ci convincemmo che fosse Alfredo Bonavita, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Adesso invece a quanto pare si è scoperto che era un altro del nucleo storico, Lauro Azzolini». Uno dei due che nel 1977 avrebbero gambizzato Indro Montanelli. Azzolini spiega al il Giornale: «Dico solo che di quella operazione si assunse per intero la responsabilità, l'organizzazione Brigate Rosse».
Luciano Seno, alto ufficiale dei carabinieri e poi del Sismi, nel 1975 era l'uomo di punta della squadra appena costituita dal generale Dalla Chiesa per dare la caccia ai terroristi rossi. Anche lui nei mesi scorsi è stato interrogato dai magistrati torinesi che hanno riaperto l'inchiesta sullo scontro a fuoco in cui persero la vita la brigatista Mara Cagol e il maresciallo Giovanni. D'Alfonso, arrivando a dare un nome al compagno della Cagol dileguatosi nei boschi.
Come fu individuata la Cascina Spiotta?
«Dalla Chiesa aveva avuto l'intuizione di allertare tutti i reparti territoriali dell'Arma perché dessero la massima attenzione ad appartamenti presi in affitto, casali, ville. Non si parlava di cascine ma i colleghi di Acqui avevano messo nell'elenco anche la Spiotta. Il 4 giugno era stato rapito l'industriale Vallarino Gancia, due giorni dopo era stato fermato nella zona Maraschi, un ragazzo che si era subito dichiarato prigioniero, capimmo che il sequestro era opera delle Br, fummo allertati noi del nucleo speciale e venne avviato il protocollo preparato per questi casi. Ma il sopralluogo alla Spiotta era di routine, arrivarono lì dopo avere visitato alcuni casolari attigui, non erano preparati allo scontro a fuoco fin quando la Cagol non tirò la bomba che staccò di netto l'avambraccio al tenente Rocca. Il maresciallo D'Alfonso iniziò a sparare con tutto quello che aveva a disposizione, sparò fino all'ultimo proiettile che aveva, forse riuscì a ferire la Cagol. Ma venne ucciso dai due brigatisti che cercavano di fuggire, ma si trovarono la strada chiusa da una nostra auto. La donna venne uccisa dall'appuntato Barberis: e non ho mai saputo se durante la sparatoria o da un colpo finale. Quando scoprimmo che era la latitante Cagol la cosa mi fece un certo effetto. Perché poco tempo prima ero andato a Fiera di Primiero, in Trentino, a incontrare i suoi familiari, e la sorella Milana mi aveva detto: Viviamo nella paura che suoni il telefono e ci dicano che Margherita è morta. Toccò a me farle quella telefonata e accompagnarla il 6 giugno all'obitorio a fare il riconoscimento».
L'altro brigatista invece riuscì a fuggire.
«Purtroppo sì, ma è chiaro che non si può dare nessuna colpa ai colleghi che erano sul posto e che si erano trovati nel pieno di una tragedia. Le loro reazioni, e anche i loro ricordi personali, le dichiarazioni che hanno fatto in seguito, possono essere stati sicuramente condizionati dallo stato d'animo in cui si erano trovati all'improvviso. Erano andati lì per fare un accertamento e si erano trovati attaccati con mitra e bombe a mano».
L'inchiesta successiva come venne condotta?
«Su questo ho qualche dubbio in più, diciamo che si poteva probabilmente essere più precisi. Adesso si è arrivati a identificare Azzolini. Come fisionomia e statura direi che corrisponde. Ma a quarantasette anni di distanza dai fatti avere delle certezze rischia di essere molto difficile».
Da un’impronta sulla tastiera la prova regina dell’inchiesta. L’esposto del figlio del militare ucciso. Cruciali le tracce trovate su una macchina da scrivere. Luca Fazzo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Una vecchia macchina da scrivere riapre la finestra, a quasi mezzo secolo di distanza, su un episodio cruciale nella storia del terrorismo rosso in Italia: il sanguinoso scontro a fuoco che nel giugno del 1975, vicino Aqui Terme, costò la vita al maresciallo dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e a Margherita «Mara» Cagol, fondatrice delle Brigate Rosse e moglie del loro leader Renato Curcio. Il bliz dei carabinieri portò alla liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, rapito il giorno prima dai brigatisti in una delle loro prime imprese di autofinanziamento e tenuto prigioniero nella cascina Spiotta, teatro della battaglia tra terroristi e carabinieri. Il compagno che insieme alla Cagol custodiva l’ostaggio e che partecipò insieme a lei alla sparatoria con i militari non è mai stato identificato, benché il numero dei membri di spicco delle Brigate Rosse fosse allora piuttosto ristretto. Recentemente la Procura di Torino e i Ros dei carabinieri, con la collaborazione dei reparti scientifici dell’Arma, hanno riaperto l’inchiesta in base anche all’esposto del figlio di Giovanni D’Alfonso, il maresciallo che venne ucciso dai terroristi nel tentativo di aprirsi la strada verso la fuga. Dalle tracce lasciate all’epoca all’interno della cascina non è emerso nulla di utilizzabile. Ma uno spunto decisivo potrebbe essere venuto dalla macchina da scrivere trovata qualche anno dopo nel covo milanese di via Maderno, dove vennero arrestati Curcio e la sua compagna Nadia Mantovani. Nel covo venne sequestrata anche una ampia relazione dattiloscritta sui fatti della Cascina Spiotta, il cui autore - per i dettagli inediti che vi erano contenuti - era verosimilmente lo stesso brigatista che aveva partecipato allo scontro. Si trattava di una ventina di fogli, una specie di rapporto di servizio destinato probabilmente proprio a Curcio, e utile forse alla indagine interna decisa dalle Br per individuare gli errori che avevano portato al disastroso esito della «operazione Gancia». Da lì sono partite le nuove indagini, che hanno portato gli inquirenti torinesi a interrogare sia ex appartenenti alle forze dell’ordine sia alcuni esponenti del vecchio gruppo dirigente delle Brigate Rosse. Una attività resa possibile da fatto che il reato di concorso in omicidio non si prescrive mai, e doverosa dalla prospettiva di dare una risposta ai molti interrogativi ancora aperti sui fatti della Spiotta. «È importante - dice Bruno D’Alfonso, figlio del maresciallo ucciso - che dopo tanti anni ci sia ancora qualcuno disposto a scoprire qualcosa e a risolvere il caso. Non so quanto, ma oggi sicuramente la verità è meno lontana». A rendere tutto più difficile, nell’inchiesta-bis, c’è sicuramente il tempo trascorso, che fa sì che alcuni protagonisti non siano più in vita, che i ricordi degli altri siano fatalmente annebbiati, che la ricerca di riscontri materiali e documentali sia impervia. Ma la ricostruzione potrebbe essere preziosa non solo per individuare il nome mancante (per il quale la prescrizione del reato sarebbe quasi certa, viste le attenuanti inevitabili, specie se dovesse trattarsi di un esponente - come quello citato qua sopra - che ha da tempo preso le distanze dall’esperienza della lotta armata) ma anche per completare il quadro storico del brigatismo delle origini. Per i quadri delle Brigate Rosse lo scontro della Spiotta divenne una sorta di spartiacque, un mito fondativo: la prova che non si poteva più tornare indietro.
Idealisti & sconfitti. Chi erano i ventenni degli Anni 70 che entrarono nelle BR. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.
Alessandro Bertante in Mordi e fuggi ricostruisce la fase aurorale delle Brigate Rosse. Cosa volevano quei giovani che gravitavano fra l’università e le fabbriche occupate, in una Milano irriconoscibile? Dialogo con i coetanei di oggi. A distanza, ma con alcuni punti in comune: dal «vogliamo tutto» al «vogliamo almeno qualcosa»
Che cosa ne saprà un ventenne di oggi dei ventenni degli anni 70? Niente, o quasi. Forse anche ispirato da questa domanda, Alessandro Bertante ha voluto scrivere Mordi e fuggi. Perché in realtà il «romanzo delle BR», come recita il sottotitolo, è anche altro: è il romanzo di un sogno o meglio di un’illusione. L’illusione di cambiare il mondo e di cambiarlo con le armi. Meglio ancora: il romanzo dell’ubriacatura di una generazione. Non tutta una generazione, ma pur sempre una sua minoranza significativa. Questa minoranza è la protagonista del libro di Bertante. Leggendo Mordi e fuggi , un ventenne di oggi è messo nelle condizioni migliori per capire i suoi coetanei di mezzo secolo fa, perché a raccontare quella storia si immagina che sia uno di loro: Alberto Boscolo, figlio di un impiegato milanese dell’Alfa Romeo, dunque un «piccolo borghese» che diventa un militante comunista e poi un combattente armato delle Brigate Rosse. Che cosa ne saprà oggi delle Brigate Rosse un ventenne? Poco o niente. Ma leggendo il romanzo di Bertante imparerà un sacco di cose, trovandosi egli stesso dentro quella vicenda per tanti versi drammatica e per altri affascinante.
Da Fenoglio a Culicchia
Non che manchino i libri sull’argomento: a parte la fiumana di memoriali che hanno inondato l’editoria, ci sono i romanzi con i loro sguardi trasversali e imprevedibili. Uno dei più straordinari è uscito l’anno scorso ed è Il tempo di vivere con te , in cui Giuseppe Culicchia rievoca la vita del suo adorato cugino, il brigatista Walter Alasia, ucciso dalla polizia nel dicembre 1976 nel cortile di casa. Un altro è quello di Loris Campetti, L’arsenale di Svolte di Fiungo , che racconta dal punto di vista di chi l’ha vissuta (Campetti è del 1948 e all’epoca aveva 24 anni) una assurda storia di militanza e di fuga intrapresa per evitare l’ingiusta accusa di associazione sovversiva nel clima terribile seguito alla strage di Piazza Fontana e alla morte di Pinelli, al mancato golpe di Junio Valerio Borghese, alle lotte operaie e al manifestarsi del terrorismo. Sono affreschi di un’epoca lontana, che riesce a rivivere con rinnovato vigore più attraverso la letteratura che nei libri di storia, com’è accaduto, per esempio, alla lotta partigiana grazie ai romanzi di Fenoglio, di Calvino o di Vittorini.
Il libro di Bertante (classe 1969) è un esempio di questa capacità di rendere dall’interno una vicenda altrimenti (e giustamente) demandata ai manuali delle scuole o alle indagini degli storici.
Emozioni, dubbi e confusione
Mordi e fuggi cerca di restituire le emozioni, i dubbi, le esaltazioni, le ingenuità di un protagonista (immaginario ma verosimile) di quegli anni, e lo fa senza tradire il rigore documentario della cornice, tanto più interessante in quanto ricostruisce la fase aurorale delle Brigate Rosse sin da quando si chiamavano, al singolare, Brigata Rossa subito dopo il convegno fondativo di Costaferrata. Renato è il fondatore Renato Curcio, Mara è la sua fidanzata e futura moglie Margherita Cagol, anche lei dirigente delle BR. C’è Alberto Franceschini, detto il Mega, proveniente dal gruppo di Reggio Emilia. C’è il collaboratore di giustizia Marco Pisetta, a cui si deve la prima retata della polizia. C’è poi la presenza imponente di Giangiacomo Feltrinelli, il compagno Osvaldo, con i suoi Gruppi di Azione Partigiana. E c’è il traliccio di Segrate in cui morì l’editore.
Le diagnosi psicologiche sui nostri adolescenti e postadolescenti le ritroviamo, simili, nel combattente Alberto
C’è l’ambiente formicolante dell’università in una Milano effervescente e cupa, estranea a ogni cliché, compreso quello neorealista, una città di melting pot che in parte coincide con quella raccontata magnificamente da Alberto Rollo in Un’educazione milanese , una Milano che certo un ventenne di oggi, magari frequentatore di happy hour e di apericena, stenterebbe a riconoscere. Ci sono le fabbriche occupate, la Sit-Siemens e la Pirelli, c’è la Comune in cui lo «studentame» ribelle convive con gli operai di estrema sinistra, ci sono le bettole in cui si discute, si fa baldoria e si beve vino di pessima qualità.
La stessa «vulnerabilità»
Insomma, ci sono tutte le tracce per capire. E magari si trovano anche gli elementi per un confronto tra i cosiddetti Baby Boomers e la cosiddetta Generazione Z: un confronto solo in apparenza abissale, se si pensa che le diagnosi psicologiche fatte sugli adolescenti e postadolescenti di oggi - compresi gli stati d’animo depressivi e le infinite solitudini - le ritroviamo, simili, in un combattente come Alberto che nel corso della sua maturazione militante non cessa di lamentare il «torpore malinconico», la fragilità, l’incostanza e la vulnerabilità. Tutto ciò che lo spinge a cercare altrove la propria esaltazione: e il romanzo di Bertante ci mostra che se lui sembra realizzarsi nella lotta armata, molti suoi compagni parimenti idealisti, a cominciare dalle ragazze che incontra e di cui si innamora, trovano la loro esaltazione in una battaglia altrettanto convinta ma non violenta.
Bivio tra pistole e volantini
È anche in questa varietà umana il pregio di Mordi e fuggi : non tutti gli arrabbiati contro lo Stato erano Alberto, non tutti erano Renato, non tutti erano il Mega, non tutti impugnavano pistole e fucili, non tutti erano tipi da «mordi e fuggi». Si parte con una scena di volantinaggio ai cancelli della Sit-Siemens nell’inverno 1969 e si passa quasi immediatamente allo strazio di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che è il vero discrimine tra il prima e il dopo anche per Alberto, il protagonista, che da allora sempre più viene sedotto dalla svolta militare e dalla violenza come forma di giustizia sociale e persino di moralità. E noi gli stiamo dietro e lo capiamo anche senza condividerne i furori distruttivi. È questo il bello della letteratura. Ci riporta alle ragioni emotive di quella “rivoluzione” fasulla, attraverso le voci di dentro e senza didascalie eccessive.
Fare i conti con la solitudine
Sicché possiamo vivere la progressiva infatuazione del ventenne Alberto per la rivolta (mediata dalla lettura appassionata di Albert Camus), la polemica e poi la rottura nei confronti della famiglia, il disamore per lo studio, l’attrazione fatale per le battaglie operaie... Alberto pensa e noi seguiamo i suoi pensieri, a volte vorremmo consigliarlo ma lui non si lascia consigliare: deluso dall’aria «troppo rigida e pretesca» di quelli del Movimento Studentesco, spinto dall’«energia di un ideale dalla forza apparentemente inesauribile», diventa un militante comunista, inebriato già solo dalla parola «comunista». È però ancora un «cane sciolto», innamorato di Anita, ben presto in rotta con Alberto quando capisce che il ragazzo sta imboccando una strada senza ritorno.
Oggi i ragazzi protestano per l’ambiente e contro il razzismo, fanno volontariato, diffidano però dell’impegno politico
Tante sono le fratture che deve vivere un brigatista per diventare brigatista: non solo abbandonare i genitori e gli amici, non solo rinunciare agli amori, ma votarsi alla solitudine ascetica della lotta armata. Perché se qualcuno pensa che la lotta armata sia solo una questione collettiva, si sbaglia: è sorprendente l’itinerario di Alberto laddove lo troviamo isolato nel suo appartamentino, in attesa di avere istruzioni sulla prossima «azione», rapina, rapimento o attentato che sia: solo nell’azione esemplare troverà l’orgoglio di sé e del proprio essere al mondo, il resto è disperazione, visto che sempre più entra nella clandestinità e nel totale isolamento. Allora in Alberto si affaccia il pentimento di aver abbandonato la commistione della Comune con i neonati (tanti) che urlavano, il mangiare e il dormire insieme, il proletariato della fabbrica, i combattenti e le combattenti, i sindacalisti, gli studenti incazzati, quelli del Collettivo Politico Metropolitano, quelli di Potere Operaio e quelli di Lotta Continua, quelli di Avanguardia operaia... Ciò che emerge attraverso Alberto è che, quando sembra troppo tardi, anche un militante delle BR può essere assalito (e salvato) dai dubbi, oltre che dalla paura e magari da quella che poco prima gli sembrava viltà.
Generazione «vogliamo tutto»
Con questo libro Bertante ha voluto affrontare una domanda: chi era il ventenne idealista rivoluzionario degli anni 70? E quanta distanza c’è tra quel ventenne e un ventenne di oggi? I ragazzi inquieti e ribelli sono inquieti e ribelli a modo loro, risponderebbe forse Tolstoj parafrasando l’incipit di Anna Karenina . Se è vero che quella era la generazione del «vogliamo tutto», il ventenne di oggi conosce le stesse malinconie e gli stessi dubbi di Alberto: più realisticamente vorrebbe almeno qualcosa. Ma se per fortuna non imbraccia il fucile, non va nemmeno a votare. Magari protesta contro la catastrofe ambientale, contro il razzismo, contro la violenza di genere, fa volontariato, ma diffida di ogni forma di impegno politico e la sera torna a casa forse più triste di prima.
Eleonora Capelli per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.
Si sono esibiti con il passamontagna in testa, davanti a una bandiera delle Brigate Rosse, mettendo in musica trap versi come «Zitto zitto, pagami il riscatto, zitto zitto, sei su una Renault 4», con la stella a cinque punte a incorniciare il nome della band, "P38".
Così i "trapper brigatisti" si sono presentati il 1° maggio sul palco dello storico circolo Arci "Tunnel" di Reggio Emilia, davanti a una sessantina di persone, in una tappa del loro Br Tour.
Nella terra d'origine di fondatori delle Br, come Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Tonino Loris Paroli, il concerto adesso viene definito «un vero insulto alla memoria delle vittime» dal sindaco Luca Vecchi. Uno schiaffo a chi ancora fa i conti con il lutto, come Lorenzo, figlio di Marco Biagi, ucciso nel 2002 a Bologna da un commando delle Nuove Brigate Rosse. «Le cose schifose sono due: la prima è che il titolare del locale li ha difesi dopo l'esibizione - ha scritto Lorenzo sui social - e la seconda è che non è la prima volta che questo "gruppo" viene invitato nei locali».
Il tour dei trapper aveva già toccato Roma, Bergamo, Padova e Bologna, ma la ribalta concessa da un circolo Arci ha provocato una vera bufera. «È successa una cosa gravissima, noi ci dissociamo totalmente - dice il presidente regionale Arci, Massimo Maisto, dopo che il presidente del circolo aveva minimizzato parlando di provocazione artistica - Questo non è un gioco, siamo un'associazione nonviolenta e pacifista e non dimentichiamo cosa sono stati gli anni di piombo in termini di morte e dolore».
I componenti del gruppo, che si firmano Astore, Papà Dimitri, Jimmy Pentothal e Yung Stalin, non hanno trovato di meglio che rispondere con un comunicato delirante: «Aldo Moro è stato un morto, come lo sono i morti di overdose, come lo sono i morti sul lavoro nelle fabbriche, come lo sono i morti di una pandemia gestita disastrosamente».
Un terribile salto all'indietro, a pagine di storia che si speravano chiuse. Sui concerti del gruppo adesso sono in corso accertamenti della Digos, su disposizione dell'autorità giudiziaria. Mentre i versi terribili, che rievocano quella stagione di violenza cieca, suonano anche su You Tube.
Rap Br dei P38 Gang, indagato presidente circolo Arci. Maria Fida Moro: "Denuncio quella band". La Repubblica il 6 Maggio 2022.
La figlia dell'onorevole assassinato dai terroristi adirà alle vie legali contro il gruppo che inneggia alle Brigate Rosse. Denunciati anche a Pescara dal figlio di un'altra vittima, Giovanni D'Alfonso. Il presidente del circolo Arci 'Il Tunnel' di Reggio Emilia che il primo maggio ha ospitato il concerto della band 'P38 - La Gang' è indagato per istigazione a delinquere. Secondo quanto si apprende ne risponderebbe in concorso con i componenti del gruppo musicale, che nei testi si ispira alle Brigate Rosse, che però sarebbero ancora da identificare, dal momento che si esibiscono a volto coperto. Lo stesso Vicini commenta sui social un avviso ricevuto nell'ambito dell'indagine seguita dalla Digos di Reggio Emilia.
Martedì è previsto un presidio di solidarietà dei Carc davanti alla Questura per l'interrogatorio di Vicini.
"Intendo agire per vie legali. Qui non si tratta di libertà di pensiero, ma è istigazione al terrorismo. Mio padre, Aldo Moro, era il contrario di tutto ciò che c'è in quei testi, altrimenti sarebbe stato comprato come altri. Invece è stato ucciso. E ancora oggi in Italia e in Europa paghiamo l'assenza della sua politica lungimirante".
Così, alla Gazzetta di Reggio, Maria Fida Moro, figlia primogenita dello statista democristiano ucciso dalle Br, annuncia l'intenzione di affidarsi al suo legale per valutare gli estremi di una denuncia nei confronti della band P38 - La Gang.
"Solo chi è passato per un dolore del genere può davvero capire cosa si prova e può capire che anche una canzone può avere esiti volgari e pericolosi - aggiunge Maria Fida Moro - Mio padre era una persona ad esempio che non era assolutamente attaccata al denaro, che non ha mai accettato regali e usava l'indennità parlamentare per far studiare i bambini poveri del sud. Di tutto questo ci si dimentica, spesso si dimenticano anche le persone aiutate, ora diventate adulte. Se fosse stato attaccato al denaro non sarebbe mai morto ammazzato. Invece era attaccato a solidi principi giuridici del fare il bene e non il male, sapendo che, ahimè, proprio facendo il bene sarebbe stato ammazzato. Purtroppo lo ha sempre saputo".
I quattro componenti del gruppo sono stati inoltre denunciati per apologia di reato dalla Digos di Pescara in riferimento alla loro esibizione al circolo Arci Scumm nel capoluogo adriatico la sera dello scorso 25 aprile. A riferirlo è l'edizione abruzzese de Il Messaggero.
Sulla vicenda sono arrivati due esposti in procura, uno dei quali a firma di Bruno D'Alfonso, uno dei tre figli di Giovanni il carabiniere pennese di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse l 5 giugno 1975 nello scontro a fuoco alla cascina Spiotta per la liberazione dell'industriale Vittorio Vallarino Gancia. Denuncia per ora contro ignoti visto che i componenti del gruppo sono anonimi: adottano nomi di fantasia e indossano passamontagna bianchi. Per identificarli anche dopo la seconda esibizione a Reggio Emilia lo scorso primo maggio è al lavoro la direzione centrale Anticrimine della Polizia.
Michele Serra per “la Repubblica” il 6 maggio 2022.
Per giocare con la morte bisogna conoscerne il peso. La sola cosa interessante da sapere, a proposito del trio "P38-La Gang" che si è esibito a Reggio Emilia cantando le gesta delle Brigate Rosse, è se il loro gioco sia spensierato (nel quale caso si tratta di tre stupidi, e il caso è chiuso) oppure cosciente.
In questo secondo caso l'arte, vera o presunta, non può essere un alibi, e i tre pitrentottini per primi non possono non saperlo o non capirlo. Se scrivo un inno allo stupro, in qualunque contesto, le stuprate e gli stuprati me ne chiederanno conto. Se scrivo un inno al sequestro e all'assassinio, i sequestrati e gli assassinati me ne chiederanno conto. Non ci sono sconti possibili, di fronte alla sopraffazione, e se è vero che il mondo spesso appare come una somma di sole sopraffazioni, non è un buon motivo per iscriversi all'albo dei sopraffattori: questo, non altro, fu il crimine orrendo del terrorismo rosso.
Anche nel caso che il trio voglia richiamarsi all'ambiguità dell'arte, alla sua non corrispondenza ai canoni triti del buon senso, sappia, il trio, che per ambire all'ambiguità (o al sarcasmo, o alla seconda lettura) bisogna essere artisti per davvero. L'arte non è, in sé e per sé, un lasciapassare. Ci sono fior di coglioni che, avendo studiato da "provocatore", credono che le loro coglionate siano provocazioni. Ma bisogna anche avere studiato da artista, averne il talento e lo spirito di sacrificio, per potersi permettere di parlare di rapimenti, omicidi, sangue. Lo scandalo dell'arte ha bisogno, per pretendere attenzione, di enorme lavoro, fatica, studio. Altrimenti è solo uno scandalo - uno dei tanti - della mediocrità.
"Ti metto in una Renault 4", inchiesta sulla band pro Brigate rosse P38. E i 'compagni' gli pagano le spese legali. Il Tempo il 17 maggio 2022.
"Ti metto dentro una Renault 4 (il modello di auto in cui è stato trovato il corpo senza vita del segretario della Dc, Aldo Moro, il 9 maggio 1978 , ndr), Brigate rosse scritto sul contratto" cantano i P38 la Gang, nome che è tutto un programma, nelle loro canzoni che si possono ascoltare anche su Spotify. Il gruppo per i riferimenti al terrorismo è stato fatto oggetto di numerose denunce e i componenti sono stati identificati dalle forze dell'ordine, nonostante si esibiscano col passamontagna e si facciano chiamare con pseudonimi come Young Stalin, Astore, Papà Dimitri e Jimmy Pentothal.
A Torino c'è un fascicolo aperto con l’ipotesi di reato di istigazione a delinquere ed è indagato anche il presidente del circolo Arci di Reggio Emilia in cui il gruppo si è esibito nel concerto del primo maggio. Ma non è un caso isolato. Sono state acquisite dalla procura piemontese le denunce sulla band ’P38 la Gang’ per il concerto che lo scorso 25 aprile è stato tenuto dal gruppo in Abruzzo, nel circolo Arci Scumm di Pescara. Durante la performance pescarese, i ragazzi hanno inneggiato alle Brigate rosse con passamontagna bianchi a coprire il volto e nomi di fantasia per non farsi riconoscere. Sono stati denunciati, per apologia di reato, dalla Digos del capoluogo abruzzese, dopo l’esposto alla procura pescarese di Bruno D’Alfonso, figlio del carabiniere di Penne (Pescara), Giovanni d’Alfonso, vittima di terrorismo, ucciso dalle Br nel ’75, nella sparatoria per la liberazione di Vittorio Vallarino Gancia. La denuncia di Pescara è stata la prima segnalazione nei confronti della band alla procura e se il reato di apologia di reato resterà al tribunale di Torino, dov’è stato aperto il fascicolo, per gli altri reati si procederà nel tribunale del capoluogo adriatico.
Intanto in area antagonista si mobilitano per la band: in una raccolta fondi promossa sul sito Produzioni dal basso sono stati raccolti oltre 7mila euro per le spese legali.
P38, Bruno D’Alfonso: «Io, il primo a denunciare la band che canta le Br: minacciato». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.
Bruno D’Alfonso, carabiniere in pensione, è figlio di Giovanni, l’appuntato ucciso dalle Br nel 1975. Ha presentato una denuncia in Questura a Pescara: «Istigano al terrorismo».
La canzone più famosa parla del rapimento Moro e s’intitola «Renault», il testo fa riferimento alla vettura in cui venne trovato il corpo del leader della DC: «Presidente non mi sembra stanco, la metto dentro una Renault 4». Poi ce ne sono altre, tutte raccontano le Brigate rosse e in stile rapper ne magnificano le gesta. A portarle sul palco di alcuni circoli privati d’Italia i «P38 Gang»: si esibiscono incappucciati, usano pseudonimi per rimanere anonimi e hanno la stella a cinque punte come simbolo. Le rime che cantano, però, sono stilettate al cuore per chi negli anni di piombo ha pianto e tuttora piange i propri cari uccisi o gambizzati.
La denuncia
Tra loro c’è Bruno D’Alfonso: è il figlio di Giovanni, il carabiniere di 44 anni ucciso dalle Br il 5 giugno 1975 in un conflitto a fuoco alla cascina Spiotta, nell’Alessandrino, durante la liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia. Quel giorno morì anche Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio. Bruno, anche lui carabiniere (in pensione), ora ha 57 anni e lo scorso 29 aprile ha depositato una denuncia in questura a Pescara, contro la band. Il giorno dopo ha fatto lo stesso a Reggio Emilia, nella speranza di bloccare il concerto del gruppo in programma il primo maggio: «Non ci sono riuscito. Fino a qualche settimana fa non sapevo neanche chi fossero. Poi mio figlio mi ha detto che si erano esibiti il 25 aprile in un locale di Pescara. Abbiamo scritto al titolare del circolo, ma lui ha sminuito dicendo che era solo una provocazione politica. Per me è istigazione al terrorismo».
Il marchandising
L’ex carabiniere ha ascoltato alcuni brani dei P38 e li ha seguiti sui social, scoprendo che la musica era affiancata da un merchandising di t-shirt con il volto di Curcio oppure con la P38 e la stella a cinque punte. «Non solo è offensivo, è pericoloso. Per chi si culla in certi ideali, passare dalle parole ai fatti non è difficile. Quei ragazzi inneggiano agli anni di piombo». Bruno D’Alfonso, che da anni si batte per ristabilire la verità sulla morte del padre, ha poi ricevuto una minaccia che lui collega alle querele contro la band: «Mi è stato inviato un messaggio anonimo su Instagram con la foto in bianco e nero di mio padre, sul volto una X rossa e la scritta “Sarai il prossimo”».
La colletta
Nel frattempo, dopo i suoi esposti, i rapper sono stati identificati e denunciati per i loro concerti: «Hanno tanti fan e nei giorni scorsi è stata lanciata una colletta per pagare le spese legali, sono già stati raccolti 3mila euro», insiste l’ex carabiniere. Gli atti sono stati trasmessi alla Procura di Torino. Nel capoluogo piemontese, infatti, già da dicembre i pm Enzo Bucarelli e Paolo Scafi indagano sul gruppo: l’ipotesi di reato è istigazione a delinquere.
Paolo Griseri per “la Stampa” l'1 aprile 2022.
Quando i carabinieri del generale Dalla Chiesa perquisirono l'abitazione di Renato Curcio, il fondatore delle Br, trovarono nelle agende l'indicazione degli appuntamenti delle ultime settimane. In diverse date l'indicazione era «Bestia feroce». Un nome in codice, quello di Silvano Girotto, frate Leone, francescano, guerrigliero nel Cile del dittatore Pinochet, un passato nella Legione straniera. Tornato in Italia dal Sudamerica, Girotto aveva accettato di infiltrarsi nelle Brigate Rosse. Fu lui a consentire l'arresto dei fondatori del gruppo armato, Curcio e Franceschini, a Pinerolo, l'8 settembre del 1974. È morto ieri a Torino all'età di 83 anni.
«Pensavamo che sarebbe sparito e per questo lo interrogammo prima del processo con una testimonianza a futura memoria», ricorda oggi Giancarlo Caselli che con l'allora procuratore di Torino, Bruno Caccia, aveva seguito il tentativo di infiltrazione di Girotto. Anni duri e difficili. L'interrogatorio a futura memoria rende bene il clima di quei giorni. Smentendo tutti i timori "frate mitra" non fuggì. E non venne nemmeno eliminato per vendetta dai brigatisti. Si presentò invece al processo ai capi storici delle Br che si celebrò a Torino nell'aula di corso Vittorio Emanuele nelle settimane del rapimento Moro.
Processo celebrato in una città blindata, quando fu quasi impossibile comporre la corte d'assise perché la paura teneva lontani i giudici popolari. E quando il presidente degli avvocati torinesi, Fulvio Croce, venne assassinato dai brigatisti per il solo fatto di aver accettato la loro difesa d'ufficio.
I terroristi nelle gabbie ammutolirono quando videro entrare Girotto in aula. Il frate prese posto di fronte alla corte e raccontò i motivi della scelta di infiltrarsi nelle Br. Di come da ragazzo si fosse arruolato nella Legione straniera, di come ne fosse fuggito dopo tre mesi, inorridito dalle torture dei francesi ai prigionieri algerini, della sua conversione religiosa in carcere a Torino, catturato dopo una rapina a un tabaccaio.
Girotto scelse il nome di frate Leone, uno dei più stretti collaboratori di san Francesco negli ultimi anni della sua vita. Dopo la partecipazione alle manifestazioni operaie a Borgomanero (dove diventò "il prete rosso") il frate partì in missione per la Bolivia e qui aderì alla lotta armata contro il dittatore Suarez. Si trovava in Cile nei giorni del golpe appoggiato dalla Cia per rovesciare Salvador Allende. Combatté contro i militari di Pinochet, venne ferito, si rifugiò nell'ambasciata italiana e venne rimpatriato. Era la fine del 1973. Per quale motivo un combattente con questo curriculum decise di condannare la lotta armata e, anzi, di accettare la proposta del generale Dalla Chiesa tentando di infiltrarsi nelle Brigate Rosse?
In una intervista rilasciata pochi mesi dopo l'arresto di Curcio e Franceschini, "frate mitra" spiegò la nuova conversione: «Nel contesto italiano la lotta armata è un'avventura tragica e senza sbocchi Non sono concettualmente contrario alla lotta armata ma lo sono quando essa non è necessaria. Se tornassi in America Latina - diceva nel 1975 - riprenderei il mitra perché so che là non esiste alternativa».
Pur in assenza dei social, anche all'epoca si sprecarono le dietrologie sulla figura di Silvano Girotto. Alimentate da un particolare che viene ricostruito da Giancarlo Caselli e Mario Lancisi in un libro del 2015 intitolato Nient' altro che la verità.
Per arrivare alle Br Girotto aveva contattato un medico di Borgomanero, Enrico Levati. Pochi giorni prima dell'incontro fissato dal frate con Curcio e Franceschini a Pinerolo (doveva essere l'atto dell'ingresso definitivo del religioso nelle Br) un anonimo telefonò a Levati avvisandolo: «Curcio sarà arrestato domenica a Pinerolo».
Chi sapeva dell'operazione degli uomini di Dalla Chiesa? E perché nonostante la telefonata non si riuscì ad avvisare Curcio e Franceschini? L'unico messo in allerta fu Mario Moretti, capo della colonna romana e organizzatore, quattro anni dopo, del sequestro e dell'assassinio di Aldo Moro.
Ma il vero segreto, quello che sarebbe rimasto per molto tempo il cruccio di Silvano Girotto, è perché l'Italia, a partire dalla sinistra, lo abbia considerato, in fondo, un traditore e non un benefattore, come effettivamente fu. L'arresto di Curcio e Franceschini ebbe un peso determinante nella lotta alla lotta armata. Senza quell'arresto non ci sarebbe stato il processo ai capi storici delle Br che nei giorni del sequestro Moro sarebbe diventato il contraltare ai proclami brigatisti, la dimostrazione che, nonostante le difficoltà, lo Stato c'era, continuava a funzionare, non era stato colpito al cuore come volevano far credere i terroristi. Girotto si è spento mercoledì sera a Torino, circondato dalla moglie boliviana (conosciuta durante la resistenza agli squadroni di Suarez) e dai nipoti. Giancarlo Caselli lo ricorda così: «Un uomo dalle mille esperienze e dalle mille sfaccettature, certamente un uomo decisivo nel contrasto alla lotta armata».
La figlia di Silvano Girotto: «Quel giorno in cui mio padre mi disse: sono Frate Mitra, ma non un traditore». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 2 aprile 2022.
«Ho sempre saputo che mio padre aveva avuto una vita speciale, ma la verità sul suo passato l’ho conosciuta solo a 19 anni». Daniela, figlia maggiore di Silvano Girotto, era appena nata quando «Frate Mitra», infiltrato per conto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, riuscì a far arrestare i fondatori delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Un evento che cambiò la storia d’Italia e la vita dell’ex missionario francescano, morto giovedì a 82 anni.
Il maresciallo
Figlio di un maresciallo dei carabinieri, Girotto aveva avuto un’adolescenza turbolenta, conoscendo prima il riformatorio e poi il carcere. In mezzo, ancora minorenne, si era arruolato per tre mesi nella legione straniera francese, ma tornò in Italia inorridito. In cella avvenne la sua conversione e Girotto abbracciò l’ordine francescano. Dopo qualche esperienza pastorale, andò in una missione in Bolivia e si ritrovò nel mezzo di un golpe militare. Decise di unirsi ai ribelli, guadagnandosi il soprannome di «Frate Mitra» e l’espulsione dall’ordine francescano. In Bolivia conobbe Carmen, la donna che poi avrebbe sposato nel 1973, in Cile, dove fu ferito e poi rimpatriato in Italia. Qui iniziò il terzo capitolo della sua vita, segnata dal suo contributo alla cattura dei capi storici delle Brigate Rosse.
«Traditore»
«La narrazione di quel periodo è stata sempre sbagliata e lo ha fatto soffrire molto. Per anni è stato bollato come “traditore” e perfino “prezzolato” — racconta Daniela Girotto —. Tutte fantasie. Quando pensava che una cosa fosse giusta la faceva. Punto. Senza retropensieri». Fu così che l’ex frate di sinistra, che aveva abbracciato la guerriglia in Sud America, iniziò a collaborare con i carabinieri, convinto che la lotta armata fosse ancora evitabile e non necessaria. Ebbe diversi incontri con Curcio, alcuni «a torso nudo» perché i brigatisti volevano essere sicuri che non avesse addosso un registratore. L’8 settembre ‘74, a Pinerolo, nel giorno del reclutamento ufficiale di Girotto, Curcio e Franceschini vennero arrestati.
La testimonianza
«Mio padre sosteneva che sarebbe potuto andare avanti e “consegnarli tutti”, ma le cose andarono diversamente. Decise comunque di testimoniare al processo e non ha mai avuto la scorta. Ha tolto semplicemente il nome dal citofono e dall’elenco telefonico. Quando gli chiedevo perché, mi rispondeva “perché sì”». Nell’estate del 1993, però, ci fu la rivelazione: «Avevo finito il liceo e stavo per partire per un anno sabbatico prima dell’università — ricorda la figlia di Frate Mitra —. Eravamo in cortile, mi fece sedere e mi disse “adesso ti racconto”. Così ho saputo che mio padre era stato frate e tante altre cose. Fui meravigliata, ma da subito orgogliosa di un padre che aveva fatto la cosa giusta. Leggendo libri e giornali dell’epoca ho invece capito il dolore di mio padre, quella sofferenza che lo ha divorato da dentro».
Pendolare
La vita «normale» di Girotto era quella di un pendolare, elettricista, che ogni mattina prendeva il treno. Fino al 1982 nessuno gli ha offerto un lavoro a Torino e nel 2002 la lunga lettera scritta alle figlie Daniela e Federica si trasformò nell’autobiografia «Mi chiamavano Frate Mitra», suo testamento spirituale. «Quel libro è stato catartico per lui, ha ricominciato a vivere e finalmente la gente ha iniziato a guardarlo con occhi diversi. Forse ci voleva un po’ di distanza storica». Ieri è stato il momento dell’ultimo saluto a Girotto, con un funerale laico al tempio crematorio: «La sua religiosità era forte, ma molto personale. Vissuta in modi diversi a seconda dei differenti momenti della sua vita. Non era più legato alla Chiesa come istituzione». Dopo la pubblicazione del libro ha vissuto per 13 anni in una missione in Etiopia con la moglie Carmen e poi ha fatto la spola fra la Bolivia e Torino, prima di trasferirsi stabilmente nel quartiere Campidoglio dopo l’inizio della pandemia: «Per 49 anni sempre insieme a mia madre, che per farci andare all’università si era rimessa a studiare e aveva preso il diploma da infermiera — dice Daniela —. È stato un marito, un padre e un nonno molto presente. Un esempio e uno stimolo per me, anche quando discutevamo. Cosa mi mancherà di più di lui? Tutto, era mio padre».
Morto a 83 anni. La vita misteriosa di ‘frate Mitra’: dalle rapine ad infiltrato nelle BR per far catturare Curcio. David Romoli su Il Riformista il 3 Aprile 2022.
Silvano Girotto, già padre Leone, per la stampa “frate Mitra”, se ne è andato a 83 anni portandosi nella tomba il segreto dell’operazione che l’8 settembre 1974 avrebbe dovuto decapitare le Brigate Rosse, con l’arresto dei due principali leader Renato Curcio e Alberto Franceschini, e che ruotava tutta intorno al misterioso “frate guerrigliero”. Compiacenti oggi come allora i media non si pongono domande. Accreditano una biografia dell’ex francescano nella quale si fondono evidentemente elementi reali e il lavoro di fantasia che portò i capi delle Br, in contrasto netto con tutte le loro regole, a fidarsi dello sconosciuto che li consegnò al generale Dalla Chiesa.
Figlio di un maresciallo dei carabinieri, nato nell’aprile 1939 a Caselle Torinese, Girotto si mette nei guai con la giustizia ancora minorenne, lo prendono mentre passa illegalmente il confine con la Francia, si arruola nella Legione Straniera dalla quale diserta dopo appena tre mesi, a suo dire perché inorridito dalla repressione feroce contro i militanti dell’Fnl algerino. Torna in patria e finisce in galera dopo la rapina in una tabaccheria finita male. In carcere scopre la religione, indossa il saio, diventa francescano. Nel 1969 è ordinato sacerdote: padre Leone fa un po’ il prete operaio, il vescovo di Novara gli proibisce di predicare, lui chiede di essere spedito in America latina.
Questo, almeno, è il racconto di Girotto. Il problema nella sua avventurosa biografia è che ad accreditarla c’è sempre e solo la sua parola. La presenza in Bolivia nel 1971 è certa. Più discutibile la versione in stile “Rambo col saio” delle sue imprese durante il golpe del 21 agosto del colonnello Banzer: “Mi trovai nel pieno di un massacro, quando da un nido di mitragliatrici cominciarono a sparare sopra una folla di bambini e mamme. Imbracciai le armi. Lanciai una granata e feci saltare il nido di mitragliatrici”. Pochi giorni dopo Girotto esce da una casa nella quale si nasconde un militante ricercato dal nuovo regime. Giusto un attimo dopo la polizia irrompe e lo arresta. È sempre la parola del frate, che a quel punto aveva smesso il saio e si era anche sposato con una boliviana, a garantire la militanza in Cile contro il regime di Pinochet. Qualcuno ancora oggi lo mette addirittura tra il fondatori del Mir, il gruppo armato della sinistra cilena. Più sobrio e serio, nella sua inchiesta televisiva sul terrorismo italiano La notte della Repubblica, Sergio Zavoli lo liquidò in pochissime parole: “Dall’America Latina ritornò con la fama, in gran parte millantata, di frate guerrigliero”.
In realtà c’è probabilmente qualcosa in più delle vuote vanterie di un miles gloriosus con la bandiera rossa. La biografia eroica di Girotto sembra studiata sin nei particolari per spingere le Br ad accettare le sua proposta di collaborazione senza andare per il sottile. A rendere noto quella storia rivoluzionaria che riassumeva tutta la mitologia dell’epoca fu del resto un periodico di estrema destra, Il Borghese. Forte dell’articolo che lo descriveva come una specie di pericolo pubblico, l’ex frate si presentò a un comandante partigiano, Giovan Battista Lazagna, chiedendo di metterlo in contatto con le Br. Nella memorialistica dei decenni successivi i leader delle Br hanno giurato tutti di non essersi mai fidati del rodomonte, di aver fiutato subito la trappola e di aver pertanto deciso di accoglierlo sì, ma con rigida compartimentazione, senza metterlo al corrente di nessun dato sensibile. Di fatto però, pur non sapendone niente, Curcio e Moretti lo incontrarono e fu poi preso un nuovo appuntamento a Pinerolo, l’8 settembre, con il solo Curcio.
C’è qui un secondo mistero: perché Dalla Chiesa decise di far scattare la trappola proprio quel giorno, prendendo nella rete il solo Curcio, invece di infiltrare il frate e di aspettare fino a poter catturare l’intero vertice brigatista? Probabilmente il generale sapeva che la copertura del suo uomo stava per franare. Due giorni prima dell’appuntamento una telefonata anonima avvertì Enrico Levati, medico vicino alle Br, che a Pinerolo Curcio sarebbe stato arrestato. Le Br pensarono che l’avvertimento partisse da Israele, che già aveva offerto loro aiuto perché la destabilizzazione in Italia avrebbe aumentato il loro peso contrattuale con gli Usa come punto di riferimento nel Mediterraneo. Di fatto, chi abbia fatto quella telefonata è a tutt’oggi ignoto ma Dalla Chiesa deve aver subodorato che la storiella del frate rivoluzionario era arrivata agli sgoccioli.
La telefonata andò comunque a vuoto. Il medico era fuori città, il messaggio fu lasciato alla moglie che lo avvertì solo il giorno dopo. Le Br, a quel punto, disponevano di forze troppo esigue per rintracciare in tempo Curcio e rifiutarono l’aiuto di Autonomia, che avrebbe potuto sguinzagliare un numero ben superiore di macchine. Dalla Chiesa godette poi di un vero colpo di fortuna: Curcio avrebbe dovuto presentarsi da solo all’incontro, mentre Franceschini avrebbe dovuto viaggiare verso Roma. Decise invece, violando le regole dell’organizzazione, di andare verso Torino con Curcio e finì nella rete anche lui. Dopo il colpaccio, Girotto se ne uscì con una sgangherata lettera alle Br, sul modello di quelle usate dall’Fbi nell’operazione Cointelpro con la quale avevano sgominato le Black Panthers.
Li accusava di essere “piccoli borghesi frustrati e megalomani” che spalancavano le porte a una sanguinosa repressione contro “le vere Avanguardie dei lavoratori”. La passione militante lo abbandonò però subito dopo quel proclama. Scomparve dalla scena, salvo raccontare di nuovo la storia della sua vita, vera o falsa che fosse, in un paio di libri, ripeterla nel 2000 di fronte a una delle tante inutili commissioni parlamentari d’inchiesta sul terrorismo e incontrare infine nel 2002, tramite i buoni uffici di suor Teresilla Barillà, i due uomini che aveva fatto arrestare 28 anni prima. Curcio fu gelido. Franceschini cordiale, quasi amichevole. Della storia italiana degli anni ‘70 Girotto non è stato un protagonista e neppure un comprimario: piuttosto un’anonima pedina.
David Romoli
La polvere sotto il tappeto. Emilio Alessandrini fu giustiziato per un tragico abbaglio. Otello Lupacchini su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.
1979 annus horribilis. A quella del primo sindacalista e militante del Partito Comunista Italiano, Guido Rossa, a Genova, seguiva l’uccisione, qualche giorno dopo, del primo magistrato a Milano, Emilio Alessandrini, che dal suo arrivo in città, alla fine del 1968, e sino alla sua tragica scomparsa, con funzioni di sostituto procuratore, s’era sempre occupato di terrorismo e, in particolare, di eversione di destra. Il giornalista Walter Tobagi, che sarebbe stato ucciso il 28 maggio dell’anno seguente dal gruppo terrorista di estrema sinistra Brigata XXVIII marzo, scrisse sul Corriere della Sera: «Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli».
Quelli di Emilio Alessandrini a Milano furono gli «anni di piombo» e, periodicamente, delle stragi. Piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, Peteano, le uccisioni di magistrati, poliziotti, carabinieri, e l’ultimo delitto eclatante, l’assassinio di Aldo Moro, gli episodi maggiori, o i più visibili, fino a quel momento, di una guerra allo Stato, nella quale il nemico della democrazia indossava di volta in volta maschere diverse. E muoveva burattini dai colori apparentemente opposti, «rossi» e «neri»: figure di poco o nessuno spessore, sovente inconsapevoli dei fili che li guidavano, disposti a uccidere, e a essere uccisi, o, i più astuti e prudenti, a tacere su quello che sapevano o intuivano, per salvare la faccia, e soprattutto la pelle.
Furono gli anni in cui i protagonisti della dura stagione di lotta anticomunista apertasi sul finire degli anni Sessanta, erano passati dal «partito del golpe» alla P2, strutturatasi come il club dell’oltranzismo atlantico, in cui si ritrovavano i vertici dei Servizi segreti italiani, alti ufficiali dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Marina e dei Carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti, dalla Democrazia Cristiana al Partito Socialista Italiano, dal Partito Socialdemocratico al Partito Liberale, fino al Movimento Sociale Italiano; alti magistrati, tra cui il procuratore generale della Repubblica di Roma, Carmelo Spagnuolo; e poi giornalisti, finanzieri, tra cui Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, imprenditori, tra cui il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
L’impegno profuso e le doti investigative evidenziate nelle delicate indagini relative ad alcuni attentati dinamitardi compiuti a Milano dalle Squadre d’Azione Mussolini, erano valsi, il 14 febbraio 1972, a Emilio Alessandrini, insieme al collega Luigi Fiasconaro, un elogio per «la prontezza, la sagacia, l’energia e lo zelo» con cui aveva affrontato l’affaire. La stessa formazione terroristica, peraltro, a qualche giorno di distanza, si sarebbe resa protagonista di un nuovo attentato, questa volta diretto proprio contro di lui: un ordigno venne fatto esplodere nel cortile dello stabile dove risiedeva, provocando, fortunatamente, solamente danni alle cose. «Alle 16.30 del 12 dicembre 1969 un ordigno esplodeva nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, uccidendo 16 persone e ferendone 88. Un secondo ordigno, inesploso, veniva rinvenuto nella sede della Banca Commerciale di Piazza della Scala tra le 16.25 e le 16.30. Si trattava di una cassetta portavalori… chiusa a chiave e contenuta in una borsa in skai di colore nero. Gli inquirenti ne decidevano la immediata distruzione e così, la sera stessa la cassetta veniva fatta brillare nel cortile interno della Banca Commerciale senza verificarne il contenuto. Quasi contemporaneamente nell’arco di un’ora, altri tre ordigni esplodevano in Roma, dove rimanevano ferite 18 persone in totale».
Questo l’incipit della requisitoria del 6 febbraio 1974 con la quale il pubblico ministero Emilio Alessandrini chiedeva al giudice istruttore il rinvio a giudizio di Franco Freda, Giovanni Ventura e altri per associazione sovversiva e strage in relazione alle bombe di Milano e Roma del 12 dicembre 1969. Emilio Alessandrini, peraltro, era stato uno dei primi a condurre indagini sull’Autonomia Operaia milanese. Come altri suoi colleghi meneghini, cercava non solo di affrontare il problema eversivo dal punto di vista giudiziario, ma di comprendere il fenomeno dal punto di vista sociale. In una relazione svolta a un incontro di studio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, nell’estate del 1978, aveva avuto modo di affrontare il problema delle connessioni fra criminalità comune e criminalità politica, dall’angolo visuale della istituzione carceraria.
Gli argomenti utilizzati appaiono di estrema attualità e rilevanza rispetto agli odierni fenomeni di radicalizzazione che, nel contesto carcerario, trovano terreno fertile: sostenne che nella sua esperienza aveva potuto notare «persone che entrano in carcere per qualche episodio di intolleranza politica, escono, e poi, dopo qualche tempo, le ritrovi denunciate, arrestate per reati sicuramente comuni»; che i motivi che spesso caratterizzano il fenomeno inverso, criminali comuni che una volta in carcere abbracciano l’eversione, fossero da individuare nella «esigenza di dare uno scopo alla propria esistenza futura ed una spiegazione alla propria vita passata»; che lo strumento repressivo fosse necessario, ma non sufficiente nella soluzione dei problemi eversivi, credendo a tal fine fondamentale un’istituzionalizzazione del dissenso.
Tra gli anni Settanta e i ruggenti anni Ottanta, erano cominciate anche le prime disavventure del Banco Ambrosiano: Roberto Calvi, indisturbato, creava società fantasma in Svizzera e in altri paradisi fiscali e utilizzava le stesse per intercedere con lo Ior, la banca vaticana; gli ispettori della Banca d’Italia, però, avevano cominciato a insospettirsi, fino a denunciare diverse irregolarità, inviate al magistrato Emilio Alessandrini, prontamente deceduto, tuttavia, in epoca utile, perché non se ne potesse occupare.
«Oggi, 29 gennaio 1979 alle ore 8,30 il gruppo di fuoco Romano Tognini «Valerio» dell’organizzazione comunista Prima Linea, ha giustiziato il sostituto procuratore della Repubblica Emilio Alessandrini. Era una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare o giudiziaria efficiente e come controllore dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire quando la lotta operaia e proletaria si determina come antagonista ed eversiva». Rileggere questa rivendicazione dopo aver rievocato l’impegno professionale di Alessandrini dà la misura dell’abisso in cui erano sprofondate quelle formazioni terroristiche.
Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione
Nascita e morte della lotta armata nel romanzo delle Brigate Rosse. Alessandro Gnocchi il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Bertante racconta il nucleo storico dei terroristi attraverso gli occhi di un ragazzo che capisce: nessuno vuole la rivoluzione.
Mordi e fuggi (Baldini + Castoldi, pagg. 206, euro 17; in uscita il 20 gennaio) di Alessandro Bertante è un affilato romanzo sulla nascita delle Brigate Rosse. L'autore conosce l'argomento. Bertante si è laureato con una tesi su Re Nudo, la rivista della sinistra extraparlamentare che pubblicò per prima i volantini delle Br. Relatore: lo storico Giorgio Galli. Le sue conoscenze sono al servizio di una storia tanto significativa quanto a presa rapida. Mordi e fuggi vale anche come descrizione dello stile di Bertante, se azzannate le prime pagine, vorrete velocemente sapere come andranno a finire le vicende di Alberto, il protagonista; e l'autore, con bravura, vi accontenterà.
Ecco, chi è Alberto? Lo chiediamo proprio a Bertante: «È uno dei due fondatori delle Brigate Rosse mai identificati. Sappiamo che agirono sul campo, ad esempio nelle rapine che i terroristi utilizzavano come forma di finanziamento. Renato Curcio e gli altri membri storici, quando furono arrestati, si rifiutarono di fare i loro nomi».
Alberto è in rotta con la famiglia borghese ma anche col movimento studentesco al quale appartiene. Le lotte degli anni Sessanta non hanno condotto a nulla. Nonostante gli slogan e le prediche sfiancanti, gli studenti sono borghesi compiaciuti. Non faranno nulla se non parlare. Alberto, invece, vuole sentirsi in grado di cambiare qualcosa. Il comunismo promette un futuro radioso a patto di fare la rivoluzione. Il problema è la mancanza di un solido legame con i lavoratori, in particolare gli operai delle grandi città. Le Brigate Rosse sono il gruppo che con maggiore forza cerca il consenso nelle fabbriche soprattutto di Milano. Mordi e fuggi è un romanzo milanese quasi al cento per cento, e non è questione di strade nebbiose e altri cliché. Bertante ci fa vedere i cancelli della Sit-Siemens, lo spaccio dell'Alemagna, la zona africana tra Corso Buenos Aires e i viali che conducono alla Stazione, il quartiere di Porta Romana quando in via Orti, al posto di premi Nobel e conduttori televisivi, c'erano le osterie della leggera, come veniva chiamata la piccola criminalità.
Alberto passa da un gruppo all'altro. Decisivo è l'ingresso nel Collettivo Politico Metropolitano, dal quale nasce Sinistra Proletaria e con quest'ultima siamo ormai a un passo dalle Brigate Rosse. La svolta è la bomba di Piazza Fontana, esplosa il 12 dicembre 1969 a Milano, nella Banca nazionale dell'agricoltura. Di fronte ai diciassette morti, e ai novanta feriti, Alberto, e altri come lui, rompono gli indugi. Chiediamo conferma a Bertante: «La frustrazione politica dopo Piazza Fontana, specie a Milano, è un incredibile catalizzatore». Cresce la paranoia del golpe e della reazione. Bertante precisa: «Bisogna tenere conto che la teoria della strage di Stato non è una lettura a posteriori. Era l'interpretazione coeva all'attentato. Le prime indagini che misero nel mirino gli anarchici rafforzarono la convinzione che fosse iniziata la repressione».
Le Brigate Rosse nascono nell'agosto del 1970 a Costaferrata, un piccolo paese sui colli di Reggio Emilia. Organizzatore del convegno è Alberto Franceschini detto il Mega, figlio e nipote di partigiani, capace di procurarsi con facilità le armi nascoste alla fine della Seconda guerra mondiale. Sono presenti Renato Curcio e sua moglie Margherita Cogol detta Mara. Curcio e Mara sono credenti. Non avvertono contrasto tra gli ideali comunisti e il cristianesimo. Si parla di entrare in clandestinità e si formano, anzi sono già formate, le prime cellule oltre alla milanese: Genova, Borgomanero, e poi i romani, i lodigiani e i torinesi. La strategia prevede azioni dimostrative nelle fabbriche non solo per fare propaganda ma anche per reclutare. Chiediamo ancora a Bertante come andarono le cose: «Erano veramente quasi tutti operai, a parte Curcio e Mara, oppure avevano alle spalle una situazione disagiata. Moretti veniva dalla fabbrica anche se era un colletto bianco alla Siemens. La dimensione operaia delle Brigate Rosse, a lungo negata dal Pci era una realtà».
Alberto rompe con gli amici che non vogliono impugnare le armi, lo fa in modo violento, in modo «fascista» come dice Ivan, una delle sue vittime. Nel neo-terrorista la lotta politica conta tanto quanto il lato torbido e avventuroso della vita. C'è qualcosa in Alberto che rimanda, più che ai partigiani, all'esteta armato di ogni epoca, stringere in pugno un'arma dà una fantastica sensazione di potere ed ebbrezza. La sconfitta, per quanto la battaglia sia priva di speranza e addirittura stolida, «rimane scolpita nella memoria del mondo». Puro romanticismo applicato alla violenza.
Dopo alcuni gesti dimostrativi alla Pirelli e in altre fabbriche, le Brigate Rosse iniziano a colpire i dirigenti. Si comincia con Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens, al quale viene bruciata la macchina. Nei bagni della fabbrica compare il primo volantino firmato ancora «Brigata rossa» al singolare (dal successivo si passa al plurale). La fama delle Brigate Rosse, nel mondo della sinistra extra-parlamentare, è in forte crescita. Il compagno Osvaldo, vale a dire Giangiacomo Feltrinelli, entra nella loro orbita. Poi ci sono altre organizzazioni come Lotta Continua e Potere Operaio che oscillano tra la collaborazione e le accuse alle Br di essere più o meno consapevoli strumenti della reazione. Dalle dimostrazioni si passa ai rapimenti, dai rapimenti alle rapine, dalle rapine a... In realtà la storia di Alberto finisce prima che la lotta armata passi alla gambizzazione o all'omicidio. Alberto sfugge alla prima retata che di fatto decapita il movimento, specie a Milano.
E come finisce, chiediamo a Bertante: «Capisce che non ci sono i presupposti di una rivoluzione. Non c'è un noi contro loro. La lotta armata è una scelta di minoranza». Non si pente: «No. Alberto non avrebbe, credo, appoggiato la svolta militaristica delle Brigate Rosse ma neppure era contrario all'uso della violenza. Tra l'altro, per un certo periodo, quello raccontato in Mordi e fuggi, le Brigate Rosse non furono il gruppo più violento. Non furono i brigatisti a uccidere il commissario Calabresi, per citare un evento tragico e fortemente simbolico». Come Pier Paolo Pasolini, da sinistra, fece tabula rasa del Movimento studentesco, accusandolo di aver favorito l'omologazione, così Leonardo Sciascia, ripartendo proprio da Pasolini, farà notare l'inconcludenza della strategia brigatista: rapito Moro, Democrazia cristiana e Partito comunista avranno una ragione in più per avvicinarsi. Sciascia si chiederà0 se l'esperienza brigatista non appartenga alla «sfera dell'estetismo in cui il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione». Alessandro Gnocchi
Morto Corrado Alunni, il brigatista rosso inseguito per sempre dal suo passato. Massimo Pisa su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.
Aveva 74 anni, viveva a Varese da tempo. Si era dissociato, ma il suo nome riemergeva ciclicamente nelle inchieste sul terrorismo.
Il passato che non passa, se la tua traiettoria ha attraversato eventi e sigle scolpite nel granito della storia, è una condanna supplementare che sopravvive a qualsiasi sentenza. A Corrado Alunni, morto a Varese a 74 anni, l'etichetta di brigatista rosso rimase addosso ben oltre la sua dissociazione arrivata a metà degli anni Settanta, di fatto la prima scissione del nucleo storico all'interno della più sanguinaria organizzazione terroristica degli anni di piombo.
Cesare Giuzzi per corriere.it il 28 gennaio 2022.
Ha attraversato le stagioni più dure degli Anni di piombo poi nel 1987 si era dissociato dalla banda armata. È morto a Varese a 74 anni l’ex brigatista e militante delle Formazioni comuniste combattenti, Corrado Alunni.
È stato insieme a Renato Vallanzasca uno dei protagonisti del clamoroso tentativo di evasione dal carcere di San Vittore. Nato a Roma il 12 novembre 1947, Alunni si era trasferito a Milano dopo gli studi nel 1967.
Assunto come operaio alla Sit-Siemens inizia il suo percorso verso la lotta armata. È nella fabbrica milanese che conosce i futuri brigatisti Mario Moretti, Giorgio Semeria e Paola Besuschio. Sette anni dopo, quando è già componente delle Brigate rosse e braccio destro di Renato Curcio, lascia il lavoro ed entra in clandestinità.
Poi l’esperienza delle Brigate rosse comuniste e nel ‘77 la creazione delle Fcc e Prima linea. Viene catturato a Milano nel 1978 quando la Digos e la Mobile della questura fanno irruzione nel covo di via Negroli a Milano. Dentro ci sono armi, esplosivi e soprattutto carte e documenti riservati sull’attività terroristica rossa.
La fuga da San Vittore
Si arriva al 28 aprile 1980 quando Alunni, insieme a Vallanzasca e al suo fedele braccio destro Antonio «Pinella» Colia e ad altri detenuti tentano una clamorosa evasione da San Vittore.
Durante l’ora d’aria il commando prende in ostaggio un brigadiere e riesce a farsi strada fino all’uscita del carcere. I detenuti hanno armi e le usano contro due guardie che gli sbarrano la strada.
Poi la sparatoria si sposta nelle strade intorno al carcere dove Alunni rimane ferito da due colpi di mitra e viene arrestato insieme al Bel René, anche lui ferito. Negli anni 80 le condanne si sommano e Alunni arriva a un cumulo superiore ai 50 anni di galera.
La dissociazione
Nel 1987 si dissocia dalla lotta politica armata. E nel 1989 gli viene concessa per la prima volta la semilibertà: viene assunto con l’incarico di catalogare materiale didattico dalla Enaip, il centro di formazione professionale delle Acli, di Bergamo.
Il suo percorso di dissociazione arriva al culmine nel 1997 quando con altri 62 ex terroristi rossi firma uno storico appello per chiudere la «Storia infinita» degli Anni di piombo per aprire la strada a «una democrazia matura, una classe politica e una Repubblica che vogliano davvero rinnovarsi».
È la fine definitiva di un pezzo di storia del Paese che affonda le sue radici nel Dopoguerra, nella strage di Piazza Fontana, nel sequestro Moro e nella lunga scia di sangue del terrorismo.
Morto a 75 anni l'ex Brigatista Corrado Alunni. Il Quotidiano del Sud il 28 Gennaio 2022.
È morto a Varese, a 75 anni, Corrado Alunni, componente delle Brigate Rosse della prima ora, dalle quali si distaccò per dare vita prima alle Rosso Brigate comuniste e poi alle Formazioni comuniste combattenti.
Particolare figura di borgataro romano “de Centocelle”. Trapiantato a Milano, tecnico specializzato alla Sit-Siemens … con altri tecnici di formazione cattolica ma influenzati dal 68, tra cui Mario Moretti, formano un “gruppo di studio” … cominciano prendendo le difese di un dirigente esautorato e finiscono per costituire il primo significativo nucleo di fabbrica delle Brigate Rosse … ma Corrado rimane un “movimentista” e le Br, soprattutto dopo la scelta dell'”attacco al cuore dello stato” cominciata col sequestro Sossi, gli vanno strette … ne esce, insieme ad altri, nel 1974 … e, pur da ricercato, ritorna a Milano ad una attività anche di massa, partecipando pure a cortei ed iniziative pubbliche col gruppo di “Rosso”, facente capo a quell’area dell’autonomia diretta da Toni Negri.
In quell’ambito organizza il livello di “lavoro illegale” dell’organizzazione con il nome di Brigate Comuniste e poi, col disfacimento di “Rosso” seguito al fattaccio di Via De Amicis il 13 Maggio 1977, in cui muore un poliziotto, fonda le Formazioni Comuniste Combattenti … che, dopo un fallimentare tentativo di “comando unificato” insieme a Prima Linea, terminano la loro attività con l’arresto dello stesso Alunni nell’autunno del 1978 . famoso e clamoroso il suo tentativo di evasione nel 1980 dal carcere di San Vittore a Milano insieme a Renato Vallanzasca e ad altri detenuti, politici e comuni
Durante la fuga Alunni viene ferito allo stomaco con due colpi di mitra e Vallanzasca, che è a suo modo un “generoso” ma che soprattutto sente un po’ il fascino di quel romano scanzonato, così diverso dal clichè dei “brigatisti seriosi”, essendo l’unico armato degli evasi torna indietro per proteggerlo dal probabile “colpo di grazia” e viene così gravemente ferito e ri-arrestato pure lui …nel 1987, in un documento comune ad altri ex appartenenti alla lotta armata di varie organizzazioni, intitolato “La storia infinita” Alunni sceglie la strada della “dissociazione” … non avendo particolari reati di sangue, nel 1989 gli venne concessa la semilibertà e la possibilità di lavorare all’esterno del carcere.
L'ultima lotta di Alunni l'ex Br dalla "tuta blu" evaso con Vallanzasca. Nino Materi il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Nel suo curriculum criminale tanti attentati ma nessun omicidio. Era libero dal 1989.
Prima di «dissociarsi», ci ha riflettuto 20 anni. Tanto è trascorso da quel lontano 1967 quando Corrado Alunni comincio a bazzicare i primi terroristi già «affermati» (in primis Mario Moretti) a quel «liberatorio» 1987 quando l'ex operaio della Siet-Siemens decise di abiurare ciò che restava della «lotta politica armata», firmando - dieci anni dopo, nel 1997 - un patetico appello per «chiudere la Storia infinita degli Anni di piombo e aprire la strada a una democrazia matura, una classe politica e una Repubblica che vogliano davvero rinnovarsi»; insomma, una parabola deprimente che lo ha portato a trasmigrare dalla tragica cattedra di cattivo maestro a quella comica di maestrino con la vocazione da «statista». Ieri per l'ex brigatista quella parabola si è conclusa definitivamente: Corrado Alunni è morto infatti nella sua Varese all'età di 75 anni. Il destino ha voluto che tutto finisse dov'era cominciato. Nello stesso territorio in cui Alunni cercò di «mettersi in proprio» tagliando il cordone ombelicale che lo legava ai fratelli maggiori delle Brigate Rosse e fondando una Brigata Comunista tutta sua e che però, nei riguardi delle BR, continuerà sempre a nutrire una sorta di complesso di inferiorità misto a un senso di rispetto reverenziale. Mentre in fatti le BR mettevano a segno attentati di «serie A», i militanti fedeli ad Alunni frequentavano i «campionati inferiori», accontentandosi di espropri proletari e distruzioni di «simboli capitalistici». Ma senza mai arrivare a gambizzazioni o omicidi. I comunisti di Alunni erano invece specializzati in «irruzioni contro il lavoro nero in cantieri e officine; ronde armate contro lo spaccio di droga; attentati contro carceri, stazioni delle forze dell'ordine e sedi partitiche; dossieraggio su dirigenti d'azienda». In nessun blitz ci furono vittime, benché non poche ombre permangano su un suo possibile ruolo nel rapimento Moro.
Le condanne inflitte ad Alunni nei vari processi ammontano a circa 50 anni, solo parzialmente scontati: un po' per buona condotta (dal 1989 la prima seimilibertà), un po' perché Alunni non disdegnava le evasioni, come quella di cui fu protagonista con Renato Vallanzasca nel 1980 dal carcere di San Vittore. Due anni prima, nel 1978, Alunni era stato arrestato nel covo di via Negroli, lasciandosi alle spalle un curriculum di sigle tristemente note come quella delle Formazioni comuniste combattenti.
Oggi c'è chi vorrebbe addirittura riabilitare la sua figura: «Non va ricordato solo per aver aderito alle Br - sostiene Davide Steccanella, avvocato e storico -. Era una persona moralmente retta. Un operaio nato a Roma e arrivato a Milano per fare l'operaio alla Sit-Siemens e che come tanti altri fece la scelta di cambiare le cose, pagandola con anni di carcere». Nino Materi
Alberto Simoni per "la Stampa" il 28 gennaio 2022.
È la mattina del 28 gennaio 1982 quando le teste di cuoio arrivano in via Pindemonte 2 a Padova con un piccolo furgone verde. Hanno pistole e fucili d'assalto M-12. Alle 11,25 sono davanti alla porta di un appartamento di una anonima palazzina. La sfondano con un colpo secco. In una tenda montata in una stanza c'è da 42 giorni un generale americano ostaggio di un commando di cinque persone delle Brigate Rosse guidato dal poi pentito Antonio Savasta: quell'uomo è James Lee Dozier, classe 1931, generale di brigata della Nato.
Il 17 dicembre un commando era entrato nella sua casa di Verona spacciandosi per idraulici: dopo aver immobilizzato la moglie legandola a un calorifero, avevano preso Dozier e, caricatolo nel bagagliaio di una macchina, lo avevano condotto a Padova. Il generale resterà per sei settimane nello stesso covo, legato a un lettino di ferro sotto una tenda da campeggio con le cuffie e musica ad altissimo volume.
Sempre così fino al blitz del team del comandante dei Nocs Edoardo Perna durato 50 secondi. Dozier oggi ha 90 anni, la sua memoria è viva, i ricordi di quei 42 giorni densi di dettagli. Risponde al telefono dalla sua casa in Florida, seduto - racconta - davanti al "kidnapping corner", l'angolo in cui ha raccolto foto e ricordi di quell'esperienza e libri sui Nocs. Descrive lo scatto con i presidenti Reagan e Pertini e quello con Perna. Simboli di una fulminea parentesi di vita che Dozier ha custodito e che ora - insieme alle altre pieghe dell'esistenza - è diventata un libro, "Finding my Pole Star".
Generale Dozier, ha rifiutato contratti importanti per un libro subito dopo la sua liberazione, perché farlo adesso?
«Voglio lasciare una testimonianza ai giovani. Dopo il congedo nel 1985, ho intrapreso una carriera nel business dell'agricoltura: mi alzavo all'alba e lavoravo molto. Ma adesso che sono pensionato, ho deciso di scriverlo. Mi ha aiutato mia sorella che ha tenuto le foto e i ricordi dell'infanzia ad Arcadia e poi ho attinto alla mia memoria».
Sono passati 40 anni dal rapimento. Ha mai avuto incubi?
«Mai, fortunatamente. Sono stato capace di parlarne di continuo seguendo i suggerimenti degli psicologi. Tirare fuori le cose è il modo migliore per superare i traumi».
C'è qualcosa che le resta conficcato in testa? Un suono, un odore, una voce che la riporta all'appartamento di Padova?
«Si, i tentativi di Di Lenardo (uno dei carcerieri, ndr) di farmi il lavaggio del cervello». Come faceva?
«Ogni giorno veniva nella tenda, mi parlava delle Br, mi dava cose da leggere che io gettavo via. "Scordatelo", gli dicevo. Tornava ancora. Con un dizionario italiano e traducevamo parola per parola. Gli dissi che non avrei mai detto nulla sui segreti della Nato».
Non si arresero però
«Tentarono di spiegarmi chi erano, in cosa credevano e cosa volevamo le Brigate Rosse. Alla fine Di Lenardo mi disse: "Se non riusciamo a portarti dalla nostra magari riusciamo a farti diventare neutrale».
Del blitz cosa le resta in mente?
«La rapidità, la pistola di una guardia puntata su di me. Era molto strano, non avevo mai visto armi lì. Improvvisamente la guardia venne disarmata. Poi la figura di un uomo che si spinge nella tenda. Temevo fosse una resa dei conti fra bande delle Br che si contendevano la preda, io. Invece quell'uomo si tolse il cappuccio, disse che era un poliziotto. Erano a venuti a prendermi e dovevamo andare via subito perché temevano che l'appartamento potesse saltare in aria. In un attimo ero seduto sul sedile posteriore di una macchina della polizia in mezzo al traffico di Padova. E andavamo veloci, schivando le altre macchine. Ci manca solo un incidente, pensai».
La fine dell'incubo le diede la forza di dire di no al presidente Usa. Dove trovò il coraggio? «No no. Ho imparato a mie spese che al presidente degli Stati Uniti non dici mai di no anche se ti sembra di averlo detto (ride)».
Come andò allora il no-diventato-Sissignore?
«Un'ora dopo il rilascio, Reagan chiamò. Ero alla base di Ederle, Vicenza. Mi chiese come stavo e mi disse: "Crede di poter venire a Washington la prossima settimana per il National Prayer Breakfast? "Signore - risposi- sono stato via per sei settimane, devo recuperare il lavoro arretrato". Riattaccò».
Però ci andò e ci sono le foto dell'allora vicepresidente Bush che l'accoglie all'aeroporto di Washington
«Dieci minuti dopo, telefonò il capo dello staff dello Stato maggiore: "Torna a Washington. Subito". Insomma, il mio no al presidente non è stato proprio efficace».
Si ricorda la prima cosa che disse a sua moglie?
«"Ciao cara, bello vederti". Ma sto tirando a indovinare, non ricordo» (grassa risata).
Dopo l'incontro con Reagan tornò in Italia, ma vi restò poco. Perché?
«I miei superiori ritenevano fosse meglio chiudere l'esperienza per ragioni di sicurezza. Allora si approfittò di una cena di Stato per il rimpatrio senza clamori: Pertini andava a Washington, anch' io fui invitato alla Casa Bianca. Non sono più rientrato in Italia».
Da militare intende
«Certo, da militare, perché sono venuto spesso e ogni volta incontro i miei salvatori. Ora purtroppo a causa del Covid ho saltato gli ultimi anni, l'ultimo volo in Italia risale al 2018. Spero di poter tornare presto e ringraziare ancora il comandante Perna e tutti coloro che mi hanno salvato».
Ha mai più visto o sentito i suoi rapitori?
«Solo al processo di Verona del 1982. Erano nelle celle degli imputati. Ho fatto la mia deposizione. Poi mi hanno suggerito di andarmene. E così feci. So che qualcuno è diventato dottore, qualcun altro si è pentito e si è rifatto una vita».
La leadership è uno dei temi dei tanti interventi pubblici che tiene. Cosa dice ai giovani?
«Che oggi ci sono troppi follower e pochi leader».
L'adrenalina, le armi, i pugni alle Br: "Come liberammo Dozier". Gianluca Zanella il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale.
Nel racconto di due operatori Nocs, i 50 secondi in cui sono state sconfitte le Brigate Rosse.
Verona, 17 dicembre 1981 - Padova, 28 gennaio 1982. Sono passati quarant’anni dal sequestro e dalla liberazione del generale americano James Lee Dozier a opera delle Brigate rosse guidate da Antonio Savasta.
In particolare, la liberazione del generale americano (un pezzo davvero grosso: al tempo era sottocapo di Stato maggiore addetto alla logistica del comando delle forze terrestri della Nato nell’Europa Meridionale), è stato l’evento che ha portato per la prima volta alla ribalta il Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza), nato nel 1978 ma fino a quel momento impiegato in situazioni con meno eco mediatica. Un evento, come in molti sostengono, che ha segnato l'inizio della fine delle Brigate rosse; uno di quegli eventi che resteranno nella storia. È per questo che, nel quarantesimo anniversario, abbiamo deciso di ripercorrerlo attraverso la voce di alcuni dei protagonisti che a vario titolo vi hanno partecipato.
"Fuori in 50 secondi": la liberazione che segnò la fine delle Br
La nostra storia comincia il 27 gennaio 1982, alle 22.
È a quell’ora che il capitano Edoardo Perna, giovane vice comandante dei Nocs, riceve la telefonata. Dall’altro capo del telefono, l’allora capo dell’Ucigos, il prefetto Gaspare De Franscisci: “Perna, prepari gli uomini, i più bravi che ha, e li porti immediatamente a Verona”. Queste le parole che ci ripete Edoardo Perna quando lo incontriamo a Roma, all’interno di un bar che affaccia su una delle vie più trafficate della capitale, mentre fuori impazza un temporale di fine autunno.
Oggi Perna è in pensione. Capo scorta di Francesco Cossiga durante il rapimento Moro (“Ho visto i suoi capelli diventare bianchi nell’arco dei 55 giorni”), capo scorta di Virginio Rognoni, guardia del corpo di Berlinguer durante il suo viaggio in Nicaragua, nonostante gli anni trascorsi, Edoardo Perna ricorda ancora molto bene i dettagli di quella operazione: “Erano anni difficili – ci dice – solo quindici giorni prima, a Roma, con un blitz coordinato avevamo smantellato tre covi brigatisti e arrestato Giovanni Senzani”. Gli chiediamo di raccontarci il perché di quella chiamata da parte del prefetto De Francisci: “Avevano trovato il covo in cui era tenuto prigioniero Dozier. Avevano preso il fiancheggiatore che aveva portato il generale da Verona a Padova e lo stavano facendo parlare”.
Perna si riferisce a Ruggero Volinia, fiancheggiatore delle Br. Fu lui a guidare il furgone dove, dentro una cassa di legno, era stato rinchiuso Dozier subito dopo il rapimento. Le versioni su come sia stato individuato il covo brigatista – come già accennato - sono discordanti, per adesso limitiamoci a raccontare i fatti per come sono stati trasmessi dalla verità giudiziaria e, in effetti, per come ci sono stati confermati da testimoni come Perna: “Erano stati Umberto Improta e i suoi uomini a trovarlo. Per convincerlo a parlare, Improta gli aveva detto che gli avrebbe rivelato il luogo dove abitava la sua famiglia, per dimostrargli fiducia... non ne sono sicuro, ma forse gli ha anche promesso qualcosa, in cambio dell’indicazione corretta del covo”.
Umberto Improta, pezzo da novanta della polizia durante gli anni di piombo e non solo, grande investigatore e – a detta di chi l’ha conosciuto – fine psicologo all’occorrenza.
A ogni modo, che cosa ci sta raccontando Perna? Come si è arrivati a Ruggero Volinia? Ecco, arriviamo alla versione ampiamente condivisa tanto dai protagonisti diretti di questa vicenda, quanto dalle cronache dell’epoca: tutto comincia con l’arresto di Paolo Galati, fratello del pentito brigatista Michele Galati.
Paolo fa il nome di Elisabetta Arcangeli, indicata come militante della sinistra extraparlamentare. In casa della Arcangeli, gli uomini di Improta trovano Ruggero Volinia, che si scopre essere appunto il fiancheggiatore che ha guidato il furgone con Dozier prigioniero. Passano due giorni. Da fonti aperte la tesi ricorrente è che tanto Volinia quanto la Arcangeli siano stati sottoposti a tortura da parte del famigerato dottor De Tormentis, alias di Nicola Ciocia, poliziotto membro insieme ad altri tre del cosiddetto gruppo dell’“Ave Maria”. Sul punto però nessuno degli intervistati conferma o smentisce “Noi eravamo operativi – ci dice Perna – non dovevamo ottenere informazioni, agivamo e basta”. Tornando a Volinia, a due giorni dalla cattura crolla e accetta di portare Improta e i suoi al covo dove viene tenuto prigioniero il generale statunitense. Alt. Facciamo un passo indietro e torniamo all’arresto di Paolo Galati, perché anche in questo caso la verità sembra avere molte facce.
Una fonte interna ai servizi, che all’epoca prese parte alle fasi di individuazione del covo brigatista, ci racconta una storia simile, altrettanto credibile. Lasciamo a voi l’interpretazione: “L’individuazione del covo di Dozier fu... come posso dire... una botta di culo”. Queste le sue esatte parole. Vediamo perché: “Fu merito della Polfer di Verona... fermarono alla stazione un tossico e lo portarono in caserma. Una volta qui il ragazzo, per essere lasciato in pace, disse che avrebbe potuto dare informazioni importanti sulle Brigate rosse. All’inizio non fu creduto, anzi si beccò anche qualche scappellotto, perché su certe cose era meglio non scherzare all’epoca. Poi però qualcuno degli agenti s’incuriosì e in effetti, dopo una banale verifica dei documenti, il tossico risultò essere Paolo Galati, fratello del brigatista pentito. Insomma il caso ci ha messo lo zampino”.
Quale che sia la versione corretta, ottenuta da Volinia l’indicazione esatta del covo brigatista – Padova, via Pindemonte 2, appartamento al primo piano – Improta avverte il prefetto De Francisci, che a sua volta telefona a Perna: “Siamo arrivati a Padova alle cinque del mattino. Dovevamo fare un sopralluogo e siamo saliti in una macchina io, Improta, un collega esplosivista, il capo di gabinetto della questura di Padova e Ruggero Volinia, che ci ha portati fin sotto il covo. Una volta lì, Improta mi ha guardato e mi ha detto 'ora tocca a te'... la prima cosa che andava verificata era se ci fosse una porta blindata. In quel caso avremmo dovuto usare l’esplosivo. L’unico modo per fare questa verifica era andare fino al primo piano e bussare al covo... aspettammo le nove di mattina. Sullo stesso piano c’era un dentista. Io e una collega, fingendoci moglie e marito, salimmo le scale e demmo un’occhiata. La porta del covo non era blindata. Due ore dopo facevamo irruzione nel covo. Un’azione durata 50 secondi”.
A raccontarci qualche dettaglio in più – e con un altro punto di vista – è un altro operatore tra i sei entrati nel covo: Carmelo Di Janni. L’abbiamo incontrato a Roma, seduti al tavolo di uno dei locali più famosi della capitale. Stazza enorme, fisico ancora prestante, Di Janni – nome in codice “Bimbo” - faceva parte di un commando di uomini scelti, la "crème de la crème", un manipolo di incursori che all’epoca poteva contare solamente sulle proprie qualità fisiche e psicologiche: “Ero un ragazzino, avevo ventitré anni - ci dice rievocando quei momenti - L’adrenalina prima di un’irruzione è qualcosa di inspiegabile... noi avevamo due obiettivi: neutralizzare le persone e bonificare l’ambiente da armi e, soprattutto esplosivi. Mi ricordo ancora quando quindici giorni prima sono entrato nel covo di Giovanni Senzani a Tor Sapienza, Roma. C’era di tutto là dentro: lanciamissili, mitra, bombe. Una santabarbara. Proprio come nel covo di Padova”.
Steso su un letto infatti i Nocs troveranno l’arsenale della banda. Ma torniamo al momento dell’irruzione: “In quel caso, il mio timore era che dietro la porta fosse piazzato un esplosivo. Ma l’unico modo per scoprirlo era sfondarla. E così abbiamo fatto... Io sono stato il secondo a entrare... la pistola non la tirai nemmeno fuori, non serviva, eravamo tutti esperti di arti marziali, boxeur, campioni di pesi massimi. Ricordo di essermi trovato di fronte uno dei brigatisti, era armato... con un solo pugno gli ho scaricato addosso tutta la tensione del momento. Anni dopo, durante uno dei processi, ci siamo stretti la mano”.
Carmelo Di Janni è il secondo uomo a entrare nella stanza in cui il brigatista Giovanni Ciucci sta per giustiziare – o almeno così sembra – il generale Dozier: “Dopo la botta in testa con il calcio della pistola che gli ha dato il mio collega, l’ho preso (Ciucci, ndr) e l’ho lanciato fuori dalla stanza. A quel punto Dozier ci guardava terrorizzato... credeva fossimo un altro gruppo brigatista venuto a rapirlo. Io ho capito e mi sono tolto il sottocasco... 'Siamo della polizia italiana' gli ho detto. Dozier allora si è alzato e mi ha abbracciato”.
Un lieto fine per nulla scontato. Un'azione da manuale condotta senza sparare un solo colpo. Cosa non da poco, in quegli anni: "Dopo tutto - ci confida la nostra fonte interna - non solo la morte dell'ostaggio era data al 90%, ma l'eco degli spari in via Fracchia, a Genova, quando il 28 marzo 1980 gli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa uccisero i brigatisti nel blitz, era ancora molto forte". Gianluca Zanella
· Il retroscena di un delitto. La pista dei servizi segreti domestici.
Junio Valerio Borghese, la nascita del “principe nero”. Marco Valle su Inside Over il 6 giugno 2022.
Vittorio G. Rossi, magnifico scrittore di avventura e storie di mare, avvertiva i suoi lettori: “Per vivere da morti non basta essere nominati nel libri, avere monumenti nelle strade e le lapidi; quello è un vivere che somiglia a quello delle farfalle nei musei, esse hanno ancora i loro colori, ma c’è lo spillo che le passa a parte a parte”. Rossi aveva ragione. Solo coloro che hanno saputo suscitare nel loro passaggio terreno sentimenti forti, magari contrastanti o divisivi ma viscerali, autentici, continuano a vivere nel tempo. Nell’amore o nell’odio magari, mai nella melassa, nella retorica. Le anticamere dell’oblio.
Junio Valerio Borghese appartiene a questa ristrettissima categoria di figure straordinarie. A ricordarlo vi sono le sue imprese fortunate e quelle meno fortunate, gli errori e le prodezze, le cadute e i bagliori, una somma di fatti, gesta, segreti, un destino complicato ma mai banale, mai scontato.
Junio nacque a Roma il 6 giugno 1906, secondogenito del principe Livio Borghese e della contessa ungherese Valeria Keun. La casata, di lontana origine senese ma presente a Roma dal 1541, vantava antenati illustri tra cui un papa (Paolo V), numerosi cardinali, viceré, generali, governatori, collezionisti d’arte. A fine Settecento i Borghese, nonostante la tradizionale quanto fruttuosa vicinanza al papa re e alla teocrazia romana, abbracciarono entusiasticamente la causa napoleonica al punto che il principe Camillo sposò nel 1803 Paolina Bonaparte, la bellissima quanto capricciosa sorella dell’imperatore.
Un blasone illustre, dunque, ma ormai, dopo la grave crisi finanziaria subita a fine Ottocento a causa di errate speculazioni edilizie, con ridotte risorse. Finiti i tempi delle rendite terriere bisognava lavorare e il principe Livio scelse la strada della diplomazia che lo portò prima nel Levante e in Oriente e poi, assieme alla famiglia, come ministro plenipotenziario a Lisbona e a Londra. Nella capitale britannica il giovanissimo Junio trascorse gli anni dell’infanzia, frequentando per cinque anni una scuola d’élite, per poi trasferirsi con la famiglia a Roma.
Nel 1922, appena sedicenne, venne ammesso ai corsi dell’Accademia navale di Livorno. Il suo sogno. La Regia Marina divenne da allora la sua casa e il mare il suo mondo. Durante il periodo degli studi iniziò ad appassionarsi alle nuove specialità subacquee (sommergibili e mezzi insidiosi), nominato nel 1928 guardiamarina prese brevetto di palombaro “di grande profondità” e iniziò ad approfondire la guerriglia navale ideata da Paolo Thaon de Revel durante la prima guerra mondiale nell’Adriatico.
Un passo indietro. Nel 1916, considerata l’impossibilità di una grande battaglia risolutrice con la flotta austro-ungarica, il lungimirante Revel aveva impostato una strategia aeronavale flessibile tesa a portare, sfruttando il naviglio sottile e incrementando la componente aerea, “la battaglia in porto”, una serie di attacchi mirati (e poco dispendiosi) contro le basi della flotta nemica. Una visione innovativa che convinse giovani comandanti – tra tutti Costanzo Ciano, Luigi Rizzo, Giuseppe Miraglia, Nazario Sauro – ed entusiasmò Gabriele d’Annunzio, 52enne volontario al fronte e da sempre fervente navalista. Fu l’epopea dei Mas, veloci motoscafi armati con due siluri, un cannoncino e bombe di profondità, inizialmente destinati alla lotta anti sommergibile e poi ampiamente impiegati per fini offensivi. Una scelta vincente.
Dopo lo sfondamento di Caporetto e la ritirata sul Piave, furono proprio i dannunziani “gusci di noce, inchiodati a tre tavole di ponte” a rischiarare le più buie ore della guerra: il 16 novembre, all’altezza di Cortellazzo, i Mas guidati da Costanzo Ciano costrinsero alla ritirata la squadra nemica; nella notte fra il 9 e il 10 dicembre Rizzo affondò nel vallone di Muggia la corazzata Wien; il 10 febbraio 1918 Ciano e Rizzo penetrarono nella munita baia di Buccari attaccando il naviglio nemico ma i siluri, per corsa difettosa, mancarono i bersagli. Un insuccesso militare trasformato, grazie alla penna di D’Annunzio (imbarcato per l’occasione), in un successo propagandistico. Durante l’incursione il poeta lanciò in acqua tre bottiglie galleggianti con dentro un messaggio irridente alla “cautissima flotta austriaca occupata a covare dentro porti sicuri la gloriuzza di Lissa“. Fu la beffa di Buccari. Il 10 giugno i Mas di Luigi Rizzo e Giuseppe Aonzo intercettarono al largo di Premuda la componente da battaglia asburgica in navigazione. Coraggiosamente le due piccole unità penetrarono a tutta velocità lo schieramento sganciando i loro siluri contro le corazzate Tegetthoff e Szent Istvan. I primi non esplosero ma i secondi lanciati da Rizzo colpirono in pieno la Szent Istvan affondandola. Alla vigilia dell’armistizio Thaon de Revel dette l’ordine di un’ultima missione contro il porto di Pola. Due soli uomini, il maggiore del genio navale, Raffaele Rossetti e il tenente Raffaele Paolucci, affondarono la corazzata Viribus Unitis impiegando un’arma subacquea rivoluzionaria, la “mignatta”. Imprese, idee e progetti che Borghese, uomo attento alle innovazioni, continuò a studiare durante i ripetuti imbarchi prima su incrociatori e torpediniere e poi sui sommergibili, il suo incarico ideale.
Nel frattempo il 30 settembre 1931 il giovane ufficiale sposava a Firenze la contessa Daria Olsoufieff. Fu un matrimonio felice allietato dalla nascita di quattro figli (Elena Maria, Paolo, Livio e Andrea Sciré) e temprato dalle avversità. Daria rimase, sino alla prematura morte in un incidente stradale nel 1963, al fianco del marito in tutte le sue traversie. Ricordiamo che gli Olsoufieff erano dei “russi bianchi”, zaristi rocciosi e orgogliosamente militaristi e, ovviamente, visceralmente anticomunisti; arrivati in Italia dopo la rivoluzione bolscevica misero salde radici partecipando con convinzione al clima patriottico del tempo. La sorella Olga sposò il marchese fiorentino Giovanni Vanni Corsini e lo seguì in Etiopia nel 1936; al crollo dell’Africa Orientale Italiana assieme al marito animò la resistenza antibritannica e finì internata in un campo di concentramento. A sua volta il fratello Alessio si arruolò volontario nella Regia Marina e nel’41 morì nell’affondamento dell’incrociatore Alberto da Giussano al largo di Capo Bon. Insomma, gente non comune.
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Borghese, i rapporti con la Marina del Sud e la tragedia del confine orientale. Marco Valle il 18 Agosto 2022 su Inside Over.
Nella vulgata postbellica Junio Valerio Borghese è stato spesso dipinto come un impolitico puro o, talvolta, come un pasticcione, un velleitario. A nostro avviso errori di prospettiva. Nei 600 giorni della repubblica mussoliniana il comandante giocò una sua personalissima, spregiudicata quanto raffinata, partita politica. Su più tavoli.
Non a caso il professor Giuseppe Parlato scrive: “La Decima fu una sorta di compagnia di ventura guidata da una personalità tutt’altro che sprovveduta politicamente, che colse come, in quel determinato momento politico, fosse necessario offrire a coloro che non volevano cedere alla resa incondizionata una via d’uscita che non fosse necessariamente politica. Nel senso che, secondo il principe, si poteva essere fedeli all’alleato tedesco senza necessariamente vestire la camicia nera. Fu questa una soluzione di notevole intelligenza, che permise alla Decima di essere presente nella guerra civile, ma in una posizione che sempre richiamava l’obbligo di una testimonianza di coerenza, in ossequio alla parola data e non a condizioni di carattere ideologico. Ciò consentì a Borghese di essere considerato dai nemici come uno dei tramiti privilegiati di contatto” (Fascisti senza Mussolini, Il Mulino 2006).
Dall’estate ’44 – dopo la caduta di Roma, lo sbarco in Normandia, l’attentato a Hitler e lo sfondamento sul fronte russo -, Borghese non ebbe più, semmai le avesse avute, illusioni sull’esito finale del conflitto e iniziò a pensare e lavorare per il “dopo”. Va altresì ricordato che Borghese non era il solo (anzi…) a cercare una via d’uscita dal tunnel della guerra civile: lo stesso Mussolini sperò sino all’ultimo in una soluzione politica appoggiando sia i tentativi dei cosiddetti “pontieri” – Cione, Borsani, Pettinato e altri – per una ipotetica transizione pacifica sia cercando d’interloquire in qualche modo con il campo nemico. Borghese stesso partecipò, il 16 novembre 1944, ad un ancora misterioso incontro sul Lago d’Iseo tra una delegazione del governo della Rsi, accompagnata dal capo delle Ss in Italia, Karl Wolff, e dall’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, con emissari inglesi e americani. L’esito dei colloqui non è noto, ma di certo i due tedeschi, mossi da solidi interessi privati, una volta scaricati gli italiani, continuarono le trattative per proprio conto in Svizzera concludendole a Caserta il 29 aprile 1945 con la resa incondizionata delle forze germaniche in Italia.
In questo complicatissimo frangente, come ricostruito da Fabio Andriola e Franco Bandini nelle loro accurate ricerche, il principe preferì seguire un proprio percorso. Non a torto. Nell’estate del 1944 Raffaele De Courten, ministro della Marina del Sud, inviò il tenente di vascello Giorgio Zanardi presso la Decima con un messaggio segretissimo contenente una duplice valenza anti tedesca e anti jugoslava. Il debolissimo governo regio temeva, in vista dell’imminente crollo dell’Asse, la possibilità di un’ultima vendetta tedesca ai danni del cuore produttivo (o ciò che ne restava…) del triangolo industriale del Settentrione italiano. Bisognava salvare gli impianti e i porti, soprattutto Genova. Rimaneva poi la spinosa questione della Venezia Giulia, ormai inglobata nel Reich germanico e sempre più insidiata dall’avanzata dell’esercito jugo-comunista di Tito. Una minaccia esiziale.
Un passo indietro. Nei mesi precedenti De Courten, d’accordo con Badoglio e poi Bonomi, aveva previsto lo sbarco a Trieste del reggimento “San Marco” e del battaglione “Azzurro” (gli incursori dell’Aviazione) a sostegno dell’intervento dei partigiani italiani anticomunisti. Una mossa che avrebbe posto in sicurezza gran parte dell’Istria e dell’Isontino. Purtroppo, nota Andriola, l’ipotesi cozzava contro più ostacoli: “Come sottolineò la medaglia d’Oro Cigala Fulgosi era necessario che non solo il Comando alleato desse una formale, benché segreta, autorizzazione all’azione ma anche che favorisse il distaccamento degli uomini e dei mezzi necessari. L’operazione infine avrebbe avuto bisogno di una adeguata scorta aerea e di essere sincronizzata con altre operazioni che, da terra, concorressero all’occupazione della Venezia Giulia”. Purtroppo i britannici, grandi sostenitori di Tito e pervicacemente ostili alle rivendicazioni italiane, bocciarono il piano sul nascere e a De Courten non rimase che giocare l’unica carta possibile: per salvare il salvabile bisognava rivolgersi alla Decima a-fascista e al suo eccentrico ma molto patriottico comandante. Da qui la missione al Nord.
Borghese incontrò l’ufficiale e ascoltò con attenzione le sue proposte. Bandini racconta che “Zanardi rimase alquanto stupito quando apprese che queste preoccupazioni ed eventuali iniziative non soltanto non avevano bisogno d’illustrazione, per Borghese, ma si erano tradotte già in fatti concreti”. A Genova la Decima controllava accuratamente i genieri tedeschi ed era pronta ad intervenire per disinnescare eventuali mine, gli impianti della Fiat a Torino, come altre fabbriche del Settentrione, erano presidiati dai marò e il grosso della divisione – circa seimila uomini – era in procinto di spostarsi sul fronte orientale.
Una mossa appoggiata da Mussolini ma assolutamente non gradita dai tedeschi per nulla entusiasti dall'”intrusione” italiana nella Venezia Giulia, per loro ormai solo l’Adriatisches Kustenland, una zona ormai separata militarmente e amministrativamente dalla Rsi e già in procinto, secondo i calcoli del governatore germanico Friedrich Reiner e dei suoi superiori a Berlino, d’essere inglobata nel Reich hitleriano.
Borghese, sempre informando De Courten, dislocò i suoi reparti lungo la frontiera e il 9 dicembre iniziò una accurata ispezione che indispettì terribilmente i nazisti. Riprendendo Andriola: “Il 13 dicembre Reiner ordinò l’arresto del comandante a Fiume. Subito dopo aver passato in rivista la compagnia ‘D’Annunzio’, Borghese fu avvicinato da tre ufficiali della marina tedesca. Il più anziano dei tre, dopo averlo salutato, lo informò di avere l’incarico di arrestarlo. Borghese fece come se non avesse sentito nulla: continuò la sua ispezione e poi tenne un discorso ai soldati. Dopo che Borghese aveva finito di parlare, l’ufficiale tedesco si fece nuovamente avanti ma solo per sentirsi dire che la terra su cui stavano si chiamava ancora Italia, che i suoi marinai erano italiani, che la bandiera che garriva era italiana e che a lui, ufficiale della marina italiana, non importava niente di un ordine che veniva da stranieri sconosciuti. Quelli dissero poche parole quasi a scusarsi, salutarono e fecero dietrofront”.
Malgrado e nonostante le pressioni tedesche i reparti entrarono in linea e a gennaio affrontarono una pesantissima offensiva del IX corpus jugoslavo. Gli strateghi di Tito prevedevano, una volta travolte le difese nella valle del Baccia e sulla selva di Tarnova, una rapida occupazione della valle dell’Isonzo con Gorizia e Monfalcone e poi un’avanzata sino ad Udine e al Tagliamento. Praticamente la conquista di gran parte del Friuli Venezia Giulia. Il peso ricadde quasi interamente sui battaglioni della Decima che per tre notti e tre giorni bloccarono gli jugoslavi sulle montagne sopra Gorizia salvando miracolosamente il fronte. L’ultima vittoria della Divisione. A fine gennaio le autorità militari germaniche chiesero ufficialmente il ritiro della divisione dalla Venezia Giulia e il suo trasferimento oltre il Piave. Borghese, in mancanza di qualsiasi appoggio del governo di Salò, fu costretto ad accettare e dislocò parte delle unità presso Vicenza – pronte ad intervenire ad Est in caso di necessità – mentre un gruppo di combattimento raggiungeva in Romagna il fronte del Senio.
Ma prima di ritirarsi il principe cercò ancora un accordo con i partigiani della brigata “Osoppo”, cardine della resistenza antitedesca e antislava in Carnia, e una delle poche formazioni animata da sentimenti di italianità. Tramite il tenente medico Cino Bocazzi, ufficiale di collegamento del Regio esercito e paracadutato al nord per riorganizzare il locale movimento di resistenza, il comandante del battaglione “Valanga” Manlio Morelli incontrò i capi della “Osoppo” che proposero una soluzione alquanto sorprendente: formare sul confine un reparto misto Decima-osovani contro ogni ingerenza straniera e, nell’avvicinarsi del tracollo tedesco, costruire un fronte comune patriottico.
Purtroppo, come ricorda nelle sue memorie Borghese, “l’accordo con l'”Osoppo” non venne perfezionato per colpa degli inglesi che, da parte loro, paventavano collusioni di carattere patriottico tra italiani, dato che era molto più facile mettere in ginocchio un’Italia divisa che un’Italia unita”.
Il 7 febbraio 1945 un centinaio di militi comunisti italiani e jugoslavi attaccò il comando della “Osoppo”. Un’azione rapida, brutale. Terroristica. I difensori, frastornati, alzarono le braccia e si arresero, ma gli ordini del partito erano chiari: il quartier generale degli “osovani” doveva essere annientato. I sicari assassinarono il comandante Francesco De Gregori – lo zio dell’artista romano -, i suoi luogotenenti – tra cui Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo – e i loro commilitoni. Un massacro. La tragedia del confine orientale entrava nella sua fase più cupa.
Quell'”errore” di Borghese che rischiò di far scoppiare una guerra con il Regno Unito. Marco Valle su Inside Over il 27 giugno 2022.
Nel 1935 l’ambizione mussoliniana “di chiudere i conti” con l’Etiopia e ricavare sul Mar Rosso un piccolo (e poco redditizio) “posto al sole”, assunse l’imprevista dimensione di un affronto intollerabile all’impero britannico. Nonostante i tentativi di mediazione diplomatica e un’iniziale apertura – l’accordo del 7 gennaio 1935 con il ministro francese Pierre Laval, l’incontro di Stresa nell’aprile, le conversazioni tripartite Eden-Laval-Aloisi nell’agosto e la proposta Hoare-Laval nell’autunno – le posizioni si irrigidirono. Allo scatenarsi del conflitto, il 3 ottobre 1935, l’opinione pubblica albionica, sull’onda di una formidabile offensiva mediatica si convinse – dimenticando come il rosa del British Empire colorasse buona parte dei mappamondi – che l’Etiopia, sino ad allora considerata un trascurabile e semi barbarico reame africano, fosse una “causa della democrazia”. Da qui, il 7 ottobre, l’imposizione all’Italia, tramite la Società delle Nazioni, delle “inique sanzioni” commerciali e finanziarie. Sulla carta misure draconiane, nella realtà “l’assedio sanzionista” si dimostrò un vero colabrodo che l’Italia riuscì ad aggirare con facilità anche per la scarsa fede “societaria” e l’avidità di molti Stati firmatari.
Malvolentieri il governo di Stanley Baldwin dovette limitarsi a “gonfiare i muscoli” inviando il 22 agosto la Home fleet prima a Malta e poi ad Alessandria, Haifa e Port Said. Si trattò di una dispendiosa quanto inutile partita a scacchi. Nel gennaio 1936, al culmine della crisi, le forze britanniche nel Mediterraneo ammontavano a 5 navi da battaglia, 2 incrociatori, 2 navi portaerei, 7 incrociatori pesanti e 9 leggeri, 60 cacciatorpediniere e 17 sommergibili, mentre altre unità – un incrociatore pesante e 4 leggeri, 7 cacciatorpediniere e 4 sommergibili – erano dislocati ad Aden e nell’Oceano Indiano.
A fronte del minaccioso dispiegamento albionico la Regia marina, seppur inferiore per navi da battaglia ma con un certo margine di superiorità nel naviglio silurante e nei sommergibili, si preparò al peggio con un piano che prevedeva lo sbarramento del canale di Sicilia, la neutralizzazione di Malta, il blocco dello stretto di Bab el Mandeb sull’Oceano Indiano e un duplice colpo di mano su Suez: uno sbarco a Port Said del reggimento San Marco e, contemporaneamente, un attacco aeronavale su Suez. Fortunatamente la rapida vittoria italiana consentì di archiviare il dossier abissino ma la kriegsspiele navale continuò pericolosamente sino alla caduta di Addis Abeba e la proclamazione dell’impero; nell’aprile ’36, le squadre di Taranto e La Spezia presero il mare per una manifestazione di potenza ma i britannici, per nulla intimoriti, attesero sino al 9 luglio, all’indomani della revoca delle sanzioni, per ritirare la Home fleet dal Mediterraneo.
Intanto grazie a Teseo Tesei e Elios Toschi, giovani ufficiali del Genio navale – erano ripresi anche gli studi sui mezzi insidiosi. A partire dal 1934 i due s’intestardirono – memori dell’incursione della “mignatta” a Pola nel 1918 – a ragionare su un’arma rivoluzionaria: il Siluro a lenta corsa, per gli addetti ai lavori semplicemente il “maiale”.
Nell’estate 1935, con l’approssimarsi della crisi italo-britannica, il progetto di un mezzo subacqueo capace di penetrare furtivamente nelle basi nemiche e affondare le navi alla fonda – uomini contro corazzate: la riedizione nostrana del Davide contro Golia – fu presentato ai vertici dell’Istituzione. Dopo lunghe discussioni e molti dubbi i navarchi romani (assai conservatori) autorizzarono i geniali ingegneri a costruire dei prototipi e addestrare un pugno di operatori. Purtroppo si trattò di una falsa partenza: all’indomani della conclusione del conflitto africano lo Stato Maggiore sospese il programma e smobilitò il gruppo di lavoro di Toschi e Tesei. Un grave errore.
Intanto il 17 luglio 1936 l’esercito spagnolo, appoggiato dai partiti nazionalisti, era insorto contro il governo repubblicano e filo comunista di Madrid. Da subito Mussolini, abbacinato dalla facile vittoria sull’Etiopia, offrì il suo appoggio agli insorti inviando armi, soldati e – con discrezione, visti i segreti compiti – sommergibili. Ai suoi occhi una mossa necessaria per inglobare una Spagna filo fascista nel nuovo ordine mediterraneo a trazione italiana, ridimensionare il parallelo intervento della poco amata Germania hitleriana nell’intricatissimo casino spagnolo e costringere la Gran Bretagna ha riconoscere definitivamente all’Italia l’ambito status di grande potenza. Come è noto, nulla andò come previsto. Ma questa è un’altra storia.
A sua volta Regia Marina vide in quella guerra “piratesca”, tesa a colpire occultamente i rifornimenti marittimi alla repubblica provenienti dall’Unione Sovietica, un’ottima occasione addestrativa e dal novembre 1936 inviò ripetutamente le sue unità, prive di segni di riconoscimento, nelle acque spagnole. Il 24 agosto 1937 fu il turno di Borghese al comando dell’Iride. Arrivato nella zona assegnata, tra Ibiza e Capo Sant’Antonio, il sommergibile attaccò senza successo diversi mercantili “rossi”; la sera del 30 Borghese avvistò una sagoma di una nave da guerra che identificò come un caccia repubblicano della classe Barzcaitegui. Si trattava invece dell’inglese Havok in pattugliamento assieme ad altre quattro unità. Il comandante si portò a 700 metri e ordinò il lancio di un siluro da 450 mm ma la scia fu avvistata in tempo e l’Havock virò, evitandolo di stretta misura. Come racconta il grande storico navale Giorgio Giorgerini nel suo Uomini sul fondo (Mondadori): “L’unità britannica si mise subito in caccia e l’Iride s’immerse rapidamente iniziando una manovra di disimpegno. Alla caccia si erano intanto unite le altre navi che sottoposero l’Iride a ben nove ore di caccia con il lancio di bombe. Comunque Borghese riuscì infine a disimpegnarsi e a portare l’Iride, pur con qualche danno, alla sua base”.
Ne conseguì un incidente internazionale che imbarazzò non poco il governo romano. Al suo ritorno Borghese venne messo ufficiosamente agli arresti e portato a Roma dove, con sua grande sorpresa, fu decorato con la medaglia di bronzo. Cos’era successo? Dopo un’iniziale sfuriata Mussolini aveva compreso che gli inglesi, attenti agli equilibri politici, non intendevano insistere sull’episodio e per di più, molto sportivamente, avevano apprezzato la conduzione dell’attacco. Quindi il combattivo comandante andava lodato e premiato.
Nel frattempo il duce decise di sospendere l’offensiva subacquea e aderì, con notevole faccia tosta, all’accordo multilaterale di Nyon per il controllo e la repressione della pirateria. Una mossa distensiva che però fece infuriare il governo nazionalista e, soprattutto, il generalissimo Franco. Alla fine per salvare capra e cavoli, Mussolini optò per l’ennesimo sotterfugio e cedette quattro sommergibili a Franco. Inalberata la bandiera nazionalista, gli equipaggi italiani vennero incorporati nella Legione straniera spagnola e si diede inizio alle operazioni dei sommergibili “legionari”.
A Borghese fu data così una nuova occasione. Di nuovo al comando dell’Iride, prontamente rinominata Gonzales Lopez, nel settembre 1937 raggiunse la base di Soller presso Palma di Maiorca e riprese la sua caccia (con modesti risultati a causa delle restrittive regole d’ingaggio fissate a Nyon). Ciò nonostante in quei mesi spagnoli il principe fu nuovamente protagonista di un altro giallo internazionale. Il 3 ottobre il cacciatorpediniere inglese Basilisk subì un attacco sottomarino a stento sventato e la stampa internazionale accusò nuovamente l’Italia che smentì vigorosamente. Secondo i rapporti della Marina i mezzi erano in cantiere in patria o all’ormeggio a Soller, dunque…
Resta il fatto che proprio Borghese nel suo libro Los diablos del mar, pubblicato in Spagna nel 1968, rivendicò l’azione aggiungendo di essere stato sottoposto ad una lunga caccia con bombe di profondità, tanto da registrare due morti e quattro feriti tra gli uomini del suo equipaggio. Nonostante le perduranti smentite dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Giorgerini ricorda che: “L’uomo aveva certo delle doti di straordinarietà e anche una predilezione per azioni segrete tacite, silenziose. I documenti d’archivio sono importanti però per quanti eventi non sono mai esistiti, sono stati fatti scomparire, sono stati artefatti, ne sono stati creati dei sostituti, sono stati manomessi?”. L’affare Basilisk rimane così l’ennesimo segreto nell’enigmatica storia del Comandante.
La fine dell’avventura. Il 25 aprile di Junio Valerio Borghese. Marco Valle su Inside Over il 19 luglio 2022.
Primo dicembre 1944. Bellagio. Nella mattinata Filippo Tommaso Marinetti, ormai gravemente malato, ascoltava rapito Amleto Venturi, il suo medico curante. Poco prima il dottore aveva visto nel piazzale della stazione di Como un manipolo di giovanissime reclute della Decima Mas salire cantando su un camion diretto al fronte. Lo spettacolo di spensierata adolescenza e di disarmante coraggio colpì Venturi che si avvicinò ai ragazzi e chiese il perché di un gesto evidentemente disperato. E uno di loro rispose lapidariamente:
Ogni cervello è un mondo
Come a dire: ognuno si regola come crede. La spavalderia della sfida colpì Marinetti. In un attimo colse il significato esplicito di una scelta entusiasta, gratuita, estrema e, per l’ultima volta, il pirotecnico fondatore del Futurismo si sentì poeta. Raggiunta a fatica la scrivania scrisse di getto un breve poema, Quarto d’ora di poesia della X Mas. Frasi rotte, veementi, rapide come singhiozzi, il dissidio fra desiderio di agire e freno dell’intelletto, esuberanza fisica e tatticismo, ripiego. Meglio la resa o il sacrificio? No, per Marinetti i “frenatori dal passo calcolato” meritavano soltanto il disprezzo. Per lui avevano ragione quei giovani ad invocare “avanti autocarri” verso la morte.
Nella notte Filippo venne colto da una devastante crisi cardiaca. Si svegliò con l’affanno: il cuore stava rallentando i suoi battiti. In quell’attimo supremo guardò negli occhi la moglie Benedetta. Poi il gran salto verso il mistero. Nei suoi ultimi versi troviamo un saluto alle giovani reclute: “Non vi grido arrivederci in Paradiso che lassù vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti e perciò avanti autocarri”. Nei mesi seguenti il poeta ritrovò nell’aldi là molti di quei ragazzi. Il Quarto d’ora divenne il loro epitaffio.
Il 9 aprile 1945 scattò l’offensiva alleata. L’atto finale. Una tempesta d’acciaio e fuoco sconvolse il fronte italo-tedesco scardinando la linea Gotica e, caduti tutti i caposaldi, iniziò il ripiegamento verso il Po. L’ultimo reparto a ritirarsi fu il gruppo d’artiglieria “Colleoni” della Decima.
Il giorno prima Borghese aveva incontrato Graziani e Mussolini a cui aveva formalizzato il suo rifiuto al progetto, alquanto fumoso e militarmente errato, del fantasmagorico ridotto in Valtellina e ribadito la sua volontà di concentrare la Decima sul fronte orientale. L’unica carta possibile, nell’attesa delle truppe regie come concordato con il governo del Sud, per salvare la Venezia Giulia. In più, in un lungo colloquio di tre ore il comandante aveva tentato di convincere il duce ad intraprendere un passaggio decisivo: “Gli ripetei che il precipitare della situazione richiedeva tempestive ed energiche decisioni, e cioè la dichiarazione dello stato d’emergenza, il passaggio di tutti i poteri alle Forze Armate, la cessazione di ogni attività politica usando con i tedeschi un linguaggio che non desse luogo ad equivoci. Mussolini concordò su tutto”.
Ma, come è noto, in quei giorni infuocati e confusi, in quelle ore disperate e senza speranza, il capo del fascismo – un uomo rassegnato, stanco ma consapevole del disastro – ondeggiò continuamente tra ipotesi contradditorie e opposte, velleitarie e, infine, tutte mortifere e tragicamente perdenti. I vicoli ciechi che portarono a Dongo.
Nonostante la contrarietà di Alessandro Pavolini e degli ultrà del morente fascismo, l’idea di Borghese di instaurare un governo militare per trattare, da soldati a soldati, con gli anglo-americani la resa della Rsi, “secondo le leggi internazionali e le norme di guerra”, aveva una sua logica e una ratio. Un esercito, per quanto vinto, ancora c’era e, soprattutto, ancora combatteva; una struttura statuale, per quanto scassata, c’era e continuava ad operare. Una transizione più o meno pacifica era forse possibile.
Il tutto, però, presupponeva l’immediata partenza di Mussolini verso la Spagna franchista. Un’opzione ancora possibile – a fine aprile un aereo con insegne croate decollò da Milano verso Barcellona con a bordo la famiglia Petacci – ma il duce rimase irremovibile. Riprendendo le memorie di Borghese: “Era fermamente deciso a non abbandonare il suo posto, convinto che questo fosse il suo ultimo dovere. Di sé, della sua persona, non si preoccupava affatto. Due cose gli stavano a cuore: l’incolumità degli italiani che lo avevano seguito e la salvezza dei documenti che avrebbero fornito l’esatto motivo che lo avevano spinto ad entrare in guerra”. Illusioni.
Il 14 aprile uno sfinito Borghese incontrò l’ambasciatore tedesco Rahn e il generale Ss Wolff. I due, all’insaputa di Berlino, avevano perfezionato in Svizzera con l’Oss, i servizi americani, i termini della resa tedesca di tutto il gruppo armate Sud e si preparavano a levare il disturbo ma temevano la reazione della Decima. Così Franco Bandini ricostruì il colloquio: “La cosa era tanto ‘top secret’ che lo stesso Mussolini non seppe nulla finché la bomba non scoppiò il 25 aprile, mentre egli stava a colloquio con i rappresentanti dl Cln. Ma con il principe Borghese – e il particolare è di rilevantissima nota – Wolff fece uno strappo. Guardandolo fisso, gli disse: ‘Stiamo facendo un tentativo per andarcene. Sparerete su di noi?’. Borghese volle saperne qualcosa di più e Wolff glielo disse, senza reticenze. Poi Junio Valerio chiese con un sorrisetto: ‘E a Mussolini, non direte nulla?’. Wolff fece un gesto di noia: ‘Se glielo dicessimo, lo andrebbe a raccontare subito o a Claretta o a Rachele: e allora, dopo cinque minuti, addio segreto. Non gli diremo nulla'”.
In cambio del silenzio il comandante chiese la rinuncia da parte tedesca al progetto di distruzione dei porti e degli impianti industriali e la consegna della Venezia Giulia e dell’Alto Adige alle autorità militari italiane. Sul primo punto il callido Wolff diede la sua parola d’onore mentre sul secondo glissò.
Borghese aveva ormai le idee chiare. Ordinò subito al comandante Arillo di prendere il controllo del porto di Genova e tenere i mezzi sul Tirreno pronti a salpare per un’ultima missione e intanto diede disposizioni perché l’intera divisione si spostasse verso Trieste dove si sarebbe unita alle forze del Sud. Dal governo regio arrivò, tramite l’ingegnere Giulio Giorgis, un messaggio inequivocabile: “Tenete ancora per poche ore in Venezia Giulia perché arriveranno subito gli italiani da Ancona. Portate un bracciale tricolore per farvi riconoscere”. Troppo tardi, ormai. Le truppe alleate avevano passato il Po e dilagavano nel Veneto impendendo così ogni spostamento alla divisione. I piccoli presidi della Decima a Fiume, Pola, Trieste e nel Quarnaro vennero sopraffatti dall’armata titina e i superstiti massacrati senza pietà. Da Ancona non giunse nessuno.
A Milano intanto si consumava l’ultimo atto della tragedia. Mussolini, furente per la resa tedesca, lasciò la città nella sera del 25 aprile andando incontro al suo destino. Borghese rimase: “Decisi di seguire il mio programma, stabilito per la Decima Mas, lo stesso dell’8 settembre 1943: restare sul posto in difesa dei miei uomini e, con essi, seguendo la loro sorte, cecare di rendermi utile al popolo”.
All’indomani, nonostante l’evaporazione delle milizie fasciste il Comitato di liberazione nazionale scelse una linea attendista. I 700 uomini del presidio milanese di piazza Fiume (oggi piazza della Repubblica) incutevano ancora timore e si preferì trattare direttamente con il comandante. Secondo Bandini fu una decisione saggia: “La Decima sarebbe stata un osso duro da rodere, come dimostrò palesemente il fatto che alle 17 del 26 aprile essa era ancora al gran completo, perfettamente alla mano e potentemente armata”.
Dopo una breve trattativa con il generale Cadorna, comandante del Corpo volontari libertà, si arrivò ad un accordo: “Le armi sarebbero state depositate dagli uomini nell’armeria; ogni uomo, completo del suo corredo, sarebbe stato libero di raggiungere la propria casa; ultimato l‘esodo, la sede con le armi, sarebbe stata consegnata al Cln”.
Nel pomeriggio, riuniti i suoi marò nella caserma, il comandante sotto una pioggia leggera tenne un breve discorso in cui ribadì che la Decima non si arrendeva ma smobilitava, esortando tutti “a custodire e mantenere inalterati i sentimenti che li avevano sorretti in quei venti mesi di lotta disperata”. Dopo l’appello ai caduti Borghese ordinò l’ammainabandiera. Racconta Bruno Spampanato, testimone dell’evento: “Tre squilli di tromba e la bandiera repubblicana da combattimento viene ammainata. L’aquila nera stilizzata sui tre colori chiude le ali nelle pieghe del drappo che scende lentamente”. L’avventura era terminata.
Il processo a Borghese e il Dopoguerra. Marco Valle su Inside Over il 21 luglio 2022.
La sera del 26 aprile 1945 Junio Valerio Borghese, smobilitati gli uomini e concluse le consegne ai rappresentanti del Cln, lasciava per ultimo la sede milanese della Decima. “Mi diressi, tra la gazzarra che imperversava per le strade, a casa di vecchi amici. Non realizzai, in quei momenti, di sfidare la morte; me ne resi conto dall’espressione dei miei ospiti quando mi videro arrivare in divisa”.
I gentili ospiti erano Sandro Faini e Corrado Bonfantini, due capi milanesi del Partito socialista da tempo in contatto con Borghese. Per sicurezza il principe venne trasferito in un appartamento in via Beatrice d’Este ed affidato al tenente Nino Pulejo, responsabile della polizia partigiana che ne ebbe cura. Borghese, infatti, interessava molto Faini e Bonfantini al punto che proposero al loro ingombrante ospite persino di affiancarli nella loro azione politica. Nelle memorie del comandante raccolte da Mario Bordogna leggiamo: “Se avessi aderito mi avrebbero assicurato la salvaguardia personale di tutti i militari della Decima. Infatti, era noti a tutti il mio attaccamento per gli uomini che mi avevano seguito, nonché la forza organizzativa della Decima: una mia presa di posizione a favore del Partito socialista avrebbe convogliato nelle loro fila migliaia di uomini. Quella richiesta, mossa da interessi di partito, dal loro punto di vista era più che giustificata. Ma per la mia innata refrattarietà ad assumere impegni di ordine politico, respinsi le loro offerte”.
Per quanto possa sembrare surreale il tentativo – proprio nei giorni di piazzale Loreto e delle mattanze partigiane – di arruolare Borghese nei ranghi socialisti, resta documentato l’atteggiamento amicale di Faini nei confronti del comandante anche nelle successive traversie. Non a caso il rappresentante socialista sconsigliò vivamente il suo protetto ad incontrare il capitano di fregata Carlo Resio, del Servizio informazioni segrete della Regia Marina, e l’agente americano Jimmy Angleton, dell’Office of Strategic Service (dal 1948 Cia), venuti appositamente a Milano a cercarlo. Riprendendo Borghese: “I due dicevano di essere latori di un messaggio dell’ammiraglio De Courten, ministro della Marina […] Mi dissero, messaggio era solo verbale, che De Courten aveva urgenza di parlarmi di alcune situazioni provocate dalla cessazione delle ostilità. Mi riservai di decidere. Senonché, nella tarda serata dell’11 maggio, i due, assolutamente inattesi, allarmatissimi, si ripresentarono. Dissero che i partigiani, scoperto il mio rifugio, sarebbero sopraggiunti al più presto per catturarmi”.
In più Angleton confidò ad uno frastornato Borghese che anche (ma era vero?) gli inglesi lo cercavano per fucilarlo sommariamente. Insomma, non c’era tempo da perdere. All’alba del giorno dopo il gruppo partì di gran lena per Roma ma, arrivato il 12 maggio nella capitale, non vi era alcun ministro ad attendere. Anzi, De Courten non volle in alcun modo ricevere il comandante e ordinò a Resio di trovare la “soluzione più opportuna per mettere Borghese in condizioni di essere giudicato in tempi di maggiore serenità e obiettività. È così avvenne”.
Il 19 maggio il principe fu consegnato ai militari americani e trasferito in una cella d’isolamento nel Centro sperimentale di Cinematografia a Cinecittà, per l’occasione trasformato in un campo di concentramento. Franco Bandini aggiunge a sua volta un particolare interessante: “Per quanto incredibile oggi possa sembrare, Sandro Faini partì per la capitale, chiese udienza a Maugeri (capo del Sis della Marina) e volle sapere da lui per quale ragione a Borghese era stato giocato ‘un tiro mancino’. Maugeri si rifiutò di spiegare alcunché, e Faini dovette tenersi la sua indignazione e la sua curiosità”. Insomma, anche fuori tempo massimo, il capo socialista cercò d’aiutare il principe mentre la Marina (e gli americani) preferirono chiudere la faccenda “congelando” provvisoriamente l’uomo in un sicuro carcere. Resta il fatto che Borghese fu l’unica figura di rilievo della Rsi ad essere tratta in salvo dagli statunitensi, molto interessati al patrimonio di esperienze belliche non convenzionali della Decima e al suo personale qualificato. E non erano i soli. Secondo Renzo De Felice, “gli americani pensavano di utilizzare i famosi ‘maiali’ per la guerra contro i giapponesi. Gli inglesi fecero di più: una nave (ma forse due) che, a operazioni belliche finite, trasportava dalla Jugoslavia armi per gli ebrei di Palestina, fu fatta saltare dai ‘maiali’ della Decima”. Pagine ancora poco indagate.
Il 6 giugno 1945 Junio Valerio compì trentanove anni e il 19 ricevette la visita di Harold Alexander, comandante in capo del dispositivo militare britannico nel Mediterraneo. Il vecchio maresciallo si sincerò delle condizioni del prigioniero e gli promise, come effettivamente fece, d’informarsi sulla sorte della sua famiglia. Dopo mesi di lunghi interrogatori gli anglo-americani si decisero a rilasciarlo in quanto “non criminale di guerra“. Una brevissima parentesi. Le autorità italiane intervennero e decisero che Borghese doveva essere processato a Milano, una sede giudiziaria, considerato il clima politico, estremamente penalizzante per l’imputato. Per sua fortuna il principe, nel frattempo detenuto a Procida, poteva ancora contare su una rete di amicizie importanti sia in Marina militare che nell’aristocrazia romana e in Vaticano (lo stesso Montini, futuro Paolo VI, scrisse una lettera alle autorità alleate in favore di Borghese) e il 20 maggio 1947 il processo fu spostato nella capitale.
Durante il dibattimento, nonostante i tentativi dell’accusa di ridurre l’attività della Decima repubblicana all’attività anti partigiana sorvolando su tutto il resto, la difesa riuscì a dimostrare sia l’impegno alla salvaguardia degli impianti industriali del Nord e del porto di Genova che i contatti con il governo del Sud per la difesa della Venezia Giulia. Dopo diverse interruzioni il procedimento si concluse finalmente il 17 febbraio 1949.
Come ricorda Borghese: “Riconosciuto ‘non colpevole’ di ‘atti criminosi’ né di ‘rapine’ né di ‘sevizie efferate’ né di ‘stragi’ fui condannato a 12 anni per ‘collaborazionismo col tedesco invasore’. In base al mio passato militare e anche in base all’amnistia Togliatti, allora ministro della Giustizia, lasciai il carcere di Regina Coeli alle ore 19 del 17 febbraio 1949”.
L’avventura militare e giudiziaria del principe si era conclusa ma l’uomo non si rassegnò. Una volta libero, Borghese inviò ai reduci della Decima una lettera di saluto in cui ribadiva che: “Solo col ristabilirsi dei principi morali si può iniziare l’opera di ricostruzione: occorre che cada la menzogna nazionale su cui si regge l’attuale classe governante”. Ma, intanto, il primo pericolo rimaneva: “Il comunismo, l’unico, perenne nemico”. Si apriva così, agli albori della Guerra fredda, un nuovo intricato capitolo della romanzesca vita di Junio Valerio.
Otto settembre 1943. La scelta di Junio Valerio Borghese. Marco Valle su Inside Over il 23 luglio 2022.
L’8 settembre 1943 – il fatidico giorno della “morte della Patria”, riprendendo la fulminante definizione di Ernesto Galli della Loggia – è un dramma italiano tuttora irrisolto. La catastrofe seguita all’armistizio – la repentina liquefazione dello Stato e delle forze armate, l’occupazione straniera a nord e a sud, l’orrore della guerra civile – ha scavato una ferita profonda nella memoria collettiva aprendo una piaga ancora non rimarginata e, forse, non più rimarginabile. Per più motivi.
Come nota proprio Galli Della Loggia, nei decenni, scaricato l’intero peso della disfatta su Benito Mussolini e il defunto regime, si è preferito costruire un’immagine-interpretazione, largamente di comodo, fondata su un’attribuzione monopolistica della titolarità dell’idea di nazione. Insomma, secondo i canoni del manierismo resistenziale una volta eliminato il dittatore restava un immaginario quanto immacolato popolo di puri antifascisti e patrioti, unici rappresentanti della “vera” Italia.
Ovviamente le cose furono molto più complesse e laceranti e sempre meno convince – come si evince dall’attuale dibattito storiografico – l’usurata retorica autoconsolatoria tesa non solo a legittimare i nuovi equilibri politici postbellici ma anche a rimuovere l’evaporarsi dell’idea di nazione (con la conseguente e perdurante crisi dello Stato) e la paurosa debolezza etico-politica dimostrata degli abitanti della Penisola in quello snodo cruciale. L’8 settembre – ha scritto Renzo De Felice analizzando l’amplissima “zona grigia” rimasta inerte dinnanzi allo scontro feroce tra opposte minoranze politiche – “non determinò la crisi italiana, ma evidenziò una crisi morale della stragrande maggioranza degli italiani, già in atto”. Una crisi tutt’oggi non risolta.
La Marina non fece eccezione, sebbene la vulgata ufficiale ha cercato a lungo di sminuire, impiccolire, rimuovere i tormenti che attraversarono l’Istituzione. Non a caso una grande storica come Elena Aga Rossi afferma nel suo saggio Una nazione allo sbando (Il Mulino, 2003): “Si è sempre scritto che la flotta eseguì immediatamente le clausole dell’armistizio, dirigendosi nei porti stabiliti. La realtà è completamente diversa. Come è avvenuto molte volte nel nostro passato recente, la storiografia ha evitato di approfondire le vicende della flotta italiana dopo l’armistizio, avvalorando il mito di una Marina fondamentalmente già antifascista, che quindi avrebbe obbedito compatta all’ordine di recarsi a Malta. Si sono taciuti o minimizzati gli episodi di ‘dissidenza’ o di aperta disobbedienza e i casi di autoaffondamento“.
In più imbarazza grandemente ammettere che in quell’immane sciagura non mancarono marinai che, in assoluta buona fede, scelsero di continuare a combattere sotto le bandiere della crepuscolare Repubblica sociale italiana. Tra tutti Junio Valerio Borghese, il mitico comandante della Decima Mas, il violatore di Gibilterra e Alessandria.
Perché? Perché continuare una guerra ormai perduta a fianco di un alleato per nulla amico se non ostile? Perché un principe imparentato con la nobiltà di mezza Europa e ben distante dai riti popolareschi del regime (la mai richiesta tessera del Pnf gli fu recapitata d’ufficio dopo la medaglia d’Oro) decise di condividere – sempre a suo modo – l’ultima avventura di un Mussolini ormai divenuto il “fantasma del Garda”?
Domande ancora aperte. Di certo, Borghese rimase terribilmente scosso all’annuncio della resa incondizionata. “Io l’8 settembre, al comunicato Badoglio, piansi. Piansi e poi non ho più pianto. Perché quello che c’era da soffrire, lo soffrii allora. Quel giorno io vidi il dramma che si andava ad aprire per questa disgraziata Nazione che non aveva più amici, che non aveva più alleati, non aveva più nessuno, non aveva più l’onore, era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa: non ci si batte solo quando tutto va bene”.
Da queste parole emerge in tutta la sua postura la straordinaria quanto “inattuale” figura di Borghese. Un uomo che si scopre (o si rivela) condottiero di stampo rinascimentale, un Colleoni o un Carmagnola piombato all’improvviso nelle tempeste del Novecento che, indifferente alla politica e ai suoi giochi, decide di “lavare” l’onta dell’8 settembre e salvare l’onore nazionale, poiché “la sconfitta militare incide solo materialmente, ma perdere con il disprezzo dell’alleato tradito e con quello del vincitore a cui si supplica di accordarsi, incide moralmente e le tracce restano per secoli”.
Su queste tormentate coordinate etiche, proprio mentre tutto crollava e tutti scappavano, Borghese e i suoi rimasero ai loro posti e decisero di continuare a combattere. Senza speranza, con tigna, per l’onore.
Concluso un accordo d’alleanza “privato” con il Reich tedesco in cui si riconosceva alla Decima la piena autonomia, archiviati gli attacchi previsti ad ottobre contro Gibilterra e Freetown in Sierra Leone e, soprattutto, a dicembre contro New York (un mini sommergibile sganciato da un’unità più grande doveva risalire l’Hudson e sbarcare un nucleo di “uomini Gamma”), in poche settimane la Decima flottiglia si trasformò da reparto d‘incursori in una forza militare articolata su mare e terra. Una compagine dai tratti garibaldini, volutamente apolitica e ultrà patriottica.
All’appello di Borghese risposero migliaia di volontari (secondo le stime alleate complessivamente 50mila uomini) richiamati dal fascino del comandante e dal suo modo tutto particolare di guerreggiare. Rispetto agli ingessati codici sabaudi, in Decima si respirava tutta un’altra aria: solo volontari, rancio unico per ufficiali, sottufficiali e marò, per tutti l’identico panno della divisa e promozioni soltanto per meriti di guerra. Una vera rivoluzione castrense che affascinò giovani e meno giovani e sgomentò i vertici neofascisti.
Come scrive Franco Bandini: “Questa effettiva indipendenza dette subito ombra ai rissosi atamani che avevano costituito traballanti larve di Uffici e ministeri attorno ad un Mussolini incartapecorito e sfiduciato. E più che l’indipendenza, dette ombra ciò che sotto sotto essi sentivano in Borghese: che non era e non sarebbe mai stato, sotto qualunque firmamento politico ‘dei loro'”.
Da subito i marò iniziarono le critiche verso l’apparato salodiano, in particolare verso il dicastero della Marina affidato nell’ottobre 1943 al capitano di fregata Ferruccio Ferrini. Sfidando ogni censura il giornale della Decima ironizzava sulle «troppe investiture, troppe sedie con troppa gente seduta sopra. Tra ufficiali addetti, capi, sottocapi, vice sottocapi di Gabinetto, direttori di segreteria, segretari particolari, commissari, direttori […] quanta grazia Sant’Antonio, per amministrare una Marina rimasta senza navi”.
Parole e atteggiamenti che stizzirono i notabili della Rsi, sempre più convinti, in buona o cattiva fede, che Borghese stesse progettando un colpo di Stato per “liberare Mussolini dal fascismo” e imbalsamarlo in un mero ruolo onorifico per poi trattare con gli alleati. La crisi si protrasse sino al 13 gennaio 1944 quando Ferrini, d’accordo con il capo della Guardia nazionale repubblicana Renato Ricci e Alessandro Pavolini segretario del Partito fascista repubblicano, fece arrestare Borghese nell’anticamera di Mussolini a Gargnano. L’intento era ridimensionare drasticamente il comandante (se non peggio…) e disperdere il suo “esercito personale”. L’intera faccenda si smontò in pochi giorni: bastò un tintinnio di sciabole dei battaglioni della Decima, pronti a marciare sul Garda per liberar il loro condottiero, per convincere un lunare Mussolini a congedare Ferrini e nominare l’inquisito sottocapo di Stato maggiore.
L’episodio, per quanto risolto, scavò un ulteriore fossato tra i marò e gli uomini di Salò, determinando quella che De Felice considera una “guerra civile fredda dentro la guerra civile calda” costantemente sul punto di degenerare in uno scontro armato. Se ciò non avvenne fu solo per un sottile gioco d’equilibri, poiché “la Rsi era una tale sistema di aggregazioni che togliendo un mattone si rischiava di far venire giù l’intero edificio”.
Borghese e i (tanti) misteri sul golpe dell’Immacolata. Marco Valle su Inside Over il 15 luglio 2022.
Il golpe Borghese rimane tutt’oggi uno dei principali misteri della Prima repubblica. Poco o nulla è stato chiarito nei diversi processi e tanto, anche a sproposito o volutamente, è stato distorto, occultato, ridicolizzato. Rimosso. Secretato. Restano i perché.
Andiamo per ordine. Dopo le rivelazioni di Paese Sera il giudice romano Claudio Vitalone (figura molto vicina a Giulio Andreotti) promosse i primi arresti: il 18 marzo 1972 furono tratti in arresto Sandro Saccucci, Mario Rosa e Remo Orlandini. Il 19 marzo fu spiccato un mandato di arresto nei confronti di Borghese, già rifugiato in Spagna assieme a Stefano Delle Chiaie. Il 25 febbraio 1972 Saccucci e gli altri imputati furono scarcerati e il primo dicembre 1973 anche la posizione di Borghese fu archiviata. Poteva tornare in Italia ma non volle mai farlo. Perché? Altra domanda. In ogni caso tutta l’accusa crollò: la notte dell’Immacolata del 1970 non era successo nulla. O quasi. Perché?
Il 15 settembre 1974 – dopo la strage di Brescia e quella dell’Italicus, due mattanze ancora oscure… – si aprì una nuova pagina. Giulio Andreotti, allora ministro della Difesa, consegnò alla procura di Roma un rapporto del Sid (Servizio informazioni difesa) pervenutogli dal generale Gianadelio Maletti che rivelava notizie scottanti sul golpe. Il capitano Antonio Labruna, a suo dire sotto mentite spoglie, aveva registrato le dichiarazioni di alcuni personaggi coinvolti nel fallito colpo di Stato. In particolare, Remo Orlandini – uno degli uomini più vicini al principe – sosteneva che il generale Miceli, al tempo capo dei servizi segreti militari e figura molto vicina ad Aldo Moro, aveva incontrato Borghese concordando sul piano eversivo. Quindi Miceli sapeva ed era, verosimilmente, complice. Andreotti lo scaricò subito e lo sostituì, senza motivazioni specifiche, con l’ammiraglio Casardi, un suo fedelissimo.
Il dossier fece riaprire le indagini e il 10 ottobre 1974 vennero spiccati ventitré ordini di arresto, coinvolgendo Saccucci e camerati assortiti più il già intoccabile Miceli. Il generale tacque ostinatamente, negò ogni accusa e, dopo un breve soggiorno in cella, fu liberato e ricompensato per con un seggio in Parlamento nelle liste del Msi-Dn. Almirante ospitò gentilmente il taciturno generale per tre legislature. Perché?
Intanto il 5 novembre 1975 venivano rinviati a giudizio 78 persone. Il processo iniziò il 30 maggio. Gli imputati dovettero rispondere dei crimini di insurrezione armata, cospirazione politica mediante associazione, tentativo di sequestro di persona, furto, detenzione e porto abusivo di armi ed esplosivi. La sentenza di primo grado, formulata il 14 luglio 1978, assolse trenta dei settantotto imputati e per i restanti quarantotto caddero le accuse più gravi. Il processo si concluse il 29 novembre 1984 quando la Corte d’Assise assolse con formula piena i 46 imputati di cospirazione. La Cassazione confermò tutto il 24 marzo 1986 riducendo il tentativo di golpe ad un “conciliabolo” di vecchi nostalgici nello stile del godibilissimo film di Monicelli “Vogliamo i colonelli”, con i burattini manipolati e sconfitti dai burattinai.
In realtà le indagini avevano evidenziato, oltre ad una feroce guerra intestina ai servizi segreti italiani (la cordata Maletti contro la cordata Miceli) e la stramba “confusione“ del potere politico, la presenza di parte della massoneria e, soprattutto, l’iniziale connivenza di settori militari importanti. Ma in quella notte fatidica, almeno secondo Delle Chiaie, i generali che dovevano far scattare dal ministero della Difesa il “piano d’emergenza” per mobilitare i comandi periferici e dare inizio al controllo del territorio nazionale, prudentemente si dileguarono: “Per gestire il ‘piano d’emergenza’ fu designato il generale Duilio Fanali, nominato capo di stato maggiore dell’Aeronautica nel febbraio 1968. Il cuore dell’operazione era in quel piano e la riuscita era subordinata a quell’ordine. Ma Fanali non andò al ministero né vi era possibilità, in quel momento, di sostituirlo. Vari e vani furono i tentativi di rintracciarlo e la sua defezione inceppò il meccanismo rendendo impossibile il proseguimento” (L’aquila e il condor, Sperling & Kupfer). Ancora una volta perché?
Dunque, per il capo di Avanguardia Nazionale un tentativo serio ci fu e poteva riuscire. Chissà. Resta la domanda – ennesimo perché – sugli scenari che il putsch avrebbe aperto. È difficile immaginare che, sebbene supportati da parte delle forze armate, Borghese e i suoi sarebbero stati in grado di gestire una situazione così complicata ed evitare, considerata la robustezza della sinistra italiana e gli incerti equilibri internazionali, una lacerante guerra civile o qualcosa tragicamente simile. Non lo sapremo mai.
Di certo, dal suo rifugio spagnolo, il principe si preoccupò assai delle altre opache ipotesi para golpiste che iniziarono da subito a circolare in Italia (il “golpe bianco” di Edgardo Sogno o la “Rosa dei Venti” di Amos Spiazzi) e, ancor di più, delle trame stragiste; alla fine del 1973, convocò a Madrid i quadri superstiti del Fronte Nazionale e, come afferma Delle Chiaie nel suo libro, “spiegò che l’idea del colpo di Stato era da abbandonare definitivamente e negò seccamente l’autorizzazione a usare il nome del Fronte”.
Come sopra accennato, nonostante la revoca del mandato di cattura, Borghese non tornò più in Patria. Nell’aprile del 1974 si recò con Delle Chiaie in Cile, dove fu ricevuto con tutti gli onori dal generale Augusto Pinochet (un golpista vincente…) che assicurò, almeno sembra, aiuti finanziari agli esuli italiani. L’ultimo atto. Rientrato in Spagna il 26 agosto il comandante moriva a Cadice. Aveva sessantotto anni.
Ma il sipario rimase (e a ben vedere tutt’oggi rimane) alzato. Al di là dei tanti segreti e delle molte ombre che tutt’oggi permangono sull’intera vicenda e le sue tante diramazioni nazionali e internazionali, rimane aperta e oscura anche la modalità della morte del protagonista. Vi è chi, come il generale Ambrogio Viviani (ex Sid), ha sostenuto che il comandante sia morto due giorni prima, spirando tra le braccia di focosa signora romana mandata dai servizi, e chi sospetta, come Virgilio Ilari, che “morì in circostanze che fecero sospettare un avvelenamento”. Di sicuro non vi è nulla di certo, salvo che per molti, a partire da Andreotti, la scomparsa di Borghese fu di certo un sollievo…
Ma la nostra storia non è ancora finita. Persino l’ultimo viaggio del principe fu tempestoso. Il ministero degli Esteri pretese che la bara fosse racchiusa in un contenitore ligneo chiuso, una vera e propria cassa d’imballaggio per celare l’ingombrante feretro. Il feretro fu scaricato su una pista secondaria dell’aeroporto di Fiumicino e fatto uscire all’alba su un furgone anonimo diretto verso Roma.
A sua volta il ministro dell’Interno Rumor proibì il servizio funebre “a fusto di cannone”, come d’obbligo per tutte le medaglie d’Oro. Poiché la cerimonia era prevista il 2 settembre nella cappella di famiglia della basilica di Santa Maria Maggiore (territorio del Vaticano) la curia, d’accordo con il Viminale, decise di ridurre la funzione religiosa ai minimi termini. Le autorità però non avevano fatto i conti con l’enorme folla che, indifferente al minaccioso schieramento di forze dell’ordine, gremiva da ore la piazza. E successe l’inimmaginabile. Alla conclusione della frettolosa benedizione, un gruppo di giovani rapì la bara e la riportò all’esterno obbligando le spaventate guardie papaline ad aprire il portone centrale della basilica. In un tripudio di grida e saluti romani la salma rientrò nella chiesa attraverso il varco, da secoli riservato solo ai Papi e ai sovrani, e fu deposta davanti all’altar maggiore dove il comandante ricevette il saluto commosso della sua gente, dei suoi marò.
Il giorno dopo sul Tempo uscì il necrologio di Livio Giuseppe e Andrea Sciré Borghese: “Giunga un ringraziamento particolare ai giovani che con la loro coraggiosa indisciplina hanno inteso condannare l’ingiustizia e la codardia di alcuni e hanno dimostrato la gratitudine del popolo italiano verso chi si è sempre battuto per l’onore d’Italia”. Il resto è silenzio.
“Salvate il porto di Genova”. Borghese e la missione “Onore”. Marco Valle su Inside Over il 17 luglio 2022.
Negli ultimi concitati giorni della Repubblica sociale, Junio Valerio Borghese rimase in continuo contatto con Mario Arillo, comandante della Decima nell’Alto Tirreno. Nonostante le rassicurazioni dei vertici germanici, l’ambasciatore Rahn e il generale Wolff, il diffidente principe rimaneva preoccupato per la sorte del porto di Genova: i tedeschi avevano posizionato lungo l’intero bacino 80 mine di enorme potenza pronte a brillare al momento della ritirata.
Da giorni Arillo aveva concentrato in città i guastatori-sabotatori del battaglione “Vega” e gli uomini “Gamma” incaricandoli di mappare gli ordigni, disinnescare le mine subacquee e rendere inoffensivi i circuiti elettrici di collegamento. Al tempo stesso, su preciso mandato di Borghese, Arillo prese contatti, tramite il vescovo Giuseppe Siri, con il Comitato di liberazione nazionale e si accordò con la formazione partigiana “Giustizia e Libertà” per un’azione congiunta in caso di pericolo.
Nella notte del 24 aprile iniziò l’insurrezione, Arillo mobilitò i suoi uomini e la mattina, tra gli applausi dei cittadini, si diresse verso il porto dove restavano asserragliati ancora 2500 soldati tedeschi molto minacciosi. Accanto agli uomini della Decima si affiancarono i partigiani di Giustizia e libertà e tutti assieme si diressero contro lo sbarramento nazista. Nella sua testimonianza Arillo ricordava così gli eventi: “Telefonai a Paolo Emilio Taviani (allora alto esponente del Cln e nel dopoguerra più volte ministro della Dc) e costui, per tutta risposta, mi ingiunse di arrendermi ai partigiani. Gli risposi che era impossibile, proprio in quel momento, perché mi stavo adoperando in stretto rapporto con i partigiani per salvare il porto. Come soldato devo dare atto che i partigiani di Giustizia e Libertà attaccarono con vigore straordinario i tedeschi. […] Con gli uomini schierati in pieno assetto di guerra e con le armi puntate, dichiarai francamente al comandante tedesco che, se avesse tentato di distruggere il porto, avrei ordinato di aprire il fuoco. Soltanto allora i tedeschi cedettero, si arresero e consegnarono le armi”.
Ottenuta la resa e messo in sicurezza il bacino portuale, i partigiani si schierarono e, con gran rabbia del livoroso Taviani, presentarono le armi ai marò della Decima. Arillo, avvolta la bandiera della Rsi attorno a un mitra, la lanciò in mare. La guerra era finita e Genova era salva.
Borghese però aveva dato ancora un altro ordine al coraggioso Arillo. La Decima, nata sul mare doveva chiudere la sua vicenda tra le onde. Con un’ultima operazione – magnificamente disperata e inutile – contro il nemico. La missione “Onore”, una Balaklava mediterranea e tutta italiana.
Alle 19.30 del 23 aprile il comandante Arillo raggiunse la base di San Remo dove tenne un rapporto agli equipaggi. Tutti i mezzi d‘assalto ancora disponibili – in tutto una trentina tra Mas e i motoscafi Sma e Mtm, poca roba ma ancora roba seria, con gente molto seria – dovevano uscire in mare per un attacco ai porti della Corsica e contro il naviglio nemico a Nizza, Antibes, Saint Tropez e Cannes. L’azione prevedeva il non ritorno, l’autoaffondamento o la distruzione delle unità contro i possibili obiettivi. Come riporta Sergio Nesi nel suo Decima flottiglia nostra (Mursia), “Lo scopo era concludere, in modo coraggioso ed esemplare, una guerra ormai definitivamente e irrimediabilmente perduta, lanciando contro il nemico tutto ciò che era possibile reperire come potenziale offensivo. […] Tutti i piloti volevano partecipare alla spedizione per cui fu giocoforza estrarli a sorte”.
Alle otto di sera del 23 aprile i mezzi salparono per portarsi nelle zone assegnate. Fu un massacro. Dalle relazioni operative della marina americana ritrovate dal Nesi si legge: “Il 24 aprile i battelli d’assalto italiani unitamente ai Mas compirono un’operazione d’assalto con la tecnica ‘kamikaze’ attaccando su tre direzioni le forze alleate. L’attacco, che si manifestò in forma irruente e spregiudicata, venne portato con determinazione dai giovani piloti italiani, ma venne stroncato dalla potenza alleata che intervenne con navi ed aerei ancor prima che otto battelli giungessero a contatto. Gli altri mezzi attaccarono ciò che si presentò loro ma vennero distrutti”.
Solo pochi, pochissimi superstiti vennero recuperati dagli alleati. Militarmente fu un’operazione suicida e, vista l’enorme disparità di forze, un fallimento. Ma, piaccia o meno, la missione “Onore” rimane una bella, quanto dimenticata, pagina di coraggio italiano. Speriamo che, finalmente, dopo tanti anni la nostra Marina Militare, un’Istituzione valida e coesa, se ne ricordi e dia a quei marinai – ancor oggi figli di un Dio minore? – il gusto riconoscimento. Lo meritano.
Pochi giorni prima, il 16 aprile per essere esatti, la Decima aveva colto la sua ultima vittoria. Ancora una volta un uomo solo contro una nave. Il marchio di fabbrica degli uomini di Tesei e Borghese. È la storia del sottocapo Sergio Denti. Nella notte, lo Sma 312 e sei Mtm erano di pattuglia nelle acque di Ventimiglia quando nell’oscurità si stagliarono le sagome scure di quattro navi. Denti lanciò il suo barchino a tutta velocità verso l’unità più grande. A 150 metri l’assaltatore riuscì a saltare e afferrare lo zatterino. Pochi secondi dopo l’Mtm colpiva in pieno il caccia francese “Trombe”. Perforata da parte a parte l’unità riuscì faticosamente a raggiungere Tolone dove fu disarmata e, qualche tempo dopo, demolita. Denti, quasi in fin di vita, fu recuperato esanime da un’altra nave francese e tratto prigioniero. È morto a Firenze il 10 febbraio 2018, aveva 93 anni. MARCO VALLE
La fine dell’avventura. Il 25 aprile di Junio Valerio Borghese. Marco Valle su Inside Over il 19 luglio 2022.
Primo dicembre 1944. Bellagio. Nella mattinata Filippo Tommaso Marinetti, ormai gravemente malato, ascoltava rapito Amleto Venturi, il suo medico curante. Poco prima il dottore aveva visto nel piazzale della stazione di Como un manipolo di giovanissime reclute della Decima Mas salire cantando su un camion diretto al fronte. Lo spettacolo di spensierata adolescenza e di disarmante coraggio colpì Venturi che si avvicinò ai ragazzi e chiese il perché di un gesto evidentemente disperato. E uno di loro rispose lapidariamente:
Ogni cervello è un mondo
Come a dire: ognuno si regola come crede. La spavalderia della sfida colpì Marinetti. In un attimo colse il significato esplicito di una scelta entusiasta, gratuita, estrema e, per l’ultima volta, il pirotecnico fondatore del Futurismo si sentì poeta. Raggiunta a fatica la scrivania scrisse di getto un breve poema, Quarto d’ora di poesia della X Mas. Frasi rotte, veementi, rapide come singhiozzi, il dissidio fra desiderio di agire e freno dell’intelletto, esuberanza fisica e tatticismo, ripiego. Meglio la resa o il sacrificio? No, per Marinetti i “frenatori dal passo calcolato” meritavano soltanto il disprezzo. Per lui avevano ragione quei giovani ad invocare “avanti autocarri” verso la morte.
Nella notte Filippo venne colto da una devastante crisi cardiaca. Si svegliò con l’affanno: il cuore stava rallentando i suoi battiti. In quell’attimo supremo guardò negli occhi la moglie Benedetta. Poi il gran salto verso il mistero. Nei suoi ultimi versi troviamo un saluto alle giovani reclute: “Non vi grido arrivederci in Paradiso che lassù vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti e perciò avanti autocarri”. Nei mesi seguenti il poeta ritrovò nell’aldi là molti di quei ragazzi. Il Quarto d’ora divenne il loro epitaffio.
Il 9 aprile 1945 scattò l’offensiva alleata. L’atto finale. Una tempesta d’acciaio e fuoco sconvolse il fronte italo-tedesco scardinando la linea Gotica e, caduti tutti i caposaldi, iniziò il ripiegamento verso il Po. L’ultimo reparto a ritirarsi fu il gruppo d’artiglieria “Colleoni” della Decima.
Il giorno prima Borghese aveva incontrato Graziani e Mussolini a cui aveva formalizzato il suo rifiuto al progetto, alquanto fumoso e militarmente errato, del fantasmagorico ridotto in Valtellina e ribadito la sua volontà di concentrare la Decima sul fronte orientale. L’unica carta possibile, nell’attesa delle truppe regie come concordato con il governo del Sud, per salvare la Venezia Giulia. In più, in un lungo colloquio di tre ore il comandante aveva tentato di convincere il duce ad intraprendere un passaggio decisivo: “Gli ripetei che il precipitare della situazione richiedeva tempestive ed energiche decisioni, e cioè la dichiarazione dello stato d’emergenza, il passaggio di tutti i poteri alle Forze Armate, la cessazione di ogni attività politica usando con i tedeschi un linguaggio che non desse luogo ad equivoci. Mussolini concordò su tutto”.
Ma, come è noto, in quei giorni infuocati e confusi, in quelle ore disperate e senza speranza, il capo del fascismo – un uomo rassegnato, stanco ma consapevole del disastro – ondeggiò continuamente tra ipotesi contradditorie e opposte, velleitarie e, infine, tutte mortifere e tragicamente perdenti. I vicoli ciechi che portarono a Dongo.
Nonostante la contrarietà di Alessandro Pavolini e degli ultrà del morente fascismo, l’idea di Borghese di instaurare un governo militare per trattare, da soldati a soldati, con gli anglo-americani la resa della Rsi, “secondo le leggi internazionali e le norme di guerra”, aveva una sua logica e una ratio. Un esercito, per quanto vinto, ancora c’era e, soprattutto, ancora combatteva; una struttura statuale, per quanto scassata, c’era e continuava ad operare. Una transizione più o meno pacifica era forse possibile.
Il tutto, però, presupponeva l’immediata partenza di Mussolini verso la Spagna franchista. Un’opzione ancora possibile – a fine aprile un aereo con insegne croate decollò da Milano verso Barcellona con a bordo la famiglia Petacci – ma il duce rimase irremovibile. Riprendendo le memorie di Borghese: “Era fermamente deciso a non abbandonare il suo posto, convinto che questo fosse il suo ultimo dovere. Di sé, della sua persona, non si preoccupava affatto. Due cose gli stavano a cuore: l’incolumità degli italiani che lo avevano seguito e la salvezza dei documenti che avrebbero fornito l’esatto motivo che lo avevano spinto ad entrare in guerra”. Illusioni.
Il 14 aprile uno sfinito Borghese incontrò l’ambasciatore tedesco Rahn e il generale Ss Wolff. I due, all’insaputa di Berlino, avevano perfezionato in Svizzera con l’Oss, i servizi americani, i termini della resa tedesca di tutto il gruppo armate Sud e si preparavano a levare il disturbo ma temevano la reazione della Decima. Così Franco Bandini ricostruì il colloquio: “La cosa era tanto ‘top secret’ che lo stesso Mussolini non seppe nulla finché la bomba non scoppiò il 25 aprile, mentre egli stava a colloquio con i rappresentanti dl Cln. Ma con il principe Borghese – e il particolare è di rilevantissima nota – Wolff fece uno strappo. Guardandolo fisso, gli disse: ‘Stiamo facendo un tentativo per andarcene. Sparerete su di noi?’. Borghese volle saperne qualcosa di più e Wolff glielo disse, senza reticenze. Poi Junio Valerio chiese con un sorrisetto: ‘E a Mussolini, non direte nulla?’. Wolff fece un gesto di noia: ‘Se glielo dicessimo, lo andrebbe a raccontare subito o a Claretta o a Rachele: e allora, dopo cinque minuti, addio segreto. Non gli diremo nulla'”.
In cambio del silenzio il comandante chiese la rinuncia da parte tedesca al progetto di distruzione dei porti e degli impianti industriali e la consegna della Venezia Giulia e dell’Alto Adige alle autorità militari italiane. Sul primo punto il callido Wolff diede la sua parola d’onore mentre sul secondo glissò.
Borghese aveva ormai le idee chiare. Ordinò subito al comandante Arillo di prendere il controllo del porto di Genova e tenere i mezzi sul Tirreno pronti a salpare per un’ultima missione e intanto diede disposizioni perché l’intera divisione si spostasse verso Trieste dove si sarebbe unita alle forze del Sud. Dal governo regio arrivò, tramite l’ingegnere Giulio Giorgis, un messaggio inequivocabile: “Tenete ancora per poche ore in Venezia Giulia perché arriveranno subito gli italiani da Ancona. Portate un bracciale tricolore per farvi riconoscere”. Troppo tardi, ormai. Le truppe alleate avevano passato il Po e dilagavano nel Veneto impendendo così ogni spostamento alla divisione. I piccoli presidi della Decima a Fiume, Pola, Trieste e nel Quarnaro vennero sopraffatti dall’armata titina e i superstiti massacrati senza pietà. Da Ancona non giunse nessuno.
A Milano intanto si consumava l’ultimo atto della tragedia. Mussolini, furente per la resa tedesca, lasciò la città nella sera del 25 aprile andando incontro al suo destino. Borghese rimase: “Decisi di seguire il mio programma, stabilito per la Decima Mas, lo stesso dell’8 settembre 1943: restare sul posto in difesa dei miei uomini e, con essi, seguendo la loro sorte, cecare di rendermi utile al popolo”.
All’indomani, nonostante l’evaporazione delle milizie fasciste il Comitato di liberazione nazionale scelse una linea attendista. I 700 uomini del presidio milanese di piazza Fiume (oggi piazza della Repubblica) incutevano ancora timore e si preferì trattare direttamente con il comandante. Secondo Bandini fu una decisione saggia: “La Decima sarebbe stata un osso duro da rodere, come dimostrò palesemente il fatto che alle 17 del 26 aprile essa era ancora al gran completo, perfettamente alla mano e potentemente armata”.
Dopo una breve trattativa con il generale Cadorna, comandante del Corpo volontari libertà, si arrivò ad un accordo: “Le armi sarebbero state depositate dagli uomini nell’armeria; ogni uomo, completo del suo corredo, sarebbe stato libero di raggiungere la propria casa; ultimato l‘esodo, la sede con le armi, sarebbe stata consegnata al Cln”.
Nel pomeriggio, riuniti i suoi marò nella caserma, il comandante sotto una pioggia leggera tenne un breve discorso in cui ribadì che la Decima non si arrendeva ma smobilitava, esortando tutti “a custodire e mantenere inalterati i sentimenti che li avevano sorretti in quei venti mesi di lotta disperata”. Dopo l’appello ai caduti Borghese ordinò l’ammainabandiera. Racconta Bruno Spampanato, testimone dell’evento: “Tre squilli di tromba e la bandiera repubblicana da combattimento viene ammainata. L’aquila nera stilizzata sui tre colori chiude le ali nelle pieghe del drappo che scende lentamente”. L’avventura era terminata.
· Il retroscena di un delitto. La pista della ‘Ndrangheta.
Anticipazione da Tpi – tpi.it il 5 maggio 2022.
“Fui il primo a ritrovare il corpo di Aldo Moro il 9 maggio 1978. Erano circa le 13.20, mi trovavo a piazza Ippolito Nievo, lungo viale Trastevere. Ricevetti una telefonata del colonnello Gerardo Di Donno, che dalla centrale operativa dei Carabinieri mi diceva di portarmi in via Caetani. Pochi minuti prima aveva ricevuto dalla Questura la segnalazione di una macchina sospetta.
Mi indicò anche una parte della targa: Roma N5. Impiegai sei o sette minuti ad arrivare in via Caetani. Aprii il bagagliaio della Renault con un piede di porco che aveva con me, e mi trovai davanti a una coperta, in cui era avvolto il corpo del presidente della Dc. Durante i giorni del sequestro Moro mi rivolsi a un latitante di ’ndrangheta. Contattai Antonio Varone, detto Rocco, per avere informazioni. Il suo capo era il fratello, Salvatore Varone. Rocco Varone mise come condizione quella di avere il benestare della mafia.
Si recò da Frank Coppola, che stava a Pomezia. Appena entrò quello gli disse: ti daremo anche dei soldi, ma tu non ti devi interessare. Gli amici suoi non vogliono che torni vivo. Per quanto riguarda il ruolo della Cia, ho sempre precisato, almeno per quello che ho potuto, in virtù del lavoro fatto, che sia l’URSS sia gli americani volevano che Moro fosse eliminato, ma non fisicamente, dal punto di vista politico. Sul caso Moro aveva ragione Italo Calvino, che già a maggio ’78 sul Corriere della Sera scrisse che la verità non sarebbe mai venuta a galla. A mio avviso tutte le istituzioni più interessate sapevano dove si trovasse. Non l’hanno voluto liberare”
Così Antonio Cornacchia, ex generale dell'Arma dei Carabinieri e all’epoca del rapimento di Aldo Moro comandante del Reparto operativo di Roma dei Carabinieri, in un’anteprima dell’intervista al prossimo numero del settimanale Tpi in edicola da domani, venerdì 5 maggio che conterrà una inchiesta sul coinvolgimento di ’ndrangheta e Cia nel caso Moro
Anticipazione da Tpi – tpi.it il 5 maggio 2022.
“La nostra relazione non rappresenta l’unica verità, o tutta la verità sul caso Moro. Contiene tutte le verità che è stato possibile riscontrare in modo storicamente e documentalmente certo. La nostra indagine ha prodotto moltissimi elementi nuovi, anche di dubbio, che abbiamo scoperto durante le indagini. In alcuni casi elementi clamorosi e novità venute alla luce non hanno trovato i necessari riscontri.
Tutte e tre le principali versioni fornite dalle Br – Morucci, Gallinari, la Braghetti – sono false. Abbiamo stabilito una dinamica più precisa di quella esecuzione. Non un colpo di grazia, al contrario: colpi al cuore e al corpo, sparati con perizia proprio perché non morisse. Moro è morto dissanguato dopo un’agonia. Volevano che soffrisse. Abbiamo lavorato nel segno della trasparenza, desecretando tutti i documenti. Ci sono ancora migliaia di pagine non accessibili? Solo quelle su persone ancora implicate in procedimenti aperti o quelle per cui i titolari dei documenti (pubblici o privati) hanno richiesto il segreto, come è per legge loro diritto.
Poco prima del 9 maggio, era vicina la liberazione di una brigatista. C’erano due canali. Un imprenditore israeliano aveva messo a disposizione 10 miliardi per pagare il sequestro, tramite il Vaticano. Ci sono dei riscontri anche nei diari di Andreotti. Il canale del Papa contava però anche sui cappellani carcerari. L’altro canale era di sinistra. Si era aperto a Milano, intorno alla Libreria Calusca. A Roma intanto il deputato socialista Signorile parlava con Pace e Piperno, Faranda e Morucci.
Si individuò una possibile pedina di scambio: una brigatista malata di tumore, Paola Besuschio. Era possibile graziarla. Era già tutto pronto. Signorile ci ha detto che lui e Cossiga aspettavano notizie positive. Ma questo accadeva proprio la mattina del 9 maggio! Le Br uccidono Moro proprio quel giorno, guarda caso.
C’è stato un tamponamento della verità. Persone di cui era stata accertata la presenza sulla scena del crimine a via Fani sono dovute sparire. Magari perché non si poteva spiegarne la presenza. Oppure perché non si era in grado di farlo. Quando è stato chiaro che non si poteva nascondere tutto, è passata la linea di affollare la scena del crimine di via Fani di tutto e di più. Per rendere impossibile per chiunque ricostruire una verità compiuta.
A uccidere Moro sono state le Br, su questo non c’è dubbio. Ma il reato che uccide davvero Moro è anche l’omissione. Tutti quelli che potevano sapere fanno finta di non sapere. E chi sapeva qualcosa non ha detto nulla. Moro era pericoloso per l’ordine di Yalta: aveva come nemici tutti i Servizi che difendevano l’equilibrio della guerra fredda. Questi attori hanno favorito chi voleva ucciderlo”.
Così Giuseppe Fioroni, Presidente della commissione parlamentare sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, commenta le risultanze della relazione finale in un’anticipazione dell’intervista al prossimo numero del settimanale Tpi in edicola da domani, venerdì 5 maggio che conterrà una inchiesta sul coinvolgimento di ’ndrangheta e Cia nel caso Moro
· Il retroscena di un delitto. La pista palestinese.
Lodo Moro, lodo Brandt, lodo viennese: atti di resa. Così l’Olp conquistò l’establishment europeo, i nuovi documenti. Giordana Terracina su Il Riformista il 2 Giugno 2022.
La genesi di quello che si definisce “Lodo Moro” è complessa. L’accordo tra Italia e organizzazioni palestinesi ha radici internazionali e sino a un certo momento non differisce da quelli che avevano sottoscritto anche molti altri Paesi europei. A partire dalla Germania che del “lodo” è stata incubatrice. Il 15 dicembre 1972, dal Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale degli Affari Politici, Uff. XIII – Onu, viene inviato un telespresso ad alcune rappresentanze italiane, di cui vengono omessi gli indirizzi, contenente gli estremi di un accordo siglato tra il Governo della R.F.T. e i guerriglieri palestinesi.
Lo scambio prevede il versamento di due milioni di sterline in cambio dell’impegno arabo a non compiere ulteriori attentati ai danni della compagnia aerea Lufthansa, parte anch’essa dell’accordo. In un articolo dal titolo “Viaggio alle origini della strage di Bologna. Non solo Moro: i lodi europei per salvarsi dal terrorismo palestinese”, scritto con Gabriele Paradisi e pubblicato su Reggio Report, abbiamo accennato all’avvio di trattative tra il cancelliere Willy Brandt, in accordo con il ministro degli Esteri Walter Scheel, e i terroristi, dopo il dirottamento di un areo della compagna tedesca, per chiedere il rilascio dei tre palestinesi sopravvissuti al massacro di Monaco di Baviera, attuato durante le Olimpiadi nel settembre del 72 e che era costato la vita a undici atleti israeliani, a un poliziotto tedesco e a cinque terroristi.
L’elargizione dei fondi sarebbe servita alle organizzazioni palestinesi per rinforzare le loro basi in Europa con l’arrivo di nuovi guerriglieri, ad ampliare mediante propaganda l’area dei simpatizzanti in Occidente, e infine ad acquistare materiale bellico, di provenienza principalmente cecoslovacca, mediante emissari francesi e americani di origine araba. Continuando nella lettura del documento, emerge come il passaggio dei nuovi affiliati sarebbe venuto attraverso l’Italia, mediante il rilascio di regolari borse di studio presso le diverse università, e che gli stessi “studenti” sarebbero stati muniti di passaporti algerini, libici e di altri paesi arabi.
Un altro accordo, sarebbe stato stretto più avanti nel tempo, nel gennaio 1986, tra il Governo austriaco e il gruppo terroristico di Abu Nidal, per trattare ancora una volta la liberazione di alcuni guerriglieri detenuti nelle carceri austriache, tra i quali uno dei terroristi coinvolto nell’attentato alla Sinagoga di Vienna e nell’uccisone di un Consigliere Comunale viennese. I contatti, in quel caso, erano stati avviati nell’Ambasciata di Damasco. Rapportando i due accordi, quello del 1972 e quello del 1986, emerge in entrambi come fondamentale la liberazione di detenuti palestinesi in carcere nei diversi Paesi. Lo spazio di queste trattative era dunque internazionale e non solo italiano, riguardava la politica estera legata alla sicurezza dei vari Stati coinvolti, non solo quella interna…
Ciò dimostra l’esistenza di diversi livelli di impegno tra gli Stati e le organizzazioni terroristiche, che andavano dagli accordi tra agenti e guerriglieri, per salire poi a un livello istituzionale e in sede Onu, come è riportato anche nel nome dell’Ufficio competente nel 1972.
Questa politica, il cui raggio era ben più vasto del semplice tentativo di evitare attentati nei propri Paesi, si afferma nella Dichiarazione Congiunta del 6 novembre e nel vertice di Copenaghen del 14 dicembre 1973, considerate dall’Italia il primo passaggio in vista di uno sviluppo potenzialmente ricco di possibilità su nodi vitali come la questione del petrolio e la cooperazione per uno sviluppo economico industriale dei Paesi arabi. In questo quadro, proprio l’Italia si impone come Paese guida e “avviatore” del processo di avvicinamento dell’Europa agli Stati arabi. E’ proprio questa scelta strategica che porterà alla liberazione dei cinque terroristi palestinesi, dopo l’attentato all’aeroporto di Fiumicino il 17 dicembre 1973.
Dalla trascrizione di nastro magnetico del colloquio tra l’On. Miceli e il giudice istruttore Mastelloni, custodita tra i documenti desecretati dalla Direttiva Renzi 2014, emergono chiaramente i dettagli dell’operazione, che vide rilasciati subito i primi due attentatori e solo nel febbraio del 1974 gli altri tre. Dalle parole di Miceli, si evince che le intimidazioni volte a ottenere la liberazione dei detenuti arrivavano a Giovannone e a Terzani e che le portava poi a conoscenza dei ministri della Difesa, degli Esteri, degli Interni e del Presidente del Consiglio. Miceli presume anche, non avendone però la certezza, che fosse stata interessata anche la magistratura. I primi 2 terroristi furono liberati subito, senza il pagamento di alcuna cauzione, a differenza degli altri 3 che seguirono. Lasciarono l’Italia su un aereo del SID (così si chiamava allora il servizio segreto italiano) che li condusse a Tripoli passando per Malta, come peraltro è noto.
La scelta di Tripoli, sempre secondo le parole di Miceli, era stata dettata dalla Libia, perché da quella città avrebbero poi facilmente raggiunto il Fronte per la Liberazione della Palestina, in attesa dell’arrivo degli altri tre guerriglieri ancora detenuti in Italia. Il trasporto fu pagato dalla Libia e nella lettera di accompagno si precisava che i due erano stati rilasciati in sede istruttoria per insufficienza di indizi. Il rapporto di Miceli con Giovannone ha inizio dopo il rientro di quest’ultimo dalla Somalia, quando passa ad occuparsi della sicurezza personale dell’On. Moro. E nel documento qui riportato sono precisati nei dettagli i compiti “istituzionali” affidati a Giovannone, diretti alla salvaguardia dell’Italia e dei suoi interessi all’estero, al congelamento delle azioni terroristiche da parte palestinese che implicava un atteggiamento italiano favorevole a sostenere le istanze, nei confronti degli altri Paesi, che come scritto sopra riguardava anche i rapporti in sede Onu.
Lo stesso Giovannone, durante l’interrogatorio avuto con il giudice istruttore Mastelloni, il 20 giugno 1983 negli uffici di Venezia, ribadì il suo ruolo, già a partire dal 1972, quindi prima dell’attentato a Fiumicino, su commissione del ministro degli Esteri e del Sid da cui dipendeva, diretto dall’epoca dallo stesso generale Miceli. Il suo incarico risulta, nei particolari, dal documento allegato all’articolo e indirizzato a tutte le Ambasciate interessate, da parte del Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri, in data 24 luglio 1972. La missione di Giovannone era prendere contatto con qualche responsabile dell’OLP, al fine di evitare operazioni terroristiche in Italia o contro cittadini italiani all’estero. Le minacce, secondo l’opinione personale dell’agente, provenivano dall’organizzazione “Fronte Popolare Comando Generale”, con a capo Ahmed Gibril, estremista palestinese.
L’accordo prevedeva da parte italiana una disponibilità a livello istituzionale e dell’opinione pubblica a recepire le aspirazioni palestinesi di autonomia e di indipendenza, dando luogo a iniziative internazionali in tale direzione. In quegli anni la struttura di Al Fatah, la maggiore componente dell’OLP guidata da Arafat, assommava circa il 65% dei membri dell’organizzazione e dettava la linea politica, con l’avallo del Comitato Esecutivo e del Consiglio Centrale dell’OLP. Accanto si poneva una minoranza estremista, che non condivideva la linea moderata e diplomatica di Arafat. Come specifica Giovannone, si trattava di elementi vicini all’Iraq, al Sud Yemen, alla Libia, talvolta all’Algeria, alla Siria e con probabilità anche alla Russia.
Seguendo l’orientamento dell’On. Moro i palestinesi avrebbe dovuto avere una loro patria, affinchè non si continuasse a considerarli dei rifugiati e per questo erano indispensabili le iniziative internazionali. I documenti presentati nell’articolo, fondamentali per far luce sul retroscena degli eventi di quegli anni, sono custoditi presso l’Archivio Centrale dello Stato e, come da segnatura, rientrano tra quelli desecretati dalla Direttiva Renzi del 2014, come accennato sopra. A questa, nel 2021, è seguita la decisione del Presidente del Consiglio Draghi di ampliare, ulteriormente, il perimetro della trasparenza nella documentazione delle pubbliche amministrazioni, disponendo il versamento anticipato presso lo stesso Archivio di ulteriore documentazione ancora classificata come non liberamente fruibile.
Non tutte le nebbie che avvolgono gli avvenimenti ancora aperti al dibattito storiografico e non solo, sono però state dissipati. Il lavoro del Senatore Marilotti, Presidente della commissione per la Biblioteca e Archivio Storico del Senato, si muove in questa direzione, con una volontà diretta a limitare il segreto nelle pubbliche amministrazioni, affinché gli studiosi o anche il semplice cittadino possano essere maggiormente informati sui passaggi cruciali della Nostra Repubblica. Giordana Terracina
Il “lodo Moro” è esistito davvero. Ma non è opera di Aldo Moro. PAOLO MORANDO su Il Domani il 18 marzo 2022.
In merito al “lodo Moro” le virgolette ci stanno tutte perché è fuorviante, e infatti ha fuorviato, l’identificazione con lo statista ucciso dalle Brigate rosse di un ipotetico accordo, più o meno formale, con la dirigenza della resistenza palestinese affinché il territorio italiano non diventasse terreno d’azione a colpi di bombe e dirottamenti.
L’accordo è esistito, secondo la storica Valentine Lomellini. Che però vada ascritto ad Aldo Moro è tutt’altra questione. Il libro dimostra infatti che numerose e diverse furono le personalità coinvolte. Dovremmo dunque chiamarlo “lodo Italia”.
Si deve inquadrare quella convulsa fase storica (che peraltro durò anni) senza dimenticare lo stillicidio continuo in tutta Europa di gravissimi atti terroristici, che l’Italia conobbe tragicamente nel 1973 con la strage di Fiumicino.
PAOLO MORANDO. Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari) e Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021).
Documento esclusivo dei fondi ad Al Fatah. L’Italia finanziava i terroristi palestinesi, ecco le prove. David Romoli, Giordana Terracina su Il Riformista il 24 Febbraio 2022.
Ci sono due modalità diverse attraverso le quali, nel corso del tempo, l’Italia ha evitato di fare chiarezza sul “lodo Moro”, il patto tra lo Stato italiano e le organizzazioni rimasto di fatto in vigore per tutti gli anni 70 e sin oltre la metà degli 80. La prima e più semplice via è stata la pura e semplice negazione dell’esistenza dell’accordo, o la sua derubricazione a faccenda di servizi segreti, che si sarebbe sviluppata in autonomia, senza coinvolgimento o input dei vari governi in carica. Questa visione, a lungo promossa a verità di Stato, è stata smentita da una mole di testimonianze e documenti tali da non lasciare dubbi in proposito: l’accordo ci fu e a volerlo, conoscerlo, sostenerlo e sottoscriverlo non furono gli agenti dei servizi ma i premier e i ministri.
La seconda modalità, quella minimalista, è più sottile e “moderna”: riconosce l’esistenza del lodo e il coinvolgimento dei governi nella stipula ma lo riduce ad accordo stretto per evitare attentati, nel quadro di una modalità adottata da moltissimi Paesi europei all’inizio degli anni 70. Che il Patto sia nato proprio così è certo, che però poi non abbia assunto in Italia caratteri diversi per spessore e longevità rispetto agli altri Paesi europei invece non lo è affatto. Se all’inizio lo scambio era solo, come in buona parte d’Europa, quello tra scarcerazioni facili e permesso di trasportare armi da un lato, rinuncia ad attentati contro obiettivi italiani dall’altro, quasi immediatamente da noi l’accordo si ampliò fino a rendere l’Italia non solo territorio di libero transito ma base logistica a tutti gli effetti, prima di trasformarsi in una delle principali leve dell’intera politica filo-araba ed energetica del Paese negli anni 80. (già dagli anni 70).
Nella trasformazione dell’Italia in centrale operativa i soldi erano importanti tanto quanto le armi. Dal documento che qui pubblichiamo, emerge chiaramente la rete di finanziamenti costruita in Italia. Secondo quanto riportato dai servizi segreti americani e inglesi l’Italia era una delle principali basi logistiche dei palestinesi nell’Europa Occidentale. Il denaro depositato serviva per gli attentati e trovandosi già in loco non dava adito a pericolosi trasferimenti di valuta, che avrebbero potuto mettere in allarme le forze dell’ordine. A occuparsi di questo aspetto delle attività dell’Olp era il Rasd. Significa “rete di osservazione” e, secondo la documentazione dell’Ufficio Affari Riservati risalente al marzo del 1972, il Rasd era in effetti l’organo informativo di Al Fatah, creato per raccogliere informazioni su Israele, poi anche sui territori persi durante la guerra del giugno del 1967 e infine per reclutare nuovi membri di Al Fatah. Il primo direttore fu Salah Khalaf (Abu Iyad), numero due di Al Fatah, addestrato al Cairo dal Servizio Informativo Egiziano (Sie) insieme ad Alì Hasan Salamah (Abu Hasan), destinato a succedergli nella carica. Il sodalizio iniziale vide i due servizi operare insieme, entrando in disaccordo solo ai primi degli anni 70.
Salamah, figlio di Shaykh Hasan Salamah considerato il primo “martire della Palestina”. Il suo ruolo lo poneva agli ordini diretti di Arafat, l’unico a cui era tenuto a rispondere del suo agire. La guerra del 1967 fu il motore di volta del cambio di funzioni del Rasd. L’affluenza di armi e di denaro da parte dei paesi arabi amici verso Al Fatah, comportò il problema dell’investimento degli stessi. All’organizzazione risultava difficile giustificare i suoi investimenti in Occidente e ripiegò sul Rasd usandolo come longa manus nelle sue operazioni. Il tutto doveva avvenire senza che l’Egitto si accorgesse di queste manovre finanziarie. Le somme da portare in Europa ammontavano a circa 100 milioni di dollari, risultato, secondo quanto scoperto dal servizio segreto inglese, del traffico di droga. Per questo fu necessario costruire una rete tutta nuova, reclutando anche elementi europei e sempre secondo quanto riportato nella documentazione, ciò aprì la strada a contatti con gruppi di sinistra e “dischiuse una via tutta nuova alla cospirazione internazionale”. Gli anni del 1968 e del 1969 segnarono questa permanenza in Occidente. Il Rasd aveva la sua direzione centrale a Beirut e il suo centro logistico per la progettazione delle operazioni nel campo di Sabra, zona di profughi palestinesi.
Negli uffici di Beirut i compiti erano legati alla sicurezza, raccolta informazioni, collegamenti con altri servizi, raccolta di armi, addestramento e incarichi a “contratto”. Questi ultimi consistevano nel procurare denaro per Al Fatah mediante azioni da effettuarsi con l’uso di armi come il rapimento o l’uccisione di leader in esilio per conto ad esempio di siriani o iracheni. Per le sue operazioni da effettuarsi all’estero, possiede numerosi passaporti di paesi arabi, tra cui alcuni diplomatici, soprattutto provenienti dall’Algeria, Libia e Sudan.
La necessità di Al Fatah di mantenere una sua immagine moderata, la lega in maniera indissolubile ai servizi del Rasd, che in un certo senso ne cura le operazioni internazionali. Lo stesso Settembre Nero è descritto nei documenti come un gruppo di copertura del Rasd, che provvedeva a fornire nascondigli sicuri, armi e vie di fuga in cambio di addestramento e altre armi. Ad esempio il campo di Hamah, vicino a Damasco era usato per l’addestramento all’uso di esplosivi.
Nel report si parla dell’uccisione del Primo Ministro Giordano W.T., del tentato omicidio dell’ambasciatore giordano nel Regno Unito Z.R. dell’attentato dinamitardo alla ditta Struever KG in Amburgo, alla raffineria Esso sempre ad Amburgo e all’Officina Gas di Ravenstein in Olanda. Il Rasd era ben articolato e al suo interno prevedeva una Direzione con a capo Alì Hasan Salamah (Abu Hasan), un suo autista, un aiutante in campo e un vice Ghazi Abd-Al Qadir Al-Husayni (Abu Ghazi). Al di sotto si ponevano i Capi Squadre Omicidi nel numero di quattro persone, Abu Mihammad, Abu Sakhr, Al-Hilu e Alì Al-Luh (nomi di battaglia). Seguivano i Sostenitori e gli Addetti alla Falsa documentazione. Il Personale a sua volta era composto da quello di Beirut, circa 30 persone e dagli assassini nel numero di 23. Alcuni erano addestrati in Algeria, soprattutto all’uso delle bombe, altri nel Nord del Vietnam e a seguire in Siria, Turchia.
Il Rasd muovendosi in ambito internazionale aveva agenti e funzionari anche al di fuori del Libano: in Medio Oriente si contavano 8 agenti sparsi tra il Kuwait, la Giordania, la Siria, l’Egitto, la Turchia e Gaza. In Europa si radicò nel Regno Unito con 10 agenti, in Germania dove erano presenti anche nomi tedeschi con 5 agenti, in Olanda con 1 solo agente olandese, in Italia con 3 agenti di cui due italiani, in Austria anche 1 solo agente e infine in Francia con 4 agenti di cui 1 francese. Indagare il lodo Moro, non con l’occhio del giudice istruttore ma con quello dello storico significa seguire tracce del genere, per mettere a fuoco le dimensioni reali dell’intesa raggiunta con le organizzazioni palestinesi e i prezzi che si sono pagati per difenderla e rispettarne i dettami. David Romoli, Giordana Terracina
Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 10 febbraio 2022.
Abou Zayed, 63 anni, è il nome nuovo che compare negli atti dell'inchiesta sull'attentato del 9 ottobre del 1982 alla Sinagoga di Roma. Avrebbe fatto parte del commando di 5 persone che uccise il bimbo di 2 anni, Stefano Gaj Taché, colpito a morte da una scheggia di una bomba a mano. L'informazione, adesso al vaglio degli inquirenti italiani, arriva dai colleghi francesi. La magistratura parigina ha ottenuto dalla Norvegia, dove viveva, l'estradizione di Zayed a dicembre del 2020. L'uomo sarebbe stato coinvolto in un attacco compiuto nella Capitale francese.
LA ROGATORIA Secondo gli investigatori d'Oltralpe il 63enne partecipò all'attacco, il 9 agosto del 1982, dove morirono 6 persone e 21 rimasero ferite. Il gruppo di fuoco lanciò una bomba all'interno del ristorante ebreo Jo Goldenberg per poi azionare le armi automatiche. Gli inquirenti francesi fondano la loro accusa sulla base delle affermazioni di un super testimone che, adesso si scopre, punta il dito contro Zayed anche per l'attacco compiuto a Roma.
Una comunicazione che, i magistrati di Parigi, hanno fornito ai pm di piazzale Clodio un anno fa. Ma c'è di più. Infatti la procura parigina non esclude (ma è un'ipotesi da verificare) che il commando responsabile della strage al ristorante Jo Goldenberg fosse composto dagli stessi uomini che hanno colpito la sinagoga nella nostra Capitale. Troppe le similitudini. La più evidente, per gli investigatori francesi, è questa: vennero utilizzate le stesse armi e a Parigi e Roma, questo emerge da delle «perizie comparative». Per questo motivo, poco dopo l'estradizione di Zayed da Oslo, la procura di Parigi ha chiesto ai colleghi romani una rogatoria con l'obiettivo di acquisire tutti gli atti dell'indagine relativi all'attacco alla sinagoga. Nel frattempo la procura di Roma ha aperto un nuovo fascicolo d'inchiesta sull'attentato del 9 ottobre 1982. L'indagine è coordinata da un magistrato esperto, il pm Francesco Dall'Olio.
GLI INVESTIGATORI Il sostituto procuratore, che fa parte del gruppo antiterrorismo, ha delegato la Digos. L'obiettivo è duplice, da un lato analizzare i documenti emersi dai cassetti dell'Archivio di Stato, che raccontano di una serie di allarmi inascoltati dalle forze di polizia nei giorni precedenti all'attentato. Dall'altro, cercare di approfondire le parole dalla fidanzata dell'unico condannato per quella strage, uno studente palestinese allora poco più che ventenne, Osama Abdel Al Zomar. Adesso gli inquirenti romani dovranno verificare anche le informazioni che sono arrivate da Parigi sul presunto coinvolgimento di un'altra persona, Abou Zayed.
SINAGOGA Il 9 ottobre 1982, un commando di cinque terroristi palestinesi attaccò la sinagoga quando era piena di fedeli, uccidendo un bambino di due anni (Stefano Gaj Taché) e ferendo 37 persone. Per quell'assalto, la giustizia italiana ha condannato una sola persona, Osama Abdel Al Zomar, che però non ha passato un solo giorno in galera. L'uomo scappò in Libia poco dopo essere stato individuato e fece perdere da subito le sue tracce.
FRANCIA Era il 9 agosto 1982, ore 13.10 (quindi orario di punta), quando un commando irruppe nella sala da pranzo del Jo Goldenberg facendo esplodere granate e sparando diversi colpi con le mitragliatrici. Sei persone, tra cui due americani, furono uccise, mentre 21 furono i feriti. Il ristorante, che ha abbassato per sempre le serrande nel 2006, fu a lungo centro di attrazione turistica nel famoso quartiere ebraico del Marais. Sebbene l'Organizzazione Abu Nidal fosse stata a lungo nel mirino degli inquirenti, gli uomini sospettati di aver fatto parte del gruppo di fuoco furono identificati definitivamente solo 32 anni dopo gli attacchi, in base alle prove fornite da due ex membri di Abu Nidal (una costola scissionista di Fatah) a cui è stato concesso l'anonimato dai giudici francesi. Nel dicembre 2020 uno dei sospetti, Walid Abdulrahman Abou Zayed, è stato consegnato alla polizia francese (in un aeroporto norvegese) e portato in aereo a Parigi. «Non mi piace la Francia e non voglio andare in carcere» aveva dichiarato l'uomo nel corso di in un'udienza in un tribunale norvegese.
Conosciuto con il nome Osman in Norvegia dove è stato naturalizzato nel 1997. Adesso toccherà agli investigatori italiani capire se il 63enne palestinese è stato effettivamente coinvolto nell'attentato alla sinagoga a Roma, che venne compiuto ad appena due mesi di distanza dall'attacco al ristorante in Francia.
La verità sul Lodo Moro: i documenti che cambiano tutto. Gianluca Zanella il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale. Circa 30mila documenti da archivi italiani ed europei per confermare l'esistenza del cosiddetto "Lodo Moro" e smontare una ad una le leggende proliferategli attorno. Il poderoso lavoro della professoressa Lomellini.
“La storia della Repubblica italiana è intessuta di varie leggende. Una di queste è il Lodo Moro”. Questo l’incipit del libro Il Lodo Moro: terrorismo e ragion di Stato 1969 – 1986, pubblicato da Laterza e firmato dalla professoressa universitaria e ricercatrice Valentine Lomellini. Un incipit decisamente adeguato, se si pensa all’alone di mistero che da sempre aleggia attorno a uno dei temi maggiormente dibattuti da chiunque si occupi – per lavoro o per passione – di storia contemporanea. Un accordo sottobanco a opera dei servizi segreti effettuato su mandato di Aldo Moro per arginare il dilagante terrorismo arabo-palestinese in Italia; un patto con il diavolo; una leggenda, per l’appunto. In effetti, l’interpretazione di cosa sia stato – dando per buona la sua esistenza – il cosiddetto Lodo Moro varia sensibilmente a seconda dei punti di vista, che possono essere di volta in volta condizionati da opinioni personali, studi effettuati, tendenze politiche e chi più ne ha, più ne metta. Con questo libro, la professoressa Lomellini tenta un’operazione quanto mai coraggiosa nell’epoca dell’informazione a portata di tutti, soprattutto di chi l’informazione la vorrebbe piegata ai propri bisogni contingenti: tenta (e ci riesce) di spiegare cosa sia stato il Lodo Moro non secondo la sua personale opinione, ma carte alla mano, dopo un lavoro durato sei anni e la consultazione di circa 30mila pagine di documenti andati a scovare in più di venti archivi tra Italia ed Europa. Ne esce un lavoro storico rigoroso, uno spaccato nitido degli anni della strategia della tensione, delle stragi, del terrorismo politico. Anni in cui l’Italia venne in qualche modo “risparmiata” dal terrorismo mediorientale, fatta eccezione per alcuni sanguinosi attentati che hanno lasciato a terra circa sessanta morti (Fiumicino, 17 dicembre 1973; sinagoga di Roma, 9 ottobre 1982; Fiumicino, 27 dicembre 1985; Achille Lauro, 8-10 ottobre 1985; Fiumicino, 27 dicembre 1985). Un libro, questo, che chiarisce anche – e forse soprattutto – l’origine di un nome per certi aspetti fuorviante. È leggendo queste pagine che in effetti si scopre come il "Lodo Moro" non sia in realtà ascrivibile solamente allo statista pugliese ucciso il 9 maggio 1978, ma a una pluralità di soggetti. In occasione dell’uscita nelle librerie, abbiamo intervistato l’autrice.
Professoressa Lomellini, come nasce questo libro?
È una bella domanda. In realtà nasce quasi per caso. Ho lavorato per anni a una ricostruzione comparata delle politiche di Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania rispetto al terrorismo arabo-palestinese dalla strage di Monaco, alla strage di Lockerbie. Portando avanti questo studio ho potuto visionare una serie di documenti che mi orientavano a rivalutare, o meglio, ripensare la questione del Lodo e la presunta eccezionalità del “caso” italiano. Da qui, soprattutto da un documento del 23 ottobre 1973 che riguarda la trattativa tra Italia e Olp rispetto ad alcuni terroristi in quel momento carcerati nel nostro Paese, ho iniziato a interrogarmi sul tema e a chiedermi perché il Lodo Moro si chiami in questo modo, quando in realtà tutti i documenti – sia negli archivi italiani, sia all’estero – indicavano che il Lodo non era un “Lodo Moro”, ma il risultato di un lavoro diplomatico portato avanti da diverse persone.
Nel corso di queste ricerche ha trovato qualcosa che non si aspettava di trovare?
Ci sono diverse novità in questo libro. Abitualmente il lodo è stato presentato come una sorta di accordo stretto in sordina; è stato chiamato anche “Lodo d’intelligence”. In realtà con questo lavoro ricostruisco intanto l’esistenza effettiva del Lodo e, in secondo luogo, il fatto che non si è trattato di una devianza delle politiche dello Stato, ma che è stato una vera e propria politica dello Stato. Dimostro che la sua paternità non è di Aldo Moro, ma corale - sono coinvolti in queste vicende, tanto per fare alcuni nomi, Mariano Rumor, Giulio Andreotti, Bettino Craxi – e dimostro che gli interlocutori non sono quelli che fino ad oggi si è pensato che fossero. Si è sempre parlato di un accordo stretto tra l’Italia e la resistenza palestinese, ma in realtà l’accordo è tra Italia, resistenza palestinese, ma – soprattutto dal 1973 in avanti – con una serie di Stati “sponsor” del terrorismo internazionale: Libia, Iraq e Siria.
Perché allora questo accordo viene attribuito al solo Aldo Moro?
L’accordo viene definito “Lodo Moro” in una serie di passaggi. La definizione si sviluppa tra gli anni Ottanta e Novanta, quando comincia a emergere l’idea generica che fosse esistito un accordo tra Italia e resistenza palestinese in generale. Questo soprattutto a seguito di una serie di articoli pubblicati dal settimanale Panorama. Il momento in cui però nasce l’espressione che dà il titolo al libro è a metà degli anni Duemila, quando il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, prima in una lettera a Vincenzo Fragalà, membro della commissione Stragi e deputato di An, e poi in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera nel 2008, parla del “Lodo Moro” e ne parla per spiegare quelle che secondo lui sarebbero state le vere ragioni della strage di Bologna.
Dunque si tratta fondamentalmente di un equivoco?
Come molti altri quando si affronta questo argomento. Tanto per fare un esempio: il Lodo non si è mai concretizzato nel mancato arresto di guerriglieri sul suolo italiano, non c’è una sorta di “divieto” di arresto o di impunità dei terroristi. I guerriglieri vengono sempre arrestati e poi, grazie all’intervento degli Interni, degli Esteri e alla collaborazione di alcuni magistrati e addirittura – nel 1976 – dell’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che dà la grazia ad alcuni terroristi libici, vengono liberati. Dunque il Lodo si concretizza in un processo agevolato, ma mai nella prevenzione dell’arresto. È una politica che si sviluppa ad altissimo livello e una delle tesi di questo volume è che ci sia una grossa strumentalizzazione della figura di Moro. Nel libro riporto un documento dell’autunno 1971 in cui un organismo interno al Ministero degli Interni retto da Franco Restivo, nel governo Rumor, sostiene che Moro finanzi Al-Fatah. Questo è un indice della forte strumentalizzazione che è stata fatta nella lettura dell’apertura da parte di Aldo Moro rispetto alla politica mediterranea e alla questione israelo-palestinese. E se consideriamo che in quel momento Moro era ministro degli Esteri, ci accorgiamo di quanto fosse grave e inquietante che circolassero certe informazioni date per attendibili.
Si aspetta delle critiche?
Mi piace confrontarmi con temi complessi, che hanno l’obiettivo di poter far riflettere su nodi complicati della nostra storia nazionale. Dunque sì, mi attendo critiche da ambo le parti. Ma significherebbe che ho fatto bene il mio lavoro. Gianluca Zanella
Il retroscena. I documenti segreti. Attentato di Fiumicino del 1973, 32 morti annunciati: i servizi sapevano ma non fecero nulla. David Romoli su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. Tra le stragi che hanno insanguinato l’Italia tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘90 è la seconda per gravità dopo quella alla stazione di Bologna anche se per quasi quarant’anni, fino al 2012, nessuno la ha ricordata e le 32 vittime erano state persino depennate dall’elenco delle vittime del terrorismo. Il 17 dicembre 1973, primo giorno d’udienza contro 3 dei 5 terroristi palestinesi arrestati il 5 settembre a Ostia con 2 lanciamissili Sam 7 Strela sovietici, un commando palestinese attaccò l’aeroporto di Fiumicino.
Dopo aver raggiunto la pista sparando all’impazzata i terroristi gettarono una bomba al fosforo e due granate all’interno di un aereo della Panam, uccidendo 30 persone tra cui 4 passeggeri italiani. Poi si rivolsero verso un aereo Lufthansa e nella fuga uccisero il finanziere Antonio Zara, che cercava di fermarli. L’aereo della Lufthansa fu fatto decollare coi terroristi a bordo e atterrò ad Atene, dove fu ucciso l’addetto ai bagagli Domenico Ippoliti. Di lì i dirottatori tentarono di sbarcare prima a Beirut e poi a Cipro, che non autorizzarono l’atterraggio. Dopo uno scalo a Damasco l’aereo ripartì per Kuwait City dove la corsa ebbe termine e i terroristi si arresero. Come nel caso dell’attacco alla sinagoga del 1982, era un attentato annunciato ma nessun servizio di sicurezza era stato disposto a protezione dell’aeroporto. Il 14 dicembre, tre giorni prima dell’attacco, un’informativa sull’imminente attacco era stata inviata al direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato dal Reparto D del Sid (sigla dei servizi segreti italiano di allora): “Viene segnalato che elementi di al Fatah sono partiti per l’Europa alcuno giorno orsono allo scopo di attaccare una rappresentanza israeliana o un aereo della El Al. L’attacco verrebbe condotto principalmente contro un aereo”. L’allarme arrivava dopo numerosissime segnalazioni precedenti, molte delle quali pubblicate da Gabriele Paradisi in un’inchiesta pubblicata sul sito ReggioReport.
Le somiglianze tra le informative del 1973 e quelle del 1982 -della quale abbiamo parlato nei giorni scorsi – in cui si metteva in guardia da attacchi contro sinagoghe del gruppo di Abu Nidal, “prima durante o dopo lo Yom Kippur” sono evidenti. In entrambi i casi gli avvertimenti erano stati molteplici: 23 prima di Fiumicino, 16 prima della sinagoga. Le differenze sono però rilevanti. Nel 1982 l’accordo tra Stato italiano e Olp, il cosiddetto lodo Moro, era ormai rodato e in funzione da anni. Nel 1973 lo si stava ancora mettendo a punto ed è probabile che proprio il sanguinoso attentato di Fiumicino abbia svolto un ruolo decisivo nella definizione dei particolari, a tutt’oggi ignoti. Se infatti l’esistenza del lodo è confermata da una quantità di elementi tale da non lasciare alcun dubbio, la reticenza dello Stato non permette di delinearne i contorni. Decisiva in questo senso è in particolare la scelta di non desecretare l’archivio Stefano Giovannone, colonnello del Sid, capocentro dell’Intelligence italiana in Medio Oriente, uomo di fiducia di Moro nei servizi, massimo artefice dell’accordo con i palestinesi. Questa reticenza e la conseguente vaghezza sul lodo che permettono alla Corte di Bologna, nei processi sulla strage, di affermare che “l’esistenza del lodo non ha trovato alcuna conferma precisa” e di non chiedere quindi, come avrebbe potuto, la desecretazione dell’archivio Giovannone, oppure allo storico Miguel Gotor di affermare contro ogni evidenza che si trattava solo di un “lodo di intelligence” che non coinvolgeva la politica.
La genesi del lodo aiuta pertanto a mettere meglio a fuoco contenuti e finalità di quell’accordo. In Italia, gli attentati e gli arresti di palestinesi armati, a partire dall’unico dirottamento nella storia di un areo della El Al, il 22 luglio 1968, furono numerosi. Il volume di fuoco si alza nel 1972-73. Il 4 agosto ‘72 viene fatto saltare l’oleodotto di Trieste. Poco dopo, il 16 agosto, due palestinesi regalano un mangianastri imbottito di esplosivo a due ragazze inglesi in procinto di imbarcarsi su un areo della El. Vengono rintracciati e arrestati e iniziano subito trattative con i palestinesi per risolvere l’incidente. Ad avviare l’iniziativa diplomatica segreta è il ministro degli Esteri. “Aldo Moro – racconterà anni dopo l’ex capo del controspionaggio Viviani – aveva detto al capo del Sid, Miceli: “Veda di mettersi d’accordo con Arafat. Trovi una soluzione“. La “soluzione” passò per l’invio a Beirut del colonnello Giovannone, come raccontò lui stesso al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni: “Alla fine del 1972 fui mandato in missione dal ministero degli Esteri e dal Sid… acché prendessi contatto con qualche dirigente dell’Olp perché si evitassero azioni terroriste contro l’Italia”. Un appunto del Sid del 17 dicembre 1972 rende conto della missione appena avviata: “In relazione all’attività terroristica sul piano internazionale sono in corso colloqui riservati e non ufficiali con i vertici di varie, note organizzazioni in aderenza ai nostri interessi”.
Sul piano concreto, l’esito dei “colloqui riservati” fu la scarcerazione dei due palestinesi, il 4 febbraio 1973, decisa dalla procura di Roma. Non fu una scelta indolore. E’ rimasta leggendaria la risposta del procuratore capo di Roma Achille Gallucci alle proteste di due magistrati secondo i quali il codice penale non avrebbe consentito la scarcerazione: “Il codice, a saperlo leggere, ti dice pure come si fanno le fettuccine”. Gallucci avocò a sé l’inchiesta. Il giudice istruttore contrario alla scarcerazione si mise in licenza per un solo giorno, quello in cui fu concessa ai due palestinesi la libertà provvisoria. Furono trasportati a Chieti, dove avrebbero dovuto presentarsi una volta alla settimana in questura. Scomparvero dopo appena due giorni. Nel complesso tra il 1972 e i primi 8 mesi del 1973 una decina di terroristi palestinesi arrestati in Italia furono scarcerati senza troppo clamore, con l’obiettivo, condiviso peraltro da molti altri Paesi europei, di evitare ritorsioni e rappresaglie. A favore del patto segreto c’erano però anche motivazioni diverse dalla sicurezza, destinate a crescere d’importanza dopo la crisi petrolifera del 1973, quando i paesi arabi produttori di petrolio, in seguito alla Guerra del Kippur in ottobre, aumentarono il prezzo del greggio e misero l’embargo verso i Paesi più filoisraeliani.
Un memorandum dell’ambasciatore in Libano Vincenzo De Benedictis riassumeva così il quadro: “Questa è l’importanza assunta dai palestinesi nella regione del Golfo: in Kuwait sono circa 14mila e controllano il settore informativo e del lavoro; negli Emirati Arabi Uniti controllano i posti direzionali chiave; nel Bahrein e nel Qatar controllano gli ingranaggi dell’industria petrolifera; nella stessa Arabia Saudita numerosi funzionari sono palestinesi”. Questo quadro spiega nel dettaglio l’Appunto inviato dal Sid al governo nel quale si evidenzia “la possibilità che l’Italia giungerà ultima. Le posizioni di maggior interesse e di maggior prestigio verranno accaparrate da quelle nazioni che, per prime, offriranno la loro collaborazione”. L’intesa conosciuta oggi come lodo Moro nasce così, all’incrocio tra l’interesse immediato consistente nell’evitare attentati e quello strategico derivante dalla postazione strategica occupata dalla questione palestinese e dai funzionari palestinesi nella sfida mondiale in corso sulle fonti energetiche. La spinta finale fu però probabilmente proprio il sanguinoso attentato che alla fine del 1973 mise a rischio di naufragio l’accordo tra lo Stato italiano e i palestinesi e finì invece per cementarlo.
La strage di Fiumicino e il rischio di far saltare il Lodo Moro. David Romoli su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. La strage riuscita del 17 dicembre 1973 a Fiumicino è figlia di un’altra strage, invece fallita. Il 5 settembre il Sid ( cioè i servizi segreti italiani dell’epoca) arrestò in un appartamento di Ostia 5 palestinesi che si apprestavano, secondo la versione ufficiale, a colpire un aereo della El Al con due missili Sam 7 Strela. Su quegli arresti non è mai stata fatta piena chiarezza. Pare certo che a indirizzare i servizi italiani siano stati quelli israeliani. E’ però anche possibile che la notizia dell’arresto sia stata data in ritardo di mesi e che l’obiettivo del commando fosse l’aereo sul quale viaggiava la premier israeliana Golda Meir.
Gli arresti provocarono una vera crisi nelle trattative in corso da un anno tra Stato italiano e Olp, che avevano già portato a una decina di scarcerazioni di terroristi palestinesi e che si sarebbero poi sedimentate in quell’accordo oggi noto come lodo Moro. Gabriele Paradisi ha rintracciato e pubblicato sul sito ReggioReport numerosi appunti e segnalazioni , sempre in relazione alla detenzione dei cinque terroristi arrestati in settembre e all’ultimatum che ne esigeva la liberazione. Già il 17 settembre un appunto del Sid avvertiva che “Le centrali del terrorismo hanno espresso l’intendimento di svolgere prossimamente in Italia speciali operazioni (rappresaglia o ricatto) tendenti a ottenere l’immediata liberazione dei 5 guerriglieri”. Il 12 ottobre nuovo allarme: “La Resistenza Palestinese attenderà fino alla fine di ottobre del corrente anno per la scarcerazione dei 5 giovani; dopo tale termine, permanendo lo stato di detenzione, saranno effettuati atti di rappresaglia e ricatto in Italia e all’estero”.
Il 19 ottobre si svolse presso l’ambasciata italiana un incontro con il responsabile delle Relazioni politiche dell’Olp Said Kamal, nel quale, spiegheranno poi i diplomatici italiani in una lettera al ministero degli Esteri, il palestinese “ha offerto l’impegno formale dell’Olp che nessuna azione dei fedayn si ripeterà in Italia qualora venga concessa liberazione agli attuali detenuti”. Un “Appunto” del 21 ottobre affermava che “i guerriglieri dimostrano segni di insofferenza in relazione alla ‘assenza dai ranghi per detenzione in Italia’ dei 5 esponenti della formazione, protagonisti del noto episodio dei lanciamissili” e che, tanto presso il comando dell’Olp quanto “in ambienti responsabili dei Paesi arabi”, si sostiene che “non sarà possibile bloccare ancora l’intendimento dei guerriglieri”.
Quattro giorni dopo, il 25 ottobre, una nuova informativa comunicava l’arrivo a Roma di due esponenti di Settembre nero (che era in realtà Al Fatah, il principale gruppo dell’Olp, guidato da Arafat) e uno del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, secondo i quali “frange estremiste di Settembre nero” avrebbero rispettato il termine dell’ultimatum fissato al 30 ottobre “ma riprenderanno la libertà d’azione dal primo novembre”. La nota segnalava comunque la volontà distensiva della leadership nei confronti delle aree più battagliere e aggiungeva un passaggio molto significativo, e infatti evidenziato dagli estensori del testo per la sua importanza: “Naturalmente il tutto nel quadro di colloqui durante i quali agli interlocutori sono state dette ‘cose opportune’ da posizioni di prestigio”. Formula nemmeno velata per sottolineare che ai rappresentanti dell’Olp erano state fatte precise promesse in cambio della loro opera di distensione. Nella stessa giornata del 25 ottobre un vertice tra esponenti dei ministeri degli Esteri e degli Interni e del Sid alla Farnesina affrontò direttamente il caso.
Il 30 ottobre, alla scadenza dell’ultimatum, due dei cinque terroristi furono liberati e scortati in Libia, sull’aereo militare in forza alla struttura segreta Gladio “Argo 16”, da quattro dirigenti del Sid tra i quali Giovannone. Il 23 novembre lo stesso aereo, con il medesimo equipaggio che aveva portato i due palestinesi in Libia, sarebbe precipitato in seguito a un’esplosione. Nonostante due esponenti del Mossad siano stati processati e assolti, il fortissimo sospetto di una rappresaglia israeliana non si è mai sopito. Secondo Cossiga la scarcerazione dei due terroristi fu pilotata da Moro in persona: “Intervenne personalmente sul presidente del Tribunale, con la cortesia e la fermezza che gli erano proprie e fece concedere ai terroristi la libertà provvisoria”. Restava il nodo della detenzione degli altri tre detenuti, L’11 dicembre la polizia inglese avvertì Alitalia che “intorno al 14 dicembre terroristi del Fronte di liberazione palestinese tenterebbero una qualche azione contro Alitalia” in collegamento con l’apertura del processo contro i palestinesi arrestati a Ostia, che fu poi rinviata al 17 dicembre, il giorno della strage a Fiumicino.
Un nuovo incontro segreto con l’Olp dovette svolgersi il giorno seguente. Un documento riservato del ‘79 della Farnesina sulla storia dei rapporti tra Italia e Olp ricorda infatti che incontri “caratterizzati dalla discrezione” con i palestinesi c’erano stati da prima dell’avvio formale dei rapporti nel 1974 e che “fra tali contatti si situa anche il colloquio riservato del 12 dicembre 1973 dell’allora Direttore Generale degli Affari politici con un rappresentante dell’Olp, in un momento reso acuto dalla crisi degli approvvigionamenti energetici”. L’Italia, insomma, non si preoccupò troppo di allarmi e avvertimenti non perché, come è lecito sospettare a proposito dell’attentato del 1982, questa “distrazione” facesse parte degli accordi ma perché, al contrario, si sentiva garantita dall’embrione di lodo Moro già attivo. Una fonte del Mossad spiegava infatti così, parlando con il giornalista Pietro Zullino, la mancanza di protezione a Fiumicino poco dopo la strage: “Gli italiani davano l’impressione di essersi addormentati in un’atmosfera di illusoria sicurezza. Qualcuno di loro, privatamente, sosteneva addirittura che c’erano state delle assicurazioni da parte dei guerriglieri palestinesi”.
Quelle assicurazioni quasi certamente c’erano state davvero ma la leadership dell’Olp non era stata in grado di controllare tutte le sue componenti interne, oppure l’attentato avrebbe dovuto avvenire altrove e la strage si era invece consumata a Fiumicino perché qualcosa aveva costretto i terroristi a cambiare programma all’ultimo momento.
Di certo, subito dopo la strage, la principale preoccupazione dell’Italia fu evitare che quei 32 morti interferissero nei rapporti con i palestinesi. Appena cinque giorni dopo la strage, Giovannone si affrettava a incontrare a Beirut due dirigenti palestinesi chiamati in codice Dario e Antonio, probabilmente Abu Ayad e Farouk Kaddhumi, cioè i principali dirigenti di al Fatah dopo Arafat, per garantire la prosecuzione del dialogo e in effetti gli attentati in Italia si interruppero per anni. I tre terroristi arrestati il 5 settembre dell’anno precedente ottennero la libertà provvisoria, dietro cauzione di 20 mln ciascuno pagata dal Sid, il 27 febbraio 1974 e in marzo furono portati in Libia. I responsabili della strage finirono in Egitto, sotto la responsabilità dell’Olp. Liberati il 24 novembre al termine de drammatico sequestro di un aereo inglese, si “consegnarono all’Olp” il 7 dicembre. Da allora se ne è persa traccia.
Le carte che rivelano lo scandalo. Attentato alla Sinagoga di Roma, il governo sapeva ma non fece nulla – I DOCUMENTI SEGRETI. David Romoli su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Una serie di documenti sin qui ignota conferma le gravissime accuse mosse 15 anni fa da dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, sepolte allora sotto una lastra di silenzio generale. Il 3 ottobre 2008 Cossiga rilasciò una lunghissima intervista al quotidiano israeliano Yediot Aharonot, muovendo accuse che in qualsiasi Paese, e probabilmente anche in Italia se provenienti da altra fonte, avrebbero provocato un mezzo terremoto, pur se riferite a eventi già vecchi di quasi tre decenni.
Senza mezzi termini Cossiga accusò l’Italia di aver permesso al terrorismo palestinese di colpire obiettivi ebraici sul territorio italiano, all’interno del cosiddetto lodo Moro. “In cambio di una ‘mano libera’ in Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l’immunità] di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici. Fintanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. La clausola, affermava l’ex capo dello Stato, ex primo ministro, ex ministro degli Interni legatissimo ai servizi segreti, equivaleva a una sorta di licenza di uccidere gli ebrei, “fiancheggiatori dei sionisti”, nonostante il lodo Moro. La conclusione di Cossiga era perentoria: “Vi abbiamo venduto”. L’accusa dell’ex capo dello Stato fu completamente ignorata, come erano state lasciate cadere nel vuoto le sue rivelazioni dell’agosto precedente, che confermavano l’esistenza dell’ormai famoso patto segreto tra lo Stato italiano e le organizzazioni palestinesi. Accordo che a tutt’oggi resta un fantasma. Ufficialmente non è mai esistito. Del resto con Cossiga era stata adoperata, fortunatamente senza conseguenze letali, la stessa strategia usata con Aldo Moro nei 55 giorni della prigionia: farlo passare per pazzo e si sa che di quel che dicono i pazzi non ci se deve curare.
Cossiga non era pazzo e i documenti confermano che aveva ragione. Il principale attentato al quale l’ex presidente alludeva era quello contro la sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, nel quale fu ucciso Stefano Gaj Taché, di due anni, e furono ferite 37 persone. La possibilità di un attentato contro la sinagoga era stata segnalata dal Sisde più volte a partire dal 18 giugno 1982. Quel giorno il direttore del Sisde Emanuele De Francesco inviò un telex “riservato e urgente” a Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Sismi intitolato “Probabili attentati contro obiettivi israeliani o ebraici in Europa”. Il testo era sintetico e inequivocabile: “Fonte solitamente attendibile ha riferito che i palestinesi residenti in Europa avrebbero ricevuto l’ordine di prepararsi a compiere una serie di attentati contro obiettivi israeliani o ebraici europei”. L’Operazione “Pace in Galilea”, cioè l’attacco israeliano contro le postazioni palestinesi, diretto a sradicare le loro basi in Libano che sarebbe proseguito per mesi, era iniziata da 12 giorni.
Il 27 giugno il Sisde faceva partire un nuovo “Appunto riservato” secondo cui gruppi di studenti palestinesi “avrebbero in animo” attacchi contro obiettivi ebraici a Roma. In testa alla lista dei possibili obiettivi c’era appunto la Sinagoga. In un Appunto del 27 agosto 1982, si afferma chiaramente che l’offensiva terroristica è in fase di ripresa ma che “l’atteggiamento dei fedayn verso l’Italia potrebbe non rivelarsi ostile nel caso di un sollecito riconoscimento dell’O.L.P. e della causa del popolo palestinese”. Secondo l’appunto due organizzazioni interna all’Olp, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habbash e il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina di Hawatmeh, stavano facendo entrare clandestinamente in Europa i loro commando.
In tutto, dal 18 giugno al 9 ottobre, furono inviate 16 segnalazioni di possibili attentati in Italia, l’ultima il 2 ottobre, una settimana prima dell’attacco. In tre di queste era esplicitamente indicata la sinagoga come obiettivo. La più esplicita e precisa è del 25 settembre, spedita anche per conoscenza al ministero dell’Interno. Il Sisde affermava che una “fonte abitualmente attendibile” aveva segnalato la possibilità di attacchi del gruppo dissidente palestinese guidato da Abu Nidal “prima, durante o subito dopo lo Yom Kippur, che quest’anno cadrà il 27 settembre”. Anche dall’ambasciata israeliana, peraltro, era arrivato negli stessi mesi un avvertimento specifico: essendo troppo difficile colpire gli obiettivi israeliani, i palestinesi avevano deciso di prendere di mira gli ebrei. Il terrorismo avrebbe cioè colpito obiettivi ebraici, come appunto le sinagoghe, non israeliani o collegati a Israele.
Nonostante gli avvertimenti, la sinagoga non fu presidiata. Non solo non fu aumentata la sorveglianza ma il 9 ottobre non era presente neppure la macchina della polizia che solitamente stazionava lì in occasione di feste o cerimonie religiose. La sorveglianza sulla sinagoga e sul ghetto era stata predisposta solo dalle 19 della sera alle 7 della mattina seguente. Le stesse indagini, subito dopo l’attacco, non furono particolarmente stringenti e non portarono a niente. “Fui interrogato non al commissariato ma una specie di postazione mobile. Mi fecero qualche domanda generica e mi lasciarono andare”, racconta uno dei testimoni, Leonardo Piperno, che aveva visto arrivare due degli attentatori in moto ed è a tutt’oggi convinto, come anche l’allora giudice Rosario Priore, che non tutti i terroristi fossero palestinesi.
Il commando, secondo le ricostruzioni della polizia, era composto da 5 persone, 4 delle quali rimaste sconosciute. Il quinto attentatore, Abdel Osama al-Zomar, ex presidente dell’Associazione studenti palestinesi in Italia, fu arrestato un anno dopo al confine tra Turchia e Grecia, con un carico di 60 kg di tritolo. La sua ex compagna italiana, Anna Spedicato, disse che l’uomo le aveva confessato di essere l’organizzatore dell’attentato. L’Italia chiese l’estradizione fu immediatamente scarcerato dalla Grecia per evitare guai. È stato condannato in contumacia nel 1991. Le rivelazioni di Cossiga sul lodo Moro continuano a essere ignorate. Quel che successe davvero in Italia in quegli anni, strage di Bologna inclusa, non c’è alcun bisogno di chiarirlo…
BREVE CRONACA DEL 1982
Nel 1982 l’Italia era governata per la prima volta da un governo non a guida democristiana. Il presidente del Consiglio era il capo del partito repubblicano Giovanni Spadolini che era succeduto a Ugo La Malfa, al vertice del partito, dopo la sua morte (nel 1979). Ministro dell’Interno era Virginio Rognoni, democristiano. Presidente della Repubblica il mitico Sandro Pertini. Fu l’anno della clamorosa vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio in Spagna. Vittoria ottenuta battendo le squadre più forti del mondo: Argentina, Brasile, Germania.
Il 1982 è un anno ricco di avvenimenti. In Italia si apre in gennaio con la cattura del capo dell’ala più dura delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani. Il colpo è clamoroso ma le Brigate Rosse continueranno la loro azione almeno per altri 4 anni. È anche l’anno di avvio dell’azione stragista della corrente corleonese della mafia, che uccide in aprile il leader comunista Pio La Torre e in settembre il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel 1982 scoppia e si conclude in tre mesi la guerra delle Falkland tra Argentina e Gran Bretagna. La sconfitta dell’Argentina determina la fine del regime fascista e golpista di Videla e l’avvio del superamento di tutte le dittature dell’America latina. A fine anno muore Breznev e l’impero sovietico diventa meno granitico. Tra i grandi film quelli di maggior successo sono E.T. e Blade Runner. David Romoli
L'inchiesta sull'attentato alla Sinagoga di Roma. Interrogazioni parlamentari di FdI e Pd sull’inchiesta del Riformista. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Il tempo non cancella la vergogna. Le rivelazioni del nostro giornale sull’attentato terroristico alla Sinagoga di Roma, il 9 ottobre 1982, riportano l’attenzione su una pagina tragica della storia del nostro paese. «Emergono dettagli inquietanti nei documenti riportati da Il Riformista di oggi (ieri per chi legge, ndr) nell’articolo sull’attentato alla Sinagoga del 1982. Il Sisde segnalò il pericolo attentati eppure quella mattinata non c’erano forze dell’ordine a presidiare. È arrivato il momento di fare chiarezza», ha commentato su Twitter la presidente della comunità ebraica romana, Ruth Dureghello.
«Occorre fare la massima chiarezza sul troppo spesso dimenticato attentato del 1982 alla sinagoga di Roma, la più grande d’Europa. Lo si deve non solo alla memoria di Stefano Gaj Taché, che quel giorno fu ucciso all’età di 2 anni e ai quaranta feriti, tra cui diversi gravemente come il fratello Gadiel, ma anche alla sicurezza e al prestigio della nostra nazione. I colpevoli sono rimasti impuniti e ci sono ombre su troppi fatti di quel periodo. Quanto scritto dal Riformista non può essere lasciato cadere ma deve essere occasione per conoscere meglio i fatti, tanto più che il pericolo del terrorismo, nonostante il tanto tempo passato, è purtroppo molto attuale», ha dichiarato ieri il senatore di Fratelli d’Italia, Lucio Malan. Il deputato di FdI Federico Mollicone ha annunciato un’interrogazione alla ministra dell’Interno Lamorgese. Anche i dem Paolo Lattanzio ed Emanuele Fiano hanno fatto sapere che presenteranno un’interrogazione parlamentare. Tutti chiedono che sia fatta chiarezza su esecutori e mandanti di quell’attacco terroristico e anche sulle responsabilità del governo italiano che sapeva e non fece nulla per evitare quell’atto sanguinario.
«L’articolo de Il Riformista ha portato alla luce un quadro sconvolgente», «è mia intenzione portare questa questione all’attenzione del Copasir», ha scritto su Facebook il senatore di Iv e segretario del Copasir Ernesto Magorno. «Ricordando l’attentato al Tempio Maggiore in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché, ricordando quelle ore convulse e drammatiche, ricordando la vergognosa campagna di odio che precedette l’attentato, sottraiamo questa terribile pagina del Novecento italiano da un oblio cui è stata troppo spesso condannata». Così si espresse la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), Noemi Di Segni, il 9 ottobre 2016, trentaquattro anni dopo la tentata strage.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Attacco alla sinagoga, Fiano: “Grave e inquietante quanto rivelato dal Riformista, governo ci espose ai terroristi”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Il suo impegno politico nella lotta all’antisemitismo s’intreccia indissolubilmente con la storia personale e della sua famiglia. Emanuele Fiano, deputato del Partito democratico, già membro della segreteria nazionale Pd, è il terzo e ultimo figlio (dopo Enzo e Andrea) di Nedo Fiano (1925-2020), ebreo deportato ad ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia, e della moglie Rina Lattes. Nel gennaio 2021 ha pubblicato il libro Il profumo di mio padre, che racconta della sua vita di sopravvissuto della Shoah e del rapporto con il padre sopravvissuto ad Auschwitz. Tra il 1998 ed il 2001 è stato presidente della Comunità Ebraica milanese, dal 2001 al 2006 è stato invece consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Nel 2017 è stato promotore di un disegno di legge sull’apologia del fascismo. Dal 2005 è segretario nazionale di Sinistra per Israele, associazione politica, che insieme a Piero Fassino e Furio Colombo che la presiede, si propone di sviluppare la conoscenza delle posizioni della sinistra israeliana e contrastare i pregiudizi anti-israeliani, che ritiene albergare anche in una parte consistente della sinistra italiana. In questo modo ha promosso iniziative che riguardano la convivenza interculturale e il confronto, come iniziative per il dialogo tra israeliani e palestinesi.
Le rivelazioni de Il Riformista riattualizzano una vicenda tragica, l’attacco terroristico alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, e riaccendono i riflettori sul “lodo Moro”, quello che lei ha definito il “lodo insanguinato”. Cosa racconta quel lodo?
Racconta la situazione del nostro paese in quegli anni. Quel lodo di cui parliamo è evidentemente un elemento di scambio determinato da chi governava l’Italia, da chi aveva la responsabilità sulla politica estera di questo paese. Un patto non scritto in maniera formale, che prevedeva che le attività terroristiche dei movimenti palestinesi non avrebbero investito l’Italia. Uno scambio che contemplava, contemporaneamente, un appoggio alla politica palestinese. L’Italia sarebbe stata considerata un terreno di passaggio per le forze palestinesi e di converso la politica estera italiana avrebbe tenuto un profilo assolutamente filopalestinese. Questo intendiamo con questo terribile lodo che fece sposare all’Italia una posizione inaccettabile.
In una intervista a questo giornale, Riccardo Pacifici, per anni presidente della Comunità ebraica di Roma, ha rivelato un episodio alquanto emblematico. Alla signora Daniela Gaj, la mamma del piccolo Stefano Taché, il bambino ucciso nell’attacco alla Sinagoga, che si batteva perché anche lui fosse ricordato nella Giornata dedicata alle vittime italiane del terrorismo, fu motivata così l’esclusione del figlio: «È un ebreo, mica un italiano». Cosa c’è dietro questa terrificante affermazione?
C’è una terribile concentrazione di odio che avvenne in quel periodo e il mancato superamento di stereotipi cari alla cultura antisemita sia di matrice cattolica che di matrice politica. Quelli sono gli anni della manifestazione sindacale, a cui partecipava anche la Cgil, che depositò davanti alla Sinagoga di Roma una bara. Quelli sono gli anni della guerra in Libano del 1982 con la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, non opera dei militari israeliani ma delle milizie cristiano-maronite. Quella tragica vicenda determinò in Italia una trasposizione dell’odio verso Israele, che era visto come il massacratore dei palestinesi, falsando la realtà storica di quel momento, verso gli ebrei italiani. Quella manifestazione testimonia tutto ciò. E dà conto anche di una sinistra italiana che, a parte alcune lodevoli eccezioni in cui mi colloco assieme ai miei maestri di quegli anni tra i quali Piero Fassino e Giorgio Napolitano, che Riccardo Pacifici cita nella bella intervista al Riformista, e anche altri come Valter Veltroni e Francesco Rutelli, in quell’inizio degli anni ’80 sulla vicenda mediorientale si era schierata unicamente da una parte e questo fu trasfuso in una parte della cultura corrente italiana. Quella risposta che cita Riccardo Pacifici fa gelare il sangue e testimonia di un periodo che però, va detto, fortunatamente è passato. La frase ricordata da Pacifici coglie un particolare dell’epoca quanto al pregiudizio antiebraico, ma è ancora più grave e inquietante quanto ha portato alla luce Il Riformista con le carte ritrovate nell’archivio di Stato.
Perché più grave?
Qui c’è una collusione di apparati dello Stato. Le segnalazioni dei telex che avete pubblicato dicono che ci potrebbero essere attentati a obiettivi israeliani in Italia ma anche a sinagoghe, nell’ambito di qualcosa che organismi dello Stato adesso dovranno scoprire, e nonostante queste segnalazioni, le forze dell’ordine non agiscono. Qui si va oltre l’antisemitismo. Qui c’è un calcolo, che va investigato, di relazioni internazionali.
Cosa può fare oggi la politica perché sia fatta piena luce su quella pagina oscura della storia italiana?
Il Partito democratico ha presentato subito una interrogazione parlamentare a firma mia e di Lattanzio. Io penso che sicuramente se ne debba occupare, in Parlamento, l’organo che si occupa del funzionamento dei servizi segreti di cui ho fatto parte anch’io per diversi anni, che è il Copasir. Questo organismo può chiedere, ne ha le prerogative, la desecretazione di altri atti, per scoperchiare quello che c’è sotto questa spaventosa costruzione che ha portato a quel morto di due anni e a quei 37 feriti. In più mi pare, come è stato scritto, non c’è solo la possibile omissione colposa o addirittura connivenza colposa con chi ha provocato quelle vittime. Bisogna anche capire il ruolo di Abdel Osama al-Zomar, il palestinese che fu arrestato un anno dopo la tentata strage, al confine tra Grecia e Turchia con un carico di 60 kg di tritolo. Come avete ricordato, l’Italia ne chiese l’estradizione ma il terrorista palestinese fu immediatamente scarcerato dalla Grecia forse per evitare ritorsioni. Al-Zomar che era stato arrestato, che era stato multato, che era stato segnalato, che era conosciuto. Bisogna capire se all’interno di quel lodo sanguinoso ci fossero delle collaborazioni con alcuni palestinesi. Questo lo può sapere solo chi può scavare dentro queste carte ulteriormente. Voglio ricordare un altro episodio di quegli anni…
Quale?
Sigonella. Gli assassini di Leon Klinghoffer, sull’Achille Lauro, furono lasciati andare dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Gli americani chiedevano che fossero trattenuti a Sigonella, ma Craxi decise di lasciarli ripartire all’interno di un accordo con l’Olp. Stiamo parlando di persone che avevano ucciso a sangue freddo, a colpi di mitragliatrice, un povero anziano ebreo in sedia a rotelle che aveva la sola colpa di essere ebreo. Quel clima va ricostruito tutto. Ma a parte il clima, noi vogliamo sapere chi fece cosa e perché.
Perché quella vicenda di oltre 39 anni fa è ancora attuale?
Perché la difesa della libertà e della democrazia per ognuno che emana dalla nostra Costituzione, non può soggiacere a nessun accordo internazionale, palese o nascosto. Non ci possono essere accordi internazionali con forze terroristiche, come potrebbe essere stato in questo caso. La storia italiana è piena di racconti di omissioni e di segnalazioni a cui non ha corrisposto un’azione delle forze dell’ordine, negli anni bui della nostra Repubblica. Ed è ancora attuale perché la trasparenza deve essere una necessità che oggi più che mai è contemporanea. Tutto questo è contemporaneo, secondo me. Continua ad appartenere al rapporto che deve esserci tra le forze di sicurezza che lavorano nel segreto di un paese, e le sue politiche palesi. Dopodiché c’è una storia dell’antisemitismo e anche dell’antisionismo in Italia che, devo dire, è sicuramente migliorata. Nell’intervista, Pacifici può citare, nel Pci di allora, solo Fassino, Napolitano e Occhetto, e ricorda le parole di Giorgio Napolitano – l’antisionismo come forma moderna dell’antisemitismo -. E Pacifici li cita come una eccezione, perché il Partito comunista italiano dalla Guerra dei sei giorni in poi si era schierato con il blocco sovietico, schierato in quegli anni con l’Egitto di Nasser e con la Siria. Da allora c’è stata una evoluzione assoluta. Basta vedere quando oggi ci sono delle manifestazioni di solidarietà con Israele, perché ci sono attentati o per altre cose del genere, nel ghetto di Roma. Ricordo l’ultimissima, Enrico Letta era stato appena eletto segretario del Pd, c’erano tutti i segretari politici dell’arco parlamentare. Questo senza togliere che io, come Enrico Letta o Piero Fassino, ci batteremo sempre per una soluzione del conflitto israelopalestinese fondata sul principio “due popoli, due Stati”. È cambiato il rapporto della sinistra italiana, per lo meno nella quale mi riconosco io, quella parlamentare, con quella vicenda. In quegli anni purtroppo non era ancora così. Non che questo c’entri con quegli attentatori, ma centra con quella storia che abbiamo raccontato. E con il lodo Moro.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Al di là della retorica. Il peggiore di tutti gli antisemitismi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Un’aggressione di stampo razzista non è la stessa se avviene nel Paese che non ha mai conosciuto mozioni e normative discriminatorie o, invece, in quello che le ha viste stabilirsi. Non cambia il fatto puro di quella violenza: ma cambia il modo in cui essa ridonda a sfregio della civiltà che vi assiste. In un caso, è l’inedito scandaloso che oltraggia un ambiente civile vergine e attonito; nell’altro, è la riproposizione angosciante di una realtà che, riproponendosi, non può dirsi pregressa. In un caso è possibile dire: “Che questo non si ripeta”. Nell’altro, no: perché si è già ripetuto.
È con questo criterio che la riproposizione della violenza razzista dovrebbe essere considerata nei Paesi che già l’hanno conosciuta, prodotta, o perfino messa nella legge. Ed è quindi con questo criterio che la violenza antisemita dovrebbe essere considerata nel nostro Paese, che quella violenza ha coltivato e reso sistematica, ordinamentale e, letteralmente, nazionale.
L’inchiesta del Riformista sull’attentato antisemita del 1982, e sulle possibili aree oscure dei fatti e delle omissioni che l’hanno preceduto, o che addirittura hanno contribuito a prepararlo, non ha solo il pregio di un’importante opera di illuminazione: ma anche quello di rendere possibile una ricognizione morale sulla società abbastanza noncurante davanti all’oscenità di un attacco antisemita a poca distanza da dove, giusto qualche decennio addietro, furono scritte le leggi razziali, e proprio nei luoghi dove gli ebrei erano rastrellati. Di là dalla retorica corrente, trionfante in qualche commemorazione solitamente stracca o nelle denominazioni altisonanti di certe commissioni parlamentari, l’Italia ha un rapporto disturbato con ciò che è stata in quegli anni non troppo lontani. Deve essere considerato, perché rischia di sfuggire: molti, tra gli uomini e le donne che quel giorno appresero dell’attentato in cui fu ucciso un bambino ebreo, erano senzienti e consapevoli quando, pochi lustri prima, il loro Paese toglieva i diritti agli ebrei e li faceva infilare nei vagoni piombati.
Riconoscere che quell’attentato non è stato diffusamente risentito come un affronto intollerabile proprio perché avvenuto in quel medesimo Paese, e che questa mancanza denuncia il persistere di un gravissimo difetto di maturità civile, costituirebbe il primo passo. Ed è quello che renderebbe dovuto, e non procrastinabile, il secondo: la richiesta che si faccia chiarezza sulle inquietanti ipotesi di cui ha dato notizia questo giornale. Iuri Maria Prado
I servizi israeliani ci avevano informati. Dirottamento dell’Achille Lauro, le carte segrete che dimostrano che i servizi segreti sapevano. Giordana Terracina su Il Riformista il 14 Luglio 2022
Il 7 ottobre 1985, durante una crociera sul Mediterraneo, al largo delle coste dell’Egitto, la nave da crociera italiana Achille Lauro, venne dirottata da un commando di quattro terroristi appartenenti al Fronte per la Liberazione della Palestina. A bordo c’erano 201 passeggeri e 344 uomini di equipaggio. I guerriglieri si erano imbarcati nel porto di Genova con passaporti ungheresi e greci. Il resto del sequestro è storia con la crisi tra l’Italia e Usa innescata dall’uccisione a freddo del passeggero statunitense Leon Klinghoffer, ebreo e disabile su una sedia a rotelle.
La resa del commando era stata concordata con le autorità italiane senza che l’esecuzione di Klinghoffer fosse nota. Quando il delitto emerse gli Usa dirottarono su Sigonella l’aereo egiziano che stava portando a Tunisi, presso il quartier generale dell’Olp, i quattro dirottatori e il capo dell’organizzazione alla quale appartenevano, Abu Abbas. A Sigonella, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre, si arrivò molto vicini al confronto armato tra militari italiani e statunitensi. I quattro dirottatori furono imprigionati non negli Usa ma in Italia. Abbas fu lasciato libero. Quando le intercettazioni dimostrarono le sue responsabilità fu condannato all’ergastolo ma in contumacia. Molti anni dopo i fatti, il 13 maggio 1998, il giornalista Enrico Franceschini intervistò per Repubblica Abu Abbas, rifugiatosi a Gaza. Nella lunga intervista emergono diversi elementi che aiutano a comprendere più a fondo le dinamiche del funzionamento dell’accordo stipulato dall’Italia con le Autorità Palestinesi, noto come “Lodo Moro”.
L’incontro con il giornalista italiano nasce perché Abbas sperava di vedersi revocato l’ergastolo. Secondo la sua versione il dirottamento non era stato un atto premeditato ma un “incidente di percorso” durante il viaggio di 4 combattenti armati diretti ad Ashdod in Israele, ove intendevano riunirsi con altri compagni. Erano però stati scoperti da un cameriere che, entrato improvvisamente nella loro cabina, aveva visto le armi. A quel punto non avevano potuto far altro che prendere possesso della nave.
Abbas parla esplicitamente di un accordo con il governo italiano, per cui i membri del commando sarebbero dovuti essere processati in Italia e subito rilasciati. Le cose andarono diversamente per i quattro terroristi che si trovarono a scontare invece la pena in un carcere italiano. Un processo politico per accontentare gli Stati Uniti dopo la mancata consegna dei quattro e di Abu Abbas.
In riferimento al sequestro, il Capo arabo esprimeva il convincimento che si fosse trattato di un atto di lotta per la libertà, un tentativo di far sapere al mondo che esisteva il problema palestinese. La nave era descritta non come un bersaglio ma come un mezzo di trasporto e l’assassinio del povero americano come un atto non voluto, avvenuto “senza che nessuno avesse dato dall’alto l’ordine di farlo”. La dichiarazione di Abbas su questo punto è netta: «Non l’ho ucciso io. È rimasto vittima di una disgrazia, è stato un terribile incidente». Ma si può davvero liquidare così il dirottamento dell’Achille Lauro? Proviamo a fare un salto indietro e precisamente negli anni ‘76 – ’77, con l’ausilio dei documenti dell’Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Ufficio Affari Riservati b. 297.
A Roma, il 9 luglio 1976, in un telegramma del Ministero dell’Interno, Ispettorato Generale per l’azione contro il Terrorismo, viene riportato quanto detto da una fonte estera qualificata. Cioè che Wadi Haddad avrebbe lasciato il Fronte Popolare Liberazione Palestina, per dirigere una nuova organizzazione terroristica araba finanziata dalla Libia con la presenza di Carlos Ramirez Sanchez. L’intento è quello di proseguire sulla linea del terrorismo a oltranza, proseguendo la lotta in Europa, cosi come appare in un altro documento del governo italiano ancora più specifico. Proseguendo con un altro telegramma, cifrato urgentissimo, ancora del Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, una fonte estera qualificata segnala che, il noto dirigente del Fplp, Wadi Haddad, ha intenzione di organizzare in Europa Occidentale, con l’aiuto libico, una bene articolata rete di agenti e terroristi, particolarmente in Italia, Francia, Grecia, Germania, Austria e Belgio. Dovrebbero essere impegnati anche elementi locali, pronti ad azioni terroristiche e la centrale operativa si troverebbe a Ginevra.
Lo scopo della nascente organizzazione è quello di commettere azioni criminose a danno di navi dirette in Israele e negli Stati Arabi. Il gruppo avrebbe lasciato R’As Hilal Camp a Bengasi, Libia, per Atene e Rotterdam via Roma. Per Haddad i campi in Libia servivano per addestrarsi insieme ai membri del gruppo di Carlos e dell’Armata Rossa giapponese, mentre quelli nello Yemen del Sud per incontrarsi con elementi di altre organizzazioni clandestine collegate al Fplp. Seguendo il discorso, anche il riferimento dell’imbarco dalla città di Genova, di Abu Abbas, non fu un caso, come si evince dalla comunicazione della Questura di Genova al Ministero Interni Sicurezza, in data 6 aprile 1977. L’incaricato della Sicurezza della Compagnia Israeliana “ZIM” informava che, sulla base di notizie raccolte dai servizi di informazione israeliani, due gruppi misti di terroristi arabo – europei, appartenenti all’ala estremista del movimento palestinese che fa capo a Wadi Hadda, si troverebbero in Europa, forse in Italia, per commettere un atto terroristico su una nave probabilmente passeggeri. Si tratta di terroristi addestrati in Libia ad atti di sabotaggio in mare e su natanti. Viene avanzata, inoltre, l’ipotesi che l’attentato potrebbe essere effettuato su delle navi dirette in Israele, anche se con tappe intermedie, navi passeggeri greche, francesi e italiane.
Come modus operandi vengono prospettate tre ipotesi differenti: la prima vede un’irruzione violenta con delle armi da fuoco nel porto con lo scopo di salire sulla nave e impossessarsi della stessa; la seconda invece punta sull’imbarco dei terroristi come passeggeri e l’inizio dell’azione in mare aperto, con il possibile dirottamento della stessa e infine la terza si pensa alla collocazione di una bomba sotto la chiglia della nave. Dalla Compagnia Israeliana “ZIM” viene chiesto che venga effettuato un controllo presso la ditta Barracuda, che si occupa dei controlli con i sommozzatori nel porto di Genova, per accertarsi che non ci siano infiltrazioni da parte di elementi arabi e filo arabi, che potrebbero rendere nulli i controlli stessi. Inoltre viene chiesto che il personale della Polizia, della Dogana e della Finanza perquisisca in modo capillare bagagli, persone ed eventualmente auto di elementi sospetti, indicati da un addetto della sicurezza israeliana. Poi che venga disposto un servizio, di almeno due uomini armati di mitra, al controllo dei passaporti e all’inizio della passerella dell’imbarco. Infine che venga previsto un uomo armato di mitra all’inizio della passarella dell’imbarco delle navi da carico israeliane e che si controllino anche con una lancia in mare.
Successivamente dal Ministero degli Affari Esteri, con un telegramma, indirizzato al Ministero dell’Interno e al Ministero della Difesa, si apprende su istruzioni del Governo israeliano, della possibilità di attentati terroristici contro navi in partenza da porti italiani, dirette verso Israele. Secondo indicazioni raccolte dai servizi di sicurezza israeliani, due gruppi terroristici facenti capo all’organizzazione palestinese Wadia Haddad (appartenente al Fplp di Habbach) si troverebbero in Europa e forse sarebbero già penetrati in territorio italiano al fine di compiere tali azioni, la cui possibilità di attuazione vengono valutate “molto alte” a Tel Aviv. Alla luce di questa comunicazione da parte israeliana si auspica che gli organi competenti italiani dispongano: la massima possibile sorveglianza con l’impiego di reparti armati tendente a scoraggiare, anche attraverso una presenza vistosa, ogni attentato alle navi; minuziose perquisizioni dei passeggeri, equipaggi, bagaglio ed autovetture da imbarcare sulle navi stesse.
Sempre da parte israeliana è stato segnalato il calendario delle partenze delle navi dai porti italiani dirette verso Israele nel mese di aprile, tra le quali, il 18 aprile, l’Achille Lauro. A questo punto gli elementi sono emersi tutti, circa una possibile conoscenza dei piani, da parte del Governo Italiano, per dirottare la nave Achille Lauro, già dichiarata bersaglio di attentato dal lontano 1977. E allora invece di credere alla versione di un incidente durante un trasporto, forse sarebbe meglio pensare a un atto premeditato, a lungo studiato e ben conosciuto dai terroristi palestinesi, tutti inseriti nella galassia del FPLP. Ritornando al “Lodo Moro”, ancora una volta l’Italia sapeva eppure ancora una volta si è contato un morto, ebreo. Giordana Terracina
Sigonella, 11 ottobre 1985: quando il governo italiano sfidò gli USA (e vinse). L'Indipendente l'11 ottobre 2022.
L’antefatto è andato in scena quattro giorni prima. Il 7 ottobre un commando palestinese sequestra in acque egiziane la nave da crociera italiana Achille Lauro con 545 persone a bordo, dirottandola verso la Siria. I miliziani uccidono Leon Klinghoffer, americano di origine ebraica, prima di far rientrare la nave in Egitto dopo la mediazione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Gli USA chiedono l’estradizione del commando palestinese al governo egiziano, mentre quello italiano tratta direttamente con l’OLP – con cui è in buone relazioni diplomatiche – la consegna dei quattro dirottatori affinché siano giudicati in Italia. La legge internazionale è dalla parte di Roma, considerato che, nel diritto nautico internazionale, una nave è territorio della bandiera che batte. Ma gli USA non ci stanno. Sono storicamente abituati a far valere il proprio peso egemonico dinnanzi alla norma internazionale e decidono di passare alle vie di fatto. Solo che questa volta il presidente del Consiglio italiano, Bettino Craxi, decide di non cedere. Quello che succede nelle ore successive con gli occhi di oggi ha dell’incredibile, con i militari italiani che arrivano a un passo dallo scontro a fuoco con i militari statunitensi in una notte che passerà alla storia come “la crisi di Sigonella”.
Il 10 ottobre il governo egiziano imbarca i quattro dirottatori su un aereo diretto in Tunisia, dove l’OLP aveva sede. Ma, dietro a pressioni americane, il governo di Tunisi nega il permesso di atterrare. L’aereo viene intercettato all’altezza del Canale di Sicilia da F-14 americani e dirottato. A quel punto il governo americano chiede a quello italiano il permesso di farlo atterrare nella base NATO di Sigonella, in provincia di Siracusa. Il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, concede l’autorizzazione, apparentemente cedendo ai desiderata di Washington.
È iniziato da 15 minuti l’undici ottobre quando l’aereo atterra a Sigonella, ma gli ufficiali di volo americani trovano la sorpresa: sulla pista di atterraggio il velivolo viene circondato da 30 avieri VAM (il Corpo di vigilanza aeronautica italiano) e 20 carabinieri. Pochi minuti dopo atterrano – a luci spente e senza permesso della torre di controllo – anche due Lockheed C-141 Starlifter americani della Delta Force. Questi si dirigono verso il Boeing egiziano per eseguire gli ordini ricevuti da Washington: prelevare i dirottatori e condurli nell’ala dell’aeroporto militare sotto il controllo statunitense. I militari americani si dispiegano circondando a loro volta quelli italiani, e lo fanno armi in pugno.
Alle 00:45 Craxi ordina all’Ammiraglio Fulvio Martini, capo del Sismi (Servizio informazioni e sicurezza militare), di assumere le operazioni militari per il rispetto della sovranità nazionale italiana.
Ore 01:15: sulla pista di Sigonella arrivano i rinforzi dei carabinieri chiamati dalla vicine caserme di Catania e Siracusa. È il segno che Craxi non ha accettato l’intimidazione ed accetta il rischio di escalation contro il potente alleato. I carabinieri circondano a loro volta i militari americani che avevano circondato quelli italiani e puntano le armi contro i marines.
La situazione di stallo dura diverse ore, mentre tra Washington e Roma si rincorrono telefonate molto tese. L’Italia pretende che il caso sia gestito dal proprio ordinamento giudiziario e che un regolare processo stabilisca eventualmente se estradare i dirottatori negli USA. Gli americani invece considerano la questione un’operazione di polizia internazionale, disconoscendo la priorità dell’ordinamento giuridico italiano. Non avendo ottenuto risposta positiva, è il presidente Reagan a chiamare direttamente Craxi nel cuore della notte, ma il presidente del Consiglio italiano non si mosse dalle sue posizioni: i reati erano stati commessi a bordo di una nave italiana, quindi in territorio italiano, e sarebbe stata l’Italia a decidere se e chi estradare.
Reagan non può far altro che prenderne atto. Alle ore 05:30 i militari americani si ritirano dalla base di Sigonella, lasciandone il controllo alle autorità italiane. Ma è solo la fine della prima battaglia.
Il governo italiano decide di trasferire il Boeing all’aeroporto di Ciampino, ma annusando che la questione con gli americani non è ancora risolta si decide di affidare all’aereo egiziano una scorta di caccia dell’aeronautica italiana. Mancano pochi minuti alle 21:30 quando il convoglio aereo decolla.
Ore 21:30: Da una pista di rullaggio secondaria, a luci spente, decolla da Sigonella un caccia F-14 americano della Sesta Flotta. Non ha chiesto l’autorizzazione al decollo, né presentato, secondo i regolamenti, il piano di volo. Secondo il racconto dell’ammiraglio Fulvio Martini. all’epoca comandante del SISMI: «L’F-14 tenta di interferire con il volo della formazione italiana, cercando di dirottare l’aereo egiziano per assumerne il controllo. I caccia italiani lo dissuadono e l’F-14 si ritira».
Non è ancora finita. Ore 23:00: il boeing egiziano, sotto scorta dell’aeronautica italiana, atterra a Ciampino. Un secondo aereo militare americano, dichiarando uno stato di emergenza, chiede e ottiene l’autorizzazione all’atterraggio immediato. Atterrato a sua volta, si dispone di traverso sulla pista con la chiara intenzione di impedire qualsiasi ulteriore manovra all’aereo egiziano. L’ammiraglio Martini fa sapere al pilota americano che ha cinque minuti di tempo per liberare la pista. Ne passano tre: l’F-14 accende i motori e riparte. La battaglia di Sigonella ora è finita.
Trentasette anni dopo la crisi di Sigonella può essere letto con gli occhi della storia, riconoscendola come l’ultimo sussulto di sovranità dell’Italia al cospetto dell’alleato americano.
· Il retroscena di un delitto. La pista russa.
La conferenza di Yalta 75 anni fa, la leggenda e il caso Moro. LORENZA CAVALLO l'11 febbraio 2020 su avantionline.it.
Deposta la toga – da qualche anno a questa parte – un numero considerevole di magistrati ha indossato una nuova veste, quella degli “storici”, o dei “politologi”. Ne è scaturita una cospicua produzione saggistica che riguarda in gran parte i più sanguinosi eventi della storia dell’Italia repubblicana nel quindicennio 1969-1984 con excursus che trattano anche di fatti di grande rilievo che risalgono fino all’ultimo periodo della seconda guerra mondiale e agli anni immediatamente successivi. La storia della giurisprudenza e delle leggi, dai tempi antichi a quelli contemporanei, si intreccia con quella dell’autorità e dei rapporti di forza all’interno della società. L’inquinamento ideologico dovuto alle infiltrazioni degli apparati politici tra i magistrati ha avuto conseguenze irreparabili e ha affossato lo Stato di diritto, fondato sull’equità e sulla disinteressata e rigorosa imparzialità.
Lo spunto per le considerazioni riguardanti la diffusa e persistente leggenda che circonda le decisioni prese alla Conferenza di Yalta (4-11 febbraio 1945) ha avuto origine dalla lettura di un libro, l’“Italia occulta” – sottotitolo di copertina “Dal delitto Moro alla strage di Bologna. Il triennio maledetto che sconvolse la Repubblica (1978- 1980)” (Chiarelettere 2019) – e dall’ascolto di alcuni video di presentazione, disponibili in rete, presente l’autore, il dott. Giuliano Turone, noto al grande pubblico, insieme al dott. Gherardo Colombo e al dott. Guido Viola (quest’ultimo nel 1996 patteggiò una condanna per riciclaggio di tangenti), soprattutto per le indagini su Michele Sindona che portarono alla scoperta degli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2 a Castiglion Fibocchi il 17 marzo 1981 e al “conto Protezione”. All’inizio del primo capitolo del libro di Turone si legge: “Terza importante peculiarità italiana è quella di avere avuto, proprio sul confine determinato a Yalta, il più grande Partito comunista del mondo occidentale. Anche questa è stata una peculiarità carica di conseguenze. Dopo Yalta – e quindi dopo la caduta del fascismo – la presenza in Italia di un Partito comunista così forte (e che nei primi lustri guardava in effetti con simpatia al blocco sovietico) ha suscitato gravissime preoccupazioni negli ambienti della Nato” (pp. 13- 14).
Concetti analoghi, e ulteriori considerazioni, il dott. Turone li aveva espressi a Porto Sant’Elpidio il 21 marzo 2019 (Rassegna Parole & nuvole. Festival della parola. La storia, la memoria) e il 7 aprile 2019 a Perugia (nel corso dell’International Journalism Festival): “[…] Ecco, questa presenza del partito comunista italiano, proprio sulla linea di Yalta [… ha] creato un imbizzarrimento tremendo che ha portato a conseguenze che sono poi la strategia della tensione […] che vanno dal rapimento e sequestro di Aldo Moro, dove le Brigate rosse in qualche misura sono state poi […] manovrate molto sottilmente da chi aveva tutto l’interesse a far sì che Aldo Moro non uscisse vivo da quella avventura, e altre cose terribili come la strage di Bologna”. È avvilente notare anche in questo caso – come per il presunto “Supplemento B” al “Field Manual 30-31” dell’esercito degli Stati Uniti (già affrontato in questo sito on line, si veda l’articolo “Le stragi in Italia e il presunto Manual 30-31B della U.S. Army”) – che un magistrato finisca per rilanciare una “leggenda metropolitana”, che in questo caso è una vera e propria “leggenda storiografica”.
Sulla “linea di Yalta” e la strategia “stragista atlantica” – per impedire il cosiddetto “compromesso storico”, o che “il partito comunista prendesse il potere” – si è schierato l’ex senatore comunista Sergio Flamigni, autore di numerosi saggi composti per lo più di precarie informative di Polizia e dei Servizi segreti , e in merito privi di una doverosa riflessione critica delle fonti. Sullo stesso tono anche Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage della stazione di Bologna del 2 agosto 1980 (si veda “Alto tradimento. La guerra segreta agli italiani da piazza Fontana alla strage della stazione di Bologna”, Castelvecchi 2016, pp. 5-8), ha rintracciato un filo – con una allusione indiretta passante per Gladio. Nel libro sopraccitato si legge: “Una visione globale dei fatti, utile a identificare nomi e responsabilità di chi ha pianificato ed eseguito la guerra del terrore – prevista, già nel 1956, da un accordo tra servizi segreti italiani e atlantici per mantenere il Paese all’interno del quadro geopolitico di Yalta – utilizzando l’arma delle stragi e dei depistaggi” (p. 5). Uno scritto confuso e farraginoso, “rudis indigestaque moles”, dettato dall’ignoranza dell’ex deputato in materia di storia dei partiti politici.
Fanno eco uno stuolo di giornalisti che sostengono con poche varianti, che durante la conferenza in Crimea ci sarebbe stata una divisione addirittura del mondo, in sfere di influenza o blocchi contrapposti e che l’Italia, nell’ambito di una presunta “logica di Yalta”, sarebbe stata assegnata alla sfera di influenza di Gran Bretagna e Stati Uniti. In un sistema totalitario l’informazione non può che esserne il riflesso e in un sistema democratico è sovente l’emanazione di una competizione per il potere e obbliga ad una doverosa riflessione sulla genesi della massiccia disinformazione e sulla violenza psicologica di chi ha abusato, e continua ad abusare, dei mezzi d’informazione di massa.
La “fonte” Mino Pecorelli
Sul numero 6 del settimanale “OP – Osservatore politico”, datato 2 maggio 1978 – mentre il sequestro di Moro era ancora in corso, Mino Pecorelli pubblicava un articolo intitolato “Yalta in via Mario Fani”, che si concludeva con queste parole: “È Yalta che ha deciso via Mario Fani” (p. 2). Nell’editoriale incorniciato (“Il paese si può e si deve salvare”, p. 1) – che precedeva l’articolo che richiamava Yalta – Pecorelli scriveva: “Il caso Moro ha finalmente mostrato il suo profondo significato: un ultimatum delle due superpotenze alla capricciosa e smemorata classe politica italiana.” In quel numero di “OP”, Pecorelli forniva un’interpretazione del sequestro di Moro, visto come una operazione congiunta delle due superpotenze (Usa e Urss) attuata mediante un misterioso “lucido superpotere”, con le Br semplici comparse su un teatro da altri approntato, con “l’obiettivo primario” di “allontanare il partito comunista dall’area del potere”, area alla quale, secondo il giornalista, il Pci si era evidentemente troppo avvicinato. In effetti un governo monocolore a guida democristiana (IV governo Andreotti, 11 marzo 1978 – 21 marzo 1979) varato con l’appoggio esterno del partito comunista che seguiva il III governo Andreotti (30 luglio 1976 – 11 marzo 1978) sempre un monocolore Dc che aveva governato grazie all’astensione del Partito comunista italiano. Una cooperazione senza precedenti, la prima applicazione concreta della storica strategia di compromesso promossa dall’on. Moro. Governo che, secondo Pecorelli, era sgradito agli americani e ai sovietici in quanto avrebbe messo in pericolo la “logica di Yalta” (sic!).
Dopo una lunga metamorfosi durata decenni, Pecorelli, assassinato il 20 marzo 1979, riscattato dall’aura di ricattatore, nel nuovo millennio è diventato il principe dei giornalisti investigativi e una sorta di oracolo da compulsare su tutti gli aspetti oscuri della vicenda del sequestro e dell’omicidio di Moro. Così, 38 anni dopo la primavera del 1978, Paolo Cucchiarelli – giornalista e scrittore – intitolava una breve sezione del suo libro “Morte di un Presidente” (Ponte alle Grazie, 2016) proprio con le parole usate da Pecorelli: “La logica di Yalta”, riprendendo alla lettera e riportando con approvazione una lunga citazione dall’articolo di Pecorelli intitolato “Yalta in via Mario Fani”. Secondo Cucchiarelli, l’interpretazione di Pecorelli “a distanza di decenni, mantiene ancora una sua intrinseca validità e legittimità” (p. 186).
Le fonti di Mino Pecorelli
È inevitabile però porsi un semplice interrogativo: come potevano le decisioni prese dalle potenze alleate (Usa, Urss e Gran Bretagna) a Yalta nel 1945 produrre effetti 33 anni dopo, al tempo del sequestro di Aldo Moro (1978) – come sosteneva Pecorelli in quei giorni e come sostengono i suoi estimatori, dott. Turone compreso – se l’argomento Italia non fu trattato in quella famosa conferenza sul Mar Nero? Nel Dopoguerra la vita politica italiana è sempre stata segnata dagli scandali della partitocrazia e da vicende giudiziarie, che si presentavano come episodi salienti della lotta politica in atto, mentre, fin dal 1973, tutti i quadri del più delicato servizio della difesa erano stati messi fuori combattimento dalla cronaca giudiziaria e scandalistica. Le fonti di Pecorelli sono facilmente individuabili, è sufficiente leggere “OP” attentamente, gli articoli rispecchiano le rivalità all’interno di Servizi segreti che obbedivano alle direttive dei loro padrini politici, utilizzando anche metodi poco ortodossi e fornivano al direttore di “OP” informazioni altalenanti e contraddittorie, e finanziamenti, purtroppo per lui, molto oculati. Temi e avvenimenti complessi venivano ridotti ad un dibattito e ad uno scandalo di borgo, mentre i “buchi” riempiti con notizie del tutto personali ed intime su personaggi della vita politica che rammentano gli scandaletti che diffondeva il Sifar negli anni cinquanta-sessanta per fare pressioni sugli avversari.
Viene spontanea una domanda: chi ispirò Pecorelli e l’articolo manifestamente di “depistaggio” in un momento così delicato del sequestro, pochi giorni prima del ritrovamento del cadavere dell’on. Moro? Nel testo le contraddizioni sono evidenti e non si rileva alcuna analisi effettiva sulla politica e sulla strategia delle due potenze degli anni settanta che possa corroborare la tesi di un “lucido superpotere” Urss-Usa decisionale con un esecutivo affidato agli americani. Peraltro Pecorelli, in un altro articolo riprende la “bufala” che il sequestrato potesse essere stato trasportato nell’ambasciata della Cecoslovacchia a Roma! (“OP”, n. 1, 28 marzo 1978, p. 6). Come mai magistrati, studiosi, giornalisti difensori del cosiddetto “compromesso storico” Berlinguer-Moro accettano come voce indiscussa un piduista, le cui fonti e la non autonomia erano stranote a tutti gli addetti ai lavori? sorvolando , inoltre, sul fatto che quando venne rapito l’on. Moro, Berlinguer aveva già riconosciuto la giurisdizione della Nato. In particolare come mai attualizzano dei concetti sulla presunta strategia americana e della Nato utilizzando un linguaggio e dei concetti che sono propri all’estrema destra (e non hanno nulla a che vedere con la propaganda anti-Nato dei sovietici) per rimettere in questione i principi dell’ordine internazionale liberale post1945, basato su valori indiscutibili e discussi proprio a Yalta quando furono poste le premesse per la conferenza che si svolgerà a San Francisco (25 aprile – 26 giugno 1945) dove fu ratificata la Carta delle Nazioni Unite che ne anticipò l’Organizzazione e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo adottata del 1948.
Una patologia della memoria e la dichiarazione dell’Unesco
Gli autori sopraccitati non collocano la Conferenza di Yalta nel contesto della lunga serie delle conferenze dal 1943 al 1945. Tutti questi scritti e dichiarazioni sono circondati da un impressionante deserto bibliografico, nessuna fonte storica vera e propria è mai richiamata. Devono ritenere talmente scontato e assodato quanto sostengono, da rendere superfluo qualsivoglia riscontro che suffraghi le loro affermazioni. È questo probabilmente uno dei meccanismi che spiega l’ampia e pervasiva diffusione delle convinzioni delineate sopra; è una catena di “conoscenze” che si autoalimenta e si autoperpetua. La “Dichiarazione dell’Unesco” sancisce il “Diritto del pubblico all’informazione veridica, alla verifica delle fonti, alla completezza della notizia, poiché risponde ad un’esigenza di coesione sociale, ad una funzione di affidabilità e di legittimo funzionamento delle istituzioni”, in particolare da parte di chi ricopre una funzione pubblica come un giudice, un deputato e un senatore. S’impone una valutazione equilibrata e oggettiva delle responsabilità, un’esposizione razionale secondo la loro logica intrinseca e sulla base, in questo caso, facilmente reperibili, di documenti, atti di conferenze internazionali e Trattati (alcuni dei quali già disponibili nella seconda metà degli anni ’40, e più ampiamente a partire dalla metà degli anni ’50, tradotti anche in italiano), e ovviamente la sterminata attendibile storiografia di eminenti studiosi che si è andata accumulando negli scorsi 75 anni.
“L’era” delle conferenze
Se si definisce la “guerra fredda” come la congiunzione di una tensione ideologica e di una tensione militare è estremamente istruttivo analizzare come due fattori abbiano giocato e si siano combinati nel periodo che si estese tra gli accordi di Monaco (29-30 settembre 1938) e la conferenza di Potsdam (17 luglio – 2 agosto 1945). Da questo punto di vista si possono distinguere due fasi: la prima, dal settembre 1938 al giugno 1941 il dibattito si svolse tra tre ideologie reciprocamente ostili: comunismo, fascismo e democrazia liberale, nella seconda fase fu fatta una scelta, un’opzione pur provvisoria, e il problema centrale che si pose alla diplomazia di guerra fu quello dei limiti di collaborazione tra partner divisi da due mondi ideologicamente avversi ma alleati contro un Hitler alla ricerca del suo “Lebensraum” (spazio vitale), concetto geopolitico pangermanista poi incorporato nel nazismo. L’espansione della Germania si rivolgeva ad Oriente, in direzione degli Slavi e delle immense risorse di materie prime dell’Urss.
Usa, Gran Bretagna e Urss, pur provvisti di poteri decisionali ed esecutivi nazionali differenti, si accordarono per giungere ad un’azione comune negli Alti Comandi, dotando l’Esecutivo degli strumenti necessari a seguito di decisioni collegiali che condurranno, durante tutto il corso della guerra, ad operazioni cosiddette “combinate” dei capi di Stato Maggiore e dei due sotto-comitati: la commissione “combinata” dei Piani e il comitato “combinato” Informativo. Le responsabilità prese collettivamente costituirono il Comando supremo interalleato, l’autorità si applicava direttamente ai teatri del Nord-Ovest, del Mediterraneo e asiatico, i comandi operazionali erano intermediari; solo il Pacifico rilevava direttamente dal comando americano. Gli Alleati con risultati diversi, realizzarono che per condurre a buon fine una guerra, la Politica e il Militare si confondevano nella persona del capo dello Stato o ad un organo esecutivo ristretto che nello stesso tempo era incaricato di dirigere la Politica Nazionale. Il rafforzamento del potere esecutivo destinato a costituire una testa strategica vigorosa fu realizzato nei paesi a tendenza “democratica”, in altre nazioni il principio di unità riconosciuto e adottato non richiese che una semplice messa a punto come in Urss dove il Presidium del Soviet supremo e il Consiglio dei Ministri già determinavano le linee direttive.
L’origine della leggenda di Yalta
Nello spirito collettivo, Yalta, per molti anni, ha simboleggiato la “divisione del mondo” tra grandi potenze mentre Potsdam ha raffigurato la fine della guerra anche se il Giappone non capitolerà che il 2 settembre, dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki (6-9 agosto 1945). La rappresentazione arbitraria ha una doppia origine. Da un lato esprimeva il risentimento degli esiliati dei paesi dell’Est e del generale De Gaulle non invitati alla conferenza di Yalta, i quali diffusero l’idea che tutto si era deciso in Crimea nel febbraio 1945. D’altro canto fu un riflesso, a posteriori, della divisione avvenuta in Europa a partire dal 1947. Un proposito tenace denunciato in un articolo di Raymond Aron, “Yalta ou le mythe du péché originel” (“Le Figaro”, 28 agosto 1968).
A Yalta gli Alleati “sanzionarono una divisione geografica d’influenza meno rigorosa di quanto generalmente si pensa” scriveva Robert Toulemon che ricoprì varie cariche istituzionali e fu capo Gabinetto di Robert Marjolin, vice presidente della CEE (Cfr. R. Toulemon, “Europe européenne ou Europe atlantique?”, “Défense nationale”, gennaio 1978, pp. 51-61). Nel 1953, Paul Ramadier, ministro ed ex presidente del Consiglio nella IV Repubblica francese osservò: “La divisione dell’Europa è lontana da essere chiara. Noi non conosciamo le ‘clausole segrete’ di Teheran e Yalta, i testi e i fatti resi pubblici danno l’impressione di una grande confusione. È certo che in definitiva l’Europa orientale è diventata un satellite dell’Urss ma è molto meno certo che sia stato formalmente deciso a Yalta” (Cfr. P. Ramadier, “Les clauses secrètes de Yalta”, “Revue de Défense nationale”, maggio 1953, pp. 531-543).
I Sovietici nell’immediato dopoguerra per attestare la grandezza di Stalin scrivevano: “Voi sapete tutti – conformemente agli accordi di Yalta [in realtà alla 4ª conferenza di Mosca del 9-19 ottobre 1944] che il nostro Padre geniale si è adoperato a concludere – la Romania come l’Ungheria, la Bulgaria e la Polonia senza contare la Jugoslavia dove si trova il nostro caro Tito [la rottura Stalin-Tito non era ancora avvenuta]entrano nella sfera d’influenza sovietica. La concessione che Stalin ha dovuto fare in cambio fu d’ingaggiarsi a tollerare l’installazione di governi di unità nazionale in questi paesi. Ma, attualmente, è a noi che appartiene di agire in modo di svuotare di ogni sostanza questa clausola e anche tutte le altre” (Cfr.“Pravda”, dicembre 1945).
Le conferenze interalleate 1943-1944
Tra le conferenze interalleate, la più rilevante si tenne a Casablanca (14-24 gennaio 1943) i convenuti: Roosevelt, i generali Giraud e De Gaulle, rappresentanti dei francesi liberi dell’Africa del Nord, mentre Stalin declinò l’invito, discuteranno degli aiuti all’Urss e dell’apertura di un secondo fronte e lo sbarco in Sicilia che dall’aprile subì gli iniziali bombardamenti. Furono istituite le prime strutture di comando alleate che combatteranno la Germania nazista e il Giappone con la designazione di un capo di Stato maggiore “Cossac” (Chief of Staff to Supreme Allied Commander) e in seguito la creazione del Shaef (Supreme Headquarters Allied Expeditionary Force). L’organizzazione fu un elemento chiave per tutti i paesi belligeranti. Il Shaef, prefigurava la futura Nato e i successivi Shape (Supreme Headquarters Allied Power Europe) e Sact (Supreme Allied Command Transformation). Nello stesso anno si tennero, a Washington (3ª conferenza 12-25 maggio 1943) e a Québec (1ª conferenza, 14-24 agosto 1943) incontri strategici, furono esaminati i preparativi per la campagna d’Italia, gli attacchi aerei sulla Germania nazista, i preparativi per lo sbarco in Normandia. Fu presa in considerazione l’apertura di un ulteriore fronte in Cina poi concretato alla conferenza del Cairo (22-26 novembre 1943) che riunì Roosevelt, Churchill e Chiang Kai-shek, nella lotta contro l’Impero giapponese. Stalin, non partecipò, era ancora in vigore il Patto di neutralità nippo-sovietico dell’aprile 1941, firmato dai ministri agli Esteri Vyacheslav Molotov e Yosuke Matsuok.
La 3ª conferenza di Mosca ebbe luogo dal 18 ottobre al 1º novembre 1943. Si riunirono i ministri degli affari esteri del Regno Unito (Anthony Eden), degli Stati Uniti (Cordell Hull) e dell’Unione Sovietica (Vyacheslav Molotov), mentre l’ambasciatore della Repubblica di Cina a Mosca, Foo Ping-Shen fu invitato a firmare la prima delle quattro dichiarazioni finali: la sicurezza generale e chiese l’istituzione di un’organizzazione collettiva basata sul principio di uguale sovranità di tutti gli Stati pacifici. Fu decisa la creazione di una Commissione consultiva europea, che riunirà i Tre Grandi e redigerà lo Statuto di Norimberga, promulgato l’8 agosto 1945, aprendo la strada ai processi contro i crimini nazisti. Fu anche proclamata nulla l’annessione (l’Anschluss) dell’Austria alla Germania nel 1938 poi confermata nel 1945 mentre sull’Italia – nel settembre Badoglio aveva proclamato l’armistizio – si legge: “il fascismo e la sua influenza devono essere sradicati e al popolo italiano devono essere date tutte le opportunità di creare istituzioni basate su principi democratici”.
A Teheran, dal 27 novembre al 1º dicembre 1943, quando Roosevelt e Churchill si incontrarono per la prima volta con Stalin, furono prese tre importanti decisioni: una politica e due militari. Fu affrontato il principio dello smembramento della Germania, in cinque stati autonomi (Prussia, Hannover, Sassonia, Assia, Renania e Germania del sud), piano poi ridimensionato a Yalta e a Potsdam; il dibattito preliminare sull’annessione di Königsberg da parte dell’Unione Sovietica e lo spostamento dei confini della Polonia verso Ovest in modo che l’Urss potesse mantenere i territori polacchi ottenuti dal patto tedesco-sovietico (1939-1940): i paesi baltici, la Moldavia, la Bessarabia, la Carelia finlandese. In compenso (parziale), la futura Polonia riceverà i territori orientali della Germania. Fu stabilita la data (6 giugno 1944) dello sbarco in Normandia. A livello politico, Stalin accettò il principio della creazione di un’organizzazione internazionale, proposta da Roosevelt.
Il fallimento dell’offensiva britannica nell’Egeo (disapprovata dagli Stati Uniti, settembre-novembre 1943) costrinse gli Inglesi a rinunciare a tutte le rivendicazioni verso l’Europa orientale e alla 4ª conferenza di Mosca (9-19 ottobre 1944), nell’incontro Stalin-Churchill, il leader britannico in cambio di un’influenza sulla Grecia, accettò che l’Urss esercitasse il suo controllo in Romania e Bulgaria (accordi segreti). La gestione dell’impero britannico dipendeva ben più dalla presenza della flotta inglese nel Mediterraneo orientale che dall’appropriazione da parte dell’Urss di spazi terrestri situati sulla via delle Indie verso le colonie e i protettorati degli Inglesi nel subcontinente indiano conquistati tra il XVII al XX secolo. A Mosca fu vagliata l’entrata in guerra dell’Urss contro il Giappone e il futuro della Polonia e dei Balcani. Roosevelt assente, oltre Stalin, Churchill e i ministri agli Esteri erano presenti anche le delegazioni del governo polacco in esilio e del governo provvisorio (comunista) polacco. Alla 2ª conferenza di Québec, dall’11 al 16 settembre 1944, i colloqui tra Churchill e Roosevelt si concentrarono sulla partecipazione britannica alla guerra contro il Giappone e la questione della Germania.
La conferenza di Yalta
Preceduta dalla conferenza di Malta (30 gennaio – 2 febbraio) dal 4 all’11 febbraio 1945, il Primo Ministro britannico (Churchill), il Presidente americano (Roosevelt) e il Presidente del Consiglio dei commissari del popolo dell’Urss (Stalin) si incontrarono al Palazzo Livadija, l’ex residenza estiva degli zar, nella località balneare di Yalta, sulle rive del Mar Nero in Crimea. L’Armata Rossa era a meno di 100 km da Berlino, la sconfitta del nazismo ormai una certezza. A Yalta, fondamentale fu la dichiarazione dell’11 febbraio 1945 sull’Europa liberata:
a) durante il periodo temporaneo d’instabilità i tre Grandi effettueranno una politica comune e “assisteranno congiuntamente” i popoli di ogni Stato libero dell’Europa e ogni Stato europeo ex satellite dell’Asse;
b) essi aiuteranno “a costituire delle autorità governative provvisorie largamente rappresentative di tutti gli elementi democratici di queste popolazioni (patto di unità nazionale);
c) questi governi si impegneranno a stabilire, non appena possibile, tramite libere elezioni, dei governi che esprimano la volontà dei popoli.
* A Yalta la preoccupazione maggiore di Roosevelt fu su come ottenere il concorso dell’Urss nella guerra contro il Giappone. Gli accordi furono predisposti con riserva in attesa della sconfitta della Germania e assoggettati alle condizioni reclamate da Stalin: il rispetto dello “status quo” nella Mongolia esterna (Repubblica del popolo mongolo); i diritti dell’Urss nella parte meridionale di Sakhalin e tutte le isole adiacenti e le Isole Curili; il ripristino del contratto di locazione di Port Arthur (attualmente Lüshunku) all’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche come base navale; la gestione congiunta di una società sino-sovietica: la East China Railway e la South Manchurian Railway, che serviranno il porto di Dairen ma con la piena e completa sovranità della Cina in Manciuria restando sottinteso che le disposizioni concernenti la Mongolia esterna avrebbero richiesto l’accordo del Generalissimo Chiang Kai-shek.
* Sulla Jugoslavia il problema fu discusso durante le riunioni plenarie e le sessioni dei ministri degli Esteri. Gli Alleati auspicavano un accordo tra Tito e Nan Subasitch con l’obiettivo illusorio di unire il governo jugoslavo in esilio e monarchico con base a Londra, guidato da Pietro II Karadjordjevich con il governo comunista di fatto antimonarchico di Belgrado. Tito riuscì, con la forza delle armi, pagando un prezzo altissimo ad annullare il controllo condominiale pattuito da Stalin con Churchill a Mosca nell’ottobre 1944. In Jugoslavia la vittoria finale sul nazismo costò ai popoli della Jugoslavia sacrifici eccezionali: vi perirono 305.000 tra combattenti e dirigenti e oltre 400.000 furono feriti, con le vittime tra la popolazione civile superarono la cifra di 1.700.000 morti a causa delle orrende rappresaglie di massa da parte dei nazi-fascisti. Nel “Diario partigiano”, pubblicato dopo la guerra in tre volumi, Tito parla dell’accordo tra l’Unione Sovietica e la Gran Bretagna poi confermato dalle memorie del diplomatico Cordell Hull, e dal libro di Edward Stettinius (“Roosevelt and the Russians. The Yalta Conference”, a cura di Walter Johnson, Garden City N.Y., Doubleday 1949) le cui rivelazioni non sono mai state smentite dai Sovietici.
* A Est, la grande offensiva sovietica che aveva occupato la Prussia orientale, la Polonia meridionale, e la pianura ungherese, si stava smorzando. Si combatteva per le strade di Budapest; tre divisioni corazzate delle SS bloccheranno per mesi sulle rive della Vistola l’Armata del maresciallo Rokossovskii che cercava di raggiungere Varsavia. Quei mesi vennero utilizzati da Stalin per convogliare sul fronte migliaia di mezzi corazzati e di trasporto truppe forniti dagli Stati Uniti e preparare l’ultima grande offensiva che doveva portare le armate di Koniev, Zhukov, Malinovskii, e Tolbukhin all’Elba, nel cuore dell’Europa, limite massimo stabilito dagli accordi di Yalta alla marcia verso Occidente e dove, nella primavera del 1945, vi fu la congiunzione delle truppe di liberazione dell’Armata Rossa e quelle americane condotte dal generale Omar Bradley che si fermarono a Pilsen (“A Soldier’s Story”, New York, Holt 1951). La linea di demarcazione delle due armate fu certamente discussa poiché se ne trova traccia nei documenti pubblicati fin dal 1946, in effetti i limiti erano già stati fissati a Londra nel settembre e novembre 1944 dal comitato che preparò la conferenza di Yalta.
* La liberazione della Polonia da parte dell’Armata Rossa creò una situazione nuova e la circostanza richiese la costituzione di un governo polacco con basi più ampie. La commissione per la formazione fu presieduta da Molotov e dagli ambasciatori americani e inglesi. Churchill farà pressione sugli esiliati polacchi a Londra per ottenere il loro ingresso in un governo di coalizione con i leader della Polonia stessa in un governo provvisorio di “Unità nazionale”. L’accordo fu “scarabocchiato” da Churchill su un foglio di carta (il documento originale è conservato alla Biblioteca Nazionale di Vienna). La dichiarazione precisava le condizioni per le libere elezioni sulla base del suffragio universale. Harry Hopkins, consigliere diplomatico di Roosevelt, insistette sulle libertà fondamentali: libertà di parola, pari diritto a tutti i partiti e di espressione politica, diritto d’“Habeas corpus.
* La questione tedesca era infinitamente più complessa. I Tre la considerarono distinta dalla Dichiarazione sull’Europa liberata ma a Yalta rinunciarono alla divisione della Germania e avvicinarono la loro dottrina a quella adottata per gli altri paesi ma la sottomisero a delle regole speciali. La decisione implicò la creazione di zone di occupazione separate attribuite ad ognuno dei Tre Grandi e alla Francia, i provvedimenti definitivi furono presi a Potsdam.
I resoconti sono più istruttivi degli stessi protocolli di Yalta sull’impegno degli Alleati alla costituzione di un governo rappresentato da tutti gli elementi democratici, ma anche la volontà da parte del Cremlino di assicurare dei ministri amici e fedeli all’Urss. L’obiettivo principale di Stalin era un piano di divisione dell’Europa sud-orientale in zone di influenza fondata sull’intento di preservare l’Urss da futuri attacchi come nel 1914 e nel 1941. A Yalta, l’Italia non fu mai menzionata. Esclusivamente in merito alla Germania si può parlare di divisione di autorità, altrove nell’Europa liberata i Tre grandi ottennero un controllo da esercitare in comune, accordi che concernevano i diritti che spettavano ai comandi militari sul territorio dove si svolgevano le operazioni. Una collaborazione che sarebbe terminata il giorno che i Paesi liberati si fossero dati, tramite elezioni, un governo corrispondente alla volontà del popolo.
La conferenza di Potsdam
A Postdam (17 luglio – 2 agosto 1945) gli Alleati in effetti ritorneranno sulla sorte della Germania vinta e confermeranno il trasferimento all’Urss della città di Königsberg (poi Kaliningrad) e della parte settentrionale della Prussia orientale, così la cessione alla Polonia dei territori tedeschi situati ad est della linea Oder-Neisse. Queste modifiche delle frontiere a Est come a Ovest provocarono nell’immediato dopoguerra il dramma del trasferimento di popolazioni intere di milioni di tedeschi, cacciati dalle terre che avevano abitato per secoli. L’accordo, su richiesta di Stalin prevedeva anche il ritorno in Urss di coloro che si unirono alla Wehrmacht per combattere il comunismo e di tutti i detenuti sovietici. Nel 1941-45 ben 5.754.000 di russi si arresero ai tedeschi; ne morirono 3.700.000 e la stragrande maggioranza dei sopravvissuti venne eliminata dalla polizia politica dopo la loro consegna forzata da parte degli Alleati. La maggior parte dei Russi consegnati a Stalin venne massacrata dai comandi speciali dell’Nkvd e Smersh. L’unica voce di un intellettuale che difese questi Russi e protestò contro i massacri fu quella di George Orwell in “The Prevention of Literature” (“Polemic”, gennaio 1946, p. 7). Solo negli anni Settanta l’Occidente seppe dei massacri e della liquidazione fisica di due milioni di Russi dall’“Arcipelago Gulag” (in Italia diffuso da Arnoldo Mondadori , 1974 ) di Solženicyn;] e poi da Nikolai Tolstoy (“Victims of Yalta. The Secret Betrayal of the Allies, 1944-1947”, London, Hodder and Stoughton 1977).
A Potsdam l’Italia perse le sue Colonie africane. È bene ricordare come l’Italia fascista svolse la sua “Missione di Civiltà” in Africa. La documentazione storica sull’argomento è ampia e stampata nelle principali lingue. Riferisce di orrende stragi di popolazioni africane, della deportazione delle popolazioni del Gebel cirenaico, della costruzione nella Sirtica di quindici letali campi di concentramento, dell’impiego dei gas asfissianti nella guerra coloniale contro l’Etiopia, delle micidiali rappresaglie dopo il fallito attentato al maresciallo Graziani, vice-re d’Etiopia, eccetera. Gli storici testimoniano in merito a massacri di civili, sterminio di élite intellettuali e politiche, nonché di campi di concentramento ove morì la maggioranza degli internati tra i quali oltre 300.000 Etiopi e centomila Libici. Parlano di massacri, di bombe a gas tipo C.500-T per un totale di 317 tonnellate, e in Etiopia dell’impiego di oltre 500 tonnellate di aggressivi chimici. Il 19 febbraio 1937 la strage di Addis Abeba, perpetrata dalle camicie nere, fece migliaia di vittime, tra le quali 449 religiosi come precisò il comandante Maletti che fece abbattere, con le mitragliatrici a Debrà Libanòs, Laga Wolde e a Guassa oltre duemila tra preti e monaci (cfr. il n. 21 di “Studi Piacentini”, 2004 e Angelo Del Boca, “Gli italiani in Africa orientale”, Laterza 1986 e “Gli italiani in Libia”, Laterza 1988). Una macabra ed allucinante documentazione fotografica è visibile negli Archivi storici di Addis Abeba. Senza dimenticare le atrocità dei quattro invasori della Grecia, tra i quali gli Italiani, documentazione raccolta dal “Servizio centrale dell’ufficio nazionale ellenico sui criminali di guerra” che nel 1948 costituì 952 dossier.
La carta delle Nazioni Unite discussa a Yalta
Dopo un lungo periodo di riflessione e di incontri iniziati nel giugno 1941 a Londra (al St. James’ Palace), il primo progetto sulle Nazioni Unite fu sviluppato durante una conferenza tenutasi in un palazzo di Washington il “Dumbarton Oaks” (21 agosto – 7 ottobre 1944). I rappresentanti di Cina, Stati Uniti, Regno Unito e Urss concordarono gli obiettivi, la struttura e il funzionamento di un’organizzazione mondiale. Rimaneva tuttavia un vuoto importante: la procedura di voto in seno al Consiglio di sicurezza. Questo vuoto fu riempito a Yalta quando furono poste le premesse per la conferenza che si svolgerà a San Francisco (25 aprile – 26 giugno 1945) dove fu ratificata la Carta delle Nazioni Unite che definì gli scopi e i principi delle Nazioni Unite e la composizione, la missione e i poteri dei suoi organi esecutivi (il Consiglio di sicurezza), deliberativo (l’Assemblea generale), giudiziario (la Corte internazionale di giustizia) e amministrativo (il Consiglio economico e sociale, il Consiglio di amministrazione fiduciaria e il Segretariato generale). Aderirono 50 nazioni. A San Francisco furono posti i preliminari per una giurisdizione internazionale che si concretizzerà con la creazione del Tribunale di Norimberga e il Tribunale di Tokio che giudicheranno i grandi criminali di guerra. L’autodeterminazione dei popoli, il loro diritto alla sovranità e alla scelta del governo (punto 3) [si noterà la contraddizione su questo tema dato il vasto impero coloniale britanniche per non riprodurre gli errori del passato, il “Diktat” di Versailles e le conseguenze per la Germania nel 1919, fu proposto di favorire lo sviluppo “sia dei vincitori che dei vinti” (punto 4) al termine del conflitto.
La Dichiarazione sui diritti umani
Dopo la fine dell’era della proclamazione giuridica delle libertà nel XVIII secolo poi l’era della socializzazione nel XIX che aggiunse, ai diritti civili e politici, i diritti economici, sociali e culturali, la Carta delle Nazioni unite proclamò per la prima volta nel giugno 1945 al mondo i diritti fondamentali dell’Uomo poi adottati il 19 dicembre 1948 con nessun voto contrario ma sei astenuti: l’Urss, la Bielorussia, l’Ucraina, la Polonia, la Cecoslovacchia, l’Africa del Sud e l’Arabia saudita. Purtroppo il testo fu adottato in piena guerra fredda, dopo il colpo di Stato di Praga, il Blocco di Berlino, il conflitto ideologico divideva l’Europa; il crollo degli Imperi coloniali europei darà origine alla Conferenza afro-asiatica di Bandung, aprile 1955, al Terzo Mondo. La democrazia, la prosperità economica e la diminuzione degli armamenti troveranno i loro limiti fin dagli inizi della guerra fredda. Nell’Europa liberata l’espressione “istituzioni democratiche” non aveva lo stesso significato per i leader delle potenze vincitrici.
Nell’Europa orientale, nei Paesi liberati dall’Armata Rossa, i comunisti rapidamente conquistarono posizioni chiave, in modo autoritario e senza ricorrere al libero voto. Un anno dopo gli accordi Stalin-Churchill-Roosevelt vi fu il voltafaccia della politica sovietica, un vasto territorio di una porzione del “Rimland” europeo passò sotto il controllo sovietico. L’ambasciatore Manlio Brosio precisava: “che cadde sotto la dominazione sovietica, una superficie totale di 1.020.000 km2 oltre 91 milioni di abitanti non russi”. L’Urss aveva completamente rimaneggiato la carta dell’Europa orientale non solo per tutelare la sicurezza geostrategica e sostituire il “Blocco slavo”, poiché rivendicò due punti offensivi, uno verso lo stretto danese, l’altro nel Mediterraneo e al Bosforo per estendere la sua influenza fino al cuore dell’Europa. I principi enunciati nelle conferenze di Yalta, di San Francisco, nella carta atlantica ecc. vennero pertanto violati.
I comunicati e i protocolli
Sulle conferenze che si svolsero tra il 1941 e il 1945 abbondano, fin dal 1946, documenti d’archivio e saggi ma più che una classificazione cronologica, una classificazione tipologica sembra la più appropriata e si può ripartire tra storia ufficiale, storia ufficiosa e storia non-conformista, quest’ultima, talvolta stimolante, ma per lo più “pittoresca” e tesi grottesche ampiamente diffuse in Italia. Alla fine della conferenza, di Yalta il 12 febbraio 1945, fu pubblicato un comunicato stampa, ma riguardava solo una parte degli accordi conclusi tra i Tre leader: si trattava dei punti 2, 7 e 8 e punto 13 dei verbali che concernevano delle note sulla frontiera jugoslava e la frontiera italo-austriaca, richieste presentate dai britannici di cui gli americani e i sovietici promisero di esaminare in un secondo tempo; la previsione di formare una commissione centrale di controllo in Germania alla fine del conflitto e un programma futuro di incontri. Il resto fu tenuto segreto per ovvie ragioni diplomatiche e strategiche. Il protocollo della conferenza, redatto e firmato dai tre ministri degli Esteri, nel 1947 fu pubblicato dal Dipartimento di Stato americano in risposta alle critiche dei Repubblicani alla politica di Roosevelt. I protocolli di Yalta e di altre conferenze, alla Convenzione di Armistizio con la Germania, la Bulgaria, l’Austria, Finlandia, Ungheria, Giappone, Romania, Italia furono resi pubblici nel 1946 in un “Recueil de textes à l’usage des Conférences de la Paix” (Paris, Imprimerie nationale 1946, 278 pp.). Si tratta di una raccolta di testi del Ministero degli Affari Esteri francese ad uso dei giornalisti accreditati alle Conferenze della Pace di Parigi.
Nel 1955 il Dipartimento di Stato americano pubblicò un voluminoso tomo di oltre 1100 pagine contenente gli atti della due conferenze di Malta e Yalta (Cfr. “Foreign Relations of the United States. Diplomatic Papers. The Conferences at Malta and Yalta 1945”, Washington, D.C., United States Government Printing Office 1955; ora consultabile online). Nel 1957 Mosca pubblicò la raccolta della corrispondenza scambiata da Stalin con i presidenti degli Stati Uniti Roosevelt, Truman e con i primi ministri Churchill e Attlee a cura di Andreï Gromiko, le 700 pagine di documenti contenevano poche rivelazioni, ma sono molto istruttive sullo stato d’animo dei Tre Grandi. Il libro fa luce sul meccanismo di un’alleanza e sulla “superdiplomazia” che i capi di governo avevano messo in atto per cercare di risolvere gli innumerevoli problemi che la diplomazia ordinaria non avrebbe potuto determinare. La raccolta pubblicata a Mosca confuta molte leggende e miti principalmente su questioni politiche ma la “guerra fredda” già si profilava nell’Alleanza (“Correspondence between the Chairman of the Council of Ministers the U.S.S.R and the Presidents of the U.S.A and the Prime Ministers of Great Britain during the Great Patriotic War of 1941-1945”, 2 voll., Moscow, Foreign languages publishing house 1957; Lawrence and Wishart, London, 1958.) Nel 1957 (e anni successivi) fu diffuso dagli Editori Riuniti in Italia, e la corrispondenza Stalin-Roosevelt nel 1962 dalle edizioni Schwartz (le pagine 185 a 219 sono dedicate all’Italia). Contemporaneamente fu divulgato un libro dello storico Herbert Feis (Cfr. “Churchill, Roosevelt, Stalin. The War they Waged and the Peace they Sought”, Princenton University Press 1957) che aveva potuto accedere ampiamente agli archivi americani. I volumi si completano in alcuni dettagli per esempio (vol. 2, n. 146): un messaggio di Roosevelt a Stalin (Feis, p. 279) e una lettera di Stalin a Roosevelt in merito ai negoziati condotti a Berna in vista del ritiro delle truppe tedesche in Italia erano introvabili negli archivi americani. (Cfr. “Correspondance”, cit., vol. 2, n. 283; Feis, cit., p. 589). Si constata che la versione sovietica in certi casi fu censurata.
Le clausole segrete
Furono rese note dopo l’entrata in vigore degli Accordi di Parigi (maggio 1955). Dopo il “colpo di stato” in Cecoslovacchia nel febbraio 1948 di fronte alla minaccia sovietica, i paesi europei si rivolsero rapidamente agli Stati Uniti per rinforzare la loro sicurezza, un approccio che condusse all’istituzione del Patto atlantico nell’aprile 1949 e della Nato nel 1950. Gli Accordi di Parigi, concernevano la Germania e l’Italia che furono integrate nel Trattato di Bruxelles, organismo unicamente difensivo costituito, nel marzo 1948, dalla Gran Bretagna, la Francia, il Belgio, il Lussemburgo e Olanda, paesi poi fondatori, nel settembre, del Wudo (Western Union Defense Organisation) precursore dell’Ueo (Western European Union) e della Nato. Con gli Accordi si mise termine al regime di occupazione, in Germania con la piena sovranità e il suo riarmo nel quadro del comando integrato della Nato. In Europa fu un passo fondamentale della “guerra fredda”: l’Urss denunciò i trattati di Alleanza anglo-sovietici del maggio 1942 e franco-sovietici del dicembre 1944, con la “Conferenza del blocco dell’Est” (novembre 1954) che sboccò nella costituzione del Patto di Varsavia (maggio 1955) con un comando unificato a direzione sovietica. L’architettura politico-strategica così messa in atto rimarrà pressoché invariata fino alla caduta dei regimi comunisti nell’Europa dell’Est nel 1989 e alla riunificazione della Germania nel 1990.
La guerra aveva riunito gli Usa, l’Urss e la Gran Bretagna in un fine comune ma al termine del conflitto la visione di ognuno fu dettata da proprie considerazioni, ideologiche, economiche e di sicurezza. L’Urss era un paese vincitore ma ne era uscito esangue dalla guerra. Per gli Usa, invece, essenziale era il cordone di base intorno all’Eurasia anche per non rivivere Pearl Harbour. La suddivisione del Vecchio Continente in due zone d’ideologie e regimi antagonisti si attuò tra la fine del 1945 e il 1950. La trasformazione in due blocchi militari tra il 1950 e il 1955. Simbolo della divisione europea, la Germania divenne la pietra angolare dell’antagonismo Est-Ovest e la sfida fondamentale della sicurezza europea. Le due strategie, Urss-Usa, erano legate alle ideologie adottate e alle esperienze storico nazionali, perciò era da sprovveduti credere ad una razionalità similare che permettesse un linguaggio comune. Negli anni Settanta, gli istituti di polemologia e stimati studiosi illustrarono i centri potenziali di violenza collettiva, i cosiddetti “fronti di aggressività”: due concernevano l’Europa, il fronte Est europeo tra il mondo comunista e il mondo occidentale dal Capo Nord al mare Egeo.
Brevi osservazioni: il Pci dal 1946 al 1964
Il concetto di “accerchiamento” geografico ed ideologico ha sempre ossessionato i sovietici. L’Urss, indebolita dalla guerra, un’esperienza traumatica con una perdita di oltre 22 milioni di persone e l’insieme del suo territorio europeo totalmente devastato, non intervenne militarmente nell’Europa occidentale poiché gli Usa erano economicamente potenti e avevano la superiorità dell’energia atomica. La difesa della Madre Russia fu il primo obiettivo della potenza militare dell’Urss quindi l’esigenza di stabilire un cordone sanitario nei Balcani e in Polonia. Georges Kennan, dal 1944 al 1946 “capo missione” all’Ambasciata americana di Mosca con un telegramma (22 febbraio 1946) e un articolo “The source of Soviet Conduct” (non firmato), del luglio 1947, nella rivista “Foreign Affairs” informava Washington: “se i sovietici cercano di indebolire l’Occidente è perché sono politicamente ossessionati per la loro sicurezza”.
Anche se i sovietici ritenevano il conflitto armato necessario al trionfo finale del comunismo, non era un azzardo l’invito di Stalin alla moderazione rivolto ai partiti comunisti d’Italia, Francia e Grecia. Angelo Tasca in una Relazione del 1946 informava l’Ambasciata americana di Parigi: “Al suo ritorno da Mosca, Thorez [segretario generale del Pcf]ha convocato il comitato centrale e ha esposto le tesi sovietiche sulla situazione internazionale. L’Urss non è pronta per una guerra e i suoi preparativi prenderanno un certo tempo, un certo numero di anni. Bisogna quindi guadagnare tempo e difendere le posizioni acquisite. La politica e la strategia del Pcf devono adattarsi alle direttive del Cremlino ed essere orientate in modo intelligente nella stessa direzione. Perché l’Unione sovietica non è in grado di affrontare una guerra, il Pcf deve evitare dei progressi troppo rapidi e ancor meno tentare di conquistare il potere con la forza” (Cfr. La relazione di Angelo Tasca in Nerin E. Gun, “Les secrets des archives américaines”, Albin Michel 1978, t. 2, p. 83).
L’eloquente politica nei confronti del generale Markos, leader del potente movimento comunista greco, prova quale sarebbe stata la condotta negativa di Stalin verso una destabilizzante politica aggressiva del Pci in Italia. Stalin parlava di rafforzamento politico non di rafforzamento illegale e armato. Togliatti in tutti i suoi discorsi, dal 1944 in poi, secondo le direttive di Mosca, ammonì i comunisti a evitare ogni avventura, ogni scontro e a difendere il governo legale: quello di Badoglio prima, poi del Cln, di Parri, di De Gasperi, ecc. Al piano Marshall, Stalin rispose con la creazione del Cominform, mobilitando la Federazione Sindacale Mondiale, provocando la scissione sindacale in Italia e in Francia e organizzando una serie interminabile di scioperi che avevano per obiettivo il sabotaggio della ricostruzione industriale in Europa occidentale. Il Pci, dopo il conflitto, non ebbe mai una capacità di insurrezione armata, ebbe unicamente una capacità di mobilitazione di tipo sindacale, per lo più settoriale e di breve durata. Non esisteva alcun “Apparato paramilitare del Pci” così definito negli anni cinquanta in una relazione del Sifar (28 febbraio 1950) che squalificava i componenti l’Ufficio I dimostrando di non conoscere né il linguaggio né la terminologia usata dagli organi dirigenti comunisti e neppure la biografia e le cariche ricoperte dai personaggi citati in quel documento, purtroppo ripreso in Italia da vari studiosi. I promotori della “seconda ondata” che non fecero autocritica non usufruirono del sostegno del Partito. Ai vertici del Pci il rapporto di sudditanza verso il Pcus è sempre stato totale fino alla caduta del Muro. Anche le apparenti pubbliche discordanze di linguaggio furono concordate. Negli anni cinquanta-sessanta specialista dell’accordodisaccordo fu Giancarlo Pajetta, che fu anche l’ambasciatore-informatore itinerante del Pcus nel Terzo mondo e nei Paesi satelliti. Il
Cominform (1947-1956) svolse un’unica essenziale funzione: impedì e stroncò ogni tentativo di ricomporre l’Europa, vinse le esitazioni di Cecoslovacchia e Polonia, propense ad accettare le offerte del piano Marshall e bloccò le tendenze centrifughe attivate dalla dissidenza della Jugoslavia di Tito. Il Pci perse forza e pericolosità come “minaccia armata” ma continuò a rafforzarsi sul piano propagandistico ed elettorale, e proseguì la sua azione disgregatrice nell’Esercito, l’infiltrazione nelle Istituzioni, e nei servizi segreti, ecc. Alla caduta del fascismo, il partito comunista italiano non era “così forte”, come sostengono il dott. Turone e associati, il partito socialista contava più aderenti del Pci. In seguito con la direzione di un leader di statura intellettuale e politica come Palmiro Togliatti, si rafforzò. Nel 1953 alle elezioni del giugno alla camera dei deputati raccolse 6.120.809 voti e 143 seggi, la Democrazia cristiana 10.862073 e 262 seggi e il Psi indebolito dalle scissioni e dalle correnti, 3.441.041 e 75 seggi. Negli anni cinquanta la Democrazia cristiana primeggiava sul territorio e l’influenza del Pci era soprattutto nei grandi centri urbani del Piemonte e della Lombardia, culla della classe operaia italiana. Così in Emilia, Romagna e Toscana dove il comunismo appariva come il successore del socialismo tradizionale e del vecchio partito repubblicano mazziniano, due forze ancora solide nei primi scrutini del dopoguerra ma che dovettero cedere il passo ai comunisti: i socialisti più tardi, i repubblicani in maniera catastrofica. Nel dopoguerra al Sud e nelle isole i comunisti erano quasi sconosciuti e poco organizzati fino a quando grazie ad un immenso sforzo, l’importazione di agitatori ed animatori del Nord e ad iniziative spettacolari in favore della distribuzione della terra il meridione divenne una fedele riserva elettorale. Nel 1956 Togliatti dovrà fare fronte alla tempesta scatenatesi dal XX congresso di Mosca. Esposto agli attacchi della “sinistra” staliniana e operaista indebolita che agirà controcorrente, di una “destra” revisionista incoraggiata dalla destalinizzazione e dalla dissidenza democratica che poteva appoggiarsi sul Partito socialista.
Nel 1956 dopo i fatti dell’Ungheria e la scissione dei socialisti (dal Patto di unità d’azione Pci-Psi dal 1948 al 1956), per bocca del suo massimo dirigente, il “Frontismo” in nome del quale il Pci aveva combattuto numerose battaglie, fu ripudiato, indicata come nuova direttrice di marcia della classe operaia italiana il “milazzismo” che si reggeva sui voti comunisti, cristiano sociali, monarchici dissidenti, missini, democristiani dissidenti e in Sicilia forze del vecchio separatismo. Nel novembre 1959 iniziarono le trattative per la confluenza di numerosi ex comunisti nel Psdi che si concretizzò durante le Assise del XII congresso celebrato nel gennaio 1960. Quando la distensione internazionale pose ai comunisti pericoli di “socialdemocratizzazione delle masse” (per usare l’espressione cara al Pci) il discorso di Togliatti si concluse con un attacco massiccio riservato al centrosinistra, ma in particolare alle forze laiche e democratiche. Un numero importante di militanti si strinse allora compatto attorno alla bandiera del socialismo democratico.
Nel dicembre 1964 il Pci rischiava l’isolamento e nel dibattito per le elezioni presidenziali Pietro Ingrao, Mario Alicata e gli ex fascisti del Pci annunciarono che era stata definitivamente presa la decisione di far convergere i voti comunisti su Amintore Fanfani come candidato alla presidenza. Fu allora che intervenne l’anziano e autorevole parlamentare comunista Fausto Gullo che pronunciò una vera e propria arringa contro il qualunquismo e il milazzismo della segreteria del partito: “Noi parliamo sempre di unità della sinistra operaia. Ebbene questa aberrante operazione Fanfani, se riuscisse, altro non farebbe che dividere profondamente la sinistra operaia. Nessun onesto democratico potrebbe capire come mai i comunisti, che si dicono campioni dell’antifascismo invece di votare un vecchio antifascista come Saragat votino un vecchio fascista come Fanfani”. Amendola precisò: “Bisogna appoggiare Saragat meglio avremmo fatto a sostenerlo subito, sin dalle prime votazioni. Allora la candidatura del leader socialdemocratico avrebbe avuto l’aria di essere stata proposta dal Pci e, come tale avrebbe potuto anche provocare la crisi della maggioranza”.
Il Pci e il “Comitato permanente per il controllo sui servizi di sicurezza”
La Dc perseguiva da sempre, come principale obiettivo, quello di non perdere voti a destra, mentre nell’ambito della crisi degli anni settanta e l’inserimento nell’area governativa, il Pci di Berlinguer intendeva porsi come il principale garante della sicurezza e dell’ordine pubblico quindi liquidare politicamente tutte le forze anticomuniste di destra e di sinistra e, sul piano della politica economica si atteggiava a unica forza in grado di aiutare il governo a fronteggiare e superare la crisi e stornare dal Paese la prospettiva di una disastrosa recessione produttiva. Dopo il 1976 l’emergenza tenne assieme i Governi la cui base parlamentare si era allargata nel Pci e, nella crisi generale, economica, politica e morale che travagliava una Repubblica italiana indebolita spiccava per particolare gravità, quella dell’Alta gerarchia militare e dei Servizi segreti coinvolti in vicende che alimentarono la cronaca anche giudiziaria. La grande avanzata elettorale del Pci nel 1976 e la scelta di una politica di “unità nazionale” non si tradussero in iniziative politiche, legislative e di massa, atte a far rientrare i servizi segreti nella legalità repubblicana.
L’omicidio Moro e la polemica sul “compromesso storico” hanno indotto a ignorare che Andreotti, Taviani, Piccoli lavoravano obiettivamente per far confluire il Pci nell’area della maggioranza parlamentare e il senatore Flamigni, l’on. Bolognesi e seguaci vogliono far dimenticare la politica del Pci durante i lunghi anni del consociativismo quando discutevano con Andreotti, Taviani e altri ministri della Difesa persino dei candidati alle nomine degli esponenti delle Forze armate e dei parimenti lottizzati Enti di Stato. Il Pci, parte della “maggioranza parlamentare di programma” avrebbe voluto accrescere la sua influenza nell’ambito della “difesa” e dopo gli accordi del luglio 1977 si sforzò di limitare i poteri del governo nelle nomine alle più alte funzioni militari. Il 23 ottobre 1977 il Parlamento (VII legislatura) con Andreotti presidente del Consiglio, approvò una legge di riforma dei Servizi segreti ma conservò integri tutti i presupposti per le future “deviazioni”. Berlinguer che per la prima volta aveva affermato la “fedeltà” del Pci oltre che al Patto atlantico anche alla Nato (estensione politicamente non giustificata) e agli accordi che ne erano parte integrante, compresi quelli collettivi o bilaterali, facilitò la collaborazione con i Servizi segreti come risulta da varie operazioni “poco ortodosse” effettuate nel quadro politico del “compromesso storico” e nel periodo della riforma “piduista” di Sismi e Sisde. Berlinguer rinunciò a far valere il più favorevole rapporto di forza del Pci (1976- 1979) e riportare i Servizi segreti nell’ambito dei loro compiti istituzionali e gli ufficiali alla lealtà costituzionale.
La riforma dei Servizi divenne operante il 13 dicembre 1977 con l’istituzione del “Comitato permanente per il controllo sui servizi di sicurezza” presidente il democristiano Erminio Pennacchini e vice presidente il senatore comunista Ugo Pecchioli. Il Comitato esercitando i poteri “di controllo, proposta e iniziativa” cogestì la linea politica e convalidò le nomine a direttori del Sismi e del Sisde dei candidati della P2: Santovito e Grassini. Direzione, gestione e controllo dei servizi di sicurezza mantennero al loro posto tutti i dirigenti intermedi dal passato “deviato” e sebbene questi persistessero in gravi “deviazioni”. Il Partito comunista fornì il proprio avallo alla gestione di Servizi segreti profondamente inquinati e mai, in quegli anni di stragi, di “assassinati di Stato”, Pecchioli e compagni denunciarono le attività devianti dei vertici e delle strutture “piduistiche”, e non, di Sisde, Sismi e Cesis. Oggi i più pesanti attacchi alle compagini piduiste, e ai Servizi in nome di un supposto “stragismo atlantico” provengono proprio da quegli ambienti, che furono complici o almeno compagni di strada.
L’eurocomunismo e “l’accesso al potere”
Attribuire all’“eurocomunismo” di Berlinguer una supremazia nei confronti degli altri partiti comunisti europei è una visione tipicamente italiana e limitativa. Il fenomeno eurocomunista è apparso negli anni settanta e il termine è datato 1976. “Eurocomunismo” pura espressione verbale fece nascere perplessità nei protagonisti della stessa politica “eurocomunista” sosteneva il professor Antonio Spadafora, docente di Filosofia, precisando (nel suo intervento a Lugano, promosso dall’Unione europea, 26-27 novembre 1977) le origini del termine, inizialmente rifiutato dai comunisti e di matrice giornalistica, piuttosto che accademica. Scriveva il professor Pierre Hassner: “sotto questa denominazione sono stati definiti i diversi modelli di “eterodossia” che la comoda visione del monolitismo e delle sue eresie offriva ad alcuni giornalisti e commentatori in modo approssimativo senza analizzare le specificità dei comunismi. Infatti, non è possibile demarcare una dottrina “eurocomunista” nella misura che prevalgono differenti definizioni dell’eurocomunismo” (Cfr. P.Hassner “L’‘eurocommunisme’, stade final du communisme ou de l’Europe?”, “Commentaires”, estate 1978, pp. 135-141). Alcuni partiti eurocomunisti effettuarono, in modo più o meno fragoroso delle modifiche di ordine dogmatico, il più rilevante fu, senza dubbio, il Partito comunista spagnolo con l’abbandono (negli statuti del partito) del riferimento al leninismo; altri fecero decadere, con modalità diverse, la nozione di dittatura del proletariato (Pcf).
Se non è semplice analizzare brevemente i concetti sui quali si è articolata l’evoluzione dei partiti comunisti ed esaminarne le implicazioni in riferimento ai principi su cui si fonda l’ideologia marxista-leninista, è possibile ricordare che il problema concreto che si poneva negli anni settanta, era la divergenza sul come doveva effettuarsi l’accesso al potere dei partiti comunisti occidentali. L’esistenza di un processo rivoluzionario in Portogallo (Cfr. Klaus Steiniger, “Welchen Weg geht Portugal” [“Che via prende il Portogallo”], febbraio 1975, “Einheit”, la rivista teorica del Sed; V. A. Cuhhal, “Results and prospects of the Portuguese Revolution” [Risultati e prospettive della rivoluzione portoghese], “World Marxist Review”, n. 1, 1977 apparso anche nella rivista “Kommunist”, n. 14, 1978) e la prospettiva di un’eventuale partecipazione ai governi del Pci, Pcf, ed altri condussero in effetti i partiti comunisti a precisare la loro opzione in favore di una via “rivoluzionaria” o “democratica”, quest’ultima però implicava un’alleanza con partiti non comunisti. Konstantin Zaradov, editore capo della rivista “World Marxist Review” (Cfr. “Pravda”, 6 agosto 1975) fin dall’estate 1975, suggerì numerose volte ai rivoluzionari molta prudenza prima di condannare le maggioranze elettorali e le larghe alleanze. In un articolo nella rivista teorica del Sed, l’ideologo del Partito comunista sovietico, Mikhail Suslov, dopo la conferenza di Berlino, affermò di non opporsi ad una politica di larghe intese dei partiti comunisti occidentali, ma la necessità per i comunisti di assicurarsi un ruolo dirigente all’interno delle alleanze.
Il Pci e la “distensione”
Le critiche nazionali si concentrarono sul “compromesso storico” e Berlinguer o il cd.“lodo Moro” ignorando l’ampia politica estera di Moro come ministro e come giurista. Ben prima che si parlasse di “compromesso storico” l’on. Moro aveva instaurato rapporti con Mosca fin dal luglio 1971, proseguiti negli anni 1974 in visita nei Paesi dell’Est e ancor prima con gli Usa (con Nixon, ottobre 1969) per caldeggiare la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki, 1973-1975) auspicata dall’Urss (i cui preliminari erano iniziati nel 1966) e resa possibile dalla Ostpolitik di Willy Brandt (1969). Non fu l’on. Moro che organizzò la Conferenza di Helsinki (Commissione Moro, audizione di Sergio Flamigni, seduta del 2 dicembre 2014, p. 15) ma il ministro degli Esteri, poi presidente del Consiglio, ebbe un ruolo rilevante nella discussione sul problema mediterraneo e sui diritti dell’Uomo, e firmò l’atto finale a nome della comunità europea. Nell’Europa dell’Est e in Urss, i principi degli accordi di Helsinki (1º agosto 1975) incoraggiarono la dissidenza politica che pretese il diritto di esprimersi apertamente.
William G. Hyland in “Foreign Affairs” (aprile 1979) osservava che per certuni, l’“oggettiva distensione” coincideva con l’arrivo al potere di Willy Brandt e con l’inizio della “Ostpolitik”; in Francia alla visita di Charles De Gaulle a Mosca nel giugno 1966 (in Urss il Generale era molto popolare e il viaggio fu ampiamente pubblicizzato dalla stampa sovietica), mentre negli Usa quasi all’unanimità si attribuiva a Nixon-Kissinger. Per Kissinger la “distensione” era un mezzo per assicurare la transizione verso una parità strategica stabile con l’Urss, evitare pertanto agli Usa di finanziare costosi sistemi di protezione contro i missili balistici di lunga gittata dei sovietici (gli armamenti difensivi sono più costosi di quelli offensivi) mentre era in corso la guerra in Vietnam con spese militari a livello del 9% del Pnb (prodotto nazionale lordo). Invece dalla “distensione”, un articolo nel periodico inglese “Survey Review” (1974, n. 91-92) rilevava che i sovietici si attendevano: “l’indebolimento dell’Alleanza Atlantica, riduzione degli sforzi militari negli Usa, isolamento della Cina dopo la morte di Mao Zedong e, essenzialmente legittimazione del loro dominio sull’Europa dell’Est, trasferimento di tecnologie e di capitali che permettessero dei progressi nel campo degli armamenti”.
Nel giugno 1977 Andreotti domandava a James Reston, giornalista del “New York Times”: “L’eurocomunismo è il frutto della distensione per la quale Kissinger ha tanto lavorato, perché ora è mal visto a Washington? Si è molto discusso se l’eurocomunismo avvantaggiava Mosca o gli Stati Uniti”. Jean Laloy, diplomatico, fu ministro-consigliere di Ambasciata a Mosca. Nel 1947 membro del consiglio di controllo a Berlino e successivamente, a Bonn, incaricato di stilare la costituzione della Repubblica Federale. Fu capo di Gabinetto del Segretario generale del Quai d’Orsay, Alexandre Parodi, per le questioni orientali e direttore politico nella gestione della crisi di Berlino, replicava: “per quanto concerne l’Urss, i dirigenti del Pci non nascondono, nelle loro conversazioni, che vi sono due scuole di pensiero. In merito a Mosca le persone che si potrebbero definire ‘di chiesa’ come Suslov o Ponomarev sono ostili a questa eresia. Ma i dirigenti di Stato come Kirilenko sarebbero favorevoli poiché vedono la possibilità di indebolire l’Alleanza Atlantica dall’interno introducendo dei fermenti di neutralismo. In realtà Brežnev ha arbitrato in favore di questi ultimi e ha sostenuto Berlinguer” (Cfr. La ménace soviétique”, “Stratégie”, “Institut international des Études stratégiques di Londra, dir. Christoph Bertram e l’ articolo di Jean Leloy (1982), “L’Europe de l’Ouest dans la perspective soviétique”). Brežnev e Andreï Kirilenko, sostennero Enrico Berlinguer prospettando appunto la possibilità di indebolire l’Alleanza atlantica”.
Il “pacifismo” e il “neutralismo” nei partiti comunisti
A Parigi, nei Colloqui delle Assemblee dell’Ueo (Western European Union) la Commissione agli Affari Generali e agli armamenti evidenziò i problemi posti alla sicurezza dell’Europa dal “pacifismo” pubblicizzato dall’Urss gestito da Boris Ponomarev, ideologo , storico e membro del segretariato del partito comunista dell’Urss ma con una particolare attenzione al neutralismo (Cfr. “Les problèmes posés à la sécurité de l’Europe par le pacifisme e le neutralisme”, Rapport (testi in inglese e francese) in nome della “Commission des affaires générales” di M. Lagorce (5 novembre 1982). Scriveva il professor Pierre Hassner: “il punto essenziale per il Pci è la partecipazione a un ‘consensus’ italiano che costituisce una sorta di sintesi tra l’atlantismo e il neutralismo. Consiste nell’accettare l’Alleanza atlantica per delle ragioni politiche, ma a concepirla essenzialmente come un mercato (protezione americana contro basi italiane) che permette all’Italia un’attitudine essenzialmente passiva, di consumatrice piuttosto che di produttrice di sicurezza. Questo concetto si riflette sia nel dispositivo militare delle truppe italiane sia nel “budget” della Difesa. I comunisti si sono aggregati a questo consenso […]per acquisire un diritto di entrata al governo e alle stesse condizioni accentuare ancora l’aspetto difensivo, limitato territorialmente e politicamente dell’Alleanza […]. Insomma dovevano combinare esigenze contraddittorie. Da un lato moltiplicarono le dichiarazioni sul vantaggio e l’equilibrio positivo della Nato in Europa. D’altra parte in tutte le decisioni concrete, i comunisti diedero il loro accordo alle campagne sovietiche continuando ad imporre una propaganda contro l’imperialismo americano” (Cfr. Pierre Hassner, “Eurocommunisme” et “Eurostrategie”, “Défense nationale”, agosto-settembre 1980).
Le direttive di Brežnev e il Pci
Il segretario del Partito comunista italiano non affrontò mai il dibattito di fondo sul marxismo-leninismo. Brežnev, nel discorso tenuto all’Accademia delle Scienze si mostrò disponibile nei confronti dell’eurocomunismo e dichiarò: “solamente l’esperienza pratica permette di giudicare del carattere giusto o sbagliato di certe tesi” (Cfr. L. Brežnev, “Isvestija”, Mosca, 18 marzo 1976). Brežnev riuscì a far adottare un compromesso di ordine tattico che consisteva nell’attendere l’evoluzione dei partiti accordandogli una certa libertà d’azione nella politica nazionale imponendo però delle condizioni: il sostegno alla politica estera sovietica e la rinuncia a qualsiasi critica di fondo del sistema sovietico sull’Est europeo già oggetto di discussione alla conferenza di Helsinki dove si evidenziò che il principale obiettivo di Mosca fu di ottenere un attestato che consacrasse uno “status quo” europeo che legittimasse la loro presenza militare e politica in Europa dell’Est al prezzo di concessioni minori. Il comunismo oramai al “tramonto”, Berlinguer chiese una direzione politica, un’impostazione nuova dal punto di vista della “legittimità costituzionale”. In pratica il Pci chiedeva un governo che dichiarasse ufficialmente la fine di ogni anticomunismo confermando la funzione democratica del Partito, in linea con le proposte sovietiche di legittimazione ad Est formulate appunto ad Helsinki. Questa era la sostanza della linea “compromesso storico”, continuando però a percepire i finanziamenti sovietici quando segretario generale era Leonid Brežnev che aveva ordinato l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e nel 1979 in Afganistan. (Cfr. Emmanuel Todd, “La chute finale. Essai sur la décomposition de la sphère soviètique”, ed. Laffont 1976; v. anche Luigi Cavallo, “Tramonto del comunismo e compromesso storico”, “Difesa nazionale”, novembre 1974).
La preoccupazione di Mosca era essenzialmente sui pericoli d’infezione ideologica e politica in Europa orientale, il timore che il non-allineamento dei Partiti fratelli potesse creare una situazione di instabilità e mettere in crisi il sistema interno mentre l’Urss era in espansione nei paesi africani, asiatici, e le forze sovietiche avevano talmente sviluppato le armi nucleari tattiche da essere in grado di dissuadere le forze atlantiche dal far ricorso per primi all’impiego delle armi atomiche, non solo strategiche ma anche tattiche, secondo il rapporto (1976) della Commissione senatoriale firmato dai senatori Sam Nunn (democratico) e Dewey Bartlet (repubblicano). La nuova linea di apertura di Mosca con la concessione di una certa libertà nella gestione della politica nazionale ma che imponeva il sostegno incondizionato alla politica estera dell’Urss aveva origine dalle tesi di Wadim W. Zagladin, uomo di fiducia di Brežnev, e direttore aggiunto della sezione relazioni internazionali del Comitato centrale ed esperto dell’Europa occidentale con ottimi contatti con i responsabili eurocomunisti. Zagladin fu incaricato dell’elaborazione e dell’applicazione della nuova linea politica (Cfr. W. Zagladin, “Pravda”, 20 aprile 1976). Il Pci in sede Ueo diede il voto in favore della “standardizzazione” degli armamenti Nato richiesta dagli americani che indeboliva l’Europa ma in merito alla politica estera non si discostò mai dalle direttrici sovietiche in Medio Oriente o in Africa.
In effetti, i timori dei Sovietici erano nei confronti di una coalizione social-comunista in Occidente, non di un “sistema multiforme” (così definito dai russi) proposto da Berlinguer e da Moro. Mosca ha sempre auspicato per l’Occidente dei governi “borghesi”. I timori di Mosca e dei suoi alleati nei confronti dei diversi Partiti eurocomunisti non erano similari. Sebbene possa sembrare paradossale, Mosca dava più fiducia al Pc italiano che al Pc francese. Nella politica del “compromesso storico” con la Dc, Berlinguer non auspicava instaurare nell’immediatezza una società socialista in Italia, mentre il Pcf di Marchais la pretendeva, quindi era molto più pericoloso per Mosca. A differenza del modello cinese che non aveva alcuna attrattiva nei Paesi socialisti europei, una coalizione di sinistra, socialisti e comunisti con un programma comune di governo avrebbe potuto interessare certi Paesi dell’Est e adottarne il modello. Comunque Mosca non poteva permettersi di condannare senza appello e violentemente i Partiti eurocomunisti occidentali nella misura in cui questi si presentavano come partiti di governo o dell’arco costituzionale (come in Italia) poiché l’Urss avrebbe potuto ritrovare rappresentanti di questi partiti come interlocutori non più nelle conferenze del Movimento comunista ma in negoziati inter-governativi e metter in crisi gli equilibri europei ai quali Mosca teneva in modo particolare e di conseguenza la sicurezza della Rdt in quanto Stato.
I rapporti Pci-Rdt negli anni settanta
Un tentativo d’assassinio di Berlinguer su ordine del governo di Sofia (3 ottobre 1973, dove in effetti morirono nell’incidente automobilistico due dirigenti bulgari!) rivelato nel 1991 da Emanuele Macaluso è manifestamente un’invenzione tardiva. Erich Honecker (due mesi dopo il supposto tentato assassinio) e Berlinguer (4-8 dicembre 1973) si incontrarono in Rdt e da quel momento il Sed continuò su quella via di contatti come testimoniano i propositi dei membri del partito comunista tedesco nelle conversazioni con i rappresentati del Pci conservate minuziosamente negli archivi del Sed (Cfr. “Neues Deutschland”, 4 e 8 dicembre 1973 la visita di Berlinguer in Rdt. V. “Konstruktives Dialog mit international Genossen”. Interview Mit Werner Felfe, “Horizont”, n. 25, 1977, prof. Otto Reinhold, “Heisser politischer Sommer Italien”, “Horizont”, n. 29, 1977; i due articoli sono riprodotti in “Deutschland-Archiv”, 9, 1977). Nel 1976 la Rdt di Honecker, della Stasi, di Mielke, di Markus Wolf, del reggimento della Guardia intitolato alla memoria del fondatore della Cheka, Feliks Dzierzynski, uno dei più efficienti strumenti del terrore legale comunista fu l’invitata d’onore al festival de “l’Unità” e i rapporti tra il Sed e il Pci furono certamente migliori di quelli intrattenuti prima della nascita dell’eurocomunismo. A partire dal 1976 le conferenze dei partiti comunisti si svolsero tutte a Berlino Est per stabilire l’importanza del ruolo del Sed. Nel giugno 1976 il giorno dopo la Conferenza del Movimento comunista internazionale dove si evidenziò la mancanza di unità all’interno ma passò sotto silenzio l’internazionale proletaria e il ruolo dei responsabili del Pcus, i dirigenti della Germania Est furono i primi a riconfermare i principi essenziali della linea sovietica e nelle relazioni bilaterali e il Sed. Durante le celebrazioni moscovite per il 60º anniversario della rivoluzione di Ottobre (1977) si rilevava l’assenza di Marchais, in particolare il silenzio imposto al compagno Carrillo, calunniato dopo l’abbandono del leninismo e del “centralismo democratico” annunciato al congresso spagnolo nell’ottobre 1977 e la parola data a Berlinguer che dopo il suo discorso si incontrò con Brežnev e Suslov ed altri dirigenti sovietici.
Il dirigente comunista spagnolo Miguel Azcárate dichiarò: “A Madrid nel marzo 1977 e in un incontro successivo tra Carrillo e Berlinguer a Roma la natura delle società socialiste e del dissenso in quelle società fu posta in modo netto dagli spagnoli e anche dai francesi, ma gli italiani hanno sempre rifiutato di affrontare l’argomento. Ci furono troppe reticenze. Su questo punto il Pci è il più arretrato dei tre partiti eurocomunisti. Il Pce ha detto chiaramente all’Urss che non è un paese socialista, e anche il Pcf, seppure in modo meno coerente, lo ha detto; il Pci ricorre a definizioni ambigue parla dell’Urss menzionando “tratti illiberali”. Infatti, a Milano, Berlinguer (1976) diede una definizione molto precisa dell’Urss: “è una società socialista con alcuni tratti illiberali” (sic!). Scriveva François Fejtö, professore alla facoltà di “Science politique” di Parigi, storico dei Paesi dell’Est e di storia dei comunismi: “nella conferenza che riunì i tre dirigenti Pci, Pcf, Pce a Madrid nel 1977 fu pubblicata una dichiarazione, nella quale su insistenza di Berlinguer ogni allusione sulla situazione delle libertà nei Paesi comunisti doveva essere assente [come da linea politica imposta da Brežnev-Zagladin cui ho già accennato]. Il comportamento del Pc italiano che sembrava il più critico nei confronti del sistema repressivo stalinista deluse i dirigenti eurocomunisti. Così “l’Unità” rifiutò ogni discussione con Andreï Amalrik [il dissidente sovietico, più volte imprigionato e inviato nei campi, fece parte del “Moscow Helsinki Group”]. Il Pci fece tutto il possibile per screditare e minimizzare la Biennale di Venezia del novembre 1977 che aveva lo scopo di dare larga pubblicità alle attività letterarie e artistiche dei dissidenti (Cfr. F.Fejtö “Socialisme et nationalisme dans le Democratie Populaire, 1971-1978”, “Défense nationale”, agosto-settembre 1978).
La corsa agli armamenti
In realtà, negli anni settanta le strategie di Washington e di Mosca comportarono una corsa e una competizione nell’ambito degli armamenti. Era la “deterrenza nucleare” che manteneva l’equilibrio tra le due Egemonie e assicurava la Pace in Europa e fu un tema maggiore della Guerra fredda dal 1945 al 1991, e giocava un ruolo centrale nelle strategie di difesa e nelle relazioni internazionali. L’arma atomica ha completamente rinnovato il concetto di dissuasione nelle strategie di difesa perché il suo potere è senza eguali nella storia. Osservo che l’analisi della documentazione fondamentale del Congresso, del Senato e delle varie commissioni americane, sulla sicurezza e la cooperazione in Europa sono carte basilari e accessibili da sempre e anche la documentazione del Nsc (National Security Council) per gli anni settanta-novanta è disponibile integralmente. Le carte della Nato fino agli anni novanta.
Il conflitto Usa-Cee degli anni settanta
L’era Nixon-Kissinger comportò un cambiamento nelle relazioni euro-americane. Kissinger, ammiratore di Metternich, adottò la “Realpolitik” e il primato degli interessi nazionali pertanto mise termine al sostegno tradizionale degli americani alla costruzione europea. Nel 1973/1974 i rapporti tra l’Europa e gli Usa entrarono in una fase definita di “confronto caldo”, o in francese “guerre fraîche”, nel quale vennero alla luce tutti i problemi complessi del contenzioso euro-americano: innanzi tutto il riassetto monetario e della convertibilità del dollaro e delle attività multinazionali. Era corretta l’osservazione dello storico ed economista americano Charles Kindleberger: “lo squilibrio tra l’emisfero Nord e Sud è ragione di conflitto suscettibile di nuocere alla struttura politico sociale delle democrazie industriali avanzate, quando gli Usa barcollano l’economia mondiale e l’equilibrio politico diventa instabile”.
Kissinger, sotto la doppia presidenza Nixon-Ford, ebbe un ruolo eminente, ma nel gennaio 1977, cedette il posto al tandem Carter-Brzezinski. Il cambiamento evidenziò una nuova visione delle relazioni internazionali rifiutando l’eredità Nixon-Kissinger sulla quale riposavano i vecchi principi dell’equilibrio delle potenze. Brzezinski criticava la concezione kissingeriana dell’equivalenza che secondo l’interpretazione data da Carter concedeva un “margine di superiorità” all’Urss, in seguito sostituita dall’Amministrazione Reagan con quella di “margine di sicurezza”. Brzezinski presiedeva il Consiglio nazionale della sicurezza (Ncs) l’organo supremo di concezione e di coordinamento per tutto ciò che concerneva la Difesa e il ruolo esterno degli Usa. Il Ncs è la cerniera essenziale della diplomazia americana e il suo presidente l’ideatore e il fautore delle principali decisioni. Brzezinski aveva diretto la commissione “Trilaterale” voluta da N. Rockfeller e in essa si rispecchiavano interamente le sue scelte e un’impostazione diplomatica rinnovata. Brzezinski stimava che la priorità fosse la continuazione della politica di distensione tra Washington e Mosca, ma con una nuova definizione dei rapporti tra “nazioni industriali” e “ragioni proletarie” e l’istituzionalizzazione dei rapporti America-Europa-Giappone. In pratica un’evoluzione in rapporto alla concezione dualista del “mondo bipolare”.
Una contestazione trilaterale che sfociasse su un’armonizzazione delle politiche economiche era una necessità, tuttavia accettare la trasformazione del Mercato comune in Europa in zona di libero scambio v’era un margine che gli stati membri della Cee dovevano valutare attentamente. Nella politica che proponeva Brzezinski, l’Europa del Mercato comune, serio concorrente degli americani, non avrebbe trovato alcun vantaggio. Inoltre, scriveva Luigi Cavallo: “l’Europa rischia di perdere la sua identità e la sua vocazione cadendo sotto l’egemonia economica degli Stati Uniti”. L’indebolimento dei rapporti strategici tra gli Stati Uniti e l’Europa, confermati nella carta di Ottawa nel giugno 1974 posero tutto il problema in particolare quello della difesa autonoma dell’Europa, l’Italia fu obbligata ad elaborare una politica concreta e globale, purtroppo con risposte divergenti. I differenti Governi italiani avevano sempre respinto l’idea di un’Europa terza forza e di una difesa puramente nazionale.
Il veto Usa
Il Dipartimento di Stato americano, il 6 aprile 1977, dichiarò che gli Usa si sarebbero opposti a un governo in Europa “dominato” dai comunisti. A Roma fu interpretato come una svolta importante di apertura che facilitava il compito dell’on. Moro (discorso del 4 aprile a Firenze) che in luglio doveva sboccare “all’accordo di programma” con il Pci. Dato che Washington si opponeva a una formazione “dominata” dal Pci e non era il caso, fu interpretato come un “semaforo verde”. Nel quotidiano “la Repubblica” si poté leggere che “gli Usa avevano tolto il veto contro l’entrata del Pci al Governo”, rilevava l’ambasciatore Puaux (Cfr. F. Puaux, “Regards sur la Politique étrangère de l’Italie”, “Politique étrangère”, PUF, n. 2, 1981).
Nel 1977 Brzezinski ricevette l’ambasciatore d’Italia Roberto Gaja il quale espose i timori su un “compromesso storico” e in merito “una situazione italiana disastrosa”, ebbe come replica: “Gli Usa vogliono aiutare l’Italia ma non si devono esagerare i fatti” e non ebbe alcuna risposta sull’eurocomunismo (Nsc, memo Brzezinski-Gaja 31 marzo 1977, Nsa memo cons. box 33 CI). Ci furono anche contatti con dirigenti del Pci con Sergio Segre e lo stesso Giancarlo Pajetta e nel 1977 il decreto MacGovern concesse i visti agli iscritti ai partiti comunisti. L’unica preoccupazione degli Usa riguardava il “Defense Planning Group” nel quale erano rappresentati tutti i paesi della Nato, sovrano in materia di decisioni per l’uso di armi nucleari, era sufficiente l’opposizione di un solo paese per bloccare ogni eventuale operazione in caso di conflitto nell’ambito della difesa nel caso di una minaccia sovietica. Di fronte al veto di un rappresentante comunista del DPG come avrebbero reagito gli altri paesi dell’Alleanza? problema già evidenziato e dibattuto ampiamente e pubblicamente dagli analisti politici ma ignorato in Italia da magistrati, giornalisti, studiosi di relazioni internazionali e storia contemporanea (Cfr. Interagency Intelligence memorandum (Cia Inr Dia) “The European Communist party” 6 giugno 1977 (Cia RR).
Le difficoltà economiche dell’Italia si ripercuotevano sulla capacità di difesa e contribuivano a indebolire il fianco sud dell’Alleanza. La politica di austerità che Andreotti conduceva con il sostegno dei comunisti e il cui impatto si farà risentire nel 1978 non permetteva alcun aumento del 3% nel budget della Difesa come auspicava la Nato. La superiorità tecnologica degli Usa era diminuita in quegli anni, precisava il Rapporto della Commissione senatoriale per le forze armate dei senatori Sam Nunn, democratico e Dewey Bartlett, repubblicano: al punto di non poter più compensare la superiorità quantitativa delle Forze del “Patto di Varsavia”. Cadeva ogni giustificazione per la costante inferiorità quantitativa dell’armamento americano e Nato nei confronti dell’Urss e del Patto di Varsavia. La base industriale sovietica per la produzione di sistemi d’arma era ormai di gran lunga superiore a quella americana come confermava Donald Rumsfeld al Congresso americano in un rapporto di 326 pagine. La commissione senatoriale Usa per le armate, in sintesi, rilevava la debolezza della Nato nel centro Europa e il disorientamento e il processo di disgregazione sul fianco meridionale definito “quasi in rovina” ma le inquietudini dell’Amministrazione Carter sugli effetti di “basso profilo” nei confronti dei comunisti si svilupparono progressivamente.
L’opinione pubblica americana, allertata da vari articoli nei quotidiani, apprese ufficialmente solo nel 1977 che, con l’intenso riarmo (Cfr. Lorenza Cavallo, “Il riarmo sovietico e il CoCom, “Nuova storia contemporanea”, n. 6, 2014) l’espansione strategica nucleare e convenzionale, l’Urss, dal 1983, sarebbe stata in grado di scatenare un conflitto in Europa. Carter il 10 maggio 1977 alla conferenza tenuta alla Nato dichiarava: “l’Urss ha realizzato l’essenziale nell’equivalenza atomica. Le forze convenzionali del Patto di Varsavia si pongono su una posizione offensiva. Queste forze sono molto più potenti di qualsiasi necessario obiettivo difensivo”. Washington stimò che il livello di guardia fosse giunto ai limiti, un segnale era necessario. È noto, dopo il viaggio dell’ambasciatore Gardner, convocato a Washington, in una dichiarazione del Dipartimento di Stato del 12 gennaio 1978, gli Usa presero posizione “contro l’entrata dei comunisti nei governi europei occidentali”. Eravamo alla vigilia delle legislative in Francia (12-19 marzo 1978) con l’avanzata delle sinistre condotte da François Mitterrand, avversate dall’Urss (che sostenne Giscard d’Estaing) e dagli Stati Uniti. I commenti e le conferenze tenute da Mitterrand furono esplicite in merito agli equilibri europei rivolgendosi a Mosca e al concetto di Alleanza, e non di sudditanza, nei confronti degli Usa. Non vi furono stragi né sequestri neppure quando nel 1981 un governo socialista andò al potere in Francia grazie ai voti del Pcf. Si vuole attribuire alla strategia dell’Alleanza atlantica e della Nato le caratteristiche negative dell’egemonia totalitaria sovietica. Ogni critica, legittima, anche aspra, alla politica estera americana, non deve far dimenticare che il governo presieduto dal generale Charles De Gaulle impose ai comandi militari alleati Nato di lasciare il suolo di Francia (1966) e non vi fu alcuna ritorsione. Imre Nagy, per aver annunciato alla radio di voler proclamare l’Ungheria paese neutrale, fu impiccato; Budapest semidistrutta a cannonate, invasa e occupata; la classe dirigente ungherese sottoposta per anni a epurazioni successive dalla polizia politica comunista agli ordini dei “consiglieri sovietici”.
Le conferenze devono essere analizzate nella loro globalità. Furono prese decisioni storiche, ma non è a Yalta che si formarono i due blocchi occidentale e sovietico, un mito che nel corso dei decenni è stato smantellato dagli storici. Il dott. Turone e simpatizzanti trattano il passato deformandolo, riformandolo, occultandolo e travestendolo per imporre una supposta “logica di Yalta” che trent’anni e più dopo avrebbe mantenuto la sua forza (!). Gli Usa e la Nato avrebbero tentato di “destabilizzare per stabilizzare” la penisola italiana con le stragi e organizzando il sequestro e l’assassinio dell’on. Moro utilizzando le Brigate Rosse di Mario Moretti, in veste di “gladiatore”, a dire di Sergio Flamigni, per opporsi al “compromesso storico” o “all’avanzata del partito comunista” o “delle sinistre” (quali?!) secondo le varie formulazioni. In quanto all’on. Aldo Moro in quel momento ricopriva unicamente una carica onorifica di presidente del Consiglio nazionale della Democrazia cristiana e non aveva alcun potere o influenza sulla politica internazionale. Il “forte partito comunista italiano incuteva paura alla Nato” (sic!) secondo Turone! I 12 milioni di voti comunisti e il milione e mezzo di iscritti messi a disposizione di Andreotti? Si confonde il progresso del partito sul piano elettorale, patrimoniale e dei profitti di sottogoverno con il potere effettivo. Il “forte partito comunista” negli anni settanta non era neppure una garanzia per la difesa della libertà repubblicana: vedi la questione del referendum, il confino di polizia, l’impiego dell’Esercito, la repressione generalizzata, il conformismo della stampa di partito e della lottizzata Rai-Tv. Lorenza Cavallo
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Giulio Andreotti, il politico più longevo e misterioso della storia della Repubblica. È stato il politico italiano più potente, longevo e misterioso della Prima Repubblica. Per una parte dell'elettorato Andreotti era un uomo misericordioso e caritatevole, per un'altra era invece "Belzebù". Dalla sua lunga esistenza passa gran parte della storia italiana dal dopoguerra ad oggi (e non solo). Federico Bini il 17 Ottobre 2022 su Il Giornale.
Ultimo senatore romano. Ultima eminenza grigia. Ultimo principe machiavellico. L’ultimo dei cesari. La Roma imperiale e papalina del Novecento, vive e muore in un solo nome: Giulio Andreotti. Il simbolo di un potere antico, quasi “divino” per legittimazione... il Sacro Romano Impero. Andreotti rappresenta una storia secolare che nel silenzio della sua leggenda ha continuato e continuerà a vivere nelle vie romane. Il personaggio è controverso, anzi stranissimo. Avvincente. Impenetrabile. Sagace. Un masterpice cinematografico. Il protagonista invisibile del Codice da Vinci. Custode di segreti come Jacques Saunièr Saint-Clair, gran maestro del Priorato di Sion. Cattura, affascina e intriga le nostre fantasie. Geniale, troppo geniale, imperterritamente unico, ma folcloristico nel suo eterno fascino esistenziale. Pungente e schermitore. Dalla fisionomia insolita: gobba leggendaria, passo felpato, incedere elegante, silenzioso. Sense of humor e proverbiali aforismi: “C’è qualcuno che ha cercato di seppellirmi prima. Qualcuno nel frattempo è anche morto e prego per lui; La cattiveria del buoni è pericolosissima; A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto; L’umiltà è una virtù stupenda. Ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi”.
Un formidabile indossatore di maschere. Un moschettiere gesuita che affonda il colpo quando meno te lo aspetti. Folgorante, gelido, inaspettato. Un dandy anticonformista, con proprie regole, limiti, eccessi e confini. La comparsa nel film Il Tassinaro di Sordi, lo stop al passaggio di Falcao all'Inter, il giallo Operazione via Appia. L’onorevole Trombetta, “Papà si ritrovò davvero con lui in un vagone del treno. E da lì nacque la gag” (Liliana de Curtis, figlia di Totò). Icona pop, più vicino a Oscar Wilde e Marilyn Monroe che a Giorgio La Pira e Papa Luciani. Terribilmente tramante e sfuggente. Misericordioso e devoto. Bonario e dolcemente spietato. Un illustrissimo cardinale cesaropapista al servizio di una République medicea. Tattico indiscusso ma statista discutibile.
Allievo del più grande politico italiano, Alcide De Gasperi. Un maestro, un ‘padre’, forse tradito. Sette vite come i gatti, un po’ come i suoi governi. Una lunga esistenza ad avvolgere il mito, accresciuto dal perdurare del suo regno: “Il segreto dell’esistenza umana non sta soltanto nel vivere, ma anche nel sapere per che cosa si vive” (F. Dostoevskij). Volpe gattopardesca da romanzi gialli con delitti passionali a sfondo politico. Lucente e oscuro. Sempre presente, quanto assente. C’è e non c’è. Visibile e invisibile. Confondibile e inconfondibile. Lascia piccolissime tracce, ma cancella quelle più compromettenti. Tutto gli è riconducibile ma niente o poco che confermi i suoi coinvolgimenti. Si muove con estrema astuzia, delicatezza, sottigliezza. Eterno trattativista, storico del compromesso, giocatore su più tavoli (anche in campo diplomatico) ha sempre avuto il dono non tanto della lungimiranza quanto dell’agire momentaneo, istantaneo. Una mente fredda e lucida, tanto capace quanto pericolosa. Già da ragazzo, Alcide De Gasperi, osservandone pregi e difetti, ebbe a dire: “È un ragazzo talmente capace a tutto che può diventare capace di tutto”. Sottosegretario con De Gasperi, ministro della Repubblica (oltre 30 incarichi ministeriali), presidente del Consiglio sette volte e senatore a vita, nominato da Cossiga.
Una corrente al suo servizio debole di numero ma temibile e ‘armata’ quanto l’esercito prussiano di Federico Gugliemo I: Franco Evangelisti, Paolo Cirino Pomicino (detto O Ministro), Vito Ciancimino, Claudio Vitalone, il cardinale Fiorenzo Angelini (Sua Sanità, essendo stato ministro della Sanità della Santa Sede). Nino Cristofori, Salvo Lima, potete e ricco politico siciliano; Vittorio Sbardella (detto lo Squalo), Giuseppe Ciarrapico… e poi tanti, tantissimi insospettabili andreottiani sparsi tra i banchi di maggioranza e opposizione. “Gli andreottiani sono ovunque”, ripetevano con aria sospetta a ogni decisiva votazione i più autorevoli esponenti dei partiti politici, eppure lui se ne stava lì, seduto, quasi immobile, aspettando il verdetto ‘senza batter ciglio’. Un diplomatique alla Lamberto Scannabecchi (Papa Onorio II) ma abile e sprezzante del pericolo quanto Gioacchino Murat. Brillante a intavolare storiche triplici alleanze (CAF), quando il momento lo richiedeva.
Illuminante la verosimiglianza riscontrabile nella Lettera ai Dieci (N. Machiavelli, del 26 giugno 1502 ): “ […] mai si riposa né conosce fatica o periculo: […] le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con una perpetua fortuna” (il ritratto è di Cesare Borgia). Strappava simpatie nascoste anche tra i comunisti, tanto che il governo di emergenza del 16 marzo del 1978 fu lui a presiederlo. Forse la simpatia che affascina i vincenti. O forse l’accattivante sex appeal di scuola democristiana, la migliore nella caccia di preferenze, come sosteneva il custode andreottiano Franco Evangelisti. E se Andreotti non era andreottiano, come lui sempre si è dichiarato, allora potremmo dire che andreottiano era lui, l’amico, il factotum Franco, l’architetto dell’andreottismo. Il geometra degli equilibri politico-partitici della corrente Primavera. Celebre è rimasta la battuta “a Fra’ che ti serve” con cui Gaetano Caltagirone salutava a ogni chiamata l’amico Franco che al liceo fu compagno di classe di Tonino Tatò, storico segretario di Berlinguer. Il finale tra Andreotti ed Evangelisti fu però tragico, con il secondo che iniziò a collaborare con i magistrati parlando anche dei rapporti tra l’eterno Dc e la mafia.
Un legame che sfiora Andreotti ogni volta che se ne sfoglia la sua lunga vita tanto da far dire a Ciccio Ingrassia (sul famoso incontro Riina-Andreotti): “Non lo so se si sono incontrati. Ma stia tranquillo che se si sono incontrati si sono baciati …”. Ci sono mille anime, volti, inganni, innumerevoli e indecifrabili sospetti che ruotano attorno a questa figura politica. Chi è stato e chi è Andreotti forse alla fine resterà uno dei più grandi misteri italiani. L’uomo dei misteri rimarrà avvolto dal mistero. Forse da sempre il suo scudo crociato difensivo. Ma Andreotti non è solo il simbolo del potere: un potere chiuso, clientelare, oligarchico, teocratico, cortigiano e medioevale.
Andreotti è il pontiere tra Italia e Vaticano, il mediatore tra occidente e mondo arabo, l’uomo di fiducia degli Stati Uniti a cui Kissinger riconosceva luci e ombre nel suo operato. Quello di Andreotti è un filone di pensiero che attraversa secoli di storia: le lotte di investitura e il concordato di Worms, i vescovi conti e sanguinari, le leggende di Rennes-le-Chateau, le diplomazie, il richelieunesimo e il machiavellismo, la guerra fredda, la caduta della Monarchia e la Prima Repubblica. Le notti più lunghe e inquietanti della politica italiana. Un principe prelato, investito di poteri temporali e “spirituali” (inteso in senso profondamente laico e figurato), perfetto ambasciatore plenipotenziario, accostabile per intelligenza e strabilianti mosse tattiche al Giulio Cesare del De Bello Gallico. Un’intelligenza fine e acuta.
Un linguaggio romanesco accurato e lineare. Un parlatore supremo, ma mai un oratore. Artefice di una politica cinica e immobile, quanto povera e debole. Spregiudicato all’estremo ma sempre composto e garbato nel suo gioco di conquista del gradino più alto, della riconoscenza dovuta e del potere più afrodisiaco. Andreotti è nato il 14 gennaio 1919 quando presidente del Consiglio del Regno d’Italia era Vittorio Emanuele Orlando, anche se lui amava precisare “nel 1919 sono nati il Ppi di Sturzo, il fascismo e io. Di tutti e tre sono rimasto solo io”, ed è morto il 6 maggio 2013 con presidente del Consiglio della Repubblica italiana Enrico Letta, nipote di quel Gianni, forse unico vero erede di parte dell’eredità romana di Andreotti. Quando se ne è andato aveva 94 anni, con alle spalle un ‘regno’ parlamentare durato ben 68 anni, ma considerando che è “postumo di se stesso” e conoscendo il personaggio non stupiamoci per eventuali colpi di scena. La storia – in fondo - continua.
Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 20 settembre 2022.
Che si parlasse di inflazione, di conflitto arabo-israliano o di gossip (di cui era ghiotto, nonostante l'aplomb claustrale) il caro vecchio "Iulius" vergava, dirette alla sua "Liviuccia", missive dal formidabile valore letterario.
Roba che neanche il carteggio Sartre e la De Beauvour, senza la vena erotica però con un'empatia invincibile. Prendete la confessione su De Gasperi esalata tra i corridoi di Palazzo Chigi nel 1963. Iulius scrive a Liviuccia: «La nomina a Papa di Montini mi ha fatto ricordare quanto una volta mi disse De Gasperi: "Non la conoscevo abbastanza nel 1947 e chiesi a monsignor Montini un parere sulla scelta di Lei per sottosegretario alla Presidenza; me lo dette molto incoraggiante e positivo". Un Papa saggio, dunque...».
O sfogliate il resoconto della preoccupazione per il presidente delle Repubblica Segni, colpito da ictus il 1964: «Speriamo che possa riprendersi, ma per il momento non si può dire niente. (...) Oggi si è accasciato dopo avere parlato con Moro e Saragat. Gli stessi lo hanno sostenuto ed i corazzieri lo hanno portato - senza conoscenza e parola a letto. Per mezz' ora non si è trovato un medico!... ».
MAL DI TESTA O gustatevi, con tenerezza, il bollettino di Iulius sulle emicranie: «Cara Liviuccia, ieri ho ripensato spesso alle tue preoccupazioni per la mia salute, ma devi tranquillizzarti perché è una stagione nella quale ho più appetito del solito ed ho raramente il mal di testa piccolo, mentre quello grande l'ho avuto solo sabato mattina, legato alla cena al caviale della notte precedente. Del resto, esiste la grazia di stato della quale io sono testimone ormai da tanti anni, e non solo come resistenza fisica. ...».
Per la cronaca, "Iulius" è Giulio Andreotti e "Liviuccia" è Livia Danese, la leggendaria consorte. E il loro scambio di lettere diventa oggi la trama appassionata di Cara Liviuccia- Lettere alla moglie (Solferino pp 400 euro 19, introduzione di Giuseppe De Rita, collana diretta da Massimo Franco, di Andreotti biografo). Un epistolario che consta di 300 missive inedite; ed evoca un mondo - quello dell'Andreotti privato - sconosciuto ai più. Che però riempie di tenerezza e, al tempo stesso, scolpisce nel marmo, il rapporto tra i coniugi.
Sicché ecco servito il Giulio che disinnesca la gelosia della sua Liviuccia in vacanza mentre lui trascorreva l'estate a Roma, tra impegni pubblici, privati e raccomandazioni.
Un esempio, datato 1961: «Ieri sera al telefono mi sembravi un po' "sostenutina" con la minaccia di far, non ho ben capito che, in rappresaglia a non so bene cosa avrei fatto io. Ma è segno di affetto per me e me ne pavoneggio».
Ed ecco, ancora, i commenti sulle sue manie da collezionista, che potevano sostenere il bilancio familiare: «Tra i visitatori è venuto Bolaffi a portarmi il catalogo dei francobolli del '61: la sede vacante è salita a lire 700 la serie (valore nominale di emissione lire 100)... La tua pelliccia assume contorni concreti». Ed ecco anche, tra una colazione col cardinale americano Spellman e un vertice Nato, l'apprezzamento per il rendimento scolastico dei loro figli, dovuto al ruolo insostituibile della moglie guardiana dello studio: «Sono orgoglioso dei risultati scolastici dei figli. Grazie (parola sottolineata. Ndr). In genere, non si è soddisfatti e tutti cercano di prendersela con i professori e simili... Domani non abbandono Roma e il figlio. Stasera niente concerto a Zagarolo perché c'è il giuramento. Baci ai figli. Iulius».
Vittorio Feltri dice sempre che di Andreotti non si vedevano mai i denti, il sorriso era un evento imponderabile. Ed è vero. Del divo Giulio erano oscuri anche i pensieri, le strategie, gli afflati ben rimpannucciati dentro la sobria grisaglia democristiana.
Eppure la passione, striata d'ironia, per la famiglia si ritrova proprio nei report minimalisti e quotidiani alla moglie che chiamava "la colonnella" o "caro scoglio"; e alla quale elencava perfino le sintesi dei pasti («Asciutta-carne-carciofini-provola- uova») e sintetizzava gli incontri istituzionali, tipo quello col cardinale Lercaro: «Ormai non ci sono ostacoli di etichetta. Non c'è tutta la turba che lo aveva assediato fino all'ingresso in Conclave. Sic transit gloria mundi». Per non dire delle opinioni di puro pettegolezzo: «Ieri sera ho cenato a Tor Carbone con l'editore Rizzoli. Mi ha detto che la Lollobrigida si separa dal dottor Skofic, seccato quest' ultimo per le attenzioni della moglie verso Frank Sinatra: che brutto mondo!». In realtà, per Giulio era tutt' altro che brutto.
NON SOLO SCRITTURA Afferma De Rita nell'introduzione: «Lo scrivere soltanto non gli bastava, subentrava in automatico un'ansiosa, quasi coatta, volontà che le lettere arrivassero a Livia. Non voleva e non poteva avere ambizioni di letteratura epistolare alla Jane Austen (preferiva anzi lo stile di scrittura dei libri gialli); le lettere servivano solo a trasmettere quel che della vita quotidiana era necessario trasmettere.
Quasi un'informazione di servizio per alimentare, anche da lontano, una vicinanza coniugale». Il suo vero mondo stava in una fotografia sgualcita: Andreotti in tinello circondato dalla moglie Livia e dai quattro figli, tutti composti, eleganti sottotraccia, e circonfusi da ineffabile sobrietà medioborghese. Un understatment polveroso di cui i politici d'oggi dovrebbe avvertire la mancanza...
Luigi Bisignani, lo scoop: in una lettera, il segreto inconfessabile di Andreotti. Libero Quotidiano il 18 settembre 2022
Per Giulio Andreotti "Carlo d'Inghilterra non è affatto il picchiatello sfottuto dalla satira, anzi mi hanno impressionato la sua sensibilità per l'ambiente e per l'architettura dei territori. Sempre che la mamma lo lasci fare...". I suoi rapporti con Elisabetta II, scrive Luigi Bisignani su Il Tempo, "furono sempre molto cordiali e accomunati da una grande passione: l'ippica. Nei suoi diari, Andreotti ricorda di quando, a Buckingham Palace, la Regina gli raccontò quanto le fossero cari i cavalli e di quanto fosse triste perché un puledro di un anno, il migliore di un lotto, era stato abbattuto il giorno prima. Sull'onda dei ricordi, imperdibile il nuovo libro, in uscita il 22 settembre, di Giulio Andreotti Cara Liviuccia. Lettere alla moglie, pubblicato da Solferino: una straordinaria storia d'amore, iniziata in un Cimitero, vissuta in simbiosi per ben 68 anni e raccontata, tra il 1946 e il 1970, attraverso corrieri e lettere scritte con la stessa tempestività e frequenza degli attuali WhatsApp, a cadenzare i momenti della giornata".
Come scrive Giuseppe De Rita "in una prefazione da antologia, queste lettere testimoniano che egli poteva anche compiacersi della «sua grazia di Stato», ma nell'agostiniano «interior intimo meo», il centro della sua vita è sempre stato il rapporto coniugale con Livia. Ma anche se nelle missive vergate nei momenti liberi, con certosina ricchezza di particolari minimalisti, si passa dagli ottimi risultati scolastici dei figli ai lavori in casa, da De Gasperi a Segni, da Papa Montini a de Chirico, dal Consiglio dei Ministri ai vertici Nato, ai viaggi in mezzo mondo, qual è, da sempre, il sale dell'amore?
La gelosia. Ed ecco che Giulio tranquillizza la sua Liviuccia in vacanza mentre lui trascorreva l'estate a Roma, tra impegni pubblici, privati e raccomandazioni", aggiunge Bisignani.
Nel 1961 Andreotti scriveva: "Ieri sera al telefono mi sembravi un po' "sostenutina" con la minaccia di far, non ho ben capito che, in rappresaglia a non so bene cosa avrei fatto io. Ma è segno di affetto per me e me ne pavoneggio". E ancora, nel 1946 spiegava alla moglie, spesso chiamata "Cara Ostrica", di alcune seccature "tra le quali il trasferimento di un commissario di polizia al quale la moglie mette le corna. Di che cosa mai ci si deve occupare". Oppure, quando nel 1947: "Ho avuto un'eccezionale visita di omaggio: la Magnani. Le solite fotografie...".
Andreotti e Gorbaciov, l'amicizia dopo il disgelo. Francesco Perfetti il 3 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il politico italiano capì subito la portata della Perestrojka. La sintonia con la Russia apriva scenari diplomatici importanti per l’Italia.
Nel giugno 1988, Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, venne intervistato da Arrigo Levi sui colloqui in corso a Mosca fra il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il segretario del Pcus Michail Gorbaciov sui rapporti fra Est e Ovest. Richiesto di un giudizio sul leader sovietico, se ne uscì con una battuta lapidaria: «Dio ce lo conservi!», frutto, probabilmente, di simpatia umana e di realismo politico. Aveva conosciuto Gorbaciov a Mosca qualche anno prima, il 13 marzo 1985, quando, insieme al presidente della Repubblica Sandro Pertini, si era recato ai funerali di Cernenko. Il leader sovietico del quale poco si sapeva in Occidente e che era stato scelto a sorpresa ribaltando le previsioni favorevoli a Gromyko fece ad Andreotti, come si legge nel suo diario, «una impressione molto viva e volitiva» e concesse una «breve» udienza nel corso della quale il ministro degli Esteri italiano, pur nei limiti di un incontro di circostanza, toccò temi scottanti esprimendo le preoccupazioni italiane per lo stallo dei negoziati tra Mosca e Washington e accennando al problema della riduzione degli armamenti e dello smantellamento degli SS-20. Fu una prima presa di contatto positiva che Andreotti sintetizzò nel diario con una battuta significativa: «Non chiedo risposte, ma pongo un tema di studio. Gorbaciov ascolta con grande interesse ed attenzione visibile».
Si era nel pieno della guerra fredda ripresa di intensità da qualche tempo con l'installazione da parte della Nato di nuovi missili che intendevano essere una risposta agli SS-20 e con l'invasione sovietica dell'Afghanistan. Tuttavia si era anche alla vigilia dei colloqui sugli armamenti che avrebbero poi trovato un punto di svolta nel vertice di Ginevra (19-20 novembre 1985) tra Reagan e Gorbaciov. Andreotti come si evince dalle scarne ma eloquenti note dei suoi diari e dal volume memorialistico L'Urss vista da vicino (1988) fu uno dei primi politici occidentali a rendersi conto che Gorbaciov rappresentava in un certo senso una novità anche rispetto al breve regno di Cernenko che comunque segnava «a suo merito la ripresa della trattativa con gli Usa».
Non è un caso che nell'arco di un quadriennio, fra il 1985 e il 1989, Andreotti si sia recato a Mosca quattro volte come ministro degli Esteri e abbia ricevuto, come presidente del Consiglio, la visita di Gorbaciov a Roma dopo la caduta del muro di Berlino. Se non si vuole proprio parlare di profonda amicizia, è però certo che tra loro si stabilì un ottimo rapporto all'insegna del pragmatismo politico. Il volume Andreotti e Gorbav. Lettere e documenti 1985-1991 (Edizioni di Storia e Letteratura, pagg. XXX-384, euro 38) a cura di Massimo Bucarelli e Silvio Pons con prefazione di Francesco Lefebvre d'Ovidio, ne offre conferma e dimostrazione. È un volume, promosso dall'Istituto Luigi Sturzo e pubblicato nella collana «Le carte di Giulio Andreotti», costruito utilizzando materiale diplomatico in gran parte inedito proveniente dalla Farnesina nonché quello, a cominciare dalla corrispondenza fra i due statisti, che fa parte appare del patrimonio archivistico andreottiano.
Da politico di lungo corso, ma soprattutto da spirito fortemente pragmatico, Andreotti colse subito l'opportunità offerta dal cambio della guardia ai vertici del Cremlino. Il 28 maggio, poco più di due mesi dopo i funerali di Cernenko, si recò a Mosca insieme a Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, per discutere dei rapporti Est-Ovest e trovò un Gorbaciov incline a ricercare un accordo con il mondo occidentale, a liquidare la cosiddetta «dottrina Breznev» sulla sovranità limitata degli Stati facenti parte del blocco sovietico, a ritirare le truppe dall'Afghanistan. Un curioso aneddoto raccolto da Andreotti a Mosca e riportato nei suoi diari spiega come le intenzioni di Gorbaciov di intervenire a fondo anche sulla società sovietica fossero reali. Sembra, infatti, che, poco dopo l'insediamento egli avesse programmato una visita a uno stabilimento industriale della capitale, ma che, salito in macchina, avesse cambiato programma presentandosi all'improvviso in un'altra fabbrica, dove trovò gruppi di operai che fumavano e conversavano allegramente. Secondo Andreotti quella «ispezione senza preavviso» avrebbe finito per giovare «prodigiosamente come scossone verso la disciplina, più delle circolari previste dai piani quinquennali».
La simpatia, la fiducia e le aperture di Andreotti nei confronti del leader sovietico non erano condivise da tutti, soprattutto da un'ala importante della diplomazia italiana. In particolare, l'allora ambasciatore a Mosca, Sergio Romano, in molti suoi rapporti a Roma, in gran parte pubblicati in questo volume, esprimeva forti perplessità. Per esempio, il 2 aprile 1986, rivolgendosi ad Andreotti, spiegava che Gorbaciov puntava alla «modernizzazione» del Paese e aggiungeva che gli accordi di disarmo proposti traevano origine dalla convinzione che l'Urss non sarebbe stata in grado di «fare il grande salto in avanti da lui auspicato e sostenere al tempo stesso l'onere di nuove corse in campo militare». Stando così le cose, e pur riconosciuta l'opportunità di assecondare gli obiettivi della diplomazia sovietica, l'ambasciatore si chiedeva: «Come è possibile pretendere che il clima politico degli ultimi dieci anni venga radicalmente migliorato in pochi mesi, da alcune proposte negoziali fatte pubblicamente e dalla apparizione al Cremlino d'una faccia nuova? Se l'Urss fosse un paese democratico la svolta sarebbe stata preceduta da un grande dibattito nazionale sugli errori della diplomazia brezneviana, e da quel dibattito avremmo tratto indicazioni sulle reali motivazioni della sua nuova politica estera. In assenza di qualsiasi autocritica come possiamo comprare, a scatola chiusa, il new look della diplomazia sovietica?».
Peraltro Andreotti, ironicamente chiamato da Montanelli «Andreottov», mostrava sulla perestrojka e, più in generale, sul riformismo di Gorbaciov comprensione maggiore di quella degli americani e della stessa diplomazia italiana, convinto com'era che, grazie alla «nuova» Russia, l'Italia avrebbe potuto giocare un ruolo non secondario nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. E, non a caso, tale sua linea ebbe qualche conseguenza anche in politica interna dal momento che si registrò un raffreddamento della tradizionale ostilità del Pci verso il leader democristiano.
Momenti cruciali nei rapporti fra Andreotti e Gorbaciov furono sia la visita di stato di Ciriaco De Mita, allora presidente del Consiglio, e dello stesso Andreotti a Mosca nell'ottobre del 1988 sia quella del segretario generale del Pcus in Italia nel novembre 1989 poche settimane dopo la caduta del muro di Berlino quando Andreotti era già divenuto presidente del Consiglio per la sesta volta. Questa visita, in particolare, commosse l'esponente sovietico per il «bagno di folla» che lo aveva accolto e rivelò una sostanziale sintonia fra le posizioni dei due Paesi sulle trasformazioni in atto nell'Europa centro-orientale e su altri temi dell'agenda internazionale.
Che Andreotti avesse preso sul serio la perestrojka lo dimostra la sua risposta del 27 gennaio 1989 a un rapporto dell'ambasciatore Romano critico sulla non linearità dell'evoluzione della perestrojka: «nell'esaminare il fenomeno del gorbaciovismo bisogna guardare al risultato complessivo e agli obiettivi di fondo del Segretario Generale del Pcus, che egli mi sembra persegua con immutata energia ed impegno». Peraltro, il suo giudizio positivo sulla perestrojka Andreotti lo fece conoscere direttamente a Gorbaciov in una lettera del 22 giugno 1990: «Le confermo che il Governo italiano segue con grande attenzione il processo riformistico da Lei avviato in Urss e si augura che esso abbia successo. Il consolidamento della perestrojka è infatti non soltanto nell'interesse dell'Unione Sovietica ma anche di tutti quei Paesi che hanno a cuore una costruttiva presenza dell'Urss in un contesto europeo e mondiale di collaborazione allargata». Qualche tempo dopo, inoltre, il 4 aprile 1991, egli manifestò un forte apprezzamento anche sulla politica estera di Gorbaciov: «i profondi mutamenti che hanno trasformato l'Europa ed aperto una nuova era di sicurezza e di cooperazione hanno certamente avuto in Lei uno dei massimi artefici».
Nel corso del tempo Andreotti e Gorbaciov passarono dai toni ufficiali ai toni confidenziali: le ultime lettere iniziano con un «Caro Giulio» e un «Caro Mikhail», rivelano grande stima umana reciproca e persino l'idea di far parte di una comune civiltà europea. Quando, per esempio, Bush nel gennaio 1991 lanciò l'operazione Desert Storm contro l'Iraq, Gorbaciov scrisse una lunga lettera dove si legge: «Ci siamo detto più di una volta che il mondo, dopo aver abbandonato le roccaforti della guerra fredda e mossosi verso un'epoca nuova, dovrà affrontare sfide difficili. La sfida nuova è stata lanciata al mondo da Hussein. La crisi, trasformatasi in una guerra talmente crudele, ci induce, prima di tutto noi europei, a tracciare i primi lineamenti del processo di pace sul nostro intricatissimo continente, a tenerci tanto della fiducia conquistata e collaborazione appena avviata».
Lavoro importante, da consultare ma anche da leggere, il bel volume Andreotti e Gorbav. Lettere e documenti 1985-1991 racconta in presa diretta, attraverso lo stretto rapporto fra due grandi protagonisti della politica internazionale, uno dei periodi più delicati della storia contemporanea che incrocia la fine della guerra fredda, la riunificazione tedesca, il passaggio da Reagan a Bush alla Casa Bianca, la guerra del Golfo, il fallito tentativo di golpe contro Gorbaciov e la crisi finale dell'Unione Sovietica. Esso offre, a chi lo sfoglierà, la possibilità di rivivere i grandi avvenimenti della più recente storia mondiale al di là del racconto che ne forniscono, codificandolo, i libri di storia. E non è davvero poco.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.
Dal centrosinistra a Tangentopoli. Ecco i “testimoni” di Ugo Intini…L’ex dirigente del Partito socialista racconta in un bel saggio l’ascesa e la morte della prima Repubblica. Francesco Damato su Il Dubbio il 13 novembre 2022.
Come gli è capitato di fare nel 2014 con una bella e orgogliosa storia del suo Avanti!, intrecciandola in 754 pagine con quella dell’Italia della Monarchia e della prima Repubblica, praticamente ghigliottinata dalla magistratura a mani cosiddette pulite, così Ugo Intini – che nel quotidiano socialista ha percorso tutta intera la carriera giornalistica, da redattore a direttore- ha fatto con i suoi Testimoni di un secolo, ancora fresco di stampa, edito da Baldini+Castoldi.
In 684 pagine scritte – come gli ha riconosciuto sul Sole- 24 Ore Sabino Cassese “in maniera avvincente, con verve e acume, grande attenzione per i particolari” ha ripercorso la storia del Novecento, non solo italiano, attraverso 48 protagonisti sistemati in una metaforica galleria di ritratti. Protagonisti – ha avvertito Cassese – “oltre a comprimari e l’autore del libro, auctor e agens”.
Del Psi del garofano guidato da Bettino Craxi all’insegna dell’autonomia e del riformismo Intini non è stato solo un dirigente, e portavoce del segretario, ma anche un ispiratore: per esempio, con il suo saggio, a quattro mani col compianto Enzo Bettiza, sulla compatibilità fra liberali e socialisti. Era il lib-lab.
Dal centro- sinistra col trattino degli anni sessanta, che si diede come segno distintivo i liberali sostituti al governo dai socialisti, si passò negli anni Ottanta, con Craxi in persona a Palazzo Chigi, al centrosinistra senza trattino – il famoso pentapartito – comprensivo dei liberali. Fu un’evoluzione pragmatica e ideologica al tempo stesso.
Vi confesso che la prima cosa che sono andato a cercare nella galleria dei ritratti del mio amico Ugo è stata la parte relativa alla tragedia di Tangentopoli gestita giudiziariamente, mediaticamente e politicamente in modo che diventasse una tragedia soprattutto socialista, pur essendo arcinota la diffusione generale del finanziamento illegale dei partiti, all’ombra di una legge a dir poco ipocrita sul loro finanziamento pubblico. Che stanziava a questo scopo meno della metà di quanto si sapeva che essi costassero.
Mi ha sorpreso, in verità, una certa comprensione di Intini verso Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale nel 1992, cioè all’alba già avanzata di Tangentopoli, grazie alla preferenza del Pds- ex Pci rispetto alla candidatura del laico Giovanni Spadolini, ma grazie anche, o ancor più, all’assenso dei socialisti.
Che fu motivato – ha spiegato Intini- dalla fiducia che Scalfaro da ministro dell’Interno di Craxi si era guadagnato tirando fuori dagli archivi del Viminale e dintorni un documento che confermava la convinzione dei socialisti, a cominciare dallo stesso Intini, che il nostro comune amico Walter Tobagi, del Corriere della Sera, fosse stato assassinato da aspiranti brigatisi rossi il 28 maggio 1980 per negligenza anche degli apparati di sicurezza della Repubblica. Ai quali era stato segnalato in tempo il progetto quanto meno di rapirlo.
Scalfaro che, consultando inusualmente nella crisi d’inizio della nuova legislatura anche il capo della Procura di Milano, rifiutò a Craxi il ritorno a Palazzo Chigi pur proposto dalla Dc di Arnaldo Forlani e dagli altri alleati, secondo Intini “ebbe certamente un ruolo nel salvare il salvabile” in quegli anni terribili.
Anche se poi, “almeno sul piano economico – ha aggiunto Intini– il merito è andato al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi”, mandato da Scalfaro a Palazzo Chigi nel 1993.
Ho storto il muso pensando a quanto quel rifiuto di Scalfaro di conferirgli l’incarico nel 1992 avesse indebolito Craxi nella caccia al “cinghialone”, come lo chiamava il magistrato simbolo dell’inchiesta Mani pulite: Antonio Di Pietro. Poi ho capito l’illusione procurata da Scalfaro a Intini con una difesa dei partiti espressa con queste parole “Demonizzarli, criminalizzarli è terribilmente pericoloso, poiché senza partiti non c’è democrazia”.
“Credevamo che questo fosse un argomento decisivo”, ha scritto Intini al plurale. “Ma ci sbagliavamo di grosso”, ha aggiunto, “perché non sapevamo che sarebbero arrivati i grillini a teorizzare la democrazia diretta, a individuare i parlamentari come il vertice della casta e a imporre a titolo punitivo e simbolico il taglio”. No, Ugo, prima ancora dei tagli grillini al Parlamento abbiamo avuto in Italia la demonizzazione dei partiti temuta sì da Scalfaro ma da lui non contrastata, o non contrasta a sufficienza.
I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022
Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.
Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.
Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).
Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato.
Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».
IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA
In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.
Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.
In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).
Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.
E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,
Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Totò Riina, i fratelli Buscemi e la Calcestruzzi di Raul Gardini. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 05 novembre 2022
Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore. Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa Nostra ai suoi massimi livelli.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
È in questo periodo che si costituisce ed opera un comitato d’affari in cui siedono Filippo Salamone, che si colloca sotto Pala protettrice dei corleonesi, stringendo legami con Buscemi Antonino e Bini Giovanni, il quale funge da interfaccia per i rapporti con i grandi gruppi imprenditoriali del Nord.
In particolare, Salamone curerà i rapporti con i referenti politici e gli amministratori e funzionari da coinvolgere nelle manipolazioni di lavori e collaudi e nell’approvazione di varianti. E questo comitato d’affari deciderà la spartizione degli appalti di maggior valore, in modo che una quota rilevante fosse assicurata alle grandi imprese sponsorizzate dai vertici mafiosi, le quali poi ricambiavano con l’assegnazione di lavori in subappalto e imprese mafiose o vicine alle famiglie mafiose, oltre al pagamento delle tangenti ai politici.
La citata relazione sulle modalità di svolgimento delle indagini su mafia e appalti richiama un documento che sintetizza le conoscenze acquisite da magistrati inquirenti e investigatori, già nella prima metà del 1993, e quindi a pochi mesi dalle stragi siciliane e alla vigilia della nuova ondata di violenza stragista che avrebbe investito questa volte le città di Firenze, Roma e Milano, portando la guerra di Cosa nostra - e delle organizzazioni mafiose - allo Stato sul continente, sull’evoluzione del fenomeno delle collusioni politico-mafiose e affaristiche.
La richiesta di o.c.c. (poi accolta dal gip) avanzata il 17 maggio 1993 dalla Dda. Di Palermo nell’ambito del proc. n. 6280/92 N.C.- Dda. a carico di Riina Salvatore+24 per associazione mafiosa e altri reati connessi all’illecita gestione degli appalti vedeva coindagati, insieme a esponenti di spicco dei corleonesi (come Michelangelo La Barbera e i fratelli Brusca, Giovanni ed Emanuele, unitamente al padre Bernardo), imprenditori mafiosi o collusi locali e faccendieri vari (Buscemi Antonino, Martello Francesco, Salamone Filippo, Modesto Giuseppe, Zito Giuseppe, Lipari Giuseppe), ma anche esponenti della grande impresa italiana (come Claudio De Eccher e Vincenzo Lodigiani). E a proposito dell’atteggiamento omertoso e delle reticenze di tanti imprenditori che invece in analoghi e paralleli procedimenti istruiti dalle procure di altre regioni (e in particolare da quella di Milano) erano disponibili a collaborare con gli inquirenti, ivi si sottolinea che la peculiarità del fenomeno corruttivo in Sicilia era legato non solo alla presenza, ma anche al progressivo protagonismo di Cosa nostra.
L’organizzazione mafiosa, infatti, non si limitava più ad un’intermediazione parassitaria o ad un’attività di sistematica predazione, ma s’inseriva nel sistema, per dettare le proprie regole e condizioni ai vari comitati d’affari già operanti.
Sul versante delle indagini però la conseguenza era che “a differenza che in altre regioni d‘Italia, gli imprenditori attinti a vario titolo dalla presente richiesta hanno generalmente assunto un atteggiamento di ostinata omertà, chiudendosi a qualsiasi collaborazione con l’A.g. I pochi disponibili a fornire utili informazioni all‘A.g. hanno limitato il proprio contributo conoscitivo al versante della corruzione politico-anininistrativa”, tentando in pratica di oscurare la peculiarità con cui il fenomeno si atteggiava in Sicilia: esattamente ciò che Paolo Borsellino un anno prima preconizzava in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992 (v. infra).
LE DICHIARAZIONI DI BRUSCA E SIINO
Nel processo Borsellino Ter (e anche nel Borsellino Quater se ne richiamano e risultanze) viene tratteggiato un lucido affresco ricavato dalle dichiarazioni di Giovanni Brusca e Angelo Siino - sostanzialmente confermate nel presente processo - dei contrasti generati inizialmente dalla inedita pretesa di Cosa nostra di inserirsi con un ruolo attivo nelle collaudate pratiche di spartizione degli appalti basato su accordi di cartello con la partecipazione di amministratori e politici; e poi degli assestamenti interni al sistema c.d. del tavolino, che aveva ormai inglobato la terza gamba, rappresentata dalle imprese mafiose; nonché del tentativo di Riina di imporre l’impresa Reale che avrebbe dovuto scalzare I’Impresem di Filippo Salamone anche per subentrargli nei rapporti con i referenti politici, non avendo affatto l’organizzazione mafiosa rinunciato a ad aprire nuovi e più fruttuosi canali con la politica, neppure nel pieno della guerra dichiarata allo stato; ed essendo la cogestione del sistema illecito degli appalti un terreno fertili per la ricerca di nuovi legami e alleanze:
«Il Brusca, pertanto, da prospettive diverse da quelle del Siino e quindi in modo autonomo, ha fornito un quadro sostanzialmente conforme dell’evoluzione dei rapporti creati da Cosa nostra con ambienti politici ed imprenditoriali per la gestione dei pubblici appalti.
Dopo una fase in cui l’organizzazione mafiosa si era occupata solo della riscossione delle tangenti pagate dagli imprenditori che si aggiudicavano gli appalti alle “famiglie” che controllavano il territorio in cui venivano realizzati i lavori, lasciando salvo qualche eccezione che fossero i politici ad individuare le imprese da favorire nella fase dell’assegnazione dell’appalto, il Siino era stato incaricato da lui di gestire per conto di Cosa nostra gli appalti indetti dall’Amministrazione provinciale di Palermo, di cui uno dei primi e più cospicui era stato quello riguardante la realizzazione del tratto stradale per San Mauro Castelverde.
Da allora il Siino si era occupato della gestione di tali appalti anche nell’ambito delle altre province, prendendo contatti con gli esponenti di vertice di Cosa nostra interessati in quei territori. Un momento cruciale era stato costituito dalla gestione degli appalti indetti dalla Sirap, di importo ben più consistente di quelli della Provincia e rispetto ai quali Cosa nostra era sino ad allora rimasta estranea alla fase dell’aggiudicazione. Allorché il Brusca aveva iniziato ad interessarsi ditali lavori tramite il Siino, si erano registrate delle resistenze da parte di alcuni politici, come il Presidente pro tempore della Regione Sicilia Rino Nicolosi. che sino ad allora aveva controllato tale gestione con l’intervento dell’imprenditore agrigentino Salamone Filippo, titolare dell’Impresem.
Per superare gli intralci burocratici con i quali si voleva impedire a Cosa nostra di gestire tali appalti, il Brusca era dovuto ricorrere al messaggio intimidatorio che era stato recepito, sicché si era raggiunto un accordo sulla base del quale il Salamone avrebbe continuato a gestire formalmente i rapporti con gli altri imprenditori mentre le decisioni sull’aggiudicazione dci lavori sarebbero state prese dal Siino per conto di Cosa nostra.
Da quel momento quell’associazione aveva anche esteso il proprio controllo sulla gestione degli appalti da quelli indetti dalla Provincia a tutti gli altri di ben maggiore importo indetti dalla Regione e da altri enti pubblici, lasciando al Salamone la cura dei rapporti con gli imprenditori ed i politici a livello regionale e nazionale ma riservando a sé il momento decisionale. In quello stesso tempo, intorno al 1988-89 era stata introdotta a carico degli imprenditori una quota tangentizia dello 0.80 per cento sull'importo dei lavori, che veniva prelevata dalla quota spettante ai politici e che veniva versata in una cassa centrale dell’organizzazione controllata dal Riina. Era però presto subentrata la volontà di creare dei rapporti diretti tra i gruppi imprenditoriali di livello nazionale ed alcuni esponenti politici nazionali, approfittando de controllo del sistema degli appalti per creare un’occasione di contatti in cui Cosa nostra avrebbe potuto dialogare da una posizione di forza.
Tale progetto prevedeva, quindi, l’accantonamento del Siino che con il consenso del Brusca venne relegato ad occuparsi degli appalti banditi dalla Provincia, solitamente di importo limitato e per i quali, quindi, non vi era interesse né degli imprenditori nè dei politici nazionali. Della gestione degli appalti di maggiore consistenza venne, invece, incaricato l’ingegnere Bini Giovanni, amministratore della Calcestruzzi S.p.a. del gruppo Ferruzzi — Gardini, legato a Buscemi Antonino, fratello di Salvatore, dal quale aveva rilevato come prestanome l’impresa di calcestruzzi per sottrarla ai procedimenti di sequestro e confisca in corso a carico dei fratelli Buscemi nell’ambito delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale.
Con il Bini tenevano contatti lo stesso Buscemi Antonino e Lipari Pino, uomo di fiducia del Riina che quindi trasmettevano la volontà di Cosa nostra ai suoi massimi livelli. Intorno al 1991, infine, il Riina aveva detto al Brusca di considerare l’impresa di costruzioni Reale come una sua impresa, cosa che all’inizio lo aveva sorpreso perché il Riina non aveva mai voluto interessarsi direttamente di imprese ed anzi era ironico nei confronti di quegli “uomini d’onore” che lo facevano, ma aveva poi compreso che tramite la Reale il Riina voleva creare un “tavolo rotondo” di trattativa con i politici. La predetta impresa, che era stata in precedenza sull’orlo del fallimento, era stata salvata ed era adesso controllata da Catalano Agostino e Agostino “Benni” persone formalmente incensurate ma contigue alla loro organizzazione.
Tale impresa avrebbe dovuto sostituire I’Impresem di Salamone nel ruolo di cerniera con i gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi anche in associazione con loro gli appalti di maggiore importo e tale progetto era stato coltivato sino a quando nel 1997, a seguito della sua collaborazione, erano stati tratti in arresto il D’Agostino ed il Catalano nell’ambito di una nuova inchiesta su mafia ed appalti.
Il Brusca ha anche spiegato che da parte di Cosa nostra si era seguita con attenzione l’inchiesta del Ros che aveva dato luogo all’informativa del 1991 e che essi erano riusciti a venire in possesso di una copia della medesima, constatando che non vi erano coinvolti i personaggi di maggiore rilievo e che non si era approdati alla conoscenza degli effettivi livelli di interessi messi in gioco sicché, mancando un pericolo immediato, si era deciso di rinviare un intervento di Cosa nostra alla fase del dibattimento per aggiustare il processo.
Anche il Siino oltre a riferire sull’impresa Reale quanto già ricordato nella parte prima della motivazione allorché si è trattato della sua collaborazione, ha chiarito che la quota di quell’impresa intestata a D’Agostino ‘Benni” era in realtà di Buscemi Antonino e che vi erano altre quote del Catalano e dell’ingegnere Bini controllate da Cosa nostra. Ha inoltre confermato di aver avuto alcune pagine dell’informativa del Ros già nel febbraio del 1991, consegnategli dal maresciallo Lombardo, e che dopo una ventina di giorni l’Onorevole Lima gli aveva messo a disposizione l’intero rapporto, consentendogli di constatare che a lui era stato attribuito anche il ruolo del Salamone.
Già allora, parlandone con Lima, Brusca Giovanni e Lipari aveva saputo che il Buscemi non aveva nulla da temere dall’inchiesta, e, infatti, era poi stato arrestato insieme al Siino un geometra Buscemi che nulla aveva a che vedere con loro. Dalle dichiarazioni del Brusca e del Siino risulta, quindi, confermato l’interesse strategico che rivestiva per Cosa nostra la gestione degli appalti pubblici e la particolare attenzione con cui essa seguiva le inchieste giudiziarie condotte in tale settore, inchieste di cui essa veniva a conoscenza prima del tempo debito, sicché poteva modulare i suoi interventi, a seconda delle necessità, ancor prima che fossero emessi i provvedimenti giudiziari.
Occorre poi ricordare che l’organizzazione mafiosa in esame era a conoscenza del fatto che Falcone si interessava a tale settore e che aveva compreso il fondamentale passaggio del sodalizio criminale da un ruolo meramente parassitario, di riscossione delle tangenti, ad un ruolo attivo di compartecipazione nelle imprese che si aggiudicavano gli appalti anche in associazione con l’imprenditoria nazionale». SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
La strategia di Riina: guerra allo stato e nuove protezioni politiche. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 06 novembre 2022
La strategia stragista non era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi.
Su Domani pRosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il ruolo “storico” di Buscemi Antonino, quale imprenditore mafioso protagonista della penetrazione di Cosa nostra nei salotti buoni della finanza e dell’imprenditoria nazionale sarà messo a frioco nel procedimento - anche questo richiamato nella Relazione cit. su mafia e appalti — a carico dello stesso Buscemi Antonino+5 in relazione all’esistenza di un comitato d’affari sovraordinato a quello
facente capo ad Angelo Siino, e che sovrintendeva alla spartizione degli appalti di maggiore importo.
Ne facevano parte, insieme al Buscemi, anche Bini Giovanni, che curava gli interessi del Gruppo Ferruzzi e si interfacciava con gli ambienti dell’imprenditoria nazionale; Salamone Filippo, che curava invece i rapporti con gli imprenditori locali e i referenti politici ai quali veicolare le relative tangenti.
Il nome di Buscemi Antonino peraltro era stato segnalato come possibile socio del Gruppo Ferruzzi già nel primo rapporto del Ros su mafia e appalti. Ivi, il Buscemi veniva segnalato come imprenditore ramante, inserito nella Calcestruzzi Palermo, nella LA.SER.s.r.l. e nella FINSAVI s.r.l., società quest’ultima compartecipata al 50 per cento dalla Calcestruzzi di Ravenna, holding del Gruppo Ferruzzi.
Lo stesso nominativo era segnalato per una vicenda di partecipazioni incrociate e sospette compravendite di pacchetti azionari in un’informativa trasmessa per competenza dal sost. Proc. di Massa Carrara, dott. Lama, alla procura di Palermo nell’agosto del ‘91, in relazione a indagini sulla società I.M.E.G., riconducibile ai fratelli BUSCEMI. Ma il procedimento incardinato per 416 bis si concluderà con decreto di archiviazione, non essendo emersi indizi di reità per il reato di associazione mafiosa, al di là della certezza di cointeressenze societarie tra la Calcestruzzi del
Gruppo Ferruzzi, e quindi tra Raul Gardini e un imprenditore all’epoca “in odor di mafia”, come Buscemi Antonino, fatto salvo il sospetto di reati fiscali finalizzati alla creazione di provviste occulte da destinare al pagamento di tangenti.
La Calcestruzzi di Ravenna sarà peraltro indicata dal pentito Messina Leonardo, in uno dei primi interrogatori resi al dott. Borsellino, come società in qualche modo entrata in rapporti con Riina.
Quanto alla Reale costruzioni, sarebbe stato il passepartout voluto da Riina per entrare nel Gotha dell’imprenditoria nazionale, ne erano soci Reale Antonino, Benedetto D’Agostino e Agostino Catalano, quest’ultimo consuocero di Vito Ciancimino. Ma socio occulto era proprio Buscemi Antonino.
A dire di Brusca, uno dei personaggi più importanti era però proprio Agostino Catalano. Nelle intenzioni di Riina, in sostanza, la Reale costruzioni avrebbe dovuto scalzare la Impresem di Filippo Salamone nel ruolo di cerniera con i grandi gruppi imprenditoriali nazionali, aggiudicandosi, anche mediante A.T.I., gli appalti di maggiore importo. Questo progetto in effetti non si arenò con la cattura di Riina, ma proseguì, evidentemente con altri registi, almeno fino al 1997, quando le rivelazioni di Brusca e poi la collaborazione formalizzata da Siino consentirono di squarciare il velo sul ruolo di imprenditori insospettabili come Benny D’Agostino e Benedetto Catalano.
Di un sorprendente esito delle indagini patrimoniali espletate in procedimenti apparentemente non collegati tra loro (come quelli aventi ad oggetto, rispettivamente, vicende di corruzione/concussione e traffico di droga) v’è traccia nella richiesta di archiviazione del procedimento mandanti bis e nella testimonianza del senatore Di Pietro e nelle sentenze di merito del processo sull’attentato all’Addaura.
LA PISTA ELVETICA
Si accertò infatti che erano stati accesi presso istituti di credito e banche elvetiche dei conti “di servizio” nella disponibilità di finanzieri e faccendieri su cui confluivano i flussi di denaro provenienti dal traffico di droga. Ad occuparsene, secondo il pentito Vito Lo Forte erano Gaetano Scotto e Vincenzo Galatolo, della famiglia mafiosa dell’Acquasanta. Gli inquirenti ipotizzarono che qui potesse risiedere il movente dell’attentato all’Addaura: colpire i magistrati svizzeri che cooperavano con Falcone nell’inchiesta su quel riciclaggio. Ma si adombrò pure l’ipotesi (v. pag. 236 della sentenza emessa il 27.03.2000 nel processo di primo grado per l’attentato all’Addaura e fg. 35-36 della richiesta 9 giugno 2003 e successivo decreto di archiviazione in data 19 settembre 2003 del procedimento istruito dalla procura distrettuale di Caltanissetta a carico dei presunti mandanti occulti delle stragi, c.d. “mandanti occulti bis”) che quei conti svizzeri non fossero soltanto terminali del riciclaggio di capitali mafiosi, ma servissero altresì a costituire fondi neri da destinare come provvista delle imprese interessate al pagamento delle tangenti ai politici.
È plausibile allora anche sotto questo aspetto che l’interesse manifestato da Paolo Borsellino per le indagini sull’intreccio mafia/appalti si saldasse alla sua determinazione a fare luce sulla vera causale della strage di Capaci, avendo egli ripreso l’intuizione che già era stata di Giovanni Falcone circa un possibile link tra i due movimenti di denaro illecito: riciclaggio di capitali sporchi e pagamento delle tangenti. In sostanza, chi gestiva quei conti, era al centro di un crocevia di traffici illeciti e quindi partecipava di entrambi. Ma ciò voleva dire che i capitali mafiosi, almeno in parte, servivano anche ad ungere i rapporti con la politica, anche se tale compito era affidato ad appositi faccendieri.
E il senatore Di Pietro ha confermato che Borsellino era convinto che esistesse un sistema nazionale di spartizione degli appalti, cui si uniformavano le cordate di imprenditori operanti nei vari territori e li si trovava anche la chiave della formazione delle tangenti (che era l’aspetto che più premeva all’allora sost. proc. Di Pietro approfondire: scoprire il luogo e il meccanismo di formazione delle provviste da destinare).
Peraltro, l’acquisita compartecipazione di Cosa nostra al sistema di spartizione degli appalti, ovvero un sistema di potere radicato in Sicilia ma con propaggini sul territorio nazionale (come sarebbe dimostrato dall’inchiesta della procura di Massa Carrara sulle cointeressenze societarie di un imprenditore che solo successivamente si accerterà essere organico a Cosa nostra come Buscemi Antonino e società del Gruppo Ferruzzi) capace di intercettare e redistribuire ingentissime somme di denaro pubblico, come i mille miliardi di lire per la realizzazione di insediamenti produttivi prevista dai finanziamenti in favore della Sirap, farebbe pensare alla ricucitura di un patto occulto di scellerata alleanza o di proficua coabitazione tra organizzazione mafiosa e mondo politico.
Ma ciò non è affatto in contraddizione con la guerra allo Stato, cioè con l’offensiva scatenata dai corleonesi contro le Istituzioni.
È chiaro infatti che la guerra dichiarata da Riina era diretta contro lo Stato e le sue leggi, mentre il sistema di potere incentrato sulla cogestione illecita degli appalti si fondava su una sotterranea intesa con pezzi infedeli dello Stato e delle istituzioni politiche ed economiche, e cioè politici corrotti, amministratori e funzionari infedeli, imprenditori collusi. Né la strategia stragista era in contraddizione con l’esigenza di trovare nuovi referenti politici e riallacciare canali che permettessero di tornare a fruire di una protezione “politica” dei propri interessi. Da un lato, infatti, essa ne creava le premesse indispensabili, quali l’annientamento dei nemici giurati di Cosa nostra, che avrebbero impedito l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica; e l’eliminazione dei vecchi referenti che avevano voltato le spalle all’organizzazione mafiosa, che servisse anche da monito per quanti fossero stato risparmiati o per quanti si fossero prestati a ricucire rapporti con Cosa nostra.
Ma dall’altro - ed è questa l’indicazione che proviene, sia pure con accenti diversi, dalla maggior parte dei collaboratori di giustizia che hanno saputo riferirne: Brusca, Cancemi, Giuffé, Sinacori, Malvagna, Messina, Pulvirenti, Avola: cui si sono aggiunti in questo processo Palmeri Armando e alcuni collaboratori di giustizia provenienti dalle fila della ‘ndrangheta calabrese — essa doveva costituire, nelle intenzioni dei suoi artefici, lo strumento più efficace per propiziare l’apertura di nuovi canali di dialogo con la politica. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022
Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.
Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.
Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros
È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi).
E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.
Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.
E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.
Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».
Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».
In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nei portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.
Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».
[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».
In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.
E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.
E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».
E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Giustizia fanta-horror. Il reato di lesa maestà di Mani Pulite e la libertà di parola di chi non è magistrato. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022
Tre ex pm si sono offesi per un articolo di giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Tangentopoli, ma in passato uno di loro non si è fatto problemi con i parlamentari della Bicamerale
È passato quasi un quarto di secolo, ma molti ancora ricordano l’intervista di Gherardo Colombo a Giuseppe d’Avanzo sul Corriere della Sera del 22 febbraio 1998, in cui il pm della procura milanese fece esplodere una vera e propria bomba sotto il tavolo della Commissione Bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D’Alema.
La tesi sostenuta da Colombo era che la riforma della Repubblica, cui la Commissione stava mettendo mano, fosse figlia della “società del ricatto” che univa in un patto occulto forze politiche e organizzazioni criminali e dunque che il tentativo di riscrivere la seconda parte della Costituzione, facendo una serie di riforme in materia di giustizia, rispondesse alla necessità di quella “società” di occultare gli scheletri del passato. «La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto».
A D’Avanzo, che gli chiese esplicitamente se intendesse la Bicamerale come «la strada obbligata per chi, partecipe degli illeciti di ieri, oggi è obbligato a scegliere l’accordo», Colombo rispose in modo molto sincero: «È detto in modo un po’ brutale, ma è quel che penso. Ecco perché, a mio avviso, la Bicamerale deve anche affrontare la questione della giustizia».
Non ricordo tutto questo per discutere se abbia qualche pregio o fondatezza storica la tesi di Colombo sul filo rosso criminale che legava la mediazione della mafia per facilitare lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943, la trattativa con la camorra per la liberazione di Ciro Cirillo, i fondi neri dell’Iri e la P2 alla proposta di separazione delle carriere dei magistrati inutilmente negoziata nella Bicamerale D’Alema. La cosa che mi interessa rilevare è che questi addebiti oggettivamente pesantissimi non solo rispetto al sistema dei partiti, ma soprattutto rispetto ai membri della Bicamerale chiamati ad attuare, per così dire, l’estorsione criminale trasfigurandola e sigillandola in innovazione costituzionale, fossero da Colombo presentati come un fattivo contributo alla discussione: «Le mie considerazioni non vogliono (come è ovvio) e non potrebbero (come è giusto) condizionare il lavoro del Parlamento nella riscrittura della seconda parte della Costituzione. Le mie sono soltanto osservazioni di carattere generale sul tema della giustizia e dei modi di amministrarla».
Malgrado le polemiche politiche, gli imbarazzati distinguo dell’Associazione nazionale magistrati e l’avvio di un’azione disciplinare, da cui Colombo uscì prosciolto, sul presupposto che si trattasse di opinioni compatibili con il suo ufficio di magistrato, la cosa che ai nostri fini importa è che Colombo non fu mai processato né condannato per avere calunniato o diffamato i parlamentari della Bicamerale, né i vertici politici impegnati a trovare un accordo dettato dalla “società del ricatto”.
Allora perché Colombo, insieme a due ex colleghi del pool milanese, Davigo e Ramondini, si è sentito personalmente diffamato da un articolo di Iuri Maria Prado su Il Riformista che descrive l’epopea di Mani Pulite, a partire dalla stessa denominazione, come una pagina di «terrore giudiziario… civilmente osceno e democraticamente blasfemo» e dichiara che la «cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava furono e rimangono la vergogna della Repubblica», e che «svergognata» è la magistratura «che ne rivendica la paternità»? Un giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Mani Pulite è più penalmente sensibile di un giudizio escatologico sulla trappola criminale che imprigionava la Bicamerale?
Dopo la querela presentata dai tre (due ex) magistrati, la Procura di Brescia, territorialmente competente, aveva chiesto l’archiviazione per Prado, sulla base del pacifico presupposto che il diffamato non è chi si senta offeso, in quanto parte di una categoria o di un gruppo sociale, dalle parole di qualcuno, ma quello cui la presunta offesa sia personalmente e inequivocabilmente rivolta. Insomma, Prado, chiamando in causa in quei termini l’esperienza di Mani Pulite non ha diffamato i membri del pool più di quanto Colombo un quarto di secolo fa avesse diffamato i membri della Commissione Bicamerale o i segretari e i dirigenti dei partiti del tempo, dicendo che la riforma costituzionale in preparazione era figlia di un ricatto criminale. Con una differenza rilevante: che Prado, diversamente da Colombo, non si è mai riferito a questo o quello specifico atto di ufficio di questo o quel magistrato, ma al clima e alla cultura del tempo e ai pubblici atteggiamenti di chi, fuori e dentro la magistratura, vi operava.
Il Gip di Brescia, contro la richiesta del pm, ha invece disposto l’imputazione coatta di Prado ritenendo che il combinato disposto della dicitura “Mani pulite” contenuta nel titolo (non scelto dall’autore) e nel testo dell’articolo, il riferimento al «manipolo meneghino di pubblici ministeri» e un’immagine di repertorio usata dal giornale a corredo dell’articolo (non scelta dall’autore), relativa a uno dei tre querelanti, cioè Colombo (l’unico citato per nome da Prado come «ottima persona»), permettano «in termini di ragionevole certezza di individuare in modo inequivoco i destinatari delle affermazioni diffamatorie negli odierni querelanti». In modo inequivoco, eh!
Il Gip inoltre qualifica come in sé diffamatorio il riferimento a una «eversione giudiziaria organizzata» (anch’esso si suppone inequivocabilmente riservato ai tre querelanti) interpretando il termine “eversione” in un senso tecnico-criminale, e non nello stesso senso figurato e iperbolico per cui è consentito da decenni agli esimi rappresentanti della magistratura italiana – querelanti compresi – di qualificare come eversive o direttamente piduiste alcune proposte di riforma della giustizia, partendo – visto che tutto torna? – dalla separazione delle carriere di magistrati.
Peraltro, per chi avrà la pazienza di leggerlo, risulterà chiaro che nell’articolo di Prado l’eversione contestata alla cultura di Mani Pulite riguarda soprattutto la proiezione extra-giudiziaria dei magistrati militanti e televisivi e la loro sinistra postura da soprastanti del potere politico-legislativo e da Consiglio dei Guardiani della morale della Repubblica.
L’articolo di Prado parla insomma di una temperie storica isterizzata e fanatizzata, di uno spirito pubblico avvelenato, di una cultura del chiedere e del fare giustizia che ha, a parere dell’autore e pure modestamente dello scrivente, irrimediabilmente corrotto la nozione e pervertito il funzionamento del sistema penale.
Non addita le responsabilità di nessuno, ma chiama in causa quelle di tutti (non dei soli magistrati), in quella gigantesca autobiografia nazionale che si iniziò a scrivere nei corridoi delle procure, dilagò nelle piazze delle monetine contro il delinquente del Raphael che doveva marcire nelle patrie galere e infine giunse, con il maiosmo politico-giudiziario del Movimento 5 stelle, ad accomodare i peggiori e ultimi epigoni della retorica manipulitista ai vertici dello Stato.
Prado scrive di tutto questo nello stesso modo risentito e scandalizzato con cui il “diffamato” Colombo un quarto di secolo prima faceva requisitorie in prima pagina, senza paura di scandalizzare e di diffamare (e senza timore di querele, ipotizziamo), sull’Italia della Bicamerale.
Il processo che si chiede contro Prado ha quindi molteplici profili di interesse e altrettanti di allarme. Sarà interessante verificare se per il giudice di Brescia la libertà di parola, di iperbole e di metafora dei non magistrati sia almeno pari a quello dei magistrati e se la diffamazione “categoriale” valga solo per questi ultimi o magari anche per i politici o per i giornalisti o (Prado non è né un politico, né un giornalista) per i cittadini civilmente impegnati, così da aprire nuove e funeste pagine di giurisdizione fanta-horror.
Ma questo processo sarà anche interessante per capire se quelle cartelline “per una serena vecchiaia”, in cui Davigo dice di collezionare le querele e le richieste di risarcimento per le diffamazioni a mezzo stampa, interesseranno anche quella parte dell’informazione italiana che le querele da Davigo proprio non le rischia, ma farebbe bene comunque a preoccuparsene. Infatti a funzionare come “querele bavaglio”, con un effetto, neppure con un proposito, intimidatorio, non sono solo le querele minacciate dai politici – si pensi al notissimo e recentissimo caso del Ministro Crosetto – ma, da parecchi anni, anche quelle largamente dispensate dai magistrati a chiunque metta in dubbio la maestà delle loro persone o addirittura, come in questo caso, del fenomeno storico-politico di Mani Pulite.
Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 27 luglio 2022.
“Vuoi pure queste, Bettino, vuoi pure queste…” Era il 30 aprile del Novantatré, l’Italia sull’orlo del precipizio, e Craxi, il capro espiatorio di ogni male italicus. Quella sera, quando il corpo imponente di Bettino lasciò l’hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, nel cielo già terso e primaverile della Capitale, il grido dei manifestanti divenne feroce.
Avevo 13 anni, e a cena il nonno, vedendo le immagini mandate in onda da mamma Rai, non la smetteva di dire: ma che sta succedendo a Roma? Capivo nulla di politica, ma quelle urla, quelle monete sonanti che volavano sulla testa e sul corpo del gran capo socialista, mi rimasero impresse. Anche dalla provincia povera e, per certi versi, ignorante e retrograda, si capiva che la slavina stava prendendo forza e velocità e che avrebbe travolto la vecchia politica e tutti i mammasantissima del Palazzo.
A distanza di quasi trent’anni, sembra tutto sbiadito, per certi versi evaporato. La storia ha preso il sopravvento sulla cronaca. I politici della Prima Repubblica morti e sepolti e dimenticati. I partiti? Liquefatti. Le sezioni? Chiuse per sempre.
In un Paese che non ha mai amato coltivare il vizio del ricordo, qualcuno, però, ancora si ostina a lucidare la recente storia patria…
E così, in un sabato torrido, decido di lasciare la canicola e la sporcizia romane, per salire dalle parti di Orbetello, e raggiungere il buen ritiro di Stefania Craxi, la vera combattente della famiglia.
A pochi metri dalla sua dimora, la sinistra borghese e noiosa, quella che si dà di gomito nei premi letterari e nelle stanze del potere capitolino, è sdraiata all’Ultima Spiaggia di Capalbio.
La chiacchierata comincia quasi con una colazione e finisce a pranzo.
Stefania Craxi non ha il viso pacifico, e pacificato, anzi. Quando i ricordi, ineluttabili, salgono su, fin negli anfratti più resistenti e respingenti della memoria, si rabbuia. I segni del dolore e della rabbia sono palmari, nonostante il sorriso contagioso.
Con Tangentopoli – o la “falsa rivoluzione”, come l’ha più volte definita – Stefania Craxi non ha smesso di fare i conti, anzi. Appena può, prova a richiamare tutti alle loro responsabilità; appena può, rispolvera e riapre il vaso di Pandora, con i tradimenti, le colpe, le dimenticanze, le prese di distanze, di tutti, o quasi: socialisti, comunisti, democristiani, giudici e giornalisti…
Ripensando al suo j’accuse, una domanda, nei giorni successivi, mi ha accompagnato: riuscirà la Storia, una volte per tutte, e senza gli occhiali della ideologia, a chiarirci chi è stato veramente Bettino Craxi, e cosa ha rappresentato per il nostro Paese…?
Stefania, cominciamo subito questa intervista con il botto: dov’era la sera del 30 aprile 1993, quando suo padre Bettino fu subissato di monetine dinanzi all’hotel Raphael?
Purtroppo non ero con lui, non mi trovavo a Roma, ma quella sera me la ricordo perfettamente. Ero a letto, a casa, perché incinta della mia terza figlia; una gravidanza che mi stava dando non pochi problemi. In serata, all’ora di cena, accendo la tivù e leggo sul Televideo di questo episodio assurdo, barbaro, un’aggressione squadrista, come l’avrebbe definita lui stesso.
A Giuliano Ferrara, che lo intervista poco dopo, in quello stesso pomeriggio, nel suo programma L’Istruttoria, e che gli chiede se ha avuto paura, Craxi risponde che no, non ha avuto paura, che ha provato solo vergogna per loro.
E nonostante il suggerimento degli uomini della sicurezza, che lo invitano a uscire dal retro, Craxi decide di varcare il portone principale del Raphael, si infila in macchina, alza lo sguardo fiero. Alle 10 della sera, riesco finalmente a sentirlo; mi trova scossa, turbata, in lacrime. Stefania, mi dice, ricordati che una Craxi non piange. Il suo messaggio era chiaro: sei nata in una famiglia politica, quella politica che ha a che fare con la vita e con la morte, devi saper affrontare i momenti difficili che verranno.
Che emozioni provò?
Rabbia, impotenza, un senso di ingiustizia, rammarico, forse, per non essere stata lì con lui.
Che bambina era?
Una bambina che ha amato trascorrere tanto tempo con suo padre…
Addirittura.
Da bambina, capii una cosa importantissima: se volevo relazionarmi con lui, dovevo imparare, e in fretta, il linguaggio della politica. Per questo amavo ascoltarlo tantissimo. Il fine settimana, quando tornava da Roma, io non uscivo con i miei amici fino a quando non capivo che mio padre non mi avrebbe portato con sé. Sentivo il respiro della Storia. Ma ricordo anche momenti intimi, per esempio, quando prendevamo la metropolitana e andavamo a San Siro, a vedere le corse dei cavalli.
Perché suo padre scelse di vivere in un albergo?
Non lo considerava un albergo: era di proprietà di uno dei suoi più cari amici, Spartaco Vannoni, personaggio straordinario e uomo coltissimo. Era stato in passato una spia della Stasi, poi divenne anticomunista. Mio padre ha sempre ritenuto Roma una città provvisoria, di passaggio, per la sua vita. E anch’io, in realtà, quando scendevo a Roma, consideravo il Raphael una seconda casa.
Quando le capita di passargli vicino, cosa prova?
Faccio fatica a spingermi fino a largo Febo, i ricordi e le emozioni si rincorrono velocemente, sono ancora molto forti. Oggi, poi, essendo stato ristrutturato, la stanza di papà non c’è più. Una volta, ricordo, ebbi uno scontro con Filippo Ceccarelli, il quale, dalle colonne di Repubblica, scrisse che la camera di mio padre fosse lussuosa. Ma era vero l’esatto contrario. Possibile, gli dissi, che a nessuno dei giornalisti di Repubblica sia mai venuto in mente di intervistare Craxi nella sua camera? Solo Giampaolo Pansa, dalle pagine di Libero, rispose dandomi ragione.
Ha mai provato a mettersi nei panni e nella testa di quelli che lanciarono le monetine? Non erano mica tutti facinorosi e pazzi… Lei, giustamente, pensava alle sorti di Bettino, loro, invece, al bottino e alle mazzette che, ogni giorno, spuntavano fuori.
La campagna mediatica fu violenta, mistificatoria, denigratoria, e non stento a credere che le persone comuni possano avere creduto in toto a quello che leggevano sui giornali. Una cosa, però, ancora me la chiedo: perché da destra mi hanno chiesto scusa, e da sinistra ancora no? I leader della sinistra dovrebbero porsi una domanda: come mai l’elettorato socialista è confluito tutto nel centro-destra?
Lo faranno, secondo lei?
Finché c’è vita, c’è speranza…
Che fine ha fatto il tesoro del partito socialista? L’ha mai chiesto a suo padre?
Mio padre non si occupava della gestione amministrativa del Psi. In quel periodo ce n’erano tanti, di conti; e ogni corrente poteva disporre di denaro; qualcuno, probabilmente, sarà sparito, altri, invece, riposano in qualche banca, chissà.
È stato un grave errore quello di aver lasciato fare… Un segretario di partito non può lasciare che fiumi di denaro scorrano senza lasciare tracce, senza controllo. È d’accordo?
Le rispondo con le parole che Bettino Craxi consegnò a Sergio Zavoli, che lo andò a intervistare ad Hammamet: ''Io, probabilmente, ho sopravvalutato il mio ruolo, la mia personalità, la mia capacità di tenere in mano, saldamente, le cose…C’erano circostanze di cui avevo perso completamente il controllo…Erano situazioni che andavano degenerando, a volte infracidendo''.
Martelli ha dichiarato pubblicamente di aver restituito la bellezza di 550 milioni di lire, e suo padre, invece, no…
Perché non è stato chiesto ai prefetti di Milano, che non potevano non saperlo, qual era il tenore di vita di Craxi e dei suoi familiari? Mia madre, con il marito presidente del Consiglio, andava in Corso Vercelli a fare la spesa in tram. Mio padre non possedeva tutti quei soldi. Cosa avrebbe dovuto restituire? Tutti sapevano che Craxi aveva uno stile di vita per nulla sfarzoso e, del resto, sarebbe bastato chiederlo agli uomini della sua scorta, che gli stavano accanto 24 ore su 24.
Perché non ha mai sopportato Martelli? Eppure era la punta di diamante del partito… Era invidiosa della sua brillantezza, intelligenza, dell’ascendente che aveva su suo padre?
Stimo Martelli per la sua intelligenza e per la capacità di analisi politica che ancora oggi farebbe bene a questo Paese. Ma a Claudio ho sempre detto, guardandolo negli occhi, che ha commesso un grandissimo errore, umano prima ancora che politico, ad abbandonare il segretario nel momento peggiore, quando il Psi stava fronteggiando l’avanzata di truppe assedianti, quelle giudiziarie e quelle mediatiche in primo luogo.
Una volta ha detto: senza mio padre, Amato sarebbe ancora un professore universitario. Che cosa le ha fatto il dottor Sottile? Lo reputa vigliacco, fariseo, arrivista?
Giuliano Amato è un uomo di grande esperienza, non gli mancano né le qualità e neppure l’intelligenza. E infatti è stato uno degli uomini più vicini a Craxi, suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché fra i massimi dirigenti del partito, commissario del Psi a Torino o a Milano quando scoppiava qualche grana. Dopodiché pongo una domanda: come mai il vice di Craxi viene periodicamente indicato come potenziale candidato alla presidenza della Repubblica, mentre mio padre dovette seguire la via dell’esilio? O sono manigoldi entrambi o entrambe sono delle brave persone…
E De Michelis?
Gianni è stato un politico di grande statura, un uomo di profondo spessore culturale, capace di anticipare con le sue analisi alcune delle dinamiche geopolitiche che avremmo vissuto negli anni successivi. E fu una persona vera; quando mio padre morì, le sue lacrime furono vere…
Quante lacrime di coccodrillo ha visto cadere alla morte di Craxi?
Tante, tantissime…
Ci faccia qualche nome.
Beh, tutti quelli che, per esempio, non sono mai venuti ad Hammamet.
Chi erano le troie di regime, per dirla con De André, che affollavano le cene e i congressi? Se le ricorda?
I congressi, e poi l’Assemblea Nazionale del Psi, rappresentano il primo tentativo di aprirsi alla società civile, parola, oggi, tanto abusata. Le ricordo alcune delle figure presenti: Strehler, Francesco Rosi, Portoghesi, Treu, Pera, Veronesi, Gassman. Ci sono stati i nani e le ballerine? Ma sicuramente… Vogliamo definire Sandra Milo una ballerina? Facciamolo pure, ma è stata una grandissima attrice! E Lina Wertmuller? Vuole che continui…?
Chi sono stati, invece, politicamente parlando, i nani socialisti?
Il socialista più nano sapeva suonare il violino con la punta dei piedi, altroché! La classe dirigente socialista, senza dimenticare quella locale, era composta da gente di prim’ordine…
Come reagì, sua madre, quando si venne a sapere che suo padre aveva un’amante?
A mio padre le donne piacevano, e lui piaceva loro, perché è sempre stato un uomo di grande fascino e carisma… Mamma, quando seppe delle fughe amorose di mio padre, ha messo in campo una capacità di comprensione e perdono che ancora le invidio.
Pensò di mollarlo?
Assolutamente no! E men che meno lui. Era facile sedurlo, difficile tenerlo. Ci è riuscita solo mia madre.
E lei, invece?
Ero gelosissima; appena potevo, cercavo di fargli terra bruciata, confondendo, a dire il vero, un po’ i ruoli. Una volta, ora che ci penso, strappai un orecchino a una sua fiamma…
Quali sono state, secondo lei, le colpe che suo padre ha commesso?
Pensare che i comunisti potessero cambiare; e dare fiducia a uomini che non la meritavano affatto…
Tipo?
Fare sempre i nomi non è gradevole. Sa, lui aveva una giustificazione per tutto. Quando qualcuno sbagliava, o lo tradiva, diceva sempre: poverino. Aveva sempre un atteggiamento giustificatorio verso le debolezze umane. Una volta, me lo ricordo come fosse ora, arrivò un caporedattore dell’Avanti, tutto trafelato e contento, e gli disse:
Bettino, ho scoperto che alcuni giornalisti dell’Avanti sono a libro paga del Kgb. Mio padre, senza scomporsi, gli rispose: questo ha una brutta malattia, quest’altro ha un mutuo sulle spalle, quest’altro ancora ha quattro figli da mantenere… Cambierà la storia del mondo se li metto da parte? Lasciamoli stare… Ogni tanto, ho provato a fargli cambiare idea, ma lui niente: mi diceva che ero una bacchettona… Il tempo, però, mi ha dato ragione.
Come venne a sapere che suo padre si sarebbe dato alla latitanza? Ne era a conoscenza?
Mio padre non si è dato alla latitanza…
Ma come, uno che scappa, come la vuole chiamare…? Viaggio Alpitour?
Mio padre è andato in Tunisia, a casa sua, con il suo passaporto…
Tecnicamente, e non solo, si chiama latitanza…
I giudici, tecnicamente, hanno commesso un abuso; avrebbero potuto emettere un provvedimento di rimpatrio, perché non l’hanno fatto? Tornando alla sua domanda, lui non mi disse che sarebbe andato ad Hammamet, ma io sentivo che avrebbe lasciato l’Italia.
Temeva le patrie galere, Bettino…?
No, non ha inteso sottomettersi a una giustizia politica, farsi umiliare da chi lo voleva vedere in ginocchio. Tanti politici, soprattutto quelli che si sono smarcati, farebbero bene a rileggersi quel famoso discorso che mio padre fece alla Camera, il 3 luglio del 1992, in occasione del dibattito sul voto di fiducia al governo Amato, che, lo voglio ricordare, non era per niente una chiamata in correità, bensì il tentativo di affrontare con gli strumenti della politica la crisi della Repubblica. Quell’invocazione si disperde nel silenzio dell’Aula, più eloquente di ogni parola, denso di verità, come avrebbe commentato lo stesso Craxi.
Non pensa che, come fece anche Andreotti, che santo di certo non era, avrebbe fatto meglio a difendersi nelle aule giudiziarie?
Ma cosa vuol dire, per lei, essere un santo? Lei lo è?
No, per niente, ma io non sono un politico…
Andreotti è stato un grande politico della Prima Repubblica, ma, a differenza di Craxi, aveva lo scudo da senatore a vita, oltre che l’ombrello protettivo del Vaticano.
Quali giudici del Pool ha apprezzato? Non erano perfetti, ma, di certo, ispiravano fiducia…
Se quei giudici avessero fatto un’opera di vera pulizia e giustizia, senza scopi politici, li avrei di certo apprezzati. Lei mi può dire perché quasi tutti hanno fatto politica? Di Pietro, Colombo, D’Ambrosio…Non dimenticherò mai quella lettera di Borrelli, scritta in un orrendo burocratese, indirizzata a don Verzé e agli avvocati, in cui praticamente vietava a mio padre di curarsi in Italia. Solo D’Ambrosio, eletto nelle file dei Ds, ammise, anni dopo, in un’intervista rilasciata al Foglio, che la molla di Craxi era la politica, non l’arricchimento personale, che Craxi per sé non aveva mai intascato una lira.
Come mai, se se lo è mai chiesto, il Pci di allora fu, soprattutto nei suoi nomi grossi, salvato? Erano meno corrotti degli altri? Cosa le disse suo padre, a tal proposito?
Lei fa confusione tra i casi di corruzione che, disse Craxi in Parlamento, come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati, e il finanziamento illegale ai partiti. Perché, quando nel 1989 ci fu l’amnistia, votata anche dal Pci, nessuno osa aprire bocca? Lei pensa davvero che le tangenti in Italia siano girate solo nel biennio 1992-1994? Oggi pensa davvero che la corruzione sia diminuita…?
Le rifaccio la domanda: perché il Pci, secondo lei, è stato “salvato”?
Perché un partito di sistema serviva per mettere in atto la falsa rivoluzione. Da dove passava gran parte del finanziamento illegale comunista, se non dall’import-export delle Coop; e ancora, che fine ha fatto il famoso miliardo di cui parla Gardini, portato a Botteghe Oscure? E l’enorme flusso finanziario proveniente dall’Urss, una potenza militare nemica dell’Italia? Ci siamo dimenticati di tutto questo?
“La politica è sangue e merda”, disse Formica. Perché lei, nonostante le sofferenze provate e la capitolazione invereconda di suo padre, ha deciso comunque di fare politica? Ostinazione, vanità, follia?
Vengo da una famiglia politica, per noi la politica è come l’acqua dove nuotano i pesci, non potevo di certo tirami indietro. Poi volevo, dopo quello che era successo a Craxi e al Partito socialista, provare a fare un’opera di verità e restituire a quella storia socialista il posto giusto che merita. Da questo punto di vista, l’essere stata eletta presidente della Commissione Esteri al Senato ha rappresentato una piccola rivincita della storia.
Non ha mai avuto paura nel fare politica?
Se vuoi fare politica, la paura non può esistere nel tuo vocabolario.
Tra le tante, cosa non amava di suo padre? L’arroganza, l’attaccamento al potere, la freddezza, la scarsa empatia…
Mio padre non era né arrogante né attaccato al potere. Il suo difetto più grande? Che era gelosissimo…
C’è un ricordo che non le dà pace, di quando suo padre era ad Hammamet?
Più che un ricordo, forse il rimpianto di non avere fatto abbastanza per la sua vita, soprattutto quando stava male. Forse sono stata inadeguata…
Quante volte ha messo in dubbio l’onestà e trasparenza di Bettino, soprattutto nei momenti in cui fioccavano le inchieste?
Mai!
Quali sono i politici della Seconda Repubblica che disprezza e perché? Le faccio dei nomi: Rutelli, Fassino, D’Alema, Veltroni…
Intanto, la parola disprezzo non appartiene al mio vocabolario. Direi disistima. A Rutelli ho dato del grandissimo stronzo. Fui querelata. Sono passati vent’anni, col tempo le arrabbiature passano e, di recente, ci siamo anche riparlati.
Ricordo che una volta, dopo che fui condannata a pagare una multa di cinquantamila lire per l’epiteto che gli rivolsi, mio padre commentò sarcastico che, “grazie a mia figlia, tutti adesso sanno quanto costa dare dello stronzo al sindaco di Roma”.
Fassino, pur essendo stato un giustizialista feroce, ha provato, a differenza di altri, a fare un po’ i conti con la storia di Tangentopoli. D’Alema, che ci faceva la morale tutti i giorni, in quanto ad affari, non penso debba insegnare nulla a nessuno. Veltroni, invece, ogni tanto prova a raccontare sulle pagine del Corriere la storia a modo suo. Ma nessuno ha ancora fatto davvero i conti con Craxi.
Come mai, secondo lei, tanti socialisti, crollato il partito, sono finiti nelle mani di Berlusconi, che con il socialismo non c’entrava proprio?
Anche per reazione a quello che era successo. Una domanda che molti dovrebbero porsi! Forza Italia ha rappresentato l’approdo naturale per sanare la ferita che era stata inferta alla comunità socialista. O lei pensa che fosse possibile muoversi nell’alveo di Botteghe Oscure, dove avrebbe continuato a dominare l’antisocialismo viscerale?
Lei si sente più una socialista o una capitalista, visto il lavoro da imprenditore fatto per anni?
Io mi definisco una socialista craxiana.
Perché suo padre volle aiutare un parvenu come Berlusconi con quel famoso decreto? Re Silvio finanziava il partito?
No, Berlusconi non ha mai finanziato il partito e, soprattutto, non ha mai fatto parte dell’establishment del Paese. Mio padre lo ha aiutato molto perché le televisioni commerciali rompevano il monopolio della Rai. Fu quella una battaglia di libertà, per il progresso dell’Italia.
Perché suo padre detestava i giornalisti? Eppure, nei suoi anni d’oro, c’era la fila per leccargli i piedi…
Non è vero che li detestava, anzi; con alcuni aveva anche ottimi rapporti personali…
Giulio Anselmi mi ha raccontato di una telefonata furibonda di suo padre con annessa minaccia di fargli perdere il posto…
Credo che non si apprezzassero a vicenda. L’atteggiamento di Anselmi nei confronti di mio padre fu a dir poco scandaloso, ma comunque Craxi non ha mai fatto cacciare nessuno.
E perché? Scandaloso perché indipendente? Anselmi è stato uno dei pochi direttori veramente liberi…
La campagna di informazione fatta da Anselmi e da tanti altri fu denigratoria. Lei forse l’ha dimenticato, ma mi vengono in mente alcune prime pagine, con le pubblicazioni di conversazioni private tra me e mio padre. Un grafico importante, tale Muzi Falcone, colui che inventò il simbolo della Quercia, mandò una lettera ai giornali in cui affermava che la sottoscritta fosse ricoverata in una casa di disintossicazione…
Faceva uso di cocaina, o era schiava della bottiglia?
Ma no! Avevano messo in giro questa voce solo per gettarmi del fango addosso.
A proposito di grandi direttori: cosa pensa di Scalfari?
Penso che, da un punto di vista politico, non ne abbia azzeccata una!
Perché tra Scalfari e Craxi il rapporto è sempre stato burrascoso?
Semplice: Scalfari imputava a mio padre la mancata elezione a deputato, sul finire degli anni Settanta. E, come si è potuto vedere, non gliel’ha mai perdonata.
C’era qualche giornalista, invece, che lui stimava?
Nonostante i conflitti, stimava molto Giampaolo Pansa, e tutti i giovani cronisti che lo seguivano nei viaggi, penso a Massimo Franco, a Marcello Sorgi, a Paolo Mieli. Craxi amava in modo particolare gli irregolari, i “liberi di testa”: Giampiero Mughini, Vittorio Sgarbi, Roberto D’Agostino…
Se non erro, anche gli stilisti, un tempo tutti socialisti, hanno abbandonato suo padre… Dico bene?
Craxi capi’ e seppe interpretare il Made in Italy, la capacitàla laboriosità degli italiani e se ne fece ambasciatore nel mondo. E così anche Milano soppiantò Parigi come capitale della moda. Questo era il motivo della riconoscenza di quel mondo verso Bettino. Mi ricordo, a onor del vero, una volta in cui Krizia sostenne di non conoscerlo a cui rispose mia madre con una garbata lettera in cui disse che Krizia, tra gli altri, le prestava gli abiti durante i suoi viaggi a fianco di Craxi, presidente del consiglio, e lei aveva pensato fosse un segno di amicizia…
“Io provo un rancore tanto grande che non ho posto per i piccoli rancori”. Mi ha incuriosito questa sua riflessione, per certi versi amara…
Una riflessione figlia del fatto che l’ingiustizia subìta da mio padre è talmente grande, che non riesco a dimenticare. Ma il mio, voglio chiarirlo, è un rancore politico. Pretendo delle scuse, in primis dalla sinistra, che, a distanza di tanti anni, ancora non ha fatto i conti con sé stessa.
Le scuse… ma non arriveranno mai… E’ un’illusa…
Questo lo dice lei.
Per il cognome che porta, o che portava soprattutto quando suo padre era all’apice del potere, si è mai sentita usata?
No, perché ho pochi amici, quelli di sempre, quelli che non ti tradiscono mai…
Ha mai avuto paura di finire in miseria, quando stava crollando tutto?
In miseria no, ho sempre lavorato, ma con mio marito abbiamo passato momenti di grande difficoltà, perché quando scoppiò Tangentopoli nessuno ci rispondeva al telefono, la nostra azienda rischiava di fallire…
I nomi, Stefania…
Neanche sotto tortura.
Qual è stato il momento più doloroso della sua vita?
La morte di Bettino Craxi.
Nel film su suo padre, Gianni Amelio tratteggia suo fratello Bobo in maniera poco tenera. C’ha visto giusto…?
A naso, penso non si siano piaciuti…
E il film, le è piaciuto?
Ad Amelio, che stimo molto come regista, non interessava fare un film “politico”, ma tracciare un parallelo fra la parabola di Craxi e le grandi tragedie classiche. Nel film c’è quindi poca politica, e Craxi era un uomo “totus politicus”. Il merito della pellicola è stato quello di avere acceso i riflettori sulla sua storia.
Al di là dell’affetto, ha stima per la carriera di Bobo? Eppure c’è chi dice che non abbia nessuna stoffa particolare e che senza quel cognome sarebbe stato un perfetto sconosciuto?
Penso che mio fratello abbia fatto un grandissimo errore: quello di essere passato a sinistra, quella stessa sinistra che il nome Craxi non l’ha mai sopportato e accettato.
Che rapporto ebbe l’Avvocato con suo padre?
A differenza di tanti politici di oggi, Craxi non si è mai inchinato dinanzi al gotha dell’imprenditoria, ai santuari del capitalismo. Lo muoveva la convinzione che la politica dovesse esercitare il primato sulla finanza e sull’imprenditoria…
Agnelli, da uomo di potere, chiedeva continui favori a chiunque… Anche a suo padre?
Ricordo che mio padre, commentando le assoluzioni in casa Fiat, una volta mi disse: cosa andava a fare Romiti nell’ufficio degli amministratori dei partiti? A parlare del nuovo modello della 500?
Cosa le disse suo padre prima di morire? C’è un ricordo che non riesce a dimenticare?
Dopo la sua morte, trovai un foglietto scritto a mano: “In questo processo, in questa trama di odio e menzogne devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri…” Ero lì con lui, ad Hammamet, poche ore prima che se ne andasse, e continuava a parlare di politica e dell’Italia. Una mattina, appena sveglio, mi disse che aveva sognato Milano, di essersi ritrovato a passeggiare in piazza Duomo. Aveva nostalgia del suo Paese e dei tanti posti che non era riuscito a vedere. Dopo pranzo, mi disse: vado in camera a sdraiarmi, portami un caffè. Lo raggiunsi in stanza e lo trovai riverso sul letto, ormai privo di vita…
Chi fu il primo, dopo la sua morte, a raggiungere Hammamet?
Yasser Arafat… E poi le persone a me più care, compresi Casini e Follini…
Dall’Italia, invece?
Dall’Italia mi chiamarono in tanti. Ricordo che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, tramite il sottosegretario Minniti, offrì i funerali di Stato. Ringraziai, e risposi di no.
Perché?
Delle due l’una: o Craxi era uno statista, e allora aveva diritto ad essere curato in Italia da uomo libero, oppure era un delinquente, e allora non meritava tutti gli onori che gli venivano offerti in quel momento dalle massime autorità italiane. Scelsi la coerenza e la dignità.
Quanto conta, per lei, il denaro?
Nulla, anche perché ho un rapporto pessimo con i soldi.
È stata una donna fedele?
Abbastanza, ma ho avuto due mariti…
Una donna noiosamente monogama…
Questo lo dice lei!
Che gioventù ha vissuto lei in mezzo a quel circo?
Non lo definirei circo, ma una comunità, una bellissima comunità…
Le è mancata l’intimità, però…
Assolutamente sì. Era difficile poter stare da soli con mio padre, soprattutto quando era a Roma.
Lei ama avere il controllo su tutti, e tutti si appoggiano a lei, almeno questo è quello che ho notato… Ha mai voglia di scappare?
Assolutamente sì, mi basterebbero tre giorni.
E con sua madre, che rapporti ha?
Fantastici! Ci ha sempre consentito di vivere una vita normale; quando si trovavano ad Hammamet, e la tempesta in Italia non si era ancora placata, la sentivo sempre serena, tranquilla. Probabilmente, per non affrontare il dolore nei suoi risvolti più spietati, cercava di stare sempre in superficie. Era un modo, il suo, per tenere botta.
Qual è stato il suo, e ultimo, giorno spensierato…?
Se vogliamo parlare di spensieratezza, come tutte le mamme l’ho persa quando sono nati i figli…Se parliamo di serenità, i giorni precedenti al dramma che si è abbattuto sulla nostra famiglia e sull’Italia.
Torna ancora volentieri in Tunisia?
La Tunisia è un Paese che mio padre ha profondamente amato, che io amo profondamente. Un Paese straniero, ma non estraneo, diceva Bettino. Lì mio padre ha vissuto i giorni dolorosi dell’esilio, lì è sepolto nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, di fianco al cimitero musulmano. Tutto il popolo tunisino ha protetto, amato, difeso e garantito la libertà del presidente Craxi, nel rispetto delle leggi e del diritto internazionale, accogliendo la mia famiglia in un momento molto difficile.
Ha il viso malinconico, a tratti sofferente; ha mai conosciuto momenti di felicità?
Ho passato periodi difficili, difficilissimi, con Tangentopoli e tutto quello che poi ne è conseguito per la mia famiglia. Chiaro che, parlando a lungo di una vicenda ancora dolorosissima, il mio viso si rabbuia e intristisce. Ma le posso garantire che nella mia vita la felicità, seppur fuggevole, abita questa casa…
Gli Usa "tifavano" per il pool. E Borrelli riferiva al console. Felice Manti e Edoardo Montolli l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il ruolo di diplomatici e 007 americani nel nostro Paese tra il '92 e il '94 in un libro sugli archivi segreti degli States.
Ai tempi di Tangentopoli l'attenzione della segreteria di Stato e dei servizi di intelligence degli Stati Uniti fu particolarmente concentrata nell'assistere alla fine della Prima Repubblica. «L'America si schiera dalla parte dei giudici che danno fiato alle inchieste sulla corruzione... Domina, nei resoconti e nelle informative dell'universo a stelle e strisce, il disinteresse per le sorti del vecchio ceto di governo, prevale nella narrazione sul regime change l'esigenza di guardare avanti, di non attardarsi nella salvaguardia dell'esistente. Un approccio, anche questo, certamente favorito dal mutamento degli equilibri internazionali, e dalla perdita di centralità geopolitica dell'Italia nel più ampio contesto di marginalizzazione del ruolo europeo».
Lo scrive Andrea Spiri nel suo ultimo libro The End 1992-1994 - La fine della prima Repubblica negli Archivi segreti americani (Baldini + Castoldi) dopo aver spulciato decine di rapporti confidenziali dell'epoca ottenuti grazie al Freedom of Information Act, la normativa che regola la declassificazione e l'accesso alle carte ufficiali conservate negli Archivi federali. Si scopre anzi che vi era un filo diretto tra la Procura di Milano e il consolato yankee all'ombra del Duomo, che veniva informato sull'andamento di Mani Pulite, specie nei momenti decisivi. Il 29 aprile 1993, ad esempio, dopo che la Camera aveva respinto le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, il console statunitense Peter Semler incontrò «il numero due dei giudici milanesi» il cui nome è omesso nel rapporto inviato al segretario di Stato americano. Subito dopo quel diniego il Pds di Achille Occhetto aveva imposto il ritiro dal governo dei ministri Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli. E il giudice si lamentava con Semler che «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore politico del genere». Non solo. Il magistrato, andando ben oltre le prerogative giudiziarie, riteneva che quella di Botteghe Oscure fosse stata una decisione che «destabilizza l'esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate». Prospettiva che era «evitare a tutti i costi» anche perché Craxi «verrebbe financo rieletto». E la cosa evidentemente stizziva anche gli americani se si pensa che in un cablogramma del successivo 7 giugno, Daniel Serwer, incaricato d'affari dell'Ambasciata statunitense a Roma, scriveva a Washington dopo le amministrative: «Paradossalmente gli ex comunisti del Pds sono forse gli interlocutori per noi più affidabili in questo frangente storico che vede il declino inesorabile dei partiti con cui abbiamo lavorato a lungo e sui quali abbiamo fatto affidamento». Ma a parlare con gli americani non c'era solo il numero due dei giudici milanesi. C'era forse anche il numero uno degli inquirenti. In un cablogramma del 12 maggio, solo parzialmente desecretato, Semler sintetizza l'incontro con un magistrato, sempre coperto da omissis, che Spiri ritiene di poter individuare nientemeno che nel capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, perché il console faceva riferimento al fatto che il padre della misteriosa toga era la persona che aveva convinto Oscar Luigi Scalfaro a lasciare la magistratura per entrare in politica. E storicamente è risaputo che Scalfaro fu convinto della scelta da Manlio Borrelli, papà di Francesco Saverio. Il magistrato annunciava al diplomatico uno scenario «caratterizzato da un numero di casi ancora maggiore rispetto alle attuali settecento indagini milanesi», lasciando intendere che «ci saranno pochi patteggiamenti» e, per il resto, «verranno celebrati processi lunghi» che «metteranno a dura prova le energie del pool». Ma gli americani guardavano con attenzione anche a ciò che succedeva al Sud, dove i pentiti trascinavano nell'abisso i vertici della Dc. Sicché, quando Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia, chiese audizione all'ambasciata, partì dopo l'incontro il cablogramma riservato The Accused. Andreotti speaks, datato 2 luglio 1993. Il senatore a vita riteneva che dietro le accuse contro di lui ci fossero «mafiosi americani» e «spezzoni deviati dei Servizi segreti italiani» oltre che dello United States Marshals Service, ovvero l'agenzia federale che sovrintende alle operazioni giudiziarie dall'altra parte dell'Atlantico. Ma non il governo americano. Si lamentava però della diffusione da parte di Washington di un cablogramma molto particolare: «Ha chiesto informazioni in merito alla diffusione da parte del governo americano di un cablogramma del 1984 redatto dal Consolato di Palermo, nel quale veniva riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero stati confermati, allora sia Andreotti che l'intero sistema politico italiano sarebbero finiti nei guai». I diplomatici riconobbero «l'errore», ma anche che gli eventi avevano confermato la profezia. Salvo Lima, in effetti, fu il primo dei delitti che avevano sconvolto l'Italia tra marzo e luglio (così come predetto chirurgicamente da una circolare che allertava il Paese su un pericolo di destabilizzazione orchestrato all'estero) e che frantumò l'immagine del senatore a vita. Il secondo fu la strage di Capaci. Due giorni dopo al Quirinale fu scelto Scalfaro. Gli analisti del Dipartimento di Stato di Washington avevano scritto: «Le ultime speranze di Andreotti» di salire al Colle «sono svanite con l'assassinio di Falcone, per via dei rapporti che il capo del governo intrattiene con figure sospettate di essere in odore di mafia».
Lesa maestà. Mani Pulite non si può criticare, per questo Colombo mi vuole alla sbarra. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Giugno 2022.
Gentile Gherardo Colombo,
lei, in sodalizio con Piercamillo Davigo e Elio Ramondini (quest’ultimo a me, come immagino ai più, perfettamente sconosciuto), ha deciso di querelarmi per un articolo pubblicato da questo giornale. L’articolo di cui lei, con i suoi colleghi, si è doluto, argomenta in modo magari contestabile ma – almeno si spera – non meritevole di sanzione penale, che l’adozione della dicitura “Mani Pulite” costituisce in sé un pericoloso segno di inflessione autoritaria, e che la cultura che vi si richiama ha arrecato grave danno al Paese, al nostro ordinamento civile, al tenore della nostra democrazia.
Scrivere – come ho scritto qui – che “La cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava, furono e rimangono la vergogna della Repubblica”, è espressione di un giudizio civile e politico che può non essere condiviso, ma che soltanto in forza di un gravissimo pregiudizio può ritenersi vietato. Sostenere – come ho sostenuto qui – che è “civilmente osceno e democraticamente blasfemo” intestare all’iniziativa di una funzione pubblica un segno distintivo moraleggiante (“Mani Pulite”, appunto), specie sulla scena delle acclamazioni popolari e dei suicidi che non saranno stati colpa di nessuno, ma c’erano, significa manifestare un’inclinazione morale e un convincimento politico che ancora una volta potranno essere discutibili, ma che in un assetto di tutela minima dei diritti individuali dovrebbe essere tuttavia consentito.
Lei, dottor Colombo, che pubblicamente argomenta di aver lasciato la magistratura perché era stufo di togliere la libertà alle persone, reclama invece che sia applicata una sanzione penale a chi, come me, si è reso responsabile d’aver scritto – contro la maggioranza che ne fa invece apologia – che quello di cui lei è stato personaggio è uno dei capitoli vergognosi della storia d’Italia, e che verecondia vorrebbe che i protagonisti giudiziari di quegli eventi si limitassero semmai a dimostrare di aver solo applicato la legge piuttosto che impancarsi ad agenti del bene pubblico. Ci vuole la galera, per quelli che pensano e scrivono queste cose?
Caro dottor Colombo, grattata la superficie delle vostre recriminazioni, ciò di cui in realtà vi lamentate è la lesione della maestà di Mani Pulite. Perché evidentemente non vi identificate nei provvedimenti che voi avete tutto il diritto di rivendicare quanto gli altri hanno il diritto di criticare, ma appunto nell’immagine apologetica di quell’esperienza giudiziaria e nella cultura che l’ha ispirata e vi si è ispirata. Un’esperienza e una cultura che non soltanto chi scrive, ma chiunque, avrebbe il diritto di considerare pessime. Iuri Maria Prado
Michele Santoro, Funari e gli altri: quando il talk show inventò l’indignazione della gente comune. Trent’anni fa, ai tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni hater. Ma quello, a differenza di quanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo. Giandomenico Crapis su L'Espresso il 16 Maggio 2022.
La storica Simona Colarizi nel saggio “Passatopresente” (editori Laterza ), uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo.
Milano, da emblema di Mani Pulite a simbolo del flop. Luca Fazzo il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.
Trent'anni fa i pm erano gli eroi, oggi hanno perso consenso. Di Pietro: "In toga mai fatto sciopero".
La storia a volte ha una sua elegante circolarità. Così nel giorno che segna la fine di un'epoca nelle vicende della giustizia italiana, con i giornali pieni del flop dello sciopero dei magistrati, in un'aula del tribunale di Milano ci si imbatte in Antonio Di Pietro.
Se questo palazzo è diventato il simbolo di una certa stagione di fare giustizia, è merito (o colpa) soprattutto sua. Se la categoria in toga è diventata un mito collettivo di un pezzo d'Italia, la radice di molto sta nei cortei che inneggiavano al pm di Tangentopoli, «Borrelli e Di Pietro, non tornate indietro». Oggi Di Pietro fa un po' il pensionato, un po' il contadino, un po' l'avvocato. E la distanza profonda tra quella stagione e l'oggi sta in fondo nel vederlo qui, senza nessuno che se lo fili, a ragionare con un vecchio amico sullo sciopero fallito: «Ma meno male, dico io. Come gli salta in mente? I magistrati non sono gente qualunque, sono un potere dello Stato. E si mettono a scioperare contro gli altri poteri dello Stato? Se i deputati scioperassero contro i giudici cosa diremmo? Io quando facevo il pm non ho mai fatto uno sciopero. Quando il governo provò a varare una legge per fermarci, io e gli altri ci dimettemmo dalla magistratura, che è tutt'altra cosa».
Si potrebbe ragionarci a lungo, con Di Pietro, su quei fatti di trent'anni fa: se davvero il pronunciamento del pool contro il decreto «salvaladri» fosse più o meno rispettoso degli equilibri istituzionali. Ma la sostanza è netta. Quel giorno il pool milanese sbaragliò la politica, costrinse An e Lega al retromarcia, segnò per gli anni a venire il dominio della magistratura sulla vita del paese. Lo sciopero indetto dall'Anm, con parole d'ordine altrettanto giacobine, invece si sgonfia come un palloncino, scivola via, lascia la politica libera di fare le sue scelte. E toglie all'Anm di fatto quel potere di veto che le è stato riconosciuto per decenni sulle leggi in materia di giustizia.
Visto da qua, dal palazzo che dell'attacco in toga alla Prima Repubblica fu l'incrociatore Aurora, il day after della sconfitta ha il sapore della malinconia. D'altronde perché sarebbe dovuta andare diversamente? L'epoca dello strapotere giudiziario era figlia anche di una verve professionale, di una alacrità missionaria che faceva di aule e corridoi un brulicare di inchieste e di processi. I ritmi selvaggi di Di Pietro diventarono in quegli anni un esempio per i «dipietrini». Oggi quell'esempio si è perso, e corridoi e stanze dell'incrociatore sono deserti. La Procura non fa più inchieste, e quelle poche le perde. Come può candidarsi a guidare un paese una Procura che in un giorno in teoria di lavoro è deserta come in un giorno in teoria di sciopero?
Un'epoca si è chiusa, e non è un caso che si chiuda nel Palazzo dove le alleanze di un tempo si sono dissolte in faide. A raccogliere i cocci, e a cercare di dare un senso al futuro dell'Associazione magistrati, restano giovani giudici come Sergio Rossetti, della sezione fallimentare: che ha ben presente che «colmare il gap di fiducia con i cittadini è difficile», che «lo sciopero poteva essere meglio ponderato». E intanto si aggrappa all'analisi delle cifre, spiega che se a Milano lo sciopero è andato male invece l'adesione è stata alta nei tribunali del circondario. «Dove ci sono i colleghi più giovani, e che sono oggi i più decisi nel chiedere il rinnovamento». È il ritratto di una frattura anche generazionale dentro la magistratura. Dove ad abbandonare l'Anm è paradossalmente una generazione di magistrati che nella stagione delle correnti e dell'attacco al potere si è formata. Così a Milano il buco nero dello sciopero sono la Procura generale e la Corte d'appello, uffici dove il più giovane ha sessant'anni: e sono per forza di cose magistrati che ai tempi di Mani Pulite erano in prima linea, che quella esperienza hanno apprezzato e condivisa, e che lunedì scorso però erano quasi tutti al loro posto. «Ma la riforma Cartabia non piace neanche a loro - dice Rossetti -, è l'idea dello sciopero che non li ha convinti». Come se fosse un dettaglio.
L’ultima sede del Partito Socialista Italiano, ricordo di via del Corso. Marco La Greca su Il Riformista il 6 Marzo 2022.
Correva l’anno 1997 ed ero agente di Polizia. Per una mattina e poi una notte venni mandato a svolgere il mio servizio all’Aran, a Roma, in via del Corso n. 476. Un indirizzo che aveva un significato ben preciso, perché lì c’era stata, sino al 1994, la sede del PSI, uno dei punti cardinali della “Prima Repubblica”, da poco seppellita dalla stagione di Tangentopoli. Mi avvicinai al palazzo, all’inizio del turno, con un misto di emozione e di curiosità. Al piano terra notai il busto di Sandro Pertini, in una collocazione, per la verità, non di gran risalto. L’attribuii al fatto che Bettino Craxi, secondo la vulgata, aveva avuto con l’ex Presidente della Repubblica un rapporto, a tratti, burrascoso.
Entrai nell’ascensore: “Piano terra”, recitava una voce registrata; poi: “L’ascensore va al quarto piano”. Una postuma esibizione di lusso, valutai allora. La mattinata passò senza scossoni, sino a quando, attraverso una porta semiaperta, non intravidi un busto di Garibaldi, di fronte a un tavolo ovale; era, capii immediatamente, la mitica “Sala Garibaldi”, appunto, destinata alle riunioni della segreteria politica del PSI. Per un attimo, ebbi l’impressione di avere di fronte a me Bettino Craxi e Gennaro Acquaviva, più in là Claudio Martelli, dalla parte opposta Claudio Signorile, poi gli altri componenti la segreteria. Fu durante il turno di notte, però, che il mio servizio prese i contorni del viaggio nella storia. Iniziai le perlustrazioni scendendo al terzo piano, non occupato dall’Aran. Gli ambienti, le sale, gli arredi erano ancora del PSI. Alle pareti i manifesti con le campagne propagandistiche, i titoli dei congressi e delle conferenze programmatiche che avevano segnato, in particolare, l’era craxiana. Una foto immortalava l’ex segretario in primo piano, di tre quarti, con una sciarpa e un cappello di colore beige. Nelle stanze, gettati a terra o poggiati in qualche residuo scaffale, carte e volantini. La sensazione era di trovarsi in un luogo abbandonato di fretta, come in fuga da un nemico. Attaccato con lo scotch, un avviso che dava il senso delle ristrettezze economiche dell’ultima fase: “Si ricorda ai compagni che l’acquisto dei francobolli deve essere autorizzato dalla segreteria amministrativa”.
La collocazione degli ambienti, nel ricordo, un po’ si confonde. Mi pare però che fosse proprio al terzo piano l’altra sala, più ampia, intitolata a Pietro Nenni; vi si riuniva la direzione del partito, con una frequenza assai minore della segreteria politica, secondo una dinamica verticistica e leaderistica che sembrava essere una prerogativa (negativa) del partito socialista. Ancora non sapevamo a cosa avremmo assistito negli anni a venire. Tornai al quarto piano e, superata la “Sala Garibaldi”, entrai nell’ufficio che attribuii a Craxi, poi nei due adiacenti, che invece immaginai destinati ai vice segretari (ed uno in particolare, ma non so perché, a Claudio Martelli). Erano ambienti moderni, con soppalchi e vetrate. Sembravano più studi di architetti che uffici di dirigenti politici; almeno, secondo l’idea che avevo io della classe politica della Prima Repubblica.
In quegli allestimenti si esprimeva la cultura milanese dell’attico, contrapposta alla concezione tradizionale che – a Botteghe Oscure come a Piazza del Gesù – voleva l’area nobile al primo piano, con l’ufficio del segretario e il balcone per i comizi delle serate di successo elettorale. Dallo studio di Craxi si accedeva a uno stanzino modesto, per dimensione e arredi, nel quale era posizionato un letto. Poggiato a terra, un quadro che raffigurava Garibaldi. La sensazione era di entrare in casa d’altri, in un luogo talmente identificato con chi ci aveva vissuto, che veniva da chiudere la porta. Feci così. Chiusi la porta alle mie spalle e scesi le scale, sentendomi un po’ in colpa. Avvertii l’esigenza di uscire sul terrazzo che si affaccia su Piazza Augusto Imperatore. L’aria di Roma era dolce, contrapposta alle asprezze che quei luoghi evocavano. Stava finendo il millennio, il secondo dai tempi in cui era stata edificata l’Ara Pacis, a pochi metri da me per una operazione posticcia di demolizione e ricostruzione in un sito diverso. Le persone, i luoghi, i momenti passano, pensai. Restano le loro storie. Che poi sono le nostre. All’uomo, di oggi e di domani, il compito di raccontarle. Con rispetto e verità, possibilmente. Con questa consapevolezza mi sentii, una volta di più, insieme alla comunità che aveva abitato in quelle stanze, una misteriosa e infinitesimale parte del tutto. Marco La Greca
Arrestati i leader di Potere operaio: nessuna prova. Chi era Pietro Calogero, il primo Pm che sottomise la politica. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 7 Aprile 2022.
Le prove generali ebbero inizio quel giorno, il 7 aprile del 1979 in cui la politica si consegnò ai Pm. Prove di Repubblica Giudiziaria, che avrà il suo epilogo tredici anni dopo con Tangentopoli e di lì non ci abbandonerà più. Con le sue carceri speciali, le infinite custodie cautelari, le trattative con i “pentiti”, le imputazioni che si modificano in corso d’opera, l’uso dei reati associativi in mancanza di fatti concreti, la legislazione d’emergenza diventata ordinaria. E il Pm caput mundi. E la politica con la testa china. Il bandolo della matassa è proprio lì, nel giorno in cui, con una grande complicità culturale e politica e forse anche altro, del Pci, il pubblico ministero di Padova Pietro Calogero diede l’ordine alla Digos per una grande retata, in diverse città italiane. In carcere un gruppo di docenti dell’Università di Padova, facoltà di scienze politiche, di cui il più famoso era Toni Negri, e poi Oreste Scalzone, Emilio Vesce, mentre in modo rocambolesco si era reso latitante Franco Piperno. Decapitata l’ex dirigenza di Potere Operaio, uno dei più agguerriti gruppi della “sinistra extraparlamentare” degli anni settanta che nel frattempo si era sciolto, e dell’Autonomia.
Il pm Calogero indagava su quel mondo della sinistra di quegli anni – un mondo che era sicuramente estremista ma anche creativo e intellettualmente appassionato – da almeno due anni prima del blitz del 7 aprile. In un’intervista a Panorama del 23 maggio 1978 aveva anticipato il suo pensiero, quello che passerà alla storia come il “teorema Calogero” e che terrà impegnato il mondo politico-giudiziario nei successivi sette anni, creando danni che diverranno permanenti all’amministrazione della giustizia e allo Stato di diritto. “Un unico vertice – aveva detto – dirige il terrorismo in Italia. Un’unica organizzazione lega le Br e i gruppi armati dell’Autonomia. Un’unica strategia eversiva ispira l’attacco al cuore e alla base dello Stato”. Occorre fare un tuffo nel passato per capire la pericolosità, che l’evoluzione processuale chiarirà alla fine di quei sette anni infuocati, di questo pensiero e questa dichiarazione. Che esistesse il terrorismo in Italia era un dato di fatto. Il culmine era stato raggiunto con il rapimento e l’assassinio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse. Ma gli anni settanta avevano prodotto movimenti e gruppi e gruppetti impetuosi di giovani, che andavano dagli indiani metropolitani fino a coloro che avevano impugnato le armi, come le Br e Prima Linea. Non erano proprio tutti uguali.
Lo Stato era impotente, questa è la verità. Non aveva saputo né trattare con i terroristi che avevano rapito Moro e avevano saputo tenerlo nascosto per 44 giorni, né essere inflessibile da vincente, e aveva lasciato ammazzare il segretario della Dc. Così la strampalata tesi del dottor Calogero sembrò essere la soluzione cui l’intera magistratura (con qualche riserva del giudice istruttore Giovanni Palombarini, esponente padovano di Magistratura democratica), il mondo politico e quello giornalistico, con la sola eccezione del manifesto (e in particolare di Rossana Rossanda), si aggrappò come a una soluzione salvifica della tragedia che l’Italia stava vivendo. Così Toni Negri divenne il simbolo di ogni male, non solo il capo di una sorta di spectre che di giorno era solo un “cattivo maestro” di sovversione e di notte il capo delle Brigate Rosse. Non solo era a capo di un tentativo insurrezionale, questo gli veniva contestato dalla magistratura padovana. Ma era anche il capo delle Brigate Rosse e il responsabile della strage di via Fani e del rapimento e assassinio di Aldo Moro e di una serie di altri omicidi. Questa l’imputazione che gli attribuiva il procuratore capo di Roma Achille Gallucci. Le prime incrinature allo Stato di diritto partono di qui.
Mai era successo che in Italia si contestasse a qualcuno il reato di insurrezione armata contro in poteri dello Stato, che prevede l’ergastolo e che comporta quanto meno un tentativo di colpo di Stato. E mai era stato applicato il concetto del “tipo d’autore” per cui, una volta individuato il soggetto deviante, gli si attribuiscono tutti i più gravi reati della fase storica. Poiché nella realtà a Toni Negri e gli altri arrestati potevano solo esser attribuiti scritti e discorsi di tipo sovversivo. Anche la teorizzazione di progetti insurrezionali. Infatti ben presto gli inquirenti finirono con l’accontentarsi di contestare altri due reati, e li distribuirono a centinaia di imputati: l’associazione sovversiva e la banda armata. Accuse che resteranno in piedi fino alla fine e saranno oggetto, per alcuni, di condanna. Mentre il “teorema Calogero” crollava. Mentre il Pci faceva appelli alla “vigilanza democratica” per difendere i magistrati da dubbi e critiche, i quotidiani si sbizzarrivano con la fantasia. Soprattutto dal momento in cui Toni Negri fu ritenuto il “telefonista” a casa Moro, insieme a un cronista padovano di nome Pino Nicotri, arrestato nello sbalordimento generale perché sospettato di un’altra chiamata da parte delle Brigate Rosse.
Queste storie, viste oggi da lontano, paiono solo grottesche, ridicole, ma tragiche se pensiamo che sono costate anni di carceri speciali a persone innocenti. Sarebbe bastato chiedere subito gli alibi a Negri e Nicotri dei giorni delle telefonate, che erano partite da Roma mentre uno era a Padova in redazione con molti testimoni e l’altro a Milano in compagnia di due persone. E magari anche saper distinguere una parlata marchigiana (il telefonista di casa Moro) dall’accento marcatamente veneto di Toni Negri. Il settimanale L’Espresso, recordman di forche appese, aveva addirittura regalato ai lettori due dischi con le registrazioni delle telefonate con il gioco “fai da te la perizia fonica”. Si è persino chiamato in causa Emilio Alessandrini, che era stato assassinato da Prima Linea tre mesi prima. Qui devo accennare a un episodio che ha visto coinvolta anche la mia persona.
Nel 1978, proprio nei giorni del rapimento Moro, avevo partecipato con mio marito a una cena a casa di un pm mio amico, Antonio Bevere, cui erano presenti, con relative mogli, sia Emilio Alessandrini che Toni Negri. Un anno dopo, e dopo il blitz del 7 aprile, i giornali, in particolare l’Unità, cominciarono a parlare di quella cena, insinuando che quella sera Toni Negri avrebbe “preso le misure” del personaggio per poi far uccidere Alessandrini. E anche perché Paola, la moglie del magistrato assassinato (che tra parentesi ha anche fatto finire in galera per due giorni per falsa testimonianza me e mio marito dicendo che alla cena non c’eravamo) si era ricordata che Emilio ascoltando il disco dell’Espresso aveva riconosciuto la voce di Negri, la stessa che aveva potuto ascoltare per un’intera serata a casa di Bevere. Peccato che Alessandrini non l’avesse mai denunciato. Sulla base di questo tipo di “prove” si fondò il processo “7 aprile”. E bisognerà aspettare il ”pentito” Patrizio Peci, che era un brigatista vero, per far smontare tutto. Ma l’assalto allo Stato di diritto continua, da quel 7 aprile 1979.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Pietro De Sarlo per basilicata24.it il 9 maggio 2022.
Fresco di stampa il libro di Cirino Pomicino “Il grande inganno”. Per chi non ricordasse il suo contributo alla Prima Repubblica, basta sapere che fu ministro con De Mita e Andreotti sia alla funzione pubblica sia al bilancio e programmazione economica. Come dice lui stesso fu l’ultimo politico a essere ministro dell’economia.
Non ha mai goduto di buona stampa. La sua parlata stimola il vezzo, venato di razzismo anti meridionale, che si sostanzia in sottolineature denigratorie come “avvocato di Volturara Appula”, riferito a Giuseppe Conte, oppure “commercialista di Bari”, per Rino Formica, o il più garbato ‘intellettuale della Magna Grecia’ con cui Gianni Agnelli chiamò Ciriaco De Mita.
Persino Ferruccio De Bortoli, autore della prefazione, con riflesso pavloviano mette in guardia dalla “arguzia tutta partenopea” dell’autore. Già, a Milano e dintorni l’arguzia pare sia finita e da tempo.
Se però siete intellettualmente liberi e scevri da pregiudizi la lettura è interessante. La tesi del libro è che la Seconda Repubblica è stata un disastro e molto peggio della Prima che vide l’autore tra i protagonisti.
Molto “cicero pro domo sua”, certo, ma Pomicino le cose le sa. Qualcuna la dice, qualcun’altra gli scappa. Si tratta, pur nel morbido tono democristiano, di un pesante attacco al PD e al sistema della finanza e della informazione che protegge e di cui è strumento.
Ecco il libro in pillole.
L’informazione in Italia
Molto spazio dedica al tema della informazione, tema all’attualità visto che è appena uscita l’ultima classifica mondiale sulla libertà di informazione di Reporters sans Frontiere. L’Italia è precipitata in un solo anno dal 41 esimo al 58 esimo posto, tra la Macedonia del Nord e il Niger.
La genesi di questa situazione, con accuse pesanti, l’autore la fa risalire agli inizi degli anni novanta, quando il ‘salotto buono’ del capitalismo italiano, scelse di costruire la Seconda Repubblica dando credibilità e sostegno, con i propri media, a quelli che Cirino chiama i ‘vinti della storia’, ossia a quelli del vecchio PC, ora PD, sconfitti ideologicamente dalla perestroika e dalla caduta del muro di Berlino.
Il salotto buono era costituito da Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Eugenio Scalfari. Gente che deve molto al pubblico potere e in specie al PD “che si trasformò nel braccio operativo della destra neoliberista europea”.
Ma attenzione, l’intreccio tra capitale, finanza e informazione genera: “Un’arma letale per le democrazie liberali… Una potenza di fuoco difficilmente sostenibile dalle istituzioni democratiche.” Anche perché operano: “utilizzando nel contempo le insinuazioni personali e la gogna contro gli avversari, manipolando pesantemente la verità”.
In effetti il metodo si ripropone tutti i giorni su Repubblica e dintorni, e solo una narrazione farlocca può far ritenere che il PD sia stato, e sia, un partito di sinistra. A furia di ‘spiegoni’ e ‘zorate’ qualcuno ancora ci casca.
I giudizi su Ciampi, Draghi, Letta, Prodi …
C’è altro però nel libro. A partire da Carlo Azeglio Ciampi che fece “la peggiore legge finanziaria” e “a elezioni già avvenute e a capo di un governo dimissionario da due mesi” assegnò “all’amico Carlo De Benedetti” la gara per il secondo gestore di telefonia per 700 miliardi delle vecchie lire e a rate.
Affare girato a Mannesmann per 14.000 miliardi di lire dopo poco tempo. Poi Romano Prodi e Arturo Parisi, “dovrebbero spiegare dopo trenta anni” perché “impoverirono un grande Paese come l’Italia” certamente “a loro insaputa”.
Su Letta c’è poco, giusto per chiedere, visti passati incarichi tra cui quello di autorevole membro della Trilateral Commission, fondata da Rockefeller nel 1973, se sia “completamente libero”. Identica domanda c’è su Mario Draghi, con lodi di circostanza, insieme ad alcune vicende imbarazzanti come il giretto a Goldman Sachs, l’autorizzazione dell’acquisto di Antonveneta e le norme europee sul sistema bancario.
Lo stato della democrazia
Da buon DC fa quindi un invito, che pare ipocritamente strumentale, a Draghi a “trasformarsi da rappresentante delle élite finanziarie internazionali a rappresentante delle élite politiche”, come? Banalmente “candidandosi”. Perché? ” Il battesimo elettorali è essenziale per la legittimità politica in un paese democratico”. E come dargli torto.
Intanto ci ricorda che il parlamento è svuotato da ogni funzione tanto che l’ultima finanziaria di Draghi è stata approvata senza il parere della apposita commissione e senza che il Parlamento abbia avuto il tempo di leggerla. E Mattarella? Nella circostanza non pervenuto.
Insomma, la democrazia è a rischio e occorre recuperare la centralità della politica e del parlamento a partire proprio da quella media e piccola borghesia che è stata massacrata nella Seconda Repubblica.
L’Italia e la Francia
Deprimente la narrazione di come l’Italia non abbia da Sigonella, ossia da Andreotti e Craxi in poi, una politica estera, e gli effetti si vedono. Sigonella non ci è mai stato perdonato dagli USA. In ogni caso la ininfluenza del Paese è certificata dalla completa assenza di una posizione autonoma dell’Italia, appiattita sugli USA più che sull’Europa, nel conflitto attuale tra NATO e Russia sul campo Ucraino. Tanto che Mario Draghi non fu neanche invitato alla riunione tra Biden, Macron e Sholzt.
In compendo sulla Seconda Repubblica sono piovute ‘Legion d’Onore’ a tanti politici italiani, specialmente del PD. Fatto è che l’elenco delle aziende cedute ai francesi nella Seconda Repubblica è lungo e di peso: BNL, poi Pioneer e CariParma, senza dimenticare Edison, Telecom, l’agroalimentare, la grande distribuzione e il settore della moda. Quando Fincantieri cercò di fare shopping oltralpe venne però immediatamente fermata e Draghi non ha rinnovato il mandato al protagonista di quella tentata acquisizione Giuseppe Bona.
Nell’accordo di Aquisgrana del 2019 tra Francia e Germania, a detta dell’autore, tra le cose non scritte pare ci sia la divisione dell’Europa in due aree di influenza: la Grecia e l’Est alla Germania, l’Italia alla Francia. “Il trattato del Quirinale” approvato sotto gli occhi di un “compiaciuto Mattarella” pur essendo paritetico nella forma rischia di trasformarci quindi in un protettorato francese.
L’economia, Conte e il M5S
Bocciata la Seconda Repubblica anche in economia con tanto di numeri e percentuali. In compenso vede Conte e il M5S come fumo negli occhi, invece di apprezzare il tentativo di porre fine alla Seconda Repubblica, che lui stesso giudica fallimentare. Qui è la pancia che prevale, non solo nell’autore, non riconoscendo al tentativo del M5S quell’embrione di rivolta piccolo borghese e popolare che poteva dare una spallata al sistema. La spalla se la sono invece lussata.
Conclusione
Peccato gli sia rimasta la cerchiobottista sindrome DC, per cui Cirino Pomicino non arriva mai a trarre le necessarie conseguenze dai fatti. Mattarella: fortuna che c’è. Draghi: idem. Tutti amici.
I contenuti del libro non costituiscono un vero e proprio scoop, più che altro si tratta di un esercizio di memoria. Utile specialmente a chi per fatti anagrafici non ha dimestichezza con la storia recente del Paese.
Eppure la lettura si rivela preziosa per comprendere alcune dinamiche di oggi, come la santificazione di Draghi e la sua nomina a primo ministro. Da non far cadere la denuncia degli interessi in gioco della élite economica e finanziaria, più francofila che europeista, difesi dal PD e da una stampa sempre più asservita.
Se dovessimo essere pignoli manca ancora molta ‘materia oscura’ per apprezzare fino in fondo il degrado della nostra democrazia descritto nel libro. Ci sarebbe molta materia di ‘scandalo politico’, ma temo che siamo talmente scorati e demoralizzati che tutto ci scivolerà addosso come nulla.
Parla il giurista e storico delle istituzioni. Intervista a Sabino Cassese: “Mani Pulite ha lasciato solo macerie”. Giada Fazzalari su Il Riformista il 9 Maggio 2022.
E’ uno dei più autorevoli giuristi italiani dell’intero dopoguerra ed è una delle voci accademiche più prestigiose di un Paese smarrito. In questa intervista all’Avanti! della domenica, Sabino Cassese propone un’analisi argomentata dello stato della giustizia italiana e, pur considerando i prossimi referendum un «forte stimolo», li ritiene «poco adatti» a dirimere questioni complesse, sulle quali la politica ha sinora mostrato la propria impotenza.
A suo parere qual è lo stato di salute della giustizia in Italia?
«La giustizia italiana è in pessimo stato. Sei milioni di cause pendenti. Più di 7 anni per concludere i tre livelli di giudizio in sede civile e più di tre per il penale. 1000 carcerazioni preventive per anno dichiarate illegittime e risarcite dallo Stato. La fiducia dei cittadini nella giustizia crollata di 20 punti negli ultimi 10 anni. Si può dire che la giustizia non sia in sintonia con la società italiana, tanto che negli ultimi anni si registra addirittura una diminuzione degli accessi alla giustizia, prova ulteriore della sfiducia dei cittadini nella giustizia».
Nel suo ‘Il Governo dei giudici’ documenta il crollo della fiducia dell’opinione pubblica nella magistratura. Per quale ragione secondo lei?
«Le ragioni le ho già indicate. Se ne può aggiungere qualcun altra. Il pessimo giudizio maturato nella collettività quando si è appreso come vengono prese le decisioni dal Consiglio superiore della magistratura. Siamo nella fase delle disillusioni, dopo le eccessive illusioni, maturate durante gli anni 90 del secolo scorso, sulla magistratura come giudice della virtù. A questo si aggiunge l’esondazione di una parte della magistratura, impegnata in politica, nell’amministrazione, nella legislazione e, infine, la motivazione dello sciopero annunciato: ”vogliamo essere ascoltati”, che vuol dire in sostanza “vogliamo decidere noi”.
Come giudica la riforma Cartabia passata in prima lettura alla Camera?
«La riforma Cartabia è il frutto necessario di una serie di compromessi raggiunti in un governo composto di forze politiche tra di loro opposte. Va nella direzione giusta e fa una buona parte della strada in questa direzione».
I referendum possono contribuire a incrinare la chiusura corporativa della magistratura e a contrastare la tendenza al ‘populismo giudiziario’?
«Ricordiamo innanzitutto che i referendum sono uno dei modi di partecipazione dei cittadini alla vita collettiva; sono previsti dalla Costituzione, richiedono partecipazione, senza della quale non c’è democrazia. Detto questo, va anche ricordato che i referendum sono uno strumento poco adatto a fare riforme complesse, che non possono essere decise con un si o con un no. Tuttavia, rispetto ad una classe politica tanto indecisa, possono costituire un forte stimolo. Quindi, sono uno strumento positivo e sarebbe grave se i cittadini non rispondessero o non recandosi alle urne o non votando»
E’ giusto che la responsabilità civile dei magistrati per gli errori commessi nei confronti di cittadini innocenti sia diretta? Quanto può incidere sull’ indipendenza del giudice?
«Errori dei giudici possono esserci perché la giustizia è amministrata da uomini. Alla maggior parte di questi errori provvede il sistema degli appelli che sono previsti proprio perché il giudice in primo grado può sbagliare. Sulla responsabilità dei funzionari pubblici (anche i giudici lo sono), la Costituzione detta norme precise, che sono state in larga parte disattese. Non ritengo che questo tema debba essere affrontato in questa fase perché le norme esistenti bastano»
Dal 1992 al 2018 si sono registrati oltre 27.500 casi di vittime di errori giudiziari, in media più di mille innocenti in custodia cautelare ogni anno: perché accade e come si possono ridurre drasticamente queste cifre?
«La domanda solleva un problema di carattere più generale, quello delle procure composte da giustizieri. Il fenomeno detto popolarmente della gogna mediatica ha portato numerosi pubblici ministeri ad accusare, incolpare pubblicamente, ben sapendo che i processi arrivo con grande ritardo, quando tutti hanno dimenticato. Max Weber avrebbe parlato di una giustizia da cadì ».
Come porre fine al cortocircuito tra magistratura, informazione e politica? Le porte girevoli tra magistratura e politica sono davvero un problema?
«I magistrati, sia quelli addetti alle funzioni requirenti ed inquirenti, sia quelli addetti alle funzioni giudicanti, dovrebbero essere obbligati ad astenersi da ogni impegno nella vita politica e a controllare le loro esternazioni. L’imparzialità dei giudici è connessa alla loro indipendenza e un magistrato che prende posizione a favore di questo o quell’altro partito politico o non è imparziale o non appare imparziale politici. L’Italia è l’unico paese al mondo dove due magistrati hanno costituito due diversi partiti».
Sono 30 anni da Mani pulite. Cosa ha provocato quello tzunami mediatico-giudiziario? E cosa ne resta?
«Mani pulite: ne restano solo macerie. Non tanto per quello che fu deciso a quell’epoca, ma per quello che comportò, nel senso di diseducare l’opinione pubblica, di scaricare sulla magistratura il compito del controllo della virtù, di far maturare aspettative a cui nessun ordine giudiziario può corrispondere, di produrre, poi, un effetto di disillusione che ha finito per danneggiare gravemente la magistratura. »
Lei ha definito i partiti “un ponte tra popolo e Stato, il veicolo della democrazia”. Ne ha descritto la crisi: sembrano incapaci di elaborare proposte anche a causa della povertà della loro classe politica dirigente. Qual è allora la ricetta per ricostruire il ponte tra popolo e Stato?
«Domanda difficile. Qualcuno risponderebbe che, se il ponte tra società e Stato, tra cittadini e governo, cioè i partiti, non funziona più, occorre che i cittadini entrino direttamente nella cittadella dello Stato. É la democrazia diretta. Ma la democrazia diretta, in una collettività di 60 milioni di persone, non può funzionare. Quindi, l’unica speranza è quella di ripristinare il ponte, ma questo richiede idee, programmi, uomini capaci di fare davvero politica, invece del battibecco quotidiano su problemi di breve durata.» Giada Fazzalari
Giampiero Mughini per Dagospia il 4 luglio 2022.
Caro Dago, ti confesso che sono arrivato a un punto della mia vita in cui esito non una ma dieci volte prima di avviare la lettura un libro che di pagine ne ha non meno di 500. E invece ho esitato solo pochi minuti prima di cominciare la lettura di questo recente tomone da 700 pagine di Filippo Facci, La guerra dei trent’anni (Marsilio, 2022), da lui dedicato al terreno che vanga da tutta una vita. Nato nel 1967, aveva qualcosa più di vent’anni quando scattò il putiferio di Tangentopoli, quei dieci anni furibondi in cui venne distrutto il sistema partitico della Prima Repubblica e dunque cambiato alla grande il corso della nostra storia civile.
Mi piacciono molto di questo libro i brani in corsivo, quelli in cui Filippo smette gli abiti dello storico/giornalista e diventa il narrante del sé stesso di allora, quando era un collaboratore esterno dell’ “Avanti!” diretto da Roberto Villetti e lo pagavano 25mila lire a pezzo pubblicato, e per giunta il più delle volte gli toglievano la firma affinché lui non campasse pretese ad essere assunto.
Erano del resto gli ultimi e stentatissimi anni del quotidiano socialista - come del resto di tutto l’universo socialista - il cui deficit stava diventando spaventoso e che pur tuttavia, al dire di Facci, pagava cifre esorbitanti i suoi collaboratori “di grido” nonché stipendi stellari. Per quel che mi riguarda e siccome a quel tempo della mia vita sfioravo la casa socialista ed ero amico di Villetti, concordai e scrissi per il quotidiano socialista quattro pezzi. Che non mi vennero mai pagati.
Il fatto è che il Facci poco più che ventenne aveva a cuore la casa socialista pur non avendone favori né prebende, e mai un minuto è stato di quelli che il Bettino Craxi caduto in disgrazia fingevano di non averlo mai conosciuto. Tutto il contrario, lui non ha mai pensato un solo minuto che i magistrati d’accusa che fecero il bello e il cattivo tempo durante gli anni di Tangentopoli li avesse mandati a Iddio a correggere i vizi della gente. Tutto il contrario, lui fa shampoo barba e capelli ai tanti giornalisti che si occupavano di giudiziaria e che si misero in ginocchio innanzi ai magistrati d’accusa, il rude Antonio Di Pietro su tutti.
Io non ho mai scritto una riga contro Di Pietro; di processi di colpevoli di innocenti non ne so abbastanza, non è il mio campo. Certo non ho mai scritto una riga ad adorarlo. Una volta che Di Pietro venne a una puntata di una trasmissione televisiva condotta da Piero Chiambretti, battibeccammo un istante. Lui aveva detto che gli imputati di Tangentopoli erano tutti dei malfattori, io gli obiettai se ritenesse un malfattore uno come Gabriele Cagliari, l’ex presidente dell’Eni che si suicidò in carcere il 20 luglio 1993 perché sfinito da una detenzione preventiva durata oltre quattro mesi. Non so se sia vero quello che qualcuno mi riferì, e cioè che gli autori della trasmissione non avevano gradito affatto che io contraddicessi Di Pietro.
Nel suo spassoso elenco di giornalisti “giustizialisti” Facci assegna il posto d’onore al quotidiano “L’Indipendente” allora diretto da Vittorio Feltri e di cui ero un collaboratore fisso. Quando vidi in televisione quel parlamentare/macchietta della Lega che agitava un cappio in direzione del Giuliano Amato capo del governo, subito telefonai a Vittorio dicendogli che volevo prendere le difese di Amato. Vittorio mi rispose che sarebbe stato felicissimo di pubblicare il mio pezzo, che mise in prima pagina. Accanto, e com’era nel suo pieno diritto, mise il pezzo di non ricordo più quale misirizzi che tirava calci negli stinchi ad Amato. Sì, era esattamente come scrive Facci, che nella buona parte dei giornali erano tenuti in palmo di mano i giornalisti della giudiziaria che si telefonavano ogni mattina con i magistrati d’accusa.
Sterminato è l’elenco delle piaggerie nei loro confronti documentate dal prode Facci. Sterminato è l’elenco di quel politici democristiani o socialisti o altro le cui imputazioni tuonavano dalle prime pagine dei giornali, e le cui assoluzioni per non avere commesso il fatto sonnecchiavano in basso a una paginetta del centro giornale. Sterminato è l’elenco delle anomalie procedurali e processuali di quel tempo in cui gli italiani “brava gente” si entusiasmavano al possibile nel vedere sbattuti in cella quei politici che un tempo erano apparsi onnipotenti. E a non dire dell’entusiasmo degli elettori dei partiti che avversavano i partiti degli inquisiti, a cominciare dagli elettori e simpatizzanti del Pci nel vedere Bettino Craxi e i craxiani sommersi dal fango delle accuse e dunque cancellati dalla prima linea della contesa politica.
Fu vera giustizia quella distruzione di una classe politica che aveva al suo attivo la ricostruzione democratica del Paese dopo i disastri della Seconda guerra mondiale? Sì o no la carcerazione preventiva venne usata come strumento di pressione sugli indagati affinché ne denunciassero altri? Sì no i magistrati d’accusa frugarono scrupolosamente nei retrobottega di alcuni partiti e molto meno in quelli di altri partiti? Sì o no il terremoto di Tangentopoli aprì la strada a rapporti più sani tra gli uomini dell’economia e gli uomini dei partiti?
A questa domanda lo stesso Francesco Saverio Borrelli aveva risposto qualche tempo fa di no, che Tangentopoli non aveva né sanato né migliorato alcuno dei parametri che governano il rapporto tra l’Italia dell’economia e l’Italia dei partiti. E ammesso che quelli di oggi siano dei partiti per come noi eravamo abituati a intenderli durante la Prima Repubblica, per come noi eravamo abituati a conoscere gli uomini che avevano debuttato in politica negli anni Quaranta e Cinquanta.
E non è un caso che quando leggiamo qualcosa che viene dai sopravvissuti di quelle generazioni, da un Rino Formica o da un Paolo Cirino Pomicino, e le paragoniamo con quello che ascoltiamo dai tanti che in tv fanno rumore con la bocca, ci vengono i brividi.
Mani Pulite non fu una rivoluzione ma guerra civile: le verità di Facci. Paolo Liguori su Il Riformista il 6 Luglio 2022.
Guerra dunque, non rivoluzione, quella di Mani Pulite. Nessuna rivoluzione. Perché tutto nel potere giudiziario è rimasto come prima, anzi tra i rapporti tra i poteri, secondo il racconto che ne ha fatto Palamara, sono diventati ancora più confusi e torbidi. Quanto è stato scritto, detto, spiegato sull’epopea di Mani Pulite e i suoi protagonisti? Moltissimo, anche troppo. Sembra niente, a leggere il libro di Filippo Facci dedicato al tema.
“La Guerra dei Trent’anni” è il titolo e fa impressione per la scelta, il volume, la densità dei fatti narrati, la ridefinizione dei personaggi. Stiamo parlando di un’enciclopedia, di un lavoro monumentale, perfino sorprendente da parte di un giornalista, vista l’abitudine della categoria a scrivere instant-book, opere veloci, dedicate ad un singolo argomento, superficiali. In questo caso, si perdoni il paragone forte e irriverente, il contenuto ricorda più alcuni libri di Montanelli, che però scriveva in collaborazione con Gervaso e poi con Biazzi Vergani e Mario Cervi.
Filippo Facci, uno dei giornalisti più eclettici, ma apparentemente disordinati, ha fatto tutto da solo, anche per evidente mancanza di sodali. Ed ha scritto la sua Storia (di questo si tratta) con un lavoro impressionante di ricostruzione di fatti, dettagli e persone. Non abbiate paura della mole di informazioni, vale la pena prendersi il tempo per leggere 7oo pagine scritte bene, anche per rendere omaggio all’autore che solo per le note divise per anno dal 1992, le fonti e l’indice dei nomi, pur con l’aiuto del computer non può averci messo meno di un mese. Come nella prima metà del ‘600 (1618-1648), una delle guerre più sanguinose si concluse con un riequilibrio precario dei poteri tra principi protestanti impero cattolico, così Mani Pulite viene definita da Facci una Guerra Civile tra i poteri dello Stato. Ma tanti cambiamenti significativi ci furono eccome: «la magistratura debordò e le Procure si attribuirono un ruolo di potere assoluto, l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, l’opinione pubblica debordò di conseguenza».
Facci ha scandagliato tutte le crepe di quel terremoto, senza risparmiare nessuno, sulla base dell’archivio del proprio lavoro di giornalista e collaboratore dell’Avanti. E l’aspetto più interessante è proprio quello che riguarda l’informazione, qui descritta con una lapidaria e assolutamente vera citazione di Indro Montanelli: «Gli storici avranno un serio problema. Non potranno attingere da giornali e telegiornali, perché i cronisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, il soffio della piazza. Volevano il rogo e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla».
Per chi, come me, ha vissuto nel fuoco delle polemiche quei primi anni, dalla direzione del Giorno, è una citazione da sottoscrivere senza riserve. E Facci ha il merito, con un lungo e certosino lavoro, di ricostruire una base di verità. Intanto, è l’unico, con una tesi inedita a mostrare come questa guerra di poteri inizia in Sicilia, prima che a Milano. E poi ripercorre la scalata delle Procure con minuziosa attenzione. Senza Facci, risulta poco spiegabile l’ascesa del modesto Palamara ai vertici di Csm e Anm.
Significativa la citazione di Piercamillo Davigo in una delle sue battute: «Con la Riforma, vi aspettavate Perry Mason e invece è spuntato Di Pietro». Di Pietro come simbolo ha funzionato per qualche anno, finché non si è schiantato in politica, ma intanto la Guerra dei Trent’anni continuava, proprio come quella reale: e gli Slovacchi e i Danesi e gli Svedesi e i Francesi. Gli episodi ricostruiti da Facci sono decine e affrontano la questione più interessante: il silenzio o, peggio, le menzogne interessate e servili dell’informazione. Per ogni episodio, potrete facilmente confrontare la ricostruzione di Facci con quanto credevate di conoscere e capirete.
Ma, tra tutti, un episodio vale la pena di citare, giudicato “minore” per il protagonista, ma per me gravissimo, perché si tratta di un suicidio e di una persona che ho conosciuto: Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Fu accusato falsamente sui giornali di aver preso una tangente di 400 milioni, si trattava di tutt’altro e Di Pietro faceva pressione per costringerlo a coinvolgere l’architetto Claudio Dini. Lui non resse e si uccise.
Scrive Facci, in sintesi: «Pareva complicata, ma era semplice. Renato Amorese, pur da morto, era divenuto la chiave per tenere in galera Claudio Dini. La dinamica era raggelante: Di Pietro aveva dato la notizia (falsa) secondo la quale Amorese era un semplice teste e non indagato; venti giorni dopo aveva dato la notizia (falsa) del ritrovamento di 400 milioni nelle cassette, mentre nello stesso giorno i giornali davano la notizia (falsa) dell’apertura delle cassette che in realtà erano ancora sigillate. E quei soldi, neppure trovati, erano diventati la giustificazione di un suicidio. Le cassette di sicurezza di Amorese vennero aperte il 16 e il 23 luglio, ma i soldi non c’erano. La notizia non comparve sui giornali. Neanche sul Corriere della Sera, che pure aveva scritto in prima pagina il contrario». “Mani Pulite, vite spezzate”, titolò il Giorno, dopo il suicidio di Primo Moroni. Filippo Facci spiega bene anche il senso di quel titolo.
Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom
Trent’anni dopo. Il trasformismo dell’onestà, il diritto come igiene e altri orrori nati con Tangentopoli. Carmelo Palma su Linkiesta l'8 aprile 2022.
Il libro di Filippo Facci (pubblicato da Marsilio) non è solo il diario di bordo personale di quegli anni, ma anche la descrizione del contesto (in senso sciasciano) in cui ebbe origine quella rivoluzione mancata, che ne spiega tanto il fallimento quanto l’eternizzazione.
Il nuovo libro di Filippo Facci – “La guerra dei trent’anni: 1992-2022. Le inchieste, la rivoluzione mancata e il passato che non passa” (Marsilio) – di anni, a dispetto del titolo, non ne racconta trenta, ma solo tre (1992, 1993, 1994). Sufficienti però per dimostrare che Mani Pulite non fu un regime change, né il punto di rottura tra un “prima” e il “dopo” della storia nazionale, ma una sorta auto-sovvertimento del sistema e della gerarchia dei poteri italiani, l’ennesimo ballo in maschera di un’epopea trasformistica, che ha accompagnato l’Italia dai suoi esordi unitari e che di certo non sarebbe potuta finire per mano di uno dei più straordinari campioni dell’arci-italianità, Antonio Di Pietro.
Se i libri su Tangentopoli sono diventati da tempo un genere letterario, Tangentopoli ha rappresentato da subito un genere politico e dal tintinnare delle prime manette, nel 1992, si è registrata una corsa grottesca a diventarne autori ed attori anche da parte leader e partiti (uno per tutti: Umberto Bossi), che sarebbero presto stati pizzicati dai loro beniamini giudiziari con le mani nella marmellata dei finanziamenti illeciti.
La retorica del “partito degli onesti” ha accompagnato da allora le evoluzioni della cosiddetta Seconda Repubblica fino al suo esito naturale: al trionfo dell’ò-né-stà grillina, cioè al rovesciamento delle istituzioni democratiche non dall’esterno, ma dall’interno, e alla liquidazione del sistema politico dei partiti come una sovrastruttura parassitaria e rinunciabile, per un immediato autogoverno popolare. Il compimento ideologico di Mani Pulite: i partiti come ladri non solo di soldi, ma anche di democrazia.
Il libro di Facci è una sorta di diario di bordo della sua personale traversata di quei tre anni assurdi e terribili, iniziati da cronista abusivo di un giornale ufficialmente “di ladri”, cioè L’Avanti, e terminati da autore di libri che nessuno pubblicava, ma che circolavano, suo malgrado, in forma di dossier anonimi. Però da questa cronaca esce anche un affresco realistico e convincente del contesto (in senso sciasciano: del viluppo inestricabile di relazioni e di ricatti), in cui ha preso avvio quella rivoluzione mancata e che ne spiegano tanto il fallimento, quanto l’eternizzazione. “Il tradimento di Mani Pulite” come “La “Resistenza tradita”; “Ora e sempre Mani Pulite” come “Ora e sempre Resistenza”.
Facci, a differenza di molti apologeti della Prima Repubblica, che invertono semplicemente le parti ai buoni e ai cattivi del copione delle procure, evita di raccontare la contro-storia della Repubblica più bella del mondo ammazzata da una magistratura brutta, sporca e fellona. Al contrario spiega molto bene, senza alcuna indulgenza, che ad essere aggredito da Tonino e dai suoi compagni d’arme era il corpo di una Repubblica economicamente collassata e politicamente svanita e alienata, che a Maastricht aveva firmato impegni che non avrebbero potuto essere mantenuti, senza svelare dolorosamente il bluff di una crescita e di un benessere drogati da deficit, debito e svalutazioni.
A partire dal 1992, le inchieste dilagano in un Paese in cui Amato e poi Ciampi devono fare manovre monstre per evitare il default: ne esce così confermata la diceria, propalata a piene mani da politici e gazzettieri di complemento, che l’Italia stesse fallendo perché qualcuno si era rubato i soldi. Un falso dopo l’altro, anzi un falso dentro l’altro. Non era vero che l’Italia era ricca quando si indebitava per mantenere un tenore di vita da “società signorile di massa”, come – ricorda Facci – l’avrebbe definita anni dopo Ricolfi. Ma non era neppure vero che le centinaia di migliaia di miliardi di sovra-indebitamento pubblico, che avevano pagato un patto sociale e un consenso democratico disfunzionale e insostenibile, fossero finiti nelle tasche dei politici. Erano finiti, banalmente, nelle tasche degli italiani; ma erano, per l’appunto, finiti.
Un altro merito e forse la maggiore originalità del libro di Facci è di incrociare le vicende giudiziarie di Tangentopoli con quelle delle inchieste contro la mafia di Falcone e Borsellino. Dal raffronto esce il paradosso di due storie che sembrano procedere esattamente al contrario. Da una parte una pesca a strascico che miete morti, feriti e vittime innocenti (metà degli inquisiti della Procura di Milano uscirà pulita dai processi), che non moralizza affatto la politica e che fa del finto moralizzatore Di Pietro l’uomo più famoso, amato e potente d’Italia. Dall’altra una strategia vincente, che dal maxiprocesso in poi porta alla disarticolazione di Cosa Nostra e che si conclude però con l’isolamento e la morte dei due principali protagonisti. Borsellino abbandonato nella gestione del dossier Mafia e Appalti, archiviato subito dopo la strage di Via D’Amelio. Falcone schifato dall’antimafia combattente, che ne avrebbe in seguito usurpato i titoli di nobiltà, e mascariato come lacchè andreottiano, dopo il suo trasferimento agli Affari Penali di Via Arenula, con l’allora ministro della giustizia Martelli.
Il bilancio di Tangentopoli è politicamente negativo. Ha rafforzato l’idea che la giustizia e lo stato di diritto non siano sinonimi e possano anche essere contrari, quando serve “fare pulizia” e che la tutela giudiziaria della politica sia un fattore, magari sgradevole, ma necessario, di igiene democratica. Dei due leader, a cui Facci riserva nel libro calorose parole di affetto e gratitudine, Craxi e Pannella, fu il secondo a definire icasticamente questo esorcismo, questo abracadabra trasformistico che avrebbe dovuto liberare l’Italia dal maligno del malaffare e della malapolitica e a svelarne la natura nichilista: se si accontenterà di «passare dal conformismo dei clienti alla rivolta dei pezzenti, che con rabbia vogliono solo distruggere il padrone di ieri, questo Paese si autodistruggerà», disse il leader radicale a Mixer il 1 febbraio 1993. È una frase che non è presente nel libro, ma che ne potrebbe essere l’esergo. Ed è una profezia molto precisa su quello che sarebbe accaduto nei trent’anni successivi.
Esce oggi “La guerra dei trent’anni” (Marsilio) e l’autore, Filippo Facci, anticipa per noi una sintesi e i temi principali del libro. Una ricostruzione di “mani pulite”, inchiesta che terremotò l’Italia. Da “Libero quotidiano” il 7 aprile 2022.
Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - ci furono le «elezioni terremoto» che secondo molti fecero da detonatore alla «rivoluzione» di Mani pulite, e secondo altri - sempre meno - originarono una Seconda Repubblica.
A ripensarci, però, non fu una scossa così violenta, anche se i risultati furono clamorosi: la Dc scese al minimo storico (dal 34,3 al 29,7 per cento) con perdite eccezionali nel Nord-Est (-12 per cento nelle province di Verona e Padova; -18 in quella di Vicenza) e il Psi non cavalcò nessuna onda lunga, ma flesse dal 14,3 al 13,6 per cento: il quadripartito che aveva sostenuto il precedente governo Andreotti (Dc-Psi-Psdi-Pli) mantenne una risicata maggioranza, e il nuovo Pds erede del Pci, che aveva appena cambiato nome dopo la caduta del muro di Berlino, si attestò sul 16,6 per cento con la nuova Rifondazione comunista che non superò il 5,6 per cento.
Ma un discreto successo ottenne La Rete, il movimento di Leoluca Orlando che puntava tutto sulla retorica antimafia (dodici deputati e tre senatori) e poi la vera trionfatrice: la Lega Nord di Umberto Bossi, personaggio che andava a letto alle 8 del mattino e si svegliava alle 6 di sera: dallo 0,5 per cento balzò all'8,7 nazionale (55 deputati e 25 senatori) e colonizzò il settentrione con il 25,1 per cento in Lombardia, 19,4 in Piemonte, 18,9 nel Veneto, 15,5 in Liguria e 10,6 in Emilia-Romagna.
Bettino Craxi raccolse 94mila preferenze, Bossi 240mila. Il partito «razzista» passò dalle salsicce di Pontida (dove nel Medioevo fu costituita la Lega lombarda dei comuni contro Barbarossa) a una truppa di parlamentari dapprima guidati in «tour» per conoscere la Capitale e distoglierli dalle tentazioni della grande meretrice. Il responsabile amministrativo, Alessandro Patelli, organizzò un pulmino per i deputati e mise in piedi un convitto dove dimoravano tutti gli eletti che la sera facevano gruppo e formazione. Anche la sola uscita in un ristorante della Capitale era considerato potenzialmente corruttivo e invischiante.
A titolare «Elezioni terremoto» fu soprattutto il Corriere della Sera, capofila di una stampa che in generale aprì un fuoco di fila contro la maggioranza. La sera dei risultati ci fu una prima telerissa (sensazionale, per l'epoca) fra il direttore del Tg1 Bruno Vespa e il segretario repubblicano Giorgio La Malfa. L'antipolitica montava soprattutto in tv. Su Raitre c'era Gad Lerner con il suo Profondo Nord poi diventato Milano, Italia, su Italia Uno c'era Gianfranco Funari con Mezzogiorno italiano, intanto Michele Santoro faceva sempre grandissimi ascolti: anche se nelle settimane preelettorali il direttore generale della Rai gli chiuse la trasmissione per quindici giorni: da immaginarsi che cosa ne venne fuori. Il 13 gennaio di quell'anno era anche partita l'era dei telegiornali Fininvest, che sostenevano l'inchiesta mani pulite più della Rai: Silvio Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano, non ebbe niente da eccepire.
Una settimana prima, il 30 marzo, l'indagato socialista aveva «confessato» al «gabbiotto», una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio di giustizia. C'erano settanta persone tra giornalisti, cameraman e fotografi, e si sentì tutto, perché avevano aperto una finestrella laterale: «Non chiedetemi più nulla di quelli lì, basta», disse Chiesa, «M'avete rotto i coglioni con quel nome». Il nome era quello di Vittorio «Bobo» Craxi, il cui padre era candidato alla presidenza del Consiglio.
Ancor oggi si tramanda che Chiesa avesse confessato perché Craxi il 29 febbraio lo aveva definito «mariuolo»: ma non è vero, e lo dimostra una lettera di Chiesa che il libro La guerra dei trent' anni pubblica integralmente. Chiesa, infatti, non fece mai il nome di nessun Craxi. Molte cose non sono vere: anche la favola dell'imprenditore monzese che si offrì volontario per incastrare Mario Chiesa in flagranza di reato: in realtà fu costretto a farlo - perché aveva pagato tangenti - ma dapprima non aveva intenzione di denunciare nessuno, e si ritrovò suo malgrado a fare da infiltrato, anche perché la sua Ilpi, impresa di pulizie, stava fallendo, e infatti fallirà: dovrà pure difendersi dall'accusa di bancarotta fraudolenta.
Ancora nel 2012 raccontava: «Di Pietro era il pubblico ministero di turno, quella mattina: se non ci fosse stato lui, ma un altro, forse le cose sarebbero andate in un modo diverso». Disse pure che Di Pietro votava per il Msi. Non è neanche vero che Mario Chiesa cercò di occultare i 7 milioni della tangente nel water del suo ufficio, tirando lo sciacquone: non esiste infatti nessun atto o verbale che attesti il tentativo e in ogni caso riguardava un'altra tangente pagata dall'impresa che aveva ritinteggiato l'intero stabile, la Carobbi: a rivelarla fu lo stesso Chiesa.
Non è neppure vero che l'inchiesta Mani pulite aveva atteso le elezioni del 5 aprile per trasformarsi in rivoluzionaria: aveva cominciato prima, anche senza consenso popolare. Tre giorni prima del voto il gip «unico» Italo Ghitti aveva già detto che «il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone».
Sulla funzione anomala del gip «unico» si è già espresso definitivamente Guido Salvini, magistrato insospettabile che passò quegli anni proprio all'ufficio gip: Ghitti - racconterà - accentrò indebitamente tutti filoni di quell'indagine che evitò così di confrontarsi con posizioni e scelte di una ventina di giudici. Il fascicolo di Mani pulite non era neanche un fascicolo, ma un registro che riguarderà migliaia di indagati per vicende tra loro completamente diverse, unificate solo da numero (8655/92) esteso anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva.
Così, ancor prima del 5 aprile 1992, con o senza consenso e «dipietrismi», cominciò una nuova fase giurisprudenziale: ogni reato ipotizzato sarà inquadrato nell'affiliazione a un sistema, e la pretesa dimostrazione che l'indagato ne avesse fatto parte basterà a giustificare il protrarsi della galera preventiva. Chi parlava e denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema, come i pentiti con la mafia.
Quello che è vero - a proposito di mafia - è che la vera rivoluzione giudiziaria in realtà nacque al Sud, o avrebbe dovuto farlo. La prima vera bastonata alla vecchia Repubblica, infatti, coincise con la prima vera bastonata alla mafia, piaccia o meno l'accostamento: e sarà il preludio, per Cosa nostra, dei suoi ultimi e terribili colpi di coda; parliamo dell'omicidio di Salvo Lima e del dossier «mafia-appalti» che- è acclarato - fu la vera causa delle stragi che uccisero Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in una terra dove Mani pulite preferì non mettere becco nonostante un sistema che vedeva sedute al «tavolino» politica, imprenditoria e criminalità organizzata. Lo strumento chiave di Mani pulite - il carcere preventivo - avrebbe fruttato ben poche confessioni, anche perché qualsiasi cella, se l'indagato avesse aperto bocca, sarebbe stata preferibile alle pallottole mafiose che potevano attenderlo una volta scarcerato.
«Parlare», al Nord, equivaleva a uscire da un sistema; al Sud equivaleva a entrare al camposanto. L'informativa «Mafia-appalti» era già nelle mani di Giovanni Falcone il 20 febbraio 1991. Il 15 marzo Falcone disse «la mafia è entrata in borsa». Paolo Borsellino, pochi giorni prima di morire, fece in tempo a farsi dire che i soldi di Totò Riina era confluiti in una grande azienda italiana: che no, non è la Fininvest. I verbali sono nel libro.
Poco più di trent' anni fa - il 5 aprile 1992 - la rivoluzione giudiziaria era appena nata. Neanche un anno dopo, la composizione del sesto raggio di San Vittore sarebbe stata la seguente:
cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa;
cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore;
cella numero 3: Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat;
cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli;
cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese;
cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell'Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia;
cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore;
cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia.
Almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. Poco più di due anni dopo, il 21 novembre 1994, qualcuno - una donna, come si racconta ancora nel libro - passerà a un cronista del Corriere della Sera il mandato di comparizione per Silvio Berlusconi, presidente del consiglio di stanza a Napoli per un convegno sulla criminalità.
E spariranno cinque partiti storici: la Democrazia cristiana (nata nel 1943), il Partito socialista italiano (1892), il Partito socialdemocratico italiano (1947), il Partito repubblicano italiano (1895) e il Partito liberale italiano (1922). La cinetica dell'inchiesta spazzò via anche la vecchia legge sul finanziamento pubblico e il sistema elettorale proporzionale. Benché quei partiti, oltre a foraggiare se stessi e il Paese, forse contribuirono anche a tessere quel poco tessuto civico che avevamo.
Dagospia l'8 aprile 2022. Da «La guerra dei trent’anni, 1992-2022» di Filippo Facci, Marsilio, in libreria da oggi:
A carico di Silvio Berlusconi, il 21 novembre 1994, la procura opto per un «invito a comparire per persona sottoposta a indagine» (non un avviso di garanzia, come dicono ancora oggi) secondo l’articolo 375 del Codice di procedura penale: in pratica era un appuntamento obbligato per essere interrogati. Una convocazione.
A scriverlo materialmente fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d’imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio e importante, perchè la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima.
Il procuratore capo Borrelli diede un’occhiata al provvedimento prima di passarlo a Davigo affinchè procedesse all’iscrizione nel registro degli indagati. Poi Di Pietro parti per Parigi, si vedrà più avanti perchè: probabile, tra l’altro, che volesse sottrarsi a ogni sospetto in caso di fuga di notizie, perchè null’altro avrebbe giustificato una sua assenza in un momento del genere.
Dopodiche, eccezionalmente, Davigo scelse di non fidarsi del consueto passaggio dalla cancelleria (dove circolavano sempre una decina di persone) e decise che l’iscrizione dell’indagato dovesse passare dal computer del suo ufficio, che pero – si accorse – non era abilitato a quel genere di registrazioni. Allora si rivolse al capo della cancelleria e chiese se poteva mandargli un ingegnere per modificare il programma; cosi fu, anche se, tra una cosa e l’altra, se ne andò un’ora e mezza. I cronisti lo notarono.
Era quasi mezzogiorno e in corridoio, d’un tratto, transitarono rispettivamente il comandante regionale e quello provinciale dei carabinieri, Nicolo Bozzo e Sabino Battista, agghindati con la mantella di gala perchè probabilmente strappati a qualche cerimoniale. Alcuni giornalisti notarono anche loro. Gianluca Di Feo fece una prima telefonata al suo capocronista, Alessandro Sallusti, e gli disse che aveva notato movimenti strani. E vabbè, movimenti strani.
Si videro anche a pranzo. Il suo collega Goffredo Buccini aveva fama di apprensivo sino alla paranoia, ma Di Feo aveva invece posture da «mitomane», o perlomeno fu questa l’espressione che Buccini aveva utilizzato nel lamentarsene con il suo capocronaca: «Quando Ettore Botti mi ha comunicato che sarebbe stato il mio secondo», scriverà Buccini, «ho storto la bocca: le poche volte che ci eravamo parlati si atteggiava a segugio d’inchiesta e sosteneva di essere talvolta pedinato da qualcuno».
Comunque i due alti ufficiali stavano andando da Borrelli, il quale, dopo i saluti di rito, chiese loro dove si trovasse quel giorno il presidente del Consiglio. Gli risposero che era a Napoli, ma che nel pomeriggio, per quanto sapevano, sarebbe rientrato a Roma. In realtà non c’era bisogno di convocare quegli alti ufficiali personalmente: fu un modo per responsabilizzarli in vista del delicato incarico che senza dubbio rappresentava recapitare a un presidente del Consiglio quella busta gialla, l’invito a comparire.
Il quale riemerse dal suo ufficio attorno alle 14 e accompagno gli alti ufficiali all’ascensore. Qui incrociarono ancora Gianluca Di Feo del «Corriere», figlio di un carabiniere ed esperto di cose di carabinieri: il quale, cortesemente e con la sua voce garrula, chiese quale gradevole ragione avesse portato i due alti ufficiali a transitare proprio da quelle parti.
Davigo rispose motivando la presenza dei due con una frettolosa cazzata: era il giorno della Virgo Fidelis – disse – patrona dell’arma dei carabinieri; ma Di Feo, da secchioncello, fece notare che durante la festa della Virgo Fidelis erano i magistrati che andavano in caserma dai carabinieri, non viceversa. Piccolo imbarazzo. E piccolo segnale, ma solo uno dei tanti, uno dei tantissimi che da settimane allertavano i giornalisti dopo il «preavviso» a Berlusconi annunciato da Borrelli nell’intervista del 5 ottobre. La gaffe sulla Virgo Fidelis verrà venduta come intuizione geniale, anche se da sola contava sino a un certo punto.
I due ufficiali intanto, per via gerarchica, avevano passato la busta gialla al tenente colonnello Emanuele Garelli e al maggiore Paolo La Forgia, subito partiti per Roma vestiti in borghese e con un’auto con targa civile. La Forgia aveva già recapitato avvisi di garanzia a Bettino Craxi, al repubblicano Ugo La Malfa e al liberale Renato Altissimo, tre segretari di partito.
In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l’invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di «Avvenire». Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. Tutto il resto – gli ufficiali, il tecnico dei computer, mille altri dettagli – apparteneva alla sfera del sempiterno clima di preallerta che da settimane regnava tra cronisti ormai ipertesi.
Piu tardi, alla macchinetta del caffe, Davigo incontro ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell’«Avanti!» che era passata all’agenzia Adnkronos; parlarono ancora dei due ufficiali, e Davigo si lancio in un elogio del comandante Bozzo, del quale – disse – in procura si fidavano ciecamente. Quel suo volerlo sottolineare rafforzo altri sospetti.
Con i soli sospetti, pero, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d’appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo. Il pool dei giornalisti, in quel periodo, si era ormai sfaldato e marciava stancamente, impigrito, diviso in base più ad amicizie personali che alla necessita di coprire le poche notizie che circolavano.
Buccini i primi di ottobre era stato promosso inviato e Paolo Mieli l’aveva addirittura trasferito a Roma (in albergo, per cominciare), si era quindi sganciato dalla cronaca di Milano e un po’ anche dal vecchio sodale Peter Gomez, passato intanto dal «Giornale» alla «Voce»; i cronisti della «Repubblica», del «Corriere» e della «Stampa» andavano sufficientemente d’accordo tra loro (Colaprico e Fazzo nella prima, Di Feo e Buccini nel secondo, Fabio Poletti nella terza) e poi, su un apparente altro fronte, c’era il solito Paolo Colonnello del «Giorno», affiancato dall’intelligenza timida e incattivita di Luigi Ferrarella, entrambi finalmente liberi dalle vessazioni dell’ex direttore Paolo Liguori.
Poi c’erano due grandi amici, Renato Pezzini del «Messaggero» e Paolo Foschini di «Avvenire»: Foschini era un educato e pigro pischello che nel suo primo giorno nella sala stampa del tribunale era stato accolto quasi con tenerezza, guidato in un tour in procura da Michele Brambilla del «Corriere» e appunto da Renato Pezzini, con cui lego molto. Poi c’era qualche eccezione solitaria e altri un po’ a rimorchio.
Foschini aveva un discreto rapporto anche con Gianluca Di Feo del «Corriere» e tanto gli basto per tentare un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su «Avvenire». Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo e gli rivelo che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite.
Di Feo si disse d’accordo, accetto almeno formalmente: facile che pero immaginasse già tutto un altro film che tra i protagonisti non prevedeva testate concorrenti, neanche un peso piuma come «Avvenire»: corse dal capocronista Alessandro Sallusti e rivendette la notizia come solo sua; di Foschini non fece alcun cenno. Berlusconi era indagato e urgeva la presenza di Goffredo Buccini perchè aveva – era noto – una talpa particolare in procura che poteva rivelarsi decisiva. Foschini, invece, allerto l’amico Pezzini del «Messaggero» che quel giorno era fuori Milano per servizio.
Buccini intanto era «sul pezzo» come poteva esserlo uno che era stravaccato su una poltrona a intervistare Ignazio La Russa, a Roma. La telefonata di Di Feo lo riporto dal torpore capitolino alla consueta iperagitazione da cronaca giudiziaria: s’involo per Milano senza neppure ripassare dall’albergo e preallerto – o fece preallertare, più probabilmente – la sua fonte in procura, una donna che in precedenza non si era dimostrata insensibile al fatto che lui fosse un uomo, un rapportarsi che non era un segreto assoluto.
L’invito a comparire intanto stava per giungere nella capitale.
Buccini atterro a Milano verso le 19 e passo direttamente dalla sua fonte «al solito posto», vicino alla procura. I colleghi si erano già salutati ed erano tornati nelle rispettive redazioni a scrivere oppure a non farlo. La fotocopia, o stampata che fosse, fu finalmente nelle sue mani, anche se alla fine era un foglio solo: il primo di quattro, ma questo lui non poteva saperlo. For- se era stata stampata in un solo foglio per errore o per fretta, vai a sapere. Buccini riapparve in redazione verso le 20.30 e intanto era tornato anche il direttore Paolo Mieli, rimasto fuori tutto il giorno – pur aggiornato per telefono – e reduce dalla presentazione di un libro.
Gli ufficiali dei carabinieri intanto erano giunti a Palazzo Chigi – erano ormai le 19.30 –, ma Berlusconi non lo trovarono: c’era solo un consigliere diplomatico che chiamo il sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta, che a sua volta chiamo Berlusconi il quale non si era mai mosso da Napoli. Verso le 20, gli ufficiali chiamarono Borrelli per sapere che cosa dovevano fare.
Il procuratore, il quale aveva ricevuto un’ansiosa telefonata di Buccini a cui aveva risposto picche, aveva fretta che Berlusconi sapesse del provvedimento (figurarsi che cosa sarebbe successo se la notizia fosse trapelata prima della notifica) e li autorizzo a telefonare al Cavaliere per leggergli l’atto, cosa di cui si incarico il comandante Emanuele Garelli.
La chiamata, pero, duro meno di un minuto, perchè stava per cominciare il concerto di Pavarotti al teatro San Carlo. Berlusconi capi soltanto che c’erano grane in vista. Rimandarono a più tardi, e fu il Cavaliere a richiamare alla fine del concerto, verso le 23: si sorbi la lettura solo della prima pagina, perchè a un certo punto si stufo, e, seccato, diede appuntamento agli ufficiali per l’indomani, a Palazzo Chigi, alle 14.
Intanto, al «Corriere», Gianluca Di Feo viveva la sua ansia da tradimento e Goffredo Buccini viveva la sua ansia e basta. Mieli, in ogni caso, faceva la parte del direttore a cui nessuna conferma poteva bastare: in sostanza lo «scoop» di Buccini e Di Feo consisteva nella pubblicazione di una carta giudiziaria incompleta prima che degli alti ufficiali la consegnassero completa al destinatario, consistette nell’averla anticipata di qualche ora prima che il destinatario la rendesse nota comunque, consistette nell’aver impedito che il destinatario potesse gestirla mentre il nostro paese aveva puntati addosso gli occhi del mondo, consisterà – ma di questo il «Corriere» non ha colpa diretta – in una robusta spallata che quantomeno favorirà la caduta di un governo, consisterà nell’inizio di un procedimento penale che condurrà l’indagato a un’assoluzione per non aver commesso il fatto.
E consisterà in uno «scoop» che nei libri di Bruno Vespa, non per sua colpa, sarà descritto come la scoperta dello scandalo Watergate con tanto di inesistente «gola profonda» (che era un comandante generale della vicina caserma di via Moscova, che si limito a rassicurare Di Feo senza dirgli nulla) e sarà descritto prefigurando inesistenti e tenebrosi incontri in improbabili parcheggi sotterranei come in Tutti gli uomini del presidente con Robert Redford e Dustin Hoffman, quando invece la fonte primigenia era una donna che lavorava in procura, la quale aveva allungato una fotocopia a Buccini, anche se lui per anni parlerà di una «una fonte molto qualificata» che gli aveva confermato la notizia.
La notizia, dunque, fu scoperta da Paolo Foschini, non dal «Corriere», che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunche. Foschini fu sostanzialmente tradito dall’amico Di Feo e le «conferme» alla fine furono le seguenti: 1) un foglio passato da una femmina non estranea ai propri sentimenti che forni una sola fotocopia su quattro;
2) una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che «mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente», anche se un’altra fonte sostiene che la risposta fu: «Come si permette di chiamarmi a casa e farmi questa domanda, non si permetta più di fare una cosa simile»;
3) poi un’altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente – questo almeno ha scritto Davigo in un suo libro – o che, secondo un’altra fonte, rispose cosi: «Ma le sembrano cose di cui parlare con un magistrato?». Clic;
4) a questo aggiungiamo le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono «smentite non convincenti», perchè ormai al «Corriere» si basavano su questo: su quanto le smentite fossero «non abbastanza convincenti» o su quanto le smentite non fossero abbastanza smentite. Entrambi i giornalisti registrarono dei nastri con tutte le telefonate. Mieli non sembrava convinto per niente;
5) ma poi, verso le 23, Gianluca Di Feo fece un’ultima scappata in via Moscova, da un comandante dei carabinieri amico suo a cui fece una scena madre dicendogli che, se avesse sbagliato l’articolo, sarebbe stato rovinato per sempre, la sua famiglia sarebbe stata coperta di ridicolo, avrebbero chiuso il «Corriere»... cose del genere. In pratica chiese all’ufficiale di fermarlo prima che fosse troppo tardi.
L’ufficiale diede a Di Feo una pacca sulla spalla e gli rispose soltanto: «Gianluca, vai a casa, sai che ti voglio bene». E questa e una frase che in via Solferino ritennero fondamentale, perchè, se la notizia fosse stata falsa, il generale amico avrebbe reagito diversamente. E lecito pensarlo, quell’uomo era un amico storico e familiare di Di Feo e l’amicizia era importante: anche se, forse, da principio l’aveva pensato anche Paolo Foschini.
Di Feo tuttavia trasformerà quella banale «conferma» ottenuta nella caserma in via Moscova (e che era molto più conferma di tutte le altre messe insieme) in una serie di oscuri dialoghi telefonici con un’inesistente «gola profonda» di cui saranno infarciti i libri di Bruno Vespa.
Nel contempo in via Solferino si era creato un surreale doppio binario: ai piani superiori c’erano il caporedattore Antonio Di Rosa, il vicedirettore Giulio Giustiniani e il vicecaporedattore centrale Paolo Ermini (non e chiaro se ci fosse anche il vicedirettore Ferruccio de Bortoli) i quali erano all’oscuro di tutto e avevano già disegnato una prima pagina senza la notizia su Berlusconi; mentre al piano inferiore, nella stanza chiusa del capocronista Alessandro Sallusti, assieme a lui c’erano Di Feo, Buccini e Mieli che preparavano un’altra prima pagina con l’ausilio di quello che in gergo si chiamava «proto», un tecnico di composizione tipografica.
Ma se l’atmosfera si stava facendo pesante non era solo per la tensione: era già da un po’ che i colleghi della giudiziaria avevano cominciato a chiamare per il consueto giro delle telefonate serali. Alle 21 aveva chiamato anche Foschini a cui Di Feo aveva risposto: «Nessuna novità». L’«Avvenire» di Foschini chiudeva prima degli altri perchè alle 23 andava già in stampa. Aveva chiamato anche Peter Gomez della «Voce», che per Buccini era più di un fratello: avevano fatto la scuola di giornalismo insieme, scritto libri a quattro mani, stretto alleanze di ferro quando il pool dei giornalisti non esisteva, avevano condiviso e sognato la stessa professione e, ora, lo liquidava con un secco: «Nessuna novità».
Gomez, proprio in quei giorni, stava aiutando Buccini e Di Feo a riaprire un canale con Di Pietro, che con il «Corriere» non aveva più voluto parlare dopo che l’amico Goffredo aveva raccattato una letteraccia amarissima che Di Pietro aveva scritto il giorno prima che morisse sua madre, a Vasto, dove Buccini oltretutto era andato facendo da autista a Davigo e Colombo: poi il Tonino sofferente aveva deciso di non farne più nulla e di non rendere pubblico quello sfogo di un momento troppo intriso di dolore privato, ma Buccini era riuscito a recuperare la bozza e l’aveva pubblicata sul «Corriere».
Strano che Di Pietro non volesse più parlargli. Ora Gomez si stava facendo in quattro per ricucire il rapporto, e ora pero drin, «Nessuna novità». Buccini la fama un po’ da stronzo ce l’aveva sempre avuta, Di Feo stava facendo un apprendistato con il turbo. Ora eccoli li, nel cabinozzo di Sallusti con i loro cellulari che suonavano e trillavano e loro ormai che non rispondevano più. Ma le telefonate continuavano, e più loro non rispondevano e più i trilli sembravano insistere, animarsi, pesare come sensi di colpa.
Se ne accorsero anche Mieli e Sallusti. Nel libro Il duello di Bruno Vespa, tra le fantasticherie di Gianluca, c’è anche un passaggio che prefigura un Di Feo che fuori tempo massimo ha «un problema di coscienza» e spiega a Mieli che «ritiene che tra i colleghi degli altri giornali solo Foschini abbia capito che i giudici abbiano tirato l’affondo finale a Berlusconi». Lo ha «capito». E quindi «chiede a Mieli se può informarlo». Il direttore risponde di no, ora e tutto chiaro: lo stronzo e Mieli. Invece, nel libro di Buccini del 2021 sul trentennale di Mani pulite Foschini non viene neppure nominato.
Ecco infine la prima pagina, finita, approvata, quella vera: titolo di spalla (a destra del giornale) a sei colonne: Milano, indagato Berlusconi. Cosiddetto «catenaccio» o sottotitolo: «E l’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza». Si parlava di due soli capi d’imputazione perchè avevano avuto appunto un foglio solo (del quale Buccini e Di Feo peraltro negarono l’esistenza per anni, nei loro racconti romanzati) e circa la mancanza della terza imputazione, ancora nel 2021, Buccini spiegherà che su quella terza notizia «ci abbiamo messo le orecchie ma non gli occhi. Per eccesso di prudenza, sfumiamo». Certo, si.
Buccini si spingerà oltre: «Il fatto che proprio in quelle ore Berlusconi non lasci completare ai suoi interlocutori telefonici l’elenco delle accuse, chiudendo la comunicazione con i carabinieri proprio prima che quelli arrivino a citargli Videotime, induce alcuni astuti esegeti a fare due più due, producendo la straordinaria teoria che sia proprio lui la nostra fonte decisiva, cosi da potersi atteggiare a vittima la mattina dopo. Una tesi ovviamente sostenuta con qualche interesse anche da molti colleghi di altri giornali».
Gli astuti esegeti, a dire il vero, sono i magistrati di Milano. Quella era la tesi della Procura di Milano e lo e ancora oggi. Dira Davigo: «Noi eravamo gli ultimi ad avere interesse che la notizia uscisse in quei tempi e in quei modi, essendo facilmente prevedibile l’uso che si sarebbe fatto di quella sciagurata fuga di notizie. Io resto convinto che la conferma al Corriere l’abbia data qualcuno dell’entourage di Berlusconi».
Chiesero a Borrelli nel 2010: «Davigo e convinto che la conferma dell’invito a comparire il «Corriere della Sera» l’abbia avuta dall’entourage di Berlusconi. E lei?»; Borrelli: «Si, questa e la convinzione che abbiamo tutti. Noi pensiamo che la conferma decisiva al «Corriere della Sera» l’abbiano data o l’indagato o ambienti vicini all’indagato».
Quella sera ormai tarda il dado era comunque tratto: Mieli consegno la prima pagina autentica e raccomando che non fosse mandata ai tg della notte per le rassegne stampa, e di non fare la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma. Ma dimentico di dirlo ai suoi ragazzi.
Poi tutti alla Libera in via Palermo, li vicino, pizzeria che ai tempi aveva il pregio di chiudere tardissimo e oggi e un ristorante che chiude banalmente a mezzanotte. Mieli fece discorsi dapprima un po’ paranoici: «C’erano dei timbri sulle fotocopie? Perchè con i timbri vuol dire che il provvedimento e stato notificato alla presenza di un cancelliere; se invece non ci sono, vuol dire che il documento non e ancora passato in cancelleria»; «Mi pare di no, non mi ricordo». Allora poteva essere un falso, una trappola costruita per fottere il Corriere.
Per rallegrare l’ambiente, Mieli rievoco il caso di Marina Maresca, una cronista dell’«Unita» che nel 1982 aveva pubblicato dei documenti attribuiti al Ministero dell’interno dove si parlava di trattative tra i servizi segreti, le Brigate rosse, il boss della camorra Raffaele Cutolo e dei politici democristiani che volevano liberare l’assessore Ciro Cirillo, sequestrato dalle Br: documenti che poi si rivelarono falsi, tanto che Marina Maresca fu arrestata, licenziata dal giornale e processata. Bene, altri argomenti? Mieli peraltro continuava a dire che non sapeva se avvertire o no l’avvocato Agnelli, l’editore del «Corriere».
Ultima parentesi: ci sarà chi sosterrà che Mieli stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato. Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d’appoggio cosi scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe.
Dirà il leghista Roberto Maroni in data 14 luglio 1998, intervistato dalla Prealpina: «Finora ho taciuto, ma Scalfaro seppe del provvedimento non il 21 novembre... ma prima. Qualche giorno prima. Me lo rivelo lui stesso. Nell’inverno del 1994 io ero di casa sul Colle. Scalfaro mi disse che Borrelli, con il quale aveva un franco rapporto di amicizia, l’aveva messo al corrente dell’iscrizione del premier nel registro degli indagati. Quando? Non mi preciso una data esatta. Tuttavia, sicuramente qualche giorno prima che s’aprisse la conferenza di Napoli».
Ed è vero che l’iscrizione nel registro degli indagati avvenne solo il giorno 21: ma il giorno fu senz’altro stabilito prima.
Erano le 2 passate del 22 novembre quando alla Libera di via Palermo il consumato attore Paolo Mieli cambio improvvisamente registro e passo a tutt’altro film. Era il film degli uomini soli prima che scocchi l’ora decisiva. Il film degli eroi stanchi prima dell’ultima carica. Perchè noi, vedete, «siamo giornalisti, e il nostro mestiere». Orgoglio. Commozione. Addirittura abbracci.
Mieli lascio il ristorante per primo. Gli altri tre passarono dalla solita edicola di corso Buenos Aires, ma il «Corriere» pero non c’era. Mieli si era dimenticato di dire loro che la prima edizione sarebbe saltata. Nessun altro giornale comunque riportava la notizia, e questo si prestava a una doppia interpretazione. Alle 3, infine, a casa.
Gianluca Di Feo torno nel suo appartamento di via Paolo Sarpi: a Bruno Vespa racconterà che preparo una borsa per il carcere e che dentro mise anche una Bibbia, una raccolta di novelle di Pirandello e delle scatolette di tonno. L’ansiogeno Buccini, invece, aveva già spedito fuori casa la moglie e la figlioletta, ma di star solo non aveva voglia: divenne un problema di Sallusti, perchè Buccini si autoinvito a casa sua in via Uberti, in zona Porta Venezia. Nottata in bianco. Sigarette. Ansia contagiosa. Pessimismo cosmico.
Alle 5.40 Gianni Letta chiamo Berlusconi e gli disse che il «Corriere della Sera» aveva titolato come sappiamo.
Le prime conferme giunsero quando Mieli chiamo Sallusti: gli riferì che il Quirinale aveva confermato la notizia. Sempre il Quirinale. Il problema di avvertire Agnelli lo aveva risolto direttamente Berlusconi che aveva chiamato l’avvocato a New York (tre volte) quando li dovevano essere le 2. Pero poi Agnelli aveva chiamato Mieli.
I tre giornalisti del «Corriere» avevano pensato che, in caso di interrogatori, ritenuti certi, Sallusti sarebbe stato sentito per ultimo e che i nastri e la fotocopia li avrebbe tenuti lui. Sallusti chiese alla moglie, Elisabetta Broli, di nascondere tutto in un posto sicuro. Buccini e Di Feo, in effetti, vennero interrogati in mattinata dai carabinieri di via Moscova. Nel pomeriggio tocco invece a Sallusti in veste di testimone, trucchetto che serve per non avere avvocati tra le scatole.
Si appello al segreto professionale come gli altri due, pero a un certo punto fu parcheggiato in una stanza a meditare, una cordiale forma di pressione: e la cosa si fece un po’ lunga. Abbastanza da spaventare l’irrequieto cronico, che decise di chiamare la moglie di Alessandro, perchè temeva che potessero perquisirle la casa. Lei rispose e cerco di tranquillizzarlo: disse che stava portando il materiale fuori citta e che si era soltanto fermata un attimo da una parrucchiera vicino a casa, in Porta Venezia.
All’ansiogeno non poteva bastare. In un nanosecondo era già dalla parrucchiera: si fiondo dentro urlando «Dov’e?, dov’è?», per poi mettersi a frugare nella borsa di Elisabetta in cui trovo ed estrasse una specie di malloppo. Nell’insieme, una scena da tarantolato che spavento a morte la proprietaria del negozio la quale stava quasi per chiamare il 113. Elisabetta cerco di spiegarle che si trattava di un giornalista, che non era un drogato e che nel fagotto non c’era droga, anche se l’invasato non aiutava, perchè intanto se n’era andato nel bagno del retrobottega e aveva gettato tutto in un water dopo avergli dato fuoco, compresi i nastri magnetici altamente infiammabili: il water erutto come il Krakatoa.
Renato Pezzini del «Messaggero» telefono a Sallusti, suo amico di vecchia data, e gli disse che era un figlio di puttana: il loro rapporto non si ricuci mai. E la stessa espressione che uso con Di Feo, specificando che in passato aveva pensato che a esserlo fosse solo il suo compare. Insomma la prese bene. Luca Fazzo della «Repubblica» chiamo l’amico Di Feo e gli fece i complimenti «come professionista», ma aggiunse che «come amico sei uno stronzo, i conti li facciamo dopo». Paolo Foschini fu visto molto intristito.
Leggenda vuole – anzi, diversi cronisti lo credono ancora oggi – che Foschini venne poi assunto al «Corriere della Sera» in segno di risarcimento per l’ingiustizia patita. Niente porta a
crederlo. Anzitutto, con l’amico Pezzini, passo più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza. Poi si, la cronaca di Milano del «Corriere» aveva bisogno di un nuovo cronista polivalente da assumere: ma Gianluca Di Feo non indico Foschini, indico Luca Fazzo della «Repubblica».
E Fazzo avrebbe anche potuto accettare, ma alla «Repubblica» lo vennero a sapere e gli offrirono un milione di lire in piu e il grado di inviato. Fazzo resto alla «Repubblica». Allora Michele Brambilla del «Corriere», l’ex cronista che all’inizio di Mani pulite aveva affiancato Buccini prima di tirarsi indietro e lasciare il posto proprio all’implume Di Feo, suggerì Paolo Foschini. Il quale ebbe un colloquio con il capo della cronaca milanese, Giangiacomo Schiavi, emiliano come lui. E sarà per questo, ma fu assunto con decorrenza dal 1° gennaio 1997. Il direttore era ancora Paolo Mieli. Di Feo, Foschini, se lo ritrovo a fianco. Tutti i giorni.
Dagospia il 30 aprile 2022. Riceviamo e pubblichiamo:
Ore 20.05, del 30 aprile 1993, Hotel Raphael, Roma.
Saliamo in macchina sotto una doccia di pietre, monetine e insulti.
È chiaro che siamo protagonisti di un evento epocale (anche se, incredibilmente, il giorno dopo nessuno ne scriverà).
In realtà, ovviamente, il protagonista era Lui, Bettino Craxi, ultimo segretario del PSI nel centesimo anno della sua fondazione. Noi altri tre in quella macchina, Nicola Mansi, storico autista e Umberto Cicconi, fotografo e ombra del segretario, eravamo solo birilli decorativi di quel tiro al piccione (io, seduto dietro e alla sinistra di Craxi, ero in quel momento segretario nazionale dei Giovani Socialisti).
Siamo consapevoli dell’odio che s’infrange sui finestrini dell’auto, ma veniamo pervasi da un sentimento di tranquillità quello che ci porta a comprendere che quel passaggio rappresentava un calvario necessario, forse ruvido, forse ingiusto, verso una nuova Italia.
Nel viaggio verso gli studi televisivi al Palatino, dove Craxi avrebbe rilasciato un’intervista a Giuliano Ferrara, eravamo sollevati dall’aver intuito il significato di quell’aggressione.
In quei pochi minuti di una Roma addobbata a forca ci si mostrava un domani diverso, dove capivamo non ci sarebbe stato posto per noi, ma la soddisfazione che tutto questo futuro sarebbe ricaduto sui nostri concittadini ci ripagava e rasserenava.
Intanto i partiti avrebbero trovato subito un modo per finanziarsi in modo trasparente e la politica, tutta, si sarebbe liberata da quell’immensa ipocrisia che non consentiva ai più importanti attori delle istituzioni, i partiti appunto, di organizzare la costruzione del loro consenso. Persino i rappresentanti d’interessi, i lobbisti, avrebbero esercitato il loro talento ottenendo in pochi giorni una legge che li rendesse attivi alla luce del sole. Il Paese quindi avrebbe incontrato riforme costituzionali, che attendeva da decenni, per adeguare la sua struttura istituzionale al nuovo mondo.
E anche i partiti e la selezione delle loro classi dirigenti se ne sarebbe avvantaggiata. Gli uomini compromessi da precedenti responsabilità o quelli difensori di ideologie fallimentari e fallite si sarebbero silenziosamente sottratti alla scena politica per lasciar spazio a una nuova classe dirigente finalmente costruita sul merito, la competenza e la passione civica. Il nepotismo sarebbe stato annichilito dal virtuosismo di una nuova selezione costruita sui titoli e le capacità tecniche (e di afflato etico indiscusso). Tutto questo avrebbe portato finalmente al Paese, stabilità, prosperità e crescita.
Intanto cominciando a fare quelle cose così semplici che nessuno era mai riuscito a realizzare. Insegnanti, forze dell’ordine, infermieri, financo le guardie carcerarie, sarebbero state ripagate e riconosciute per la centralità del loro ruolo di sviluppo e di rappresentanza dello Stato (soprattutto quando lo Stato incontra il suo unico azionista, il cittadino, nei suoi momenti di maggiore debolezza e necessità); e lo avrebbe fatto nel modo più semplice: con un riconoscimento economico e di prestigio sociale del loro ruolo.
Poi, si sarebbe dato il via al più grande progetto di ricostruzione di scuole, ospedali e infrastrutture pubbliche che aspettavano ancora un segnale da questa Repubblica tanto giovane quanto incerta e distratta nel mettere mano alle primarie urgenze dei suoi cittadini.
La Prima Repubblica aveva lasciato un grave debito pubblico giustificandolo con l’aver dovuto affrontare un’economia da guerra fredda, poi il terrorismo, quindi scontri sociali violentissimi, il tutto dentro a un’inflazione pandemica a doppia cifra, ma sapevamo che anche questo vulnus sarebbe stato presto domato e riportato all’equilibrio e ribaltato in prosperità.
Infatti il terminare di ogni litigiosità politica e la comparsa dei civil servant, immolati solo agli interessi della collettività, annunciavano una strada che avrebbe reso una passeggiata il raggiungimento di questi obiettivi. Come infatti è stato. A cominciare dalla redistribuzione della ricchezza coniugata con un’accettazione sociale della stessa riconosciuta come premio del talento e non bersaglio d’invidia.
Qualcuno avrebbe preteso di cedere i nostri gioielli pubblici nel settore energetico, infrastrutturale o del mondo delle comunicazioni. Le nuove forze politiche avrebbero però respinto questa scellerata prospettiva o l’avrebbero, contro voglia, applicata solo per risanare, definitivamente, il nostro debito pubblico e ripartire verso nuove avventure di un Paese che era stato capace di raggiungere primati impensabili per una nazione così piccola (come l’essere stati i terzi a lanciare un satellite nello spazio o i leader nella scienza atomica o, in un settore non secondario come quello delle comunicazioni, veri pionieri).
Avremmo fatto di necessità virtù dell’assenza di materie prima, rendendoci energeticamente, se non autosufficienti, liberi da ogni ricatto; poi ci saremmo focalizzati sulla nostra capacità manifatturiera di elaborare e migliorare il prodotto, rendendo lo Stato complice del cittadino e delle sue attività produttive, levigando quella catena montuosa di tassazioni che tratteneva risorse senza restituirle, in modo plastico, in servizi e infrastrutture.
E grazie a tutto questo, sarebbero rinate le città; e in effetti oggi è davvero una soddisfazione camminare tra strade abbaglianti per il loro decoro, lucidate da una pulizia ossessiva e maniacale, avvolti in un clima di sicurezza e serenità che solo a immaginarlo allora ci sembrava un sogno utopistico. I giovani sapevamo avrebbero ritrovato fiducia nel futuro e gli anziani la serenità per la loro meritata età.
Queste cose così semplici, solari, di plateale buon senso, erano state tradite solo dall’incompetenza della nostra Prima Repubblica, ma avrebbero trovato una lineare soluzione.
E senza negare la fraternità italica e il sentimento di riconoscenza verso i nostri “liberatori” occidentali avremmo primeggiato nella nostra capacità di dialogo col mondo senza mostrare sudditanza per alcuno (ancor meno adombrata da miseri interessi economici travestiti da cause più nobili). Perché mai, e poi mai, queste nuove classi dirigenti, avrebbero tradito quel carattere fondato sulla lealtà, sulla gratitudine, sulla difesa degli impegni e delle promesse che ne avrebbe costituito il carattere fondativo e distinguente.
Certo sapevamo che non tutto sarebbe stato risolto subito, anche in ragione della nostra eredità, ma l’enorme talento inespresso a cui era stato negato di mostrarsi scalciava per cominciare la sua cavalcata verso questo Eden che attendeva il Paese.
Ecco, questo accadde la sera di 29 anni fa. Per cui si trattò di un sacrificio necessario.
Stava terminando la nostra vita politica, ma quelle che potevano scambiarsi per urla di un’Italia inferocita contro di noi, era invece la voce del Paese nascente e del suo liberatorio vagito: quello del “né-né”. Luca Josi
Tangentopoli, perché il nome "Mani pulite" fu una pessima idea. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.
Mi occupo da trent' anni di criminalità giudiziaria, cioè dei delitti perpetrati in nome del popolo italiano dalla piovra in toga. Che non è "la" magistratura, come la mafia non è la Sicilia: ma ne è l'agente plenipotenziario, dotato tuttavia di un potere che è usurpato e si impone su un consorzio sociale intimidito e omertoso.
Ora sono stato querelato da tre famosi magistrati per aver scritto che la cultura di "Mani Pulite", sin dal nome che essa ha prescelto per accreditarsi in questo Paese di giustizia corrotta, rappresenta un'oscena e proterva manifestazione di prepotenza, che ha insultato irrimediabilmente il poco residuo della civiltà giuridica (anzi della civiltà punto e basta) del nostro ordinamento sociale.
Allora, aprano bene le orecchie i querelanti, che chiedono la galera per chi scrive queste cose: non solo rivendico quel mio convincimento, e il diritto di esprimerlo, ma mi impegno a diffonderlo nuovamente e ulteriormente per quel che posso, appunto come faccio da decenni.
Rivendico il diritto di dire che la dicitura "Mani Pulite" è oltraggiosa, e che è eversiva e incivile la cultura che l'ha adottata. Così come rivendico il diritto di dire che l'azione giudiziaria che ha preteso di ispirarvisi ha danneggiato molto gravemente questo Paese, le istituzioni repubblicane, il decoro nazionale. Posso comprendere che sia inconcepibile, per i magistrati poco impensieriti dalle adunate del popolo onesto che sotto ai balconi delle procure strillava di gioia per l'ordine di arresto quotidiano: ma c'è chi crede, querela o non querela, che essi abbiano fatto molto male il loro lavoro e che abbiano fatto molto male a molte persone. È chiaro?
Riflessione su “tangentopoli” trent’anni dopo. CARLO BOLOGNESI il 29 aprile 2022 su avantionline.it.
Trent’anni fa iniziava quell’evento che i mass media hanno chiamato “Tangentopoli”. Diverse trasmissioni televisive e vari giornali si sono occupati di rievocare ed avviare dibattiti critici su quella stagione politica e giudiziaria. Molti di questi media hanno cambiato impostazioni ed hanno espresso giudizi rispetto al passato. Accanto all’azione giudiziaria che eliminò un’intera classe politica, alcuni ricordano quel 1992 come un “anno orribile”, in cui furono anche eliminati dalla mafia (e non solo da essa) i magistrati Falcone e Borsellino e furono orditi attentati terroristici contro lo Stato, la Chiesa e le rispettive istituzioni.
Nelle scorse settimane è stato edito un documentassimo libro di oltre settecento pagine, scritto da Filippo Facci dal titolo “La guerra dei trent’anni – la rivoluzione mancata”, dove il giornalista (uno dei pochi che all’epoca si era espresso controcorrente e avvertiva i pericoli insiti nelle inchieste giudiziarie) evidenzia l’uso di manette facili praticato dal pool di magistrati di Milano e poi da altre procure, l’uso criminale della stampa allo spiccare di semplici avvisi di garanzia (date subito ai giornali ed in pasto all’opinione pubblica, sapientemente stimolata a reagire con i più ignobili sentimenti giustizialisti e di vendetta, come la “richiesta della forca”), in un paese dove si trovano troppi falsi cattolici opportunisti e giustizialisti. Da quel momento la partecipazione alla vita politica è scesa vertiginosamente, l’astensionismo è aumentato fortemente, i partiti sono stati snaturati ed indeboliti, l’intervento dello Stato in economia ed il Welfare State ridimensionati progressivamente.
Oggi vi sono tanti pentiti. L’allora capo della Procura di Milano, Saverio Borrelli, prima di morire, come riporta nel suo libro Filippo Facci, ha affermato che: “Non valeva la pena di buttare all’aria un mondo precedente per cascare in quello attuale”. Il giornalista ripercorre quegli anni in cui vi furono molti suicidi (tra quelli eccellenti, Cagliari, Gardini, Moroni) e dove tanti personaggi politici ebbero stroncata la carriera solo per aver ricevuto un avviso di garanzia. Moltissimi tra questi sarebbero poi stati assolti con formula piena. Le indagini colpivano intere Giunte regionali, per cancellarle e sostituirle con uomini graditi. Così è stato per la Giunta Regionale Lombarda e, poi, per quella abruzzese. I politici inquisiti venivano lasciati in pace solo se si fossero ritirati a vita privata, al di là dei fatti commessi.
Alle riflessioni di Facci, si possono aggiungerne altre da parte di chi, come molti di noi, hanno vissuto quel periodo. Tra le “leggende” costruite in quella circostanza, vi è quella che vuole “Tangentopoli” nata per puro caso, con l’arresto di Mario Chiesa, a causa di una piccola tangente estorta ad un impresario delle pulizie, neo fascista. Tra l’altro, questo imprenditore, nonostante l’amicizia con Antonio di Pietro, è fallito pochi anni dopo. In realtà si è saputo dopo, ma non conveniva diffondere la notizia, che i veri personaggi che hanno svelato a Di Pietro il meccanismo delle tangenti ed i luoghi dove i Partiti (tutti!) tenevano i soldi, soprattutto all’estero, sono stati l’ex segretario del Partito Socialista, Giacomo Mancini ed Eugenio Cefis, già presidente dell’Eni. Cefis è stato implicato nella morte di Enrico Mattei per prenderne il posto (così come è avvenuto) e trasformare l’Ente energetico in un’azienda di sola raffinazione del petrolio, in omaggio alle grandi compagnie internazionali del settore. Durante la Seconda Guerra Mondiale e nel dopoguerra Cefis svolgeva la funzione di agente del servizio segreto britannico ed il suo braccio destro era un giovane Gianfranco Miglio, in seguito divenuto l’ideologo della Lega Lombarda (poi Lega Nord) e fautore, insieme al venerabile maestro della loggia deviata P2, Licio Gelli, della nascita di tante leghe nelle regioni italiane, soprattutto al Sud, zeppe di esponenti mafiosi. Così hanno reso noto varie inchieste giudiziarie successive. Anche questo ci fa capire la natura internazionale della cosiddetta “Tangentopoli” e cioè il tentativo di ridurre l’Italia, uno dei quattro paesi al mondo più forti economicamente, ad una nazione “in svendita”, ad economia debole, ad un’entrata nell’Euro con ruolo subalterno e riduzione drastica della propria sovranità. Infatti, dopo Tangentopoli, il Prodotto Interno Lordo (PIL), che, fino ad allora, era cresciuto ogni anno costantemente oltre il 3%, crollò improvvisamente ed il debito pubblico, per la prima volta, superò il PIL. La crescita produttiva, durata oltre cinquant’anni, si era fermata. Le maggiori aziende pubbliche, alcune vere leaders mondiali nel loro settore (Eni, ecc.), altre forti aziende e banche pubbliche e private, sono state svendute a compagnie italiane e straniere, a fronte di somme ridicole. Persino aziende strategiche nazionali, come Telecom, sono state vendute agli stranieri. Il bersaglio da colpire per attuare questo disegno di svendita dell’ “Azienda Italia”, era, anzitutto, Bettino Craxi, che aveva ben governato l’Italia dal 1983 al 1987, rilanciando la sua immagine nel mondo e superando un difficile periodo di crisi. Craxi, infatti, si opponeva fortemente a tale disegno e ad un’Italia succube di potenze straniere.
Quasi rutti gli osservatori e gli storici sono finalmente concordi nel ritenere che tanti magistrati, oltre ad aver commesso veri e propri abusi, abbiano sostituito prepotentemente la politica. La maggioranza dei media ha accompagnato questo processo perverso, costruendo l’immagine del magistrato onesto, Antonio di Pietro e, per contro, quella negativa dei politici disonesti e corrotti che andavano spazzati via, messi alla forca, eliminati. Anche i potenti media di proprietà di Silvio Berlusconi, quotidiani, riviste, radio e televisioni, si sono messi al servizio dei magistrati e, in particolare, di Antonio di Pietro. Indicative, in tal senso, sono state, tra l’altro, la copertina del diffusissimo “Sorrisi e canzoni” dove appare, a tutta pagina, l’immagine del magistrato con l’appariscente scritta “Di Pietro facci sognare”, oppure le note trasmissioni di Funari dirette sempre contro Craxi ed i socialisti, o, ancora, i collegamenti di Emilio Fede con il giornalista Brosio, davanti al Tribunale di Milano. Berlusconi, furbescamente, aveva appoggiato in pieno Tangentopoli ed i magistrati per non essere inquisito, essendo uno dei maggiori sovvenzionatori di tangenti a uomini politici, a dirigenti pubblici e ai partiti, come lui stesso ha ammesso anni dopo dichiarando “giravo con l’assegno in bocca” per fare andare a buon fine le questioni interessanti la mia azienda. Tutto questo era accompagnato da cortei e fiaccolate organizzati dalla borghesia milanese, specie quella parassitaria e immobiliarista, a favore del pool di Milano.
Per quanto riguarda Di Pietro, sempre Filippo Facci ha pubblicato, qualche anno fa in un altro libro (“Di Pietro – la storia vera”), i misfatti del personaggio: dagli abusi del giovane magistrato in prova “dimenticando” in galera alcuni inquisiti (e per questo sconsigliato agli organi superiori di farlo diventare magistrato), ai regali della Mercedes e dei prestiti erogati dall’imprenditore Garini, ai regali inviati sotto forma di prestiti al suo amico Rea (che ha fatto assumere come comandante dei vigili dal sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, considerato suo amico, poi fatto inquisire), alle consulenze procurate alla moglie da alcuni Ministeri dove lui era collaboratore, alla consulenza milionaria affidata al giudice di Brescia che non aveva dato il consenso a processare Di Pietro, fino ad aver lasciato sola e senza documentazione la collega Tiziana Parenti nelle famose indagini sulle “tangenti rosse”. Per questo era stato ricompensato, poi, con la candidatura nel fortissimo e sicuro collegio comunista del Mugello per l’elezione alla Camera dei Deputati. Ironia della sorte, candidato in un collegio comunista, Di Pietro era, in realtà, di idee neo fasciste, sospettato, oltretutto, di essere uomo di particolari settori dei servizi segreti italiani ed internazionali (tante sono le dichiarazioni di vari politici in tal senso, ad esempio, più volte vi sono state dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto in proposito). Mirko Tremaglia, autorevole esponente fascista della Repubblica di Salò e neo fascista nel dopoguerra, è sempre stato considerato da Di Pietro il suo “maestro politico”. Un altro magistrato del pool, Piercamillo Davigo, in un’assemblea di cittadini a Vigevano, ripreso dalla tv locale e poi dai giornali nazionali, ha dichiarato che i magistrati di Milano tenevano in galera i politici, anche dopo aver confessato e dopo la scadenza dei termini, con la motivazione che, se li avessero liberati “la gente si sarebbe incazzata”. Altri episodi gravi hanno contrassegnato lo strapotere di diversi magistrati, come quando il procuratore capo della Procura di Milano, Borrelli, ha chiesto pubblicamente al Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, l’incarico di formare un governo di soli magistrati! Oppure quando, in violazione di una precisa legge, ha mandato agenti di polizia a far man bassa delle cassette personali appartenenti ai deputati del Parlamento. Tutte queste infamie ed illegalità venivano osannate dai mass media come operazioni tese alla moralità e alla pulizia!
Più tardi, nell’ottobre 2012, un’inchiesta avviata dalla trasmissione televisiva su Rai Tre “Report”, in merito ai rimborsi elettorali, decretò la morte politica del leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro, accusato di una gestione opaca dei finanziamenti pubblici, in parte utilizzati per l’acquisto di cinquantasei proprietà: case, terreni e casolari agricoli. Da questo momento, il giustizialismo migrò dalla casa di Di Pietro nella casa di Beppe Grillo.
In pratica, i “poteri forti” che avevano sostenuto fino ad allora il principale protagonista di “Mani Pulite”, visto anche il fallimento della lista Di Pietro – Ingroia presentata in occasione delle elezioni politiche, l’hanno abbandonato per appoggiare Matteo Renzi e Beppe Grillo. Così si è completata la progressiva azione anti – politica, attraverso un Pd maggioritario, con a capo Renzi, spostato al centro e, a volte, a destra, (sull’esempio di Macron in Francia che aveva distrutto il socialismo francese) e facendo leva, d’altro lato, su un movimento qualunquista, sguaiato e populista all’opposizione, capeggiato da Beppe Grillo. Nell’ambito dei finanziamenti ad entrambi i due esponenti (almeno in quelli dichiarati e visibili) si trovano somme elargite dalla JP Morgan, un grosso gruppo finanziario americano, cui vennero date le grandi consulenze per la svendita del patrimonio pubblico italiano prima ricordate..
A livello politico, si è arrivati a costituire tre poli contrastanti: centro destra, Pd e Cinque Stelle, cambiando vari governi senza ottenere stabilità ed efficienza. Infine, sono stati chiamati tecnici a presiedere il Governo, com’è avvenuto con Conte e poi con Draghi, vista l’incapacità dimostrata dagli schieramenti politici.
Nonostante le rivelazioni dell’ex magistrato Palamara (vendite delle Procure, lottizzazioni politiche, poteri occulti interni, ecc.), non si riesce a riformare la Magistratura autocratica e i Ministri che hanno tentato di farlo sono stati costretti a dimettersi. Allo stesso modo non va avanti la riforma proposta dall’attuale Ministro Cartabia, è snaturata quotidianamente ad ogni dibattito parlamentare e rischia di scontrarsi anche con l’Unione Europea che l’ha richiesta perentoriamente. Siamo l’unico paese al mondo in cui la Magistratura è un potere autocratico. Recentemente, l’illustre costituzionalista Sabino Cassese ha affermato che la doverosa indipendenza dei magistrati nel loro lavoro d’indagine e di giudizio non può significare in alcun modo autogoverno della stessa Magistratura, alterando così l’equilibrio dei poteri. L’autogoverno è chiaramente anticostituzionale e nocivo per i cittadini. Ma ancora oggi molti non lo vogliono capire.
Mani Pulite: libro di Facci svela retroscena su avviso Berlusconi tra tradimenti e spie. Redazione l'8 aprile 2022 su lasicilia.it.
Tradimenti, intrighi e falsi miti. Nel libro 'La guerra dei trent'anni' (Marsilio editore) il giornalista Filippo Facci ricostruisce il periodo che dall'inizio di Mani Pulite arriva ai giorni nostri e lo fa intrecciando cronaca e ricordi personali, indagine giornalistica e psicologica, restituendo - pagina dopo pagina - una storia su cui si accende ancora oggi lo scontro politico e storiografico. Lo sguardo dell'allora giovane cronista restituisce un quadro dove protagonisti e comprimari si mescolano, insospettabili derive prendono forma rimuovendo ogni patina di ipocrisia e aneddoti segreti travalicano i corridoi della procura di Milano dove l'inchiesta Tangentopoli ha preso vita.
E tra gli episodi più curiosi c'è quello del 21 novembre 1992 che riguarda l'invito a comparire a carico di Silvio Berlusconi, una convocazione che finì sulle pagine del Corriere della Sera prima che nelle mani del diretto interessato. "A scriverlo materialmente (l'avviso, ndr) fu Di Pietro. Era composto da quattro pagine: la prima conteneva il nome di Berlusconi e due capi d'imputazione legati a presunte tangenti legate a Mediolanum e Mondadori, mentre nelle altre tre il Cavaliere era accusato per tre tangenti alla guardia di finanza legate a delle verifiche nelle società Videotime, e ancora Mediolanum e Mondadori. Il dettaglio è importante, perché la fuga di notizie riguarderà solo una pagina: la prima". Movimenti e presenze 'estranee' mettono in allarme i cronisti che seguono la cronaca giudiziaria e che del quarto piano conoscono ogni centimetro.
"In procura, in realtà, un solo giornalista aveva già saputo con certezza che l'invito a comparire per Berlusconi era stato firmato: Paolo Foschini di 'Avvenire'. Lui e soltanto lui. Non sapeva che la busta gialla era pure già partita verso il destinatario, ma per quel tipo di provvedimento era da darsi per scontato. (...) Più tardi, alla macchinetta del caffè, Davigo incontrò ancora Di Feo assieme a Foschini e Cristina Bassetto, la mia amica ex dell'Avanti! che era passata all'agenzia Adnkronos. (...) Con i soli sospetti, però, non ci facevi niente. E neanche con una notizia certa ma priva di una pezza d'appoggio: Paolo Foschini sapeva che per scrivere gli occorreva ben altro, e tanto più su un quotidiano particolare come il suo".
E così chi aveva lo scoop tra le mani tentò "un azzardo, nella consapevolezza che la notizia che aveva non avrebbe potuto scriverla da solo su 'Avvenire'. Gli serviva una spalla. E robusta. Prese da parte Di Feo (Gianluca, giornalista del Corriere, ndr) e gli rivelò che Berlusconi era indagato e che ne era proprio certo, e che forse loro due, alleandosi, avrebbero potuto trovare i riscontri necessari per poter scrivere che un presidente del Consiglio era nelle spire di Mani pulite". La storia andò diversamente e la notizia - verificata anche da Goffredo Buccini, altro cronista del Corriere della Sera - fu scritta solo dal quotidiano di via Solferino con un titolo a sei colonne 'Milano, indagato Berlusconi'. Nell'articolo si citavano solo due soli capi d'imputazione, quelli contenuti nella prima pagina del provvedimento.
Facci, nel suo libro edito da Marsilio, riparte dai fatti. "La notizia fu scoperta da Paolo Foschini, non dal 'Corriere', che altrimenti non avrebbe cercato conferme di alcunché. Foschini fu sostanzialmente tradito dall'amico Di Feo e le 'conferme' alla fine furono un foglio passato da una femmina (che lavorava in procura, ndr) non estranea ai propri sentimenti che fornì una sola fotocopia su quattro; una chiamata di Buccini a Borrelli alle 21, con il procuratore che 'mi attacca praticamente il telefono in faccia ma non smentisce chiaramente', (...) poi un'altra chiamata di Buccini a Davigo che smentì ancora più chiaramente, le infruttuose telefonate di Di Feo a vari carabinieri che fornirono 'smentite non convincenti' (...)". La prima pagina autentica del Corriere non fu mandata ai tg per le rassegne stampa e non ci fu la distribuzione serale nelle edicole di Milano e Roma.
"Ci sarà chi sosterrà che Mieli (l'allora direttore, ndr) stesse solo inscenando una delle sue migliori commedie e che fosse già ampiamente al corrente del Berlusconi indagato - continua Facci - . Da giorni. Leggenda voleva che a informarlo fosse stato il Quirinale: altrimenti, nello sparare una notizia del genere, non si sarebbe accontentato di pezze d'appoggio così scarse. Leggenda voleva che Scalfaro, perciò, sapesse da ancora prima, ma le leggende sono troppe". Diversi cronisti credono ancora oggi che Foschini venne poi assunto al 'Corriere della Sera' "in segno di risarcimento per l'ingiustizia patita. Niente porta a crederlo. Anzitutto, con l'amico Pezzini, passò più di due anni a rifilare quanti più dispiaceri professionali possibili alla blasonata concorrenza", si ricorda nel libro. Sarà assunto solo nel 1997, Foschini si ritrovò tutti i giorni al fianco Di Feo.
Messo alla gogna e perseguitato da De Pasquale. Addio all’assessore Colucci, inseguito con le manette in ospedale e fatto sfilare in barella davanti alle telecamere. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Giugno 2022.
Mentre ricordavamo, con l’articolo della sua compagna Francesca, “L’inutile martirio di Enzo”, diventato il simbolo della cattiva giustizia, ci lasciava a Milano Michele Colucci, grande socialista e pure lui diventato simbolo di quel che abbiamo scritto quel giorno: “L’Italia è ancora in mano ai signori della gogna”. Fu la gogna più violenta e disumana – mai si era visto e in seguito si vedrà qualcosa di simile – quella che colpì Michele Colucci quella notte del 1992. Mi piace ricordarlo però prima di tutto per come era, il brindisino Michele, il socialista generoso e per bene, appassionato di pesca come il fratello Ciccio (che fu anche presidente della Federazione Italiana pescatori), approdato a Milano negli anni sessanta, descritto oggi in un’immagine firmata “Gli amici e i parenti” della sua Puglia come il compagno che “Ti ascoltava con interesse sincero e partecipato e ti dimostrava, senza ombra di dubbio, che ti aveva compreso in ogni tua emozione, in ogni tuo bisogno”.
Pronto ad aiutare tutti, come lo ricorda anche Serafino Generoso, che condivise con lui le ingiustizie dei primi anni novanta (due volte arrestato, due volte assolto). Così erano i politici di un tempo. Immagino ne abbia un ricordo diverso il pubblico ministero Fabio De Pasquale, e anche gli uomini della Guardia di Finanza che lo inseguirono con le manette di ospedale in ospedale, mentre era stato appena operato e poi mentre era collassato, fino a farlo sfilare in barella davanti alle telecamere, mentre giornalisti assatanati cercavano gli infilargli il microfono tra le labbra e le cannucce dell’ossigeno. Fu la Grande Gogna della giustizia ma anche dell’informazione, quella notte. Non piacque neanche al procuratore Saverio Borrelli, che se ne lamentò. Dobbiamo aggiungere che, a trent’anni da quei fatti, non c’è traccia di condanne? Inutile.
Michele Colucci era stato assessore ai servizi sociali e in seguito capogruppo del Psi alla Regione Lombardia, che sarà l’ultima governata da un pentapartito. Il Presidente era un democristiano, come tutti i suoi predecessori, Giuseppe Giovenzana. Siamo nel maggio 1992, sono i primi mesi delle inchieste dopo l’arresto di Mario Chiesa, Tonino di Pietro già spopola sui giornali e tv, quando un altro pm milanese, Fabio De Pasquale, che non è interno al pool, ma come la gran parte dei colleghi è uomo di sinistra e altrettanto attivo, apre un’inchiesta su corsi di formazione professionale finanziati dalla Regione Lombardia con fondi della Comunità economica Europea. Nel mirino c’è l’assessore della partita, Michele Colucci, ma le indagini si sviluppano subito ad ampio spettro, fino a coinvolgere tutta la giunta e altri, 48 persone in tutto. Secondo l’accusa qualcuno aveva fatto un affare da 200 miliardi di lire, mentre Giovenzana e i suoi colleghi di giunta avevano addirittura cambiato le carte in tavola, modificando in corso d’opera il contenuto della delibera sull’uso dei finanziamenti, in seguito a un accordo politico con Colucci. Il quale era accusato di aver gestito i soldi senza mai fare i corsi.
Per la cronaca: tutti gli assessori assolti sette anni dopo. Naturalmente intanto la giunta era caduta. Seguirà il primo governo regionale rosso-verde. Il pm De Pasquale e il gip inizialmente mandano Colucci, convalescente da un’operazione, ai domiciliari in una sua casa della campagna pavese. Ma poi lo vogliono in carcere. Evidentemente non erano stati sufficienti gli striscioni e i volantini che lo bollavano come “ladro” con cui era stato accolto al paese, era ora di preparare la “Grande Gogna”. Davanti a una piccola folla urlante (allora erano i leghisti a svolgere il ruolo che sarà poi dei grillini), una notte quattordici agenti con mitragliette spianate avevano fatto irruzione nella villetta di Colucci e lo avevano prelevato per portarlo nella caserma milanese di via Fabio Filzi, dove lo aspettavano i magistrati per interrogarlo.
Ricordare le scene di quella sera fa male al cuore. L’esibizionismo degli agenti che arrivavano alla caserma a sirene spiegate portando con sé i candidati al carcere e, pur potendo entrare in auto dal passo carraio, preferivano fermarsi davanti all’ingresso principale per far sfilare a piedi ogni indagato davanti ai giornalisti. Michele Colucci non si regge, lo trascinano tenendolo sotto le ascelle due agenti. Entra e crolla a terra, collassato. Uscirà dalla caserma per salire in ambulanza, ma ancora sfilando in barella, mentre i giornalisti gli si accalcano intorno, cercano di farlo parlare, ignorando il suo pallore e la somministrazione dell’ossigeno. È stata, quella notte, forse la più brutta pagina di tutta Tangentopoli, dal punto di vista dell’informazione e della giustizia. “Chi vive per gli altri vive per sempre”, hanno scritto i familiari nel necrologio. Ricordiamolo così.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 30 maggio 2022.
Questa la non ricordavate: ma accadde lo stesso, e proprio il 28/29 maggio di trent' anni fa, collateralmente all'inchiesta Mani Pulite. Sì, perché il pm Fabio De Pasquale non faceva parte del Pool dei magistrati: non ce lo volevano.
Lui e Antonio Di Pietro, poi, erano cane e gatto: nel tardo settembre 1993 un litigio furibondo tra i due risuonò per i corridoi dopo che un latitante, sbarcato a Linate, si era consegnato a Di Pietro nonostante fosse ricercato proprio da De Pasquale; volarono urla, al pm più famoso d'Italia furono ricordate certe sue ambigue frequentazioni e la sua futura moglie, Susanna Mazzoleni, denunciò che un capitano che collaborava con De Pasquale le aveva rivolto insinuanti domande sulle frequentazioni di Di Pietro.
De Pasquale non nascose mai la sua fede di sinistra («il capitalismo è una cosa sporca», disse al Giornale) e sicuramente non ricordate che per l'inchiesta sui fondi neri Assolombarda (1992-93) l'intero Parlamento, sinistre e forcaioli compresi, respinse le richieste di autorizzazione a procedere chieste da De Pasquale per Altissimo e Sterpa (liberali) e per Del Pennino e Pellicanò (repubblicani) perché il loro intento fu giudicato «persecutorio» da tutto l'arco costituzionale.
Voi ricordate un'altra cosa: il caso di Gabriele Cagliari, quando lui promise la scarcerazione al detenuto e manager dell'Eni («Lei me l'ha messo in culo, io devo liberarla») ma poi cambiò idea senza neppure avvertire le difese e se ne andò in vacanza in Sicilia, e seguì suicidio. Ma questo deve ancora succedere. Dal raccapricciante episodio di quel fine maggio 1992, tuttavia, prese le distanze anche il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli.
I FALSI CORSI CEE
L'odissea del 60enne Michele Colucci era cominciata il 4 maggio: la notizia del suo arresto l'aveva colto alla clinica Città di Milano dove l'avevano appena operato alla prostata: accusato di presunti «falsi corsi Cee» organizzati dalla Regione Lombardia, la sua convalescenza avrebbe dovuto seguire un certo decorso ospedaliero, ma De Pasquale non fu dello stesso avviso: ordinò che la degenza fosse interrotta e che entro il 14 del mese il detenuto fosse trasferito «in confino» nella sua abitazione di Ruino (provincia di Pavia) agli arresti domiciliari con obbligo di firma.
Il confino (ex articolo 283) era una soluzione di norma adottata per i mafiosi. All'arrivo a Ruino trovò un nugolo di giornalisti e degli striscioni che lo bollavano come «ladro», mentre la strada era tappezzata da volantini della Lega stampati col refrain «Benvenuto Colucci, ladro».
In questo scenario si giunse alla sera del 28 maggio, giorno in cui fu improvvisato un «manette show» che costringerà il procuratore Borrelli a prendere dei provvedimenti.
IL MANETTE SHOW
Una telefonata agli avvocati di Colucci, Domenico Contestabile e Dino Bonzano, li avvertì che il loro cliente era stato prelevato da Ruino e lo stavano portando alla sede milanese della Guardia di Finanza di via Fabio Filzi, assieme a un gruppo di altri arrestati. A esser precisi, quattordici agenti avevano fatto irruzione nella casa di Colucci a mitragliette spianate.
Era sera, e fuori dalla caserma si era già formato una sorta di happening dove in trepidante attesa c'erano amici degli arrestati, parenti, ovviamente giornalisti e fotografi e cameramen, curiosi, un vecchio clochard che cantava, il tutto con la via transennata e illuminata a giorno e circolazione di panini e birra.
Un cronista dell'Indipendente, Enrico Nascimbeni, si era portato la chitarra e intonava canzoni di Lucio Battisti. In mezzo alla folla spiccava un signore benvestito che pareva furibondo: era l'avvocato Bonzano, che l'invito allo show aveva ha ricevuto per ultimo: «Ancora una volta nel mirino degli inquirenti sono gli intrecci d'affari tra politici, amministratori e mondo imprenditoriale...», esordiva un comunicato diffuso dalla Guardia di Finanza. Sinché lo spettacolo ebbe a incominciare.
IL COLLASSO
Di lontano s'intravidero le auto delle Fiamme Gialle che fecero la loro parte: rallentarono a una cinquantina di metri dal bivacco di gente, per dar modo alla stampa di prepararsi, e poi ripartirono a sirene spiegate senza neppure passare - come sarebbe stato normale - dal passo carraio, ma bloccandosi davanti alle scalinate dell'ingresso pedonale così che gli arrestati fossero costretti a sfilare uno ad uno: per i giornalisti, una manna.
E fu subito ressa: flash, spintoni, risse tra parenti e fotografi, le telecamere che scivolarono fin dentro la caserma, sin quando da un auto ecco scendere anche il Michele Colucci prelevato a Ruino, malfermo sulle gambe e trascinato a braccia nella calca. Dopo quel trambusto, una volta dentro, durante le operazioni di identificazione, Colucci crollò a terra secco.
Chiamarono un cardiologo, che diagnosticò un edema polmonare e dispose l'immediato ricovero. I finanzieri, imbarazzati, optarono per infermeria di San Vittore.
Pochi minuti dopo ancora sirene, ma era solo l'ambulanza che era venuta a prendere Colucci: ma neanche quella fu fatta passare dall'ingresso carraio, e Colucci a sua volta venne fatto ripassare in barella tra le forche caudine dei giornalisti.
LA BARELLA E LE TV
La ressa si strinse attorno a un corpo che venne fatto sfilare in barella coperto da un sudario e privo di sensi, e un cronista della Fininvest alzò addirittura il lenzuolo che copriva il volto per facilitare le riprese e demenzialmente infilò il microfono davanti alla maschera dell'ossigeno. Le immagini sarebbero state trasmesse l'indomani.
«Tutto il regime in manette» titolerà L'Indipendente: su una macrofoto, raffigurante Colucci trascinato da due agenti, la scritta «Il vero volto dei partiti»; Avvenire - il giornale dei vescovi- pubblicherà direttamente le foto segnaletiche; il quotidiano pomeridiano La Notte proporrà un paginone di sole foto con didascalie ragionate.
COME UN MAFIOSO
Fabio de Pasquale dispose che Colucci non dovesse incontrare nessuno per sette giorni. Neppure i suoi legali. La salute di Colucci, tra continui interrogatori e trasferimenti dal carcere al Tribunale sempre ammanettato- non farà che peggiorare sinché i medici saranno costretti a disporne il ricovero in una struttura più attrezzata dell'infermeria del carcere.
Il 7 agosto i termini del trasferimento inclusero le seguenti raccomandazioni: manette dal carcere all'unità dell'ospedale Niguarda; piantonamento giorno e notte da parte di poliziotti in divisa, armati; vietato ricevere visite; il detenuto non può alzarsi dal letto; non può parlare con altri degenti e neanche con le guardie; non può andare in bagno senza l'autorizzazione di quest' ultime.
MANETTE
Nei fatti fu una detenzione, o anche peggio. Una relazione dell'Università di Milano non fu presa in considerazione, anche se spiegava che nel cranio di Colucci c'erano due ematomi che rischiavano, muovendosi, di schiacciare un'altra parte del cervello. Il 20 settembre Daniela Colucci, giornalista Rai e figlia di Michele, lanciò un appello: «In tutta la mia vita non avevo mai visto piangere mio padre, mentre da quattro mesi non l'ho più visto sorridere. Mi chiedo a cosa possa servire l'eventuale risarcimento quando questa detenzione mette a rischio il bene insopprimibile della vita. I mali che stanno distruggendo mio padre sono veri e dimostrati... Non chiediamo nient' altro se non la possibilità di salvarlo».
Sempre agli arresti, mesi dopo giunse finalmente la data di un cosiddetto incidente probatorio che in Tribunale doveva far luce sulle reali condizioni di Colucci. Durò sette ore. De Pasquale sostenne con durezza che l'anziano socialista doveva tornare a San Vittore a basta. Il gip Fabio Paparella invece ritenne che le perizie non fossero acqua fresca e autorizzò perlomeno gli arresti domiciliari col permesso d'incontrare i conviventi: moglie e fratello.
La figlia, Daniela, ottenne il permesso di vederlo solo in dicembre. Alla madre residente in Puglia, ottantaseienne, venne concesso un permesso d'eccezione: telefonare.
Inquisito anche per violazione del finanziamento pubblico dei partiti, il 28 ottobre scaddero i sei mesi di carcerazione preventiva ma gliene rifilarono altri tre, in quanto- sostennero - poteva inquinare le prove. Non da solo, probabilmente: per alzarsi abbisognava di robusti infermieri.
BUCO NELL'ACQUA
L'inchiesta sui falsi corsi Cee coinvolse in tutto 48 persone, ma undici mesi di indagine porteranno a escludere la responsabilità di 20 degli indagati iniziali: archiviazione. Il 28 gennaio 1999 la settima sezione del Tribunale assolse trentatré posizioni, tra le quali quelle dell'ex presidente regionale Giuseppe Giovenzana e gli ex assessori Giuseppe Adamoli, Claudio Bonfanti, Francesco Rivolta, Ugo Finetti, Maurizio Ricotti e Pietro Sarolli.
Assolto anche Serafino Generoso, ex assessore che, nel caso, raggiunse l'assoluzione numero quattro su quattro processi. Risulta che la posizione di Colucci per i reati di finanziamento illecito dei partiti sia stata stralciata per motivi di salute, e che sia finita in niente. Risulta che, per i corsi Cee, Michele Colucci sia stato assolto in Cassazione. E non abbiamo citato il caso del regista Giorgio Strehler, accusato di truffa e malversazione e assolto con formula piena l'anno prima di morire.
Quei "metodi" della magistratura milanese che in 30 anni sono entrati nel sistema giudiziario all’italiana. Huffpost Italia su huffingtonpost.it. l'08 Aprile 2022
Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci: La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria.
Huffpost ha riassunto alcune corpose parti del libro di Filippo Facci (La guerra dei trent’anni, Marsilio, appena arrivato in libreria) che si addentrano in certi «metodi» della magistratura milanese e che, dal 1992 in poi, sono in parte rimasti prassi del sistema giudiziario all’italiana. Una «rivoluzione» o una lotta tra poteri dello Stato – è una delle la tesi del volume di 750 pagine, ampiamente documentato – che non diede vita a una seconda Repubblica, ma fu un pezzo di prima Repubblica scappato di mano, qualcosa che gli italiani decisero di fermare quando fu chiaro che le inchieste avrebbero smascherato anche loro, o meglio, quando fu chiaro che non si poteva processare un sistema mentre era ancora vivo e che non si poteva fare un’autopsia su un corpo che ancora respirava.
Forse non esisteva – non esiste – un carcere a tutt’oggi piazzato ancora così vicino al centro di una città, anzi, nel centro di una città, una vetusta e a suo modo bella struttura all’americana con sei bracci a stella, i «raggi» sovraffollati da centocinquant’anni, in un’area dove tutti dicono che costruiranno qualsiasi cosa, ma poi non succede mai niente: San Vittore, sempre lì, imperiale, incurante delle velleitarie modernità di Opera e Bollate. Chiesa era al sesto raggio, dove spesso mettevano chi non era il caso di scaraventare subito nella mischia: qualche tossico, transessuale, parente di pentiti, gente accusata di aver violentato donne e bambini, e che la comunità galeotta non accettava. C’erano loro, e c’era Mario Chiesa, arrestato il 17 febbraio 1992: un politico, che cosa strana. Neanche un anno dopo la composizione del sesto raggio però sarà la seguente: cella numero 1: Enzo Carra, portavoce della Democrazia cristiana, in compagnia di un camionista accusato di associazione mafiosa; cella numero 2: Salvatore Ligresti, imprenditore; cella numero 3: Francesco Paolo Mattioli, manager della Fiat; cella numero 4: Clelio Darida, democristiano, ex ministro della Giustizia, in compagnia di Claudio Restelli, ex segretario del ministro della Giustizia Claudio Martelli; cella numero 5: Claudio Dini, socialista, ex presidente della Metropolitana milanese; cella numero 6: Franco Nobili, ex presidente dell’Iri (Istituto ricostruzione industriale), in compagnia di Serafino Generoso, democristiano, ex assessore regionale della Lombardia; cella numero 7: Giorgio Casadei, ex segretario e assistente del ministro socialista Gianni De Michelis, in compagnia di Angelo Jacorossi, imprenditore; cella numero 8: Claudio Bonfanti, ex assessore della Regione Lombardia16. A occhio e croce, almeno sei di loro saranno prosciolti o assolti con formula piena. A occhio e croce, oggi, nessuno finirebbe in carcere preventivo per il tipo di accuse che si portavano appresso. A occhio e croce, Mario Chiesa sarebbe stato l’unico politico in galera.
Gli imprenditori, invece, confessavano qualcosa e niente galera, anzi, immediato sblocco dei conti bancari. Coadiuvato dai suoi legali Stella e Dinoia, l’imprenditore Fabrizio Garampelli proseguì la sua attività di infiltrato e convocò una riunione ri- servata con i suoi colleghi costruttori per delle tangenti sugli appalti ospedalieri. Segnarono tutto su un foglietto. Il giorno dopo, Garampelli lo portò a Di Pietro.
Mario Chiesa decise di parlare alle ore 10 di lunedì 23 marzo 1992 e chiuderà il suo verbale il 27, dopo aver tirato in ballo socialisti e democristiani di rango elevato ma non elevatissimo. Era politicamente finito, non aveva più un lavoro né una moglie; suo figlio non gli scriveva da un mese e la sua nuova compagna era incinta da sette: parlò essenzialmente per questo. Ammise versamenti a vari big politici, e sin dal primo interrogatorio fece la sua comparsa un tizio basso con la barbetta mai notato prima: il gip (giudice delle indagini preliminari) Italo Ghitti, il malriuscito «giudice terzo» che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà «Nano ghiacciato», benché bramoso di una porzioncina di celebrità tra i più sanguigni colleghi del pool. Tenterà di ritagliarsi l’autonomia che le procedure gli assegnavano (è il gip ad autorizzare gli arresti chiesti dall’accu- sa), ma ogni volta saranno rondini che non faranno primavera: si opporrà, per dire, agli arresti di quattro consiglieri dell’Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della Torno Costruzioni Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jürgen Ferling, del socialista Loris Zaffra: ma la mancanza di terzietà di un intero paese, oltre ai ricorsi dei pm e alla duttilità della giurisprudenza, lo ricaccerà in un ruolo da comprimario. Con un Codice stravolto dalla prassi, mai completato con una necessaria separazione delle carriere (giudici e pm) e con la fine di quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale», la figura del gip diverrà e resterà quella di un vidimatore delle carte dell’accusa.
Sulla funzione pressoché unica del gip Italo Ghitti, giusto trent’anni dopo, si è espresso in maniera eloquente Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su piazza Fontana, caso Parmalat e Abu Omar, tra varie altre. Salvini fu uno dei pochissimi a non aver mai aderito ad alcuna corrente organizzata della magistratura e passò quegli anni proprio all’ufficio gip:
«Posso narrarlo in prima persona... Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni di quell’indagine rivolta pressoché all’intero mondo politico e imprenditoriale... L’ufficio gip in quel momento era un passaggio decisivo perché era chiamato ad accogliere o respingere la richiesta di cattura presentate dal Pool e poi le istanze di scarcerazione o di arresti domiciliari, un meccanismo da cui in pratica dipendeva il funzionamento e lo sviluppo di quell’inchiesta «sistemica». Era co- modo per la Procura avere un unico gip già sperimentato, per alcuni già direzionato, e non doversi confrontare con una varietà di posizioni e di scelte che potevano incontrare all’interno dell’ufficio gip, formato da una ventina di magistrati. Andava evitata e prevenuta una possibile variabilità di decisioni dei giudici che potesse in qualche modo crea- re difficoltà alle indagini o comunque costringere chi le conduceva a confrontarsi con punti di vista diversi. Così il Pool escogitò un semplice ma efficace trucco, costituendo, a partire dall’arresto di Mario Chiesa, un fascicolo che in realtà non era tale ma era un «registro» che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conosce- vano tra loro e vicende tra loro completamente diverse, unificate solo dall’essere gestite dal Pool. Il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Invece le regole, nella sostanza, volevano che a ogni notizia di reato fosse attribuito un numero e a ogni numero seguisse la competenza di un gip non individuabile priori. Ma questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell’unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del Pool... I principi dell’Ufficio furono quindi sovvertiti radicalmente e non si trattava di regole puramente organizzative, ma dovevano presiedere al principio del giudice naturale e cioè che il giudice fosse del tutto indipendente e non fosse scelto da altri, soprattutto non dalla Procura. Ci fu anche un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per «sbaglio»... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92. Nel giro di pochi giorni, prima ancora che potessi decidere su al- cune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto senza tanti complimenti e passò al gip Ghitti, evitando così che non solo io, ma che qualsiasi altro gip dell’ufficio interferisse nella macchina di Mani puli- te. Questa abnormità fu più che tollerata, e tollerata forse è dir poco, dai capi dell’ufficio gip. Feci loro notare con una nota documentata la situazione del tutto illegittima che si era creata. Le mie osservazioni furono semplicemente cestinate. Non era il tempo di seguire le strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream».
La testimonianza dell’ex gip Guido Salvini non attesta solo che l’inchiesta Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, fondamento della civiltà giuridica e pilastro della parità tra accusa e difesa. È interessante anche perché permette di retrodatare la decisione della procura di direzionarsi preliminarmente verso una «rivoluzione» che i magistrati di Mani pulite, in interviste e testimonianze, hanno invece sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava. Nel febbraio-marzo 1992, quando Ghitti diviene l’anomalo gip unico e il riferimento di ogni indagine sulle tangenti, si era ancora lontani dalle successive elezioni «terremoto» del 5 aprile 1992, che pure registreranno una sostanziale tenuta dei partiti; mentre è prossimo, invece, l’affiancamento all’inaf- fidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. In altre parole, l’inchiesta Mani pulite co- minciò a correre da sola con le sue anomalie e progressive forza- ture delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare che le permetterà addirittura di volare.
Detto questo, nel tentativo di trarre un bilancio da Mani pulite, neppure i numeri possono dirci molto. Le statistiche nascondono colpevoli che erano innocenti, innocenti che erano colpevoli e gente di passaggio che non era niente; diversamente da chi, invece, era tutto, ma in quegli anni scelse di rimanere in tribuna a scommettere su chi avrebbe vinto, senza capire chi avrebbe perduto in ogni caso: lui, anche lui. Ora però interessano le condizioni del campo a fine stagione, interessa chiederci se la stagione sia mai finita e quale ne sia seguita: più del bilancio numerico, importa capire come sia stato ottenuto, che prezzo abbia comportato, che cosa abbia lasciato dietro di sé. Importa meno, pur lasciando sgomenti, che degli 88 parlamentari eletti nel 1992 – destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure –, i prosciolti o gli assolti furono 61. Importa pure meno, anche se lascia atterriti, l’alto numero di suicidi che si concentrò proprio in quei tre anni. È più interessante notare, fermandoci all’inchiesta milanese, l’alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero, come spiegato, colpevoli che la sfangarono con poco, ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera; su 3.200 persone di cui la Procura di Milano chiese il giudizio, 1.300 sono risultate colpevoli, anche se il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento – molti non l’hanno ancora capito – è un accordo tra accusa e difesa che implica un’ammissione di colpevolezza da parte dell’indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia.
La cancellazione dell’articolo 513 tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini) nel periodo di Mani pulite portò a molte sentenze basate sulla resistenza in carcere o su un malinteso diritto al silenzio, recepito come negazione di una sorta di «pentitismo coatto». Anche qui: molti incolpevoli ne fecero le spese, molti colpevoli la fecero franca, e molti processi sbagliati furono dirottati altrove per non rovinare le statistiche dell’inchiesta. Il pool, pur abituato a dettar legge in fatto di competenza territoriale, trasmise ad altre procure ben 1.320 posizioni: sarebbe interessante conoscerne i destini processuali, visto che molti casi, anche celebri, hanno registrato assoluzioni o prosciogli- menti che sfuggono alle statistiche meneghine. Tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, a Milano, comunque, si arriva a circa il 46 per cento delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che al Palazzo di giustizia non avrebbero neppure dovuto entrare, e sono quasi la metà.
Moltissime però ci entrarono, e da lì traslocarono direttamente al gabbio (a San Vittore chi non «parlava», a Opera i più collaborativi), anche a seconda del reato contestato. La prassi di Mani pulite tendeva a ipotizzare reati sempre i più gravi possibile, così da giustificare ogni volta la carcerazione preventiva, anche se, in certe fasi calde, per far scattare le manette bastava- no ipotesi di violazioni amministrative come il finanziamento il- lecito dei partiti o talvolta l’abuso d’ufficio. Moltissimi dei 1.230 condannati di Mani pulite hanno subito carcerazioni preventive a dispetto di condanne poi risultate inferiori ai due o tre anni; tutte persone che non sono mai andate in carcere, anche se gli arresti complessivi, durante le indagini preliminari, hanno superato quota 900. Da qui l’abitudine di sostenere che per Mani pulite di vere condanne al carcere non ce ne sono quasi state (si menzionano sempre le eccezioni di Sergio Cusani e Walter Armanini), anche se la regola procedurale, in teoria, sarebbe chiara: se è presumibile che tizio sarà condannato a meno di due anni, non lo si dovrebbe mandare in carcere preventivo; la regola implica, ovviamente, la capacità «prognostica» di saper prevedere a quanti anni tizio sarà probabilmente condannato, e tra i compiti del magistrato vi è appunto cercare di presumerlo. Diciamo, allora, che a Milano hanno sempre presunto molto male. Antonio Di Pietro in questo si era dimostrato maestro sin dai tempi del suo esordio da magistrato, a Bergamo: ipotizzare reati gravissimi e sbattere tizio immediatamente in galera, per- ché tanto, per derubricare un reato, ossia per cambiare imputa- zione al ribasso, c’era sempre tempo.
Se dei numeri importa poco, neppure per un istante si vuole però occhieggiare al «tutti colpevoli, nessun colpevole», e nep- pure al «tutti colpevoli» e basta: nella pratica, c’era un intero paese di colpevoli in un sistema disinvoltamente colpevole che fu corrivamente rastrellato con metodi colpevoli, metodi che la giustizia di uno Stato di diritto non dovrebbe permettersi mai, non in tempi normali e neppure in tempi rivoluzionari. Qualcuno, ancora oggi, sostiene che certi mezzi fossero gli unici possibili, e si sofferma sui fini, ma furono mezzi imperdonabili, e i fini raggiunti furono desolanti.
Giuliano Spazzali, avvocato di formazione comunista e difensore di Sergio Cusani, ha riassunto a modo suo:
«In quegli anni era in corso una grande trasformazione sociale e politica. Declinavano la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi, il Pli. Il Pci stava cambiando nome e natura. Era nata la Lega, poi arrivò con il suo partito Silvio Berlusconi. Non fu Mani pulite a provocare tutto ciò; Mani pulite fu al massimo l’ostetrica, l’assistente al parto. Mani pulite è cresciuta enormemente tutta sulle confessioni degli indagati: e non è una buona inchiesta, quella che si fonda non sulle indagini, ma sulle confessioni. Era un’inchiesta contenitore da cui erano via via aperti, a piacimento del Trio Lescano [Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, N.d.A.] i vari processi. Si è in gran parte giocata con le confessioni e i patteggiamenti, l’unico vero processo è stato il processo Cusani, con Di Pietro che esibiva mezzi ultramoderni, mai visti prima d’allora in un’aula giudiziaria, come le proiezioni di schemi dal computer. Ma poi concludeva con frasi come «ma che c’azzecca» e conquistava il pubblico tv».
Neanche lo stravolgimento dello Stato di diritto e le procedure inquisitorie decollarono con il voto del 5 aprile 1992, bensì qualche mese dopo: corrisposero a una scommessa che la corporazione togata aveva fatto autonomamente e che solo in seguito fece da abbrivio all’implosione più drammatica della ribellione. Dall’autunno 1992, lo spettatore plaudente di Mani pulite si rese conto che il tenore di vita stava calando per davvero e che la pretesa di abbassare la spesa pubblica era fondata: si fece rivoluzionario quando capì che i sacrifici non avrebbero risparmiato nessuno e che il futuro si preannunciava fosco. A insorgere fu soprattutto la gran parte di popolo evasore e assistito che non aveva mai cementato il proprio consenso attorno a valori civici, e non sappiamo, ora, se dare la colpa alle vicissitudini storiche degli italiani o alle classi dirigenti del dopoguerra. Sappiamo che quelle classi dirigenti, il consenso di quegli italiani, non furono più in grado di comprarlo.
Ne andrebbe dedotto che nel giro di pochi mesi, dai primi mesi del 1992, fosse cambiato qualcosa nella procedura penale o nella giurisprudenza. In genere è con questo argomento che il peggior manipulitista gioca la sua carta più falsa, e lo fa, di passaggio, anche per liquidare la classica e imbarazzante domanda che ai tempi sorse spontanea quando le inchieste si fecero devastanti e gli arresti presero a viaggiare con il pilota automatico. Il quesito è noto: perché la magistratura si era mossa tutta d’un tratto, dopo aver dormito per quasi mezzo secolo? Non è che la precedente inerzia del corpo giudiziario – domanda conseguente – fosse funzionale allo stesso campo di gioco che la magistratura, da giocatrice titolare, era andata improvvisamente a diserbare?
La spiegazione più fallace, ai tempi e in parte a tutt’oggi, fa coincidere la neo intraprendenza della magistratura con l’entrata in vigore del Nuovo Codice di procedura penale, varato il 24 ottobre 1989: è il cosiddetto «Codice Vassalli» (da Giuliano Vassalli, ex ministro della Giustizia, socialista peraltro legato a Bettino Craxi) e cioè un ordinamento che era stato elaborato dallo stesso guardasigilli insieme a una commissione presieduta dal già citato giurista Giandomenico Pisapia, padre dell’avvocato Giuliano, futuro sindaco di Milano. E questa, forse, resta la spiegazione storicamente più falsa tra quelle che hanno attribuito la nascita di Mani pulite a cause meramente tecniche. Anche perché quel Codice, senza timor di smentita, auspicava procedure diametralmente opposte a quelle che le procure imposero con il benestare dei più alti livelli della magistratura: lo stesso Codice, non a caso, fu dapprima osteggiato e contestato dai medesimi magistrati che poi si fecero «rivoluzionari», appunto stravolgendolo e tessendone le lodi. Sin dai primi anni novanta, e basterebbe questo, non si contavano i togati che avevano lanciato grida d’allarme contro una codificazione che ritenevano troppo garantista: lo stesso procuratore generale della Cassazione, Vittorio Sgroi, ossia il primo magistrato italiano, all’inaugurazione dell’anno giudiziario 1992, due mesi prima dall’inizio di Mani pulite, definirà le nuove norme addirittura come «ipergarantiste». Dello stesso tenore le relazioni dei procuratori generali delle Corti d’appello. E allora che cos’era successo?
Non serve essere giuristi per capirlo: i principi del Nuovo Codice furono letteralmente rovesciati. Partorito faticosamente come ibridazione tra il sistema inquisitorio e accusatorio, ossia tra la vecchia normativa fascista del 1930 e il diritto di matrice anglosassone, questo rinnovato ordinamento, nelle intenzioni, si proponeva di raggiungere una pari dignità giuridica tra accusa e difesa, una totale segretezza delle indagini e, viceversa, una totale pubblicità del successivo processo, ma soprattutto auspicava che la riproposizione e la formazione delle prove (comprese le confessioni e le testimonianze) avessero luogo rigorosamente nell’aula dello stesso processo, altrimenti non avrebbero avuto valore. Non ultima, e peraltro notissima, infine, fu la sostituzione del carcere preventivo con una «custodia cautelare» da adottarsi come «extrema ratio», intesa come rimedio eccezionale, ultima possibile soluzione dopo aver tentato invano ogni altra via.
Quello che varò un Codice tanto ambizioso, o forse pretenzioso, era un paese ancora scottato dal caso di Enzo Tortora e in sostanza cercò d’inventarsi ciò che non esiste, e forse non può esistere: un sistema misto tra il sistema all’italiana e quello anglosassone; perciò non introdusse la separazione delle carriere tra pubblica accusa e giudici (le due figure fanno lo stesso concorso, seguono lo stesso percorso formativo, passano da un ruolo all’altro e spesso sono vicini di pianerottolo) e neppure abolì quell’ipocrisia chiamata «obbligatorietà dell’azione penale» (che non esiste, perché i pm mandano avanti solo i procedimenti che a loro interessano), anche perché l’introduzione di questi due pilastri del processo accusatorio avrebbe reso necessario un cambiamento delle norme costituzionali. Morale: sappiamo com’è andata, e sappiamo, in buona parte, come va ancora oggi.
Ha scritto la fondatrice del «manifesto» Rossana Rossanda:
«Certi pm vogliono abbattere quel tanto di democratizzazione che nel dopoguerra si era raggiunto con il nuovo Codice e consisteva nell’imporre un tempo ragionevole fra rinvio a giudizio e processo per non fare già del processo la pena, nello spostare l’accento sul di- battimento orale, cioè pubblico, anziché sull’inchiesta delle procure».
Ha chiosato l’ex magistrato Carlo Nordio:
«L’Italia si è data un Codice alla Perry Mason, cioè accusatorio di tipo anglosassone, ma non può goderne gli effetti a causa di una Costituzione di tipo fascista... la nostra Costituzione, nata dalla lotta contro il fascismo, ha inghiottito sano sano il basamento stesso del Codice Penale fascista».
Ha detto l’ex pm Piercamillo Davigo: «Aspettavano Perry Mason. Invece è arrivato Di Pietro».
La pari dignità giuridica tra accusa e difesa è rimasta un sogno, ma, soprattutto, la custodia cautelare è stata dispensata come regola anche a fronte di reati (presunti) che non prevede- vano il carcere neppure in caso di condanna. I magistrati milanesi, con una giurisprudenza tutta loro, inquadrarono ogni reato (presunto) come affiliazione a un sistema, e, per prolungare a piacimento le carcerazioni preventive di chi non confessava (o meglio non confessava ciò che volevano loro) era sufficiente che dimostrassero come l’indagato avesse fatto parte di questo sistema. Chi denunciava altri, invece, poteva essere liberato perché ritenuto inaffidabile agli occhi dello stesso sistema. Il segreto istruttorio, poi, sempre per interpretazione della magistratura, divenne una barzelletta buona per sputtanare determinati soggetti (e non altri) i quali, per evitare l’arresto, pellegrinavano in procura dopo aver letto il proprio nome sui giornali.
L’apparente battuta «non incarceriamo la gente per farla parlare, ma la scarceriamo quando parla» divenne la regola dei magistrati milanesi e poi di tutte le procure d’Italia, spiegata in questo modo: solo parlando l’inquisito si rende inaffidabile agli occhi del mondo criminoso cui appartiene, dunque parlan- do svaniscono il pericolo di fuga, di reiterazione del reato e di inquinamento delle prove – ossia i requisiti per cui dovrebbe scattare l’arresto.
Disse il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli: «Ma in fin dei conti, è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».
Disse il procuratore generale di Milano Adolfo Beria di Argentine: «Con il clamore e la tensione collettiva che si sono cre- ati attorno a Mani pulite, oggi l’opinione pubblica accetterebbe anche la tortura per estorcere le confessioni».
L’insistenza sul punto è motivata dal fatto che, a distanza di trent’anni, c’è ancora chi ha il fegato di sostenere che Mani pulite non abusò del carcere preventivo, o non ne fece lo strumento fondamentale delle sue inchieste. Ormai lo ammette anche Piercamillo Davigo:
«Potrei cavarmela dicendo che abbiamo arrestato le persone sem- pre rispettando la legge. Però devo aggiungere che uno strumento essenziale per accertare la corruzione è l’isolamento dei complici. Bisogna allontanare uno dall’altro, impedire la comunicazione. E come si fa? Con la custodia cautelare».
In questo modo, però, l’eventualità che un soggetto non avesse nessun complice da cui isolarsi, e soprattutto alcunché da confessare – dunque non appartenesse ad alcun mondo criminoso – non veniva considerata.
Pochi esempi tra mille. Il brigadiere G.F., per esempio, fu convocato da Antonio Di Pietro il 21 luglio 1994 per l’inchiesta sulla corruzione nella guardia di finanza. Il pm gli contestò delle tangenti pagate da alcune aziende, ma lui negò l’addebito. Il brigadiere allora venne arrestato il giorno dopo, nel perio- do, purtroppo, in cui sua moglie stava rischiando di perdere il figlio in gestazione dopo averne già perso uno l’anno prima. Allora, per dirla con il pool, parlò e venne scarcerato, ma poi, il 6 marzo 1995, in aula, mise a verbale: «Signor Presidente, ho confessato di aver preso soldi durante le verifiche fiscali per uscire dal carcere, ma non è vero niente. Non ho negato quanto mi veniva contestato da Antonio Di Pietro perché dopo cinque giorni di assoluto isolamento nel carcere di Peschiera pensavo che, solo ammettendo, potessi riacquistare la libertà». Risultato: fu inquisito per calunnia. Domanda lecita: e se il brigadiere non avesse parlato, se non avesse – dal suo punto di vista – mentito? Possibile risposta: l’ex colonnello C.C., indagato nella stessa in- chiesta, colpevole o meno che fosse, fu arrestato il 5 luglio 1994 e, senza aver parlato, fu scarcerato il 17 luglio... ma dell’anno successivo, il 1995.
La confessione come unica possibilità per essere scarcerati non fu solo l’indegna sintesi di una più complessa interpreta- zione giurisprudenziale: fu proprio messa nero su bianco. Un altro piccolo esempio. R.T., normalissimo geometra dell’Anas di Milano, venne incarcerato il 1° marzo 1993 con l’accusa di aver favorito un appalto in cambio di una decina di milioni. La richiesta d’arresto era firmata dai pm Antonio Di Pietro, Ghe- rardo Colombo e Piercamillo Davigo, convalidata dal gip Italo Ghitti. Un classico. A leggere le motivazioni veniva da pensare, come si dice, che buttassero via la chiave: «Sussistono gravi in- dizi di colpevolezza...», «per i reati la legge prevede una pena superiore a tre anni», «la legge prevede pene edittali elevate» senza «beneficio della sospensione condizionale». La custodia cautelare era necessaria perché esisteva un concreto pericolo «di inquinamento probatorio», in quanto «l’indagato ha co- stanti legami con pubblici amministratori che possono proce- dere a un’alterazione documentale»; esisteva poi un concreto pericolo «di reiterazione di comportamenti criminosi gravissimi ed analoghi», e i fatti «denotano in modo più che evidente l’inserimento dell’indagato... all’interno di un sistema», sicché «la misura richiesta appare sicuramente idonea ed adeguata... la custodia cautelare è l’unica proporzionata».
Una settimana dopo il gip respinse una richiesta di scarcerazione o concessione degli arresti domiciliari, perché non era an- cora chiaro «il quadro complessivo» ossia «un più vasto ambito che deve essere dettagliatamente delineato». Doveva delinearlo l’incarcerato, forse: e infatti. Cinque giorni dopo, il 12 marzo 1993, cambiò tutto. Le motivazioni addotte dal gip non valevano più, perché R.T. aveva «parlato», assecondando la linea dell’accusa. Il gip Ghitti concesse gli arresti domiciliari, e val la pena di riportare un passo dell’ordinanza:
«Il Giudice per le Indagini preliminari... Rilevato che il pm ha espres- so il proprio parere... Rilevato che all’esito degli ulteriori atti istruttori le esigenze cautelari poste a base del provvedimento restrittivo si sono quanto meno attenuate, sia per quanto concerne il pericolo di inquina- mento probatorio sia per quanto concerne il pericolo di reiterazione di fatti analoghi a quelli per i quali si procede, in quanto l’indagato ha reso dichiarazioni confessorie in ordine ai fatti contestati... »
Il gip lo scrisse testualmente: l’indagato poteva uscire perché «ha reso dichiarazioni confessorie», cioè aveva parlato.
Lo stesso accadde per molti altri, tra cui una segretaria dell’ex ministro Gianni De Michelis, M.C. che venne arrestata il 3 luglio 1993. I magistrati volevano sapere chi, come e per- ché pagava i conti dell’ex ministro. Lei rispose che per l’attività pubblica e istituzionale faceva riferimento all’apposito fondo ministeriale, mentre per le spese personali utilizzava contanti o assegni che le passava direttamente De Michelis. L’indagata però negò l’accusa principale: disse che non aveva mai ricevuto denaro da Giorgio Casadei, segretario particolare del ministro. I magistrati non le credettero. Tra le motivazioni con cui il gip Gioacchino Termini e il pm Rita Ugolini negarono la scarcera-zione, si legge:
«Considerato che il comportamento dell’indagata non è sostanzialmente mutato, giacché le sue ammissioni e i chiarimenti forniti se- guono sempre a specifiche contestazioni... considerato che manca un chiaro segno di resipiscenza e ripensamento sul comportamento reti- cente, contraddittorio e riduttivo, questo giudice, su parere conforme del pm, rigetta l’istanza di scarcerazione».
L’indagata, in altre parole, si era limitata a rispondere alle domande dei magistrati senza raccontare episodi a loro scono- sciuti, ma che ritenevano dovessero probabilmente esistere. È un altro classico di Mani pulite, anche se quest’ultimo episodio capitò a Venezia.
Molteplici sono gli esempi dell’uso della custodia cautelare secondo la prassi di quel periodo, comprendente anche la temuta tecnica dei cosiddetti «arresti a grappolo»: in pratica il malcapitato rimaneva in carcere sin quando, poco prima che scadessero i tre mesi di custodia cautelare (termine massimo), si spiccava un nuovo ordine d’arresto legato a un episodio delittuoso che l’accusa serbava in un cassetto, o che, peggio, era stato lo stesso detenuto a confessare tempo prima: sicché restava dentro altri tre mesi, alla fine dei quali non poteva escludere che gli riservassero lo stesso trattamento.
Per comprendere la più feroce coltellata inflitta al Nuovo Codice è però richiesto un ultimo sforzo. Come detto, la magistratura aveva stravolto e sovrainterpretato il Nuovo Codice di procedura penale varato nel 1989 non avendolo mai gradito: era stato neutralizzato e poi ridestato come un Frankenstein inquisitorio/accusatorio gradito alle toghe ma non alle intenzioni originarie del legislatore. A un Di Pietro usato come ariete, in- fatti, si era affiancata una controlegislazione operata dall’alto: alcune sentenze della Corte costituzionale (n. 255 del 3 giugno 1992) e una legge suicida (la 371, che consentiva l’arresto del testimone colto in flagranza a mentire o reticente di fronte al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria) avevano di fatto ristabilito e rafforzato lo strapotere delle indagini preliminari. Da un paio di lustri, ormai, ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre verbali d’interrogatorio e riversarli meramente in pro- cessi che non contavano più nulla, ridotti a vidimazioni notarili delle carte in mano all’accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalla loro buona o cattiva disposizione, dal- le trattative ossia da quanto l’indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse.
In teoria le prove e le confessioni, per essere avvalorate, dovevano essere riproposte nell’aula del processo: era nel corso del dibattimento, cioè, e non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia, che una testimonianza doveva diventare una prova. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene durante il processo semplicemente non esiste. In pratica nel corso di Mani pulite la procedura fu rovesciata. Ai pubblici ministeri era sufficiente estrarre dal faldone alcuni verbali d’interrogatorio ottenuti in carcere e riversarli nel processo, che a quel punto non contava più nulla, ridotto a vidimazione notarile delle carte in mano all’accusa; se l’imputato o il testimone non ne dava conferma, ossia non ripeteva in aula quanto dichiarato durante le indagini, magari dopo mesi di galera, veniva immediatamente incriminato per calunnia. Un imputato, per capirci, poteva denunciare un altro cittadino, patteggiare una pena simbolica e quindi «uscire» dal processo senza neanche presentarsi in aula, cioè senza mai confrontarsi con la persona che aveva accusato: c’è gente, in Mani pulite, che ha subito condanne senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore. Era sufficiente che l’accusa rileggesse in aula i verbali delle indagini preliminari perché diventassero prove. Tutto questo, ovviamente, non sarebbe potuto accadere senza una controlegislazione operata dall’alto.
Va da sé che a quasi nessun indagato interessava aspettare un processo da celebrarsi chissà quando: gli interessava uscire il prima possibile dalla galera preventiva e veder dissequestrati i conti bancari inaccessibili da mesi alla sua famiglia o alla sua azienda, ergo poter uscire dal procedimento (uscire di scena), colpevole o innocente che si ritenesse. Da qui, a primeggiare nelle statistiche dell’inchiesta, l’altissimo numero di patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati e alle concessioni che l’indagato fosse disposto ad accettare: e le condanne con patteggiamento, in Mani pulite, sono state 847 su 1.254, ottenute, ripetiamo, quando il carcere preventivo era la regola e tutto si esauriva nelle indagini, complice la stampa e le sue storture. Il ricorso al patteggiamento, in altri termini, divenne una scorciatoia pagata a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne del rito ambrosiano; chi non accettava restava ostaggio della macchina giudiziaria, o in molti (moltissimi) casi – se non parlava, e resisteva perché magari non aveva niente da dire – la sua posizione veniva spedita per competenza ad altre procure: è successo in ben 1.320 casi, con percentuali di proscioglimento altissime. Tutta gente non colpevole che però non figura nella casistica ufficiale di Mani pulite, come se a Milano avessero teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria.
Detto questo, esistono espressioni giuridiche complesse che il cittadino pur informato avrà udito più volte pur affrontandole con reverenza: terzietà del giudice, obbligatorietà dell’azione penale, competenza territoriale, responsabilità oggettiva («non poteva non sapere») più molte altre che hanno spesso fatto parte di ordinari dibattiti giurisprudenziali anche interni alla corporazione togata. Si potrebbe dire anche, attorno a questi snodi, che per una breve ma decisiva stagione, vecchi e giovani magistrati, politicizzati o no, arrembanti o defilati, galantuomini o soggetti da sanatorio, tutti insieme superarono ogni contrasto, e l’ultimo scalcinato pretore e il più prestigioso degli ermellini si ritrovarono a remare all’unisono nella stessa dire- zione. A nessun magistrato spiacque veder accrescere il proprio potere corporativo.
Ma non c’è soltanto la maledetta questione del carcere. C’è – e forse gli italiani discussero più che altro di questo – la percezione e la possibilità che un’inchiesta sia condotta bene o male, in tutte le direzioni o solo in alcune, con il necessario approfondimento oppure con imperdonabile sciatteria; insomma: c’è il modus, la discrezionalità esercitata nell’azione giudiziaria; se un’inchiesta fosse una storia, corrisponderebbe alla differenza tra raccontarne una o un’altra, raccontarla tutta o una parte, raccontarla veritiera o inventata: senza che i narratori – i magistrati – siano per forza dolosamente responsabili dei risultati raggiunti o non raggiunti, ma corrispondano talvolta solo ai li- miti buoni o cattivi che le loro scelte hanno comportato.
Può non sembrare chiarissima, messa così. Forse fu più esaustivo il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, intervistato nel 2002:
C’è stata una gestione «politica» dell’inchiesta, nel senso di procedere per gradi, scegliendo gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento?
«Dipende dal significato del termine «politico». Io la paragonerei a certe forme di Blitzkrieg, di «guerra lampo», la tattica tipica degli eserciti germanici... penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio, lasciando ai margini le sacche laterali, le piú difficili da sfondare. Di Pietro agiva allo stesso modo: tendeva ad arrivare rapidamente a risultati certi, lasciando ai margini una quantità di altre vicende da esplorare in un secondo momento. Da questo punto di vista possiamo parlare di «gestione politica»: nel senso di una strategia processuale che, a essere rigorosi, costituisce un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine».
Un primo dubbio sorge spontaneo: le vicende da esplorare «in un secondo momento» furono poi esplorate? Se no, perché? Se sì, quando? Soprattutto, furono esplorate in coincidenza con il celebre sostegno e attenzione dell’opinione pubblica?
Sono domande inutili e che, soprattutto, non vanno certo nella direzione – non sia mai – di rimpolpare le solite accuse di parzialità dei magistrati verso la sinistra, tema che si affronterà più avanti. Sono domande inutili perché, a difesa dei magistrati, va ricordato che trattasi comunque di uomini, e che nessuno, pregiudizi a parte, condurrebbe un’inchiesta nello stesso identico modo di un altro. Anche le prove di eventuali deviazioni, lassismi, approssimazioni e scarsa diligenza – in seno a una magistratura che tende peraltro ad autoproteggersi – comportano, quando va male, violazioni deontologiche da valutare in sede disciplinare.
Il punto, infatti, è molto più grave. Il punto è che il metodo di un’inchiesta rivoluzionaria e già definita «un’innovazione rispetto ai canoni tradizionali di indagine» ha per esempio portato a tralasciare – travisare, non vedere, insomma non «esplorare» – ciò che altre procure scopriranno essere stato il vero epicentro della Tangentopoli nazionale: Pierfrancesco Pacini Battaglia, puerilmente definito dal gip Italo Ghitti «un gradino sotto Dio», un banchiere che per anni, a mezzo di conti esteri e offshore, aveva riempito le casse delle principali forze di governo e funto da collaudato intermediatore per segretari di partito, grandi imprenditori, alti ufficiali dello Stato, magistrati, militari, faccendieri internazionali, lobbisti d’alto bordo, grand commis di aziende multinazionali: e che, non bastasse, dall’alto delle sue relazioni o dal basso della sua villa in Toscana, posta accanto a quella di Susanna Agnelli, era in grado di condizionare o ricattare mezzo paese e nondimeno fu in grado di orientare la stessa inchiesta Mani pulite. È questo che interessa, ora: non anticipare il ruolo di Pacini Battaglia nel procedere dell’inchiesta, e tantomeno prenderlo a pretesto per riparlare del suo particolare rapporto con Antonio Di Pietro. Interessa come funzionava l’inchiesta Mani pulite.
Molti esempi illustrano come funzionò per casi noti o meno noti. Per il caso di Pierfrancesco Pacini Battaglia, chiamato in causa da un dirigente della Saipem (gruppo Eni), andò nel modo seguente: il banchiere anzitutto riuscì a evitare l’arresto e, dalla Svizzera, decise di avvalersi come difensore dell’avvocato Giuseppe Lucibello, non altri. In quei corridoi milanesi dove miriadi di arresti non verranno risparmiati, il banchiere ottenne la fissazione di una cosiddetta «presentazione spontanea» durante la quale anticipò (in un memoriale) parte delle contestazioni che gli aveva mosso il dirigente della Saipem. Parte, appunto: delle contestazioni mancanti non gli chiesero nulla, anche se riguardavano filoni e provviste che si sarebbero rivelate milionarie. Durante l’interrogatorio, le informazioni fornite da Pacini Battaglia venivano messe a verbale quasi acriticamente: spesso presentò documentazioni incomplete o alterate (ciò risulterà) e rilasciò dichiarazioni su fatti che i magistrati già sapevano. Non faceva mai nomi nuovi, non introduceva altre responsabilità se non di qualche nemico dichiarato (lo riveleranno anni dopo alcune intercettazioni telefoniche) e in definitiva i pm del pool non fecero mai una sola indagine sui conti bancari della banca di Pacini Battaglia, la Karfinco, riferibili personalmente a lui. Ci furono poi altri interrogatori che si tradussero in una memoria in cui il banchiere spiegava di aver trasferito in Italia quaranta miliardi di lire illegali con discriminazioni tra la veridicità dei versamenti basati sulla mera parola del banchiere: con questo criterio, per esempio, l’amministratore delle Ferrovie Lorenzo Necci – amico personale di Pacini Battaglia – rimase fuori da Mani pulite ma non dall’inchiesta sull’Alta velocità ferroviaria, scoperta successivamente – però non dal pool di Milano, bensì dalla Procura di La Spezia, la stessa che smascherò il vero ruolo di Pacini Battaglia nella Tangentopoli nazionale. L’inchiesta di La Spezia, anni dopo, rivelerà che il banchiere tosco-elvetico aveva cercato di salvare i suoi amici e di inguaiare i suoi nemici, omettendo di parlare di una quantità infinita di fondi esteri.
Intercettato a La Spezia, Pacini Battaglia si vanterà: «A Milano non mi hanno rinviato a giudizio... ho fatto archiviare un’indagine su Necci». Senza contare una famigerata «ho pagato per uscire da Mani pulite» che si presterà a infinite preoccupazioni.
Dirà Piercamillo Davigo:
«Nel momento in cui è rientrato in Italia e si è presentato a noi spontaneamente, e con le sue dichiarazioni ci ha svelato una serie di episodi fino a quel momento sconosciuti, sono cessate le esigenze di custodia cautelare... Certo, oggi l’esperienza di Mani pulite ci dice che quasi mai gli indagati ci hanno detto tutto. Ma la tortura non è prevista dal nostro ordinamento. E noi, per farlo parlare, non potevamo mica picchiarlo».
Infatti non picchiavano, in genere: incarceravano.
Ha testimoniato in sede giudiziaria il pm Francesco Greco:
«Difficilmente in Mani pulite i filoni investigativi venivano approfonditi oltre un certo livello, perché non c’era il tempo per farlo. Scoperto un episodio si tornava a quello dopo... Di Pietro era sempre proiettato alla scoperta di nuovi filoni investigativi e raramente tornava sui suoi passi... anche Pacini Battaglia ha sicuramente taciuto molte sue verità illecite... ha omesso in particolare i suoi rapporti finanziari con i singoli dirigenti dell’Eni... in seguito è emerso un suo ruolo nelle vicende Allied e Cragnotti e di volta in volta è stato interrogato da Di Pietro o dalla sua struttura... di Pacini se ne occupò prevalentemente lui».
Ha confermato, sempre in sede giudiziaria, il pm Gherardo Colombo:
«Accadeva spesso che chi collaborava non collaborasse a 360 gradi e tacesse parte di quanto a sua conoscenza... succedeva a volte di richiamare questi indagati senza procedere a nuova cattura... Quan- to leggo nei documenti che mi mostrate non fa altro che confermare quelle che erano le mie convinzioni in ordine al fatto che, con ogni probabilità, Pacini, come tanti altri, aveva svelato soltanto una parte delle realtà penalmente rilevanti che erano a sua conoscenza».
Ha scritto il giornalista Antonio Galdo nel suo libro Gli sbandati:
«Davigo era diventato consigliere della quarta sezione penale... Speravo di portare a casa qualche spunto autocritico, e invece Davigo mi sorprese e mi fece capire, con un’analisi molto lucida, quale era stata la vera bussola che guidava le scelte del pool. Iniziò con un riferimento religioso: «Nei testi induisti compare questa domanda a un profeta: “Da che parte devo stare?”. E lui rispose: “Pensa a combattere, non spetta a te cambiare il mondo”».
Messa così, par di capire che l’inchiesta Mani pulite fu un’indagine irresponsabile, condotta superficialmente e imperniata sul carcere, in cui la velocità prevalse sulla qualità e sull’accuratezza. Sembra di capire questo. Dev’esserci un errore da qualche parte.
Ancora Borrelli:
«Si impose la necessità di fare in fretta, di puntare molto rapidamente a uno scopo. Non, come si è detto polemicamente, quello di abbattere il regime o l’assetto politico di allora. Ma quello di raggiungere al piú presto risultati investigativi da presentare anche all’opinione pubblica con un buon grado di certezza. Di qui la necessità di suggellare tutte quelle situazioni di corruzione che potevano essere agevolmente dimostrate e accertate, lasciando da parte altre aree piú difficili da afferrare, che si sarebbero esplorate successivamente. Di fatto, poi, la rappresentazione di quel panorama avvenne soprattutto nei grandi processi Cusani-Enimont. Poi Di Pietro lasciò la presa, e gli altri colleghi andarono avanti, ma inevitabilmente molto materiale rimase accantonato».
Rimase accantonato un intero Paese.
La guerra dei trent’anni. Le connivenze della stampa nel raccontare Mani pulite. Filippo Facci su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.
Filippo Facci ha sintetizzato per Linkiesta la parte del suo nuovo libro che tratta del problema degli storici nell’affrontare i primi anni Novanta – come intrappolati in una «eterna transizione» che perdura ancor oggi – e i giornalisti che in quel periodo abdicarono al loro ruolo.
I giornalisti non fecero il loro lavoro e ora gli storici non riescono a fare il loro. Indro Montanelli, in parte, aveva anticipato il problema: «Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della nostra storia nazionale, avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani dalle fonti dei giornali e dei telegiornali, e sai perché? I giornalisti, tranne le ovvie eccezioni che confermano la regola, durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza, e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani, che volevano il rogo, e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla. Una cosa che complicherà il lavoro dei poveri storici».
Si registrano almeno gli ottimi ma incompleti lavori di Giovanni Orsina che denotano quantomeno uno sforzo in direzione di una rinnovata ricerca delle fonti: per il resto, sulla storia di quegli anni, c’è davvero poco, salvo epistole tra accademici piazzate nei settori più impolverati delle librerie. Si deve tornare alla «Grande slavina» di Luciano Cafagna per capirci qualcosa a dispetto del limite, nonostante una notevole preveggenza, di interrompersi ed essere pubblicato a metà del 1993. Finirà che noi peones ci limiteremo a sostituire la monumentale «Storia d’Italia» di Indro Montanelli con la puntuale annalistica di Bruno Vespa, o, nel caso di analfabeti funzionali wikipedia-dipendenti, di scambiare per Storia lo sterminato faldone giudiziario titolato «Mani pulite» di Barbacetto-Gomez-Travaglio che è un mero riversamento di un dischetto informatico contenente tutti gli atti dell’inchiesta, consegnato agli autori personalmente da un magistrato del pool milanese. In compenso, il volume di oltre 800 pagine è stato definito «La più analitica e accurata ricostruzione dei fatti che io abbia letto». Parola di Piercamillo Davigo.
Sta di fatto che anche Aurelio Lepre, docente universitario di Storia contemporanea e già autore per varie case editrici, ultima Il Mulino, è autore di una «Storia della prima Repubblica» giudicata «la più convincente ed equilibrata» da Giovanni Sabbatucci, altro accademico di Storia contemporanea tra i più accreditati. Tuttavia, fermandosi alla fine del millennio scorso, anche Lepre sembra essersi arreso:
«L’editore mi chiede di aggiornare la mia Storia della prima Repubblica e mi crea qualche difficoltà. Per due motivi: il primo consiste nel fatto che negli ultimi anni la cronaca della vita politica italiana ha assunto frequentemente, anche a causa della pressione mediatica, l’aspetto di un teatrino… Tranne poche eccezioni, gli attori recitano sopra le righe, davanti a un pubblico perplesso, tra gli applausi di claques sempre più ristrette. Anche per uno storico, perciò, la tentazione di trattarne in chiave ironica è forte. Ma il nostro mestiere ci insegna proprio a distinguere tra cronaca e storia e bisogna perciò riuscire a cogliere dietro la maschera spesso buffonesca della cronaca politica giornaliera il volto severo della storia. Con la speranza che ci sia davvero.
La seconda difficoltà è costituita dal fatto che stiamo vivendo una transizione infinita, che non sembra offrire punti certi di riferimento. La prima edizione di quest’opera si chiudeva con gli avvenimenti del 1992, una data che pareva assumere un significato epocale a causa della drammatica atmosfera creata dalle inchieste… Era diffusa la convinzione che la società italiana fosse arrivata a una svolta. Ma così non era stato…. Nel 2003 siamo però ancora in mezzo al guado. E nessuno, se non per motivi di polemica giornalistica, si azzarda a sostenere che è cominciata una seconda Repubblica… Sono ancora convinto che un’epoca della nostra storia si è chiusa, anche se non è ancora cominciata una nuova».
E veniamo alle colpe dei giornalisti. Tra la primavera del 1992 e la fine del 1994, in Italia, si creò un’alleanza tra procure e mezzi di informazione come non si era mai vista in nessun Paese occidentale, e come probabilmente non si vedrà mai più. In sintesi accaddero tre cose: L’informazione non si fece solo gregaria della magistratura «rivoluzionaria, ma divenne autenticamente uno strumento di indagine della medesima; 2) La stessa informazione si fece uniformata da testata e testata – comprese quelle televisive, pubbliche e private – in quella che fu definita una «redazione giudiziaria» unificata tra cronisti, alcuni dei quali avevano rapporti diretti e preferenziali coi magistrati in particolare del Pool Mani pulite di Milano; 3) La stessa saldatura si traspose tra i livelli più alti di alcune testate, attraverso un patto tra direttori che furono così in grado di condizionare l’opinione pubblica al punto da stravolgere o vanificare ogni iniziativa del potere legislativo.
Cominciamo con l’informazione come strumento d’indagine. Il ruolo della stampa in pratica di fece fisiologico all’inchiesta milanese: travestita da libera circolazione delle notizie, la pubblicazione di determinati verbali (piuttosto di altri) si traduceva in un irresistibile effetto richiamo per decine di soggetti che si ritrovavano il proprio nome sui giornali.
Il pm Antonio Di Pietro aveva prospettato un uso della stampa a fini istruttori sin dal primo giorno, quando lasciò filtrare la notizia – falsa – che su un conto bancario della madre di Mario Chiesa ci fossero oltre 4 miliardi. Uscita la notizia sui quotidiani, convocò la poveretta e le chiese: «Quanti soldi ha sul conto?». «Quattro miliardi e mezzo» rispose lei. Ma erano quasi 7, e questo potè dimostrare che quel denaro non era gestito da lei. Ma molte e troppe furono le strumentalizzazioni di una stampa compiacente: soprattutto in un periodo in cui un avviso di garanzia, o mezza notizia ben filtrata, erano in grado di squadernare ogni trattativa politica.
Una sola notte di prigione era poi in grado di trasformare i primi imprenditori arrestati in terribili accusatori: una sola chiamata in correità divenne presto un presupposto sufficiente per far scattare le manette. Ammetterà il pm più noto dell’inchiesta Mani pulite: «Per l’imprenditore la convenienza è soprattutto imprenditoriale. Qual è il suo primo problema quando viene coinvolto? I giornali, la televisione, l’arresto, la confessione, tutto questo produrrà effetti a catena disastrosi per la sua impresa. Le banche ritireranno i fidi, i committenti non daranno più gli appalti, i lavoratori contesteranno, sarà costretto a chiudere».
Una prima fase dell’inchiesta tenderà perciò a inquadrare l’imprenditore più nel ruolo di concusso da un potere politico ricattatore, sin da subito vero obiettivo dell’indagine: un Di Pietro stanchissimo confidò al cronista del Giorno, Paolo Colonnello: «Potrei arrivare a Craxi, ma bisogna andarci piano».
In realtà, nelle carte, non c’era nulla che facesse presagire quel punto d’arrivo. Quella stessa sera, Il 21 aprile 1992, alla pizzeria Gambarotta di via Moscova, i cronisti di giudiziaria lanciarono l’idea di riunirsi in pool «per trovarci a scrivere un pezzetto di storia», ha scritto il cronista del Corriere Goffredo Buccini. La motivazione ufficiale era non disperdere notizie, verificarle al meglio, evitare trappole, gestire la sovrabbondanza, prevenire le censure, in sostanza disciplinare la strumentalizzazione che di loro faceva palesemente Di Pietro, ottenendone i cronisti considerazione e vanagloria giornalistica.
In quella prima fase non c’era notizia o carta o verbale che uscisse senza che i magistrati lo volessero, benché, materialmente, spesso provvedevano avvocati che facevano i propri interessi. A sorvegliare il collo di bottiglia da cui passavano le notizie c’erano al massimo quattro o cinque giornalisti, ciascuno coi suoi contatti preferenziali in procura. Per buona parte erano dei cronisti ragazzini che si ponevano nell’unica strozzatura dove certe notizie potevano passare, anche se questo implicava un rapporto personale e di tacito accordo con alcuni magistrati.
Da principio a rappresentare una novità furono i telegiornali Fininvest, dapprima guardati in cagnesco e sospettati di intelligenza col nemico: spesso qualche telecronista diffondeva il panico nei servizi della notte e i cronisti della carta stampata venivano richiamati per verificare e ribattere. Circolavano elenchi di arrestati veri e falsi, e Di Pietro era letteralmente idolatrato e i cronisti l’avevano soprannominato «Dio» o «Dio Zanza» o «Zanzone» (imbroglione in milanese) mentre il capitano Zuliani dei Carabinieri era «Mago Zu». Il decano dell’Ansa, storico punto di riferimento, chiamava i più agguerriti «quelli che ce l’hanno sempre duro». Un mensile di categoria, Prima Comunicazione, li descrisse come «Un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato».
Di fatto, l’informazione si fece uniformata da giornale a giornale, ma soprattutto militante. L’entusiasmo e la giovane età, in qualche caso, giustificarono episodi al limite del fanatismo: per esempio la produzione della maglietta «Anch’io seguo Mani pulite» o il primo avviso di garanzia a Craxi appeso in sala stampa (dopo aver brindato a champagne, come accadde anche per l’arresto di Salvatore Ligresti) e più in generale una dedizione che portò alcuni ragazzi a sentirsi parte dell’inchiesta anziché strumento della medesima. Ha scritto ancora Buccini: «Che noi trentenni di allora avessimo più o meno tutti una formazione di sinistra è vero. L’inchiesta ci dava la conferma di ciò che noi avevamo sempre pensato dell’Italia: dei socialisti, degli andreottiani, di Ligresti e poi dello stesso Berlusconi. E quando ritieni di vedere la conferma di quello che pensi, non cerchi altre verità… E questo è stato senz’altro lo sbaglio di noi giovani giornalisti di allora. E lo sbaglio di tutti quanti, poi, è stato pensare che un Paese si possa riformare per via giudiziaria: i processi sono una scorciatoia solo apparente. La storia di Mani pulite dimostra che la rivoluzione giudiziaria non esiste».
Anche l’estrazione politica della maggior parte dei cronisti sembrava univoca: «Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Brambilla, un cattolico perbene», è sempre Buccini a parlare, «noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra. In qualche modo, l’inchiesta contiene, almeno in potenza, la conferma del male che abbiamo sempre pensato di certi socialisti craxiani traditori della nostra causa, certi andreottiani mafiosi e maleolenti, certi imprenditori tentacolari e, in generale, di un potere costituito che sempre si oppone alle «magnifiche sorti e progressive» di cui abbiamo deciso di non essere alfieri sin dai licei e dalle università. Tutto questo può non pregiudicare il lavoro nell’immediato: ma può metterlo a rischio più in là».
Non erano tutti di sinistra, comunque. E se è vero che Michele Brambilla del Corriere era un cattolico moderato, lo è anche che presto, arcistufo, lasciò il gruppo e cedette il posto al più esaltato Gianluca Di Feo. Paolo Foschini di Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva poco da fare il compagno di sinistra. Frank Cimini del «Mattino» lo era pure, di sinistra, ma in stile «manifesto», un garantista sovrastato dai fatti. Annibale Carenzo dell’Ansa, il decano, si limitava a dare notizie senza interpretazioni. Lo stesso valeva per Mario Tomaino e Salvatore Carloni dell’Agenzia Italia. Cristina Bassetto dell’Adn-Kronos era un ex giornalista dell’Avanti! passata ad altri lidi quando il giornale chiuse. Maurizio Losa della Rai, molto vicino a Di Pietro, era un ordinario reggi-microfono alla pari di altre due comparse rispettivamente in quota repubblicana e socialista. Andrea Pamparana del Tg5 era figlio del portinaio di casa Pillitteri ed era un bravo ragazzo senza ideologie e con limiti precisi. Enrico Nascimbeni dell’Indipendente, figlio del noto Giulio del Corriere, non era nulla che abbia senso classificare.
Piallato su una sinistra giustizialista (più giustizialista che sinistra) era semmai lo zoccolo duro composto da Goffredo Buccini (Corriere) e Paolo Colonnello (Il Giorno) e Peter Gomez (Il Giornale) e ovviamente Marco Brando e Susanna Ripamonti (Unità) più ovviamente il duo inossidabile Luca Fazzo e Pietro Colaprico (Repubblica) a cui si aggiungeva Cinzia Sasso, futura consorte dell’avvocato e sindaco Giuliano Pisapia. Nell’ammettere onestamente che «rifarei tutto», Luca Fazzo (oggi al Giornale) nel 2011 ha ammesso che l’inchiesta non sarebbe stata possibile «con il rispetto formale delle regole», e che ci fu la «sospensione temporanea delle garanzie».
Fazzo racconterà della sparizione sostanziale dell’articolo 318 del Codice Penale, sostituito regolarmente dalla contestazione dell’articolo 319 che semplicemente distingue la «corruzione per atto d’ufficio» dalla «corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio»: il primo non prevedeva l’arresto, il secondo sì. Ha raccontato ancora Luca Fazzo: «Tacitamente erano stati suddivisi i compiti: a L’Espresso si davano i verbali, al Corriere le interviste. Ricordo quando Borrelli si affacciava nel corridoio e diceva «Chiamatemi Buccini». Voleva dire che c’era un problema e che aveva bisogno di essere intervistato».
Servire e accorrere alla corte di un magistrato, per qualche ragione, suonava diverso dal servire e accorrere alla chiamata di un politico. Solo l’espressione «servire» restava identica, e andare a rivedersi la radice latina del verbo «servire» pare irrispettoso. Comunque anche alcuni avvocati facevano la loro parte. Magari il magistrato dava la dritta, i carabinieri fornivano l’ordine di cattura e i legali i verbali di interrogatorio. Con in mano i verbali, poteva capitare che i giornalisti arguissero in anticipo chi sarebbe stato arrestato o indagato di lì a poco. Ancora Luca Fazzo: «Lo chiamavamo il pigiamino, forse perché arrivavamo a chiedere interviste anche la sera tardi, nelle case di persone che non immaginavano che cosa stesse per cascare loro addosso. Erano veri agguati».
C’erano verbali autorizzati e altri che lo erano di meno. Anche allo scrivente capitò di pubblicare (sull’Avanti!) degli stralci di verbale che secondo le vecchie regole violavano il segreto istruttorio: ma non facevano parte di nessuna dinamica prevista e unificata, insomma non erano condivisi. Ufficialmente non esistevano. In un verbale che pubblicai più volte, in particolare, si chiamava in causa un democristiano moralizzatore d’ambiente addirittura curiale, Antonio Ballarin, un archetipo da «società civile» che, di passaggio, era anche cugino del pm Gherardo Colombo. Il pool dei giornalisti quel verbale non l’aveva avuto, tanto che un collega che conoscevo da quando scrivevo su Repubblica, Piero Colaprico, mi disse che a suo dire era «un falso, e altri colleghi mi sbeffeggiarono definendolo «una patacca». Invece era autentico. Lo era al punto che il moralizzatore pellegrinò in Procura, con l’Avanti! sotto il braccio, e dopo un po’ i cronisti lo videro lasciare il palazzo con lo status di indagato. Ballarin fu costretto a un imbarazzante confronto con Maurizio Prada, il cassiere milanese della Dc.
Ha scritto quasi trent’anni dopo ancora Goffredo Buccini, cronista del Corriere della Sera rimasto impigliato nel reducismo: «Dal 17 febbraio 1992 ogni interrogatorio, verbale, arresto s’è sempre tradotto in un passo verso il primo, vero bersaglio dell’inchiesta, il Cinghialone. Dovremmo chiederci se sia normale che un’inchiesta abbia un bersaglio, peraltro marchiato con un nomignolo così feroce. O se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo l’atto di accusa contro un indagato. Ma è inutile nascondersi dietro le ipocrisie». Il «Cinghialone» era Bettino Craxi.
Mentre l’inchiesta impazzava capitava che le notizie fossero depositate nelle edicole prima ancora che nelle mani degli avvocati. Il democristiano Giorgio Moschetti, nel settembre del 1992, raccontò: «Alle 16.45 di oggi mi è stata notificata un’informazione di garanzia. Il Tg ne aveva già dato notizia verso le 14».
Un altro democristiano, Roberto Mongini, ha raccontato che accese la radio e seppe di essere stato arrestato un paio d’ore prima. Poi c’erano altri casi, particolari, come quello raccontato dal cassiere democristiano Severino Citaristi: «Consegnai degli elenchi a Di Pietro. Conoscendo le poco corrette abitudini di Milano, gli raccomandai di fare in modo che l’elenco non fosse reso pubblico. Me lo assicurò. Infatti, due giorni dopo, quotidiani e settimanali pubblicarono integralmente i tre elenchi consegnatigli, contenenti nomi di oblatori che prima non erano mai apparsi, come per esempio Pietro Barilla. Anche in questo caso il cosiddetto Pool di Milano continuò nella sua poco corretta abitudine».
Il cronista Bruno Perini, che seguiva l’inchiesta per «il manifesto», scrisse sul mensile «Prima Comunicazione»: Bisogna pur dire che a Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura. Molti giornali si sono messi sull’attenti, si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati. È stato rispettato più il Codice Di Pietro che non il nuovo Codice penale. C’è stata una specie di identificazione totale con l’ufficio del pm, tanto che alcuni periodici [«L’Espresso» e «Panorama»] sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d’interrogatorio. I giornali si sono così abituati a singolari trattative sulla carcerazione preventiva o sulla consegna degli imputati, come se fosse una cosa normale … anche in questo caso ha funzionato la forte dipendenza dalle fonti di informazione. Con un’aggravante: soprattutto nell’inchiesta Mani pulite, le fonti di informazione erano univoche».
Tanta confidenza portò per esempio un cronista di giudiziaria del Corriere della Sera a fare da autista ai magistrati Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo nel percorso tra Milano e Montenero di Bisaccia – quasi 700 chilometri – per partecipare ai funerali della madre di Antonio Di Pietro. Al Corriere della Sera peraltro avevano un Cerved, un monitor che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva qualche favore. Se con certa malignità i cronisti di giudiziaria potevano essere definiti camerieri delle notizie, l’alta cucina era però materia dei gran cuochi: i direttori delle testate.
È ormai acclarato che a un pool di cronisti se ne affiancasse un altro che concordava titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa mentre Paolo Ermini chiamava l’Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C’era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l’apertura del Corriere, dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell’Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c’era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito.
Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c’era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni… Lo sbaglio è stato di aver riproposto l’idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese… abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità». Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente criticabile (a esser gentili) è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell’Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti… c’era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l’opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi».
Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l’ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l’oggetto era tentatore e l’idea nemmeno campata in aria… Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere “decreto salvaladri” e il gioco era fatto».
Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali… alle sette del pomeriggio ci fu l’abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono… Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde».
Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c’era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era «L’Indipendente», dove ai brindisi all’avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al «manifesto», storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste.
Sarebbe poi fuorviante soffermarsi su certo giornalismo più di costume, affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e anche molti uomini che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti. Ma il dipietrismo, rivisto oggi, fa quasi parte del comico e non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all’operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l’azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c’era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera).
Anche l’informazione televisiva meriterebbe un trattato a parte. Satira a parte (onnipresente) dalle tonalità del Tg3 sembrava sempre che l’Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il consueto Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento nell’avvicinare la politica alle casalinghe) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano – e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale – si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.
Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» per 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell’edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa.
Resta il mistero – si fa per dire – di come anche la più appariscente violazione del segreto istruttorio, con l’inchiesta Mani pulite, divenne regola. Il Codice di procedura penale era anche chiamato «Pisapia-Vassalli» e allo scrivente, all’inizio del 1992, capitò di intervistare il professor Giandomenico Pisapia (morto nel 1995, dopo che, come detto, era stato presidente della commissione per la riforma del Codice) il quale disse testualmente: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il nuovo Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto delle indagini c’è, e serve a tutelare sia le indagini sia l’indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie anticipate possa pregiudicare la sua immagine, immagine che una volta guastata non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione».
Va aggiunto che, sempre nel 1992, l’allora vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l’avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio».
Dopodiché, come è noto, non successe niente del genere: allora come oggi, l’interesse dei media e dell’opinione pubblica si concentrò sulle indagini preliminari, mentre il successivo processo, sempre che abbia avuto luogo, si perse nel dimenticatoio. In sostanza che cosa fosse o non fosse il segreto istruttorio, al di là delle intenzioni del legislatore, i vari pool dei magistrati e dei giornalisti presero a raccontarselo da soli.
Il 19 dicembre 1992, al Circolo della stampa, ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (un gruppo di cronisti orientati a sinistra) alla presenza dei succitati Pool, e Piercamillo Davigo la mise così: «Se una cosa la sappiamo in tre, e io sono tenuto al segreto altrimenti commetto un reato, un altro è tenuto al segreto altrimenti commette un illecito disciplinare, ma il terzo non è tenuto al segreto, allora la notizia non è più segreta…. c’è un equivoco di fondo: il segreto istruttorio è posto a tutela dell’attività investigativa, non dell’onorabilità dell’inquisito».
Disse invece il pm Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza di tutti noi va tutelato, ma quando la via di tutti, il progredire di tutti confligge con l’interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». I cronisti, ovviamente, erano d’accordo. Il giornalista della «Repubblica» Piero Colaprico avrà a vantarsi che «nessuno di noi, in dieci mesi di inchiesta, ha ricevuto una sola querela. Ciò significa che abbiamo lavorato bene, ma anche che nessuno di noi ha mai violato il segreto istruttorio».
Un sillogismo che si commenta da solo. Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, ebbe modo di spiegare che il segreto istruttorio in pratica non esisteva più. Corso Bovio, legale dell’Ordine dei giornalisti lombardi, nella prima estate 1992, aveva detto all’Avanti!: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho dovuto sostenere decine di cause per violazione del segreto istruttorio, promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga anche in ogni circostanza, e non solo nell’inchiesta sulle tangenti».
Invece Marcello Maddalena della procura di Torino sosterrà che il diritto alla riservatezza dell’indagato «comunque è secondario rispetto all’esigenza primaria di scoprire la verità». Una buona sintesi potrebbe essere che la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio dal Codice perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque, ciò bastava e basta a tutt’oggi. Chi il Codice l’aveva scritto, però, aveva intenti diametralmente opposti. E anche chi non l’aveva scritto, ma si chiamava Giovanni Falcone, non la pensava diversamente: «L’informazione di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato (…) I motivi dei miei contrasti, spesso con colleghi un po’ più anziani di me, derivavano proprio da questa differenza di mentalità. A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e con- testare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario».
Una violazione perpetrata all’infinito non la trasforma in regola: eppure, nove anni dopo Mani pulite, i primi vagiti forcaioli del giornalista Marco Travaglio – non per niente molto legato a Piercamillo Davigo – cercheranno di storicizzare quella che appare come una menzogna interpretativa: «Lo spirito del nuovo Codice, almeno su questo punto, è chiaro e nobile. Il diritto dell’opinione pubblica a essere informata sulle indagini e sui processi è più forte di quello dell’indagato alla riservatezza. Soltanto un altro valore può sopravanzare il diritto all’informazione: la salvaguardia delle indagini… La stragrande maggioranza delle notizie pubblicate dai giornali negli anni caldi di Tangentopoli, spacciate dagli imputati per “fughe di notizie” e “violazioni del segreto istruttorio”, non erano affatto segrete e non costituivano reato. A cominciare dall’avviso di garanzia, che per definizione è pubblico, essendo fatto apposta per informare l’indagato».
Non una sola cosa vera, come visto. Anche a proposito dell’avviso di garanzia, definito addirittura pubblico «per definizione», se non si vuole credere a chi il Codice l’ha concepito (Pisapia) si può sempre andare a leggersi il Codice stesso, all’articolo 369 che appunto regola l’informazione di garanzia («avviso» in gergo giornalistico) e che recita così: «Solo quando deve compiere un atto al quale il difensore ha diritto di assistere, il pubblico ministero invia per posta, in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno, alla persona sottoposta alle indagini e alla persona offesa una informazione di garanzia con indicazione delle norme di legge che si assumono violate».
La «garanzia» è rivolta alla persona e mira a garantire l’esercizio del diritto di difesa, perché il destinatario attraverso «l’informazione» ha la possibilità di farsi assistere da un avvocato.
Se fosse un atto pubblico, non si capirebbe la necessità di spedirlo «in piego chiuso raccomandato con ricevuta di ritorno», tantoché, già dai primi mesi di Mani pulite, anche questa regola prese a sparire. L’avviso di garanzia si consegnava a mano all’indagato e così pure ai giornalisti, all’occorrenza. Si azzarderà a dire anche Giovanni Galloni, vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, il 4 dicembre 1992: «Rendere pubblico un avviso di garanzia è voler indicare un colpevole. È dunque necessario mantenere segreto l’avviso di garanzia che non è indizio di reato, ma solo la volontà del magistrato di approfondire i fatti. L’avviso di garanzia deve essere protetto dal segreto istruttorio».
Pochi giorni dopo, il 18 gennaio 1993, durante l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il procuratore generale Giulio Catelani dirà che a Milano non c’era e non c’era stata nessuna violazione del segreto istruttorio. Quasi dieci anni dopo farà, diciamo così, del revisionismo: «C’era una corrente di pensiero che partiva da Oscar Luigi Scalfaro e arrivava fino alla gente nelle piazze… In quegli anni, il segreto istruttorio non esisteva più. Ora arriva l’ex giudice delle indagini preliminari, Italo Ghitti e ci dice che c’era eccome: adesso che il reato di violazione del segreto istruttorio è prescritto». Ghitti in realtà non aveva detto niente di speciale, se non questo: «Ci fu un momento in cui ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pm e mi resi conto di non riporre più fiducia nella correttezza di alcuni magistrati del Pool».
Le notizie, però, uscivano anche dall’ufficio del gip Ghitti. Da sole. Lo scrivente ha buone ragioni di fidarsi della seguente testimonianza: «Salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta. Io ero mimetizzato tra altri tre o quattro, complici i buoni rapporti con due dei cronisti e l’apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d’arresto che lui aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Un’altra cosa me l’avevano raccontata e basta: che era sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c’era neppure bisogno di appoggiare l’orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano persino barzellette. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero».
La testimonianza, manco a dirlo, è dello scrivente.
Il libro “La guerra dei trent’anni. 1992-2022 Le inchieste la rivoluzione mancata e il passato che non passa” esce oggi, venerdì 7 aprile. Di Filippo Facci, Marsilio, 2022, pagine 750, euro 25.
Trent'anni da Tangentopoli. Grazie a Mani Pulite oggi abbiamo il deserto della politica. Biagio Marzo su Il Riformista il 6 Marzo 2022.
Come nella guerra del Trent’anni – tra il 1618 e il 1648 – ci furono una serie di conflitti che coinvolsero diversi paesi, così, a trent’anni dall’inizio dell’era di Tangentopoli (1992), non ancora conclusasi, vi sono coinvolti diversi partiti e leader politici. Purtroppo è una vicenda senza fine, una lotta di potere senza quartiere, in cui la politica è soccombente. Diciamocela tutta: è sotto scacco della magistratura. Tutto iniziò a Milano, con l’arresto di Mario Chiesa il 17 gennaio 1992, per cui la Procura di Milano costituì il pool Mani Pulite, nome non nuovo per chi conosce la storia dell’Unione Sovietica, laddove, ai tempi delle grandi purghe staliniane, operava un gruppo di magistrati che lavorava a tempo pieno. Il pool Mani Pulite, applicando la custodia cautelare a proprio piacimento, portò a termine il “golpe bianco” che fece tabula rasa del pentapartito salvando la sinistra Dc e il Pci-Pds.
Non è che gli esponenti dei due partiti non ebbero dei guai giudiziari, ma tutto sommato parecchi di meno dei dante causa. Per Gerardo D’Ambrosio, all’epoca vice procuratore, il pool non avrebbe avuto successo senza il supporto di quelle forze politiche. Oltre a queste, c’era la corazzata dei mass media scritti e parlati ad alimentare il furore di una parte degli italiani, quelli che, probabilmente, sono chiamati oggi “No Vax”. Sempre sul piede di guerra contro le istituzioni e, nello stesso tempo, illiberali.
Il pool riduceva lo Stato di diritto a una specie di formaggio svizzero e faceva crescere a vista d’occhio il cosiddetto “panpenalismo”, ovvero la necessità di penalizzare al massimo. Mentre il consenso attorno a Mani Pulite raggiungeva il diapason, la classe politica giocava in difesa tanto da suicidarsi, abolendo l’autorizzazione a procedere per i parlamentari. Vale a dire la riforma dell’art. 68 della Costituzione, avvenuta sotto la spinta del combinato disposto di mezzi di informazione e di opinione pubblica. Il risultato di questa riforma ha portato a uno squilibrio dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario, incidendo negativamente sul regime democratico e liberale.
Il fenomeno corruttivo chiamato Tangentopoli è complesso, ed esprime una realtà economico-politica che non si può ridurre al finanziamento illegale delle Partecipazioni statali ai partiti, come scrive Franco Debenedetti sul Foglio dello scorso 25 febbraio. Il quale, in verità, non tiene conto che i principali gruppi imprenditoriali privati sono stati indagati. D’altro lato, non va sottaciuto l’arricchimento personale, piccola cosa di fronte al mansalva del finanziamento illegale ai partiti. Insomma, se Tangentopoli è stata la causa, Mani Pulite è stato l’intervento delle Procure per estirpare il cancro del “malaffare”, conosciuto dall’universo mondo e sempre taciuto. Se Tangentopoli è stato il cancro, Mani Pulite è stata l’aspirina esiziale nel curare il male. Al che Francesco Saverio Borrelli, ex procuratore generale di Milano e capo del pool di Mani Pulite, aveva tirato le somme: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in questo attuale”. Chiaramente un autodafè. Dall’inizio di Tangentopoli, la realtà sotto l’aspetto politico e giudiziario è peggiorata, con il giustizialismo pandemico in cui affondano l’idea di diritto liberale e il processo penale. Siccome il pool Mani Pulite avrebbe dovuto rivoltare l’Italia come un calzino – secondo il davighismo, il Davigo-pensiero, il “rivoltatore di calzini” -, ci siamo trovati con il sovranismo e il populismo che hanno acuito la crisi della democrazia rappresentativa. E poi, con lo scoperchiamento del vaso di Pandora giudiziario, si è visto il passaggio dall’ordinamento della magistratura al potere del partito dei pm, senza alcuna responsabilità.
L’effetto Luca Palamara è stato dirompente, ha fatto venire alla luce il sistema su cui si appoggiava la magistratura che regolava, di conseguenza, la vita politica, economica e finanziaria del Paese. Attraverso i due libri di Sallusti e Palamara – Il sistema e Lobby & logge – si comprendono molti avvenimenti che hanno sconvolto in qualche misura la politica. La magistratura non ha avuto un potere salvifico, come tanti italiani credevano. Anzi, è accaduto tutt’altro. Di fatto, c’è stato il sorgere, sull’onda giudiziaria-populista, del Movimento 5 stelle, che ha fatto fare passi indietro all’Italia, di cui oggi paghiamo amaramente il prezzo. Portatore dell’“uno vale uno e l’uno vale l’altro”, sicché il sapere e l’ignoranza sono uguali. Siamo, insomma, al “trionfo degli apedeuti”. Non è tutto. Il ministro della Giustizia Bonafede, con la sua legge “spazza corrotti”, aveva annunciato la fine della corruzione e Di Maio, con il suo provvedimento sul lavoro, proclamò da un balcone di Palazzo Chigi la fine della povertà. E, di seguito, la decrescita felice, il reddito di cittadinanza concepito con i piedi…
Chiacchiere e distintivo. Con gli altri partiti che non hanno aiutato l’Italia a uscire dalla crisi. La Lega di Salvini ha cambiato pelle rispetto alla Lega Nord di Bossi, diventando soggetto nazionale ma non con i risultati sperati nel Mezzogiorno. Così come un pendolo oscilla fra partito di lotta e di governo, entrando talvolta in palese contraddizione. Infine, l’unica cosa buona che ha fatto il “Capitano” è stato l’aderire ai referendum sulla giustizia del Partito radicale. Ancora. I Fratelli d’Italia della Meloni hanno dimostrato i propri deficit culturali e politici, nascondendosi sotto il fatuo patriottismo, lo statalismo assistenziale, l’anti-scienza allacciando alleanze in politica estera con forze reazionarie, come i filo-franchisti e i sovranisti di Vox, e con quelle conservatrici del Gruppo di Visegrad, l’alleanza composta da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia . Al dunque, lo stesso Partito democratico, senza alcuna identità, oscilla sul terreno delle alleanze, avendo come unico obiettivo stare al governo.
Un quadro desolante, in cui il trasformismo ha frazionato il sistema partitico e accresciuta la conflittualità politica. La presenza di tecnici alla guida degli esecutivi che si sono succeduti in questi decenni e la riproposizione del secondo mandato ai presidenti della Repubblica di questi ultimi 16 anni, è la prova provata della crisi della politica e della mancanza di una classe dirigente patriottica nel vero senso della parola e a misura del vuoto politico di questi tempi malvagi. Da tutti i punti di vista si vede che l’Italia è corrosa dal vuoto politico. Proprio a trent’anni dal discorso di Craxi alla Camera, quando il leader del Psi sostenne che: “Nella vita democratica di una nazione non c’è nulla di peggio del vuoto politico. Da un mio vecchio compagno e amico (Pietro Nenni, ndr), che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, io ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone”. Non a caso il vuoto dei partiti è stato occupato dal potere giudiziario.
Biagio Marzo
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 26 febbraio 2022.
30 anni dopo è tempo di processare Tangentopoli e di concedere agli avvocati il diritto di esercitare un mea culpa.
Con questo spirito ieri la Camera Penale di Milano, che rappresenta in città gli esponenti del foro in ambito penale, ha organizzato a Palazzo di Giustizia il convegno Mani pulite: voci a confronto.
L'incontro è stato l'occasione per mettere a nudo storture e abusi di Tangentopoli e comprendere quanto quella stagione giudiziaria abbia cambiato in modo irreparabile i rapporti della magistratura con politica, giornalismo e società civile. Tanto per cominciare, secondo gli avvocati presenti al convegno, Tangentopoli nacque da un complotto e si risolse in un colpo di Stato.
«Dobbiamo chiederci come il fatto giudiziario è nato», dice l'avvocato Nerio Diodà, già legale di Mario Chiesa, primo arrestato dell'inchiesta e allora presidente del Pio Albergo Trivulzio.
«Fu un complotto organizzato da parte di Di Pietro. Si era rivolto a lui un imprenditore, il quale gli aveva raccontato che da anni pagava a destra e a manca. Di Pietro e il suo capitano prepararono 7 milioni in cui una banconota ogni dieci era sottoscritta dallo stesso Di Pietro.
Successivamente (dopo la consegna dei soldi dall'imprenditore a Chiesa, ndr)si presentarono al Pio Albergo Trivulzio, si fece la perquisizione e nel cassetto vennero rinvenuti 7 milioni».
Fu l'inizio di un'inchiesta condotta non per appurare singole responsabilità penali ma «per dimostrare che il sistema politico era marcio», come nota l'avv. Gaetano Pecorella. «Non si trattò di una rivoluzione giudiziaria», continua, «ma di un colpo di Stato» che «trasformò i magistrati da funzionari in una forza politica».
Ma con quali metodi venne condotto questo "colpo di Stato"? Il principale fu l'uso sistematico e spropositato da parte dei pm della custodia cautelare, con arresti usati come strumento di indagine e spesso finalizzati a ottenere confessioni e chiamate in correità, in cambio di liberazioni e sconti di pena in prospettiva.
«La custodia cautelare come dolce tortura», la definisce Pecorella. O come «vulnus alla libertà personale e alla presunzione di innocenza», per dirla con l'avv. Daniele Ripamonti.
Anche se Gherardo Colombo, ex pm, tra i protagonisti del pool di Mani Pulite, nega le dimensioni esagerate del ricorso alle misure cautelari e l'obiettivo politico dell'inchiesta.
«Ho detto più volte che la custodia cautelare è stata applicata secondo il Codice», dice ai nostri taccuini. «Noi abbiamo proceduto per reati commessi da persone. Se poi queste persone svolgevano funzioni politiche non possiamo farci niente». Di certo, nell'applicazione di questo metodo di indagine, contò l'accondiscendenza di molti avvocati che, anziché pensare al rispetto del diritto, badarono a far sì che i loro clienti subissero i minori danni possibili, scendendo a compromessi col sistema adottato da Di Pietro.
Fu un periodo di «frustrazione e travaglio» degli avvocati, come lo definisce l'avv. Monica Barbara Gambirasio.
A queste storture se ne sommarono altre, dall'eccessiva complicità tra pm e giornalisti, che peccarono di «voyeurismo», come ammette l'allora cronista di giudiziaria Paolo Colonnello, alla «trasformazione del magistrato in una star», come avverte il direttore di Libero Alessandro Sallusti, «con la nascita della giustizia spettacolo» e la convinzione che i «pm vivessero di consenso, non di merito» e, una volta popolari, fossero «intoccabili».
La degenerazione di quel periodo può ben essere riassunta nei versi fulminanti dell'avvocato Jacopo Pensa: «Giro giro giro tondo qui si indaga tutto il mondo; molto a destra, poco a manca, di indagar non ci si stanca».
L'altro anniversario di Mani Pulite: "La storia di Craxi narrata dai vinti". Luca Fazzo il 26 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Amarcord a Milano con Bobo e Pillitteri: "Poteva essere curato". Milano. Alla fine, il vero protagonista di questo contro-anniversario è un piede. Un grande piede martoriato dalla cancrena, poggiato sulla sabbia di Hammamet e inquadrato in primo piano, a lungo, più volte. È il piede di Bettino Craxi, che l'altro giorno avrebbe compiuto 88 anni. E che invece dal gennaio del 2000 riposa nel cimitero del suo esilio tunisino. Quel piede malconcio era il segno del male che segnava Craxi, e che si sarebbe potuto curare se la Procura di Milano gli avesse consentito di tornare senza passare per la prigione; o se Francois Mitterrand, l'amico e compagno di un tempo, lo avesse accolto in Francia come tanti fuggiaschi politici.
Invece finì tutto diversamente. E i sopravvissuti socialisti dell'epoca di Mani Pulite si ritrovano in un cinema milanese, la sera del compleanno di «re Bettino», a celebrare a loro modo il trentennale di Mani Pulite. Si proietta il film che Paolo Pillitteri, cognato di Craxi e travolto dalla medesima tempesta, ha voluto realizzare due anni fa. É «La Tesi», girato da Ettore Pasculli che fu un regista di dichiarata fede socialista, e che ora dice: «È la storia più importante della mia vita, una storia di cui tutti abbiamo pagato le conseguenze». La storia dell'ascesa e del crollo di Craxi e del craxismo, tra potere assoluto e trionfante, inchieste, lanci di monetine. E la fine ad Hammamet, a trascinarsi in caffetano tra mercati e catapecchie.
Eccoli, i sopravvissuti: vecchi, vecchissimi, a volte malconci. Si conoscono tutti tra di loro, portano Borsalino improbabili, si mandano ghignando a quel paese raccontandosi i tempi antichi. Pasculli arriva con un garofano all'occhiello e lo infila nel taschino di Bobo Craxi, incanutito pure lui. Pillitteri ha dimenticato l'apparecchio acustico, e così Dario Carella - che fu vicedirettore craxiano del Tg2 - deve urlargli le domande. «Il film si chiama la Tesi perché è di parte, è una provocazione, è la storia raccontata dai vinti», dice l'ex sindaco di Milano. Poi racconta della prima volta che conobbe Craxi, allora giovane assessore all'economato, presentato da Carlo Tognoli. «Quando seppe che mi occupavo di cinema mi disse: non capisci un tubo, la politica è più importante di tutto».
In sala sorridono, si danno di gomito sui cappotti fuori moda. Perché quello è proprio il loro Bettino, il leader splendido e arrogante che per quindici anni fece a pezzi i loro sensi di colpa, e sfidò a fronte alta il Moloch comunista. Eccolo il filmato clou, con Berlinguer attonito e livido sommerso di fischi al congresso del Psi, e Craxi che infierisce: «Non mi unisco a questi fischi (pausa) solo perché non so fischiare». Che nostalgia.
Dell'indagine che trent'anni fa spazzò via il loro mondo il film racconta ai reduci la tesi di allora e di oggi, la porcheria orchestrata da un ex poliziotto di oscuri trascorsi. Come tutti i reduci, aspettando che si spengano le luci di sala, fanno i conti di chi c'è ancora e di chi è morto: «Ah sì? Quando?». Sopra l'Anteo svettano nel cielo stellato le tre torri milanesi di Citylife. Pillitteri: «Belle, eh. Ma la mia giunta venne fatta cadere su una variante edilizia che aveva la metà di queste cubature».
30 anni da Tangentopoli. I tre pool che volevano la repubblica giudiziaria. Angela Stella su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022.
“A Trenta anni da Tangentopoli e da mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria” è il titolo della conferenza promossa dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà. Molti gli ospiti intervenuti, tra cui il nostro direttore Piero Sansonetti, e moderati dal direttore del Dubbio Davide Varì.
Ad aprire i lavori Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: “Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari, chiediamo un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno”. Allora vi fu “un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente”.
Presente anche l’ex magistrato Luca Palamara: “Tanti dovevano parlare per uscire, durante gli interrogatori bisognava fare questo o quel nome: una prassi che purtroppo poi si è protratta molto nel sistema giudiziario italiano, da Tangentopoli a Mafiopoli”. Non poteva mancare il giornalista Enzo Carra, che fu condotto dal carcere al tribunale con gli “schiavettoni” ai polsi per essere incriminato da Davigo, suscitando vasto clamore: “Questo è un Paese che vive in uno stato di eccezione dal 1969, da Piazza Fontana, con cui coincide la fine della verginità di questo Paese: sia chiaro questo”. A lui è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: “Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era – diciamo – il clima dell’epoca”.
Tra i politici anche l’onorevole Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione: “Le storie che ho sentito mi pare che siano ancora molto attuali. Avete ricordato come il pm si scegliesse il gip, Italo Ghitti. Lo ha raccontato persino il giudice Salvini. Oggi succede la stessa cosa. Ho presentato un’interrogazione al Governo, chiedendo di sapere quante sono in percentuale le richieste di custodia cautelare respinte dai gip. La direzione statistica del Ministero della Giustizia non possiede questo dato. Capite in che in che situazione siamo! Probabilmente il dato si avvicina allo zero per cento. Così come non sappiamo quante richieste di intercettazione e di proroga delle indagini preliminari vengano rigettate”.
Le conclusioni sono state affidate a Fabrizio Cicchitto, Presidente della Fondazione Riformismo e Libertà: “Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi, a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne dalla Fiat, alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il “partito diverso” dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione. Molto prima di Forza Italia e ovviamente in termini del tutto rovesciati il primo partito-azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo e Ernesto Rossi fecero denunce assai precise essendo del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e con il trattato di Maastricht il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quella della Dc e del Psi. Anche in seguito al ’68 nella magistratura e nel giornalismo sono maturate tendenze radicali. Di qui è scattato il circo mediatico-giudiziario fondato su tre pool fra loro collegati: il pool dei pm di Milano, il pool dei direttori di giornali, il pool dei cronisti giudiziari. Tutto ciò fu fondato su due pesi e due misure. Il sistema di Tangentopoli coinvolgeva tutti e invece un numero assai ristretto di alti dirigenti del Pds e della sinistra Dc poteva non sapere, invece Craxi, tutti i dirigenti del Psi, i leader di centro-destra della Dc, i segretari dei partiti laici non potevano non sapere”. Angela Stella
Mani pulite: la parabola del pool tra politica, inchieste e polemiche. 1993 Milano, il Pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco. GIULIA MERLO su Il Domani il 22 febbraio 2022
Guidati dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, i magistrati che hanno svolto le indagini di Mani pulite sono rimasti al centro della storia politica e giudiziaria italiana degli ultimi trent’anni.
Alcuni si sono candidati in politica, in particolare Antonio Di Pietro che ha fondato l’Italia dei Valori, Gerardo D’Ambrosio che si è candidato con l’Ulivo e Tiziana Parenti che ha lasciato il pool ed è stata eletta con Forza Italia.
Fino alla presunta loggia Ungheria dove Greco e Davigo si sono trovati su posizioni contrapposte, al culmine dello scontro interno alla procura di Milano.
GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.
Ma no, la Milano da bere non è mai esistita. E i partiti non prendevano tangenti. Michele Serra su L'Espresso il 28 febbraio 2022.
Nel trentennale di Tangentopoli l’Italia è divisa. Alcuni dicono che i partiti non prendevano tangenti. Gli altri vanno in processione con san Di Pietro.
Nel trentennale di Tangentopoli si moltiplicano le commemorazioni. Come ogni anno i nostalgici di Tonino Di Pietro, convenuti da tutta Italia, si sono ritrovati a Montenero di Bisaccia, paese natale del Santo, per la suggestiva Benedizione dei Faldoni Giudiziari, portati in processione per le vie del borgo e deposti ai piedi dell’altare. Nel prezzo della trasferta erano compresi anche un pranzo sociale in trattoria, una fotografia autografa di Beppe Grillo e un abbonamento al Fatto Quotidiano.
Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 27 Febbraio 2022.
Allora, sentite questa. L’altro giorno mi chiamano dalla direzione del Corriere e mi chiedono di provare a intervistare Antonio Di Pietro. Siamo dentro l’anniversario di Mani Pulite, trent’anni esatti: l’idea sarebbe di andarlo a trovare a Montenero di Bisaccia, parlarci, vedere che fa adesso e, soprattutto, sapere cosa pensa di tutto quanto è successo dopo quei memorabili e tremendi giorni, quando da Milano, dal Palazzo di Giustizia rotolò giù l’inchiesta che scosse violentemente il Paese, lasciandolo traballante e con crepe ancora piuttosto profonde.
Prendo la vecchia agendina telefonica e cerco alla lettera “D”: trovo due numeri fissi e un cellulare. È ancora buono. Al terzo squillo, risponde una voce pastosa, forte, inconfondibile, e come sempre gentile. Saluti di cortesia (per i cronisti, prima nella stagione da magistrato, poi in quella di politico, andarlo a trovare nella sua masseria era una gita classica, che i giornali ti costringevano a fare almeno un paio di volte l’anno).
Di Pietro va subito al sodo: «Guardi, so già cosa sta per chiedermi. Ma la mia risposta è: no. E sa perché? Perché io ho deciso di sparire. Voglio farmi dimenticare. Di Pietro, quel Di Pietro, non esiste più».
Così, netto. Allora ci salutiamo, mi stia bene, buona fortuna, e io intanto me lo immagino con una camicia a quadri e un maglione un po’ slabbrato, le scarpe grosse da contadino e la barba un filo lunga: lo vedo in piedi dietro al cancello, dove lo lasciai l’ultima volta, lungo la strada per Palata.
Una siepe curata e i suoi tremila ulivi, i vigneti sulle colline basse, il rumore lontano di un trattore. Laggiù, la terrazza che ha trasformato in veranda, diventata il suo ufficio: un po’ contadino e un po’ avvocato, di nuovo avvocato, dopo essere stato emigrante (a 21 anni, per andare a fare il metalmeccanico a Bohmenkirch, in Germania), commissario di polizia, magistrato leggendario, deputato, senatore, due volte ministro (nel Prodi 1 e nel Prodi 2), fondatore dell’Italia dei Valori e parlamentare europeo (più una mezza intenzione di candidarsi a sindaco di Milano nel 2016 e il corteggiamento di qualche grillino ribelle, a caccia di un leader credibile). Quante cose, in questi primi 71 anni, caro Di Pietro. E che progetto gigantesco: farsi dimenticare. Ma davvero pensa di riuscirci?
Pietro Senaldi: "Di Pietro, Colombo e Davigo? Che brutta fine che ha fatto il trio di Mani Pulite". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022.
Anniversario di Mani Pulite: Pietro Senaldi, condirettore di Libero, lo ricorda parlando nel suo video editoriale della fine che hanno fatto i tre eroi di allora. "Gherardo Colombo", inzia Senaldi, "il migliore di tutti gira da 15 anni in Italia dicendo che le carceri vanno abolite e che Mani Pulite non avrebbero mai dovuto risolversi in un processo perché era un'impresa titanica e si sapeva da subito che non si sarebbe andati da nessuna parte. Secondo lui dovevano semplicemente fare una sorta di amnistia che allontanasse chi aveva preso soldi dalla politica per qualche anno, salvo poi ritornare. Quindi", puntualizza il direttore, "da pm a testimonial dell'inutilità delle carceri". Senaldi prosegue con Antonio Di Pietro: "Sappiamo tutti che ha lasciato la toga in circostanze misteriose dopo che lo hanno accusato di tutto; ha fondato un partito che, non per colpa sua, m di fatto, si è dimostrato un comitato d'affari e quindi si è sciolto come neve al sole". "Ricordiamo nel partito", insiste il direttore, "oltre lui solo Razzi e Scilipoti. Di altri nessuno si ricorda. Partito tra l'altro coinvolto anche da uno scandalo immobiliare Adesso Di Pietro è sul suo trattore, fa l'avvocato di ignoti clienti". Senaldi racconta poi di Piercamillo Davigo. "È quello che ha fatto più carriera di tutti: è stato membro del Csm e adesso è indagato. È accusato", spiega il direttore, "dalla maggioranza dei suoi ex colleghi. Quando era magistrato ha subìto 36 contestazioni e le ha vinte tutte. Da non magistrato è diventato un imputato al quale non facciamo i migliori auguri". Conclude Senaldi: "Questo dice tutto di cosa è stata Mani Pulite".
I girotondi dei missini, il cappio in Parlamento della Lega, le “lezioni” del Pds. Come è potuto accadere? Il ricordo di Riccardo Nencini su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Giugno 1992, un ricordo nitido: i consiglieri comunali fiorentini del Msi in girotondo attorno alla federazione provinciale socialista di Firenze. Urlano: “Ladri”. Giorni dopo, socialisti additati dal Pds come esempio di corruzione, mentre la Lega mostra il cappio dell’impiccato a Montecitorio e le tv di Berlusconi imperversano di fronte al palazzo di giustizia di Milano.
Una tenaglia politico-mediatica alimentata dalla magistratura e un’ondata populista che si abbatte con veemenza soprattutto sui socialisti, rei di aver snaturato il loro dna (parole di Berlinguer) per cavalcare il sogno di un’Italia nuova, dinamica, che la cultura comunista proprio non riesce a incrociare. Lo slogan è semplice, tanto efficace quanto falso come bisante: la politica è malata, la società è sana. Conseguenze: chi imbraccia la questione morale è pulito, tutti gli altri appestati.
Attenzione. Non era una novità per nessuno che i partiti fossero finanziati anche illecitamente e che vi fossero politici che dell’arricchimento personale avevano fatto la loro bussola. Tutto vero. Il punto è che, da un certo momento in poi, ciò che era stato tollerato viene perseguito. Qual è quel certo momento? L’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e il contestuale crollo del muro di Berlino. Le politiche di spesa vengono imbrigliate nelle regole ferree del Trattato, c’è un trasferimento di sovranità verso Bruxelles; il ruolo geopolitico dell’Italia cambia, si immiserisce, la presenza del più grande partito comunista d’Occidente non è più un pericolo ora che l’Urss è alle corde.
Di nuovo attenzione: non è che di scandali non ce ne fossero stati in passato, non è che fossero ignote le fonti sovietiche di finanziamento al Pci, non è che le grandi società di Stato evitassero di invitare a pranzo i tesorieri di tutti i partiti. Se vi annoiano i documenti, leggete almeno “Il tesoriere”, il bel romanzo di Gianluca Calvosa edito da Mondadori. La differenza è che la classe politica aveva reagito compatta, si era ribellata alla gogna. Tutta la classe politica. Quando Aldo Moro era intervenuto alla Camera (1977) dichiarando che la Dc non si sarebbe fatta processare (scandalo Lockheed), il Pci era rimasto in silenzio, protagonista com’era del governo Andreotti. Aggiungo che l’ombrello americano proteggeva ancora il sistema politico.
Veniamo al dunque. Con i primi anni Novanta la storia si avvita, la presunzione di innocenza si rovescia in presunzione di colpevolezza, si annuncia la rivoluzione ora che il mondo è cambiato. A morte i partiti, ma non tutti i partiti. Tuttavia, poiché “le rivoluzioni sono tristi” (Dahrendorf) e tradiscono i sogni, la generazione sessantottina allocata tra stampa e magistratura che invoca la tempesta perfetta sui partiti sacrileghi s’imbatte nell’uomo di Arcore. Storia nota, storia recente. La novità è che oggi conosciamo anche i numeri del lavoro svolto da Mani Pulite: condannato solo il 54% degli indagati.
Gli effetti: privatizzazioni selvagge, personalizzazione della politica, rottura degli equilibri costituzionali, fine del garantismo. Non sono ingenuo. Molti di questi fattori si sarebbero presentati comunque, figli di profondi cambiamenti sociali e della globalizzazione. C’è un però. In Italia sono calati come una mannaia, altrove, pur in presenza di altrettante tangentopoli (Khol sotto inchiesta in Germania, Gonzales in Spagna, uomini di Mitterrand in Francia), gli effetti sono stati più contenuti, la democrazia parlamentare ha retto senza offrire il fianco all’antipolitica.
Un’ultima domanda: perché Craxi capro espiatorio? Le tesi si rincorrono. Sigonella, Israele, complotti. Che Di Pietro frequentasse il consolato americano a Milano è un fatto accertato, e nei documenti leggi anche dell’altro e non era il the delle cinque. Ma io vedo di più. Condannato per una colpa politica. L’aver rappresentato un’eresia, il riformismo del socialismo umanitario, una minoranza invisa sia alla cultura comunista che a quella cattolica dominanti in Italia, l’aver rotto una consuetudine consociativa, l’aver difeso economia di mercato e stato sociale in un paese dove il profitto viene considerato peccato. Questo, non perché i socialisti fossero più malandrini di altri.
L’oggi è sintetizzato nelle parole di Gherardo Colombo, uno dei protagonisti del pool: “Sono finite le indagini ma non la corruzione. La sfiducia cresce, il tessuto sociale è liso, logoro, consumato”. Nutrita dallo scontro “buoni contro cattivi” la Seconda Repubblica è nata defunta. Servirebbe normalità, la normalità di un paese civile.
Sembra ieri, ma è oggi. Come uscire da questi trent’anni di Tangentopulismo. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 17 febbraio 2022.
Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori
A un diciottenne di oggi, le decine di articoli che da giorni riempiono le pagine dei quotidiani per il trentennale di Mani Pulite devono fare l’effetto che ai diciottenni del 1992 avrebbero fatto altrettante pagine dedicate alla nazionalizzazione dell’energia elettrica o alla riforma della scuola media, alla nascita del quarto governo Fanfani o all’elezione di Antonio Segni al Quirinale. Un conto è il dovere della memoria e anche il gusto per le ricorrenze, un altro è l’ossessione.
Forse però non è proprio così. Forse sarebbe più esatto dire che ai diciottenni di oggi dovrebbero fare quell’effetto, trattandosi di vicende di trent’anni fa, se solo da trent’anni in qua gli eventi avessero seguito il loro corso naturale (diciamo pure un corso qualsiasi, invece di ristagnare in questa enorme pozzanghera da cui non riusciamo a uscire). La differenza, infatti, è che mentre i principali fatti politici del 1962 erano a tutti gli effetti, per un ragazzo dei primi anni novanta, materiale per musei e libri di storia, lo stesso proprio non si può dire, oggi, per Mani Pulite, per lo scontro tra politica e magistratura, per le polemiche su questione morale e stato di diritto, giustizialismo e garantismo.
Basta accendere la televisione per trovarci, quasi ogni giorno, Piercamillo Davigo intento a concionare su questi argomenti, accompagnato da numerosi colleghi (tanto quelli ancora in servizio quanto quelli nel frattempo diventati ministri, parlamentari e capi partito), sempre attorniati da uno stuolo di giornalisti amici, ma forse bisognerebbe dire compagni d’arme, perché è in quella stagione, nel fuoco della battaglia di trent’anni fa, che si sono saldate relazioni e solidarietà indistruttibili. Lo spettacolo è sempre lo stesso, gli stessi i protagonisti, lo stesso persino il lessico. Ieri, oggi e domani.
Sin dai primi anni novanta, si è pensato che riforme elettorali e istituzionali avrebbero chiuso quella fase drammatica dando vita a un nuovo sistema, fondato sulla legittimazione reciproca tra gli schieramenti in un quadro di regole condivise. Sfortunatamente, abbiamo avuto invece il tentativo di entrambi i poli di scriversi le regole a proprio vantaggio, in un contesto di delegittimazione reciproca sempre più violento, che ha prodotto di conseguenza l’esplosione del populismo e dell’antipolitica, a destra e a sinistra.
Il dibattito pubblico è stato egemonizzato per decenni da un manicheismo isterico e paralizzante. Trent’anni di tangentopulismo, su cui si è cementato il bipolarismo di coalizione italiano tra berlusconiani e antiberlusconiani, anticomunisti e antifascisti, garantisti e giustizialisti. Due prigioni in cui le forze ragionevoli di entrambi gli schieramenti sono rimaste ostaggio dei rispettivi mestatori.
Le elezioni del 2018 sono state, c’è da augurarsi, il punto più estremo di una simile deriva, cominciata con Mani Pulite, o per meglio dire con l’illusione che i magistrati non dovessero limitarsi a mettere in galera i corrotti (possibilmente dopo un regolare processo e non prima), cioè accertare precise e ben determinate responsabilità penali di ben precisi e determinati individui, ma potessero guidare l’abbattimento di un «sistema» e addirittura decidere le caratteristiche del nuovo, conservando una sorta di perpetuo potere di «moral suasion», diciamo così, sulla politica.
Ma anche per smontare una simile alterazione del nostro dibattito pubblico e della stessa divisione dei poteri è necessario ricostruire un sistema politico realmente pluralistico, non ingabbiato nella logica della coalizioni pre-elettorali. Altrimenti, per non stare coi farabutti, anche i riformisti più ragionevoli finiranno sempre per schierarsi con i mozzorecchi, e al tempo stesso anche i liberali meglio intenzionati, per non stare con i mozzorecchi, finiranno sempre per schierarsi coi farabutti. E non ne usciremo mai.
L’Altra Opinione. La stagione di Tangentopoli, cosa ne rimane 30 anni dopo. Sonia Modi su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.
La storia di una strana rivoluzione nostrale, breve, intensa, travolgente e controversa
C’era una volta un Paese democratico nel quale i partiti erano arroccati al potere fin dai primi passi della Repubblica; c’era una volta un Paese schiacciato tra due blocchi – quello del “mondo del bene”, cioè gli USA, e quello del “mondo del male”, ovvero il blocco comunista dominato dall’URSS – nel quale circolava uno strano virus chiamato “corruzione”, un virus ineluttabile che sembrava anche inestirpabile e refrattario a qualsiasi tipo di vaccino; c’era una volta un Paese nel quale un giorno tutto ciò che pareva durare in eterno sembrò cambiare definitivamente; quel giorno era il 17 febbraio 1992 e quel Paese era l’Italia.
Ai più giovani sembrerà strano, eppure il nostro Paese ha conosciuto un’inedita stagione, travolgente e rivoluzionaria, appassionante e controversa, in cui i grandi partiti politici, assieme ai loro leader incontrastati e ai potenti manager dei maggiori gruppi imprenditoriali italiani, furono repentinamente spazzati via dal vento del cambiamento. In quegli stessi giorni la stampa internazionale raccontava questa storia descrivendola come un’epopea che avrebbe portato l’Italia finalmente in Europa.
Questa che vi sto raccontando è la storia di “Tangentopoli”, la storia curiosa del nostro Paese improvvisamente innamorato della legalità. Quella lontana fase del Paese è la stagione delle “Procure d’assalto”. L’infatuazione degli italiani, va detto, è durata molto poco. Il suono del tintinnio delle manette ci ha accompagnato esattamente per due anni, dal febbraio 1992 a fine 1993, dopodiché tutti hanno cominciato a pensare che l’Italia fosse cambiata, finalmente liberata dal fenomeno della corruzione.
Questa, come vi ho già detto, è la storia di una rivoluzione, e come in tutte le rivoluzioni, ad un certo punto, repentinamente, tutto cambia. Cambia almeno fino alla restaurazione, quando tutto, anche se con forme diverse, torna più o meno come prima.
E come in tutte le rivoluzioni, sempre piene di contraddizioni e misteri, anche in questa ci sono i carnefici e le vittime, gli eroi e i potenti da decapitare, i morti e i sopravvissuti. Gli eroi sono gli inquirenti, mentre i potenti che ci rimettono la testa sono i politici e gli imprenditori. I morti sono i tanti che, per vergogna o perché sentendosi innocenti si vedono già condannati dall’opinione pubblica, decidono di non affrontare l’ondata del cambiamento e si tolgono la vita. I sopravvissuti sono i tanti che, anche in questa strana rivoluzione nostrale, riescono a riciclarsi nella “Nuova” era.
Ma ritorniamo al 17 febbraio 1992. Tutto inizia in un pomeriggio di un lunedì, un lunedì qualsiasi. Tutto parte da un ospizio per anziani, il più grande istituto di ricovero per vecchi indigenti della città più frenetica di Italia: Milano. E nella città dove tutti lavorano, sempre, passa inosservata una notizia: l’ennesima tangente versata da un anonimo piccolo imprenditore ad uno sconosciuto amministratore locale.
Un piccolo caso di ordinaria corruzione, dunque. E tuttavia, quella notizia di piccola cronaca cittadina si rivelerà come il minuscolo sassolino che pian piano cresce e si trasforma in una terribile valanga.
Eppure di strani affari si vocifera da anni. E che questo accada soprattutto a Milano, nella Milano degli anni ottanta, nella “Milano da bere”, in quel lontano 1992 non meraviglia proprio nessuno. E tuttavia, alla fine il fenomeno apparirà di dimensioni gigantesche, al di là delle più catastrofiche previsioni degli stessi inquirenti.
Quel sassolino che prenderà poi la forma di valanga si chiama Mario Chiesa, ingegnere, socialista e presidente, appunto, dell’ospizio Pio Albergo Trivulzio. Per cinque settimane questo amministratore rimane sulle sue, tace e rimane tranquillo in carcere. Dalla sua cella, ovviamente, è in grado di venire a sapere tutto ciò che su di lui viene detto fuori dal carcere: il partito e i compagni che prendono le distanze da lui e dai fatti contestategli, nonché le voci sugli imprenditori pronti a parlare e a coinvolgerlo. Insomma, si sente messo in un angolo, lasciato solo e abbandonato al suo destino.
Così quel “Mariouolo” – definito in tal modo dal Segretario del PSI, Bettino Craxi – per non sentirsi più solo prende la decisione di chiamare in causa gli altri mariuoli, vuotando il sacco su tutto ciò di cui è a conoscenza, lavandosi la coscienza e coinvolgendo chi doveva essere coinvolto, magari anche contando – chissà – su di un minimo di riconoscenza da parte di quei pubblici ministeri ai quali stava per regalare momenti di gloria.
I sodali, a loro volta, per paura di andare a San Vittore a fare compagnia al primo sassolino, adotteranno lo stesso comportamento e “spintaneamente”, come diranno in seguito gli inquirenti, affolleranno i corridoi della Procura di Milano per confessare.
Evidentemente, in quei freddi giorni di febbraio, i grandi esponenti politici dovevano essere in più importanti faccende affaccendati per non accorgersi dell’onda anomala appena partita da Milano che da lì a poco li avrebbe travolti.
Di lì a breve però, questo meccanismo esponenziale porta i penitenti a confessare il meccanismo di finanziamento illecito dei partiti e gli arricchimenti personali. Il risultato sarà, come in una reazione a catena, una valanga di denunce, ammissioni e chiamate in correità. In questo prematuro “Grande Fratello” giudiziario, tutto – arresti, confessioni, condanne, suicidi – diventa uno show.
In poche settimane, con un effetto domino, questa bizzarra sorta di confessione collettiva travolge tutto e tutti: potenti, partiti e aziende. Il culmine sarà raggiunto con la “maxi tangente” di 150 miliardi di lire. Sarà definita, e non a torto, la madre di tutte le tangenti. Risulterà essere versata dalla Montedison di Raul Gardini a favore di tutti i partiti. Sarà corrisposta per favorire la spregiudicata fusione con l’Eni, multinazionale di controllo nazionale.
Sotto processo però è principalmente il Partito Socialista di Bettino Craxi. Quest’ultimo, alla fine, lascerà Roma e Milano per rifugiarsi ad Hammamet. Esule o latitante lo si consideri, il vecchio “Cinghialone” resterà in Tunisia fino alla sua morte. Nei suoi ultimi anni di vita l’ex presidente del Consiglio appare sicuramente stanco e malato, l’ombra del grande leader socialista che fu un tempo. La sua scelta di vivere lontano dall’Italia, ingenererà in molti italiani e nel mondo intero il dubbio che, nel nostro Paese, gli scontri politici si risolvono non nelle sedi istituzionali bensì attraverso l’azione della magistratura e insinuerà in molti il sospetto del “golpe giudiziario”.
Anche il suo diretto rivale Antonio Di Pietro, il protagonista assoluto di questa stagione, lasciando la magistratura prematuramente e, soprattutto, abbandonando l’inchiesta che lo ha reso popolare per gettarsi e rifugiarsi nella politica, non ne esce assolto. Alimentando il mito dell’inchiesta di “Mani Pulite mutilata” farà crescere il populismo e il malcontento nel Paese che proseguirà fino ai nostri giorni.
Orbene, comunque si voglia leggere questa lontana storia ormai sbiadita, resta il fatto che alla fine del 1993 quasi tutti i partiti storici saranno spazzati via, prima dalle inchieste giudiziarie e poi dalle elezioni.
A conclusione di questo biennio gli italiani penseranno che l’Italia sia cambiata davvero e che da quel momento la legge sarebbe stata uguale per tutti. Si comincia a parlare di “Seconda Repubblica”, di un sistema elettorale diverso e di partiti e leader nuovi.
Mentre l’Italia si perde dietro a queste illusioni non si accorge che i benefici effetti del cambiamento sono già svaniti e hanno lasciato velocemente il posto alle vecchie abitudini.
Dalle macerie della vecchia “Prima Repubblica” nasce un modo di fare politica “nuovo” solamente di nome, ma di fatto figlio di quello passato che era stato appena sepolto. La somiglianza genetica la si ravvisa principalmente nella corruzione che non è affatto scomparsa ma piuttosto si è mimetizzata, ha cambiato vesti, si è “polverizzata” – così è stato raccontato – in micro corruzione e comunque rimane sempre presente in ogni istituzione.
La novità invece è rappresentata dal nuovo nemico, la magistratura definita “politicizzata”, responsabile di aver sconfinato dal proprio ambito istituzionale e di aver compromesso gravemente il fragile equilibrio politico-economico che aveva finora tenuto in piedi il Paese.
Dalle ceneri di quell’era cupa della democrazia italiana nasce, dunque, solo questo, non un profondo cambiamento della politica e della società.
Così a trent’anni di distanza da quel 17 febbraio 1992, “Mani Pulite” appare non più tanto il nome di un’indagine che ha fatto storia, quanto la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova, fatta da una politica mediatica, priva di principi e di ideali, ma infiocchettata da slogan, una nuova epoca caratterizzata da un perdurante scontro tra poteri dello Stato. Un lungo e costante conflitto tra politica e magistratura, dunque, che diviene cronaca anche di questi giorni; ma questa è un’altra storia…
Mani Pulite 30 anni dopo, Cusani: "Ho un primato, sono l'unico pregiudicato condannato in quest'aula". Edoardo Bianchi su La Repubblica il 17 Febbraio 2022.
"Sono assolutamente certo di avere oggi un primato in quest'aula: essere l'unico pregiudicato condannato". Inizia così il discorso di Sergio Cusani, condannato per la maxitangente Enimont, durante l’incontro dal titolo "Mani pulite 30 anni dopo - Magistratura e lotta alla corruzione prima e dopo Tangentopoli" organizzata dall’Associazione Nazionale Magistrati di Milano (ANM) presso l'aula magna del Palazzo di Giustizia in occasione dei 30 anni dall'inizio di Mani Pulite, ovvero dall'arresto d Mario Chiesa. "Ho commesso la colpa e non ho cercato il perdono, in quanto io stesso non mi perdonerò mai per gli errori commessi", ha aggiunto Cusani, ammettendo successivamente di aver provato un coinvolgimento forte ed emotivo nel ritornare in tribunale: "Non venivo in questo palazzo da tantissimi anni. E un po' come tornare a trent'anni fa". "So che quando sarà, me ne andrò con un pesante fardello. Per quanto in cuor mio mi renda assolutamente conto di aver commesso errori di sistema, quegli errori portano la mia firma individuale. E' una responsabilità personale che non può essere in alcun modo sottaciuta", ha concluso Cusani.
L’Anm celebra mani pulite senza nessun “mea culpa…” L’evento si è svolto ieri presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 19 febbraio 2022.
Non poteva mancare, nel luogo del “delitto” e, soprattutto, nel giorno del trentennale dell’inchiesta che cambiò la storia del Paese, un convegno per ricordare cosa fu Mani pulite a Milano. Organizzato dalla locale sezione dell’Associazione nazionale magistrati, l’evento si è svolto giovedì presso l’aula magna del Palazzo giustizia di Milano ed ha visto la partecipazione di alcuni protagonisti dell’epoca, come l’ex pm Gherardo Colombo o Sergio Cusani, l’imputato eccellente del processo per la maxi tangente Enimont. Fra i relatori, il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, il professore Giovanni Fiandaca, l’ex componente del Csm e giudice costituzionale Gaetano Silvestri, il presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano Vinicio Nardo. Tre le sessioni trent’anni dopo l’arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: “Poteri e magistratura prima di Mani pulite”, “Mani pulite la parola ai testimoni”, “Mani pulite un bilancio”.
Una premessa: chi si aspettava un serio mea culpa sulle decine di persone che si sono tolte la vita perchè finite nel tritacarne giudiziario o sull’abuso della custodia cautelare da parte di magistrati, sarà rimasto sicuramente deluso. I lavori del convegno non hanno approfondito, come forse sarebbe stato opportuno, tali aspetti. «Prima le indagini non decollavano», hanno esordito ii relatori, cercando di spiegare perché una «banale inchiesta giudiziaria» si sia poi trasformata in un fenomeno epocale. L’antefatto è sempre lo stesso: la svolta milanese nelle indagini per corruzione che segnò un cambio di passo rispetto a quanto accadeva nelle palude romana che metteva su un binario morto tutti i procedimenti nei confronti dei “potenti”. Tesi da prendere con le molle. Le regole del gioco erano diverse. Ad esempio, si potevano riprendere le persone con le manette ai polsi. Ed il nuovo codice di procedura penale, con il grande potere dato ai pubblici ministeri, fece da volano all’inchiesta.
Fu con Mani pulite che l’avviso di garanzia divenne un marchio d’infamia. La degenerazione dei partiti agli inizi degli anni Novanta non era una novità. Da tempo «la gente aveva la percezione che qualcosa non stesse funzionando», ha ricordato Benedetta Tobagi. L’inchiesta, è stato sottolineato, venne raccontata da giornalisti giovani, senza esperienza ma volenterosi, che sposarono ciecamente le tesi dei pm, mitizzando così le loro figure, come quella di Antonio Di Pietro, trasformato in un eroe nazionale. Significativa, come nelle attese, la testimonianza di Cusani. «Non voglio minimizzare il danno della pratica tangentizia», ha esordito l’ex manager, ma quello che è successo dopo gli arresti non ha certamente raggiunto lo scopo, dal momento che la corruzione c’è ancora. «Mi hanno cambiato 16 volte i capi d’imputazione in un processo che doveva durare tre giorni ed invece è durato mesi», ha aggiunto Cusani, ricordando la storia di Enimont e le tante “novità”, come la diretta televisiva del processo, martellante, che accompagnava le giornate degli italiani, esponendo al pubblico ludibrio i politici dell’epoca.
Significativo il passaggio in cui Cusani ha evidenziato come lo Stato non volesse lasciare la chimica ad un privato: «Era interesse pubblico mantenere il controllo di un grande comparto industriale». Come poi ricordato dall’avvocato Nardo, i processi di Mani pulite furono caratterizzati da «poca pena» e da tantissimi patteggiamenti. Un meccanismo che permetteva agli inquirenti di andare avanti. Oggi è tutto cambiato. Le pene per questi reati sono aumentate in maniera esponenziale e la corruzione è stata equiparata ai reati per mafia. Ad essere sempre uguali le tante storture del processo penale, l’appiattimento dei gip sul pm, il ruolo dell’avvocato difensore che non è più “accompagnatore” dell’indagato davanti ai magistrati, ma fatica comunque a ritagliarsi il suo spazio. Da parte di Santalucia, infine, un accenno alla crisi attuale della magistratura, con livelli oggi di consenso presso l’opinione pubblica ben diversi rispetto a trenta anni fa.
I pm processarono un sistema politico, ma spesso i giudici ebbero la forza di dire no. La politica ha il diritto di capire le ragioni di questa anomalia. Giuseppe Gargani su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Le indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “mani pulite” sono iniziate trent’anni fa e da quella data si attende una riforma della giustizia che metta ordine nel rapporto tra la politica e la magistratura e adegui l’ordinamento giudiziario alle nuove esigenze e al nuovo ruolo che il magistrato deve assumere nella società. Il governo a distanza di tanti anni presenta una riforma dell’ordinamento giudiziario e del CSM molto timida e incerta che può essere solo considerata una bozza per far lavorare il Parlamento. È strano che il Presidente Draghi e la ministra Cartabia non abbiano avuto più coraggio per rendere moderno il sistema giudiziario e non abbiano tenuto conto della sovraesposizione del giudiziario che determina uno squilibrio istituzionale dannoso per la democrazia, proponendo una riforma che potesse incidere sul ruolo da attribuire alla magistratura coerente con la Carta Costituzionale.
Draghi ha di fatto confessato che non poteva fare di più e ha sfidato il Parlamento a trovare un’intesa più larga promettendo di non ricorrere al voto di fiducia.
Si è parlato tanto in questi mesi della prevalenza delle decisioni del Governo che non lasciano libero il Parlamento per le molteplici questioni della pandemia; dobbiamo riconoscere che in questo caso il Parlamento ha la possibilità di dimostrare la sua autonomia e la sua capacità di trovare punti di incontro tra i gruppi parlamentari.
È una occasione preziosa e forse unica per fare una riforma che riaffermi la prevalenza del potere legislativo sull’ “ordine giudiziario“ così come statuito dalla Costituzione.
La proposta del Governo è dunque parziale e quindi suscettibile di approfondimenti.
Avremo modo di intervenire sulle singole norme e dare suggerimenti; qui ci limitiamo a dire che la riforma elettorale per le elezioni dei componenti del CSM lungi da scoraggiare la invadenza delle correnti ne accentua le caratteristiche negative. Sì è riportato nell’ambito della magistratura lo schema della legge cosiddetta “mattarellum” utilizzata per le elezioni del Parlamento, una legge maggioritaria e un po’ proporzionale che tanti danni ha procurato alla politica e alla “rappresentanza” e che creerebbe danni all’organo di autogoverno, incrementando il potere delle correnti più organizzate.
Se i quattordici consiglieri saranno eletti con il sistema maggioritario con collegi binominali è evidente che la corrente più consistente verrà premiata anche se le candidature non avranno bisogno di firme di presentazione e quindi possono essere personali e proprio per questo subordinate a gruppi di pressione organizzati. Il personalismo è dannoso in politica e in ogni consultazione elettorale perché elimina qualunque riferimento ideologico e culturale, estremizza le posizioni e alimenta le clientele Invece anche per il CSM il sistema elettorale proporzionale renderebbe più trasparente le contrapposizioni tra le liste diverse che fanno riferimento a contenuti a programmi, a idee collegiali. Questo è l’unico sistema che potrebbe eliminare la degenerazione delle correnti.
Naturalmente l’ipotesi, che pur viene proposta, del sorteggio tra i magistrati per accedere al CSM è perversa e inaccettabile: ho sempre ritenuto questa una proposta vigliacca perché elimina la responsabilità della scelta e naturalmente offende la Costituzione.
Dunque finalmente il Parlamento ha la possibilità, alla fine della legislatura di poter qualificare le sue scelte perché è davvero arrivato il momento di affrontare alcune questioni che sono fondamentali e pregiudiziali per porre rimedio ad una crisi che investe il modo di fare giustizia da parte di chi, per tutti gli eventi che sono venuti alla luce, non ha una legittimazione adeguata per essere considerato al di sopra delle parti.
Per tutto quello che è stato evidenziato le disfunzioni della magistratura hanno inciso e incidono nelle decisioni giurisdizionali, mettendo in dubbio la sua tenuta morale e, il cittadino ha capito che i nemici del “indipendenza“ non sono i politici o i contestatori di turno ma gli stessi magistrati.
È per riconquistare la fiducia dei cittadini che gli stessi magistrati dovrebbero chiedere riforme adeguate. Dobbiamo constatare che la magistratura ha assunto un ruolo politico anomalo non in linea con la Costituzione configurando una Repubblica giudiziaria che ha messo in discussione l’autonomia della Repubblica parlamentare e la separazione dei poteri.
L’espansione del potere giudiziario ha di conseguenza acuito la crisi del potere legislativo che ha perduto credibilità anche per aver esso stesso dato per legge una delega ampia al giudice di decidere le controversie sociali e quindi di incidere politicamente.
Gli accadimenti politici e giudiziari dagli anni 90 in poi, cioè dalle indagini di “Tangentopoli” che hanno colpito i partiti e tanti rappresentanti politici, hanno aggravato questo contrasto istituzionale e hanno determinato uno squilibrio tra i poteri dello Stato, hanno avvilito le istituzioni considerate dai più ostili e corrotte.
Le indagini di “mani pulite” sono finite con la assoluzione degli imputati in una alta percentuale con motivazioni a volte molto severe da parte dei giudici nei riguardi dei pubblici ministeri; le loro indagini non hanno costituito prova per una possibile condanna! Anche le indagini per “mafiopoli” sono state considerate fasulle, e hanno sancito la sconfitta dei pubblici ministeri ridando prestigio allo Stato e ai rappresentanti dello Stato.
Dobbiamo prendere atto oggi che i giudici hanno fatto giustizia della magistratura inquirente e hanno interpretato gli avvenimenti con il dovuto rigore logico per cui il Pool “mani pulite” di Milano considerato rigeneratore di uno Stato etico e della legalità, ha operato una rivoluzione giudiziaria fasulla e dissacrante.
La maggior parte delle decisioni giurisdizionali hanno cancellato la pretesa dei magistrati inquirenti di accreditare una storia falsa per screditare i partiti politici e l’apparato dello Stato.
La sentenza ha il valore giuridico di verità processuale, in base a fatti accertasti senza la pretesa di ricostruire una storia generale.
A questo punto la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così smaccata da distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?!
La classe dirigente che ha governato il Paese fino agli anni 90 deve pretendere una risposta perché a distanza di tanti anni è possibile fare un’analisi non in contrapposizione ai magistrati ma insieme a loro e alla Associazione che li rappresenta coinvolgendoli sulla necessità di una comune rivoluzione culturale.
L’associazione Nazionale magistrati il 17 prossimo organizza un convegno a Milano per ricordare quelle indagini con la partecipazione di uno dei principali imputati di quel periodo Cusani. Bisognerà capire se si tratta di una celebrazione per esaltare o per criticare il metodo che soprattutto la procura di Milano ha adottato con la partecipazione costante singolare del giudice Ghitti.
L’Associazione ha sempre ritenuto che le indagini di “mani pulite” fossero normali, fatte secondo le regole del codice e ora invece individua un potere della magistratura di prima e di dopo tangentopoli. Avremo modo di valutare Intanto gli avvocati, gli uomini di cultura e i politici e i giornalisti si confronteranno in un convegno a Roma il 23 febbraio sul significato che quell’indagine ha avuto per tracciare una storia vera o per indicare quella immaginata dai magistrati.
Gherardo Colombo che faceva parte di quel gruppo milanese di sostituti procuratori ha ripetuto in una trasmissione televisiva con molta forza che il “sistema” finanziamento pubblico dei partiti e corruzione è stata una scoperta importante e decisiva, e questo è il merito di quelle indagini.
Io dico da tanti anni che è stato indagato appunto il “sistema“ e non i singoli fatti, i singoli imputati, e questa è la patologia che dovremmo tutti insieme riconoscere.
Luigi Ferraioli dice che il processo penale può diventare “storia di errori” e il diritto penale “storia di orrori”.
Dobbiamo verificare questo perché a distanza di trent’anni il giudizio può avere valore storico.
Bobo Craxi e Gherardo Colombo, scontro in tv sulla P2. Il Tempo il 17 febbraio 2022.
Scontro totale negli studi di Porta a Porta tra Bobo Craxi e Gherardo Colombo. Si parla del sistema di corruzione nella Prima Repubblica e Bobo Craxi descrive il funzionamento dell'apparato corruttivo. "Il sistema politico si finanziava illegalmente - ha spiegato Bobo Craxi negli studi di Vespa - Tutti i partiti della Prima Repubblica si finanziavano illegalmente. Tutto questo era tollerato con la compiacenza della magistratura che faceva parte integrante del regime. O i giudici voltavano la faccia dall'altra parte o avrebbero dovuto cambiare mestiere".
A questo punto viene chiamato in causa Gherardo Colombo che conferma la compiacenza della magistratura fino al 1992: "E' indubbio che la magistratura chiudeva un occhio - conferma Colombo - Fino al 1992 non è stato possibile aprire un cassetto del potere. A me sono successe due occasioni personalmente per scoprire il sistema della corruzione. Diventa anche spiacevole dirlo ma il nome di tuo papà l'ho trovato per la prima volta nelle carte della P2. Comunque non ho detto che stava nella P2".
Bobo Craxi non ci sta e replica stizzito per correggere subito Colombo: "Non fare così sulla P2 - sbotta Bobo Craxi - Non devi guardare me perdonami. Non puoi venire in tv a dire che mio padre stava nella P2. Ogni riferimento è fastidioso. Ci ascoltano milioni di italiani e i disastri li avete già combinati. Ci sono carte e libri che dicono che voi, invece, eravate legati a servizi stranieri. Il riferimento alla P2 è fastidioso".
"Le monetine su Craxi? Nessuna ipocrisia se adesso le critico". Francesco Boezi il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.
L'ex pm: "Dalla cittadinanza comportamenti scorretti. Non volevamo fare la rivoluzione".
Gherardo Colombo, membro del pool di Mani Pulite, si chiede il perché delle «domande al plurale» ma è chiaro come quella fase storica italiana abbia avuto per protagonista anche un certo modo d'intendere i rapporti tra giustizia e politica. «Possibile - annota - che abbiamo commesso errori». E che «cambiare idea», in fin dei conti, non è ipocrita.
Dottor Colombo, lei ha detto che la scena delle monetine su Craxi le fece un effetto negativo. Qualcuno, però, ritiene che sia ipocrita dolersi oggi.
«Credo di aver detto e scritto più volte che sono stati tenuti comportamenti scorretti da parte della cittadinanza seppur non riferendomi nello specifico alle monetine. Ma non è questo il punto. Vuole dire che se non l'ho detto allora non potrei dirlo oggi? Credo di averlo detto e scritto, e sicuramente lo pensavo, ma mettiamo che non l'avessi pensato, non potrei aver cambiato idea? È ipocrita cambiare idea?».
Lei forse non voleva fare la rivoluzione. L'impressione è che nel pool ci fosse chi voleva farla eccome.
«Nessuno di noi voleva fare la rivoluzione. Solo accertare i fatti corruttivi - e le relative responsabilità - che purtroppo erano gravi e molto diffusi. C'era certo una forte richiesta di cambiamento che veniva dalla cittadinanza e che era alimentata dai media, le tv che mettevano in pianta stabile giornalisti davanti al palazzo di giustizia a raccontare le malefatte di chi veniva coinvolto nelle indagini. Che spesso sbattevano il mostro in prima pagina. E forse hanno impropriamente alimentato anche reazioni emotive di rabbia nella cittadinanza».
Perché Mani pulite ha defenestrato soltanto una parte del sistema partitico italiano?
«Mani pulite non ha defenestrato nessuno. Ha svolto indagini nei confronti di persone in ordine a reati per i quali esistevano elementi per indagare. Queste persone facevano parte di tutti i partiti ad eccezione di Msi e Dp, se ricordo bene. Se si riferisce all'ex Partito comunista le posso fare l'elenco delle persone per le quali abbiamo chiesto al gip, e ottenuto, l'applicazione della misura cautelare in carcere. Abbiamo chiesto anche il rinvio a giudizio di un esponente di particolare rilievo, che il tribunale poi ha assolto. Non ricordo critiche per quel rinvio a giudizio».
I rapporti tra politica e giustizia sono ancora oggetto di discussione. Oggi sembra spirare un vento garantista.
«C'è indubbiamente un vento garantista e ne sono davvero contento. Mi dispiace che riguardi soprattutto alcune categorie (sembrano esclusi i ladri e i piccoli spacciatori). C'è anche un vento negazionista, che non considero funzionale ad una narrazione storica corretta».
La soluzione politica, ai tempi di Mani pulite, sarebbe stata preferibile a quella giudiziaria?
«Avevo suggerito l'idea che sarebbe uscito dal processo (e non sarebbe quindi andato in carcere) chi avesse raccontato come erano andate le cose, avesse restituito ciò di cui si era appropriato indebitamente, si fosse allontanato per un periodo di tempo ragionevole dalla vita pubblica. Qualcosa di analogo a quel che ha fatto il Sudafrica con la Commissione per la verità e la riconciliazione, fatti i necessari distinguo circa la drammaticità di quel conflitto. Era il luglio del 1992, il suggerimento non è stato neppure preso in considerazione».
Lei no, ma altri suoi colleghi hanno scelto la via della politica. Che ne pensa delle «porte girevoli»?
«Ho da tempo e a più riprese detto di avere una regola: se mi fosse venuto in mente di candidarmi mi sarei dimesso dalla magistratura (e quindi non vi sarei mai rientrato) e avrei lasciato passare un periodo consistente, diciamo due o tre anni, dalle dimissioni alla candidatura. Era la mia regola».
Le è capitato di affermare che «il carcere non risolve». Figurarsi la custodia cautelare.
«Se è per quello ho scritto da oltre 10 anni un libro, Il perdono responsabile, in cui dico che il carcere andrebbe abolito. Sono dell'idea che da un'altra parte (che non è il carcere) ci debba stare soltanto chi è pericoloso (e solo per il tempo in cui è pericoloso), e che questa altra parte debba essere un luogo in cui tutti i suoi diritti che non confliggono con la tutela della collettività siano garantiti e tutelati, che si debba smettere di considerare la pena una retribuzione del male commesso, che sia necessario riparare la vittima per il dolore subito e recuperare alla società chi il male lo ha agito. Ancora le regole non sono cambiate. Allora, e facendo il lavoro che facevo, dovevo rispettarle. E condividevo, peraltro, l'idea che il carcere, per quanto non mi piacesse mandarci le persone, fosse educativo, servisse a prevenire. Cosa che tanti lettori condividono e io non più. Anche per questa ragione mi sono dimesso una quindicina di anni fa. La custodia cautelare non è uno strumento punitivo, ma serve appunto ad evitare il pericolo di inquinamento della prova o la commissione di nuovi reati. Cose che pare vadano bene per i ladri d'auto ma non per i colletti bianchi. Possibile che abbiamo commesso errori, siamo esseri umani, ma personalmente ho sempre cercato di evitarli, e credo altrettanto abbiano fatto i miei colleghi».
Siete consapevoli di aver spinto, a distanza di anni, una parte di questo Paese ad allontanarsi in modo deciso dal giustizialismo?
«Non capisco perché mi rivolge costantemente le domande al plurale. Le ho già detto che apprezzo il garantismo, che non sia negazionismo, di cui ho cercato di essere interprete nei limiti del possibile anche in Mani pulite (così come nelle indagini sulla P2, sui Fondi neri Iri e così via). Però non mi pare che ci sia in giro tanto garantismo se non per i reati dei colletti bianchi. Non mi pare ci sia tanto di nuovo sotto il sole rispetto a quando era vietato aprire i cassetti del potere. Se mi sbaglio sono molto contento».
Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju".
Mani Pulite, dopo trent'anni i magistrati star si dicono toghe eroiche a loro insaputa. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 19 febbraio 2022
Curioso l'argomento degli influencer in toga, che a trent' anni dall'inizio del teatro di Mani Pulite vengono ora a spiegare di essere stati senza lor colpa trasformati in eroi dai giornalisti. Non che l'argomento sia inedito. Il guaio è che questa loro impassibilità si manifestava nell'eterno esibizionismo delle conferenze stampa, negli ettari di interviste, nelle maratone e nelle piazze pulite della tv consacrante.
E che a quell'argomento ricorrano ora, dopo l'apologetica trentennale che ha fatto del magistrato eponimo la guest star dell'Italia onesta contro quella corrotta, ecco, lascia perplessi. L'altro giorno, sul Corriere, Gherardo Colombo dichiarava che «i media giocarono un ruolo determinante nel trasformarci in "eroi"».
All'intervistatrice, la quale obiettava che forse alcuni si erano prestati alla consacrazione, Colombo ha risposto «neanche tanto»: e a dar forza all'assunto ha raccontato che lui rifiutò di dare al quotidiano Repubblica delle foto da bambino, che avrebbero dovuto guarnire un articolo di Giorgio Bocca. Diciamo che questa, pur encomiabile, ritenutezza non è stata decisiva per fermare il cantiere del monumento al pool.
Colombo: mai pensato di fare la rivoluzione. Mani Pulite poteva arrivare prima. Diego Motta su Avvenire il 16 febbraio 2022.
La giustizia è cambiata. Trent’anni dopo lo scoppio di Tangentopoli, la corruzione resta un costume nazionale, la politica rincorre ancora vecchi fantasmi e i magistrati non sono più eroi da prima pagina. «Manca il senso della comunità, dello stare insieme» sottolinea oggi Gherardo Colombo. Figura simbolo di Mani Pulite, da quindici anni ha lasciato la toga ed è diventato una delle voci più ascoltate della società civile, per il suo impegno nelle scuole e nell’associazionismo sui temi della legalità. Dai corsi di formazione con i gesuiti alle battaglie per i migranti, è rimasto in prima linea, pur lontano dai riflettori. Per questo può raccontare adesso cosa è stata quella stagione e cosa occorre cambiare, dai limiti dell’azione penale alla necessità di percorsi nuovi, «che permettano il recupero di chi ha sbagliato», sottolinea Colombo.
Trent’anni dopo Tangentopoli, si tende a parlare di quella inchiesta come di una rivoluzione mancata. Lei stesso ha detto che «Tangentopoli è finita, ma non la corruzione». Quale fu il merito storico di quell’indagine e quali i suoi limiti?
Dal punto di vista storico, perché l’indagine non venisse bloccata sul nascere fu senz’altro decisiva la caduta del Muro di Berlino, perché di fatto segnò anche in Italia la fine del sistema dei blocchi di potere contrapposti. Infatti Mani Pulite poteva scoppiare dieci anni prima, se solo fossero rimaste a Milano le indagini sulla P2 o sui fondi neri dell’Iri, dei quali nessuno più si ricorda. Invece finì tutto a Roma e le relative inchieste evaporarono. Mani Pulite nacque da un episodio solo, quello di un imprenditore che andò dai carabinieri a denunciare un fatto di corruzione. Fu insomma la prima volta che si potè investigare sui reati delle persone che rivestivano posizioni di potere.
E sulla rivoluzione dei giudici?
Non abbiamo mai pensato di farne e non ne abbiamo mai fatte. Il nostro lavoro non consisteva nel cambiare il sistema politico: noi dovevamo semplicemente verificare la responsabilità penale delle singole persone. È quello che prima come giudice, poi come sostituto procuratore e infine ancora come giudice, ho cercato di fare e penso di aver fatto nel mio percorso dentro la magistratura.
Quale fu il vostro rapporto con l’opinione pubblica all’epoca? E con i media? Le strumentalizzazioni legate alle vostre indagini non sono mancate...
Ci sono stati momenti diversi. Sono dell’idea che non sia corrispondente ai valori della nostra Costituzione sbattere il mostro in pagina.
Quali sono i livelli di corruzione presenti oggi nel nostro Paese?
Oggi non esiste più un sistema della corruzione, come invece esisteva allora, intimamente connesso al finanziamento illecito, occulto, dei partiti, che mi pare essere, con quelle modalità, quasi scomparso. A mio parere è diffusa più o meno come un tempo la corruzione non sistematica, quella un po’ anarchica che coinvolge anche cittadini comuni.
È una responsabilità legata ai limiti dell’azione penale in sè o c’è dell’altro?
Io credo che il sistema penale non serva, eventualmente, che ad ottenere obbedienza, mentre la democrazia richiede consapevolezza. Peraltro quando la trasgressione è così sistematica come lo fu ai tempi di Mani Pulite, il sistema penale non è idoneo a marginalizzarla. Occorrerebbe invece lavorare molto sull’educazione, sulla cultura, accompagnare le persone ad osservare le regole perché le condividono, non perché hanno paura della sanzione.
I 15 anni fuori dalla magistratura cosa le hanno dato?
Dopo la mia uscita dalla magistratura ho intrapreso un’attività, soprattutto nelle scuole ma non solo, per aiutare a capire le regole ed arrivare a condividerle, a partire dalla Costituzione. I ragazzi che incontro sono molto disponibili al dialogo e al coinvolgimento, si lavora bene con loro se oltre che a parlare li si ascolta.
Anticipazione da “Oggi” l'11 febbraio 2022.
«Mani pulite? Credo che l’unico effetto di un certo rilievo sia consistito nel separare la corruzione dal finanziamento illecito dei partiti politici, che mi pare adesso non così diffuso come allora».
Gherardo Colombo, intervistato dal settimanale OGGI, diretto da Carlo Verdelli, a trent’anni da Mani Pulite traccia il bilancio di quella stagione: «L’inchiesta sulla corruzione svolta dalla Procura di Milano, cominciata nel 1992 nel settore degli appalti pubblici, si è conclusa, con i processi, nel 2005, e ha svelato la commissione di migliaia e migliaia di reati».
Ma la sintesi dell’ex giudice del pool è chiara: «Non la magistratura, ma la politica, in senso generale, avrebbe potuto trovare una soluzione».
È però sulle speranze, gli entusiasmi e il consenso che quelle inchieste sulla corruzione generarono che Colombo fa la considerazione più amara: «Quando è finita Mani Pulite? Quando le prove hanno cominciato a portarci verso la corruzione spicciola, dei cittadini comuni (…)
Quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per 200 mila lire segnala all’agenzia di pompe funebri un decesso, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: Ma cosa vogliono questi?».
E alla domanda su cosa abbia significato personalmente, quell’impegno, dice: «È stata la conferma finale che l’amministrazione della giustizia non arriva al termine quando riguarda i reati delle persone potenti. Lo avevo visto a cominciare dal 1981, da come finirono le indagini sulle carte della P2... La mia originaria convinzione, che sarebbe stato sufficiente che le persone sapessero perché venisse marginalizzata la trasgressione nelle alte sfere della società, ha subito gli ultimi colpi. Non è così».
Giustizia e paradossi. Renzi, Berlusconi, Salvini e Craxi: quando bisogna difendersi “dai” processi e non “nei” processi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2022
I protagonisti del processo Open sono quattro. I loro nomi sono questi: Giuseppe Creazzo, (Procuratore ), Antonio Nastasi (Procuratore aggiunto), Matteo Renzi (senatore ed ex premier), Luca Turco (sostituto procuratore). La posizione dei primi tre è chiarissima. Il procuratore e il suo vice hanno commesso reati, il senatore non ne ha commessi. La domanda che assilla un po’ tutti è: ma il sostituto Turco è anche lui colpevole o è innocente?
Chiariamo meglio.
Il Csm ha accertato che il procuratore Creazzo ha commesso atti di molestia sessuale (che nel codice penale equivalgono a violenza sessuale) e lo ha punito con una piccola multa. Il reato non è più perseguibile penalmente perché la vittima non lo ha denunciato entro un anno. Però ha confermato che la violenza c’è stata e il Csm ha ratificato. E uno. Il Procuratore aggiunto invece è stato interrogato ieri in Commissione parlamentare, sulla vicenda del suicidio o omicidio di David Rossi del Monte dei Paschi. Gli hanno chiesto se quel pomeriggio era stato sulla strada dove giaceva il corpo di Rossi. Ha negato. Il parlamentare dei 5 Stelle Migliorino ha insistito: “cerchi di ricordare…”. No, no, no, ha insistito a sua volta il Procuratore aggiunto. “Non ci sono andato”.
Allora Migliorino gli ha fatto vedere una fotografia dove c’era un signore proprio lì nella strada, vicino al corpo, e gli ha chiesto: “lo riconosce questo signore?”. Era proprio lui. Il procuratore aggiunto è diventato rosso rosso e poi ha balbettato: “può darsi, che vuole, io non mi ricordo neppure come ero vestito la settimana scorsa…” Già. Succede. Mi piacerebbe sapere come si comporta lui con un imputato che vistosamente mente e poi si giustifica dicendo che la sua memoria è debole… Comunque: e due. Stavolta, a occhio e croce, il reato potrebbe essere quello di falsa testimonianza. O magari di intralcio alla giustizia, chissà.
Poi c’è il senatore Renzi. Ha creato una fondazione, l’ha finanziata con donazioni spontanee dichiarate. Niente in nero. E siccome è legittimo finanziare una fondazione, è evidentemente innocente. È sul quarto uomo che c’è il mistero. Il dottor Turco. Lui dice di essere innocente, come Renzi, ma Renzi dice che anche lui è colpevole e lo ha denunciato. Colpevole di avere commesso degli illeciti durante le indagini, che in ogni caso, se fosse un reato, certo sarebbe un reato minore rispetto a quelli commessi dai suoi due colleghi. Deciderà il tribunale di Genova, chiamato a giudicare se Turco sia dalla parte dei colpevoli o degli innocenti. Però questa vicenda, abbastanza paradossale, ne richiama alla mente molte altre. Quelle di Berlusconi, soprattutto, ma non solo.
Per esempio quelle di Salvini o, tornando indietro nel tempo, di Craxi. Tutte queste storie ci dicono che quel luogo comune che spesso sentiamo ripetere (“bisogna difendersi nel processo e non dal processo), come quasi tutti i luoghi comuni è una fesseria. Il processo a Renzi, cioè il caso Open, essendo il più recente, credo che lo conosciate un po’ tutti. Non lo accusano di avere rubato ma di avere fondato di nascosto un partito mentre in realtà era un dirigente di un altro partito. Cioè i magistrati dicono che la Fondazione Open era un partito, anche se senza sedi, senza iscritti, senza congressi, senza simbolo, senza candidati alle elezioni comunali, regionali, provinciali, nazionali, senza un segretario, senza federazioni, senza sezioni… Scusi – chiede un passante – ma come può essere un partito? Loro non rispondono. Sono giovani, forse non sanno bene neppure cosa sia un partito politico. Però vogliono Renzi. Alla sbarra. Lo braccano. Sono sicuri che riusciranno a portare a casa la sua pelle.
Ora, dico, a parte il paradosso di essere indagati da un magistrato che ha molestato una donna (anzi una sua collega) e da un altro che ha reso falsa testimonianza dinanzi al Parlamento (non deve essere una bella sensazione da parte di un imputato sapere che il livello dei suoi inquisitori è questo) il problema vero è che per Renzi è stato chiesto il rinvio a giudizio in totale assenza di reato. E questa è una brutta storia. Del resto proprio Mattarella ha detto recentemente, nel suo discorso di insediamento, che la magistratura ha perso credibilità e che gli imputati non si sentono più sicuri. Ha ragione da vendere, mi pare, il caso Open è la prova provata che Mattarella aveva ragione. Come si può, francamente, avere fiducia in questi magistrati?
Poi c’è il caso Salvini, quello del processo per sequestro di persona. Voi magari sapete quanto male io pensi di Salvini, e quanto dissenta dalla sua politica di respingimento dei profughi: ma cosa diavolo c’entra l’accusa penale e addirittura il sequestro di persona? Voi direte: vabbé ma è stato il Senato a dare l’autorizzazione a processare Salvini, con il voto persino di Renzi. Obiezione giustissima. Il guaio è proprio questo: che i politici si difendono quando li mettono in mezzo a loro, e invece fanno il sorriso e l’inchino ai magistrati quando questi mettono sotto processo i loro avversari. Per questo i magistrati sono molto potenti e i politici no. Avete visto come ha reagito l’Anm all’attacco di Renzi alla Procura di Firenze? Facendo muro, come un sol uomo. Ha avvertito Renzi che la corporazione è tutta schierata coi suoi tre magistrati, sia con l’innocente che coi due colpevoli…
Vogliamo parlare di Berlusconi? Novanta processi dei quali 89 finiti con l’assoluzione e uno con una condanna – il famoso processo sull’evasione fiscale – molto scombiccherata e che con ogni probabilità verrà presto cancellata dalla Corte europea. Voi pensate che un signore che viene processato per novanta volte senza ricevere condanne sia sfortunato o perseguitato? Poi c’è Craxi. Un pezzo della magistratura, 30 anni fa, decise che andava annientato perché era lui l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Era l’ostacolo all’instaurazione della repubblica giudiziaria. Era un socialista, un democratico, un liberale. Tutte parole da cancellare. Lo massacrarono, anche perché nessuno lo difese. Fu costretto a fuggire in Tunisia. Stava male. Gli negarono persino il diritto a venire a curarsi in Italia, lo lasciarono morire, solo, in un ospedale scalcinato. Che orrore.
Vogliamo invece parlare degli sconosciuti? L’ottanta per cento delle persone che ricevono l’avviso di reato alla fine saranno assolte, ma dopo essere state massacrate, economicamente, moralmente, professionalmente. La pena viene eseguita senza condanna, ed è durissima. La pena si chiama processo. E allora? Se vogliamo ristabilire lo Stato di diritto bisogna difendersi dai processi. Non nei processi: dai processi. Impedire che le Procure massacrino miglia di persone, fuori da ogni principio del diritto e senza condanna. Non è giusto lasciare ai giudici il potere di fare di noi ciò che vogliono. Renzi e Berlusconi si difendono dal processo? Beh, se lo fanno bisogna applaudirli. E seguirne l’esempio se si può. In attesa che i tempi cambino e torni la Giustizia. Chissà quanto dovremo aspettare. La riforma del Csm proposta ieri non fa ben sperare.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Caro Caselli, l’accostamento tra Renzi e le Br è un po’ eccessivo. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, il riferimento di Caselli agli anni di piombo e ai terroristi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Francesco Damato su Il Dubbio il 12 febbraio 2022.
Con tanto ritardo rispetto alle aspettative da cogliermi di sorpresa, ve lo giuro, i politici che resistono, reagiscono e quant’altro alle iniziative giudiziarie che li investono, di solito mentre sono più esposti sul loro terreno professionale, diciamo così, sono stati paragonati addirittura a quei terroristi che contestavano allo Stato borghese, capitalistico e altre scemenze simili il diritto di processarli. E qualcuno ammazzava anche per strada che si ostinava a fare il suo mestiere. O minacciava di morte i giudici popolari, anch’essi borghesi, capitalisti e scemenze simili, selezionati con incolpevole sorteggio.
Sentite che cosa ha appena sostenuto sulla Stampa non un Camillo Davigo particolarmente polemico in qualcuno dei salotti televisivi più o meno di casa ma un magistrato molto più accorto di lui nell’uso delle parole, iperboli e simili come Gian Carlo Caselli: «In Italia dai primi anni Novanta del secolo scorso si riscontra una pessima anomalia: l’ostilità verso la giurisdizione, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; una sorta di impropria edizione del cosiddetto processo di “rottura”, utilizzato però da uomini dello Stato, anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi».
Con quel riferimento esplicito agli “anni di piombo” non credo di avere esagerato nel vedere tra le righe e le parole di Caselli una certa affinità, ripeto, fra i terroristi che rifiutavano i processi e i politici che dagli anni Novanta in poi – o gli inquisiti “celebri”, come li chiama l’ex capo di celebri Procure italiane – contestano i magistrati che si occupano di loro e le iniziative che assumono nell’esercizio delle proprie funzioni. E mi perdonerà il buon Caselli, col quale ho avuto già altre occasioni di polemiche, se mi permetto di dissentire ancora una volta da lui. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, questo riferimento agli anni di piombo e ai terroristi mi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Qui si spara solo – se si spara- con parole e carte bollate, come ha appena fatto Matteo Renzi contestando i magistrati che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio, insieme col cosiddetto “cerchio magico” degli anni altrettanto magici della sua fulminante carriera politica, per finanziamento illegale dei partiti e tutti gli altri reati che di solito – dai tempi lontani di “Mani pulite”- si porta appresso una simile imputazione.
Sono il primo a riconoscere, per carità, che Renzi fa poco, anzi assai poco, per risultare simpatico, persino a uno come me che votò con molta convinzione nel 2016 la “sua” riforma costituzionale, anche dopo che lui l’aveva imprudentemente personalizzata a tal punto da farne un plebiscito su di lui perdendolo. Ma vederlo direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, a ragione o a torto, come uno di quelli che dietro le sbarre gridavano contro la Corte di turno che doveva giudicarli, mi fa mettere le mani fra i capelli che fortunatamente mi sono rimasti.
“FRONTIERE” PRESENTA “DOPO MANI PULITE… LA GUERRA DEI TRENT’ANNI”. Da spettacolomusicasport.com il 12 febbraio 2022
Qual è il bilancio di Mani Pulite a trent’anni dall’inizio dell’inchiesta che ha cambiato la storia del nostro Paese? Lo scontro fra magistratura e politica, la deriva della giustizia spettacolo e la nascita del giustizialismo, sono i temi al centro della puntata di Frontiere di sabato 12 febbraio “Dopo Mani pulite… la guerra dei Trent’Anni”, in onda alle 16.30 su Rai3. Doveva essere una rivoluzione all’insegna della lotta alla corruzione, ma da allora siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione.
In studio con Franco Di Mare Stefano Cagliari, autore del libro “Storia di mio padre” in cui ha raccolto le lettere scritte in carcere dall’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e Goffredo Buccini, editorialista del Corriere della Sera. Interverranno Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali e i giornalisti Sergio Rizzo e Paolo Guzzanti.
Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent'anni" a Frontiere. Conduce Franco Di Mare. Rainews il 19 febbraio 2022
Magistratura e politica: a trent’anni dalla più importante inchiesta della storia italiana siamo ancora alla ricerca di un equilibrio fra poteri che garantisca l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici, assicurando però l’efficienza e la tempestività della loro azione. La riforma Cartabia riuscirà a realizzare quei cambiamenti tante volte rinviati? E possiamo considerare davvero archiviati i mali che affliggono la giustizia: l’uso disinvolto delle intercettazioni e le loro pubblicazioni, il carrierismo e il correntismo venuto alla luce con il caso Palamara, le porte girevoli che consentono di passare dalla magistratura alla politica per poi farvi ritorno? Insomma, la magistratura è un potere o uno stra-potere? Questo il tema al centro della puntata di “Frontiere” in onda sabato 19 febbraio alle 16.30 su Rai 3 dal titolo “Magistratura e Politica… la Guerra dei Trent’anni”. In studio con Franco Di Mare il giornalista Enzo Carra, arrestato simbolo di Mani Pulite e Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera. Intervengono Luciano Violante, giurista ed ex presidente della Camera, Gherardo Colombo, ex magistrato del pool Mani Pulite, Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali, la storica Simona Colarizi e i giornalisti Alessandro Sallusti, Sergio Rizzo, Paolo Guzzanti e Piero Colaprico.
30 anni di Mani Pulite: la fine della prima Repubblica. "Un giorno in Pretura" racconta il processo Enimont. Rainews il 17 febbraio 2022.
A trent’anni dall’inizio “Tangentopoli”, lo scandalo che ha travolto l’Italia degli anni Novanta, RaiPlay propone in boxset da giovedì 17 febbraio, “30 anni di Mani Pulite: la fine della Prima Repubblica”, uno speciale con 25 puntate del programma “Un giorno in Pretura” di Roberta Petrelluzzi, Tommi Liberti e Antonella Nafra, andato in onda su Rai 3 dalla fine del 1993 fino a metà del ’94. I contenuti si concentrano sul principale processo di Tangentopoli, quello Enimont, che vede coinvolti i maggiori leader politici dell’epoca, accusati a vario titolo di essersi spartiti una tangente di 150 miliardi di lire per favorire la fusione della chimica privata della Montedison con quella pubblica di Eni. Imputato è Sergio Cusani, consulente finanziario, accusato di falso in bilancio e illecito finanziamento ai partiti. Il processo ha subito un grande clamore, tocca punte di quasi cinque milioni di spettatori, a dimostrazione della qualità della trasmissione che, specialmente in quegli anni, costituisce uno strumento di approfondimento e conoscenza della realtà. Cusani viene condannato e, nel giro di pochi anni, tutta la classe politica è spazzata via, determinando la scomparsa di due grandi partiti: la Dc e il Psi. E’ la fine della Prima Repubblica.
Tangentopoli per chi non c’era. Il post il 17 febbraio 2022.
Cosa fu il pool di Mani Pulite, chi fu coinvolto dalle inchieste, chi era “il compagno G.”, cosa successe all'Hotel Raphael, e cosa cambiò dopo
Il 17 febbraio 1992, trent’anni fa, venne arrestato a Milano Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Partito socialista. I carabinieri lo colsero in flagranza di reato subito dopo aver ricevuto una tangente da sette milioni di lire. In quei giorni il caso non destò grandi attenzioni a livello nazionale, ma l’arresto di Chiesa sarebbe poi diventato famoso come quello da cui cominciò l’insieme di inchieste note come Mani Pulite, o Tangentopoli, che riguardarono l’esteso sistema di corruzione e concussione che coinvolgeva quasi tutti i principali partiti di allora e un pezzo dell’imprenditoria nazionale.
Spesso si dice che Tangentopoli mise fine alla Prima Repubblica, cioè al sistema politico e partitico che si era consolidato in quasi cinquant’anni dopo la Seconda guerra mondiale, favorendo l’ascesa di nuove forze e nuove ideologie. I nomi delle persone coinvolte nelle vicende politiche e giudiziarie di quegli anni, i posti in cui si svolsero le vicende, sono in molti casi entrati nell’immaginario collettivo, citati ancora oggi di frequente sui giornali e in tv per fare confronti e rimandi con la politica contemporanea. A questi nomi sono associati in molti casi concetti ed espressioni gergali ben noti a chi seguì o studiò quelle vicende, ma talvolta più confusi per chi nei primi anni Novanta era troppo giovane oppure nemmeno era nato.
Mario Chiesa
Soprannominato “il Kennedy di Quarto Oggiaro” per la sua ambizione, Chiesa iniziò a fare politica con il PSI negli anni Sessanta. Tra gli anni Settanta e Ottanta ottenne una serie di incarichi pubblici, dal posto di direttore tecnico all’ospedale Sacco all’assessorato ai Lavori Pubblici. Erano anni in cui a Milano i socialisti erano potentissimi: il PSI aveva espresso il sindaco della città ininterrottamente dal 1967, e Chiesa aveva legami sia con Paolo Pillitteri che con Carlo Tognoli, due esponenti di spicco del PSI milanese (il primo fu sindaco dal 1986 al 1992, il secondo dal 1976 al 1986).
Nel 1986 Chiesa venne nominato presidente del Pio Albergo Trivulzio, una nota e antica casa di cura chiamata “la Baggina” dai milanesi, dal fatto che la sede si trova sulla strada che va verso Baggio e che un tempo si chiamava appunto via Baggina. In quegli anni Chiesa coltivava l’ambizione di diventare sindaco, perciò si allontanò dagli esponenti locali socialisti e cercò di costruirsi un legame con Bettino Craxi, segretario del partito e presidente del Consiglio tra il 1983 e il 1987.
Nel 1992 Chiesa finì però coinvolto in un’operazione dei Carabinieri. La ditta di pulizie dell’imprenditore brianzolo Luca Magni, per assicurarsi l’appalto al Pio Albergo Trivulzio, pagava regolarmente tangenti a Chiesa. Magni, stanco e sfibrato dalle continue richieste economiche di Chiesa, denunciò il fatto ai Carabinieri, i quali lo portarono dal magistrato Antonio Di Pietro. Insieme a lui organizzarono l’operazione. Colto in flagrante mentre accettava una tangente di 7 milioni di lire, Chiesa venne arrestato. Pochi giorni dopo l’arresto, Craxi cercò di sminuire l’accaduto definendo Chiesa un «mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito» fatto di gente onesta.
Sull’arresto di Chiesa si sviluppò la prima fase dell’inchiesta di Di Pietro, a cui vennero presto affiancati altri magistrati – il “pool di Mani Pulite” – e che si allargò fino a coinvolgere centinaia di persone prima a Milano e poi in tutta Italia, prima nel Partito socialista e poi in quasi tutti gli altri.
Perché “Tangentopoli”
Oggi Tangentopoli è diventato un termine che descrive genericamente gli eventi di quegli anni, dalle inchieste partite nel 1992 alle loro conseguenze politiche, e viene usato anche per descriverne gli effetti sui media e sull’opinione pubblica. Ma come raccontò poi Di Pietro, l’arresto di Chiesa fu l’innesco di una macchina giudiziaria e di indagine che era stata costruita meticolosamente e da molto tempo, mentre la procura di Milano indagava sui tanti episodi di corruzione e concussione in città.
Questi episodi finivano periodicamente sui giornali anche prima del 1992, e proprio da uno di questi nacque il nome “Tangentopoli”. Lo inventò Piero Colaprico, all’epoca inviato speciale di Repubblica. Il caso riguardava un funzionario impiegato all’urbanistica del comune di Milano che aveva messo in piedi un percorso parallelo per accettare in cambio di tangenti le pratiche che ufficialmente rifiutava. Colaprico ricorda così la genesi di Tangentopoli come definizione:
Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti, quelle che poi finiscono immancabilmente male: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli.
Milano, “la città della tangenti”: sarebbe meglio dire “la città delle tangenti che venivano scoperte”, perché non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste “cronache di Tangentopoli”. Non se ne accorse nessuno.
Finché non arriva il caso Chiesa, e con il passare dei giorni il caso monta fino ad arrivare in prima pagina, con un riferimento a Tangentopoli nel titolo.
Col tempo la definizione attecchì anche su altri giornali e nelle televisioni, nel vocabolario collettivo e soprattutto entrò nel gergo giornalistico il meccanismo inventato da Colaprico: ci furono perciò in seguito gli scandali di Calciopoli e Vallettopoli, solo per citare i più famosi.
Il pool di Mani Pulite
Dopo le elezioni del 5 aprile 1992, definite un «terremoto» per il calo di consensi dei partiti di governo e per l’ascesa di nuovi movimenti come la Lega Nord e La Rete, la magistratura continuò a indagare. Chiesa, dopo settimane di interrogatorio, aveva descritto un sistema di corruzione organico al finanziamento di tutti i partiti, dalla DC al Partito comunista. In seguito cominciarono a stabilire contatti con la magistratura anche altri imprenditori. L’indagine insomma si stava allargando e il capo procuratore Francesco Saverio Borrelli decise di costituire un “pool”, un gruppo di magistrati incaricati di seguire le varie inchieste condividendo le informazioni.
È una soluzione che le procure adottano di rado, quando ci sono casi molto grossi e delicati da seguire e il lavoro di un solo pubblico ministero non basta. Al sostituto procuratore Di Pietro ne furono aggiunti altri due: Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo.
Colombo era già allora un magistrato molto noto, aveva indagato sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli e sull’omicidio di Giorgio Ambrosoli. Davigo si era concentrato invece sulla criminalità organizzata, sui reati finanziari e contro la pubblica amministrazione. In seguito, Davigo raccontò della sua ritrosia ad accettare la richiesta di entrare nel pool, perché sapeva che Mani Pulite avrebbe avuto conseguenze enormi, e che i magistrati avrebbero passato con ogni probabilità qualche guaio: «Accadde però che in concomitanza con la mia risposta ci fu la strage di Capaci e allora io mi vergognai anche solo di aver pensato che potevo passare dei guai».
L’inchiesta venne chiamata Mani Pulite dalle iniziali dei nomi in codice usati dal comandante dei Carabinieri Zuliani e da Di Pietro durante le comunicazioni via radio (rispettivamente “Mike” e “Papa”). Di Pietro, Colombo e Davigo ne diventarono gli uomini immagine, personaggi mediatici a tutti gli effetti e con tutte le conseguenze del caso, oggetto di venerazione e cori dedicati durante le manifestazioni (“Colombo, Di Pietro, non tornate indietro!”).
Il “Compagno G.”
Primo Greganti fu uno dei pochi esponenti comunisti a essere coinvolto nelle indagini di Mani Pulite. Venne arrestato il 1° marzo 1993, quando già il PCI si era trasformato in Partito Democratico della Sinistra (PDS). Fu accusato di aver ricevuto per conto del partito una tangente di 621 milioni di lire dal gruppo Ferruzzi, una nota società agroalimentare che anni prima aveva acquistato la maggioranza del gruppo Montedison, una importante società chimica italiana sui cui rapporti illegali con partiti e amministrazioni il pool si concentrò a lungo.
L’arresto di Greganti incluse anche il PDS tra i partiti accusati di corruzione, insieme a quelli che si erano trovati al governo negli anni precedenti (DC e PSI, oltre al Partito Socialdemocratico, il Partito Liberale e quello Repubblicano). Ma lo stesso Greganti divenne famoso perché – a differenza di altri accusati che confessarono in fretta per timore della carcerazione e per le pressioni pubbliche – durante i tre mesi che passò in arresto a San Vittore a Milano si dichiarò sempre innocente e si rifiutò di ricondurre al PCI il ricco conto bancario denominato “Gabbietta” a lui intestato.
Sui giornali dell’epoca divenne noto con il soprannome di “signor G.” e poi “compagno G.”, dopo che il PDS ne aveva preso le distanze chiamandolo “il signor Greganti”: ma al tempo stesso il suo comportamento gli guadagnò paradossali stime sia tra gli elettori del PDS che tra quelli del centrodestra nemici delle inchieste di Mani Pulite. Greganti fu scarcerato il 31 maggio 1993. Venne poi condannato, ma il suo limitato coinvolgimento rese il PDS l’unico dei partiti tradizionali che subì poche conseguenze da Tangentopoli (e anzi beneficiò della crisi che travolse i partiti suoi avversari).
Cusani, Gardini, Cagliari e il processo Enimont
Ci fu un lungo periodo in cui le indagini del pool andarono avanti, scandite dalle notizie di avvisi di garanzia arrivati a diversi esponenti politici, ciascuno trattato come un inequivocabile indizio di colpevolezza. Poi iniziarono i processi. Tra tutti, quello più seguito fu il processo Enimont, che iniziò nell’autunno 1993 e vide il coinvolgimento di esponenti politici di primo piano: Bettino Craxi, Umberto Bossi, Paolo Cirino Pomicino, Arnaldo Forlani e Giorgio La Malfa, tra gli altri. Il processo cercò di stabilire se il gruppo Ferruzzi avesse versato ai partiti una “maxi-tangente” di 150 miliardi di lire, definita impropriamente dai giornali la “madre di tutte le tangenti”.
Il principale imputato era Sergio Cusani, all’epoca consulente finanziario del gruppo Ferruzzi. Cusani era accusato di aver avuto un ruolo centrale nell’organizzare il pagamento di varie tangenti attingendo da quel fondo di 150 miliardi.
Poco tempo prima c’era stata una vasta operazione finanziaria per unire due grandi poli della chimica italiana, quello dell’Eni, in mano pubblica, e quello di Montedison, posseduto dal gruppo Ferruzzi. La fusione aveva fatto nascere il gruppo Enimont.
I personaggi chiave di questa operazione erano i due presidenti dei rispettivi gruppi, Gabriele Cagliari, che trattava con Montedison per conto dello Stato, e Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi. La fusione però fu un insuccesso: Gardini avrebbe voluto “scalare” il gruppo, come si dice in gergo finanziario, ossia rilevare la quota di maggioranza di Enimont, ma i partiti fecero resistenza. Gardini allora si sfilò dall’affare, cercando di convincere l’Eni a rilevare le sue quote a un buon prezzo: secondo il pool di Mani Pulite attraverso il pagamento di tangenti ai vari partiti.
Il processo si concluse con le condanne definitive di molti importanti politici, tra cui Forlani, Bossi, Renato Altissimo e il tesoriere della DC Severino Citaristi. Cusani fu condannato a 5 anni e 10 mesi di carcere.
Prima del processo, durante le indagini, Gabriele Cagliari era stato arrestato per un’altra presunta tangente. Dopodiché, mentre si trovava in carcere, gli furono contestati altri reati che avevano a che fare con una rete di “fondi neri” dell’Eni. In tutto, Cagliari rimase in custodia cautelare a San Vittore quattro mesi e mezzo: si suicidò il 20 luglio 1993. Tre giorni dopo, si uccise anche Gardini nella sua casa di Milano a palazzo Belgioioso.
Prima e Seconda Repubblica
Tangentopoli fu una cesura così evidente, un momento da “prima e dopo”, che fu interpretato come un passaggio tra due Repubbliche, nonostante non ci sia mai stata nessuna riforma dell’assetto istituzionale come invece avvenne in Francia (dove di Repubbliche ce ne sono state cinque). La Repubblica in Italia rimase invece sempre la stessa, eppure dopo il 1992 la politica cambiò in modo così radicale, dalla classe dirigente ai partiti stessi, che sembrò un’altra. In seguito alcuni storici e studiosi misero in discussione questa lettura ridimensionando l’effettiva trasformazione della politica, che conservò comunque molti esponenti di spicco.
La cosiddetta Seconda Repubblica, caratterizzata da un bipolarismo tra la destra di Silvio Berlusconi e la sinistra erede del PCI, viene fatta cominciare di fatto con le elezioni politiche del 1994. Con Prima Repubblica, invece, ci si riferisce convenzionalmente a tutto il periodo prima di Tangentopoli, dominato dalla contrapposizione tra DC e PCI.
Berlusconi
La rapida scomparsa dei partiti della Prima Repubblica lasciarono un vuoto enorme nella politica, alimentato dal sentimento di rigetto tra gli elettori e le elettrici, evidente prima nelle elezioni dell’aprile del 1992 e poi in quelle del 1994. Questa situazione fu abilmente sfruttata da Berlusconi, all’epoca ricco imprenditore proprietario tra le altre cose della squadra di calcio del Milan e della società Fininvest, con cui controllava molte reti televisive private. Attraverso la sua società, Berlusconi raccolse dati sui suoi telespettatori preparando con cura il suo ingresso in politica – ricordato come la “discesa in campo” – e proponendosi come “uomo nuovo”, lontano dalle trame affaristiche della vecchia politica (sebbene da imprenditore conoscesse molto bene gli ambienti politici e fosse amico personale di Craxi).
Nel 1994 dunque entrò in politica e alle elezioni di quell’anno ottenne oltre il 42 per cento dei voti con una coalizione larga, in cui c’era il suo partito (Forza Italia), Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini e la Lega Nord. Formando il primo governo, Berlusconi offrì il ministero dell’Interno a Di Pietro, che aveva pubblicamente sostenuto più volte, per motivi di consenso. Di Pietro rifiutò, e negli anni seguenti i due sarebbero diventati acerrimi rivali. Il governo comunque rimase in carica meno di un anno, per via dei litigi tra Berlusconi e la Lega Nord.
«Un clima infame»
Tangentopoli fu anche causa di eventi tragici. Oltre alle citate storie di Cagliari e Gardini, ci furono diversi altri suicidi, tra cui quello del deputato socialista Sergio Moroni, il 2 settembre 1992. Saputo il fatto, Craxi andò in visita a casa di Moroni, e poi all’uscita venne assaltato dai giornalisti con microfoni e telecamere. Craxi disse solo cinque parole, che diventarono poi assai famose e citate nei contesti più diversi: «Hanno creato un clima infame». Non si sa se si riferisse ai magistrati o ai mezzi di informazione, o all’insieme delle due cose.
Hotel Raphael
Sempre Craxi fu protagonista di un altro episodio, forse ancora più celebre. Era il 30 aprile 1993, Craxi era l’obiettivo più grosso a cui il pool di Mani Pulite puntava nelle sue indagini. Quel giorno il Parlamento respinse quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro di lui. Nello sdegno generale, alimentato da toni estremamente polemici da parte dei media, una piccola folla di manifestanti andò sotto la residenza romana di Craxi, l’Hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, rimanendoci a lungo per aspettarlo.
Craxi decise che non si sarebbe fatto intimidire e scese comunque, affrontandoli. Non appena lo fece partirono prima i cori e poi, quasi subito, una pioggia di oggetti: sassi, sigarette, pezzi di vetro e soprattutto monetine. Chi non lanciava nulla – alcuni la definirono “un’aggressione” – teneva in mano banconote da mille lire e cantava «Bettino vuoi pure queste?».
Un po’ di numeri
I numeri imponenti di Tangentopoli hanno generato negli anni un po’ di confusione. Secondo il pool, soltanto a Milano, per l’inchiesta Mani Pulite, ci furono 620 patteggiamenti davanti al giudice per le indagini preliminari mentre 635 persone vennero prosciolte. Tra i rinviati a giudizio ci furono 661 condanne e 476 assoluzioni. Ci furono diversi suicidi, ma non è noto con esattezza quanti: alcune fonti parlano di 31 persone, altre ancora di 41, ma si tratta di una stima evidentemente difficile e controversa.
L’unica stima dei costi di Tangentopoli che si conosca è quella, molto citata, di Mario Deaglio: 10mila miliardi di lire annui per la cittadinanza; tra i 150mila e i 250mila miliardi di lire per il debito pubblico; tra i 15mila e i 25mila miliardi di lire per gli interessi annui sul debito. Le opere pubbliche arrivarono a costare fino a quattro volte di più rispetto agli altri paesi europei.
Noi, campioni di autoassoluzione. Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022.
Trent’anni dopo, come è cambiato il giudizio sulla stagione di Mani Pulite.
Nel 1992 eravamo giovani e ottimisti. «Adesso l’Italia cambierà», dicevamo e scrivevamo, sballottati dall’uragano giudiziario in corso. Il bilancio, trent’anni dopo?
In questi giorni abbiamo letto e ascoltato molte opinioni, non tutte oneste, molte smemorate, alcune disinformate. Su una cosa sembrano tutti d’accordo, per motivi diversi: la stagione di Mani Pulite — la risposta giudiziaria a Tangentopoli — non ha mantenuto le promesse. Per due anni gli inquirenti si sono mossi con la nazione alle spalle. Poi è successo qualcosa.
La definizione di questo qualcosa spacca il Paese da allora. C’è chi dà la colpa al protagonismo della magistratura e ad alcune forzature, come l’uso della carcerazione preventiva per ottenere confessioni. E chi accusa una classe dirigente complice e spaventata, ansiosa di rimuovere tutto. C’è qualcosa di vero in entrambe le spiegazioni. Ma tutto questo sarebbe stato ininfluente, se la nazione avesse ritenuto di poter cambiare. A un certo punto, invece, ha smesso di crederci.
Dovessi spiegare in una frase a mio figlio Antonio — classe 1992, coetaneo di Mani Pulite — cos’è successo, sceglierei questa risposta di Gherardo Colombo in una recente intervista: «Boiardi di Stato? Ministri? Quelle erano persone con le quali non ci si poteva identificare. Ma quando le prove portano all’ispettore del lavoro che per pochi soldi chiude un occhio sulle misure di sicurezza, all’infermiere che per duecentomila lire segnala un decesso all’agenzia di pompe funebri, al vigile urbano che fa la spesa gratis e non controlla la bilancia del salumiere, allora la reazione è: ma cosa vogliono questi, venire a vedere quello che faccio io?».
Ecco il punto: finché si trattava di condannare gli altri, tutti d’accordo; quando abbiamo capito che la faccenda riguardava anche noi, ci siamo allarmati. Cambiare, infatti, fa paura. Ed è faticoso. Certo, diverse abitudini sono cambiate, alcune pratiche oscene si sono ridotte. Ma siamo tornati ad assolverci: una cosa che ci riesce benissimo.
Ricordo lo sguardo e le parole di Indro Montanelli, in quella primavera del ’92: «Illudetevi pure, alla vostra età è giusto. Ma sarà un’illusione: quindi, preparatevi». Dargli ragione, trent’anni dopo, mi secca un po’.
Dopo trent’anni stiamo ancora pagando l’illusione di una democrazia senza partiti. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO su Il Domani il 19 febbraio 2022
Tangentopoli fu la miccia che innescò l’implosione di un sistema politico già in difficoltà da un paio di decenni, costretto ad adattarsi ad un mondo reso differente dalla caduta del Muro di Berlino e dai processi di europeizzazione.
Si pensò di risolvere la crisi passando a un modello di democrazia “maggioritaria”. In realtà, è molto difficile che una democrazia cambi “tipo” in modo radicale. L’unico precedente storico di significativo era la Francia di De Gaulle e il passaggio al semipresidenzialismo. La nostra transizione si è bloccata presto.
Nel biennio 1992-1994 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in modo drastico il sistema partitico: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e la sua classe dirigente. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO
L'anniversario dell'inchiesta. Tangentopoli ha corrotto le regole, quell’epoca ha distrutto lo stato di diritto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.
Il dibattito su Tangentopoli, in occasione del suo trentennale, è ovviamente inquinato dalle consuete logiche di contrapposizione tra opposte tifoserie politiche. Troppo profonde sono state le cicatrici che quello tsunami ha lasciato impresse nella storia politica del nostro Paese, per pensare di poterne parlare con un minimo di equilibrio e di onestà intellettuale. La strada più comunemente liquidatoria è quella di schiacciare la riflessione sul tema della corruzione politica, come se i critici di quella indagine dovessero automaticamente iscriversi tra i paladini della corruzione politica, o di quella classe dirigente più in generale.
Ovviamente, nessuno di noi critici di quella storia giudiziaria pensa di negare che vi fosse una diffusa corruzione nella vita pubblica, in gran parte innescata dal complesso fenomeno del finanziamento della politica; né tanto meno pretende di sostenere che questa meritasse l’impunità. Il tema è tutt’altro, ed è innanzitutto il tema delle regole che una inchiesta giudiziaria dovrebbe sempre e comunque rispettare. Per esempio, l’idea di iscrivere tutte le notizie di reato per i più svariati reati contro la Pubblica Amministrazione mano a mano emergenti in un solo, gigantesco fascicolo di indagine, con quell’unico numero di registro, e soprattutto con un solo Giudice delle Indagini preliminari, fu una scelta totalmente estranea alle regole.
Nessuno ha mai fatto questo prima, nessuno ha mai fatto questo dopo, né a Milano né in qualunque altra Procura d’Italia. Dunque è lecito denunciare quella clamorosa violazione delle regole, e soprattutto è legittimo interrogarsi sulle ragioni di un fatto così clamoroso ed anomalo. Perché si volle quell’unico Gip, visto che è quel Giudice che decide se accogliere o meno le richieste di arresto o di sequestro o di intercettazione formulate dagli inquirenti, ed è suo il compito di controllare la legittimità delle indagini? E che dire dell’uso della qualificazione giuridica del fatto per ottenere confessioni o dichiarazioni accusatorie?
L’imprenditore che è sospettato di aver dato denaro al politico, sa che se nega il fatto sarà considerato corruttore, e come tale andrà a San Vittore; se accusa si salva, perché il premio sarà di considerarlo vittima di una concussione del politico. Ed anche qui, siamo fuori da ogni regola di uno stato di diritto, perché la qualificazione giuridica del fatto non è, ovviamente, uno strumento di polizia. E mentre l’indagine montava con questa idea e questa pratica delle regole procedimentali, ci si rese progressivamente conto che essa si stava trasformando in qualcosa di assolutamente inedito. Una Procura della Repubblica aveva tra le mani le sorti della vita politica ed istituzionale del Paese. Ciò accadde grazie alla formidabile sinergia sapientemente creatasi con gli organi di informazione.
Per i quali i quotidiani arresti di politici, imprenditori, pubblici amministratori, costituivano materiale di prima scelta per appassionare legioni di lettori o telespettatori. È esattamente questa l’inchiesta giudiziaria che sposta clamorosamente l’attenzione mediatica e della pubblica opinione dal processo alla indagine, dalla sentenza alla incriminazione. È l’anticipazione della potestà di giudizio, agli occhi della pubblica opinione e della società civile, dal Giudice al Pubblico Ministero. Che decide così, in una inchiesta-monstre sulla politica italiana, la vita e la morte non più di alcuni dirigenti, ma di intere storie di leaders e di partiti politici, modificando equilibri e determinando cruciali scelte istituzionali.
Non si torna più indietro da un potere così immenso, così totale, così incontrollabile; è stata questa la vera eredità tossica di Tangentopoli. È da allora che le Procure sono diventate il soggetto regolatore della vita politica ed economica del Paese. È da allora che la gente si è abituata a pensare che un arresto equivale ad una condanna. È da allora che la cronaca giudiziaria ha perso ogni interesse per il processo, cioè per il luogo deputato a verificare la fondatezza dell’accusa. È da allora che un politico raggiunto da un’accusa deve concludere la sua carriera politica, a prescindere da ogni successiva verifica di fondatezza.
È da allora che è definitivamente saltato ogni equilibrio tra i poteri dello Stato, tutto a favore nemmeno del potere giudiziario, ma di una parte di esso, cioè del potere dei Pubblici Ministeri. È da allora che la rappresentanza politica ed associativa della Magistratura è in mano ai Pubblici Ministeri, pur essendo costoro nemmeno il 20% dei 9000 magistrati italiani. È da allora che una Procura della Repubblica vale dieci ministeri, e dunque diventa oggetto non di assegnazione di merito ma di conquista politica da parte di questa o quella fazione della magistratura italiana. Con ciò che ne è conseguito, e che è oggi testimoniato dalla clamorosa crisi di credibilità ed autorevolezza della stessa magistratura italiana. Questa è stata Tangentopoli, questo è il disastro che ci ha lasciato in eredità. Ovviamente senza che il problema della corruzione politica si sia, da allora, modificato di una virgola. Auguri.
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
1992, Michele Serra, direttore di Cuore: "Quel titolo che non rifarei". La Repubblica il 17 febbraio 2022.
Nel 1992 Michele Serra era direttore del settimanale satirico "Cuore", che commentava i fatti di Mani Pulite con titoli sarcastici passati alla storia. La clip è tratta dal documentario di Antonio Nasso "1992 - L'anno del diluvio".
Bene Michele Serra su Mani pulite. Non è mai tardi per piangere sul sangue versato. ANDREA MARCENARO su Il Foglio il 18 febbraio 2022.
L'intellettuale ha ammesso che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: "Scade l’ora legale, panico tra i socialisti". E sbaglia chi gli rinfaccia questo e quello.
Scade il trentesimo anniversario di Mani pulite e ciascuno tira il bilancio che ritiene più opportuno. Evito di far presente il mio. Ma non nego di aver ricordato in particolare i 41 suicidi dovuti a quella stagione. Ed essendo un inguaribile fazioso, non nego di aver ricordato con particolarissimo dispiacere i suicidi del segretario socialista di Lodi Renato Morese, del deputato socialista Sergio Moroni, del manager socialista Gabriele Cagliari e del segretario socialista Bettino Craxi, vittima quest’ultimo di un omicidio ma in realtà, per alcune somiglianze, perfino di un suicidio sui generis. E mi scuso con i troppi non nominati. Bon. E’ stato con particolare piacere, perciò, che ho ascoltato e letto la dichiarazione di Michele Serra dove l’importante intellettuale di sinistra ammetteva ieri che non farebbe più quel titolo su Cuore (vale a dire sull’Unità) così formulato: “Scade l’ora legale, panico tra i socialisti”. Con trent’anni di ritardo, però, hanno voluto sottolineare alcuni. Non è importante. Aggiungendo che s’era fatto prendere dalla foia dell’opinione pubblica, gli hanno contestato altri, laddove era proprio lui a eccitarne una parte. E anche questo, vero o no che appaia, importante non è. La cosa importante è questa: mentre sul latte versato piangere resta inutile, beh, sul sangue versato non è mai troppo tardi.
Andrea Marcenaro. E' nato a Genova il 18 luglio 1947. E’ giornalista di Panorama, collabora con Il Foglio. Suo papà era di sinistra, sua mamma di sinistra, suo fratello è di sinistra, sua moglie è di sinistra, suo figlio è di sinistra, sua nuora è di sinistra, i suoi consuoceri sono di sinistra, i cognati tutti di sinistra, di sinistra anche la ex cognata. Qualcosa doveva pur fare. Punta sulla nipotina, per ora in casa gli ripetono di continuo che ha torto. Aggiungono, ogni tanto, che è pure prepotente. Il prepotente desiderava tanto un cane. Ha avuto due gatti.
Giampiero Mughini per Dagospia il 19 febbraio 2022.
Caro Dago, mi è piaciuta molto la pagina odierna del “Fatto” dedicata alla questione se sì o no l’ex direttore di “Cuore”, l’ottimo Michele Serra, ha fatto bene a dirsi “pentito” di quando il suo giornale _ trent’anni fa _ aveva fatto un titolo spregiante sul Bettino Craxi su cui erano piovute le accuse di Tangentopoli. E del resto sono tanti i sintomi che ci dicono come Serra oggi non sia più l’uomo che era trent’anni fa. E come potrebbe essere diversamente se uno ragiona e guarda le cose con un altro e più maturo punto di vista? Solo gli imbecilli non cambiano mai idea.
Gli ex collaboratori del “Cuore” intervistati dal “Fatto”, o meglio la più parte di loro, ritengono che quello di esagerare era il mestiere del “Cuore” e che quei loro titoli e quelle loro vignette andavano incontro allo spirito del tempo, il che è indubbio. L’ottimo Claudio Sabelli Fioretti dice che non esiste “la satira buona” e che il loro giornale non poteva non nutrirsi di titoli borderline. Dovevano far ridere, e il loro pubblico di quello rideva: di titoli sfregianti nei confronti del “cinghialone” Bettino Craxi, il politico che aveva avviato nei confronti del Pci “berlingueriano” una sfida culturale di cui i fatti dimostreranno che aveva ragione su tutta la linea. Ci provi qualcuno a dimostrarmi il contrario. Ci provi.
Certo che la satira ha il diritto di esagerare nei confronti di chi non sta simpatico agli autori della satira. In una sua rubrica di trent’anni fa il “Cuore” mi elesse come “lo scemo della settimana”. E questo perché avrei dichiarato che alle elezioni per il sindaco di Roma il mio voto lo avrei dato a Gianfranco Fini (candidato della destra) e non a Francesco Rutelli (candidato della sinistra). Ora in punta di fatto si fosse votato duemila volte il sindaco di Roma, duemila volte io avrei votato Francesco (come del resto ho fatto), che stimo molto oltre che essere il padrino di suo figlio.
“Cuore” aveva esagerato? No, aveva mentito. Il fatto è che io stavo antipatico al loro pubblico e dunque perché mai non infilzarmi? Telefonai a Serra con un tono di voce che ancora ne stanno tremando le mura della redazione di “Panorama” di cui ero un giornalista. Serra mi disse che glielo avevano detto in quattro che io avrei votato Fini. E comunque mise sul giornale la mia smentita, aggiungendo di suo che Rutelli era mal messo se gli arrivava persino il voto di uno come me. Se lo perdono? Ma certo che sì, il Serra di oggi mi piace moltissimo.
Laddove non perdono un altro degli autori del “Cuore”, il quale era nel frattempo trasmigrato su “Repubblica”, dove firmò un corsivo in cui in buona sostanza mi diceva che io non conoscevo la lingua italiana. C’era che durante una trasmissione televisiva io aveva pronunziato il termine “càrisma” con l’accento sdrucciolo e non “carìsma” come viene pronunziato quasi sempre. Si tratta difatti di un termine nato nella lingua greca (“càrisma”) e poi passato nella lingua latina (“carìsma”).
Sta a te pronunziarlo come vuoi e preferisci, ciò che il semianalfabeta che voleva offendermi non sapeva. Ne scrisse come se da un reietto quale il sottoscritto (ero l‘autore di “Compagni addio”) non ci si poteva aspettare che conoscessi la lingua italiana. Ebbene, io non l’ho mai incontrato in questi trent’anni. Ove ciò avvenisse e lui non mi chiedesse scusa degli insulti di trent’anni fa, gli farò fare il giro di piazza Navona a calci in culo. Proprio perché il sacrosanto diritto alla satira eccessiva qui non c’entra affatto.
Il giudizio su Mani pulite passa per quei quesiti…Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli. Francesco Damato su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Consulta voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede.
A «Ma alla fine “Mani Pulite” vi è piaciuta?» Ecco la vera domanda dietro ai 5 quesiti
Il referendum, in realtà, sarà un plebiscito sugli effetti della stagione di Tangentopoli
Anche se è saltato quello forse più eclatante, avendo la Corte costituzionale voluto proteggere ancora i magistrati dalla responsabilità civile con quella specie di filo spinato concesso loro dal Parlamento nel 1998, quando una nuova legge vanificò il verdetto popolare di qualche mese prima prodotto dallo sdegno più che giustificato per la vicenda giudiziaria dell’incolpevole Enzo Tortora, i cinque referendum sulla giustizia ammessi dalla Consulta offriranno in primavera agli elettori una preziosa occasione per rispondere ad un quesito in qualche modo sotterraneo a quelli che saranno stampati sulle schede. E che – quasi illuminando l’altra faccia della luna – potremmo così formulare, anche a costo di scandalizzare i giudici costituzionali, a cominciare dal loro presidente Giuliano Amato, “sottile” in dottrina e in tante altre cose, compresa la politica da lui servita come sottosegretario, ministro e due volte capo del governo: siete scontenti o no degli effetti di “Mani pulite”, di cui si celebra quest’anno il trentesimo anniversario?
Se siete scontenti, come d’altronde lo fu persino l’ex capo della Procura di Milano Francesco Saverio Borrelli scusandosene pubblicamente alla presentazione di un libro evocativo scritto da Paolo Colonnello, uno dei cronisti giudiziari che le aveva raccontate più diligentemente, potete tranquillamente rispondere si alla proposta di abrogare le norme che le avevano permesse, o sopraggiunte per rafforzarne il risultato complessivo. Che fu quello di sottomettere la politica alla giustizia, rovesciando i rapporti di forza voluti dai costituenti, a cominciare dall’amputazione dell’immunità parlamentare scritta nel testo originario dell’articolo 68 della Costituzione per finire con la violazione largamente consentita a quel poco rimastone ancora in vigore, specie in materia di intercettazioni. Luciano Violante, promotore di quella modifica costituzionale, se n’è appena un po’ pentito sul Foglio.
Se non siete invece scontenti, o addirittura siete pienamente soddisfatti delle esaltazioni che ancora si fanno di quelle gesta, potete tranquillamente rispondere no all’abrogazione delle norme che ancora consentono, per esempio, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, il ricorso abbondante alla carcerazione preventiva, prima del processo cui spesso neppure si arriva col rinvio a giudizio, o l’applicazione retroattiva di norme, pene e sanzioni introdotte successivamente a “Mani pulite” per rafforzarne, diciamo così, la logica.
Mi riferisco, a quest’ultimo proposito, alla cosiddetta legge Severino, contestata da uno dei referendum per fortuna ammessi dalla Corte Costituzionale e costata nel 2013 il seggio del Senato a Silvio Berlusconi con votazione innovativamente palese disposta dall’allora presidente del secondo ramo del Parlamento, casualmente ex magistrato: Pietro Grasso.
Che ancora se ne compiace e casualmente, di nuovo – si è appena doluto come senatore semplice di maggioranza del disturbo che può procurare la campagna referendaria all’esame parlamentare in corso di alcune reali o presunte riforme parziali della giustizia che il governo di Mario Draghi ha ereditato dal precedente proponendosi però di modificarle in senso più garantista, o meno giustizialista, come preferite, considerando la militanza grillina dell’ex guardasigilli Alfonso Bonafede. Che è quello – per darvi un’idea riuscito a strappare all’epoca della maggioranza gialloverde il consenso anche di una senatrice e avvocata come la leghista Giulia Bongiorno all’introduzione, come una supposta in una legge contro la corruzione, di una norma per la soppressione della prescrizione all’arrivo della sentenza di primo grado.
Coraggio, elettori referendari: riflettete e datevi da fare con molta e molto buona volontà.
Tanto, Travaglio in cabina non vi vede, come si diceva di Stalin nelle storiche elezioni del 1948 stravinte dalla Dc contro il fronte popolare contrassegnato dall’immagine dell’incolpevole Giuseppe Garibaldi. Cito Travaglio perché egli ha appena scritto che quella di «Mani pulite», con tutti gli effetti che ne sono derivati, «fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra», testuale.
Piercamillo Davigo e la nemesi del Movimento 5 Stelle. I gemiti di dolore e la mistificazione della realtà di Marco Travaglio. Andrea Amata su Il Tempo il 19 febbraio 2022.
Nei giorni in cui si celebrano i fasti giudiziari del pool di Mani pulite, a 30 anni dal suo esordio investigativo, il gup di Brescia rinvia a giudizio Piercamillo Davigo contestandogli il reato di rivelazione di segreto di ufficio. L'ex consigliere del Consiglio superiore della magistratura e protagonista dell'inchiesta Tangentopoli, che decapitò all'inizio degli anni '90 un'intera classe politica, dovrà sottoporsi a processo per aver diffuso dei verbali coperti da segreto istruttorio in merito alle dichiarazioni dell'avvocato siciliano Piero Amara sulla presunta esistenza della «loggia Ungheria». A Piercamillo Davigo viene attribuita la paternità di un precetto aberrante - «non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti» - che se fosse applicata al suo autore potrebbe rivelarsi una nemesi giuridica, riparatrice di una colpa culturale per aver diffuso negli anni una veemente cultura giustizialista che ha stroncato carriere politiche, facendo coincidere l'avviso di garanzia con il verdetto di colpevolezza. Il populismo giudiziario è stato incarnato dal Movimento 5 Stelle che ha elevato l'ex pm Davigo a simbolo della scorciatoia giustizialista, invocando mezzi sbrigativi con la carcerazione preventiva e anticipando la condanna con sommari processi mediatici allo scopo di maramaldeggiare sull'indagato in spregio al principio costituzionale della presunzione di innocenza. Questa costituisce un valore di civiltà giuridica che non dovrebbe essere intaccato dal cosiddetto fattore M, cioè dal combinato disposto di magistratura e media che si fondono in un processo di reciproca connivenza, enfatizzando l'incriminazione verso i titolari di cariche pubbliche e minimizzando l'eventuale accertamento dell'estraneità ai reati contestati.
Tuttavia, nel mentre si pregiudicano irreversibilmente le carriere politiche sin dall'introduzione dell'iter di indagine. Dalle fasi embrionali del procedimento giudiziale agisce sull'indagato la pressione del patibolo mediatico che precorre la sentenza di condanna che diventa soverchiante anche se l'impianto accusatorio dovesse essere smantellato dall'avvenuta assoluzione. Ieri, in un editoriale dalla elevata tossicità giustizialista, Marco Travaglio vestiva i panni della prefica, emettendo gemiti di dolore per il rinvio a giudizio del suo paladino Davigo e non risparmiandosi nella perorazione del modello giacobino di cui è il massimo rappresentante. La solita mistificazione della realtà che è figlia di una lettura ideologica degli eventi. Il rinvio a giudizio di Davigo non è una congiura ordita da chi vuole disinnescare le guardie e blandire i ladri come evoca la narrazione travagliesca. Semmai è la sconfitta di una demagogia giustizialista andata avanti per 30 anni, che ha inquinato le istituzioni e il dibattito pubblico, creando l'humus sociale per la nascita di un partito dove l'ignoranza e l'incompetenza sono criteri di accesso nella rappresentanza.
L'eredità del giustizialismo è stata raccolta dal Movimento 5 stelle che ha prosperato su quel sentiment, riconducendo ogni interpretazione politica alla matrice moralistica attraverso processi sommari a mezzo stampa e web, dove i tre gradi di giudizio vengono compressi e riassunti nell'avviso di garanzia equiparato alla colpevolezza. In tale primitiva semplificazione si cerca il sensazionalismo incriminante e non la giustizia, e i cittadini non sono concepiti come potenziale coscienza critica ma come tricoteuse in attesa di vedere la prossima testa rotolare. Ora, si salo scettro moralistico è abbagliante, sì, ma allo stesso modo scotta. Tanto. E chi decide di impossessarsene prima o poi si brucia. La realtà è questa qui. Davigo non è un colpevole che sta cercando di farla franca, al contrario è un innocente fino al terzo grado di giudizio nonostante ciò che pensi lo stesso Davigo e i suoi cantori.
Da Mani Pulite all’inchiesta di Brescia, Davigo: «Non cambio idea: ho fiducia nella giustizia italiana».
L'ex pm di "Tangentopoli" parla del suo presente: «Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia». Il Dubbio il 15 febbraio 2022.
Mani Pulite iniziò il 17 febbraio del 1992. Trent’anni dopo si tirano le somme. Quale è la lezione di Tangentopoli? «Nel tempo ho compreso che le difficoltà che i miei colleghi e io abbiamo incontrato sono state enormi per una ragione semplice: non si può processare un sistema prima che sia caduto». A rispondere all’Adnkronos è Piercamillo Davigo, all’epoca uno dei pm dell’inchiesta del pool guidato da Francesco Saverio Borrelli che nel 1992 sconvolse l’Italia, il suo sistema politico ed economico.
«All’inizio delle indagini sembrava che i guasti fossero limitati ai partiti politici, neppure tutti, e alle imprese che avevano rapporti esclusivi o prevalenti con la pubblica amministrazione. In seguito tuttavia ci siamo resi conto che il malaffare era dilagato ben oltre questi limiti: le falsità contabili erano diffuse. Oggi l’evasione fiscale riguarda, secondo alcune stime, 12 milioni di persone, cioè un quinto della popolazione italiana».
«Il merito cede il passo a clientele, raccomandazioni e servilismo, sia nel settore pubblico, sia in quello privato. Nella cittadinanza non sembra esservi riprovazione e neppure la consapevolezza che tali comportamenti, oltre a essere illegali, sono dannosi».
Lei sta dicendo che non c’è più etica? «Nessun popolo, cioè l’insieme dei cittadini, può vivere se non vi è un’etica condivisa e in Italia non sembra più esserci. Fra i valori predicati e i comportamenti praticati vi è una differenza abissale». «E anche nel caso in cui si conviene su alcuni principi, come per esempio “non rubare”, scattano poi i distinguo nella sfera pubblica e interviene lo spirito di fazione, così radicato in nel nostro Paese. Si ricorre a un cavilloso richiamo a norme costituzionali anche quando si va in campi diversi da quelli regolamentati dalla Costituzione».
A cosa si riferisce? «Quando a carico di qualcuno emergono indizi di reato, è frequente che costui (e i suoi sostenitori) invochino la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva di condanna (art. 27 della Costituzione), anche al di fuori del processo penale, quando non si discute di diritti dell’imputato, ma di valutazioni di opportunità o di prudenza nella vita sociale». «I cattivi non vincono sempre – sostiene Davigo – La consolazione, per quanto magra, è che neppure loro sono (per ora) riusciti a vincere. Le leggi per farla franca hanno attirato l’attenzione di organismi internazionali e i loro rilievi sono stati un deterrente a continuare su quella strada».
«Numerose leggi sono cadute sotto le pronunzie della Corte costituzionale che ne ha dichiarato l’illegittimità. I tribunali e le corti italiane hanno adottato interpretazioni volte a salvaguardare il sistema legale. Le elezioni hanno messo in evidenza una minore presa dei poteri locali e nazionali sull’elettorato, molto più volatile che in passato, consentendo anche un’alternanza di schieramenti al governo del Paese che è un’esperienza relativamente nuova in Italia».
Rimangono i poteri criminali e le loro collusioni con la politica e l’economia, i più difficili da affrontare. «La magistratura italiana ha fronteggiato varie emergenze come la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione pervasiva e il degrado ambientale, senza riuscire a eliminarle del tutto. Ma anche senza farsene travolgere.
Dopo la vicenda Palamara che accade? «Il discredito gettato sull’ordine giudiziario dalle intercettazioni operate nei confronti di Luca Palamara, e ancor più la sua linea difensiva di tentare di accreditare l’idea che i suoi comportamenti fossero condivisi e perpetrati da larga parte della magistratura -cosa non vera- richiederà molto tempo per essere superato». «Il bilancio complessivo rischia di assomigliare a uno stallo, in cui nessuno dei vari soggetti e dei loro valori riesce a prevalere sugli altri, e ciò è fonte di scoramento».
Lei stesso sta attraversando una vicenda giudiziaria complessa, non ancora chiarita: quella collegata alle dichiarazioni di Pietro Amara sull’esistenza della loggia massonica segreta “Ungheria” e alla sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio. A che punto è? «Attualmente sono in udienza preliminare che dovrebbe concludersi proprio il 17 febbraio con il rinvio a giudizio o con il proscioglimento. Nonostante il tripudio di coloro che pensano che essere indagato mi faccia cambiare idea sull’inefficienza del processo penale italiano, non ho perduto la fiducia nella giustizia e attendo il corso del procedimento» (di Rossella Guadagnini/Adnkronos)
Deciso il giudice che processerà Davigo: nel 1996 prosciolse Di Pietro. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie. Il Dubbio il 20 febbraio 2022.
Sarà il giudice Roberto Spanò il presidente del collegio che dal prossimo 20 aprile giudicherà Piercamillo Davigo, rinviato a giudizio dal gup di Brescia per rivelazione di atti di ufficio nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta Loggia Ungheria e sui verbali dell’avvocato Amara consegnati all’ex componente del Csm dal pm di Milano Paolo Storari, che ha invece scelto il rito abbreviato, e che il sette marzo conoscerà il suo destino dopo che l’accusa ha chiesto per lui la condanna a sei mesi.
Roberto Spanò è lo stesso giudice che nel 1996 da gup prosciolse con una sentenza di non luogo a procedere Antonio Di Pietro, che era accusato a Brescia di abuso di ufficio e concussione. Spanò, motivando la sua decisione, parlò di «anemia probatoria» e «azzardato esercizio dell’azione penale» per smontare la ricostruzione dell’accusa. Nel frattempo, gli atti del processo Davigo sono finiti in cassaforte nelle stanze del tribunale di Brescia. Chi visionerà il fascicolo dovrà firmare un verbale, così da scongiurare fughe di notizie.
A 30 anni esatti da Tangentopoli. Hanno rinviato a giudizio Davigo, il più puro dei puri. Redazione su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.
L’ex consigliere del Csm accusato di rivelazione del segreto d’ufficio per il caso dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, su una presunta “Loggia Ungheria”, è stato rinviato a giudizio dal gup di Brescia Federica Brugnara. A 30 anni esatti dall’inizio dell’inchiesta di Mani pulite è ripresa a Brescia l’udienza preliminare nei confronti di Piercamillo Davigo.
Il direttore Piero Sansonetti ha commentato: “Hanno rinviato a giudizio Davigo. Piercamillo Davigo. Avete presente chi è? Torquemada, quello che doveva mandare a giudizio tutti, quello che diceva che quando si fa un’indagine gli indiziati possono o essere condannati o possono farla franca. Senza prendere neanche in considerazione l’ipotesi che potessero esistere innocenti”.
“Davigo ha frustato i politici, ha frustato gli imprenditori. Ha frustato tutti, anche i suoi colleghi. Si è sempre impancato per dire ‘Io sono la legge’, poi quando stava per andare in pensione voleva cambiare la legge perché voleva restare al Consiglio superiore della magistratura, è finito lui stesso non solo indagato ma rinviato a giudizio per aver rivelato un segreto di ufficio e per aver fatto conoscere e aver dato spazio non si sa bene a chi, in che modo e in che forma i verbali Amara che sono i verbali dell’interrogatorio di questo signore che dice cose pesantissime sulla magistratura“.
“Addirittura ipotizza che esiste una loggia che si chiama Loggia Ungheria, che sarebbe una specie di ‘Spectre’ che comanda la magistratura italiana. L’hanno rinviato a giudizio. Un pochino viene da ridere. E poi ripenso a Pietro Nenni, grande socialista, segretario del Psi per molti anni, partigiano combattente che diceva ‘Attenti puri, perché verrà uno più puro di voi e vi epurerà. Ecco qua, ci è caduto proprio Davigo”.
Tangentopoli 30 anni dopo, la parabola degli 'intoccabili' che fecero sognare l'Italia degli onesti. Piero Colaprico su La Repubblica il 17 febbraio 2022.
Che cosa resta del pool Mani pulite: Di Pietro si è ritirato tra i vigneti, Davigo è rimasto impigliato nei verbali del caso Amara ed è in rotta con Greco, Colombo non crede più nel carcere
Il pool 'Mani pulite', ei fu. A trent'anni di distanza dall'inchiesta che ha cambiato per sempre la storia d'Italia, è impossibile non osservare, con qualche sconcerto, l'amaro testacoda del più famoso gruppo di magistrati italiani. Cinque anni prima del cruciale 1992 era uscito un magnifico film, The Untouchables, Gli intoccabili: e c'era uno scherzoso manifesto, incollato dietro una porta del quarto piano, che lo citava.
Mani Pulite, l'avvocata Bernardini de Pace che difese la moglie di Chiesa: "Così il divorzio ci fece scoprire i suoi conti”. Luca De Vito su La Repubblica il 16 febbraio 2022.
Parla la legale che seguiva Laura Sala, la moglie di Mario Chiesa, nella causa di divorzio: "Passammo gli estratti conto del marito alla procura, fu la ciliegina sulla torta per loro che stavano già indagando".
L'avvocato Annamaria Bernardini de Pace ebbe un ruolo fondamentale nella vicenda di Mario Chiesa, il caso che dette il via a Tangentopoli. Da matrimonialista era la legale di Laura Sala, la moglie del presidente del Pio Albergo Trivulzio, nella causa di divorzio. E fu lei ad aiutare le indagini passando documenti importanti ad Antonio Di Pietro.
Mani Pulite 30 anni dopo, dalla scrivania alla porta rossa: cosa resta dell'ufficio di Craxi. Edoardo Bianchi su La Repubblica il 14 febbraio 2022.
Del vecchio studio di Bettino Craxi - da lui occupato dai tempi in cui era assessore della giunta di Milano fino alla fine della sua carriera politica - rimangono solo la famosa porta rossa ormai sigillata e in disuso, le vetrate antiproiettile e le pareti in noce con gli infissi delle porte color magenta.
La famosa scrivania con la cassettiera e i mobili del suo salottino personale sono stati traslocati in un deposito del Comune, alle porte di Milano, in attesa di altro utilizzo. E l'ex assessore Lorenzo Lipparini, ultima persona ad aver adoperato la stessa scrivania del leader Psi, racconta: "Lo studio di Craxi verrà smantellato e messo a reddito. È destinato a fare spazio ad un albergo o a un'altra struttura in affitto". E' un pezzo di storia d'Italia, che in questi giorni torna alla memoria: il 17 febbraio del 1992, 30 anni fa, l'ingegner Mario Chiesa viene arrestato per una tangente alla Baggina, è l'inizio del terremoto politico e istituzionale di Mani Pulite.
"Quando mi è stato assegnato questo ufficio nel 2007 la scrivania era posizionata verso l’affaccio sulla Loggia dei mercanti”, ricorda l’attuale occupante dello studio, Dario Moneta, a capo della Direzione Specialistica Autorità di Gestione e Monitoraggio Piani del Comune di Milano. "Era una scrivania scomoda, alta e imponente. Poi è stata traslocata più volte fino a finire in un deposito comunale".
Da “la Repubblica” il 16 febbraio 2022.
Caro Merlo, se 30 anni fa non ci fosse stata Mani Pulite, l'Italia sarebbe molto differente? Marco Sostegni
Risposta di Francesco Merlo:
Tra le tante rievocazioni, spesso declamatorie, ho molto apprezzato nello speciale di Metropolis - l'ormai imperdibile programma di Gerardo Greco sul sito di Repubblica - il confronto tra Gherardo Colombo e il figlio di Gabriele Cagliari, il presidente dell'Eni che si suicidò in prigione nel 134° giorno di quella carcerazione preventiva di cui, dopo trent' anni, in Italia si continua ad abusare. (E sono persino peggiorate le già terribili carceri che violano la dignità invocata da Mattarella.)
Colombo, che ha invitato a cena Stefano Cagliari, ha detto con amara ironia che il 17 febbraio da ricordare non è quello del 1992, ma del 1600, quando fu bruciato Giordano Bruno. E mi pare che ci abbia voluto dire che non ci sono eroi della libertà in Mani Pulite.
E arrivo alla domanda: penso che la corruzione della partitocrazia fosse soffocante e insostenibile, ma che fu una sbronza collettiva credere che l'indagine penale potesse liberarcene.
Mani Pulite svelò la corruzione politica ma non la risolse. E la si può vedere anche come una storia di eccessi: troppi reati, troppo carcere, troppa complicità tra i Pm e i giornalisti, troppi accanimenti.
Paghiamo ancora quegli eccessi che ora confusamente affidiamo a una riforma impossibile e a 6 referendum. Con il bisogno di una giustizia che non riesce a diventare "giusta", dolentemente ci portiamo dietro un finto giornalismo che ancora spaccia per scoop i verbali di questura.
Mani pulite trent'anni dopo. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.
Il 17 febbraio del 1992 fa l’arresto di Mario Chiesa avviò l’indagine che travolse la Prima Repubblica. Fu una tangente da sette milioni di lire la prima scossa di un terremoto che avrebbe travolto la classe politica della Prima Repubblica e i più grandi gruppi industriali italiani, e che da Milano si estese in tutto il Paese. Quella mattina di trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, primo giorno di Mani Pulite, nessuno poteva immaginare che l'arresto del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, avrebbe sconquassato in pochi mesi il Pentapartito, coinvolto il Pci-Pds e macchiato anche la Lega in vorticosa ascesa al grido di "Roma Ladrona".
"Mazzette vere e personaggi da fumetto, così nacque il nome Tangentopoli". Piero Colaprico su La Repubblica il 15 febbraio 2022.
Era il 17 febbraio del '92 quando scoppiò il caso giudiziario Mario Chiesa e Pio Albergo Trivulzio. L'inchiesta Mani Pulite "andò avanti a un ritmo forsennato, cambiando radicalmente la storia d'Italia", racconta l'inviato di allora di Repubblica che cominciò a scrivere tra i primi del "Kennedy di Quarto Oggiaro".
La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un funzionario comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, condomini, proprietari terrieri, architetti di ampliare verande e sottotetti e realizzare piccole e grandi costruzioni.
Piero Colaprico per “la Repubblica” il 15 febbraio 2022.
La parola Tangentopoli nasce prima di Tangentopoli. La storia è questa. Mentre finiva il 1991, viene arrestato dalla procura di Milano un dipendente dell'assessorato comunale all'Urbanistica. Aveva inventato un metodo efficace per arrotondare lo stipendio. Al mattino si comportava da funzionario integerrimo, che nel palazzone di vetro e cemento affacciato sul traffico delirante di via Melchiorre Gioia, vietava ad amministratori, proprietari terrieri e architetti di ampliare verande e realizzare piccole e grandi costruzioni. Ma al pomeriggio apriva una sua agenzia, a circa 400 passi di distanza.
E là, non più mezzemaniche, bensì consulente in giacca di cammello, studiava le stesse pratiche che poi, come funzionario, sarebbe riuscito a far approvare. Si pagava ancora in lire: bastava un milione, vale a dire 500 euro attuali, per sentirsi dire sì quando si erano incassati una serie di no. Insomma, un'idea criminale, con una dinamica involontariamente umoristica.
Il funzionario-consulente era andato avanti un bel po' di tempo a inglobare piccole e grandi somme quotidiane, finché la sua epopea era finita all'improvviso. E si era ritrovato a San Vittore. Mi era sembrata una vicenda meno brutale di altre simili, con una dinamica degna delle ideone sballate di un eroe dei fumetti: Paperino. E così, Paperino-Paperopoli. E Tangenti-Tangentopoli. Milano, "la città della tangenti": sarebbe meglio dire "la città delle tangenti che venivano scoperte".
Non è che in altre città non ci fosse la stessa, se non una più grave corruzione. In ogni caso, Milano non era esente dal tema, che Repubblica seguiva con grande attenzione, anche per decisione del direttore Eugenio Scalfari. Cominciai a scrivere in vari articoli queste "cronache di Tangentopoli". Non se ne accorse nessuno. Fra Milano e l'Italia intera si ripeteva infatti il medesimo schema giudiziario: veniva scoperto un corrotto, si indagava su politici, amministratori e funzionari, e qualcuno di loro entrava in carcere. Nessuno o quasi accettava però di rispondere agli interrogatori dei magistrati.
Quel sistema, che verrà definito dal sostituto procuratore Antonio Di Pietro «dazione ambientale», non veniva intaccato. Mai. Ma l'Italia è anche il Paese dei "Finché". Uno crede sempre di avere successo, potere e potersela cavare, finché: finché, in un pomeriggio buio e freddo, il 17 febbraio 1992, viene arrestato nel suo ufficio il socialista Mario Chiesa. Era sfottuto come il "Kennedy di Quarto Oggiaro", dal nome di un quartiere di periferia, aveva non nascoste ambizioni da sindaco e millantava una forte amicizia con i Craxi. Era il presidente del Pio Albergo Trivulzio. La "Baggina", casa di riposo amata dai milanesi, un'istituzione dotata di un grande patrimonio immobiliare.
Chiesa aveva intascato le banconote di una tangente senza poter immaginare di essere caduto in trappola. Accanto alla filigrana delle 50mila ci sono le firme di un capitano dei carabinieri, Roberto Zuliani, e di Pietro. Il caso viene seguito dai cronisti giudiziari. Sono un inviato speciale da oltre due anni, nei primi giorni non me ne occupo, finché - c'è sempre il finché - vengo convocato dall'allora capo redattore Guido Vergani, che chiude la porta e dice: «Piero, non puoi dire di no. Devi darci una mano, a Scalfari non piace come stiamo lavorando, ci ha chiesto di dare il massimo in questo servizio. Tanto, quanto durerà? Un paio di mesi al massimo, poi torni a girare».
Non avrei detto "no" comunque. Quando con il collega del Giorno Paolo Colonnello, restando cinque ore davanti a San Vittore, scopriamo che Mario Chiesa sta parlando, quel termine mi rispunta. E lo riutilizzo nelle settimane successive. Cronache di Tangentopoli. Nessuno se lo fila. Sarà infatti un ignoto titolista delle cronache nazionali di Repubblica a "spararlo" in grossi caratteri. Ed è così che entra nell'immaginario.
Le televisioni lo riprendono subito, mentre i giornali, specie i diretti concorrenti, ci mettono un po' di più. Poi cedono. Com' è noto, l'inchiesta non durò "due mesi", ma anni, e il termine ha purtroppo figliato i vari Calciopoli, Concorsopoli e Vallettopoli, come se "poli", invece di "città", significasse "scandalo", ma in qualche modo è rimasto nel tempo.
Viceversa, la storia dell'inchiesta subisce continue riletture, aggiustamenti, ritocchi. Anche se la sostanza vera non cambia: c'era un fortissimo e ramificato sistema di corruzioni negli appalti, nelle assunzioni, negli incarichi, in grado di uccidere ogni merito, pesare sui bilanci pubblici, sostenere le casse dei partiti, e anche di non pochi singoli personaggi. Tangentopoli, per l'appunto. L'edificio simbolo Il palazzo di giustizia di Milano.
Tangentopoli, Colombo e Cagliari jr: “Una cena per ricordare che senso ha la giustizia”. Sandro De Riccardis su La Repubblica il 15 febbraio 2022.
Il confronto tra il pm del pool e il figlio di un indagato morto suicida in carcere tre giorni prima di Raul Gardini. “Sembrava tutto più grande di noi”. Gherardo Colombo, uno dei magistrati del pool di Mani Pulite, e Stefano Cagliari, il figlio di Gabriele Cagliari, l'ex presidente di Eni morto suicida in carcere, il 20 luglio 1993, dopo 134 giorni di carcerazione preventiva. Si ritrovano trent'anni dopo il primo arresto di Tangentopoli a Metropolis Live, la trasmissione sul sito di Repubblica condotta da Gerardo Greco, insieme al vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini e al direttore dell'Espresso Marco Damilano.
Mani Pulite, quando Gabriele Cagliari accusò i magistrati prima di suicidarsi. Le missive di Gabriele Cagliari, suicida in carcere e indagato in "Mani Pulite", contro i giudici e i pm milanesi. Lettere che sono un atto di accusa contro i metodi dell'epoca. Il Dubbio il 16 febbraio 2022.
Trent’anni fa iniziò Mani Pulite. Lunedì 17 febbraio 1992, nel suo ufficio in via Marostica 8 a Milano, al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa fu arrestato per concussione per una tangente da 14 milioni di vecchie lire che gli venne consegnata dal giovane imprenditore Luca Magni. Ma in carcere finirà anche Gabriele Cagliari. Ecco una delle lettere scritte dall’ex presidente dell’Eni, nel luglio del 1993, in cella ai suoi familiari e al suo avvocato. Un atto di giustizia contro le decisioni della magistratura dell’epoca. Le missive sono tratte dal sito gabrielecagliari.it
Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti, sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna. La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica. La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto.
Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati ogni volta al canile. Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto. Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto, senza carta di identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano fare. Per di più ho 67 anni e la legge richiede che sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per trattenermi in condizioni tanto degradanti.
La lettera di Gabriele Cagliari al suo avvocato
Caro Avvocato, da quattro mesi ormai siamo in prima fila, meglio in prima linea, bersagliati da provocazioni e ingiustizie. Non è ulteriormente tollerabile essere colpiti da questi provvedimenti, illegittimi e applicati in modo discriminatorio. Questa dei magistrati è un comportamento che ha come unico scopo quello di coprirci di vergogna e di rancore. Deve assolutamente cessare.
La ringrazio per tutto il brillante lavoro che ha svolto e voglia con questo, ringraziare anche il proc. dott. Gianzi. Vi prego di stare vicini a mia moglie e di aiutarla a superare questo momento per lei molto difficile, tragico. Le confermi, La prego, che le ho inviato una lettera per posta, per lei e i ragazzi. Ho scritto ai miei cari, e confermo qui, che intendo che il mio corpo sia cremato e le ceneri siano affidate a mia moglie. Di nuovo grazie. Una cordiale stretta di mano.
TANGENTOPOLI. ESCE “L’ULTIMA NOTTE DI RAUL GARDINI”. PAOLO SPIGA su La Voce delle Voci il 15 Febbraio 2022.
“L’ultima notte di Raul Gradini” è il titolo di un fresco di stampa per le edizioni di ‘Chiarelettere’. Lo firma il giornalista e scrittore Gianluca Barbera. Ecco, di seguito, i passaggi salienti di una intervista rilasciata a Sara Perinetto per ‘Affaritaliani’.
“Nel libro ripercorro un fatto reale grazie a un protagonista fittizio, Marco Rocca, giornalista d’inchiesta che segue la vicenda Enimont, innestata nel filone Mani Pulite, il processo chiave di tutte le inchieste nate da Tangentopoli e che riguarda una ipotetica maxitangente da 150 miliardi che i Ferruzzi avrebbero pagato ai partiti. Rocca entra in scena la mattina del 23 luglio 1993 a Palazzo Belgioioso, dove è appena stato trovato il cadavere di Raul Gardini. Subito si rende conto che le indagini verranno archiviate per suicidio, ma non è convinto che questa sia la verità”.
“La sentenza che stabilisce che si è trattato di suicidio è legata a un elemento probatorio chiave ma ambiguo, un bigliettino trovato sul comodino con cui Gardini dice addio ai propri familiari. La prima perizia stabilisce che la scrittura era sì di Gardini, ma di 11 mesi prima. La seconda data il bigliettino a pochi minuti prima della morte, il cui orario però non è mai stato accertato”.
“Sulle mani di Gardini, poi, il guanto di paraffina non ha rivelato polvere da sparo. I magistrati dell’epoca dissero che c’era stato un errore nel rilevamento tecnico: non sarebbe una novità, ci sono spesso errori nelle inchieste italiane che inquinano il quadro indiziario. Altro elemento dubbio è la pistola, all’inizio nelle mani di Raul e in un secondo momento sul tavolo: chi l’ha spostata?”.
“Per tutto il romanzo le due ipotesi, omicidio e suicidio, rimangono in equilibrio, ma alla fine non mi sottraggo e propongo, attraverso il parere del protagonista, una ricostruzione plausibile dei fatti. Diciamo che il protagonista scopre la verità, che però, comunque, rimane ambigua. Ma questo libro non è solo un giallo: la mia intenzione era raccontare la storia familiare dei Ferruzzi, che è importante e non è stata mai raccontata”.
“Alla morte del fondatore Serafino Ferruzzi, nel 1979, anche quello un evento misterioso, il genero Raul Gardini viene messo a capo di questo gruppo, che porterà a essere leader anche internazionale”.
“E’ all’apice fino alla fine degli anni ’80 ma poi decide di mettere gli occhi su Eni, la cassaforte dei partiti, la più grande azienda statale italiana. Gardini dà così vita ad Enimont, una joint venture tra le due società più grandi della chimica, Eni e Montedison, di cui il 40 per cento è controllato da Gardini, un altro 40 per cento da Eni e il restante 20 per cento sono azioni sul mercato. Quindi nessuno comanda”.
“Questa operazione produce un guadagno per la Montedison di Gardini, su cui avrebbe dovuto pagare mille miliardi di lire di tasse allo Stato. Gardini aveva acconsentito all’operazione in cambio di uno sconto su queste tasse: una promessa che De Mita fa ma non riesce a mantenere. Allora Gardini comincia a comprare le azioni sul mercato diEnimont per acquisirne il controllo, fino a dichiararlo pubblicamente, ‘la chimica sono io’. Craxi se lo lega al dito e blocca tutto. Da lì nasce la maxi tangente con cui Gardini voleva sbloccare la situazione, ma la famiglia, terrorizzata dalla politica, lo esautora dai suoi incarichi”.
“Quella mattina Gardini doveva recarsi in procura per parlare con Antonio Di Pietro. Per lui è stato un colpo durissimo perché la testimonianza di Gardini avrebbe cambiato la storia d’Italia, rivelando dove erano andati a finire quei 150 miliardi della maxi tangente”.
“Se davvero è stato un suicidio, è spiegato dal fatto che Gardini in quel periodo era molto teso, aveva passato tutto il giorno precedente con i propri avvocati. L’idea di finire in prigione lo terrorizzava, anche perché in quel periodo i magistrati usavano il carcere preventivo per far leva sui testimoni. Tre giorni prima era morto Gabriele Cagliari, suo concorrente, arrestato per tangenti e tenuto in uno stato psicologico di pressione per indurlo a parlare e che invece l’ha portato al suicidio”.
“In realtà, non è stato chiarito praticamente nulla: primo fra tutti, non si sa dove siano finiti i due terzi della madre di tutte le tangenti”.
La Voce ha scritto diversi pezzi sul giallo della morte di Gardini. Potete trovare i principali cliccando sui link in basso. E leggerete cose ancora oggi molto interessanti suo ruolo giocato da Antonio Di Pietro in quella tragica story.
Raoul Gardini, gli insulti alla vedova a di un morto suicida: che roba è stata Mani Pulite. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 21 febbraio 2022.
Il 23 luglio i funerali dell'ex presidente dell'Eni Gabriele Cagliari sfilavano mentre una la folla di scalmanati gridava «ladri», «vergogna» e «nessuna pietà» alla vedova Bruna Cagliari e i suoi figli Silvano e Stefano, che stavano raggiungendo il feretro. Il sindaco di Milano Marco Formentini aveva rifiutato di partecipare con la benedizione di Umberto Bossi, che quel giorno però disse una frase profetica su Bettino Craxi: «I re, quando scoppiano le rivoluzioni, non sono mai destinati alla galera. O salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l'esilio». Al viaggio definitivo per Hammamet mancava ancora un anno. Alle 9.40 le esequie erano ancora in corso quando l'agenzia Ansa batteva una notizia: «Gardini si è suicidato». La ricostruzione è ormai definitiva ma apre squarci inquietanti. Gardini si sparò con la Ppk calibro 7,65 fuori produzione dopo aver letto i giornali che avevano accuse come queste: "Tangenti, Garofano accusa Gardini", "Ferruzzi allo sbando, ora tremano i big". A pagina quattro: "Cinque eccellenti nel mirino di Mani pulite", e c'era la sua foto. I giornali traevano la notizia da alcune anticipazioni del settimanale Il Mondo che pubblicava un articolo scritto da una giornalista sotto pseudonimo che in realtà era Renata Fontanelli del manifesto. I verbali li aveva avuti solo lei dal carabiniere Felice Corticchia, anche perché il pool dei giornalisti si stava un po' sfaldando. Quando lo trovarono, affianco aveva i giornali e un biglietto con scritti i nomi della moglie e dei figli, più un «grazie». Il proiettile gli aveva trapassato il cranio, ma era ancora vivo. Morì alle 9.07.
PUNTI DI VISTA
Antonio Di Pietro scese dall'auto tra gli applausi mentre poco più in là c'era il funerale di Cagliari. Racconterà sempre che una mancanza di tempestività nell'arrestare Gardini fu uno dei grandi errori della sua vita. Lo dirà, però, cambiando sempre versione. "Il mio errore su Raul Gardini. Non lo arrestai per una promessa": questo per esempio fu il titolo di un'intervista che rilasciò ad Aldo Cazzullo del Corriere del 21 luglio 2013, e già qui i fatti appaiono distorti: sia perché Gardini figurava già formalmente arrestato (l'ordine era firmato da tempo, come ben sapevano il pm Francesco Greco e il gip Italo Ghitti) e sia perché era stato lo stesso Di Pietro, in precedenza, a spiegare che era stato semplicemente un problema di orario: varie versioni si accavallano in "Intervista su Tangentopoli" (Laterza, 2000, con Giovanni Valentini) ene "Il guastafeste" (Ponte alle Grazie, 2008, con Gianni Barbacetto) e in "Politici" (Ponte alle Grazie, 2012, con Morena Zapparoli Funari) più qualche intervista che prefigura, direbbe Di Pietro, una reiterazione del reato di omissione. Di Pietro disse ad Aldo Cazzullo, nella citata intervista: «Il 22 luglio, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso, e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Domanda: ma voleva arrestarlo o no? Risposta: «Con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità». Il quadro prefigura un Di Pietro quasi umano che adottava le manette come remota ipotesi. Questa versione, data anche in passato, venne sintetizzata verso la fine dell'intervista: «Avrei dovuto ordinare di arrestarlo. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data». Sul valore della parola di Di Pietro i testi a discarico riempirebbero uno stadio, ma vediamo come andò davvero. Già nel libro scritto con Giovanni Valentini cambia tutto: «C'erano perquisizioni da eseguire, si rischiava di cominciare la sera e di finire a notte inoltrata, per cui decisi di rinviare tutto all'indomani». Rinviare che cosa? L'arresto già firmato: la parola data non c'entrava niente.
RICHIESTA RESPINTA
Ma per comprendere lo stato d'animo di Gardini (di una persona, ossia, poi giunta a suicidarsi) occorre tornare alla prima estate 1993, quando il finanziere aveva ragione di pensare che avrebbe potuto fare come Cesare Romiti e Carlo De Benedetti e Romano Prodi: accordarsi con la Procura e presentare un decoroso memoriale al momento giusto, possibilmente non gravemente omissivo come si rivelò quello di Cesare Romiti. Ma per Gardini c'erano segnali di presagio diverso: venne a sapere che il pm Francesco Greco (non Di Pietro: Francesco Greco) aveva chiesto un primo mandato d'arresto contro di lui, e lui, Gardini, quasi non ci credette: il gip Antonio Pisapia, in ogni caso, respinse la richiesta. Greco tornò tuttavia a lavorarci, sinché un altro gip, Italo Ghitti, il 16 luglio accolse il mandato di cattura, che però rimase sospeso come una spada di Damocle. Il 16 luglio 1993, dunque, Gardini venne a sapere che il mandato d'arresto contro di lui era già stato firmato: e a quel punto, coi suoi due avvocati, predispose qualcosa di più di un decoroso memorialetto: si dichiarò disponibile a parlare di tutta la vicenda Enimont e anche di soldi ai partiti e di paradisi fiscali. Chiese un interrogatorio spontaneo, come altri avevano ottenuto, e mandò l'altro avvocato, Dario De Luca, in avanscoperta. Con una lettera: «Con la presente desidero portare a Loro conoscenza la mia più ampia e illimitata disponibilità a ragguagliare le S.V. Ill.me su tutti i fatti che saranno ritenuti per Loro di interesse».
Il riferimento era alle mazzette Enimont e a «dazioni di denaro a partiti politici e, più specificatamente, a personalità politiche in occasione di vicende attinenti la joint-venture Enimont ein altre occasioni. Si leggeva che avrebbe spiegato il sistema che consentiva alla Montedison di finanziare le attività con sedi nei paradisi fiscali di mezzo mondo e che avevano alimentato gli ingenti fondi neri della contabilità parallela del gruppo Ferruzzi. Non era poco, anzi. Ma quando l'avvocato De Luca tornò con le pive nel sacco, il segnale si fece preciso: non volevano interrogarlo, volevano espressamente arrestarlo. O meglio: volevano interrogarlo, arrestarlo e poi reinterrogarlo da galeotto. Vent' anni dopo, nell'intervista al Corriere, Di Pietro la girò così: «Io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo». Sì, ma per arrestarlo: tanto che è sempre il contraddittorio Di Pietro, nel libro con Valentini, a precisare che «Gardini non viene sorpreso dal provvedimento restrittivo, i suoi legali lo informano già dalla sera prima». Gardini, in sintesi, fu lasciato "in cottura" per un tempo insopportabile con un mandato d'arresto sopra il cranio; il 20 luglio, di passaggio, apprese che il manager socialista Gabriele Cagliari si era suicidato nello stesso luogo in cui Di Pietro lo voleva spedire, e questo con un mandato d'arresto che intanto era sempre lì, sospeso. Sinché i legali confermarono a Gardini che il mandato d'arresto era firmato, e che la galera doveva farsela.
LETTURE FATALI
Dissero che avevano ottenuto di rimandare l'arresto al giorno dopo, ma, stando a Di Pietro, fu solo per evitare che le perquisizioni proseguissero sino a notte: cosìcchè, con le sue gambe o col cellulare della polizia, Gardini l'indomani sarebbe andato in procura e poi in galera. Ma non resse la tensione. Il mattino dopo lesse i giornali con le confessioni di Garofano pubblicate prima ancora che lui potesse raccontare la sua versione, vide la prova della verità: non ci sarebbe stato un margine di trattativa, volevano arrestarlo e basta, non c'era una disponibilità che lui potesse offrire senza l'umiliazione delle manette. Si uccise. La reazione a caldo di Di Pietro (il Corriere la riporta) fu questa: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino». Aveva ragione: qualcuno si ammazzava prima ancora di finirci. E comunque, per farsi perdonare, Di Pietro, nello stesso giorno, il 23 luglio, mandò ad arrestare parenti e amici di Raul Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani. Il gip Italo Ghitti fu piu che d'accordo: «Eccezionalmente», dirà, «su quei provvedimenti ho indicato l'ora, Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti».
Più che la giustizia, gli arresti. Il lettore potrà farsi l'idea che vuole circa la perdurante excusatio non petita di Antonio Di Pietro. Ma nulla esclude che Gardini quest' ultimo potesse anche temere, una volta incarcerato, che dalle fogne del Paese potesse tracimare di tutto. E qui si torna al dossier mafia -appalti che probabilmente fece saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Si ricordano, succintamente, le parole del pentito Antonino Giuffrè: «Una indagine dei Carabinieri mise a nudo il legame strettissimo tra Cosa Nostra, il mondo imprenditoriale e quello politico per la spartizione delle commesse. Falcone e Borsellino capirono subito l'importanza di questo legame... Il "tavolino" controllato da Angelo Siino sedevano personaggi molto importanti... L'ingegnere Bini, il tecnico che si occupava di calcestruzzi per conto della Ferruzzi, divenne il punto di collegamento con i mafiosi e con i politici». Si ricorda pure quanto disse a Paolo Borsellino, nei suoi ultimi giorni, il pentito Leonardo Messina: «Totò Riina i suoi soldi li tiene nella Calcestruzzi». Angelo Siino, il "ministro dei lavori pubblici di Cosa nostra", a proposito del suicidio di Gardini, sarà nondimeno esplicito: «Credo che abbia avuto paura per le pressioni del gruppo mafioso sul carro del quale era stato costretto a salire, quello dei fratelli Nino e Salvatore Buscemi, legatissimi a Totò Riina... Secondo me Gardini ha capito che non era più in grado di sganciarsi dall'orbita mafiosa in cui era entrato». Mani pulite non è storia vecchia. È storia nuova, tutta da riscrivere.
Tangentopoli: in un libro idee, cronache e interviste trent'anni dopo l'inchiesta. La Repubblica il 14 febbraio 2022.
Un crocevia della storia, uno snodo cruciale per il Paese che segna un prima e un dopo. A trent'anni dall'inizio dell'inchiesta che portò alla fine dei partiti figli del dopoguerra, svelando il sistema corruttivo che li teneva in piedi, Repubblica torna su quel biennio caldissimo. Lo fa con un libro, "L'Italia di Mani Pulite" (in edicola da giovedì 17 febbraio in abbinamento a Repubblica, L'Espresso o La Stampa a 14,90 euro più il prezzo della testata) che, in circa 400 pagine, raccoglie gli articoli più significativi di quei lunghissimi mesi, scritti dalle firme che quotidianamente raccontavano le inchieste, le manette, i protagonisti di un'epoca che stava cambiando. Nel libro c'è spazio pure per una riflessione più profonda sulle parole chiave di quella stagione, a 30 anni di distanza, portata avanti dai direttori delle testate del gruppo Gedi, Maurizio Molinari, Ezio Mauro, Massimo Giannini, Marco Damilano, Mattia Feltri e dai cronisti che seguivano in prima linea Tangentopoli, da Gianluca Di Feo a Piero Colaprico a Carlo Bonini. Tra le testimonianze inedite dei protagonisti (il socialista Gennaro Acquaviva, il democristiano Paolo Cirino Pomicino, l'ultimo segretario del Pci, Achille Occhetto), il libro contiene anche una mole di numeri e di infografiche che aiutano a comprendere cosa accadde in quegli anni di svolta per tutta l'Italia.
Tangentopoli 30 anni dopo: la rivoluzione legale è finita, la corruzione continua. Il 17 febbraio 1992 l’arresto di Mario Chiesa scoperchia il sistema delle mazzette e dei fondi neri ai partiti. Da Colombo a Davigo, dal pm veneziano del Mose a Francesco Greco, da Giuliano Pisapia all’ex presidente dell’Anac, magistrati, avvocati e studiosi spiegano perché è esplosa l’inchiesta, come fu fermata e le nuove tecniche di malaffare tra politici e imprese nell’Italia di oggi. Paolo Biondani su L'Espresso il 14 febbraio 2022.
Una tangente di 3500 euro che fa crollare il sistema dei partiti. A dispetto di tante dietrologie, il vero mistero di Mani Pulite è la modestia dell’innesco: 7 milioni di sporche vecchie lire. Banconote fotocopiate da Antonio Di Pietro, trent’anni fa pubblico ministero a Milano, e consegnate da un piccolo imprenditore monzese, Luca Magni, a un politico che lo taglieggia.
Per gli italiani mafia e corruzione sono una malattia inevitabile. Ilvo Diamanti su L'Espresso il 14 febbraio 2022.
Il 17 febbraio 1992 partiva l’inchiesta Tangentopoli che ha cambiato la storia repubblicana. Oggi su criminalità organizzata e malaffare i cittadini hanno più consapevolezza ma tendono a considerarli una patologia consolidata. Come rivela la ricerca Demos-Libera.
Le vicende legate alla corruzione, alle mafie e alle organizzazioni criminali, in Italia, hanno una storia lunga. I cittadini ne sono consapevoli. E si rendono conto che i programmi e i piani avviati, dal governo, per affrontare le emergenze economiche e sanitarie, attirano l’attenzione e “l’interesse” (…gli interessi) di soggetti con “altri e diversi interessi”. Che vanno oltre ogni limite di “legalità”.
Da "il Giornale" il 16 febbraio 2022.
L'ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, risponde piccato a Cirino Pomicino che, commentando dopo trent' anni la stagione di Mani Pulite, aveva parlato di un disegno ben preciso per eliminare per via giudiziaria, un intero sistema politico. Il magistrato non ci sta e, intervistato a «Monetine - cinque storie di Mani Pulite», il podcast originale di Radio 24 da un'idea di Simone Spetia replica: «Mani Pulite un disegno politico? Ci diano le prove. Le aspetto da trent' anni».
«La corruzione era un sistema e come tale andava resettato». «Bisogna intervenire sull'educazione: la corruzione fa male anche a chi la pratica». Poi risponde a Cirino Pomicino: «Ormai è lecita qualsiasi affermazione senza nessuna base scientifica. Perché nessuno è mai venuto in trent' anni a supportare questa affermazione con una minima dimostrazione?».
Quell'uragano che spazzò l'Italia. Paolo Guzzanti il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.
La resa del Parlamento sfidato alla tv dal Pool di Milano. Craxi sconvolto dal suicidio di Cagliari: "Stai attento c'è gente che ammazza..."
A sentire e leggere quello che dice oggi Piercamillo Davigo, uno dei magistrati che scatenarono l'inchiesta «Mani Pulite» contro Tangentopoli 30 anni fa, la storia si dovrebbe ripetere ripete ciclicamente e quindi, lui prevede, fra poco si ripeterà anche con i soldi del Pnrr perché a suo parere ci sarà un magna-magna colossale. Ecco un caso in cui un vecchio magistrato sogna di tornare Ghostbuster a caccia di fantasmi con i vecchi compagni del Pool che sfidò il Parlamento. Magistrati come profeti? È normale? Tre decenni dopo l'Inquisizione di Mani Pulite il bilancio è semplice e terribile; si sono rotti gli argini che avrebbero dovuto contenere le esuberanze di alcuni magistrati e i danni seguitano a produrre altri danni.
Proviamo a mettere insieme il contesto. Partirò da un mio ricordo, anzi una testimonianza: nel 1980, in anticipo di 12 anni per puro caso inciampai in Tangentopoli provocando grande clamore, del tutto inutile. E quando poi nel 1992 il fattaccio venne definitivamente a galla, tutti avevano nel frattempo perso la memoria di quel che era già emerso e ficcato di nuovo sotto la sabbia. Nel 1980 fui mandato dunque da Eugenio Scalfari a intervistare il ministro Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti in quotidiana comunicazione con il suo omologo del Partito comunista Antonino Tatò.
Lo dovevo intervistare per una faccenda di assegni irregolari pubblicata sul settimanale L'Espresso. Evangelisti mi accolse in modo festoso e appena lo estrassi, mi chiese di rimettere in tasca il bloc-notes perché, disse, prima, mi doveva spiegare il retroscena. E lo fece con queste parole: «Qua abbiamo rubato tutti, dal primo all'ultimo. Tutti! I comunisti prendono soldi dai russi e noi, che non siamo più scemi di loro, i soldi li prendiamo dove è possibile e li chiediamo agli industriali e agli enti pubblici e ai Paesi amici».
Mi fece l'esempio di un industriale che mensilmente faceva il giro dei partiti offrendo assegni. Quando arrivava il suo turno, l'industriale gli diceva: «A Fra' che te serve?». Bastava specificare la somma. Poi pretese di dettarmi che cosa scrivere pronunciando parole innocue e generiche. Tornato in redazione, io invece scrissi invece tutto ciò che mi aveva detto e feci senza volerlo uno scoop eccezionale. Grande clamore, ma tutti facevano finta di non aver capito che cosa Evangelisti avesse confessato nel 1980: che tutti i partiti senza eccezione estorcevano denaro in barba alla legge.
Il clamore fu dirottato sul linguaggio volgare del ministro, una questione di stile. Non un solo magistrato aprì un fascicolo ma Evangelisti fu costretto a dimettersi.
Anche i magistrati di allora facevano parte del Sacro Graal del silenzio? So soltanto che tutto ciò che aveva confessato Evangelisti coincise con quanto dirà il segretario del Partito socialista Bettino Craxi alla Camera il 3 luglio del 1992, quando chiamò come correi degli stessi crimini di cui era stato accusato (e per cui fu costretto a rifugiarsi fino alla morte nella sua casa in Tunisia) tutti i capi di tutti i partiti, che avevano fatto ricorso a finanziamenti illeciti per mantenere in piedi le loro baracche della politica.
Ma fra la surreale confessione di Evangelisti e Tangentopoli qualcosa di nuovo era stato introdotto come elemento morale: dopo la caduta dell'impero sovietico e la fine dei foraggiamenti al Pci, era stato introdotto con grande e ben diretto sforzo comunicativo, il principio etico secondo cui «rubare per il partito, è cosa buona; mentre rubare per le proprie tasche è criminale».
Era un criterio capovolto essendo vero il contrario: chi pompa denaro illecito in un partito, manomette la raccolta del consenso e dunque la base del sistema democratico perché i soldi portano voti grazie ad un reato, mentre paradossalmente chi intascava soldi destinati al partito commetteva un reato ma non un attentato alle istituzioni.
La stampa in modo pressoché unanime accolse quella ipocrita gerarchia capovolta di valori perché lo scopo finale dell'operazione era quello di far fuori i partiti che avevano governato dal 1948, lasciando indenne il solo Partito comunista velocemente ribattezzato Partito democratico della sinistra affinché conquistasse il potere senza concorrenti e con il pieno consenso degli americani (ma non solo) che da tempo sognavano di togliersi dai piedi una classe dirigente che aveva sfruttato la posizione di geografica di cerniera fra Est e Ovest dell'Italia per fare il porco comodo di alcuni politici e di molti poteri economici.
Questo era lo scenario in cui esplose uno scandalo che diventò un uragano, qualcosa di simile a una rivoluzione alimentando nel Paese un limaccioso sentimento di vendetta nei confronti dei politici montando la cupa idea che fossero soltanto una banda di ladri. Come giornalista della Stampa fui incaricato di seguire il procuratore più visibile del Pool: Antonio Di Pietro con i suoi buffi errori di italiano, il suo passato agreste, l'emigrazione in Germania. Intervistando più tardi la famiglia Setti Carraro dopo l'uccisione a Palermo del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa con la giovane moglie Emanuela Setti Carraro, seppi da loro che Di Pietro faceva parte del gruppo del capo dell'antiterrorismo.
Il giorno in cui Gabriele Cagliari presidente dell'Eni arrestato dal Pool fu trovato soffocato in carcere con un sacchetto di plastica sul volto, incontrai Bettino Craxi seduto in un piccolo ristorante di via dell'Anima poco prima che fuggisse in Tunisia. Mi chiamò pallido e agitato, dicendomi: «Stai attento a quello là. Stai attento a tutti loro. È gente che ammazza». Di Cagliari dissero che era suicidato. Provate un po' voi a suicidarvi (facendovi assistere) ficcando la testa in un sacchetto. Lo show arrivò alla fine. Le sentenze furono irrisorie, le morti assurde. Ma la democrazia della prima Repubblica cadde quando il Pool di Mani pulite sfidò, davanti alle telecamere, il Parlamento. E il Parlamento si arrese. Paolo Guzzanti
Il "fattore umano" e i segreti del Pool. Quelle primedonne che si detestavano. Luca Fazzo il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Erano tutti permalosi. Borrelli non si fidava di Di Pietro. Ed era odiato da D'Ambrosio.
Gerardo D'Ambrosio detestava Borrelli. Borrelli, che un po' subiva e un po' usava Di Pietro, in cuor suo non se ne fidava né umanamente né professionalmente. Eccetera. Archiviato - grazie al cielo - il trentennale, e in attesa del quarantennale, cosa resta da dire dell'inchiesta Mani Pulite? Forse per capire come nacque e imperversò l'indagine su Tangentopoli manca, nelle lodevoli ricostruzioni di questi giorni, qualche sprazzo sul «fattore umano» che, come spesso accade, ebbe nelle tempestose vicende di quei mesi il suo bel peso. Lo ebbe nei comportamenti degli indagati, che io non conoscevo. Ma lo ebbe anche in quello degli indagatori: che invece ebbi modo di frequentare quotidianamente. E che mi fa un po' impressione rivedere oggi, a trent'anni di distanza, alle prese con i guai e le rughe.
Con loro ci si dava del tu, con due eccezioni: Borrelli, cui ovviamente tutti davano del lei (tranne Chiara Beria, che però era figlia di un suo augusto collega), e Davigo. Di Pietro aveva un caratteraccio, diceva un sacco di balle, e infatti tra di noi lo chiamavamo lo «zanzone», l'imbroglione. Ma di fondo era un lineare, un buono e a suo modo un fragile, come dimostrano in parte le sue vicissitudini successive. Un pomeriggio, nella sua stanza, insieme a Maurizio Losa della Rai lo vedemmo scoppiare in lacrime senza motivo apparente: capimmo solo dopo che sulla sua testa si addensavano le nubi che poco dopo lo avrebbero costretto a dimettersi dalla magistratura. D'Ambrosio non poteva essere buono per definizione, perché nella cultura del Pci dell'epoca - forgiata nella Resistenza e temprata trent'anni dopo nella lotta al terrorismo - per i sentimenti non c'era molto spazio: ma era l'unico del gruppo a pensare che la politica avesse ruolo e dignità quanto la magistratura, e non a caso fu l'unico a tenere fino all'ultima la porta aperta al rientro di Bettino Craxi dall'esilio.
Gherardo Colombo era e resta un moralista cattolico, ma proprio questa sua matrice lo portò all'epoca a esporsi con coraggio proponendo una soluzione politica che - se fosse stata accolta - avrebbe cambiato il corso dell'inchiesta; e lo ha portato di recente a una sincera resipiscenza. Francesco Greco non amava mandare la gente in galera, e forse anche per questo scelse di curare la parte economica dell'indagine, dove il ricorso alle manette era meno fisiologico. Ho stima di lui, e credo che si sia pentito di avere chiesto e ottenuto la guida della Procura di Milano, con tutto quello che ne è seguito nel gigantesco pasticcio del caso Eni e della loggia Ungheria.
Erano tutti permalosi, non amavano le critiche e i dissensi. Per questo Fabio De Pasquale, che era un giovane e ambizioso pm, restò sempre fuori dal pool, viaggiando per la sua strada che lo portò per primo a far condannare Craxi, ma che porta ancora oggi a associare il suo nome alla morte in carcere di Gabriele Cagliari. Anche con lui mi davo del tu, ma mi ha tolto il saluto (e querelato) dal 1995 perché scrissi che si era fatto sfuggire un serial killer. È in buona fede ma è animato da una assenza di dubbi che sta alla base dei suoi problemi recenti.
Fu questo cocktail di caratteri diversi a rendere possibile una offensiva giudiziaria senza precedenti. Borrelli, che era una mente superiore, rivendicava come proprio principale merito l'oculatezza con cui aveva assortito la squadra (ma anche lui fece un errore, cooptando Tiziana Parenti). Sui loro metodi si è discusso molto, e non li ho mai visti davvero disperati per il suicidio di un indagato. È valsa la pena di quel carcere e quei lutti, o era meglio tenersi la politica pagata dai Gardini, dai Romiti eccetera? Boh. Di sicuro, rispettando le regole non si sarebbe mai fatta Mani Pulite. Come è noto, la rivoluzione non è un pranzo di gala.
Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.
Da adnkronos.com il 17 febbraio 2022.
"Non parlo di politica. Non ho titoli per farlo. Anche se per anni mi è parso che vantare un’inscalfibile incompetenza risultasse una precondizione abilitante per essere candidabili a tutto...".
Ultimo segretario dei giovani socialisti, poi braccio destro di Bettino Craxi in tutti gli anni di Hammamet, quindi produttore televisivo di celebri trasmissioni fino all’ultima vita di comunicatore del mondo Tim (suoi gli spot dal ballerino in poi; oggi è uscito dal gruppo telefonico), Luca Josi, interpellato dall'Adnkronos sui trent'anni da Tangentopoli, spiega di essere stato interrotto in una riunione sul metaverso. Dopo trent’anni tre minuti ce li dedica? "Grazie no". Ancora timori? "Guardi, l’opportunismo mondano e tattico, di cui diventare craxiano nel ’92 rappresenta l’epifania, non è il mio obiettivo esistenziale".
Alla fine Josi una riflessione la fa: "Tangentopoli? Parliamo di una stagione che si alimenta dei fatti consumatasi tra l’89 e il ’92 (dall’amnistia che aveva cancellato tutti i precedenti reati di finanziamento verificatisi prima del crollo del muro di Berlino fino alla caduta della 'prima repubblica').
Una finestra di poco meno di tre anni che rappresenta la ragione del lavacro degli ultimi trenta in cui l’italiano ha affinato un suo carattere: ferocemente calvinista col prossimo; generosamente cattolico con se stesso".
"Dopo trent’anni la politica scivola ancora sul materialismo storico di uno scontrino, di una sovvenzione o di un’erogazione di una fondazione dimenticandosi che tutto costa, anche organizzare il proprio funerale, figuriamoci costruire e gestire un movimento politico - osserva - Il finanziamento illecito è drammaticamente sempre esistito.
Chi è senza peccato s’informi dal proprio cassiere..." Il finanziamento illecito, secondo Josi, "è stato definito lecito o illecito a seconda dell’epoca e nella stessa epoca a seconda dei partiti. A meno che non si desideri una plutocrazia, che non sarà la democrazia di Minni e Topolino, ma quella di un manipolo di paperoni che si autofinanzierà per governare un universo di paperini".
Pessimista? "Assolutamente no, forse consapevole dei rischi - sottolinea Josi - Come quello che si passi, senza soluzione di continuità, dai 'no vax' ai 'fiat lux”, per la bolletta elettrica. Per poter philosophari occorre prima vivere. E una volta detto grazie al vaccino ritroviamo il cretinismo emotivo incistato nelle politiche energetiche di chi è contro il nucleare, ma non si preoccupa di accendere il suo tostapane grazie all’energia atomica francese (nel clima del ’92 si sarebbe configurato il reato di 'ricettazione energetica' essendo il nucleare in Italia bandito dal referendum del 1987).
È una società buffa quella in cui molti parlano in modo illiberale grazie a una libertà che non hanno conquistato; vivono e godono di un benessere che non hanno prodotto; sentenziano su un passato che non conoscono. Insomma forti di quel senso del nuovo, dell’ideale, che comunque si incarni non permetterà a un cretino di essere altro che un cretino".
Josi dice all'Adnkronos di non essere pentito delle posizioni sostenute in quegli anni. "Ma no! Perché se sei così pessimista da non voler difendere la tua storia non puoi essere così ottimista da sperare che qualcuno lo faccia al posto tuo. Sono nato da socialisti, vissuto tra socialisti e morirò socialista. Scoprendo, forse, un giorno cosa questa parola - così maltrattata dalla storia - voglia dire nel suo fondo".
Ci voleva coraggio? "Non era coraggio, che a volte è solo la misura della codardia e del tradimento altrui. Ho trovato giusto parlare quando altri tacevano e poi tacere quando in tanti hanno ricominciato a parlare. In verità da noi vige una certa forma di coraggio tombale. Viene dopo e si crede abbia effetti retroattivi (condonando le pavidità del prima). Comunque, continuo a pensare che se non affronti i problemi, loro, presto o tardi, affronteranno te".
Quanto all’antipolitica, "non è che la politica di qualcun altro in cui il parlamentare non è più il percorso finale di una selezione ma quello casuale della sua designazione", sottolinea Josi, che poi, alla domanda se abbia in mente di tornare a fare politica, si schernisce: "Sì sì, certo. Tra trent’anni".
Antonio Di Pietro: «Craxi era solo uno dei tanti. Io puntavo ad Andreotti, mi hanno fermato». L'ex pm riscrive la storia di Mani Pulite: «L'inchiesta nasce a Palermo, con Falcone e Borsellino, ucciso per quel che poteva ancora scoprire». E poi: «Gardini doveva farmi il nome di Salvo Lima, avrei chiuso il cerchio e aperto il processo mafia-appalti». Sul segretario Psi: «Un politico normale, ha agito come gli altri. Non fatelo più grosso di quel che è». Susanna Turco su L'Espresso il 16 Febbraio 2022.
«Craxi? Ma Craxi era solo uno dei tanti». D’improvviso, allo scoccare della seconda ora e mezza di conversazione, con quel suo modo un po’ buffo e stratificato di parlare – sopra approssimativo, sotto preciso, fulmineo - Antonio di Pietro, 69 anni, ex pm, ex politico, oggi avvocato sostanzialmente lontano dalle scene, butta già l’ultimo feticcio che era rimasto in piedi di una pagina che ripercorre in un modo mai visto.
Di Pietro: "Non è cambiato nulla, prima di morire metto 'Mani Pulite' in rete". Affari Italiani.it Giovedì, 17 febbraio 2022
A 30 anni da Tangentopoli, Antonio di Pietro dice la sua verità sull'inchiesta Mani Pulite. Tantentopoli, Di Pietro: "Il nostro paese era malato di corruzione endemica, ma dopo 30 anni non è cambiato niente".
"Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica".
Così Antonio Di Pietro in un post su Facebook sui trent'anni di tangentopoli. "Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi - aggiunge. "Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.
Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima. Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato. Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi - come me - li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?".
Sorgi su Mani Pulite/ “Di Pietro disse a console Usa che sarebbe arrivato a Craxi e…” Silvana Palazzo su ilsussidiario.net il 17.02.2022
Marcello Sorgi a L’Aria che tira svela un retroscena su Mani Pulite: “Antonio Di Pietro disse al console Usa di Milano che sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani”. Ma l’ex magistrato…
Marcello Sorgi svela un retroscena sull’inchiesta di Mani Pulite che riguarda Antonio Di Pietro. Lo fa a L’Aria che tira, parlando di un incontro tra l’allora magistrato e il console statunitense a Milano. Quattro mesi prima di arrestare Mario Chiesa, andò a trovarlo: «Gli disse che avrebbero arrestato un personaggio di seconda fila ma poi sarebbe arrivato a Craxi, Andreotti e Forlani». Il giornalista spiega che ancora oggi non è chiaro il motivo per il quale rivelò un segreto istruttorio al console americano che poi parlò con l’ambasciatore a Roma.
«Non gli credette, gli disse che parlava ogni giorno con Craxi, Andreotti, Forlani e Cossiga che era presidente della Repubblica e diceva che erano tranquilli. Sta sui documenti della Cia che sono stati desecretati», aggiunge Sorgi nello studio di Myrta Merlino. Il console in questione era Peter Semler. «Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene», sono le parole di Semler raccolte nel 2012 da La Stampa.
Peter Semler al quotidiano piemontese raccontò anche che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite. «Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici. Ci vedevamo in luoghi diversi. Di Pietro mi piacque molto». Parole a cui Antonio Di Pietro rispose spiegando che il console era stato impreciso, come sulle rivelazioni riportate anche oggi da Marcello Sorgi.
«Nel novembre 1991 non potevo anticipargli il coinvolgimento dei vertici di Dc e Psi perché, in quel novembre, già indagavo su Mario Chiesa ma non avevo idea di dove saremmo andati a parare. Nel novembre 1991 non potevo anticipargli ciò che non sapevo», disse nel 2012 Antonio Di Pietro, il quale sostenne di non aver mai violato il segreto istruttorio. In merito agli incontri con Peter Semler spiegò: «Perché lo incontravo? Perché lo desiderava, faceva il suo lavoro. Voleva capire e infatti capì perfettamente, a differenza di altri suoi connazionali. E incontrò un sacco di altre persone».
Facebook. Antonio Di Pietro il 17 febbraio 2022
Ci volevano fermare.
Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani pulite è stata fermata, anche perché mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud.
Da allora a oggi, l'unica cosa che è cambiata è che adesso c'è desolazione da parte dell'opinione pubblica.
Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell'inchiesta è nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica più per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi.
Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica.
Non è un giorno di festa 30 anni dopo. Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima.
Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinché qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verità rispetto a quel che è stato raccontato.
Sono una vergogna per il Paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l'inchiesta Mani Pulite?
Il post di Antonio Di Pietro: "Mani Pulite? Tutto è nato dalle indagini di Giovanni Falcone..." Sandra Figliuolo, Giornalista, il 19 febbraio 2022 su palermotoday.it.
L'ex pm del pool milanese spiega l'origine del terremoto giudiziario di 30 anni fa: "Non ho scoperto nulla, furono le rivelazioni di Buscetta al giudice sul patto tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia a far partire il nostro lavoro". Per la famiglia Borsellino è proprio questo legame tra le due inchieste che andrebbe approfondito per trovare la verità su via D'Amelio
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"Mani pulite non l'ho scoperta io: nasce all'esito dell’inchiesta del Maxiprocesso di Palermo, quando Giovanni Falcone riceve, riservatamente, da Tommaso Buscetta la notizia che è stato fatto l'accordo tra il Gruppo Ferruzzi e la mafia. Là nasce. E Falcone dà l'incarico al Ros di fare quel che poi è divenuto il rapporto di 980 pagine: che doveva andare a Falcone, ma lui venne trasferito". A scriverlo è l'ex pm componente del pool milanese che coordinò le indagini su Tangentopoli, Antonio Di Pietro.
Ed è uno spunto interessante, quello che Di Pietro, perché è proprio su questo nesso tra "Mani Pulite" (che partì in questi giorni, 30 anni fa) e gli appronfondimenti svolti invece dai magistrati palermitani che la famiglia di Paolo Borsellino ha cercato di puntare i riflettori per tentare di arrivare ad una verità a 30 anni dall'eccidio di via D'Amelio e dopo enormi despistaggi.
Lo stesso Di Pietro, qualche mese fa, in un confronto televisivo in cui era presente una delle figlie di Borsellino, Fiammetta, aveva dato sostegno a questa pista, esattamente come aveva fatto deponendo nel primo grado del processo sulla così detta trattativa tra pezzi deviati dello Stato e Cosa nostra.
Secondo le motivazioni di quella sentenza, però, Borsellino sarebbe stato invece eliminato perché avrebbe appunto scoperto, a meno di due mesi dall'uccisione di Falcone, l'esistenza di questo presunto patto. Una sentenza che è stata in buona parte rivista in appello. Si attende nelle prossime settimane il deposito delle motivazioni, dopo una proroga richiesta dai giudici.
30 anni di Mani Pulite, Di Pietro rompe il silenzio: "Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete". Da ilgiornaledelmolise.it il 17 Febbraio 2022.
Per mesi è rimasto in silenzio. Niente dichiarazioni, niente interviste, nessuna apparizione in tv. Antonio Di Pietro negli ultimi tempi ha scelto di spegnere i riflettori su di lui. E alla vigilia del trentesimo anniversario dell’inchiesta Mani Pulite ha fatto rumore il silenzio del protagonista principale di quella pagina di storia italiana. L’ex pm trascorre gran parte del tempo in Molise, nella sua masseria di Montenero di Bisaccia. A quanto pare sta dedicando molte giornate per mettere posto il suo archivio di documenti. Forse anche questa la ragione del silenzio. Rotto ora attraverso i social, proprio nel giorno dell’anniversario dell’arresto che nel 1992 diede avvio all’inchiesta che sfocio’ in Tangentopoli: “Sono 30 anni passati ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima – ha scritto l’ex magistrato sul suo profilo Facebook ricordando quei giorni – Prima di andarmene vorrei mettere tutto in Rete affinche’ qualcuno un giorno possa leggere, per vedere quella diversa verita’ rispetto a quel che e’ stato raccontato”. “Ci volevano fermare. Si sono messi in azione appena hanno capito che stavamo per arrivare ai piani alti del potere. Mani Pulite e’ stata fermata, anche perche’ mentre stavamo indagando sui bauscia del Nord, siamo andati a toccare quelli che avevano contatti con la mafia al Sud. Da allora a oggi – ha proseguito Di Pietro – l’unica cosa che e’ cambiata e’ che adesso c’e’ desolazione da parte dell’opinione pubblica”. “Dalla fine della Prima Repubblica sarebbero dovute emergere nuove idee e persone che le portassero avanti. Invece da quell’inchiesta e’ nato un grande vuoto e sono comparsi personaggi rimasti sulla scena politica piu’ per se stessi che per altro. Penso a Berlusconi, a Bossi, a Salvini, a Renzi”, ha sottolineato l’ex magistrato. Di Pietro ha scritto il suo post pubblicandolo con una foto dell’epoca che lo ritrae insieme a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, gli altri due protagonisti di quell’inchiesta. Sotto l’immagine c’e’ un interrogativo: “Sono una vergogna per il paese i ladri, i corrotti, gli evasori fiscali, i mafiosi o chi li ha scoperti con l’inchiesta Mani Pulite?” Poi sempre nel post scrive ancora: “Noi abbiamo fatto quello che fa un qualsiasi medico radiologo quando vai a fare i raggi per vedere se hai una malattia; e abbiamo scoperto che il nostro Paese era malato di corruzione endemica”.
IL TESORIERE DELL’UNICO PARTITO SOPRAVVISSUTO A MANI PULITE. La tangente Enimont raccontata dal (quasi) fedelissimo tesoriere di Bossi. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 23 febbraio 2022
A trent’anni dall’innesco di Mani Pulite, l’ex tesoriere della Lega Lombarda Alessandro Patelli racconta come il suo movimento, antisistema e antipartito, sia finito invischiato nell’affare della maxitangente Enimont nel 1992.
Condannato, insieme al leader Umberto Bossi, per finanziamento illecito, fu rimosso dal capo nonostante lo avesse difeso anche in aula e assistette alla fine della Lega bossiana.
Si è laureato a quasi settant’anni con una tesi sul suo Carroccio, e la Lega di oggi non gli piace: Salvini, a suo dire, scimmiotta Bossi senza averne le qualità e rincorre la Meloni dimenticando il vero progetto leghista: il regionalismo.
FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.
30 anni di Mani Pulite. Il Compagno G. ha scelto di parlare: intervista esclusiva a Primo Greganti. Quando Tangentopoli colpì il Pci-Pds: "Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”, racconta l'ex cassiere. Giorgio Santelli su Rainews.it 17 febbraio 2022
Il Compagno G., Primo Greganti, ex cassiere di Pci e Pds, tra i pochi a rifiutare ogni collaborazione con i magistrati ai tempi di Tangentopoli, ricorda per Rainews.it e Rainews24 gli anni di quell’inchiesta che cambio la faccia all’Italia a trent’anni dall’arresto di Mario Chiesa.
Il primo marzo 1993, su richiesta del pm Antonio Di Pietro, il Giudice per le indagini preliminari Italo Ghitti emise un ordine di custodia cautelare nei confronti di Greganti. Era accusato di corruzione per aver ricevuto in Svizzera 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per alcuni appalti dell'Enel, tra il 1990 e il 1992. Ripercorrendo quel giorno, racconta di aver deciso di presentarsi a Milano con il suo avvocato difensore, dopo essersi riconosciuto nelle dichiarazioni dell’amministratore della Calcestruzzi di Ravenna, Lorenzo Panzavolta, rese in un interrogatorio riportato dai giornali: “Chiamai Di Pietro, fissai l’incontro ma quando arrivai in Procura vidi che con il magistrato c’erano anche dei poliziotti con gli stivali sporchi di fango, il fango di casa mia. Io avevo chiesto di vedere Di Pietro e lui mi mandò a casa i poliziotti per arrestarmi”. Quel denaro, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti.
Primo Greganti ricostruisce quegli anni, il suo arresto, il rapporto con il magistrato Antonio Di Pietro, gli arresti preventivi a San Vittore, l’incontro in carcere con Gabriele Cagliari. Difende l’inchiesta del pool di Mani Pulite e non perdona ad Achille Occhetto la richiesta di scuse agli italiani per conto del Pds: “Noi non eravamo come gli altri partiti. Non ci sono mai state mazzette per il partito”.
Negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che quei soldi erano il pagamento di consulenze personali fatte alla Ferruzzi. Alla fine dell’inchiesta Greganti venne condannato a tre anni e sette mesi per finanziamento illecito al suo partito, pena successivamente patteggiata e ridotta a tre anni e infine confermata dalla Corte di Cassazione nel marzo 2002, pur decurtata dei sei mesi che Greganti aveva già scontato in regime di carcerazione cautelare preventiva a San Vittore durante le indagini.
“Quell’inchiesta fece male alla mia famiglia - dice ancora Greganti - Di Pietro mi disse: 'Quando tornerai a casa i tuoi figli ti sputeranno in faccia'. In carcere io non mi abbattei. Ero convinto di stare nel giusto, forse per questo non fui preso dallo sconforto”.
Secondo il Compagno G., in conclusione, “si cancellò la prima Repubblica per dare in mano il Paese ai poteri finanziari, senza una nuova classe politica. I risultati di quell’inchiesta li viviamo quotidianamente”.
Feltri, Mani Pulite “graziò” solo i comunisti: “Chiesi il motivo a di Pietro e lui…” Gabriele Alberti venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Fa bene Vittorio Feltri a ribadirlo anche a trent’ anni dall’inizio di Mani pulite. Il pool che indagò sui partiti poi spazzati via dal ciclone delle inchieste salvò solo l’ allora partito comunista poi Pds. E a tal proposito il direttore editoriale di Libero fornisce anche una rivelazione interessante per mettere a posto le tessere di un mosaico composito. Già, si tratta di una circostanza che i più trascurano, “un particolare su cui tutt’ ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza”. E invece trattasi di un particolare rilevantissimo.
Feltri: Mani Pulite salvò i comunisti. “Di Pietro mi disse…”
Scrive Feltri: “Antonio (Di Pietro, ndr), cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n’era uno che non avesse profittato della mangiatoia; compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l’insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica?”. La risposta di Di Pietro alla domanda cruda fu attendista “Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai“.
Feltri: “Il Pds si accomodò al governo”
Sappiamo come sono andate le cose. Mentre il pentapartito fu spazzato via, “il Pds si accomodò al governo”. La conclusione a cui è giunto Feltri è la seguente: gli ex comunisti furono risparmiati dalla ventata di Tangentopoli “per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti”. Un solo esempio, ricorda Feltri: ” Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure”. Ebbene, si arrivò a una bizzarra conclusione delle indagini: “nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono”. Sprizza indignazione il direttore di Libero: “Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo”.
“Un particolare su cui tutt’ora si sorvola”
Feltri già si è scusato qualche giorno fa per avere all’epoca cavalcato l’onda di Tangentopoli, che lui ha definito una “strage degli innocenti”, per i risvolti giustizialisti e la furia manettara che palesò . La sua lettura trova conferma nelle rivelazioni di qualche giorno fa di Cirino Pomicino. Ossia la volontà di voltare la pagina politica verso sinistra a determinata con l’appoggio dei grandi gruppi industriali. L’ex ministro Dc ha rivelato come dietro la rivoluzione giudiziaria che azzerò la politica italiana ci fosse uno schema ben preciso. L’establischment industriale disegnò un vero e proprio disegno politico: virare a sinistra, cambiando lo schema precedente. Fu De Benedetti, mesi prima che scoppiasse mani Pulite a farglielo capire in un colloquio riservato. Ora si capiscono tante cose. Fa bene Feltri a rammentare che l’esclusione dei comunisti dalle indagini di Tangentopoli non può essere derubricato a particolare insignificante.
"Perché la magistratura ha graziato i comunisti": Mani Pulite, Vittorio Feltri e una sporca verità sui compagni. Vittorio Feltri su Mani Pulite: "Perché la magistratura ha graziato i comunisti". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022.
Oggi è il 17 febbraio e Vittorio Feltri, direttore di Libero, dedica il suo video editoriale al 30esimo anniversario dell'inizio di Mani Pulite. "Fu un episodio piuttosto importante per la vita del nostro Paese", dice Feltri facendo notare che "si dice che quella inchiesta abbia fatto piazza pulita di tutti i politici corrotti. Ma non è del tutto vero". E spiega: "Il finanziamento ai partiti era illegale per cui erano quasi costretti a rubacchiare qua e là. C'è da chiedersi come mai il pentapartito che all'epoca governava non avesse cercato di legalizzare il finanziamento ai partiti". Ma soprattutto, fa notare il direttore, "di tutta la vicenda di Mani Pulite ho potuto constatare che tutti i partiti furono spazzati via, la Democrazia Cristiana, il partito socialista, i socialdemocratici, i repubblicani e persino i liberali. Solo uno riuscì a sopravvivere: il vecchio partito comunista che nel frattempo aveva cambiato nome, ma solo il nome". "Come mai si è salvato", chiede provocatoriamente Feltri. "Il sospetto può essere uno: la magistratura ha favorito un partito che, secondo Antonio Di Pietro che lo disse a me personalmente, era coinvolto come tutti gli altri nella spartizione del denaro sgraffignato". "Dicono i magistrati che furono trovate delle prove", continua Feltri, "ma in realtà le prove non le hanno mai cercate, mentre per gli altri partiti le hanno cercate e le hanno trovate per poi fare quel massacro che tutti sappiamo". Conclude Feltri: "Noi vogliamo solo sapere come mai la magistratura era tanto affezionata e voleva tanto bene al partito comunista".
Mani Pulite, l'affondo di Vittorio Feltri: "L'unico tabù del pool furono i comunisti. E chissà perché..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022
A trenta anni dall'inizio di Mani pulite, la famosa o famigerata inchiesta che ha frantumato la Prima Repubblica, c'è ancora qualcosa che non è stato detto ad alta voce. E non riguarda una mia idea bislacca, ma una realtà evidente, come dire che il mare è salato. Il pentapartito, che all'inizio degli anni Novanta era la maggioranza di Governo, fu completamente massacrato da Di Pietro e soci togati. Il povero e rimpianto Citaristi, segretario amministrativo della Dc, fu messo in croce: gli rifilarono un numero spropositato di avvisi di garanzia, relativi al reato di finanziamento illegittimo, tale da costituire un record mondiale. A lui, che era ricco di suo, e non aveva certo bisogno di incassare tangenti. Ma allora questi erano considerati dettagli ininfluenti. Egli pur essendo persona specchiata fu trattato quale delinquente incallito. Poi la faccenda si chiarì, ma intanto il mio concittadino bergamasco per lungo tempo rimediò una figuraccia, per quanto immeritata. Di Craxi, la Malfa ed altri personaggi schiaffeggiati dalla magistratura sappiamo tutto, incluse le persecuzioni di cui furono vittime.
C'è solo un particolare su cui tutt' ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza. Antonio, cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n'era uno che non avesse profittato della mangiatoia, compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l'insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica? Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai. Infatti chi ha buona memoria rammenterà che mentre il pentapartito fu sgominato e finì in galera, il Pds si accomodò al governo.
Io, persona semplice, pensai e penso tuttora che i compagni furono risparmiati, pur avendo incassato denaro sporco, per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti. Un solo esempio. Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure. Una prova inequivocabile che anche i rossi amavano i soldi in nero. Alla conclusione delle indagini, nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono. Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo.
"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.
“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.
Che ricordo ha di quegli anni?
“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.
Non sono stati, quindi, tempi semplici?
“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.
Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?
“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.
Chi è stato più penalizzato?
“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.
Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?
“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.
Quali sono state le conseguenze?
“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.
Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…
“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.
Da Tangentopoli a mafiopoli: la lunga egemonia dei pm. Cicchitto, Gargani, il pg Marino e Sansonetti ricordano gli anni di Tangentopoli: fu un blitz contro i partiti ordito dai poteri forti con giornali e toghe. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 febbraio 2022.
«Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne, dalla Fiat alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il partito diverso dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione». Partiamo dalle conclusioni di Fabrizio Cicchitto per darvi conto del convegno “A Trenta anni da Tangentopoli e da Mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, organizzato dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà, e moderato dal nostro direttore Davide Varì.
Secondo Cicchitto «molto prima di Forza Italia, e ovviamente in termini del tutto rovesciati, il primo partito- azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto, compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo ed Ernesto Rossi fecero denunce assai precise: rimasero del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e, con il trattato di Maastricht, il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale, quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quello della Dc e del Psi».
Ad aprire i lavori della conferenza Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: «Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’ opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari: chiediamo, come ho fatto per tanti anni, un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno, la politica, la giustizia, i magistrati, l’informazione, per riconoscere le degenerazioni derivanti dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo».
Allora vi fu «un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente. Il pubblico ministero aveva solo funzioni di giudice etico, di far vincere il bene sul male, che riscatta la società, punisce in maniera emblematica il male ed esaurisce nell’indagine la fase giurisdizionale che ha bisogno del processo».
A Gargani è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: «Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era, diciamo, il clima dell’epoca».
Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, si è soffermato sul ruolo della stampa: «Allora i giornali lavorarono in maniera unificata: Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Vi posso raccontare il giorno in cui arrivò il decreto Conso che depenalizzava il finanziamento dei partiti. Io ero all’Unità. Arrivò un editoriale di Cesare Salvi, molto favorevole al decreto. Poi la sera ci fu come al solito la consultazione fra i direttori verso le sette e si decise di buttare a mare il decreto. Fu cambiato l’ editoriale dell’Unità, fu fatto un editoriale contro il decreto. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono contro il decreto e a mezzogiorno Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto. Esso non cadde per l’opposizione politica, cadde per l’opposizione dei giornali. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tutto il dibattito e gli interventi degli altri numerosi ospiti si possono riascoltare su Radio Radicale.
Mani Pulite, Sallusti: “C’era un patto. I giornalisti concordavano le prime pagine. Ma su Greganti”…Redazione venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Sallusti conferma: è vero. C’era un patto fra direttori negli anni di Mani pulite: concordavano le prime pagine. E aggiunge addirittura che in quel periodo si crearono persino due pool di testate e giornalisti: uno di serie A e uno da girone minore. E, soprattutto, guardando a ritroso rilancia: «è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti. E in quel momento che i cronisti– ricostruisce il direttore di Libero – divennero gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali»…Quella in corso in quegli anni di rivolgimenti e dramma, fu una vera caccia all’ultimo scoop. Una guerra spietata tra le testate – dai direttori in giù – per carpire l’ultimo dato e aggiornare il bollettino delle vittime. Poi divenne impossibile tenere quel ritmo e continuare su quel crinale: e si dichiarò una tregua. Descrive così Alessandro Sallusti all’Adnkronos, l’atmosfera e il modus operandi di quegli anni: quasi come un’ossessione, l’estenuante ricerca di nomi e notizie dell’ultimo minuto. Un incubo in cui si erano infilati i giornalisti nelle anni di Mani Pulite, pronti a «scannarsi per un nome in più o uno in meno». Fino a ritrovarsi in un incubo insostenibile…
Mani Pulite, Sallusti conferma: il patto fra direttori? C’era eccome
«Sì, si era creato un pool di direttori, che avevano, ovviamente, i loro capiredattori. I loro terminali interni. E si coordinavano per i titoli e le prime pagine». Così Alessandro Sallusti, conferma all’Adnkronos l’esistenza del cosiddetto “patto fra direttori” negli anni di Mani Pulite. «Però attenzione allo scambio di carte», racconta direttore di Libero, che in quegli anni era caporedattore centrale del Corriere della Sera: «Ci sono state due fasi. All’inizio c’era la guerra, nel senso che si faceva a gara per avere l’esclusiva. Ogni giorno era un bollettino, ogni giorno c’era l’elenco degli indagati, degli arrestati, e così via. Inizialmente fra i giornali, che allora si vendevano, c’era una concorrenza spietata. Questa gara portò sostanzialmente a uno sfinimento quasi fisico dei partecipanti. Era diventato un incubo. Un’ossessione. Non si mollava mai la presa. Ricordo che è ad un certo punto il segretario di redazione del Corriere mi disse “Alessandro, hai battuto il record di permanenza consecutiva al giornale: 136 giorni senza mai staccare un giorno”. Ma non ero l’unico, ovviamente»…
«Si crearono due pool tra le testate giornalistiche: uno da Champions League e uno minore»…
Poi, prosegue Sallusti, «a un certo punto, almeno secondo la percezione con cui io l’ho vissuto, si è detto basta. La vita era diventata impossibile. E anche la professione. Tutte le notti svegli fino alle due a correre nelle edicole notturne, era diventato un incubo. E allora si dichiarò tregua. Invece di stare a scannarci per un nome in più o uno in meno, ci si metteva d’accordo scambiamoci le informazioni. E sostanzialmente – rammenta Sallusti – si crearono due pool. Uno da Champions League, diremmo oggi, formato da Corriere della Sera, Repubblica e Stampa, che al suo interno era mediato dall’Unità che triangolava tra Corriere e Repubblica, che anche per una questione di stile non si parlavano direttamente. E poi c’era un altro pool, diciamo minore, formato, se non ricordo male, da Messaggero, Avvenire e Giorno. Questi due pool erano in concorrenza fra loro, ma all’interno di ogni poll c’era un patto. Ovviamente il patto fra Corriere, Repubblica e Stampa aveva una valenza giornalistica e anche politica».
Sallusti: «Così i giornalisti diventarono gli addetti stampa delle Procure»…
E allora, continua la sua ricostruzione Sallusti: «Verso le cinque o le sei del pomeriggio, quindi prima di iniziare a pensare alla prima pagina, c’era questo scambio di telefonate per chiedere quello che si sarebbe fatto il giorno dopo. Che cosa si pensava e così via. Poi si arrivava anche a informarsi reciprocamente del titolo in maniera letterale. Ma non era tanto una questione di titolo letterale, ma di dire “oggi si va addosso a Tizio, domani a Caio”. E questo era un lavoro che avveniva quotidianamente: non c’è il minimo dubbio. Nessuno può smentirlo”. “E comunque sì, si può dire anche che il ruolo del giornalista fu quello di fare il passacarte della procura – sottolinea Sallusti -, si sperimentava non solo un nuovo modo di fare le inchieste giudiziarie, ma anche un nuovo modo di fare il giornalismo. Fino a quel momento tirare fuori una carta delle procure era impensabile. Ed è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti, ma non nacque perché ci fu una riunione per deciderlo, nacque. Ed è ovvio che tra il furore cieco dell’opinione pubblica, tra i giornali che ogni giorno vendevano 10mila copie in più, fra l’ebrezza di partecipare a un’impresa, si è diventati, non per scelta, gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali».
«Ma quando mi venne cassato il titolo su Primo Greganti, cassiere del Pds, indagato…»
E ancora: «Quando tu per giorni fai titoli “indagato Craxi”, “indagato Forlani”, e così via. Poi a un certo punto, per sbaglio, le procure mettono gli occhi su Primo Greganti, cassiere del Pds, e io faccio il titolo “indagato il cassiere del Pds”, e mi viene cassato perché non si poteva fare: allora lì cominci a chiederti “ma com’è questa storia?“. E quindi poi maturano certe considerazioni e certe scelte»… E a tal proposito, Sallusti con l’Adnkronos conclude la sua disamina soffermandosi su quanto scritto oggi dal direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Secondo il quale «quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo». «Diciamo che i giornalisti alle procure da quel periodo in poi hanno leccato il culo a lungo – chiosa Sallusti –. E qualcuno lo fa ancora adesso in maniera totalmente acritica e omertosa. Quindi sì: Travaglio ha ragione. Talmente ragione che siamo ancora in una stagione di giornalisti leccaculo. Solo che adesso lecchiamo il culo alle procure. Ora non so se il culo delle procure è più profumato del culo di qualcun altro, ma sempre culo è…».
"Il pool non toccò i Ds perché aveva bisogno di un sostegno politico". Francesco Boezi il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.
L'ex pm di Mani pulite: "Io avrei dovuto essere il trait d'union, ma non ho accettato".
L'avvocato Tiziana Parenti, l'ex pm e parlamentare soprannominata «Titti la Rossa», ricorda il sostegno dei Ds a Mani Pulite, «l'imprevisto» Berlusconi ed i motivi per cui decise di lasciare.
Come mai soltanto alcune forze politiche vennero defenestrate?
«L'interrogativo su cui ancora oggi ci si interroga per cui tutti i partiti di governo furono travolti da Mani Pulite e in primis il PSI e la DC, quest'ultima seppure con i dovuti distinguo, mentre rimase fuori dalla tempesta il PCI -PDS, ad eccezione di alcune posizioni per responsabilità personale, si può risolvere solo se pensiamo alle contingenze politico-economiche e alla fine del comunismo che ormai rendeva accettabile, anche oltre Oceano, come referente l'ex Pci, ormai PDS».
Lei avrebbe voluto indagare sui Ds ma qualcuno la fermò?
«È pacifico, solo se si rileggono i giornali dell'epoca che, il PDS, dopo un momento iniziale di esitazione, appoggiò in toto, sul piano politico, Mani Pulite. Al tempo stesso Mani Pulite aveva bisogno, secondo le stesse parole di D'Ambrosio, di avere una forza politica, che fosse stata forza di governo, che li appoggiasse a prescindere da se, come e quanto anche questo partito avesse partecipato al finanziamento illecito o tangentizio, che di sicuro, almeno per una buona parte degli anno ottanta, si era svolto in modo diverso dagli altri partiti».
In che senso ne «aveva bisogno»?
«Perché, a prescindere dalle simpatie politiche di alcuni e non certo di tutti i componenti del pool, un'operazione del genere ed una loro conquista diretta del potere non sarebbe stata possibile senza l'appoggio di un grande partito popolare che comunque sarebbe restato sotto scacco proprio perché salvato».
E lei?
«Avrei dovuto essere lo strumento dell'operazione e questo non l'avevo capito in perfetta buona fede all'inizio. Ho ritenuto che il mio compito fosse quello di un normale Pm che svolge le sue indagini. Ma non era questo che mi si richiedeva. Quando ho avuto chiara la situazione, non ho lasciato equivoci circa il fatto che o mi veniva ritirato l'incarico o non potevo fare altro che andare avanti secondo i miei doveri, a prescindere e magari anche contro le mie idee».
C'è chi pensa che l'obiettivo del pool non fosse la rivoluzione.
«Che cosa perseguisse il pool non lo so e neppure so su quali basi potesse ritenere di conseguire il risultato di andare al potere. Ho l'impressione che non si sia mai detta la verità da parte di tanti soggetti e non solo del pool».
Poi arrivò la discesa in campo di Silvio Berlusconi...
«Di certo Berlusconi è stato l'imprevisto che nessuno aveva calcolato ma che nelle pianificazioni della strategia politica sempre dovrebbe essere calcolato. Il fatto è che quella strada era stata fin troppo liscia, solo se si pensa che in due anni scarsi è stata distrutta una classe politica, che pur con tutti i torti e peccati ha reso questo Paese ricco, libero e sicuro. L'unico che ha avuto il coraggio di impersonare questo imprevisto è stato Berlusconi».
Craxi, Berlusconi e oggi Renzi. Siamo alle solite?
«Con Berlusconi e la lunga sequenza dei processi a suo carico, poi finiti nel nulla con una sola eccezione che peraltro nulla aveva a che fare con la sua attività politica, inizia una nuova epoca che in qualche misura resiste come nel caso di Renzi. Ma questi scontri non sono più contro un intero sistema come all'epoca, ma sono contro la singola persona».
Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la
La “confessione” del compagno Ranieri ignorata da giornali e politica. Lo storico dirigente del Pds riconosce la deriva giustizialista ai tempi di Tangentopoli. Ma nessuno (o quasi) se n'è accorto...di Francesco Damato su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.
Umberto Ranieri, storico dirigente napoletano del Pd, cinque volte deputato, una volta senatore, tre volte sottosegretario agli Esteri, un migliorista a 24 carati di quello che fu il Pci, ha scritto per Il Mattino una lunga, onestissima e sotto molti aspetti inedita “riflessione” su Mani pulite da lui vissute non certo come un passante.
Riconosciuto ad Enrico Berlinguer il merito di avere sollevato per primo la cosiddetta questione morale denunciando l’esorbitante spazio occupato dai partiti in una situazione bloccata dalla mancanza di alternative agli equilibri politici formatisi a livello sovranazionale dopo la seconda guerra mondiale, Ranieri ha contestato all’allora popolarissimo segretario del Pci di non avere praticamente fatto nulla per andare oltre alla denuncia e rimediarvi. All’alternativa da costruire con gli scomodi cugini o compagni socialisti, specie quando Bettino Craxi ne assunse la guida, pur non citati né gli uni né l’altro stavolta da Ranieri, il segretario comunista in effetti preferì il compromesso storico con la Dc. Che pure era la prima beneficiaria del blocco politico in cui l’economia “ampiamente statalistica” la faceva da padrona. E alla cui ombra, tra appalti e simili, si sviluppava la pratica del finanziamento “irregolare” che “in una certa misura riguardava anche il Pci”, per cui “sarebbe una manifestazione di ipocrisia negarlo”, ha scritto Ranieri.
Quando esplose il bubbone con Tangentopoli, Mani pulite e varianti «il Pci/ Pds fornì un acritico sostegno all’azione giudiziaria persuaso che l’attività repressiva potesse favorire quel rinnovamento che non si era capaci di produrre per via politica. Un appoggio – ha insistito Ranieri- che non venne meno neppure di fronte all’emergere di riserve sulla legittimità o correttezza delle modalità operative della procura di Milano», specie con l’abuso delle manette.
«Fu Gerardo Chiaromonte – ha raccontato Ranieri- a denunciare senza incertezze ed esitazioni lo sconfinamento della giurisdizione penale e la messa in mora dei principi di garantismo. Fu un drammatico errore che Gerardo denunciò assecondare gli umori giustizialisti e non prevedere che “gli effetti di un terremoto giudiziario sulla evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi».
Infatti «all’orizzonte comparve il cavaliere Berlusconi» vincendo le elezioni del 1994 non solo o non tanto per le capacità manipolatrici e di fuoco mediatico attribuitegli dagli avversari quanto perché «in realtà, una parte considerevole degli elettori non ritenne giusto che a essere spazzata via dalle inchieste fosse solo l’area dei partiti di governo, che non corrispondesse alla realtà quella sorta di “univocità di colpa”».
A proposito del tentativo fallito dal governo Amato, col famoso decreto legge del ministro della Giustizia Giovanni Conso, per una uscita cosiddetta politica da Tangentopoli, e non solo giudiziaria o manettara, Ranieri ha scrupolosamente testimoniato, da deputato qual era a quei tempi, che la Commissione degli affari costituzionali della Camera se n’era già occupata convenendo con un complesso di «sanzioni amministrative e pecuniarie per l’illecito finanziamento dei partiti, e clausole che comportavano insieme alla confessione l’uscita dei responsabili del reato dalla vita politica». «Altro che colpo di spugna», ha scritto Ranieri aggiungendo che «furono il pool di Mani Pulite e l’Associazione nazionale dei magistrati a impedire che si adottasse il provvedimento» varato da governo «minacciando fuochi e fiamme e intimorendo il presidente Scalfaro, che rifiutò di firmare il decreto».
Di fronte ad “una politica rimasta debole”, che “ha continuato a subire negli anni successivi un forte condizionamento da parte del potere giudiziario”, per cui “non si è riusciti a ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale”, i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale “forse aiuteranno il Parlamento a misure di modernizzazione del sistema giudiziari”, ha scritto Ranieri esortando a “impegnarsi perché accada”.
Ebbene, sapete dove Il Mattino ha pubblicato domenica questa pò pò di riflessione, testimonianza e quant’altro? A pagina 43, senza un rigo – dico un rigo – di richiamo in prima pagina. Dove invece si è preferito il richiamo che meritava, per carità, ma non meno dell’articolo di Ranieri, il drammatico ricordo del suicidio del padre e parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni da parte della figlia Chiara: un dramma che senza la “riflessione” di Ranieri non si potrebbe certo valutare appieno.
Ma ieri, lunedì, non so per caso o per una qualche graduatoria politica, ho trovato sulla prima pagina dello stesso Mattino il giornale al cui allora direttore Giovanni Ansaldo chiesi e ottenni da studente universitario di scrivere, vedendomi commissionare un bel pò di recensioni di libri politici- il richiamo in prima pagina di un’intervista di Luciano Violante in cui si dà “ragione a Craxi”. Ma allora cosa avrà mai fatto Ranieri al Mattino, mi chiedo cogliendo l’occasione per attribuire anche a noi giornalisti la responsabilità della crisi della politica.
Gustavo Bialetti per “La Verità” il 22 febbraio 2022.
Il gruppo Gedi della famiglia Elkann ha pensato bene di ricordare i 30 anni di Mani pulite con un agile libercolo in vendita in edicola. Sono quasi 380 pagine. Il titolo è L'Italia di Mani Pulite.
A trent' anni dall'inchiesta che segnò la fine dei partiti figli del dopoguerra, svelò la corruzione di un sistema e cambiò il volto del Paese. Ci sono articoli dell'Espresso, di Repubblica e della Stampa.
Ritroviamo così gli autori dell'epoca, di ieri e di oggi. Eppure a un certo punto, a pagina 360, compare un articolo non firmato preso da Repubblica del 28 maggio 1995.
Il titolo è inequivocabile. Il giorno della Mondadori. Tocca al manager Urbano Cairo. Nel catenaccio si legge: «Il dirigente, 37 anni appena, è coinvolto, attraverso una piccola società controllata dalla sua famiglia nel giro di fatture false che ruota intorno a Publitalia». La storia dell'attuale azionista di maggioranza del Corriere della sera sotto Tangentopoli è nota sebbene non sia così importante. Fu uno dei pochi a chiedere il patteggiamento.
«Ancora uno degli uomini più vicini a Silvio Berlusconi viene interrogato dai sostituti procuratori dell'inchiesta di Mani pulite ed è sotto inchiesta per false fatturazioni.
Si tratta di Urbano Cairo, attuale amministratore delegato della Mondadori pubblicità, giovane ed emergente manager del gruppo del Biscione, che, senza dire una parola, ma rilassato e sorridente, esce alle 14 dalla stanza dell'interrogatorio, cominciato tre ore prima dai pm Gherardo Colombo e Francesco Greco».
Va detto, per amor di cronaca, che nel tomo si ricordano anche le inchieste sulla Fiat e Cesare Romiti. In quel caso non si indagò proprio.
I trent'anni di Mani Pulite. "De Benedetti sapeva già tutto pochi mesi prima". Stefano Zurlo il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria.
Non un golpe, per carità, ma piuttosto un disegno politico. Paolo Cirino Pomicino torna, trent'anni dopo, alle sorgenti di Mani pulite e svela quel che accadde dietro le quinte della Rivoluzione giudiziaria. «Nella primavera del 1991 - è il racconto al Giornale del politico democristiano, allora ministro del Bilancio nel governo Andreotti - venne a trovarmi Carlo De Benedetti con cui avevo un rapporto di amicizia, anche se la pensavamo in modo diverso. In pratica mi spiegò che con altri imprenditori legati al «salotto buono» di Enrico Cuccia voleva modificare gli assetti politici del Paese e spostarli verso i post-comunisti che al congresso di Rimini, in febbraio, avevano fondato il Pds e si erano convertiti a posizioni riformiste».
Insomma, l'establishment italiano aveva annusato l'aria e aveva intuito, o sapeva, che il vento stava cambiando e si stava preparando una nuova stagione. Non era ancora Mani pulite, ma certo con la caduta del Muro gli equilibri nati nel 1945 erano saltati e l'epoca del bipartitismo imperfetto, la Dc al potere e il Pci all'opposizione, era arrivata ai titoli di coda.
Servivano schemi diversi e combinazioni inedite e il gotha dell'industria tricolore aveva fatto le sue scelte, sposando la sinistra.
È esattamente quel che Cirino Pomicino ha narrato a Simone Spetia per il podcast di Radio 24 Monetine, confezionato per l'anniversario di Mani pulite. «Parlare di golpe sarebbe una fregnaccia», mette le mani avanti il neurologo da sempre nel Palazzo - piuttosto direi che De Benedetti voleva cavalcare quei rivolgimenti e dunque mi lanciò l'idea: Fai il mio ministro. Fai tu il nostro industriale replicai capovolgendo la frittata e chiamando in causa anche Andreotti. Insomma, la questione finì sul ridere, ma De Benedetti capì che non condividevo quel progetto».
Cirino Pomicino aveva già accennato a questa vicenda nei suoi scritti, ma ora si sofferma su quelle settimane cruciali che portarono al tramonto della Prima Repubblica: «Io condussi le mie verifiche e scoprii che la trama c'era ed era molto articolata. Dunque, preoccupato e inquieto, informai i capi della Dc ma ho sempre avuto il privilegio di non essere creduto e la cosa finì lì».
Insomma, la Dc e il governo scivolarono verso il baratro senza prendere alcuna contromisura, impreparati all'appuntamento con la storia e a quello ancora più drammatico con la cronaca giudiziaria.
«A dicembre '90 la corrente andreottiana si era riunita e in quel convegno c'erano state presenze importanti, a cominciare dallo stesso De Benedetti, dal Presidente di Confindustria Sergio Pininfarina e da imprenditori del calibro di Giorgio Falck. Sembrava che tutto filasse per il meglio, ma era solo un abbaglio. A settembre '91, al Forum Ambrosetti di Cernobbio, mi accorsi che il clima era completamente cambiato. I cosiddetti poteri forti ci avevano abbandonato, i grandi giornali, dal Corriere alla Repubblica, iniziarono a criticarci pesantemente, e mi avvidi che la Dc e il pentapartito avevano perso la sintonia con le classi dirigenti del Paese».
Un altro campanello d'allarme, pochi mesi prima dell'avvio della grande inchiesta condotta da Antonio Di Pietro. Il 17 febbraio 1992 finisce in manette Mario Chiesa, il potente presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio e il vecchio sistema di potere comincia a sfaldarsi. Molti leader assistono sbigottiti e increduli all'escalation delle manette e immaginano complotti e macchinazioni, magari orchestrate da potenze straniere; intanto la procura guidata da Francesco Saverio Borelli falcia i big socialisti e democristiani che cadono come birilli uno dopo l'altro. «A giugno '92, con Amato a Palazzo Chigi - prosegue l'ex deputato napoletano, autore di numerosi libri - Gerardo Chiaromonte, uno dei pezzi da novanta della nomenklatura rossa, mi fece sapere riservatamente che il Pds aveva scelto la via giudiziaria per andare al potere. E so che la stessa comunicazione arrivò al leader liberale Renato Altissimo. Cosa questo significasse in concreto non me lo chiarì, ma certe anomalie sono evidenti anche oggi, a distanza di tanto tempo e, in parte, restano inspiegabili: il Pds e la sinistra democristiana, insomma i soggetti che poi formarono l'Ulivo, schivarono miracolosamente la tempesta. Solo non avevano calcolato tale Silvio Berlusconi. Ma quella è un'altra storia». Stefano Zurlo
Pomicino su Mani Pulite: "Non fu golpe giudiziario ma disegno politico. De Benedetti ebbe un ruolo". Rec News dir. Zaira Bartucca il 15 febbraio 2022.
Le dichiarazioni del politico sul filone di inchieste che scompaginò gli assetti e travolse i partiti.
A trent’anni da Mani Pulite, Paolo Cirino Pomicino: “Non fu golpe giudiziario ma disegno politico”. “Definirlo solo un golpe giudiziario è una fregnaccia”. “Sapevo già tutto dal 1991, Carlo De Benedetti mi parlò del suo disegno politico”. “Avvertii i miei riferimenti nazionali ma non fui mai ascoltato”. Così Paolo Cirino Pomicino a “Monetine – cinque storie di Mani Pulite”, il podcast di Simone Spezia su Radio 24 che racconta dal suo punto di vista Mani Pulite e quello che accadde nel 1992.
Alla domanda “Ma nel 1992 aveva capito che stava per succedere qualcosa di enorme?” Pomicino risponde: “Mi avevano avvertito da un anno prima di quello che sarebbe successo perché nel 1991, in primavera, venne da me Carlo De Benedetti per dirmi che stava preparando un disegno politico, insieme ad altri imprenditori, per modificare l’assetto politico del paese. Io dissi, ironicamente, che mi stava spiazzando, dicendogli che con Andreotti stavamo pensando a un progetto industriale e gli volevo chiedere, sempre ironicamente, se volesse essere il nostro imprenditore. La portai sullo scherzo sottolineando il primato della politica, ma nella verità De Benedetti si convinse che non ero d’accordo con il suo disegno. Avvertii i miei riferimenti nazionali di questa cosa ma non fui mai ascoltato. Non lo definisco golpe giudiziario ma disegno politico. Definirlo solo golpe giudiziario è una fregnaccia”.
30 anni di Mani Pulite, dall’arresto di Chiesa alla scoperta del sistema. il racconto di Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo al Fatto. Il Fatto quotidiano il 17 febbraio 2022.
Sono passati 30 anni quando Antonio Di Pietro ha arrestato Mario Chiesa. Era il 17 febbraio 1992: allora iniziò l’inchiesta giudiziaria che ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana: Mani pulite. Mario Chiesa finisce in carcere per aver intascato una mazzetta, dopo pochi giorni inizia a collaborare e l’inchiesta ha una svolta. Chiesa, socialista vicinissimo a Craxi, scaricato dal partito, chiama in causa alcuni imprenditori e tutti gli imprenditori improvvisamente collaborano.
“In realtà c’erano delle altre cose, la prima è che Chiesa all’inizio non parla – spiega Piercamillo Davigo -. Decide di parlare per due fattori. Secondo me. Il primo fattore riguarda la sua causa di separazione. Di Pietro era venuto a conoscenza dell’esistenza in Svizzera di due conti intestati al nome di acque minerali. E aveva fatto una rogatoria credo ottenendo il sequestro delle somme. Aveva detto all’avvocato di Chiesa: dica al suo cliente che l’acqua minerale è finita. L’avvocato disse che non capiva, Di Pietro rispose capirà lui. E la seconda cosa fu che Craxi, il segretario del Partito Socialista cui apparteneva la Chiesa, disse che lui si trovava nei guai per colpa di un isolato mariuolo e che in 50 anni nessun amministratore del suo partito nella città di Milano era mai stato condannato con sentenza definitiva per reati contro la pubblica amministrazione”.
E questo, secondo il racconto dell’ex magistrato, è un passo falso da parte di Craxi: “Chiesa l’ha presa come l’essere scaricato e isolato. Pochissimo tempo dopo, il 3 luglio, Craxi alla Camera pronuncia un famoso discorso in cui dice che fin da quando sono ragazzino che so che si fanno queste cose ecc. il sistema di finanziamento della politica è in larga misura irregolare o illegale eccetera eccetera”.
Ma perché gli imprenditori iniziano a parlare proprio nel 92? Perché non prima? “Fino a quel momento – spiega Davigo – gli imprenditori erano riusciti tranquillamente a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, attraverso la revisione e le varianti in corso d’opera o le revisioni dei prezzi, i costi che c’erano. Nel 92, anzi forse già nel 91, c’era stata una stretta di bilancio imposta dal governo. Ovviamente la stretta di bilancio serviva a impedire la traslazione dei costi delle tangenti sulla Pubblica Amministrazione, quindi improvvisamente questi costi andavano a incidere non più sul costo delle opere ma sul profitto degli imprenditori i quali hanno cominciato a sentirsi concussi. La concussione quando uno è costretto o indotto a pagare in una situazione di inferiorità rispetto al pubblico ufficiale”.
A Piercamillo Davigo fa eco un altro ex magistrato, componente del pool di Mani Pulite, Gherardo Colombo: “Adesso la vulgata, il senso collettivo di questa roba qua è che Mani pulite è stata una specie di invenzione, che la corruzione non c’era, e che abbiamo messo in prigione le persone per fare un colpo di Stato e addirittura se chiediamo che sia accertato che quel che si dice in proposito non è vero da parte delle autorità giudiziarie ormai il diritto di critica copre praticamente tutto…”. Poi, conclude raccontando il sistema: “Sulla sanità lombarda abbiamo trovato proprio lo schema di distribuzione degli appalti con le percentuali per ciascuna impresa, riferite a ciascun ospedale. Io credo che alla fine noi siamo arrivati a 700 rogatorie internazionali rivolte a una trentina di paesi, sopratutto alla Svizzera, tutte indirizzate a ottenere conti correnti bancari o documentazione societaria. Ogni volta che ci arrivava una risposta erano decine e decine di corruzioni in più che noi scoprivamo… e invece adesso c’è questa credenza popolare secondo cui ci siamo inventati tutto…”
La verità su Tangentopoli: ecco i verbali che hanno cambiato la storia d’Italia. Le confessioni di Chiesa, il primo arrestato. Le rivelazioni di Larini, il tesoriere del Psi di Craxi e Martelli. La maxicorruzione Enimont. Le tangenti rosse di Primo Greganti. Le ammissioni di Romiti, De Benedetti, Scaroni. I fondi segreti di Pacini Battaglia. Le buste di denaro da Pomicino a Salvo Lima. I soldi della Montedison alla Lega. Le mazzette Fininvest mentre Berlusconi è al governo. Tutta l’inchiesta Mani Pulite raccontata dai protagonisti: 15 big della politica e dell’economia che spiegano ai magistrati «il sistema». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 Febbraio 2022.
Trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, un arresto a Milano ha fatto partire un'inchiesta giudiziaria, chiamata Mani Pulite, che ha cambiato la storia del nostro Paese. In meno di tre anni quell'indagine ha fatto emergere migliaia di casi di corruzione, svelando un sistema organizzato, gerarchico, diffuso da decenni a tutti i livelli, di saccheggio delle risorse pubbliche. Tra gli oltre 1200 condannati per tangenti e fondi neri ci sono i più importanti imprenditori dell'epoca e tutti i leader e tesorieri dei partiti che hanno governato l’Italia per quasi mezzo secolo, tutti liquidati con le elezioni del 1994 e la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica. Da allora la corruzione è cambiata, ma non è certo finita. E non si mai fermate le polemiche, contrapposizioni e riletture di quel periodo di svolta storica, in un'Italia che sembra ancora spaccata in due, pro o contro Mani Pulite.
Per dare ai lettori la possibilità di capire direttamente, senza filtri o mediazioni, cosa è stata Tangentopoli (un fortunato neologismo coniato da un cronista giudiziario di Repubblica, Piero Colaprico) abbiamo deciso di pubblicare i verbali integrali dei protagonisti: il sistema della corruzione raccontato dai big della politica e dell'economia che ne hanno fatto parte o l'hanno dovuto subire. Sono gli interrogatori e i memoriali che hanno svelato la storia segreta del potere in Italia. Le confessioni del primo arrestato, Mario Chiesa, presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, che mettono in moto la valanga giudiziaria. Le ammissioni di Gianstefano Frigerio, il tesoriere della Dc lombarda, poi diventato parlamentare di Forza Italia, dopo tre condanne, e riarrestato nel 2014 per le tangenti dell'Expo. Le rivelazioni di Silvano Larini, il tesoriere del Psi che portava le buste di contanti a Bettino Craxi e ha prestato il suo conto svizzero per incassare i soldi della P2: 7 milioni di dollari versati dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, con la regia di Licio Gelli e dell'ex ministro Claudio Martelli.
E ancora, le tangenti rosse di Primo Greganti, il «compagno G», l'ex funzionario comunista che incassava all'estero i bonifici della Calcestruzzi, la società di costruzioni del gruppo Ferruzzi, confessate dal manager Lorenzo Panzavolta. L'interrogatorio cruciale di Pierfrancesco Pacini Battaglia, il banchiere segreto dell'Eni, che ammette di aver mandato dalla Svizzera in Italia almeno 50 miliardi di lire (25 milioni di euro), consegnati in contanti ai tesorieri del Psi e in parte minore della Dc.
All'aprile 1993, l'anno delle indagini sulle grandi aziende pubbliche e private, risale il memoriale di Cesare Romiti, con l'ammissione che anche i manager di sei società del gruppo Fiat «non hanno potuto resistere» e hanno dovuto accettare «un sistema altamente inquinato» di finanziamenti illeciti ai partiti di governo. In maggio arriva la confessione di Carlo De Benedetti che diverse società del gruppo Olivetti, osteggiate da «un regime politico prevaricatore», hanno dovuto versare, «a partire dal 1987», circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri. E poi ci sono le ammissioni di moltissimi altri capitani d’azienda, come il super manager Paolo Scaroni, oggi presidente del Milan, che negli anni di Tangentopoli guidava la Techint e raccoglieva anche da altre imprese i soldi che lui stesso poi consegnava ai tesorieri socialisti, per ottenere appalti per le centrali a carbone dell'Enel, di cui poi è diventato il numero uno.
Al processo simbolo di Mani Pulite si arriva con gli interrogatori per la maxitangente Enimont, con tutti i nomi dei politici che si sono spartiti oltre 150 miliardi di lire: segreti rivelati dal cervello finanziario del gruppo Ferruzzi-Montedison, Giuseppe Garofano, dopo i suicidi Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni, e di Raul Gardini, che aveva guidato per anni il colosso chimico privato. Tra i politici, spicca il verbale di Paolo Cirino Pomicino, ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, che nel novembre 1993 confessa di aver intascato più di cinque miliardi di lire in titoli di Stato, consegnatigli «in tre buste» da Luigi Bisignani, che li aveva riciclati allo Ior, la banca del Vaticano. Davanti al pm Antonio Di Pietro, l'allora parlamentare spiega di aver usato quei soldi per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente andreottiana, precisando di aver girato un miliardo e mezzo a Salvo Lima, il politico siciliano colluso con la mafia (secondo numerose sentenze) che fu ucciso dai killer di Cosa Nostra dopo la conferma in Cassazione delle condanne del primo maxiprocesso.
Tra le sorprese politiche, c'è il verbale del tesoriere della Lega, Alessandro Patelli, che nel dicembre 1993 viene arrestato e confessa di aver incassato una tangente di 200 milioni di lire, già ammessa dai manager della Montedison. Umberto Bossi, fondatore e segretario del partito, nega di aver saputo, ma il 20 dicembre consegna alla procura un assegno con il rimborso integrale del finanziamento illecito.
Il capitolo finale di Mani Pulite è l'indagine sulla corruzione per evadere le tasse, che coinvolge anche la Fininvest di Silvio Berlusconi, capo del governo in carica. Nel luglio 1994 il manager Salvatore Sciascia ammette che tre società del gruppo hanno versato tangenti a diversi militari della Guardia di Finanza, che lo hanno già confessato. Sciascia dichiara che a dare l'autorizzazione e a fornire i fondi neri era Paolo Berlusconi, mentre il fratello Silvio non ne sapeva nulla. Condannato in primo grado, il leader di Forza Italia ottiene la prescrizione in appello e una trionfale assoluzione in Cassazione, che conferma solo le condanne dei manager, compreso Sciascia, poi diventato parlamentare.
Il sipario su Mani Pulite si chiude il 6 dicembre 1994, quando il pm Antonio Di Pietro, simbolo e motore delle indagini, lascia la procura all'improvviso, dopo la requisitoria del processo Enimont, proprio alla vigilia dell'interrogatorio di Berlusconi. Che una settimana dopo, interrogato nell’ufficio del procuratore Borrelli, polemizza con i magistrati: «E voi per una cosa del genere indagate il capo del governo? Ma vi rendete conto del danno all’Italia?». Lasciata la magistratura, nel 1995 Di Pietro viene indagato e poi assolto a Brescia.
Attenzione: tutti i documenti che pubblichiamo negli altri articoli di questo sito sono verbali d'interrogatorio, non sentenze di condanna. Hanno valore di prova solo nelle parti in cui l'indagato confessa i propri reati. Tutte le altre persone chiamate in causa per ipotetiche accuse, invece, vanno considerate innocenti, fino a prova contraria, perché nei successivi processi potrebbero aver dimostrato la propria estraneità o essere stati prosciolte per prescrizione, amnistia o altre ragioni. Gli interessati possono inviare commenti, repliche o precisazioni a L'Espresso (all'indirizzo p.biondani [chiocciola] espressoedit.it), che le pubblicherà integralmente su questo stesso sito, all'interno dell'articolo in questione. Abbiamo deciso di pubblicare integralmente questi quindici verbali di Mani Pulite perché sono documenti di interesse pubblico e di importanza storica, che riguardano problemi ancora attuali: contengono le ricostruzioni del sistema della corruzione fornite direttamente dai protagonisti, da personaggi che hanno segnato la vita politica ed economica del nostro Paese e che durante le indagini, assistiti dai loro avvocati di fiducia, si sono assunti la responsabilità di deporre davanti alla magistratura, ripetendo più volte di voler dire tutta la verità.
Milano, 17 febbraio 1992: il presidente del Pio Albergo Trivulzio viene ammanettato mentre intasca una mazzetta. A fine marzo, ammette vent’anni di corruzioni. Ecco l’atto d’inizio di Tangentopoli
L'inchiesta Mani Pulite inizia trent'anni fa, il 17 febbraio 1992, con un arresto in flagranza. Quel pomeriggio a Milano i carabinieri ammanettano un dirigente pubblico di nomina politica, il socialista Mario Chiesa, nel suo ufficio di presidente dello storico ospizio Pio Albergo Trivulzio. L’ingegner Chiesa ha appena intascato sette milioni di lire in contanti, pari a 3500 euro.
Le rivelazioni di Larini: le buste di soldi per Bettino Craxi, i 7 milioni della P2 gestiti da Martelli. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.
L’architetto socialista ammette di aver prestato il suo «Conto Protezione» per incassare in Svizzera le tangenti pagate dal banchiere Calvi con la regia di Licio Gelli. Ecco l’accusa che nel febbraio 1993 fa dimettere l’allora ministro della giustizia. Silvano Larini, architetto e faccendiere socialista, è stato per anni uno degli amici più fidati di Bettino Craxi. Nel febbraio 1993, indagato e ricercato come collettore delle tangenti del metrò di Milano, si costituisce dopo una latitanza all'estero e confessa ai magistrati di Milano quindici anni di tangenti.
In questo storico verbale di Mani Pulite, Larini spiega di aver avuto da Craxi in persona (e dal suo padrino politico, il defunto parlamentare milanese Antonio Natali) l’incarico di «incassare per il Psi il denaro versato dalle imprese per gli appalti della metropolitana (...)
Quando gli Stati Uniti scaricarono Bettino Craxi. L'incontro tra il presidente Bush e Falcone a Roma. E il colloquio segreto tra Cuccia e il leader Psi. Così, tra il 1989 e il 1990, si preparò la fine della Prima Repubblica. Fabio Martini su L'Espresso l'8 gennaio 2020.
Bettino Craxi Anticipiamo in queste pagine uno stralcio del nuovo libro di Fabio Martini “Controvento. La vera storia di Bettino Craxi”, Rubbettino editore, in uscita il 9 gennaio, in occasione del ventesimo anniversario della morte del leader socialista, avvenuta il 19 gennaio 2000 nella sua casa di Hammamet, in Tunisia.
Quel saggio su Proudhon con cui Bettino Craxi segnò la storia della sinistra in Italia. Nell’agosto del 1978 il segretario del Psi pubblicava sull'Espresso il "vangelo" del suo socialismo. Uno spartiacque per ?la sinistra di ieri. Un modello ?per gli aspiranti leader di oggi? Marco Damilano su L'Espresso il 30 agosto 2018.
Bettino Craxi Il Vangelo socialista, lo titolò il direttore dell’Espresso Livio Zanetti, con malizia, perché dopo tanto girovagare il popolo socialista aveva finalmente trovato il suo messia: una buona novella, soprattutto per lui, l’autore del testo, il segretario del Psi Bettino Craxi.
«Un baedeker ideologico e un argomento di discussione», si leggeva nel sommario, «il segnale d’avvio di un’offensiva destinata a tenere alta la temperatura tra il Pci e il Psi per molte settimane», precisava nell’introduzione Paolo Mieli, giornalista del settimanale di via Po, come ci chiamavano all’epoca sugli altri giornali, ma alla fine il saggio firmato da Craxi si rivelò molto di più.
Hammamet, un grande Pierfrancesco Favino per un piccolo film. Superba la prova dell’attore che interpreta Bettino Craxi. Ma il resto lascia a desiderare. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 14 gennaio 2022.
Il vecchio carroarmato è arenato nella sabbia africana dai tempi dell’ultima guerra. Imponente ma inoffensivo, trasmette una hybris luciferina e insieme una solitudine definitiva, minerale. Insomma è la perfetta metafora di quell’uomo malato e costretto all’autoesilio, un esilio che molti chiamano fuga. Così, davanti a quel residuato bellico il Presidente (nel film Craxi resta innominato) decide di parlare.
Il tesoriere della Lega confessa la tangente Montedison. E Umberto Bossi risarcisce la Procura. Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.
Nel 1993 il Carroccio vince le elezioni a Milano attaccando «Roma ladrona», ma in dicembre finisce in carcere Alessandro Patelli, che ammette di aver ricevuto 200 milioni di lire dal gruppo chimico. Il senatur nega di aver saputo, ma viene condannato in tutti i gradi del processo Enimont insieme ai big dei vecchi partiti
Dopo i primi boom di voti alle regionali del 1990 (oltre il 18 per cento in Lombardia) e alle elezioni politiche del 1992 (8,7 a livello nazionale) la Lega Nord nel giugno 1993 conquista il Comune di Milano. Il partito fondato da Umberto Bossi cavalca le indagini di Mani Pulite con una dura campagna contro la corruzione e i vecchi partiti di «Roma ladrona» che tartassano il Nord produttivo.
L’ex ministro dell’ultimo governo Andreotti, dopo le confessioni dei dirigenti ammette di aver ricevuto tre buste di fondi neri riciclati in Vaticano. E spiega di averli usati per pagare le campagne elettorali dei candidati della sua corrente, dalla Campania alla Sicilia, Puglia, Toscana e Veneto
Paolo Cirino Pomicino, parlamentare democristiano dal 1976 al 1994 e ministro del Bilancio nell'ultimo governo Andreotti, ha superato da tempo la bufera di Tangentopoli: è stato parlamentare europeo fino al 2006 e tuttora viene intervistato da giornali e televisioni come un grande saggio della politica italiana. Pochi ricordano che a Milano ha dovuto patteggiare una storica condanna per lo scandalo Enimont: della maxitangente pagata dalla Montedison, ha incassato più soldi lui di tutta la Dc.
Carlo De Benedetti: «L’Olivetti costretta a piegarsi ai ricatti dei politici, mi assumo la responsabilità». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.
L’industriale ed editore consegna al pm Di Pietro, nel maggio 1993, una memoria con l’ammissione che il suo gruppo ha dovuto versare circa 20 miliardi di lire dal 1987 “al regime prevaricatore dei partiti”. «I ministri perseguitavano l’azienda».
Tra l'autunno 1992 e la primavera 1993 anche il gruppo Olivetti entra nelle indagini di Tangentopoli, prima per le forniture di alcune società controllate alle aziende pubbliche dei trasporti, poi per gli appalti del ministero delle Poste. Domenica 16 maggio 1993 Carlo De Benedetti consegna personalmente ai pm Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Paolo Ielo, nella caserma di via Moscova dei carabinieri di Milano, un memoriale di undici pagine, con l’ammissione che diverse società del suo gruppo hanno versato, «a partire dal 1987», finanziamenti illeciti per circa 20 miliardi di lire ai collettori e tesorieri della Dc, Psi, Psdi e Pri.
Silvio mi disse: sono più forte di Craxi. L'Espresso il 19 gennaio 2012.
"Nel '90 Berlusconi aveva cominciato a maturare l'idea che il sistema fosse alla fine. Ricordo una colazione con lui a casa mia. "Sai", mi disse, "se volessi farei il culo a Craxi domani mattina, perché io ho molto più potere di lui, con il Milan, le mie tv, lo faccio fuori in cinque minuti"".
Il manager Sciascia ammette le tangenti Fininvest alla Finanza. Silvio Berlusconi si difende: «Non sapevo». Paolo Biondani su L'Espresso il 15 febbraio 2022.
Mentre il Cavaliere è premier, i militari arrestati confessano quattro mazzette del gruppo televisivo. Il governo vara un decreto salva-corrotti. Poi Di Pietro si dimette e il leader di Forza Italia scarica la colpa sul fratello: la Cassazione assolve entrambi. Dopo aver svelato nel 1992 il sistema della corruzione sugli appalti e nel 1993 le tangenti e i fondi neri delle grandi aziende, nel 1994 i magistrati di Mani Pulite scoprono che anche le autorità pubbliche di controllo sono vendute. L'inchiesta Enimont coinvolge tra gli altri il vicepresidente del tribunale civile di Milano, Diego Curtò, che confessa di essersi fatto corrompere da un avvocato dell’Eni, e due ex presidenti della Consob.
Il corpo di Silvio Berlusconi, mummia senza eternità. Marco Belpoliti su L'Espresso il 17 gennaio 2022.
Il Cavaliere ha fondato il proprio dominio politico e mediatico sul suo aspetto, facendone espressione dell’ideologia materialista ed edonista. E per esistere ancora, tenta la scalata finale al Colle.
Nella straordinaria mostra dei Marmi dei Torlonia esposta al Campidoglio c’è anche il busto di Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano, colui con cui finisce nel 476 d.C. l’Impero che aveva dominato per secoli il Mediterraneo e il mondo intero. La sua scultura è più piccola di quella degli altri imperatori che la precedono, e non poteva che essere così poiché Romolo fu nominato a capo dell’Impero adolescente.
Un sogno chiamato Silvio Berlusconi. Filippo Ceccarelli su L'Espresso il 10 gennaio 2022.
Il corpo esibito. I gesti plateali. Le scenografie grandiose. Le platee adoranti. Il fondatore di Forza Italia amava presentare se stesso tra estasi e visione. Ma la smania di apparire gli ha preso la mano e ha finito per tradirlo: da Casoria in poi.
Non sono foto, sono visioni. Al dunque pare una differenza impercettibile, ma a vederle tutte insieme, anche quelle scartate per questioni tecniche, anche quelle sacrificate al tempo, allo spazio e alla cura dei particolari troppo sottili, o troppo marginali, ecco, a vederle una dopo l'altra comunque ci si sente storditi, perduti.
Perché non sono foto, tutte queste, ma apparizioni.
L’INIZIO. LA STORIA. Mani Pulite e Tangentopoli: cosa sono state e perché non hanno cambiato niente. anni '90 archivio storico Mani pulite (comunemente nota anche come tangentopoli) è il nome giornalistico dato ad una serie d'inchieste giudiziarie, condotte in Italia nella prima metà degli anni novanta da parte di varie procure giudiziarie, che rivelarono un sistema fraudolento ovvero corrotto che coinvolgeva in maniera collusa la politica e l'imprenditoria italiana. nella foto: Tangentopoli. Busta n° 6241. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 16 febbraio 2022
Prima dello scoppio della più grande inchiesta di corruzione della storia recente, l’Italia era un paese in crisi e con una classe politica distante e disprezzata: trent’anni e migliaia di arresti dopo, la situazione non sembra essere cambiata.
Sono passati esattamente 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite e Tangentopoli, lo scandalo giudiziario che ha segnato un’epoca, tra gli eventi più importanti tra quelli che hanno contribuito a creare l’Italia di oggi.
Tangentopoli fu l’insieme di inchieste della magistratura che tra 1992 e 1994 scoperchiò un vasto sistema organizzato di corruzione utilizzata da tutti i partiti per finanziare le loro attività e, in molti casi, per arricchire singoli politici e dirigenti.
Mani Pulite è il nome della prima è più vasta di queste inchieste, quella condotta dal gruppo di magistrati di Milano di cui facevano parte nomi entrati nella storia italiana: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombro, Ilda Boccassinni, il procuratore Francesco Saverio Borrelli. Altre inchieste furono condotte in tutte il paese, coinvolgendo centinaia di politici e imprenditori. Tra il 1992 e il 1996, ci furono una media di duemila persone indagate per corruzione, concussione o altri reati cosiddetti “contro i doveri d’ufficio” ogni anno. Cifre mai raggiunte in precedenza e mai più raggiunte negli anni successivi.
Tangentopoli portò al crollo degli storici partiti che avevano guidato la Prima repubblica, ma non generò una moralizzazione della vita italiana. I problemi alla radice della corruzione e della generale percepita immoralità della vita pubblica non sono cambiati.
La scomparsa dei grandi partiti ha messo fine al finanziamento illecito organizzato, ma il nostro paese rimane uno dei più corrotti dell’Europa occidentale secondo tutti i principali indicatori, anche se in forme e modi diversi rispetto al passato.
L’eredità stessa di Tangentopoli e dell’azione dei magistrati è divenuta controversa. I metodi di indagine che in certi casi hanno superato il confine delle garanzie per gli indagati, lo stretto rapporto creato dai magistrati con la stampa, sono diventati l’elemento centrale in un processo di “revisionismo” ancora in atto.
MANI PULITE
L’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo di Tagentopoli iniziano il 17 febbraio del 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, politico socialista di seconda fila e presidente della più grande struttura di cura e ricovero degli anziani di Milano, il Pio Albergo Trivulzio.
Chiesa viene arrestato da Antonio Di Pietro, quello che sarebbe divenuto il più carismatico e popolare dei magistrati del “pool” di Mani Pulite, mentre riceveva una tangente da un imprenditore. Durante l’arresto, Chiesa si liberò di un’altra tangente che teneva nel cassetto gettandola nello scarico del water (il racconto sullo scarico bloccato e la fuoriuscita di liquami, per quanto suggestivo, è probabilmente apocrifo e Chiesa nega di aver gettato qualsiasi cosa nel gabinetto).
Da quel momento gli arresti si susseguirono uno dopo l’altro. Come in un gigantesco domino, ogni indagato conduce ad altri indagati. Gli imprenditori denunciano i colleghi che hanno pagato insieme a loro tangenti per ottenere appalti pubblici. I politici di seconda fila coinvolti si affrettano a denunciare i superiori non appena questi accennano a scaricarli.
In breve diviene chiaro che i magistrati non avevano di fronte numerosi casi di corruzione slegati l’uno dall’altro, ma un sistema strutturato e preciso, in cui per vincere appalti o realizzare opere pubbliche era necessario pagare tangenti, attentamente calcolate sull’importo totale dei lavori.
Queste tangenti venivano poi redistribuite a tutti i partiti. A Milano, il 50 per cento di quanto raccolto spettava al Partito socialista italiano (il Psi), fortissimo in città, il 20 per cento alla Dc, il 20 per cento al Pds (partito erede del Pci) e il resto ai partiti minori.
Inizialmente, i leader nazionali e locali parlano di poche mele marce. Bettino Craxi, il potente e carismatico leader del Psi, dice che il suo partito era vittima del cattivo comportamento di «pochi mariuoli». Ma le inchieste stavano rapidamente assumendo una dimensione che era impossibile trascurare.
Erano ormai decenni che la corruzione della classe politica veniva data per scontata, così come veniva dato per scontato che i politici non pagassero mai. Le indagini stavano dando la stura a un sentimento diffuso.
Alle elezioni politiche dell’aprile 1992, a meno di due mesi dall’inizio dell’inchiesta, i partiti tradizionali subirono un tracollo di fronte all’ascesa della Rete, movimento del sindaco di Palermo Leoluca Orlando, e la Lega Nord di Umberto Bossi, che a Milano divenne il primo partito.
LE POLEMICHE
I magistrati di Mani Pulite vengono accolti come eroi da un’opinione pubblica non solo stanca di corruzione e soprusi, ma che all’inizio degli anni Novanta, per la prima volta da molto tempo, sente venire a mancare la spinta verso la crescita che c’era stata fino a quel momento. L’Italia è entrata in quel lungo trentennio di stagnazione che dura ancora oggi. Molti italiani hanno la sensazione che non solo la classe politica è corrotta, ma che ha anche smesso di fare il suo lavoro.
Di Pietro diventa uno dei personaggi più popolari del paese. Si organizzazione manifestazioni e fiaccolate di solidarietà con il pool. A Milano, sui muri compaiono graffiti con scritto “Grazie Di Pietro”. I media si accodano. Le procure sono presidiate dagli inviati della cronaca giudiziaria, dai fotografi e dalle telecamere. L’arrivo di un nuovo arrestato, la notizia di un nuovo inquisito vengono accolto da torme di giornalisti che fanno a gara per seguire l’inchiesta.
Anche se gran parte dell’opinione pubblica e dei media è dalla parte dei magistrati, non mancano le voci critiche. Craxi è il più deciso e fermo oppositore del pool, mentre la Dc appare più timorosa. «Non è tutto oro quel che luccica. Presto scopriremo che Di Pietro è tutt'altro che l'eroe di cui si sente parlare. Ci sono molti, troppi aspetti poco chiari su Mani Pulite», scrive Craxi ad Agosto sul suo giornale di partito, l’Avanti.
Per Craxi e un gruppo di opinionisti e intellettuali, ristretto, ma capace di far sentire la sua voce, le azioni del pool sono frutto di un disegno politico. Un modo di eliminare per via giudiziaria avversari politici, al quale collaborano insieme forze di estrema destra e sinistra, forse persino col beneplacito degli Stati Uniti, a cui non piacerebbe l’atteggiamento troppo indipendente di Craxi.
Le critiche colpiscono anche i metodi dei magistrati. Le inchieste procedono veloci e di allargano a macchia d’olio perché gli indagati confessano a decine. E quasi tutti i protagonisti ammetteranno di aver confessato perché terrorizzati dal carcere. I magistrati fanno ampio uso della carcerazione preventiva. Centinaia di persone, spesso anziani, quasi tutti ricchi e potenti e abituati a comandare, si ritrovano arrestati, a volte di sorpresa e in piena notte, condotti fuori di casa o in tribunale circondati da fotografi e giornalisti, sottoposti alla rituale umiliazione della camminata in manette in mezzo a due ali di folla. Poi finiscono sbattuti nelle stanze anguste delle carceri, con compagni di cella che a loro sembrano alieni. Lo shock è enorme e quasi tutti parlano.
Alcuni, invece, non reggono alla prospettiva di passare attraverso tutto questo. Il 17 giugno si uccide Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Era stato interrogato da Di Pietro il giorno prima. Il 2 settembre si uccide il deputato socialista Sergio Moroni, molto vicino al leader socialista. «Hanno creato un clima infame», commenterà Craxi all’uscita dalla camera ardente.
IL FINALE
Tra la fine del 1992 e l’inizio del 1993, le inchieste continuano ad allargarsi e altre procure in tutta Italia seguono le orme del pool di Mani Pulite. I magistrati iniziano a puntare ai leader di partito. Il sistema capillare di corruzione e finanziamento dei partiti, sostengono, non può essersi svolto all’insaputa di segretari e presidenti.
E tra loro, il bersaglio numero uno è lui: Craxi. Il politico più influente del paese, la figura carismatica che ha preso il mantello della difesa della classe. Il giornalista Vittorio Feltri, all’epoca direttore dell’Indipendente ed entusiasta sostenitore del pool (posizione che ha poi rinnegato), soprannomina Craxi “il chiangolone”: l’animale più pregiato della partita di caccia.
Foto LaPresse Torino/Archivio storico Storico 1992 Bettino Craxi Benedetto Craxi, detto Bettino (Milano, 24 febbraio 1934 – Hammamet, 19 gennaio 2000), è stato un politico italiano, Presidente del Consiglio dei ministri dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987 e Segretario del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1993. nella foto: Bettino Craxi Photo
I magistrati iniziano ad aprire indagini sui più importanti personaggi politici italiana. I telegiornali sembrano i bollettini della pandemia, dove al posto di nuovi casi e decessi vengono letti i numeri di avvisi di garanzia spediti quel giorno. L’edizione del Tg3 del 15 marzo inizia con questa lettura: «Dieci avvisi di garanzia ad altrettanti parlamentari tra cui esponenti politici di primo piano. Renato Altissimo, segretario del Pli al primo avviso di garanzia, Bettino Craxi all'ottava informazione di garanzia, Severino Citaristi, segretario amministrativo della Dc, alla 17esima, Antonio Cariglia, Partito socialdemocratico, al primo avviso di garanzia. Terzo avviso per Antonio del Pennino, ex capogruppo del Pri alla Camera».
Dopo un anno di indagini, oltre cento parlamentari e quasi tutti i principali leader di partito coinvolti nello scandalo, in molto iniziano a temere per la stabilità delle istituzioni democratiche. Dove si fermeranno i magistrati e come si può governare legittimamente il paese in queste condizioni?
Il governo, guidato dal socialista Giuliano Amato, tenta una soluzione e approva il decreto Conso, dal nome del ministro della Giustizia Giovanni Conso. L’idea è semplice: depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti e inasprire le pene per gli arricchimenti personali, così da mettere un chiaro confine tra condotte personali e quello che invece era frutto del modo di funzionare del sistema.
Il decreto però viene bloccato. Gran parte dei giornali attacca quello che viene accusato di essere un “colpo di spugna”, ci sono manifestazioni in piazza sostenute dai partiti di opposizione: dagli ex comunisti del Pds ai neofascisti del Movimento sociale italiano. Il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, per la prima volta si rifiuta di firmare il decreto che finisce così archiviato.
Tangentopoli è arrivata all’acme e anche per Craxi è arrivato il momento di cedere. Nel suo interrogatorio di fronte a Di Pietro e nei suoi ultimi discorsi al parlamento, si difende con energia, accusando i magistrati per i loro metodi e quelli che ritiene essere i loro disegni politici e giustificando le tangenti con i costi necessari della democrazia.
Ma i magistrati arrivati a questo punto hanno abbastanza indizi di arricchimenti personali anche sul suo conto. Si parla di conti segreti in Svizzera, di finanziamenti alle attività dell’amante e a quelle del fratello. Dopo le elezioni del 1994 in cui non è riletto per la prima volta in Parlamento in oltre 25 anni, Craxi si trova senza immunità parlamentare. Il 12 maggio viene disposto il sequestro del suo passaporto, ma è troppo tardi. Pochi giorni prima, l’ex leader socialista ha lasciato l’Italia e si è trasferito ad Hammamet, in Tunisia, dove trascorrerà i suoi ultimi anni fino al decesso, avvenuto il 19 gennaio del 2000.
Le inchieste proseguiranno ancora per anni e il numero di indagini per corruzione inizierà a calare significativamente solo a partire dal 1996 per poi non raggiungere mai più il livello toccato nel periodo precedente. Ma è il 1994 l’anno in cui simbolicamente termina Tangentopoli. E non solo per via della fuga di Craxi.
È anche l’anno in cui, alle prime elezioni senza Dc e Pci dal 1945, trionfano Silvio Berlusconi e Forza Italia, che della guerra alla magistratura farà un punto centrale del suo messaggio politico. I movimenti che invece avevano sostenuto i magistrati vengono sconfitti, come il Pds, scompaiono, come la Rete, oppure si riconvertono ad altre istanze, come la Lega.
Prima di Tangentopoli, l’Italia era un paese stagnante e in crisi, con una classe politica distante dagli elettori e disprezzata per la sua corruzione. Sono passati trent’anni e il quadro non sembra essere poi così cambiato.
DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.
Storia di Luca Magni, l’uomo che ha fatto arrestare Mario Chiesa. FEDERICO FERRERO su Il Domani il 15 febbraio 2022
Nel 1992 Luca Magni era il titolare della Ilpi, una ditta specializzata in uso di macchinari necessari a disinfettare grandi superfici. Da due anni aveva accettato di sottostare al ricatto di Mario Chiesa che per farlo lavorare gli chiedeva tangenti
Venerdì 14 febbraio Magni decide di denunciare ai carabinieri questo sistema. La denuncia finisce nella mani del magistrato Antonio Di Pietro. Il 17 Magni consegna a Chiesa sette milioni di lire e lo fa arrestare in flagrante
FEDERICO FERRERO. Giornalista, 1976. Commento il tennis su Eurosport dal 2005. Ho collaborato con l'Unità e l'Espresso. Scrivo di tennis un po' dappertutto; di vite altrui sul Corriere di Torino, di storie criminali per Sette. Un saggio su Mani Pulite per ADD nel 2012, la vita di Palpacelli per Rizzoli nel 2019.
Immunità parlamentare, da Renzi a Giovanardi vietato indagare sugli eletti. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 18 febbraio 2022
Nei giorni in cui la politica dibatte sulla storia di Mani Pulite, la giunta per le immunità del Senato si è resa protagonista una raffica di no a procure e tribunali, che vanno ad aggiungersi a quelli della Camera e di Palazzo Madama dall’inizio della legislatura.
Martedì 22 febbraio l’Aula dovrà esprimersi su Matteo Renzi (Iv), accusato di finanziamento illecito ai partiti. La giunta a dicembre aveva appoggiato il senatore e respinto la richiesta di arresto per Cesaro (Fi).
Mercoledì scorso, dopo che l’Aula ha salvato Giovanardi, la giunta ha deciso su Siri accusato di corruzione: le intercettazioni per i parlamentari non risultano necessarie né casuali, e così è stata negata l’autorizzazione al loro utilizzo.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Corruzione e sangue: le storie parallele di Milano e Palermo nel 1992. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 17 febbraio 2022
Il direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia, Giovanni Falcone, il giorno dell’omicidio di Salvo Lima dice: «Da questo momento, in Italia, può succedere di tutto».
Se a Milano le confessioni dell’ingegnere Mario Chiesa decapitano i partiti politici, l’esecuzione di Palermo sbarra per sempre la corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio e ventuno volte ministro della Repubblica.
Il “patto del tavolino”, la mafia che si fa classe dirigente e impone la sua legge alle grandi imprese del nord che sbarcano nell’isola per realizzare dighe e aeroporti. I grandi lavori e l’intesa fra i boss e i capitani d’industria.
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
Il glossario di Tangentopoli per capire il 1992 e l’inchiesta Mani Pulite. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 17 febbraio 2022
Il “cinghialone”, lo “squalo”, “mariuolo”, “bustarelle”, il “cappio”. Sono nomi e termini che hanno segnato la vita repubblicana, fondamentali per comprendere cosa è accaduto nell’anno dell’inchiesta di Mani Pulite
Non è semplice destreggiarsi nel racconto storico degli anni di Tangentopoli per chi è nato a cavallo dai primi anni Novanta in poi. C’è un glossario di parole nato e usato all’epoca che oggi non sono più comuni e fanno riferimento a eventi e fasi che hanno cambiato la storia repubblicana. Qui una breve lista in ordine alfabetico:
A fra’ che te serve?
La frase è attribuita all’imprenditore e costruttore Gaetano Caltagirone (morto all’età di 80 anni nel 2016) e secondo i racconti dell’epoca la ripeteva ogni volta che riceveva una telefonata da Franco Evangelisti, dirigente sportivo e politico cresciuto sotto l’ala dell’ex presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, Giulio Andreotti. A confermarlo è stato lo stesso Evangelisti, ex ministro della Marina mercantile, che in un’intervista rilasciata a Repubblica nel 1980 ha ammesso di aver ricevuto soldi da Caltagirone: «Ci conosciamo da vent’anni e ogni volta che ci vedevamo lui mi diceva: “a Fra’, che ti serve?”».
Bustarella
La bustarella è un involucro contenente una somma di denaro che viene consegnata di nascosto a una persona investita di una pubblica funzione per ottenere in cambio un favore. Nel 1992 le mazzette per corrompere politici e funzionari venivano consegnate sia attraverso delle bustarelle ma anche con assegni o bonifici bancari depositati in conti esteri per evitare di essere tracciati. Generalmente la mazzetta partiva da una cifra intorno al 3 per cento del valore della gara di appalto che sarebbe stata pilota in favore di chi pagava.
«Cinghiale» o «cinghialone» fu il termine metaforico coniato dall’allora direttore del quotidiano L’indipendente, Vittorio Feltri, per indicare l’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi quale il bersaglio della “caccia grossa” delle indagini condotte dalla procura di Milano. Nel suo libro Il borghese. La mia vita e i miei incontri da cronista spettinato Vittorio Feltri ha raccontato come nasce il soprannome: «Scrissi che sarebbe stato opportuno acciuffare “il cinghialone”, che era appunto il leader dei socialisti. Lo battezzai io con questo simpatico epiteto, che peraltro gli calzava a pennello considerata la sua mole. Da quel momento, per tutti Craxi fu “il cinghialone” e fu davvero perseguitato». Quel soprannome è finito su tutti i giornali e l’ex direttore de L’indipendente ha ammesso le sue colpe: «Io sbagliai. E lo ammetto. E ho imparato dal mio errore».
Democrazia Cristiana
La Democrazia Cristiana (Dc) è il partito che ha dominato la vita politica italiana dalla fine della Seconda guerra mondiale al 1992. Alcide De Gasperi è stato uno dei fondatori e leader della Democrazia Cristiana, diventato presidente del Consiglio di otto governi dal 1945 al 1953 in un periodo di forte instabilità politica per l’Italia. Nel 1992 la Dc, come anche la maggior parte degli altri partiti e movimenti politici italiani finirono al centro delle indagini nello scandalo di Tangentopoli. Tra gli esponenti di spicco del partito c’è stato anche Giulio Andreotti.
Il cappio
Il 16 marzo del 1993 Luca Leoni Orsenigo, allora deputato della Lega Nord, si presentò in Aula alla Camera con un cappio in segno di protesta contro le inchieste di corruzione che coinvolgevano i partiti. «Il mio fu un gesto legittimo, il cappio in Aula lo rivendico, lì si stava votando il decreto Conso che gettava un colpo di spugna sulle malefatte dei partiti, sulle politiche del malaffare», ha detto di recente in un’intervista rilasciata all'Adnkronos.
Lo squalo
Negli anni in cui i soprannomi venivano affibbiati agli esponenti politici con facilità non può mancare “Lo squalo”, l’appellativo attribuito a Vittorio Sbardella, colui che veniva considerato come il “padrone” della Democrazia cristiana a Roma e uno degli uomini più vicini a Giulio Andreotti. Anche lui, come altri membri del suo partito venne travolto dallo scandalo tangentopoli. Dopo le indagini si dimise dal consiglio di amministrazione della Edit, la società editrice del settimanale Il Sabato. Morì nel 1994 all’ età di 59 anni per via di un tumore all’apparato digerente.
Mani Pulite
È uno dei termini più conosciuti dell’epoca e fa riferimento al nome giornalistico usato dalla stampa per identificare le inchieste giudiziarie portate avanti dalla procura di Milano e successivamente condotte ad altre procure italiane sulla corruzione tra mondo politico e imprenditoriale dell’epoca.
L’accostamento di «Mani pulite» alla politica è stato diffuso dal film Le mani sulla città del 1963 di Francesco Rosi, vincitore della Palma D’oro al festival del cinema di Venezia. In una scena del film alcuni deputati del Consiglio comunale di Napoli si difendono dalle accuse di corruzione dicendo: «Le nostre mani sono pulite!». Anche il deputato del Pci, Giorgio Amendola, in un’intervista rilasciata a il Mondo nel 1975 disse: «Ci hanno detto che le nostre mani sono pulite perché non l'abbiamo mai messe in pasta».
Mariuolo
Mariuolo, cioè furfante, è il termine utilizzato dal leader del Psi Bettino Craxi per definire Mario Chiesa, dirigente di seconda fila del suo partito e primo arrestato nell’inchiesta Mani Pulite. Definendolo un «mariuolo isolato», Craxi intendeva distanziare dall’inchiesta un partito che in realtà, a suo dire, era integro e non corrotto. Le confessioni di Mario Chiesa, però, diedero inizio a una serie di indagini che provarono come il partito socialista aveva partecipato al finanziamento illecito dei partito fino ai suoi vertici.
Monetine
Monetine, oggetti e banconote sono quelle lanciate dai manifestanti contro Bettino Craxi all’uscita dell’hotel Raphael dove alloggiava quando si trovava a Roma. Il 30 aprile del 1993 la Camera aveva negato quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro l’allora Segretario del Partito socialista per corruzione e ricettazione chieste dalla magistratura. I manifestanti si radunarono fuori l’hotel di lusso e appena Craxi uscì tirarono monetine e sventolarono banconote dicendo: «Bettino vuoi pure queste?».
Nani e ballerine
L’espressione venne coniata da Rino Formica, ex ministro delle Finanze, per definire in maniera dispregiativa gli ambienti in cui si muovevano alcuni esponenti del suo Partito socialista. Il termine è stato poi ripreso dall’ex ministro degli Esteri, Gianni De Michelis, per descrivere i suoi anni “festaioli” a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta con Craxi e altri esponenti del partito. La locuzione «nani e ballerine» è stato usato in quegli anni per evidenziare la mondanità di una classe politica vista come corrotta, ricca e lontana dagli interessi dell’elettorato. De Michelis è anche autore del libro Dove andiamo a ballare questa sera, una raccolta di luoghi in cui trascorrere le serate tra club e discoteche.
Pentapartito
Con il termine pentapartito si intende la coalizione di governo formata da cinque diversi partiti che hanno governato in Italia dal 1981 al 1991. I partiti che ne facevano parte erano: Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Socialdemocratico, Partito Repubblicano e Partito Liberale. Tutti implicati nell’inchiesta di Mani Pulite. Si dice che l’accordo venne siglato nel 1981 durante il congresso del Psi fra il democristiano Arnaldo Forlani e il segretario socialista Bettino Craxi con la “benedizione” di Giulio Andreotti, tanto che il patto venne chiamato anche CAF, richiamando le iniziali di Craxi-Andreotti-Forlani.
Pool
Il pool è la squadra di magistrati (Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco, Ielo, Ramondini, Parenti e Tito) che hanno condotto l’indagine su Mani Pulite. È storico il video in cui Antonio Di Pietro interrogò pubblicamente il leader del Psi Bettino Craxi il quale, davanti alle telecamere, spiegò come funzionava il sistema. Secondo gli ultimi dati i numeri dell’inchiesta sono i seguenti: 3.200 richieste di rinvio a giudizio, 1.254 condanne (circa il 40 per cento), 269 scioglimenti in udienza preliminare, 161 assoluzione nel merito in tribunale (in totale il 13 per cento).
Psi
Psi è la sigla del Partito socialista italiano nato nel 1892 e protagonista della storia politica italiana. Dopo lo scandalo tangentopoli il partito ricevette una sonora sconfitta alle elezioni politiche del 1994, anno in cui venne sciolto. Tra i suoi leader più importanti prima di Craxi si ricordano Filippo Turati e Pietro Nenni.
Tangentopoli
Stando alla definizione della Treccani per tangentopoli si intende: «Città in cui è diffuso il malcostume di pretendere e incassare tangenti, ossia somme di denaro richieste in cambio di favori, concessioni o altre forme d’intermediazione illecite da parte di chi è in grado d’influenzare la buona riuscita di tali affari o pratiche. Per estensione, il fenomeno, lo scandalo delle tangenti nella pubblica amministrazione e in ambienti politici». Il termine è entrato nel linguaggio di uso comune soprattutto dopo lo scandalo del 1992.
YOUSSEF HASSAN HOLGADO
Tangentopoli: serie, film, documentari e libri per chi non c’era. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 16 febbraio 2022.
Dal Divo ad Hammamet, dalla serie 1992 al libro più lungo mai scritto su Mani Pulite, passando per i migliori documentari disponibili in streaming
Sono passati 30 anni dallo scandalo di Tangentopoli e un’intera generazione di italiani è cresciuta e diventata adulta senza aver vissuto quel momento storico. Non è facile per chi non c’era rievocare l’atmosfera concitata di quei giorni e farsi un’idea di cos’è accaduto realmente. Per questo abbiamo deciso di mettere insieme una breve lista di film, documentari, serie tv e libri, alcuni recenti, altri scritti quanto gli eventi erano ancora freschi, per aiutare i più giovani a ricostruire quei giorni e per farli rievocare a chi invece già c’era.
FILM E SERIE
Il portaborse (1991)
In questo film di Daniele Lucchetti, Silvio Orlando interpreta un professore di lettere chiamato a lavorare per un ambizioso ministro interpretato da Nanni Moretti, un’esperienza in cui toccherà con mano la corruzione dell’ambiente politico. Uscito pochi mesi prima dell’inizio delle indagini di Mani Pulite è stato un grandissimo successo di pubblico. Oggi è considerato un ritratto delle ultime fasi della Prima repubblica e un film “profetico” dello scandalo che sarebbe scoppiato poco dopo la sua uscita.
Il divo (2008)
Un film che ha bisogno di poche presentazioni: si tratta della biografia di Giulio Andreotti, figura centrale della Prima repubblica, interpretato da Toni Servillo e diretto da Paolo Sorrentino. Il film non è dedicato in modo particolare a Tangentopoli, ma riprende molti dei momenti storici dell’inchiesta e cerca di riflettere il clima di quegli anni nel modo barocco e surreale tipico di Sorrentino.
Hammamet (2020)
Diretto da Gianni Amelio, con Pierfrancesco Favino nel ruolo dell’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi, più che un film su Tangentopoli e un ritratto umano del suo più importante protagonista, il controverso leader del Partito socialista, fuggito in Tunisia per evitare la condanna per corruzione.
1992 (2015)
«Da un’idea di Stefano Accorsi» è una delle pochissime fiction esclusivamente dedicate allo scandalo di Tangentopoli. Accorsi interpreta il protagonista della serie, un rampante manager di Publitalia ‘80, la concessionaria pubblicitaria di Silvio Berlusconi, e la sua vicenda si intreccia con quella di altri protagonisti di quella stagione. Il racconto è romanzato ed è stato criticato da alcuni per la sua mancanza di accuratezza. La serie fa parte di una trilogia che comprende anche 1993 e 1994, che oltre agli scandali di corruzione si concentrano sugli attentati mafiosi e sull’ascesa politica di Berlusconi.
DOCUMENTARI
Mani pulite (1997)
Uno dei documentari più lunghi e completi sull’inchiesta Mani Pulite e lo scandalo Tangentopoli. Sono quattro puntate di circa due ore l’una e quasi tutto il racconto si svolge attraverso filmati e interviste girati al culmine delle indagini. Realizzato a soli cinque anni dai fatti da Pino Corrias e Renato Pezzini, è ancora oggi uno dei più completi ed equilibrati documentari che si possono trovare u quei giorni.
Blu Notte – Tangentopoli (2008)
Chi invece non ha ore ed ore da dedicare alla ricostruzione di Tangentopoli attraverso i filmati dell’epoca, può guardare la puntata di Blu Notte che lo scrittore Carlo Lucarelli ha dedicato all’inchiesta. Un racconto più succinto e narrativo, ma ugualmente coinvolgente.
LIBRI
Intevista su Tangentopoli (2000)
È il più importante libro-intervista realizzato dal più carismatico e controverso magistrato del pool Mani Pulite, un vero e proprio simbolo dell’inchiesta: Antonio Di Pietro. L’intervista è stata realizzata dal giornalista Giovanni Valentini.
Mani pulite. La vera storia, 20 anni dopo (2012)
Un’autentica opera monstre di quasi 1.200 pagine: in questo libro, i giornalisti Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto raccontano l’intera inchiesta Mani Pulite, con l’ausilio di centinaia di documenti e altrettante pagine di dettagliate ricostruzioni. Il taglio è molto favorevole alla magistratura e lascia poco spazio ai dubbi e alle interpretazioni differenti. Ma in quanto ad ampiezza, sono pochi i libri che possono competere.
Tangentopoli (2011)
Tono completamente diverso in questa ricostruzione scritto dalla giornalista e politica Tiziana Maiolo, una delle voci più critiche nei confronti del modo in cui venne gestita l’inchiesta. Il suo è punto di vista particolare, poiché all’inizio dell’inchiesta era una consigliera comunale a Milano, la città centrale nell’inchiesta Mani Pulite.
Il tempo delle Mani Pulite (2021)
Nel 1992, il giornalista del Corriere della Sera Goffredo Buccini era uno degli inviati che seguivano l’inchiesta Mani Pulite. A 30 anni da quei fatti, però, ha deciso di scrivere un libro per raccontare come la stampa ha raccontato quei fatti, in un modo che oggi Buccini giudica troppo piegato sulle posizioni di giudici e magistrati.
L’antipatico (2020)
Una biografia di Bettino Craxi scritta da un autore d’eccezione: Claudio Martelli, a lungo erede designato del segretario socialista e poi, negli ultimi anni, suo ultimo rivale interno. Anche se è una biografia che non nasconde i tratti più aspri del carattere di Craxi, si tratta comunque di un libro che mostra il punto di vista dei socialisti e più in generale degli inquisiti, più che quello dei magistrati.
DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.
“Mani pulite” 30 anni dopo: solo 1.408 condannati su 2.565 indagati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Febbraio 2022
Data la mancanza di statistiche giudiziarie, in quanto i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di statistiche adesso può essere detto praticamente tutto ed il contrario di tutto: Basti pensare che persino nelle cancellerie dei magistrati della Procura di Milano ad un certo punto si perse il conto degli esiti
Molti continuano a chiedersi se l’inchiesta “Mani Pulite” della Procura di Milano che fece saltare il “banco” politico ed economico della 1a Repubblica, dal punto di osservazione delle sentenze sia finita pressochè nel nulla, come propagandano i critici più accesi ? Data la mancanza di statistiche giudiziarie, in quanto i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di statistiche adesso può essere detto praticamente tutto ed il contrario di tutto: Basti pensare che persino nelle cancellerie dei magistrati della Procura di Milano ad un certo punto si perse il conto degli esiti . Persino gli archivi dei giornali non aiutano, considerato che moltissimi indagati non finirono mai sotto i riflettori delle cronache.
L’unica maniera per arrivare ad una percentuale accettabile di statistiche è stato quindi quello di provare ma dal basso delle statistiche, e non dall’alto, per ritrovare il corso degli incartamenti processuali, riuscendo ad abbinare a un nome e cognome un ultimo stato noto dei processi, fino a inizio 2000. Applicando questo parametro si può provare a ragionare con attendibilità sul destino giudiziario di 2.565 persone in carne ed ossa indagate dai pm del pool vero e proprio degli anni 1992-1994 (Antonio Di Pietro, Colombo e Piercamillo Davigo, quindi Francesco Greco, a cui si affiancarono Paolo Ielo, Elio Ramondini, Tiziana Parenti e Raffaele Tito) piuttosto che sul numero dei procedimenti iscritti con 3.146 imputazioni di reato, a volte la stessa persona per più ipotesi). 1.408 di loro sino all’anno 2000 avevano patteggiato o erano stati condannati , mentre 544 erano stati assolti e 448 prosciolti per prescrizione (o in pochi casi per amnistia o morte dell’indagato o imputato).
All’appello manca l’esito per i rimanenti che non si è riusciti a ricostruire, poichè spesso si trattava di fascicoli spezzettati in più filoni d’indagine o di posizioni trasmesse per competenza territoriale ad altre procure italiane anche se l’ipotesi più realistica è che siano finiti per ingrossare la casella delle prescrizioni.
Secondo quanto scrive il Corriere della Sera a scontare una pena in carcere nel 2000 erano solo in 4 persone, tutte coinvolte nel filone delle tangenti alla Guardia di Finanza: indice del fatto che, pur di portare a casa una sentenza in tempi compatibili con il rischio di prescrizione, le pene eseguite non furono in generale abbastanza soft, al punto che che tra sospensioni condizionali, ricalcoli per l’istituto della continuazione e cumuli la pena massima definitiva nei processi di “Mani pulite” in fin dei conti non è stata quella di Mario Chiesa conclusasi con 5 anni e 4 mesi), o quella di Sergio Cusani di 5 anni e 5 mesi di cumulo finale, ma bensì quella di un quasi ignoto capo-compartimento Anas, che non essendo figura di rilievo pubblico oggi non avrebbe senso rinominare, e che in uno stralcio trasmesso a Genova fu condannato nel 1998 a 5 anni e 6 mesi: la stessa pena alla quale scese con un patteggiamento in Appello il generale della GdF Giuseppe Cerciello, partito da un iniziale condanna complessiva a 16 anni.
Mani pulite, il bilancio 30 anni dopo: su 2.565 indagati i condannati furono 1.408. Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
Le indagini del pool composto da Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito. La pena più alta: 5 anni e 6 mesi a un dirigente Anas
Ma davvero Mani pulite è finita in niente dal punto di vista delle sentenze, come propagandano i suoi critici? Tutto e il contrario di tutto può essere detto nell’indisponibilità di statistiche giudiziarie, perché i database ministeriali non erano e non sono pensati per questo tipo di elaborazioni; perché persino lo staff dei pm in Procura dopo un po’ perse il conto degli esiti sempre sfrangiati e spesso sovrapposti; e perché neppure gli archivi dei giornali aiutano, posto che moltissimi indagati non finirono mai sotto i riflettori delle cronache. Così l’unico modo per avvicinarsi a un tasso accettabile di approssimazione è stato provare non dall’alto delle statistiche, ma dal basso del ritrovare il filo degli incartamenti processuali, riuscendo ad abbinare un ultimo stato processuale noto (fino a inizio 2000) a un nome e cognome.
Con questo parametro si può ragionare con attendibilità non tanto sul numero dei procedimenti iscritti (3.146 imputazioni, a volte la stessa persona per più ipotesi), quanto sul destino giudiziario di 2.565 persone in carne ed ossa indagate dai pm del pool vero e proprio degli anni 1992-1994 (Di Pietro, Colombo e Davigo, poi Greco, poi ad affiancarli Ielo, Ramondini, Parenti e Tito). Sino all’anno 2000 avevano patteggiato o erano stati condannati 1.408 di essi, mentre 544 erano stati assolti e 448 prosciolti per prescrizione (o in pochi casi per amnistia o morte del reo).
Manca all’appello l’esito per i rimanenti che non si è riusciti a ricostruire, spesso perché si trattava di fascicoli spezzettati in più filoni o di posizioni trasmesse per competenza territoriale altrove e lì «desaparecide», ma la prognosi più realistica è che abbiano finito per ingrossare la casella del fuori tempo massimo, cioè delle prescrizioni.
In carcere a scontare una pena nel 2000 erano in quattro, tutti nel filone delle tangenti alla Guardia di Finanza: indice del fatto che, pur di portare a casa una sentenza in tempi compatibili con il rischio di prescrizione, le pene eseguite non furono in generale draconiane. Tanto che — tra sospensioni condizionali, ricalcoli per l’istituto della continuazione e cumuli — in fin dei conti la pena massima definitiva nei processi di Mani pulite non è stata appannaggio di Mario Chiesa (che ha chiuso con 5 anni e 4 mesi) o di Sergio Cusani (5 anni e 5 mesi di cumulo finale), ma di un poco noto capo-compartimento Anas, che oggi non avrebbe senso rinominare qui (non essendo figura di rilievo pubblico), e che in uno stralcio trasmesso a Genova fu condannato nel 1998 a 5 anni e 6 mesi: stessa pena alla quale scese con un patteggiamento in Appello il generale della GdF Giuseppe Cerciello, pur partito da un iniziale conto complessivo di 16 anni.
Appartiene invece non a Cerciello (7 mesi) e neanche a Cusani (5 mesi), ma anche qui a un assai meno noto colonnello della GdF il record di custodia cautelare di tutta Mani pulite: un anno in carcere nella fortezza di Peschiera. Centoquaranta i miliardi di lire rientrati all’erario come risarcimenti: compresi i 56 miliardi versati da un costruttore (nel frattempo morto) che nel processo Enimont poi vide infine paradossalmente prescriversi la propria imputazione.
Mani pulite, 30 anni dopo: le tappe e i numeri. Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
Trent'anni da Mani pulite: una rivoluzione immaginaria. Francesco Giambertone su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
La quinta puntata della serie audio sulle verità nascoste della storia della Repubblica racconta la stagione di Tangentopoli che cancellò la Prima repubblica: fu il corso naturale della giustizia o un'operazione giudiziaria per far saltare in aria un sistema politico?
Sono passati trent’anni dallo scandalo di Tangentopoli, e ancora ci si divide sull’inchiesta giudiziaria che ha decretato la fine della prima Repubblica e del suo sistema dei partiti, con i governi e il Parlamento decimati dagli avvisi di garanzia. È stato solo il naturale corso della giustizia oppure un’operazione giudiziaria innescata per far saltare in aria un sistema politico? Poteva andare diversamente o si è trattato di un percorso obbligato? Molte morti hanno insanguinato quella storia: i suicidi del deputato socialista Sergio Moroni, del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, dell’imprenditore Raul Gardini, fino alla morte di Craxi, ex presidente del Consiglio rifugiatosi in Tunisia: esule o latitante?
La stagione di Mani pulite è il tema della quinta puntata di «Nebbia - Le verità nascoste nella storia della Repubblica», con le voci di Stefano Cagliari, figlio di Gabriele Cagliari; Paolo Ielo e Francesco Greco, ex pm del pool di Mani pulite; e l’avvocato (e poi sindaco di Milano) Giuliano Pisapia.
Stefania Craxi: «Io e mio padre Bettino». Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.
È Stefania Craxi, figlia di Bettino, la protagonista della quinta e ultima puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». Nei giorni in cui ricorre il trentennale di Tangentopoli, che segnò l'inizio della fine dell’allora segretario del Partito socialista ed ex presidente del Consiglio, la sua primogenita difende la figura del padre, morto nel gennaio del 2000 in Tunisia, nella casa di Hammamet. È lì che Craxi era fuggito (la figlia da allora parla e parlava di «esilio») nel 1994 dopo le condanne per corruzione nel processo Eni-Sai e per finanziamento illecito per le tangenti della Metropolitana milanese. Ma il racconto di Stefania Craxi va molto oltre, ricordando il suo rapporto simbiotico con tutto ciò che era politica e che inevitabilmente finì per sottrarre suo padre alla famiglia. Cosa che spinse la giovane Stefania a vivere una gioventù molto diversa da quella dei suoi coetanei e coetanee: una gioventù fatta di politica pur di passare qualche ora in più col padre.
«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritta e diretta da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzata da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.
Sospeso in aria. Raul Gardini, il tuffatore. Elena Stancanelli su L'Inkiesta il 16 Febbraio 2022.
L’imprenditore coinvolto nella inchiesta di Tangentopoli aveva imparato da ragazzino a tuffarsi dal molo di Ravenna. Come racconta Elena Stancanelli nel suo nuovo libro pubblicato da La Nave di Teseo, condivise per tutta la vita l’amore per il mare e per i tuffi con gli amici e la moglie Idina.
Uno dei più famosi aneddoti su Gardini riguarda i tuffi. Lo racconta lui stesso, l’ha raccontato Idina, sua moglie, lo raccontano gli amici. Non so neanche se lo si può considerare un aneddoto. Sembra piuttosto l’episodio di un’agiografia: Gardini il contadino, il cacciatore, il tuffatore. Da ragazzino frequentava il molo, come tutti i ravennati. Ma lui si tuffava meglio di chiunque altro.
Idina era bella, ricca e molto elegante. Primogenita di Serafino Ferruzzi, aveva un corpo sottile e un naso leggermente adunco. I capelli lunghi acconciati con cura, una sigaretta sempre tra le dita. Abbronzata, sorridente, le gambe magre e slanciate. Anche lei frequentava il molo con le sue amiche. Si era innamorata subito di quel ragazzo coraggioso, agile, che faceva di tutto per farsi notare da lei.
Raffaele La Capria, scrittore napoletano, tuffatore, autore di uno dei più bei romanzi del Novecento italiano, Ferito a morte, ha scritto un saggio sulla letteratura e i tuffi. Dove spiega che i tuffi, tutti quanti, sono salti mortali. E si giudicano sulla base di due criteri: la perfezione della figura, in aria e nell’entrata in acqua, e il rischio. «Un tuffo», scrive, «è tanto più bello quanto più alto si svolge sulla tavola del trampolino. Ma più in alto si slancia il tuffatore sulla tavola, più la tavola per una legge fisica lo attira a sé. Lo slancio più alto sarebbe infatti quello perpendicolare alla tavola, e il tuffatore pagherebbe l’altezza raggiunta ricadendo sul trampolino. C’è, come si vede, un collegamento molto stretto, immediato, tra la bellezza del tuffo e il pericolo che si corre». Così la letteratura, spiega La Capria, dove la riuscita di un’opera si misura anche da quanto rischio di fallimento comportava la premessa. Come, per esempio, provare a immaginare che un uomo si svegli una mattina nel suo letto trasformato in uno scarafaggio.
I tuffi sono un rito di iniziazione. Suscitano ammirazione per l’eleganza e il coraggio. Di Gianni Agnelli si racconta che, quando arrivava in Costa Azzurra con l’elicottero, anziché atterrare preferiva buttarsi direttamente in mare davanti alla spiaggia. Per dimostrare ardimento, giovinezza, sprezzo del pericolo, ma anche perché l’energia, la fretta, premeva dentro e gli faceva alzare la posta, esagerare.
L’Avvocato, si diceva, non aveva mai superato il trauma della guerra. Tutta quella morte lo aveva segnato, la provvista di energia vitale veniva da lì, dall’aver assistito, dall’aver partecipato al massacro. Gardini non aveva fatto la guerra, era troppo giovane. L’aveva riconosciuta intorno a sé ma non l’aveva patita in prima persona. Non aveva visto la forza fisica e il coraggio spregiati dalle battaglie. Non aveva guardato i corpi mutilati, non aveva schivato le pallottole. Eppure entrambi tra la perfezione e il rischio scelgono sempre il rischio.
Quando più tardi passiamo da casa sua, il giorno in cui ci siamo incontrati a pranzo al ristorante Al Gallo, Vanni Ballestrazzi mi mostra una foto bellissima. Le foto di Raul le ho fatte quasi tutte io, racconta, mi chiedeva di scattargliele perché non aveva voglia di mettersi in posa davanti ai fotografi. Io le scattavo a raffica e poi quando i giornali me le chiedevano gliele regalavo. Non ci ho mai guadagnato una lira, dice.
Nella casa di Ravenna, dietro la piazza del Duomo, con un giardino fiorito dove ha addirittura una pianta di vite (le mie vigne, dice scherzando), Vanni tiene alcuni album di foto. Sono quasi tutte foto di mare. In una di queste si vede una scogliera. Alta, saranno almeno una decina di metri. E davanti un uomo, in volo. Un tuffo ad angelo, in posizione perfetta. Quell’uomo è Raul Gardini, ha cinquantasei anni. Vanni, che scatta la foto, è in barca, sotto. Sono in Grecia in vacanza, nell’estate del 1989. Gardini ha il corpo di un ragazzo e la tecnica di un tuffatore esperto.
Idina e Raul si sposeranno nel 1957 e avranno tre figli: Eleonora nel 1965, Ivan nel 1969 e Maria Speranza detta Coquette nel 1970.
Elena Stancanelli, Il tuffatore da “Il tuffatore”, di Elena Stancanelli, La Nave di Teseo, 2022, pagine 240, euro 18
Mario Chiesa, simbolo di Mani Pulite: «Oggi il Fisco pretende 2 milioni di tasse non pagate sulle tangenti». Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.
Mario Chiesa fu condannato a 5 anni e 4 mesi per le mazzette al Pio Albergo Trivulzio di Milano. Oggi, a 77 anni, vive da pensionato tra la Lombardia e la Svizzera: «Ho fatto come tanti altri ma solo per me vale l’ergastolo della reputazione». E rivela il verbale dell’interrogatorio nel 1992: «La prima volta che ricevetti denaro risale al 1974»
Stanco dei processi, degli anniversari, delle ricostruzioni dell’inchiesta Mani pulite che inevitabilmente ne seguono, Mario Chiesa è stanco che da trent’amni nell’immaginario collettivo italiano lui venga identificato come «il» politico corrotto. «Perché puntate sempre su di me? Ero solo una piccola ruota di un meccanismo molto più grande», si lamenta mentre fa ancora i conti con gli strascichi dell’indagine che portò al suo arresto, come i due milioni di euro che gli chiede l’Agenzia delle entrate per le tasse non pagate sul reddito generato dalle tangenti.
Il profilo di Mario Chiesa
Politico in carriera in quel Partito socialista che con i quarantenni d’assalto di Bettino Craxi tra gli anni Ottanta e Novanta sgomitava per farsi largo tra la Dc dei Forlani e degli Andreotti e il Pci-Pds di Occhetto, Chiesa possedeva tutti i caratteri per incarnare il perfetto capro espiatorio quando fu arrestato la mattina del 17 febbraio 1992. Era il modello dell’uomo di partito sprezzante e arrogante con cui si era costretti a scendere a patti, e non fu difficile per Craxi liquidarlo come un «mariuolo» nella vana speranza che lo scandalo che emergeva con prepotenza sulle tangenti al Pio Albergo Trivulzio si sgonfiasse catalizzando solo sull’ingegnere rampante la crescente indignazione popolare. Fu un errore di sottovalutazione. Ormai «politicamente finito, privo di qualsiasi lavoro», come mise a verbale Mario Chiesa nel primo interrogatorio a San Vittore, decise di confessare facendo partire la valanga che di lì a breve avrebbe spazzato la prima Repubblica, con gli imprenditori che fecero la fila davanti la porta di Di Pietro per confessare le tangenti pagate e poi patteggiare. Primi tra tutti quelli che avevano goduto del sistema a scapito delle imprese oneste.
La sentenza
Condannato a 5 anni e 4 mesi che in parte trascorse in affidamento ai servizi sociali, di cui tre condonati, di Chiesa si persero le tracce fino al marzo del 2009 quando tornò sotto i riflettori perché fu arrestato a Busto Arsizio per un traffico di rifiuti con al centro la Servizi ecologici Milano (Sem), una società di cui era amministratore di fatto. Chiusa anche questa vicenda, patteggiando tre anni di reclusione poi cancellati da un nuovo indulto, Mario Chiesa, 77 anni, qualche problema fisico, oggi vive da pensionato tra la Lombardia e la Svizzera, dove risiede il più giovane dei suoi due figli. Le sue considerazioni filtrano mediate dal legale attuale, l’avvocato Stefano Banfi: «L’ingegnere affronta malissimo tutte le notizie sugli episodi di corruzione e concussione perché, anche nelle vicende che non lo riguardano, c’è sempre chi fa comunque il suo nome». «Ho fatto un qualcosa che molti altri hanno fatto prima e dopo di me, anche in forma più grave, ma di costoro nessuno ricorda mai il nome», confida l’ex presidente della Baggina, come i milanesi chiamano il Trivulzio. «Ho ammesso le mie responsabilità, pagato il mio debito con la giustizia, ho restituito tutto quanto dovevo restituire. Non sono io che ho organizzato il sistema di corruttela», dice al suo difensore ricordando i 6 miliardi di lire restituiti e i risarcimenti versati. Per questo il trentennale di Mani pulite lo lascia del tutto indifferente, anzi rafforza in lui la convinzione che «la condanna vera è la consapevolezza che non potrà mai beneficiare del diritto all’oblio. Un ergastolo della reputazione».
I conti cifrati «Levissima» e «Fiuggi»
In tre decenni, Mario Chiesa ha tentato di difendere, per quanto possibile, ciò che resta della sua privacy. «Gli è capitato più volte di essere riconosciuto ed anche i figli e la ex compagna hanno patito questa sua cattiva notorietà», spiega Banfi. Che Chiesa sia stato lo strumento con cui Antonio Di Pietro e la Procura guidata da Francesco Saverio Borrelli hanno scardinato larga parte del sistema corruttivo — non tutto — di quegli anni è la storia a certificarlo, ma per l’avvocato l’arresto che diede il via ufficiale alla stagione di Mani pulite non fu un episodio casuale. Convinzione, evidentemente condivisa con il suo assistito, alla quale giunge analizzando fatti e documenti dell’epoca. Di Pietro aveva indagato nei mesi precedenti su un racket delle pompe funebri alla Baggina mettendo sotto controllo i telefoni di Chiesa ed in procura era arriva l’informazione che dagli atti della separazione tra l’ingegnere e la moglie emergeva che aveva 10 miliardi di lire in banca e altri soldi in Svizzera, depositati sui conti cifrati «Levissima» e «Fiuggi». Una «situazione patrimoniale non ufficiale» totalmente spropositata per il presidente di un ente cittadino benefico.
Di Pietro: «L’acqua minerale è finita»
Per fargli capire che ormai era all’angolo, dopo l’arresto Di Pietro gli fece sapere: «L’acqua minerale è finita». L’ingegnere confessò. Alla stregua della maggior parte di coloro che furono presi «con le mani nella marmellata», come disse Di Pietro con una delle sue celebri frasi, «era fedele all’accordo di spartizione che c’era tra i partiti», ammette Banfi, ma tenne anche qualcosa per sé. Rivendicò, però, di aver migliorato il Trivulzio: «Nonostante le mie responsabilità (…) ho anche lavorato seriamente per la trasformazione del Pat» che fino ad allora era luogo dove «la gente andava solo a morire». Secondo Banfi, quindi, «Chiesa è l’anello di congiunzione forgiato con calma e pazienza per collegare la corruzione già esistente da tanti anni ai vertici dei partiti italiani». Un sistema di cui era parte integrante già a 30 anni, appena entrato con un contratto a termine nell’amministrazione dell’ospedale Sacco.
Il primo interrogatorio nel 1992
Lo rivela il 23 marzo ’92 nel primo interrogatorio di fronte a gip Italo Ghitti: «La prima volta che ricevetti denaro risale al 1974 (…) il 10% dell’appalto per la manutenzione ordinaria annuale del Sacco». A pagare 18 anni prima era stato lo stesso imprenditore che alle 15 del fatidico 17 febbraio 1992 gli consegnò altri 37 milioni di lire in contanti, parte di una tangente sull’appalto per la tinteggiatura degli mobili dell’ente che, dichiarò Chiesa nello stesso interrogatorio, aveva poi gettato nel water dell’ufficio all’arrivo dei carabinieri prima dell’arresto, salvo poi smentire di averlo fatto. Sta di fatto che quei soldi sparirono e non furono sequestrati sempre quel 17 febbraio. Due ore e mezza dopo Luca Magni entrò nel suo ufficio e gli consegnò la stecca di 7 milioni per l’appalto delle pulizie. L’imprenditore era d’accordo con Di Pietro e con i carabinieri che avevano controfirmato le banconote e che di lì a poco irromperanno nell’ufficio trovando la somma in una busta bianca «in biglietti da lire 100.000» nella scrivania «all’interno del cassetto di sinistra», riporta burocraticamente il verbale di sequestro. Fu la fine dell’uomo che da segretario della sezione Musocco-Vialba del Psi sognava di diventare sindaco di Milano.
Giusi Fasano per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2022.
È il 17 febbraio 1992. Scatta l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano. Comincia così «Mani pulite», l'inchiesta che terremoterà la vita politica italiana. Una stagione a cui è dedicato il libro dell'inviato speciale del Corriere della Sera Goffredo Buccini, disponibile da oggi anche in edicola.
«Il tempo delle mani pulite», questo il titolo, esce sempre in collaborazione con Laterza, che lo ha pubblicato in prima edizione per le librerie nell'autunno scorso. Ora si potrà acquistare a 12 euro, più il prezzo del Corriere , e rimarrà in edicola a disposizione per un mese.
Di Tangentopoli oggi si parlerà anche in due convegni. Uno, «Tangentopoli 30 anni dopo», è all'Università di Pisa . Ci saranno, tra gli altri, Nando Dalla Chiesa (Statale di Milano), Piercamillo Davigo (all'epoca nel pool «Mani pulite») e Gian Antonio Stella (editorialista del Corriere della Sera ). Altro dibattito a Milano (ore 15): è organizzato dall'Anm a Palazzo di Giustizia. Tra i moderatori , l'ex direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli.
Gherardo Colombo, 75 anni. Trent' anni fa magistrato del pool Mani pulite, oggi saggista, scrittore, portatore sano di impegno sul fronte carcerario, etico, di educazione alla legalità.
Trent' anni dopo Mani pulite le parole più evocate sono «bilancio» e «sconfitta».
«Fatico a parlare di sconfitta o di vittoria. Indagini e processi non sono match. Non avevamo, né mi sembra che ci siano adesso, somme da tirare: dovevamo verificare le responsabilità penali delle persone e questo abbiamo fatto, dentro le regole del codice penale e di procedura penale».
Secondo lei la corruzione è cambiata?
«Sì, non è più così connessa al finanziamento illecito dei partiti. Non è un sistema, mentre allora lo era con le sue regole ben definite. Ora riguarda vari livelli, e coinvolge anche le persone comuni...».
Perché si è dimesso 15 anni fa dalla magistratura?
«È stata una scelta dolorosa, maturata col tempo. Ebbi per la prima volta la tentazione di dimettermi nel 1986. Ero a Tivoli a fare una lezione ai giovani magistrati, vidi un titolo di giornale sui fondi neri dell'Iri. Io sapevo cosa c'era dentro quel mare di carte. Il titolo diceva che erano stati tutti prosciolti, salvo qualcuno che non contava nulla...».
Parla dei rapporti di allora fra politici e magistrati?
«Non era soltanto l'aggressione della politica contro la magistratura, che abbiamo assaggiato quando scoprimmo la P2: fu chiesta una misura cautelare per un grande banchiere e ci fu una reazione molto pesante da ben definiti ambienti politici. Il fatto è che anche dentro la magistratura succedevano cose».
Cose di che genere?
«Per esempio: uno investigava, trovava prove, si accingeva a trovarne altre, arrivava la Cassazione e su sollecitazione di Roma le indagini trasmigravano, tutto finiva sostanzialmente in niente. Le racconto un episodio per farmi capire meglio».
Prego...
«Quando investigavo per i fondi neri dell'Iri c'era un imputato che era intimo dell'onorevole Fanfani, che si dice mirasse al Quirinale. Ora: so per certo che il presidente della Corte di Cassazione protestò con un collega che conoscevo bene: tu che vieni da Milano, mi spieghi? Che vuole fare sto' Colombo? Vuole nominarlo lui il presidente della Repubblica? Il processo finì a Roma e tutto finì nel dimenticatoio...».
Sta dicendo che suoi ex colleghi seguirono gli inviti della politica per cambiare la sorte dei processi?
«Sto dicendo che ci sono stati casi in cui è andata così. E quelli che trasferivano i processi da Milano o che non si accorgevano dei reati sono sempre passati come magistrati indipendenti».
Come visse il fatto che con Mani pulite per molti eravate degli idoli?
«Con imbarazzo. Le racconto un episodio. Ero andato dal fotografo per fare delle fototessere. Il signore del negozio non voleva farmi pagare. Gli ho dovuto dire che se non mi avesse fatto pagare non mi avrebbe più rivisto nel suo negozio, e alla fine acconsentì. Va detto che i media ebbero un luogo determinante nel trasformarci in "eroi"».
Forse qualcuno di voi si è prestato al gioco.
«Neanche tanto. Anche lo stesso Di Pietro: a parte quell'intervista che rilasciò a Biagi per il Corriere poi non si è messo sotto i riflettori. Però, per dire, il giorno dopo Giorgio Bocca, per Repubblica , chiese a me di fare una cosa analoga, con le foto di quando ero bambino e così via. Non mi sembrò opportuno mettermi in pista su quella strada, espormi, avrei anche creato l'occasione di un dualismo fra noi del pool. Rifiutai».
Che effetto le fa vedere oggi le monetine tirate a Craxi davanti al Raphael?
«Mi fece un effetto negativo anche all'epoca. Le persone vanno rispettate comunque. Non credo proprio che abbiamo stimolato noi reazioni del genere, certamente non io».
Gherardo Colombo: «Il lancio di monetine a Bettino Craxi mi disturba ancora». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.
L’ex magistrato del pool di Mani Pulite ripercorre Tangentopoli: «Noi pm venimmo trattati da eroi, un errore che non fu colpa nostra».
Gherardo Colombo, 75 anni. Trent’anni fa magistrato del pool Mani Pulite, oggi saggista, scrittore, portatore sano di impegno sul fronte carcerario, etico, di educazione alla legalità. Trent’anni dopo Mani Pulite la parola più evocata di questi giorni è “bilancio”.
È una sconfitta la perseveranza della corruzione?
«Fatico a parlare di sconfitta o di vittoria. Le indagini e i processi non sono dei match. Non avevamo né mi sembra che ci siano adesso somme da tirare: dovevamo verificare le responsabilità penale delle persone e questo abbiamo fatto. E vorrei che fosse chiara una cosa: quel che abbiamo fatto stava dentro le regole del codice penale e di procedura penale».
Secondo lei la corruzione è cambiata?
«Sì, nel senso che oggi non è più così connessa al finanziamento illecito dei partiti politici come prima. Non è un sistema, mentre allora era un sistema con le sue regole ben definite. Ora riguarda vari livelli, e coinvolge ancora anche le persone comuni: il vigile, l’infermiere, l’agente della guardia di finanza… Se vogliamo una sintesi estrema, a proposito di bilanci, possiamo dire che è finita la stagione di Mani Pulite ma non la corruzione».
Lei si è dimesso 15 anni fa dalla magistratura. Ci fu un motivo scatenante?
«E’ stata una scelta dolorosa, maturata col tempo. Ebbi per la prima volta la tentazione di dimettermi nell’86. Ero a Tivoli a fare una lezione ai giovani magistrati su indagini patrimoniali e bancarie, passai davanti alla reception dell’hotel e vidi un titolo di giornale sulla conclusione delle indagini sui fondi neri dell’Iri. Io sapevo cosa c’era dentro quel mare di carte. Il titolo del quotidiano diceva che erano stati tutti prosciolti, ad eccezione di qualcuno che non contava proprio nulla…»
Sta parlando dei rapporti di allora fra politica e magistratura?
«Ho quasi 76 anni, ne ho vista passare di acqua sotto i ponti… Non era soltanto l’aggressione della politica nei confronti della magistratura, che abbiamo assaggiato quando scoprimmo la P2: fu chiesto un provvedimento cautelare nei confronti di un grande banchiere e ci fu una reazione molto molto pesante da ben definiti ambienti politici. Il fatto è che anche dentro la magistratura succedevano cose».
Cose di che genere?
«Per esempio: uno investigava, trovava prove, si accingeva a trovarne altre, arrivava la Cassazione e su sollecitazione di Roma le indagini trasmigravano, tutto finiva sostanzialmente in niente. Le racconto un episodio per farmi capire meglio».
Prego.
«Quando investigavo per i fondi neri dell’Iri un imputato, che aveva manovrato una parte consistente dei 360 miliardi di lire dell’epoca, era intimo dell’on. Fanfani, che si dice mirasse alla presidenza della Repubblica. Ora: so per certo che il presidente della Corte di cassazione protestò con un collega che conoscevo bene: tu che vieni da Milano, mi spieghi? Che vuole fare sto’ Colombo? Vuole nominarlo lui il presidente della Repubblica? Il processo finì a Roma e tutto finì nel dimenticatoio…. Vuole un altro esempio?»
Dica.
«Sempre sulla P2. La scoprimmo il 17 marzo del 1981. Avevamo fatto tutto in silenzio assoluto ma le voci cominciavano a trapelare e allora io e il collega Turone andammo dall’allora procuratore capo, Mauro Gresti, per chiedergli che facesse un comunicato pubblico per dire che erano da ritenersi fondate soltanto le notizie ufficiali della procura. Ci disse che dovevamo restituire le carte a Gelli. C’erano 37 buste sigillate da Gelli e lui ci disse, dopo aver insistito molto che non potevamo aprirle, almeno che lo facessimo in presenza dei suoi avvocati. E di far “politica” siamo stati accusati noi...»
Sta dicendo che suoi ex colleghi seguirono gli inviti della politica per cambiare la sorte dei processi?
«Sto dicendo che ci sono stati casi in cui è andata così. E quelli che trasferivano i processi da Milano o che non si accorgevano dei reati sono sempre passati come magistrati indipendenti».
Mi sembra di capire che la magistratura non le manca.
«Non mi manca per niente. É stata una scelta difficile e dolorosa, ma una volta fatta non ho rimpianti».
Al tempo di Mani Pulite per una parte dell’opinione pubblica eravate eroi, idoli. Lei come visse questa cosa?
«Con imbarazzo. Le racconto un episodio. Ero andato dal fotografo per fare le fototessere per un documento. Il signore del negozio non voleva farmi pagare. Gli ho dovuto dire che se non mi avesse fatto pagare non mi avrebbe più rivisto nel suo negozio, e alla fine acconsentì. Va detto che i media giocarono un luogo determinante nel trasformarci in ‘eroi’».
Però forse qualcuno di voi si è prestato a quell’amplificazione.
«Neanche tanto. Anche lo stesso Di Pietro: a parte quell’intervista che rilasciò a Biagi per il Corriere poi non si è messo sotto i riflettori. Però, per dire, giorno dopo Giorgio Bocca, per Repubblica, chiese a me di fare la una cosa analoga, con le foto di quando ero bambino e così via. Però mi sembrava per niente opportuno mettermi in pista su quella strada, espormi, avrei anche creato l’occasione di un dualismo fra noi del pool. Rifiutai».
Cosa ne pensa della riforma Cartabia e in particolare dei giudici in politica?
«Io avevo una regola personale, che condivido tuttora: se avessi mai deciso di candidarmi in politica mi sarei dimesso dalla magistratura, avrei lasciato passare un lasso di tempo consistente dalle dimissioni e solo dopo mi sarei candidato. E la scelta sarebbe stata irreversibile. Però questa, ripeto: è la mia regola, e la Costituzione non pone limiti del genere».
Torniamo a Mani Pulite. Che effetto le fa vedere oggi le immagini delle monetine tirate contro Craxi davanti all’Hotel San Raphael ?
«Mi fece un effetto negativo anche all’epoca. Le persone vanno rispettate comunque. Non credo proprio che abbiamo stimolato noi reazioni del genere, certamente non io».
L’invito del vostro procuratore di allora, Borrelli, a “resistere, resistere, resistere” vale ancora oggi?
«Era un momento particolare, si stavano depotenziando gli strumenti d’indagine, ridimensionando reati molto rilevanti nel quadro generale. Oggi lo trasformerei in: troviamo una soluzione insieme. La disponibilità al dialogo è il punto di partenza».
Marco Travaglio smascherato da Filippo Facci: la verità "omessa" sui suoi idoli magistrati. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022
Cominciamo coi numeri, quelli delle dita di Marco Travaglio: perché l'altra sera, in uno dei suoi monologhi, ha detto che gli innocenti di Mani pulite si possono contare «sulle dita di una mano o forse due», il che solleva interrogativi su quante dita abbia Travaglio per ciascuna mano: pur già consapevoli che trattasi di personaggio da baraccone. La prendiamo alla larga: cominciamo col dire degli 88 parlamentari eletti nel 1992 - destinatari di richieste di autorizzazioni a procedere da parte di varie procure - i prosciolti o gli assolti furono 61. Cominciamo anche a notare che tra assoluzioni, proscioglimenti e prescrizioni, restando invece alla Milano cara a Travaglio, si arriva a circa il 46% delle posizioni considerate: su un piano razionale, prima che umano, sono tutte persone che a Palazzo di giustizia non avrebbero dovuto entrarci, e sono quasi la metà. Siamo già a un Travaglio con 450 mani, considerando che le posizioni rilevate dalle statistiche ufficiali contemplano 4.520 soggetti. Ma prima di spiegare quello che le statistiche riportate cèlano, anticipiamo che nel suo libro eternamente rispolverato in cui cambia solo il packaging (Mani Pulite, si chiama, e in origine fu agevolato da un dischetto di computer elargito da un pm) risultano 469 persone prosciolte dal tribunale, di cui le «prescritte» sono solo 243; poi ci sono quelle persone prosciolte direttamente dal gup, giudice dell'udienza preliminare: e sono altre 480, di cui solo 179 per prescrizione. Tutti affari d'oro per il guantaio di Marco Travaglio.
PRESCRIZIONE
Parentesi sulla prescrizione: non è che sia una maledizione scagliata dal cielo, è un'eventualità maturata quasi sempre dai pm durante le indagini preliminari: il 60% matura prima dell'udienza preliminare (ne sono responsabili i magistrati delle indagini) e un altro 15% matura prima della sentenza di primo grado (sempre determinata da magistrati). Tenendo conto di quella notoria panzana che chiamano indiscrezionalità dell'azione penale, i pm di Mani pulite in pratica hanno accelerato i dibattimenti che parevano loro e lasciato ad ammuffire quelli che interessavano meno. Parziale dimostrazione: nel triennio 1992-1993-1994, tralasciando quindi la maggioranza dei rapidissimi dibattimenti riguardanti Silvio Berlusconi, che furono successivi - alcuni imputati sono stati condannati nei tre gradi di giudizio in soli 2 o 3 anni (citiamo solo Sergio Cusani, Walter Armanini e Paolo Pillitteri) mentre uno come Bettino Craxi, nonostante processare un parlamentare comportasse rallentamenti procedurali, ottenne la prima condanna definitiva il 12 novembre 1996 (era già ad Hammamet) in poco più di 3 anni.
Quando fu condannato a 3 anni per il processo Enimont, il 1° ottobre 1999, il giudice, oltre a leggere il dispositivo della sentenza, lesse in aula anche le motivazioni evidentemente già preparate nonostante in genere vengano elaborate nei due o tre mesi successivi, e sviluppate per centinaia di pagine: la primizia assoluta (mai vista prima) evitò ogni rischio di prescrizione. Ultimo esempio: lo stesso Craxi, il 16 aprile 1996, venne condannato in primo grado a 8 anni e 3 mesi per le tangenti della Metropolitana Milanese, e il 5 giugno 1997 la corte d'Appello confermò, ma l'anno successivo, il 16 aprile 1998, la Cassazione annullò la condanna d'Appello: ma ecco che venti giorni dopo il presidente della Quarta sezione della corte d'appello di Milano (oggi defunto) con una procedura mai vista telefonò alla Cassazione per avere gli atti del processo e «assegnarselo» prima ancora che fossero scritte le motivazioni della sentenza, così da evitare rischi di prescrizione. La Cassazione trasmise gli atti in tre giorni e il 24 luglio 1998 Craxi venne di nuovo condannato in Appello, e in un baleno, il 20 aprile 1999, una diversa sezione della Cassazione confermò. Ministro Cartabia, impàri: nessuna Corte Europea si lamenterebbe dei nostri tempi della Giustizia, se fossero tutti così.
RITI ABBREVIATI
Ma veniamo al cuore del problema: l'alto numero di riti abbreviati e soprattutto di patteggiamenti tra i quali si nascosero colpevoli ma anche innocenti che vollero solo uscire di scena e di galera preventiva, pena la rovina economica e dell'azienda e della famiglia coi conti bloccati. Su 3.200 persone di cui la procura di Milano chiese il giudizio, 1300 sono risultati colpevoli, certo, ma il numero comprende 506 patteggiamenti e 103 riti abbreviati, cioè poco meno della metà. Il patteggiamento è un accordo tra accusa e difesa che implica un'ammissione di colpevolezza da parte dell'indagato, nonché un benestare del giudice: si patteggia solo la pena, reclusiva o pecuniaria o che sia. Prima che il fondamentale articolo 530 fosse tardivamente ripristinato (senza il quale i processi erano solo vidimazioni notarili delle indagini, come non accadeva in nessun Paese occidentale) nel periodo di Mani pulite per condannare chicchessia era sufficiente estrarre verbali d'interrogatorio ottenuti in galera (da gente disposta a tutto pur di uscirne) e riversarli in processi ridotti a certificazioni delle carte in mano all'accusa. La totale discrezionalità dei pm dipendeva perlopiù dalle trattative che l'indagato fosse disposto ad accettare pur di uscire dal procedimento o dalla galera preventiva: colpevole o innocente che si ritenesse. La teoria base del nuovo Codice doveva essere che le prove e le confessioni, per essere avvalorate, fossero riproposte nell'aula del processo, nel corso del quale una testimonianza diventare una prova: non nel parlatorio di un carcere o in una caserma di polizia. Esattamente come si vede nei film americani, dove ciò che non avviene nel processo semplicemente non esiste.
PRATICA ROVESCIATA
La pratica, in Mani pulite, fu rovesciata. Ai pm fu sufficiente estrarre dal faldone alcuni verbali d'interrogatorio: se l'accusatore non ne dava conferma, o più spesso non c'era proprio, bastava sventolare il verbale, e se l'accusatore cambiava versione (dicendo che aveva detto certe cose solo per essere scarcerato) veniva incriminato per calunnia. Un imputato, per capirci, poteva denunciare un altro cittadino, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza presentarsi in aula e senza confrontarsi con la persona che aveva accusato: c'è gente, in Mani pulite, che ha subito condanne senza aver mai visto in faccia il proprio accusatore. Tutto questo ovviamente non avrebbe potuto accadere senza una contro-legislazione operata dall'alto: ma vi risparmiamo le sentenze della Cassazione in un periodo in cui tutta la magistratura remava nella stessa direzione. Traduzione: a pochi interessava fare l'eroe e attendere in carcere un processo da celebrarsi chissà quando: gli interessava uscire dalla galera preventiva il prima possibile e vedere normalizzata la vita sua e della sua famiglia, ergo poter uscire dal procedimento (uscire di scena) colpevole o innocente che si ritenesse.
Da qui, a primeggiare nelle statistiche dell'inchiesta, l'altissimo numero di patteggiamenti legati alla discrezionalità dei magistrati e alle concessioni che l'indagato fosse disposto ad accettare. I patteggiamenti o riti alternativi, in Mani pulite, sono stati circa i due terzi del totale. Il ricorso al patteggia mento, in altri termini, divenne una scorciatoia pagata a caro prezzo per chi voleva uscire dal tritacarne del rito ambrosiano: chi non accettava, restava ostaggio della macchina giudiziaria - se non parlava, e resisteva perché magari non aveva niente da dire - oppure la sua posizione veniva spedita per competenza ad altre procure, tutte dita che mancano dalle ormai mostrificate mani di Travaglio: è successo in ben 1320 casi, con percentuali di proscioglimento altissime. A memoria: Clelio Darida, Franco Nobili, Daniel Kraus, Generoso Buonanno, un sacco di gente che nelle statistiche di Mani pulite e mostruose (perché hanno le dita di Travaglio) non risultano: come se a Milano avessero teso a sbarazzarsi delle posizioni scomode e indisponibili alla confessione liberatoria. Sui patteggia menti, infine, un esempio simbolico: gli stilisti Mariuccia Mandelli (Krizia) e Gianfranco Ferrè e Santo Versace, più altri inquisiti con l'accusa di corruzione, furono assolti in Appello: ma altri stilisti come Giorgio Armani e Gimmo Etro, inquisiti nella stessa indagine e pur dicendosi innocenti, in precedenza avevano scelto di patteggiare e quindi di ammettere una colpa che pure reputavano di non avere, in cambio di una pena ridotta; ma è giusto pensare che, se non avessero scelto il patteggiamento, sarebbero risultati innocenti anche loro. Invece Armani ed Etro, secondo le cifre ufficiali di Mani Pulite, risultano nel novero dei colpevoli. Qualcosa, e moltissimo altro, non quadra. Ne riparliamo in una prossima puntata, di numero inferiore - rassicuriamo - alle dita di Travaglio.
Mani Pulite, a Milano due indagati su tre non risultarono colpevoli. La macchina organizzativa di Mani Pulite fu così vorace che oggi non esistono dati certi su quelle inchieste. Di 700 casi non si sa più nulla. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.
Ma quanti sono stati i soggetti effettivamente coinvolti nell’inchiesta Mani pulite? Anche se i giornali hanno provato in questi giorni a dare dei numeri, è molto difficile avere un dato esatto in quanto l’inchiesta, partita dalla Procura di Milano, aveva interessato un po’ tutta Italia con gli stralci di numerose posizioni. Non essendo poi stato celebrato alcun “maxi processo” alla corruzione, ma tanti diversi dibattimenti, la ricerca statistica si complica ancora di più. All’epoca il ministero della Giustizia non aveva una raccolta dei dati, come avviene invece oggi: non esistendo infrastrutture informatiche, le ricerche potevano essere effettuate solo in maniera cartolare, partendo dalle iscrizioni nelle cancellerie.
Non ultimo, va considerato come nel 1992 fosse entrato in vigore da poco l’attuale codice di procedura penale, che modificava in radice il rito, archiviando il modello inquisitorio in favore di quello accusatorio. Erano stati previsti istituti del tutto nuovi. Si pensi, ad esempio, ai riti abbreviati e, fra questi, al patteggiamento, che da iniziale accordo fra le parti è successivamente stato equiparato ad una condanna a tutti gli effetti. E solo a Milano i patteggiamenti per reati contro la pubblica amministrazione e l’illecito finanziamento dei partiti erano stati oltre 500. Fra questi molti che, pur innocenti, avevano solo voglia di uscire quanto prima dal gorgo giudiziario. Comunque, considerando le sentenze di condanna, di proscioglimento (anche per intervenuta prescrizione)e quindi i patteggiamenti, Mani pulite ha interessato circa 4.250 soggetti.
Impossibile indicare per ognuno di costoro i reati contestati, anche perché ogni singolo soggetto poteva essere destinatario di diverse contestazioni, e in momenti successivi. Ed è impossibile calcolare i termini di custodia cautelare, a cui molti furono sottoposti e che venne usata come strumento di pressione per agevolare confessioni e chiamate in correità, così come puree non c’è modo di calcolare la media delle pene erogate.
Soffermandosi sugli “stralci” effettuati ad altri uffici giudiziari, il Corriere della Sera ha riportato nei giorni scorsi un dato enorme: 700 persone vennero indagate, e se del caso sottoposte a misure cautelari, dalla Procura di Milano senza averne competenza. Del destino di queste 700 persone non si è mai avuto contezza. Sempre il Corriere ipotizza che le loro posizioni processuali siano finite in prescrizione.
La Procura di Milano, comunque, al termine delle indagini, aveva chiesto il giudizio per 3.200 persone. Tolti i 500 patteggiamenti, i 480 prosciolti già in udienza preliminare, i colpevoli al termine del processo furono 1.300. In pratica meno di un terzo dei soggetti inizialmente iscritti nel registro degli indagati. L’unico dato certo in questo conteggio delle manette sono, purtroppo, i suicidi, 31, e i parlamentari coinvolti, 81. Di questi, gli assolti furono ben 61. A parte, dunque, i grandi nomi, di politici di livello nazionale o di famosi imprenditori, Mani pulite fra il 1992- 1994 colpì a pioggia, senza guardare molto per il sottile, notevolmente agevolati dal clamore mediatico.
L'anniversario di Mani Pulite. Tangentopoli fu un colpo di Stato fatto dai Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Febbraio 2022.
Il 17 febbraio del 1992 – domani sono trent’anni – fu arrestato Mario Chiesa, socialista milanese, e iniziò la sconvolgente avventura di mani Pulite. Un piccolo gruppo di Pm, spalleggiati da un Gip, guidati dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli, impiegarono circa un anno di lavoro per smantellare la prima Repubblica, frenare lo sviluppo economico del paese, annientare i vecchi partiti e i loro riferimenti sociali e acquistare un enorme potere, mettendo in scacco il Parlamento, il governo, l’opinione pubblica, sorretti dall’appoggio pieno e incondizionato di quasi tutti i giornali e le televisioni.
In un tempo piuttosto rapido furono eliminati prima i leader di secondo piano dei partiti, poi i loro massimi esponenti. L’obiettivo numero 1 era Bettino Craxi, perché lui era considerato, giustamente, il più robusto e indipendente dei capi della politica italiana.
Craxi aveva due difetti considerati imperdonabili: credeva nel socialismo democratico e credeva nell’autonomia della politica. Erano quelli i nemici. Il pool dei Pm agì velocemente e in appena due anni rase al suolo tutto l’impianto della democrazia italiana. Braccò Craxi, lo costrinse ad espatriare e poi fece in modo che morisse, in Tunisia, senza poter rientrare a curarsi in Italia. Ci furono migliaia di arresti, molti poi risultarono innocenti. Alcuni suicidi. Morti in carcere.
Il risultato? Lo vediamo oggi, la politica si è arresa senza condizioni. È nata la repubblica giudiziaria nella quale tutti viviamo e nella quale il potere delle Procure è praticamente assoluto. L’economia italiana, che era la più fiorente d’Europa e aveva portato l’Italia al quarto posto tra le potenze economiche del mondo, si è accartocciata su se stessa. Hanno pagato soprattutto i poveri. Sia in termini economici sia di perdita della libertà.
Oggi non sappiamo neppure se esiste la possibilità di reagire. E sappiamo che, certo, viviamo ancora in un regime democratico, ma che ha divorziato dallo stato di diritto.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
30 anni dal suicidio del dirigente del Psi. Sergio Moroni e la lettera a Napolitano prima del suicidio: parole attuali da cui non abbiamo imparato nulla. Biagio Marzo su Il Riformista il 7 Settembre 2022.
Nell’anniversario della morte di Sergio Moroni, che fu deputato nonché segretario regionale del Partito socialista italiano della Lombardia.
Moroni si sparò, con il fucile da caccia in bocca, lasciando una lettera indirizzata all’allora Presidente della Camera, Giorgio Napolitano, che la lesse in un’Aula ammutolita e incapace di prendere posizione davanti alla slavina giudiziaria populista che avanzava. Nella lettera, c’è la riflessione del personaggio figlio della politica di quell’epoca in cui si militava in un partito e per il partito. In parole povere, ammise l’appartenenza al sistema partitocratico, ma lungi da lui di averne tratto profitto, cioè di essersi arricchito con la politica.
Moroni fu indagato dal pool Mani pulite per finanziamento illegale dei partiti e la sua morte fu una morte politica e non fu l’unico caso. A pensarci, espresse efficacemente il suo il peso del suo atto estremo: “Quando la parola è flebile, non resta che il gesto”. Non è tutto. C’è nella lettera spedita a Napolitano, un passaggio di un politico dalla vista lunga: “Al centro sta la crisi dei partiti ( di tutti i partiti) che devono modificare sostanza e natura del loro ruolo. Eppure non è giusto che avvenga attraverso un processo sommario e violento…”. Ancora. “Né mi estranea la convinzione che forze oscure coltivano disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la ‘pulizia’. Un grande velo di ipocrisia (condivisa da tutti) ha coperto per lunghi anni i modi di vita dei partiti e il loro sistemi di finanziamento”.
Nel settembre del 1992, l’avviso di garanzia, al contrario di ciò che recita il Codice penale, era il reato più infamante che potesse colpire un politico. Con lo strombazzamento del circo giudiziario mediatico. Uno dei due “direttori d’orchestra”, il vice procuratore, Gerardo D’Ambrosio, così commentò: “Noi ci siamo limitati a perseguire, reati. Poi c’è qualcuno che si vergogna e si suicida”. Di seguito, l’immancabile Piercamillo Davigo: “Le conseguenze dei reati devono ricadere su chi li ha commessi e non su chi li ha scoperti”. La nemesi ha detto la sua poi su chi voleva rivoltare l’Italia come un calzino. Il concerto fu eseguito da orchestrali che suonarono contro Moroni, tra questi ricordiamo alcuni: Giorgio Bocca, Vittorio Feltri e Massimo Fini. Quest’ultimi due scrivevano sull’Indipendente – direttore Feltri- il quotidiano che più degli altri si contraddistinse a favore di Mani Pulite e dell’antipolitica.
Insomma gettarono le basi del populismo giudiziario che, in verità, vive e vegeta, anche oggi, con arresti di massa. A ben vedere, non fu l’unico organo di stampa a combattere la politica e la Prima repubblica soprattutto, ma ebbe compagni d’avventura in tutti i mezzi di informazione scritti e parlati. Chi non ricorda i telegiornali di Berlusconi, per esempio, quello condotto su Rete 4 dal telecronista giudiziario, Paolo Brosio, che “alloggiava” sotto il palazzo di giustizia di Milano, per informare i telespettatori degli arresti eccellenti. Moroni nella missiva dice la sua su questo argomento: “Né mi pare giusto che una vicenda tanto importante e delicata si consumi quotidianamente sulla base di cronache giornalistiche e televisive a cui è consentito di distruggere l’immagine e dignità personale di uomini solo riportando dichiarazioni e affermazioni di altri. Mi rendo conto che esiste il diritto di informazione, ma esistono anche i diritti delle persone e delle loro famiglie.
A ciò si aggiunge la propensione allo sciacallaggio di soggetti politici che, ricercando un utile meschino, dimenticando di essere stati per molti versi di un sistema rispetto al quale, si ergono censori. Non credo che questo paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da “progrom” nei confronti della classe politica, i cui limiti sono noti, ma pure ha fatto dell’Italia uno dei Paesi più liberi dove i cittadini hanno potuto non solo esprimere le proprie idee, ma operare per realizzare positivamente le proprie capacità e competenze”. E, comunque, la lettera è di grande attualità e, alla luce dei fatti profetica, per gli avvenimenti che si sono succeduti dal 1992 al 2022. Il passato che non passa. La morte di Moroni, – anzi le morti per mano giudiziaria -, è segnata dalla verità di Mani pulite; verità che non è rivoluzionaria, più delle volte è menzognera. Di fatto, come la guerra dei trent’anni di Mani pulite. Biagio Marzo
Una rivoluzione che impose lo Stato etico. Da chi era composto il pool di Mani Pulite, i paladini del bene contro i politici corrotti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022
Francesco Saverio Borrelli – L’aristocratico feroce
L’unica volta in cui il Procuratore capo di Milano degli anni di mani Pulite si era veramente offeso, fu quando l’avevo descritto in un articolo come persona per bene ma scialba, una sorta di omino “in grigio”. Era prima di Tangentopoli e lui appariva così, in ufficio o alla prima della Scala. Ma aveva ragione a non riconoscersi in quella definizione, perché “dopo” si manifestò completamente diverso. E divenne colui che non arrossiva nel dire: «Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».
Se poi questo tipo di choc abbia lasciato sul campo morti e feriti, fa parte del gioco per cui il fine giustifica sempre il mezzo. E non si versa mai una lacrima per i 40 e più morti suicidi di Tangentopoli, così come il non consentire a Bettino Craxi di venire a curarsi e farsi operare a Milano, e lasciarlo morire esule. E poi assumere il ruolo di capo dell’opposizione politica al leader che non piace, Silvio Berlusconi. Prima consigliargli di non candidarsi in presenza di “scheletri nell’armadio”, e poi offrire se stesso al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. E infine passare dal vero corpo a corpo con il nemico di sempre con quel “resistere, resistere” gridato con il piglio del capopopolo nell’aula magna del Palazzo di giustizia, fino al melanconico addio politico della sconfitta, quando chiede «scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».
Piercamillo Davigo – Sottile? Macché
Di sottile, colui che fu indebitamente definito “dottor sottile” (mentre era piuttosto uno bravo ad “aggiustare”) dai soliti giornalisti laudatores, non ha mai mostrato neppure l’ombra. Al contrario è sempre stato piuttosto muscolare nelle sue apparizioni pubbliche, manifestando senza timore la sua cultura da Santa Inquisizione, a disagio con le regole e le procedure. Cosa che ha dimostrato anche di recente. Era quello non di sinistra del pool, ma non meno politico degli altri.
Fin da quando parlò della necessità di “rivoltare l’Italia come un calzino” e poi stese il testo (pare sia stato proprio lui) di quella clamorosa protesta del gruppetto che andò in televisione a protestare contro un provvedimento del governo, il famoso “decreto Biondi” sulla custodia cautelare. Teorizzò il proprio diritto all’”obiezione di coscienza” quando “vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere”. In che cosa consiste la sua etica? Nel teorizzare che l’indagato A non esce dal carcere finché non denuncia B e C, i quali a loro volta devono denunciare altri. Tutti in galera. Ci dicono che arrestiamo troppo? La verità è che qui si scarcera troppo, disse un giorno. Può tornare a essere libero solo chi fa i nomi di altri, perché “diventa inaffidabile per il sistema del malaffare”. Sottile?
Gherardo Colombo – Fonzie tormentato
Proprio come Fonzie, non riesce a dire “ho sbagliato”. Nel suo percorso di oggi, che lo ha portato a capire l’inutilità del carcere e persino l’eccesso dell’intervento penale su problemi sociali o economici, c’è un abisso di vuoto di memoria su quel che lui stesso ha detto e fatto negli anni di Mani Pulite. Proprio sull’uso del carcere. Non riesce, come Fonzie, a dire più di “ho sb..”, anzi neanche quello. Fa fatica persino a riconoscere le palesi violazioni di legge, come quella, per esempio, sulla predeterminazione del giudice naturale e la competenza territoriale. Pure lo sapeva di essere fuori legge, quando, in una discussione con il suo amico Francesco Misiani, pm a Roma che gli contestava «..e poi non è che ogni volta possiamo fare finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza..», rispondeva disinvoltamente «…se esiste una sola possibilità di arrivare in fondo a Tangentopoli, questa possibilità ce l’abbiamo noi».
E intanto il pool di Milano teneva in carcere l’ex ministro Clelio Darida e il presidente dell’Iri Franco Nobili, che saranno in seguito assolti, quando le inchieste in cui erano imputati saranno tornate all’alveo della competenza territoriale, cioè a Roma. Una certa spregiudicatezza Gherardo Colombo la ebbe ancora, in due diverse circostanze. Quando mandò i finanzieri in Parlamento per sequestrare i bilanci del Psi, grave sgrammaticatura istituzionale, come disse uno scandalizzato Giorgio Napolitano, cosa di cui il procuratore Borrelli fu costretto a scusarsi (lui sì). Non sapeva neanche che i bilanci dei partiti sono pubblici? E ancora quando –erano ormai passati tremila giorni da Tangentopoli e Mani pulite– tirò un vero siluro politico e affossò la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema con un’intervista sparata a tutta pagina dalla prima del Corriere, in cui denunciava “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. E raccontava la storia d’Italia come storia criminale. Le riforme morirono allora, mille giorni dopo Mani Pulite. Per mano di uno che oggi non crede più neanche nell’uso del diritto penale come soluzione dei problemi sociali.
Tiziana Parenti – L’intrusa
L’intrusa era l’ultima arrivata, veniva da Genova e pareva, a occhio, una di sinistra. Forse per quello fu accolta nel pool e le fu affidato il filone che avrebbe potuto (non necessariamente dovuto) portare al Pci-Pds. Nessuno aveva fatto i conti con la caparbietà di Tiziana Parenti. La sua storia nel gruppo di Mani Pulite comincia e finisce con un’informazione di garanzia che la giovane pm osò inviare all’amministratore del Pds, il senatore Marcello Stefanini. Quel che era parso normale finché si erano turbati i sonni dei dirigenti della Dc e del Psi, provocò il terremoto quando si arrivò a toccare il partito di D’Alema e Occhetto. Il partito gridò alla “strategia della tensione”.
Ma nel frattempo a Milano due pezzi da novanta come Maurizio Prada, tesoriere della Dc e Luigi Carnevale, che svolgeva lo stesso ruolo nel Pci, avevano rivelato con molta precisione il sistema della spartizione delle tangenti fra i tre principali partiti, Dc, Psi e Pci, sulle grandi opere. Come finì? Con il famoso intervento del procuratore D’Ambrosio in favore di Primo Greganti e con la cacciata di Tiziana Parenti dal pool in quanto “fuori linea”. L’anno dopo la pm entrò in politica, candidata in Forza Italia. E oggi svolge, felicemente, il ruolo di avvocato a Roma.
Francesco Greco – Il rivoluzionario pigro
Uno scritto in cui lo avevo definito “frivolo” ( l’introduzione al libretto di Giancarlo Lehner “Borrelli, autobiografia di un inquisitore”) aveva suscitato l’interesse di Bettino Craxi, che da Hammamet mi aveva mandato un messaggio, dicendosi interessato a capirne il significato. La prevista telefonata poi non ci fu, diversamente gli avrei spiegato che a mio parere Francesco Greco era semplicemente diventato magistrato un po’ per caso. Così ne parlava il suo (ex) amico Francesco Misiani: «Francesco, come molti di noi, invitava nei congressi all’abbattimento dello Stato borghese..». La toga indossata per caso, ma poi il mancato rivoluzionario, quello delle riunioni “del mercoledi” con Primo Moroni, il libraio più trasgressivo d’Italia, ha finito per prenderci gusto proprio con Mani Pulite, arrivando a definire quello il periodo “più bello della mia vita” .
Sarà anche stato bello, ma qualcosa di brutto ci fu, quando lui stese quella relazione di servizio con cui mandò il suo amico di Magistratura Democratica, il suo maestro e mentore Francesco Misiani davanti al plotone del Csm a farlo processare per incompatibilità ambientale a causa della sua amicizia con il procuratore di Roma Renato Squillante. È strano che questo magistrato per caso sia poi diventato lui stesso il capo della procura più famosa d’Italia. E che l’incendiario sia diventato più che pompiere. Con tutto quel che ne segue, fino all’inchiesta dei magistrati di Brescia sulla procura ormai la più disastrata d’Italia e lo stesso Greco in pensione con una finale di carriera non proprio brillante.
Gerardo D’Ambrosio – Soccorso rosso
Era stato per tutti noi cronisti giudiziari lo “zio Gerri”, il simpatico bonario giudice istruttore di Piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, inchiesta chiusa con qualche nostra delusione. Poi in Procura, nella veste di vice di Borrelli, divenne il militante difensore d’ufficio del Pci-Pds. Neppure lui negò a se stesso qualche stilla di cinismo, quando dopo il tragico suicidio di Sergio Moroni, che fece commuovere anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano che nell’aula di Montecitorio aveva letto la sua lettera in lacrime, aveva commentato: «Si può morire anche di vergogna». Senza vergognarsi a sua volta. Neanche di continuare la carriera per due volte come senatore di quel partito che gli doveva tanto.
Fin da quando, nella sua veste di procuratore, aveva preso per mano l’imputato Primo Greganti, funzionario comunista tutto d’un pezzo, trovandogli prove a discarico meglio di qualunque difensore di fiducia. Aveva scoperto che Greganti, nella stessa giornata in cui aveva prelevato 621 milioni di lire dal conto svizzero Gabbietta, aveva anche acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova -aveva detto- che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Inchiesta chiusa. Ma due anni dopo, quando il ministro Mancuso, guardasigilli del governo Dini, manderà gli ispettori al pool di Milano, si scoprirà la relazione di un graduato della guardia di finanza che aveva rivelato come la Procura di Milano avesse rifiutato di ricevere un documento che attestava come il famoso rogito per l’acquisto della casa a Roma fosse stato stipulato in banca alle 9,30 del mattino, e non in seguito al prelievo nella banca svizzera. I 626 milioni avevano preso un’altra strada, quindi. Le casse del Pci-Pds? Del resto lo stesso D’Ambrosio aveva definito chiuse le inchieste di Tangentopoli con le responsabilità della Dc e del Psi. Tertium non datur, aveva detto, anche se non in latino.
Antonio Di Pietro – Il testimonial
Non è mai stato il Capo del pool Mani Pulite. Ne è stato l’esecutore e anche l’immagine, il Testimonial. Amato dagli italiani, anche con le sue debolezze che lo rendevano simile a tutti quelli che facevano i cortei intorno al Palazzo di giustizia gridando ”facci sognare”. E mentre lui, chiuso nel suo ufficio in ciabatte agitava le manette e gli imprenditori milanesi facevano la fila per farsi interrogare, diventare delatori e mandare in carcere gli altri per non finirci loro, i suoi colleghi si trastullavano vendendo all’opinione pubblica la sua immagine come figurina sacra. L’origine contadina con il trattore rosso e la mamma con il foulardino nero in testa facevano proprio sognare.
Ma proprio le sue debolezze e una sentenza in cui era stato parte lesa ma che le aveva rese palesi e lui era descritto come un avventuriero (e contro cui lui non fece appello) e il timore fondato di una brutta fine nel procedimento disciplinare aperto al Csm, ne determinarono l’uscita dalla magistratura. E la caduta del personaggio, non sanata dal successivo suo ingresso in politica come ministro e come fondatore del movimento moralistico “Italia dei valori”. La vera storia di Di Pietro è finita con la “sentenza Maddalo”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
30 anni da Mani Pulite. Il risultato di Tangentopoli: 40 suicidi e centinaia di innocenti incarcerati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022
Mani Pulite e Mani Sporche. Tutto sta a intendersi, per giudicare questi trent’anni, quelli che ci separano da un piccolo episodio che creò una grande valanga politica, un colpo di Stato senza armi. Ma con il sangue, quello dei morti suicidi, da Sergio Moroni a Gabriele Cagliari e gli altri quaranta. Le vittime di quella rivoluzione che assunse un nome da Stato Etico, quello di Mani Pulite. Il contraltare di chi aveva invece le Mani Sporche. La storia la scrivono i vincitori, questo lo si sa. Ed è chiaro che da quei due anni tremendi che furono il 1992 e il 1993, quelli delle bombe con le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e in contemporanea le inchieste di Tangentopoli, chi uscì con le ossa rotta fu la Politica.
Cinque partiti che avevano governato l’Italia per quarant’anni, distrutti. E il partito forte dell’opposizione di sinistra, il Pci, colpevole come gli altri ma salvo perché complice dei pubblici ministeri e traditore dei sodali con cui aveva sempre spartito il “bottino”. Che poi bottino non era, ma finanziamento illecito. Tutto era partito da Milano, da quella che diventerà proprio allora la procura più famosa e vezzeggiata d’Italia e che oggi piange le proprie macerie. E proprio a Milano i due tesorieri della Dc e del Pci avevano illustrato ai magistrati il meccanismo del trenta per cento nella spartizione delle tangenti che gli imprenditori pagavano alla politica sulle grandi opere. Avevano anche spiegato che nella quota destinata al Pci, due terzi andavano nelle casse della segreteria nazionale occhettiana e un terzo era destinato alla minoranza “migliorista”. Questa parte del finanziamento illecito dei partiti rimase però in ombra, per motivi generali (ai magistrati era utile avere un partito importante che appoggiava la loro inchiesta) e anche relativi all’impronta di sinistra dei principali uomini del pool.
Bettino Craxi, che era un grande statista e uomo di governo, ci aveva provato, con il suo appello in Parlamento, a trovare una soluzione politica. Ma era necessario che tutti i partiti che erano stati complici nella spartizione e i cui bilanci erano falsi o falsificati, trovassero il coraggio e la forza per una pubblica comune dichiarazione di responsabilità e un comune programma di svolta. Prevalsero la vigliaccheria e la speranza da parte di alcuni di potersi appropriare delle spoglie dei partiti in via di distruzione. Anche questo fu uno degli aspetti della debolezza della politica. Che accettò di essere definita come il soggetto delle Mani Sporche, tanto da rinunciare all’unico contrappeso che la Carta dei Costituenti aveva previsto a bilanciare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, cioè l’immunità parlamentare.
Fu quello il vero momento della sconfitta. Anche perché, sopra il cadavere dei partiti affondati le acque si erano chiuse, creandone la tomba. Toghe, imprenditori e giornali avevano stretto la politica a tenaglia. I ministri della Giustizia caduti come birilli, ogni tentativo di riforma spazzato via dal broncio dei pm, mentre i quotidiani con i loro proprietari beneficati da accordi di alto livello erano diventati i servi muti di ogni sospiro di Borrelli o D’Ambrosio. Di conseguenza pareva normale il fatto che Romiti e De Benedetti avessero evitato le manette e se la fossero cavata con la presentazione di memoriali, mentre la stessa cosa non fu concessa a Raul Gardini fino al suo suicidio. E altrettanto normale parve il fatto che mentre il gallo (il padrone) faceva chicchirichì, al Palazzo di giustizia di Milano le galline (i cronisti giudiziari) rispondessero coccodè in girotondo intorno al pool di piemme, anche loro ormai organizzati in piccolo pool, con le magliette che inneggiavano a Di Pietro e la bottiglia in frigo per brindare alla prima informazione di garanzia nei confronti di Craxi. Così, di normalità in normalità alle Mani Sporche della politica si rispondeva con le Mani Sporche di Mani Pulite.
Era Mani Sporche violare i principi della libertà personale e del diritto di difesa, del principio del giudice naturale e della competenza territoriale, della presunzione di non colpevolezza. Era Mani Sporche l’uso della custodia cautelare in carcere. Per chi è entrato a San Vittore in quei giorni e ha visto l’ex ministro di giustizia Darida, persona per bene che, proprio come Cagliari, alla vista del parlamentare diceva di non preoccuparsi per lui ma per i tanti ragazzi buttati lì come bestie. O l’assessore regionale Serafino Generoso in sciopero della fame, arrestato due volte e due volte assolto. Perché c’era l’ossessione: devi parlare, devi fare i nomi, parlami di Craxi. Quello era il clima, peggio che nei processi di mafia o di terrorismo. I procuratori volevano i nomi, i nomi. Craxi, Craxi. Anche questo era Mani Sporche.
Ma ancora non ci siamo, visto che proprio ieri il Corriere della sera dava i numeri (un po’ strampalati, in verità) per dimostrare che con Mani Pulite i condannati erano tanti e gli assolti pochi. Come se il problema fosse solo quello. Come se non sapessimo che ben pochi giudici avrebbero avuto in quegli anni il coraggio di mettersi contro i capitani coraggiosi con le Mani Pulite. Ma perché non parliamo anche delle Mani Sporche che hanno violato le regole? Perché almeno uno dei quattro (Davigo, Di Pietro, Colombo, Greco) che andarono in tv a dire che si sarebbero dimessi perché con il decreto Biondi non avrebbero più potuto arrestare, non spiega oggi quel che successe dopo? Cioè dopo che riuscirono a far ritirare dal governo Berlusconi il decreto, come mai di tutti quelli che erano stati scarcerati loro ne rimisero in prigione meno del dieci per cento? Anche questo è Mani Sporche.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Quel giorno tutto cominciò, anzi finì. Da Mario Chiesa alle assoluzioni e ai 45 suicidi: Mani pulite e la scomparsa dei partiti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 18 Febbraio 2020
Quella sera a Milano. “Hanno arrestato Mario Chiesa”. “E chi è?”. E’ il 17 febbraio del 1992, il consiglio comunale è riunito – da un mese è caduta la giunta “rossa” e gli eredi del Pci non torneranno più a Palazzo Marino fino al 2011 – e la tensione è molto alta perché il Tar ha annullato 400 nomine sia di municipalizzate che di società per azioni quali Sea (aeroporti), Mm (metropolitane) e Sogemi (mercati generali). La situazione è paradossale perché il ricorso al Tar era stato presentato dai democristiani quando erano all’opposizione e oggi sono in imbarazzo per aver innescato una slavina che danneggia la giunta di cui loro ormai fanno parte.
Mentre la sinistra del Pci-Pds che era stata compartecipe di quelle nomine è agitata perché non vorrebbe perderle. Quattrocento “clientes” disoccupati all’improvviso sarebbero una bella pugnalata. Per questo quella sera a Milano il clima politico era caldo, quando d’improvviso qualcuno lanciò la bomba in mezzo al consiglio comunale. Toccò a un uomo dell’opposizione, Tomaso Staiti di Cuddia, parlamentare del Msi, chiedere la parola sull’ordine dei lavori e dire a voce alta quel che si stava già bisbigliando tra i banchi e nei capannelli dei corridoi intorno all’aula: era vero che era stato arrestato Mario Chiesa, beccato con una mazzetta di sette milioni di lire che aveva tentato di buttare nel cesso? Il neo-sindaco di Milano Piero Borghini, moderato ex vice direttore dell’Unità, voluto personalmente da Craxi alla guida della città al posto di Paolo Pillitteri, ebbe un moto di orgoglio.
Proprio come Aldo Moro quando in Parlamento aveva detto “non permetterò che si processi la DC né qui né nelle piazze”, liquidò la domanda con un “Non sono a conoscenza di nessuna notizia che riguardi il dottor Chiesa né permetterò processi senza imputati né imputazioni”. Prese allora la parola un preoccupatissimo Carlo Smuraglia, consigliere del Pci-Pds e famoso avvocato che pochi mesi dopo siederà in Senato per tre legislature: “Nessun processo – disse – ma la cosa ci riguarda da vicino. Chiesa è stato nominato da noi alla guida di un ente comunale, il Pio Alberto Trivulzio”. Nel parlamentino milanese per tutta la sera le facce rimasero corrusche. E che facce, in quello che fu l’ultimo consiglio comunale della prima repubblica! C’erano due ministri, il dc Virginio Rognoni, titolare della Difesa e il liberale Egidio Sterpa, ministro dei rapporti con il Parlamento.
Poi c’era il dc Andrea Borruso, sottosegretario agli esteri, il repubblicano Antonio Del Pennino, capogruppo del suo partito alla Camera dei deputati. Il Pci-Pds aveva messo in campo il deputato Franco Bassanini, Barbara Pollastrini e Chicco Testa, futuro presidente dell’Enel. Il drappello della Lega, che cominciava a farsi sentire come movimento anti-sistema, era guidato da Umberto Bossi. E c’ero anch’io, unica rappresentante antiproibizionista del Partito radicale. Ero all’opposizione sia della giunta di sinistra che di quella moderata e non conoscevo Mario Chiesa. Ma gli altri sì, lo conoscevano bene. Sedeva in quell’aula una classe politica di tutto rispetto, che nel giro di pochi giorni fu resa debolissima perché a Milano, come nel resto del Paese, erano ormai altri i Poteri che contavano. Il capoluogo lombardo è una città piccola, anche per estensione. Niente a che vedere con le grandi capitali del mondo e con la stessa Roma, che ha anche il triplo dei suoi abitanti. Ma mai come in quei giorni fu importante il perimetro che congiungeva nel centro di Milano il Palazzo di Giustizia con la sede di Assolombarda e quella dell’Arcivescovado. E i palazzi dei grandi giornali. E il carcere di San Vittore. Palazzo Marino era nella penombra di piazza della Scala, a poche centinaia di metri dai luoghi del potere e mai come allora da questi lontano.
L’Arcivescovado parlò idealmente quella sera con le parole di un giovane consigliere comunale dell’Aziona cattolica, Giovanni Colombo, considerato vicino al cardinal Martini, arcivescovo di Milano, che si scontrò con il sottosegretario Borruso, esponente di Comunione e Liberazione e prendendo le distanze dal proprio partito disse: “Io vi propongo oggi l’onestà come valore politico”. E si capì bene chi fosse stato il suo ispiratore quando qualche tempo dopo, a un convegno organizzato dall’Anm, il sindacato dei magistrati, lo stesso cardinal Martini, sommerso dagli applausi, disse che “ce n’era bisogno e bisognava fare pulizia”. La sentenza morale era arrivata prima di quella dei tribunali. Era tramontato in quei giorni il partito unico dei cattolici. A poche centinaia di metri da Palazzo Marino e dall’Arcivescovado svetta il Palazzo di giustizia costruito nel ventennio fascista dall’architetto Piacentini. Poco più in là, in via Pantano, c’è la sede di Assolombarda, l’associazione degli imprenditori della regione “locomotiva d’Italia”. Nei corridoi del tribunale succedono cose strane, in quei giorni.
Il procuratore capo della repubblica Francesco Saverio Borrelli pare favorevole ad accettare un patteggiamento di Mario Chiesa con confessione per la tangente e venti mesi di carcere. Anche perché è da poco entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che favorisce i riti alternativi. Non la pensa così il giovane sostituto Antonio Di Pietro, che da bravo ex poliziotto preferisce l’inquisizione e le tecniche poliziesche di interrogatorio e, a quanto pare, ha qualche carta nascosta che potrebbe portarlo alla caccia grossa. Di Pietro riesce a stoppare Borrelli, fa parlare Chiesa e lo libera dopo 45 giorni, alla vigilia delle elezione politiche, le ultime della prima repubblica. Quel giorno chi doveva capire, capì. Capirono subito gli imprenditori. Soprattutto dopo la retata del 21 aprile, quando l’arresto dei primi otto di loro si trasformerà in una slavina. Gli otto capirono al volo, nominarono i difensori giusti (i famosi “accompagnatori”) e dissero di esser stati obbligati dalla politica a pagare. Erano concussi, non corruttori.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Mani pulite, la stagione dei suicidi. Roberta Caiano su Il Riformista il 19 Novembre 2019
Tangentopoli e tutto ciò che ne conseguì non solo cambiò il volto della politica italiana, che segnò la fine della cosiddetta Prima Repubblica, ma provocò 41 suicidi tra politici e imprenditori. Conosciuta anche come l’inchiesta di Mani Pulite, deve il suo nome al Pm Antonio Di Pietro il quale aprì un fascicolo alla Procura di Milano nel 1991 dando inizio alle indagini. Il vero inizio, però, si ha nel febbraio 1992 quando Di Pietro chiese e ottenne un ordine di cattura nei confronti dell’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Psi di Milano.
Dapprima Chiesa, incarcerato a San Vittore, si rifiutò di collaborare con il pubblico ministero, ma in seguito confessò che lo scandalo delle tangenti era in realtà molto più esteso di quello che si riteneva. Da quel momento lo scalpore si allargò a macchia d’olio attraverso una risonanza mediatica molto forte.
I PRIMI SUICIDI – Furono 41 le persone che si tolsero la vita a causa di queste indagini. La maggior parte lo fece al di fuori dal carcere o ancora prima di essere ufficialmente indagati. Questo accadde come conseguenza della pressione dell’opinione pubblica, per il timore che si venisse marchiati a vita, oltre che condannati. Il primo a suicidarsi fu Franco Franchi, coordinatore di una USL di Milano. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi sarebbe rientrato e così si uccise nella sua auto soffocato dal monossido di carbonio. A seguire ci furono quello del segretario del Partito Socialista di Lodi, Renato Morese, che si tolse la vita con un colpo di fucile alla testa, poi quelli di Giuseppe Rosato, della Provincia di Novara, Mario Luciano Vignola, della Provincia di Savona, e dell’imprenditore di Como Mario Comaschi.
I SUICIDI ECCELLENTI – Il 2 settembre del 1992 è la volta del deputato del Partito socialista Sergio Moroni. Tesoriere del partito in Lombardia, a Moroni vengono notificati ben tre avvisi di garanzia per una serie di presunte tangenti e il pool di Mani Pulite chiede alla Camera l’autorizzazione a procedere. Moroni scrive una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parla di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiuta che venga definito come un ladro e contesta di non aver mai preso una lira concludendo con una frase inquietante: “ma quando la parola è flebile non resta che il gesto“. Il 2 settembre si spara un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia.
Uno dei nomi più famosi è quello Gabriele Cagliari. Presidente dell’ENI ed uno dei più importanti manager pubblici, dopo 4 mesi nel carcere di San Vittore si toglie la vita soffocandosi con un sacchetto di plastica. La sua vicenda è quella che ha destato più scalpore perché vengono trovate delle sue lettere in cui esprimeva il suo senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto. Cagliari più volte aveva dichiarato di essere all’oscuro delle tangenti ma la pressione proveniente dall’esterno della cella è stata più forte portandolo al suicidio.
A soli tre giorni dalla morte di Cagliari, si uccide un altro indagato: Raul Gardini. Il manager, a capo dell’impero agro-alimentare della famiglia Ferruzzi di Ravenna, viene indagato per una maxi-tangente da 150 miliardi dell’affare Enimont. Quando uno dei suoi dirigenti viene arrestato in Svizzera, Gardini pensa che lui sia il prossimo ad essere arrestato così si toglie la vita nella sua casa di Milano. Infine il 25 febbraio del 1993 viene ritrovato il corpo senza vita di Sergio Castellari, ex direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38.
Risultano brutali le parole di Piercamillo Davigo del pool di Mani Pulite “la morte di un uomo è sempre un avvenimento drammatico. Però credo che vada tenuto fermo il principio che le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono non su coloro che li scoprono“. Roberta Caiano
Il ruolo della Corte. Mani pulite e carcere preventivo, tutte le colpe della Cassazione. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
L’articolo di Tiziana Maiolo del 16 febbraio sui trent’anni di Mani Pulite ha giustamente messo in rilievo il ruolo avuto in quella vicenda dalla Procura di Milano e dagli organi di informazione, che l’hanno affiancata. Vi è stato, peraltro, un altro protagonista, restato sempre dietro le quinte, ma il cui contributo è stato decisivo. Si tratta della Corte di Cassazione. La quale ha legittimato l’ondata di arresti e conseguenti confessioni, che hanno caratterizzato quel periodo.
Ciò avvenne attraverso tre precise direttrici. Innanzitutto, con un sofisma di bassa lega, la Corte affermò che era certamente illegittimo ricorrere al carcere per estorcere delle confessioni, ma che, al tempo stesso, era pienamente giustificato liberare le persone quando avessero confessato, perché la confessione avrebbe segnato il distacco dal contesto corruttivo, in cui avevano operato. Quindi, non sei in carcere per confessare, ma se confessi ti liberiamo. E così avvenne che le carcerazioni duravano fino alla confessione, autentica o costruita che fosse.
Del resto, una volta ottenuta la confessione con chiamata in correità di altre persone, questa diventava prova incontestabile a carico dei nuovi accusati, atteso che non era neppure necessario che quella prova fosse sottoposta al vaglio del controesame. Centinaia di processi si svolsero con i pubblici ministeri che depositarono in udienza i verbali delle confessioni ottenute in carcere, senza che i difensori dei nuovi accusati da quelle confessioni potessero interrogare chi le aveva rilasciate. Ed i processi si sono conclusi, senza la reale possibilità di verificare se quelle chiamate in correità fossero o no rispondenti a verità.
In secondo luogo, il criterio di valutazione dei “gravi indizi di colpevolezza”, richiesto dal codice di procedura penale per ricorrere alla carcerazione preventiva, fu profondamente svilito. I gravi indizi dovevano, difatti, essere visti in una “prospettiva dinamica”. Il che significava che qualsiasi elemento, anche debole ed incompleto, siccome suscettibile di rafforzarsi nello sviluppo delle indagini, era idoneo a legittimare la privazione della libertà personale. In definitiva, un altro sofisma, con il quale si svuotava di contenuto un requisito fondamentale previsto dal codice come condizione indispensabile per l’utilizzo della carcerazione preventiva. Era evidente che, in questo quadro, la chiamata in correità in una confessione legittimava ampiamente la moltiplicazione delle misure cautelari.
L’ultima sottigliezza, infine, riguardò l’effetto di un eventuale accoglimento dei ricorsi in Cassazione. Il buon senso porterebbe a ritenere che un provvedimento di carcerazione impugnato, se annullato dalla Cassazione, avrebbe dovuto implicare la liberazione. Ma la Corte di Cassazione osservò che se, come di regola avviene, alla sua attenzione giungono le impugnative alle decisioni del Tribunale del riesame, l’annullamento con rinvio di tali provvedimenti lascia comunque in piedi l’originaria ordinanza di custodia cautelare emessa dal GIP. Di conseguenza, le persone devono restare in carcere, sino ad un eventuale esito favorevole del giudizio di rinvio.
In poche parole: è vero che il provvedimento che ti mantiene in carcere è viziato, ma ci devi restare lo stesso. La Corte di Cassazione, dunque, ebbe un ruolo fondamentale nel legittimare quel costante abuso dell’utilizzo della carcerazione preventiva, che fu uno dei tratti salienti di Mani Pulite e che, incontestabilmente, ebbe un ruolo decisivo in quella operazione. È “giusto”, nella ricorrenza dei trenta anni, darne atto. Astolfo Di Amato
Mani Pulite: l’arresto di Mario Chiesa e l’inizio di Tangentopoli. Redazione Notizie.it il 17/02/2022
L'inchiesta "Mani Pulite" comincia qui, nel bagno di una casa di riposo per anziani di Milano, il 17 febbraio 1992.
Sono le 17:30 di lunedì 17 febbraio, è il 1992, nell’ufficio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e politico di primo piano del PSI milanese, sta per fare il suo ingresso Luca Magni, imprenditore monzese e amministratore delegato della Ilpi, l’Impresa Lombarda Pulizie Industriali.
Tra i due ci sarebbe un accordo, l’assegnazione di un appalto da 140 milioni di lire in cambio di una tangente del 10%, quello che Chiesa però ancora non sa è che quell’incontro è solo l’inizio della fine della Prima Repubblica.
L’inchiesta “Mani Pulite” comincia qui, nel bagno di una casa di riposo per anziani di Milano.
L’arresto di Mario Chiesa
Il giorno di San Valentino a Milano, per l’appuntato Domenico Lupinetti e il carabiniere Francesco Fancello, conosciuti meglio con lo pseudonimo di Lupo e Falco, è un giorno qualunque. Lo è stato, almeno fin quando alle porte del Comando di via Moscova non si è presentato Luca Magni.
È lui che sporge denuncia contro Chiesa, stanco di pagare le mazzette. Puntava all’appalto per le lavanderie del PAT.
Un affare. Gli avevano chiesto il 10 % o non avrebbe vinto. Lui fa un nome.
Prima di quel giorno, puntare alla politica era quasi impossibile. Della corruzione c’erano le voci ma mai gli elementi per arrestare qualcuno.
La denuncia passa dal capitano Zuliani che la gira al pubblico ministero in turno. È Antonio Di Pietro, che in quel periodo si occupava di patenti false. Chiesa al tempo era nel giro della Milano che contava, conosceva tutti e faceva da collettore per le tangenti del partito del segretario Bettino Craxi.
Quel giorno si decise di intercettare la consegna dei 14 milioni. In una busta vengono messe le banconote, alcune sono firmate per essere riconoscibili, ma si decide di consegnarne solo 7 di milioni. La valigetta è una mandarina duck, con telecamera e microspia. Alcuni giorni dopo, il brigadiere Sebastiano De Jannello, fingendo di essere il suo assistente, accompagnò Magni allo scambio, puntando la telecamera contro Chiesa.
Giù in auto, sul retro della baggina – come la chiamano i milanesi – ci sono Lupo e Falco, il cavo della telecamera si stacca ma la cimice funziona ancora. Lo scambio avviene e Chiesa rassicura Magni, dice che la sua percentuale si può rateizzare. Lì c’è il segnale “La torta è pronta” e Falco sale su nell’ufficio del presidente del Pio Albergo Trivulzio.
Chiesa all’arrivo dei Carabinieri cerca di occultare la tangente, ne afferra un’altra, da 37 milioni, scaricando le banconote nel gabinetto di un bagno, poi tenta la contro-denuncia – poco credibile, le banconote firmate sono già all’interno di un cassetto della scrivania. È concussione. Nell’appartamento della sua casa in via Mosé Bianchi, i carabinieri trovano 160 milioni in un altro cassetto, quello della cucina. Per Chiesa si spalancano le porte di San Vittore. L’ingegnere non parlò mai, almeno finché Craxi non gli dette del mariuolo e Mani Pulite decollò.
Mario Chiesa, dal PAT a Tangentopoli
Chiesa, classe ‘44, è laureato in Ingegneria Elettrica. Inizia a fare politica nel PSI alla fine degli anni Sessanta e si fa le ossa nel quartiere milanese di Quarto Oggiaro, fino a dirigere il PAT.
Ma il Trivulzio non gli basta, la sua ambizione è la politica, il potere. Chiesa si fa strada nell’élite politica locale, diventando amico della famiglia Craxi, consigliere comunale prima e assessore poi. Ma la sua vera aspirazione è Palazzo Marino. Vuole diventare sindaco di Milano e prendere il posto di Giampiero Borghini, in una città che è vestita dai colori socialisti sin dal dopoguerra. Una via facile, scontata, alla portata di uno come Chiesa. Servono soldi, tanti soldi, e tante conoscenze, che il direttore del Trivulzio può vantare.
D’altronde prima di Borghini, a Palazzo Marino, c’è stato Paolo Pillitteri, cognato di Craxi, che aveva preso il posto di un altro socialista, Carlo Tognoli. Per entrambi, il primo maggio 92 scatterà l’avviso di garanzia.
Per Chiesa sembra andare tutto nella giusta direzione, fino a quel 17 febbraio.
Quello scandalo, iniziato con una piccola mazzetta e che oggi chiamiamo Tangentopoli, ebbe ampie ripercussioni anche in Svizzera. Era lì, dietro alle porte sicure e impenetrabili degli istituti di credito elvetici, che andava a finire il denaro sporco, quello delle stecche versate a funzionari e politici. Centinaia di conti sospetti, bloccati e confiscati dalle autorità.
I primi furono proprio quelli legati a Chiesa. Nello specifico, due relazioni bancarie, a Lugano, denominate Levissima e Fiuggi, come il nome delle famose acque in bottiglia, limpide agli occhi dei magistrati, che fino a quel momento navigavano nelle acque torbide degli intrecci del PSI. Entrambe erano intestate alla sua segretaria, Stella Monfredi, che nelle pagine dell’Unità veniva descritta come una ragazza tranquilla, colpevole soltanto di non sapere che a suo nome c’era anche un conto da 5 miliardi di lire.
Poi anche migliaia di milioni in una cassetta custodita nella Banca Provinciale Lombarda di Paullo, farina del sacco di Chiesa, che scorreva nel fiume dei miliardi che si scambiavano all’ombra del garofano.
Al telefono con il legale di Chiesa c’è Antonio Di Pietro: “Avvocato, l’acqua minerale è finta”. Sono bastate queste parole per far capire all’ingegnere milanese di essere al capolinea. Rimasto solo, isolato e rigettato dal suo stesso partito, Chiesa, dopo cinque settimane di carcere e un interrogatorio di oltre una settimana, vuota il sacco. Il caso esplode, escono fuori nomi di altri politici e imprenditori coinvolti in un giro che si rivela molto più esteso di quanto gli stessi magistrati potessero immaginare.
Un sistema in cui la tangente – a Milano come in tutto il Paese – era divenuta una sorta di “tassa”, dritta nelle casse della Democrazia Cristiana, del PSI e del PCI. Chiesa ottiene i domiciliari, la classe politica trema, e la squadra di Mani Pulite – il pool – prende vita.
1992, Mani pulite e la Calabria: Mancini, Craxi e le fioriere di Reggio Calabria. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 17 febbraio 2022.
NEL 1992, in Calabria, terra di malaffare politico, si aspetta che il vento del Nord alimentato dal pool dei giudici milanesi di Mani Pulite arrivi a far pulizia di corrotti e malfattori. Reggio Calabria è dilaniata da una feroce guerra di mafia ma quell‘anno si aggiungerà molto altro.
IL SINDACO DI REGGIO CALABRIA
Agatino Licandro, 36 anni, nel 1990 era diventato il sindaco più giovane della città. Figlio d’arte democristiano. La Dc da Roma cercava di mettere ordine in una città in cui avevano ammazzato Vico Ligato, il potente della città già azzoppato dallo scandalo delle lenzuola d’oro da presidente della Ferrovie dello Stato. Licandro tuona contro la ’ndrangheta in consiglio comunale e sull’Espresso. Dialoga con Leoluca Orlando, il rinnovatore. Sarà lui il Mario Chiesa di Calabria. Nel luglio del 1992, mentre da tempo incassa tangenti per grandi opere da distribuire alla politica di ogni ordine e grado, è costretto alle dimissioni su una semplice richiesta di rinvio a giudizio. In procura i magistrati Pennisi e Verzera adottano il metodo della scuola milanese. Un abuso amministrativo sull’arredo urbano della città catapulta Reggio Calabria sull’asse del Nord.
E’ lo scandalo delle fioriere. Un banale abuso d’ufficio. Un acquisto senza appalto di 97 milioni fa scattare gli arresti per l’intera giunta Licandro. Pochi mesi prima il sindaco era pronto a candidarsi alle politiche. Ma Forlani in testa aveva chiesto di restare in Comune: “La città ha bisogno di te”.
LICANDRO CANTA
Sarà lui il Mario Chiesa di Calabria. Nel luglio del 1992, mentre da tempo incassa tangenti per grandi opere da distribuire alla politica di ogni ordine e grado, è costretto alle dimissioni su una semplice richiesta di rinvio a giudizio. In procura i magistrati Pennisi e Verzera adottano il metodo della scuola milanese. Un abuso amministrativo sull’arredo urbano della città catapulta Reggio Calabria sull’asse del Nord. E’ lo scandalo delle fioriere. Un banale abuso d’ufficio. Un acquisto senza appalto di 97 milioni fa scattare gli arresti per l’intera giunta Licandro. Pochi mesi prima il sindaco era pronto a candidarsi alle politiche. Ma Forlani in testa aveva chiesto di restare in Comune: “La città ha bisogno di te”.
La partitocrazia reggina è decapitata. Pds e Msi cavalcano la protesta. Accade l’imprevedibile, Agatino detto Titti collabora con la giustizia e vuota il sacco su una città corrotta fino al midollo. Il 18 settembre di quello storico 1992 gli arresti sono veramente eccellenti. Finiscono in carcere in 18. Tre ex sindaci, amministratori, ex parlamentari, consiglieri regionali, persino un giornalista. Ma i nomi eccellenti sono i manager dell’Iri-Italstat e della Lodigiani che hanno pagato le tangenti ai partiti di governo. Un miliardo in lire di cresta su un appalto di 113 per il Centro direzionale. Lo scandalo è nazionale.
Licandro in città lo apostrofano come “Titti dei Rolling Stones” per le sue cantate. Torna a lavorare in banca ma non è gradito. Neanche al Circolo di società dove tutti chiedevano favori e prebende. Licandro va via da Reggio e sparisce per anni. Patteggia la pena a pochi mesi.
LA CITTA’ DOLENTE
Licandro lascia una testimonianza imponente che è il più importante spaccato di quel tempo. Con Aldo Varano pubblica “La città dolente”. Sono le confessioni di un sindaco corrotto che ancora oggi aiutano a comprendere come si finanziava la politica. La vicenda giudiziaria finirà nel tempo in una grande bolla. Licandro ogni tanto tornerà a Reggio nel corso del tempo rilasciando interviste ai media locali. Vive lontano. Quella clamorosa vicenda a Reggio Calabria sostituisce una classe dirigente. Quella precedente passa all’oblio.
MANCINI NON ELETTO IN PARLAMENTO
In quel 1992 si vota per il rinnovo del Parlamento. Al Nord è il trionfo della Lega, si affaccia la Rete di Orlando. Si vota con la novità della preferenza unica decisa dal referendum di Mario Segni. Giacomo Mancini, pregato da Craxi, fa da capolista, per dare credibilità alla lista socialista. Dopo dieci legislature, viene clamorosamente trombato da una congiura ben orchestrata. E’ un colpo durissimo. Ma il vecchio leone sa attendere.
LA MORTE DI BALZAMO
Il 14 ottobre l’amministratore nazionale del Psi, Vincenzo Balzamo, è raggiunto da un avviso di garanzia del pool milanese. Il tesoriere viene colpito da un infarto mortale prima che inizi il processo nei suoi confronti. E’ una delle vittime di Tangentopoli.
L’INTERVISTA DI MANCINI AL CORRIERE DELLA SERA
Balzamo aveva fatto parte della corrente manciniana. L’8 novembre Giacomo Mancini rilascia un’intervista al Corriere della Sera. Difende il suo compagno e dice “Balzamo era il segretario amministrativo, ma la parte delle entrate che conosceva era quella che riguardava i grandi progetti dell’edilizia, i lavori pubblici. Ma la vastità del fenomeno, i flussi di finanziamento che hanno avuto come destinatario il Psi non sono certamente passati da Balzamo, non sono stati registrati. Li conosceva solo Craxi”.
Nella vivace pubblicistica del tempo è la notizia del giorno. Non sfugge ai magistrati di “Mani pulite”.
DI PIETRO CONVOCA MANCINI A MILANO
Dieci giorni dopo, Mancini, come persona informata sui fatti, viene convocato in Procura a Milano. A porre le domande sono Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro. Nel verbale è documentato che Mancini conferma i contenuti dell’intervista e spiega i meccanismi di finanziamento del Psi. Un mese dopo Craxi sarà raggiunto dal primo di numerosi avvisi di garanzia a suo carico.
Non c’è prova provata che il verbale di Mancini abbia dato l’indizio decisivo al pool di giudici. Mancini fece opera di verità e di rivalsa politica. La questione tornerà d’attualità nel 2015, quando a Tangentopoli viene dedicata una serie di grande successo, 1992, ideata da Stefano Accorsi.
La prima serialità, che mescola verità e finzione, si chiude con Giacomo Mancini (interpretato da un per niente somigliante Pietro Biondi) che va dai giudici a denunciare Craxi.
Il Corriere è creato ad hoc, con titolo diverso. Non è quello autentico. Mancini sembra il vecchio cattivo di una trama. Abbiamo potuto ricostruire la genesi del plot con il regista della serie, Giuseppe Gagliardi, calabrese di successo. “1992’ ha avuto fior di consulenti giornalisti, da Filippo Facci a Marco Damilano. Sulla base dei loro resoconti la parte creativa ha apportato svisate inventate. Il Mancini della fiction non è quello della Storia.
L’OMICIDIO AVERSA
La Calabria del 1992 era in attesa di un riscatto messianico. Come in tutta Italia il tintinnare delle manette ai politici era molto gradito. L’anno si era aperto con l’uccisione del sovrintendente di polizia a Lamezia, Salvatore Aversa, e della moglie, Lucia Precenzano. Poche settimane dopo la “svolta” sulle indagini con la supertestimone Rosetta Cerminara. Vicenda tristemente attuale che, in quel complicato periodo, farà nascere un professionismo dell’Antimafia molto praticato da sociologhe, giornalisti e maestri del nuovo pensiero che arriva ai giorni nostri.
LE INCHIESTE DI CORDOVA
A Palmi opera Agostino Cordova. Mette sottosopra la Piana a più alta densità mafiosa della regione. Torturando un sigaro avvia inchieste sull’Enel che si intrecciano con i grandi scandali nazionali, manda i carabinieri a sequestrare facsimile dei candidati nelle case dei picciotti, scova un conto protetto a Palmi che risponde al nome di una tedesca amica del Guardasigilli dell’epoca, Claudio Martelli. Persegue la massoneria deviata. Ma quei verdetti saranno in larga parte assolutori, le inchieste a volte non sono arrivate neanche in aula.
A COSENZA E CATANZARO
A Cosenza la magistratura è attendista. Ci sono piccoli sussulti. Un assessore socialista viene pescato con i gioielli in tasca dai carabinieri. Pietro Mancini lo mette fuori. Le grandi inchieste arriveranno qualche anno dopo. Ma la tangentopoli cosentina che vede alla sbarra il senatore Franco Covello finisce con una raffica di assoluzioni. Catanzaro registra schizzi di fango per Agazio Loiero a processo per i fondi neri del Sisde. Sarà prosciolto da ogni accusa nel 2000.
LA STAGIONE DEI SINDACI
Anche Lamezia sarà scossa dal terremoto italiano. Consiglio comunale sciolto per mafia, processo per l’ex sindaco socialista. Da quelle macerie spunterà un giudice, Doris Lo Moro, che diventerà sindaco. Sarà il fattore M. Quello dei municipi. Dal 1992 nasce l’onda lunga che crea nuove maggioranze nei comuni calabresi. Argiroffi a Taurianova, la destra che alza mani pulite nella Sibaritide a Corigliano e Rossano. Un’altra donna per la prima volta porta la sinistra al potere a Paola: si chiama Antonella Bruno Ganeri. Giacomo Mancini conquista Cosenza con liste civiche.
A Reggio, sulle rovine di una città a pezzi, avanzerà e diventerà progetto realizzato la città a misura d’uomo di Italo Falcomatà. Realtà di base costruiscono un nuovo municipalismo anche a Soverato. In quei mesi si accendono i primi fuochi di rivolta dell’Enichem. Poco dopo, Crotone, la Stalingrado del Sud, darà i suoi consensi alla destra.
QUELLO CHE RESTA
Dobbiamo registrare che Tangentopoli contribuì a migliorare le nostre città, ma non le aree interne. Gli anni Novanta vedranno un ritorno di molti laureati che dopo avere studiato fuori rivitalizzeranno la Calabria. Il ceto politico si rinnova, la magistratura sarà supplente contro il grande problema criminale. Il Porto di Gioia Tauro e le università diventano poli di sviluppo. Sono passati trent’anni da Mani Pulite. In Calabria quelle sporche prosperano ancora.
Giacomo Mancini, quel silenzio che suona come un'offesa. BRUNO GEMELLI su Il Quotidiano del Sud il 09 maggio 2022.
La città di Cosenza ha ricordato giustamente il ventennale della morte di Giacomo Mancini, l’uomo politico più importante che la Calabria abbia mai avuto. Tra gli eventi che hanno caratterizzato la ricorrenza ci sono stati: il ricordo, in presenza, di Claudio Martelli, il libro scritto dal giornalista Paride Leporace e il monumento realizzato dalla Fondazione Mancini.
Considerato lo spessore del personaggio, sia a livello nazionale e sia a livello regionale, non c’è stata, fuori dalla cintura daziaria, una eco altrettanto rilevante. Ma, se il silenzio nazionale si può capire ma non giustificare, il silenzio calabrese suona come un’offesa. Non risultano altre manifestazioni. Eppure la sua opera è scolpita in ogni parte della regione. Un’occasione sprecata per ragionare sulla storia di questa terra.
Nella sua densa vita politica Giacomo Mancini ha avuto al suo fianco personaggi importanti, come Aldo Aniasi, sindaco di Milano, e Antonio Landolfi, senza dimenticare che egli è stato un allievo di Pietro Nenni. In Calabria Mancini ha avuto molto vicino a sé tre intellettuali di alto spessore che, purtroppo, sono caduti nell’oblio.
L’avvocato Michele Cozza di Cosenza, e i professori Michele Riolo di Catanzaro e Gaetano Cingari di Reggio Calabria. Personaggi questi che avrebbero potuto benissimo coprire ruoli nazionali. Cozza diresse “La Parola Socialista” e fu prolifico in tanti altri saggi a sfondo politico ed economico.
Riolo, che proveniva dal Partito d’Azione, era un fine intellettuale, insegnante di lettere al liceo Galluppi, schivo e appartato. Cingari, originario di Campo Calabro, già deputato socialista, era ordinario di storia all’Università di Messina. Con questi riferimenti, Mancini non è mai stato un uomo solo al comando.
Quella lettera scritta da Mancini al ministro Mattarella per il bidello licenziato. VINCENZO RACO su Il Quotidiano del Sud il 22 Giugno 2022.
Al centro di aggregazione giovanile “Rocco Lombardo” la presentazione del libro di Paride Leporace, dal titolo “Giacomo Mancini – Un avvocato del sud”. Una sorta di racconto con aneddoti pubblici e privati della vita del grande segretario socialista, legato alla sua Cosenza ma anche al resto della Calabria.
Nella serata, organizzata dall’associazione Monasterace Arte del presidente Palmiro Spanò con il patrocino del Comune, Leporace ha dialogato con i relatori di giornata che imbeccati dal moderatore dell’incontro, il giornalista Pietro Melia, hanno parlato della figura di Mancini soffermandosi anche su esperienze personali avute con lui. Saluti istituzionali del vicesindaco Andrea Calabrese.
Il consigliere comunale Pino Quaranta è intervenuto in rappresentanza dell’associazione Monasterace Arte e ha parlato del rispetto, sia pure da ex democristiano, per un avversario politico di prestigio come Mancini e nel raccontarne la sua figura ha letto una missiva che lo stesso Mancini ha inviato a Palmiro Spanò, assente per motivi personali alla presentazione, una missiva in cui l’ex politico socialista ha scritto il testo con cui si è rivolto all’allora ministro dell’Istruzione Sergio Mattarella per parlare di una vicenda giudiziaria afferente lo stesso Spanò allontanato ingiustamente all’epoca dal suo lavoro a scuola e poi grazie a questa missiva reintegrato in servizio.
Di esperienza vissuta accanto a Mancini ha parlato Totò Palamara, ex segretario del Psi di Monasterace, che ha raccontato tanti aneddoti ricordando anche di suo padre Domenico Palamara e del compagno socialista Rocco Pacicca e delle ingiuste offese alla figura dell’ex sindaco di Cosenza e auspicando che il comune monasteracese intitoli una via al vecchio leone socialista. Ciccio Macrì, avvocato e ex sindaco di Marina di Gioiosa, ha raccontato la sua conoscenza e anche l’ispirazione avuta da lui e da tanti compagni socialisti soffermandosi su questioni inerenti all’organizzazione politica socialista.
Non poteva mancare il tema del garantismo caro a Mancini e affrontato con minuzia da Ilario Amendolia giornalista e scrittore, che ha parlato sia dei tempi passati che della situazione attuale in cui il giustizialismo la fa da padrone e da Giacomo Mancini ex parlamentare e assessore regionale e nipote del protagonista del libro che si è soffermato sul carattere forte e risoluto dell’amato nonno criticando le istituzioni che in venti anni non sono riusciti a ricordarlo come meritava.
Scoppia la guerra sulla memoria di Mancini: il figlio Pietro querela Facci. Il Quotidiano del Sud il 7 maggio 2022.
«Ho dato mandato al mio avvocato, Antonio Cersosimo, di sporgere querela per diffamazione nei confronti del sig. Filippo Facci, autore del libro “La guerra dei 30 anni”, edito da Marsilio».
Esordisce con queste parole Pietro Mancini, presidente della “Fondazione Giacomo Mancini” nel rendere nota l’iniziativa, presa a suo dire a scopo tutelativo della memoria del padre Giacomo. «In alcune pagine del volume – spiega Pietro Mancini – il Facci ricorre a espressioni offensive e irriguardose, indirizzate a mio padre, l’on.Giacomo Mancini (1916-2002), “colpevole”, soprattutto, a giudizio dell’autore, di aver risposto alla convocazione del pool “Mani pulite” di Milano, che stava indagando, nel 1992, sui finanziamenti illeciti ai partiti, tra i quali il Psi, che lo statista calabrese aveva guidato per 2 anni».
In particolare, «come hanno sostenuto numerosi osservatori, storici imparziali e come ho scritto io stesso nel libro “….Mi pare si chiamasse Mancini”, l’ex segretario spiegò a Tonino Di Pietro i meccanismi, che regolarono i finanziamenti al Psi, durante la sua breve leadership, e le differenze con la lunga epoca della segreteria di Craxi. Un’ampia e argomentata illustrazione politica, non un’accusa al suo successore di aver commesso reati, come scrissero i giornali, nel novembre del 1992, in primis il “Corriere della Sera”».
Ma «Facci ignora, completamente, questo aspetto rilevante – spiega Mancini junior – prima come consulente “storico” di 1992, una fiction di Sky, e poi nel suo libro, in cui offende una personalità, come Giacomo Mancini, stimata da amici e avversari, accostandolo al boss mafioso, poi “pentito”, Tommaso Buscetta».
Una difesa “doverosa”
A questo punto per Pietro Mancini è «doveroso, come figlio e Presidente della “Fondazione Giacomo Mancini”, sottoporre alla verifica dei giudici i “coraggiosi” attacchi e le contumelie, rivolte post-mortem al Leone socialista. Mancini ha combattuto, spesso da solo, a viso aperto, le sue battaglie politiche, non ricorrendo, mai, a metodi “infami”, come, con eleganza, li definisce il Facci».
Mancini poi aggiunge: «Credo che l’insistenza di alcuni, fortunatamente pochi, craxiani nell’inventare gombloddi e “cattivoni” per motivare l’ingloriosa fine del centenario Psi e la molto triste (anche per mio padre) scomparsa di Bettino, ad Hammamet, sia molto più comoda rispetto all’ammissione e all’analisi dei gravi errori, politici, commessi in quel drammatico periodo», mentre «quanto a Giacomo Mancini, le calunnie contro un leader scomodo, e molto avversato in vita, continuano, 20 anni dopo la scomparsa, anniversario ricordato, tra gli altri, da Claudio Martelli, per decenni il politico più vicino a Craxi.Come Fondazione, intitolata a Mancini, difenderemo, in ogni sede, la sua memoria. E non subiremo, in silenzio, le calunnie e gli attacchi livorosi».
La vita di Mancini, le spine e il fiore. MATTEO COSENZA su Il Quotidiano del Sud il 7 maggio 2022.
Prima o poi Paride Leporace avrebbe dovuto scrivere un libro su Giacomo Mancini. Ha colto l’occasione dei vent’anni dalla morte per consegnarci questo “Giacomo Mancini, un avvocato del sud” (Luigi Pellegrini editore, pag. 110, euro 13). Perché “prima o poi”? Per tanti motivi che attengono alla sua direi filiale frequentazione e collaborazione con Mancini, all’interesse per il politico calabrese più celebre di un’abbondante metà del secolo scorso (non si adontino gli estimatori di altri, per esempio Riccardo Misasi), al suo essere calato non solo per natali nella regione e soprattutto a Cosenza, ma anche per il cognome.
Ci ho pensato spesso da quando ho frequentato assiduamente la Calabria ricordando che Mancini mi disse nel mio libro-intervista un passaggio decisivo della sua biografia, vale a dire l’arrivo a Roma dopo l’8 settembre a conclusione di un lungo pellegrinaggio tra università di Torino e servizio militare nell’Aeronautica fino all’aeroporto militare di Novi Ligure: «Il mio primo incontro con l’antifascismo romano – mi raccontò – avvenne in un appartamento di Largo Argentina, occupato da Craveri, dove arrivai la prima volta con un mio caro amico cosentino, oggi affermato avvocato a Cosenza, Mauro Leporace, anche lui ex-ufficiale di commissariato aeronautico, simpatizzante del partito d’azione». Questi era lo zio di Paride.
Ciò detto, mi chiedo se ci fosse bisogno di un altro libro dopo quelli di Orazio Barresi (non amato da Mancini), di Enzo Paolini e Francesco Kostner sulle sue travagliate vicende giudiziarie, del figlio Pietro Mancini, soprattutto la puntuale biografia politica di Antonio Landolfi che con Mancini aveva avuto un legame amicale e politico ininterrotto, e senza voler ricordare ancora il mio? La risposta me la sono data alla fine della lettura, che è filata liscia in un sol colpo dall’inizio alla fine: merito del mestiere, della conoscenza e anche del taglio. Per quanto Leporace abbia seguito il filo del tempo la sua non è una biografia, piuttosto un ragionamento sul Sud come chiarisce il titolo dove per “avvocato del sud” sembra riferirsi a prima vista, grazie anche alla prima lettera minuscola, letteralmente a un avvocato delle nostre terre, e del resto Mancini non solo si era laureato in giurisprudenza a Torino con Florian, giurista di fama, ma esercitò anche la professione difendendo la parte civile per i fatti di Portella delle Ginestre. In realtà la definizione ha un valore più pregnante che vuole il Sud non solo come un’entità territoriale.
Va anche ricordato che nella vita ricca e tumultuosa di Mancini potrebbe risultare azzardato localizzare il suo impegno perché si trascurerebbero periodi ed eventi rilevanti quali le attività di ministro (si pensi solo alla vaccinazione antipolio, alla legge urbanistica, all’impegno dopo la frana di Agrigento, alle grandi opere dei lavori pubblici), di partito (segretario del Psi con annessi e connessi), di vigile guardia a difesa dei diritti civili e contro le deviazioni (il ruolo dei Servizi, il Sifar, gli ermellini), la navigazione perigliosa nei paraggi del terrorismo, ma la cifra è che la difesa del Sud maiuscolo è stata sangue e vene del suo lunghissimo itinerario pubblico.
Leporace mette a fuoco in maniera intrigante i periodi essenziali, scegliendo fior da fiore, e, pur in un contesto comprensibilmente partigiano, con parole e aggettivi fulminanti non elude aspetti criticati del politico, come, tra tutti, il suo ruolo nella tragica e cruciale vicenda della rivolta di Reggio o il rapporto tra consenso e voti che nel Mezzogiorno ha fatto non pochi guai o ancora l’aver privilegiato figli e nipoti e non aver lasciato eredi politici.
Ma alla fine il bilancio non è in rosso. L’autostrada, l’università di Arcavacata, il porto di Gioia Tauro per quanto sorto sull’aborto del Quinto Centro Siderurgico e sulla distruzione abominevole di un patrimonio ambientale e produttivo di prima grandezza, sono titoli che resteranno nel tempo.
Il finale del libro e anche della vita di Mancini, un “socialista inquieto”, è fatto di spine e di un fiore. La spina politica che lo turberà nel profondo è l’emarginazione nel partito, il parricidio da parte di Craxi che al Midas proprio lui aveva portato al vertice e che fu ripagato con una clamorosa deposizione al tribunale di Milano in un processo di Mani Pulite. L’altra, dolorosissima ferita, fu quella che avvelenò i suoi ultimi anni quando dovette difendersi dall’accusa velenosa e vergognosa di contiguità con la ‘ndrangheta. La rosa – la capacità di politico di razza che risorge dalle ceneri ad ogni caduta – fu la totale, piena e definitiva riconciliazione con la sua Cosenza.
Sindaco amato e venerato, ha lasciato i segni indelebili di una visione riformistica nell’amministrazione, nella cultura, nelle opere, nella promozione coraggiosa di uomini e donne anche scomodi. Leporace si commiata con un’immagine forte dei funerali in cui si evocano e rimpiangono i simboli di una tradizione politica unica, dai proletari del “Quarto Stato” al feretro accompagnato dalle bandiere rosse, e chiude con due righe dolenti: «…quel socialismo umano e garantista di cui in forme moderne sentiamo ancora il desiderio e il bisogno». Quella sua statua appena installata davanti al Palazzo dei Bruzi sta lì a ricordarcelo.
Vent'anni senza Giacomo Mancini, il ricordo di Pietro. PIETRO MANCINI su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2022.
VENTI anni dopo la scomparsa, Giacomo Mancini – “l’anima scomoda del socialismo italiano”, come il “Corriere della Sera” lo definì, il giorno dei suoi affollati funerali – è ricordato e rimpianto anche dagli avversari. Che, insieme a noi familiari, ma non alle autorità, hanno contribuito alla realizzazione della statua di Domenico Sepe, lo scultore che ha eseguito quella di Maradona.
Mio padre commise, certo, degli errori, ma quel caparbio e riservato deputato riformista del Sud (con me sempre affettuoso, mai burbero) riuscì a far comprendere che i mali del Mezzogiorno andavano attribuiti anche alla classe dirigente meridionale.
Il dirigente più vicino a Pietro Nenni, all’epoca dei governi di centrosinistra, dimostrò che alcune cose (dall’Università a Cosenza all’autostrada Sa-Rc, dalla vaccinazione antipoliomelite alla salvezza dell’Appia Antica dagli speculatori) si potevano realizzare, nei tempi giusti. E che, con impegno e senza il cappello in mano dei politici, la questione meridionale e le riforme possono uscire dai polverosi “libri dei sogni”. La sua guida del Psi durò solo 2 anni e non lo proiettò a ruoli più importanti che, secondo numerosi storici, avrebbe meritato.
Mancini fu un convinto assertore (uno degli ultimi) dell’autonomia della politica e del PSI, oltre che dalla DC e dal PCI, dai “poteri forti” allora molto più influenti di oggi. E pagò la sua fermezza con l’addio alla segreteria pre-Craxi, con pesanti attacchi, con le intercettazioni abusive delle telefonate e con violente campagne diffamatorie, non solo dei fascisti, che impiccarono la sua effigie, durante la “rivolta” di Reggio Calabria. Capì, in anticipo, le carenze e la crisi dei partiti, in primis del suo Psi, dirette da leadership autocratiche. Se Craxi avesse recepito qualche allarme (i meno giovani ricorderanno i manifesti, affissi a Cosenza: “Caro Bettino, non siamo d’accordo!”), forse, il Psi non sarebbe stato travolto dalla tempesta di Tangentopoli. E non sarebbero, troppo presto, usciti dalla scena dirigenti di valore, come Claudio Martelli, con il quale Giacomo mantenne sempre, anche nelle fasi più tempestose, un rapporto di amicizia e stima.
Da garantista convinto, difese Enzo Tortora e i dirigenti dell’Autonomia operaia, come Toni Negri e Franco Piperno, pur non condividendone le idee.
Dopo aver lasciato il Parlamento, non si ritirò in campagna, ma fece di Cosenza una “città europea”. E morì, da sindaco, l’incarico, che il suo caro amico, Francesco Cossiga, definì “il più utile e onorevole di tutti gli uffici importanti, che Giacomo, un genio della concretezza, ricoprì, in modo esemplare”.
Grazie a tutti, in particolare ai giovani, che vorranno approfondire il pensiero e l’attività politica, al governo e da primo cittadino, rimpianto, di Giacomo Mancini, un “guerriero senza spada, Con un piede nel passato e lo sguardo, dritto e aperto, nel futuro….”.
"Giacomo Mancini. Un avvocato del sud". Il libro a 20 anni dalla morte del Leone socialista. In libreria dal 14 aprile il pamphlet che il giornalista Paride Leporace ha dedicato all’ex ministro e sindaco di Cosenza. Il Quotidiano del Sud il 7 aprile 2022.
La scelta del vaccino Sabin, grazie al quale fu possibile debellare la poliomelite. La lotta contro l’abusivismo edilizio. La frana di Agrigento e la “legge ponte”. La costruzione dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria. L’impegno – poco conosciuto – a favore dei soggetti con disabilità per consentirne l’accesso nei luoghi pubblici. Il garantismo come leva e rafforzamento della democrazia. La vicenda giudiziaria, con la pesante accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dalla quale fu completamente scagionato. E l’esperienza di Sindaco a Cosenza, che concluse la sua lunga esperienza politica. Sono i fatti messi a fuoco nella veloce, ma appassionante ricerca contenuta nel volume Giacomo Mancini. Un avvocato del sud, edito Luigi Pellegrini, che il giornalista Paride Leporace, vice direttore de “il Quotidiano del Sud”, ha dedicato all’ex leader socialista del quale domani, 8 aprile, ricorre il ventennale della scomparsa.
“Non ho inteso scrivere una nuova biografia – spiega l’autore – ho voluto soltanto, incoraggiato da molti amici e, soprattutto, dall’editore Walter Pellegrini, restituire alla conoscenza collettiva una serie di passaggi cruciali della vicenda politica manciniana, certamente tra le più significative e originali della storia repubblicana”.
Il lavoro di Leporace assume, in effetti, un valore significativo per l’opportunità che offre, soprattutto ai più giovani, di conoscere una figura di rilievo della politica italiana, apprezzata per la lungimiranza delle idee e la concretezza delle azioni.
Meridionalista autorevole, inflessibile fustigatore di scelte, prassi e comportamenti della classe dirigente, nazionale e locale, che hanno pesantemente nociuto sulle prospettive di sviluppo e sulla soluzione dei problemi di questo territorio, Ministro della Sanità, dei Lavori pubblici e del Mezzogiorno, Giacomo Mancini è stato negli anni ’60 del secolo scorso “un socialista che ha cambiato lo stato di molte cose”.
Il genuino interprete di un pragmatismo, cui si guarda oggi con nostalgia, capace di saper cogliere ogni opportunità utile al cambiamento di uno status quo economico, sociale e culturale che riteneva ingiusto e mortificante. E mai smettendo di proiettare lo sguardo verso dimensioni e orizzonti estranei al provincialismo cui la politica ha spesso indugiato, così come in rapporto alla sonnolenta coscienza civile, che ha negativamente inciso, e tuttora pesa, sul destino del Mezzogiorno e della Calabria.
Giacomo Mancini. Un avvocato del sud, in definitiva, può essere considerato un utile contributo per favorire la conoscenza di questa autorevole e prestigiosa figura della politica italiana.
Il pamphlet di Paride Leporace sarà presentato nelle prossime settimane sul “Terrazzo Pellegrini”, nell’ambito delle iniziative promosse per celebrare il settantesimo compleanno della casa editrice (1952/2022).
Vent'anni senza Giacomo Mancini. Confronto con quelli che sono venuti dopo. Governi spesso senza calabresi e leadership molto deboli. La nostra politica dopo la scomparsa del leader socialista. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2022.
Quattro lustri fa moriva Giacomo Mancini, uno dei più grandi statisti della Calabria, leader politico nazionale che fece contare le ragioni del Sud, della sua regione, della democrazia e del socialismo.
Osserviamo che l’unica riflessione odierna annunciata per oggi è “soltanto” quella della Fondazione di famiglia. Il silenzio sull’anniversario della Regione, del Municipio di Cosenza, delle agorà di sinistra e dei socialisti è molto rumoroso. Forza del presente o grande rimosso della politica regionale è un primo tema del giorno dell’anniversario.
Altre sedi sono deputate ad analizzare e dibattere di quello che è stato realizzato, quello che si poteva meglio fare, quello che fu sbagliato. Molti se e ma, che non faranno la Storia ma risultano utili al ragionare di politica, si potrebbero adoperare per poter dispiegare il gioco del “se c’era lui”.
Ritengo utile, invece, nel ricordo di Giacomo Mancini, analizzare questi vent’anni senza il suo intuito e decisionismo per meglio comprendere come siamo cambiati e chi sono i suoi eredi, con eventuali affinità e divergenze.
Un ventennio che ha registrato 11 governi nazionali di diverso colore politico, compresi quelli tecnici dettati da emergenze clamorose. In ben 4 di questi nessun politico calabrese ha diretto ministeri, anche quelli senza portafoglio. Sei i presidenti della Regione eletti con il voto del popolo e che nella complessità hanno raggiunto pochi risultati strutturali, rassodando pregiudizi negativi nei confronti di una Calabria infelix, per stessa ammissione dei calabresi.
Vent’anni sono un periodo storico. Titolo da Dumas, utile a capire cosa è accaduto dopo Giacomo Mancini e chi ne ha preso il posto e con quali risultati.
I personaggi di rilievo sono pochi. Ma va spesso così. Tra le anomalie, Agazio Loiero per esempio. Dalla Prima alle soglie della Terza Repubblica deputato e ministro. Agli Affari regionali si è distinto politicamente per aver fronteggiato con capacità le tendenze scissioniste della Lega. Dotato di ottima cultura ha provato a far leva su circoli intellettuali ma senza scardinare gli assetti chiave della Calabria. Ha tentato di costruire una Regione nuova da presidente, ma gli alleati interni sono stati i suoi principali avversari. Minacciato da ‘ndrine e processato 4 volte, sempre assolto. Sensibile ai temi dei migranti e autonomista, forse per brutto carattere non ha realizzato il suo disegno. Resta la sua voce autorevole e gesuitica.
Nel Pantheon calabrese del ventennio resta anche Stefano Rodotà. Ha sfiorato il Quirinale, ma il suo servir civile era molto da livello nazionale. Pur rivendicandosi calabrese poco potè incidere sui destini della sua terra.
Marco Minniti ha sicuramente occupato la scena nazionale della politica. Ministro dell’interno, Lothar di diversi presidenti del Consiglio, uomo forte per lungo tempo degli eredi del Pci calabrese. Fu proprio lui a riconciliarli con Giacomo Mancini e non ha saputo impedire le derive interne del Pd fomentate dai signori delle tessere e dei voti. Lascia l’orrore dei campi libici stigmatizzati anche da Papa Francesco. Alieno alle sorti della Calabria, ha pensato alla sua carriera personale.
Mario Oliverio, alleato ex comunista di Mancini, parlamentare peones di lungo corso (ha avuto più mandati di Fausto Gullo, altro gigante del passato) ha costruito modelli virtuosi come Presidente della Provincia di Cosenza franando clamorosamente alla guida della regione Calabria, fermato anche da inchieste giudiziarie finite a nulla.
Le aule di Giustizia con verdetto di condanna archiviano, invece, Giuseppe Scopelliti, ex enfant prodige della destra calabrese e nazionale che a Reggio Calabria come sindaco ha prodotto lacerti di rinnovamento oscurati da magagne e camarille da basso impero e mondo di mezzo alla Regione.
Jole Santelli, che proveniva alla lontana dal mondo manciniano, fu sottosegretaria sempre fedele a Berlusconi, e quando si apprestava a confrontarsi con il cambio di passo decisivo alla guida della Regione, le Parche hanno reciso il filo della sua vita.
Oggi è il tempo di Roberto Occhiuto che, giovane ora, iniziò imberbe quando la Dc era ancora viva. Avversò Mancini e fece carriera per gradi arrivando ad essere capogruppo di Forza Italia alla Camera. Non si ricordano sue grandi azioni sulle questioni di bene pubblico, si spera che ne compia molte in questo tempo difficile.
Ha lasciato molto di più a Cosenza, al di là del bene e del male, il fratello Mario da sindaco, abile nel costruire modelli ed opere spesso in continuità con Giacomo Mancini. Anche lui è stato fermato per via giudiziaria dalla possibilità di guidare la Regione. Una costante della vita regionale, che riguardò anche Mancini, l’allora sindaco non vinse solo un processo ma anche una partita politica.
Poteva essere Guardasigilli Nicola Gratteri, ma fu fermato giustamente da Macaluso e Napolitano. Passerà alla Storia solo come magistrato, ma dubitiamo che la ‘ndrangheta possa perire solo per il carcere duro.
Gigi De Magistris, altra toga passata alla politica, ha dato illusioni ai votanti e poltrone al suo Io ipertrofico. Nel sottobosco Nicola Adamo e Enza Bruno Bossio per consenso di lungo corso. Sono pure soddisfazioni.
È andata meglio in questi vent’anni con i sindaci. Mimmo Lucano, anche lui alle prese con discutibili vicende giudiziarie, è persona più che personaggio, che parla al mondo e che ai calabresi ha indicato un altro mondo possibile per la Calabria.
Purtroppo, in questi due decenni, non abbiamo avuto Italo Falcomatà, morto prima di Mancini con cui molto interagiva. Ha risollevato le sorti di Reggio Calabria, difficile per il figlio Giuseppe il confronto con il padre.
Sono stati buoni modelli municipali quelli lametini di Doris Lo Moro, che bene fece anche in Regione e al Parlamento, ma con poco potere e molti avversari; e anche Gianni Speranza fu capace di risollevare le umane sorti amministrative e progressive di Lamezia Terme.
Ha ben operato a Catanzaro, l’imprenditore Sergio Abramo, dando una visione nuova al capoluogo di Regione con opere e politica. Sconfitto alla Regione deambula tra cespugli centristi e veleni di vecchi alleati.
In vent’anni non abbiamo avuto ministri alla Mancini. Ci fu un rettore di Reggio Calabria, che seppe solo litigare con i compagni della sua area. Lascia alla Calabria solo le sue pubblicazioni e all’Italia una legge sulla sicurezza stradale che non ha prodotto grandi risultati. Il resto è poco.
Tonino Gentile che è stato sottosegretario viene ancora ricordato per la pubblicistica che lo tramandò ungolato feroce, il fratello Pino è sempre modello di consenso. Venivano da Mancini, anche loro, hanno lasciato eredità politica ai figli, ma alla Calabria mi pare ne sia venuto poco, si sono guardati molti gl’interessi di bottega.
Catricalà fu grand commis di rango e segretario di governo, De Gennaro un poliziotto capace con la mafia e protagonista di macellerie messicane al G8 di Genova, la farmacista Lanzetta ministro per un mese in una vicenda pirandelliana condita di minacce. Furono sottosegretari con poco mordente Gigi Meduri, anche presidente di Regione di cui Wikipedia rammenta solo incarichi e nessun provvedimento, Mario Tassone, vecchio giovane Dc, Francesco Nucara eterno repubblicano di ogni stagione, Aurelio Misiti, pronto ad ogni schieramento e che almeno aveva un’idea sul Ponte. Ma solo l’idea.
Il nuovo che avanza è di alcune donne. Dorina Bianchi, almeno otto cambi di casacca, ma possiamo sbagliare per difetto. Il più grande voto di protesta della Calabria ci ha dato anche Anna Laura Orrico, grandi capacità di ascolto, al momento solo quello e Dalila Nesci che produce quintali di comunicati e annunci. Potremmo aggiungere il senatore Morra all’Antimafia, dove Mancini operò da par suo, ma lasciamo Maramaldo a riposo.
Ci manca Giacomo Mancini? In vent’anni ne abbiamo visti della sua statura politica? Si accettano risposte.
Il saggio del difensore. Chi è Davide Steccanella, l’avvocato degli “indifendibili” Battisti e Vallanzasca. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Febbraio 2022.
Lui dice che «questo libro non è né un trattato sul processo penale né un manuale sul mestiere dell’avvocato…». Ma non è così, perché La giustizia degli uomini (Mimesis Edizioni, 18 euro) di Davide Steccanella dovrebbe proprio essere non solo letto, ma anche studiato. Dagli studenti di giurisprudenza, prima di altri. Sia che sognino di diventare dei Carnelutti, ma anche se si accontentassero del più modesto ruolo di un Di Pietro, visto che in questo febbraio 2022 siamo in clima di celebrazioni per il trentennale di un arresto, evento per il quale non si dovrebbe mai festeggiare. E questo dovrebbe essere il primo insegnamento, per gli studenti. Il secondo potrebbe riguardare il coraggio, quello di assistere “gli indifendibili”, come Cesare Battisti, il terrorista, e Renato Vallanzasca l’incontrollabile delinquente abituale.
Lui l’ha fatto, perché Davide Steccanella è un avvocato un po’ particolare. Prima di tutto perché non ritiene la propria professione una missione religiosa, e anche perché è diventato penalista un po’ per caso, benché figlio di avvocato. E si sa che le toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, generano altre toghe. Ma da lui abbiamo queste due garanzie di un rapporto “laico” con l’amministrazione della giustizia. Infatti il nostro autore è entrato per la prima volta nel sacrario del Palazzo di giustizia di Milano un po’ dalla porta di servizio, a ventiquattro anni, mentre era militare nel corpo dei carabinieri, cui all’epoca era affidato il servizio traduzioni dei detenuti dal carcere di San Vittore al tribunale. Così, negli anni in cui, pur avendo in tasca una laurea in giurisprudenza (quella che ti apre tutte le porte, come si diceva un tempo), non si è ancora ben deciso che cosa fare “da grandi”, il giovane Steccanella si ritrovò a guardare il processo con occhio neutro. Con stupore guarda il trattamento riservato ai detenuti. E li vede così: «Animali trascinati in catene da una gabbia all’altra nell’indifferenza generale, questo erano».
E le toghe? «…provavo un malcelato fastidio nel vedere quegli avvocati parlarsi addosso per ore davanti a tre signori, altrettanto agghindati che – seduti su una sorta di scranno reale con aria annoiata- il più delle volte neanche ascoltavano. Alla fine il signore seduto al centro – vecchissimo, ai miei occhi- leggeva il verdetto con tono solenne e dizione incomprensibile». Attenzione a vedere nelle impressioni di questo ragazzo qualcosa di superficiale, perché quello lì con la divisa da carabiniere aveva capito qualcosa di profondo, che il processo è violenza, e che tra le lungaggini e la noia delle toghe, quelle giuste e quelle sbagliate, c’è un soggetto-vittima, un animale in catene. In un canile, aggiungerà anni dopo un detenuto tragicamente eccellente, Gabriele Cagliari.
Davide Steccanella, avvocato per caso, quel palazzo lo frequenta ancora da trentacinque anni. E mette la sua esperienza, il suo vissuto, a disposizione di chi voglia conoscere senza gli occhi dell’ideologia o dello schieramento di campo. Ricorda senza piaggeria due grandi avvocati milanesi, Corso Bovio e Ludovico Isolabella, suo primo e unico maestro. Dipinge come pubblici ministeri-tipo, due ancora famosi ancorché da poco pensionati, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Il primo, la cui indole era «ontologicamente accusatoria, cosa che lo portava a ritenere che non esistessero imputati innocenti, ma solo imputati che erano riusciti a farla franca». Uno che pareva appartenere a quella “cultura becera” che considerava gli avvocati come azzeccagarbugli, «furbastri dediti… a lucrare sul crimine impunito».
La seconda colpiva, racconta l’Autore, per «… quella devozione ai limiti del maniacale allo Stato». «La sua missione era catturare i mafiosi, cosa che fece sebbene non tutti lo fossero davvero, prendendosi qualche ingiusto anno di galera». Descrizioni perfette dei due, più efficaci di tanti commenti. Con una considerazione generale, alla fine del capitolo. «Una cosa sono i pubblici ministeri “militanti”, durissimi e in buona fede, sebbene sorretti da certezze tanto granitiche da diventare sordi a qualunque istanza della difesa; altra cosa sono quelli che semplicemente giocano sporco». Ecco. Ma fuori dagli schemi dei personaggi famosi, dei militanti e di coloro che giocano sporco, per capire come funzionava (e funziona) spesso nella quotidianità il processo, ricordiamo un episodio che riguardò un riconoscibile (pur se non citato con nome e cognome) ex assessore regionale democristiano della Regione Lombardia.
Arrestato due volte, la seconda costretto al digiuno per sollevare un po’ di attenzione sul suo caso. Precisiamo che fu poi assolto in ambedue i processi. Ma nel secondo, ricorda Steccanella che fu suo difensore con Isolabella, la pm aveva chiesto la condanna a cinque anni di carcere. E avendole fatto notare il difensore che gli parevano un po’ tanti per un semplice tentativo, la “sventurata” ammise di non essersene accorta e modificò la richiesta a un anno e quattro mesi. Così, con indifferenza, per lei gli anni erano solo numeri, non furto di vita di persone. La carriera politica dell’assessore era finita ( da tempo fa l’avvocato), non quella della pm, che divenne giudice di cassazione. Con quale imparzialità possiamo immaginare.
Ma erano poche, in quegli anni di Tangentopoli, le occasioni per il giovane avvocato, oggi sessantenne, di andare a difendere un innocente. La gran parte del tempo gli avvocati lo trascorrevano facendo gli “accompagnatori” di indagati disposti a tutto, alla delazione, al tradimento, pur di non andare in carcere. Il che non era proprio un bel mestiere, per chi doveva difendere. Facile, soprattutto. Sicuramente l’avvocato Steccanella ha tratto maggior soddisfazione, pur se i risultati non gli hanno dato il merito che gli sarebbe dovuto, nell’assistere “gli indifendibili”, Cesare Battisti e Renato Vallanzasca.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Pecorella: «Le procure fecero politica e pianificarono il pogrom della prima Repubblica». Il professore e avvocato Gaetano Pecorella parla di Mani Pulite. «Tutti i partiti sono stati eliminati dalla scena politica, salvo il Pci». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.
A trent’anni dallo scoppio di Tangentopoli, facciamo un bilancio con il professore e avvocato Gaetano Pecorella, già parlamentare di Forza Italia, presidente della commissione Giustizia e, ai tempi di Mani Pulite, numero uno dell’Unione Camere penali.
Come si può sintetizzare quella stagione?
È stato un periodo in cui tutti coloro che hanno partecipato a questo “pogrom”, a questa specie di grande “epurazione” hanno lasciato l’Italia in una situazione peggiore di come era prima di quel 17 febbraio 1992. La magistratura, accusando di reati che definiamo di creazione giuridica, come il finanziamento illecito ai partiti, ha colpito anche situazioni economiche floride e ha azzerato completamente un classe politica.
Si sono salvati in pochi.
Craxi nel suo discorso alla Camera nel 1993 ricordò che tutti i partiti “hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale”. Non dico che la politica non avesse delle cadute di stile, e che non ci fossero politici corrotti, come ci sono oggi. Il problema è che allora si costruì una campagna militare, andando a stanare solo determinati soggetti. La prova è che tutti i partiti sono stati eliminati dalla scena politica, salvo il Pci.
Possibile che il presunto fenomeno corruttivo non abbia riguardato neanche uno tra i dirigenti del Partito Comunista?
Le cose poi sono cambiate quando è arrivato il partito che ha deluso le aspettative di chi voleva l’Italia governata da quella sinistra: appena sulla scena politica entra Silvio Berlusconi tutta la magistratura milanese si concentra su di lui.
Quindi secondo lei con l’avvio di Mani Pulite la magistratura ha perseguito un disegno extra giudiziario?
La magistratura è diventata un vero soggetto politico. Il chiaro obiettivo era far andare al Governo quella parte politica a cui apparteneva quella magistratura. Tanto è vero che l’ex procuratore capo Gerardo D’ambrosio è stato poi eletto in Parlamento tra i Democratici di Sinistra. Il celebre “resistere, resistere, resistere” di Francesco Saverio Borrelli non può essere applicato ai magistrati, ma ha senso solo nel corso di uno scontro politico. La magistratura, quindi, ha tradito il suo ruolo e ha cominciato a combattere con la classe politica. Basti pensare a quando Antonio Di Pietro andò in televisione a leggere un comunicato del pool di Mani Pulite contro il Decreto Biondi e poi la gente scese in piazza. Gli effetti del disegno politico della magistratura sono stati disastrosi per il Paese.
I protagonisti di quella stagione sostengono che non c’è stato abuso della custodia cautelare. E però si fece in modo che il gip fosse sempre lo stesso, Italo Ghitti. E Claudio Martelli in una intervista all’Agi ricordò quanto disse Borrelli, una cosa del tipo “non li incarceriamo per farli parlare, li scarceriamo quando hanno parlato”.
Ricordo un episodio che mi capitò di leggere negli atti di un processo. Antonio di Pietro chiede l’autorizzazione per arrestare un imprenditore. La risposta che ebbe da Ghitti fu: ‘ trova un altro argomento perché per questa ragione l’ho già arrestato una volta’. Si utilizzava l’arresto per ottenere una collaborazione, il carcere divenne una ‘ tortura dolce’, per ottenere elementi di prova, che sono sospetti di per sè, perché ottenuti per avere in cambio la libertà. Eppure, alla fine di tutto, la pena più alta comminata è stata quella a 5 anni e 6 mesi: un risultato modestissimo rispetto al grande prezzo che il nostro Paese ha pagato per quella iniziativa giudiziaria.
Quale fu invece il ruolo dell’avvocatura?
Anche la nostra categoria ha avuto dei torti. Già al tempo parlai di ‘ avvocato accompagnatore’: appena il proprio cliente chiamava in causa un altro soggetto, l’avvocato si affrettava ad informarlo per portarlo in Procura e farlo collaborare.
Possiamo dire che con Mani Pulite nascono o si aggravano alcune gravi patologie di cui attualmente soffre il nostro sistema giudiziario, a partire dal fenomeno della mediatizzazione del processo penale e del perverso intreccio tra stampa e magistratura?
La stampa ha svolto la sua funzione, ossia vendere copie di giornali. Ha fatto scandalismo, schierandosi con i magistrati, perché il Paese si è schierato con il pool. Se vogliamo la stampa ha svolto un ruolo di supporto alla magistratura. Era difficile poter pensare ad una stampa contraria alla linea della Procura, sarebbe stata una stampa isolata.
Oggi com’è il rapporto tra magistratura e politica?
Credo che a Milano sia cambiato molto il clima, in senso positivo. In generale la magistratura ha modificato il modo di fare politica: fa politica con i politici, condivide il potere politico. Questo è quello che ha spiegato Luca Palamara.
Lei prima ha citato D’Ambrosio, ma Di Pietro è persino diventato Ministro. La classe politica non dovrebbe fare mea culpa secondo lei?
Ancora oggi la politica risente del peso condizionante della magistratura. Lo si vede guardando alle recenti riforme. Faccio un esempio: la Commissione Lattanzi aveva proposto di reintrodurre l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione di primo grado. Invece la Ministra della Giustizia Marta Cartabia non ha fatto sua questa proposta, pur essendo Lattanzi un ex presidente della Corte Costituzionale. E poi basta poco per far saltare un Presidente del Consiglio: basta che un magistrato apra una indagine su di lui e quel politico è subito in grande difficoltà.
Da questo punto di vista possiamo dire, quindi, che anche l’invito all’astensione rivolto agli elettori da Forza Italia e da Silvio Berlusconi in occasione del referendum del Partito radicale e dell’Unione Camere Penali sulla separazione delle carriere del 2000 fu un grave errore?
Fu sicuramente un grave errore, determinato, credo, dal fatto che vi erano altri quesiti non condivisi da Forza Italia: diventava un po’ difficile, come messaggio, dire sì ad un quesito e no ad un altro.
Alla fine di tutto che bilancio possiamo fare di quella stagione?
Per quanto si potesse essere critici con i partiti di allora, adesso la classe politica non esiste più. Siamo costretti a chiamare dei tecnici per poter governare. Inoltre è sopravvissuta l’idea, che all’epoca ebbe grande peso, che collaborando si evita il carcere. Abbiamo un Paese che ha magistrati che si siedono allo stesso tavolo con i politici per decidere le nomine. Infine un grande errore commesso dalla politica è di aver eliminato nel 1993 l’unica forma di difesa contro la magistratura, ossia l’autorizzazione a procedere, fatta eccezione in caso di arresto.
Dagospia il 17 febbraio 2022. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”.
Paolo Brosio, tra gli inviati tv più celebri di Mani Pulite, di cui oggi ricorrono i 30 anni, ha raccontato a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, quei giorni così difficili per il nostro Paese.
Si ricorda il giorno in cui tutto è iniziato? “Si, ero su un ghiacciaio austriaco a fare un servizio sulla mummia Ozzy che avevano appena ritrovato quando mi chiama il mio direttore di allora, Emilio Fede, che mi dice di tornare subito a Milano perché avevano arrestato Mario Chiesa. Così arrivo a Milano, in corso di Porta Vittoria. Dovevo rimanerci dieci giorni e ci rimasi quattro anni, più di 900 giorni”.
Come nacque l'idea del collegamento davanti al Tribunale con i tram che passavano? “La Rai poteva stare vicino alla scalinata principale, mentre noi potevamo stare vicino al chiosco e l'edicola. Io ci sono stato talmente tanto tempo che avevo fatto una buca. Ci sono stato talmente a lungo, anche d'estate, con 40 gradi, che alla fine il cemento aveva l'impronta delle mie scarpe. E i tramvieri, quando passavano, mi chiedevano 'chi hanno arrestato'?”.
Con chi andava più d'accordo nel pool di Mani Pulite? “Sono sempre andato d'accordo tutti. Salvo una volta”. Quale? “Avevamo scoperto che nella toilette dei magistrati c'era una parete più sottile - ha raccontato a Un Giorno da Pecora Brosio - io ero lì col bicchiere e ascoltavo. Una volta arriva Borelli e mi becca...”
E cosa le dice? “Brosio che fai li!” Quali altri aneddoti ricorda di quel periodo? “Una volta stavo per andare in onda, avevo su un'agendina tutti i nomi e i dati degli avvisi e degli arresti imminenti e Di Pietro passa e me lo prende”. E' riuscito a recuperarlo? “Sono partito come un treno per rincorrerlo, e alla fine me lo ha tirato. Sono riuscito ad andare in onda all'ultimo secondo...”
ANDREA PAMPARANA. Dagospia il 17 febbraio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Caro Dago, in questi giorni assistiamo in tv, sui giornali, in radio, alle celebrazioni per il trentennale di Mani pulite. Come sai fui inviato del Tg5 per ben cinque anni nella trincea della cosiddetta Tangentopoli. Fu vera gloria? No. Martedì 2 ottobre 2012 venne arrestato, a Roma, l'ex capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, Franco Fiorito.
Era accusato di essersi appropriato di 1.300.000 euro dai fondi destinati al gruppo consigliare. Grande scandalo, indignazione, “ecco, vedi a vent'anni da Mani pulite la Casta, la maledetta Casta, non ha imparato nulla, sono tutti uguali, per fortuna noi cittadini onesti che paghiamo le tasse siamo diversi e prima o poi li puniremo”. In realtà, non pochi tra quegli indignati cittadini, le tasse non le pagano affatto.
Nel 1992 e 1993, spesso, soprattutto alla sera nei collegamenti del Tg5 in diretta dal Palazzo di Giustizia, ero circondato da una folla inferocita e berciante che ci insultava, lanciava monetine, inneggiando a Di Pietro, “forza Tonino, Borrelli sei tutti noi, resistere, resistere, resistere!”. Facevo il mio lavoro sovrastando quella massa di pseudo rivoluzionari, molti, anzi molte delle quali scendevano dai loro borghesi appartamenti del centro di Milano, a due passi dal Duomo, con tanto di pellicce di visone, borse firmate, accessori di lusso.
Noi servi del padrone, Berlusconi, amico di Craxi, il Cinghialone, i potenti alla gogna nella stanza del loro eroe, Tonino, il contadino che si fece re, loro, i cittadini, gli onesti che finalmente trovavano giustizia. Ma non era affatto così.
Nella prossimità del Natale del 2012, pochi mesi dopo l’arresto del citato Fiorito, quando Roma si trasforma in una cloaca di auto, la più piccola di solito un Suv da 50.000 euro, ero in taxi in piena in piazza Venezia, completamente bloccato da auto e camioncini parcheggiati in terza fila davanti al vecchio palazzo col famoso balcone, sotto lo sguardo indifferente di vigili urbani il cui unico pensiero era, lo si poteva capire dai loro sguardi, “tanto tra poco mi finisce il turno”.
In quel momento di caos calmo, perché s’era fermi da qualche minuto, il vecchio tassinaro guardandomi dallo specchietto mi disse: “Diretto’, vede? Qui sono tutti Fiorito!” Vecchia saggezza popolare romana. O se vogliamo da Gattopardi: “Cambiare tutto affinché nulla cambi”. Questa è l’Italia, questi siamo noi. Andrea Pamparana
TANGENTOPOLI a cura di GLUCK per Dagospia il 17 febbraio 2022.
Nelle settimane della merla e della scalata al Quirinale con il bis di Mattarella già evocato alla prima della Scala è calata pure la nebbia a offuscare per giorni la Milano scintillante raccontata dalle gazzette locali. Una città del tutto insensibile alle vicende politiche romane, ma intenta ad autocelebrarsi trent’anni dopo l’avvio di Tangentopoli.
Tra rimorsi e rimozioni dei cronisti giudiziari al servizio dei Poteri marci che possedevano e controllavano il sistema dei media. Tant’è, che nei primi due anni della mattanza manettara non furono mai sfiorati dal pool di Mani pulite che incoraggiavano il loro lavoro: dalla Fiat di Cesare Romiti alla Fininvest di Silvio Berlusconi, che ben presto saranno costretti a portare anche loro la croce giudiziaria degli inquisiti nel malaffare e non quella dei concussi come sostenevano (a torto).
MANI PULITE, PENNE SPORCHE
Alla libreria “Arcadia” a due passi del palazzo di Giustizia, l’avvocato di lungo corso è un fiume in piena: “Sa cosa pensava dei giornalisti un premier inglese? La stampa pretende quello che pretendono le prostitute: potere senza responsabilità. Sa come si dice nella mia Sicilia? Cu’ s’ammuccia soccu fa, è signu chi mali fa… vale a dire, chi nasconde quel che sa ha qualcosa da nascondere”.
E ancora: “Nella stampa dalla memoria curta non troverete una riga sul ruolo avuto anche dai corruttori in Mani pulite, ma solo dei corrotti. Parlo delle grandi imprese…alla Fiat il dottor Romiti confezionava pacchi di mazzette con la carta dei giornali… Così, una volta superata la sbornia giudiziaria qualcuno l’ha forse dimenticato? al momento di risolvere Tangentopoli che l’investiva - a Torino non a Milano con buona pace del pool -, a Cernobbio i padroni del vapore evocarono un condono salvifico, ma il compianto professor Guido Rossi fu lapidario (e inascoltato) nel bocciarlo: “Non è Tangentopoli a creare il falso in bilancio, sono i bilanci falsi a creare Tangentopoli”.
LA FAVOLA DELLA SOCIETA’ CIVILE
Poi aggiunge: “Per salvare i corruttori, tali erano i grandi imprenditori che hanno sempre pagato i partiti, all’arresto del manager Fiat, Enzo Papi, il loro penalista di fiducia, Vittorio Chiusano, sostenne che le società per azioni non erano enti pubblici, ergo tutti i reati di concussione e corruzione dovevano essere cancellati… Ma la stampa strabica nel ricucire la tela del malaffare pubblico e privato continua a guardare solo dalla parte degli eroi di Mani pulite”.
Mette ordine nel passato (che non passa) nel suo ultimo lavoro la storica Simona Colarizi (“Passatopresente, Laterza): “Stampa e televisione avevano costruito e alimentato la favola di una società civile e sana, dominata per quasi mezzo secolo da partiti corrotti (…) un mito devastante che avrebbe contribuito a distruggere il sistema dei partiti della prima Repubblica”.
Parla il portavoce della Dc al tempo di Mani pulite. Il dramma di Enzo Carra: “Mostrato in manette per dare un segnale di sottomissione alla politica ma ero innocente”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
Trent’anni dall’inizio di Mani Pulite. E poco meno da quando il terremoto giudiziario arrivò a Roma, travolgendo – con il colpo di cannone della maxi tangente Eni Montedison – anche il cuore della politica. Enzo Carra ne fu, suo malgrado, protagonista. Era il portavoce della Dc. Un professionista che di tangenti non ne aveva mai viste. Ma che fu prescelto dal pool della Procura di Milano per farne una vittima sacrificale sull’altare dei simboli. Era pur sempre il portavoce del partito che teneva le relazioni tra il mondo dei media e il partitone del potere, “non poteva non sapere”. Andava colpito, quasi per educarne cento.
All’epoca era il portavoce della Dc, come ci arrivò?
Ero giornalista da quando avevo 22 anni. La mia passione all’inizio era il cinema, la critica cinematografica. Fondai un giornale, Il Dramma.
Un nome profetico…
Sì, quello fu un dramma vero. Non solo mio, collettivo.
Torniamo a quando diventa giornalista politico.
Avevo ridato fiato alle pagine di politica del quotidiano Il Tempo, a Roma. Avevo reinventato la nota politica, rinnovando il modo di informare i lettori. A un certo punto Forlani, nel 1989, mi chiese di diventare portavoce della Dc, accettai. Era un momento vibrante, che sentivo carico di sfide.
Nell’ 89 cambiava il mondo.
E però molti tardavano ad accorgersene. Come pure fu per Tangentopoli. La politica era gerontocratica, non percepiva velocemente i cambiamenti in arrivo.
Come fu l’arrivo di Tangentopoli, con l’arresto di Mario Chiesa?
Nessuno fece caso. Sembravano questioni milanesi, secondarie. L’atteggiamento era “‘a da passà ‘a nottata”. Una sottovalutazione generale. E invece fu l’inizio di un passaggio da un’epoca a un’altra.
Viene in mente Gramsci: il vecchio tramonta ma il nuovo stenta a nascere.
E guardi che siamo ancora in quel guado. Tangentopoli fu l’abbattimento di una classe dirigente, senza un progetto vero di sostituzione. Uno sconquasso che ha creato il vuoto della politica che si vede anche oggi.
Veniamo a lei. Lambito dalle indagini sulla supposizione del “non poteva non sapere”. Scoppia lo scandalo della maxi tangente Eni Montedison e Di Pietro chiama a testimoniare tanti. Tra cui anche lei.
Esatto. Vado a Milano, Di Pietro mi interroga. Gli spiego che non so quasi nulla, tranne quel che leggo dai giornali. Il mio era un ruolo tecnico, da comunicatore. Mi dice: “Ma sa, andando al bagno in quei palazzi del potere uno le cose le viene a sapere”.
Lei non frequentava i bagni giusti, Carra. E come costruiscono l’imputazione su di lei?
Mi dà appuntamento al venerdì, tre giorni dopo. “Perché dobbiamo fare dei riscontri”. Al mio ritorno, venerdì, mi trovo davanti a una sceneggiatura, per quanto fantasiosa, già scritta. Un tipo mai visto, un faccendiere che doveva uscire di prigione, gli avrebbe detto di essersi riunito con me a Roma. E io gli avrei parlato della maxi tangente. Io lo guardo negli occhi, gli chiedo in quali circostanze. Quello farfuglia: nel suo ufficio a Roma, c’erano diverse segretarie… e alla fine della frase si mette a piangere. Doveva recitare la parte per uscire di galera, lo compatisco. Di Pietro sorride e mi stampa addosso l’accusa di aver mentito al Pm. Mi difendo ma non mi dà retta. Aveva bisogno di imputati freschi, e io che ero il portavoce del segretario Forlani ero succulento, per lui.
Poi come accadde che la fece comparire ammanettato con gli “schiavoni”?
Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi. Dovevo comparire davanti al ‘muro’ delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido.
Quell’immagine suscitò per fortuna anche un sussulto di risposta, un minimo di sdegno.
E fu per il pool di Mani Pulite un segnale. Non potevano affondare le persone e umiliarle senza fine. Tornato in cella, vidi alla tv diverse dichiarazioni di tutti gli schieramenti che chiedevano più rispetto.
Un anno e quattro mesi, la condanna. Per “non aver sentito niente, andando al bagno”. Li ha perdonati?
Non ho né il potere del perdono, né la voglia di vendetta. Ciascuno di loro, del pool, ha dovuto rivedere le sue posizioni. Io no, non ho mai avuto niente di cui pentirmi. I bilanci, sa, si fanno alla fine.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Giustizia, l'ex assessore: "Vi racconto il tritacarne in cui sono finito". Francesco Boezi il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.
L'ex assessore ai Giovani del comune di Genova racconta, attraverso un libro, quanto subito a causa dei rapporti tra certo giornalismo e certe magistrature.
L'ex assessore al comune di Genova Massimiliano Morettini non è guarito da quella che definisce una "malattia", ossia la passione politica, ma certo la vicenda che stiamo per racconatare non ha coadiuvato una vocazione per l'amministrazione della cosa pubblica. E non ha abbattuto neppure la fiducia nella Giustizia.
Siamo nel 2008 e, nel capoluogo ligure, scoppia uno scandalo che le cronache ribattezzano "Mensopoli". Morettini, che in seguito verrà scagionato del tutto, viene sottoposto ad indagini, mentre il contenuto di parecchie intercettazione finisce sulla cronaca locale.
Questa è una storia che riguarda tanto i rapporti tra politica e giustizia quanto quelli tra certo giornalismo e certe magistrature. La vicenda che ha colpito Morettini viene raccontata oggi attraverso le pagine di "Quella volta che sono morto", un'opera edita da Erga Edizioni in cui il protagonista rammenta, in prima persona, i sei giorni in cui ha avuto paura d'inciampare in qualcosa che non aveva neppure sfiorato. Prima di addentrarci nelle particolarità di quello che assomiglia ad un caso paradigmatico di questi tempi, conviene evidenziare un dettaglio: l'ex assessore non è stato soltanto un esponente del centrosinistra ligure ma anche uno dei promotori del Genoa Social Forum al G8 di Genova.
"Rispetto della legalità e giustizialismo non sono affatto la stessa cose - premette l'ex amministratore, ascoltato in merito alle sue vicissitudini da IlGiornale.it - . Ma è vero purtroppo che nel corso di questi ultimi anni una parte della sinistra ha confuso rispetto della legalità e giustizialismo, abbandonando il suo alveo naturale che sarebbe quello del garantismo".
Morettini non ha difficoltà a ricordare le fasi clou delle perquisizioni: "Un giorno si presenta la Guardia di Finanza. Avevo in mano soltanto un foglio in cui si diceva che avessi avuto rapporti corruttivi con un imprenditore. Poi passa una settimana in cui continuo a non ricevere notizie dalla Procura. Scarico dal sito del Secolo XIX l'intera ordinanza del Gip che motivava le indagini in corso. La scarico io e la scaricano migliaia di persone. E in quell'ordinanza c'era un anno e mezzo di intercettazioni ambientali".
Gran parte dei passaggi che hanno riguardato Morettini e le tangenti che non ha mai preso sono stati ripercorsi su Radio Leopolda, nel podcast (In)Giustizia che è curato dall'opinionista Benedetta Frucci.
Al Giornale.it, Morettini aggiunge quanto segue: "I media avevano stralci delle ordinanze. E quindi in quei giorni fecero grandi titoli sui miei presunti affari". Il sistema dell'informazione diviene così il detonatore di una narrativa: "In quel modo, si decide di consegnare ai lettori delle pagine dei giornali la possibilità di costruirsi un'opinione sommaria sulle vicende giudiziarie in corso. Come se si sottraesse alla magistratura la facoltà di andare avanti nelle indagini". Morettini definisce tutto ciò "l'inizio della cultura giustizialista". La fuoriuscita di atti giudiziari è dunque il principio di una cultura complessiva che può investire le esistenze.
L'ex assessore sottolinea come la condanna preventiva dei media distrugga la reputazione. Morettini, a questo punto della storia, dà le dimissioni. E si ritrova senza reddito, con un figlio piccolo, e con tutto quello che può comportare in termini pubblici il sospetto che avesse avuto a che fare con soldi destinati alle mense scolastiche dei bambini. "Io ce l'ho fatta. Mi sono rimesso in piedi. Ben quattordici mesi dopo, il Pm ha detto che il fatto non sussisteva. Ho raccontato questa storia perché mi interessava far sentire qual è lo stato d'animo di una persona innocente che si trova in quel tritacarne".
L'ex amministratore genovese ci tiene a chiosare sul taglio che ha voluto dare all'opera: "Il libro è un racconto personale e non è un libro bianco sulle ingiustizie. Ho cercato di essere equilibrato".
Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017, seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju".
Spunti inattuali su Mani pulite: fra guardie e ladri si deve stare col diritto. Massimo Adinolfi il 20 Febbraio 2022 su huffingtonpost.it.
Storia di Egisto e Oreste, ovvero l'abietta commedia della colpa. Hegel, il prof. Racinaro e la micidiale saldatura fra morale e terrore. Evidenza di una terza via.
"Per un uomo morto, ventimila altri uomini immersi nel pentimento, ecco il bilancio". Si tratta ora di valutarlo, e Giove – perché è Giove che parla – non ha molti dubbi: non ha fatto un cattivo affare, perché ad Argo, dove il delitto si è consumato, dove Egisto ha ucciso il re Agamennone ed è divenuto il padrone della città, si è costruito nel rimorso, nel continuo rimuginamento del passato, nell’abietta commedia della colpa, il legame sociale che mette al riparo la città da ogni velleità di giustizia, di rivoluzione, di libertà.
30 anni di Mani Pulite, Davigo: “Toghe rosse? Accuse stravaganti. In tutto il mondo la destra vuole legge e ordine, in Italia l’impunità”. Il Fatto Quotidiano il 19 febbraio 2022.
A 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite, che a partire dal 1992 ha tolto il velo dal sistema corruttivo su cui si era basata la politica degli anni precedenti, due dei protagonisti di quella stagione, gli ex magistrati Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo, hanno ricordato le fasi salienti dell’inchiesta dialogando con Peter Gomez e Gianni Barbacetto, che seguirono e raccontarono quelle vicende da cronisti. Una delle accuse che da sempre è stata rivolta al pool è stata quella di aver, per certi versi, risparmiato l’ex Partito Comunista (poi Pds) dall’ondata di arresti che ha, invece travolto altri partiti storici, come il Partito Socialista e la Democrazia Cristiana.
“La sensazione che avevo io – racconta Davigo – è che mentre le imprese normali finanziavano i partiti della maggioranza, le cooperative cosiddette rosse finanziavano il Pci. Dare soldi ai partiti non è vietato, è vietato farlo di nascosto e le cooperative iscrivevano a bilancio i soldi che davano al partito, perlomeno una parte, quindi non c’era una pista immediatamente illegale da seguire”. E, continua :”Però in alcuni casi è accaduto, per esempio dalle dichiarazioni di Sama risulta che un miliardo di lire era stato destinato ai vertici dell’allora Pci e fu portata a Botteghe Oscure da Gardini e Cusani. Gardini si è suicidato, Cusani non ha mai parlato, cosa potevamo fare? Torturare Cusani? Lo stesso per quanto riguarda Greganti. Greganti ha preso una somma dello stesso ammontare di altre somme, ma anche i decimali, che erano destinate ad altri partiti. Quindi era verosimilmente una tangente. Però dalle indagini che sono state fatte è risultato che questo si era comprato la casa… e non ha mai parlato. Certo, è stato in carcere, è stato condannato ma non ha detto una parola”.
Poi conclude il racconto con una nota di ironia: “Comunque ci venivano rivolte delle accuse a volte davvero stravaganti. Sono stato accusato di aver voluto favorire Partito Comunista perché avendo fatto fare una perquisizione Botteghe Oscure anziché farla fare alla Guardia di Finanza l’avrei fatto fare ai carabinieri. Ora, pensare che i carabinieri abbiano simpatie comuniste… anche perché non si trattava di fare un’analisi di documenti, ma di vedere cosa ci poteva essere prenderlo. Detto questo, l’idea che ci possa essere una strategia politica è un’idea talmente cretina… che non riesco a prenderla sul serio. Faccio solo due considerazioni di ordine politico: in tutto il mondo la destra vuole legge e ordine solo in Italia la destra vuole l’impunità… Io ho fatto il servizio militare come ufficiale, ho fatto anche il richiamo alle armi ed era l’epoca della guerra fredda: non diventavi ufficiale se eri di sinistra…”
Mani pulite. La vera storia. di Gianni Barbacetto (Autore), Peter Gomez (Autore), Marco Travaglio (Autore), Chiarelettere, 2012
"Mani pulite, vent'anni dopo". Altro che storia passata, questo libro racconta l'Italia dell'illegalità permanente. Un documento storico che rimarrà per sempre sul tradimento della politica. La cronaca di fatti e misfatti parte da Milano, 17 febbraio 1992, arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio: il primo tangentomane che fa tremare l'impero, a due mesi dalle elezioni. Saranno elezioni terremoto, quelle del 1992, stravinte dal partito degli astenuti (17,4 per cento) e dalla Lega nord. Intanto la Prima Repubblica va in galera ed è ancora solo superficie. Falcone e Borsellino trucidati a Palermo (e nel 2012 molti processi ancora aperti sulle stragi). Un anno dopo la corruzione è ormai un fatto nazionale, nessun partito escluso (70 procure al lavoro, 12.000 persone coinvolte per fatti di tangenti, circa 5000 arresti). "L'Italia sta risorgendo", saluta così l'anno nuovo il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Peccato che sia il 1994, l'anno di Silvio Berlusconi e dell'inizio della restaurazione. Scatta l'operazione Salvaladri, con gli imputati che mettono sotto accusa i magistrati. È il mondo alla rovescia e gli italiani assistono allo spettacolo. Alcuni protestano, molti si abituano e finiscono per crederci. Poi gli anni dell'Ulivo, della Bicamerale e dell'inciucio centro-destra-centrosinistra, che produce una miriade di leggi contro la giustizia. Prefazione di Piercamillo Davigo.
“Mani Pulite, la vera storia”, il racconto più completo sulla tempesta politica e giudiziaria: in edicola e in libreria. L’anticipazione di Travaglio . Il Fatto Quotidiano il 16 febbraio 2022.
Cosa resta oggi di Mani Pulite? Secondo la vulgata dominante, nulla, perché la corruzione da allora è continuata, forse addirittura aumentata. Ma un’indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo: altrimenti tutte sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi.
Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 2002 e ora riproposto in una nuova edizione aggiornata e ampliata, è il racconto più completo di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia: per il numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, patteggiamento, prescrizione e persino assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto o condono per i più svariati cavilli.
In questi trent’anni, c’è chi ha provato a raccontare Mani pulite come un’operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell’altra. Ma le campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica, sebbene abbiano fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario.
È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma ciò non è dipeso però dalle indagini delle procure, bensì dalle leggi fatte prima, durante e dopo per assicurare l’impunità ai criminali. Leggi che fanno del nostro Paese l’inferno delle vittime e il paradiso dei delinquenti. Infatti ancora oggi le Italie sono due: quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta, e quella che lo spera con tutto il cuore.
Il libro, un’opera unica di quasi 1000 pagine, edita da Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano, sarà in vendita da giovedì 17 febbraio in tutte le edicole a 15 euro + il prezzo del giornale
Il racconto di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia – Per chi non c'era, per chi ha dimenticato, per chi continua a rubare e a mentire. Mani Pulite – Di G. Barbacetto, P. Gomez, M. Travaglio. Da ladigetto.it il 20/02/2022
Titolo: Mani pulite. La vera storia
Autori: Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio
Prefazione: Piercamillo Davigo
Editore: Chiarelettere, 2022
Pagine: 912, Brossura
Prezzo di copertina: € 18
Descrizione: Cosa resta oggi di Mani pulite? Secondo la vulgata dominante, nulla, perché la corruzione da allora è continuata, forse addirittura aumentata.
Ma un'indagine non si giudica dal numero di reati simili commessi dopo, altrimenti tutte sarebbero un fallimento, visto che nessuna è mai riuscita ad abolire i reati successivi.
Questo libro, pubblicato per la prima volta nel 2002 e ora riproposto in una nuova edizione, è il racconto più completo di una tempesta politica e giudiziaria che non ha eguali nella storia: per il numero di persone indagate, processate e giudicate colpevoli in sentenze di condanna, patteggiamento, prescrizione e persino assoluzione o proscioglimento o archiviazione o amnistia o indulto o condono per i più svariati cavilli.
In questi trent'anni, c'è chi ha provato a raccontare Mani pulite come un'operazione politica di magistrati ideologizzati per colpire gli innocenti di una parte e favorire i colpevoli dell'altra.
Ma le campagne politico-mediatiche negazioniste e revisioniste non hanno scalfito la percezione di quei fatti nell’opinione pubblica, sebbene abbiano fatto breccia e proseliti nel mondo politico, in quello mediatico sottostante e persino in una parte di quello giudiziario.
È vero, quasi nessuno dei colpevoli di Tangentopoli ha scontato la pena in galera, ma ciò non è dipeso dalle indagini delle Procure bensì dalle leggi fatte prima, durante e dopo per assicurare l’impunità ai tangentisti.
Leggi che fanno dell’Italia il paradiso dei delinquenti e l’inferno delle vittime.
Infatti ancora oggi le Italie sono due: quella che vive nel terrore che il 1992 si ripeta e quella che lo spera con tutto il cuore.
Ecco la sciocchezzona di Travaglio su Mani Pulite. Gianfranco Polillo su startmag.it il 20 Febbraio 2022.
Perché apprezzo poco, anzi nulla, del libro “Mani Pulite” di Marco Travaglio. Il commento di Gianfranco Polillo.
Se fossimo ai tempi di “Quaderni piacentini”, paludata rivista della sinistra snob, l’ultimo libro di Marco Travaglio, Peter Gomez e Gianni Barbacetto (ordine invertito per tener conto della caratura dei singoli coautori) “Mani pulite” sarebbe stato collocato tra quelli da “non leggere”. Noi siamo più tolleranti e non arriviamo a tanto. Per chi ama leggere una sorta di mattinale, troverà in quel migliaio di pagine (per l’esattezza 912) una miriade di notizie e la descrizione di altrettanti episodi descritti con la lente dell’inquisitore.
Vi troverà anche lontane reminiscenze. Quel lungo saggio degli stessi autori (allora era di 712 pagine), edito venti anni fa ed ora ripubblicato, con qualche aggiunta, per ricordare quel lontano giorno di 30 anni fa – era il 17 febbraio del 1992 – quando Mario Chiesa, il “mariuolo”, secondo la definizione di Bettino Craxi, fu preso con le mani del sacco. Dando origine a quella grande mattanza che sarà poi “mani pulite”. C’è quindi da aspettarci un futuro aggiornamento – non sapremo se fra cinque o dieci anni – per celebrare nuovamente la ricorrenza.
Qualcuno potrà sospettare in questa insistenza una sorta di ossessione. La verità è più prosaica. Quella di Travaglio & Co è un’attività che rende. Continua a solleticare una parte – si spera sempre minore – di opinione pubblica, che ovviamente, nel grande mercato della comunicazione, si dimostra sensibile a quei prodotti. Probabilmente quest’attività non li porterà ai vertici del potere, ma, come cantava Edoardo Bennato, si può anche vivere di sole “canzonette”. Che, tuttavia, per funzionare devono rispondere ad un minimo di canoni estetici.
Il nuovo/vecchio testo supera la prova del budino? I dubbi sono tanti e numerosi. Nell’immaginario di Travaglio l’epopea di “mani pulite” rappresenta il “capitolo più luminoso” della storia italiana degli ultimi trent’anni. Difficile capire su quali basi si fondi questo giudizio: sul coinvolgimento forse di oltre 3.800 persone in vicende di malaffare? Dovrebbe essere considerata una storia triste, altro che luminosa, considerato da quanto tempo essa durava. La vicenda del Pio Albergo Trivulzio fu solo la punta dell’iceberg, la cui piattaforma sommersa aveva caratterizzato l’intera storia del dopoguerra italiana.
Da un lato “l’oro di Mosca” dall’altro i finanziamenti americani. Su un fronte le donazioni delle grandi imprese a favore soprattutto dei partiti governativi, sull’altro l’azione delle cooperative rosse verso le opposizioni di sinistra. In entrambi i casi finanziamenti illegali, ma tollerati in quanto esso stessi figli di una guerra che si combatteva nella dura contrapposizione tra l’Occidente e l’Impero del male. Soldi che servivano per mantenere le “truppe”. Quei milioni di militanti destinati, da entrambi le parti, a mantenere viva l’impossibilità che si potesse pervenire ad una qualche vittoria degli uni sugli altri.
C’era qualcuno che si arricchiva? Certo che c’era. Ma tollerarlo era inevitabile se si voleva far funzionare il sistema nel suo complesso. “Mani pulite” hanno solo scoperchiato questo gigantesco verminaio. Noto da tempo, ma tollerato nel nome di un’esigenza superiore. Evitare al Paese guai peggiori, come quelli che potevano derivare da un suo repentino cambiamento di fronte, seppure determinato dai risultati di libere elezioni. Chi, come nella Grecia dell’immediato dopoguerra, non aveva tenuto conto del vincolo internazionale aveva pagato duramente quell’atto d’orgoglio.
Ed ecco allora svelato il mistero dell’improvvisa presa di coscienza nazionale. Il momento della verità non fu il 1992, ma il 1989 con la caduta del muro di Berlino e la “fine della storia”, come si azzardò a dire qualcuno. Non di quella universale, ma di quella del ‘900 con le sue enormi contraddizioni. Un’Italia, finalmente liberata, poteva fare i conti con se stessa, e porre fine ad un sistema che, nel frattempo, era degenerato.
Travaglio & Co pensano invece che quella svolta fu determinata dalla dimensione della corruzione, che aveva svuotato le casse dello Stato. Con il dovuto rispetto: una sonora sciocchezza, senza nulla togliere alla dimensione effettiva dei fenomeni corruttivi. Ma nella logica dei grandi numeri, che descrivono gli equilibri macroeconomici di un Paese, sono altri i fenomeni che portano alla crisi. E dal 1992 in poi fu soprattutto la riunificazione tedesca a mettere in crisi il Sistema monetario europeo, espellendo i Paesi più fragili: la Gran Bretagna, l’Italia, la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda.
E chi volle resistere, come la Svezia fu costretta ad elevare al 500 per cento i tassi d’interesse a breve. Furono questi avvenimenti, del tutto indipendenti dalla corruzione, a determinare in Italia quella reazione popolare che consentì al pool di Milano di portare avanti il lavoro, vincendo quelle resistenze che, in passato, avevano (dalla P2 ai fondi neri dell’Iri) tutto insabbiato.
Di tutto ciò non esiste traccia nel poderoso tomo dei nostri eroi. Siamo portati a conoscere i particolari più insignificanti della quotidianità. Ma nessun accenno a quei fondamentali in grado di condizionarne il relativo sviluppo. Compito degli analisti e degli storici: si dirà. Non dei cronisti. Ma allora che serve sorbirsi quasi mille pagine, se non è chiaro il senso della storia raccontata?
30 ANNI DI TANGENTOPOLI. Il mito di un “golpe” che manca di onestà verso la storia. Antonio Pagliano su il sussidiario.net il 20 febbraio 2022.
Sotto il profilo tecnico, i numeri di Mani pulite non mentono. E lo scontro tra politica e magistratura deve essere vista sotto un’altra luce
Sono passati 30 anni da quando l’arresto di Mario Chiesa segnò l’inizio di “Tangentopoli”. Era il 17 febbraio 1992 e l’anniversario di quell’evento ha animato un vivace dibattito sul bilancio di quella stagione che senza alcun dubbio ha segnato un prima e un dopo nella politica italiana.
Nella prospettiva meramente tecnico-giuridica, i numeri parlano da soli e danno l’evidenza del fenomeno. In riferimento al solo tribunale di Milano, l’inchiesta denominata “Mani pulite” ha prodotto circa 3.200 richieste di rinvio a giudizio da cui sono scaturite 269 proscioglimenti, 1.254 condanne e 161 assoluzioni nel merito. Numeri che non parlano di un fenomeno patologico. Non può quindi certo affermarsi, come pure invece tutt’ora si è detto da parte di alcuni, che quell’inchiesta sia stata una specie di invenzione finalizzata a realizzare una sorta di colpo di Stato. La corruzione c’era ed era particolarmente diffusa.
Si è inoltre molto discusso dell’abuso della custodia cautelare da parte dei pubblici ministeri che quella stagione animarono. Per un verso, va ricordato che nessun provvedimento cautelare di quell’epoca ha conosciuto annullamenti o particolari bocciature nei diversi gradi di giudizio successivi. È allora più corretto riconoscere come quei pubblici ministeri riuscirono a dare alle norme cautelari un’incisiva ma non illecita applicazione che consentì il sistematico arresto di personaggi politici e grandi funzionari che, certamente, mai prima avrebbero immaginato di poter essere posti in manette.
Da questo punto di vista fu davvero una rivoluzione. Sul punto va sottolineato un interessantissimo passaggio di una bella intervista rilasciata da Gherardo Colombo al Corriere della Sera di qualche giorno fa in cui l’ex magistrato ricorda, per averlo vissuto in prima persona, come sino a quel momento ogni tentativo di avviare analoghe attività di indagine era miseramente naufragato in quello che veniva considerato “il porto delle nebbie”.
Ricorda infatti Colombo come fino a quel momento storico accadeva che si avviassero indagini, che si trovassero prove, ma poi arrivava la Cassazione, su sollecitazione della procura di Roma le indagini trasmigravano e tutto finiva sostanzialmente nel nulla. Il rapporto fra politica e magistratura era evidentemente stato fino a quel momento improntato a una certa attenzione a che il manovratore non venisse disturbato. Poi quella sorta di rispetto salta. La magistratura, che sin lì si era preoccupata di seguire gli “inviti” della politica per cambiare la sorte delle inchieste, complice anche la caduta del muro di Berlino, decide che è arrivata l’ora di percorrere altre strade.
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Questo aspetto, assai poco ricordato, ha invece un’estrema rilevanza per una obiettiva ricostruzione di quella stagione giudiziaria, rappresentando in modo cristallino quell’inversione del rapporto di forze fra politica e magistratura che, se per un verso a distanza di anni ancora anima la vita della nostra Repubblica, per altro verso rende comprensibile lo stato d’animo di frustrazione vissuto sino a quel momento da alcuni magistrati che poi, all’improvviso, hanno trovato il modo di rifarsi.
Se è quindi difficile parlare di abusi sul piano tecnico, non c’è dubbio che il vero problema era e resta la stabilizzazione di quel rapporto che da quegli anni in poi ha vissuto l’eccesso opposto, producendo la famigerata supplenza che, per esempio, spinse quei pubblici ministeri milanesi a ribellarsi pubblicamente contro il governo per l’approvazione di un decreto che riscriveva le norme sui criteri di applicazione delle misure cautelari.
A distanza di trent’anni paghiamo ancora quello scotto. Tuttavia, lo ripetiamo, “Mani pulite” non fu una rivoluzione. Da un punto di vista politico, la fine della prima Repubblica era già scritta nei conti dello Stato prima ancora che nelle sentenze. Nel 1970, anno in cui si attua il decentramento amministrativo, il rapporto debito/Pil era al 37,1%; appena due anni dopo, completato il trasferimento di alcune funzioni amministrative dallo Stato alle Regioni, il suddetto rapporto balzò al 47,7%; alla fine del governo Spadolini, nel 1983, il rapporto era al 70%, per spiccare il volo fino al 92% con il successivo governo Craxi. Nel 1992, infine, il deficit del bilancio dello Stato aveva raggiunto la cifra monstre di 150mila miliardi con un rapporto debito/Pil del 118% da cui derivò, l’11 settembre 1992, l’abbandono dell’Italia al suo destino da parte della Germania. Poco dopo la caduta del Muro, agli albori degli anni 90, l’Italia fu quindi costretta a una prima storica stretta del bilancio pubblico e così il sistema economico del paese, imperniato sulle tangenti, implose.
Gli imprenditori iniziarono a parlare con i pubblici ministeri non perché sottoposti a torture, ma semplicemente perché fino a quel momento erano riusciti a trasferire il costo delle tangenti sulla pubblica amministrazione, mentre da lì in poi, improvvisamente, non poterono più farlo, erodendosi così fatalmente i loro margini; ciò li indusse a sentirsi concussi e non più complici della corruttela diffusa.
Tutto questo la politica di allora non ebbe la lucidità di comprenderlo. Nel drammatico discorso pronunciato da Craxi in parlamento nel luglio del 1992, non c’è traccia della formulazione di una proposta che partendo dalla reale consapevolezza del fenomeno, ipotizzi la strada per venirne fuori. Da qui la radicalizzazione dello scontro fra i due poteri che la successiva stagione di Berlusconi porterà all’apoteosi. Mentre Craxi in Parlamento si limitava, con quell’intenso discorso, a operare la chiamata in correità dell’intero sistema, pensando così di risolvere la questione, dall’altra parte iniziava a costituirsi il “partito” dei giudici, che se rendeva plausibile la ribellione alla volontà del Parlamento, ancor di più escludeva qualsiasi possibilità di riconoscimento della legittimità altrui. Un corto circuito alimentato dalla spinta popolare e dallo slancio dei media.
Se quindi la stagione di “Mani pulite” ha fatto tabula rasa di un sistema politico marcio, la cancellazione di quelle identità politiche su cui si fondava la democrazia postbellica non ha prodotto la rigenerazione di una nuova vera classe politica, lasciando di fatto un vuoto e una supplenza, il tutto senza poi eliminare la corruzione, come riconosciuto da tutti.
Se si può rimproverare alla magistratura di aver agito da lì in poi pensando di dover essere i commissari di una politica corrotta, a quella classe politica va rimproverato di non aver saputo riconoscere lo stato in cui versava, auto emendandosi. Esattamente, corsi e ricorsi storici, ciò che ora qualcuno rimprovera alla magistratura travolta dallo scandalo Palamara.
Come allora auspicato sempre da Colombo, occorre ora operare uno sforzo per trovare tutti insieme una soluzione, a differenza di quanto non accadde 30 anni fa. Alle monetine lanciate a Craxi occorre sostituire la disponibilità al dialogo, che deve essere avvertito come l’ineludibile punto di partenza di cui il paese ha ancora bisogno, benché a predicarlo, ahinoi, siano ancora in pochi.
30 ANNI DI TANGENTOPOLI/ Quell’odio verso il riformismo che unì Pci, pm e giornali. Gianluigi Da Rold il 19.02.2022 su Il Sussidiario.net.
Trent’anni da una “rivoluzione” giudiziaria che ha eliminato un’intera classe politica e disastrato una repubblica. Ma alla fine Craxi batte Davigo.
Chissà se esistono delle congiunzioni astrali che intrecciano passato con presente, e magari con il futuro, per comprendere una svolta storica epocale. Forse la filosofia della storia diventerebbe quasi una riflessione banale rispetto alle sequenze cronologiche di un’epoca trentennale che ti fa riflettere sul passato e sulle cause che hanno provocato il presente.
La nemesi diventa una sorta di banale mistero di fronte a questo ultimo 17 febbraio 2022, quando è caduto il trentesimo anniversario dell’inizio della grande tragica buffonata di Tangentopoli e, nello stesso giorno, viene rinviato a giudizio per violazione del segreto d’ufficio uno dei “principi” di quella operazione del 1992: il pubblico ministero Piercamillo Davigo. Qualcuno ha commentato che la coincidenza è solo uno scherzo della storia, ma ha subito aggiunto che è “una storia grave”.
Tutto questo ha avuto l’effetto di rilanciare ancora di più il dibattito e lo scontro ancora in corso su Tangentopoli.
Da più di tre anni stanno uscendo, con un ritmo quasi ossessivo, delle rivelazioni incredibili sull’operato scandaloso della magistratura italiana in questi ultimi trent’anni. E nello stesso tempo si ricordano i soprannomi che si davano a Davigo: “Il Kelsen della Lomellina”, “il giurista che difende la presunzione di colpa, al posto di quella d’innocenza”. Applausi amari!
Nello stesso tempo si ricordano i protagonisti politici di quell’epoca, il trattamento loro riservato. E quindi la tragedia di 32 suicidi, diverse morti poco chiare legate alle famose privatizzazioni, la perversione della carcerazione preventiva per costringere (ad ammettere?) il sistema delle tangenti e del finanziamento illecito ai partiti che, come disse Bettino Craxi in una udienza processuale, si conosceva in Italia fin da quando lui e i suoi amici e colleghi portavano i pantaloni alla zuava. Solo la magistratura non si era accorta di nulla.
In più, nel ricordo di questi giorni, molti fanno i paragoni di come si stava trent’anni fa e di come gli italiani stanno adesso.
Nessuno mette in dubbio ad esempio che quella classe politica liquidata dal celebre pool di “Mani pulite” fosse più preparata di quella attuale.
Tuttavia, molti hanno insistito per anni sul problema del debito pubblico creato in quei tempi. Eppure secondo i dati ufficiali di Bankitalia (vedere per credere o per querelare) il debito pubblico in rapporto al Pil nel governo Craxi 2 sale all’89,11%, l’inflazione è stata ridotta dal 17 al 4% e l’Italia è il quarto paese economicamente più forte del mondo.
Il debito sale dopo cinque anni con i governi di Goria, De Mita e Andreotti, fino a superare i 100 punti nel rapporto con il Pil con l’Andreotti 6 e l’Amato 1. Il debito scenderà solo una volta sotto il 100, al 99,79 nel 2007 con il Prodi 1, ma solo per un anno, poi riprenderà la sua corsa fino al livello attuale che è ormai vicino al 160% del Pil.
E non sembra che la cosiddetta “gente” stia meglio che negli anni della cosiddetta prima repubblica, che poi è l’unica che ci sia stata perché la Costituzione e la struttura dei tre poteri è sempre stata la stessa. E non è stata male solo per la pandemia.
È piuttosto difficile dimostrare le colpe della prima repubblica sul piano politico quando furono di fatto sciolti cinque partiti democratici e rimasero solo i post-comunisti e i post-fascisti, che poi lasciarono spazio, per incapacità, all’antipolitica che si vede ancora adesso, senza oltre tutto avere dei partiti che almeno fanno un congresso.
Si è insistito soprattutto sulle colpe di Bettino Craxi, costringendolo all’esilio, facendolo morire dopo averlo fatto operare in un ospedale dove si lavorava al lume di candela e lo si demonizzava perché probabilmente, anche nei dieci anni i cui sopravvisse allo “scandalo” di “Mani pulite”, continuava a parlare prevedendo tutto quello che avveniva e sarebbe avvenuto. Si era creato, secondo il leader socialista, un sistema mediatico-giudiziario al servizio di grandi poteri italiani (che erano al disastro e furono ben dipinti come “capitani di sventura”) e di poteri esteri che volevano un’Italia “svenduta”, come spiegavano gli analisti più attenti.
L’economia mista italiana venne smantellata, la parte pubblica letteralmente svenduta attraverso le banche d’affari anglo-americane senza neppure una trattativa chiara e utile per risanare il debito.
Craxi poneva anche la questione di una globalizzazione fatta senza criterio, che alla fine avrebbe procurato grandi diseguaglianze e seri guai all’Italia. In più prevedeva che non solo la politica stesse per essere eliminata dalle ragioni della finanza, ma nella magistratura si sarebbe scatenata una lotta incredibile al punto “che si sarebbero arrestati l’un l’altro”. Non sbagliò di molto a quanto si può vedere nelle varie procure italiane. È forse per questa ragione che l’ipocrisia del governo D’Alema volle un funerale di Stato per Craxi? Cose da non credere!
In tutti i casi, ci si chiede: perché avvenne tutto questo? Il finanziamento pubblico andava riformato e quello illegittimo era conosciuto da tutti, ma ci si accorse solo nel 1992 che esistevano le tangenti, mentre ci si dimenticò delle valanghe di miliardi che il Pci incassava periodicamente da una potenza nemica come l’Urss. Ci sono libri, documenti al proposito. C’erano i presidenti delle Camere che approvavano sistematicamente i bilanci dei partiti. Anche la signora Nilde Jotti sapeva che il suo partito prendeva sistematicamente i rubli dall’Urss che venivano controllati a Fiumicino quando arrivavano in aereo e poi venivano scambiati in Vaticano. Eppure la signora Jotti approvava i bilanci dei partiti. Ma la colpa era solo di Craxi.
È strano che nessuno fosse a conoscenza dell’incontro tra Leonid Breznev ed Enrico Berlinguer, nel novembre del 1978, quando il leader russo disse a Berlinguer di finirla con l’eurocomunismo e il compromesso storico altrimenti le casse non potevano essere più rifornite adeguatamente.
Era tutto volutamente dimenticato: forse ci si chiudeva gli occhi di fronte all’evidenza persino del numero dei conti correnti, e quando crollò il muro di Berlino nel 1989 il Pci non ebbe più nulla da dire politicamente e dovette persino cambiare il nome due o tre volte. L’operazione scattò per questo e si poteva lasciar vivere, sotto altro nome, anche i post-fascisti, che comunque non costituivano certamente un’alternativa politica.
Uno scandalo sul finanziamento illecito era quindi la scoperta dell’acqua calda, che però andava indirizzato contro tutte le forze democratiche italiane, ma soprattutto contro i riformisti, che con Craxi avevano ottenuto l’ingresso dell’Italia nel G7, la ricchezza del Nord e di Milano, che era fra le prime tre più ricche città del mondo. Il tutto diventava insopportabile a chi da sempre aveva criticato o combattuto il riformismo turatiano, quello che era nato proprio a Milano.
Era stato il centrosinistra, con i riformisti in prima linea a varare, malgrado l’astensione del Pci, lo Statuto dei lavoratori e a impegnarsi nel 1978 per la creazione del Welfare state. Nel frattempo Milano diventata capitale della moda nel mondo e dava solo in questo campo il 5% del Pil all’Italia.
Era, di fatto, la rivincita di Filippo Turati, la sconfitta del bolscevismo nel mondo, l’affermazione del socialismo liberale e democratico. Nel 1977, quando fu ricostruita a Treviri la casa di Marx distrutta dai nazisti, Willy Brandt chiamò il giovane segretario socialista Bettino Craxi a tenere l’intervento inaugurale. Chissà perché non chiamò qualcun altro magari legato all’Urss?
Di fatto, l’odio verso il riformismo fece decollare la più perversa alleanza tra grande finanza ed ex partiti della sinistra comunista storicamente perdente, che si trasformarono in accaniti privatizzatori e amici di quelli che, sul “Britannia”, fecero il lavoro dei “babbei” come disse Enrico Cuccia.
L’alleanza per quella che fu chiamata all’inizio, malgrado morti e suicidi, la “rivoluzione di velluto”, era un quadrilatero tra finanza neoliberista in aperto contrasto con il keynesismo, sinistra sconfitta storicamente, magistratura cresciuta in Italia con il codice penale di Alfredo Rocco (guardasigilli di Mussolini) controfirmato da Vittorio Emanuele III, e una stampa asservita perché sempre agli ordini degli editori che in Italia erano poi i “capitani di sventura”.
Curioso come oggi tra alcuni giornalisti si parli di “vendetta” della “casta” che non si capisce bene quale sia e ci siano ripensamenti per aver fatto da megafoni contro gli inquisiti degli anni Novanta, anche se poi molti vennero assolti.
Qui bisognerebbe sconfinare nella storia poco edificante del giornalismo italiano. Si può però ricordare solo una frase di Carlo Tognoli, il sindaco della “Milano da amare” che nel 2010, in una ricorrenza al Corriere della Sera, parlò di Walter Tobagi: “Tobagi – disse Tognoli – non era una vittima simbolica del terrorismo, ma l’obiettivo preciso di ambienti che lo volevano eliminare perché socialista, riformista, preparato, studioso, con una prospettiva professionale di grande rilievo nel mondo giornalistico”.
Sarebbe stato difficile, con Tobagi direttore, pubblicare in anteprima una “dritta” che arrivava direttamente dal Palazzo di giustizia.
Al termine di un riassunto triste, si può comunque ricordare una frase che Craxi ripeteva spesso: no, la battaglia storica non gliela farò mai vincere.
Da Mani Pulite alla Trattativa, i processi di piazza hanno lunga tradizione. GIUSEPPE SOTTILE il 19 febbraio 2022 su il Foglio.
Célestin Guittard guardava la ghigliottina di Luigi XVI. Oggi ovunque ci sia un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente.
E’troppo facile e forse anche un po’ maramaldesco prendersela oggi con Sigfrido Ranucci, padre padrone di “Report”, e accollare a lui tutti i vizi, le storture e le nefandezze del cosiddetto giornalismo d’inchiesta. E’ sin troppo comodo contestare a lui e solo a lui il rapporto malsano con i magistrati più politicizzati, con i servizi segreti più deviati, con le fonti d’informazione più opache e più spericolate.
E’ troppo facile e forse anche un po’ maramaldesco prendersela oggi con Sigfrido Ranucci, padre padrone di Report, e accollare a lui tutti i vizi, le storture e le nefandezze del cosiddetto giornalismo d’inchiesta. E’ sin troppo comodo contestare a lui e solo a lui il rapporto malsano con i magistrati più politicizzati, con i servizi segreti più deviati, con le fonti d’informazione più opache e più spericolate. Nel grande circo mediatico giudiziario ci sono dieci, cento, mille Ranucci e ciascuno recita la sua parte a perfezione. Senza sbavature, senza errori, senza passi falsi. Hanno la dritta – si chiama così la soffiata dell’amico poliziotto o dell’amico procuratore – e partono subito all’assalto dell’uomo da sputtanare, della vittima da impiccare all’albero della gogna, dell’indagato da cucinare al fuoco lento, del politico da mettere fuori gioco, dell’imprenditore da condannare comunque al fallimento. Lo chiamano scoop. Lo ammantano quasi sempre con quel principio sacro e inviolabile che è la libertà di stampa.
Sono i giornalisti coraggiosi. Trent’anni fa, al tempo di Mani Pulite, camminavano in gruppo. Si erano addirittura costituiti in pool – come le tre punte schierate in attacco dalla procura di Milano: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo – e avvertivano lo stesso zelo rivoluzionario, salvifico, purificatore che si respirava nelle stanze del Palazzo di Giustizia. Loro, i magistrati, arrestavano corrotti e corruttori, manager e tangentisti, boiardi di stato e assessori di provincia, democristiani e socialisti. Davano la caccia a Bettino Craxi, detto il Cinghialone, tenevano sotto scacco Arnaldo Forlani e Romano Prodi, martellavano sui vertici dell’Eni e su quelli delle Ferrovie, strizzavano le palle a un mariuolo che prendeva mazzette al Pio Albergo Trivulzio e anche a un capitano d’industria conosciuto e stimato in tutto il mondo come Raul Gardini. Loro, i magistrati, non si lasciavano intimorire da nessuno e non si lasciavano impietosire nemmeno da chi si ammazzava in carcere per la disperazione. Erano implacabili e intoccabili. Erano i Reverendissimi Inquisitori. Ai loro piedi – hic genuflectur – c’erano i cronisti del pool che, come chierici vaganti, predicavano urbi et orbi la necessità di radere al suolo ogni male, ogni colpa, ogni peccato, ogni compromissione. Non cercavano una Bastiglia da abbattere, ma un San Vittore da riempire. E ogni giorno informavano lettori e telespettatori sulla contabilità della rivoluzione. Somigliavano tanto, scusate l’accostamento, a Célestine Guittard, il proprietario terriero di Parigi che, negli anni della ghigliottina, annotava su un diario – lo ha scoperto e pubblicato, nel 1973, lo storico Roger Aubert, si intitola Journal d’un bourgeois de Paris sous la Révolution – il numero di teste mozzate. Era originario d’Evergnicourt, un villaggio della Champagne, ma abitava a Saint-Sulpice a due passi dal palchetto infame dove il cittadino Robespierre apparecchiava ogni giorno il grand guignol delle condanne a morte. Célestine segnava ogni dettaglio. La mattina del 21 gennaio 1793, alle dieci e venti, assiste alla decapitazione di Luigi XVI, re di Francia e puntualmente scrive che faceva freddo, che il termometro segnava tre gradi. Non batte ciglia, non emette un minimo segno di orrore. E il giorno dopo, come al solito, invita a pranzo una sua amica, Madame Sellier, perché Guittard con tutti i guai che il paese attraversa ha sempre di che mangiare o dar da mangiare ai propri ospiti. Nel marzo 1794 assiste all’esecuzione di Hébert e di altri 19 cospiratori e saluta, con una pennellata di luce, la nuova primavera: “Il faisait le plus beau temps du monde, et chaud”.
Altri tempi, va da sé. Ma la domanda resta terribilmente attuale: senza i giornalisti che facevano da coro a quell’immane lotta tra il bene e il male, i magistrati di Mani Pulite avrebbero avuto tutto il potere che hanno avuto? Si affacciavano alla tv e bloccavano i decreti del governo sulla carcerazione preventiva; camminavano per strada e venivano applauditi, incoraggiati, osannati. Nell’aula di Montecitorio venivano fiancheggiati da deputati che esibivano il cappio, che inneggiavano alla forca, che sventolavano le manette. A Roma, davanti all’hotel Raphael, il già presidente del Consiglio – Bettino Craxi, sempre lui – viene insultato nella maniera più sordida: con il lancio delle monetine. Allons enfant. E quando all’ancien regime, decapitato dalle inchieste, succede Silvio Berlusconi – era venerdì 21 novembre 1994, vigilia del vertice Onu di Napoli – ecco che una “manina manona” della Procura confida sottobanco a un cronista del Corriere della Sera che il Cavaliere è stato colpito, manco a dirlo, da un avviso di garanzia per concorso in corruzione. Una data da segnare. Rivela che da quel momento la magistratura sa come amministrare, per fini politici, i tempi di una notizia: nasce la “giustizia a orologeria”. E rivela anche che tra gli inquisitori e i chierici, in forza della lunga frequentazione, si è stabilita una complicità, un pactum sceleris che non ammette tradimenti. Da un lato c’è il magistrato che viola il segreto istruttorio e organizza all’un tempo l’aggressione politica; dall’altro lato c’è un giornalista che promette di non rivelare mai la fonte e che già pregusta l’avvento di altre indiscrezioni, di altre carte cedute di contrabbando, di altri dossier consegnati in barba a tutte le leggi. A chi apparteneva la “manina manona” della fatale confidenza? Dopo trent’anni il mistero resiste ancora.
Mani Pulite, comunque, non c’è più. Antonio Di Pietro, l’attore più popolare e ombroso di quella stagione giudiziaria, ha tentato la strada della politica ma alla fine, inseguito da incresciosi interrogativi sulle sue attività e sulle sue relazioni, ha preferito ritirarsi nelle campagne di Montenero di Bisaccia e lasciare ai posteri l’immagine di un Cincinnato inseguito da mille dicerie: dirà che lo perseguitavano le dicerie degli untori. Piercamillo Davigo ha scalato invece tutti i gradi e i trofei della giurisdizione, ha predicato a tutte le ore la buona novella del giustizialista che vede solo colpevoli e mai un innocente, ed è finito come per contrappasso in una palude maleodorante dove affiorano faide e rancori tra toghe che fino a un giorno prima sembravano campioni di rigore e santità. Con lui, nelle inchieste di Brescia, sono finiti anche nomi altisonanti della procura milanese, a cominciare da quel Fabio De Pasquale, l’aggiunto di Francesco Greco, che per oltre dieci anni ha dato la caccia all’Eni e ha perso in malo modo la sua personale partita con la giustizia. Le indagini sono ancora alla fase preliminare. Chi vivrà, vedrà.
E’ rimasto intatto invece il sistema inaugurato il 21 novembre del 1994 dal giornalista del Corriere – unico e solo, non più in pool – che ricevette da una manina della procura milanese la soffiata dell’avviso di garanzia a Berlusconi. Gli eredi non si contano. Spaziano da Palermo a Firenze, da Catanzaro a Reggio Calabria, da Napoli a Trani. Si sono attaccati soprattutto alle costole dei “magistrati coraggiosi”, di quelli che vogliono riscrivere la storia d’Italia e che per compiere questa ardita impresa hanno bisogno di essere eroi e di avere le mani libere su tutto, anche sui codici. Fateci caso: ovunque c’è un magistrato che cerca l’onnipotenza lì c’è un giornalista che lo serve fedelmente, che dilata ogni suo respiro, che avalla le sue ambizioni, che consacra i suoi teoremi, che sa come sfogliare e leggere le intercettazioni, che sa come condurre il gioco perverso di mascariare i nemici e mettere in difficoltà un partito, un governo, un sindaco o un presidente. E’ il giornalista con le stellette, praticamente un soldato. Ma per darsi un tono si definisce giornalista d’inchiesta e come tale si guadagna anche lui uno strapuntino nel piazzale degli eroi: se gli va bene gli assegnano pure la scorta.
Un magistrato teoricamente – molto teoricamente – può anche pagare pegno dopo uno scivolone. Va bene che cane non mangia cane; però può sempre capitargli un inciampo o un procedimento disciplinare davanti al Consiglio superiore della magistratura. Mentre al giornalista d’assalto – o dalla schiena dritta, decidete voi – difficilmente succede qualcosa. Partiamo dai fatti: fu mai richiamato alla decenza l’autore dello scoop che qualche anno fa portò alle dimissioni di una ministra, definita in uno scazzo con il fidanzato “sguattera guatemalteca”, ministra puntualmente archiviata? Il giornalista coraggioso, ma soprattutto premuroso nei confronti del magistrato che gli ha rifilato l’indiscrezione, avrà certamente sostenuto, con gli amici e con i colleghi, di avere esercitato il diritto di cronaca; quel diritto che garantisce anche la possibilità di entrare a gamba tesa nella vita privata degli altri, di devastarla di sfregiarla, di distruggere storie e reputazioni, di polverizzare carriere e patrimoni. E’ la stampa, bellezza!
Ma per scoprire come il connubio tra malagiustizia e giornalisti diventa a tratti persino velenoso bisogna entrare nel rito palermitano. Qui la lotta tra mafia e antimafia non ha mai conosciuto tregua. Qui ci sono stati i veri eroi, come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, trucidati da attentati che hanno segnato punte altissime di morti, di sangue e di terrore. Ma sull’onda lunga della doverosa e strenua guerra ai boss e ai picciotti, ai complici e ai fiancheggiatori, si sono istruiti anche molti processi finalizzati – quasi tutti in buonafede, ci mancherebbe altro – a colpire chi aveva garantito alla cupola di Cosa Nostra coperture politiche, oltre che istituzionali. Si cominciò, già nel 1993, subito dopo l’arrivo di Gian Carlo Caselli alla procura di Palermo, con il processo a Giulio Andreotti, sette volte presidente del Consiglio dei Ministri e leader nazionale di una corrente democristiana che in Sicilia aveva come massimo esponente Salvo Lima, morto ammazzato nel marzo del ’92, e i terribili cugini Nino e Ignazio Salvo, esattori mafiosi di Salemi. Un processo non facile, per carità. Ma Andreotti finì assolto: non c’erano prove sufficienti. I giornalisti più vicini alla procura si impegnarono fino allo spasimo. Tirarono fuori persino il bacio tra il callido statista e il sanguinario Riina, detto “Totò u’ curtu”, boss latitante dei sanguinari corleonesi. Ma non ci fu niente da fare.
Poi si montò un processo per mafia anche contro Corrado Carnevale, presidente della prima sezione della Corte di Cassazione, definito dal circolo delle anime belle un “ammazzasentenze” perché aveva annullato condanne che lui, giureconsulto di scuola eccellente, aveva ritenuto ingiuste e approssimative. Apriti cielo. Si mobilitarono plotoni di pentiti che parlarono di borse piene di soldi in viaggio da Palermo fino al palazzaccio romano di piazza Cavour. L’anziano giudice fu intercettato, offeso, oltraggiato, umiliato. “Prima lo chiacchierano selvaggiamente e poi dicono che è un giudice chiacchierato”: fu questo il commento di Leonardo Sciascia, scrittore di verità. Ma, nonostante lo schieramento militare di giornali e professionisti della diffamazione, anche Carnevale fu assolto: non c’erano prove.
Il salto nel cielo delle cose mai viste avviene però nell’immediata vigilia delle elezioni del 2013. Antonio Ingroia, un procuratore aggiunto di Palermo che coltiva l’ambizione di una carriera politica, riesuma brandelli di inchieste più volte archiviate e imbastisce una mastodontica trama su una improbabile trattativa tra i vertici dello Stato – a cominciare dai generali dei carabinieri che nel gennaio del ’93 avevano catturato Riina – e i padrini di Cosa Nostra. Una boiata pazzesca, affidata quasi esclusivamente alle patacche di Massimo Ciancimino, figlio di quel Vito Ciancimino che negli anni del sacco edilizio fu sindaco di Palermo e uomo dei corleonesi nel gioco sporco della politica. Massimuccio – divenuto per esigenze di copione “icona dell’antimafia” e incoronato come tale da un bacio pubblico di Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato in via D’Amelio – diventa il ventriloquo del padre e ha quindi il diritto di inventarsi tutte le sceneggiature necessarie per trasformare l’inchiesta in un romanzo criminale. Un romanzo che Ingroia, vicino alla discesa in campo come candidato alla poltrona più alta di Palazzo Chigi, affida per intero nelle mani di una fidatissima confraternita di giornalisti e dei loro tambureggianti talk-show. E’ il trionfo – pubblico e assordante – del circo mediatico giudiziario. E’ il punto di arrivo di un processo che non si celebra più in un’aula del tribunale ma direttamente e ufficialmente in piazza perché il magistrato che lo ha istruito preferisce le luci della ribalta ai ritmi lenti e un po’ noiosi della Corte d’Assise. Massimo Ciancimino non è più un testimone a disposizione di accusa e difesa, ma un attrezzo di scena nel palcoscenico della finzione e di una politica fatta di cenere e fango, per dirla con Giobbe.
Povero Célestine Guittard. Nel dicembre del 1795 la rivoluzione, che aveva creato e spezzato tanti idoli, non lo incanta più. Troppa violenza, troppa oratoria inutile e beffarda, troppi disastri. “Tous les beaux discours ne flattent plus l’oreille”, scrive. E chiude il diario.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 febbraio 2022.
Qualcuno non ha ancora capito che rischia di passare alla storia (minore) come un servo, come un cronistello che abdicò al proprio dovere per servire dei padroni nuovi anziché quelli vecchi, anzi peggio: perché oltre a sdraiarsi a pelle di leopardo sulle toghe furono anche funzionali all'inchiesta che seguirono, ne furono uno strumento eterodiretto che diffondeva carte (alcune, non altre) e serviva a fare da effetto richiamo.
Forse i cronistelli pensano che gli storici leggeranno le loro cronache, ma ha già risposto Indro Montanelli: «Quando gli studiosi dovranno ricostruire questa pagina della nostra storia, avranno un serio problema. Non potranno attingere a piene mani dalle fonti dei giornali e dei telegiornali, perché i giornalisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, si sono lasciati trascinare dal soffio della piazza, e spesso dalla caccia alle streghe. Sono stati dei veri piromani, che volevano il rogo, e si sono macchiati di un'infame abdicazione».
La «redazione giudiziaria unificata» si formò il 21 aprile 1992 alla pizzeria Gambarotta di via Moscova, e la motivazione ufficiale era non disperdere notizie, gestire la sovrabbondanza, prevenire le censure, in pratica disciplinare la strumentalizzazione che di loro faceva palesemente Di Pietro in cambio di vanagloria.
Un cronista del Corriere l'ha ammesso trent' anni dopo: «Dal 17 febbraio 1992 ogni interrogatorio, verbale, arresto s' è sempre tradotto in un passo verso il primo, vero bersaglio dell'inchiesta, il Cinghialone». Craxi.
«Dovremmo chiederci se sia normale che un'inchiesta abbia un bersaglio...o se sia opportuno che i cronisti che la seguono vi partecipino con tanta foga da considerare un successo un atto di accusa».
E pure stappare una bottiglia per specifici avvisi di garanzia, appendere il primo lancio Ansa dell'avviso a Craxi, stampare magliette con scritto «Anch' io seguo Mani pulite», partecipare a festicciole in una villetta di Merate - del fidanzato della mia amica carissima Cristina Bassetto, ex Avanti!, morta nel 2017 - dove per caso c'ero anch' io, e dove c'era pure la prosperosa segretaria che un giorno avrebbe passato a un cronista del Corriere la fotocopia del mandato di comparizione per il premier Silvio Berlusconi, 21 novembre 1994.
Ma il pool dei cronisti in quel periodo si era già praticamente sciolto, anche se mondo continuava a girare attorno sempre alla stessa cosa. Sì, quella. Capitò anche quando il Carabiniere Felice Corticchia, invaghito della cronista Renata Fontanelli del Manifesto, le passò i verbali del manager Giuseppe Garofano che accusavano Raul Gardini, e che lei, sotto pseudonimo, scrisse sul settimanale Il Mondo ripresa da tutti giornali: Gardini lesse e si sparò. Ma stiamo correndo troppo.
Anzitutto diamo per scontato che io da questo pool ero escluso: mi capitava di entrare nella sala stampa del palazzo di Giustizia e di vedere uscire gli altri, spesso dovevo fingere di non conoscere i soli due o tre cronisti che più tardi, segretamente e per telefono, mi avrebbero dato una mano. Non c'era notizia o carta o verbale che uscisse senza che i magistrati lo volessero, benché, materialmente, spesso provvedevano avvocati che facevano i loro interessi.
Ecco: i verbali che uccisero Gardini non erano autorizzati. Ma capitò anche a me, di rompere il giochino. Sull'Avanti! ne pubblicai uno - solo io- che chiamava in causa un democristiano moralizzatore, Antonio Ballarin, di passaggio anche cugino del pm Gherardo Colombo.
Gli altri cronisti quel verbale non l'avevano avuto, tanto che un collega, Piero Colaprico, mi disse a brutto muso che era «un falso». Invece era vero, tanto che Ballarin, con l'Avanti! sotto il braccio, chiese spiegazioni in procura e ne uscì da indagato. Che bello: brindai anch' io alle disgrazie altrui, per un giorno ero diventato un servo di procura, lo strumento di un gioco basato sulla pelle altrui.
Ma non abbiamo ancora inquadrato la truppa dei ragazzotti. Bruno Perini del Manifesto, nel 1993, li descrisse così: «A Tangentopoli i giornalisti hanno avuto il loro padrone: la magistratura... si sono scordati pezzi del Codice penale, pezzi importanti delle garanzie che la legge prevede per gli imputati... sono diventati i portavoce della Procura e i depositari dei verbali d'interrogatorio... Con un'aggravante: le fonti di informazione erano univoche».
I cronisti chiamavano «Dio Zanza» o «Zanzone» Di Pietro (imbroglione in milanese) mentre il capitano Zuliani era «Mago Zu» e il tentacolare avvocato Federico Stella era «Luce prima», il cronista Buccini del Corriere era «Duracell» (sarebbe stato meglio Lexotan) e Luca Fazzo di Repubblica era «Panzer». Il decano dell'Ansa li chiamava «quelli che ce l'hanno sempre duro».
Un mensile di categoria, Prima Comunicazione, li descrisse come «un gruppo di cronisti che si comporta in maniera alterata, abbandonando il privato». Buccini del Corriere ha scritto: «Nella nostra sala stampa comincia a fare capolino un biondino poco più che ventenne. Si chiama Filippo Facci... ci fa l'effetto di un milite di Salò entrato per sbaglio in una riunione del Cln. Sta cominciando a raccogliere carte che in capo a un anno finiranno sotto l'ambigua etichetta degli "omissis di mani pulite"... è un collega, persino più giovane di noi... In un altro tempo saremmo solidali.
Ora gli stendiamo attorno una specie di cordone di avversione e isolamento. Del resto ci sentiamo più che mai in prima linea». In prima linea a sparare e basta: senza controffensiva. Ma con la forza della fede: «Che avessimo più o meno tutti una formazione di sinistra è vero. L'inchiesta ci dava la conferma di ciò che noi avevamo sempre pensato dell'Italia: dei socialisti, degli andreottiani, di Ligresti e poi dello stesso Berlusconi.
E quando ritieni di vedere la conferma di quello che pensi, non cerchi altre verità...Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Brambilla, un cattolico, noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra... Tutto questo può non pregiudicare il lavoro nell'immediato: ma può metterlo a rischio più in là». Può e poté, infatti. Ma non erano tutti di sinistra, comunque.
E vero che Brambilla era un moderato, infatti lasciò il gruppo e cedette il posto al più esaltato Gianluca Di Feo. Paolo Foschini di Avvenire, il giornale dei vescovi, aveva poco da fare il compagno. Frank Cimini del Mattino lo era pure, di sinistra, ma in stile «manifesto», un garantista sovrastato dai fatti. Maurizio Losa della Rai, molto vicino a Di Pietro, era un ordinario reggimicrofono. Andrea Pamparana del Tg5 era figlio del portinaio di casa Pillitteri ed era un bravo ragazzo.
Enrico Nascimbeni dell'Indipendente, figlio del noto Giulio del Corriere, non era nulla che abbia senso classificare. Giustizialisti puri erano Buccini, Paolo Colonnello (Il Giorno, amicone di Di Pietro) e Peter Gomez (Il Giornale) e i cronisti dell'Unità più ovviamente Luca Fazzo e Pietro Colaprico, quest' ultimo capace di scrivere un libro titolato «Capire Tangentopoli» senza mai nominare (mai) l'epicentro fondamentale di Tangentopoli sfuggito clamorosamente ai magistrati milanesi: il banchiere Pierfrancesco Pacini Battaglia, il cui ruolo fu scoperto solo nel 1996 da un'altra procura.
AMMISSIONI
Luca Fazzo nel 2011 ammetterà che l'inchiesta non sarebbe stata possibile «con il rispetto formale delle regole», e che ci fu la «sospensione temporanea delle garanzie». E che sarà mai. Ancora Fazzo: «Erano stati suddivisi i compiti: a L'Espresso si davano i verbali, al Corriere le interviste. Borrelli si affacciava nel corridoio e diceva «Chiamatemi Buccini», voleva dire che aveva bisogno di essere intervistato».
Signorsì signore. Quando poi uscirono il «dossier» del Sabato e il mio semiclandestino «Omissis di Mani pulite», che rivelavano giù un sacco di verità sull'ambiguo Di Pietro e criticità su Mani pulite, ecco Buccini trent' anni dopo: «Sarebbe stato nostro compito di giornalisti trovare quelle verità intermedie, se esistono, o almeno disporci a cercarle, per raccontarle... Non siamo in grado di farlo».
Non furono in grado di fare i giornalisti: perché fare i giornalisti significa scrivere e farsi inseguire dai magistrati, non inseguire i magistrati per pietire carte e cartacce, come dei Travaglio qualsiasi. In quei due «dossier» non c'era una sola cosa falsa, ma tutti i giornali ne imboscarono a dir poco i contenuti. Ancora Buccini del Corriere, trent' anni dopo, la liquiderà così: «Un lavoro di verifica sul passato dell'eroe nazionale avremmo ben potuto e dovuto farlo anche noi... Non lo facciamo.... Dismettiamo la pratica stampigliandovi sopra il timbro «spazzatura» e ci mettiamo l'animo in pace».
Ma di vero c'era tutto, in quei dossier. Una sentenza bresciana ne darà questa definizione: «Puntigliosa analisi di fatti meticolosamente documentati... contrassegnati da profili di rilevanza quanto meno disciplinare... in quel dossier ve n'era abbastanza per ottenere una qualche attenzione da parte di autorità disciplinari». Per Di Pietro. C'è da capirli, i cronistelli: dovevano render conto a capi e direttori, quelli che la sera si telefonavano per concordare le pagine. Ne parliamo domani, come di certi telegiornali.
Mani Pulite, lo scandalo rivelato da Filippo Facci: "Il cronista che faceva l'autista per Di Pietro". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022
La giusta distanza tra Milano e Montenero di Bisaccia - calcolando il percorso più breve - è di quasi 700 chilometri. La giusta distanza tra una fonte e un giornalista, invece, quel giorno fu di mezzo metro per sei ore filate: perché in auto, diretti ai funerali della madre di Antonio Di Pietro, a fare da autista a Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo fu Goffredo Buccini del Corriere della Sera. Pure autista. Era il 9 settembre 1994. A quelli del Corriere mancava solo di pulirgli casa, ai magistrati, o di fare le indagini al posto loro: e non è una battuta. Al Corriere infatti avevano un Cerved, un monitor verde che permetteva di accedere alle banche dati societarie e fare per esempio le visure camerali, e spesso, per questioni pratiche, il Pool dei magistrati telefonava direttamente in via Solferino e chiedeva il favore. Il Corriere dettava legge e la esercitava pure. Dei camerieri delle notizie, il pool dei cronisti, abbiamo parlato ieri: l'alta cucina, però, era materia dei gran cuochi e del masterchef Paolo Mieli, peraltro eletto per disposizione di Craxi perché un tempo era stato praticamente uno di famiglia. L'ennesimo errore di Craxi.
Comunque: i vari direttori si mettevano d'accordo a loro volta, un po' come i cronisti, per concordare titoli e prime pagine: Alessandro Sallusti chiamava Dario Cresto Dina della Stampa (il direttore può smentirmi, ovviamente) mentre Paolo Ermini chiamava l'Unità, che sua volta chiamava Repubblica perché Corriere e Repubblica non volevano sentirsi direttamente, essendo concorrenti agguerriti. C'era tutto un giro di telefonate tra Corriere, Stampa, Unità, Repubblica e talvolta anche Mattino; poi Mieli, sentite le notizie degli altri, le confrontava con le sue e decideva l'apertura del Corriere: dopodiché, ancora, i caporedattori ritelefonavano agli altri per informarli. Il direttore dell'Unità era Walter Veltroni, alla Stampa c'era Ezio Mauro, il caporedattore di Repubblica era Antonio Polito. Mieli e Mauro non hanno confermato, ma prima di Mieli, che divenne direttore dal 2 settembre 1992, c'era il reggente Giulio Anselmi, che si è limitato a dire: «Capitava che ci scambiassimo informazioni... Lo sbaglio è stato di aver riproposto l'idea che molti di noi, me compreso, avessimo un ruolo nella rinascita del Paese... abbiamo dimenticato a volte che le procure sono solo una delle fonti possibili e non la verità».
L'ACCORDO
Il primo a rivelare questo patto deontologicamente e democraticamente vergognoso è stato Piero Sansonetti, allora condirettore dell'Unità. Antonio Polito ha confermato: «Le cose funzionavano come dice Sansonetti... c'era un vuoto, i partiti pesavano pochissimo, il governo era altrettanto debole, perse in pochi mesi una decina di ministri che si dimettevano anche per le nostre campagne di stampa. Abbiamo interpretato e indirizzato l'opinione pubblica. Facemmo quel patto proprio perché il nostro peso era enorme. Quella scelta di federarsi fra giornali non fu buona, non la rifarei. Ma lo dico oggi». Furono organizzate campagne anche decisive magari nella scia dei comunicati indignati che la procura di Milano leggeva talvolta davanti alle telecamere: capitò col Decreto Conso e col Decreto Biondi. Per il primo caso, Polito l'ha messa così: «Giovanni Conso era specchiato, l'oggetto era tentatore e l'idea nemmeno campata in aria... Però decidemmo insieme di ostacolare quel decreto, di ostacolare la soluzione politica, di lasciare che i giudici andassero fino in fondo. E non fu difficile. In quel clima ci bastava scrivere "decreto salvaladri" e il gioco era fatto».
IL DECRETO CONSO
Piero Sansonetti è stato ancora più chiaro: «Il decreto non fu bocciato dal Parlamento, ma dal pool dei giornali... alle sette del pomeriggio ci fu l'abituale giro di telefonate con gli altri direttori e si decise di affossarlo. Il giorno dopo i quattro giornali spararono a palle incatenate, e tutti gli altri giornali li seguirono... Il Presidente della Repubblica si rifiutò di firmare il decreto, che decadde». Tra i pochi giornali non sdraiati sulle procure c'era Il Giorno diretto da Paolo Liguori, dove scrivevano firme come Andrea Marcenaro, Carla Mosca e Napoleone Colajanni. Suo antagonista naturale era L'Indipendente, dove ai brindisi all'avviso di garanzia si accompagnavano talvolta dei veri e propri ammiccamenti alla ribellione. La linea editoriale manettara del direttore Vittorio Feltri portò il quotidiano, partito quasi da zero, a superare le 100mila copie. Persino al Manifesto, storicamente garantista, a parte sporadici editoriali di Luigi Ferrajoli o Ida Dominijanni o Rossana Rossanda, la linea pro-giudici non conosceva soste. Parleremo un'altra volta del giornalismo di costume, più affine al fenomeno del dipietrismo e a ciò che scrissero senza pudore giornaliste come Camilla Cederna, Maria Laura Rodotà, Chiara Beria di Argentine, Laura Maragnani e persino molti uomini (tacciamo per solidarietà di specie) che descrissero Di Pietro come un sex symbol, tutta spuma attorno alle articolesse più seriose ma parimenti prostrate di editorialisti come Marcello Pera, Ernesto Galli della Loggia, Saverio Vertone, Paolo Bonaiuti, Maurizio Belpietro e Paolo Guzzanti.
NESSUNA CRITICA
Il dipietrismo fa parte del comico, non del conformismo che si traduceva in una sostanziale mancanza di libertà di stampa, e che, in caso di rare critiche all'operato della magistratura, doveva sempre essere preceduto da litanìe di premesse: premesso che l'azione dei giudici è salutare, che devono fare il loro lavoro e andare fino in fondo, che si limitano ad applicare la legge, che c'era un sistema che andava debellato, che le critiche rischiano di delegittimare la magistratura facendo calare la tensione nella lotta alla mafia, che bisogna evitare colpi di spugna (eccetera). Sulle tv poi servirebbe un trattato. Satira a parte (era dappertutto) sul Tg3 sembrava sempre che l'Armata Rossa fosse alle porte di Trieste. Tra i sovrani delle telepiazze brillò il solito Michele Santoro ma anche il cinico Gianfranco Funari (un talento) nonché il finto dimesso Gad Lerner. Va notato che Berlusconi, che ormai aveva ottenuto tutte le concessioni che gli servivano - e che prima di ottenerle aveva cercato di acquietare un pochino il «suo» Giornale - si rese co-protagonista della montante antipolitica e della sua pre-politica, lasciando ai suoi telegiornali assoluta briglia sciolta.
Secondo una ricerca, il 38enne Enrico Mentana (che dapprima, il 18 febbraio, dimenticò di dire che Mario Chiesa era socialista) sul suo Tg5 usò la parola «clamoroso» 54 volte in un mese, battuta solo da «polemica» (61 volte). Clamorosi gli arresti. Clamorosi gli sviluppi (delle inchieste). Clamorose le reazioni (suscitate dagli arresti, dalle inchieste, dagli sviluppi delle inchieste) e insomma un martellamento con sfondo sempre di auto che sgommavano, ammanettati che entravano e uscivano dal portone di San Vittore con la sporta in mano, ovviamente il solito Di Pietro con un filo di barba che passeggiava eternamente davanti al suo ufficio. Nel mese febbraio-marzo 1993 il tg di Mentana dedicò 61 notizie a Mani pulite contro le 27 del Tg1, 61 agli avvisi di garanzia e di custodia cautelare contro i 21 del tg Rai, 29 agli arresti contro i 12 del concorrente. Il linguaggio era da calamità naturale: bufere, cicloni, raffiche, tempeste, nubi, valanghe e uragani. Il 38 per cento dello spazio del Tg5, in febbraio e marzo, nell'edizione delle ore 20 era dedicato alle inchieste di Milano, il 18 per cento alla cronaca, appena un quinto dello spazio andava alla politica. Ma inchieste e politica erano ormai la stessa cosa.
Mani Pulite, Filippo Facci e il metodo-Di Pietro: "Perché i giudici lasciavano la porta aperta". Filippo Facci su Libero Quotidiano il 20 febbraio 2022.
Chi le passava le notizie ai cronisti, in definitiva? Cominciamo col parlare di Italo Ghitti, che è sempre stato ipocrita come tutti i veri cattolici: sin in dal primo interrogatorio di Mario Chiesa era comparso con la sua barbetta nel ruolo di gip (giudice delle indagini preliminari) inteso come malriuscito "giudice terzo", quello che secondo il Codice doveva stare in equidistanza tra accusa e difesa. Ex contrattista di diritto ecclesiastico, per i cronisti diverrà "nano ghiacciato", benchè bramoso della sua porzioncina di celebrità. Fu lui ad autorizzare gli arresti chiesti dai pm, e le sue rarissime opposizioni furono rondini che non fecero mai primavera: non convaliderà le manette di quattro consiglieri dell'Ipab (un istituto di beneficienza) e poi del manager della "Torno Costruzioni" Angelo Simontacchi, del direttore della Siemens Italia Jurgen Ferlinge, del socialista Loris Zaffra, del cassiere Pds Marcello Stefanini. Sono solo esempi, ma la mancanza di terzietà di un intero Paese, oltre ai ricorsi dei pm, lo ricacciarono sempre in un ruolo comprimario, da vidimatore delle carte dell'accusa. Ghitti è stato il gip "unico" di Mani pulite, un'anomalia assoluta sulla quale di recente si è espresso Guido Salvini, giudice istruttore delle indagini su Piazza Fontana (e caso Parmalat e Abu Omar), che non aderì mai a nessuna corrente della magistratura e passò quegli anni proprio all'ufficio gip: «Un unico gip accentrò indebitamente tutti filoni dell'indagine... un meccanismo da cui dipendeva il funzionamento di quell'inchiesta sistemica... fu comodo non doversi confrontare con una varietà di posizioni che si potevano incontrare all'interno dell'ufficio gip», ha detto Salvini, «che era formato da una ventina di magistrati... Così il Pool escogitò un trucco, costituendo un fascicolo che in realtà era un registro che riguardava centinaia di indagati (poi migliaia, con circa 9.000 richieste di arresto, ndr) su vicende completamente diverse: il numero era sempre lo stesso, il 8655/92, estensibile a piacere anche a vicende per cui la competenza territoriale di Milano non esisteva».
PRINCÌPI SOVVERTITI
Insomma, i princìpi dell'Ufficio furono sovvertiti radicalmente, spiega Salvini: «Ci fu un episodio che mi riguardò. Nel maggio 1993 un filone arrivò a me per sbaglio... portava scritto sulla copertina quel famoso numero 8655/92... prima ancora che potessi decidere su alcune richieste del Pool, il fascicolo mi fu sottratto e passò al gip Ghitti, evitando così che io o qualsiasi altro gip interferisse nella macchina di Mani pulite». Parentesi: la testimonianza dell'ex gip Salvini non attesta solo che Mani pulite rinunciò alla terzietà del giudice, ma permette di retrodatare la decisione di direzionarsi verso una "rivoluzione" che i magistrati di Mani pulite hanno sempre teso ad ancorare a uno strabordante consenso popolare che a quel tempo ancora mancava: quando Ghitti divenne l'anomalo gip unico, a ben vedere, mancava ancora tempo alle elezioni "terremoto" del 5 aprile 1992, che pure registrarono una sostanziale tenuta del partiti; mentre era prossimo l'affiancamento all'inaffidabile Di Pietro di magistrati come Gherardo Colombo e poi Piercamillo Davigo. Mani pulite cominciò così a correre da sola, con le sue anomalie e progressive forzature delle regole, in attesa del plebiscitario appoggio popolare (da maggio e soprattutto dall'autunno) che le permetterà addirittura di volare. Ancora prima delle elezioni del 1992, il gip Ghitti disse: «Il nostro obiettivo è colpire un sistema, non le singole persone». Bene, ma perché l'abbiamo definito ipocrita? La risposta sta in un altro esempio a margine del mancato arresto di Marcello Dell'Utri: il Tg5 anticipò la notizia (dopo discussione tra Andrea Pamparana ed Enrico Mentana) e il gip Ghitti disse: «Ricordo anche l'ora... le 15.57 dell'8 marzo 1994... Mi resi conto che non riponevo più fiducia nella correttezza di alcuni pm, ebbi la certezza che determinate notizie uscivano dagli uffici dei pubblici ministeri». Ah, lo capì allora. Gherardo Colombo spedì in sala stampa addirittura un finanziere: «Allora, chi è stato? Chi vi passa le notizie?». Un cronista rise: «Ma dite sul serio?». Ma Ghitti era ipocrita anche per un'altra ragione, e qui segue un racconto personale. Ricordo bene: salimmo al settimo piano e la porta del gip era aperta, complici i buoni rapporti con due dei cronisti (uno era il mitico Frank Cimini) e l'apparente ordinarietà di quello che stavamo facendo. Era sera, era buio. Entrammo nella stanza, Ghitti era a capo chino e stava scrivendo qualcosa con la penna. Non alzò il capo, non salutò, nessuno salutò lui. Noi non esistevamo. Sulla scrivania, ordinatissimi e in bella vista, erano appoggiati dei provvedimenti d'arresto che aveva appena firmato ed altri che probabilmente stava per firmare. Nessuno disse una parola, nessuno toccò niente, tutti videro tutto. Pochi minuti dopo lasciammo la stanza con tutte le notizie o conferme che ci servivano. E lui, Ghitti, ufficialmente non aveva mostrato niente a nessuno, non aveva parlato con nessuno. Funzionava anche così. Ghitti peraltro sapeva essere spietato: dopo aver firmato l'ordine d'arresto per Raul Gardini il 16 luglio 1993 (che però non gli venne consegnato per settimane, tenendolo in cottura e contribuendo al suo suicidio), ecco che subito dopo che il finanziere si era sparato Di Pietro mandò ad arrestare vari parenti e amici di Gardini, tra i quali Carlo Sama e Sergio Cusani; e il gip Italo Ghitti disse: «Eccezionalmente su quei provvedimenti ho indicato l'ora. Le 9 del mattino. Pochi minuti dopo il dramma. Per testimoniare che, nonostante il dolore, la giustizia deve andare avanti». Più che la giustizia, gli arresti.
IL BAGNO ADIACENTE
Bene, ma allora: chi passava le notizie ai giornalisti? La risposta è: tutti. Magistrati, avvocati, segretarie dei magistrati, poliziotti, carabinieri, le squadre investigative dei pubblici ministeri, cancellieri, gente che coi giornalisti aveva anche tresche sessuali o voleva averne. Dall'aprile 1992 all'estate 1993 furono condivise in pool, poi non più. Poi naturalmente facevano qualcosa anche i cronisti, ce n'erano di bravi e non mancarono risvolti anche divertenti. Sino a un certo periodo fu sufficiente piazzarsi nel bagno adiacente alla stanza del gip e aspettare che entrassero i pubblici ministeri: da lì si distingueva perfettamente ogni parola, non c'era neppure bisogno di appoggiare l'orecchio al muro. Colombo non parlava quasi mai. Di Pietro e Davigo raccontavano barzellette soprattutto sui socialisti. Da un certo punto in poi però i magistrati se ne accorsero: uno entrò in bagno e trovò i cronisti come colpiti da dissenteria di massa. Poi c'era uno come Luca Fazzo, detto Panzer, che placcarlo era dura: il 30 marzo 1992, quando Mario Chiesa venne interrogato al gabbiotto (una costruzione prefabbricata infelicemente piazzata nel cortile del Palazzaccio), c'era una finestrella aperta, e per ascoltare bene Fazzo si appese a una grondaia. A semplificare tutto c'era che il Pool di Milano abolì di fatto il segreto istruttorio e anche in questo si sostituì al legislatore: che cosa fosse il segreto istruttorio presero a raccontarselo da soli, anche se il Codice prevedeva il contrario rispetto a certi comporti. Il 19 dicembre 1992 ci fu un convegno organizzato dal Gruppo di Fiesole (giornalisti di sinistra) eil neo giurista Piercamillo Davigo la mise così: «Il segreto istruttorio è posto a tutela dell'attività investigativa, non dell'onorabilità dell'inquisito... Se mi dicono "sei un ladro" non posso difendermi dicendo "è un segreto", ma dimostrando che non è vero». Chiamasi inversione dell'onere della prova. Più ideologicamente, al convegno, disse il neo giurista Gherardo Colombo: «È vero che il diritto alla riservatezza va tutelato, ma quando il progredire di tutti confligge con l'interesse particolare, io penso che il più delle volte vada sacrificato il secondo al primo». Io penso. Anche il neo giurista Francesco Saverio Borrelli, in più sedi, aveva spiegato che il segreto in pratica non esisteva più. Talché il noto avvocato Corso Bovio, legale dell'Ordine dei giornalisti lombardi, rispose: «Per anni, come avvocato dei giornalisti, ho sostenuto decine di cause per violazione del segreto istruttorio promosse proprio dalla procura milanese. Il nuovo indirizzo di Borrelli mi auguro che valga in ogni circostanza, e non solo nell'inchiesta sulle tangenti». Il procuratore neo giurista Marcello Maddalena, da Torino, sostenne invece che il diritto alla riservatezza dell'indagato «comunque è secondario rispetto all'esigenza di scoprire la verità». Insomma, la magistratura cancellò letteralmente il segreto istruttorio perché le andava bene così, e la loro regola divenne la regola. Ai giornalisti piacque e piace a tutt' oggi.
L'AUTORE DEL CODICE
Chi il Codice l'aveva scritto, però, la pensava al contrario. Nel 1992 provai a intervistare Giandomenico Pisapia, co-relatore del Nuovo Codice chiamato "Pisapia Vassalli". Mi disse così: «È il processo che è pubblico, non le indagini. Il Codice vieta la divulgazione di atti che sono in gran parte segreti: il segreto serve a tutelare sia le indagini sia l'indagato, che naturalmente teme che la divulgazione di notizie possa pregiudicare un'immagine che, una volta guastata, non può essere ripristinata nemmeno in caso di assoluzione». Sempre nel 1992, il vicepresidente del Csm, Giovanni Galloni, diede conferma: «La stampa deve intervenire solo a conclusione delle indagini, e l'avviso di garanzia deve essere protetto da segreto istruttorio». Fantascienza. Se interessa, era d'accordo anche un certo Giovanni Falcone, che lo disse davanti al Csm: «L'avviso di garanzia non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell'interesse dell'indiziato». Archeo-fantascienza.
“L’inciucio” delle carriere tra pm e giudice in una foto del ’92. Il Dubbio il 23 Febbraio 2022.
Nel libro di Goffredo Buccini, “Il Tempo delle Mani Pulite”, spunta la foto del Gip Italo Ghitti e del Pm Di Pietro fianco a fianco. Eppure il primo avrebbe dovuto verificare la tenuta delle inchieste del secondo.
Un estratto del libro di Goffredo Buccini, “Il Tempo delle Mani Pulite”, Laterza, Bari-Roma 2021, pp. 231, 18,00 euro.
«Mentre Amato sale al Quirinale con la lista dei ministri, i socialisti scagliano attacchi pesanti contro Mani pulite, minacciando perfino dimissioni a raffica dalle cariche pubbliche se l’inchiesta non verrà fermata: una linea da cui si dissocia, pur tra distinguo, Claudio Martelli. Gennaro Acquaviva, un senatore molto vicino a Craxi, sostiene che “nelle indagini vengono adottati provvedimenti di tale violenza che non trovano riscontro neppure nelle inchieste contro la mafia e vengono commesse illegalità sempre più evidenti in dispregio dei diritti dei cittadini”. Ovviamente è in questione la “dottrina Davigo”, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti. Il giorno prima sono finiti in cella il segretario politico e quello amministrativo del Psi lombardo, il partito regionale è decapitato. Un avviso di garanzia arriva anche al deputato Sergio Moroni, a sua volta ai vertici regionali del Garofano fino a poco prima. Ormai pubblichiamo quasi ogni giorno gli elenchi dei “politici coinvolti”, una specie di summa quotidiana del crollo di sistema ridotta a infografico come le formazioni delle squadre di calcio nelle pagine sportive. A fine giugno i dc arrestati sono 11, 7 i pidiessini della corrente migliorista, 11 i socialisti, un repubblicano, 11 i parlamentari indagati tra democristiani, socialisti, repubblicani e pidiessini, 24 gli imprenditori incarcerati: ed è, chiaramente, solo l’inizio di ciò che ci aveva preconizzato ad aprile l’avvocato D’Aiello nei giardinetti davanti a San Vittore.
Severino Citaristi, segretario amministrativo nazionale della Dc, riceve il suo primo avviso di garanzia per finanziamento illecito del partito. Gliene arriveranno decine, facendone il recordman degli avvisi. In questo, a guardar bene, si potrebbe già cogliere un paradosso dell’indagine: perché Citaristi è un vecchio bergamasco onestissimo, tutti sanno che non si è messo in tasca una lira, e tuttavia il meccanismo è spietato, scivola verso la responsabilità oggettiva (che nel diritto penale non trova spazio, tranne che per eccezionali fattispecie). “Non può non sapere” è un assunto che, per il momento, affonda i contabili ma promette di arrivare ben oltre. Si danno intanto alla macchia Giovanni Manzi, presidente della Sea, e Silvano Larini, l’architetto craxiano animatore delle notti di Brera. Entrambi considerati membri del circolo più stretto attorno al leader. Il partito di Craxi si sente preso di mira, e lo è, ma non per congiura: piuttosto, per il semplice motivo che l’inchiesta ha quale epicentro Milano, la città dalla quale Craxi aveva iniziato a costruire la sua ascesa e in cui ha radicato il suo potere. Dopo l’affondo di Acquaviva, i giornali ci chiedono una reazione dalla Procura. In gruppetto saliamo alla stanza di Borrelli, dove ci riceve in anticamera Alfonso, il fidato segretario del procuratore, che dispensa a noi ragazzetti della cronaca sorrisi tra il bonario e l’altezzoso, da vecchio ciambellano della Real casa. Consumata una certa dose di attesa, si manifesta infine Borrelli, ironico, felpato, l’aria di chi sia appena stato distolto da una battuta di caccia alla volpe: alza gli occhi con un lieve moto di sopportazione verso il soffitto del suo studio imbiancato di fresco quando gli riferiamo le battute sulle illegalità dell’inchiesta. Finge chiaramente di apprenderle in quel momento e sogghigna a mezza bocca: “Vorrei proprio conoscere in dettaglio quali sarebbero le illegalità cui fanno riferimento i nostri critici. In realtà ne abbiamo molte di illegalità sotto gli occhi e riguardano comportamenti del passato. Finché la legge penale non cadrà in desuetudine, il mondo dell’illegalità starà lì, nelle cose e nei fatti di cui ci stiamo occupando”. È la prima volta che questo magistrato quasi invisibile, noto soprattutto per la sua prudenza e la sua discrezione, usa il rasoio contro chi critica l’inchiesta. Ho l’impressione che il ruolo non gli dispiaccia affatto. E ho quasi la certezza che quel ruolo possa trasformarlo in un grande comunicatore. In quelle ore, Giulio Anselmi pubblica sul Corriere un editoriale molto netto, “Di chi è la giustizia”, che traccia la linea ufficiale del giornale: ci chiama fuori dalla mitizzazione di Di Pietro ma chiede ad Acquaviva di produrre qualcosa di più di generiche accuse se vuole essere creduto. In realtà la vera notizia starebbe nella foto accanto al testo che gira in terza pagina: Di Pietro e il gip Ghitti insieme, sorridenti e sottobraccio alla festa dell’Arma; “due dei giudici che indagano sulle tangenti”, recita la didascalia, nella sostanza ineccepibile, nella forma giuridica gravemente sbagliata. Perché Di Pietro non è un giudice ma un pubblico ministero e perché Ghitti non dovrebbe indagare con Di Pietro ma giudicarne le indagini, essendo appunto il giudice delle indagini preliminari, il gip.
Questa confusione non scuote granché noi cronisti del pool, ma forse dovrebbe. Perché è il punto di caduta della storia del decennio precedente, che Anselmi sintetizza con efficacia nella prima parte dell’editoriale. La contesa comincia con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati (nato dagli errori e dagli orrori del caso Tortora e voluto da Craxi nell’87) e si trascina fino alla battaglia sulla superprocura antimafia che avrebbe coinvolto Falcone. “In passato la maggioranza dell’opinione pubblica era assai ostile agli uomini in toga, spesso arroccati in una inaccettabile difesa dei loro interessi corporativi e non creduti neppure quando sostenevano che i politici volevano colpirli per motivi tutt’altro che nobili: svincolarsi da ogni controllo, impedendo ai magistrati di applicare la legge. Prendersela con i giudici, insomma, era politicamente redditizio. Oggi la situazione è radicalmente diversa…»
Tangentopoli vista da dentro: il libro di Goffredo Buccini in edicola con il «Corriere». MARCO IMARISIO su il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.
Siamo tutti reduci di qualcosa. E non c’è nulla di male. Abbiamo tutti una esperienza, lavorativa o di vita, e quasi sempre i due aspetti si sovrappongono, che ha in qualche modo definito quel che siamo, che ci ha segnato più di ogni altra vicenda. Goffredo Buccini, oggi editorialista e inviato del «Corriere», è stato un giovane redattore che all’inizio degli anni Novanta entrava nel palazzo di giustizia di Milano, intimidito dai suoi marmi razionalisti e dall’autorevolezza di colleghi più esperti di lui, convinti che la cronaca giudiziaria fosse ormai finita, non era più quella di una volta.
Il libro di Goffredo Buccini, «Il tempo delle mani pulite», sarà in edicola a partire dal 17 febbraio con il «Corriere della Sera» al prezzo di 12 euro. Il libro è realizzato in collaborazione con Laterza. Non sapevano di essere sull’orlo del vulcano. E ben presto la politica italiana e la società italiana sarebbero state travolte dalla sua esplosione. Non potevano immaginare che ben presto sarebbe cominciato un tempo nuovo, quello delle Mani pulite. Dopo, nulla sarebbe più stato come prima. Così la pensava Buccini in quegli anni, a dire il vero così la pensavamo tutti. Per chi cominciava a fare questo mestiere, e stava alla finestra, quella inchiesta e quel che stava succedendo, era tutto ciò a cui si poteva aspirare.
Goffredo Buccini è inviato speciale ed editorialista del «Corriere della Sera». Ha seguito in presa diretta per il quotidiano di via Solferino tutta la stagione di Mani puliteLa speranza di cambiare un mondo con i propri articoli, di redimere il proprio Paese dai suoi vizi endemici, si è rivelata una illusione. Poi venne la Seconda Repubblica e ora siamo nella Terza, e insomma, non rimane poi molto di quella stagione così aspra, se non una discussione ormai trentennale su quel che avrebbe potuto essere, e sugli errori e gli eccessi che lo hanno impedito. Ma il reduce Buccini non fa certo del reducismo, ai miei tempi era tutto più importante, eravamo tutti più bravi. Anche perché, a differenza di altri, lui è andato avanti, ha compiuto altri viaggi, altre esperienze, ha continuato a studiare.
Proprio per questo, Il tempo delle mani pulite (1992-1994) non è soltanto un libro di ricostruzione, di memoria e di riflessione su quella esperienza così importante. È anche un romanzo di formazione, è vita vissuta, elaborata con gli occhi di oggi, perché nessuno dovrebbe mai essere uguale al sé stesso giovane. Si cambia, si cresce, si diventa più consapevoli, così dovrebbe essere.
Anche chi ha trascorso gli ultimi trent’anni su Marte e non conosce Mani pulite dovrebbe leggere questo libro. Perché dentro ci sono tante altre cose. C’è quel rito così desueto in una società bloccata come la nostra, il passaggio del testimone tra diverse generazioni di cronisti, c’è la Milano degli anni Ottanta, forse da bere ma così orgogliosa di quel che era, fino a sconfinare nella presunzione, nel senso di impunità delle sue principali figure. C’è un percorso personale, raccontato senza sconti a sé stesso, con il quale è possibile immedesimarsi a prescindere dal proprio mestiere, con quella immagine del Duomo nella nebbia che per Buccini «è un ricordo di libertà, e di possibilità» che lo accompagna nei suoi primi anni, e chi non l’ha provata quella sensazione di Milano come terra promessa, che in qualche modo anche se non ci sei nato ti riconosce, come cantava Giorgio Faletti.
E poi, certo, Il tempo delle mani pulite è un bellissimo libro sul giornalismo. Sul senso di questo mestiere. Sulle scelte estreme che bisogna fare nel giro di dieci minuti, sulla fatica che ci vuole, per tirare fuori una notizia, scriverla, impaginarla. E subito pubblicarla, perché il frigorifero che le tiene al fresco consentendo di soppesarle e farle maturare non è stato ancora inventato. Quando, di preciso, abbiamo cominciato a pensare che «le carte» fossero l’unico prisma possibile per interpretare la realtà? Chi mette in circolo atti di procedimenti ancora aperti, brani di intercettazioni? Se ne discute da sempre. Anzi, da allora. Buccini lo sa, e lo racconta con episodi reali e senza fare teorie, come è cambiato il modo di fare cronaca e quali siano le conseguenze che ancora oggi paghiamo. Perché c’era quando tutto questo è cominciato, perché ha vissuto quell’epoca da protagonista, facendola coincidere per altri due anni con la sua vita, senza staccare, senza mai dormire tranquillo, con la paura del buco, la notizia mancante, sempre a ronzare nella testa.
L’opera che adesso viene pubblicata con questo giornale ha già fatto molto discutere, perché non si tratta di memorialistica, ma di una ricostruzione dei fatti che tiene conto di quel che sappiamo oggi, e di quel che siamo diventati. Buccini fa rivivere un’epoca che non considera più gloriosa come pensava allora. L’indignazione per quelle tangenti, per un malcostume noto a tutti e del quale nessuno parlava, era nell’aria. E non fu un bel sentimento collettivo. Produsse senso di onnipotenza nei magistrati, negli indagati paura di essere arrestati e messi alla pubblica gogna, con la confessione come unica via di uscita. Il popolo applaude, in Parlamento sventola il cappio.
I giornalisti di Mani pulite si sentono supereroi del fumetto che loro stesso contribuiscono a creare. Tempo per riflettere, non ce n’è, e in fondo nessuno vuole farlo. Ci sono invece i reati, dettaglio che troppo spesso oggi si tende a scordare, nell’autodafé del senno di poi. Buccini adotta la giusta distanza che all’epoca era oggettivamente impossibile mantenere. E nel farlo, scrive un libro al tempo stesso intimo e di interesse pubblico, che ci aiuta a capire davvero l’essenza di quel biennio così cruciale. E cosa ha significato, per tutti noi.
Mani Pulite trent’anni fa. Rivoluzione mancata che ha reso gli italiani più faziosi. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 13 febbraio 2022.
Tutto cominciò a Milano il 17 febbraio 1992: il socialista Mario Chiesa riceve dall’imprenditore Luca Magni 7 milioni di lire in contanti. «Soldi miei» dice al capitano Zuliani che lo arresta. «No, sono nostri», replica il carabiniere. E parla a nome dell’Italia.
30 luglio 1993: alcuni pm di Mani pulite in Galleria, nel centro di Milano, si dirigono verso il Duomo per partecipare ai funerali di Stato delle vittime della strage di via Palestro. Da sinistra Di Pietro, Colombo e il capo Borrelli
Quella sera a Milano c’è nebbia. Nella caserma della Celere di via Cagni, tra Bicocca e Niguarda, avvolge i lampeggianti delle volanti che scaricano 102 arrestati, una vera retata. Ed è rotta da un vocione che pare dirigere il traffico: «Di qua, di qua, portatemeli qua!». Si sbraccia Antonio Di Pietro mentre colloca nei loculi per gli interrogatori medici e notai, funzionari comunali, faccendieri e ispettori della motorizzazione catturati nell’inchiesta sulle patenti facili: un Caronte che smista anime in pena. Torchierà tutti quasi in contemporanea, saltabeccando da un terzo grado all’altro per contestare contraddizioni, e sbraitando a uso di noi cronisti, passati ... casualmente da quelle parti. Annoto con scrupolo, ma non capisco. Non ho gli elementi per rendermi conto che la sera del 1° dicembre 1987 sto assistendo alla nascita di un metodo: giudiziario e mediatico. Quando, oltre quattro anni dopo, mi ritrovo davanti quel semisconosciuto sostituto procuratore con astuzie da commissario messicano ed eloquio da presepe vivente, il metodo è perfezionato. E molte cose sono cambiate. Nel mondo, con la caduta del Muro di Berlino. E da noi: perché gli italiani cominciano a votare in libertà senza più lo spauracchio del comunismo.
Nuovo metodo e nuovo codice
Il nuovo codice di procedura penale (rito accusatorio, all’americana) ha ottenuto l’effetto contrario a quello che (occultamente) si proponeva: i socialisti al governo sognavano di ridimensionare i pubblici ministeri, facendone parti del processo pari agli avvocati; logico sarebbe stato alla lunga mettere i magistrati sotto qualche forma di controllo politico: prima che accadesse, i magistrati si sono messi a remare tutti assieme contro la politica.
QUEL GIORNO COMINCIO’ IL CROLLO DI UN SISTEMA DA CUI NASCERA’
UNA TRANSIZIONE CHE ANCORA OGGI NON SI E’ AFFATTO CONCLUSA
L’Italia ancora governata dal Caf (l’asse tra Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani) è attraversata da una crisi economica devastante: il premier socialista Giuliano Amato (braccio destro di Craxi) è stato costretto a una Finanziaria lacrime e sangue, la lira è uscita dallo Sme (il serpentone monetario progenitore dell’euro). Sono insomma finiti i soldi, sui quali si reggeva il patto degli anni Ottanta tra un sistema politico che otteneva consenso in cambio di debito pubblico, finanziamenti occulti in cambio di appalti truccati, e una popolazione ormai assuefatta all’assistenzialismo clientelare. Gli imprenditori si sfilano: i grandi perché sperano in una nuova Italia neoliberista che mandi al macero il keynesismo dei vecchi partiti e salti subito sul treno europeo del Trattato di Maastricht; i piccoli semplicemente perché strangolati da mazzette che non riescono più a pagare, in un Paese in cui il malcostume è diventato cavallo di battaglia di un comico genovese, Beppe Grillo, epurato dalla Rai per le sue barzellette anticraxiane.
Impresa di pulizia al Pio Albergo Trivulzio
Uno tra i più piccoli, Luca Magni, titolare di una ditta di pulizie che lavora col Pio Albergo Trivulzio (la Baggina, per i milanesi), non riesce più a sostenere l’ingordigia del patron dell’istituto, Mario Chiesa, socialista in rampa di lancio per Palazzo Marino e gran boiardo delle tangenti milanesi. Va dai carabinieri. Il capitano Roberto Zuliani lo porta da Di Pietro. Insieme firmano le banconote (sette milioni delle lirette d’allora) che Magni dovrà consegnare a Chiesa. Quando quello le prende, scatta il trappolone. «Sono soldi miei», dice il tangentista. «No, sono nostri», replica Zuliani a nome dell’Italia. È il 17 febbraio 1992, Mani pulite nasce così. E comincia così il crollo del sistema, da cui nascerà una transizione che ancora oggi, trent’anni dopo, non si è affatto conclusa. Finché il sistema teneva, nessuno aveva mai parlato, certo dell’impunità. Chiesa ci mette cinque settimane a San Vittore per capire che il sistema non tiene più e che il suo leader, Bettino, è così indebolito da doverlo insultare al tg («un mariuolo») per prenderne le distanze.
Il crollo di Chiesa , tutti cella
Il 23 marzo, crolla. Parlerà per giorni, tirando dentro tutte le imprese che avevano rapporti col Trivulzio e attivando un meccanismo esponenziale, perché gli imprenditori chiamati in causa finiscono in cella e a loro volta parlano coinvolgendo altri ancora: per uscire. Solo chi confessa rompe il patto coi complici diventando inaffidabile: è la teoria di Piercamillo Davigo, il Dottor Sottile che, con il saggio Gherardo Colombo, il procuratore Saverio Borrelli affianca in pool Di Pietro quando, infine, si capisce che l’inchiesta è decollata e «i magistrati faranno centinaia di arresti e scriveranno un romanzo», come prevede il facondo avvocato Vittorio D’Aiello che intercettiamo nei giardinetti del carcere, tra un interrogatorio e l’altro dei suoi clienti. La novità sconvolgente è che per la prima volta in galera ci vanno tanti colletti bianchi, non più solo i barabba. Comincerà così, e durerà per mesi, la processione di “penitenti”, big indagati o solo sospettati che, per evitare il passaggio in carcere, si mettono in fila davanti all’ufficio di Di Pietro (la mitica stanza 254) assistiti da “avvocati accompagnatori”, legali amici della Procura aventi il solo vero mandato di verbalizzarne le confessioni.
Le elezioni e la Lega
Dopo le elezioni di aprile, che sanciscono la crisi dei partiti di governo e l’ascesa della Lega di Bossi, in poche settimane l’inchiesta travolge la politica milanese e poi quella nazionale, i tesorieri e i segretari di partito e i manager delle imprese maggiori: la spartizione è a monte, per quote fisse, con collettori designati dai segretari, e tiene dentro tutti, anche l’opposizione del Pci-Pds tramite cooperative.
Sotto il palazzo di giustizia di Milano cominciano a raccogliersi supporter, cortei, fiaccolate al grido di «Tonino salvaci dal male», si vendono magliette col logo di Tangentopoli, poster con le facce dei pm in versione Intoccabili , un film che spopola. Di Pietro, con la sua callidità da Bertoldo, diventa in breve l’eroe pop che dovrebbe vendicare gli italiani vessati dai partiti: la sua Montenero di Bisaccia sembra Camelot, la sua ostentata rudezza un antidoto marziale alle mollezze da fine regime della Prima repubblica. Una rappresentazione forzata, alla quale molto contribuiamo noi dei media, i primi talk show, la carta stampata. Noi, cronisti assegnati a questa storia, siamo quasi tutti giovanissimi e seconde firme: all’inizio nessuno credeva che Chiesa parlasse, così i big non erano stati mandati in campo; quando quello parla, noi abbiamo in mano tutte le fonti, così l’inchiesta non può togliercela più nessuno. Si tratta però di rischiare molto, raccontando dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno: non ha senso contenderci notizie, ha senso piuttosto controllare che siano tutte vere, che non ci lancino una “polpetta avvelenata” per intossicare l’intera narrazione (attorno al palazzo di giustizia corvi e volpi cominciano a raccogliersi in gran copia).
Il pool dei giornalisti
Una sera di primavera, al ristorante Gambarotta di via Moscova, nasce dunque il pool dei cronisti: reggerà bene il primo anno, la prima lunga ondata dell’indagine. Ma, certo, ci toglierà qualcosa; avendo quasi tutti la stessa formazione da sinistra studentesca, quasi tutti abbiamo gli stessi pregiudizi: il nostro Craxi “ideale” assomiglia molto a quello delle caricature di Forattini, gli imprenditori a certi caratteristi della Piovra. Siamo decisi a salvare il mondo per via giornalistica. Poiché l’inchiesta sembra regalarci proprio la verità che abbiamo già in testa, quasi nessuno di noi sente il bisogno di guardarla anche da qualche altra angolazione: il bene di qua e il male di là, è manicheismo giovanile.
NOI CRONISTI SIAMO GIOVANISSIMI, CON UN PASSATO NELLA SINISTRA STUDENTESCA: NON SENTIAMO IL BISOGNO DI DARE ALTRE ANGOLAZIONI
Sicché del memorabile discorso del leader socialista alla Camera, il 3 luglio, cogliamo solo la disperata e vana chiamata di correità davanti a colleghi muti e atterriti («se gran parte di questa materia va considerata criminale, allora gran parte del sistema sarebbe criminale») e non, anche, la portata visionaria per quanto allucinata (da allora in avanti, la politica sarà sterco del demonio per tanti, troppi italiani). Quando ad agosto, isolato e ormai col fiato dei pm sul collo, Craxi lancia quattro corsivi sull’ Avanti per sostenere che Di Pietro non è forse l’eroe che pensiamo, elencando una lunga serie di suoi rapporti pregressi nello stesso milieu milanese poi oggetto dell’inchiesta, noi derubrichiamo tutto a fango. E, certo, il fine di Craxi è quello, infangare. Ma noi non ci domandiamo se in tanto fango ci sia qualche fiorellino di verità, non rilevante penalmente, s’intende, ma significativo sul piano dell’immagine se non della deontologia. Così, un po’ tradiamo i lettori o, almeno, impediamo alla parte più moderata di essi di avere un punto di vista completo, distante dalle fazioni che già si vanno delineando. Neppure sui suicidi, che iniziano quell’estate, ci soffermiamo a riflettere.
Il calderone
Il deputato socialista Sergio Moroni ammette, nella lettera d’addio al presidente della Camera, Giorgio Napolitano, di avere preso 200 milioni (di lire) per il partito. Ma non è un ladro, per sé non ha intascato un soldo. Sui media dovremmo distinguere meglio, proteggere le dignità: tutto finisce in un calderone da dove la rabbia popolare attinge. Ormai il piano è inclinato, verso l’inevitabile. Craxi prende il primo avviso di garanzia a metà dicembre 1992: molti gli appioppano l’infame soprannome di Cinghialone, l’obiettivo della caccia. Non c’è da stupirsi se, quando la Camera ne nega, ad aprile ‘93, l’autorizzazione a procedere, una folla inferocita lo copra di sputi e monetine davanti all’Hotel Raphaël, sua abituale residenza romana.
Il sistema è in ginocchio. E, come spesso in simili frangenti, in Italia si muovono forze oscure. Se il primo anno è stato segnato dagli attentati a Falcone e Borsellino, la seconda estate dell’inchiesta risuona delle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. Nella città di Mani pulite, un’autobomba davanti alla villa comunale fa cinque morti e dodici feriti. Due giorni dopo, ai funerali solenni, i milanesi seguono in un corteo spontaneo Borrelli e gli altri magistrati del pool, inneggiano a Di Pietro, invocano la forca, coprono di fischi e insulti le autorità dello Stato.
DI PIETRO È IL CAMPIONE DEL PAESE REALE ANTI ÉLITE E IL DIPIETRESE UN MIX DI PROVERBI DELLA NONNA E STRAFALCIONI FORSE STUDIATI
L’onda giustizialista
Nemmeno altri due suicidi eccellenti, quello del finanziere Raul Gardini e del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, invertono la grande onda giustizialista che sembra conquistare il Paese. Le vere esequie della Prima repubblica si celebrano pochi mesi dopo, in diretta tv. Al primo processo per la maxitangente Enimont (i 150 miliardi versati da Gardini ai partiti per sciogliersi dalla letale joint venture con la mano pubblica), Di Pietro decide di portare alla sbarra un solo imputato, il finanziere Sergio Cusani, consulente di Gardini, e tutti i segretari di partito come testimoni. In decine di udienze trasmesse al mattino da Un giorno in pretura , gli italiani vedono così i potenti d’un tempo flagellati dal loro amato pm: che li umilia (tutti tranne Craxi), sfoggiando per l’occasione il dipietrese, un mix di proverbi della nonna, imprecazioni, sbuffi e strafalcioni forse anche studiati, che ne accentuano la distanza di campione del Paese reale (che «parla come mangia») dall’élite tanto deprecata. Le forche caudine vengono però risparmiate al Pci-Pds: questo, oltre a generare polemiche che durano tuttora, convincerà gli eredi di Berlinguer e della sua questione morale di avere infine la via spianata (dai giudici) verso la conquista del potere. Achille Occhetto arma la sua «gioiosa macchina da guerra», che diventerà invece simbolo di sconfitta.
L’arrivo dell’imprenditore populista
Perché le elezioni di marzo ‘94 (le prime con un sistema a prevalenza di maggioritario) dimostrano che dalla caduta di un sistema parlamentare nessuno di quel sistema si salva. E consegnano il Paese al primo vero populista della nostra Repubblica, Silvio Berlusconi: imprenditore non certo osteggiato dai vecchi partiti, amico personale di Craxi, e tuttavia capace, con uno straordinario illusionismo politico e televisivo, di convincere milioni di italiani di essere una specie di maverick, un anticonformista, portatore di un ossimoro, la rivoluzione liberale. I lunghi mesi di tensione del suo governo con il pool sfociano nell’invito a comparire che Borrelli e i suoi gli fanno recapitare mentre è a Napoli, presiedendo per l’Italia un vertice mondiale sulla criminalità (sfregio che lui mai perdonerà) e nell’inopinato addio alla toga di Di Pietro, proprio a ridosso dell’interrogatorio cui il pm avrebbe dovuto sottoporre il premier (dopo avere annunciato ai colleghi «quello lo sfascio»). È un’Italia smarrita e avvelenata, quella che esce infine dai due anni più turbolenti della sua storia repubblicana, il 1992-94.
Due falsi miti
Gravata nei decenni successivi da due miti fasulli e contrapposti: il golpe giudiziario (mai avvenuto, poiché i partiti si suicidarono tramite corruzione e degrado morale) e la Mani pulite “mutilata” da un sistema ricompattato (altra fandonia, poiché a fermarla furono l’ambigua defezione di Antonio Di Pietro e la caduta di consenso tra cittadini stufi della mistica delle manette). Dopo stagioni di berlusconismo e antiberlusconismo, giustizialismo di piazza e garantismo peloso, retorica del vaffa e partitocrazia senza ormai partiti, l’etica pubblica è svanita quasi del tutto, la corruzione è più diffusa di prima e ha infettato perfino la magistratura: l’illusione di riformare un Paese per via giudiziaria mostra oggi tutte le sue falle. Più che un clamoroso processo in tv servono molte discrete ore di educazione civica in classe. «Sei un rinnegato», mi dice con ostinazione un vecchio cronista del nostro pool. Qualche orologio è rimasto fermo all’ora di trent’anni fa.
Tangentopoli, Di Pietro vs Buccini: “Smettila di fare complottismo”. “Acrimonia inutile”. Gisella Ruccia su Il Fatto Quotidiano il 30 marzo 2015.
Scontro concitato in più momenti tra l’ex leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, e il giornalista del Corriere della Sera, Goffredo Buccini, a L’aria che tira (La7). Il tema del dibattito verte sull’eredità di Mani Pulite, che Di Pietro difende appassionatamente, smentendo, in primis, la sua fama di pm “cattivissimo”. Poi spiega la frase di Piercamillo Davigo (“Rivolteremo l’Italia come un calzino”): “Significava voler andare a fondo delle indagini”. Buccini puntualizza: “Voleva anche dire rivoltare moralmente l’Italia, un’idea evidentemente sbagliata“. “Sono proprio curioso di vedere che ti inventi”, ribatte Di Pietro, che rinfaccia al giornalista il suo celebre scoop sull’avviso di garanzia all’allora premier Silvio Berlusconi (Fi), mentre guidava a Napoli un vertice sulla criminalità. Il dibattito esplode quando l’ex pm parla dell’operato del suo pool: “Prima di occuparci di Mario Chiesa, a Milano avevamo fatto tante inchieste. Buccini se lo dovrebbe ricordare, invece di teorizzare complotti politici e di fare il maestro. Eravamo solo funzionari dello Stato che facevano il loro dovere”. E, commentando un articolo dello stesso Buccini, rincara: “La mancata sconfitta della corruzione? E che è, colpa nostra? Andate a leggere i giornali oggi. Tutti pieni di questo fatto: ‘Avete sbagliato’. Noi abbiamo fatto quello che abbiamo potuto fare, fino a quando l’abbiamo potuto fare. Se andate a leggere tutte le carte, vi accorgete che, man mano che siamo andati avanti, ci siamo soltanto dovuti difendere”. Buccini replica: “Mi sembra che da parte tua ci sia dell’acrimonia inutile“. E spiega il suo punto di vista, stigmatizzando l’entrata in politica dell’ex pm di Gisella Ruccia
Il tempo delle mani pulite. 1992-1994 di Goffredo Buccini
Recensione del libro. Mani pulite non è stata soltanto un’inchiesta che ha rivoluzionato la politica in Italia. È stata soprattutto una stagione di grandi illusioni: l’illusione della fine della corruzione e degli intrighi, l’illusione secondo cui i magistrati erano i vendicatori della società civile contro una politica marcia. A costruire questa mitologia furono la carta stampata e le televisioni. E questa è la loro storia.
Trent’anni fa un giovane giornalista del “Corriere della Sera” viene assegnato alla sala stampa del palazzo di giustizia di Milano. Siamo nel 1992 e la grande Storia ha deciso di mettersi improvvisamente in movimento e di farlo proprio a partire da qui. Nasce Mani pulite e a raccontarla è una banda di giornalisti ragazzini, i ‘mozzi’ delle diverse redazioni lasciati a seguire quelle che in un primo momento erano apparse come indagini senza futuro. Come un romanzo di formazione, li vediamo confrontarsi con i protagonisti di quei giorni, alle prese con la ruvida genialità di Di Pietro e le enigmatiche strategie di Borrelli, gli iperbolici paradossi di Davigo e l’amara saggezza di Colombo. Attorno, imprenditori e politici, avvocati e spioni, faccendieri e boiardi compongono una polifonia che non fa sconti su errori e orrori, dagli eccessi negli arresti alla catena di suicidi. Un’Italia dove si staglia la figura drammatica di Craxi e già emerge quella affabulatrice di Berlusconi; l’Italia scossa dagli attentati a Falcone e Borsellino e dalle stragi del ’93; quella della gogna per la Prima Repubblica in diretta tv al processo Cusani. È un racconto che abbraccia la vita di redazione di un grande giornale e le avventure sulle tracce dei latitanti di Santo Domingo. Trent’anni dopo, sarà solo la delusione di un gioco a somma zero.
Riduci
Una triste storia italiana. Il tempo di mani pulite e gli errori eterni del giornalismo giustizialista. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 30 Dicembre 2021.
Il libro di Goffredo Buccini dedicato a Tangentopoli, come quello di Mattia Feltri sul 1993, è un ottimo modo per ripercorre come in quegli anni i principi base dello stato di diritto sono stati calpestati in nome di un repulisti generale. Dovrebbero leggerlo i cronisti di oggi che hanno conosciuto non la tragedia, ma la sua ripetizione in farsa.
Nel 2022 saranno trascorsi 30 anni dalla discussa epopea di Mani pulite ed è prevedibile una ulteriore proliferazione di libri dedicati al Sacro Evento. Ulteriore, perché già ne sono usciti molti, quasi tutti di giornalisti o testimoni vari, in genere un po’ contriti per aver partecipato in modo acritico al banchetto retorico dell’epoca, i cui veleni hanno poi sparso, fino ai giorni nostri, conseguenze sulla vita pubblica (Regioni che cambiano colore politico in attesa che il Presidente arrestato venga infine assolto per non aver commesso il fatto) e purtroppo su quella privata di tanti.
Il suicidio di Natale del consigliere regionale piemontese Burzi assomiglia a un ultimo frutto tragico, coda interminabile anche di morte (44 casi, con questo), di quell’impasto mediatico giudiziario che ha radici nel doppio pool, giudiziario e giornalistico, che si occupò della questione dal 1992 al 1994. Nell’immaginario collettivo sono rimaste le mutande verdi del presidente leghista del Piemonte e tutti giù a ridere. Ma di cosa? Andrebbe davvero rivista e meglio approfondita anche questa rimborsopoli: spese definite legittimamente discrezionali, diventate peculato e variamente sanzionate a seconda delle Regioni, dell’esibizionismo dei pm e dei timori reverenziali dei giudici (nel caso Burzi: assoluzione, condanna, rinvio, condanna).
Della abbondante letteratura che si è occupata e sta occupandosi della questione, si segnalano in particolare due testi che meritano attenzione: “Novantatrè” di Mattia Feltri e il più recente “Il tempo delle mani pulite”, di Goffredo Buccini. Dicono cose simili, ma in modo molto diverso. Feltri ha inferto a sé stesso il supplizio di rileggere giorno per giorno l’agenda di quell’anno fatidico, reinterpretando gli appunti e gli articoli dell’epoca, propri e altrui, fino a rovesciarne spesso completamente il senso iniziale. Una specie di autofustigazione, un rimasticare le passioni violente di quei momenti, una espiazione da deglutire boccone per boccone, rospo per rospo.
Un esercizio che non sarà piaciuto ai tanti non pentiti di questa triste storia italiana, che non hanno nessuna voglia di rimettere in discussione qualcosa che la volontà generale ha già battezzato per sempre. Molto italianamente, si è storicizzato quell’evento al più come un eccesso necessario, un uscire dalle righe di gravità veniale, a fin di bene. È anche l’autoassoluzione degli stessi protagonisti: mica verranno a contestare a noi qualche forzatura del codice di procedura rispetto al codice penale, quello si, violato da corrotti e corruttori!
Nessun riferimento al fatto che la procedura è sostanza, e violarla significa cancellare gli assi portanti dello stato di diritto, conquista della civiltà giuridica, anzi della civiltà tout court. Che sarà mai? Stiamo a guardar il capello. Il giudice naturale spazzato via dal giudice per le indagini preliminari tuttofare, la custodia cautelare come strumento per sciogliere la lingua. Noi siamo i buoni, c’è stato ben altro, sul fronte dei cattivi!
Di queste forzature è ben consapevole Goffredo Buccini, che nel suo libro sceglie un approccio descrittivo più problematico, meno godibile di quello scoppiettante di Feltri, infarcito da citazioni e dichiarazioni Ansa dell’epoca che farebbero accapponare la pelle a un padre della Patria come Piero Calamandrei o all’autore del moderno codice penale, Giuliano Pisapia, ma forse anche al grande giurista del regime, Alfredo Rocco.
In modo molto sofferto e profondamente argomentato, Buccini ripercorre le vicende di quegli anni sfogliando non solo la propria memoria ma i ragionamenti, le riflessioni e un po’ anche i pregiudizi, le parzialità che lo avevano portato in quei momenti a giudicare in un certo modo i fatti che raccontava, giovane cronista tra l’incudine di Palazzo di Giustizia e il martello di un direttore, Paolo Mieli, che incombeva da via Solferino come un ascetico abate del nome della rosa, sempre imperscrutabile nella sua algida severità, disponibile a un buffetto amichevole solo in occasione dei numerosi scoop del cronista (le numerose interviste esclusive a Francesco Saverio Borrelli, la caccia ai latitanti di Santo Domingo).
Trent’anni dopo, le aberranti promesse di Piercamillo Davigo sull’Italia da rivoltare come un calzino, i cinici commenti di Gerardo D’Ambrosio per i suicidi evidentemente frutto della vergogna, i foruncoloni di Bettino Craxi irrisi da Antonio Di Pietro, possono essere riletti con distacco critico, ma in quel momento era oggettivamente impossibile qualunque obiezione.
L’aria era soffiata dall’indignazione, il peggiore sentimento collettivo che possa emergere in un popolo. Come la contestazione a Craxi davanti al Raphael, replica vergognosa di un eterno piazzale Loreto.
Le obiezioni odierne di Buccini al giornalismo dell’epoca, a cominciare da sé stesso, sono argomentate e sofferte – bisognerebbe le leggessero i cronisti della generazione successiva che hanno conosciuto non la tragedia, ma la sua ripetizione in farsa – ma nessuno in quella fase osava alzare il sopracciglio. Il pool, guidato dal moderato e aristocratico Borrelli, sembrava il politburo di un golpe quando si presentò alle telecamere per ricattare Governo, presidente della Repubblica con la penna già in mano, Parlamento, partiti e democrazia intera: se non ci fate più arrestare la gente per violazione del finanziamento dei partiti (per poi farli cantare in cella), noi ci dimettiamo e vedetevela voi con il popolo.
L’ordine giudiziario, funzionari statali scelti per concorso, che alzava la voce, sudato e affranto, in diretta TV, per intimidire gli unici poteri riconosciuti come tali dalla Costituzione.
Un appello furbastro alle casalinghe infuriate, agli imbrattatori di cavalcavia inneggianti a Di Pietro, al popolo dei fax che a spese del proprio ufficio, mandava lenzuolate a Palazzo di Giustizia, ai fiaccolatori della notte, ai tanti italiani sollevati dall’idea che le loro marachelle fossero ben poca cosa rispetto ai ladri di stato.
Popolo contro casta, un anticipo e un investimento sul primo comico che si fosse fatta venire l’idea di organizzare questa protesta all’insegna del fatti più in là, che tocca a me, perché l’onestà è tutta da una parte sola. Ma non si creda che il libro di Buccini sia la confessione di uno che ci ripensa, che vuol mettersi in pace con degli errori fatti in gioventù.
Il libro non cancella affatto quegli articoli scritti di getto, poco prima della chiusura del giornale. Li integra, li completa, consente di vedere i fatti da tutte le angolazioni ed è questo il suo contributo più importante alla ricostruzione della verità fattuale.
Le sue denunce sull’orrendo clima dell’epoca tengono dentro di sé anche le buone ragioni di una lettura critica di un contesto, e comunque non c’è alcuna intenzione di riabilitazione. I reati che c’erano, c’erano. L’omertà del sistema del cosi fan tutti erano un collante da sciogliere, ed era giusto farlo. Buccini non è insomma un Di Maio, che per convenienza dei tempi nuovi si converte al contrario di tutto ciò che lo ha portato al successo, uno che pensa che – per andare avanti e rinnovare il consenso – basta chiedere scusa, tenersi i voti raccolti con il populismo e praticare con compunzione, in giacca e cravatta, il più bieco conformismo del potere, auto blu e lottizzazione compresi.
Buccini non chiede scusa. Spiega a posteriori, e ci aiuta a capire.
Non è poco, e anche solo per questo val la pena di leggere un libro ben scritto, che serve anche a ricordare fatti e concatenazioni che tutti abbiamo un po’ dimenticato. È una ricostruzione che può illuminare meglio la storia recente d’Italia. Un solo errore, tra tanto anticonformismo: aver raccontato senza variazioni la storia della madre di tutte le tangenti, cioè la vicenda Enimont, cadendo nell’inganno che il processo Cusani sia stato anche il processo Enimont. Buccini è peraltro in buona compagnia, perché ripete quello che hanno detto e continuato a dire tutti i commentatori. Peccato, in un libro tanto controcorrente. Sarà per la prossima volta, dopo aver letto la sentenza Simi De Burgis, Cappelleri, Gatti, che parla non di una maxitangente ma di una molto successiva appropriazione indebita di privati versi altri privati. Meriterebbe un libro a sé.
Tangentopoli e i cronisti, il terremoto visto da Napoli: «Quelle urla in Procura...» Antonio Menna su Il Mattino Domenica 16 Gennaio 2022
Aleggia con dolcezza il fantasma di Giancarlo Siani, in questo bel libro di Goffredo Buccini, inviato ed editorialista del Corriere della Sera, origini napoletane e una carriera intera tra Milano e Roma. È una stella polare, Siani, che compare qui e là nel libro, quasi a voler raccontare la via di una generazione verso l'ambita professione. Cosa sarebbe stato se non avessi preso la strada per Milano, per quella scuola di giornalismo i cui diplomati sono stati poi tutti assunti? Che giornalista sarei diventato? Che opportunità avrei avuto? Con una domanda nella domanda: e se fossi stato al posto di Giancarlo, nelle periferie, nella rampa di accesso più estrema e contorta, così a ridosso del pericolo e della solitudine? Quanto poco è mancato perché lo fossi? Quasi come a dire che, per quella generazione di giornalisti non figli di giornalisti, che avevano la grande ambizione di entrare in una redazione, la vita era testa o croce. Testa ce la fai, croce no. A Buccini è uscito testa. A queste domande sull'esistenza e sul mestiere, sulle ambizioni e sulle vocazioni, sembra voler rispondere lungo tutto il libro, che annuncia di voler raccontare un'altra storia - un saggio storico su Mani pulite, l'inchiesta milanese che ha dato il via a Tangentopoli - mentre ci consegna un romanzo di realtà sui giornalisti che hanno raccontato Mani pulite, che si sono formati nell'altoforno del cambiamento d'epoca, e che poi hanno continuato a informare un Paese ubriaco di speranze e tramortito dalle delusioni, dove speranze e delusioni erano personali e universali.
Per questo soprattutto vale la pena leggere Il tempo delle mani pulite (Laterza): non solo la memoria di una inchiesta giudiziaria che ha attraversato il Paese, scomponendolo, e di cui forse si è detto quasi tutto; ma l'epica di un giovane cronista di origini napoletane a Milano, nella sala stampa del Palazzo di Giustizia, nella retrovia del più grande quotidiano italiano, accanto a veterani e nuove leve, a guardare la storia formarsi e formarsi lui stesso nella storia. Hanno sempre un grande fascino i racconti delle vite minime, personali, quando incrociano i grandi momenti collettivi. Buccini avanza con lo sguardo timoroso e spavaldo al tempo stesso, quello di un giovane trentenne uscito da pochi anni dalla scuola di giornalismo, approdato dopo un po' di gavetta al Corriere della Sera. È una epopea di capicronisti burberi e leali, come Ettore Botti, altro napoletano (calvinista) a Milano, detestato, temuto, amato, rispettato, quasi un prototipo di giornalista della fatica e del sacro fuoco, che muore troppo presto, anche un po' di solitudine. Buccini ci porta dentro la formazione di un giornalista, ed è molto affascinante questo viaggio nella professione. È un libro che deve leggere chi vuole fare questo mestiere: anche se il mondo è cambiato, sono cambiati i giornali, non è cambiato lo spirito, direi l'anima, del mestieraccio, e qui emerge tutta, col suo carico di dubbi, paure, guasconerie, sfide, trucchi, sussulti di coscienza, agendine nascoste, questioni di principio, vittorie, sconfitte, quasi mai un pareggio. L'esperienza di Buccini in quella sala stampa del Palazzo di Giustizia milanese, proprio quando da lì sta per venire giù il mondo, viene raccontata come deve essere: un cammino di formazione.
Un romanzo dove i protagonisti sono colleghi come Peter Gomez (stessa scuola, quasi compagni di banco). E Piero Colaprico, Luca Fazzi, un laborioso e sardonico Alessandro Sallusti: rivalità, ostilità, amicizie, rispetto. E per una volta sullo sfondo, strano a dirsi, i protagonisti di quella storia. I politici, come Pillitteri, Tognoli, ovviamente Craxi. I magistrati, con i loro caratteri, raccontati sul particolare, come Di Pietro, Borrelli, Colombo, Davigo, D'Ambrosio, ma anche Ghitti, e la Boccassini, il suo atto d'accusa dopo la morte di Falcone, e l'amarezza di Falcone stesso, quando riceve al Ministero della Giustizia, guidato dal socialista Martelli, atti da Milano senza gli allegati, perché magari poteva spifferarli proprio ai socialisti. Lui. Falcone.
E raccontata oggi, questa storia, ti mette davanti alla realtà a volte misera degli uomini, piccola, incapace di leggere la grandezza quando questa si manifesta. Tutto il libro di Buccini, seguendo un appassionante registro cronografico - dai primi anni Novanta con un capitolo finale sui 30 anni dopo - è una saggia mescolanza tra fatti minimi e fatti grandi, con l'inchiesta che parte timida, con la disillusione dei capi, quella Duomo connection che sfiora i vertici e tutti credono vada a tacere come sempre, fino a Mario Chiesa, con quella parola (mariuolo) che se Craxi non avesse pronunciato, forse non si sarebbe aperto il libro delle confessioni, tenuto ben vivace dal poliziotto Di Pietro. Insomma, c'è tutta la storia, nel racconto di Buccini, ma c'è soprattutto uno sguardo diverso. Muta il punto di vista rispetto a come ci è stata raccontata Mani pulite fino a oggi. Non è un resoconto esterno ma un origliare dalla stanza accanto. Sembra di stare lì, vicino alla 254 (ufficio laboratorio di Di Pietro), sembra di sentire le urla, sembra di capire, da un caffè al bar, da una telefonata a gettoni, da un dubbio, dalla paura di prendere un buco, dal titolo sparato con coraggio, che la storia poi quando si forma, lo fa proprio così: piano, lenta, dubbiosa, a piccoli passi sulle spalle degli uomini come Giancarlo Siani, che viene citato spesso, o come lo stesso Buccini - che imparano a fare tutto quello che stanno facendo già.
Gli anni delle Mani pulite in un libro di revisionismo (e pentitismo) giornalistico-manettaro. SALVATORE MERLO il 2 novembre 2021 su Il Foglio.
Da Davigo a Mieli, da Borrelli a Boccassini: l'ultima opera di Goffredo Buccini ripercorre gli anni di Tangentopoli. Nei suoi punti più illuminanti, non mancano i ripensamenti di un cronista di quel “pool di giornalisti “che alla procura di Milano affiancò il “pool dei magistrati”
Quando la cacciò dal pool antimafia di Milano, nel 1991, Francesco Saverio Borrelli spiegò la scelta con questo motivo dichiarato: “L’individualismo, la carica incontenibile di soggettivismo, di passione, la non disponibilità al lavoro di gruppo… La mancanza di freddezza e di controllo nervoso… La scarsa volontà di porre in comune risultati, riflessioni e intenzioni”. Questo ritratto di Ilda Boccassini fatto dal procuratore Borrelli, ritratto in cui non si faticherà a riconoscere ancora oggi l’ex magistrato impegnata a raccontarsi in televisione da Enrico Mentana pure ieri sera come protagonista principale della storia d’Italia degli ultimi trent’anni (fino al cattivo gusto di strumentalizzare il nome di Giovanni Falcone per farsi pubblicità), ebbene questo ritratto così calzante e attuale è contenuto in un bellissimo libro di Goffredo Buccini, uscito da poco per Laterza: Il tempo delle mani pulite (1992-1994).
Si tratta della biografia d’una procura, quella di Milano, fotografata negli anni determinanti in cui crollava la Prima Repubblica ma si ponevano anche le premesse per la delegittimazione cui sarebbe incorsa la magistratura italiana negli anni immediatamente successivi, fino a oggi, tra eccessi di protagonismo, inchieste farlocche, uso politico dell’azione giudiziaria, carrierismo e quant’altro. Un libro in cui, dunque, ricorrono oltre a quello di Ilda Boccassini soprattutto i nomi dei protagonisti di allora, da Francesco Greco a Piercamillo Davigo, fino a Gherardo Colombo: l’unico pm del pool che si è elegantemente sfilato dalla magistratura prima che emergesse il marciume. Lui infatti usciva da galantuomo, mentre Davigo e Greco quella stessa magistratura la scalavano (Di Pietro aveva già fatto in tempo a fare due volte il ministro).
Ma quello di Buccini, oggi inviato del Corriere della Sera, è forse soprattutto un interessante diario a ritroso di quel periodo. E’ la storia ri-raccontata, riletta (o meglio rivissuta) da parte di uno dei giovani cronisti che in quegli anni di furore cavalcarono professionalmente il drago giudiziario entrando a far parte, a Milano, del “pool di giornalisti “che affiancava il “pool dei magistrati” e che dunque offriva quotidianamente scalpi di democristiani e socialisti a un’opinione pubblica assetata di sangue. A trent’anni di distanza Buccini (che con Gianluca Di Feo diede sul Corriere della Sera la notizia del primo avviso di garanzia a Berlusconi nel 1994) fa dunque un prezioso, documentato, vivace – e onesto – esercizio di revisionismo sugli eccessi giudiziari e sul ruolo militante dell’informazione in quegli anni. Persino sul suo giornale, il Corriere diretto da Paolo Mieli.
Anche se l’autore non lo ammetterebbe nemmeno a se stesso. “Sarebbe ipocrita negare che, a parte il mio collega Michele Brambilla, un cattolico per bene vicino a Comunione e liberazione, noialtri abbiamo quasi tutti, chi più e chi meno, un percorso di formazione che viene da sinistra”, scrive infatti a un certo punto Buccini con il passo appunto del diario. E poi: “In qualche modo l’inchiesta contiene almeno in potenza la conferma del male che abbiamo sempre pensato di certi socialisti craxiani traditori della nostra causa, certi andreottiani mafiosi, certi imprenditori tentacolari e, in generale, di un potere costituito che sempre si oppone alle ‘magnifiche sorti e progressive’ di cui abbiamo deciso di essere alfieri sin dei licei e delle università”. E ancora: “Bisogna ammettere che dall’arresto di Chiesa in avanti abbiamo perso qualcosa di essenziale della nostra funzione, guardando troppo spesso in una sola direzione e non consentendo a tanti lettori moderati non militanti di formarsi un’opinione davvero indipendente”. Ecco, questo grado di consapevolezza e di onestà ce l’hanno avuto in pochi finora. Tra i magistrati, nessuno.
Salvatore Merlo. Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.
Mani pulite, coscienza sporca: analisi della rivoluzione per via giudiziaria. GIOVANNI FIANDACA il 19 novembre 2021 su Il Foglio
La presunzione di potere rivoluzionare un paese intero per via giudiziaria si è rivelata uno zibaldone di errori e giudizi sommari. Il gran libro di Goffredo Buccini, entusiasta della prima ora convertito al realismo
Èancora diffusa una narrazione, alimentata non a caso da alcuni esponenti della magistratura, noti anche per la loro esposizione mediatica, che somiglia a una favola e che può essere sintetizzata così. Ci sono stati negli ultimi decenni, e ci sono tuttora nel nostro paese, pubblici ministeri coraggiosi che hanno tentato e tentano di esercitare un controllo di legalità esteso al potere politico-amministrativo e a quello economico-finanziario. Ma gli appartenenti agli ambienti che temono questo controllo, simili ai cattivi delle favole che si coalizzano contro i buoni, fanno di tutto per bloccare le indagini giudiziarie, in combutta con criminali di varia specie e con la collaborazione di settori istituzionali “deviati” (a riprova della persistente attualità di questa vulgata si veda, ad esempio, l’intervista rilasciata da Nino Di Matteo al Fatto del 1° novembre scorso).
Che le cose possono essere abbastanza più complicate di quanto vorrebbero far credere i narratori della favoletta moralisticamente semplificatrice di cui sopra ce lo dicono però la storia e la stessa esperienza umana, da cui traiamo l’insegnamento che quasi mai il bene sta tutto da una parte e il male dall’altra. Di questa vecchia verità fornisce significative conferme il recente libro “Il tempo delle Mani Pulite”, scritto da Goffredo Buccini ed edito da Laterza (ne ha già parlato su questo giornale, definendolo bellissimo e prezioso, Salvatore Merlo in un articolo del 2 novembre). In effetti, si tratta di un libro ben fatto e la cui lettura risulta utile sotto più angolazioni. Non solo cioè in chiave di importante testimonianza, essendo stato Buccini trent’anni fa un componente di primo piano del pool di “giornalisti ragazzini” addetti a seguire le indagini su Tangentopoli della procura milanese, capeggiata allora da Saverio Borrelli e simbolicamente rappresentata soprattutto da Antonio Di Pietro. Il maggiore valore del libro risiede, anche a mio avviso, nell’avere Buccini sottoposto a revisione critica, con lucidità e onestà intellettuale, un’esperienza giovanile di lavoro giornalistico che lo aveva entusiasmato e profondamente coinvolto, anche in termini di piena condivisione ideale di una “rivoluzione giudiziaria” che appariva – almeno nei primi tempi – davvero volta e idonea a promuovere quel rinnovamento politico e quella rigenerazione morale di cui un’Italia percepita come sempre più marcia e corrotta avrebbe avuto bisogno. Solo che, riconsiderando a tre decenni di distanza quella straordinaria stagione di grandi aspettative (destinate però a rivelarsi in gran parte illusorie), Buccini prende realisticamente atto che tentare di “raddrizzare per via giudiziaria il legno storto dell’umanità è sempre una pratica che rischia di sfuggire al controllo di chi la applica”. Ma vi è di più. Anche se nel libro lo si adombra o accenna più di quanto non lo si riconosca espressamente, l’analisi che vi è sviluppata finisce anche col suffragare la fondatezza della tesi che fa risalire all’esperienza di Mani Pulite la genesi o l’aggravamento di alcune delle principali patologie di cui il sistema giudiziario e, più in generale, il nostro complessivo sistema democratico continuano a soffrire. Di quali patologie si tratti è facilmente intuibile, ma forse non è superfluo esplicitarle ancora una volta.
Come primo fenomeno patologico consideriamo i danni o pericoli prodotti dal circuito mediatico-giudiziario, che la lettura del libro qui in discussione pone in evidenza in maniera difficilmente eguagliabile. La lucida e onesta narrazione di Buccini fornisce, infatti, un’emblematica riprova di come la cosiddetta rivoluzione giudiziaria di Mani Pulite non si sarebbe potuta realizzare senza il complice sostegno sistematico di un gruppo di giovani giornalisti: per lo più, e non a caso, con formazione politica di sinistra, in qualche modo pregiudizialmente convinti che l’inchiesta milanese potesse confermare diffusi sospetti preesistenti su malaffari e malefatte – per dirla con le parole del libro – di certi socialisti traditori della causa, di certi andreottiani maleolenti e di certi imprenditori tentacolari (un pregiudizio, questo, che – come oggi Buccini riconosce – rischiava di inficiare l’obiettività del lavoro giornalistico nei suoi successivi sviluppi). Ma Mani Pulite ha anche fortemente contribuito a quella mediatizzazione del processo penale, soprattutto per via televisiva, che ha determinato il duplice effetto, da un lato, di proiettare fuori dall’aula di tribunale lo scenario giudiziario e, dall’altro, di rendere i magistrati d’accusa personaggi sempre più simili a tribuni del popolo che impersonano ruoli politico-mediatici che si sovrappongono confusivamente ai ruoli giuridico-istituzionali. In particolare poi la trasmissione televisiva del processo Cusani, riletta in una prospettiva sociologica e semiologica, ha dato esemplare dimostrazione dell’attitudine di un processo mediatizzato gestito con abilità scenica a fungere da “rituale di degradazione” in grado di discreditare agli occhi del pubblico, al di là dei singoli imputati coinvolti, un’intera classe politica simbolicamente additata come corrotta e imbelle (come notato nel libro di Pier Paolo Giglioli e altri, “Rituali di degradazione. Anatomia del processo Cusani”, il Mulino, 1997).
Un secondo fenomeno sotto diversi aspetti patologico, strettamente connesso al primo, è costituito dalla tendenza a concepire e utilizzare il processo penale non solo come mezzo di lotta contro fenomeni di criminalità sistemica, ma al tempo stesso come strumento di rinnovamento politico e moralizzazione collettiva (anche di questa tendenza o tentazione, il libro di Buccini offre numerosi riscontri concreti, sia espliciti sia impliciti o per facta concludentia). Sappiamo che in proposito, specie sul versante magistratuale, si suole ricorrere a un ben noto argomento autodifensivo: è lo stesso potere politico a delegare di fatto ai giudici la gestione dei mali sociali che esso non riesce ad affrontare e i problemi che non riesce a risolvere; per cui non è la magistratura a compiere invasioni di campo, bensì una politica debole e inetta a non avere la capacità di assolvere i propri compiti, e meno ancora di rinnovarsi e recuperare credibilità anche morale. E, quanto alla lamentata ispirazione politica di alcune inchieste, si obietta che le ripercussioni politiche rappresentano un inevitabile effetto oggettivo delle indagini che vertono sull’operato dei politici indagati, mentre i magistrati inquirenti non perseguirebbero intenzionalmente alcuno scopo politico trascendente il doveroso controllo di legalità spettante al potere giudiziario. Ora, a parte l’indeterminatezza e l’ambiguità del concetto di controllo di legalità (vuol dire che le procure dovrebbero attivarsi pure in via preventiva, per andare alla ricerca di eventuali ipotesi di reato, e non già soltanto quando se ne siano in concreto profilati i possibili presupposti, così trasformando l’attività giurisdizionale in attività amministrativa di polizia?), anche queste autogiustificazioni, a ben vedere, rischiano di somigliare a favole. Non perché non sia vero che vi è stata e continua a esserci una certa tendenza della politica a scaricare sui magistrati responsabilità che non riesce ad assumersi o compiti che non è in grado di svolgere. Ma perché è un’ipocrita bugia che non vi sia stata e non vi sia, a maggior ragione nei settori più militanti della magistratura, la volontà soggettiva di orientare anche politicamente l’azione giudiziaria: intendendo per orientazione politica sia l’obiettivo (in teoria censurabile) di influire su dinamiche e scelte politico-partitiche contingenti, sia una mirata valorizzazione (in teoria ammissibile o comunque meno censurabile) delle accresciute dimensioni di politicità intrinseche a un’attività giurisdizionale esplicata nell’orizzonte della democrazia costituzionale contemporanea.
Riportando il discorso su Mani Pulite, sarebbe da ingenui o da sprovveduti interpretare lo stile operativo di un pm come Di Pietro e dei colleghi al suo fianco come del tutto circoscritto nei limiti di una rigorosa e asettica ortodossia tecnico-giuridica, riluttante a farsi carico di valutazioni e preoccupazioni politiche in realtà anche esterne rispetto al momento investigativo-processuale in sé considerato: riferite cioè alla concreta incidenza che lo sviluppo e la direzione delle indagini giudiziarie avrebbero potuto esercitare allora sui partiti politici in profonda crisi e sul loro possibile destino. In realtà, funge da spia abbastanza sintomatica del fatto che Mani Pulite perseguiva obiettivi di rinnovamento politico (trascendenti, appunto, la funzione istituzionale di perseguire reati e condannarne gli autori) lo stesso linguaggio usato dai magistrati protagonisti, come emerge ad esempio persino dalle parole di un gip come Italo Ghitti, che Buccini riporta come emblematiche altresì di un ruolo di giudice vissuto in rapporto più di stretta contiguità che non di distanza critica rispetto ai colleghi pubblici ministeri: “(…) il nostro obiettivo non è rappresentato da singole persone, ma da un sistema che cerchiamo di ripulire”. Affermazione, questa, che in bocca a un giudice avrebbe in teoria dovuto sollevare reazioni pubbliche (in realtà mancate) ancora più vivaci di quelle che si sarebbero dovute levare contro il proposito, ancora più esplicito e drastico, di “rivoltare l’Italia come un calzino”, più volte com’è noto enunciato dal pubblico accusatore Piercamillo Davigo.
Considerato nell’insieme, il libro di Buccini potrebbe costituire una fonte preziosa di riferimenti, dati, informazioni e spunti di analisi potenzialmente valorizzabili anche in vista delle più volte auspicate (ma finora compiute soltanto in piccola parte) indagini scientifiche a carattere multidisciplinare (giuridico, economico, politologico, sociologico e psicologico) su Mani Pulite come terreno privilegiato di osservazione e studio dei rapporti di scambio e delle relazioni ambigue tra – per dirla con Pierre Bourdieu – il campo della giustizia penale e gli altri campi con esso interagenti. Infatti, Buccini ben ricostruisce le situazioni e occasioni in cui i diversi componenti del pool milanese, agendo in gruppo o come singoli, hanno in formale veste giudiziaria svolto funzioni e realizzato condotte (anche extrafunzionali) dotate di una sostanziale valenza politica in vari sensi e in varie direzioni. Si considerino – oltre alle performance investigative o processuali con le quali in particolare Tonino Di Pietro si atteggiava a tribuno del popolo o a eroico vendicatore delle ingiustizie e dei soprusi compiuti dai politici corrotti, assurgendo così a simbolo di una sperata palingenesi – le spettacolari reazioni pubbliche o alle forme meno eclatanti di intervento di cui lo stesso Di Pietro da solo, o più spesso insieme ad altri colleghi, si è reso protagonista per bloccare riforme governative considerate inaccettabili o per promuovere invece riforme gradite allo stesso pool milanese: si allude al comunicato stampa contro il pacchetto di modifiche abbozzato dal neo guardasigilli Conso per depenalizzare il finanziamento illecito ai partiti; al successivo pronunciamento televisivo contro il decreto Biondi volto a ridurre la possibilità di ricorrere alla custodia cautelare in carcere; e, in forma questa volta propositiva, alla presentazione da parte di Di Pietro all’annuale forum di Cernobbio di una proposta (destinata in realtà a rimanere tale) di un disegno di legge di riforma dei reati di concussione e corruzione, recante altresì innovazioni in materia di benefici premiali per la collaborazione giudiziaria, elaborato dalla procura milanese insieme a un gruppo di professori universitari e avvocati e finalizzato ad agevolare la chiusura dei conti con gli episodi corruttivi del passato. A ben vedere, non è difficile individuare in queste prese di posizione del pool di Mani Pulite, miranti a interdire riforme avversate oppure a sollecitare riforme auspicate, significativi precedenti di una tendenza, successivamente consolidatasi nel potere giudiziario, a pretendere di sindacare in via preventiva il merito delle scelte politiche in materia penale, in teoria di esclusiva competenza del Parlamento e del governo, con conseguente (ma di fatto prevalentemente tollerata!) violazione del principio costituzionale della divisione dei poteri.
Ma, come bene emerge anche dal libro di Buccini, una confusa sovrapposizione di ruoli giudiziari e ruoli sostanzialmente politici dipendeva anche dal fatto che in particolare Di Pietro e Davigo mantenevano rapporti sotterranei di vicinanza, non esenti da inevitabile ambiguità, con settori e personaggi del mondo politico di allora, perché in qualche modo e in qualche misura tentati di lasciare la toga per transitare in politica, cedendo alle offerte (a loro volta tutt’altro che disinteressate) di parti politiche desiderose di sfruttare a proprio vantaggio l’ampio consenso popolare acquisito dai due pubblici ministeri grazie alla guerra contro Tangentopoli. Così stando le cose, non solo si incrementava la sostanziale valenza politica dell’azione del pool, ma finivano con l’esserne corresponsabili anche quei settori politici che cercavano di attrarre nelle loro file i magistrati più in vista e più idolatrati. Com’è comprensibile, rispetto alla tentatrice scesa in politica hanno giocato un ruolo ancora più determinante le diverse caratteristiche psico-antropologiche dei singoli componenti del pool, e ciò è comprovato dalla scelta di lasciare la toga infine compiuta dall’eroe molisano e dal successivo andamento della sua non certo luminosa e gloriosa carriera politica.
Quanto alla funzione di moralizzazione pubblica (complementare a quella di presunto rinnovamento politico), che non pochi magistrati specie dopo Mani Pulite ritengono rientrare nel loro ambito di competenze, tanto più se impegnati nel contrasto della corruzione o delle mafie, merita di essere ricordato un libretto di Alessandro Pizzorno dal titolo emblematico: “Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù”, edito da Laterza nel 1998. Da sociologo, Pizzorno non affronta il problema giuridico-costituzionale relativo al senso e ai limiti di una moralizzazione collettiva da perseguire con gli strumenti della giustizia penale, perché ciò che più gli interessa non è il piano deontologico: quel che più lo intriga è indagare il crescente spazio che i giudici sono di fatto andati conquistando nella sfera pubblica esterna alle aule giudiziarie, e nella comunicazione mediatica, quali autorità beneficiarie di consenso da parte della pubblica opinione anche nel ruolo di custodi o controllori delle virtù morali degli uomini politici e, più in generale, degli esponenti del ceto dirigente. Senonché, a Pizzorno è facile rivolgere – a maggior ragione oggi – più di una obiezione. Sullo stesso piano sociologico, è pressoché scontato obiettare che è quantomeno dubbio che il ceto giudiziario visto nel suo insieme si distingua per un livello di moralità superiore rispetto a quello della media dei cittadini (sembrerebbero confermarlo proprio certi comportamenti moralmente discutibili o deontologicamente scorretti dello stesso magistrato-simbolo della rivoluzione giudiziaria milanese, di cui ben riferisce Buccini), per cui non è detto neppure che un magistrato abbia sempre una capacità di giudizio morale comparativamente più elevata (e ciò va rilevato anche a prescindere da recenti fenomeni di grave decadimento culturale e degrado morale registratisi in seno alla nostra magistratura). Premesso questo, rimane l’ulteriore problema – di natura appunto giuridico-costituzionale – di capire e specificare cosa significhi “virtù morale” di un politico nella prospettiva di un magistrato: vuol dire semplicemente che il politico deve essere onesto, non deve rubare e non deve corrompere e farsi corrompere, o significa qualcosa di più impegnativo? Se la risposta dovesse essere nel secondo senso, dubito che un giudice possegga una speciale legittimazione e una speciale competenza per formulare nuove regole morali nell’ambito di una società pluralistica come la nostra.
Come sappiamo, tra i rilievi critici mossi all’esperienza di Mani Pulite ve ne sono alcuni che attengono più direttamente alle modalità di utilizzazione degli strumenti penalistici, sul duplice terreno sostanziale e processuale: ci si riferisce a una certa tendenza a forzare o manipolare l’interpretazione-applicazione di classiche figure di reato come la concussione e la corruzione, a un uso spregiudicato o ricattatorio a fini confessori della custodia cautelare in carcere, a un’insufficiente attenzione alle reazioni psicologiche e al conseguente rischio suicidiario di alcuni indagati e imputati (come sarebbe dimostrato dai non pochi suicidi effettivamente verificatisi). Anche di tutto questo troviamo più di una eco nella rivisitazione critica di Buccini, il quale fa – tra l’altro – questa osservazione che vale la pena riportare: a Di Pietro interessava “non tanto processare i singoli politici quanto sputtanare il sistema dei partiti”. Quale riprova migliore di questa si potrebbe ottenere di un possibile tradimento degli scopi fisiologici del diritto e del processo penale consumato in nome di eteronome finalità lato sensu politiche? Sempre a proposito di questo uso non canonico della giustizia penale, è il caso di richiamare un passo contenuto in una drammatica e commovente lettera scritta prima di togliersi la vita dal deputato socialista Sergio Moroni (indagato per avere raccolto mazzette non per sé ma per il partito) e indirizzata a Giorgio Napolitano, a quel tempo presidente della Camera: riferendosi all’esigenza da lui stesso condivisa di un diverso modo di operare dei partiti, Moroni rilevava che “non è giusto che ciò avvenga attraverso un processo sommario e violento, per cui la ruota della fortuna assegna a singoli il compito delle ‘decimazioni’ in uso presso alcuni eserciti”. Mi ha colpito, e continua a colpirmi questa idea di una sorta di decimazione realizzata per via di processi sommari e poco individualizzati: vi rinvengo una curiosa e inquietante coincidenza con l’impiego dello stesso termine da parte del presidente della Corte suprema Riches nel celebre dialogo con l’ispettore Rogas inscenato nel romanzo sciasciano “Il contesto”, in cui appunto il presidente della corte azzarda la pessimistica e paradossale previsione che nel futuro “la sola forma di possibile giustizia, di amministrazione della giustizia, potrebbe essere, e sarà, quella che nella guerra si chiama decimazione”. Per fortuna, questa tragica previsione non si è avverata, ma resta il fatto che non è soltanto la pur sempre eccezionale stagione di Tangentopoli ad avere evidenziato in forma macroscopica un approccio molto sommario e affrettato alla questione del come punire. Come ho rilevato in un precedente articolo su questo giornale (il Foglio del 25 ottobre 2021), a tutt’oggi la determinazione concreta della pena da parte degli stessi magistrati giudicanti non è per lo più fatta oggetto di quella scrupolosa ponderazione che sarebbe in teoria auspicabile.
In un precedente articolo su Mani Pulite, a venticinque anni di distanza (sul Foglio del 30 marzo 2017), avevo provato a stilare un bilancio complessivo degli esiti pratici anche di lunga scadenza di una rivoluzione politica tentata per via giudiziaria, che specie all’inizio tante speranze aveva acceso a dispetto della paradossale contraddittorietà insita nel considerare “rivoluzionaria” un’attività repressiva di fatti criminosi, sia pure ritenuti sistemici. Da allora a oggi, quel bilancio mi sembra ulteriormente avvalorato dalle conclusioni che Buccini trae nel suo libro. In sintesi, ribadirei che quella cosiddetta rivoluzione ha prodotto conseguenze fallimentari, o comunque negative su più versanti. E infatti non ha certo eliminato il fenomeno della corruzione, ma ha forse contribuito a determinare un mutamento delle sue modalità di manifestazione (per condivisibili rilievi sulla attuale fisionomia della corruzione in Italia si veda il recente intervento di Giuseppe Pignatone su Repubblica del 30 ottobre scorso); in luogo di promuovere un rinnovamento politico degno di questo nome, ha finito col (con)causare effetti politicamente regressivi, definiti persino “disastrosi”, ad esempio da Sergio Romano (sul Corriere della sera del 19 settembre 2016), alimentando una rozza e velleitaria antipolitica di ispirazione populista; ha inoltre, sul terreno dell’amministrazione della giustizia, fomentato il fenomeno del populismo giudiziario, inducendo parte dei magistrati a ricercare il consenso popolare come fonte di vera legittimazione di un’azione giudiziaria che si vorrebbe pur sempre, e nonostante ogni contraria indicazione, orientata al cambiamento e alla moralizzazione (da qui l’emersione di nuove figure di magistrati d’accusa, imitatori più o meno credibili di Tonino Di Pietro, nell’ambiguo ruolo di ircocervi metà attori giudiziari e metà attori politico-mediatici).
Certo, di questa eredità complessivamente fallimentare la causa unica non può essere ravvisata in un tentativo, invero di problematica idoneità in partenza, di fare la rivoluzione con procure e tribunali. I fattori causali coinvolti nelle complesse dinamiche politiche successive a Mani Pulite sono indubbiamente molteplici e chiamano in causa la responsabilità di diversi attori, non solo politico-istituzionali. Verosimilmente, ha ragione Goffredo Buccini nel rilevare nell’ultimo capitolo del suo libro: “Nessun problema appare risolto trent’anni dopo, perché il problema non erano i partiti, il problema siamo noi”.
Milano 1992, sogni e illusioni di una generazione tradita. VENANZIO POSTIGLIONE su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021.
Goffredo Buccini era un giovane cronista quando scoppiò Mani Pulite. Ora ricostruisce quella stagione in un libro in uscita per Laterza
Bettino Craxi entra a Palazzo di giustizia per l’interrogatorio del processo Enimont. È il 17 dicembre 1993 (Fotogramma)
Il momento. Un pezzo di storia italiana. Un processo che diventa show e una catarsi che rimane sospesa: perché si entra con la bandiera del bene e si esce con quella del dubbio. La fila per entrare, l’aula strapiena, la diretta televisiva, Di Pietro interroga Craxi in nome di (quasi) tutto il popolo italiano, Bettino allunga i tempi con le pause, la rivoluzione sta uccidendo i vecchi partiti e le macerie porteranno un bel sole o ancora ombre, nessuno può dirlo.
«Il tempo delle mani pulite» di Goffredo Buccini (Editori Laterza, pagine 248, euro 18)
Quel 17 dicembre 1993 la Milano da bere sembra lontana un secolo e appare (appare) come la peste nera, il processo Cusani è la rappresentazione della politica alla sbarra, la capitolazione di Forlani con la bava alla bocca ha seppellito la Dc e forse anche la pietà cristiana. Ma arriva Craxi e lo spartito salta in aria. Di Pietro appare timido, prudente, quasi impaurito, un mistero che resta un mistero, mentre il leader socialista ripete che tutti sapevano, la politica ha un costo, si doveva competere con i democristiani e i comunisti. Forse quel giorno Tonino si immaginò politico e Bettino si vide già esule, noi capimmo che Tangentopoli aveva raggiunto la vetta e imboccava la discesa.
Goffredo Buccini è inviato speciale ed editorialista del «Corriere della Sera»
È anche un saggio, certo, con il merito della ricerca e il culto dei fatti. Ma è soprattutto il romanzo di una stagione e di una generazione, la biografia di un Paese che ha chiesto la ghigliottina quando colpiva i politici e i manager e poi l’ha rinnegata quando inseguiva le persone comuni. Goffredo Buccini ha scritto Il tempo delle mani pulite (Editori Laterza) perché ha vissuto quell’epoca e poteva raccontarla in modo diretto e appassionato. Perché sono passati già trent’anni e ci fa un certo effetto. Ma anche perché lo doveva a se stesso. Il cronista oggi editorialista del nostro «Corriere della Sera» non è un pentito, non banalizziamo: però ogni passaggio chiave diventa un punto interrogativo e a volte anche un’autocritica. Con l’espressione di pagina 34, «il senso della misura è tra le prime vittime di questa ubriacatura collettiva», che diventa la linea storica e psicologica del saggio-romanzo. I giornalisti ragazzini furono i testimoni ma spesso pure i combattenti di un’epopea: come buona parte del Paese, peraltro. Il tempo delle mani pulite è anche l’età dell’illusione.
Una cronaca che intanto è diventata storia. Trent’anni sono tanti, lo stesso tempo che corre dal 1945 al 1975, quando i genitori raccontavano la fine della guerra a noi bambini e sembrava un altro mondo. Nel libro i personaggi sono vivi come a teatro, la scrittura è nitida, sempre piacevole, senza diventare semplicistica, e l’affresco funziona perché è un pezzo di noi tutti. Buccini era in prima fila, anzi tra la prima fila e il palco, ogni tanto nei camerini: il pool dei cronisti a Palazzo di giustizia, le interviste esclusive e dirompenti a Borrelli, la caccia ai latitanti a Santo Domingo, lo scoop dell’avviso di garanzia a Berlusconi con il collega Gianluca Di Feo in una delle notti più difficili e tormentate di via Solferino.
«Il telefono squilla presto e troppo», scrive Buccini. È la mattina del 18 febbraio ’92, la sera prima hanno arrestato Mario Chiesa, atto d’inizio. A chiamare è Ettore Botti, capo della cronaca di Milano del «Corriere», talent scout per natura e cultura: fiducia nelle regole e nel giornalismo senza ideologie e pregiudizi, scetticismo sul mito della città splendente, difesa a oltranza della propria squadra di veterani e ragazzi che lavorano assieme. Botti manda Buccini a Palazzo di giustizia e gli cambia la vita: la caduta di Chiesa è l’avvio della voragine, la prima Repubblica finiva e non sappiamo più dire se siamo nella seconda o nella terza, ci siamo persi da qualche parte.
Carcere, carcere, carcere. Ogni giorno. «Ecco la dottrina Davigo, l’arresto e la confessione come passaggi necessari a spezzare il vincolo tra tangentisti». Il ’92 italiano è il pool di Mani Pulite, con Borrelli alla guida e Di Pietro che spacca tutto, è la maglietta Tangentopoli con i luoghi delle mazzette, è il cordone di gente comune attorno al Palazzo, è l’avvicinamento delle inchieste a Bettino Craxi, è la fila in Procura di «un popolo di confidenti e flagellanti», è la giustizia sostanziale (tutti i ladri in galera) che forza le procedure e le consuetudini. I pm non sono magistrati ma «i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza». E qui Buccini ci va dritto: «Noi giornalisti sicuramente sposiamo la militanza. E noi ragazzi del pool di cronisti ne siamo l’avanguardia, certi, certissimi, di aver ragione». Non solo. «Siamo eroi del nostro stesso fumetto: se la nostra verità è vera, perché mai cercarne un’altra?». C’era da cambiare l’Italia, come dicono i reduci di Mediterraneo, il film di Salvatores.
Il socialista Sergio Moroni, indagato, si uccide. La lettera che lascia è una frustata: «Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima da pogrom nei confronti della classe politica». Craxi dice che «hanno creato un clima infame», Gerardo D’Ambrosio replica che «il clima infame l’hanno creato loro, noi ci limitiamo a perseguire i reati». E i giovani socialisti contro-replicano: «Si è caricata l’inchiesta milanese di un improprio valore morale, attribuendole un ruolo di vendetta popolare». Una guerra civile di parole. Ma si sarebbero suicidati anche Gabriele Cagliari in una cella di San Vittore, Raul Gardini a casa sua, e altri ancora.
Il decreto Conso nasce e tramonta subito per l’opposizione del pool. La piazza ribolle, su Craxi piovono le monetine, il leghista Leoni Orsenigo tira fuori il cappio in Parlamento. «La rivoluzione giudiziaria non sembra andare esattamente nel senso di un allargamento dell’area democratica del Paese…». Un labirinto. Il Paese è corrotto (vero), i pm indagano (giusto), ma la nuova epoca comincia a fare spavento. Al di là delle inchieste e delle intenzioni, l’età della pancia nasce in quei giorni, non si è ancora conclusa.
Il giorno dei funerali dopo la strage di via Palestro, a Milano, ecco Borrelli, Colombo e Di Pietro che percorrono la Galleria a piedi. La gente li chiama, li segue, li abbraccia, un tripudio di entusiasmo e di rabbia: «La forca, la forca, Di Pietro mettili alla forca!». Borrelli è il più lucido: «Non è giusto che sia così… ma non è colpa nostra». La critica alle manette facili evapora nell’ovazione di una folla che non chiede garanzie ma invoca il patibolo. Sergio Cusani, prima del processo-evento («un’autobiografia nazionale»), si confida con l’autore del libro: «Il Paese dopo Tangentopoli potrebbe essere assai peggio di quello che c’era prima». Il dibattimento consacra il personaggio Di Pietro e chiude cinquant’anni di storia politica italiana, con i suoi partiti, le sue liturgie, il suo sistema proporzionale, il suo stesso linguaggio educato e fumoso.
Tocca al «nuovo miracolo italiano», alla nuova protesta del pool (contro il ministro Alfredo Biondi), all’avviso di garanzia a Berlusconi, all’addio di Tonino Di Pietro. Gli aneddoti e i retroscena sono tanti, le battute di Paolo Mieli, allora direttore, sono imperdibili: ma non avrebbe senso bruciare i contenuti del libro. Mani pulite rivoluzione vera o scoperta dell’acqua calda? Svolta sacrosanta o mutilata? Magistrati santi o vendicatori? Il punto, scrive Buccini, è che «tanti ragazzi negli anni Novanta hanno sognato (sbagliando, certo) una palingenesi nazionale». La stiamo ancora aspettando.
Trent’anni dopo non ci sono più Borrelli e D’Ambrosio. Di Pietro passa tanto tempo a Montenero di Bisaccia, partenza e ritorno. Greco e Davigo hanno rotto in modo clamoroso: metafora per una stagione e forse una categoria. Colombo gira l’Italia e incontra i ragazzi per parlare di legalità, «perché sa da un pezzo che la risposta non può essere giudiziaria». La mattina dopo le manette a Chiesa, il secolo scorso, Ettore Botti chiamò anche chi sta finendo quest’articolo: «Corri al Trivulzio e racconta come hanno preso l’arresto». La voce roca, decisa, profonda, poche parole. Un comandante temuto e amato: allo stesso tempo. Nell’etimologia di nostalgia c’è la parola dolore.
"Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto". Stefano Baldolini su huffingtonpost.it il 22 Ottobre 2021.
Chiacchierata con Goffredo Buccini, autore de "Il tempo delle mani pulite" (Laterza). Sui pm: "L'autonomia va garantita ma col pool ci fu abuso industriale degli arresti". Su Craxi e Di Pietro: "Il 1992 ha illuso una generazione e prodotto il grillismo" .
“Noi cronisti di Mani Pulite eravamo supereroi del nostro fumetto”. Non ha mezzi termini Goffredo Buccini, inviato speciale ed editorialista del Corriere della Sera, nel suo “Il tempo delle mani pulite” (Laterza), libro di ricostruzioni, di memoria e di forte autocritica. Testimone dei fatti del 1992-1994, dall’escalation “industriale” degli arresti all’avviso di garanzia all’“uomo nuovo” Berlusconi. Un biennio drammatico che ha lasciato eredità complesse e non ancora risolte.
Domanda di prammatica: perché è nata Mani Pulite?
“Per una serie di concause, anche internazionali. Dopo la caduta del muro di Berlino gli italiani avevano ripreso a votare liberamente senza ‘doversi turare il naso’, per citare Montanelli. Ma soprattutto perché i soldi erano finiti. Questo è un punto dirimente. I soldi erano il centro dell’accordo fondamentale tra impresa e politica che prevedeva da una parte il finanziamento illecito e dall’altra l’accesso agevolato agli appalti. Era un intero sistema ammalato che a un certo punto si è spezzato, in un momento di grande debolezza della politica. E questo ha fatto sì che la magistratura fosse chiamata a esercitare un ruolo di supplenza che in una città viva ed eticamente reattiva come Milano è diventata l’inchiesta Mani Pulite.”
Quindi il sistema non si è ammalato con Mani Pulite?
“Certamente no. Lo era da un pezzo e produceva consenso politico. Non è un caso che negli anni ’80 abbiamo avuto l’impennata del debito pubblico. Il sistema comprava consenso pompando debito. Comprava il nostro consenso a nostre spese. Dalla fine degli anni ’70 è andato via via avvitandosi su se stesso.”
Mani Pulite inizia il 18 febbraio 1992 con l’arresto dell’ingegner Mario Chiesa. Ma in realtà il presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano non parla per cinque settimane. Poi arriva la parola chiave -“mariuolo” - pronunciata da Bettino Craxi.
“La vulgata vuole che Chiesa si sia sentito schiaffeggiato da Craxi in pubblico. In realtà penso che l’interpretazione più corretta sia che in quel preciso momento Chiesa percepì il senso di debolezza del leader socialista. Dobbiamo confrontare questa situazione con l’arresto negli anni ’80 di Antonio Natali, presidente della Metropolitana milanese, snodo della circolazione delle tangenti. E soprattutto padre politico di Craxi, che lo andò a trovare in carcere da presidente del Consiglio. Poi lo fece senatore, e l’autorizzazione a procedere venne negata. Fu una manifestazione di forza del sistema straordinaria. Chiesa invece, che non è scemo, capisce che è stato lasciato solo, ha grandi problemi, anche personali, da risolvere e a quel punto comincia a parlare.”
E la slavina ha inizio. Nell’aprile successivo vengono arrestati otto imprenditori. Però a differenza di Chiesa che venne preso, citando Antonio Di Pietro, “con le mani nella marmellata”, i colletti bianchi milanesi non erano in ‘flagranza di reato’. È corretto dire che quello è stato il primo cambio di fase?
“Sì, ed è un cambio di fase clamoroso. L’idea di arrestare degli imprenditori, a Milano, non in flagranza di reato è un salto decisivo. Anche perché deriva sostanzialmente dalle confessioni di Chiesa e quindi apre un meccanismo esponenziale che nel giro di qualche settimana porterà alla grande serie di arresti veri e solo minacciati e alla grande fila di confessioni davanti alla porta di Di Pietro. Ognuno di quegli otto parla di altri otto. In una gigantesca catena di Sant’Antonio, e non è una facile battuta. Non era mai successo.”
Ma perché si era creata la corsa a confessare?
“Bisogna essere onesti, la paura di essere arrestati è molto forte. E non stiamo parlando di persone della mala milanese, ma di borghesi abituati a una certa rispettabilità, che viene compromessa. Questa cosa peraltro si riverbererà nei suicidi degli indagati. Dopo di che, da un certo punto in poi c’è una sorta di condizionamento ambientale, di una grande bolla dentro cui tutti ci troviamo. Opinione pubblica, indagati, magistrati, giornalisti. È brutto dirlo, ma come in un rito catartico collettivo.
Poi un ruolo decisivo l’hanno giocato i cosiddetti avvocati “accompagnatori” degli indagati alla stanza 254 di Di Pietro, anticipando le istanze dello stesso pm. Lo racconta bene Gherardo Colombo che parla di fila di questi “penitenti” e del problema per il pool di Mani Pulite, siamo nell’estate ’92, di star dietro a questa messe di confessioni, ammissioni, chiamate di correo...”
Il pool si è già formato?
“Il pool nasce verso maggio-giugno per affiancare a Di Pietro, lui stesso non si è mai ritenuto un giurista raffinato, due magistrati di maggiore spessore dal punto di vista giuridico, strutturatissimi, di orientamento politico opposto, Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo. Com’è noto, a coordinare il nucleo storico c’era il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio, e l’esperto di reati finanziari, Francesco Greco.”
Un gruppo composito.
“Borrelli era una grande alchimista, grande conoscitore dei suoi pm e dell’animo umano. Bisogna tener conto però che all’inizio a parte Di Pietro nessuno ci credeva, a questa inchiesta. Ed è una delle ragioni per cui i giornalisti che la seguono sono le seconda file della giudiziaria e della cronaca, non le grandi firme. Non ci credeva nemmeno Borrelli che caricava Di Pietro di ‘processetti’. E una delle ragioni per cui lo stesso Di Pietro comincia ad avere relazioni con noi giornalisti è per avere un rapporto strumentale a suo favore.”
Addirittura.
“L’uomo è molto sveglio. Fa uscire piccoli brandelli di notizie, per spaventare questo o quell’indagato, ma soprattutto per mantenere viva l’attenzione dell’opinione pubblica. E il suo obiettivo era tenere alta l’attenzione per tutto il tempo necessario per produrre effetti ulteriori. Fino alla grande svolta mediatica che arriva il primo maggio ’92 con il sindaco e l’ex sindaco di Milano, Tognoli e Pillitteri, indagati. Quando si capisce per la prima volta dove si stava andando a parare.”
“Solo chi confessa spezza il vincolo associativo: non può delinquere, quindi può uscire di galera”. Il metodo del ‘dottor sottile’ Davigo è efficace.
“Intendiamoci su Davigo che nonostante si sia perso nelle sue reiterate iperboli per ‘épater le bourgeois’, da piccolo borghese lombardo che ama stupire, ha una fortissima cultura giuridica. Tuttavia, quel metodo era odioso e oggi provocherebbe reazioni molto forti. Ma non era un metodo illegale, com’è stato ampiamente riconosciuto, concorrendo nel manager o nel politico le note ragioni per cui puoi arrestarlo: il pericolo inquinamento prove, di reiterazione di reato e pericolo di fuga. Il problema semmai è l’abuso, è l’uso industriale. Ma questo diventa possibile proprio in virtù della debolezza della politica, del sistema, che non fu in grado di reagire in modo credibile e anzi si divise, e iniziò a scappare da tutte le parti. Anche con una certa miopia, e qui arrivo al discorso di Craxi del luglio del ’92. Alla chiamata di correità, a cui si reagisce o col silenzio o pensando di trarne vantaggio, senza capire che stava saltando tutto.”
Per parlare di responsabilità, però neanche voi giornalisti che raccontavate Tangentopoli dagli albori avete colto che qualcosa non andava. Che c’erano delle storture, a partire dal metodo, dallì‘abuso ‘industriale’ degli arresti?
“Detto con una battuta, perché in parte su di noi aveva ragione Berlusconi.”
In che senso?
“Quando si è lamentato che i giornalisti sono tutti comunisti, ci è andato vicino. È indubbio che la mia generazione si è formata a sinistra. Il gruppo di ragazzini che seguivamo i fatti di Palazzo di Giustizia di Milano, tutti tra i 28 e i 32-33 anni, a parte rare eccezioni, era fortemente orientato a sinistra. Cresciuto in ambienti politici, universitari, liceali, di sinistra. Un grande brodo di coltura dove più o meno si pensava che Craxi fosse un manigoldo, Ligresti fosse un imprenditore della Piovra, che gli andreottiani fossero tutti marci. Così quando ti trovi a seguire un’inchiesta che ti racconta esattamente questo, tu pensi ‘hai visto, hai trovato la verità, non c’è altra verità da cercare’. Nel libro uso l’espressione: ‘Eravamo gli eroi del nostro stesso fumetto’.”
Sintesi notevole.
“Allora, io ho sempre pensato che uno che ha vent’anni e vuole fare il giornalista e non vuole cambiare il mondo, a cinquanta fa una brutta fine, perché è un mascalzone. A vent’anni devi avere dei sogni, delle utopie. Il problema è che quando ti sembra si stiano realizzando, devi essere pronto anche a guardare altrove. A non accontentarti di dire ‘è fatta’. Almeno questo è stato il mio sbaglio, la mia responsabilità. Poi ognuno si assuma le proprie.”
Quindi è stato un errore di visione politica?
“Direi di visione culturale. Eviterei di associare l’idea del Minculpop rosso al nostro pool. Che peraltro durò un anno e che nacque per le stessa esigenze del pool di Borrelli. Noi avevamo dieci arresti e venti avvisi di garanzia al giorno. Non aveva senso farsi concorrenza tra testate, anzi il tuo unico problema era verificare che fossero tutte vere, non polpette avvelenate, che pure giravano, perché erano in molti a voler inquinare l’inchiesta. Tant’è che il pool dei giornalisti è finito, si è spaccato, quando è entrato in ballo il Pds e la Fininvest, le grandi questioni divisive, e quando le notizie sono diventate di meno. Quando la spinta di Mani Pulite iniziò ad affievolirsi e il consenso generale scemare perché - come racconta Gherardo Colombo - dagli intoccabili si iniziava a scender per li rami, a sfiorare la gente comune.”
Quanti eravate prima di dividervi?
“Una decina, e non abbiamo guardato in tutte le direzioni perché quella direzione corrispondeva a una nostra formazione culturale. Errore gravissimo. Sto dicendo che altrimenti avremmo scoperto una Spectre dietro Mani Pulite? No, perché non lo penso nemmeno oggi. Ma avremmo scoperto che gli eroi non sono tutti giovani e forti ma sono anche dei personaggi con una vita con dei compromessi. Avremmo potuto tingere di chiaroscuro il nostro quadro per permettere ai lettori di averne uno più vero. E in secondo luogo avremmo dovuto avere più attenzione ai diritti individuali. Dietro a ognuno di quegli indagati c’era una persona, e io, parlo per me ovviamente, questo non lo coglievo molto chiaramente.”
Un’autocritica forte.
“Assolutamente. Per dire, il primo indagato che ho visto come persona è stato Sergio Cusani. Di Sergio Moroni, ho scritto due righe quando è stato indagato e l’ho ritrovato a settembre quando si è suicidato. Non l’ho mai visto. Ma il punto era proprio quello. Quando tu scrivi della gente dovresti guardarla in faccia. Non era semplicissimo allora ma avremmo dovuto farlo. Quando ho guardato in faccia Cusani ho visto una persona estremamente più complessa, comprensibile e persino giustificabile, rispetto a quello che era stato tratteggiato semplicisticamente come ‘il Marchesino rosso’ dal chiacchiericcio della procura.”
Se ho capito bene si è trattato di una fase molto disumanizzante.
“Non c’è dubbio e questa è una responsabilità che ci portiamo dietro. Certo, abbiamo attenuanti, bisognava starci per capire quanto il contesto fosse complicato per mantenere la barra dritta.”
Traspare un po’ di senso di colpa.
“Il senso di colpa è una categoria che non mi piace mettere dentro un dibattito pubblico. Eventualmente faccio i conti con me stesso. Sicuramente, dopo i primi suicidi avremmo dovuto lavorare diversamente. La lettera di Moroni - premesso che tutte le accuse a suo carico saranno confermate e i coimputati tutti condannati - ha una forza che viene colta dall’opinione pubblica, dai giornali, ma archiviata troppo in fretta. Avrebbe dovuto accompagnarci nel lavoro dei mesi successivi, invece fummo subito presi dalla rincorsa ‘alla prossima cosa’. Al vero bersaglio di quella stagione, il ‘toro’, Bettino Craxi. Il cui avviso di garanzia arrivò dopo tre mesi. Inoltre c’era una retorica odiosa, autoassolutoria e un po’ ipocrita, per cui la colpa dei suicidi era del sistema a cui apparteneva il suicida. Sicuramente abbiamo fatto, e ho fatto, errori importanti.”
Non per discolparti, e prendendo spunto dallo straordinario spaccato del giornalismo italiano di quegli anni che si trova nel libro, c’è da dire che le responsabilità non erano solo di chi come te stava in procura, o per strada, ma anche dei vostri superiori...
“Non c’è dubbio. Ma i giornalisti italiani, capiredattori, direttori... non erano scesi da Marte, ma appunto erano italiani e stavano in un Paese dove la selezione, le scelte erano fortemente condizionati. Si sono mescolati il senso di appartenenza, che poi diventava colpa, a senso di opportunismo. Non c’è bisogno di citare Flaiano per parlare degli italiani, della capacità di passare dalla parte dei vincenti.”
Come vincente fu l’irruzione di Berlusconi, nel momento più duro per il ‘toro’ ferito Craxi.
“Questo è il paradosso di tutta la storia. Berlusconi era un uomo con i colori della Prima Repubblica eppure viene percepito come nuovo. Gli stessi italiani che, nel giorno dei funerali per le vittime della bomba di via Palestro, inneggiano a Borrelli, Di Pietro e co., una sorta di corteo spontaneo e forcaiolo, sono gli stessi che neanche un anno dopo plebiscitano l’imprenditore più assistito dal sistema della Prima Repubblica. Questo è un popolo che cerca sempre una palingenesi ma non si guarda mai dentro. E non è un gran popolo.”
Non salvi né Craxi né Di Pietro.
“Perché ciascuno dei due ha compiuto mosse che hanno condizionato gli italiani nel non credere ulteriormente nell’Italia. E non parlo delle vicende strettamente giudiziarie. Ma se un uomo di Stato a fronte di due condanne definitive comminate da sei collegi di magistrati se ne va all’estero, cosa sta dicendo agli italiani? Che non si può credere al Paese che pur si ama.
Prendiamo poi Di Pietro, che esce dalla magistratura in modo ambiguo e inspiegabile, e due anni dopo aver interrogato duramente Prodi come testimone diventa suo ministro. Per non parlare della candidatura al Mugello sostenuta dallo stesso Pds che la vulgata dice essere stato graziato dalle sue inchieste. Il combinato disposto delle due cose produce il messaggio che non si può credere alla magistratura. Se il moralizzatore passa alla politica che non è riuscito a moralizzare, non c’è nulla di vero. L’esito finale di queste due vicende personali è, molti anni, dopo il grillismo, l’onda selvaggia, la fine della credibilità delle istituzioni. Tu deludi e uccidi i sogni di un’intera generazione, i ragazzi degli anni ’90.”
Siamo arrivati alla ‘rivoluzione interrotta’.
“Sì, anche se non penso affatto che quella fosse una rivoluzione. I Paesi non cambiano così. La scelta giusta, di medio e lungo periodo, l’ha fatta invece Gherardo Colombo, che ha lasciato la magistratura e ha iniziato a insegnare. Con l’idea che si debba ripartire non dai processi, ma dalla formazione di una classe dirigente, di una cittadinanza. La via giudiziaria non è risolutiva.”
Concludendo, in occasione del trentennale di Mani Pulite, anche grazie al tuo libro, non c’è un rischio revisionismo? Senza parlare di criminalizzazione dei magistrati, che comunque ce la stanno mettendo tutta per perdere di consenso, non si corre il pericolo opposto, che non debba salvarsi proprio nulla del ’92?
“Assolutamente. Di quel periodo va invece salvata la spinta di molta gente in perfetta buona fede. Va salvata in parte l’autonomia della magistratura, da rivedere ma non da cancellare completamente col rischio di uno scenario ungherese o polacco, di asservimento all’esecutivo. È stata una stagione di grande speranza, che non va buttata via. Però dopo trent’anni credo che se ne possa parlare diversamente, abbandonando i radicalismi, senza vedere l’altra parte necessariamente come un nemico. Basta con la storia della ‘rivoluzione’ contro i ‘manigoldi’. Troviamo una medietà e una compostezza che dobbiamo anche ai nostri figli. Ecco, io vorrei poter parlare con i ragazzi dell’età di mia figlia di quella storia, e del nostro mestiere. Perché quella è stata anche la storia del nostro mestiere. E di come questo si possa fare con più autonomia, con più coraggio, e forse con più attenzione.”
Il finanziamento illecito è figlio di Yalta. Finanziamento illecito ai partiti, dove nasce il sistema che ha fatto crollare la prima repubblica. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
L’Italia è stato l’unico paese europeo nel quale cinque partiti da sempre presenti nel parlamento e nel governo sono stati distrutti a colpi di avvisi di garanzia, di arresti, dalle cosiddette sentenze anticipate. Ciò ha riguardato in primo luogo il Psi, ma anche il centro-destra della Dc, il Psdi, il Pli, il Pri. Ciò è avvenuto in un paese nel quale dagli anni ’40 in poi tutti i partiti sono stati finanziati in modo del tutto irregolare. Tutto ciò deriva da ragioni tutt’altro che banali. La divisione del mondo concordata a Yalta fra Stalin, Roosevelt e Churchill aveva sancito un patto fondato sul fatto che la spartizione dell’Europa per sfere di influenza avveniva sulla base dell’occupazione militare da parte dell’Armata rossa o dell’esercito angloamericano.
Però nei paesi dell’Est Europa liberati-occupati dall’Armata rossa rapidamente i partiti comunisti conquistarono in modo totale il potere. Invece nelle zone liberate dall’esercito angloamericano la situazione era molto più articolata e in Francia e in Italia c’erano due forti partiti comunisti. Anzi, siccome Stalin, grazie all’operazione che passò sotto il nome di svolta di Salerno aveva costruito per il Pci di Togliatti uno spazio di piena agibilità politica, ecco che per rendere quel partito il più forte possibile esso ebbe dal fondo di assistenza per i partiti fratelli gestito dal Kgb degli enormi finanziamenti diretti. Valerio Riva ha calcolato che dall’Urss fra gli 850 e i 1.000 miliardi di lire sono stati immessi nel mercato della vita politica italiana. Quindi il finanziamento irregolare dei partiti deriva essenzialmente da qui, dalle conseguenze dell’intesa di Yalta e poi della guerra fredda.
Il primo partito azienda in Italia è stato il Pci che ha “figliato” le cooperative rosse, le società di import/export, l’Unipol, la gestione del Monte dei Paschi di Siena. Poi dal 1976 in poi ci sono state anche cose in comune fra i partiti: in Italstat l’esito degli appalti pubblici era concordato in partenza e alle cooperative rosse era riservata una quota fissa fra il 20 e il 30%. Sul lato opposto la Dc di De Gasperi era finanziata dalla Cia e dal “quarto partito” dell’Assolombarda, della Fiat, di una serie di altre imprese private e di alcune banche. Poi Fanfani per evitare che la Dc fosse finanziata solo dagli imprenditori mise in campo le industrie a partecipazione statale. L’Eni di Mattei finanziava tutti i partiti e poi, d’intesa con Albertino Marcora, egli fondò la sinistra di Base. Fino a Craxi, il Psi fu finanziato dal partito con cui era alleato, quindi prima dal Pci ai tempi del frontismo e poi dal sistema delle partecipazioni statali controllato dalla Dc ai tempi del centro-sinistra. Con Craxi la musica cambiò nel senso che egli puntò a realizzare un’assoluta autonomia del Psi sia dal Pci che dalla Dc anche sul piano finanziario.
Ora, tutto ciò era conosciuto benissimo sia dai magistrati, sia dai giornali. Poi quando fra il 1989 e il 1991 è crollato il muro di Berlino e è caduto il comunismo in Russia e nei paesi dell’Europa dell’Est, Francesco Cossiga è stato il primo a capire che sarebbero sorti enormi problemi non solo al Pci, ma anche alla Dc, al Psi, ai partiti laici. Infatti non appena venne meno il pericolo comunista, i “poteri forti” (in primo luogo la Fiat, Mediobanca e ancora di più la Cir di De Benedetti) ritirarono o ridimensionarono la delega data alla Dc e al Psi, ai partiti laici, specie per quello che riguardava la gestione dell’economia. Perdipiù a livello europeo il trattato di Maastricht cambiava tutto il quadro: l’economia italiana, con le buone o con le cattive, era sospinta a collocarsi sul terreno del libero mercato e della concorrenza. A quel punto il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico.
Di conseguenza in uno stato normale si sarebbe dovuta fare una grande operazione di unità nazionale con un’annessa amnistia per superare tutto il sistema allora in atto di finanziamento irregolare. Invece accadde esattamente l’opposto. Si aggregò un circo mediatico-giudiziario fondato sia su un nucleo di magistrati inquirenti, sia sui direttori di alcuni giornali che ritenne che era venuto il momento di smantellare il sistema dei partiti. In una prima fase anche il Pds era estraneo al circo mediatico-giudiziario, tant’è che tremò. Proprio per questo Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina a “chiedere scusa agli italiani”. Quali scuse doveva chiedere se il Pds era estraneo al sistema di Tangentopoli? A sua volta per qualche mese Borrelli accarezzò il sogno che il presidente della Repubblica chiamasse un nucleo di magistrati a gestire anche sul piano politico quel cataclisma. Quando questa operazione fu impraticabile ebbe buon gioco il viceprocuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, a spiegare al pool che era indispensabile avere un punto di riferimento fra i partiti e che questo non poteva che essere il Pds.
A quel punto il pool dei pm usò la linea dei due pesi e due misure, puntando a distruggere in primo luogo Craxi e il Psi, ma anche il centro-destra della Dc e i partiti laici e a salvare i massimi dirigenti del Pds e della sinistra Dc. Per portare avanti questa linea, poi, furono adottate procedure e sistemi del tutto perversi e forzati. Il primo era quello della sentenza anticipata. Siccome erano in azione e collegati fra loro i due pool, il pool dei pm e quello dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa, di Repubblica e dell’Unità, con il concorso del Tg3 e dei telegiornali Fininvest, ogni avviso di garanzia sparato sui giornali in prima pagina e dai Tg in prima serata era una sostanziale condanna definitiva con la conseguente distruzione del consenso dei leaders e dei partiti così investiti.
In secondo luogo, come ha ben spiegato Guido Salvini, tutti i procedimenti giudiziari vennero surrettiziamente concentrati in un unico faldone con un unico gip, Italo Ghitti, che controfirmava quasi tutte le richieste dei pm. In questo modo fu possibile utilizzare la minaccia del carcere o la sua messa in atto allo scopo di ottenere confessioni, spesso confessioni mirate rispetto a precisi uomini politici, in primo luogo Craxi. Non parliamo poi della sistematica violazione del segreto istruttorio e anche degli interventi davvero eversivi del pool rispetto a proposte di legge avanzate dal governo e dal parlamento.
Certamente, in seguito al blitzkrieg del ’92-’94, proseguito fino al 2013 con l’attacco frontale a Berlusconi, la magistratura inquirente ha conquistato il potere e il sostegno politico. Le conseguenze, però, sono state disastrose. In primo luogo i partiti o sono stati distrutti oppure sono stati ridotti in condizioni di subalternità (è il caso del Pd).
Il risultato è quello di un vuoto politico molto preoccupante. Ma effetti devastanti ci sono stati anche per ciò che riguarda la stessa magistratura. Essa oggi è dominata da un sistema (quello descritto nei libri di Sallusti e Palamara) fondato sulle correnti.
A loro volta le correnti sono dominate dai pm (con annessi cronisti giudiziari) che nel Csm fanno il bello e il cattivo tempo e in quella sede gestiscono anche le carriere dei magistrati giudicanti. In tutti questi anni la vita politica italiana è stata caratterizzata dal fatto influenti procure hanno messo di volta in volta nel mirino prima Craxi, poi Berlusconi, in certi momenti Salvini, adesso Renzi. Quindi l’anomalia italiana che nel passato consisteva nell’esistenza del più forte partito comunista dell’Occidente adesso fino a pochi mesi fa è stata caratterizzata dal prepotere di alcune procure. Ci auguriamo che alcuni dei referendum sulla giustizia servano a cambiare profondamente questo quadro. Fabrizio Cicchitto
La trama internazionale di Mani Pulite. Di Igor Pellicciari il 20/02/2022 su formiche.net.
Dal mancato ruolo di attore primario nella crisi dei Balcani alle difficoltà nei negoziati europei sull’immigrazione fino alla strada (in salita) nelle trattative sull’austerity. La vicenda Mani Pulite ha avuto un'(enorme) onda d’urto internazionale per l’Italia. L’analisi del prof. Igor Pellicciari (Università di Urbino)
A ben tre decenni dal suo inizio, una ricostruzione storiografica di Mani Pulite resta complessa per la mancanza di fonti certe, di difficile accesso per via dell’acceso dibattito che persiste sul rapporto tra politica e giustizia.
Qualche certezza in più la da contestualizzare Mani Pulite nel quadro internazionale del suo tempo, per cogliere specificità e tratti comuni di un fenomeno sì prettamente italiano ma non unicum assoluto (positivo o negativo) come è stato spesso raffigurato.
Primo aspetto da sottolineare è che nei de-ideologizzati anni Novanta del post-bipolarismo, la Questione Morale acquista nuova forza come legittimo strumento di scontro politico non solo in Italia ma in numerosi contesti nazionali e multilaterali di prim’ordine.
In Francia l’episodio più eclatante è la campagna a mezzo stampa contro il primo ministro Pierre Beregovoy che lo spingono nel 1993 alla sconfitta elettorale e poi di lì a poco al tragico gesto di togliersi la vita, che segnerà l’inizio dell’ultima fase crepuscolare della Presidenza di Francois Mitterrand.
In Germania, sistema politico in genere meno esposto alla questione morale, gli anni Novanta vedono una concentrazione senza precedenti (ben nove) di scandali pubblici che al culmine bruciano il mostro sacro Helmut Kohl, tra i principali artefici della riunificazione tedesca.
In Spagna, accuse di corruzione amplificate dai Media portano nel 1996 alla sconfitta elettorale che impone al leader di lungo corso Felipe Gonzales di lasciare la guida del governo – tenuto ininterrottamente dal lontano 1982.
Nello stesso quadro va collocato anche il più famoso scandalo presidenziale del decennio, con Bill Clinton sottoposto ad impeachment per avere mentito sul tipo di relazione avuto con la stagista alla Casa Bianca Monica Lewinsky.
Sul versante multilaterale, basti ricordare l’eclatante caso delle dimissioni cui viene obbligata nel 1999 la Commissione Europea guidata da Jacques Santer (ex-primo ministro del Lussemburgo) per le accuse di peculato mosse alla commissaria Edith Cresson (ex-primo ministro francese).
La specificità italiana è che ad iniziare l’ondata moralizzatrice sono settori del potere giudiziario; con un impatto radicale sul sistema politico, rivoluzionato in dinamiche e protagonisti. Altrove in Occidente sono invece i media a trainare l’azione moralizzatrice, con effetti non-sistemici che non vanno oltre il condizionamento delle sorti dei singoli esponenti politici coinvolti e non scuotono il sistema dalle sue fondamenta.
Altro aspetto poco trattato sono le conseguenze della sostituzione determinata da Mani Pulite della vecchia classe politica della Prima Repubblica con una nuova tutta concentrata sulla politica interna, con poco interesse per la dimensione internazionale e scarse competenze in politica estera.
Questo determina l’inizio di una fase di indebolimento del ruolo e del peso dell’Italia su scala europea, sancito dalla rinuncia a giocare un ruolo politico primario nella gestione delle crisi balcaniche, dalla Bosnia al Kosovo, cruciali nel ridefinire i nuovi equilibri del mondo post-bipolare.
Aprendo un trend ancora in corso, come dicono le periodiche difficoltà di Roma nel far valere le proprie ragioni a Bruxelles su temi come la ristrutturazione del debito pubblico (e revisione dei parametri del Patto di Stabilità) o la gestione dei flussi di immigrazione illegale (e riforma del trattato di Dublino).
Infine, la dimensione internazionale si incrocia con una delle questioni più controverse e aperte, riguardanti l’origine stessa della stagione di Mani Pulite. A fronteggiarsi sono ipotesi di una sua genesi endogena/italiana vs esogena/esterna.
Le prime la considerano nata dalla presa di coscienza della necessità di reagire ad un sistema di finanziamento illegale della politica attraverso appalti pubblici talmente endemico (riassunto nel neologismo Tangentopoli) da essere diventato insostenibile.
Secondo queste tesi, il contesto internazionale post-bipolare avrebbe l’effetto non di determinare ma semmai solo accelerare un processo oramai irreversibile di moralizzazione whatever-it-takes del sistema politico, perseguito da settori della magistratura, sostenuti da un diffuso sentire popolare.
Per le tesi esogene, invece, Mani Pulite sarebbe il capitolo italiano (magari sfuggito di mano ad un certo punto) di un’azione nata oltreoceano e rivolta a tutto il vecchio continente, con l’obiettivo statunitense di ridimensionare il ruolo politico europeo in rapida crescita. A partire dalle leadership carismatiche che hanno guidato l’affermarsi Occidentale nella Guerra Fredda, ora diventate ingombranti perché troppo autonome nell’aprirsi ai nuovi mercati politici ed economici dell’Est Europa post-comunista.
Il caso italiano sarebbe particolarmente attenzionato per via del paradosso di un paese che perde centralità come avamposto politico-istituzionale contro il blocco sovietico negoziato da Alcide De Gasperi; ma al contempo aumenta il suo peso strategico-militare come base imprescindibile per interventi nei crescenti scenari di crisi, dai Balcani al Medio Oriente.
Per sfruttare al meglio il potenziale logistico italiano, necessita che a Roma vi sia una classe politica pronta a ospitare passivamente operazioni straniere sul proprio territorio, senza opporvisi o trarne un proprio vantaggio autonomo. In controtendenza con quanto sperimentato nella Prima Repubblica con l’attivismo diplomatico di Giulio Andreotti in Medio Oriente o il protagonismo nazionale di Bettino Craxi nel G7 o nell’emblematico episodio dell’incidente di Sigonella.
Entrambe le tesi endogene ed esogene accanto a considerazioni credibili (ma non per questo vere), presentano punti deboli prontamente rimarcati dal fronte opposto. Resta innegabile che risale proprio agli anni Novanta e all’imporsi della questione morale in politica il crollo verticale di carisma che affligge le leadership europee, riducendone legittimità e impatto dell’azione di governo.
Si è trattato di un prezzo molto alto pagato in nome dell’obiettivo di moralizzare il sistema politico che peraltro – stando alle cronache – sembra essere rimasto largamente incompiuto. Lungi dall’avere debellato la corruzione dalla sfera pubblica (non solo in Italia).
Quell’Italian desk che teneva d’occhio Di Pietro e i suoi. Le responsabilità degli USA in Tangentopoli: occasione per fare piazza pulita dei politici e sostituirli con gli ex comunisti. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
Quanto c’entrano gli americani con l’operazione Mani pulite? “Mani Pulite”, giova ricordare, è la traduzione pura e semplice di “Clean Hands”, nome di un’operazione americana da lungo tempo attiva per combattere criminalità e malaffare. In Italia con la partecipazione di giudici italiani e americani, tra cui lo stesso Giovanni Falcone e Rudolph Giuliani all’epoca eccellente Procuratore, prima di diventare sindaco di New York durante l’attacco alle Torri Gemelle e poi avvocato del presidente Trump.
È totalmente inaccettabile l’idea che un evento del tutto casuale come il denaro trovato addosso a uno sconosciuto Mario Chiesa potesse essere la prima e unica esca affinché si accendesse il grande incendio dell’inchiesta che decapitò la Repubblica. Ho partecipato anche ieri a un talk show mattutino con vecchi cronisti che come me vissero le ore di Di Pietro al palazzo di giustizia di Milano come una seconda vita e proprio perché l’ho fatto e conservo ancora i quaderni scritti a mano con tutti gli appunti di quei giorni posso dire con certezza che quell’operazione fu voluta, fu fatta con determinazione secondo un piano, ebbe gli effetti desiderati che furono la decapitazione di una democrazia in vista di una sostituzione dell’intera classe dirigente con un’altra classe dirigente selezionata direttamente fra i quadri del vecchio partito comunista italiano costretto fino alla fine dell’impero sovietico a non poter entrare nei governi di maggioranza ma che era stato valutato con grande interesse dagli americani non soltanto democratici, se solo si ricorda quanto Henry Kissinger fosse diventato amico di Giorgio Napolitano e non soltanto perché fosse l’unico comunista che parlasse un buon inglese.
Gli americani hanno sempre chiarito il punto di vista: a noi non importa nulla di quale sia la politica di un governo alleato, vogliamo soltanto essere sicuri che i suoi ministri non vadano a spifferare tutto al nemico. Quindi non vogliamo comunisti nel governo italiano perché altrimenti dovremmo sospendere il flusso di informazioni a quel governo, come effettivamente fecero con il Portogallo dopo l’ingresso dei comunisti dopo la rivoluzione dei garofani. Contrariamente alla vulgata comunista secondo cui gli americani intendevano favorire governi di destra, liberticidio e nemici della classe operaia, gli americani erano al contrario favorevoli a governi progressisti, moderni, interclassista e per loro naturale tendenza sono sempre stati contrari a tutti i tipi di neofascismo e di conservatorismo: al Dipartimento di Stato la linea è sempre stata una sola per l’Italia: isolare i comunisti finché sono legati a filo doppio con Mosca e praticare una politica riformatrice e prepararsi ad accogliere un Pci totalmente autonomo che aspettiamo anche nella Nato. Non fu per caso che Enrico Berlinguer dichiarasse a Giampaolo Pansa sul Corriere della Sera che lui poteva sentirsi al sicuro soltanto sotto l’ombrello della Nato ma poi quando si trattava di schierarsi di fronte alla questione degli euromissili seguiva il gioco della grande potenza sovietica amica.
Fino al 1989 la guerra fredda fu una cosa reale ma già sgonfiata dalle sue asperità. Si era già formata nel Partito comunista italiano un’ala fortemente filoamericana e antisovietica. L’ambasciata di via Veneto era diventato un oggetto del desiderio di molti comunisti e fra loro e il gruppo di Armando Cossutta rimasto sempre fedelissimo al Cremlino cominciò una sorda guerra che raggiunse il suo acme quando anche in Italia fu pubblicato il libro Dossier Mitrokhin che provocò molta agitazione all’interno della sinistra italiana, ma questa è una storia che cominciò sei o sette anni dopo l’inchiesta Mani pulite. L’inchiesta si scatenò soltanto sui partiti non comunisti ovvero su quelli che avevano sempre governato la Repubblica dal 1948 e senza ipotizzare che ci fosse una reale etero direzione da parte degli americani, certamente dal Dipartimento di Stato e da quello della giustizia da Washington arrivarono soltanto grandi segnali di solidarietà e incoraggiamenti a proseguire su quella strada.
Qual era stato l’evento che aveva determinato la riesumazione di quanto, già noto almeno da 12 anni, era stato insabbiato? La logica suggerisce solo un punto: fine dei contributi annui del partito comunista dell’Unione Sovietica al partito comunista italiano. Quei miliardi versati nel corso degli anni avevano corrotto la politica interna italiana fornendo al partito comunista molti più mezzi di quanti potesse produrne e avevano offerto un gigantesco alibi a tutti gli altri partiti e politici per dire se lo fanno loro, noi non saremo da meno. Ma il rubinetto si era chiuso, il partito comunista dovete in fretta e furia cambiare nome, vendere la casa troppo prestigiosa per rifugiarsi in un locale al piano terra meno sfarzoso, per forza di cose il Pci ormai Pds non era più un’appendice dello Stato russo anche perché l’Unione Sovietica scompariva suddividendosi in tronconi, gli stessi che oggi vediamo minacciarsi tra loro di guerra appunto.
A dirla in breve, il gruppo di intellettuali e di funzionari del dipartimento di Stato dell’ “Italian Desk” videro che era arrivata l’occasione per fare piazza pulita di tutti quei democristiani, socialisti socialdemocratici e repubblicani e sostituirli con gente nuova. Il partito di Achille Occhetto, appunto. Nel frattempo, la magistratura aveva scoperto di possedere una forza invincibile e di poter godere se necessario di una impunità intimidatoria: aveva scoperto anche di poter sfidare il Parlamento e sostituirsi ad esso, leggendo un comunicato eversivo in televisione, equivalente a un colpo di Stato. Il Parlamento era umiliato. Craxi rifugiato come un malfattore sulle coste africane. Il democristiano Arnoldo Forlani umiliato in un processo e quanto a Giulio Andreotti – violentemente antiamericano – gli furono gettati di traverso alcuni cadaveri sul cammino (fra cui quello di Ambrosoli e Lima) e la sua carriera fu stroncata insieme all’ambizione di salire al Quirinale.
La stessa mafia che mai e poi mai si era permessa di varcare a mano armata i confini siciliani aveva fatto bravate incomprensibili come le operazioni a via dei Georgofili o a San Giovanni o nei pressi del teatro Parioli di Maurizio Costanzo, seguendo un copione mai sperimentato prima. Gli stessi omicidi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino si erano svolti secondo modalità totalmente estranee alle tradizioni della mafia di cui la giustizia non ha ancora trovato il bandolo. Ad Achille Occhetto che parlava metaforicamente di una sua «gioiosa macchina da guerra» tutti i giochi sembravano fatti: la vecchia politica era ridotta a poco meno di quaranta ladroni ed era arrivata l’ora del sangue nuovo.
Fu allora che l’imprenditore Silvio Berlusconi decise di compiere un’azione sconsiderata e meticolosa al tempo stesso radunando forze fra di loro ostili come il partito neofascista di Gianfranco Fini e la Lega Nord federalista di Umberto Bossi e vinse. Andò al governo ma un avviso di garanzia pubblicato sul Corriere gli stroncò subito le gambe e quasi sessanta processi piombarono su di lui come avvoltoi. Una legge retroattiva lo mise fuori dal Senato e un’orda di populisti analfabeti come nella notte dei morti viventi, cominciò a sciamare per le strade e nel Parlamento portando l’Italia al disastro da cui un Commissario benevolente mandato dall’Europa cerca di tirarla fuori dal baratro. Così è finita la grandiosa operazione Mani Pulite che dir si voglia, di cui alcuni dettagli potrete trovare nel libro “The Italian Guillotine” di Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, libro proibito per eccellenza, resta da acquistare una sola copia in magazzino.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Il Britannia, le stragi di mafia e Mani Pulite.
HMY Britannia (1953) Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Il Britannia a Cardiff.
Descrizione generale
Proprietà Her Majesty's Government
Identificazione IMO 8635306
Costruttori John Brown & Company
Cantiere West Dunbartonshire, Scozia
Varo 16 aprile 1953
Entrata in servizio 11 gennaio 1954
Radiazione 11 dicembre 1997
Destino finale Esposta in museo aperto al pubblico
Caratteristiche generali
Dislocamento 4.320
Lunghezza 126 m
Altezza 42 (albero di maestra) m
Velocità 21,5 nodi (39,8 km/h)
Autonomia 2.400 mn
Equipaggio 19 ufficiali e 217 uomini di equipaggio, oltre ad un plotone di Royal Marines
HMY Britannia è stato il panfilo della Famiglia Reale Britannica. Si è trattato dell'83ª nave avente questa funzione dalla restaurazione di Carlo II d'Inghilterra (1660), ed il secondo a portare questo nome (il primo fu un cutter costruito per il Principe di Galles nel 1893). La nave è ormeggiata in modo permanente all'Ocean Terminal di Leith, Edimburgo.
Nel corso della sua vita operativa, percorse 1.087.623 miglia, pari a 2.014.278 chilometri. Oggi fa parte della National Historic Fleet ed è conservato come nave museo presso l'Ocean Terminal a Leith, Edimburgo.
Storia
La nave fu varata il 16 aprile 1953, ed entrò in servizio l'11 gennaio 1954. Dal punto di vista tecnico, era caratterizzata dalla presenza di tre alberi (alti 41 metri l'albero di trinchetto, 42 quello di maestra e 36 quello di mezzana). Gli ultimi 6 metri dei due alberi più alti erano incernierati, in modo da permettere il passaggio sotto i ponti. Il Britannia fu progettato per essere facilmente convertito in tempo di guerra in nave ospedale.
Il Britannia, durante la sua vita operativa, è stato ampiamente utilizzato per il trasporto non solo dei membri della Famiglia Reale, ma anche di importanti personalità straniere. Il panfilo reale fu utilizzato anche da Carlo e Diana per il loro viaggio di nozze, nel 1981. Inoltre, il Britannia venne usato anche nel 1986 in occasione della guerra civile in Aden, per l'evacuazione di circa 1.000 rifugiati.
Nel 1997, il governo conservatore di John Major promise di costruire un successore al Britannia se fosse stato rieletto. Tuttavia, questo non avvenne: il 1º maggio 1997, la vittoria alle elezioni arrise al Partito Laburista. Questo decise di ritirare dal servizio la nave, che non sarebbe stata sostituita: tale scelta fu dettata da ragioni di ordine economico. La sua ultima missione fu quella di portare via dalla città di Hong Kong l'ultimo governatore della stessa, Chris Patten, ed il Principe di Galles, dopo che l'ormai ex colonia fu restituita alla Cina il 1º luglio 1997. Il Britannia fu radiato l'11 dicembre dello stesso anno, dopo oltre 40 anni di servizio.
Convegno sulle privatizzazioni in Italia e teorie del complotto[modifica | modifica wikitesto]
Il 2 giugno 1992, a bordo della nave si tenne un convegno sulle privatizzazioni in Italia, a cui presero parte importanti manager ed economisti[1]. Questo evento ha dato luogo a una delle più diffuse teorie del complotto che ritiene che quell'incontro abbia promosso la svendita delle imprese pubbliche italiane[2][3] e dato avvio alla caduta della Prima Repubblica italiana.
L'incontro avvenne in acque italiane. La nave attraccò al porto di Civitavecchia facendo poi rotta lungo la costa dell'Argentario. Alla riunione parteciparono, oltre ad alcuni banchieri inglesi, anche un gruppo di manager ed economisti italiani: Herman van der Wyck, presidente Banca Warburg; Lorenzo Pallesi, presidente INA Assitalia; Jeremy Seddon, direttore esecutivo Barclays de Zoete Wedd; Innocenzo Cipolletta, direttore generale di Confindustria; Giovanni Bazoli, presidente Banca Antonveneta; Gabriele Cagliari, presidente Eni; Luigi Spaventa. Fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il Direttore Generale del Ministero del Tesoro Mario Draghi. L'Unità e Il Fatto Quotidiano ricostruirono un suo discorso sull'inevitabilità delle privatizzazioni in Italia.
Fusaro, il Britannia e i complotti...e l'incapacità di usare internet. Michelangelo Coltelli (maicolengel) il 05 Febbraio 2021 su butac.it
Oggi facciamo davvero in fretta visto che quanto segue ci è stato segnalato da un nostro lettore che aveva già verificato i fatti. Il 4 febbraio 2021 sul canale YouTube di Diego Fusaro è apparso un video dal titolo:
Perché Wikipedia ha modificato il 3 febbraio 2021 la pagina del Panfilo Britannia?
Il video (che poi in realtà è un podcast) dura ben 2 minuti e 40 secondi. Così pochi che credo di fare cosa utile a riportare tutta la trascrizione di quanto viene detto dal turbocoglfilosofo:
…vi è un piccolo mistero che riguarda la pagina Wikipedia del panfilo Britannia. Il panfilo Britannia sapete fu quel quell’evento in realtà che caratterizzò l’Italia nel ’92 allorché sul panfilo della regina d’Inghilterra si diedero convegno al largo delle coste di ostia alcuni dei principali esponenti dell’élite turbo finanziaria i quali decisero la privatizzazione totale dell’Italia. La svolta neoliberista che proprio con Mani pulite fu possibile nel ’92 con un colpo di stato giudiziario ed extraparlamentare che cancellò la Prima repubblica e pose in essere la nuova governance tecnoliberista di liberisti di centro, liberisti di sinistra, liberisti di destra. Ebbene la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata in data 3 di febbraio 2021 alle ore 18 e 05, curiosa coincidenza davvero, anche perché come sapete Mario Draghi fu sul panfilo Britannia nel 1992, fu quindi tra coloro i quali decisero o quantomeno discussero delle sorti liberalizzatrici e privatizzatrici del Paese. Ebbene curiosamente la pagina del panfilo Britannia su Wikipedia è stata modificata proprio il 3 di febbraio del 2021 alle ore 18 05 proprio nel giorno in cui Mario Draghi è stato convocato dal Presidente della Repubblica Mattarella per il nuovo governo. Ora si legge sulla pagina del panfilo Britannia, leggo, fece anche un breve saluto scendendo prima che la nave salpasse il direttore generale del ministero del tesoro Mario Draghi, insomma la pagina Wikipedia del panfilo Britannia ci spiega che Mario Draghi fece solo un breve saluto e prima che salpasse. Sul Fatto Quotidiano trovate invece il discorso che Mario Draghi tenne sul panfilo Britannia e consiglio davvero a tutti la lettura di quel discorso perché ci permette di capire molto di quello che accadde già nel ’92 e molto di quello che accadrà ora nel 2021 che Mario Draghi terrà tra le sue mani il timone della barca Italia, del nostro vascello italico, ebbene possiamo dire forse che ora è arrivato per Draghi il momento di portare a compimento i compiti del panfilo Britannia del ’92…
Come chiunque non sia nato prima degli anni Sessanta sa, le modifiche su Wikipedia sono pubbliche, non c’è nessun mistero su cosa sia cambiato nella pagina dedicata al panfilo Britannia e a quel viaggio, che sono ormai quasi trent’anni che solletica le fantasie prima di signoraggisti, poi di sovranisti e infine di turbofilosofi e criminologi de noantri…
Come ci è stato riportato nella segnalazione: il corpo del testo della pagina Wikipedia è invariato dal 2016. L’unica cosa che al 3 febbraio era stata modificata era la nota [6] a piè di pagina, che si accosta alla nota nota [5] già presente. La nota bibliografica [6] altro non è che un articolo del Fatto Quotidiano, che lo stesso Fusaro richiama dal minuto 2.10 al minuto 2.40.
Quindi non c’era nessun mistero nella modifica della pagina, e non ci credo che un soggetto giovane come Fusaro possa non sapere, nel 2021, che tutte le modifiche apportate su Wikipedia sono pubbliche e verificabili dagli utenti. Se davvero non lo sa questa dovrebbe essere dimostrazione che non è un soggetto da seguire. Uno che parla di complotti e nemmeno conosce il funzionamento dello strumento su cui ogni giorno carica le sue sbrodolate in salsa complottista non è una fonte di informazione affidabile.
Della vicenda del Britannia ne ha parlato il sempre bravo Alessandro D’Amato su Today, con queste conclusioni:
La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice “saluto a nome del governo”, ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient’altro. A distanza di anni l’assalto dei complottisti di QAnon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c’è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.
Fusaro è uno di quelli alla guida del bus che sta tentando il frontale, fossi nei suoi follower scenderei alla prossima fermata. Detto ciò le modifiche alla pagina Wiki dedicata al panfilo non si sono fermate, come è normale che sia se un argomento torna virale dopo un po’ che non se ne è parlato.
Basta andare sulla pagina “cronologia” per vederle tutte, e cliccando sul testo in blu potete vedere chi ha aggiunto o eliminato qualcosa e cosa è stato aggiunto o eliminato. Nulla di così difficile, a meno che non siate turbofilosofi.
Non credo sia necessario aggiungere altro.
Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia Today . Alessandro D'Amato il 03 febbraio 2021 su Today.
Da quando Mattarella ha annunciato di volergli conferire l'incarico è tornata a circolare la teoria del complotto su SuperMario e sul panfilo dove tenne un discorso sulle privatizzazioni italiane nel 1992. Ecco un estratto del suo discorso e un inquadramento storico della vicenda
Non appena Sergio Mattarella ha annunciato di voler conferire l'incarico di formare un nuovo governo a Mario Draghi, subito le agenzie di stampa facevano rimbalzare una dichiarazione del senatore del MoVimento 5 Stelle Elio Lannutti: "Draghi sul Britannia: il discorso dell'inizio della fine dell'Italia. Nel 2011 Monti. Oggi Draghi. Non governerà col mio voto. Mi spiace!". Subito dopo arrivava a dargli man forte l'ex grillino Gianluigi Paragone in un video su Facebook: "Draghi è quello del Britannia, quello delle privatizzazioni con cui abbiamo svenduto il paese. Ma ora vedremo le carte, si gioca a carte scoperte". Non solo: in alcune chat complottiste su Telegram e Whatsapp rimbalzava questo estratto di una dichiarazione a Uno Mattina dell'allora senatore a vita e già presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che di Draghi diceva: "Un vile affarista. Non si può nominare premier chi è stato assunto dalla Goldman Sachs. E male feci io ad appoggiarne la candidatura a Silvio Berlusconi. È il liquidatore, dopo la crociera sul Britannia, dell'industria italiana. Ora svenderebbe quel che rimane: Finmeccanica ed Eni". Ma cos'è questa storia di Draghi e del Britannia?
Cos'è questa storia di Draghi e del Britannia
Si tratta di una delle più longeve teorie del complotto che abbiano mai attraversato la Repubblica italiana. Tutto parte dal 1992, ma prima bisogna fare un passo indietro. Dopo la conclusione del suo incarico come direttore esecutivo della Banca Mondiale, nel 1991 Draghi diventò direttore generale del ministero del Tesoro, chiamato a quel posto dall'allora ministro del Tesoro del settimo governo Andreotti Guido Carli. A suggerire il suo nome fu Carlo Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia e qualche anno dopo presidente del consiglio di un governo tecnico, come si appresta a diventare oggi proprio SuperMario. Nel 1992, mentre le finanze italiane versano in condizioni drammatiche (e di lì a poco il presidente del Consiglio Giuliano Amato decretò il famigerato prelievo sui conti correnti: la famosa patrimoniale del 6 per mille), si decide di dare il via per fare cassa a un piano di privatizzazioni delle società partecipate dallo Stato. Prima dell'inizio della stagione delle privatizzazioni, il 2 giugno Draghi si recò sul panfilo della regina d'Inghilterra Elisabetta II HMY Britannia per incontrare alti rappresentanti della comunità finanziaria internazionale. Di qui l'accusa: Draghi si accordò con la finanza internazionale per svendere l'Italia.
Il 22 gennaio del 2020 il Fatto Quotidiano pubblicò un articolo a firma di Alessandro Aresu che parlava della vicenda, il commento dell'allora caporedattore dell'economia Stefano Feltri (che nel frattempo è diventato direttore di Domani) e il discorso integrale fatto da Draghi. Il contesto storico sintetizzato nella presentazione ricordava lo scioglimento delle Camere decretato da Francesco Cossiga il 2 febbraio 1992, la firma cinque giorni dopo del Trattato di Maastricht, in cui Carli ha un ruolo chiave, le elezioni di aprile con la prima affermazione della Lega Nord, l’accelerazione di Mani Pulite. Quel 2 giugno arriva pochi giorni dopo la strage di Capaci e l’ekezione di Scalfaro: "Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico", esordì Draghi. I British Invisibles erano allora il gruppo di interessi finanziari della City.
Per poi spiegare: "La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit. Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento".
Chi è Mario Draghi, chi voterà il suo governo tecnico e cosa succede adesso
Il discorso di Draghi sul Britannia il 2 giugno 1992
Poi, dopo aver elencato le condizioni dello Stato italiano e la decisione di muoversi verso un percorso di riforme insieme alle privatizzazioni: poco più tardi un referendum cambiò la legge elettorale introducendo il maggioritario e aprendo la via alla cosiddetta Seconda Repubblica. Draghi aggiungeva: "Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo".
E infine concludeva così: "I mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’ag - giustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni". E quasi trent'anni dopo Feltri commentava: "La lista di quello che bisognava fare e non è stato fatto è lunga. Draghi probabilmente riscriverebbe oggi quel discorso, parola per parola. Inclusa la parte che analizza perché gestire le aziende con logiche politiche e di consenso a breve termine è la premessa di disastri scaricati presto o tardi sui conti pubblici". Oggi Alessandro La Barbera su La Stampa ricorda che già in quei mesi a Draghi toccò l'accusa di aver svenduto l'Italia agli interessi stranieri:
Gli capita ancora, a distanza di trent’anni, di ricordare con fastidio la campagna di discredito che gli fu riservata per essere salito pochi minuti sul panfilo della Regina d’Inghilterra attraccato al molo di Civitavecchia. L’invito fu spedito da un gruppo di investitori. Lui salì, fece un saluto a nome del governo, e se ne andò. Quel piano di privatizzazioni, attaccato da molti, fu una delle premesse per far entrare l’Italia nella moneta unica.
Draghi, il Britannia e... Beppe Grillo
La storia di Draghi e del Britannia va a incastrarsi con un'altra teoria del complotto che vede coinvolto Beppe Grillo. A partire dal 2000, per motivi non chiari, circolò la voce che anche l'attuale Garante del MoVimento 5 Stelle fosse a bordo del Britannia. Una storia alimentata da immagini che mostravano dichiarazioni attribuite a Enrico Mentana come questa: "Il 2 giugno 1992 ero sulla banchina del porto di Civitavecchia con la trouppe (sic) del TG5 per una edizione speciale sulla riunione a bordo del panfilo inglese di Elisabetta II. Saranno state le 14:30, intervistai in diretta Beppe Grillo subito dopo lo sbarco dal motoscafo che lo riportò in porto". Un'altra invece tirava in ballo Emma Bonino, “al microfono dell’unica troupe giornalistica del TG1 accreditata sulla nave. Si tratta di due bufale. Il direttore del Tg di La7 la smentì con il suo stile sei anni fa su Facebook: "Qualche mestatore imbecille ha rimesso in circolo la panzana secondo cui nel 1992 avrei intervistato Beppe Grillo che scendeva dal panfilo Britannia nel porto di Civitavecchia. Intervenga - se è possibile - chi è preposto a impedire la circolazione di notizie palesemente false sui social network. E riflettano tutti coloro che utilizzano Fb e Twitter per drogare la circolazione virale di bufale a scopo politico. E sono tanti.".
Ma allora cos'è questa storia del Draghi e del Britannia? La lunghezza del discorso pubblicato dal Fatto Quotidiano ci permette di far notare che non si trattava di un semplice "saluto a nome del governo", ma Draghi era lì per il suo ruolo e fece quello che andava fatto: spiegò a chi aveva capitali da spendere quale sarebbe stato il processo di privatizzazione delle aziende di Stato italiane, allo scopo di invitarli a investire. Questo e nient'altro. A distanza di anni l'assalto dei complottisti di Qanon alla Casa Bianca ci ha insegnato cosa può succedere quando molta gente crede a una balla: che si comporta come se quella balla fosse realtà, finché non finisce male. Anche per chi (Donald Trump) quella balla ha cercato di alimentarla per convenienze personali. E lo sciamano con il turbante oggi ha cambiato completamente verso prendendosela proprio con Trump, cosa che succede abbastanza spesso quando un complottista va a sbattere contro la realtà. Da quanto circolerà ancora questa storia di Draghi e del Britannia capiremo se anche in Italia c'è qualcuno che ha voglia di fare un frontale con la realtà.
PRIVATIZZAZIONI. 1992, FALSI MITI ED ERRORI VERI
“Privatizzazioni inevitabili, ma da regolare con leggi ad hoc”: il discorso del 1992 (ma attualissimo) di Mario Draghi sul Britannia. Il Fatto Quotidiano il 22 gennaio 2020.
Pubblichiamo il discorso di Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, alla Conferenza sulle Privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, del 2 giugno 1992: l'ex presidente della Bce parlò della vendita delle azioni pubbliche. Un processo con cui, 28 anni dopo, l'Italia fa i conti. Nelle sue parole i mercati come strada per la crescita, la fine del controllo politico, l'idea di public company, ma anche i tanti rischi: "Sarà più difficile gestire la disoccupazione. Non c'è una Thatcher - disse - servono strumenti per ridurre i senza lavoro e i divari regionali. Andranno tutelati gli azionisti di minoranza". E ancora: "Questo processo lo richiede Maastricht, facciamolo prima noi. Ma va deciso da un esecutivo forte e stabile. Ridurremo il debito".
DI MARIO DRAGHI:
Signore e signori, cari amici, desidero anzitutto congratularmi con l’Ambasciata Britannica e gli Invisibili Britannici per la loro superba ospitalità. Tenere questo incontro su questa nave è di per sé un esempio di privatizzazione di un fantastico bene pubblico. Durante gli ultimi quindici mesi, molto è stato detto sulla privatizzazione dell’economia italiana. Alcuni progressi sono stati fatti, nel promuovere la vendita di alcune banche possedute dallo Stato ad altre istituzioni cripto-pubbliche, e per questo la maggior parte del merito va a Guido Carli, ministro del Tesoro. Ma, per quanto riguarda le vendite reali delle maggiori aziende pubbliche al settore privato, è stato fatto poco.
Non deve sorprendere, perché un’ampia privatizzazione è una grande – direi straordinaria – decisione politica, che scuote le fondamenta dell’ordine socio-economico, riscrive confini tra pubblico e privato che non sono stati messi in discussione per quasi cinquant’anni, induce un ampio processo di deregolamentazione, indebolisce un sistema economico in cui i sussidi alle famiglie e alle imprese hanno ancora un ruolo importante. In altre parole, la decisione sulla privatizzazione è un’importante decisione politica che va oltre le decisioni sui singoli enti da privatizzare. Pertanto, può essere presa solo da un esecutivo che ha ricevuto un mandato preciso e stabile.
Altri oratori parleranno dello stato dell’arte in quest’area: dove siamo ora da un punto di vista normativo, e quali possono essere i prossimi passaggi. Una breve panoramica della visione del Tesoro sui principali effetti delle privatizzazioni può aiutare a comunicare la nostra strategia nei prossimi mesi. Primo: privatizzazioni e bilancio. La privatizzazione è stata originariamente introdotta come un modo per ridurre il deficit di bilancio. Più tardi abbiamo compreso, e l’abbiamo scritto nel nostro ultimo rapporto quadrimestrale, che la privatizzazione non può essere vista come sostituto del consolidamento fiscale, esattamente come una vendita di asset per un’impresa privata non può essere vista come un modo per ridurre le perdite annuali. Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.
Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito. Quindi, la privatizzazione cambia il profilo temporale degli attivi e dei passivi, ma non può essere presentata come una riduzione del deficit, solo come il suo finanziamento. (Questo fatto, nella visione del Tesoro, ha alcune implicazioni che vedremo in un secondo momento). Le conseguenze politiche di questa visione sono due. Dal punto di vista della finanza pubblica, il consolidamento fiscale da mettere a bilancio per l’anno 1993 e i successivi non dovrebbe includere direttamente nessun ricavo dalle privatizzazioni. Nel contempo, dovremmo avviare un piano di riduzione del debito con gli incassi dalle privatizzazioni. Ciò implicherà più enfasi del Tesoro sulle implicazioni economiche complessive delle privatizzazioni e sull’obiettivo ultimo di ricostruire gli incentivi per il settore privato.
Secondo: privatizzazioni e mercati finanziari. La privatizzazione implica un cambiamento nella composizione della ricchezza finanziaria privata dal debito pubblico alle azioni. L’effetto di riduzione del debito pubblico può implicare una discesa dei tassi di interesse. Ma l’impatto sui mercati finanziari può essere molto più importante, quando vediamo che la quantità di ricchezza privata in forma di azioni è piccola in relazione alla ricchezza privata totale e che con le privatizzazioni può aumentare in modo significativo. In altre parole, i mercati finanziari italiani sono piccoli perché sono istituzionalmente piccoli, ma anche perché – forse in modo connesso – gli investitori italiani vogliono che siano piccoli. Le privatizzazioni porteranno molte nuove azioni in questi mercati. L’implicazione politica è che dovremmo vedere le privatizzazioni come un’opportunità per approvare leggi e generare cambiamenti istituzionali per potenziare l’efficienza e le dimensioni dei nostri mercati finanziari.
Tre: privatizzazioni e crescita. (In molti casi) vediamo le privatizzazioni come uno strumento per aumentare la crescita. Nella maggior parte dei casi la privatizzazione porterà a un aumento della produttività, con una gestione migliore o più indipendente, e a una struttura più competitiva del mercato. La privatizzazione quindi potrebbe parzialmente compensare i possibili – ma non certi – effetti di breve termine di contrazione fiscale necessaria per un bilancio più equilibrato. In alcuni casi, per trarre beneficio dai vantaggi di un aumento della concorrenza derivante dalla privatizzazione, potrebbe essere necessaria un’ampia deregolamentazione. Questo processo, se da una parte diminuisce le inefficienze e le rendite delle imprese pubbliche, dall’altra parte indebolisce la capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale. Tuttavia, consideriamo questo processo – privatizzazione accompagnata da deregolamentazione – inevitabile perché innescato dall’aumento dell’integrazione europea. L’Italia può promuoverlo da sé, oppure essere obbligata dalla legislazione europea. Noi preferiamo la prima strada.
Le implicazioni di policy sono che: a) un grande rilievo verrà dato all’analisi della struttura industriale che emergerà dopo le privatizzazioni, e soprattutto a capire se assicurino prezzi più bassi e una migliore qualità dei servizi prodotti; b) nei casi rilevanti la deregolamentazione dovrà accompagnare la decisione di privatizzare, e un’attenzione speciale sarà data ai requisiti delle norme comunitarie; c) dovranno essere trovati mezzi alternativi per perseguire obiettivi non di mercato, quando saranno considerati essenziali. Quarto: privatizzazioni e depoliticizzazione. Un ultimo aspetto attraente della privatizzazione è che è percepita come uno strumento per limitare l’interferenza politica nella gestione quotidiana delle aziende pubbliche. Questo è certamente vero e sbarazzarsi di questo fenomeno è un obiettivo lodevole. Tuttavia, dobbiamo essere certi che dopo le privatizzazioni non affronteremo lo stesso problema, col proprietario privato che interferisce nella gestione ordinaria dell’impresa. Qui l’implicazione politica immediata è l’esigenza di accompagnare la privatizzazione con una legislazione in grado di proteggere gli azionisti di minoranza e di tracciare linee chiare di separazione tra gli azionisti di controllo e il management, tra decisioni societarie ordinarie e straordinarie.
A cosa dobbiamo fare attenzione, per valutare la forza del mandato politico di un governo che voglia veramente privatizzare? Primo, occorre una chiara decisione politica su quello che deve essere considerato un settore strategico. Non importa quanto questo concetto possa essere sfuggente, è comunque il prerequisito per muoversi senza incertezze. Secondo, visto che non c’è una Thatcher alle viste in Italia, dobbiamo considerare un insieme di disposizioni sui possibili effetti delle privatizzazioni sulla disoccupazione (se essa dovesse aumentare come effetto della ricerca dell’efficienza), sulla possibile concentrazione di mercato, e sulla discriminazione dei prezzi (quest’ultima in particolare per la privatizzazione delle utility). Terzo, occorre superare i problemi normativi. Un esempio importante: le banche, che secondo la legislazione antitrust (l. 287/91) non possono essere acquisite da imprese industriali, ma solo da altre banche, da istituzioni finanziarie non bancarie (Sim, fondi pensione, fondi comuni di investimento, imprese finanziarie), da compagnie assicurative e da individui che non siano imprenditori professionisti. In pratica, siccome in Italia non ci sono virtualmente grandi banche private, gli unici possibili acquirenti tra gli investitori domestici sono le assicurazioni o i singoli individui. Una limitazione molto stringente.
In ordine logico, non necessariamente temporale, tutti questi passaggi dovrebbero avvenire prima del collocamento. In quel momento, affronteremo la sfida più importante: considerando che una vasta parte delle azioni sarà offerta, almeno inizialmente, agli investitori domestici, come facciamo spazio per questi asset nei loro portafogli? Qui giunge in tutta la sua importanza la necessità che le privatizzazioni siano a complemento di un piano credibile di riduzione del deficit, soprattutto per ridurre la creazione di debito pubblico. Solo se abbiamo successo nel compito di ridurre “continuamente e sostanziosamente” il nostro rapporto tra debito e Pil, come richiesto dal Trattato di Maastricht, troveremo spazio nei portafogli degli investitori. Allo stesso tempo, l’assorbimento di queste nuove azioni può essere accelerato dall’aumento dell’efficienza del nostro mercato azionario e dall’allargamento dello spettro degli intermediari finanziari. Qui il pensiero va subito alla creazione di fondi pensione ma, di nuovo, i fondi pensione sono alimentati dal risparmio privato che da ultimo deve essere accompagnato dal sistema di sicurezza sociale nazionale verso i fondi pensione. Ma un ammanco dei contributi di sicurezza sociale allo schema nazionale implicherebbe di per sé un deficit più elevato. Questo ci porta a una conclusione di policy sui fondi pensione: possono essere creati su una base veramente ampia solo se il sistema nazionale di sicurezza sociale è riformato nella direzione di un sistema meglio finanziato o più equilibrato rispetto a quello odierno.
Questa presentazione non era fatta per rispondere alla domanda su quanto possa essere veloce il processo di privatizzazioni – non è il momento giusto per affrontare il tema. L’obiettivo era fornirvi una lista delle cose da considerare per valutare la solidità del processo. La conclusione generale è che la privatizzazione è una delle poche riforme nella vita di un paese che ha assolutamente bisogno del contesto macroeconomico giusto per avere successo. Lasciatemi sottolineare ancora che non dobbiamo fare prima le principali riforme e poi le privatizzazioni. Dovremmo realizzarle insieme. Di certo, non possiamo avere le privatizzazioni senza una politica fiscale credibile, che – ne siamo certi – sarà parte di ogni futuro programma di governo, perché l’aderenza al Trattato di Maastricht sarà parte di ogni programma di governo.
Lasciatemi concludere spiegando, nella visione del Tesoro, la principale ragione tecnica – possono esserci altre ragioni, legate alla visione personale dell’oratore, che vi risparmio – per cui questo processo decollerà. La ragione è questa: i mercati vedono le privatizzazioni in Italia come la cartina di tornasole della dipendenza del nostro governo dai mercati stessi, dal loro buon funzionamento come principale strada per riportare la crescita. Poiché le privatizzazioni sono così cruciali nello sforzo riformatore del Paese, i mercati le vedono come il test di credibilità del nostro sforzo di consolidamento fiscale. E i mercati sono pronti a ricompensare l’Italia, come hanno fatto in altre occasioni, per l’azione in questa direzione. I benefici indiretti delle privatizzazioni, in termini di accresciuta credibilità delle nostre politiche, sono secondo noi così significativi da giocare un ruolo fondamentale nel ridurre in modo considerevole il costo dell’aggiustamento fiscale che ci attende nei prossimi cinque anni.
Mario Draghi, servitore dell’alta finanza massonica internazionale e dei poteri forti. Da Iacchite il 4 Febbraio 2021.
Accolto da un coro pressoché unanime e plaudente, Mario Draghi divenne il nuovo governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005. Per lui sono state sprecate le lodi e gli aggettivi specie da parte del “centrosinistra”: “una scelta di alto profilo” (Prodi), “Una guida forte e sicura per Bankitalia” (Veltroni), una “biografia intellettuale di tutto rispetto” (Liberazione), “Ama il dialogo, il lavoro di staff, la discussione, circondarsi di intelligenze” (il manifesto).
Ma chi è veramente l’uomo che venne presentato come una sorta di “salvatore della patria”, colui che sarebbe stato capace di restituire “prestigio” e “credibilità” a Palazzo Koch e all’Italia intera a livello internazionale?
Draghi è innanzitutto il grande privatizzatore che ha contribuito in prima persona a svendere tutto il patrimonio industriale e finanziario pubblico gettandolo nelle fauci del mercato privato italiano e internazionale con un costo sociale altissimo soprattutto in termini di occupazione.
È l’uomo dell’alta finanza massonica internazionale da Soros, ai Rothschild, alla Goldman Sachs, accusato di essere “l’anima nera” dei “poteri forti” internazionali organizzati in associazioni di tipo massonico come Bilderberg e Trilateral alle cui converticole è stato spesso presente.
Draghi è nato nel 1947 a Roma. Frequenta il liceo dei gesuiti Massimo. Il suo compagno di scuola è il futuro presidente della Fiat e di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, che, guarda caso, oggi è stato uno dei suoi principali sponsor. Negli anni ’70, all’università, è allievo prediletto di Federico Caffè, col quale si laurea in economia e che, da barone, imporrà la sua carriera accademica. Studia e insegna nei migliori campus Usa e consegue un Ph.d in Economics presso il Massachussetts Institute of Technology (MIT). Gli Usa saranno una sua seconda patria. Poi verrà anche Londra, o per meglio dire la City.
Dal 1981 torna in Italia e insegna all’Università di Firenze. Alla fine degli anni ’80 approda nei corridoi ministeriali come consigliere economico del ministro del Tesoro Giovanni Goria, che lo designa a rappresentare l’Italia negli organi di gestione della Banca Mondiale. Draghi comincia così a tessere i suoi forti legami internazionali e interni.
Nel ’90 è consulente proprio della Banca d’Italia con Ciampi governatore, del quale si dice a tutt’oggi sia uomo fidato. Alla Banca d’Italia lavorava anche il padre di Draghi, Carlo, all’epoca di Donato Menichella. Nel 1991 diventa direttore generale del Tesoro. Fino ad allora un incarico poco ambito. Ma Draghi riesce a trasformare quell’incarico in una delle poltrone chiave del potere economico e finanziario del Paese.
Negli stessi anni è membro del Comitato monetario della CEE e del G7, nonché presidente di Gestione Sace. Dal ’91 al ’96 è nel CdA dell’IMI e dal ’93 presiede il Comitato per le privatizzazioni. Dal ’94 al ’98 è presidente del G10 Deputies. Al nome di Draghi si lega anche il nuovo testo per la finanza societaria, che passa alla storia, appunto, come Legge Draghi. Una legge che contiene le nuove regole sull’Opa.
In sostanza, per dieci anni, fino al 2001, Draghi resta alla torre di controllo dell’industria e della finanza pubbliche nonostante la giostra di ministri e di governi che si sono succeduti: dal governo Andreotti, che lo nominò la prima volta, a quelli Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi, D’Alema, ancora Amato e ancora Berlusconi.
La chiave di volta della sua inarrestabile carriera, sembra essere il 2 giugno del 1992 quando Draghi partecipa a una “crociera” sul lussuoso yatch “Britannia” della regina Elisabetta d’Inghilterra che incrocia a largo di Civitavecchia. Tra i passeggeri figurano i rappresentanti delle banche più importanti e dell’alta finanza “giudaico-anglosassone”, Barings, Barchlay’s e Warburg, il banchiere e speculatore internazionale George Soros e, per l’Italia, Mario Draghi, Beniamino Andreatta, collaboratore di Prodi, e, sembra, il ministro del Tesoro Barucci.
Si dice che su quella nave sia stata messa a punto e deliberata una strategia che doveva portare alla svalutazione della lira e alla completa privatizzazione delle partecipazioni statali italiane a prezzi stracciati grazie alla svalutazione. Non vi sono prove, ma certo ciò che avvenne a distanza di soli tre mesi, non può essere pura coincidenza. Fatto sta che a settembre dello stesso anno viene lanciato un attacco speculativo che porta a una svalutazione della lira del 30% ed al prosciugamento della riserva della Banca d’Italia con Ciampi che arriva a bruciare 48 miliardi di dollari.
Una crisi che portò anche allo scioglimento del Sistema Monetario Europeo (SME). E subito dopo si apre la stagione delle privatizzazioni: da Eni a Telecom, da Imi a Comit, al Credit, a Bnl. Passano in mano del mercato estero, oltre a buona parte del sistema bancario, i colossi dell’energia e delle comunicazioni, la Buitoni, Invernizzi, Locatelli, Galbani, Negroni, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Perugina, Mira Lanza e molte altre aziende dei settori strategici.
A governare lo smantellamento dell’Iri c’è Prodi col quale Draghi vanta un’antica amicizia e collaborazione nata nella frequentazione del Centro di studi economici bolognese Prometeia del DC Andreatta.
Sono tanto forti i legami di Draghi con buona parte della finanza internazionale, che Ciampi affida a lui tutto il lavoro diplomatico legato a superare le resistenze in Europa all’entrata dell’Italia nell’euro nel gruppo di testa. La lunga stagione di Draghi al ministero del Tesoro si chiude solo nel 2001, quando il ministro Tremonti chiama a sostituirlo Domenico Siniscalco.
Draghi lascia via XX Settembre e torna ad insegnare negli Stati Uniti. Dopo soli 5 mesi, nel 2002 entra in Goldman Sachs a Londra di cui ben presto diviene vicepresidente per l’Europa. Un altro clamoroso caso di conflitto d’interesse.
Nel curriculum di Draghi pochi ricordano il curioso riacquisto di una fetta di Seat da parte della Telecom che l’aveva appena ceduta. O del fatto che si è reso conto dell’affare “Telekom Serbia” solo quattro mesi dopo che l’operazione era stata conclusa. O della vendita alla Goldman Sachs per tremila miliardi delle vecchie lire dell’intero patrimonio immobiliare dell’Eni appena un anno prima, nel dicembre 2000, di essere nominato vicepresidente guarda caso proprio della Goldman Sachs.
Altro che “ottimo servitore dello Stato”. Piuttosto un ottimo servitore degli interessi speculativi dell’alta finanza e del capitalismo italiano e internazionale, quanto se non di più del deposto Antonio Fazio dal quale lo distinguono solo le principali correnti e lobby politiche, economiche e finanziarie di riferimento, che a volte agiscono in combutta, a volte in contrapposizione. Fonte: Il Bolscevico
SERGIO ROMANO su corriere.it Martedi' 16 Giugno 2009
LA CROCIERA DEL BRITANNIA FRA AFFARI E SOSPETTI. Che cosa accadde realmente il 2 giugno 1992 a bordo del Britannia, il panfilo della Corona d’Inghilterra, dove manager ed economisti italiani discussero con i banchieri britannici della prospettiva delle privatizzazioni in Italia? Una minicrociera di mezza giornata al largo di Civitavecchia attorno alla quale si è sviluppata la leggenda di un complotto per svendere l’industria pubblica italiana alla finanza anglosassone. Quali esponenti italiani vi parteciparono? Che effetti ebbe quella riunione? Giuseppe Zaro
Caro Zaro, Posso dirle anzitutto quello che accadde nei giorni seguenti. Vi furono indignate prese di posizione della stampa nazionalista. Vi furono preoccupate interrogazioni parlamentari di esponenti del Msi. E vi fu un coro di voci allarmate che denunciarono la «regia occulta» dell’incontro, le strategie dei «poteri forti», la «svendita dell’industria italiana». L’uso del panfilo della Regina Elisabetta sembrò dimostrare che la crociera del Britannia era stata decisa e programmata dal governo di Sua Maestà. E il fatto che l’evento fosse stato organizzato da una società chiamata «British Invisibles» provocò una valanga di sorrisi, ammiccamenti e battute ironiche.
Cominciamo dal nome degli organizzatori. «Invisibili», nel linguaggio economico-finanziario, sono le transazioni di beni immateriali, come per l’appunto la vendita di servizi finanziari. Negli anni in cui fu governata dalla signora Thatcher, la Gran Bretagna privatizzò molte imprese, rilanciò la City, sviluppò la componente finanziaria della sua economia e acquisì in tal modo uno straordinario capitale di competenze nel settore delle acquisizioni e delle fusioni. Fu deciso che quel capitale sarebbe stato utile ad altri Paesi e che le imprese finanziarie britanniche avrebbero potuto svolgere un ruolo utile al loro Paese. «British Invisibles» nacque da un comitato della Banca Centrale del Regno Unito e divenne una sorta di Confindustria delle imprese finanziarie. Oggi si chiama International Financial Services e raggruppa circa 150 aziende del settore. Nel 1992 questa organizzazione capì che anche l’Italia avrebbe finalmente aperto il capitolo delle privatizzazioni e decise di illustrare al nostro settore pubblico i servizi che le sue imprese erano in grado di fornire. Come luogo dell’incontro fu scelto il Britannia per tre ragioni. Sarebbe stato nel Mediterraneo in occasione di un viaggio della regina Elisabetta a Malta. Era invalsa da tempo l’abitudine di affittarlo per ridurre i costi del suo mantenimento. E, infine, la promozione degli affari britannici nel mondo è sempre stata una delle maggiori occupazioni del governo del Regno Unito.
Fra gli italiani che salirono a bordo del panfilo vi furono banchieri pubblici e privati, manager dell’Iri e dell’Efim, rappresentanti di Confindustria. Vi fu anche Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro nel governo di Giuliano Amato. Ma Draghi si limitò a introdurre i lavori del seminario con una relazione sulle intenzioni del governo italiano e scese a terra prima che la nave salpasse per l’Argentario. La crociera fu breve e pittoresca, con una orchestrina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei britannici che si staccarono in volo da un incrociatore e scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo- americana non abbia svolto un ruolo importante.
Estate ‘92: la crociera sul Britannia voluta da sua maestà che privatizzò l’Italia…Il 2 giugno 1992 sul panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia. Paolo Delgado su Il Dubbio il 22 agosto 2018.
Il 2 giugno 1992 l’ultima estate della Prima Repubblica non era ancora iniziata. Il panfilo della regina Elisabetta, Royal Yacht “Britannia”, era all’ancora nel porto di Civitavecchia, in attesa di imbarcare ospiti importanti per una minicrociera verso l’isola del Giglio. Ci sarebbero stati manicaretti per pranzo, gamberetti e costolette d’agnello preparati da chef d’eccezione. Ci sarebbe stato un po’ di spettacolo, con i parà inglesi che si lanciavano dagli aerei decollati da un incrociatore. Ci sarebbe stata musica d’epoca, rigorosamente anni ‘ 30. Ci sarebbero stati soprattutto discorsi destinati a cambiare la storia d’Italia. Su quel panfilo, in quella giornata di sole e mare, fu deciso di avviare la privatizzazione d’Italia.
Gli anfitrioni della Union Jack erano definitivi, invisibles, invisibili, non perché si trattasse di una losca setta in stile feuilleton ottocentesco ma perché così si chiamano nel Regno Unito quelli che si occupano di transizioni immateriali, dunque soprattutto di finanza: finanzieri e banchieri. Gli ospiti erano l’alto comando dell’economia di Stato italiana: il presidente di Bankitalia Ciampi e l’onnipresente Beniamino Andreatta, i due artefici del “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro all’inizio degli anni ‘ 80, c’erano i vertici di Eni, Iri, Comit, Ina, le aziende di Stato e le partecipate al gran completo. C’era, a introdurre il consesso, il direttore generale del Tesoro Mario Draghi. Fu lui a tenere la relazione introduttiva sui costi e i vantaggi delle privatizzazioni. Dicono che dalle sue parole trapelasse un certo scetticismo e forse è vero. Di certo, terminata la prolusione, sbarcò senza proseguire alla volta del Giglio. Ma non c’era scetticismo che tenesse. L’operazione avviata in quella mezza giornata sul mare era in realtà già stata decisa e non solo perché quella era allora, dopo la rivoluzione thatcherian- reaganiana, il dogma economico dal quale si erano lasciati ipnotizzare tutti, la sinistra “di governo” non meno della destra. Anche e soprattutto perché quella gigantesca dismissione era condizione imprescindibile per entrare nella nascente moneta unica. Ce lo chiedeva l’Europa. Chiedeva parecchio: lo Stato controllava treni, aerei e autostrade per intero, idem per acqua, elettricità e gas, l’ 80% del sistema bancario, l’intera telefonia, la Rai, porzioni consistenti della siderurgia e della chimica. I settori di partecipazione erano praterie sconfinate: assicurazioni, meccanica ed elettromeccanica, settore alimentare, impiantistica, fibre, vetro, pubblicità, supermercati, alberghi, agenzie di viaggio. Impiegava il 16% della forza lavoro nel Paese.
Vendere, o svendere, quel patrimonio, secondo i dettati della teoria economica imperante avrebbe raggiunto tre risultati: ridurre il debito pubblico che ammontava allora a 795 mld di euro, rendere più efficienti e competitivi i settori in via di privatizzazione, aumentare l’occupazione. In quell’inverno del 1992, mentre tangentopoli colpiva durissimo e si attendeva un referendum che tutti sapevano avrebbe siglato il Game Over per la prima Repubblica, nei corridoi di Montecitorio non si sentiva parlare che di “privatizzazioni” e “cartolarizzazioni”. Era la panacea, il sospirato miracolo, la bacchetta magica.
Si partì nel luglio 1993, con la vendita, o svendita, della prima tranche del gruppo SME, controllato dall’Iri. L’onore di aprire la strada toccò ai surgelati e ai dolci: Motta, Alemagna, Surgela più varie e molte eventuali. Se li aggiudicò la svizzera Nestlè.
Il breve governo Berlusconi, nel 1994, implicò una frenata che si prolungò fino al 1996: poi, con i governi Prodi e D’Alema, le dismissioni presero la ricorsa. Il gruppo IRI fu smembrato e messo in vendita: il ricavo immediato fu di 30 mld di vecchie lire, lievitati poi sino a 56mila e passa. Una cordata capitanata dagli Agnelli si aggiudicò Telecom. Ciampi, allora ministro del Tesoro, spiegò che serviva a impedire che Fiat vendesse all’americana General Motors. D’Alema, arrivato al governo alla fine del 1998 patrocinò il cedimento di Autostrade a Benetton, introducendo una delle principali specificità delle privatizzazioni all’italiana: la vendita allo stesso soggetto sia del servizio che delle infrastrutture, le autostrade e i caselli, Telecom e i cavi sui quali viaggia il segnale.
La dismissione è proseguita per una ventina d’anni, passando per le banche, quote di Enel ed Eni, il disastro di Alitalia. L’incasso è stato cospicuo: 127 mld di euro, una decina ricavata solo dalla vendita di immobili. Sarebbe un record se non ci fosse l’inarrivabile Regno Unito thatcheriano e post- thatcheriano che è andato persino oltre. Il bilancio però è fallimentare, almeno se si tiene conto degli sbandierati obiettivi iniziali. Il debito pubblico non è stato risanato: si è triplicato. Il rilancio dell’occupazione ha proceduto all’indietro, con un milione di posti di lavoro circa persi. Il miraggio di creare “colossi italiani” è rimasto un miraggio beffardo.
Il principale vantaggio promesso ai consumatori, l’abbassamento dei prezzi conseguente alla competività delle aziende private sul mercato, è stato rapidamente affondato dalla tendenza delle aziende stesse ad accordarsi ricreando di fatto condizioni di monopolio, solo a condizioni più esose. E’ vero che spesso gli utili delle aziende privatizzate sono cresciuti e spesso di parecchio. Però, come segnalava nel 2010 la Corte dei Conti, in una valutazione complessiva del ventennio delle privatizzazioni, non per il miglioramento dei servizi e la loro conseguente maggior appetibilità: solo per l’aumento delle tariffe.
Se sia oggi il caso di tornare a nazionalizzare è oggetto di disfide nelle quali è difficile, per chi non abbia le necessarie competenze tecniche, decidere dove siano le ragioni e dove i torti. Però ammettere che le privatizzazioni italiane sono state un fallimento sarebbe quanto meno onesto.
Maastricht, Tremonti: "In Ue atto di straordinaria importanza ma in Italia abbattuta industria". Da adnkronos.com il 6 febbraio 2022.
"Poco dopo iniziò Mani Pulite e attraccò Britannia, avviando processo 'elegante' ma simile a quello oligarchi russi".
Se dal "lato europeo" il trattato di Maastricht "è un atto costitutivo di straordinaria importanza" per cui "la mia valutazione è assolutamente positiva", dal "lato italiano" appena "15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni" con "l'effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana" con "un processo che simile non c'è stato né in Germania né in Francia". Lo racconta l'ex ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, che all'Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.
"Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano", spiega. Guardando a quello europeo "viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini - ribadisce l'ex ministro - una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress", insiste Tremonti ricordando come "dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori. L'ipotesi era che l'Unione basata sul mercato comune fosse modello per un mondo che a sua volta superando le ideologie si unificasse nella logica del mercato. Non è stato propriamente così, non è stata l'Unione ad essere modello e paradigma del mercato, ma è stato il mercato - sostiene Tremonti - ad entrare in Europa trovandola impreparata. Eliminati completamente i dazi, troppe regole imposte a imprese europee, costrette a competere con imprese estere prive di regole. C'è ancora molto da fare e può essere fatto".
Dal lato italiano, racconta specificando di "aver personalmente verificato le parole", sul volo di Stato di ritorno da Maastricht l'allora ministro del Tesoro Guido Carli "dice 'abbiamo aggiunto al vincolo Atlantico un ancora più forte vincolo europeo' e Andreotti dice 'a Roma non sanno quello che abbiamo fatto'. Mani pulite inizia 15 giorni dopo, il Britannia attracca poco dopo, avviando un processo più 'elegante' ma simile a quello parallelo avviato in Russia con gli oligarchi, i signori delle privatizzazioni. L'effetto finale - ricorda nuovamente l'ex ministro Tremonti - è stato quello di abbattere progressivamente la grande industria italiana. Un processo simile non c'è stato né in Germania né in Francia".
Trattato di Maastricht, 30 anni dopo. L’analisi di Tremonti: “Ha abbattuto la grande industria italiana”. Penelope Corrado su Secolo d’Italia domenica 6 Febbraio 2022.
Se dal “lato europeo” il trattato di Maastricht “è un atto costitutivo di straordinaria importanza” per cui “la mia valutazione è assolutamente positiva”, dal “lato italiano” appena “15 giorni dopo la firma inizia Mani Pulite, in seguito attracca il Britannia, avviando un processo più ‘elegante’ ma simile a quello parallelo avviato in Russia con i signori delle privatizzazioni” con “l’effetto finale di abbattere progressivamente la grande industria italiana” con “un processo che simile non c’è stato né in Germania né in Francia”. Lo racconta l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che all’Adnkronos commenta i 30 anni dalla firma del trattato, il 7 febbraio 1992, che gettò le basi della Ue.
L’ex ministro dell’Economia Tremonti spiega come hanno distrutto l’industria italiana
“Il Trattato di Maastricht va ricordato e analizzato in una logica bilaterale, dal lato europeo e dal lato italiano”, spiega. Guardando a quello europeo “viene dopo la caduta del Muro e indirizza il nostro Continente nel nuovo mondo globale che si sta aprendo. Maastricht è del 1992, il Wto viene subito dopo, nel 1994. In questi termini – ribadisce l’ex ministro – una valutazione assolutamente positiva, ben sapendo che è work in progress, tutto è work in progress”, insiste Tremonti ricordando come “dopo Maastricht sono venute tante scelte positive ma anche tanti errori.
Tremonti: «L’Italia entrò nell’euro per l’interesse tedesco Uscirne? Sarebbe distruttivo». Alessandro Graziani il 6 gennaio 2019 su ilsole24ore.com.
«La mia prima occasione di incontro con l’euro è stata accademica alla Oxford Union Society, 18 febbraio 1999. Dibattiti provocatori e paradossali, pensi che nel 1938 in un’occasione gli studenti votarono a favore di Hitler contro Churchill, salvo poi morire sui loro “spitfire”. A ogni modo, il mio dibattito era “euro is in our national interest”? Sarei stato il primo oratore italiano mai invitato, ma ad un patto: dimostrare che l'euro conveniva al Regno Unito. L'avversario era Frederick Forsyth, che oggi si direbbe “populista”. L'occasione era unica e perciò avrei parlato anche a favore del demonio. Alla fine votarono se pure per poco a favore della sterlina. Non credo che oggi farebbero diverso, anzi». L’ex Ministro dell’Economia Giulio Tremonti inizia con un aneddoto la sua intervista a IlSole24Ore ed entra nel dibattito lanciato daquesto giornale su vizi e virtù dei 20 anni della moneta unica.
A venti anni dalla nascita, che giudizio dà dell’euro?
Per quanto atipico l'euro è comunque una moneta e, come tutte le monete, non può essere trattato come una “monade” e neppure come un “noumeno”. Che sia Platone o Kant, che sia la tecnica a farsi metafisica, troppi “esperti” oggi considerano l'euro come entità staccata o staccabile dalla realtà ed in specie dalla politica. E questo è per certi versi paradossale per due ragioni. In primo luogo perché l’euro fu concepito dai padri come strumento economico per fare politica: “federate i loro portafogli, federerete i loro cuori”. In secondo luogo perché gli ultimi venti anni, ovvero l’età dell'euro, sono anche gli anni nei quali sono cambiate la struttura e la velocità del mondo: venti anni fa non solo c'erano ancora le monete nazionali, ma c'era anche il telefono fisso, il commercio era ancora internazionale, non c'erano l'Asia o Internet. E già questo ci porta ad una prima considerazione: che effetti hanno sulla moneta la scomparsa della domanda salariale un tempo causa sistemica di inflazione o l'apparizione di circuiti finanziari automatici ed autogestiti che rendono la moneta, un tempo segno sovrano, sempre meno sovrana di sé stessa?
È il caso di evitare l'errore “tecnico” che consiste nel considerare l'euro solo in termini di quantità monetaria, di velocità, di tassi di interesse o di cambio. Pensando che questo possa governare la realtà o prescindere dalla realtà. Soprattutto perché l'euro è moneta atipica. Per la prima volta nella storia, si ha moneta senza governi e governi senza moneta. All'origine ci furono un grande pensiero e grandi uomini. L'impressione è che la realtà presente sia un po' differente.
L’euro è anche frutto di grandi eventi storici, come la riunificazione tedesca. Che ne pensa?
Le date chiave sono il 9 novembre 1989 e il 15 aprile 1994. È più o meno qui che si colloca il “big-bang” della storia contemporanea: a Berlino con la caduta del muro e a Marrakech con il WTO. Non puoi capire l'una senza capire l'altra. Dal crollo del muro all'unione monetaria passano solo 700 giorni, ma sono i giorni nei quali è cambiata la storia. Forse una eterogenesi dei fini. Non la riduzione della forza tedesca con l'estensione del marco, ma l'effetto opposto. In ogni caso la storia si rimette in cammino. Dappertutto, anche in Italia. Ricordo due episodi per tutti: 15 giorni dopo Maastricht inizia a Milano “Mani Pulite”. Qualche tempo dopo attracca a Civitavecchia il Britannia.
L’ingresso dell’Italia nell’euro avvenne per merito o perchè conveniva ad altri Paesi europei?
È molto probabile che l'Italia abbia fatto il 3% di Maastricht perché si era già deciso di farla entrare nella moneta. Tutti gli Stati hanno fatto operazioni di bilancio per centrare il 3%, anche operazioni puramente contabili. Nel caso italiano la scelta fu tedesca, in terra neutra sul lago Lemano gli industriali tedeschi da un lato non ancora consolidati nella grande Germania e dall'altro temendo la concorrenza dell'industria italiana allora ancora molto forte convinsero la “banca tedesca” a fare entrare l'Italia nella moneta così che la curva dei tassi sul debito italiano crollò. Di incerto restava non l'ingresso, ma l'anno di ingresso. Non essendo un economista mi permetto di rinviare a quanto scritto da Modigliani e da Spaventa alle posizioni espresse da Ciampi, da Savona, da Romiti. È comunque probabile che il cambio lira/euro sia stato influenzato in negativo sull'Italia da tutto quanto sopra: come pizzino applicato sul biglietto di ingresso. Data la dimensione storica del fenomeno e la natura dell'Italia come paese fondatore, il tipico meschino errore.
La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata.
L’ex premier Prodi ha scritto pochi giorni fa sul Sole24Ore che se l’euro fece salire i prezzi di merci e servizi, la responsabilità è del Governo di centrodestra che, quando a inizio 2002 l’euro entrò nelle tasche degli italiani, non vigilò adeguatamente. Come risponde?
Non possiamo mettere in pericolo la Coesione
Dobbiamo tutti essere d'accordo su un punto: non dobbiamo intaccare la coesione. Lo ha detto Elisa Ferreira, Commissaria Ue per le politiche regionali e urbane in occasione della pubblicazione dell'ottavo...
È polemica ed infantile l'idea dei controlli da fare H24. L'idea sinistra della polizia annonaria. Nella realtà, nella storia dell'Italia non ci sono mai stati o comunque diffusi pezzi monetari ad alto valore ma sempre pezzi cartacei e monetine. Perfino gli assegnini degli anni '70 erano pezzi di carta e come tali accettati. Se mi è consentito l'unica vera idea, e non solo per l'Italia ma per l'Europa, era quella della banconota da un euro ed un'idea non solo di interesse italiano come alcuni ottusi mi obiettarono ma di interesse per l'euro in sé, se l'euro aspirava a diventare una vera moneta globale. Forse non è un caso se esiste la banconota da un dollaro.
Superato il changeover, che giudizio dà dei primi anni dell’euro?
Nei primi anni, a partire dal 2002, tutto è stato relativamente tranquillo e credo ben governato nella relativa normalità, portata da quella che in effetti era una assoluta novità. Ad esempio nel 2003 il caso in cui i “custodi dell'euro” volevano applicare alla Germania non solo la procedura per deficit eccessivo, ma anche le sanzioni. Ricordo di aver fatto notare che il Trattato prevedeva le sanzioni solo nel caso di intenzionale e sfidante deviazione dai criteri di Maastricht e non nel caso di numeri generati da una economia in crisi. Premesso che dare le sanzioni alla Germania, ma anche a nessun altro, non è una cosa molto intelligente, premesso che la Corte di Giustizia avvalorò la proposta italiana (salvo un piccolo errore di procedura commesso perché si era all'alba), premesso che se colpita dalle sanzioni la Germania non avrebbe poi fatto le sue grandi riforme, fu davvero curioso che chi chiedeva le sanzioni in applicazione fanatica del Patto dichiarò qualche tempo dopo che il Patto era stupido.
Trattato di Lisbona, allargamento a Est della Ue, globalizzazione. L’Europa cambia. Con che impatto sull’euro?
La storia faceva il suo mestiere e troppi esperti, governanti e santoni non si accorgevano di quello che stava succedendo. Con il Trattato di Lisbona la piramide istituzionale dell'Europa si è rovesciata, trasferendo verso Bruxelles enormi quote di potere non più controllato in senso propriamente democratico. La globalizzazione? Non è l'Europa che è entrata nella globalizzazione, ma la globalizzazione che è entrata in Europa trovandola incantata e impreparata: l'Europa a disegnare l'astratto mercato perfetto, le nostre imprese costrette a competere con mondi molto meno vincolati e regolati. L'allargamento ad Est? Giusto, ma troppo veloce. Ed ora chi lo chiedeva così veloce condanna Visegrad. Forse avrebbero dovuto leggersi un libro di storia. In ogni caso l'Est chiedeva democrazia e Bruxelles e il Lussemburgo si sono organizzate come la fabbrica della democrazia post-moderna ad esempio occupandosi della “horizontal family”. Infine la crisi. Non si trova la parola crisi nei Trattati se non a proposito delle calamità naturali e degli sbilanci commerciali in un singolo Stato. Il fondo anticrisi proposto dall'Italia nel 2008 fu costituito anni dopo usando un notaio che arrivò di notte all'Eurogruppo incorporandolo come un “hedge fund”.
Con la crisi divampa la polemica contro l’Europa delle regole e i burocrati di Bruxelles. Di chi è la responsabilità?
La sconfinata devoluzione di poteri verso l'alto e quindi verso un sostanziale vuoto democratico, l'orgia legislativa, la eliminazione totale istantanea dei dazi europei, la trasformazione dell'Europa in un corpus politico sui generis, la mala gestio della crisi, ciascuno di questi fatti capace da solo di produrre effetti violentissimi, e tutti insieme un caos, tutto questo per quasi venti anni è stato causato ma non capito dalla classe dirigente europea che adesso ricorda i nobili dopo la rivoluzione francese. Non hanno capito niente, ma ricordano tutto. Ricorda chi chiedeva di tenere ancora un po' i dazi e chi ancora nel '97 parlava della lumachina di mare, dei fagioli europei, dei furetti con il passaporto europeo, etc.? Pochi sanno che in extremis pochi giorni prima del voto sulla Brexit Bruxelles sospese il regolamento “toilet flushing” sugli impianti igienici da standardizzare nelle case europee. E poi uno si chiede perché “questa” Europa non è amata.
Soluzioni possibili?
Il venire meno della solidarietà con le atrocità combinate alla Grecia e con il golpe finanziario in Italia sono episodi che non possono più essere ripetuti e forse l'idea degli eurobond, già emersa con la proposta Delors nel 1994 e più avanti con la Juncker-Tremonti, potrebbe essere la soluzione.
Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity”?
Gli anni della crisi hanno portato alla ribalta la Bce. Con Qe e «whatever it takes» Draghi ha salvato l’euro. Concorda?
Una premessa. Mi risulta che il Parlamento tedesco abbia appena approvato, e che quello francese stia per farlo, una norma che sterilizza l'impatto di una “Hard-Brexit” sui derivati con controparti europee. Che cosa vuol dire? Io credo che pur determinata dalla scelta americana di creare moneta “ex nihilo” la scelta Bce della “quantitative easing” sia stata pur nella sua particolare applicazione una grande e giusta scelta: Ma forse anche per valorizzarla nella sua intelligenza politica è venuto il tempo di alcuni rilievi ed interrogativi: il 2% di inflazione è davvero un target o piuttosto un plafond? E comunque che effetto hanno gli strumenti monetari nel'età della globalizzazione? Nel wording Bce si legge da anni: “sovereign debt crisis”. Siamo sicuri che la crisi fosse nei debiti, nei bilanci pubblici o non piuttosto nel settore privato? Perché si è permesso ai Governi di fare “austerity” salvo il caso di qualche Governo che ha fatto l'opposto? Ha avuto senso speculare contro gli Npl italiani sottraendo risorse alle nostre banche ed invece ignorare il mondo opaco ed enormemente più pericoloso dei derivati?
L’euro è irreversibile? La maggioranza degli italiani e degli europei è a favore della moneta unica. Che ne pensa?
Un conto è uscire da una moneta nazionale per entrare in una moneta sovranazionale. Un conto è uscire da una moneta sovranazionale per entrare in una moneta nazionale. Chi lo fa perde il futuro senza riacquistare il suo passato. Si dimentica che c'è stata e che c'è comunque la globalizzazione e che forze esterne distruggerebbero l'operazione. Tra l'altro per una moneta nazionale servirebbe coesione nazionale, non una parte che la vuole e l'altra no. Chi firmerebbe le nuove banconote e chi le prenderebbe in cambio delle materie prime che noi trasformiamo? Se è pur vero che in questo momento c'è più paura di perdere l'euro che fiducia nell'euro in sé, il popolo italiano nella sua profonda saggezza la dice molto lunga al proposito. Certamente qualcosa in più va fatto. Guardi la fotografia del Trattato di Roma: uomini, un tipo d'uomo che gli inglesi dicono “grave”, uomini che avevano fatto la prigione o l'esilio per le loro idee. Guardi le “family photo” europee attuali. La differenza non sta solo nel fatto che quelle erano foto in bianco e nero e queste sono foto a colori.
MANI PULITE 30 ANNI DOPO. L’arma delle mafie è la corruzione. Per i loro business la criminalità organizzata continua a usare le tangenti. Più esigue ma molto più diffuse di prima. Il vero pericolo è l’incontro tra i loro interessi e imprenditoria. Lirio Abbate su L'Espresso il 10 febbraio 2022.
La corruzione non si arresta. Nuovi processi riempiono sempre di più le aule giudiziarie, con gli imputati e le inchieste a dimostrare ancora una volta che le mazzette sono un’arma utilizzata dalle mafie per questo loro business “silenzioso”. La tangente, a distanza di trent’anni da Mani Pulite, viaggia ancora nei palazzi e negli uffici pubblici provocando contraccolpi negativi alla società che riceve servizi sempre più scadenti, opere pubbliche che non vedono quasi mai la conclusione dei lavori, al contrario della lievitazione dei costi.
L'ipocrisia del Belpaese. Dal caso Craxi ai nodi ancora irrisolti della giustizia. Marcello Lala su Il Riformista il 9 Febbraio 2022.
Quando Ettore Rosato (presidente di Italia Viva) e Marco Di Maio (vicedirettore di Radio Leopolda) mi hanno chiesto che cosa ne pensassi di fare un podcast su Bettino Craxi e sulla sua storia sono stato non solo felicissimo ed onorato ma ho anche pensato che fosse necessario inventarsi qualcosa di nuovo, qualcosa di mai detto e la chiave era ascoltare le persone che come me hanno avuto la possibilità di vivere e di conoscere il vero Craxi, quello più intimo.
Insieme alla giornalista di Radio Leopolda Chiara Marconi siamo andati alla ricerca degli aspetti più personali e degli aneddoti più curiosi, cercando di evitare di affrontare quelli giudiziari e tristi di una vicenda che merita tutt’altro approfondimento. Non si possono scrivere parole di verità, ed il nodo Craxi non si può sciogliere, se non si parla del Craxi vero, quello che giornali e televisioni non hanno voluto raccontarci negli ultimi anni. Non una visione parziale delle cose, ma una visione intima e personale di uno dei padri del socialismo italiano che come più volte aveva detto «parla e continua a parlare» anche dopo la sua triste morte ad Hammamet avvenuta il 19 gennaio del 2000. Ed allora chi più dei figli, dei suoi più stretti collaboratori politici e non, gli amici (quelli veri) ci poteva raccontare Bettino Craxi cercando di trasmettere alle generazioni future tutto il valore della politica per un uomo che ne aveva fatto il senso della vita.
Affrontiamo temi attualissimi e che insieme alla figura di Craxi restano nodi ancora da sciogliere nel panorama politico italiano, e cioè la giustizia, l’immigrazione, l’importanza dei valori risorgimentali e della sofferenza che ha attraversato il nostro Paese nel dopoguerra, paragonando quel periodo al periodo che stiamo attraversando oggi con l’emergenza Covid. Quanto i valori del socialismo riformista sono attuali nel contesto attuale e quanto del riformismo di Craxi è presente nell’azione politica delle forze liberali e socialiste presenti in Parlamento. Quanto la cultura riformista può incidere ancora per lo sviluppo e la crescita dell’Italia. Tanti si professano socialisti e riformisti iniziando dal premier Mario Draghi, ebbene quanto dell’insegnamento di Craxi ha inciso su questa sua formazione politica e di quelli che a parole dichiarano di esserlo!
Il compito del podcast sarà quello di sciogliere un nodo che solo con la vera informazione si potrà sciogliere per liberare il Paese da una ipocrisia di base che ha origine da quella drammatica stagione che prese il nome di Tangentopoli ma che sin da subito Craxi definì «una falsa rivoluzione politico giudiziaria» e che vide insieme magistratura e politica (una parte della politica) con pezzi del sistema imprenditoriale italiano e cioè i padroni dei grandi giornali e delle tv infierire sul sistema dei partiti (alcuni partiti) per distruggerli e distruggerne la classe dirigente.
Il più ingombrante, il più moderno, il più determinato era Craxi, noto per il suo senso di libertà e di patria (altro che sovranismo) lasciato morire come un delinquente in Tunisia il 19 gennaio del 2000, come se tutto quello che avesse fatto per il nostro Paese non avesse contato nulla. Oggi con lo spettacolo quotidiano che ci mostrano i partiti, non ultimo quello offerto per l’elezione del Presidente della Repubblica, siamo qui a rimpiangere lui e quelli che come lui fecero dell’Italia un grande Paese ovvero la quinta potenza industriale del mondo. Marcello Lala
Feltri: Mani pulite fu una strage degli innocenti. Mi scuso con i lettori per gli eccessi di allora…il 09 febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Mani pulite come la “strage degli innocenti”. E Vittorio Feltri, che in quella stagione si fece interprete del vento dell’antipolitica, oggi si scusa con i suoi lettori per gli eccessi. A 30 anni dalle inchieste che decapitarono il pentapartito, ma lasciarono indenne il Pci, il bilancio di Feltri, in un lungo articolo su Libero, è amaro: tangentopoli aprì le porte alla seconda repubblica, che è stata peggio della prima.
Tutto cominciò con la tangente a Mario Chiesa
Tutto cominciò – scrive – quando il capo del Pio Albergo Trivulzio Mario Chiesa venne beccato “mentre incassava una tangente in denaro contante”. “Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all’epoca si usava in politica. Il Pci era finanziato dall’Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori. Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell’epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l’impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene”.
La magistratura, Antonio di Pietro in testa, si diede da fare per organizzare “un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato”. A dire il vero anche il Msi uscì indenne dalla stagione di Mani pulite, e non perché godeva di simpoatie da parte del partito delle toghe ma perché era sempre stato fuori dal sistema.
Solo Craxi protestò con veemenza per Mani pulite
“L’unico che protestò con veemenza – ricorda Feltri – fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché. All’epoca dirigevo da un paio di mesi L’Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempi la prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po’ di merda (testuale). La ricetta funzionò. Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo”.
Feltri: il soprannome di Cinghialone affibbiato a Craxi fu un errore
Feltri aggiunge di vergognarsi, oggi, del soprannome di “cinghialone” affibbiato a Craxi. “Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo. In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo “un tanto al chilo”. In quegli anni covava nelle gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'”.
“La mia indole di direttore in cerca di successo – conclude Feltri – era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali. Sta di fatto che quella stagione fu devastante, apri le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima”.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 10 febbraio 2022.
Mi fido della mia antica memoria. Sono trascorsi 30 anni da quando scoppiò Mani Pulite. Era il 17 febbraio 1992 quando la magistratura avviò l'inchiesta giudiziaria che diede la stura a una sorta di rivoluzione. Venne pescato il capo del Pio Albergo Trivulzio mentre incassava una tangente in denaro contante, alcuni milioni di lire, mentre lui, Mario Chiesa, preso in castagna, per evitare guai si affrettò a gettare la mazzetta nel water.
Furbata inutile, perché le forze dell'ordine capirono tutto e ripescarono i quattrini. Ciò bastò per aprire indagini che ebbero sviluppi clamorosi. Il povero Chiesa, persona peraltro perbene, era un socialista che obbediva agli ordini di partito, drenava palanche per finanziare il Psi, come all'epoca si usava in politica.
Il Pci era finanziato dall'Unione sovietica e i nostri rappresentanti democratici del popolo, per pareggiare i conti, si arrangiavano con le tangenti sganciate da imprenditori, che ovviamente in cambio chiedevano favori.
Niente di strano e niente di pulito. Per evitare queste scorrettezze sarebbe bastato che il governo dell'epoca avesse legalizzato il finanziamento ai partiti, cosa che non fece mai per non dare l'impressione al popolo di essere avido di ricchezza. Un grave errore che pagò con la disintegrazione di un sistema politico che, con tutti i suoi difetti, funzionava abbastanza bene.
La magistratura, con Antonio di Pietro in testa, organizzò un repulisti tale da ammazzare la democrazia italiana: qualunque partito, ad eccezione del vecchio Pci, che godeva delle simpatie delle toghe, fu annientato.
L'intera compagine politica fu accusata di furti, cosicché sparirono la Dc, il Psi, i repubblicani e in socialdemocratici nonché i liberali. Un cimitero. Vi risparmio i dettagli della strage avvenuta secondo criteri che a distanza di anni appaiono grossolani. Craxi e Forlani, in particolare, furono massacrati. La Repubblica si inginocchiò alla magistratura, lasciando che l'impianto istituzionale che aveva favorito la rinascita postbellica del nostro Paese andasse a ramengo. Le conseguenze sono note e hanno provocato una crisi nel nostro sistema amministrativo da cui non siamo ancora riusciti a uscire.
La narrazione sommaria di questi fatti dimostra che la cosiddetta Prima Repubblica fu assassinata dalle toghe senza fatica, perché essa si arrese senza neanche tentare di reagire. L'unico che protestò con veemenza fu Craxi, contro il quale anche io mi ero scagliato. E spiego perché.
All'epoca dirigevo da un paio di mesi L'Indipendente, un quotidiano elegante e quindi moribondo. Per tentare di resuscitarlo adottai i consigli di un vecchio grande giornalista, Gaetano Afeltra, il quale mi disse: riempila prima pagina di cronaca viva senza dimenticarti di spargere qua e là un po' di merda (testuale). La ricetta funzionò.
Alla vicenda di Chiesa i grandi quotidiani non diedero peso, sembrava una stupidaggine. Invece io ci inzuppai il biscotto, creando un caso. Poi intervistai Di Pietro, che mi fornì un quintale di materiale. E lo scandalo partì a razzo.
Cominciarono gli arresti, i suicidi. Le vendite dell'Indipendente si impennarono e mi indussero ad insistere sul caso che divenne nazionale, internazionale addirittura. Scrivevo articoli al fulmicotone in appoggio alla procura di Milano, costringendo i miei colleghi a venirmi appresso, dapprima timidamente, poi usando la grancassa. Il mio giornale andava a ruba e io godevo, non mi importava nulla del pressappochismo delle toghe.
Ero invasato, eccitato. Il soprannome Cinghialone affibbiato a Craxi lo inventai io, e ancora me ne vergogno. Martinazzoli lo denominai Cipresso e Lumino, dato che si chiamava Mino. Insomma, mi divertii un mondo a fare casino. Se ripenso alle mie imprese cartacee ora mi imbarazzo.
In realtà Mani Pulite fu come la strage degli innocenti, un sacco di uomini perbene furono fucilati da inchieste condotte col metodo "un tanto al chilo". In quegli anni covava nella gente una sorta di spirito di vendetta nei confronti della politica e io me ne feci interprete. Sono pentito? Solo un po'. La mia indole di direttore in cerca di successo era troppo forte per farmi desistere dal desiderio di pascere la gente con gli scandali.
Sta di fatto che quella stagione fu devastante, apri le porte alla seconda Repubblica che ha dato frutti peggiori rispetto alla prima, quella in cui viviamo malamente con una classe politica assai peggiore della precedente.
La parentesi berlusconiana ci ha illuso di essere tornati alla normalità, ma sappiamo come e perché Silvio innocente sia stato castigato con le stesse armi giudiziarie servite per uccidere la prima Repubblica. Oggi la classe politica è di infimo livello, la colpa è collettiva, anche mia. Mi scuso coi lettori se ho ecceduto nel menare le mani, ma ho qualche attenuante: mi prudevano.
Morto Rocco Stragapede, il poliziotto che collaborò con Di Pietro durante Mani Pulite. Ilaria Minucci l'01/02/2022 su Notizie,it.
Il poliziotto Rocco Stragapede è morto a 71 anni: il militare è stato uno storico collaboratore di Antonio Di Pietro, attivo durante Mani Pulite.
Il poliziotto Rocco Stragapede, uno dei più stretti collaboratori di Antonio Di Pietro durante Mani Pulite, è deceduto all’età di 71 anni: il militare era malato da tempo.
Morto Rocco Stragapede, il poliziotto che collaborò con Di Pietro durante Mani Pulite
Nella giornata di martedì 1° febbraio, il poliziotto Rocco Stragapede è morto a 71 anni: l’uomo era malato da tempo di SLA, a causa della patologia degenerativa diagnosticata, viveva ormai allettato.
Rocco Stragapede è stato uno degli storici e più stretti collaboratori Antonio Di Pietro all’epoca di Mani Pulite, assistendo il magistrato in occasione degli interrogatori che si dipanarono nel corso degli anni e delle indagini volte a smascherare la corruzione del sistema di potere esistente a Milano.
In tempi più recenti, il poliziotto era stato protagonista di uno speciale realizzato da History Channel nel quale raccontava gli eventi che caratterizzarono il 1992 e i turbolenti anni giudiziari di Mani Pulite.
Il legame tra Antonio Di Pietro a Rocco Stragapede, inoltre, si era tramutato in un rapporto di amicizia talmente forte da portare spesso l’ex magistrato a citare il poliziotto durante le interviste rilasciate alla stampa.
Il ricordo del collega e amico Giancarlo Spadoni
La notizia della morte di Rocco Stragapede è stata diffusa dal collega e amico trentennale Giancarlo Spadoni che, proprio come il collega, fece parte della squadra di polizia giudiziaria coordinata dall’ex magistrato Di Pietro durante Mani Pulite.
Con la sua scomparsa, il militare lascia la moglie Giovanna e il figlio Gabriele, che hanno trascorso gli ultimi anni accanto a Stragapede nel tentativo e nella speranza di riuscire ad “alleviare le sue sofferenze”.
In merito alla scomparsa dell’amico, Spadoni ha dichiarato: “Se ne è andato un amico e un combattente. È un altro pezzo del mio mosaico che se ne va”.
L’arrivo alla Procura di Milano e la collaborazione con Di Pietro
Alla fine degli anni 80, Rocco Stragapede entrò a far parte della Procura di Milano nel ruolo di assistente di polizia, iniziando sin da subito ah collaborare con Antonio Di Pietro. Prima di partecipare all’arresto di Mario Chiesa, Stragapede lavorò con l’ex magistrato a numerose inchieste tra le quali figurano anche quella incentrata sulla maxi truffa delle patenti.
Ora un’inchiesta (non giudiziaria) per scrivere la vera storia del deragliamento di Tangentopoli. Le indagini su Tangentopoli volevano dimostrare la contiguità della politica con la corruzione come "sistema", confondendo la condotta per tutelare lo Stato con il suo contrario. Giuseppe Gargani Il Dubbio il 21 gennaio 2022.
Ricorrono trenta anni dall’arresto di un signore di nome Chiesa al prossimo febbraio da parte della Procura della Repubblica di Milano che dette inizio alla lunga fase di indagini giudiziarie che vanno sotto il nome di “Tangentopoli”. Dopo il tempo trascorso è possibile dare un giudizio più obiettivo, in qualche modo storico, fuori dalle passioni e dalle polemiche di partito. È quindi necessario interrogare l’intelligenza giuridica del paese, gli avvocati e i magistrati in una convention che organizzeremo appunto a febbraio per porci alcune domande fondamentali che riteniamo doverose per ricostruire la storia vera degli accadimenti.
Non si può non riconoscere, che, sia le indagini di “Tangentopoli” che quelle che riguardano in particolare la mafia sono state utilizzate per “fare la storia”, per inventare una “storia” addomesticata, una “storia” tutta legata alle indagini giudiziarie non verificate, date come vere e diffuse mediaticamente ad un pubblico emotivo e rancoroso. “Mani Pulite” la storia puntava a condizionarla e a modificarla; e “mafiopoli” la storia ha puntato a ricostruirla ad uso e consumo di tesi politiche e di teoremi improvvisati senza tenere conto delle oggettive responsabilità.
Oggi però constatiamo che le sentenze di assoluzione sono in nettissima prevalenza e smentiscono i teoremi dei pubblici ministeri; e constatiamo altresì, con molto sollievo, che la sentenza della Corte D’Assise di Palermo dell’ottobre scorso ha negato la natura penale della “trattativa tra lo Stato e la mafia” che per molti anni ha avvelenato i rapporti tra le istituzioni e la magistratura, tra la politica e la stessa magistratura. Persiste l’annosa anomalia processuale che, attraverso la narrazione mediatica, rende certe e definitive le indagini e prevalenti rispetto alla verifica del processo: è per queste ragioni che la narrazione in questi lunghi anni delle indagini giudiziarie è stata manipolata e ha disegnato una storia distorta.
Constatiamo con soddisfazione che alcuni giudici hanno fatto giustizia di tante indagini avventate e false anche se è ancora centrale e dominante la figura del pm – accusatore. È dunque necessario e riflettere su quanto è avvenuto in questi trent’anni nei quali, si è destrutturato il sistema politico, e il tessuto democratico dei partiti e si è infangato lo Stato e tanti suoi fedeli rappresentanti.
Le indagini della procura di Milano sin dagli anni 90 sul finanziamento ai partiti, è correlato e collegato sempre e comunque a reati di corruzione che hanno dato valore assoluto alla cosiddetta “corruzione percepita”, e di conseguenza in Italia “tutto è diventato corruzione” dal malaffare all’abuso d’ufficio degli amministratori e questo ha inciso profondamente nel tessuto sociale determinando rancore e avversione ai poteri costituiti e diffidenza nei confronti della pubblica amministrazione.
Deve essere ristabilita la verità storica: questo il nostro fermo proposito. Natalino Irti in uno splendido scritto rileva che dalla sentenze non si “attende un giudizio sull’epoca storica“ ma solo la “verità giudiziale” su fatti sostenuti da prove. Dopo le argomentazioni e le valutazioni fatte, non è possibile, a distanza di trent’anni, ripensare “tangentopoli” come puro evento giudiziario separato dalla risonanza mediatica che l’ha accompagnato e amplificato e dalle conseguenze che ha determinato.
Possiamo oggi sostenere che il sistema democratico nel suo complesso non era corrotto ma vi erano certamente corrotti che non potevano intaccare il tessuto sano e affidabile dei partiti politici. Il fenomeno della corruzione pur presente nel paese, come si è detto, non fu individuato per singoli casi personali e nella forma prescritta dal codice, per la pretesa della magistratura di poter correggere la politica contestando il sistema! E questa contestazione ha finito poi per catturare il consenso popolare che ha costituito il sostegno vero alle iniziative giudiziarie. Vi è stata l’illusione di poter costruire uno Stato etico, moralistico con indiscriminate punizioni “ai cattivi” e in particolare alla “casta politica” e questo ha alimentato il rancore sociale. Questi interrogativi che presuppongono una analisi adeguata.
Siamo in presenza di una crisi della cultura giuridica, che è alla base e al tempo stesso conseguenza della crisi politica e che risale agli anni 70 quando sì era accentuata la crisi del rapporto tra potere politico e potere giudiziario. E si è verificata in quel periodo un’intesa tra limitati settori della magistratura fortemente politicizzati e i partiti della sinistra, del PCI in particolare, che, attraverso l’azione dei magistrati, aveva intravisto la possibilità di sconfiggere i partiti della maggioranza non essendo riuscito a ridimensionarli attraverso il confronto elettorale e, in tal modo, conquistare il potere. È questa la premessa culturale che ha consentito una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico, non al di sopra delle parti, ma capace di assumere in sé una sorta di arbitraggio della questione sociale e partecipare, attraverso la giurisdizione, alla tutela appunto delle ragioni delle parti sociali in antagonismo tra loro.
Si sono condannati in tal modo i partiti e in particolare la DC e il PCI e, all’interno di questi, le correnti ritenute ostili in modo da distinguere i buoni dai cattivi. Questo consente di dire ancora oggi ad un politico accorto come Bersani che al PD hanno aderito i “democristiani buoni” i quali invece sono stati guidati solo dal trasformismo e da mere ragioni di potere!
Dobbiamo dunque porci la domanda: come è potuto avvenire tutto ciò, come è stata possibile una deviazione delle indagini così rilevante da rendere martiri alcuni servitori dello Stato e distorcere il significato degli avvenimenti in maniera così “illogica”?! Le indagini della procura di Milano degli anni ‘ 90 volevano dimostrare la contiguità della politica con la corruzione come “sistema”, e le indagini della procura di Palermo hanno voluto considerare reato “la trattativa”, confondendo la condotta per tutelare lo Stato con il suo contrario.
Sarà necessaria un’indagine politica non giudiziaria che la classe dirigente che ha governato il paese fino agli anni 90 deve pur fare per l’interesse superiore di restituire dignità e veridicità alla storia, agli avvenimenti, al ruolo che le forze politiche hanno avuto in questi anni.
L’inchiesta non deve essere fatta contro la magistratura ma deve coinvolgerla se essa ha consapevolezza della necessità di una rivoluzione culturale, se si rende conto che è necessario ristabilire un equilibrio istituzionale, individuare e precisare il ruolo del giudice e del pubblico ministero nella società moderna.
Sinistra e magistratura: su Craxi hanno perso entrambe. Fabrizio Cicchitto e Biagio Marzo il 19 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Vale la pena di partire dalla fine di tutta la storia, cioè dalla morte di Bettino Craxi avvenuta il 19 gennaio 2000.
Vale la pena di partire dalla fine di tutta la storia, cioè dalla morte di Bettino Craxi avvenuta il 19 gennaio 2000. A proposito di ciò che allora avvenne vale il motto di Bertold Brecht: «Chi non conosce la verità è soltanto uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia è un malfattore». Tutti sapevano che il leader socialista, operandosi in uno scalcinato ospedale militare tunisino non aveva scampo. In primo luogo lo sapeva Craxi, ma lo sapevano anche Carlo Azeglio Ciampi, presidente della Repubblica, Massimo D'Alema presidente del Consiglio, Luciano Violante, presidente della Camera, e lo sapeva anche Borrelli, Procuratore Capo a Milano.
Che Craxi non fosse un cittadino qualunque era testimoniato non solo dal fatto che per 4 anni era stato presidente del Consiglio, ma che dopo la sua morte proprio la triade Ciampi, D'Alema, Violante propose i funerali di Stato, respinti dalla sua famiglia così come 22 anni prima li aveva respinti la famiglia di Moro.
Per Craxi gravemente ammalato, non si volle trovare una clausola o un salvacondotto per portarlo in una clinica italiana senza essere incarcerato. Anche su questo terreno è stato sempre fatto di tutto. Per esempio, successivamente, il 31 maggio del 2006 il presidente Napolitano graziò per le sue condizioni psicofisiche, inconciliabili con il regime carcerario, Ovidio Bompressi. A dir la verità, a quel che risulta, a essere favorevoli a una soluzione umanitaria fu in primo luogo Massimo D'Alema, e anche Ciampi e Violante, ma Borrelli si mise di traverso e prevalse: in quella fase era lui ad avere il potere politico reale in Italia. Come affermò in una famosa intervista Gherardo Colombo, «la seconda Repubblica era fondata sul ricatto», Colombo lasciò nel vago chi erano i ricattati, ma non ci vuole molto a capirlo. Ricattabili erano tutti coloro che, pur facendo parte del sistema del finanziamento irregolare, erano stati salvati dalla scelta del pool di Mani Pulite di usare il sistema dei due pesi e delle due misure: i massimi dirigenti del Pci-Pds e quelli della sinistra Dc «potevano non sapere», i dirigenti del Psi, dei partiti laici, del centrodestra della Dc, «non potevano non sapere» e quindi andavano perseguiti.
Recentemente il magistrato Guido Salvini ha spiegato il trucco a cui ricorreva il pool per avere un unico gip, del tutto compiacente, per tutti i processi di Mani Pulite, concentrandoli tutti in un unico fascicolo, operazione assolutamente indebita mentre l'ufficio milanese del gip era composto da ben 20 magistrati che si sarebbero dovuti alternare. In questo modo invece era molto stringente il metodo fondato sulla carcerazione per ottenere la confessione. Poi i casi della vita sono certamente infiniti per cui dopo il 1994 è accaduto che due pubblici ministeri chiave del pool sono finiti nelle liste del Pds venendo eletti per più legislature.
Adesso è annunciato per celebrare il trentennale di Mani Pulite che l'Anm ha convocato un convegno a Milano. Certamente l'Anm ha una ragione per farlo, perché da allora, in un crescendo parossistico, i settori più oltranzisti e rozzi della magistratura hanno conquistato di fatto il potere politico in Italia. Purtroppo però questo convegno si svolge in tempi sbagliati: esso viene fatto quando il Csm e l'Anm, in seguito a tutte le conseguenze del caso Palamara, stanno attraversando la fase più buia della loro esistenza. La magistratura è implosa per un eccesso di potere che non era in grado di gestire, ma che però ha segnato in Italia la devastazione dello Stato di diritto.
Ma i conti non tornano neanche in termini politici. Il disegno di D'Alema, espresso in un famoso libro-intervista, era sostanzialmente quello di eliminare Craxi e di sostituire il Pds a al Psi. Grazie al circolo mediatico giudiziario l'operazione in un primo tempo è riuscita anche per gli errori dei suoi dirigenti il Psi è stato raso al suolo. A distanza di anni, però le conseguenze finali sono le seguenti: l'erede del Pds è il Pd, un partito del 20 per cento, per una parte cospicua guidato dalla sinistra democristiana, accerchiato da un 40 per cento costituito dai due partiti sovranisti e che - eliminato il Psi- allo stato ha come possibile alleato solo un confuso movimento antipartitico, privo di una organica cultura politica che fa coalizione con chiunque pur di evitare le elezioni.
Come si vede, quindi, il percorso che va dalla morte di Craxi ai giorni nostri non ha avuto un esito felice certamente per i vinti ma neanche per i vincitori. Allora, al momento più alto della criminalizzazione di Craxi, il 30 aprile 1993 ci fu una versione moderna di Piazzale Loreto, con il lancio di monetine nel corso di una bella manifestazione fascio-comunista. Craxi non si volle arrendere e si rifugiò esule in Tunisia, come già avevano fatto negli anni Trenta un nucleo di antifascisti italiani che diedero anche vita a un bel giornale. Dopo di che nel 2000 sapendo bene a ciò a cui andava incontro, Craxi si operò nell'ospedale tunisino con una scelta che è sintetizzata nella epigrafe che sta sulla sua tomba: la mia libertà equivale alla mia vita. Fabrizio Cicchitto
Buoni o cattivi. I due schieramenti di Mani Pulite e il falò delle vanità dei giustizialisti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 17 gennaio 2022.
Nel trentennale di Tangentopoli la maggioranza degli italiani continua a lodare quella stagione di inchieste fatte senza rispettare i principi base dello Stato di diritto. Solo pochi hanno il coraggio di denunciare le detenzioni ingiuste, i morti in carcere e lo show dei pm del pool di Milano davanti alle telecamere.
Saranno due gli schieramenti nel dibattito sul trentennale di Mani Pulite. Il primo, maggioritario, sarà formato da coloro che ne celebreranno l’epopea al grido di fummo i precursori dell’onestà, sostenuti dalla meglio Italia, finalmente applicammo la legge uguale per tutti contro quelli che si ritenevano più uguali degli altri. Il secondo schieramento, meno folto, sarà composto da coloro che opporranno all’apologetica del primo le detenzioni ingiuste, i morti di carcere, gli arresti in prima pagina e le assoluzioni in trafiletto tra le previsioni del tempo.
Nel primo schieramento non mancherà l’opportuna rappresentanza di seconda fila, modestamente penitenziale, che rivendicherà lo spirito benintenzionato di quell’operazione ma saprà dolersi di certi eccessi, di certe sensibilità assopite, del largheggiare magari necessario ma in ogni caso penoso della soluzione carceraria: un po’ come il cappellano che soffertamente benedice le baionette.
E nel secondo schieramento mancherà l’opportuna denuncia del nocumento capitale arrecato dal manipolo milanese: l’insulto mai prima così grave, lo sfregio mai tanto incensurato, l’attentato mai prima sperimentato con analoga capacità offensiva, allo Stato di diritto. E non si tratta neppure di quello scempio rappresentato dal gruppo sedizioso dei pm meneghini che convocava le telecamere per manifestare indignazione morale avverso il governo che osava approvare norme sgradite.
Si tratta di quando il loro capo, di cui il Corriere della Sera offriva memorabili immagini equestri, si metteva a disposizione della «chiama» presidenziale per prendere in mano il Paese e ripulirlo: «A un appello di questo genere del capo dello Stato», disse allora Francesco Saverio Borrelli, «si potrebbe rispondere con un servizio di complemento». E a guarnire di ulteriore violenza eversiva quello sproposito fu l’obliquo riferimento alla «folla oceanica» sotto ai balconi delle Procure, magari di per sé insufficiente a legittimare quella soluzione ma solo bisognosa, appunto, del piccolo passaggio formale con cui il despota incarica il colonnello di formare la junta.
Ci si duole episodicamente (ormai è quasi gratis, dopo trent’anni) di qualche suicidio di troppo, di qualche lieve ineleganza davanti all’imponderabile e fisiologico gesto del detenuto che infila la testa in un sacchetto di plastica («Si vede che c’è ancora qualcuno che si vergogna»), di qualche tenue scompostezza nei propositi dell’accusa pubblica («Io a quello lo sfascio»): ma è acqua sul marmo quel conato golpista dal pulpito della persecuzione associata, lo stesso da cui in finire di carriera si istigava a resistere, resistere, resistere nella costituzione in contro-governo del potere togato.
IL LIBRO. Raul Gardini, la sua morte ha deviato il corso del processo Enimont e quello della storia. Il Domani il 12 gennaio 2022.
Il 13 gennaio esce in libreria il romanzo di Gianluca Barbera, L’ultima notte di Raul Gardini, edito da Chiarelettere.
Ricorre quest’anno il trentennale di Mani pulite e molti conti ancora non tornano, tra cui la morte del famoso manager che guidava Montedison, trovato senza vita il 23 luglio 1993, lo stesso giorno in cui avrebbe dovuto andare in procura a Milano dopo essere finito nel mirino del pool di Mani pulite.
Suicidio o omicidio? Per la magistratura non vi sono dubbi: Gardini si è tolto la vita. Ma molte cose non sono mai state chiarite.
Alessandro Gnocchi per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.
L' ultima notte di Raul Gardini diventa un romanzo (e una serie tv) di Gianluca Barbera. Fondato su una rigorosa ricerca, il libro (edito da Chiarelettere, pp. 240, euro 16; in uscita il 13 gennaio) aggiunge alcuni personaggi di fantasia, un giornalista d'inchiesta e suo fratello, spione professionista, per mettere in fila i fatti e suggerire al lettore le diverse soluzioni: il suicidio, come da risultanze processuali, ma anche le altre piste, più o meno credibili, saltate fuori sui giornali e anche nei tribunali.
Qualche cosa (forse) non funzionò nell'indagine: a partire dalla sospetta manomissione della scena del crimine, con le notizie di una pistola troppo lontana dal cadavere e appoggiata sul comodino.
Barbera ricostruisce il clima da crollo di un impero per via giudiziaria, con lo spettro del carcere per chiunque avesse realmente le mani in pasta nel capitalismo italiano. Il 20 luglio 1993 si uccide Gabriele Cagliari in carcere. Tre giorni dopo, il 23 luglio, tocca a Gardini nel suo palazzo milanese, poco prima di recarsi in procura. Sono i tre giorni neri di Mani Pulite. È in quel momento drammatico che inizia a cambiare il vento dell'opinione pubblica.
Fu dunque per evitare l'arresto, a opera di Antonio Di Pietro, che Raul Gardini si suicidò? Non lo sapremo mai. Il romanzo è bello e serrato. Difficile staccare gli occhi dalle ultime cento pagine. Barbera ci racconta diverse storie italiane, che si intrecciano fino ad arrivare alla morte di Gardini. Assistiamo alla nascita della dinastia Ferruzzi, attraverso lo spirito imprenditoriale di Serafino, il capostipite che indicherà il suo successore nel genero, Raul, soluzione appoggiata dall'intera famiglia. Quello di Serafino era un altro capitalismo: meno attento ai bilanci e disposto a correre rischi altissimi. Serafino, però, aveva un senso della strategia che gli permetteva di trovare sempre una soluzione. Anche Raul ha un carattere simile, ma si trova a vivere in un'altra epoca: certe mosse da poker finanziario non sono più ammesse ed entrare nel salotto della finanza, senza chiedere permesso, può essere uno svantaggio. In più c'è la politica affamata di denaro e dalle pretese crescenti. Infine c'è l'inchiesta Mani Pulite che funge da detonatore.
La madre di tutti gli errori è il tentativo di Gardini di mettere le mani sul salvadanaio dei partiti, l'Eni, per creare Enimont: la famosa maxi-tangente nasce da questa operazione che poteva trascinare a fondo il gruppo. La famiglia scarica Raul e accetta di uscire da Enimont, in cambio di una cifra considerevolmente fuori mercato per eccesso. Gardini non è d'accordo, vede nella vendita delle quote l'inizio della fine, ma è tagliato fuori. Chiediamo a Barbera quale sia il rapporto tra verità e finzione nel romanzo: «Anche nelle scene inventate ho usato sempre dichiarazioni registrate da giornali, tribunali o agenzie. In una delle pagine iniziali assistiamo a una conferenza stampa di Idina, la moglie di Gardini. La conferenza stampa non ci fu. Ma lei disse veramente quelle cose, sono sempre parole sue».
Non teme qualche querela?
«No, in fondo al romanzo ci sono gli esiti giudiziari delle varie inchieste. Non ci sono peggioramenti delle figure reali. Nessuno è accusato di fatti per i quali non sia stato effettivamente condannato. Ho letto migliaia di pagine su Gardini, Sama, Cusani e tutti i personaggi reali. Mi sono attenuto alle loro parole».
Nel finale, tra depistaggi e colpi di scena, si gioca sulla ambiguità: «Non è compito mio condannare o assolvere. La realtà è complessa, non do giudizi, sarebbe ridicolo. Non mi sono mai posto da un punto di vista moralistico. Credo che le relazioni personali siano ricche di sfumature. Per non dire delle sfumature che possiamo cogliere nella natura complessa del grande capitalismo. Ho preso un pezzo di Storia d'Italia e di una famiglia e l'ho raccontato in modo spero efficace».
La pensa così la Mompracem, società di Carlo Macchittella e dei Manetti Bros, i registi più in vista del momento grazie al film Diabolik. Il romanzo diventerà una serie tv. Barbera sarà consulente al soggetto e alla sceneggiatura. Perché Gardini è così affascinante?
«È uno di quei grandi personaggi che non si fermano davanti a nulla. Diceva spesso di non essere interessato alle opinioni altrui». Un orgoglio che sconfina nella superbia: «Un segno di individualismo assoluto. La sostanza però c'era. Gardini era considerato in possesso di una grande visione, da Romano Prodi ad esempio. Voleva fare la Storia. In questo era simile a Serafino Ferruzzi. Quando voleva una cosa, non badava al prezzo. Spese cifre enormi anche per armare il Moro di Venezia, la sua passione, la barca a vela con la quale affrontò la Coppa America. Era talmente convinto di sé da credere.Il padre Ivan era un ricco imprenditore agricolo, impegnato nella bonifica dell'area paludosa attorno a Ravenna. Raul studiò presso l'Istituto agrario di Cesena dove conseguì il diploma di perito agrario. Nel 1987 gli sarà conferita la laurea honoris causa in agraria dall'Università di Bologna. Crebbe professionalmente nell'azienda di Serafino Ferruzzi, di cui diventò genero nel 1957 sposandone la figlia Idina (1935-2018). Il 10 dicembre 1979 Serafino Ferruzzi morì in un incidente aereo e i suoi quattro eredi (Idina, Arturo, Franca, Alessandra) affidarono a Gardini le deleghe operative per tutto il Gruppo che finì con lo specializzarsi in prodotti chimici dal basso impatto ecologico. La tentata fusione con Eni segna l'inizio della fine. Sotto il pool di Mani Pulite, Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo e Francesco Saverio Borrelli. Gardini si uccise il giorno in cui doveva essere interrogato da Di Pietro di poter ripianare qualsiasi debito». Gardini sognava di essere leader mondiale nel settore energetico della agrochimica (benzine verdi).
Marciava nella giusta direzione. Era amato dai "colleghi" imprenditori? Barbera: «Era un parvenu nei salotti "aristocratici" di Cuccia e Agnelli. Gardini veniva dalla provincia e da una famiglia che fondava la sua ricchezza sulla terra. Aveva il diploma di perito agrario, la laurea honoris causa in agraria all'Università di Bologna risale al 1987. Non era simpatico al potere politico e credo non volesse scendere a compromessi. In un certo senso, è stato stritolato da un ingranaggio del quale non voleva tenere conto». Questa fu la sua rovina: «La fusione con Eni lo mise nelle condizioni di doversi obbligatoriamente confrontare con la politica». E Tangentopoli...
«È un missile che sarebbe finito comunque contro Eni e Montedison. Credo che questo Gardini lo sapesse. Essere personalmente coinvolto nell'inchiesta invece ebbe un effetto dirompente. Non poteva accettare l'onta di finire in carcere, di essere visto come un perdente». Di recente, Federico Mosso ha pubblicato Ho ucciso Enrico Mattei (Gog edizioni) in cui tiene banco la morte del fondatore di Eni (ancora e sempre Eni...). Nel prossimo futuro incuriosisce il romanzo di Alessandro Bertante sulle Brigate Rosse, Mordi e fuggi, in uscita a fine mese per Baldini & Castoldi (ne riparleremo). La Storia pare aver dato vita a un filone romanzesco tra verità e finzione, che il cinema, con risultati alterni, aveva già toccato.
Stefano Zurlo per “il Giornale” il 12 gennaio 2022.
Tutto in tre giorni. Fra il 20 e il 23 luglio 1993. Il momento forse più cupo di Mani pulite e uno dei più drammatici nella storia recente del nostro Paese. La mattina del 20 luglio, dunque, Gabriele Cagliari, ex potentissimo presidente dell'Eni, a San Vittore da 134 giorni, chiude la partita con un suicidio meticolosamente preparato: ferma la porta del bagno della sua cella, la 102, con un pezzetto di legno, poi infila la testa in un sacchetto di plastica bloccato con un laccio da scarpe e soffoca con una tecnica disumana ma collaudata.
Il giudice Simone Luerti, che si era occupato di questa tragedia e che interrogai, fu categorico: «Purtroppo in letteratura ci sono casi di questo tipo». Nessun presunto mistero e niente di anomalo, se non una carcerazione preventiva interminabile e intollerabile, la sensazione di essere dentro un meccanismo che ti sta stritolando e da cui non uscirai più.
Lo stesso clima che deve aver vissuto ventotto anni dopo, sia pure da uomo formalmente libero, Angelo Burzi che a Torino la notte di Natale l'ha fatta finita con un colpo di pistola. In quei mesi del terribile Novantatré, che sul calendario sembra riecheggiare gli eccessi dell'originale giacobino, Mani pulite è una macchina da guerra che pare travolgere tutto e tutti. Il 23 luglio Raul Gardini, uno dei più importanti capitani d'industria, ha appuntamento per un interrogatorio con i magistrati del Pool. Il suo destino è segnato e gli spifferi e i verbali in uscita proprio in quelle ore sul Mondo lo rendono ancora più fragoroso. Il Contadino è un imprenditore abituato al comando, non alle mortificazioni e alla discesa nell'ombra della vergogna e dell'immobilità.
Quando ha saputo della fine di Cagliari, ha telefonato al cognato Carlo Sama: «È morto da eroe». Un presagio, anzi un annuncio. Si sveglia nella sua residenza milanese di Palazzo Belgioioso e si spara. Questa volta il sempre risorgente partito del dubbio e del chissà che cosa c'è dietro ha qualche carta in più, ma i protagonisti dell'epoca mi consegnarono versioni concordi. Sergio Cusani, braccio destro di Gardini, fu netto: «Raul non concepiva l'idea di potersi trovare in una situazione del genere e si ammazzò». Antonio Di Pietro scivolò sul registro del rimpianto: «Chissà, se lo avessimo arrestato, forse lo avremmo salvato».
In un libro misurato, Storia di mio padre, Stefano Cagliari ricostruisce quelle ore spaventose, senza misericordia, con la pietà in fuga dalle vie di Milano, tanto che pure il funerale era diventato un problema quasi insormontabile: «Il parroco di San Babila non c'era, il vice si rifiutò e così pure il vicariò di Carlo Maria Martini all'Arcivescovado». La gogna e il giustizialismo erano arrivati fino a mettere a repentaglio le basi della convivenza civile. Chi avrebbe officiato le esequie? «Allora - prosegue Stefano Cagliari- il cardinale, che è in Francia, chiama il cappellano di San Vittore, don Luigi Melesi, e lo prega di celebrare la funzione al posto suo». Ma i colpi di scena non sono ancora finiti, anzi la successione crudele degli avvenimenti raggiunge il suo apice, come in un film: «La chiesa era gremita, la gente si accalcava fuori. Arrivò la notizia del suicidio di Raul Gardini», morto a poche centinaia di metri da San Babila, nel cuore colmo di spine della metropoli.
«Era tutto più grande di noi». I familiari leggono le lettere. Quella all'ormai vedova Bruna è stata scritta a San Vittore il 3 luglio ed è chiusa in una busta con la dicitura agghiacciante: «Da aprirsi al mio ritorno». Prima che il pm Fabio De Pasquale, oggi sotto accusa per altri verbali Eni, si rimangiasse la promessa di chiedere al gip gli arresti domiciliari per la vicenda Eni-Sai. Quell'episodio è forse la goccia che fa traboccare il vaso, ma la decisione è presa prima e spiegata in quella missiva di congedo: «Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza teste né anima... Siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua esercitazione».
Una critica feroce, meditata e in qualche modo fatta propria da Gherardo Colombo, storico magistrato del Pool Mani pulite che firma proprio la prefazione del libro di Stefano Cagliari: «Il magistrato si incentra sulle esigenze della giustizia termine che inserisco fra molte virgolette - ma così facendo non si rende conto delle conseguenze che i suoi atti producono su coloro che le investigazioni subiscono».
Mani Pulite nel fango: la verità sulle toghe, 30 anni dopo Tangentopoli. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 gennaio 2022.
Non era necessario leggere le sentenze di Mani Pulite, né gli ordini di arresto che le precedevano, per accorgersi che qualcosa non filava per il verso giusto sul corso di quella presunta giustizia: bastava assistere a come essa era reclamata dal popolo degli onesti, adunato sotto ai balconi delle procure della Repubblica per istigare i giustizieri a non retrocedere, a portare a compimento il repulisti nei palazzi della politica marcia. Non era necessario andar di codice, essere giuristi, per capire che il carcere adibito a confessionale e le inchieste a strumento di moralizzazione della società corrotta denunciavano un vizio radicale di quelle iniziative e del movimento che le accreditava: era sufficiente avere occhi per vedere come la classe dirigente e politica su cui piovevano le monetine dello sdegno fosse la medesima cui prima si chiedevano i favori, le raccomandazioni, le leggi buone a fare i debiti di cui s' è ammalato il Paese. Non era necessario aver studiato nulla per prevedere come sarebbero finiti gli esponenti di quella rivoluzione che avrebbe rivoltato l'Italia come un calzino: uno a capeggiare un partito dei "valori" e a godersi il frutto milionario delle querelea nastro contro chi spulciava nelle sue scatole delle scarpe; un altro al seggio parlamentare, guadagnato per le nobili dichiarazioni a fronte dell'ennesimo suicida: «Si vede che c'è ancora qualcuno che perla vergogna si uccide»; un altro a tener requisitorie televisive, troneggiante sul giornalista in posizione Clean Hands Matter, inginocchiato, a ciucciarsi e a diffondere la verità dell'assoluzione come regalo al delinquente che la fa franca; un altro a coltivare il ricordo del padrino, il magistrato equestre che in una vergognosa rappresentazione pubblica («siete i miei pulcini, i miei aquilotti, i miei cuccioli») assisterà all'avvicendamento di potere nella Procura la cui storia cominciò nel ripescaggio di sette milioni di lire dal cesso di un cronicario e finì nelle veline cospiratorie scambiate sulla tromba delle scale del Consiglio superiore della magistratura. E via così. Tra poco sono trent' anni. Ed è una giustizia malvissuta quella che pretendeva di rimettere in riga l'Italia mascalzona.
Mani Pulite e il valore del principio di imparzialità e terzietà. Lascia perplessi l’accordo, tra l’Ufficio Gip e la Procura, di attribuire a un unico fascicolo e affidare a un solo magistrato tutte le posizioni riconducibili alla vicenda. Alessandro Parrotta su Il Dubbio il 30 dicembre 2021. “Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge”: il principio menzionato trova il proprio fondamento nell’art. 25 della Costituzione ed è uno degli strumenti di cui l’ordinamento si avvale al fine di perseguire l’ideale dell’Organo Giudicante, terzo e imparziale, e che, concretamente, trova attuazione nelle norme relative alla competenza e alle linee guida dettate dal Consiglio Superiore della Magistratura in ordine ai criteri di attribuzione dei fascicoli, il cosiddetto sistema tabellare.
Tale sistema trova compimento con il R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 e ha lo scopo di dettare criteri oggettivi e predeterminati al fine di individuare il Magistrato competente per la specifica controversia, sì da evitare che tali attribuzioni restino governate dalla discrezionalità dei singoli.
L’art. 7 bis del succitato Regio Decreto precisa che le tabelle vengono costituite dai singoli uffici, sulla base del decreto emanato ogni triennio dal ministro della Giustizia, in conformità delle deliberazioni del Consiglio Superiore della Magistratura, assunte sulle proposte dei presidenti delle Corti di appello e sentiti i Consigli giudiziari. L’art. 7 ter determina, invece, le regole di assegnazione ai singoli uffici, secondo criteri “oggettivi e predeterminati”.
L’ultima circolare emessa con delibera di plenum in data 23 luglio 2020 – per il triennio 2020/ 2022, eventualmente prorogabile ai sensi dell’art. 7 bis R. D. 30 gennaio 1941, n. 12 – al capo V, art. 157, dispone, altresì, che l’articolazione dei criteri di assegnazione degli affari spetta al Dirigente dell’ufficio, sotto sorveglianza del Presidente di sezione o del Magistrato che dirige ai sensi dell’art. 47 quater, R. D. 12/ 1941, per poi ribadire, al successivo articolo, che tali assegnazioni alle singole sezioni, Collegi e Giudici, debbano avvenire secondo criteri oggettivi e predeterminati.
Il compendio sull’attività di assegnazione degli affari agli Organi Giudicanti posto in premessa è doveroso e funzionale – tanto per chi scrive, quanto per il lettore – al fine di approcciarsi all’interessante intervista rilasciata su queste stesse pagine dal giudice Guido Salvini, Gip presso il Tribunale di Milano.
Il dottor Salvini, in particolare, ripercorre l’assai nota vicenda che aveva interessato l’Ufficio Gip nel caotico periodo di inizio anni ’90, allorquando il Paese attraversava i violenti scandali originati dai fatti riconducibili agli episodi corruttivi che avevano interessato tutto il mondo politico: inchiesta “Mani pulite”.
Il dottor Salvini ricorda come l’allora Ufficio Gip e la Procura si accordarono per far sì che ogni singola vicenda legata a fatti di corruzione nella Pubblica Amministrazione fosse riconducibile al medesimo procedimento, rispondente al numero di registro 8655/1992. A quel fascicolo, pertanto, venivano ricollegate le vicende giudiziarie più disparate, anche senza che vi fosse alcun collegamento soggettivo e/ o oggettivo.
L’obiettivo perseguito era quello di affidare ad un singolo Magistrato, il dottor Italo Ghitti, tutte le posizioni processuali anche solo potenzialmente riconducibili alla più larga vicenda Mani pulite, sì da agevolare, come ovvio, l’attività della Procura. Meno Sezioni e Giudici differenti dell’Ufficio Gip conoscevano la vicenda e meno probabile era il rischio che vi fosse una disparità delle decisioni assunte.
In altre parole, il meccanismo ideato dalla Procura e dal pool, che allora seguì la vicenda, era quella di accentrare tutti gli affari su una singola figura, già nota all’Ufficio di Procura, nonché in un unico fascicolo, estendibile a piacere, al punto che, allora, l’Ufficio Gip del Tribunale di Milano si vide assegnare fascicoli su cui non poteva vantare nemmeno la competenza territoriale. Alla luce dell’allora normativa – non troppo dissimile dall’attuale – non può non evidenziarsi come venne posta in essere una complessa violazione del principio posto in apertura del presente articolo.
Pur comprendendo le ragioni del pool operante alle indagini – le vicende che allora investirono il Paese richiesero uno sforzo immenso della macchina giudiziaria – non si può non rilevare come i criteri dettati dal R. D. 21/ 1942, in attuazione del principio ex art. 25 Cost., vennero completamente e sistematicamente disapplicati dall’Ufficio Gip del Tribunale di Milano, forse per un più alto scopo.
Risulta quasi superfluo, a parere di chi scrive, evidenziare come un accordo tacito tra la Magistratura Inquirente e Giudicante, sia lesivo del principio di imparzialità e terzietà del Giudice, così come lesivo appare l’aggiudicazione di ogni singolo fascicolo non sulla base di criteri predeterminati ed oggettivi, ma per una mera questione di comodo.
Con ciò non si vuol certo dire che il dottor Ghitti allora non svolse un lavoro che, si è di questo certi, avvenne nel massimo rispetto del dettato costituzionale e della Legge; tuttavia, non si può certamente sottacere come meccanismi procedurali posti a tutela del principio di imparzialità e terzietà vennero adattati alla necessità. Proprio su questa necessità è il caso di riflettere se fosse proprio indispensabile o, quantomeno, perfettibile con correttivi quali quelli di individuare una squadra di magistrati da applicare ai noti fatti.
Il “trucco” di Mani pulite tra gelida indifferenza e opposte “concordanze”. Luca Palamara nel suo “il Sistema”, Ilda Boccassini in “La stanza numero 30” e Nino Di Matteo ne “I nemici della giustizia”, descrivono un contesto deprimente della magistratura. Valter Vecellio su Il Dubbio il 17 dicembre 2021. Otto dicembre scorso: Guido Salvini, giudice per le Indagini Preliminari in forza a Milano, scrive per Il Dubbio un circostanziato articolo, con espliciti riferimenti, fatti, nomi e cognomi, e spiega cosa è accaduto nell’ufficio del Gip della sua città nella stagione di “Mani Pulite”. Per riprendere l’efficace sintesi giornalistica: “Il pool escogitò il semplice ma efficace trucco di un ‘registro’ con lo stesso numero per tutti i reati che era così di competenza di un solo Gip: Italo Ghitti”. Sempre Salvini racconta come un fascicolo, in questo modo, con questo “trucco” gli viene sottratto; stessa cosa accade ad altri Gip, il tutto con la fattiva copertura e tolleranza dei Capi dell’ufficio: “Non era il tempo di seguire la strada giusta, ma di adeguarsi al mainstream”. In guerra e in amore tutto è lecito, si dice. Ma appunto: in guerra e in amore; amministrare la giustizia, applicare le leggi, non rientra nelle pratiche belliche, e neppure in quelle amorose, checché ne possa pensare qualcuno. Ad ogni modo: reazioni? Sì, qualche isolata voce, presto silenziata. Per il resto, sostanziale fastidio, gelida indifferenza. Un ulteriore passo indietro. A metà novembre Nino Di Matteo, magistrato attualmente membro del Consiglio Superiore della Magistratura, rilascia un’intervista a La7. Confessa un timore: “che si siano formate anche al di fuori o trasversalmente alle correnti, delle cordate attorno a un procuratore o a un magistrato particolarmente autorevole, composte da ufficiali di polizia giudiziaria e da esponenti estranei alla magistratura che pretendono, come fanno le correnti, di condizionare l’attività del Consiglio superiore della magistratura e dell’intera magistratura… Con l’appartenenza alle cordate vieni tutelato nei momenti di difficoltà, la tua attività viene promossa, vieni sostenuto anche nelle tue ambizioni di carriera e l’avversario diventa un corpo estraneo da marginalizzare, da contenere, se possibile da danneggiare… La logica dell’appartenenza è molto simile alle logiche mafiose, è il metodo mafioso che ha inquinato i poteri, non solo la magistratura”. Questa situazione dove (e chi) l’ha evocata e descritta prima di Di Matteo? Si deve recuperare un libro di grande successo, “Il sistema”, lunga conversazione tra l’ex magistrato Luca Palamara e Alessandro Sallusti: “…Le spiego una cosa fondamentale per capire che cos’è successo in Italia negli ultimi vent’anni”, dice Palamara. “Un procuratore della Repubblica in gamba, se ha nel suo ufficio un paio di aggiunti e di sostituti svegli, un ufficiale di polizia giudiziaria che fa le indagini sul campo altrettanto bravo e ammanicato con i servizi segreti, e se questi signori hanno rapporti stretti con un paio di giornalisti di testate importanti – e soprattutto con il giudice che deve decidere i processi, frequentandone magari l’abitazione…Ecco se si crea una situazione del genere, quel gruppo e quella procura, mi creda, hanno più potere del Parlamento, del premier e del governo interno. Soprattutto perché fanno parte di un ‘Sistema’ che lì li ha messi e che per questo li lascia fare, oltre ovviamente a difenderli”. Nella sostanza le affermazioni di Di Matteo e Palamara si possono sovrapporre, due “opposti” che coincidono. Ma Di Matteo dice anche altro, nel libro “I nemici della giustizia”, scritto con Saverio Lodato. Quando si arriva alle pagine 75 e 76 si può leggere: “…Una cordata sorta attorno a qualche magistrato, di solito un importante procuratore, che ha saputo acquistare nel tempo, e spendere, la sua autorevolezza e il suo prestigio per occupare spazi sempre più ampi di potere dentro e fuori la magistratura…” con lo scopo “di fidelizzare altri colleghi, alti esponenti delle forze dell’ordine, acquisendo un potere tale da riuscire a influenzare scelte e nomine all’interno della magistratura e persino delle forze di polizia. Cordate, non più correnti…”. Ora idealmente si può far scendere idealmente in campo un altro personaggio, l’ex magistrato Ilda Boccassini. Ha scritto “La stanza numero 30. Cronache di una vita”, di cui molto si è parlato e scritto, più che altro per il quarto capitolo: il racconto di una liason con Giovanni Falcone. Capitolo che fa perdere di vista il cuore dei problemi che questo libro pone. Perché in fin dei conti, cos’abbiano combinato sono affari di Boccassini e Falcone; si può al massimo eccepire che questa storia poteva restare nel cono d’ombra dove era relegato, conosciuta da pochi. Ma è la sostanza delle questioni che si è persa di vista. La sostanza è il racconto di anni e anni di storia della magistratura, dei magistrati, del loro operare: il loro letterale trescare per acquisire e difendere postazioni di potere e carriera; le spartizioni, i boicottaggi, i servilismi: dal libro di Boccassini insomma, emerge un quadro desolante e desolato della magistratura, e di uffici giudiziari particolarmente importanti: quelli di Milano, Roma, Palermo, Caltanissetta. Del lato meschino e vanesio di magistrati ed ex magistrati famosi; i metodi di spartizione per l’attribuzione dei vertici apicali della magistratura da parte del Consiglio Superiore della Magistratura. Insomma: un contesto, una “scena” e tanti retroscena, deprimenti. Significative queste ‘concordanze’ di personaggi così diversi, perfino opposti. Tutto ciò aggravato dal fatto che tutto ciò sembra scivolare come acqua su pietra liscia. Si può infine segnalare un’ulteriore, non meno grave “indifferenza”, che evidentemente (mal)cela una diffusa ostilità: verso i sei referendum per una giustizia più giusta promossi da Partito Radicale e Lega. Hanno superato il primo ostacolo, il vaglio della Corte di Cassazione. Ora la parola spetta alla Corte Costituzionale; non potrà falcidiare l’intero pacchetto; potrà dichiarare che qualche quesito non può essere sottoposto a referendum popolare, ma bocciarli tutti e sei non è cosa. Dunque, se non saranno sciolte le Camere (evento non meno improbabile), a primavera ci si pronuncerà su importanti questioni di giustizia e di come la si vuole amministrare. Che cosa attendono i mezzi di comunicazione, e in particolare quello che dovrebbe essere il servizio pubblico radio-televisivo, ad allestire spazi di informazione, confronto e dibattito tra sostenitori e avversari delle referendarie, non si capisce (o al contrario: lo si comprende bene). ‘Conoscere per deliberare’ è uno dei precetti di Luigi Einaudi: diritto alla conoscenza presupposto senza il quale non è data una vera democrazia. Curioso, ma anche indicativo, che filosofi, giuristi, commentatori, dedichino tempo ed energie nella denuncia di rischi e pericoli più supposti che reali per la democrazia, in Italia, in Europa, nel mondo, a proposito di una Pandemia che sconvolge il pianeta; e non una briciola di attenzione sul fatto che una questione essenziale come la giustizia e il modo in cui si amministra è argomento tabù: è scattato un verboten a cui pochi volenterosi vogliono e sanno sottrarsi, rapidamente, implacabilmente, silenziati: ridotti come il protagonista del celebre dipinto del norvegese Edvard Munch.
Il periodo di Tangentopoli. Italo Ghitti, l’unico gip di Mani Pulite: svelato il trucco del pool per sceglierselo. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Italo Ghitti è stato “il Gip di Mani Pulite”. L’unico. Per capirci: se il Pool ha aperto in quel periodo, per dire, cento indagini, cioè cento fascicoli diversi, per reati tra loro diversi, con indagati diversi, contesti diversi, insomma diversi, il Gip è stato sempre lui tutte e cento le volte. Lo sappiamo da sempre, noi penalisti lo abbiamo denunciato da subito e per decenni, ma nulla, come se niente fosse. Ora una meritevole intervista ad un Gip milanese, il dott. Guido Salvini, almeno ci fa sentire meno soli. Come è potuto accadere? Semplicissimo. I Pubblici Ministeri, gli eroici cavalieri senza macchia e senza paura del leggendario pool di Mani Pulite, inventarono un banale trucco. Tutte le nostre indagini fanno in realtà parte di una unica indagine, dissero (anzi, se lo dissero tra di loro, figuriamoci se qualcuno osò fare domande). Il fenomeno criminale è unico, la Corruzione ed il Finanziamento Illecito della Politica. Dunque tutti i fatti sui quali indaghiamo, dal Pio Albergo Trivulzio alla tangente Enimont, sono capitoli di una unica indagine purificatrice. Dunque un unico numero di procedimento e, per conseguenza, un unico Gip, Italo Ghitti. Un autentico gioco delle tre carte, che nemmeno a Forcella. Se un qualsiasi Procuratore oggi si azzardasse a fare una roba del genere, finirebbe diritto per diritto davanti ad un giudice disciplinare (almeno) a renderne conto. Per capirci, è come se la Procura di Palermo sostenesse che tutte le indagini di Mafia, qualunque siano i fatti, le cosche e i protagonisti, debbano ritenersi facenti parte di un unico fascicolo, e dunque affidate agli stessi inquirenti ed al controllo giurisdizionale di un unico Gip. La stampa nostrana non fece un plissé, e nemmeno ora, a babbo morto. I Santi non si toccano e non si bestemmiano. I famosi “cani da guardia” della verità contro i poteri, girano il muso da un’altra parte, abbassano le orecchie e semmai abbaiano contro i pochi che dovessero azzardarsi a dire qualcosa, quando si tratta del potere giudiziario. Nessuno che provi ad alzare il ditino, e a fare la ineludibile domanda: perché? Già, perché, secondo voi? Sarebbe bastato fare quello che normalmente si ha il dovere di fare, e cioè aprire per ogni nuova indagine un fascicolo nuovo con un nuovo numero, ed ecco lì che il Gip cambia. Dunque, la risposta è semplicissima: la Procura di Milano fece l’impensabile: si scelse il “suo” Gip. Punto. Traetene voi da soli le conseguenze. Io mi limito a ricordare quale sia, o meglio quale dovrebbe essere, il ruolo ed il compito del Giudice delle Indagini Preliminari, per facilitarvi nel vostro giudizio su quello scandalo, oggi denunciato perfino da un coraggioso giudice milanese. Il Gip è colui che è chiamato ad esercitare il “controllo giurisdizionale” sulle indagini e sull’esercizio dell’azione penale. Perché, pensate un po’, nel nostro sistema processuale il Pubblico Ministero è certamente il dominus incontrastato delle indagini; ma appena ritiene di dover adottare misure che vanno ad impattare sui diritti delle persone indagate, non può far altro che “chiedere” al Gip di essere autorizzato a farlo. Può solo “chiedere” di intercettare, di sequestrare, di arrestare. Nei casi di urgenza può farlo di propria iniziativa, ma poi deve immediatamente informarne il Gip, che verificherà la legittimità dell’atto adottato con urgenza, e potrà convalidarlo o invece annullarlo. Il Pm chiede, ma è il Gip che adotta i provvedimenti più importanti nella fase delle indagini. L’analfabetismo diffuso fa dire che “Gratteri ha arrestato”, che “la Procura di Milano” ha disposto intercettazioni, che “la Procura di Palermo” ha sequestrato, ma non è così, perché quei provvedimenti sono del Gip. Ora voi comprendete bene quanto possa contare, per una Procura, avere un Gip, come dire, sulla propria lunghezza d’onda. Un Gip che non si metta a sindacare, ad approfondire, a questionare, e soprattutto a respingere le richieste. La partita della terzietà del Giudice, garante costituzionale dei diritti e del procedimento, si gioca innanzitutto e in modo quasi assorbente nella fase delle indagini. Il pool di Mani Pulite, a suggello della propria onnipotenza, si consentì il lusso di avere un solo Gip. Non voglio mancare di riguardo a nessuno, ma possiamo ragionevolmente dare per scontato che, come minimo, l’orientamento di quel Giudice non fosse sgradito all’Ufficio? Io penso proprio di sì. E più in generale: se si parla solo dei Pm quando si arresta, si intercetta, si sequestra, nonostante sia il Gip che ha arrestato, intercettato, sequestrato, non vi sorge il dubbio che in questo Paese il tema della terzietà del giudice, innanzitutto del giudice delle indagini preliminari, sia la vera, grande, decisiva, clamorosa emergenza della nostra giustizia penale?
Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane
Il ritorno di Claudio Signorile: faccio un partito per il Sud. Alessandra Arachidi su Il Corriere della Sera il 21 Maggio 2022.
«Vogliamo federare i poteri delle Regioni, non le istituzioni. Oggi il Mezzogiorno si identifica nella sua frammentazione con sette Regioni litigiose, deboli e divise».
«Alla mia età mi ero fatto da parte, leggevo e scrivevo, ma non mi sono mai disinteressato alla politica. Adesso è il momento di tornare». E a 85 anni ritorna con un progetto ambizioso il socialista Claudio Signorile: «Mezzogiorno Federato» è il nome del nuovo soggetto politico che ha presentato ieri. Ha un logo dove l’Italia è disegnata sottosopra e la Sicilia svetta insieme alla punta dello Stivale. «Non è un progetto improvvisato so di cosa parlo, sono stato ministro del Mezzogiorno». Fu anche ministro dei Trasporti, Signorile, nei governi di Bettino Craxi, da qui il soprannome di Sinistra ferroviaria per la corrente lombardiana di cui era leader. Erano gli anni in cui il Partito socialista aveva in mano la guida del Paese, e lui era riuscito a diventare il numero due di quel partito. La politica gli è rimasta nel sangue. Dice e sogna: «Vogliamo federare i poteri delle Regioni, non le istituzioni. Oggi il Mezzogiorno si identifica nella sua frammentazione con sette Regioni litigiose, deboli e divise. Ma la realtà è che queste Regioni hanno risorse e poteri per poter essere un soggetto attivo, motore economico del Paese. Per poter diventare un interlocutore forte». Era nutrito ieri il parterre alla presentazione di «Mezzogiorno Federato», con il ministro del Lavoro Andrea Orlando (Pd), la ministra degli Affari regionali Mariastella Gelmini (FI), la viceministra delle infrastrutture Teresa Bellanova (Italia viva). E in prima fila un vecchio compagno di battaglie, Claudio Martelli. Signorile non si pone limiti: ha intenzione di portare il suo soggetto politico alle prossime elezioni nel 2023. «Ma sia ben chiaro — precisa —, non mi voglio candidare io. A 85 anni non penso sia il caso di farlo. Ma a 85 anni si può fare politica attiva. È in atto un processo di ricambio della classe dirigente del Paese e noi vogliamo esserci».
Tre anni fa moriva il leader socialista. Ricordo di Gianni De Michelis, viaggiatore del tempo che leggeva il futuro. Biagio Marzo su Il Riformista il 12 Maggio 2022.
Undici maggio 2019. Gianni De Michelis moriva nella sua Venezia, lasciando sconsolati il ristretto collo di bottiglia di amici più leali con i quali divise la buona e la cattiva sorte. De Michelis sapeva leggere il futuro da fine analista, meglio di tanti futurologi che lo fanno di mestiere. Dal suo punto di vista, l’importanza stava nel come utilizzare le tante occasioni di cambiamento. Pertanto osservava, ascoltava e dava rilievo alle trasformazioni. Per lui, non era necessario “esplorare lo spazio, bensì il tempo”. Per questo si considerava un “argonauta alla ricerca del vello d’oro”. Però non riusciva a vedere all’orizzonte la nave e l’equipaggio con cui intraprendere questo viaggio nel tempo.
Figlio di una precisa epoca storica, la cui formazione si svolse tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, nel periodo del boom economico e del centrosinistra che determinò, in Italia, una svolta riformista a livello politico, economico, sociale, culturale e civile, insomma antropologico, confessò che “come altri della mia generazione ero convinto, in un misto di utopia e ideologia, che il problema fosse utilizzare la chance offerta dallo sviluppo e dalla tecnologia per attuare grandi disegni globali e per rilanciare l’impegno politico e sociale”. Per palar spiccio crebbe, come la sua generazione, quella impegnata nelle organizzazioni universitarie (in particolare nell’UGI, l’Unione goliardica italiana di cui fu presidente) e nei movimenti giovanili, a pane e politica.
E oggi ci mancano le sue anticipazioni geopolitiche. Vide anzitempo il crollo del comunismo e individuò il Pacifico come nuovo baricentro del mondo conteso da Usa e Cina. Credeva alla via danubiana con Venezia e il Nordest al centro di questa e alla centralità del Mediterraneo da cui transita il 20% delle merci mondiali. Al “Mare Nostrum” dava una chiave di lettura inedita, a ben vedere, foriera di sventure, in particolare per l’Italia, visto che non è stato realizzato “un Mediterraneo in cui prevarranno la cooperazione e la convergenza”. Mentre ha preso l’abbrivio “un Mediterraneo in cui sarà inevitabile il conflitto, che avrà al centro la zona euromediterranea”. Senza alcuna ombra di dubbio è avvenuto ciò.
Convinto europeista, firmatario del trattato di Maastricht, prefigurava una visione diversa con una Europa a forte proiezione mediterranea che avesse alle sue fondamenta la risoluzione del conflitto arabo-israeliano e con il coinvolgimento del Nordest e del Sud dell’Italia sempreché svolgessero una funzione nell’interesse dell’intera Ue. Auspicava un Mezzogiorno “responsabilizzato, autonomo e propulsivo, protagonista della scena mediterranea in cui si affaccia l’unica economia ancora non emersa, ma potenzialmente emergente”. A suo parere occorreva, insomma, un salto di paradigma, una strategia e un riposizionamento della politica. Delineando una visione di società che non avrebbe potuto prescindere da tre aspetti: l’invecchiamento della popolazione, il fenomeno migratorio e la “bio politica” investita da tutti i problemi della vita del singolo e della moltitudine. Gianni guardava con grande attenzione al diffondersi della cultura italiana nei Paesi che sono luogo di origine dei flussi migratori e laddove ci potrebbero essere opportunità di sviluppo delle nostre relazioni economiche e commerciali, sperando nella creazione di “ordinati mercati del lavoro transnazionali frutto di accordi bilaterali con queste realtà”.
Politicamente parlando, considerava la democrazia italiana bloccata, anomala, senza alcuna alternanza, per via di Yalta che aveva diviso il mondo in due blocchi, quello occidentale e quello sovietico, “alleati nella spartizione politica del potere”. A suo avviso, in Italia si era instaurato “un regime di extraterritorialità” a favore degli Stati Uniti, finanziatori della Dc, e dell’Unione Sovietica, finanziatore del Pci. La cui sorte era segnata: non sarebbe mai potuto andare al governo. Chiaramente, GDM vide questa situazione come uno “scontro politico che si è svolto in parte sopra il tavolo, in parte sotto il tavolo. E tra le cose gestite sotto il tavolo c’è stato anche e soprattutto il finanziamento della politica”. “La logica di Yalta – affermava – ha prodotto fenomeni cultural-politici sui generis come il ‘cattocomunismo’, che rappresenta una certa visione ideologica tesa a individuare gli elementi comuni tra la dottrina sociale della Chiesa nella sua traduzione concreta e la dottrina sociale del marxismo”.
Con il crollo del comunismo e, nello stesso tempo, con la fine della Guerra fredda, era saltato il patto non scritto tra i partiti italiani, accordo che aveva tenuto unita la democrazia repubblicana. In più, con l’ingresso a Maastricht, la politica italiana avrebbe dovuto cambiare pelle. In effetti cambiò, con l’entrata in campo di Tangentopoli e l’azione del pool Mani pulite che portò alla fine della Prima repubblica, con un’aberrante gestione della giustizia. Quasi sempre, ripeteva GDM, “senza il rispetto della legge. Conosciamo perciò una storia parziale, distorta, lungo la quale si snoda una scia impressionante di provvedimenti giudiziari, smentiti dall’assoluzione di decine e decine di imprenditori, politici, parlamentari, esponenti di governo, risucchiati in un vortice giustizialista senza precedenti”.
Personalmente, la prima volta che sentii parlare di appalti e politica in Sicilia fu in alcuni colloqui vis a vis con Gianni. Della Sicilia sapeva tutto e, lui veneziano, l’amava. Anche nelle riunioni di partito parlava liberamente dell’affaire “appalti e politica” e dei personaggi noti e meno noti: da Sindona a Cuccia, a Guarrasi, a Verzotto, ai Salvo.
Curiosissimo, scrisse il testo Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane. Un libro cult. Ai suoi tempi, la discoteca era simile a una industria, produceva profitti e dava occupazione. Ed è vero che gli piaceva ballare e di evadere dopo giornate faticose trascorse al ministero e nelle lunghe riunioni di partito. Sotto questo aspetto era uno stakanovista. La discoteca era altresì il luogo per conoscere e capire i giovani e lui ripeteva che “ormai sono, dopo la famiglia e la scuola, il più importante luogo di socializzazione per le nuove generazioni”. Non a caso, nel suo staff politico e governativo vi erano giovani che hanno fatto carriera politica, assumendo incarichi di governo e manageriali in diversi settori pubblici e privati.
GDM era un laico, seppure di religione valdese. Un anticonformista che sfiorava l’eccesso, non curante dell’opinione della gente per come si divertiva, dove passava le vacanze e in quali locali notturni andava. “La classe dirigente della prima Repubblica – scrive Filippo Facci nel suo libro ‘La guerra dei trent’anni’ – aveva commesso una serie di reati, è vero, ma era di un altro livello. Un politico come Gianni De Michelis ha pagato molto più caro il fatto che andasse a ballare in discoteca con i capelli lunghi piuttosto che violasse la legge sul finanziamento della politica”. Negli indimenticabili anni Ottanta l’Italia aveva vissuto un nuovo boom economico, aveva superato il Pil della Gran Bretagna e aveva fatto il suo ingresso nel G7. GDM è stato uno dei protagonisti di quel decennio. E, tra i tanti pregi e difetti che aveva, come ognuno di noi, era uno che leggeva il futuro. Biagio Marzo
Dagospia il 10 maggio 2022. Anticipazione del libro di FULVIO ABBATE e BOBO CRAXI, “GAUCHE CAVIAR – Come salvare il socialismo con l’ironia” (Baldini+Castoldi) In libreria dal 12 maggio.
Buongiorno, Bobo,
stavo adesso pensando a una nostra gita a Londra. Io e te in viaggio, come un tempo Marx ed Engels, Rimbaud e Verlaine, Laurel e Hardy, o, se preferisci, Simon e Garfunkel; decidi tu. Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Una volta li, potremmo anche andare a trovare proprio Karl, al cimitero di Highgate. La sua tomba innalza un busto ciclopico, Polifemo della Storia in rivolta. Grande testa, grande barba, grandi capelli profetici, esattamente lui, Marx; la stessa testa diventava polena di una barca in un film sulle illusioni perdute, Sweet Movie, con Pierre Clementi, marinaio, ultimo reduce della corazzata Potemkin. C’è anche, incastonata, la lapide della prima sepoltura, inizialmente assai più piccina, dove si legge l’Undicesima, sempre sua, Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno soltanto interpretato in modi diversi il mondo; ma ora la questione e di cambiarlo». Anche Morgan, «matto da legare», ragazzo svitato protagonista di un film del “nuovo cinema britannico” degli anni Sessanta – non Morgan, nel senso di Marco Castoldi, amico cantante e compositore altrettanto irrequieto; a proposito: digli che appena smette di esibirsi a Ballando con le stelle andiamo a cena tutti insieme – gli faceva visita. Noi pero, diversamente dal matto, non ci presenteremo facendo il verso del gorilla King Kong in occasione del suo compleanno. Semmai, giunti a Londra, restando in tema cinematografico, tra un impegno irrinunciabile e l’altro, cercheremo di assomigliare a Peter Falk, John Cassavetes e Ben Gazzara, cosi come appaiono in Mariti. Lontani da mogli e ogni altro obbligo familiare, lavorativo, domestico, assenti da casa, finalmente felici insieme, scanzonati, soavi, per puro diletto, in una sorta di domenica della vita. Dopo le molte fatiche di ciò che Eric Hobsbawm definisce «il secolo breve», ormai alle nostre spalle, un po’ di riposo e meritato, il minimo risarcimento. Ci pensi che siamo negli anni Venti? Sembra quasi ieri che questo decennio lo si assimilava all’ascesa del fascismo con la “marcia su Roma”, alle prime automobili, alle avanguardie artistiche, a Rodolfo Valentino, ai dirigibili, al crollo di Wall Street, alle foto seppiate dei nostri nonni in posa, al foxtrot, a Louise Brooks che ispirerà la Valentina a Guido Crepax. A proposito, Bobo, com’era quella storia di Pierre-Joseph Proudhon, pensatore anarchico, molto più libero e seducente di Marx?
Ah, la Seduzione! Sai che sul finire degli anni Settanta ne ragionava Jean Baudrillard?
Quando questi venne a Palermo, un cronista di piano bar culturale gli pose una domanda: «E più seducente Hitler o Marilyn?» A quel punto, il sociologo non potè fare a meno di mandarlo a quel paese; addirittura, Baudrillard voleva essere subito accompagnato a Punta Raisi per tornare a Parigi, l’aeroporto allora non si chiamava ancora “Falcone-Borsellino”.
Mi sembra di ricordare, correggimi se sbaglio, che il nome di Proudhon lo pronuncio tuo papa Bettino, per ridare un volto nuovo, laico e libertario, simile a uno smiley, al Partito socialista italiano, subito dopo il congresso che l’aveva incoronato segretario. Peccato che non ne ricordi più esattamente i dettagli, prova allora a ripetermi come andarono esattamente i fatti.
Ora pero, grazie a questo nostro racconto a due voci, corrispondenza della nostra auspicata del tutto personale gauche caviar ci riprendiamo ciò che finora ci siamo negati o magari altri ci hanno infidamente sottratto.
Perdona se insisto con gli esempi cinematografici. In Underground di Emir Kusturica c’è Petar il Nero, che viene tenuto con l’inganno in fondo a una cantina a pedalare per produrre, cosi mi pare, energia elettrica, gli hanno detto infatti che la guerra e ancora in corso, i partigiani del maresciallo Tito starebbero sempre lì a combattere i nazisti. Chi gli dice cosi, in verità, si sta arricchendo, fa già affari alle sue spalle, e addirittura diventato un pezzo grosso del regime. Infatti, e una bugia, la guerra e finita da molto tempo, siamo addirittura negli anni Sessanta, le radioline trasmettono perfino 24.000 baci del molleggiato Celentano. Finchè lui, l’ingannato, la persona meschinamente tenuta all’oscuro delle mutazioni geopolitiche avvenute nel frattempo, si accorge della beffa, cosi torna alla luce e fa fuori tutti a colpi di mitra. Ti ho appena fatto dono della metafora che sempre mi ritorna in mente ogniqualvolta cercano di dirmi menzogne o addirittura spezzarmi le gambe.
Ma intanto, parliamo di cose concrete, il tempo stringe, e tu non hai ancora detto fra quanti giorni tornerai a Roma dalla Tunisia, dalla tua bella casa bianca di Route El Fawara ad Hammamet. Qui il tempo sembra mancare davvero, colpa soprattutto della mediocrità altrui, la loro assenza di fantasia, i loro complessi perfino sessuali, e c’è da finire il nostro pamphlet sul lusso del pensiero che ci spetta, anzi, che meritiamo; magari insieme a un meraviglioso kimono di seta giapponese, un grande drago dorato ricamato sul dorso, l’uniforme degli uomini di mondo che osservano ogni cosa dall’alto e infine non possono fare a meno di sorridere dell’altrui imperfezione.
Ciao Fulvio,
che fine avevi fatto? Da quando anni fa ti ho visto prigioniero nella casa del Grande Fratello Vip ho quasi sempre l’impressione che potresti a un certo punto perfino ritrovarti, a tua insaputa, nel baccanale di un angiporto di Amburgo o seduto al tavolo del Moulin Rouge dopo aver consumato un intero vassoio di ostriche da Charlot-Roi de Coaquillages, a place Clichy, dove, pensa, a Cite Veron, abitavano sia Jacques Prevert sia Boris Vian.
Invece ti stimo nel più placido quartiere romano di Monteverde Vecchio, forse seduto al tavolino del bar Dolci Desideri o magari in quell’altro, Anita, nome risorgimentale, come tutte le strade dei dintorni, dove ti fa difetto persino l’idea di ordinare «... il solito!» al cameriere. Ti confesso che da quando l’amico comune Francesco De Gregori mi ha suggerito la lettura di un Simenon d’epoca, che narrava di un tour nel Mediterraneo descrivendo Hammamet come una delle «capitali mondiali della pederastia», giro circospetto nella cittadina a me cara, come tu sai.
Ho portato garofani freschi sulla tomba di mio padre e qualche dinaro non meno fresco al guardiano Kamel, che una volta puzzava di vino e ora invece, in virtù del suo nuovo status di sposino, profuma di dopobarba, lo stesso dell’uomo che «non deve chiedere mai» o giù di lì, e diventato persino affidabile. Tiene in ordine le tombe e non fa più il cerbero del cimitero presidenziale.
Aumentando il numero degli italiani che frequenta la località, aumentano anche le tombe; arrivano li dall’Italia, per approfittare dello spread che consente loro di triplicare di fatto il potere d’acquisto delle loro pensioni. Arrivano pero anche già cagionevoli di salute, in particolare uomini sulla settantina che hanno lasciato con una scusa le mogli al paesello, e qui in Tunisia si sono integrati perfettamente, nel senso che si fermano ai baretti facendo i flaneur, parlando un improbabile francese e sperando di rimorchiare le ragazze locali, pensando di essere i nuovi Montanelli, che sposava le ragazzine eritree di dodici anni, menandosene vanto persino sulla Rai di Bernabei in prima serata. Insomma, i pieds-noirs di fine secolo sono adesso politici caduti in disgrazia ora veri e propri disgraziati. Io, senza falsa modestia, ritengo di far parte di entrambe le categorie, questo pero non mi ha tolto la gioia di mangiare un fantastico branzino la sera all’aperto, bevendo un buon rose: ricordo che la Grenache, con la quale viene fatto, sarebbe il corrispettivo del nostro Cannonau, che in Spagna viene chiamato «Garnacha».
Questo andazzo indolente che ci assale quando ci si trova in tiepide giornate autunnali nel Mediterraneo, impedisce di immergermi nella discussione che tu vuoi promuovere intorno ai padri nobili del pensiero socialista dell’Ottocento. Posso certamente dire che l’obbligo dello studio della dottrina ha influenzato generazioni di italiani che si sono ritenuti di sinistra.
Ricordo di avere visto file intere di testi marxiani, pubblicati da Editori Riuniti, nelle librerie dei genitori dei compagni di scuola, che si trovavano un po’ più a sinistra di quanto non fossimo noi, che pure eravamo e siamo assai più di sinistra di quanto non siano loro. Considero da questo punto di vista preliminare affermare che non vi possa essere Socialismo senza Liberta, qui le maiuscole sono d’obbligo.
Siccome ti so creatura sensibile, non ti sfuggirà che per anni, essendosi disputate le parti che prendendo spunto dalla sorgente originaria hanno finito per dividersi, sarebbe stato molto semplice evitare l’equivoco, che poi ha finito per generare le P38 e Mani pulite, e affermare il semplice principio secondo cui gli individui che intendono aspirare a una società giusta devono innanzitutto godere delle libertà individuali.
Noi non avevamo testi sacri da leggere o mandare a memoria, nel senso che non esisteva il Manifesto del Partito socialista. Esisteva il “revisionismo” socialista, i presupposti del socialismo declinati da Eduard Bernstein, e soprattutto vi erano i critici del marxismo. In fondo, a pensarci bene, l’intuizione dello studio di Pierre-Joseph Proudhon, dovuta a Luciano Pellicani, che amava i testi eretici che destrutturavano il collettivismo marxista- leninista, e un’invenzione bella e buona, non mi pare che Karl e Vladimir si siano mai incontrati, pura cattiva “ingegneria” ideologica sovietica, penso a Bruno Rizzi con il suo collettivismo burocratico, e penso che sia stato un vero e proprio grande colpo gobbo, ossia Marx demolito da un marxista.
Ma la colpa di tutto ciò si deve a Enrico Berlinguer, che a sessant’anni dalla rivoluzione d’Ottobre, incurante della comicità involontaria – otto anni dopo il sistema sovietico fini amaramente senza neanche la dignità invocata dal giovane protagonista del meraviglioso Goodbye Lenin – parlava ancora di «attualità del leninismo».
Pierre-Joseph Proudhon era tutt’altro che un moderato socialdemocratico, era un rivoluzionario bello e buono con qualche punta di sovversivismo, se noi ricordiamo spesso la sua celebre frase: «La propriete, c’est le vol», non possiamo dimenticarne un’altra che appare ancora oggi esilarante: «L’Anarchia e ordine».
Di tutto questo, il famoso saggio non parlava, limitandosi alle osservazioni metodologiche sulla differenza fra leninismo e pluralismo democratico. Questo era l’argomento che infilzava strumentalmente il comunismo di Berlinguer e la presunta “attualità” di Lenin, che pero vedeva solo lui. E come se noi oggi rivendicassimo non meno attuale Carosello, che pure aveva una funzione notevolmente sociale: l’ammaina-bandiera per tutti noi bambini. Io, per esempio, avrei voluto che durassero infinitamente le sue pubblicità. Indimenticabili Gino Bramieri, Ubaldo Lay nei panni del tenente Sheridan, Carmencita «chiudi il gas e vieni via», Giampiero Albertini che a scatola chiusa comprava solo Arrigoni, e poi le stelle sono tante, milioni di milioni, anzi, come canta Francesco, «la luce dei lampioni si riflette sulla strada lucida...»
Questo lo dico perchè dalla mia finestra si sono appena spente proprio le luci dei lampioni, i tunisini risparmiano, la crisi morde, e si è fatta una certa.
Mi ha fatto piacere ricevere la tua lettera, e diventato così complicato vedersi. Ritorno presto, non ho intenzione di anticipare da queste parti gli anni della decadenza, anche se ti confesso che vivendo in un Paese ancora sottosviluppato si mantengono vivi gli ideali e i valori per i quali un essere umano si dichiara e si professa socialista. E sempre la solita ragione, cioè il fatto dell’eguaglianza, dell’equità e di una società più giusta e decente.
Non vedo molti telefonini in giro, le ragazze non vestono firmate, la loro emancipazione sta innanzitutto nel fatto di poter circolare libere e senza velo. Allo stadio non si picchiano, e al bar non ci sono macchinette mangia-soldi, poi ci saranno anche un mucchio di difetti nascosti, per carità. Ti confesso che non è il migliore dei mondi possibili, la società tradizionale araba, eppure, mescolata a qualche valore positivo della occidentale, appare un sapiente e desiderabile mix. Salutini tunisini.
Libro Gauche Caviar di Bobo Craxi, Elzeviro del Gattopardo. Giorgio Fabretti, Antorpologo, su Il Riformista il 30 Maggio 2022.
In stile fanè, vintage un po’ sciupato, rievochiamo la striscia di Terza Pagina che lo storico Paolo Mieli abolì dal Corsera. Iersera, seduti in strada, come accattoni, davanti all’Hotel Raphael dietro Piazza Navona, laddove i radicalsciocchi fasciocomunisti tirarono a Craxi le storiche monetine, i timidi d’antan Bobo Craxi e Paolo Mieli, hanno presentato il libro Gauche Caviar, ironizzando sulle primedonne della politica italiana da operetta, che strascicano i piedi riottose sul viale del tramonto, mentre in realtà sono vezzose maniere di godersi la vita da sconfitte.
A celebrare “il piacere della sconfitta”, come ha detto il sottile Mieli, era presente il vivace stringitore di mani, l’on. Paolo Cirino Pomicino, il mitico vero animatore de il Divo, capolavoro di Sorrentino: film epico che celebra la strategica napoletanità, che da sempre domina il sottobosco e gli angiporti dell’italica politica in cerca d’autore, più Magna che Grecia. In fondo il vero esempio di goditore della sconfitta millenaria era lui, il guizzante festaiolo ‘Cirino girino’, il greco napoletano indomito, mai lamentoso, pur nella triste occorrenza della dipartita di un altro indomito meridionale, l’On. Ciriaco De Mita; il quale ci ha lasciato però in eredità un altro avellinese, Di Maio, come illustre Ministro degli Esteri, calcolato proponitore di pace in Ucraina, incompreso da tutti i litiganti come voleva essere.
Certi politici italiani hanno l’arte antica dei posteggiatori, che è quella di essere presenti con una strimpellata nostalgica, che non impegna nessuno, se non una modesta mancia. E se non è gradita, raccoglie comprensione, dopo un dovuto modesto inchino del cantastorie. Antica arte al margine dei suk mediterranei, sotto l’ombrellone della Nato, a cercare di capire Israele e Ucraina, tra una cena al Circolo del Golf ed una bruschettata a Centocelle pagata dal reddito di cittadinanza. Piccolo-grande amore di Bel Paese, come cantava Baglioni al mercatino di Porta Portese, dove si parla per parlare; e non è cosa da poco se greco e british romanzo sono candidati in pole position come idioma globale.
Insomma, lo stagionato druido cattolico irlandese dà il “la”, e il resto del mondo segue; ma nell’Italia, che Mark Twain e il Principe Totò definivano “Miseria e nobiltà”: il resto è ‘mancia’.
Marina Valensise per “il Messaggero” il 30 maggio 2022.
In comune, l'ex sottosegretario agli Esteri e lo scrittore visionario che intrattengono questa corrispondenza surreale hanno non solo l'origine siciliana, ma il sogno di aprire un Chiringuito a Hammamet intitolato alla gauche caviar. Sì avete letto bene, un baretto sul Mediterraneo dove servire Spritz e Tequila, islam permettendo, e tenere in vita ciò che non sembra più sopravvivere.
Il progetto tanto fantasioso quanto onirico, ma venato di una sua urgenza politica, è frutto della «sindrome autoironica della gauche caviar», espressione che designa «un certo modo di essere di sinistra ma col culo nel burro» e si riferisce in particolare a quei borghesi che professano idee opposte al loro ceto sociale, adusi come sono a esibire comportamenti e stili di vita apparentemente controcorrente, in ossequio alle tendenze politiche più radicali.
Il repertorio è tanto vasto quanto esilarante. Coltivando «il lusso vero del pensiero libero bello», infatti, Bobo Craxi e Fulvio Abbate in Gauche Caviar. Come salvare il socialismo con l'ironia (Baldini+Castoldi) fanno a gara nel rincorrere ricordi, esperienze vissute, provocazioni mentali per arrivare a un qualche barlume di riflessione.
Ecco allora il testimonial più convincente della gauche caviar, e il suo eroe eponimo, Jack Lang, già ministro della Cultura di François Mitterrand, che vive a Parigi nel quartiere gay friendly del Marais in una dimora secentesca, con spettacolare tv al plasma fra arazzi Gobelins, e accoglie in kimono i due socialisti italiani che portano in dono una cassata siciliana, e inizia a ballare con loro e con Bernard-Henri Lévy il cha-cha-cha.
«Era l'espressione massima di ciò che si intende per un esponente della casta» chiosa Bobo Craxi, perplesso all'idea del balletto, ma più attento al senso estetico della gauche caviar versione italica, che implica a dir suo «la conservazione naturale delle cose, la loro originalità, opposta alla contraffazione, nulla di pauperistico e molto di minimalistico e essenziale, e di spontaneistico».
Da qui la piega lirica e polemica che assume la conversazione tra i due. Saltando di palo in frasca, i novelli Bouvard&Pécouchet si abbandonano ai lazzi, alla nostalgia, all'idiosincrasia. Massacrano uno dei più illustri prototipi del radical chic italiano, reo di coltivare campi di lavanda e di aver creato con la moglie il profumo solido, contenuto in un prezioso scrigno in legno a forma di ciotolo, per lanciare una fortunata linea di fragranze originali e persino unisex come l'Eau de moi. «Meraviglia inarrivabile» commenta Abbate.
Ma intanto, sempre in tema di accessori, quantunque opposti, Bobo Craxi si sofferma sulla potenza evocativa degli occhiali rotti e insanguinati del presidente cileno Salvador Allende, rinvenuti nel palazzo de La Moneda e custoditi oggi al Museo Historico Nacional in una vecchia scatola di latta, come il reperto tragico della sconfitta del socialista che sognava la rivoluzione popolare e finì suicida dopo il golpe del 1973.
«Al cospetto dei suoi occhiali tutto appare mediocre e piccino, e di fronte a un sacrificio umano offerto in nome di un nobile ideale è difficile restare impassibile», glossa Craxi, mentre Abbate infilza senza pietà «le montatura post elisabettiane» che una certa giornalista «idolo della bella gente del Palazzo mediatico indossa come accessorio della invidiabile rendita di posizione professionale».
Si capisce allora l'intento serio che pulsa dietro il risentimento e lo sfottò di due amici apparentemente alticci: non solo lo smarrimento dei socialisti liberali che hanno scoperto troppo tardi l'ossimoro del comunismo antifascista, ma la vergogna dell'ex giovane comunista anni Settanta, che non avendo potuto dissociarsi dalla culla, all'epoca della repressione sovietica in Ungheria del socialismo riformato da Imre Nagy, trova adesso il coraggio di rimediare davanti all'infamia di Vladimir Putin.
Il volume di Michele Drosi. Antonio Landolfi, il socialista mite e libertario. Biagio Marzo su Il Riformista il 16 Gennaio 2022.
Antonio Landolfi mi incuriosiva per la sua dizione napoletana anche se talvolta parlava in romanesco. Lo apprezzavo per la sua cultura raffinata, il socialismo democratico di matrice europea. In particolare era studioso della sinistra francese guidata da Mitterrand. Cultore di un meridionalismo socialista di alto rango e privo di assistenzialismo, le peculiarità che meglio lo identificavano erano il sionismo, l’europeismo critico – non monetario né mercatista –, i diritti civili e il garantismo.
Sul caso Moro, ad esempio, coloro che si spesero moltissimo da garantisti furono Antonio Landolfi e Claudio Signorile, cercando di salvare lo statista democristiano. Guarda caso, in un numero di “Metropoli”, rivista di Potere operaio a cui Landolfi collaborava, in una edizione a fumetti i due socialisti furono i protagonisti del partito della trattativa contro quello della fermezza – Dc e Pci – e dell’ala militarista delle Brigate rosse. Landolfi fu sempre figlio della sinistra. Partì come giovanissimo studente antifascista partigiano, inconsapevolmente comunista, trotzkista e antistalinista, frequentò “i due pidocchi” Cucchi e Magnani, come li definì Togliatti, e fu liberal-socialista, ammiratore e lettore di Ignazio Silone, riformista autonomista nenniano- manciniano, laico e libertario amico di Marco Pannella. Il suo pensiero e la sua azione politica sono raccolti nel pregevole volume di Michele Drosi dal titolo: Antonio Landolfi. Socialista laico, liberale, libertario, garantista (Rubbettino, pp. 216, euro 15).
Con rigore di indagine, l’autore ricostruisce i diversi passaggi strettamente umani, politici, economici e meridionalistici intrattenuti con il dirigente socialista. E convintamente scrive: «Antonio Landolfi è stato per me un grande punto di riferimento e un maestro di politica che ha reso più solidi i miei convincimenti, che ha fortemente contribuito alla mia formazione politica e che ha irrobustito e arricchito il mio profilo culturale». La terra in cui Drosi e Landolfi si confrontavano spesso è la Calabria, tanto da far dire che questi, di origine napoletana, palermitano per costrizione durante il fascismo e cittadino romano è stato, a tutti gli effetti, cosentino di adozione. Grazie al leader socialista Giacomo Mancini, di cui fu suo braccio destro, il Nostro ricoprì incarichi pubblici e politici, in special modo quando Mancini divenne segretario nazionale del Psi.
Ancor prima, con Mancini all’apice della carriera governativa, Landolfi fu nei diversi ministeri – Sanità, Lavori pubblici, e Mezzogiorno – il suo addetto stampa anche se, in verità, ne fu il consigliere politico più ascoltato stando sempre un passo indietro al ministro cosentino. Insomma, nel cono d’ombra del potere. E al ministero della Sanità si trovò di fronte alla campagna vaccinale contro la poliomelite – l’antidoto era quello di Sabin – e, in quell’occasione, abilmente, come responsabile dell’ufficio stampa, organizzò una efficace pubblicità sui mass media. Nella permanenza di Mancini al ministero dei Lavori pubblici, dal 1964 in poi, ci fu la tragica frana di Agrigento e anche lì Landolfi fu prezioso collaboratore del ministro quando venne formulata e approvata poi, nel 1967, la legge che proibiva la lottizzazione di terreni a uso edificatorio. Personalità umile, mite e razionale, «intellettuale intrigante», come lo definì Franco Piperno, «e senza ambizioni sbagliate».
«Non è stato mai – ha scritto Ugo Intini – un uomo di potere e ha dato certamente al partito molto più di quanto ha ricevuto». Da senatore uscente, Bettino Craxi, per uno scontro politico con Giacomo Mancini, non lo presentò candidato alle elezioni politiche, nonostante lo stimasse. Si trattò di un gesto politico inconcepibile, causato dallo scontro tra Mancini e il segretario del Psi. In più parti del libro l’autore mette in evidenza che il protagonista non ha mai vissuto di luce riflessa, anzi tutt’altro. Giovanissimo giornalista, scoperchiò il vaso di Pandora di Giuffrè, “il banchiere di Dio”, ossia “il banchiere” della Dc. Fu una inchiesta portata avanti, nel 1958, da “Critica Sociale”, la rivista fondata da Filippo Turati. Giambattista Giuffrè, ex cassiere dalla Banca di Imola, amministrava il denaro di parrocchie, istituti religiosi e di privati cittadini in Romagna e in altre regioni, promettendo interessi pazzeschi. In realtà però si trattava di un imbroglio secondo il classico “schema di Ponzi”. Landolfi all’epoca ebbe i complimenti di Craxi: «Bel colpo, Antonio! Bel colpo!».
Drosi argomenta le numerose pubblicazioni in modo compiuto, indicando il Nostro come un incallito sostenitore della democrazia rappresentativa che incontrava già allora delle difficoltà a farsi rappresentare, mentre il populismo scorreva come un fiume carsico per poi emergere in modo impetuoso e devastante. Come carattere non aveva peli sulla lingua e Craxi lo sapeva bene. Basti pensare ai suoi interventi sulla gestione del partito. Del resto, chi meglio di Landolfi sapeva morte vita e miracoli del Psi, avendo scritto tante opere sull’organizzazione politica di via del Corso e su quella calabrese in particolare. Bettino, che con grande onesta intellettuale sapeva riconoscere i suoi errori, un giorno da Hammamet confessò: «L’unico che nel partito mi diceva la verità era Antonio Landolfi». Biagio Marzo
La ricorrenza. Filippo Turati e il riformismo unica strada per la rivoluzione: 90 anni fa la morte del grande socialista. Michele Prospero su Il Riformista il 3 Aprile 2022.
Della tradizione socialista in Italia Filippo Turati è stata la figura più rilevante, che si è distinta nella sua ferma ostinazione a guadagnare per il movimento operaio “il senso della politica” ovvero un autonomo punto di vista sulla condizione moderna. L’autonomia politica dei lavoratori contro ogni mito della armonia sociale esigeva per lui una duplice fatica: l’assunzione di una specifica lettura delle cose, che risultasse distinta dalle categorie democratico-giacobine, e il superamento delle anguste inclinazioni operaiste ed anarchiche, incapaci di far salire le proteste spontanee ad una sintesi di tipo politico-culturale. Le categorie di Marx si prestavano per emendare, oltre alle istanze puramente democratiche, anche i vizi di settarismo e i serbatoi di infatuazione per la violenza che, con “l’abito e il gesto dei cospiratori”, ostacolavano la saldatura tra la classe e la rappresentanza.
Il Marx di Turati era decodificato con le lenti eclettiche del positivismo e faceva corpo con i concetti determinati ed evolutivi propri di una gnoseologia empiristica la quale imponeva nella prassi di calibrare con accortezza la prospettiva generale di cambiamento con i tempi, le situazioni, gli attori. Diversamente dalle correnti revisionistiche sviluppatesi sull’onda di Bernstein e dalle sensibilità mutualistiche, il riformismo di Turati, anche quando assumeva il terreno dei singoli punti minimi raggiungibili qui e ora (esemplare fu il suo disaccordo con la proposta massimale e non urgente di Salvemini a favore del suffragio universale), rimaneva ben ancorato alla prospettiva delle “rivoluzioni economiche e morali” con il fine esplicito della “espropriazione del capitalismo”. Queste istanze di un “mutamento radicale economico” però nulla avevano a che fare con i retaggi cospirativi di ceti ristretti che riducevano la lotta alla coltivazione di “un verbo chiuso”. L’azione di massa era il requisito di una idea di rivoluzione che, contrariamente alle pratiche di èlite colte e alle sussistenti intonazioni anarchiche, non poteva scaturire “per impulso e deliberazione di pochi segretamente affratellati ubbidienti ad una parola d’ordine, fedeli ad un cenno”.
Intesa come idea della grande trasformazione richiesta dalle stesse dinamiche della modernità, la rivoluzione quale processo cumulativo irreversibile non venne rigettata da Turati. Per un certo tempo, prima di prendere le misure del fenomeno bolscevico, anche lui avvertì la suggestione del mito di Mosca. In un intenso discorso alla Camera ammonì: “Nessuno di voi può pensare che la rivoluzione scoppiata in Russia su due continenti, che quella scoppiata in Austria, Ungheria, Germania, rimanga lì circuita, come una rosolia che si può isolare con una catena di sanità, e non vada oltre, e non sia già la rivoluzione europea, la rivoluzione universale, o violenta o pacifica, a seconda che si saprà andarle incontro e secondarla, o si pretenderà follemente arrestarla ed infrangerla”. Il riformismo non si configurava come un cedimento circa gli obiettivi di una discontinuità qualitativa. Consisteva piuttosto nella persuasione che la grande trasformazione fosse determinata non da una qualche “ossessione catastrofica” bensì dalla accumulazione illimitata di singole fratture, di piccole conquiste politiche e sociali.
La formula di Turati era che “la rivoluzione viene dalle cose” e ciò imponeva la connessione organica di competizione politica e conflitto di classe per giungere ad “una graduale conquista del potere sociale”. Le piccole conquiste del riformismo accompagnano una tendenza inarrestabile che nel tempo stabilisce un ordine sociale nuovo. Ogni singola innovazione “è un atomo di rivoluzione che si aggiunge alla massa. Verrà giorno che i fiocchi formeranno valanga”. Entro questa impostazione evolutivo-gradualista (il socialismo appariva come “il portato delle cose medesime”) non c’era spazio per il “semplicismo infantile” degli anarco-sindacalisti, censurati duramente per il loro regressivo culto della “violenza redentrice”. Anche la dimensione progettuale, che evocava l’adozione di “un piano possibile, verosimile, ben architettato e ben confezionato”, veniva ridimensionata. Si trattava di un “finalismo metafisico” che alimentava la deleteria tentazione per il movimento di tornare a “bamboleggiare di nuovo”. Il socialismo doveva invece assumere con maturità le categorie del realismo per agire con pragmatismo entro una ottica di “gradualità evolutiva” capace di oltrepassare i ribellismi, i gesti, “le negazioni più nichiliste”.
La strada indicata da Turati prevedeva la saldatura tra classe (“l’elemento operaio e contadinesco è il rinsanguamento prossimo futuro della società anemizzata e tabescente”), organizzazione (la forma partito appariva cruciale per “non ridurre il partito ad accademia dottrinale di disputanti”), istituzioni (“noi vogliamo al potere la democrazia”) e coscienza (una interpretazione critica dello “sviluppo obiettivo e subiettivo” sembrava indispensabile per disegnare la coscienza del “povero operaio minorenne”). Nell’azione politica reale questo innesto comportava una duttilità tattica per isolare nel blocco borghese le forze più conservatrici e definire politiche di convergenza per il consolidamento democratico. Il suggerimento ai socialisti di agire nella arretratezza del caso italiano come un pungolo critico e dialogante con la borghesia più avanzata (“secondo l’arte di disgiungere il nemico e incalzarne separatamente le varie frazioni”) al fine di ottenere la modernizzazione della società e dello Stato ha offerto risultati ondivaghi, con punte di avanzamento significativo e fasi di regressione e in definitiva di sconfitta.
Nella vicenda del socialismo ha influito la divisione tra le varie sensibilità per cui le componenti molto forti del massimalismo, con la loro “vena di ribellione impulsiva e di demagogismo”, avevano un linguaggio molto più affine ai dialetti delle forze dell’irrazionalismo antipolitico (anche della destra) che alle misurate metafore di Turati. L’adesione del leader socialista ai tempi della politica prevedeva tatticismi, fughe in avanti (come il voto al governo di destra di Luzzatti che indignò molto la stessa Anna Kuliscioff, che lo presentò come una istigazione a favore delle mai sopite tendenze degli “antiparlamentaristi e astensionisti, sostenitori dell’azione diretta”), insieme a riluttanze (nelle fasi di caduta del regime liberale mancò un effettivo dialogo con i popolari e le forze di governo ancora leali allo Statuto). In definitiva, la spregiudicatezza nella manovra (il Psi, sebbene costituisse il primo partito di massa con 216 mila iscritti raggiunti nel ’20, vantava un modello organizzativo di tipo decentrato e policentrico, con un ruolo indipendente dei parlamentari e delle stesse associazioni di categoria) e le offerte di collaborazione subalterna ai governi (soprattutto quello di Giolitti “segnò una rivoluzione parlamentare di primaria importanza, iniziando il periodo di consolidamento della libertà e del rispetto alla legge”) non sempre si associavano in Turati alla capacità di costruzione di un ampio consenso sociale.
Il segno della sconfitta dinanzi alla affermazione del fascismo, che avanzava con i metodi della violenza e della illegalità, conferisce un tocco di tragico al socialismo italiano. La visita di Turati al re, la proposta di un patto di pacificazione, la gestione della secessione dell’Aventino rivelarono le irrisolte antinomie culturali di un movimento di massa che non aveva investito nella legalità statutaria e neppure aveva avuto la forza di organizzare lo scontro aperto con il nemico. La fiducia di Turati verso una “borghesia giovane, intraprendente, moderna” con cui condividere una stagione di riforme non produsse i risultati di un effettivo processo di modernizzazione e “le baldanze della grande proprietà” alla fine trionfarono con il sostegno alla milizia armata ingaggiata in una dinamica controrivoluzionaria. Gli “sperimenti di politica liberale” naufragarono e fatale fu l’ambiguità del socialismo nel giudizio in merito alle sorti della costituzione vigente, al ruolo del conflitto e della mediazione in politica.
L’oscillazione dei socialisti, tra tentativi di inserimento legalitario-parlamentare e velleità di un sovversivismo condito secondo il linguaggio della “intransigenza ultra”, tra estraneità e collaborazionismo, tra appello alle armi e “sciopero legalitario”, portò ad una storica sconfitta che travolse anche la figura più autorevole del movimento operaio. Nella previsione di una incompatibilità strutturale tra regime reazionario fascista ed economia industriale avanzata Turati aveva colto un effettivo indirizzo, anche se i tempi della politica non possono accontentarsi delle tendenze di lungo periodo e richiedono semplificazioni, parole d’ordine immediate, persino “miti”, per la ripresa del protagonismo operaio dopo la catastrofe.
Michele Prospero
Francesco Forte. La classe dirigente della Prima Repubblica. Chi era Francesco Forte, allievo di Einaudi a cui si ispirò per i suoi scritti. Bobo Craxi su Il Riformista il 4 Gennaio 2022. La figura di Francesco Forte riassume su di sé un tratto fondamentale della classe dirigente della Prima Repubblica. Infatti della temperie del dopoguerra rappresenta quella generazione di uomini che intendevano riscattare quella dei padri caduti nella trappola del totalitarismo fascista. Giovanissimo brució le tappe della educazione universitaria: divenne assistente universitario del valtellinese Ezio Vanoni, il ministro delle Finanze del governo De Gasperi, l’artefice delle politiche economiche virtuose che grazie al Piano Marshall contribuirono al conclamato boom economico degli anni 60.
Successivamente a Torino ricopre la cattedra di Scienza delle Finanze che fu di Luigi Einaudi, il suo mentore, a cui si ispirò in tutta la sua vita e in tutti i suoi scritti. Un liberalismo purissimo che Forte contaminò con l’attrazione giovanile verso il Socialismo Italiano fonte della sua ispirazione politica che lo condusse a iscriversi al partito socialista anche qui, molto giovane. Il suo sapere scientifico, la dottrina liberale di cui era portatore, fu messo a disposizione della nascente moderna azione del socialismo italiano. Pur non avendo partecipato direttamente alla svolta politica del Midas, Francesco Forte ne fu attratto dapprima svolgendo il ruolo di responsabile economico del Partito Socialista successivamente ricoprendo un ruolo di primo piano, a partire dal 1982 all’interno dei governi a cui il Psi aderì nella seconda fase del Centrosinistra, detta più comunemente del “pentapartito”. Di nascita varesina, sebbene lungamente egli mantenne il proprio legame con la città di Torino, fu eletto deputato nel collegio di Como-Sondrio-Varese e poi successivamente, come il suo maestro Vanoni, fu senatore di Sondrio e non senza vezzo, agli inizi degli anni 90, si fece eleggere anche sindaco di Bormio, lui così amante della montagna e delle valli lombarde.
Forte aveva una capacità straordinaria di lettura della realtà economica del paese alla quale tuttavia cercava di adattare l’elemento sostanziale della dottrina alla realtà, senza abusarne attraverso cocciuti imperativi che spesso sono il freno e il condizionamento dei teorici del pensiero economico. La libertà era il segno distintivo del proprio pensiero: libertà dal bisogno, libertà dell’intrapresa, libertà dell’individuo senza che essa determinasse degli squilibri o, peggio, degli irrimediabili divari fra ricchi e poveri. Aveva affrontato da economista liberale la complessa vicenda dell’indebitamento dei paesi del terzo mondo e quella fu probabilmente l’esperienza più edificante, sul piano politico e dottrinario, di Forte. In una prima fase egli coordinò dalla Farnesina gli aiuti italiani in direzione dei paesi aggrediti da debiti e fame attraverso il Fai – fondo aiuti italiani – il progenitore della più strutturata cooperazione italiana oggi divenuta una vera e propria branca del ministero, successivamente fu l’amanuense tecnico ed economico del “Rapporto Craxi” alle Nazioni Unite che fu presentato all’assemblea e votato su mandato del segretario generale dell’epoca Perez de Cuellar nel 1991.
I due socialisti democratici e liberali riuscirono nell’impresa, per nulla semplice, di imputare ai paesi ricchi e al fondo monetario le ragioni dello strangolamento economico dei paesi del terzo mondo, insistendo come faceva Forte, nella necessità di mettere sullo stesso piano creditori e debitori valutando la convenienza economica e liberale, nonché politica, di togliere il cappio al collo delle nazioni più indebitate al fine di sprigionare, agli albori della globalizzazione. Sin qui il Francesco Forte “politico”, non fu travolto dall’inchiesta di mani pulite ma soltanto lambito: lo ricordo personalmente terrorizzato a tal punto che per autodifesa aderì alla corrente dei rivoltosi anti-Craxi che si era riunita velleitariamente per restituire “l’onore ai socialisti”: mio padre gli tolse il saluto. Salvo poi, Francesco , esser stato negli ultimi anni uno dei maggiori contributori intellettuali alle attività di memoria e di studio della Fondazione Craxi. C’é un Francesco Forte infine più nascosto: fu egli stesso a rivelare che Pasolini nel suo romanzo “Petrolio” si ispiró a lui. Il poeta drammaturgo dedicò il romanzo, una specie di giallo, alla misteriosa scomparsa di Enrico Mattei; Francesco Forte fu un giovane dirigente dell’Eni che, animato da una robusta spinta etica, denunciava internamente le magagne del grande ente internazionale che si occupava di ricerca e sfruttamento petrolifero; Carlo era il protagonista del romanzo di Pasolini, il giovane teorico dell’economia sociale di mercato che contestava dall’interno la gestione della presidenza Girotti dell’Eni.
E’ probabile che il poeta avesse una talpa all’interno del palazzo dell’Eur, e gli riferisse l’azione del giovane dirigente, indomito avversario delle ruberie e dei legami poco chiari dei vertici di estrazione democristiana con la P2 e addirittura con la mafia e l’OAS francese. Carlo era il nome dello Zio Carlo Gray, magistrato e filosofo del diritto, progressista come Francesco il liberal socialista, vicino alla Cisl, allievo di Vanoni e di Einaudi, che muoveva i suoi passi dentro il grande Ente di Stato che nascondeva i propri segreti, la propria spregiudicata azione nel perimetro della grande lotta per accaparrarsi le materie prime con ogni mezzo, ad ogni costo. Forte non era un uomo che viveva solo immerso nei suoi studi ma si era buttato a capofitto anche nella lotta politica, come un civil servant e scelse l’area che più gli garantisse lo status di uomo libero innanzitutto.
La comunità socialista conserva un ricordo devoto ad un uomo che ha accompagnato un tratto importante della sua storia, con le sue idee e la sua azione. Per chi lo ha conosciuto é stato un privilegio, una saggezza dispensata con generosità, una bontà d’animo mai dissimulata o nascosta. Ribelle come il suo ciuffo, vivace come il suo sguardo che traspariva dagli occhi chiari. Una perdita importante per la teoria del pensiero economico applicata alla prassi dell’azione politica quotidiana. Bobo Craxi
· I Nemici di Craxi.
Luca Bizzarri, i socialisti e il tic qualunquista. Nautilus su Il Riformista il 22 Novembre 2022
Ogni tanto riaffiorano. I tic sono fatti così: scattano improvvisamente, del tutto scollegati dalla realtà circostante, Anche l’attor comico Luca Bizzarri ci è “cascato”: durante uno dei suoi sketch se ne è uscito con una di quelle battute sui socialisti «naturalmente ladri», battute che 40 anni fa potevano provocare facili sorrisi. Oggi, francamente, non fanno ridere più nessuno. Oramai la stragrande maggioranza degli italiani ha capito che il finanziamento illecito e illegale alla politica è stata una cosa vasta, che riguardava tutti i partiti.
E gli storici hanno finalmente spiegato che quel flusso di denaro, dal 1945 e per decenni, aveva foraggiato in modo abnorme i due partiti più grandi, Dc e Pci, in quanto referenti di americani e sovietici nel Paese di frontiera tra i due imperi. E che i socialisti – emarginati perché inaffidabili per entrambi – ad un certo si erano soltanto adeguati al sistema; ma essendo atlantici “non allineati”, proprio i socialisti furono i più colpiti quando cadde il Muro.
Proprio perché i tic alla Bizzarri sono oramai in dissolvenza, bene ha fatto Bobo Craxi a spegnere sul nascere refrain stonati e fuori tempo massimo. Sia chiaro: i comici è giusto che vivano in una libera “terra di nessuno” nella quale vero, verosimile, paradossale e falso finiscono per sovrapporsi di continuo. E tuttavia il comico può far ridere in tanti modi. La prima strada è la più semplice: va incontro al luogo comune e al pregiudizio e li abbraccia. E’ la soluzione dei conformisti. Che talora sono anche qualunquisti. Ognuno può valutare a quale categoria appartenga Bizzarri. Poi ci sono i grandi comici. Quelli che sfidano il senso comune. Quelli che sanno ridere di sé stessi e aiutano il pubblico a sorridere sui propri tic. Giganti come Chaplin o Eduardo, ma anche gli interpreti della commedia all’italiana. Stiamo parlando di autentici artisti. Appunto. Nautilus
Parla il portavoce del segretario socialista. “Quando Craxi scoppiò a piangere per la morte di Berlinguer”, intervista ad Antonio Ghirelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Maggio 2022.
Quando è arrivata la notizia della morte di Berlinguer, Bettino Craxi era a Madrid. Era Presidente del Consiglio. Con lui c’era il suo capoufficio stampa che era Antonio Ghirelli. “Me lo ricordo benissimo – racconta – Craxi ebbe una reazione incredibile: scoppiò a piangere”.
Craxi aveva affetto per Berlinguer?
No, direi di no. Direi che lo detestava. I due si detestavano reciprocamente e in modo completo. Però ci doveva essere qualcosa che li univa. In fondo non si danneggiarono mai troppo l’uno con l’altro. E poi la politica è così, certe volte è inspiegabile. Fatto sta che Craxi pianse.
Si detestavano?
Sì, è una vecchia e incancellabile tradizione nella sinistra. Nenni detestava Pertini. Pertini detestava Craxi. Ingrao detestava Amendola. E ci sono decine e decine di altri casi: è stata la regola.
Antonio Ghirelli oggi ha ottantadue anni. E una splendida biografia. Si è iscritto al Pci clandestino a Napoli, nel ‘42. Conosceva a quell’epoca il giovane Giorgio Napolitano, e lo incitava a iscriversi pure lui. Napolitano si iscrisse l’anno dopo. Ghirelli prima partecipò a varie insurrezioni antitedesche, poi passò le linee e raggiunse gli americani, che erano sbarcati a Salerno, nel settembre del ‘43. Si unì alla quinta armata e fu addetto ai rapporti coi partigiani del nord. Iniziò allora a fare il giornalista, faceva la radio, notizie dal fronte, in diretta. Era una radio per i partigiani. Dice che il mestiere lo imparò tutto lì. Poi dopo la liberazione lavorò in molti giornali di sinistra.
A Bologna, a Milano, lavorò anche all’Unità, con Pajetta, e infine andò a Roma a Paese Sera. Con Cohen e con Mario Meloni, in arte (successivamente) “Fortebraccio”. Dice che furono grandi giornalisti e grandi direttori. Nel ‘56 con altri intellettuali uscì dal partito per via dell’invasione dell’Ungheria da parte dell’armata rossa sovietica. Però non volle andare a lavorare nei “giornali borghesi” e allora si inventò il lavoro di giornalista sportivo. È stato per un paio di decenni tra i migliori e più celebri giornalisti sportivi italiani. Forse il numero 1. Diresse Tuttosport e poi il Corriere dello Sport. Tornò al giornalismo politico negli anni settanta, da socialista. Diresse il Mondo e il Globo poi fu portavoce del presidente Pertini, successivamente di Craxi, più tardi fu direttore del Tg2 e infine dell’Avanti. Dice che nei primi anni ottanta fece di tutto con il suo amico Chiaromonte, dirigente di primissimo piano del Pci, per organizzare un incontro riservato e serio tra Craxi e Berlinguer. Non ci riuscirono . Craxi non ne voleva sapere e Berlinguer neppure. C’era un abisso di carattere tra i due.
Perché Craxi aveva un grado di sopportazione così basso per i comunisti?
Io credo che fosse una cosa antica. Risaliva al ‘48. Craxi era un ragazzino e suo padre, che era stato viceprefetto socialista di Milano dopo la liberazione, e poi prefetto di Como, si presentò alle elezioni per il Fronte, cioè per la lista social comunista. A Milano i socialisti erano più forti dei comunisti. Raccoglievano più voti. Però i comunisti erano molto più organizzati. E così i comunisti riuscirono a lavorare molto meglio sulle preferenze e elessero tutti i loro. Il papà di Craxi restò fuori, e fu molto deluso. Bettino visse male questa delusione di suo padre e da allora decise che gliela avrebbe fatta pagare ai comunisti. Secondo me l’origine dell’ostilità è questa. Poi naturalmente c’erano tutte le ragioni politiche che si conoscono. Però l’ostilità era fortissima e istintiva. Craxi si rifiutava persino di conoscere il partito comunista. Non voleva saperne delle differenze interne, degli amendoliani, dei filo-socialisti. Io provavo a spiegargliele queste cose. Lui non sentiva. Per lui era tutto uguale: il Pci era il Pci e basta. Un comunista italiano per lui era come un comunista russo.
Cosa pensi di Berlinguer?
Era potenzialmente un cattolico più che un comunista. In lui il momento morale, il momento etico era largamente prevalente su quello sociale. Io ebbi una grande simpatia per lui. Anche per la spinta democratica che diede al suo partito. Fu una scelta giusta e autentica, che io apprezzai molto. Era molto interessante il suo lavoro. Invece mi deluse la sua politica dopo il ‘76. Soprattutto la scelta dell’austerità. Mi parve una scelta marxisticamente scandalosa. La società italiana si avviava verso la meta postindustriale, era evidente la fine della società fordista, e io non capisco cosa c’entrasse l’austerità. Non aveva posto l’austerità in quella situazione. Io ricordo il discorso del l’Eliseo, quando Berlinguer spiegò agli intellettuali perché bisognava scegliere l’austerità. Mi colpì penosamente quel discorso. Io credo che lo sviluppo sia il contrario dell’austerità. Lo sviluppo è benessere diffuso, è una moltiplicazione di ricchezze. Io guardo con simpatia al comunismo cinese. È basato sulla ricerca dello sviluppo. Penso che nel socialismo ci sia un elemento di giacobinismo che è fondamentalmente giusto. I grandi processi storico-economici e storico-politici vanno guidati. Quando è cambiato il mondo? Quando è nata la modernità? Con l’illuminismo, non con la rivolta delle plebi. Con l’ideologia della ragione. E quella ideologia ti dice che la ricerca del profitto e del successo personale appartiene alla natura dell’uomo, e che il compito della politica non è di impedire quella ricerca, anzi deve assecondarla, però deve guidarla e regolarla: evitare che diventi un fattore di violenza e di instabilità. Il compito della politica è di regolare quella ricerca di successo dentro un quadro di solidarietà sociale.
È l’austerity l’errore fondamentale di Berlinguer?
Fu un errore anche aver accettato quel governo che Moro gli presentò nel marzo del 1978, poche ore prima di essere rapito. Il governo Andreotti, il primo della solidarietà nazionale. Era un governo di destra. Berlinguer doveva respingerlo: Invece accettò e poi dopo un po’ si accorse che non era possibile restare in quella gabbia, ma ne uscì malissimo, con grande confusione, e nell’80 finì a fare il comizio davanti ai cancelli della Fiat. Credo che l’ultimo Berlinguer avesse proprio sbandato.
Cosa ti disse Craxi di Berlinguer, quando seppe che era morto?
Non disse niente. Parlò solo con le lacrime. Lui era uno di poche parole. Craxi era una brava persona, un bravo compagno. Non sono vere le cose che si dicono su di lui. Mi ricordo una volta che andammo in Argentina per l’insediamento di Alfonsin, il nuovo presidente, il leader dei radicali. Un certo pomeriggio c’era una riunione ufficiale con Craxi in un teatro. Era alle cinque del pomeriggio. Io andai un’ora prima per vedere com’era fatto il posto, vedere se iniziava ad arrivare qualcuno, eccetera. Trovai il teatro stracolmo. E quando entrò Craxi ci fu una standing ovation e una emozione incredibile. Chiesi: ma come mai tanta popolarità per Craxi? Mi spiegarono che Craxi durante la dittatura li aveva aiutati in tutti i modi, sempre, si era occupato moltissimo dell’Argentina. Mi ricordo anche un incontro con Reagan. Incontro ufficiale, Reagan, Craxi e il ministro degli esteri nostro, Andreotti. Craxi chiese a bruciapelo a Reagan: “quanto deve durare ancora Pinochet?”. Ci fu grande imbarazzo. Poi Reagan chiese: “E cosa dovremmo fare, secondo lei?”. Craxi disse che bisognava appoggiare Frei, che con Frei si poteva ottenere l’appoggio della Chiesa e che la Chiesa aveva una influenza su Pinochet. Forse Reagan gli diede retta, perché due anni dopo Frei era presidente del Cile.
Se Craxi e Berlinguer si fossero parlati sarebbe cambiato qualcosa per la sinistra italiana?
Certo, sarebbero cambiate moltissime cose. Fu un dramma la loro incomunicabilità. Gli altri dirigenti dei due partiti non avevano la loro statura. Non potevano fare le cose che avrebbero potuto fare loro.
Chi era Berlinguer?
Non era tanto un politico quanto un moralista. Profondamente democratico. Un democratico nel senso associazionista, non nel senso marxista del termine. Poi era un testardo, un uomo tenace, duro, un uomo dritto, “vertical”, come dicono gli spagnoli. Lo ho ammirato molto ma non ho condiviso quasi nulla delle cose che faceva. Un uomo carismatico, ma carismatico moralmente non politicamente: come padre Pio.
Quindi lui non aveva molto a che fare con Togliatti?
Assolutamente no. Niente. Togliatti era politica pura. Come diceva Croce: “Totus politicus”. Togliatti ha fatto l’amnistia ai fascisti, ha fatto votare al Pci il concordato, ha fatto la svolta di Salerno, con un discorso storico al teatro Modernissimo, accettando il governo Badoglio quando nessuno lo voleva accettare. Ed è sbarcato a Selemo con in valigia i Quaderni dal carcere di Gramsci, e quindi già chiara l’idea di rifondare da capo e di democratizzare il Pci, e di staccarlo daJla Russia e di destalinizzarlo. Togliatti era un politico geniale. Lui quando arrivò qui in Italia sapeva tutto dell’Italia, del fascismo, della politica nazionale. Quando Pajetta occupò la prefettura di Milano, Togliatti gli telefonò e disse: “E adesso cosa fai? Hai un disegno? Se non ce l’hai lascia stare l’occupazione e torna in federazione”. Era un grande stratega, non era un propagandista.
Però Togliatti accettò l’invasione dell’Ungheria, mentre Longo e Berlinguer condannarono l’invasione della Cecoslovacchia…
Sì, ma tu devi tenere conto del fatto che ciascuno di noi ha la cultura dei suoi quarant’anni. Non si può chiedere a me di capire la musica rap, io sono rimasto ai Beatles e scrivo con la macchina da scrivere… Togliatti era uno del suo tempo. Aveva fatto 20 anni in esilio, era sopravvissuto allo stalinismo. Quello era Togliatti. Chi non ha conosciuto gli anni ‘30 non può capire Togliatti. Cosa poteva fare Togliatti allora, nel ’56?
Nenni però ruppe.
Ma Nenni doveva preoccuparsi del partito socialista non della responsabilità. Mi colpisce ancora oggi quella cultura, del Pci. Erano due cose diverse. Come si poteva rompere guidando il Pci?
Di Berlinguer cosa salvi oggi?
Salvo la sua straordinaria buona fede. Salvo il suo carisma, che fu il ca risma di un educatore. Berlinguer fu un modesto politico ma un grande educatore, fu una specie di mazziniano, ha creato un tipo di comunista che non era più stalinista, ma era appassionato, devoto alla causa.
Fu uno sconfitto?
Non si è mai posto il problema di vincere. Aveva una misura del mondo molto diversa da quella di un rivoluzionario. Il rivoluzionario ha il dovere di vincere, il moralista no.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Enrico Berlinguer parlava di etica e intascava rubli dall'Urss, Renato Farina: chi era. Renato Farina su Libero Quotidiano il 26 maggio 2022
Ieri è stato il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. È stato celebrato ovunque sotto l'insegna palpitante della nostalgia. Avvertenza. Siamo qui a rovinare, educatamente però, la festa. Non ci riusciremo, lo sappiamo da prima: siamo una vocina che si disperderà nel coro trionfale. Ma ci prendiamo la soddisfazione di desacralizzare, con un paio di petardi fornitici a suo tempo dal Gatto sardo, il clima da alba rugiadosa che pare essere di precetto per la circostanza. Ecco la coppia di frasi dettatemi da Francesco Cossiga, il quale portava ancora i segni, a un passo dalla morte, delle pugnalate subite dal cugino: 1) «Di Berlinguer non posso dire figlio di buona donna perché la madre era mia zia». 2) «Berlinguer aveva la fissazione moralistica». Ma la applicava altruisticamente solo agli altri. Ma certo. Berlinguer è stato la rovina di questo Paese, inquinando con poche sciagurate mosse sia la politica sia la morale. Istituendo il dogma della superiorità morale del Partito comunista e in generale della sinistra. Eleggendo a suprema categoria politica, dopo il compromesso storico, la "questione morale". E ad avere in mano il vaglio non poteva che essere il Partito comunista, dividendo i giusti dai corrotti, chiamando come una chioccia intorno a sé "gli onesti", con il sostegno dei quali ripulire l'Italia dai dirigenti degli altri partiti, tutti corrotti. Una giravolta tattica.
Dopo l'ascesa che pareva irresistibile dei consensi a metà degli anni 70 (era diventato segretario dopo Luigi Longo nel 1972), l'elettorato gli stava voltando le spalle, il sodalizio con la Dc non rendeva più, ed ecco il rinnegamento. Si era illuso di consumare la Dc, di inghiottirsela grazie alla inerzia della storia che andava a sinistra. Fiasco. Improvvisamente si era accorto di essersi lasciato ingannare da una congrega di mascalzoni. Pose insomma (ed era il biennio 80-81) le premesse teoriche e propagandistiche del giustizialismo forcaiolo (e dunque di Mani Pulite) e dell'anti-politica, quindi è lui, il vero padre (ig)nobile - in tutti i sensi - del grillismo e del contismo.
LA DICHIARAZIONE
Perché nessuno lo ricorda? Carta canta. L'occasione è il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Sull'Unità del 7 dicembre si annuncia la svolta con una intervista ad Alfredo Reichlin. Berlinguer spiega la sostituzione della politica con l'etica: «La questione morale è diventata la questione politica prima ed essenziale... non possiamo più chiedere al Partito comunista di logorare il suo grande, intatto, prestigio politico-morale in un'azione di appoggio subalterno a questa Dc... fra le masse dei credenti è diffusa la riprovazione verso la corruzione nella Dc». Ma non siamo ancora alla dichiarazione ufficiale della superiorità morale.
Accade con l'intervista di Eugenio Scalfari del 31 luglio 1981, poi riedita, negli anni seguenti, con qualche aggiunta, come vero e proprio manifesto del partito dell'onestà nel 2012, pro Cinque Stelle. Citiamo le frasi di E.B. equivalenti a sassate contro il prossimo e a ghirlande di fiori intorno alla propria testa: «Noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri. I partiti hanno degenerato, quale più quale meno, recando danni gravissimi allo Stato. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. A noi hanno fatto ponti d'oro, la Dc e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa posizione d'intransigenza e di coerenza morale e politica. Ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l'occasione fa l'uomo ladro, le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati». (La questione morale. La storica intervista di Eugenio Scalfari. Roma, Aliberti, 2012) 181.
La giustificazione ideologica di Mani pulite nasce da queste parole, da quella creduta e falsa dichiarazione di purezza, viene l'epurazione del Pentapartito, e la salvezza degli allora Pds. Il pool sarà incoronato come implementazione dell'idea berlingueriana di "questione morale" tradotta in manette. A sostenerlo furono, a riprova dell'ideologia forcaiola inaugurata da E.B., i "ragazzi di Berlinguer", così definiti nel libro di Umberto Folena. E - altrettanto non a caso - l'idea squamosa dell'alleanza tra Pd e M5S cos' è se non suggello berlingueriano postumo all'alleanza degli onesti. Alessandro Natta, allora vice di E.B., in privato aveva commentato così le parole del segretario: «Le cose sono dette in modo irritante: gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo! C'è una verità sostanziale, ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri».
Da puri? Da sepolcri imbiancati. Il Pci era il partito più sporco di tutti. Qui non si parla di arricchimenti individuali, ma di falsificazione del gioco democratico, grazie a finanziamenti colossali ottenuti da Mosca o tramite mediazioni import-export. La quantità è di circa 500 milioni di dollari, secondo le carte analizzate negli archivi da Valerio Riva e Francesco Bigazzi. Il tutto comprendeva un'«assistenza fraterna» reciproca: cioè l'aiuto alla penetrazione di spie fino alla formazione di una vera e propria quinta colonna sovietica protetta da Botteghe Oscure.
La politica degli onesti con Berlinguer era questa miseria di doppia morale. Mentre proclamava il primato dell'etica, chiedeva i soldi a Mosca per finanziare la sua propaganda sulla moralità. La tangente sul lavoro dei detenuti nel gulag sovietico. Complimenti. Invece di enunciare queste verità, si celebra il mito dell'eroe. Si somministra l'incantamento di massa, grazie a frammenti televisivi che sono icone di un paradiso perduto, trasfigurazione mediatica del taumaturgo, colui che se non fosse morto avrebbe risanato l'appestata Italia.
COME UN EROE?
In tutti questi anni, ed anche ieri, è stata riproposta la tragica sequenza del decesso del segretario del Pci. La potenza delle immagini traballanti e la magia dei commenti commossi è tale che è come se Berlinguer, deceduto 38 anni fa, morisse sempre di nuovo per noi italiani, centomila volte, su quel palco di Padova dove stava tenendo un comizio, e stava male, barcollava, il cervello gli si apriva in due, ma non voleva arrendersi, finché cadde come corpo morto cade. Uno ha il dovere di inchinarsi davanti a questa resistenza da guerriero antico. È la moralità della politica. Morire per l'idea. Ma uccidere la reputazione altrui resta un delitto anche se muori da eroe. Le due pugnalate a Cossiga inferte dal cugino? L'aver fatto pesare sudi lui, su Andreotti e su Paolo VI l'assassinio di Moro, che invece fu liquidato dalla sentenza - si legga Leonardo Sciascia - che il segretario del Pci pronunciò alla Camera un'ora dopo il rapimento quando incise una lapide per il morituro: «Il grande statista», seppellendolo. Moro che lo capì, non gli scrisse dalla sua prigionia neppure un rigo, accusò l'amico Francesco di essersi lasciato ipnotizzare dal cugino Enrico di cui aveva soggezione sin dall'infanzia. La seconda coltellata è stata quando Berlinguer usò con cinismo la pietas di Cossiga per costringerlo alle dimissioni: Francesco aveva detto una parola innocua e umanissima a Donat-Cattin sul figlio di quest' ultimo, Marco, ricercato per terrorismo. Ah, la moralità.
"Sei un tangentaro". "E tu un cafone". Tremenda rissa social tra Calenda e Martelli. Il Tempo il 09 febbraio 2022.
"Prepotente". "Tangentaro". E ancora, accuse di richieste di soldi, di atteggiamento da superiori e tanto, tanto altro. Volano decisamente gli stracci sui social tra il sempre fumantino Carlo Calenda e l'ex ministro socialista Claudio Martelli. Che apre le ostilità con un lungo post sul suo profilo Facebook.
"Per cominciare, che Calenda è un bugiardo, un bugiardo sciocco perché mente senza motivo". Claudio Martelli accende le polveri di un botta e risposta esplosivo con Carlo Calenda. Tutto inizia da una partecipazione a l'Aria che tira, su La7, in cui l'ex ministro socialista aveva definito il leader di Azione "Ercolino faccio tutto io". Affermazione cui Calenda aveva già replicato.
Ma oggi Martelli ritorna sulla questione e sulla sua pagina Facebook, tra le altre cose, scrive di Calenda: "Un anno fa l’ho incontrato due o tre volte, mi ha chiesto di aderire al suo movimento presentandosi come un liberal socialista garantista interessato al progetto dell’Avanti! Gli dissi ci penserò e dopo averci pensato non l’ho più visto né sentito. Mi ha scritto lo stesso chiedendomi 150 euro per partecipare alla sua cena elettorale, glieli ho spediti pur di evitare di cenare con lui e altre insistenze".
Poi, l'esponente socialista riprende Calenda per i suoi giudizi su Craxi e sui socialisti: "Craxi era un Ercole che però conosceva le buone maniere e che guidò il governo dei migliori risultati", mentre "Calenda non sa nemmeno immaginare quali fossero i rapporti umani nei partiti democratici. E’ cresciuto come un cortigiano scodinzolante prima davanti a Montezemolo poi a Renzi. Ora crede di elevarsi insultando tutti, ma resta il cortigiano cafone che è sempre stato. Chi lo conosce lo evita ma se proprio vuole il resto del carlino io ci sono".
A stretto giro arriva la replica del leader di Azione, sempre su Facebook: "Oggi Claudio Martelli mi dedica un lungo post di insulti. Sarebbe una cosa irrilevante, il mondo è pieno di cafoni. E tuttavia in questo caso è utile a ricordarci i lati più deteriori della prima Repubblica, che siamo passati dall’odiare al venerare".
Calenda riconosce i "tantissimi meriti" avuti dal Psi, ma "il grado di arroganza nell’occupazione del potere, lo sfarzo dello stile di vita a spese del Partito e dello Stato e le tangenti (che Martelli ha confessato di aver ricevuto) hanno distrutto quanto di buono (molto) c’era nelle idee del PSI". E poi conclude: "Per quanto mi riguarda la storia della leadership del PSI è un monito sugli effetti della hybris e della mancanza di etica. Quell’atteggiamento rimane ancora oggi. Ed è un vero peccato. Un saluto a Claudio sperando che capisca che l’epoca in cui i socialisti potevano insultare le persone pretendendo il silenzio dei sudditi è finita da molto tempo". C'è da giurarci: non finisce qui.
“Perché Draghi non è come Bettino Craxi”. STEFANIA CRAXI RICORDA PAPÀ BETTINO NEL VENTIDUESIMO ANNIVERSARIO DELLA MORTE DEL LEADER SOCIALISTA. Redazione Nicolaporro.it il 19 Gennaio 2022. Di Salvatore Di Bartolo
Il 19 gennaio del 2000, poco più di un mese prima di compiere sessantasei anni, Bettino Craxi si spegneva nella sua casa di Hammamet stroncato da un arresto cardiaco. Con la sua scomparsa il Paese perdeva una figura di prim’ordine dell’Italia repubblicana, un leader politico lungimirante e carismatico, un personaggio capace di dividere, anche a distanza di più di due decenni dalla sua scomparsa, ma anche di unire e riuscire nell’ardua impresa di affrancare il suo Psi da un’eterna subalternità al Pci e condurlo a livelli di autonomia e di consenso neppure immaginabili prima e mai più raggiunti dopo di lui.
Perché nella storia del Psi, e più in generale della sinistra italiana, esiste un prima ed un dopo Craxi. Perché Bettino fu il solo in grado di avviare un processo di modernizzazione di una sinistra fino a quel momento troppo legata all’ideologia sovietica conducendola nei gangli del liberalismo. Perché l’idea craxiana di una sinistra moderna, liberale e riformista fu definitivamente accantonata dopo l’uscita di scena di Craxi ed il conseguente crollo della Prima Repubblica.
In occasione del ventiduesimo anniversario della sua scomparsa, abbiamo voluto ricordarlo con un’intervista alla primogenita Stefania, senatore di Forza Italia e Fondatore della Fondazione Craxi, ente sorto all’indomani della scomparsa del segretario del Psi con lo scopo di tutelarne la personalità e di preservare i valori del socialismo riformista.
Esattamente un anno fa Giuseppe Conte rassegnava le dimissioni da presidente del Consiglio per fare spazio a Mario Draghi. In questi mesi l’ex numero uno della Bce è stato più volte paragonato a Bettino Craxi per il suo decisionismo. Il Draghi politico le ricorda un po’ suo padre?
Capisco che gli accostamenti tra personalità destino una certa curiosità ma è un esercizio spesso fuorviante. Lo è ancor più in questo caso, non solo perché parliamo di periodi e contingenze profondamente diverse ma di due uomini la cui biografia, eccezion fatta per il ruolo di presidente del Consiglio che li accomuna, non ha punti di contatto. Sono storie totalmente diverse, da cima a fondo. Craxi era un uomo tutto politico, il presidente Draghi ha tutt’altro cursus honorum…
A proposito di Mario Draghi, la nascita del suo governo è coincisa nel nostro Paese con un’inversione di rotta sul tema giustizia. Tra riforma Cartabia e referendum si va verso una nuova stagione garantista?
La riforma Cartabia nasce come necessità per accedere alle risorse del Recovery ed è il massimo che si potesse ottenere con questa maggioranza policroma che, specie sul tema della giustizia, non ha punti di contatto. La riforma ha il merito indubbio di introdurre dei correttivi alle storture del sistema aggravate anche dai precedenti interventi legislativi ma non affronta – perché non poteva onestamente farlo – alcuni punti essenziali della questione giustizia. Il referendum sarà per questo fondamentale e restituirà una spinta per interventi più radicali. Pensiamo al tema della separazione delle carriere o alla stessa composizione del Csm. Al di là di tutto, spero che non si potrà ancora una volta ignorare il sentimento popolare…
Tra pochi giorni si aprirà la corsa per la successione di Sergio Mattarella. Proprio Draghi sembra essere il grande favorito per diventare il nuovo inquilino del Quirinale. E con la sua possibile elezione torna d’attualità il tema del presidenzialismo. Craxi ne parlava già quarant’anni fa…
Ciò dimostra tanto la sua lungimiranza quanto il ritardo del Paese. Da anni siamo preda di una crisi politico-istituzionale continua che richiederebbe una profonda revisione degli assetti istituzionali. L’Italia si è avviata da tempo verso un modello presidenziale, come dimostra l’esperienza degli ultimi decenni con l’interpretazione sempre più estensiva delle competenze del Capo dello Stato… Diciamo che da Cossiga in poi è stato tutto un crescendo rossiniano senza che nessuno però prenda veramente atto della necessità di aggiornare il dettato costituzionale. Costituzione materiale e costituzione formale contrastano fortemente e si aprono così ampi spazi di arbitrio che danno luogo a derive democratiche…
Tra i papabili per la corsa al Colle ci sarebbero, tra gli altri, anche Silvio Berlusconi e Giuliano Amato, due profili strettamente legati a Bettino Craxi. Chi dei due avrebbe più chance di spuntarla?
Siamo in presenza anche qui di storie e figure diverse, percepite in modo opposto dal Paese e dagli stessi “grandi elettori”… non mi avventuro in quotazioni che lasciano il tempo che trovano. Diciamo che Berlusconi ha una base elettorale visibile e solida che gli consentirebbe almeno sulla carta di ambire alla carica.
Restiamo sul tema Quirinale. Nel 1992 il ministro dell’Interno del Governo Craxi, Oscar Luigi Scalfaro, fu eletto Presidente della Repubblica. Ad ormai trent’anni di distanza crede che la scelta di Scalfaro rappresenti il grande errore politico di Craxi?
Purtroppo per lui e per noi, è stato un errore. Non credo il suo “grande errore” però! Diceva: “È stato il mio ministro degli Interni”. La sua elezione avvenuta in maniera rocambolesca, anche se dietro si celano grandi manovre, su tutte quelle di Marco Pannella e di alcuni mondi ad esso riconducibili, ha inciso profondamente sugli eventi che seguirono. Di certo è stato un presidente di parte e non certo un partigiano…
D’altra parte Bettino Craxi giocò un ruolo fondamentale per l’elezione a Capo dello Stato di un partigiano come Sandro Pertini, il Presidente più amato dagli italiani. Che rapporto ebbe Craxi con Pertini?
Nonostante una certa vulgata, Craxi giocò bene la partita che portò alla sua elezione. Infatti, non era affatto vero che non volesse Pertini al Quirinale. Tra l’altro, Bettino ha sempre detto che la presenza di Pertini al Quirinale era stata fondamentale per schiudergli le porte di Palazzo Chigi. Tra i due, due caratteri importanti, non semplici, c’era grande stima e rispetto, prima umano e poi politico ed istituzionale… Al tempo c’era considerazione per i “grandi vecchi”, anche nei partiti…
Un’ultima domanda. Come sarà per Stefania Craxi questo 19 gennaio lontano da Hammamet?
Sembra una maledizione. Dopo il ventennale nel gennaio 2020 da due anni l’emergenza sanitaria impedisce a centinaia di italiani, amici e compagni vecchi e nuovi, di rendere omaggio alla tomba dello statista socialista nell’anniversario della sua scomparsa. Sarà una ricorrenza diversa ma non sottotono. Non mancheranno i momenti in suo ricordo, alcuni dal vivo altri da remoto grazie alle nuove tecnologie … e poi nel vecchio cimitero di Hammamet si terrà lo stesso la cerimonia in suo ricordo a cui parteciperà la popolazione locale ed i tanti italiani che li risiedono. Craxi resta una personalità della storia che nessuno potrà mai cancellare.
I veleni postumi di Craxi sul candidato Amato. "Le menzogne dell'opportunista Amatissimo". Fabrizio Boschi il 17 Gennaio 2022 su Il Giornale.
Le carte segrete dell'ex premier: critiche anche a Scalfaro e Napolitano.
Parlando di Mino Martinazzoli, lo definì «un becchino». Antonio Di Pietro veniva deriso per il modo di parlare: «Fa talmente a botte con i congiuntivi che non può neanche essere chiamato al processo di Biscardi». E di Giulio Andreotti diceva: «È una volpe. Ma prima o poi tutte le volpi finiscono in pellicceria».
È il Bettino Craxi che abbiamo imparato a conoscere, tagliente come la lama di un rasoio, acuto osservatore degli altri, avendo incrociato la sua vita politica e personale con i principali personaggi del suo tempo.
Proprio in questi giorni precedenti all'elezione del nuovo presidente della Repubblica spuntano appunti inediti dell'ex leader socialista datati 1999, conservati presso la Fondazione Craxi, in cui parla di sé in terza persona, visionati da AdnKronos, nei quali analizza vizi e virtù proprio di chi poi finì al Colle, come il socialista Sandro Pertini (al Quirinale dal 1978 al 1985), il democristiano Oscar Luigi Scalfaro ('92-'99) il comunista Giorgio Napolitano (2006-2015). E di chi negli ultimi 20 anni quasi ogni volta è stato in pole per finirci (anche questa volta), ma senza successo, ovvero il suo ex delfino Giuliano Amato, che oggi ha 83 anni.
Napolitano «non poteva non sapere» dei soldi arrivati al partito comunista dai regimi di oltre-cortina. Scalfaro che cerca in tutti i modi di nascondere un assegno elargito «da industriali per la sua campagna elettorale», che vanta pure appoggi nei servizi «che gli mettono a disposizione pure un aereo della Cai». Poi Pertini («socialista della migliore specie»), che disse subito, appena eletto capo dello Stato, che sarebbe divenuto «il presidente di tutti».
E poi Amato, che lui chiama, «Amatissimo». Craxi è un uomo malato, depresso, lontano dall'Italia che può solo vedere dall'altra parte del Mediterraneo, dalle sponde tunisine. «Amato è un genio elettronico di opportunismo. A differenza di altri della sua generazione che sono sempre rimasti più o meno al loro posto senza girovagare per i labirinti politici Amato se ne andò un bel giorno dal Psi per finire nel Psiup. Scomparso il Psiup Amato tornò con altri nel Psi», dice Craxi, descrivendo il dottor Sottile come un voltagabbana per interesse.
Sulla vicenda che travolge il Paese, e il Psi, all'inizio degli anni '90 scrive che dicendo che non ne sapeva nulla «mente spudoratamente. Viveva sulle nuvole anzi sulla luna».
Poi l'amarezza personale «perché - scrive Craxi - questi anni, e ne sono passati ben cinque da quando Craxi vive come un esiliato, il signor Amato non si è mai fatto vivo una sola volta anche quando risalivano verso l'Italia le voci inequivocabili riguardanti le precarie condizioni di salute del leader socialista. Si faceva vivo semmai ogni qualvolta girava per l'aria la sua candidatura ad alte cariche dello Stato e sempre per interposti e semi ufficiali messaggeri per vedere di che umore Craxi era verso di lui». E anche un anno prima di morire il leader del garofano rosso tacciava Amato circa la «sua ennesima prova di opportunismo e di vigliaccheria». Una voce dall'oltretomba dispensa consigli anche alla politica di oggi. Fabrizio Boschi
Cimino: "I comunisti hanno distrutto Craxi". Federico Bini il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale. A 90 anni quasi compiuti, il fedelissimo di Craxi in Sicilia punta il dito contro gli storici avversari del PCI.
Francesco Cimino, storico senatore socialista è stato uno dei punti di riferimento di Craxi in Sicilia. Sottosegretario all'agricoltura, ministro della Comunità Europea e una grande capacità (personale) di relazione che riusciva a mettere insieme uomini di valore come Macaluso e P. Mattarella. La caduta del fascismo, la vicinanza a Lombardi e poi soprattutto con Craxi, i governi con Andreotti e De Mita, l'incontro con Falcone e la passione per la pittura. Dall'alto della sua abitazione, guardando il mare d'inverno si rammarica per il declino della sua amata terra.
Come fu vissuta in Sicilia la caduta del fascismo?
“Ci sono state reazioni politiche significative come in tutte le città d’Italia, ma io sono critico nei confronti della mia terra, perché non c’è stato un risveglio avvertito e sentito”.
A Patti come si viveva sotto il regime?
“In paese c’è stato un fascista di grande valore, ma non lo dico solo io che tra l’altro ci ho pure polemizzato. Raffaele Saggio, era un avvocato e quando sono andato in Senato tutti mi chiedevano di questo pattese fascista che poi diventò di sinistra con la caduta del regime. Era un grande uomo di cultura e richiamava a Patti tutti i più noti intellettuali”.
Mussolini mandò in Sicilia il prefetto Mori per sconfiggere il fenomeno mafioso.
“C’è stato un segnale apprezzabile ma la mafia purtroppo è ancora lì”.
Come nasce la sua passione per la politica?
“Io ero trozkista. Il trozkismo era arrivato a me attraverso mio zio che era una figura significativa dell’antifascismo. Successivamente abbandono ogni estremismo e mi avvicino a Lombardi anche se per la verità rifiutavo ogni forma di corrente. Lombardi non era un grande comunicatore, ma era rigoroso, una bella figura”.
Di Togliatti cosa pensa?
“Un mascalzone che rispondeva a Stalin”.
Dopo il fascismo chi sono i nuovi padroni della Sicilia?
“La DC e la Chiesa che comunque esprimevano uomini di grande valore. Io ero molto amico di Sergio Mattarella, perché ero amico di suo fratello. Come Piersanti ce n’erano pochi! Bella intelligenza. Era una terna fortissima: Piersanti Mattarella, Rosario Nicoletti e Calogero Mannino. Questi giovani lottarono contro la mafia e la classe dirigente democristiana”.
E i capi del PSI regionale?
“Il capo dei socialisti siciliani era l’agrigentino Lauricella. Ed era lui il referente di tutti noi socialisti. C’era anche l’ex ministro Nicola Capria, una figura di notevole livello”.
Quando nasce il suo rapporto con Craxi?
“Ai tempi dell’università. Io ero capo degli universitari di Messina mentre Bettino di quelli di Milano. Ci furono diversi incontri e da quei momenti di confronto nacque un bel rapporto che è durato tutto la vita. Ricordo che conobbi anche Marco Pannella, altro caro amico mio, un uomo libero come pochi”.
A quale persona è stato particolarmente legato nella sua attività politica, ad eccezione di Craxi?
“Io ho avuto un caro amico che fu anche presidente della Rai. Beniamino Finocchiaro, una persona splendida, rigorosa. Il rapporto si consolidò quando entrambi frequentavamo il Senato della Repubblica”.
Nel ‘76 era presente al congresso del Midas?
“Certamente, fu una svolta straordinaria perché Craxi prese posizione contro i comunisti. E i comunisti non glielo hanno mai perdonato, soprattutto D’Alema. Bettino attaccava con violenza i comunisti e loro non hanno mai accettato questo”.
Dal 1987 al 1991 è stato sottosegretario con delega all’agricoltura.
“Io sono felice dell’esperienza vissuta, anche perché nasco come agronomo. A capo del ministero c’era il mio amico Calogero Mannino con cui abbiamo collaborato benissimo. Il limite che avverto oggi a differenza di allora è che non ci interessava il ministero, ma la politica. Per sei mesi ho fatto anche il ministro dell’agricoltura alla Comunità Europea”.
I rapporti con i presidenti del Consiglio?
“Con Andreotti avevamo un rapporto molto bello. Persona che stimo molto. C’è una battuta di Andreotti simpatica. Dissi: “Presidente hai una cravatta bellissima”. E lui: “Cimino, neanche questo è merito mio. Mia moglie me le compra”. Lui a parole era sempre un perdente! De Mita invece non l’ho mai amato molto pur essendo un meridionale intelligente, ambiziosissimo…”.
Il suo rapporto con lo storico senatore comunista (siciliano) Macaluso?
“Un caro amico e come scriveva bene… è uno dei pochi che è stato a casa mia. Perché la casa l’ho sempre difesa. Tutt’ora mi capita di pensare a lui, era una bella persona. E non sempre è stato aiutato, ne ha avuti problemi anche nel PCI”.
Alle elezioni del ’92 tra Andreotti e Forlani prevalse Scalfaro.
“Io non ero d’accordo perché c’erano altre figure su cui puntare. A certi livelli uno deve prendere atto se c’è una maggioranza che pensa diversamente da te, tu hai il dovere di rispettare la scelta della maggioranza. La democrazia è realtà, non può essere solo a parole. Il PSI alla fine appoggiò Scalfaro perché non aveva alternative, non poteva decidere diversamente. Cosa faceva? Votava contro gli alleati? Dopodiché si faceva quello che volevano i comunisti?”.
Ma Craxi puntava al Quirinale?
“No, non era sua intenzione”.
In piena corsa per l’elezione del presidente della Repubblica arrivò la notizia dell’attentato mafioso al giudice Falcone.
“Una vicenda tristissima anche perché ho conosciuto Falcone quando fu chiamato da Martelli (ministro di Grazia e Giustizia) a Roma con cui ebbi modo di collaborare. Lo apprezzavo molto ed era una bella persona”.
Qual era il legame che aveva creato con Craxi?
“Avevamo costruito un rapporto antico e stupendo. Io sono stato da lui anche a Tunisi. Ma uno dei ricordi più belli fu quando l’ho portato al paese di suo padre. Bettino aveva fatto un comizio e io ero accanto al padre – orgoglioso – che piangeva nel vedere il figlio parlare nel suo territorio”.
Per finire in quel modo qualcosa avrà pure sbagliato.
“Non ha sbagliato assolutamente niente. I comunisti lo hanno distrutto”.
E il famoso tesoro di Craxi?
“Ma quale tesoro… io non ci andavo a mangiare perché poi “iddu” non aveva mai i soldi e ci diceva di pagare per lui. Craxi non aveva una lira in tasca”.
È complicato fare politica in Sicilia?
“No. Il punto è Palermo, lì c’è il vero centro di potere. Io non ci sono mai voluto andare anche dietro sollecitazioni importanti. Mi sono sempre tirato fuori, lontano perché avevo tre figli. Se non avessi avuto figli probabilmente potevo anche permettermelo. Una volta che ci sono i figli per me prevalgono. Io a Roma vado: “O Roma o niente”.
La sua amicizia con il pittore Luigi Ghersi?
“Io amo molto la pittura e di Ghersi alcuni quadri li ho comprati mentre uno me lo ha regalato. Un giorno mi ha citofonato: “Puoi scendere a darmi una mano?”. Quando scesi e lo vidi mi disse: “Siccome tu guardavi sempre questo quadro…”. Era partito da Roma con il quadro sulla macchina per portarmelo. Io l’ho sempre stimato e abbiamo avuto un rapporto meraviglioso. Un quadro a cui sono affezionato è anche un garofano rosso regalato da Guttuso”.
È ancora una terra di gattopardi la Sicilia?
“Purtroppo sì. I gattopardi ci sono e ci saranno ancora. Peccato però, questa è una terra così bella”
Ma c’è speranza per il futuro?
“Io non ci credo. Bisogna eliminare la mafia. È più cauta. Terribile. Io non ho mai perdonato la vicenda del fratello del presidente della Repubblica. Non si può uccidere un uomo così!”.
Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando avevo quindici anni un’intesa attività pubblicistica e di studio in ambito politico, giornalistico e storico. Collaboro con diverse riviste d’informazione e approfondimento culturale. Tra le mie pubblicazioni si ricorda: Montanelli e il suo Giornale (Albatros editore), Roberto Gervaso. L’ultimo dandy (L’Universale) assieme a Giancarlo Mazzuca, Un passo dietro Craxi (Edizioni We) e Una democrazia difficile. Partiti, leader e governi dell’Italia repubblicana (Albatros editore). Sono stato condirettore del settimanale Il Caffè.